John Lennon Skywriting Scritti, disegni, poesie Postfazione di Yoko Ono
Edizione italiana a cura di Enzo Gentile e Antonio Taormina Traduzione di Pietro Formenton
Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreED Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore Text and illustrations © Yoko Ono, 1986, 2013 © il Saggiatore S.r.l., Milano 2013 Titolo originale: Skywriting by Word of Mouth
Skywriting
Prefazione di Antonio Taormina
Dopo Lennon il mondo non è stato più lo stesso, il sogno è finito, si è chiusa un’epoca, siamo diventati adulti all’improvviso… Come parlare di John Lennon senza correre il rischio di percorrere strade già tracciate, pur rifuggendo ogni tentazione retorica? Pochi personaggi della cultura, dello spettacolo hanno avuto tanti biografi, esegeti, studiosi (non tutti accreditati) come Lennon; non è dato sapere quanti si siano spesi in proposito, a partire dalla sua scomparsa, avvenuta nel 1980, che d’improvviso riaccese i riflettori e suscitò una rinnovata attenzione, da allora non più sopita, su di lui e di converso sui quattro ragazzi di Liverpool. Ma fra i tanti libri pubblicati che lo vedono protagonista, uno dei più coinvolgenti porta proprio la firma Lennon e si avvale di un titolo enigmatico supportato da un sottotitolo rivelatore: Skywriting by Word of Mouth and other writings, including The Ballad of John and Yoko, pubblicato il 10 ottobre 1986 da Harper and Row di New York e uscito contemporaneamente nel Regno Unito per i tipi della Pan Books. Il volume, già tradotto in molte lingue, dal giapponese al ceco, è difficilmente ascrivibile a una categoria edito-
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riale codificata. Comprende racconti brevi, pagine di diario, annotazioni e aforismi scritti tra il 1968 e il 1979, collazionati da Yoko Ono, inframmezzati da disegni dello stesso Lennon; fonde stili e tecniche di scrittura diversi, a tratti antitetici. Ma l’elemento di maggiore interesse, guardando in particolare alla prima parte, consiste nel fatto che è l’unico vero scritto autobiografico di Lennon, di converso prodigo di interviste rilasciate alle più diverse testate giornalistiche e vocato a parlare di sé (dapprima in chiave metaforica, poi esplicitamente, usando la prima persona) attraverso i testi delle canzoni. Gli eventi che portarono alla pubblicazione di Skywriting presentano altresì qualche aspetto inquietante. Pare infatti che sia stato trafugato nel 1982 dal Dakota Building di New York, dove i Lennon risiedevano, per essere poi ritrovato, in circostanze ai più sconosciute, quattro anni più tardi. Non senza qualche azzardo, e rispettosi delle oggettive distanze, scorgiamo diverse analogie con lo Zibaldone di Giacomo Leopardi: anch’esso scomparso dopo la morte dell’autore e recuperato fortunosamente, viene pubblicato postumo (nel 1898-1900) ed è una miscellanea di materiali elaborati in un ampio arco temporale, eterogenei sul piano formale e dei contenuti. Skywriting di fatto fa parte di una trilogia (seppure non pianificata) avviata con In His Own Write (pubblicato il 23 marzo 1964 dalla casa editrice Jonathan Cape di Londra) e da A Spaniard in the Works (uscito circa un anno dopo, con lo stesso editore): raccolte di racconti brevi, poesie, brani in prosa, testi teatrali e disegni sempre di John. Di entrambi il layout e le foto di copertina furono realizzati da Robert Freeman, già autore di due cover dei Beatles. Il primo libro si rivelò ben presto un best seller e lo stesso avvenne per il secondo, seppure con esiti inferiori. Il grande successo di vendite comportò diverse ristampe e
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edizioni, nel 1966 la Penguin li avrebbe riuniti in un unico volume, The Penguin John Lennon. A proposito di In His Own Write, il London Times Literary Supplement del 26 marzo 1964 scriveva: «Merita l’attenzione di chiunque tema l’impoverimento della lingua inglese e dell’immaginazione britannica»; il 1° maggio dello stesso anno toccava al Time: «Lennon fornisce frammenti drammatici evocativi e burleschi»; e nell’estate alla rivista letteraria americana Virginia Quarterly Review: «Il migliore dei nuovi romanzieri seriamente comici». Lennon aveva iniziato a coltivare la passione per il disegno e la scrittura già ai tempi della Quarry Bank High School, dove entrò a dodici anni. Risalgono a quel periodo le