Souq2012

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Annuario 2012

Le sfide della felicitĂ urbana a cura di Marzia Ravazzini e Benedetto Saraceno


Esperite le pratiche per l’acquisizione dei diritti di pubblicazione dei testi, la casa editrice rimane a disposizione di quanti avessero a vantare ragioni in proposito. www.ilsaggiatore.com (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore Š il Saggiatore S.p.A., Milano 2012


Le sfide della felicitĂ urbana



Sommario

Introduzione Silvia Landra e Marzia Ravazzini

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Sofferenza urbana e «Public Happiness» Benedetto Saraceno

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Ecologie di felicità Virginio Colmegna

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La sofferenza sociale negli spazi urbani Arthur Kleinman

49

Popoli in movimento Giuliana Martirani

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L’area metropolitana di Atene, una «terra di nessuno» Stelios Stylianidis, Meni Koutsossimou, Athina Vakalopoulou

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Accesso alla giustizia Margherita Saraceno

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La smisurata dissolvenza dell’urbano Giorgio Ferraresi

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Roma. I migranti, i senza tetto e il diritto alla cittĂ Francesco Careri e Azzurra Muzzonigro

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I vuoti e i buchi della cittĂ Stefano Allovio

165

Bibliografia internazionale annotata Benedetto Saraceno

177

Note sugli autori

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Introduzione Silvia Landra e Marzia Ravazzini

Per il terzo anno consecutivo il Centro studi sofferenza urbana riflette e approfondisce temi di rilevanza internazionale, ponendo la sua attenzione alle città del mondo, fatte di individui e gruppi sociali, di sofferenze singole e di tragedie collettive, di luoghi aperti e quartieri chiusi e degradati. Souq 2012 rivolge l’attenzione al richiamo che la città opera su persone e gruppi vulnerabili, con uno sguardo che va oltre l’esperienza soggettiva e che si apre alla dimensione intersoggettiva della fragilità umana. Lungo questa traiettoria, sulla quale si posano implicitamente tutte le suggestioni teoriche di questo numero, maestro del discorso è l’antropologo medico Arthur Kleinman, di cui in questa sede pubblichiamo integralmente la lectio magistralis da lui tenuta a Milano il 13 dicembre 2011, in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano e l’Università degli Studi Milano Bicocca. Fulcro della conferenza è stato il concetto di sofferenza sociale che, negli ultimi anni, si è acutizzata negli spazi urbani; Kleinman ha mostrato le molte connessioni tra la dimensione soggettiva e la dimensione sociale e conflittuale


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della grande città, soprattutto per le fasce vulnerabili della popolazione. Le riflessioni teoriche messe in evidenza dall’autore sono una provocazione positiva per ogni cittadino. Di fronte a chi soffre per esclusione sociale, violenza strutturale, Hiv e Aids, devianza e marginalità, noi tutti dobbiamo essere non solo osservatori, ma anche soggetti attivi di una relazione di cura che ci obbliga a non considerare solo un’etica incentrata su validi principi non negoziabili ma espressi con un linguaggio tanto lontano dalla vita quotidiana delle persone. In un certo senso gli stimoli di Kleinman ci obbligano a ricercare il principio morale illuminante in ogni domanda di relazione. In questo numero le prospettive offerte da esperti autorevoli, in un’ottica interdisciplinare e di spessore internazionale, sembrano seguire due traiettorie precise, e descrivono il pensiero in egual misura ma da due angoli opposti: -- l’uomo nella sua città, come ricercatore di benessere; -- la città per l’uomo, luogo costruito e poi abitato e vissuto da più gruppi di persone. Da un lato un aspetto più introspettivo, talvolta sfuggente, quasi simbolico, e dall’altro uno più concreto e ben visibile, un chiaro oggetto di studio sociale. L’uomo nella sua città è un soggetto paradigmatico, che rispetto alle sue domande più forti, intime e private, cerca qualcosa e trova risposte disparate, spesso non esaurienti. Nel primo saggio pubblicato dalla rivista SouQuaderni, il Souq ha concentrato la sua riflessione sui soggetti vulnerabili che abitano le grandi città: non solo numeri che affollano slum


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e periferie, o zone abbandonate nelle pieghe di una città economicamente sempre in fermento, ma anche soggetti attivi, persone che si muovono e che possono far muovere dimensioni relazionali, sociali e politiche. Come approfondito nella più recente letteratura internazionale, a partire dalle riflessioni di Amartya Sen (2001), emerge che i vulnerabili sono soggetti multi identitari – anche nella loro dimensione di multiproblematicità e in quanto portatori di comorbilità – i quali devono essere messi nelle condizioni di poter sviluppare la libertà sostanziale, e quindi realizzare più combinazioni alternative di azione verso la soluzione dei loro problemi. Nella sua ricerca di non-alienazione, l’uomo nella città cerca di re-inventarsi in continue nuove identità. A tal proposito vari autori in questo volume alludono a molti percorsi che intendono mettere al centro la persona, chiave di volta di una città vivibile, perché la città non vive se non è luogo di relazioni di prossimità e di responsabilità civile. Lo sottolinea molto bene Margherita Saraceno, che nel suo articolo evidenzia come, anche in paesi sviluppati esistano «condizioni che rendono le persone particolarmente vulnerabili e che ostacolano in maniera rilevante il loro accesso alla giustizia. Essere povero, malato, donna, immigrato, irregolare (Fra, 2011b) e avere bisogno di un rimedio legale per risolvere un contenzioso – magari banale, come quello su un permesso di soggiorno, un contratto di lavoro o di affitto, un mutuo, l’affidamento dei figli, una piccola attività imprenditoriale – può rivelarsi proibitivo, specie in contesti complessi sotto il profilo informativo, come quelli urbani dove il tessuto sociale più eterogeneo e anonimo rende l’aiuto informale e solidaristico difficile e lontano».


