Sovrane

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Annarosa Buttarelli

Sovrane L’autorità femminile al governo


Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreEd Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore © il Saggiatore S.r.l., Milano 2013­­


Sovrane Alle mie quattro maestre, alcune di vita e tutte di pensiero, con amore infinito



Sommario

Prologo 1. All’origine della democrazia, rimozioni durature

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1. Una storia monosessuata e bloccata

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2. Tramonto della sovranità, persistenza della sovranità femminile

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2. Un’altra storia, un’altra democrazia

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1. Una storia imprevista, eppure necessaria

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2. Donne e popolo

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3. Simone Weil: prima di tutto l’anima. Un’altra radice della convivenza

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3. Governare non è rappresentare

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4. Saltando l’utile Appunti per un’economia del soprammercato

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5. La sapienza al governo

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Cristina di Svezia, regina a sei anni

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Elisabetta i d’Inghilterra

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Cristina di Svezia, sovrana senza trono

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Elisabetta del Palatinato

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Ildegarda di Bingen

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Anna Maria Ortese

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Le Preziose. Carla Lonzi

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6. Rigovernare, non solo in cucina Due esperienze contemporanee

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1. Le operaie tessili di Brescia, nĂŠ serve nĂŠ padrone

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2. Ostiglia, una democrazia senza rappresentanza

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Note

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Indice dei nomi

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Prologo È un compito arrivare a vedere il mondo così com’è. Una filosofia che lascia il dovere senza un contesto e che esalta l’idea di libertà e di potere come valore supremo, isolato, ignora questo compito e offusca la relazione tra virtù e realtà. Agiamo nel modo giusto «quando arriva il momento», non per forza di volontà ma per la qualità dei nostri abituali attaccamenti, per l’energia e il discernimento che abbiamo a disposizione. A questo scopo è attinente l’intera attività della nostra coscienza. […] Si vede il sole al termine di una lunga ricerca che comporta un riorientamento, e un’ascesa. Iris Murdoch, La sovranità del bene

Questo libro nasce dal desiderio e dalla ferma speranza che possa aiutare l’accadere di una conversione trasformatrice. Nella crisi globale di civiltà non c’è altro riorientamento efficace: è necessario convertirsi, accettare di tornare nel punto dove tutto è cominciato per trovare le condizioni di un nuovo inizio. Nessuna riforma darà buoni frutti se non si riprendono dalla radice i motivi e le pratiche con cui rendere immaginabile una nuova convivenza. Non mi riferisco alla generica e pur difficile convivenza con l’altro di altre culture o di altre terre del pianeta, anche se nemmeno questa si è più in grado di impostare degnamente. Mi riferisco a quella che sta all’origine e alla base di tutte le altre, e sta perfino alla base della forma presa dalle istituzioni della democrazia occidentale, e del senso dato alla controversa idea di «sovranità»: la convivenza tra uomini e donne. Questa convivenza si è distorta molto precocemente per lasciare spazio in quasi tutto il mondo al dominio della forza delle ragioni patriarcali, divenute altrettanto precocemente «fratriarcali» senza cambiare di una virgola il prevalere di ragioni e lo-


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giche monosessuate. Qui sta anche l’origine di ogni altra ingiustizia. Per continuare a lottare contro l’ingiustizia che sta divorando il mondo sarà vano appellarsi soltanto ai consueti strumenti, per quanto generosi e storicamente inevitabili: leggi, proteste, ribellioni, indignazioni, trasgressioni. Si adottino queste pratiche, ma si provi anche a guardare con occhi aperti la forma generale della mente, che non va, come non va la storia che ha costruito. Commentare che è finito il patriarcato come forma di dominio sul corpo delle donne è un primo passo importante già compiuto grazie alla rivoluzione femminista avvenuta in tutto il mondo. Anche laddove la legge dello Stato e i comportamenti sociali maschili sono ancora fortemente patriarcali, le donne non ne sono più soggette, la loro mente è libera dalla sottomissione e, grazie a questa libertà, ovunque, mentre scrivo, le mie simili inventano forme di lotta nell’ambito della richiesta dei diritti umani, seguono pratiche di sottrazione, creano legami segreti tra loro, o sempre più spesso abbandonano i propri persecutori. Sappiamo dalle cronache quotidiane che l’unico modo rimasto agli uomini per negare la libertà alle donne è quello di far violenza ai loro corpi, ma questo orrore è procurato invano perché non fermerà il cammino delle mie simili. La libertà della mente femminile dal dominio patriarcale, di fatto, ne ha dissolto la capacità di ordinare secondo le sue leggi i legami sociali, senza che altri siano stati predisposti. Si segna il passo anche su altri piani, e non ci si rende conto di quanto le architetture istituzionali, culturali e religiose che pretendono di regolare la convivenza siano impregnate di istanze patriarcali e di misoginia ancora largamente inconsapevole, e tanto più