sue prime ambizioni come autore, che lo portarono a realizzare il Daily Howl, una raccolta di poesie, brevi narrazioni, fumetti, disegni e caricature legate al mondo della scuola, che arricchiva periodicamente. Quei primi tentativi sono in realtà prodromici alla produzione artistica del Lennon adulto, già vi si scorge il piacere per la parodia, per il grottesco, la capacità di far proprie e reinterpretare trame, personaggi, situazioni, sperimentando processi che ritroveremo anche nella produzione musicale. Durante gli anni della scuola, insofferente ai programmi didattici, Lennon dedicava molto tempo alla lettura, alla scrittura e al disegno. Peter Shotton, suo compagno di scuola alle elementari e durante la grammar school, lo dipinge come un assiduo frequentatore di Edgar Allan Poe, James Thurber, Edward Lear e di due autori per ragazzi, Kenneth Grahame e Richmal Crompton (ideatrice del personaggio Just William, che diede origine a serie editoriali e televisive), mentre Mimi Smith, la zia presso la quale viveva, raccontava del suo interesse per Balzac. Il momento decisivo per la sua formazione è però legato all’ammissione al Liverpool Col-
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lege of Art, avvenuta nel 1957, dove conobbe studenti come Bill Harry – divenuto nel tempo suo biografo –, Stuart Sutcliffe (uno dei fondatori dei primi Beatles) e Rod Murray. Con Sutcliffe e Murray si trasferì in un appartamento nella Gambier Terrace, nel centro di Liverpool, e iniziò a frequentare pub come lo Ye Cracke, dove entrò in contatto con giovani artisti e poeti. Conobbe così la Beat Generation di Kerouac, Ginsberg, Ferlinghetti, Corso e gli Angry Young Men. Era molto di moda allora Il giovane Holden di Salinger, che tornerà tragicamente nella storia di Lennon… (ne portava con sé una copia Mark Chapman la sera in cui gli sparò). Quando Bill Harry pubblicò il Mersey Beat (un periodico che avrebbe avuto un ruolo primario nella storia musicale di Liverpool e del Merseyside) gli chiese un pezzo sulla nascita dei Beatles, che uscì il 6 luglio 1961, sul primo numero della rivista, in uno stile insolito ma accattivante, con il titolo «Being a Short Diversion on the Dubious Origins of Beatles». Dopo quel primo avvio e qualche reticenza, John concordò con Harry di comparire saltuariamente in una sorta di rubrica firmata con lo pseudonimo di Beatcomber, scelto da Harry parafrasando la rubrica Beachcomber del Daily Express. Ed è qui che inizia la storia del primo vero libro di Lennon, In His Own Write. Nei mesi a seguire uscirono infatti sul Mersey Beat «I Remember Arnold», «Around and About» (che leggermente accorciato sarebbe diventato «Liddypool», e altro non era che la parodia di una guida di Liverpool) e «On Safairy With Whide Hunter», poi confluiti nel libro. La collaborazione con il Mersey Beat, che si estese alla pubblicazione di pochi ulteriori brani, rappresentò dunque il debutto ufficiale del Lennon scrittore, poi confortato dal contratto con la Jonathan Cape, cui approdò grazie al giornalista americano Mi-
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chael Braun, che aveva suscitato la curiosità di Tom Maschler, responsabile letterario della casa editrice, passandogli alcuni suoi versi. Ma In His Own Write, che esce nel momento in cui i Beatles diventano il fenomeno musicale (e di costume) del momento ed esplode la Beatlesmania, rappresenta anche altro, il primo distacco, la prima emancipazione – più o meno consapevole – di John dal gruppo; due anni dopo Lennon avrebbe addirittura interpretato un film come coprotagonista, Come ho vinto la guerra, diretto da Richard Lester. Lennon fu un artista eclettico e inquieto, il cui talento spaziò senza confini tra linguaggi e discipline diversi, ed è inevitabile domandarsi in quale misura la sua attività di scrittore influì sul suo percorso musicale, sulle sue scelte professionali. In una celebre intervista rilasciata nel giugno 1965 al programma televisivo della bbc Tonight dedicata a A Spaniard in the Works, a chi gli chiedeva se proponendosi come scrittore intendeva accreditarsi presso un pubblico diverso da quello della musica pop, rispose: «Ho iniziato a scrivere molto prima di essere un artista pop o un Beatle, le chitarre vennero per seconde», ma aggiunse che se non fosse stato un Beatle probabilmente sarebbe stato un poeta beat e quel libro non avrebbe pensato di farlo pubblicare, forse l’avrebbe scritto e gettato via. Lennon tornò spesso sulla sua attività letteraria, sul rapporto tra i suoi scritti e le canzoni. Nel 1970 dichiarava a Rolling Stone: «Ho scritto In His Own Write e A Spaniard in the Works per raccontare storie legate alle mie emozioni… Solo dopo ho cominciato a essere me stesso nelle canzoni, scrivendole in prima persona». Affrontò l’argomento anche in una delle sue ultime interviste, quella rilasciata a David Sheff per Playboy nel
