Liliana Rampello
Sei romanzi perfetti Su Jane Austen
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Sei romanzi perfetti A mia madre, che adorava ballare, e a mio fratello Enzo, dal riso contagioso
Sommario
La ragazza che sapeva ridere
9
Una nuova protagonista del romanzo di formazione Ragione e sentimento e Persuasione
25
La conversazione è azione Orgoglio e pregiudizio e Mansfield Park
81
Una manciata di miglia Emma, città, campagna (e L’abbazia di Northanger)
141
In conclusione
169
Note
179
Bibliografia
191
Ringraziamenti
201
La ragazza che sapeva ridere
Per nessun motivo potrei mettermi seriamente a scrivere un romanzo serio, se non per salvarmi la vita; e, se fosse indispensabile rimanere imperturbabile e non lasciarmi mai andare a ridere di me stessa o degli altri, sono certa che verrei impiccata prima di finire il primo capitolo. Jane Austen
Ho un ricordo in testa da molti anni, una vacanza assurda alle isole Canarie, che trovavo brutte, per via di un umore pessimo, con mia figlia Alice e una sua amica, Agnese. Due adolescenti come altre, benché lettrici appassionate e dunque, per questo, forse un po’ diverse. Una sera, uscendo dal bagno dopo la doccia, le ho trovate già a letto, entrambe con un libro in mano e l’aria concentrata e molto divertita. Una stava leggendo Jane Eyre e l’altra Orgoglio e pregiudizio. Era successo anche a me di leggere quei libri più o meno alla loro età, e ricordo la mia invidia nel ripensare a quanta gioia avevo provato ai tempi, quanto lontano mi avessero portato dalla mia stanza, il brivido sottile di un mondo altro, popolato da donne, ancora sconosciuto, soltanto annusato ma sentito come vivo e vero. Una semplice esperienza di lettura che «è verità universalmente riconosciuta», tanto da accadere anche in Iran, di recente, e sotto un regime violento, come racconta Azar Nafisi nel suo bellissimo Leggere Lolita a Teheran: «Anche se riuscivamo a divertirci con tutti gli scrittori, Jane Austen era veramente il massimo. A volte ci lasciavamo proprio andare, ridevamo come bambine, facevamo commenti maliziosi, insomma ce la spassavamo. Del resto, come si fa a leggere i
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primi paragrafi di Orgoglio e pregiudizio senza rendersi conto che era proprio quello che la Austen chiedeva ai lettori?».1 Forse è quel mio banale ricordo che vorrei afferrare scrivendo, riuscire a rivivere l’esperienza di libertà, la passione allegra e intelligente che si sprigiona dalle pagine di Jane Austen, «la più perfetta artista fra le donne».2 La perfezione può essere intesa in vari modi, né intendo arrischiare definizioni, se mai infilarne una sequenza, per guardare di nuovo, anche solo a volo d’uccello, attraverso sei romanzi, l’invenzione della sua narrazione del mondo, scoppiettante riga dopo riga fino all’esplosione finale, che non è il matrimonio, ma la ricerca della felicità.3 Non ho parlato volutamente di qualcosa di diverso e sottilmente tendenzioso, che spesso corre sotterraneo nella critica più sofisticata, ovvero di narrazione del suo (piccolo) mondo, perché credo, con Erich Auerbach e non solo, che l’universale concreto, quale si offre in un’opera d’arte, contenga sempre una concezione paradigmatica del destino umano. A cavallo fra due secoli, sotto l’urto di forti cambiamenti economici, politici, sociali, la Guerra, la Marina, l’Impero, le Colonie, la Schiavitù, la Francia di Napoleone e Waterloo, l’imminente salita al trono della regina Vittoria, lei, Jane Austen, imperturbabile, scrive l’essenziale, scorticando la realtà per mostrarla al di sotto di tutti i suoi irreali camuffamenti. Punta diretta a un mondo romanzesco «radicalmente linguistico», in cui tutta la realtà «è “codificata” in un idioma preciso e caratterizzato»; i suoi romanzi, ci dice George Steiner cogliendo bene il punto, sono «quasi estranei alla storia, e tuttavia l’incidenza in essi del tempo e del luogo si afferma splendidamente».4 Un’impresa non da poco, realizzata con grande calma e soprattutto sorridendo: che maestria! Unita a un’altra consapevolezza, che l’accompagna senza tentennamenti, per la quale lei sembra già sapere quanto dirà, a distanza di due secoli, Milan Kundera, ovvero che «applicata all’arte, la nozione di storia non ha nulla a che vedere con il progresso […]. L’ambizione del romanziere non è di far
