Souq2013

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Annuario 2013

Empowerment urbano a cura di Marzia Ravazzini e Benedetto Saraceno


Esperite le pratiche per l’acquisizione dei diritti di pubblicazione dei testi, la casa editrice rimane a disposizione di quanti avessero a vantare ragioni in proposito. www.ilsaggiatore.com (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore Š il Saggiatore S.r.l., Milano 2013


Empowerment urbano



Sommario

Introduzione Silvia Landra e Marzia Ravazzini

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Cittadinanza fortemente richiesta Virginio Colmegna

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Aporie dell’empowerment Benedetto Saraceno

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Cosmopolitismo dal basso Arjun Appadurai

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Alterità, distanza: i nuovi muri di un potere che ignora Ota De Leonardis

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La Riforma della salute mentale in Brasile Pedro Gabriel Godinho Delgado

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Introduzione alla Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità e relativo Protocollo opzionale Dovilè Juodkaité

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Migrazione e sofferenza mentale nei servizi socio-sanitari Francesca Cacciatore, Nadia Maranini, Martino Ardigò

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È necessario sostenere la famiglia. Sì, è ovvio. Ma come? Dainius Pūras

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Competere per cooperare Pier Luigi Porta

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La Casa delle donne di Milano Nicoletta Gandus

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Note sugli autori

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Introduzione Silvia Landra e Marzia Ravazzini

Per il quarto anno consecutivo il Centro studi sofferenza urbana (Souq) della Fondazione Casa della carità raccoglie le riflessioni che più hanno indagato e approfondito il fenomeno della «sofferenza urbana». L’intento di «governare confusioni urbane» (Souq 2010) ha dettato l’inizio della ricerca che ha portato a studiare le espressioni delle «resistenze urbane» (Souq 2011) per descrivere la città, luogo affascinante e al contempo tremendo dove i poveri vivono o sopravvivono e molti cittadini si interrogano su quale possa essere la forma di convivenza migliore. L’annuario Souq 2012 ha affrontato il tema della «felicità urbana», concetto solo apparentemente banale, che in sé sussume importanti sfide intellettuali e pratiche. Il Centro studi Souq parla tanto di sofferenza perché ha come obiettivo la felicità, nel suo aspetto non retorico ma concreto e possibile, animato dalla convinzione che il benessere individuale sia legato alla felicità collettiva. Con l’annuario 2013 Souq rivolge l’attenzione all’empowerment, risorsa da esplorare per costruire percorsi urbani di feli-


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cità che includano i meno integrati. Si tratta di mettere a tema un «duplice e permanente processo di liberazione dalla propria servitù da parte degli individui e dalla autoriproduzione dei riti inefficaci della democrazia da parte delle istituzioni e dei cittadini», come sostiene Benedetto Saraceno nel suo contributo. I diversi scritti raccolti in questo volume accostano continuamente l’individuale e il collettivo, ciò che deve avvenire nella vita del singolo e ciò che invece va favorito nell’istituzione affinché le questioni della sofferenza urbana possano essere comprese e affrontate in modo efficace. Come insegna l’antropologo medico Arthur Kleinman, anche la condizione di malato è dettata dalla concomitanza di sintomi sofferti dal soggetto e dalla mancanza di cure e risorse sociali adeguate. Per esplorare la sofferenza senza ridurla a mera questione biomedica, è utile osservare la realtà con sguardo e prospettive diversi, valutando ogni situazione nella propria complessità senza smettere mai di cercare soluzioni ai problemi sociali e sanitari. La molteplicità dei punti di vista, offerti anche dalle tante discipline coinvolte nell’analisi della sofferenza, porta a esaminare il concetto di empowerment declinato nella condizione dei poveri e dei gruppi sociali più svantaggiati: punti nodali sono la capacità del singolo e la forza della molteplicità, ovvero l’individuo, il suo potere di scelta e il contesto nel quale egli è immerso, consentendogli a livelli diversi di esprimere le proprie capacità e scelte. Secondo Amartya Sen un deficit di capacità può dipendere dalla scarsità di mezzi, ma anche dalla difficoltà di convertire i mezzi disponibili in competenze e abilità. Una prima importante questione attiene al potenziale individuale,