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1980: «“In My Life” è la mia prima canzone consapevolmente autobiografica, venne dopo che un giornalista [Kenneth Allsop] mi domandò perché non mettevo nelle canzoni qualcosa del modo in cui avevo scritto In His Own Write o qualcosa della mia infanzia, cosa che sarebbe accaduta più tardi con “Strawberry Fields”». Sempre parlando del suo primo libro, affermò in momenti diversi: «Con mia sorpresa è piaciuto alla critica, che non è stata influenzata dal fatto che fossi un Beatle, mentre lo sono stati i fan. A dire la verità hanno preso il libro più seriamente di quanto abbia fatto io»; ma anche: «Era la mia versione di quello che stava accadendo. Suppongo fossero tutte manifestazioni di crudeltà nascosta». Dopo A Spaniard in the Works Lennon decide di interrompere il rapporto con il mondo dell’editoria: quando comincia a sentire nello scrivere l’imposizione delle scadenze, di non poter lavorare secondo i propri tempi e i propri ritmi, come già avveniva per la musica, preferisce abbandonare. Così l’atteso terzo libro già concordato con l’editore, che avrebbe dovuto essere il «seguito» dei due precedenti, non vide la luce; Lennon però non smise mai di scrivere, come ci rivela appunto Skywriting by Word of Mouth, che uscì ben ventidue anni dopo l’antesignano In His Own Write. Il periodo che intercorre tra A Spaniard in the Works e i brani scritti per primi presenti su Skywriting è abbastanza breve, ma molto è successo nel frattempo. In primo luogo Lennon ha conosciuto Yoko Ono e, grazie al loro sodalizio artistico (oltre che sentimentale), si è cimentato nel campo delle performance, si è scoperto film-maker e ha realizzato una raccolta di litografie erotiche, denominata Bag One che ha esposto suscitando scandalo. Sono gli anni dei Bed-In per la pace, della campagna
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War Is Over! (If You Want It), del suo impegno politico in difesa dei diritti civili, ma sono anche gli anni degli attacchi da parte della stampa britannica (e non solo) a Yoko, che John ha sposato a Gibilterra nel 1969, e del conflitto con gli altri Beatles. John scrive di tutto questo in quelle pagine che scopriremo solo nel 1986, ma per farlo non usa il linguaggio surreale e immaginifico dei suoi primi scritti e di molte sue canzoni. Pur mantenendo la costante dell’ironia, sfiorando spesso il sarcasmo, adotta uno stile molto più diretto, assertivo, a tratti giornalistico, lo stesso che ritroviamo in alcune sue canzoni dell’epoca, da «The Ballad of John and Yoko» (che esce, forse indebitamente, ancora sotto il marchio Beatles e incide con Paul), sino a «Give Peace a Chance» e «Power to the People», a «Woman Is the Nigger of the World», all’album Some Time in New York City. In Skywriting i singoli brani non seguono un percorso legato alla cronologia della loro scrittura, sono bensì ripartiti in due tranches che riflettono e sono espressione di paradigmi differenti, sia sul versante personale sia su quello artistico. La prima, che può coinvolgere chi è interessato in primo luogo alla biografia di Lennon, è concentrata nelle prime venticinque pagine (pp. 23-48), che propongono rari squarci della sua memoria. Pone l’accento sul razzismo e il sessismo di cui lui e Yoko furono vittime, ma scrive anche della sua vecchia band: «La mia vita con i Beatles era diventata una trappola… Non ce l’ho con loro. A posteriori, i Beatles furono una parte della mia vita non più importante di qualunque altra (e meno di alcune)…». È abbastanza sorprendente scoprire come Lennon, con tono disincantato, prenda le distanze da personaggi che, dopo essere approdato nel 1971 negli Stati Uniti, aveva appoggiato e per i quali aveva speso la sua credibilità. Da