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insidiosa quanto più si mostra rivestita di accoglienza o tolleranza verso il protagonismo femminile dei nostri tempi. La conversione è un capovolgimento, una sovversione che dà accesso a un «riorientamento, e un’ascesa», per dirla con Iris Murdoch, ma per prepararla serve una lunga ricerca, come quella che sta compiendo con infinita pazienza il pensiero di origine femminile. Mi è parso che ora fosse il momento appropriato per dare conto dell’accesso differente al tema fondamentale della sovranità che pensieri e pratiche politiche di donne hanno preparato, testimoniato e realizzato nel corso della storia finora conosciuta. Penso sia necessario ritrovare il filo che tesse il vivere insieme nella condizione umana a partire dalla concezione della sovranità, praticata e pensata in maniera radicalmente differente da quella che ha orientato prima l’assolutismo monarchico, poi la democrazia rappresentativa e, in ultimo, i tentativi di contenere la disgregazione degli Stati-nazione e delle varie sovranità a essi legate. Sta aumentando il frastuono di voci che, generosamente, indicano soluzioni al blocco in cui si trova l’attuale vita sociale e politica; è tanto forte da aggravare il già allarmante disorientamento: c’è chi invita alla lotta contro la telecrazia e la webcrazia come principali responsabili dell’attuale ingovernabilità; c’è chi getta il cuore oltre l’ostacolo e punta sull’autogoverno per creare nuove istituzioni di governo dei beni comuni, attraverso politiche costituenti (Ugo Mattei, Teatro Valle, Stefano Rodotà); c’è chi è convinto dell’immortalità del capitalismo e propone di accogliere l’idea di Proudhon di arrivare a un capitalismo libertario dove tutti possiedono i mezzi della propria produzione (Michel Onfray); c’è chi pensa al populismo corrente come al


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male maggiore da combattere con la psicoanalisi (Massimo Recalcati); c’è chi finalmente si decide a sferrare l’attacco contro il buonismo illuministico dal quale deriva la finzione della «razionalità» dell’uguaglianza, intesa come simmetria universale (l’ultimo Zygmunt Bauman); c’è chi trova la stella polare nella riproposizione della democrazia delle reti comunitarie, ovvero nel «comunitarismo radicale» (Stefano Rodotà, tra Hannah Arendt e Adriano Olivetti) e così via. Ottime prospettive e ottime pratiche. Ma giunti a questo punto della storia del mondo, suppongo che pensatori e pensatrici dovrebbero quantomeno riuscire ad allearsi amorosamente con le istanze avanzate dalle donne nei secoli, con le proposte dell’autorità femminile: filosofia radicale a tutti gli effetti e di qualità elevatissima, distillata dalla paziente ricerca e dalla distanza, sempre marcata storicamente, rispetto all’idea che il potere e le sue istituzioni siano tutto e possano tutto. Se questo non sarà fatto, noi donne e filosofe giudicheremo ancora una volta la falsità di ogni profezia che non tenga conto del nostro pensiero e non abbracci la nostra presenza nel mondo. In altre parole, è un vero e proprio insulto alle donne l’atteggiamento di chi continua a presumere che sia possibile pensare una politica degna di questo nome solo all’interno delle coordinate patriarcali, tanto più ora che esse sono decadute nella loro capacità regolatrice. Ci sono amiche, infatti, esasperate dall’ignavia, dalla violenza e dall’irresponsabilità di molti uomini, che confidano nel traguardo della parità di presenza tra donne e uomini nei posti decisionali per salvare il salvabile: le invito ad alzare lo sguardo e a pretendere di più e di meglio. Invito le amiche appassionate della politica a pretendere che non sia il computo numerico delle quote femminili


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a prevalere, ma siano invece il merito, l’intelligenza, la libertà e la capacità delle proprie simili a poter riordinare e governare i molteplici livelli delle relazioni in cui siamo immersi. L’essenziale non sono i posti di potere, ma semmai i motivi per cui vi si giunge e il mondo simbolico cui si fa riferimento per gestirli. E forse la posta in gioco più importante tra tutte è la decisa dislocazione dal potere della sovranità e la riscoperta delle sue fonti custodite dal differente comportamento storico delle donne consapevoli. Per capire di che si tratta, premetto la lettura di posizioni radicali e controcorrente esposte da due intellettuali molto distanti tra loro, ma entrambi pervasi dal senso dell’urgenza di ritrovare le radici perdute della convivenza. Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 5 aprile 2013): Come può esserci vita comune, cioè società, tra perfetti sconosciuti? Ci vuole qualche cosa di comune, è un «terzo» che sta al di sopra di ogni uno e di ogni altro, e questo «terzo» è condizione sine qua non d’ogni tipo di società, non necessariamente società politica […]. Tutti e ciascuno si riconoscono in un punto che li sovrasta, e da questo riconoscimento discende il senso di un’appartenenza e di un’esistenza che va al di là della semplice vita biologica individuale e dei rapporti interindividuali. Quando parliamo di fraternità (nella tradizione illuminista) o di solidarietà (nella tradizione cattolica e socialista) implicitamente ci riferiamo a qualcosa che «sta più su» dei singoli fratelli o sodali […]. Ogni contratto, senza una garanzia terza, sarebbe flatus vocis. Per molti secoli, questa garanzia era riposta nella religione; oggi, nell’età della secolarizzazione, non può che essere la cultura.