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I soggetti si rendono cittadini per una convivenza alternativa proprio nella cornice urbana, attraverso una continua lotta per il riconoscimento dei propri diritti e per l’acquisizione di quello che, in maniera assolutamente progressista, Francesco Careri nel suo articolo scritto con Azzurra Muzzonigro chiama «diritto alla città». Nell’occupazione descritta dal progetto Metropoliz, all’interno di «micro-città», tante persone con diverse competenze seguono un lungo processo verso l’autotrasformazione fatto di crescita della consapevolezza politica e di valutazioni motivazionali e attitudinali, nel contesto di una scelta di vita comunitaria per cui le differenze culturali diventano patrimonio comune. Concentrandosi sulla dimensione dell’uomo nella città, devono essere prese in considerazione sia la dimensione locale, sia la dimensione globale del problema. Già Paul Farmer (1999; 2003) indica che non producono sofferenza solo le variabili culturali e simboliche del singolo, ma essa è il risultato di un processo sociale che limita la capacità di azione del singolo e dei gruppi più fragili. Secondo questa indicazione teorica si può leggere anche l’articolo di Stelios Stylianidis, che propone un’interessante ricerca sui «nuovi senzatetto» di Atene: poveri, persone che soffrono di dipendenze, immigrati, rifugiati, delinquenti, ex carcerati, sieropositivi. Nel recente studio, promosso personalmente dall’autore, sono state coinvolte 355 persone, di età compresa fra i diciotto e i sessanta anni, provenienti da Grecia, Albania, Pakistan, Romania, India, Iraq, Siria, Bangladesh, Ucraina, Egitto; grazie alla ricerca di Stylianidis si è mostrato e, contemporaneamente, narrato quanto lo spazio urbano amplifichi aspetti della sofferenza. Si conferma nuovamente quanto il fenomeno globale dell’inurbamento mondiale enfatizzi la riflessione sulle nuove forme del


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disagio metropolitano e necessariamente velocizzi i tempi di reazione al problema, in maniera a volte distruttiva (moltiplicando i proclami sterili e certe azioni politiche difensive e poco pensate) e altre volte costruttiva (politiche intelligenti che sanno portare a una reale trasformazione dei servizi). La città per l’uomo è la seconda traiettoria che si intravede tra le pagine dei diversi contributi di questo testo, quella che ci obbliga ad allargare l’orizzonte, ad alimentare confronti e analizzare connessioni, nel tempo e nello spazio. Giuliana Martirani è particolarmente brava nel suo articolo ad approfondire l’ampiezza del problema, e la relativa unicità nel mondo, al di là delle diverse culture e dei diversi periodi storici, mostrando particolare sensibilità per la tratta delle donne e il fenomeno migratorio dei rifugiati. La sua riflessione colpisce in modo particolare se letta proprio nell’anno del ventesimo anniversario del più grande campo per i rifugiati al mondo: quello di Dadaab, nel nordest del Kenya, i cui primi insediamenti furono allestiti nell’ottobre del 1991 dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) in seguito alla guerra civile in Somalia. All’epoca si prevedevano tre campi per un totale di 90 000 persone; oggi il complesso ospita oltre 463 000 rifugiati, tra i quali circa 10 000 di terza generazione, nati nel campo di Dadaab. Collocando questi dati nella nostra riflessione sulla sofferenza urbana, acquistano particolare significato e intensità emotiva le parole di Michel Agier (2009), per il quale «i campi profughi sono città», laddove ogni tipo di istituzione crea per questi indesiderabili una vita di finzione. Scrive infatti l’autore: «Gli indesiderabili vivono in una sorta di finzione del mondo esterno,


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a essi è concessa una vita “fisica” ma non è mai riconosciuta una esistenza sociale. Questo è ciò che io definisco “esilio interno”. Ciò descrive la strada lunga e piena di sofferenza, e spesso di pericoli, intrapresa da coloro che oscillano da una categoria istituzionale a un’altra – clandestini, esiliati, deportati internazionali, rifugiati o sans papiers – che vivono in quartieri poveri, in campi profughi, centri di detenzione, e che non sono in grado di raggiungere un luogo dove fermarsi né di trovare rifugio in una città o società ospitale».1 Vien facile assumere l’analisi di Agier e applicarla in senso contrario chiedendoci: si possono considerare le città come campi profughi, che agli indesiderabili – i nostri vulnerabili non voluti – fanno sperimentare un «esilio interno»? Possiamo trovarci attoniti e allarmati di fronte a un processo di urbanizzazione in crisi profonda, che conosce una distruzione fisica della città e del territorio, così come analizza Giorgio Ferraresi nel suo saggio. Tuttavia va ascoltato l’urlo della città, parafrasando l’autore, allo scopo di individuare, con onestà intellettuale, percorsi di resistenza e alternative. Proprio nella ricerca di un’alternativa, l’articolo di Stefano Allovio aiuta a comprendere quanto i «vuoti urbani», che l’autore intende prossimi al concetto di rifugio e di asilo, siano stati ampiamente cercati nella storia e nelle diverse culture e ancora oggi vengano ricercati dagli uomini nelle città. Una sfida per chi vuole trovare un’opportunità di benessere, di rifugio appunto nell’ambiente urbano che, osservando in modo particolare le periferie del Sud del mondo, possa recuperare la dimensione di partecipazione collettiva e, allo stesso tempo, la necessaria dimensione di intimità e comprensione di se stesso.


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In conclusione, il terzo annuario del Souq raccoglie contraddizioni del pensiero attuale, pratiche nel mondo e riflessioni internazionali, allargando lo sguardo interdisciplinare per non limitarsi a descrivere. Lo fa con una direzione nuova espressa da don Virginio Colmegna, che riflette sulle ecologie della felicità, e da Benedetto Saraceno, il quale si domanda qual è la felicità urbana che è possibile immaginare. Dopo anni di intensa riflessione sulla sofferenza urbana, sono proprio i promotori del Centro studi sofferenza urbana (Souq), nell’ambito del gruppo di riflessione, a domandarsi con forza se non sia giunto il tempo di osare un confronto autentico sulla felicità, parola talvolta impronunciabile, talmente forte e profonda da risultare all’opposto melensa se non accompagnata da una precisa esplicitazione delle intenzioni. Tanta insistenza su un male da superare, interiore e collettivo insieme, deve necessariamente corrispondere a un’intenzione caparbia di occuparsi di un bene inestimabile che riguarda tutti e che non può essere garantito ai singoli e ai gruppi solo assicurando buona salute e buona assistenza sociale. Si tratta di un bene che chiama in causa l’etica delle intenzioni e dei comportamenti, molto di quel «morale» sul quale insiste Kleinman, ma anche un riconoscimento dei dati antropologici più salienti che attengono all’umano e che oggi appaiono più sbiaditi (il senso di giustizia, il bisogno di partecipazione alla cosa pubblica, la socialità e il dono reciproco di beni…) così come una focalizzazione sui percorsi spirituali e di ricerca di senso. Con incisività si intende esplorare il tema dello stare bene, restituendo dignità alla sua dimensione complessa, privata e pubblica, e all’inscindibile legame morale e politico tra felicità individuale e felicità collettiva.