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David Peel, di cui produsse anche un disco (The Pope Smokes Dope), a John Sinclair, cui dedicò una canzone e di cui sostenne la campagna per la liberazione (era stato imprigionato per reati politici), sino a due protagonisti dell’underground newyorkese, Jerry Rubin e Abbie Hoffman che giunge a definire i Mork e Mindy degli anni sessanta, nonché due opportunisti. Non risparmia, quasi ridicolizza Allen Ginsberg, quello stesso Allen Ginsberg che aveva letto da giovane e che nel 1965 aveva immortalato i Beatles nella sua poesia Portland Coliseum. Descrive Richard Lester, storico regista dei film del gruppo e dello stesso Come ho vinto la guerra, come «un cazzone in cerca di potere». Ma ci sono anche riferimenti ai territori più nascosti della vita dei Lennon, affronta il tema dell’astinenza che ha «quasi ucciso Yoko», narra la partecipazione, forse un po’ avventata, a pratiche occultistiche. Scrive, con amarezza, della lunga battaglia ingaggiata nei suoi confronti dal governo Nixon, argomento che negli ultimi anni è stato spesso ripreso dai media e su cui è incentrato il bel film di David Leaf e John Scheinfeld usa contro John Lennon prodotto nel 2006. Sono pagine vivide, dalle quali emerge, non senza luci e ombre, un Lennon a tutto tondo, nella permanente dicotomia tra uomo e artista: generoso, capace di grandi slanci, ma anche «cinico idealista» come lo ha definito Gary Tillery in un suo saggio del 2009. La seconda parte del libro (scritta prevalentemente tra il 1975 e il 1979), che si apre con il racconto che dà il titolo al libro, ci riporta quasi ineluttabilmente a In His Own Write e A Spaniard in the Works, dei quali condivide l’ispirazione, la ricerca linguistica, l’uso della parodia, accentuando però l’aspetto sperimentale, come avviene in «Siate lupi mannari delle limitazioni», un breve testo in
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cui sembra adottare la tecnica del cut-up cara a William Burroughs. Lennon iniziò la stesura di Skywriting in una fase particolare, per certi versi contraddittoria della sua vita, come egli stesso svelò nel 1980 nell’intervista a Sheff, che gli chiedeva se avesse ripreso a scrivere, a parte le canzoni: «Quando ho sospeso con la musica e ho iniziato a occuparmi della casa divenni frenetico, era un periodo in cui si supponeva che stessi facendo qualcosa di creativo. Mi sono seduto e ho scritto duecento pagine di roba pazza nello stile di In His Own Write: è là in una scatola». Poi aggiunge: «Una parte è divertente, ma non è ancora abbastanza buona. Ho sempre desiderato scrivere un libro per bambini, scrivere Alice nel Paese delle meraviglie, ho ancora quell’ambizione. Penso che lo farò quando sarò più vecchio». Molto si è scritto sulle ascendenze letterarie di Lennon: svelate, negate, attribuite con qualche licenza, scomodando maestri più o meno di tutte le epoche della letteratura inglese, compresi Jonathan Swift, Charles Dickens, lo stesso Shakespeare; è in buona parte condivisa l’analisi che vede quali modelli principali di riferimento Lear, Carroll, Thurber e Joyce. Edward Lear (1812-1888), il maestro del limerick (un componimento umoristico in cinque versi, tipicamente inglese), fu come Lennon illustratore dei propri libri, il più celebre dei quali è Book of Nonsense (1846). In Lennon si colgono effettivamente aspetti stilistici che si richiamano a Lear, ma indubbiamente più evidenti sono i richiami a Lewis Carroll (1832-1898), l’altro grande maestro del nonsense inglese. Alice nel Paese delle meraviglie (1865) e Attraverso lo specchio… (1871) rappresentano infatti le uniche opere esplicitamente citate da Lennon, che amava in particolare la poesia Jabberwocky, contenuta nella se-
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conda; inserirà personaggi di Carroll più volte nelle sue canzoni (prima fra tutte I Am the Walrus). La lettura di Alice introdusse John, ancora bambino, all’uso dei puns, parole nate dalla fusione di più termini, o, per dirla con lo stesso Carroll, portmanteau words, dall’immagine della parola intesa come valigia a più scompartimenti. Martin Gardner nel suo Annotated Alice (1960) sottolinea come il nonsense di Carroll nasca spesso da processi complessi, e che, per ricostruirli, bisognerebbe essere della sua stessa città (Oxford) e conoscere fatti e persone della sua vita: lo stesso vale per Lennon. Anche l’americano James Thurber (1894-1961), giornalista del New