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Slavoj Žižek (Internazionale, n. 997, 25 aprile 2013): Questo mito dell’autorganizzazione diretta non rappresentativa è l’ultima trappola, l’illusione più profonda che deve ancora cadere e quella a cui è più difficile rinunciare […], l’ideale impossibile del cittadino onnicompetente […]. Il paradosso supremo della dinamica politica è che occorre un Capo per tirare fuori gli individui dal pantano della loro inerzia e motivarli a una lotta di emancipazione per la libertà che trascende se stessi. Quello che ci serve oggi, in questa situazione, è una Thatcher della sinistra; un leader che ripeta il gesto della Thatcher nella direzione opposta, trasformando l’intero campo dei presupposti condivisi dalla élite politica di tutti i principali orientamenti.

Si sarà notato che in entrambe le posizioni c’è la consapevolezza della necessità di un principio orientativo della politica che possiamo tranquillamente pensare come trascendente: nella società secolarizzata della storia maschile Zagrebelsky lo invoca nella cultura, senza chiedersi fino a che punto quella degli immarcescibili «fratelli» a cui si riferisce abbia portato del bene alla vita delle donne e del mondo. Žižek è più vicino a nominare la necessità del ritorno al senso dell’autorità, ma non conosce se non quella confusa con il potere, e perciò non la può nominare. Intuisce invece oscuramente che si dovrebbero invitare a ballare le donne, nascoste nel suo ragionare sotto le vituperate gonne della Thatcher, ma è almeno consapevole che l’utopia dell’assoluta autorganizzazione è più pericolosa che liberatoria. Questo libro sostiene e propone la potenza liberatrice dell’au-


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torità, intesa come fondamento politico e matrice generativa di libertà, purché mantenga la sua radice femminile e il suo ambito sapienziale, purché la libertà sia finalmente intesa come ritrovamento della priorità politica ed esistenziale delle relazioni. Sono le relazioni, infatti, a mantenerci vivi e desideranti. L’autorità a radice femminile origina una pratica della sovranità capace di sovvertire la sua concettualizzazione consueta e le conseguenze sul piano istituzionale. La conversione necessaria oggi mi auguro faccia tramontare definitivamente l’autorità di origine maschile che si è voluta fondere del tutto con il potere, tanto da non aver saputo sopravvivere a se stessa, tanto da aver voluto strafare in ogni campo e a ogni livello della società. Lo sguardo può volgersi ora all’autorità di origine femminile, probabilmente l’autentica fonte di ogni autorità che sa stare «più su» delle mediazioni storiche, perché sa rigovernare il mondo senza appropriarsene. Infine, o per cominciare, alcune note di metodo. Come si vedrà, non ho infarcito la scrittura di troppe citazioni; non ho mostrato di saper rendere esaustive tutte le bibliografie possibili, o anche solo quelle in auge in questo momento; non mi sono spesa in defatiganti ragionamenti dimostrativi e persuasivi. Mi è stato insegnato che si cita troppo per carenza di pensiero autentico o per debolezza del proprio. La proliferazione abnorme di libri vaniloquenti, capaci solo di rimescolare gli stessi minestroni concettuali, rende perfino indegno riempire i propri e altrui archivi mentali di libri elencati a solo uso e consumo della vanità accademica. L’attuale mare magnum delle pubblicazioni saggistiche costituisce un eccessivo rumore di fondo che impedisce all’orecchio comune di poter scegliere i titoli davvero orientativi. Per


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rispetto verso quest’orecchio, penso sia bene ristabilire un’essenzialità di riferimenti, o comunque mostrare solo quali siano i fondamentali riferimenti per sé. Le mie maestre di pensiero mi hanno anche convinta che le trasformazioni, le conversioni non avvengono attraverso l’esercizio narcisistico della dialettica sofistica, e che la persuasione per via logico-dimostrativa non è più possibile nel mondo del pluralismo nichilista e della perplessità accidiosa. La forma sapienziale e argomentativa del pensiero ha, secondo l’esperienza, più efficacia e più valore di trasformazione. Sostengo anche la necessità di riprendere la connessione di principio tra visione cosmologica e conoscenza, in aperto conflitto con l’invadenza di ogni tipo di specialismo. Le mie, dunque, sono prese di posizione filosofiche, con le relative assunzioni di responsabilità. Vorrei aver fatto di più e in modo più adeguato al mio amore per il mondo e per i suoi abitanti, umani e non umani: animali, piante, paesaggi sacrificati ogni giorno insensatamente e per i quali sento una pietà infinita. Comunque, sento l’obbligo di fare quel gesto che ho appreso da Marguerite Yourcenar mentre stava per ricevere l’accoglienza nell’Académie Française: si è fatta da parte lasciando la scena alle scrittrici di ogni tempo che l’hanno preceduta e alle quali non era pervenuto lo stesso riconoscimento. So bene, in analogia con quel gesto, che hanno la precedenza Liliana Rampello e le donne che mi sono state vicino in questo periodo, affinché scrivessi questo libro, e tutte le altre che hanno aperto e tenuto visibili i sentieri, per me e per tutti.