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NOTA 1

Michel Agier, «The Undesirables of the World and How Universality

Changed Camp», in opendemocracy.net, 16 maggio 2011.

BIBLIOGRAFIA

Agier Michel (2009). Esquisses d’une anthropologie de la ville. Lieux, situations, mouvements, Academia-Bruylant, Louvain-la-Neuve; — (16 maggio 2011). «The Undesiderables of the World and How Universality Changed Camp», in www.opendemocracy.net. Appadurai Arjun (1996). Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione, Raffaello Cortina, Milano 2012; — (2004). «The Capacity to Aspire: Culture and the Terms of Recognition», in V. Rao, M. Walton (a cura di), Culture and Public Action, Stanford University Press, Stanford (trad. it. in Appadurai A., Le aspirazioni nutrono la democrazia, et al. Edizioni, Milano 2011). European Union Agency for Fundamental Rights – Fra (2011b). «Fundamental rights of migrants in an irregular situation in the European Union». Farmer Paul (1999). Infections and Inequalities. The Modern Plagues, University of California Press, Berkeley. — (2003). Pathologies of Power. Health, Human Rights, and the New War on the Poor, University of California Press, Berkeley. Kleinman Arthur (1978 a). «Alcuni concetti e un modello per la comparazione dei sistemi medici intesi come sistemi culturali», in Quaranta Ivo (a cura di), Antropologia medica, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006;


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Kleinman A., Das V., Lock M. (1997). Social Suffering, University of California Press, Berkeley. Sen Amartya (2001). Lo sviluppo è libertà. Perché non c’è crescita senza democrazia, Mondadori, Milano. Véron Jacques (2008). L’urbanizzazione del mondo, il Mulino, Bologna. www.unhcr.it (24 febbraio 2012).



Sofferenza urbana e «Public Happiness» Riprendere il cammino verso la felicità Benedetto Saraceno

Dopo due anni di lavoro, di incontri, scambi e iniziative nazionali e internazionali restiamo convinti che la nostra scelta iniziale di caratterizzare il Centro studi sofferenza urbana (Souq) e la rivista online attraverso il sostantivo «sofferenza» e l’aggettivo «urbana», fu una scelta che aveva senso due anni fa e continua ad averne oggi. La nozione di sofferenza va ovviamente ben oltre quella di malattia (non vogliamo che Souq sia luogo di riflessione centrato esclusivamente sui problemi della cosiddetta Urban Health) poiché molti sono gli individui e i gruppi che nella città sono sofferenti (anche molto sofferenti) senza tuttavia essere «malati». Anche se, e ne va dato atto all’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’attuale nozione di Urban Health è molto più vasta e complessa di quella tradizionalmente impiegata dalla medicina e a prova di ciò si vedano i due bellissimi e recenti rapporti dell’Oms sui Determinanti sociali della salute e sulle Health Inequities nei contesti urbani (Who, 2008; 2010). Tuttavia, molte altre condizioni di vulnerabilità psicologica e


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sociale si esprimono attraverso forme di sofferenza individuale e collettiva che non sono definibili come malattie e non sono «catturate» dal paradigma medico o psicomedico (anche se le culture psy spesso fanno di tutto per catturarle e inglobarle nel discorso disciplinare della psicologia e della psicopatologia). Dunque sofferenza come termine antitetico all’inflazionato linguaggio del benessere, del well being, allo star bene e alle felicità possibili e impossibili, mercificate o non. Il termine sofferenza non è astratto come il termine malattia; la sofferenza descrive l’esperienza soggettiva e non semeiotica dello stare male; essa implica un danno non soltanto fisico o psicologico ma che investe anche il campo delle relazioni sociali, del proprio valore sociale, delle difficoltà di accesso ai beni e alle opportunità, del grado di pienezza dell’esercizio dei diritti. In una parola, la sofferenza descrive una condizione che ha a che fare con il malessere generato da un vulnus che colpisce il corpo, gli affetti, le emozioni, le relazioni personali, il ruolo sociale, l’autostima, il valore sociale, la progettualità e la speranza, tutte dimensioni impoverite e rese precarie. Dunque pur restando una esperienza soggettiva, la sofferenza è anche intersoggettiva (si pensi alla sofferenza dei nuclei famigliari nelle condizioni di povertà, vulnerabilità, insalubrità ambientale) e collettiva (basta pensare ai quartieri degradati delle periferie urbane, alle bande giovanili o alle aggregazioni disperate di immigrati sistematicamente esclusi da ogni accesso alle opportunità della città). Tale sofferenza è anche quella generata dalla profonda infelicità degli adolescenti scolarizzati ma assai demotivati, quella dei giovani diplomati e laureati sistematicamente precarizzati e


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s-progettualizzati; quella degli anziani soli che, con pensioni misere, conducono vite impoverite; quella delle vite difficilissime, pericolose e solitarie delle giovani madri sole. In altre parole, la sofferenza urbana non è prerogativa esclusiva degli ultimi ma anche e sempre più dei penultimi e di quelli prima dei penultimi: la vulnerabilità non è soltanto economica, ma sempre più spesso sociale e psicologica. L’aggettivo urbana riferito alla sofferenza colloca quest’ultima in un contesto simbolico e concreto, abitativo, sociale, visibile. Un qui e un adesso subito comprensibili: la mia sofferenza ma anche la tua e dunque la nostra sofferenza qui, ora dove stiamo e quindi dove siamo. Come dice Ota De Leonardis: «L’esperienza soggettiva della sofferenza ha statuto politico, non morale o psicologico» (testo non pubblicato, 2011). Dunque «sofferenza urbana» descrive la dinamica fra soggetti e collettivi, fra esperienze affettive ed emotive ed esperienze sociali, fra storie private e storie della città, fra individualità e politica e, infine, fra il «mestiere di vivere» quotidiano e contingente e il progetto di vita di ciascuno e dei ciascuni. Tale complessità e densità del senso della nozione di sofferenza urbana ovviamente obbliga Souq ad allargare il proprio campo di riflessione e di indagine: abbiamo posto enfasi nei primi due anni sui soggetti più vulnerabili, sugli «ultimi» e su coloro più visibilmente stigmatizzati anche per motivi legati al fondamentale vincolo fra Souq e la Casa della carità di Milano, con il suo storico impegno di accoglienza appunto dei disagiati, espulsi dalla città e dalle sue reti di servizi. Oggi tuttavia siamo consapevoli che lavorare sulla sofferenza