Introduzione   11

una seconda altrettanto importante riguarda le dinamiche politiche e sociali di un contesto, la loro collocazione in un orizzonte di valori condivisi che contempli la centralità della persona, la forza della democrazia, l’irrinunciabilità dei legami solidali tra cittadini per la realizzazione di una pacifica convivenza. Quando Arjun Appadurai analizza il «cosmopolitismo dal basso» degli slum di Mumbai, fornisce uno scenario affascinante e dirompente che ben rappresenta il circolo virtuoso ingenerato dai singoli quando sono in grado di allargare i propri orizzonti culturali, costruendo forme di solidarietà orizzontale che mettono i cittadini in grado di dialogare con le politiche comuni. Progressivamente esprimono capacità partecipative e diventano affidabili, esercitando la «democrazia profonda» che nasce dal basso, dal quartiere, dalle piccole comunità interne, dalle relazioni di sangue e di amicizia. Così la condivisione delle informazioni, la costruzione di abitazioni e servizi igienici, le logiche partecipate del risparmio diventano espressioni pratiche e quotidiane di democrazia: «La democrazia profonda è la democrazia della sofferenza e della fiducia; è una democrazia pubblica in quanto interiorizzata nella linfa vitale delle comunità locali» scrive Appadurai. Anche Pier Luigi Porta mette l’accento sul legame tra i cittadini, quando afferma che «il problema della povertà è in sostanza un problema di assetti relazionali». Colpisce che proprio un economista ponga così precisamente l’attenzione sui fondamenti relazionali e antropologici del mercato, sostenendo senza incertezze che un’analisi realistica delle tensioni attuali faccia emergere una questione antropologica che invochi il coinvolgi-


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mento riflessivo e operativo di tutti. Il processo di superamento della povertà presuppone una città, un paese che curi ciò che accade all’interno dei propri confini, tra i suoi abitanti, preoccupandosi della rete di relazioni e, in particolar modo, dei nodi indeboliti o mancanti. Per superare la povertà sono necessari approcci intelligenti e profondi, organizzati e replicabili in più contesti, capaci di modificare positivamente gli assetti del rapporto interumano, come del rapporto tra l’individuo e l’istituzione. Porta propone esempi concreti ed esaustivi nell’ambito del lavoro diretto sugli individui finalizzato alla maturazione di un’identità personale che permetta di compiere scelte ed esercitare diritti, e nell’ambito del rapporto con le istituzioni, che devono legiferare, organizzare e formare i cittadini in tal senso. Nell’interessante testo di Martino Ardigò, Francesca Cacciatore e Nadia Maranini si pone l’accento sul «cambiamento di potere», ovvero l’esercizio reale delle potenzialità individuali che deve essere favorito in particolar modo nelle persone migranti per poter permettere la loro «ri-crescita» nella nuova terra di approdo. In un contributo denso e articolato Nicoletta Gandus racconta la Casa delle donne di Milano: un laboratorio di empowerment e di democrazia profonda, un «luogo destinato a promuovere la partecipazione attiva delle donne alla vita culturale e sociale della città», dove il coinvolgimento delle singole e dell’amministrazione comunale concorre a dare vita a un laboratorio politico, un «co-governo interattivo». Il professore Pedro Delgado illustra la riforma per la Salute mentale in Brasile e sottolinea quanto sia strategico ed efficace occuparsi delle persone fragili, chiamando in causa le istituzioni che devono predisporre un modello centrato sull’accesso alle


Introduzione   13

cure per tutti. A partire dalla Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, anche Dovilè Joudkaité insiste sulle responsabilità politiche dei governi e degli organismi internazionali che devono creare le condizioni affinché le persone con disabilità possano godere dei diritti concessi a tutti i cittadini e sentirsi liberi di esprimere le proprie potenzialità. Tuttavia è difficile percorrere la strada della politica quando, per esempio, la Convenzione Onu sui diritti dell’infanzia non è stata ratificata da paesi come gli Stati Uniti e la Somalia. Prendendo a esempio il modello lituano, Dainius Pūras descrive lo stallo che si crea quando sul tavolo delle decisioni governative e delle contrattazioni internazionali si scontrano visioni opposte su questioni fondamentali che riguardano l’uomo, la famiglia, l’equità e la giustizia. Per esempio, nel nuovo contesto liberale lituano, la democrazia è vissuta dalle forze nazionaliste e conservatrici come una minaccia ai valori tradizionali e alla famiglia, e ciò provoca un irrigidimento generale e un complessivo atteggiamento di regressione e non di sviluppo, rendendo impossibile ogni intervento del governo a favore delle famiglie bisognose. L’antropologo Ulf Hannerz suggerisce di trattare i fenomeni urbani dal punto di vista relazionale, cogliendo la città come «un raggruppamento di individui che esistono come esseri sociali in primo luogo attraverso i loro ruoli, sulla base dei quali stabiliscono e intrattengono relazioni gli uni con gli altri». Pur condividendo il pensiero di Hannerz, è necessario considerare con Ota De Leonardis quanto siano spessi i muri «di un potere che ignora», ovvero quanto sia fragile la democrazia dal basso: la partecipazione viene sminuita, i legami sociali non considerati