1. All’origine della democrazia, rimozioni durature

La città è un gruppo di uomini – per essere precisi, di maschi; i greci dicono: andres – associati tra loro da una costituzione (politeia), che può essere democratica o oligarchica […]. La vita della città è politica e militare, poiché gli andres fanno la guerra e, riuniti in assemblea, prendono decisioni a maggioranza. La città ha una storia che è stata scritta dagli storici greci, a tutto vantaggio dei loro colleghi moderni. Questa storia parla di costituzioni e di guerre, e non sa che cosa farsene della vita silenziosa di donne, stranieri e schiavi. Nicole Loraux, La città divisa

1. Una storia monosessuata e bloccata In esergo faccio spazio a un promemoria, non a una citazione suggestiva. Il femminismo radicale di tutto il mondo, per quanta letteratura politica e storica abbia elaborato e offerto alla riflessione pubblica, assiste ancora oggi a un dibattito politico quotidiano, che si svolge coinvolgendo anche donne sapienti, del tutto bloccato dal non avere acquisito un elementare principio del pensiero della trasformazione: ripartire dalle origini dei processi e, se queste origini si rivelassero infauste, trovare la forza e l’intelligenza necessarie per crearne altre differenti. Seguendo il semplice buon senso, quando si nota che una pianta è stata messa a dimora in un terreno sbagliato non si interviene all’infinito sulla pianta, ma la si trasferisce in un terreno fertile e adatto alla sua crescita. Così potrebbe e dovrebbe accadere nella ricerca politica quando si nota che la nostra democrazia non funziona. Proprio la democrazia è la pianticella a cui desideriamo offrire forza e vita differenti.


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Occorre ripartire dalle origini della «nostra», sebbene quella occidentale sia già stata ampiamente messa in discussione come l’unica forma esistente, e si sia acquisita la consapevolezza che nel mondo globalizzato postcoloniale il nome «democrazia» indica il modo in cui le aggregazioni umane possono affrontare e risolvere i loro problemi attraverso un processo di discussione pubblica sufficientemente aperto e unitario.1 Per forza di cose e di movimenti, si è aggiunta l’idea che la democrazia sia una pratica che nasce negli interstizi lasciati liberi dai poteri coercitivi e dagli Stati-nazione, in quelle zone di improvvisazione interculturale in cui aggregazioni diverse sono costrette a inventarsi nuovi modi per convivere.2 Queste novità e ridefinizioni sono senz’altro realistiche e rivestono un sicuro valore soprattutto all’interno della decostruzione della centralità politica e culturale dell’Occidente. Inoltre contribuiscono al superamento di una certa infausta ermeneutica che ha ridotto la ricerca di Michel Foucault al «foucaultismo» di maniera, l’ennesimo «ismo» secondo cui il potere coercitivo prevale sempre e non lascia scampo ad alcuna alternativa. Tuttavia, anche in presenza di queste novità, la radice è compromessa da una rimozione continua che le pervade. E non mi riferisco alla ovvia constatazione che parlando di democrazia si fa riferimento a una forma politico-istituzionale nata escludendo le donne dalle pratiche che l’hanno inserita nella storia. Semmai, ancora una volta noi donne potremmo rivendicare come un merito il non avervi partecipato né al principio, né più avanti, mentre «stranieri e schiavi» sono entrati di frequente nelle vicende storiche per via di trasgressioni, ribellioni, lotte cruente, azioni per l’avvicendamento al potere. Mi riferisco, invece, ai motivi che


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hanno originato la democrazia e le sue modalità di funzionamento, motivi mai inscritti nella memoria occidentale e, proprio per questa mancata elaborazione, costitutivi del terreno rigido e infecondo su cui i riformismi contemporanei continuano invano a esercitarsi. Si tratta di un terreno interamente di segno maschile, in cui il seme della sovranità del popolo ha subìto una mutazione sorprendente e repentina, e ancora attende, il seme extrastorico della democrazia, di essere rimesso a dimora. Nonostante si siano accumulati dagli anni settanta del secolo scorso a oggi innumerevoli studi critici sulla storia monosessuata maschile delle istituzioni politiche d’Occidente, restano definitive, fondamentali e impregnate di verità e forza sorgiva le opere di due grandi studiose delle origini: La città divisa (1997) di Nicole Loraux e Il contratto sessuale (1988) di Carole Pateman. Ripartirò dal loro contributo tentando di renderlo imprescindibile non tanto per gli studi satolli di citazioni avvertite, quanto per affermarne l’autorità trasformatrice, caratteristica delle scritture che meritano il nome di «fonti». Cominciamo con l’apprendere da Nicole Loraux che «nonostante l’istituzione, in Atene, di un culto a Demokratia, nulla dimostra che demokratia – la cosa, ma anche la parola – sia diventata davvero presentabile».3 Come mai un’invenzione così celebrata fa quasi vergognare chi l’ha messa a punto a uso dei «colleghi moderni», come si dice nella citazione d’apertura? Per capire, bisogna togliere definitivamente dalla rimozione ciò che è accaduto nel 403 a.C. ad Atene, anno decisivo e fondativo nonostante si convenga che l’anno di nascita della democrazia sia il 426 a.C., quando Efialte guidò la lotta contro l’oligarchia dominante.