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urbana implica un allargamento ad altri soggetti costantemente al margine dei diritti e dell’accesso ai servizi, alle opportunità, ai beni e agli scambi, alla speranza di «esserci per il futuro». I giovani disoccupati o precari, i vecchi soli, le donne madri single sono solo alcuni di questi soggetti. Aumenta la distanza fra detentori dei codici di accesso (codici numerici per entrare nelle case, per usare le carte di credito, per utilizzare telefoni e computer, per carte sanitarie, per acquisto di farmaci ecc.) e coloro che, non detenendo codici, o sono semplicemente esclusi oppure forzano l’accesso attraverso gesti illegali. Nella città globalizzata si colgono tutte le contraddizioni e le mistificazioni della nozione di globalizzazione. Come bene dice Marc Augé, la globalizzazione altro non è che la «proclamazione di uno spazio planetario aperto alla libera circolazione delle merci, delle persone e delle idee in uno spazio continuo», ma in realtà si tratta «di un mondo discontinuo, nel quale proliferano i divieti di ogni genere» (Augé, 2009). Se da un lato si moltiplicano le barriere nella città e nella città globale, dall’altro si riduce la possibilità di progettare il futuro e, contemporaneamente, i soggetti sono espropriati dalla possibilità di fare e trasmettere «esperienza», poiché «la giornata dell’uomo contemporaneo non contiene quasi più nulla che sia ancora traducibile in esperienza […] l’esperienza ha il suo correlato non nella conoscenza, ma nell’autorità, cioè nella parola e nel racconto, e oggi nessuno sembra più disporre di autorità sufficiente a garantire un’esperienza e se ne dispone, non è nemmeno sfiorato dall’idea di allegare in un’esperienza il fondamento della propria autorità» (Agamben, 1978). Le guerre urbane di cui parla Arjun Appadurai – come ve-


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dremo nelle pagine successive – e di cui abbiamo sentito a Londra e, prima, a Parigi fondano parte della loro psicologia collettiva su questa espropriazione dell’esperienza, sul bisogno di costruire un «senso» attraverso lo «straordinario» in assenza di un senso del quotidiano mentre, nel passato, «il quotidiano e non lo straordinario costituiva la materia prima dell’esperienza che ogni generazione trasmetteva alla successiva» (Agamben, 1978). Tutto ciò implica anche un allargamento disciplinare, dagli «sguardi» tradizionalmente utilizzati dal Souq – ossia le discipline sociali e psicologiche – verso «sguardi» più ampi come quello dell’economia e delle tematiche del lavoro, quello del diritto e dei diritti, quello dell’urbanistica e dell’ecologia urbana. È indispensabile allargare lo sguardo disciplinare ad altri soggetti, senza limitarsi a descrivere, a documentare, ad analizzare la sofferenza urbana, ma incominciare a capire, a denominare e analizzare il suo contrario, ossia: qual è la felicità urbana che immaginiamo, che è possibile immaginare? Siamo capaci oltre che di denunciare la sofferenza di progettare e dunque di «lavorare per» la felicità dei soggetti (e in primis la nostra) e dei collettivi? La questione del benessere va sottratta alla mercificazione e banalizzazione del well being e restituita alla sua dimensione complessa privata e pubblica e all’inscindibile legame morale e politico tra felicità individuale e felicità collettiva. La nozione di welfare si riferisce a un bene pubblico, ma la sua assenza o presenza, o la sua cattiva o buona qualità hanno a che fare con un benessere pubblico e privato. Il binomio pubblico/privato si inscrive nella dinamica


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locale/globale e costringe a una riflessione su una questione cruciale, densa e piena di insidie: la relazione fra interesse locale e interesse generale, ossia la relazione fra istanze e identità vicine, locali, e quelle vaste e globali. Paradossalmente si potrebbe dire che il binomio individuo/collettività si articola con il binomio pubblico/privato, che si declina anche nel binomio interesse locale/interesse globale. Percepiamo tutta la retorica identitaria (e sempre più xenofoba e violenta) insita nella santificazione del locale e del vicino (i dialetti, i costumi, i colori della pelle, le religioni, le «razze» in contrapposizione all’odiato tricolore, alla falsa unità nazionale, a Roma ladrona, a Bruxelles lontana, agli scuri di pelle, ai non cristiani) ma, e qui sta l’insidia, riconosciamo anche la poca trasparenza dell’interesse globale, la mistificazione dell’idea di nazione, di Europa, di mondo con il corteo inevitabile di democrazie sempre più indirette, di non controllo sulle risorse, di confusione fra Europa politica e Europa delle banche, di manipolazioni dell’idea di «Nazioni Unite per la pace» e quella di coalizioni delle Nazioni Unite per le guerre. Ossia se small trasmette anche il senso di un isolamento paranoico, indubbiamente «small is beautiful», ossia nel «vicino e locale» non c’è solo la fobia verso l’altro, il diverso e lo straniero ma c’è anche la democrazia partecipativa, il controllo delle risorse, la trasparenza della rappresentanza locale. E molto probabilmente la riconquista della coscienza di essere cittadini con in mano un pezzettino del proprio destino politico riparte (e le recenti elezioni lo hanno ben mostrato) anche da un fare politica locale e vicino. Arjun Appadurai afferma che «produrre località (intesa come struttura di sentimento, proprietà della vita sociale