Yorker, specializzato in racconti brevi, è scrittore e disegnatore. In lui convivono il forte senso della satira sociale e un certo distaccato cinismo; leggendo il suo Fables for Our Time (1940), si individuano diversi punti di contatto con Lennon, specialmente nel modo di affrontare, destrutturandoli, i personaggi. L’autore più spesso chiamato in causa, in particolare con riferimento a Skywriting by Word of Mouth, è però James Joyce (1882-1941), ovvero l’ultimo Joyce, quello di Finnegans Wake (1939), che vede un uso particolarmente sofisticato dei puns, da lui definiti polyhedrons. Lennon, in merito agli autori che lo avevano influenzato, rilasciò interessanti e in parte elusive dichiarazioni. Nell’intervista realizzata nel luglio 1965 in occasione del programma radiofonico della bbc World of Books ammise il suo debito verso Conan Doyle (è celebre il racconto apocrifo di John che vede protagonista Sherlock Holmes) e Carroll, mentre negò la parentela con altri autori a lui accomunati dalla critica: «Il solo classico che ho letto a scuola o di cui so qualcosa è Chaucer. Ho comprato tutti i libri che dicevano simili al mio. Ho comprato un libro su Edward Lear, ho comprato Finnegans Wake e non ho visto
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somiglianze con alcuno di essi». Eppure in un’intervista del dicembre 1964 rilasciata a Gloria Steinem per Cosmopolitan aveva riconosciuto di aver letto alcuni racconti di Thurber. In diverse circostanze avrebbe perfino definito i suoi giochi linguistici «joyciani» e parlato dell’influenza che ebbero su di lui Dylan Thomas e Oscar Wilde (peraltro evidente nel caso di quest’ultimo). Plausibilmente voleva proporsi, smentendo in alcuni casi quasi l’evidenza (a distanza di tempo possiamo aggiungere le testimonianze), come scrittore naïf proprio per sottrarsi ai confronti operati dalla critica. In molte occasioni sostenne che il suo modo di scrivere era del tutto spontaneo e privo di modelli e a chi gli chiedeva circa l’uso dell’onomatopea (onomatopoeia in inglese) domandava a sua volta: «Automatic pear?». Il più accreditato studioso di lingua inglese dell’attività letteraria di Lennon, l’americano James Sauceda, nel suo The Literary Lennon (1983), riferendosi ai due primi libri, dimostra filologicamente analogie e parallelismi con James Joyce, ipotizzando fonti comuni di ispirazione. Sappiamo che Lennon aveva effettivamente letto Finnegans Wake dopo che i critici ne avevano rilevato le somiglianze con il suo primo libro e dunque è del tutto verosimile che Skywriting trovi in quell’opera uno dei punti di riferimento. Non pochi ravvisarono l’ombra di Joyce, con il tramite di Lennon, stagliarsi tra i versi delle canzoni dei Beatles, tra questi, due musicologi: George Melly, nel parallelo tra la ricostruzione di Liverpool e quella di Dublino, e Terence J. O’Grady, nel ricorso alla tecnica dello stream of consciousness. Non è azzardato affermare che molti giovani inglesi sono entrati in contatto con il grande scrittore irlandese, senza saperlo, attraverso i versi del gruppo pop più osannato. Poco dopo l’uscita di Skywriting, nel 1986, Terry Atkinson scriveva sul Los Angeles Times: «Se non avesse cantato, John Lennon
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avrebbe lasciato il segno come successore di Lewis Carroll, James Joyce e degli altri brillanti e giocosi innovatori della lingua inglese» e su People un critico definì il libro «candido e graffiante… Un riflesso della creatività del suo autore e del suo fascino». Accanto alla ricerca legata al linguaggio, nella seconda parte di Skywriting ritroviamo l’aspetto iconoclasta, provocatorio, le citazioni irrispettose, ma anche la sensibilità, le intuizioni, dei primi libri. John ricorre all’uso di anfibologie e omofonie, fa incursioni spericolate nella sintassi e nella morfologia. Nelle sue brevi storie, che spesso partono dalla reinvenzione di fatti di cronaca riportati dalla stampa, scorgiamo accenti satirici su vicende di attualità, così come frequenti riferimenti a personaggi del mondo dello spettacolo e della politica, da Hailé Selassié a Liz Taylor. A un certo punto compare un’improbabile Ella Scott Fitzgeraldine, come non pensare a un gioco di parole tra Francis Scott Fitzgerald ed Ella Fitzgerald? Parafrasando Oscar Wilde intitola un suo racconto «The Importance of being Erstwhile» (L’importanza