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meglio dei suoi predecessori, ma di vedere ciò che non hanno visto, dire ciò che non hanno detto».5 E certamente, nella letteratura inglese e non solo, Austen mostra straordinarie capacità d’invenzione, che non poggiano su alcuna tradizione femminile già consolidata, e sarà proprio lei, dunque, la prima scrittrice maestra di molte e molti. Legge con accurata curiosità le sue contemporanee, fra le altre Maria Edgeworth, Ann Radcliffe, Charlotte Lennox e in particolare Fanny Burney con tutte le sue eroine, Evelina, Cecilia, Camilla, romanzi gotici e decine di conduct books del periodo, 6 ma vale la pena di ricordare soprattutto quanto a fondo conosca Shakespeare, e come da lui abbia imparato a manovrare in modo magistrale i dialoghi, il tempo delle battute, il ritmo della lingua. La faccio entrare in scena appena ragazzina, con le parole di Grazia Livi, che la immagina «nel presbiterio di Steventon, nel cuore dell’Hampshire, nel 1792, un pomeriggio di festa»,7 mentre recita qualcosa da lei stessa scritto per il divertimento della famiglia e dei domestici: risate e applausi a non finire. Ha solo dodici anni quando scrive Frederic & Elfrida e Jack & Alice, quindici, pare, per Love & Friendship, veri e propri esercizi di satira, che secondo Ginevra Bompiani stanno «un passo prima dell’ironia: nel riso, nella caricatura, nella gioiosa, ribalda libertà del ridicolo».8 Ed eccola finalmente, «slanciata, le guance rosee, la bocca sottile e allegra, gli occhi vividi, porta i suoi diciassette anni con la stessa levità di uno stivaletto o di un nastro di seta girato attorno al collo. S’inchina più volte. E intanto tira la gonna più su del dovuto, maliziosamente, tenendo i mignoli alzati».9 Diventata adulta, davanti al suo ritratto c’è Mario Praz, che ci fa vedere «una signorina positiva, in cuffietta pieghettata e scollo pieghettato; la fronte è ombreggiata dai riccioli, gli occhi son grandi e paion benigni, ma le labbra son sottili e crudeli, sì da distruggere l’impressione di benignità suggerita da quelli. Il significato di questa
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figura è incerto; non è un volto misterioso, e al tempo stesso pare impenetrabile».10 Il corsivo è mio, perché vorrei tenere a mente le parole del grande critico, l’individuazione di due aggettivi utili non solo, forse, per leggere il volto di Jane Austen, ma soprattutto il volto di un’autrice che lavora a una regia massimamente impersonale. Non era sola, la signorina. Aveva una sorella più grande, Cassandra, che è la presenza più significativa della sua biografia, poverissima di fatti e di avventure, e una grande e affettuosa famiglia, genitori illuminati e cinque fratelli maschi, tutti intelligenti, colti, sensibilmente aperti e solidali. Questa struttura elementare della parentela subirà nel suo immaginario una serie incantevole di variazioni e un’altrettanto rimarchevole serie di ripetizioni, ma quel rapporto con Cassandra, così intenso da essere felicemente bastevole, riaffiora esplicito tra le sorelle dei suoi romanzi – Elinor e Marianne di Ragione e sentimento, Elizabeth e Jane di Orgoglio e pregiudizio – e risuona con timbro variato ovunque. Jane Austen, infatti, non ha mai inventato eroine del tutto solitarie, ma ragazze che, magari orfane o, peggio, con madri sciocche e incompetenti, hanno comunque sempre un’altra donna al fianco e con lei, presto o tardi, nel bene o nel male, secondo affinità o diversità, affrontano la vita. Questo mi sembra l’insegnamento più duraturo e vivo del rapporto tra quelle due sorelle, tanto che riesco a perdonare a Cassandra persino il fuoco del camino con cui ha mandato in fumo biglietti, fogli e lettere; quelle carte avrebbero potuto rivelare il volto più intimo, rimasto segreto, di Jane, mentre quanto è stato risparmiato riguarda solo alcuni aspetti della vita quotidiana e familiare, qualche ballo o qualche gita, e ogni altra simile innocua faccenda.11 Il ritratto scritto dal nipote, il vicario James E. Austen-Leigh, nel 1870, circa cinquant’anni dopo la morte di lei (1817), ci racconta di una zia Jane dotata di «una mente equilibrata, una base di gran buon senso, la dolcezza di un cuore capace di affetto, principi ben fissi che davano regola a tutto», e il suo librino censura come improbabile