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e ideologia della comunità situata) è un compito sempre più arduo» a causa dei «tentativi sempre più frequenti da parte del moderno stato nazionale di definire tutti i vicinati secondo le sue definizioni di fedeltà e affiliazione» e della «crescente disgiuntura tra territorio, soggettività e movimenti sociali collettivi» (Appadurai, 2001). Questa tensione fra locale e globale spiega perché le zone urbane «stanno diventando campi armati, controllati da forze implosive […] la generale desolazione del panorama nazionale e globale ha trasformato molte inimicizie razziali, religiose e linguistiche in uno scenario di continuo terrore urbano» (Appadurai, 2001). I gruppi rafforzano le loro identità antiche o ne forgiano di nuove e artificiali, e cercano lo scontro come costruzione di un proprio senso. Ecco dunque che la sofferenza urbana ci pare un paradigma sufficientemente coerente ma al tempo stesso complesso da poter essere utilizzato come bussola per navigare, per illuminare e denunciare «il deficit di capitale sociale e di qualità relazionale prodotto da politiche assistenzialistiche che non alimentano le risorse di soggetti e da politiche liberiste che abbandonano ciascuno alla propria solitudine» (Souq-Copersam, 2011). Occuparsi di sofferenza urbana significa ricomporre la frattura fra mondo sano e mondo malato (frattura artificiale e attribuibile di volta in volta alle diverse discipline descrittivo-denominative quali la psicologia, la psichiatria, la sociologia ecc.). Tale frattura non solo frammenta l’essere umano che ne è vittima ma anche tutte le dimensioni in cui il cittadino esiste: frattura tra mondo della cura (i pazienti) e mondo dell’assistenza (gli assistiti) e mondo del lavoro (i lavoratori) che genera esclusione della malattia dall’assistenza ed esclu-


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sione dell’assistenza dal mondo del lavoro. Venti anni fa scriveva con lucidità straordinaria Franco Rotelli: «Partiamo dalla più grave contraddizione: la frattura radicale istituita nelle società avanzate tra mondo del lavoro e mondo dell’assistenza; la questione che poniamo è quella dell’immenso spreco di risorse economiche e umane che ciò comporta; ciò che va reinterrogato è il concetto di normalità produttiva che muta nel tempo ma definisce di volta in volta il confine tra i due mondi; ciò che ci scandalizza è la distruzione di risorse fosse anche residuali degli assistiti (handicappati, anziani, folli, disoccupati, marginali ecc.). Diviene evidente l’immensità del compito di invertire la tendenza. L’immensità del compito di riaffiliazione, di rovesciamento della cultura delle agenzie di assistenza e delle migliaia di operatori che vi si addensano, dei modi d’uso di risorse enormi destinate a invalidare e a proteggere l’invalidazione invece che a valorizzare, ad attivare, ad animare, a intraprendere, a fare». (Rotelli, 1991). Si tratta, ancora una volta, di deistituzionalizzazione: non più del luogo della segregazione psichiatrica e della sua arma disciplinare (la psichiatria, «nei secoli fedele» come l’arma dei carabinieri) ma della città. Se deistituzionalizzare il manicomio e la psichiatria significava (e dovrebbe significare ancora per quanti non hanno girato pagina e si occupano delle nuove edizioni del Dsm!) mobilizzare risorse umane negate dalle regole mortifere dell’istituzione psichiatrica, ri-costruire senso e ri-storificare soggetti espropriati da ogni possibile produzione di senso e di partecipazione alla storia (propria e del mondo), ebbene deistituzionalizzare la città significa affermare la cittadinanza negata, costruire esperienze di coesione sociale e contemporaneamente allargare le libertà. In alternativa alla cittadinanza negata, alle solitudini «indotte


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da politiche abitative e urbanistiche dissennate e dalla mercificazione di ogni gesto della vita quotidiana che, sempre caricato di un costo, allontana gli uni dagli altri» (Souq-Copersam, 2011), si costruiscono anche quelle esperienze di deep democracy (democrazia in profondità) secondo la felice definizione di Appadurai. In alternativa alla tensione mortifera fra locale identitario/paranoico e globale anonimo/mercificato sono possibili esperienze che coniugano globale e locale come strumenti che interagiscono alla costruzione di forme di empowerment di cittadini senza più città, alla costruzione di quello che Appadurai (nel descrivere una esperienza di movimenti di attivismo urbano a Mumbai) definisce «governmentality from below» (capacità di governo dal basso). Movimenti di indipendenza economica di donne sole, esperienze di microcredito, movimenti di rivendicazione della casa, gruppi di giovani che sperimentano forme di aggregazione e costruzione di culture alternative ma anche servizi pubblici del welfare capaci di affrancarsi dalle logiche assistenzialistiche e servizi privati liberati da tentazioni affaristiche o caritative possono insieme costituire la poderosa «armada» contro la sofferenza urbana. Si tratta di studiare la complessità dei meccanismi attraverso cui ciascuno di questi potenziali partner opera, le rispettive regole amministrative, le rispettive culture tecniche utilizzate, i rischi di impresa inerenti a ciascuno, le potenzialità di apertura caratteristiche di ognuno; si tratta non solo di studiare ma di mettere in rete conoscenze, esperienze, ibridazioni disciplinari e operative. L’analisi della sofferenza urbana è l’oggetto del Centro studi sofferenza urbana (Souq), e della sua rivista SouQuaderni: si tratta di analizzare e comprendere la complessa dinamica dell’in-


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contro fra la sofferenza dei soggetti e la fabbrica sociale che essi abitano. La descrizione, la comprensione e la trasformazione delle dinamiche psicologiche e sociali che si instaurano a partire dall’incontro fra le storie dei singoli e le istituzioni, ossia fra soggetti e contesti, troppo spesso occulta uno dei due elementi della diade sofferenza/città. La categoria della sofferenza urbana ci consente di ricercare, di conoscere e di trasformare l’intersezione fra soggetti e contesti con l’ambizione morale e politica di costruire cittadinanza ossia comunità di cittadini. Esclusione sociale, emarginazione, povertà assoluta e relativa, disoccupazione, discriminazione, immigrazione costituiscono assi diversi e spesso intersecati della vulnerabilità psicosociale di tante minoranze che riunite rappresentano la maggioranza dei cittadini delle grandi città del mondo: una nazione trasversale alle nazioni ufficiali accomunata da un vulnus che diminuisce e inabilita le forme sociali e psicologiche della piena cittadinanza e della possibile aspirazione alla felicità delle donne, degli uomini, degli adolescenti, dei vecchi. In verità, assistiamo a un impoverimento del pensiero strategico in molti campi della conoscenza: economico, sociale, politico. Al pensiero economico marxista e keynesiano si sono venute sostituendo forme impoverite di pensiero neoliberale caratterizzato fondamentalmente da una massiccia espansione non tanto di un «pensiero» bensì di una «cultura di management». Al pensiero economico-politico si sono venute sostituendo delle prassi finanziarie e manageriali, come bene testimonia l’involuzione del ruolo delle élite intellettuali che hanno cessato di elaborare pensiero e formare classe dirigente per produrre manager o consenso.