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Ma è nel 403 che finalmente vengono cacciati i Trenta tiranni dopo una lunga, angosciosa guerra civile a cui, in quell’anno, si cercò di porre fine per sempre. In quel momento gli ateniesi vincitori inventano un patto che impone per legge ai cittadini di dimenticare la guerra civile, e allo scopo creano istituzioni e dispositivi che furono e restano ancora oggi caratteristici della democrazia occidentale: dibattito seguito dal voto, decisione con votazione a maggioranza, culto dell’unanimità, giuramento per ogni carica o esposizione pubblica, politica dell’agorà, giustizia del tribunale e arbitrato di conciliazione preventiva. Tutto questo per nascondere, per tenere a bada che cosa? Nicole Loraux ci fa scoprire con una meticolosa analisi linguistica che la «città» si forma come gruppo di maschi democratici nativi di Atene, associati da una costituzione indirizzata a scongiurare la stasis, parola anfibia che contiene al suo interno il senso di una posizione eretta e ferma assunta dal cittadino nel suo levarsi sanguinosamente contro altri cittadini. E poiché i cittadini democratici di Atene sono maschi (andres) autoctoni e facenti parte di una fazione che ha vinto contro un’altra costituita comunque da cittadini autoctoni, si fa di tutto per aprire la strada all’idea che tutti gli ateniesi siano homophyloi, imparentati da una comunità di razza: Evocando la riconciliazione del 403, Platone loda gli ateniesi per essersi mescolati tra loro con una gioia decisamente familiare, dovuta alla parentela reale che si basa sulla comunità di razza (to homophylon). Del resto gli ateniesi sono ufficialmente homophyloi in quanto autoctoni e da questa parentela da lui concepita come fraternità, Platone aveva dedotto l’isonomia democratica, nome greco dell’uguaglianza davanti al politico.4


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Ecco il segreto coperto dal patto fondativo dell’oblio: ogni cittadino ateniese deve giurare di dimenticare la stasis perché la guerra civile in realtà è intesa come guerra tra fratelli di sangue.5 È proprio attraverso l’analisi delle parole-concetto usate per costituire e descrivere la democrazia ateniese che veniamo a sapere dell’inesistenza di una sua lingua propria: La democrazia, di cui gli oratori tessono a profusione l’elogio, trova il proprio fondamento nell’areté, nella qualità eminentemente aristocratica del valore. L’aspetto essenziale sta appunto nell’impossibilità, caratteristica della democrazia greca come regime modello, di inventare una lingua democratica per dire se stessa. In verità ciò ha inizio già col termine demokratia, che evoca la vittoria o la superiorità (kratos) del popolo, e che perciò viene pronunciato accompagnato da numerose precauzioni retoriche.6

Dunque, la vergogna non riguarda solo l’origine sanguinosa della città, ma anche il nome che si è dato il suo regime: «L’essenziale è che kratos, nel corso della sua storia – dai poemi omerici in poi – ha sempre indicato la superiorità, quindi la vittoria [non a caso il termine è spesso associato a nike, vittoria sui nemici esterni e interni]».7 Il kratos è propriamente la supremazia ottenuta con una vittoria militare, e dunque «democrazia» sta a indicare la vittoria militare della fazione popolare contro un nemico interno: non è un’istituzione politica. In una città in cui vige il giuramento dell’oblio di una vittoria ottenuta con la guerra civile, il nome democrazia, giustamente, non ha buon corso, poiché non fa che ricordare che tutto è nato da una guerra. Si tratta di comprendere che la città nasce da una pace imposta attraverso l’amicizia, altrettanto


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imposta, tra finti fratelli pensati come tali per poter consentire la pace: un ragionare che si morde la coda e che ci fa comprendere la preferenza di Aristotele per un altro termine al posto di democrazia: polis, da cui politeia, politica, nome che tramuta la democrazia ateniese in Politica tout court: Accade persino che Aristotele, nel corso di una frase [nell’Etica eudemia, ix] assegni al «regime dei fratelli» il nome di politeia, e che lo valorizzi al punto da definirlo il Regime per eccellenza, poiché incarnerebbe l’essenza di ogni politeia. L’operazione filosofica è possente, tanto da farci dimenticare per un attimo che la comunità dei fratelli costitutiva della città e il Buon Governo fraterno sono mere finzioni, o quantomeno modelli.8