di chiamarsi Modesto), laddove Erstwhile (obsoleto) sostituisce l’originale Earnest (onesto); che dire di «Lucy con la Sciarpa tra i Diabetici»? E certo non è difficile immaginare chi si celi dietro Esoteric Clapton. Non a caso Lennon è stato paragonato a Groucho Marx per alcune sue battute fulminanti. Convivono in lui una profonda capacità speculativa, il rigore intellettuale e una leggerezza che si manifesta nella sua innata tendenza all’ironia, al gioco. «Chi non ha il senso dell’umorismo non può capire la dialettica» scriveva Bertolt Brecht. Bisogna dire che per certi versi Lennon sarebbe intraducibile, come emerge dal sottotitolo di una delle edizioni francesi di In His Own Write, che recita: «Tentativo disperato di traduzione»; al tempo stesso si sono cimentati in
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questa sfida importanti letterati come lo scrittore brasiliano Paulo Leminski, lo studioso argentino Jaime Rest, la scrittrice francese Christiane Rochefort, il poeta svedese Peter Curman, il poeta finlandese Anselm Hollo. Per tentare di cogliere i fili conduttori del lavoro di Lennon non si può altresì prescindere dalla sua dimensione teatrale. Collaborò con Victor Spinetti e Adrienne Kennedy all’adattamento teatrale dei suoi due primi libri, che il 18 giugno 1968 debuttò, per la regia dello stesso Spinetti, con il titolo In His Own Write all’Old Vic di Londra, grazie all’interessamento di Laurence Oliver. Non di meno è tra gli autori – figuravano tra gli altri Jules Feiffer e Sam Shepard – di Oh! Calcutta! la celebre commedia provocatoria giocata ironicamente sul sesso, andata in scena a New York nel 1969. Da adolescente era rimasto affascinato dal programma radiofonico The Goon Show, una commistione tra commedia e humor surreale, interpretato da Spike Milligan, Peter Sellers e Harry Secombe. Più volte dichiarò l’influenza che ebbe su di lui, e lo fece anche nell’unica critica che scrisse, nel 1973, per il New York Times, in occasione dell’uscita del libro dello stesso Milligan The Goon Show Scripts. Quello stesso spirito riemerge nei mind movies, sorta di radiodrammi da lui stesso interpretati che registra nella seconda parte degli anni settanta e nei dialoghi di Skywriting, in cui alcune pagine, come nel racconto «Demente in Danimarca», sono addirittura scritte in forma di copione (anche qui riprendendo una modalità adottata in In His Own Write). Peraltro, il brano di apertura dello stesso libro, «La ballata di John e Yoko», avrebbe dovuto essere la base per la realizzazione di un musical autobiografico, progetto cui John e Yoko avevano già iniziato a lavorare. Più tardi usciranno due libri postumi, per certi versi
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illuminanti sul lavoro di John come artista visivo, che rappresentano in primo luogo un omaggio di Yoko: Ai: Japan Through John Lennon’s Eyes del 1990, tratto dai disegni da lui realizzati in un quaderno di esercizi per lo studio della lingua giapponese, cui si era dedicato negli ultimi anni, e Real Love: The Drawings for Sean del 1999, il libro per bambini che John avrebbe voluto scrivere, creato attraverso i disegni dedicati a Sean, il secondo figlio, che condivise con il padre solo cinque intensi anni. In Skywriting, ma anche nei primi due libri, la parte iconografica, incentrata sui disegni di Lennon, che non a caso proveniva da una scuola d’arte, riveste una funzione centrale; spesso gli schizzi sono ispirati ai testi, talvolta sono ritratti, autoritratti, vignette prossime al fumetto, caricature. Anche in questo campo Lennon dimostrò un certo talento nel giustapporre stili e tecniche. Si colgono nei suoi lavori le influenze del già citato James Thurber, diversi critici vi hanno colto l’eredità di Saul Steinberg, mentre John (che apprezzava particolarmente Vincent van Gogh) in un’intervista televisiva rilasciata nel 1968 alla bbc2 rivelava che il suo primo modello era stato Ronald Searle. Il Lennon disegnatore della celebre serie di litografie erotiche (autonoma dalla produzione editoriale) denominata Bag One, sarà paragonato, non senza enfasi, a Gustav Klimt. Molto altro si potrebbe dire di Skywriting by Word of Mouth… Fermo restando che non sappiamo se l’autore l’avrebbe rivisto o modificato prima di pubblicarlo, certamente rappresenta una preziosa opportunità per inoltrarsi nell’universo John Lennon.