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Il pensiero politico è stato sostituito dal teatro della politica e pensare una società più giusta o più buona sembra essere rimasto patrimonio di visionari, infanti e potenziali terroristi. Il pensiero della speranza o dell’utopia non appartiene più alla politica. A svolgere funzione «ancillare» a questi fenomeni di impoverimento intellettuale e morale sono bene servite due discipline che hanno teorizzato e sviluppato in forme esasperate competenze puramente descrittive (anche se sempre più raffinate): la psicologia e la sociologia. Come pittori iper-realisti, psicologi e sociologi descrivono con straordinarie capacità evocative e suggestive «parole» che definiscono e classificano l’esistente implicitamente assunto come immutabile. È interessante osservare che il manuale diagnostico americano (bibbia universale del disagio psichico) è passato dal classificare quaranta malattie mentali negli anni cinquanta a duecento negli anni novanta. Ovviamente non sono aumentate in natura le malattie ma le entità astratte che sono i descrittori. La sociologia ogni giorno definisce e classifica un pezzo della «social fabric» contribuendo all’illusione che l’aumento delle facoltà di denominazione dei fenomeni corrisponda a un aumento della loro comprensione e non, come invece pare più probabile, alla scarsa comprensione dei medesimi. L’entusiasmo scarsamente critico per il pensiero «consensuale» di Bauman costituisce un buon esempio. Un esito a cascata di questi processi (dal pensiero economico alla cultura di management; dallo sforzo di comprensione dei fenomeni psicosociali all’ipertrofia della descrizione e denominazione dei medesimi) è quello del divorzio fra processi intellettuali conoscitivi e processi etici trasformativi; in altre parole,


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l’assenza di pensiero conoscitivo (sostituito da pensiero descrittivo) implica la perdita di ogni utopia (denominazione laica della cristiana speranza) del cambiamento dell’esistente allo scopo di renderlo (con Aristotele) più buono, più bello e più vero. Si assiste a una tragica caduta della tensione al cambiamento e dunque a una perdita della dimensione etica come elemento costitutivo dei processi di conoscenza. Ci sembra che cresca il bisogno di laboratori di pensiero economico, politico, sociale che sfidino la povertà del pensiero manageriale e descrittivo. Questo implica però che i laboratori di pensiero si costruiscano a partire dal superamento delle discipline «descrittive» (o declinate in forme descrittive) allo scopo di favorire l’incontro, incrocio e l’ibridazione fra discipline che ambiscono al conoscere trasformando e al trasformare conoscendo. La filosofia del diritto, le scienze antropologiche, l’etica devono fertilizzare il pensiero economico-politico rompendo l’assioma secondo cui pensare al pane è incompatibile col pensiero della primavera (parafrasando Majakovskij), che fare società giuste non consente di farle perfettamente libere, che chi conduce il treno non ha tempo per cantare e chi canta non può condurre il treno. Dunque cresce il bisogno di luoghi di formazione «alta», che creino «classe di governo» capace di un pensiero economicopolitico etico, utopico e trasformativo. Sembra anche indispensabile che tale esercizio di formazione sia anche l’occasione di incontro fra il pensiero europeo e il pensiero che si costruisce nei paesi che oggi sperimentano grandi processi di transizione


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economica e politica inventando nuove forme di democrazia (alcuni paesi del BRIC, quali Brasile, India, Sudafrica e con le dovute cautele anche la Cina). Dunque, un laboratorio di riflessione e azione sociale, economica e politica che produca pensiero sociale, economico e politico innovativo, caratterizzato da radicali orientamenti etici, capace di leggere i processi di sviluppo sociale ed economico anche in una prospettiva antropologica, morale, giuridica. E cresce il bisogno di rovesciare la riflessione: dalla sofferenza alla felicità, al welfare collettivo. «There is no duty we so much underrated as the duty of being happy» scrive Robert Louis Stevenson nel 1881 (Stevenson, 1881) ossia fra tutti i doveri, quello di essere felici è il più sottovalutato. Dunque essere felici è un dovere davanti al quale ci troviamo impreparati e disabituati. Questo dovere di promuovere l’utilità ossia il massimo vantaggio e il minimo svantaggio assume dimensione sociale e collettiva a partire dal pensiero di Jeremy Bentham e John Stuart Mill e dalla stagione fertilissima del pensiero filosofico-politico della Westminster Review che a partire dal 1823, fino al 1914, raccolse il meglio del dibattito filosofico, sociale, politico del liberalismo filantropico inglese, anche ispirato da Cesare Beccaria. L’utile comune, ossia la massima felicità per il maggior numero di individui, rappresenta il fondamento della felicità come esperienza collettiva. Il tempo presente ci mostra come documentare, descrivere, analizzare la sofferenza sia più facile e naturale che fare lo stesso avendo come oggetto la felicità. Lo «stato» della nazione globale, qualunque accezione si vo-