Rischiamo di dimenticare persino che le decisioni prese a maggioranza in Atene sono un ripiego rispetto all’anelito verso l’unanimità, anzi il dispositivo del voto a maggioranza sta pienamente al posto di questa, poiché ogni accenno a una possibile divisione è inteso come rottura del giuramento dell’oblio della divisione originaria. Così la vittoria (kratos) nel caso del voto viene a chiamarsi «legge della maggioranza» per evitare l’evocazione della stasis: Votare significa accettare di separarsi. Va aggiunto però: accettare al tempo stesso che questa partizione porti con sé la vittoria di una parte della città sull’altra. Basta chiamare questa vittoria «legge della maggioranza» per avere l’impressione che tutto vada da sé.9


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Una prassi che inconsapevolmente continua, come altre qui descritte. Ma l’inconsapevolezza, ci dice la psicoanalisi, adottata da Nicole Loraux come una delle sue ermeneutiche, crea molto spesso comportamenti pericolosi o quantomeno incontrollabili: «Non ci siamo mai liberati dal topos di Atena come paradigma della Città e della Politica»;10 e questo paradigma mitizzato è ancora egemone in quella parte del dibattito politico attuale che si rivolge ancora testardamente ad Atene per attingere ispirazione, nomi, concetti, suggestioni, ignorando che gli effetti della democrazia ateniese si sono già tutti dispiegati nel tempo della storia, per il meglio e per il peggio. Ritornare, anche solo con la mente devota, all’Atene antica si dichiara essere una flagrante coazione a ripetere. Nicole Loraux ci consegna, infatti, un passato saldamente accampato nel presente e vede la «città divisa» delle origini anche attraverso la lente fornita dalla psicoanalisi: come la «scoperta» della rimozione ci ha consegnato un soggetto intimamente diviso, così l’orrore rimosso della guerra tra fratelli consegna alla storia una «città» irrimediabilmente divisa al suo interno, per il governo della quale la democrazia ateniese è stata la politica migliore finora inventata. Ma è una politica fatta per un mondo di soli uomini incapaci di contenere la loro violenza se non facendo appello alla forza della legge, la quale non ne ha a sufficienza per un tale contenimento. Oltre ad avere constatato che la storia tradizionale non ci ha fatto conoscere la loro voce, che cosa sappiamo delle donne ateniesi? Di sicuro sappiamo che sono ritenute dai «fratelli» delle parenti acquisite:


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Autoctoni sono gli andres di contro alle donne, questi parenti acquisiti o che si vorrebbero tali. Gli andres, inoltre, in quanto autoctoni, stabiliscono tra loro, lontano dalle donne, un luogo per pensarsi, un luogo in cui la città si dà come unitaria e costituita da identici.11

Ecco perché le donne non sono mai state «cittadine» a pieno titolo, ma molte nemmeno oggi lo vogliono essere, se divenirlo significa assumere le determinazioni storiche della Città.12 Delle donne ateniesi sappiamo dunque che sono finite nella lista delle rimozioni originarie: Ho parlato molto di diniego: diniego da parte della democrazia della propria storicità, per meglio ancorarsi in un’origine nobile quanto naturale; diniego del contributo delle donne alla riproduzione della vita in Atene cancellato in favore del mito dell’origine autoctona; diniego del carattere fondamentale del conflitto.13

Gli ateniesi si ritenevano nati direttamente dalla Madre Terra, dal suolo, autoctoni, si suppone, per rinforzare la loro idea di fratellanza: volevano convincersi di essere tutti fratelli nati da un’unica madre. Ce n’è abbastanza per avviare la riflessione su qualche conseguenza. Innanzitutto, pare di capire che la rimozione più importante non riguardi tanto la stasis, o l’allontanamento delle donne dal campo della democrazia originaria, quanto la rimossa convinzione che alla base della nascita della città deve essere posta la violenza, che il sangue deve accompagnare ogni decisione politica. Il possibile emergere dell’orrore raddoppia la


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sua minaccia quando si scopre che, dietro la scomunica della stasis, si nasconde la convinzione degli stessi maschi di avere bisogno della violenza per fondare il politico proprio in quanto terreno di esistenza comune. Una terribile constatazione che a tutt’oggi non ha avuto prova contraria nelle teorie politiche di stampo patriarcale, tanto da indurre Nicole Loraux a sostenere con grande preoccupazione la necessità di rendersi conto che, all’origine, esiste uno «scenario in cui l’odio è più antico dell’amore, in cui l’oblio è valorizzato nella stessa misura della gioia ineffabile arrecata dalla collera che non dimentica».14 Ciò che oggi chiamiamo genericamente democrazia affonda le sue radici in un suolo costituito dal principio dell’odio violento, tenuto a bada a forza di finzioni e menzogne, ma necessario fin dalle origini a concepire la possibilità stessa della politica e della convivenza. Sappiamo bene, studiando un po’ di storia della filosofia e di filosofia della storia, quanto la convinzione della naturalità e della irrimediabilità della violenza sanguinaria percorra le azioni storiche di gran parte dell’umanità maschile e nutra ancora oggi, paradossalmente, anche l’ossessione virtuosa del proclamato pacifismo. Il problema è ben più grave dell’ovvia (e fortunata) esclusione delle donne dalla cittadinanza democratica.15 Non c’è nulla di naturale nella violenza e nella sua presunta capacità costituente di un regime apparentemente virtuoso come la democrazia tramandata per via storica; questo lo si sa o lo si intuisce, ma farà piacere avere anche qualche prova che illumini e consolidi l’intuizione, come quelle che ci porta il lavoro di una grande archeologa del secolo scorso: Marija Gimbutas (1921-1994). Lituana di nascita, ha insegnato nelle università degli Stati Uniti dove è divenuta la più grande specia-