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e annullati. Ciò sviluppa un processo di segmentazione da cui derivano distanza dall’alterità e non riconoscimento reciproco. Considerare i rischi pone le basi per costruire la felicità urbana, oltre a tenere vivo con coraggio un orizzonte di speranza. La riflessione di don Virginio Colmegna prende atto della crisi della città e pone una domanda che echeggia in tutti i contributi di Souq 2013: «Sarà possibile recuperare il valore di una cittadinanza non proprietaria ma gratuita, dono di qualità non commerciabile?». Un eccezionale moltiplicatore di opportunità è costituito dalla gratuità delle relazioni umane e delle forme di solidarietà concreta, una forza che può liberare capacità e risorse, un volano perché anche i più poveri nella città conquistino potere, dignità, rispetto, considerazione. La felicità dei bisognosi garantirebbe la felicità di tutti, è questa la tesi sostenuta dagli interventi scelti per questo annuario, l’assunto su cui ci piace insistere.

bibliografia

Hannerz Ulf, Esplorare la città. Antropologia della vita urbana, il Mulino, Bologna 1992. Kleinman Arthur, Writing at the Margin: Discourse Between Anthropology and Medicine, University of California Press, Berkeley e Los Angeles 1997. Sen Amartya K., Inequality Reexamined, Oxford University Press, Oxford 1992; traduzione italiana La diseguaglianza. Un riesame critico, il Mulino, Bologna 1994.


Cittadinanza fortemente richiesta Virginio Colmegna

La città esplode a causa della convivenza tra diversità, devastata dall’emergenza del disagio sociale, sconvolta dalla paura e dalla fragilità delle risposte. Per opporsi alla forte crisi di identità e stabilire un’idea di città nel mondo globale, occorre una nuova lingua del territorio che non sia solo quella virtuale: si parla ormai di «città diffusa», «città di città», «città territorio». La metropoli è realtà policentrica, che sembra non avere più una precisa percezione di sé. Il cambiamento è profondo e relativamente veloce: le periferie sono cresciute su se stesse e spesso sono isolate e disperate, epicentro del conflitto urbanistico. Ci domandiamo quali responsabilità abbiamo tutti nel non aver pensato alla città come organismo in grado di governare la vita con i suoi cambiamenti sociali, relegandola a realtà anonima, che cresce con un abitare senza attenzione, indifferente alla qualità delle relazioni di chi vi risiede. Già Agostino d’Ippona aveva descritto la città come non un luogo di torri e mura, ma come un insieme di cittadini. In questo periodo di crisi la forza della parola «cittadini» va


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riconquistata in quanto strategica e generale: non si vive in una città divisa tra cittadinanze di serie A e di serie B, dove si ergono steccati che consolidano ghetti e favelas, sia urbanisticamente sia culturalmente. La favela culturale, dove l’anonimato rende tutti consumatori, è annidata in una città «consumata», è lo spazio di coesistenza che diventa solo condominio, dove si è anonimi e indifferenti, sconosciuti e concorrenti. Siamo oggi di fronte a un conflitto insanabile che separa la città della tradizione dalla città moderna, la metropoli dove l’uomo vive un territorio tendenzialmente senza frontiere e dai confini sfumati, dove però altissimi sono i muri del conflitto sulle diversità. Occorre favorire la trasformazione da oikos a polis, ridisegnare e restituire un linguaggio comprensibile alla polis, luogo dell’appartenenza dominato da regole capaci di stabilire un modus vivendi tra i diversi soggetti. Per questo diventa decisiva la cultura e la strategia dei patti di cittadinanza affinché si realizzi, in maniera condivisa e partecipata, una convivenza di qualità a misura di tutti. È urgente una politica che dia risposte non effimere, ma capaci di far crescere solidarietà partecipata. Certo non è immediato ritessere questa polis, come non lo è stato in ogni epoca della storia. Tensioni interne e conflitti chiedono di essere vissuti in profondità e risanati in un’ottica di trasformazione continua. La convivenza multietnica e religiosa non è mai semplice, dice Hannah Arendt, e chi afferma il contrario non ha a che fare con la cultura della convivenza. Osserviamo – e a tratti intercettiamo – un drammatico conflitto tra legalità e illegalità, tra predizioni e illusioni, tra ordine e disordine, tra sfruttamento e solidarietà. Tutto ciò si perpetua nelle favelas metropolitane,