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l’osservazione di una certa Miss Mitford che, avendola conosciuta di persona quando Jane era ancora ragazzina, l’aveva definita in una lettera «la più graziosa, sciocca, affettata farfalla-caccia-marito che lei ricordi».12 A questo accostiamo ora un altro giudizio, messo in bocca a un’anonima amica della signorina Mitford, che a proposito di lei afferma: «finché Orgoglio e pregiudizio [1813] non dimostrò la preziosa gemma che si nascondeva in quel rigido astuccio, il suo posto in società non era più riguardevole di quello di un attizzatoio o di un parafuoco… Ma ora la cosa è molto diversa, essa è sempre un attizzatoio, ma un attizzatoio di cui tutti hanno paura… Un bello spirito, una disegnatrice di caratteri, che però non parla, è veramente qualcosa che fa paura!». Il profilo appare subito più complesso e più vicino al vero, pieno di contrasti «che non sono affatto incompatibili» perché, spiega Virginia Woolf citando e commentando questo «pettegolezzo», in tutti i suoi romanzi incontriamo proprio la stessa complessità di carattere.13 Acuta e silenziosa osservatrice, la scrittrice posa sugli uomini uno sguardo impavido, poco tradizionale, anzi molto moderno, perché interno non alla logica della complementarietà dei sessi, ma a quella dello scambio, e questo è un altro elemento decisivo della sua originalità che va subito sottolineato.14 È lo scambio simbolico che trasforma l’apparente (semplice) economia domestica, sterline e ghinee contate una per una, patrimoni, doti e lasciti accuratamente dichiarati, in economia delle relazioni umane, e dunque del mondo, e che interpreta l’affrontarsi delle donne e degli uomini (ovvero sia il «mettersi di fronte», sia il «confliggere» di due singolarità in carne e ossa) come primo ineludibile mattone di ogni esistenza. Ragazze e ragazzi, nell’età più lieve e di massima responsabilità: forse è questo che parla ancora ai giovani di quell’età, cui oggi non sono date più né leggerezza né responsabilità, e a chi, ormai con un passato alle spalle, sa che tutto in effetti è capitato allora. Nessuna nostalgia o rimpianto. Non c’è questo tipo di polvere nell’universo della Austen, si respira un’aria
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di autenticità che deriva dalla spontanea scoperta che «la vita in sé era l’oggetto del suo amore e del suo studio appassionato» e che non aveva «nessun desiderio che le cose fossero diverse da come sono»;15 per far sentire il suono della sua risata, tono e timbro della lingua che lo raccontano devono continuamente tingersi di un’ironia sottile, sfrenata, multipla, complice, continua, pervasiva. La perfezione dello stile diventa per questo un infinito e agile moltiplicatore del piacere della lettura. L’ironia e lo stile indiretto libero aprono quella distanza in cui il piccolo mondo della cara zia Jane, ricordato con minuzia anche dal nipote, è sovvertito al punto da riflettere con spietato rigore verbale il grande mondo: una messa a soqquadro, una messa in commedia spesso crudele ma veritiera, che spolpa il sentimentalismo e mette a nudo la logica raffinata e violenta della società patriarcale e divisa in classi. È questo il punto di grande sconcerto per chi avvicina criticamente i testi di Jane Austen, la sua consapevolezza della brutalità dell’ordine delle cose esistenti, eppure l’assenza di ogni forma di legittima ribellione. Un’intelligenza abbagliante, una coscienza