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lista a livello mondiale dell’archeologia dei Balcani e delle sponde europee del Mediterraneo. In quello che si può considerare il suo testamento scientifico, Marija Gimbutas dichiara di voler «riportare alla nostra coscienza aspetti della preistoria europea rimasti nell’ombra o semplicemente non metabolizzati a livello paneuropeo. L’acquisizione di tale materiale potrebbe finalmente modificare la nostra percezione delle potenzialità del presente e del futuro. La memoria collettiva umana va rimessa a fuoco. Questa necessità diventa sempre più impellente mentre prendiamo pian piano coscienza del fatto che il cammino del cosiddetto progresso sta soffocando le condizioni stesse di vita sulla terra».16 Come si vede, l’archeologa allude a rimozioni avvenute anche nel suo campo di ricerca esteso alle popolazioni che vissero in Europa tra il vii e il iii millennio a.C., prima cioè dell’arrivo degli indoeuropei, ma ormai stiamo imparando che le grandi distanze misurate sul tempo lineare non sono molto significative se concentriamo l’attenzione sui processi di trasformazione, alcuni dei quali attendono ancora di potersi dispiegare positivamente. Marija Gimbutas ci avverte attraverso i suoi monumentali lavori dell’esistenza reale di una civiltà orientata da principi di origine femminile (società matrifocale) che ha «goduto di un lungo periodo pacifico senza interruzioni, dimostrando di poter garantire una qualità della vita superiore a molte società androcratiche e classiste».17 Il contributo della Gimbutas è da considerarsi imprescindibile per togliere dall’ignoranza l’avvio più antico della convivenza politica europea con altre radici, rispetto alla polis ateniese, e intendo perciò far valere le sue ragioni:


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Io contesto la tesi che la civiltà si associ esclusivamente a società guerriere androcratiche.18 Il principio su cui si fonda ogni civiltà si trova al livello della sua creatività artistica, nei suoi progressi estetici, nella produzione di valori non materiali e nella garanzia della libertà individuale che rendono significativa e piacevole la vita di tutti i cittadini […] Considerare l’economia di guerra un fattore connaturato alla condizione umana è un’ipotesi priva di fondamento.19

Un altro inizio c’è stato e può esserci anche oggi. Ora dobbiamo arrivare a comprendere la seconda imponente rimozione che sta alla base delle democrazie moderne così come ci è rivelata dalla filosofa della politica Carole Pateman, quando affronta la menzogna di cui è intriso il racconto politico più autorevole dell’età moderna: il contratto sociale. Nella drammatica crisi del politico moderno e ipermoderno in cui oggi si agitano le acque della convivenza vediamo anche la fine dei legami sociali conosciuti e la contemporanea ripetizione della ricerca delle vie d’uscita del tutto procedurali, mentre si tratta di trovare radici nuove ai modi e agli accordi con cui si potrebbe sostanziare un inedito patto sociale. Per arrivare a questa consapevolezza bisogna ascoltare la Pateman quando documenta che all’origine del contratto sociale c’è un rimosso: il contratto sessuale. Quella che oggi viene evocata come «società civile» (quando si vuole trovare il «sano» riferimento di una politica non corrotta e non corruttibile) in realtà nasce all’incirca nel xvii secolo, quando i governi costituzionali si situano al posto degli assolutismi europei; quando si dice di voler definitivamente abbando-