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siano esse residenze urbane limitrofe alla città industriale oppure strutture urbane autonome, impenetrabili ai cittadini comuni, ghetti autoescludentisi dove si consumano, fuori da ogni orizzonte normativo, esistenze ignote, luoghi privi di storia e di memoria. Ovunque nel mondo gli slum si presentano sempre più numerosi, grandi, minacciosi, testimonianza di esclusione e di segregazione. La città moderna è duale e contradditoria, conflittuale e disarmonica. Tutte le città, diventate industriali, mettono marcatamente in luce le relazioni critiche tra centro e periferie. Oggi sono proprio questi «non luoghi» a determinare i ritmi della convivenza, anche sul piano della comunicazione, mentre la politica assume e mantiene scelte di non intervento perché cambiare significherebbe cambiare antropologicamente, lasciarsi alle spalle visioni di sviluppo quantitativo e recuperare l’etica delle relazioni e della solidarietà che potrebbe riconquistare un linguaggio nuovo e nuove categorie di cittadinanza. Ci domandiamo con forza: sarà forse possibile recuperare il valore di una cittadinanza non proprietaria ma gratuita, dono di qualità non commerciabile? Occorre raccogliere molti elementi per rispondere insieme a questa domanda. Se non c’è un pathos comune, finisce l’appartenenza a una civiltà urbana: si è più tecnologici, ma anche più selvaggi. Come regola culturale rischiamo di concentrare tutto attorno alla sicurezza, che è prodotto di una cultura di inimicizia, con il risultato finale di far nascere identità «contro». Oggi il vivere urbano, che porta con sé un anonimato forte, produce bisogno di appoggi, di socialità, di ascolto. Ci si ritrova più facilmente soli, a causa di percorsi migratori che naufragano, di relazioni affettive che si frantu-


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mano, di una quotidianità non più sorretta dal lavoro. Si è soli con il proprio destino e sempre più spesso si finisce in strada. Non abbiamo bisogno di più guerre e più steccati, ma di più socialità. La città è intrisa di sofferenze individuali intense, che non sono necessariamente malattie. Certo la malattia può esserci e, quando c’è, va curata. Alla Casa della carità – specchio quotidiano e limpido dello stato di salute di Milano – arrivano storie di sofferenza che in comune hanno il senso di vuoto, di solitudine, di abbandono. Arrivano persone la cui vita è diventata un estenuante vagabondare e che cercano un luogo dove sostare. Se è questa la lettura della sofferenza profonda della città – un fenomeno da considerare quasi epocale – è necessario aprire spazi in grado di reimmettere energia. «La sofferenza umana non si può eliminare. Sta nella vita, sta nell’uomo. Il problema della vita è la contraddizione fra ciò che è l’organizzazione sociale e la sofferenza che si esprime in ciascuno di noi», ricorda Franco Basaglia. Alcuni anni fa un ragazzo è arrivato alla Casa della carità dopo avere tentato il suicidio: era stato schedato come psichiatricamente compromesso. Oggi ha un legame affettivo con una donna, lavora, sta facendo emergere la potenzialità immensa che aveva dentro. Con lui non ci si è fermati alla diagnosi, ma si è colta la domanda di relazione. La diagnosi lo avrebbe separato, la relazione lo ha re-istituito come persona. Bisogna saper cogliere il momento, percepire quando l’altro si apre alla relazione. E per farlo deve esserci empatia, che consenta di ascoltare l’ostinata richiesta di partecipazione dell’altro. Partecipazione è proprio un’idea-chiave alla base della cittadinanza attiva, del coinvolgimento autentico di tutti, del radi-


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camento sul territorio, della costruzione di reti realmente rappresentative. Pur nella fatica che comporta, la partecipazione funge da strumento indispensabile per la costruzione di processi di coesione sociale, unico antidoto alla frammentazione sociale che è terreno fertile per la crescita del malessere individuale e collettivo. Superare la frammentazione e lavorare per la coesione sociale significa inserire i diversi soggetti in una rete di alleanze forti in cui ciascuno, pur mantenendo il proprio ruolo, mette in comune le proprie specificità, in contaminazioni reciproche capaci di arricchire l’investimento del singolo. Nell’agire partecipativo ogni soggetto deve giocare la sua parte: gli enti locali, cui spetterà sempre il compito e la responsabilità di essere garanti e tutori della collettività; le organizzazioni non profit che, avendo fatto una scelta solidale, devono dimostrare la forte connotazione pubblica del proprio impegno; quelle profit che, per il privilegio di cui godono come agente di sviluppo, non possono sottrarsi alla responsabilità sociale del proprio agire. Inoltre, l’assunto di fondo del lavoro di rete è il riconoscimento della valenza pubblica del proprio ruolo e del proprio operare, ovvero agire e pensare in un territorio in funzione del benessere della collettività, investendo nello sviluppo comunitario e non solo in quello privato e individualista. Lavorando in rete dentro una logica comunitaria, i diversi soggetti si sentono parte del territorio e ne sono espressione; avvertono il circolo virtuoso del loro agire che, perseguendo l’interesse comune, aggiunge benessere al singolo; si sentono corresponsabili nella ricerca di una soluzione a un problema; riconoscono le rispettive parzialità e potenzialità; condividono la lettura del problema e la ricerca di soluzioni e luoghi dove metterle in atto.