limpida, incorruttibile, un genio comico la cui voce impietosa e incontenibile rovescia la realtà come un guanto, mettendo alla berlina tutte le convenzioni della civiltà in cui lei stessa crede. L’enigma profondo della sua voce sembra risolversi, però, quando cominciamo a sentire, proprio ad avvertire con chiarezza che la sua parola scrive della vita non contro qualcosa o qualcuno, ma semplicemente per la vita in sé e per la propria esistenza (il suo sapere viene in gran parte dal lavoro su se stessa), riuscendo in tal modo a restituire le forme complesse e libere della realtà. Si tratta di desiderio di verità (come riconosce lealmente Praz, ricordando che «nulla essa ci descrive che non abbia conosciuto e verificato»),16 ma insieme, aggiungerei, di un dire inevitabile di verità, di una incorrotta responsabilità verso il linguaggio, in virtù di una piena consapevolezza delle ragioni della propria arte, cui non verrà mai meno, come tutti i grandi e veri artisti. Oltre il suo stes-
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so personale carattere, che doveva essere ben complesso, se stiamo all’evidente problematicità che distribuisce in misura diversa a tutte le sue eroine. «Teneva seco il suo cervello mentre tutte le altre andavano attorno cercando il loro» dice di lei Chesterton, e così continua: «Sapeva ciò che sapeva come un dogmatico autentico, ignorava ciò che ignorava come un autentico agnostico».17 Ed «era saggia quanto il dottor Samuel Johnson» sottolinea ammirato Harold Bloom.18 Insomma, sono molto varie le ragioni per cui leggere Jane Austen è ancora così interessante e divertente, e ci affascina ancora tanto il breve arco di tempo in cui si svolgono le sue storie, mentre ci chiediamo come mai tutto funzioni perfettamente nella sua macchina narrativa. Si tratta di amore? Sì e no; si tratta di conflitto fra i sessi? Sì e no; si tratta di conflitto di classe? Sì e no. Ai miei occhi di donna la ragione è più profonda e semplice: i suoi romanzi non parlano di emancipazione («rispetto al» e «dentro il» mondo degli uomini), ma di libertà femminile, agita sul «filo a piombo della ragione».19 La narrazione muove le protagoniste lungo un percorso di formazione che non si struttura, secondo il canone della tradizione maschile, come «avventura dell’io», ma come trasformazione di sé in relazione con l’altra e l’altro; tutti e sei i romanzi costruiscono una trama che non conosce (se non nei fili secondari) colpi di scena, ma avanza attraverso la conversazione, così che il dialogo è l’azione necessaria e sufficiente;20 tutti e sei disegnano lo spazio ristretto di un perimetro definito e lo trasformano in un’ampia geografia morale, dal salotto al giardino, dalla casa paterna alla casa maritale, dalla campagna alla città. E siccome parlano di donne e di uomini, i corpi si sentono, benché la rarefazione della musica austeniana li faccia vibrare, contenuti e trattenuti sensualmente, solo al momento giusto, e in quella misura che, in quanto tale, allude sintomaticamente all’eccesso. Ecco già anticipate quasi tutte le mie intenzioni critiche; svilupperò dunque il mio lavoro su questi tre piani, in modo da affrontare tre degli elementi che appartengono di diritto agli snodi centrali
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dell’architettura di qualunque romanzo: personaggio, trama, spazio. La temporalità è lineare, generalmente i pochi anni necessari a segnare la trasformazione di un’adolescente in ragazza da marito. Volendo concentrare la mia lettura in questa direzione, accennerò solo di scorcio a un problema interpretativo che torna di frequente ma mi interessa meno, perché sembra confondere ogni buona intuizione, oltre a essere già stato affrontato in mille modi. La formulazione più chiara e fulminante della questione, ancora di recente, l’ha data Ornella De Zordo, intitolando la sua prefazione a tutti i romanzi della Austen: «Is she queer? Is she prudish?». L’interrogativo, secco, mette a nudo proprio questa polarizzazione nelle letture, fra chi vede in lei la scrittrice «moralista e didattica, che usa l’ironia per giudicare l’individuo che non si uniforma ai valori della società» e, viceversa, chi guarda a lei come all’autrice «intransigente e sofisticata che usa ironia e autoironia per esprimere il dissenso dalle convenzioni sociali e narrative».21 Eccentrica o prude, potremmo tradurre con termini appropriati al suo tempo, ma non so quanto sia utile cercare di decidere in un senso o nell’altro; la Austen sfugge a questo tipo di antitesi ossificata, ci mette in scacco se vogliamo afferrarla e stringerla in una definizione di comodo, perché la sua bravura consiste nell’aver saputo raccontare con raro equilibrio e ironia le contraddizioni cruciali che aveva sotto gli occhi e che sapeva osservare acutamente anche vivendo appartata in un piccolo paese di campagna. Rimanendo in bilico, porta alla luce il vuoto impercettibile che l’impensato forma sempre al di sotto del già pensato, quel ricamo delicatissimo, di facile smagliatura ed evanescenza, la cui solidità lei garantisce esclusivamente confidando nella libertà della sua mente e nella continua problematizzazione delle sue stesse osservazioni. Anche Malcolm Skey, nella sua intelligente introduzione alle lettere di Jane Austen, ben consapevole della natura antitetica della ricezione austeniana, ci guida nella stessa direzione, ricordando come, a partire dal Memoir compilato dal nipote James E. Austen-Leigh, la
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sua immagine sia «quella plasmata e pilotata dai vittoriani», e come quella della scrittrice «sovversiva» sia andata invece formandosi dagli anni trenta in poi del Novecento.22 Aggiungo inoltre che, in molte e analitiche pagine di studio, l’attraversamento ragionato della letteratura secondaria è già stato fatto con accuratezza da Beatrice Battaglia, il che mi permette di sentirmi sollevata da questa fatica. Il suo lavoro critico e bibliografico indica precisamente, dall’Ottocento a oggi, l’emergere di tre «immagini ricorrenti e apparentemente contrastanti»: a) la signora «aimable, dear, placid, modest» che scrive per passatempo, «b) una scrittrice ben consapevole, serious-minded and didactic; una moralista inflessibile», e infine «c) una scrittrice ironica che ha assorbito la lezione individualistica di Hume, di Shaftesbury, dei “sentimentalisti”, ben consapevole della relatività e del potere dei valori sociali che soffocano l’individuo, in cerca quindi di una soluzione o un compromesso che renda meno dolorosa la condizione individuale».23 Il nodo è sempre lo stesso, che siano due o tre le direzioni quasi antitetiche della ricezione austeniana poco importa, perché l’essenziale, in fondo, è che tutte queste inflessioni arrivino sempre, in una forma o nell’altra, a volte anche obtorto collo, a riconoscere la sua indiscutibile grandezza. Citerò qualche esempio, tra i molti possibili, per rendere più evidente questo strano fenomeno e poi lasciar perdere l’intera questione. Era Jane Austen una povera zitella di qualche talento, conformista e perbenista, cui è capitato di scrivere qualche buona pagina, a volte solo per brave signorine come lei, una vera scrittrice sì, ma di piccoli orizzonti? Il dubbio assale il bravo critico, per esempio Emilio Cecchi. Questa «figlia di un parroco […] passò quasi tutta la sua vita in residenze provinciali […] a umilmente spolverare i mobili casalinghi, ricamare squisitamente e lavorare d’ago per i poveri; senza pose, senza isterie, con una precoce aria di zia e di zitella. Suonava il cembalo […], non le dispiaceva spiegar sciarade e comporne; infaticabilmente baloccava i numerosi nipotini, e talmente subordinava le occupazio-