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glia dare al termine «nazione», è quello della sofferenza: basti pensare alle scoraggianti conclusione delle Nazioni Unite quando, nel 2010, hanno valutato l’evoluzione del processo di raggiungimento degli «obiettivi di sviluppo del millennio» (Millennium Development Goals),1 stabiliti nell’anno 2000 con la meta del 2015. Il mondo si racconta come luogo di sofferenza, le grandi istituzioni internazionali documentano sofferenza, i media indulgono nel mostrare sofferenza. Nazioni, comunità, famiglie e individui raccontano sofferenze, mostrano e sperimentano sofferenze, sono sofferenti. Non è sorprendente dunque che si siano affinati gli strumenti per analizzare e documentare la sofferenza (pensiamo alla produzione continua da parte dell’Oms e di altre agenzie specializzate dell’Onu di «rapporti» sullo stato del mondo: salute, ambiente, educazione, diritti ecc.). È come se, in assenza di buone notizie, ci si fosse tutti specializzati nel raccontare quelle cattive: «Dio è morto, Marx è morto, e io mi sento poco bene» ha detto Woody Allen e non si può negare che l’affinamento delle metodologie che documentano la sofferenza non rispecchia altro che una necessità generata dalla realtà. La disabitudine a documentare la felicità implica la progressiva perdita di acuità e finezza degli strumenti per documentarla. Non documentarla implica dichiararla inesistente e impossibile. Dichiararne l’impossibilità significa consegnare la nozione di felicità alle agenzie di turismo o ai centri di benessere fisico. Il ritegno a riflettere e discutere se da un lato riflette un pessimismo legittimato dalla realtà dall’altro occulta, indebo-


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lisce e annulla la legittimità della speranza o dell’utopia (equivalente laico della virtù teologale). L’iperrealismo pragmatico autorizza solamente il discorso intorno al reale visibile del presente: la felicità è relegata nell’ordine del psicologico-privato o in quello, ancora privato, dell’esperienza religiosa della grazia. Ma un discorso sulla felicità come dimensione metaindividuale ci permetterebbe di ritrovare strumenti per esplorare possibili processi di decostruzione dell’ordine presente e di costruzione di ordini possibili. Che il vero, il buono e il bello non siano a portata della nostra vista non solo non significa che non esistano ma soprattutto non significa che non possiamo e dobbiamo perseguirli. E così è per la felicità come dimensione pubblica e condivisa: «Whatever is publicly useful, is to be done. The common good of all being collected into one total» (Leibniz, 1680).2 Come si vede la nozione di «public happiness» è vecchia e la troviamo non solo in Leibniz ma in seguito in Ludovico Antonio Muratori che nel 1749 pubblica l’opera intitolata Della pubblica felicità (Muratori, 1749). Il perseguimento della «public happiness» si fonda sulla speranza o sull’utopia della sua raggiungibilità. La speranza biblica e cristiana non significa un sogno puerile di un mondo migliore, al di là da venire. La speranza cristiana non è generata da un processo di proiezione del desiderio del bene ma è radicata nell’oggi di Dio presente. Il «principio speranza» di cui ragiona Ernst Bloch si riferisce, non solo all’«esame costante che media la struttura del cammino con lo scopo finale ma, con maggiore urgenza, nelle implicazioni dello scopo lontano in ogni scopo prossimo affinché anche


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questo possa essere uno scopo» (Bloch, 1971). La relazione dinamica fra qui e oggi e là (al di là) domani è centrale per cogliere le radicali implicazioni per la ricerca della felicità pubblica come parte fondamentale dell’esercizio della speranza. La Bibbia definisce le caratteristiche del Dio dell’alleanza con due parole ebraiche: hesed ed emet generalmente tradotte con «amore» e «fedeltà»; dunque, Dio è amore, bontà e benevolenza senza limiti e, in secondo luogo, Dio «fedele» non abbandonerà mai quelli che ha chiamato a entrare nella sua comunione. Si legge nella 3a Lettera della Comunità di Taizé del 2003: «Se Dio è buono e non cambia mai il suo atteggiamento né ci abbandona mai, allora, qualunque siano le difficoltà – se il mondo così come lo vediamo è talmente lontano dalla giustizia, dalla pace, dalla solidarietà e dalla compassione – per i credenti non è una situazione definitiva Ecco la sorgente della speranza biblica» (Lettera di Taizé, 2003). La «promessa» per i cristiani è il ponte fra quioggi e là-domani, è la risposta alla domanda «Chi ce lo fa fare» di Virginio Colmegna (Colmegna, 2011). Questa promessa guarda verso l’avvenire, ma si radica nella relazione con Dio che parla qui e ora, che chiama a fare delle scelte concrete nella vita dei cristiani. Ancora dalla 3a Lettera di Taizé del 2003: «Per entrare nella promessa di Dio, Abramo è chiamato a fare della sua vita un pellegrinaggio, a vivere un nuovo inizio: «Vattene dal tuo paese e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò» (Genesi 12,1). Ma la dinamica della speranza come strumento per rispondere alla domanda dell’«a che scopo» di Ernst Bloch è centrale anche in Marx che nel 1843 scrive a Ruge: «Apparirà allora che il mondo possiede da lunghissimo tempo il sogno di una cosa,


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di cui esso deve solo possedere la coscienza per possederla veramente» (Marx, 1843). Si tratta del sogno di un luogo che non esiste ma di cui è necessario avere coscienza per potere camminarvi verso. L’eguaglianza economica-giuridica di tutti i cittadini abita nel non luogo di Utopia ma agisce come forza propulsiva della storia reale degli uomini. L’iperrealismo pragmatico ci chiede in fondo di essere ragionevoli, di pensare solo a quanto è possibile altrimenti eludiamo i sani limiti della realtà, ci chiede di non autorizzarci a un pensiero utopico come propulsore delle nostre scelte. La minaccia del pensiero utopico per l’ordine costituito l’aveva bene intuita Jean Jacques Rousseau quando nell’introduzione dell’Emilio scrive: «Proposez ce qui est faisable, ne cesset-on de me répéter. C’est comme si l’on me disait: Proposez de faire ce qu’on fait; ou du moins proposez quelque bien qui s’allie avec le mal existant» (Rousseau,1762).3 Riprendersi in forme articolate, sociali e politiche la nozione di felicità pubblica come obiettivo che fonda le nostre road map, questo oggi appare più chiaro che mai e non a caso sempre più troviamo il riferimento alla felicità financo negli scritti degli economisti. La visione classica secondo cui la «utility» (il vantaggio, il bene) fosse esclusivamente funzione dell’income (ossia del denaro che ciascuno riesce a conseguire) è messa in discussione da alcuni economisti che hanno coniato l’espressione «Economics of happiness» per significare un approccio che amplia lo spettro delle variabili e delle misure che definiscono il well being degli individui considerando che un’enfasi esclusiva sull’income tralascia elementi fondamentali che compongono il well being individuale e il welfare colllettivo.