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La libertà e la felicità – risvolti positivi della sofferenza – sono presupposti necessari per partecipare alla cittadinanza e sono obiettivo comune di tutti i soggetti, anche dei più vulnerabili. Sarebbe auspicabile non solo curare ma prevenire, per dare spazio e sviluppo alla domanda di realizzazione e felicità che rende gli individui liberi. Certo, oggi rilanciare la prevenzione, e quindi puntare sul mantenimento del benessere contro logiche di intervento solo emergenziali, richiederebbe una reinvenzione dei modelli di cura, di accompagnamento sociale, di sviluppo ed è in quella direzione che Benedetto Saraceno, con la sua profonda conoscenza di pratiche sociali e sanitarie che provengono dal Sud del mondo, ci sollecita. Con commozione ricordo l’intervento a Souq di una psichiatra straordinaria di Nuova Delhi, che opera sotto le grandi querce organizzando gruppi di autoaiuto con poche risorse e con grandi risultati. Il suo approccio competente e risolutivo, nonostante le difficoltà che incontra, stride con il nostro voler codificare ogni esperienza di cura, saturandola con scale diagnostiche, codifiche, logiche di prestazioni e accreditamenti senza flessibilità, per quanto siano tutte pratiche utilie e necessarie. Tuttavia oggi la sofferenza è talmente trasversale, talmente complessa, che è necessario mettere in discussione i modelli acquisiti e provare a inventarne di nuovi. Mi piace pensare che sia essenziale una grande capacità di ascolto e adattamento per affrontare le situazioni difficili, senza presentare subito una soluzione, lasciandosi provocare dalle domande emerse da ogni singola storia. Parlare di gratuità come di un segno distintivo di Casa della carità – è l’insegnamento chiaro del fondatore Carlo Maria Martini – non implica solo un discorso economico ma il sovverti-


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mento degli interventi, spesso troppo standardizzati e guidati dalla mera logica di potere. Per parlare di gratuità è necessario interrogarsi sul potere, lasciare che i poveri sovvertano l’ordinario e facciano emergere una complessità non riducibile. Citando il teologo Frei Betto: «Dai sotterranei della storia arrivano brucianti domande», ovvero sono coloro che non hanno potere a proporre una riflessione radicale e necessaria. Ascoltare il grido della sofferenza non è compito specifico degli eroi del nostro tempo, ma di tutti i cittadini intenzionati a modificare le storture del vivere collettivo e a raggiungere la felicità. È un urlo chiaro, che stana le domande radicali dall’interiorità di chi ascolta. Per me spesso significa chiedere in ginocchio: «Dio, dove sei?». E mi sento in buona compagnia quando avverto che 20 000 morti negli sbarchi di Lampedusa o corpi di donne segnati da una violenza crudele suscitano sentimenti di dolore, sdegno e voglia di ricostruzione in tanti cittadini. Ci arriva una grande lezione dal processo di deistituzionalizzazione, che non è un mero movimento ideologico, ma è la capacità di una collettività accorta di percepirsi in una posizione di disagio, di cogliere le domande che trasformano, il riconoscere l’altro come soggetto non da gestire ma da spronare affinché rimetta in gioco sé e le proprie energie. L’inquietudine genera bisogno di confronto, di lavoro comune, di sperimentazione, e impone di chiedere ragione alla politica e alle istituzioni di scelte incomprensibili e disumane. La sfida culturale è provare a riportare lo sguardo di reciprocità al centro dell’interesse della città. Quando ci si colloca sul confine fra teoria e pratica dell’intervento di aiuto, si vivono sentimenti di spiazzamento, supera-


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bili solo con la consapevolezza che è difficile qualche volta dare risposte se non quella dell’accompagnare, del darsi la mano. Uso questa immagine che non è solo gesto fisico, ma segnale intenso di vicinanza. Con gli operatori e con gli ospiti della Casa della carità stiamo ragionando molto su questo aspetto: possiamo dare un letto solo a poche persone, ma possiamo accompagnarne molte a percorrere circuiti virtuosi dentro se stessi, nelle reti di aiuto, dentro la città intera. Ascoltare chi domanda con insistenza qualcosa che non possiamo dare restituisce a noi e all’interlocutore il senso dell’impotenza, ma in me diventa domanda politica. Per me fare politica, condurre battaglie di cittadinanza, è frutto del rapporto con l’altro, con chi chiede e al quale non posso fornire l’aiuto adeguato. La domanda del povero è la domanda politica per eccellenza. La cultura di cittadinanza non è soltanto quella identificata dal registro anagrafico, ma è una cultura antropologica, che attiene al significato dell’esistenza umana, per cui queste persone fanno parte del sogno di cittadinanza fraterna che ho dentro. È impossibile portare avanti certe sfide, se non mettiamo in moto le energie spirituali che coltiviamo nell’interiorità, se non sogniamo l’impossibile. Ernesto Balducci diceva «siate ragionevoli, chiedete l’impossibile». È una spiritualità anche laicamente intesa, che impone di smontare tutte le sicurezze e tutte le impotenze che abbiamo dentro e di immettere nei contesti di vita, nei tavoli del confronto, nella società civile, un’energia a volte efficacemente operativa, a volte riflessiva, a volte inchiodata nella preghiera di intercessione. Abbiamo bisogno di grande slancio per sperimentare, innovare, riconsiderare il nostro modo di rispondere. Quando