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La ballata di John e Yoko
Avevo sempre avuto una fantasia su una donna bellissima, intelligente, dai capelli scuri e gli zigomi alti, un’artista di spirito indipendente (alla Juliette Gréco). La mia anima gemella. Una persona che avevo già conosciuto, ma che per qualche motivo avevo perso. Dopo una breve visita in India, di ritorno dall’Australia, quell’immagine era leggermente cambiata: doveva essere un’orientale dagli occhi scuri. Naturalmente, il sogno non si sarebbe potuto avverare finché l’immagine non fosse stata completa. Adesso lo era. * Naturalmente da adolescente le mie fantasie sessuali erano piene di Anita Ekberg e delle solite gigantesche di-
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vinità nordiche. Questo finché Brigitte Bardot non diventò «la donna della mia vita» alla fine degli anni cinquanta. Tutte le mie ragazze che non avevano i capelli scuri erano costantemente incalzate da me affinché diventassero come Brigitte. Quando la sposai, la mia prima moglie (i cui capelli al naturale erano di un castano ramato, direi) era diventata anche lei una bionda dai capelli lunghi con frangetta regolamentare. Conobbi la vera Brigitte qualche anno dopo. Io ero sotto acido e lei stava uscendo. * Finalmente incontrai Yoko e il sogno divenne realtà. L’unica donna che avessi mai conosciuto che era uguale a me in ogni aspetto immaginabile. Meglio di me, in realtà. Sebbene avessi avuto diverse «storie» interessanti nella mia precedente incarnazione, non avevo mai conosciuto una donna per la quale valesse la pena di spezzare la noiosità dell’essere felicemente sposato. Fuggire, finalmente! Qualcuno per cui lasciare casa! Un posto dove andare. Lo stavo aspettando da un’eternità. * Dal momento che ero straordinariamente timido (in particolare nelle vicinanze di belle donne) i miei sogni a occhi aperti richiedevano che lei fosse abbastanza aggressiva da «salvarmi», insomma da «portarmi via da tutto questo». Per quanto fosse timida anche lei, Yoko riuscì a infondermi il coraggio sufficiente a scapparmene via, ap-
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pena in tempo per evitare di dover convivere con il nuovo naso della mia ex moglie. Anche lei aveva avuto qualche storiella, con grande sorpresa del mio ego maschile non ancora emancipato. Loro si presero il naso nuovo. E io mi presi la donna dei miei sogni. Yoko. * Essendo stato allevato nelle dignitose ristrettezze della classe medio-piccola, non avrei dovuto sorprendermi per la valanga di malignità razziste e misogine cui fummo sottoposti in quel bastione della democrazia che è la Gran Bretagna (incluso l’attualmente riabilitato Michael Caine, che con il suo bravo accento cockney biascicò qualcosa del tipo «Non vedo perché non si sia trovato una bella ragazza inglese»). Quale oltraggio! Uno dei «nostri ragazzi» che abbandona il suo focolare anglosassone (qualunque cosa esso sia) e per giunta si mette con una giapponese del cazzo! Non lo conosce Il ponte sul fiume Kwai? E Pearl Harbor? * I giornalisti inglesi ebbero una giornata campale nello sfogare su Yoko la loro xenofobia repressa. Per loro era stata dura: con la storia del Mercato comune avevano dovuto smettere di odiare quelli del continente, i mangiarane, gli zoccoli, i crauti, gli spaghetti (almeno sulla stampa), per non parlare dei negri. Era umiliante e doloroso per noi due vederla descrivere come un cesso, una gialla e altro pattume dispregiativo, specialmente da un branco di scribacchini di mezza età con le pance gonfie di birra e il collo rubicondo; ognuno è ciò che mangia e ciò
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che pensa. Ma si sa quelli che cosa mangiano, e che cosa gli viene detto di pensare: gli avanzi dei loro padroni. * Per Yoko era difficile da comprendere, considerando che per tutta la vita era stata riconosciuta come una delle donne più belle e intelligenti del Giappone. Il razzismo e il sessismo erano palesi. Mi vergognavo della Gran Bretagna. Benché io stesso fossi pieno di pregiudizi razziali e antifemminili (profondamente sepolti là dov’erano stati impiantati), credevo ancora a quella storiella inglese che accusava gli yankees di essere razzisti: «Noi no, vecchio mio, non sarebbe sportivo». Il Gentleman’s Agreement va da cima a fondo. Ma devo dire che nel corso dei miei viaggi ho scoperto che ogni singola razza pensa di essere superiore alle altre; lo stesso vale per le classi sociali (anche se gli americani dicono di non avere un sistema diviso per classi). * Fu un’esperienza agghiacciante. Pensai di chiedere consiglio a Johnny Dankworth e Cleo Laine, ma non lo feci (erano l’unica altra coppia birazziale in Gran Bretagna di cui conoscessi l’esistenza). La stampa capeggiò la folla urlante, e le malelingue della Maggioranza Silenziosa seguirono a ruota. Le lettere di insulti dei fanatici erano particolarmente ispirate; cercai di farle pubblicare dalla Jonathan Cape ma quelli pensarono che… Comunque, erano già un cambiamento rispetto alle lettere di questuanti che coincidevano invariabilmente con qualsiasi problema – sempre ben pubblicizzato – stessimo affrontando in quel momento, per esempio:
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Ho appreso con dispiacere del recente aborto spontaneo di sua moglie. Anche noi abbiamo subito la stessa tragedia, signore, ma a differenza sua non abbiamo i mezzi per acquistare una bella casetta bifamiliare nel Sud della Francia, e visto che voi avete tanti soldi, potreste fare felice un centenario spastico, con una moglie sorda e i suoi figli disabili. Se non è chiedere troppo, signore… ecc.