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ni letterarie ai bisogni domestici, che spesso non ebbe neppure uno studiolo da ritirarvisi e scriveva allora nel salotto comune, su piccole cartelle per poter facilmente nasconderle sotto alla carta asciugante, entrando qualche estraneo». Eppure sempre Cecchi, nella pagina seguente, afferma convinto che l’arte di questa stessa signorina «costituisce un silenzioso tramite sotterraneo fra il romanzo settecentesco e il romanzo vittoriano, dico quello critico e ironico del Thackeray, non l’eloquente e drammatico di Carlo Dickens».24 L’affermazione non sembra da poco, questo significa caricare sulle spalle, non tanto esili evidentemente, di un’autrice, di una signorina, nientemeno che il passaggio da un secolo all’altro, nello stile, nell’architettura compositiva, nella visione della realtà rappresentabile nella misura della forma romanzo. Ma di nuovo, subito dopo, l’oscillazione fra riconoscimenti e strozzature ricomincia: «campo ristretto», mancanza «d’orizzonte», «eccessi logaritmici della preoccupazione razionale» ecc. Insomma, questo tipo di critica, spesso ricorrente, è interessante proprio perché, nonostante alcune esibite sordità, è costretta a dire, quasi per inconsapevole ma incontrovertibile intuito, le cose importanti, quelle che solo Miss Austen ha saputo fare. Gira un po’ la testa anche nel leggere le quattro pagine che Mario Praz le ha dedicato nella sua storia della letteratura inglese, in grado di assommare, con pennello velocissimo, alcune decisive intuizioni (la funzione del ballo come segno della «qualità ritmica» del romanzo austeniano, la sua psicologia «politica», dedita allo studio «degli uomini in rapporto ad altri uomini in determinate condizioni d’ambiente» ecc.) alla compulsiva necessità di «ridurla» a qualcosa, una categoria, un sottogenere, a una «soave» recinzione, alle conversation pieces,25 sempre però dovendo ricordare, al suo fianco, Addison o quel gigante di Johnson, e dovendo aggiungere poi che le sue pagine, seppure non travolgenti, «a ripensarci, lasciano nel nostro animo una più profonda impressione di verità».26 Infine, a chiudere questo sommario e del tutto arbitrario elenco
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di esempi di parziale incomprensione maschile, la cui evidenza suggerisce qualche utile pensiero, non può mancare un altro maestro, Vladimir Nabokov, che a Mansfield Park ha dedicato una delle sue indimenticabili lezioni di letteratura, definendolo «l’opera di una signora e il gioco di una bambina. Ma da quel cestino di lavoro esce una squisita arte del ricamo e in quella bambina c’è una vena di genio meraviglioso». Non però un «capolavoro dai toni così vividi come […] Madame Bovary e Anna Karenina […] mirabili nella loro arte supremamente controllata».27 Premesso che l’intera lezione è di massimo interesse, e che non ci sono dubbi sull’arte di Flaubert e Tolstoj, cos’è la nota stridula che sento? Di nuovo un orecchio che non riesce ad aprirsi del tutto, che fa della differenza, che sente (Fanny Price, la protagonista di Mansfield Park, invenzione femminile, Emma Bovary e Anna Karenina, invenzioni maschili), non la leva per una comprensione migliore, più ravvicinata al proprio oggetto, ma un ostacolo muto o a cui dare un nome banale, come questo: «Abbiamo avuto bisogno di trovare l’approccio giusto. Lo abbiamo trovato, credo, e ci siamo anche abbastanza divertiti con i suoi motivi delicati, con la sua collezione di gusci d’uovo avvolti nell’ovatta». Queste sono le righe con cui Nabokov, nel saggio immediatamente seguente, introduce l’analisi di Casa desolata di Dickens, autore cui finalmente riesce ad «arrendersi», senza sforzo, senza dover cercare «un piacere per interposta persona», e mi hanno sempre colpito per la loro chiarezza, 28 la difficoltà ad avvicinare la verità della differenza, quasi mai ammessa tanto è abbagliante. Ci era riuscita Virginia Woolf, con una delle sue frasi-freccia, riferita agli scrittori e valida anche per i lettori: «Ma anche così è sempre ovvio, perfino negli scritti di Proust, che l’uomo è terribilmente ostacolato e parziale nella sua conoscenza delle donne, proprio come lo è la donna nella sua conoscenza degli uomini».29 Tutto qui, e con tutte le conseguenze che se ne possono dedurre per entrambi i sessi e le loro «interposte persone», le diverse sensibilità, formazione, interessi, storia personale, intenzioni.