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Carlo Maria Martini presentò a Milano il progetto della Casa della carità, in una sorta di congedo dalla Diocesi ambrosiana e in procinto di partire per Gerusalemme, parlò di un luogo di ospitalità concreta non nel paragrafo dedicato alle opere, ma in quello dove affrontava gli strumenti per guardare la città, per ascoltarla e capire le sue trasformazioni. Con lungimiranza pensava a un laboratorio di idee e azioni virtuose. Da allora sono passati dieci anni, e ancora oggi l’approccio di Carlo Maria Martini è valido, e non solo per la Casa della carità: occorrono luoghi che permettano di guardare la città dal punto di vista delle periferie perché, per citare papa Francesco, «dalle periferie si vede meglio». Anche chi non si occupa dell’intervento sociale nel quotidiano deve prendere atto che la questione del welfare e delle politiche sociali non è residuale e con politiche sociali mi riferisco non a politiche di risposta, ma all’insieme di socialità, di beni comuni, di legami. Tutta la straordinaria esperienza di umanità presente nella nostra società – pluralità di visioni, meticciato, impastamento di culture – deve diventare protagonista del cambiamento sociale. È mai possibile che le nostre realtà siano relegate nella sfera della testimonianza? Che la povertà continui a essere addebitata alle organizzazioni caritatevoli? La carità non è mai sostitutiva della giustizia. Nel suo primo anno a Gerusalemme il cardinale Martini dettò a un gruppo ristretto di operatori sociali una meditazione sull’eccedenza della carità affermando che «la carità avvolge la giustizia». La avvolge, la riempie, è dentro le sue fibre. Non c’è carità senza giustizia. Altrimenti sarebbe una truffa. Non si può trasformare il diritto in elemosina.


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Oggi alla politica deve essere richiesta una cultura di cittadinanza che precede e rimette in discussione anche il proprio essere organizzazione sociale. Quando parlo di sofferenza urbana, intendo sostanzialmente questo: una domanda di cittadinanza.


Aporie dell’empowerment Benedetto Saraceno

«Parlare di empowerment dunque significa parlare di un duplice e permanente processo di liberazione dalla propria servitù da parte degli individui e dalla autoriproduzione dei riti inefficaci della democrazia da parte delle istituzioni e dei cittadini.» Con queste parole terminava l’editoriale di aprile 2013 di SouQuaderni ma, da allora, sulla questione dell’empowerment abbiamo continuato a riflettere insieme agli amici del comitato direttivo in una bella serata alla Casa della cultura nel maggio scorso. E a discutere e riflettere, come sempre, le questioni appaiono più sfumate e più complicate di quando si comincia il percorso. Infatti, se si guarda all’empowerment come a un’unità discreta che racchiude un processo di liberazione da una qualsivoglia servitù, non ci si può che augurare la moltiplicazione dei processi di empowerment. Tuttavia la questione diviene più delicata se immaginiamo una società attraversata di continuo e a tutti i livelli da miriadi di processi di empowerment, ciascuno con finalità diverse, do-


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minati dal pragmatismo e dunque da un forte grado di ateoreticità: dobbiamo allora interrogarci sul rapporto fra empowerment diffuso e rappresentanza politica. Per sua stessa definizione, la rappresentanza è un istituto giuridico che indica il potere di agire in nome altrui, ma tale istituto viene messo in crisi allorché i rappresentati sentono che la fiducia riposta nei rappresentatori è stata tradita. Si verificano allora quei fenomeni di sclerosi della democrazia che si autoriproduce attraverso riti formali non più sostanziati da un mandato forte e consapevole: la recente elezione del presidente della Repubblica ne è stato un esempio. Il grande e alto rito delle Camere riunite non rappresentava i cittadini. Ecco allora che i rappresentati aspirano, a volte con rabbia se non addirittura con violenza, a liberarsi dall’autoriproduzione dei riti inefficaci della democrazia. Tuttavia se tale liberazione è cosa buona, giusta e salutare, non lo è liberarsi tout court dalla democrazia! In altre parole è necessario e urgente chiedersi dove finisce la democratica produzione di micro appropriazioni di potere da parte dei singoli e dove invece si realizza quella che lo psicoanalista François Ansermet definisce «epidemia degli ego». Ecco qui dunque la prima aporia dell’empowerment: democrazia diffusa o narcisismo sociale? Processi di deistituzionalizzazione hanno messo in luce come la massa amorfa di «lungodegenti» reclusi in manicomio diventasse un insieme vitale di soggetti attraverso un processo di ristoricizzazione dei ciascuni; questo abbiamo imparato da Franco Basaglia. Se ciò era vero per la ristoricizzazione del lun-