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La «Economics of happiness» ovviamente non esclude dal modello le misure dell’income ma lo rende più complesso con misure che considerano variabili quali lo stato di salute, le relazioni famigliari, la soddisfazione e la stabilità lavorativa e, infine, la fiducia nelle istituzioni pubbliche. L’economista Richard Easterlin agli inizi degli anni settanta osservò che all’interno di una nazione i più ricchi mediamente si dichiarano più felici di quanto facciano i più poveri ma comparando diverse nazioni fra loro non si osserva una correlazione significativa fra aumento del reddito pro capite e livelli di felicità (Easterlin, 1971). Ossia, la felicità cresce con l’income fino a un certo punto ma oltre quel punto i fattori che influiscono sulla felicità degli individui hanno a che fare con variabili diverse dall’income economico. Certamente condizioni di povertà estrema e di deprivazione sono determinanti decisivi dell’infelicità degli individui ma appena i bisogni primari sono soddisfatti, il valore predittivo sulla felicità dell’income economico perde progressivamente peso lasciando spazio ad altri fattori. E non si tratta soltanto di fattori relativi alle biografie degli individui quali lo stato di salute o la sicurezza e stabilità lavorativa ma attengono anche alla percezione che gli individui hanno dell’affidabilità delle istituzioni pubbliche, della libertà in cui essi vivono e del grado di democrazia del loro paese. Se per Easterlin la felicità non dipende dall’income assoluto ma da quello relativo che è correlato ad altre variabili, altri economisti oggi esplorano l’impatto di politiche sociali e di processi di empowerment sul benessere degli individui (Dixon, 1997). Per esempio Ott (Ott, 2010) ha analizzato l’impatto sulla felicità degli individui della qualità della governance nel loro paese: la comparazione fra 127


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nazioni mostra forti correlazioni fra qualità della governance e felicità media dei cittadini. La qualità tecnica della governance sembra essere il fattore di maggiore importanza per la felicità dei cittadini sia nei paesi occidentali sia in quelli asiatici e latinoamericani. La qualità tecnica della governance sembra pesare più della qualità della democrazia che diviene un fattore decisivo solo quando la qualità tecnica della governance abbia raggiunto un livello minimo di accettabilità. In uno studio su di un campione di cento nazioni Gropper e colleghi (Gropper et al., 2011) stabiliscono una chiara correlazione fra livelli di felicità di singoli paesi e il prodotto nazionale lordo del paese in esame e anche il suo grado di libertà economica. È infine interessante il caso di un intero paese che ha ufficialmente deciso di introdurre misure di felicità fra i descrittori economici annuali: si tratta del Buthan. La nozione di gross national happiness (felicità nazionale lorda) è un indicatore che cerca di misurare in modo olistico il progresso sociale e la qualità della vita di una nazione aggiungendosi così alla tradizionale misura del prodotto nazionale lordo (Gross National Product) usualmente impiegata dagli economisti per misurare il valore di mercato di tutti i prodotti e i servizi realizzati in un anno da una nazione. Tale nozione (Ura e Galay, 2004) fu introdotta dal re del Buthan e successivamente utilizzata per formulare il piano quinquennale del Buthan avendo come obiettivo non soltanto la produzione di beni ma anche quella di felicità sociale. I quattro assi della gross national happiness sono: la promozione dello sviluppo sostenibile, la conservazione dei valori culturali locali, la conservazione dell’ambiente naturale, il buon governo (good governance). Gli elementi che


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contribuiscono alla misura della gross national happiness sono molteplici e sono un misto di indicatori quantitativi (la mortalità infantile, per esempio) e qualitativi quali il sentimento di soddisfazione o di benessere dei cittadini. Nel 2006 l’International Institute of Management degli Usa propose una misura più complessa della gross national happiness come un indice, funzione della media totale pro capite delle seguenti misure: a) Economic Wellness; b) Environmental Wellness; c) Physical Wellness; d) Mental Wellness; e) Workplace Wellness; f) Social Wellness; g) Political Wellness. Attualmente esiste un piano di sviluppo 2013-2018 per il Buthan basato sulla nozione di gross national happiness. Della felicità dobbiamo rimetterci a parlare allo scopo di ritrovare dentro ognuno di noi e fra di noi le idee, le emozioni e le parole che definiscano i percorsi collettivi da intraprendere in direzione del «sogno di una cosa». Pier Paolo Pasolini il 26 gennaio del 1962 scrive a Franco Fortini (Pasolini, 1976) per chiedergli la referenza bibliografica della lettera di Marx a Ruge. La frase di Marx cui Pasolini si riferisce darà il titolo a un suo romanzo, appunto Il sogno di una cosa, e allude non tanto all’utopia in sé quanto al cammino verso l’utopia della pubblica felicità. E questo ci indica che accanto alla nostra riflessione sulla sofferenza urbana è tempo di chiedersi in che cosa consista il suo contrario – la felicità urbana – così da affiancare alla nostra abilità di documentare la sofferenza che la città impone ai suoi abitanti anche la capacità di riprendere il cammino verso la felicità urbana, un cammino fatto insieme. Questa è la nostra sfida, la sfida del piccolo centro Souq e della


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sua rivista: una sfida che ha bisogno di molteplici discipline, di nuove conoscenze, di nuove intuizioni ma soprattutto ha bisogno di nuovi amici disponibili a essere «marinai di un intrepido equipaggio» di visionari della quotidianità (Saraceno, 2011).

NOTe 1

1. Sradicare la povertà estrema e la fame; 2. Rendere universale la sco-

larizzazione basica; 3. Promuovere l’uguaglianza per le donne; 4. Ridurre la mortalità infantile; 5. Migliorare la salute materna; 7. Combattere Aids, malaria e altre malattie infettive; 8. Raggiungere la sostenibilità ambientale. 2

«Ogni cosa che sia di pubblica utilità deve essere fatta. Il bene comune

è quello di ognuno riunito in un tutto.» 3

«Proponete ciò che è fattibile, non cessano di ripetermi. Ma è come se

mi dicessero: proponete di fare ciò che già si fa o almeno proponete qualcosa di buono che venga a sommarsi al male esistente.»

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