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Non voglio dimenticare, per questo, l’ammirazione di molti. Valga per tutti la voce di un grande poeta, Wystan H. Auden, di cui ritaglio pochi tra i molti versi che la celebrano nella sua Letter to Lord Byron: There is one other author in my pack […] You could not shock her more than she shocks me; Beside her Joyce seems innocent as a grass, It makes me most unconfortable to see An English spinster of the middle class Describe the amorous effect of «brass», Reveal so frankly and with such sobriety The economic basis of society.30
E ancora l’affettuoso e puntiglioso e devoto ritratto scritto dal critico David Cecil,31 e la migliore e più acuta comprensione, in anni recenti, che troviamo negli studi critici di Carlo Izzo, Robert W. Chapman, Tony Tanner o David Daiches.32 Quanto a Kipling, la lesse con profonda attenzione: esiste un suo racconto del 1924, The Janeites, che narra di un gruppo di commilitoni, durante la Prima guerra mondiale, stretti in una società segreta le cui parole d’ordine riguardano tutte personaggi e situazioni collegate ai romanzi di Jane Austen. Proprio una di queste parole si rivelerà provvidenziale e salverà la vita all’unico sopravvissuto del gruppo, in nome e in forza di una signorina d’altri tempi che si occupava, in modo tranquillo, di combinare matrimoni. Nella poesiola che accompagna il testo, intitolata Jane’s Marriage, la scrittrice è accolta in Paradiso, fra gli altri, da Shakespeare.33 Acute, affilate, con osservazioni di precisione sorprendente, sono anche le pagine che le dedica Giuseppe Tomasi di Lampedusa, che riconosce «a questa vecchia signorina» ogni valore: «La più grande scrittrice del suo tempo; anzi la più grande scrittrice di tutti i tempi», «un tatto squisito»,
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la spregiudicatezza e il tratto definitivamente antimelodrammatico a spiegare la ragione della sua scarsa fortuna fra i lettori italiani.34 Ma, viceversa, non si possono ignorare, per esempio, l’antipatia che suscitava in Mark Twain o in Emerson, o le aspre e violente incomprensioni di un’artista come Charlotte Brontë, che il 12 gennaio 1848, scrivendo a George Henry Lewes, chiede, stupefatta, come mai gli piaccia tanto Miss Austen: «Non avevo mai sfogliato Orgoglio e pregiudizio finché non ho letto la Sua opinione in proposito. Solo allora mi sono procurata il libro. E che cosa vi ho trovato? Un accurato ritratto dagherrotipo d’un viso comune, un giardino coltivato e cintato con ogni cura, con aiuole precise e fiori delicati, ma neanche il lampo di una fisionomia luminosa e vivida, non uno scorcio di campagna aperta, non un po’ d’aria fresca, non una collina azzurra, non un torrente […], la signorina Austen è solo un’acuta osservatrice».35 Henry James, più avanti, la vede ancora «nel suo fresco e modesto salottino d’altri tempi, con in grembo il lavoro e accanto il cestino da ricamo», e ritiene la sua popolarità immeritata, semplicemente dovuta alla «straordinaria grazia della sua naturalezza e, in effetti, della sua scarsa consapevolezza».36 Altrove, ricorda Ian Watt, «con una lode che è tipica della sua scrupolosa moderazione», James aveva intuito qualcosa di meglio e di più acuto: «Le donne sono osservatori delicati e pazienti: si può dire che stanno col naso attaccato al tessuto della vita. Sentono e percepiscono il reale con una specie di tatto personale e le loro osservazioni sono raccolte in mille deliziosi libri».37 Più sicura nel giudizio la sua contemporanea Edith Wharton, che parla con chiarezza dell’istinto infallibile dell’«impeccabile» Austen per la misura: «Non c’è pericolo di trovare uno dei suoi personaggi sproporzionato o rimbalzante qua e là senza scopo per la scena».38 Esiste poi tutto il filone critico-interpretativo cui ho già accennato citando gli studi della Battaglia, quello che ne fa un’icona queer, e sul quale vale la pena di spendere qualche breve considerazione. Qui Jane Austen è considerata, sotto sotto, una gran bella lingua ta-