Oppure: Anch’io sono stato incastrato e ingiustamente arrestato dalla mondialmente nota polizia britannica [altro mito distrutto], in più di recente sono scampato alla morte in un incidente d’auto in Scozia, e mi chiedevo se poteste aiutare un prete cieco e sua madre invalida ad arrivare in chiesa la domenica… ecc., ecc., ecc.
Gerusalemme fu edificata qui? Ne dubito. * Oltre a darmi il coraggio di scappare via dai quartieri residenziali… Yoko mi diede la forza interiore necessaria a esaminare più da vicino l’altro mio matrimonio. Il mio vero matrimonio. Quello con i Beatles, che era più soffocante ancora rispetto alla mia vita domestica. Benché ci avessi pensato molto spesso, mi era mancato il coraggio per rompere prima. * La mia vita con i Beatles era diventata una trappola. Un nastro che girava a vuoto. Avevo già fatto qualche breve escursione per conto mio, avevo scritto dei libri e avevo collaborato alla loro riduzione teatrale per una rappresentazione al National Theatre. Avevo persino girato un film
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senza gli altri (un film pessimo, diretto da quel cazzone in cerca di potere di Dick Lester). Ma avevo girato il film come reazione al fatto che i Beatles avevano deciso di smettere di andare in tournée, più che per un’autentica scelta di indipendenza. Sebbene già allora (era il 1965) i miei pensieri fossero rivolti alla libertà. Sostanzialmente a mandarmi nel panico era l’idea di «non avere niente da fare». Cos’era la vita, senza le tournée? Era la vita, ecco cosa. Ricordo sempre di ringraziare Gesù per avere posto fine ai miei giorni in tournée; se non avessi detto che i Beatles erano «più grandi di Gesù» e di conseguenza sconvolto il cristianissimo Ku Klux Klan, be’, Signore, forse sarei ancora lassù sul palco con le altre pulci ammaestrate! Dio benedica l’America. Grazie. Gesù. * Quando finalmente ebbi il coraggio di dire agli altri tre che io, aperte le virgolette, volevo il divorzio, chiuse le virgolette, sapevano che dicevo sul serio, a differenza delle minacce di andarsene fatte da Ringo e George in precedenza. Devo dire che mi sentii in colpa per averglielo comunicato con un preavviso così breve. Dopotutto, io avevo Yoko, mentre loro avevano solo gli uni gli altri. Mi sentii tanto in colpa da accreditare McCartney come coautore del mio primo singolo da indipendente, malgrado la vera coautrice del pezzo fosse stata Yoko («Give Peace a Chance»). * Ero stato io a creare la band. Fui io a scioglierla. È tutto qui, molto semplicemente. Yoko e io decidemmo istintivamente che la migliore difesa fosse l’attacco, ma un at-
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tacco dolce, alla nostra maniera: Two Virgins, il nostro primo lp, nel quale la visione di due ex tossici lievemente sovrappeso e completamente nudi offrì a John e Yoko il pretesto per una sana risata, e un colpo apoplettico ai filistei del cosiddetto mondo civilizzato! Inclusi quei celebri pensatori rivoluzionari d’avanguardia, Paul, George e È Solo Ringo. Non ce l’ho con loro. A posteriori, i Beatles furono una parte della mia vita non più importante di qualunque altra (e meno di alcune). * Per me è irrilevante sapere se inciderò altri dischi oppure no. Iniziai con il rock and roll e finii con il puro e semplice rock and roll (il mio album Rock and Roll). Se dovesse prendermi un desiderio irresistibile allora lo farò, per divertirmi. Altrimenti non avrò alcun problema a lasciar perdere. Non ho mai condiviso l’idea che gli artisti «debbano qualcosa al loro pubblico», più di quanto i giovani debbano la vita al re e alla nazione. Sono stato io a fare di me quello che sono. Nel bene e nel male. La responsabilità è solo mia. Tutte le strade portano a Roma. Ho aperto un negozio; la gente compra la merce al suo giusto valore di mercato. Niente di che. E per quanto riguarda lo show business, non è mai stata la mia vita. Spesso vorrei, sapendo che è inutile, che Yoko e io non fossimo famosi e potessimo vivere una vita davvero privata. Ma è inutile piangere sul latte versato, o piuttosto sul sangue, perciò cerco di non avere rimpianti e non intendo sprecare tempo ed energia nel tentativo di diventare anonimo. Sarebbe altrettanto stupido quanto l’essere diventato famoso.
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