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godegente spento, ammutolito e silenziato, deve esserlo anche per ogni gruppo umano silenziato e ammutolito e costretto in una qualunque istituzione, sia essa addensata o diffusa: anche quella dei quartieri anonimi di qualunque città ove la vita democratica sia ormai spenta. La democrazia diffusa è la ristoricizzazione di cittadini istituzionalizzati, in città private progressivamente di vita e di diritti. I cittadini si risvegliano in una «primavera» araba o soltanto europea e cercano di praticare la democrazia, ossia di mettere in moto processi diffusi di empowerment. Dunque, cosa succede allorché molti, a torto o a ragione, non credono più in alcun tipo di rappresentanza dei loro diritti e dei loro bisogni? Cosa succede quando i cittadini scoprono che il re è nudo, ovvero che le istituzioni democratiche non sono democratiche e che i loro rappresentanti non li rappresentano? Assai raramente e solo in condizioni storiche molto speciali si verifica una «rivoluzione», con tutto ciò che le rivoluzioni comportano in termini di cambiamento e di liberazione, ma anche di distorsioni più o meno feroci (Cuba docet). Molto più spesso si moltiplicano le ribellioni, i tumulti e le sommosse che niente cambiano ma molti ingannano. Per esempio oggi in Italia tutti i cittadini sanno che la legge elettorale vigente è l’espressione più compiuta di una coercizione illiberale, è la negazione dell’empowerment più basilare. Ebbene, si moltiplicano le ribellioni (non ancora le sommosse) e con esse si afferma anche e pericolosamente il narcisismo sociale, l’epidemia degli ego, l’illusione che i cattivi rappresentanti vadano sostituiti con l’abolizione della rappresentanza. Dunque la soluzione pericolosa della prima aporia


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dell’empowerment è l’empowerment dei singoli, disillusi dalla cattiva rappresentanza, che tende dunque a una libertà diffusa di invettiva e a una proliferazione di presenze sulle reti sociali virtuali (facebook, twitter) e non alla costruzione di processi di democrazia diffusa. L’illusione di esserci senza esserci, l’inganno di pensare che la rappresentanza distorta si rimpiazzi con l’abolizione della rappresentanza, la mistificazione del potere diffuso, sostituto della politica. E qui incontriamo la seconda aporia dell’empowerment: la crisi della rappresentanza tradizionale e inefficace produce un’azione politica più democratica e più rappresentativa dei bisogni e delle volontà dei cittadini, oppure determina brutalmente la morte della politica? La crisi della rappresentanza è la crisi della ragionevolezza e della accettabilità dello scarto fra il volere dei singoli e la delega del loro volere: così come una carta geografica non riproduce la realtà ma la rappresenta, analogamente ottocento parlamentari dovrebbero rappresentare con un ragionevole e accettabile scarto il volere di milioni di cittadini. Tuttavia, se la carta geografica della Toscana non avesse più la forma della Toscana e come capoluogo al posto di Firenze indicasse Londra, lo scarto non sarebbe più né ragionevole né accettabile; così la rappresentanza politica è entrata in crisi quando ha perduto il suo ragionevole scarto. I cittadini traditi dovrebbero mutare azione politica e mutare rappresentanza, senza però sostituire l’azione politica con l’invettiva e senza illudersi di potersi autorappresentare con messaggi su facebook o con pernacchi di eduardiana memoria. La politica non è invettiva, non è un tweet, non è un pernac-


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chio, ma è una visione del bene pubblico condivisa da una parte dei cittadini che, attraverso le sue istituzioni rappresentanti, cerca di prevalere su altri cittadini. Ecco la terza aporia dell’empowerment: può darsi empowerment senza una visione collettiva del bene pubblico? Certamente può e deve esserci empowerment nei micro processi di riconquista individuale di poteri legittimi, così come il lungodegente riconquista i propri diritti di individuo e cittadino. Ma, quando si tratta del bene pubblico, è sufficiente la proliferazione dei micro empowerment o è necessaria una visione collettiva e condivisa? Il bene pubblico è una dimensione valoriale, istituzionale e morale: non è un insieme di soluzioni pragmatiche dei problemi di pubblica amministrazione locale. A ben guardare la pervasività e frequenza dei quesiti referendari che caratterizzano la democrazia svizzera non è necessariamente la prova di una forte democrazia reale, ma piuttosto di una micro democrazia locale. La visione del bene pubblico richiede molto di più che un pragmatismo amministrativo ateoretico. Il pensiero politico di alcuni e le lotte di molti hanno dato vita alla democrazia che, per potere esistere, ha bisogno della politica; la politica è costituita e definita da un insieme di possibili Weltanschauungen – visioni del mondo – del bene pubblico e della società. La politica non rappresenta gli individui ma sono gli individui che scelgono le Weltanschauungen, o meglio gruppi di individui aderiscono a diverse visioni del bene pubblico: gli individui accettano di entrare in una logica metaindividuale.