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gliente, la narratrice inaffidabile, sovversiva, anticipatrice di una ribellione radicale il cui strumento consapevole, l’ironia, mostrerebbe di essere esclusivamente il velo di una parodia magistrale e metanarrativa. Personalmente credo che i romanzi difficilmente sopportino i colpi affilati di un’accetta, in questo caso, poi, la misura che funziona dall’interno della scrittura va tenuta fra le mani come fa il muratore con la sua bolla e va usata con delicatezza e precisione, per provare a capire come ha fatto la Austen a trasformare il suo accordo con una realtà particolare in verità universale. «Il suo genio e le condizioni della sua vita si accordavano completamente» afferma acuta Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé, mentre costruisce la linea genealogica di una tradizione di scrittrici che l’hanno preceduta, e riconoscendo proprio a Jane Austen «la stessa condizione nella quale scriveva Shakespeare», ovvero «senza odio, senza amarezza, senza paura, senza protestare, senza far prediche». Capace di incarnare dunque quello slancio della mente cui lei stessa sta tendendo, il farsi presente in ogni vero artista di una mente androgina, che non cancella il corpo e il sesso in cui si radica, ma lo trascende, bruciando in se stessa ogni ostacolo materiale o culturale che lo zavorri, lo diminuisca, lo costringa, impedendole di guardare l’infinito della libertà.39 «Per questo non conosciamo Jane Austen e non conosciamo Shakespeare» continua la Woolf «ed è per questa ragione che Jane Austen pervade di sé ogni parola che ha scritto, proprio come fa Shakespeare.» Le condizioni materiali, tutte, oltre a quelle ricordate anche da Cecchi, il salotto comune e la carta asciugante, che avrebbero dovuto costituire un ostacolo, sono le stesse in cui, al contrario, il «miracolo della sua opera»40 avviene. Una donna che agli inizi dell’Ottocento non si lamenta, non protesta e non rivendica (che sia proprio l’assenza di questo atteggiamento, da «emancipata», a velare il giudizio di Charlotte Brontë?) ha molto da insegnare; tutto quello che lei sceglie di non fare e non rappresentare è proprio quello che troppo spesso ha distrutto una
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sensata e libera economia simbolica femminile. Questa riflessione da sempre accompagna la mia lettura e forse l’ha influenzata più di quanto io stessa sappia, per via della scoperta nei testi che, quando una donna scrive, a fare la differenza non è la «condizione» patita, ma la posizione di libertà scelta dell’autrice, tale da rendere la sua opera, come ogni vera opera, «un campo di interrogazione del nostro presente».41 I rapidi esempi fin qui illustrati sono evidentemente del tutto arbitrari, scandalosamente soggettivi, ma non intendono nemmeno, in alcun modo, ripercorrere le ormai lunghe vicende della fortuna di Jane Austen in Inghilterra e nel mondo, tra i contemporanei e i posteri, né pretendono di inseguire le diverse mappe che si possono tracciare, a partire dalla sensata ammirazione di molti fino all’idolatria eccessiva di molti altri, o al disprezzo senza sfumature di altri ancora. Se si vuol sapere di Walter Scott, Margaret Oliphant, George Eliot e George Henry Lewes, di Katherine Mansfield, Chesterton, James o Huxley, di Truman Capote42 o Said, o Jamaica Kincaid, e ancora su e giù per li rami, basta aprire uno fra i molti testi recenti, come Jane’s Fame, di Claire Harman, 43 e la nostra curiosità sarà soddisfatta, compresa quella per i siti internet, i film, le serie televisive, le rivisitazioni teatrali, i prequel e i sequel che ormai furoreggiano, dai gialli (fra i quali il non memorabile Morte a Pemberley di P.D. James e tutta la serie di Stephanie Barron) al boom della chick lit (come trovare marito o fare shopping…), dai manuali di comportamento agli zombie, ai mostri marini. Insomma, un vero brand, con tanto di fan club e pagina Facebook. I giganti, si sa, non stanno sulle nostre spalle, se mai qualche volta (perché bisogna almeno accorgersene) è vero il contrario, quindi, piuttosto che cercare di capire che cosa Jane Austen avrebbe voluto o potuto fare data la sua condizione (di donna, di «zitella illetterata» ecc.), forse è meglio guardare da vicino il mondo che, imperturbabile e nonostante tutto inimitabile, lei sola ha visto, e ci fa vedere, nei suoi
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romanzi, veri e propri «classici». Ovvero quei libri che non smettono mai, come dice Italo Calvino, di raccontarci una storia, di dire quel che hanno da dire. Del resto, sempre lui altrove ha scritto «amo Jane Austen perché non la leggo mai ma sono contento che ci sia».44 (Oddio, non una sola scrittrice annoverata fra i suoi «classici»… forse c’è un Polifemo nascosto, con il suo unico occhio, anche nei migliori.)