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Allorché tale dinamica fra individui e visioni metaindividuali si arresta, restiamo orfani di una visione del bene pubblico e rischiamo o di illuderci o di scivolare nel pragmatismo ateoretico, nella pseudopartecipazione, nell’invettiva populista e quant’altro la morte della politica porti con sé. Abbiamo invece disperatamente bisogno di visioni alte e articolate del bene pubblico; abbiamo bisogno di avere maggiore potere non per rappresentarci, ma per individuare e promuovere la nostra rappresentanza; abbiamo bisogno di istituzioni che ci rappresentino e in cui possiamo ragionevolmente credere e sperare: siano esse il Parlamento, la Corte suprema di giustizia, le Nazioni Unite. Dobbiamo accettare che i processi di empowerment non si sostituiscano alle rappresentanze ma, al contrario, le nobilitino e le fortifichino. Dunque i cittadini chiedono ai rappresentanti del popolo di essere degni e forti e non vi è dubbio che la crisi della politica abbia a che vedere con la debolezza e indegnità dei rappresentanti, e quindi con la conseguente ostilità dei cittadini che fuggono la politica o la reinventano come se fosse un videogioco o la mortificano con l’invettiva e la pseudorappresentanza populista. La politica ha bisogno di una visione alta e condivisa del bene pubblico e soprattutto ha bisogno di rappresentanti che, nell’assumere il potere, non soltanto garantiscano uno scarto ragionevole fra rappresentati e rappresentante, ma che siano capaci di controbilanciare il potere a loro conferito attraverso l’esercizio di un «eccesso» di virtù personale. Chissà se questa parola desueta non vada rivisitata senza la paura di riferirsi anche al pensiero di Robespierre. Già sento mormorare e anche tuonare


Aporie dell’empowerment   31

intorno alla sola evocazione di questo nome: Robespierre, il padre del Terrore. Tuttavia questa sinistra associazione fra Terrore e Robespierre non deve impedirci di rileggere le sue pagine sulla separazione dei poteri esecutivo e legislativo, sui diritti dei più demuniti e, infine, sulla virtù. Facciamo questo esercizio di rilettura con libertà e pacatezza consapevoli di conoscere bene le perversioni della virtù e dello stato morale. Dobbiamo però vanificare, e con forza, l’argomento oggi diffuso che legittima i liberi costumi del rappresentante del popolo: legittimazione basata sulla separazione fra vita privata e funzione pubblica. Separazione fallace per un argomento fallace. Il potere del rappresentante del popolo (potere conferitogli dal popolo stesso) viene temperato dall’esercizio consapevole della sua virtù. Non c’è da sorridere quando si racconta di Luigi Einaudi, che teneva separato il conto dei francobolli usati per spedire lettere personali da quello dei costi della sua corrispondenza pubblica. Non c’è da sorridere per quell’eccesso di virtù. Giuliano Ferrara, il modesto giornalista dalla prosa volgare, ci dice che il capo del governo fa quello che vuole a casa propria e che solo una società moralista e ipocrita si permette di sindacare sulle sue serate postribolari. Non è così. La virtù in eccesso, la virtù sempre e ovunque, consente l’esercizio del potere al rappresentante del popolo. Ecco perché, equipaggio intrepido, navighiamo a vista in un mare tempestoso fra la Scilla del ritorno delle ideologie che divorano le Weltanschauungen condivise per farne corazze e


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armi, e la Cariddi dell’illusione di un individualismo pragmatico ateoretico e sovente amorale. Scrive Fernando Pessoa: «Navegadores antigos tinham uma frase gloriosa: “Navegar é preciso; viver não é preciso”» («Gli antichi navigatori avevano un motto glorioso: “Navigare è necessario, vivere non è necessario”»). Dobbiamo, soprattutto ora, anteporre a ogni cosa la necessità vitale di navigare uniti verso una possibile ipotesi di Weltanschauung che resista alle ideologie e prevalga sia sulle ideologie sia sul pragmatismo ateoretico. Abbiamo bisogno di visioni del bene pubblico sufficientemente forti, belle, vere, piene di speranza e condivisibilità, ma non tanto forti da divenire ideologie. Esiste una visione del bene comune che non divenga ideologia del bene comune?


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