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nare lo stato di natura e, infine, quando si stabilisce che l’ambito del politico sia la sfera pubblica ben separata dalla sfera privata. Ma ovviamente «la nuova società civile creata mediante il contratto originario è un ordine sociale patriarcale. Di solito, la teoria del contratto sociale viene presentata come un racconto sulla libertà […] secondo cui gli abitanti dello stato di natura cedono i rischi della libertà naturale in cambio di un’uguale libertà civile protetta dallo Stato».20 In realtà le donne e la società cadono dalla padella della «democrazia» ateniese nella brace approntata dallo Stato moderno con tutti i suoi padri venerati: Hobbes, Locke, Rousseau, Hegel. La libertà «contrattata» si fonda innanzitutto sul diritto politico degli uomini sulle donne poiché «il contratto è ben lungi dall’essere contrapposto al patriarcato; il contratto è il mezzo tramite il quale si costituisce il patriarcato moderno».21 Oggi non ci preoccupa più il patriarcato, da sempre decostruito nei fatti dall’ordine dei fratelli, come abbiamo visto, e ora finito nella sua valenza simbolica di dominio sul corpo delle donne grazie alla rivoluzione simbolica femminista.22 Preoccupa piuttosto la tenacia con cui persiste l’idea di una società che vuole rinnovarsi mantenendo, anzi accentuando il suo aspetto contrattuale, nonostante sia nata da contingenze storiche in cui il contratto sociale si era stretto tra Stato, capitale e lavoro salariato, tre monumenti entrati da tempo in drammatiche agonie. Secondo Pateman, la rimozione pericolosa si sostanzia nel fatto che la forma politica del contratto sia stata possibile solo nel momento in cui ha potuto installarsi, nel cuore delle società moderne, il contratto di matrimonio elaborato secondo la visione patriarcale delle donne assoggettate dagli uomini:


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L’interpretazione patriarcale del patriarcato [e del femminismo rivendicazionista] come diritto paterno ha avuto la conseguenza paradossale di oscurare il fatto che l’origine della famiglia non è il padre ma è nella relazione tra marito e moglie.23

Forse il femminismo radicale ha già messo fuori gioco anche la centralità sociale della «famiglia», ma per combattere la lunghissima lotta tra donne e uomini continua a doversi confrontare con la fondazione delle relazioni sociali nell’inestricabile e ancora vigente nodo creatosi tra contratto, diritti individuali e legiferazione neutra. Come è potuto accadere? Con una torsione incredibile che sta all’origine di tutto questo. Per garantire l’uscita dallo stato di natura alle comunità umane, si è consolidata dapprima la formulazione dell’idea di individuo come nome del «proprietario» della propria persona, in grado di disporne in modo assoluto e di inserirla all’interno delle trattative di mercato, come ogni altra proprietà. Poi qualcuno si è reso conto che per creare una «società civile» occorreva tirare in ballo anche le donne che, altrimenti, sarebbero rimaste abbandonate allo stato di natura. Ma le donne, secondo Locke, sono soggette «naturalmente» agli uomini e perfino Hobbes, quasi un femminista, non volendole vedere sedute al tavolo del nuovo Contratto, deve ammettere che le donne non sono soggette per natura, ma in realtà sono «assoggettate», cioè sconfitte dalla forza muscolare e guerriera degli uomini, e da questi rese «serve»,24 un nome più moderno da dare al bottino della guerra tra i sessi. La «servitù» può essere, come in effetti ancora è, una delle forme in cui l’individuo moderno cede «liberamente» la proprietà della propria persona al lavoro capitalista. Le donne,


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anche loro dunque, devono sottoscrivere dall’origine una qualche forma di contratto affinché la società civile degli individui liberi possa instaurarsi. Ma, essendo «serve», si è pensato di collocarle in un’area spaziotemporale diversa da quella dove si esercita la piena libertà e la piena uguaglianza: si inventa per loro la «sfera privata» in cui sono costrette a restare in quanto «serve» consensualmente sottoscriventi il loro contratto di matrimonio, istituto che prende l’aspetto di un contratto senza limiti di tempo, ma soprattutto si redige come un contratto sessuale in cui le donne, in quanto femmine, si subordinano ai maschi in quanto maschi. Questo è il primo contratto che, all’origine della modernità, genera la forma contrattuale dei rapporti sociali in generale. Questo è il rimosso: ogni contratto sociale, compresi quelli di lavoro, scaturisce dal contratto sessuale così da convincere la Pateman a considerare il contratto come generatore di «diritto politico nella forma di rapporti di dominio e di subordinazione».25 La finzione del «consenso» richiesto alle donne dal contratto sessuale fonda l’apparente libertà del consenso dato da un individuo, di sesso maschile, libero e uguale, a relazioni di subordinazione o di dominio nell’ambito pubblico. La «sfera privata» destinata al matrimonio e alle donne è subito dimenticata dai pensatori politici moderni, cosicché, come avviene nelle classiche rimozioni, il «privato», cioè l’impresa capitalistica, viene spostato «nel mondo civile e nella divisione di classe tra privato e pubblico»,26 laddove il «pubblico» è inteso come Stato. Ed è così che nel mondo moderno «la cittadinanza è per la prima volta apparentemente universale, e perciò la fraternità civile (l’uguaglianza) si estende a tutti gli uomini in quanto uomini (maschi), non in quanto abitanti di


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particolari città»,27 come era accaduto invece nel caso della politeia ateniese. Ed è per questo che la vita politica e pubblica come è stata generalmente intesa, dall’epoca di Locke e Hobbes, a oggi può essere partecipata e perfino creata, inventata solo da uomini in quanto uomini. Si tratta, evidentemente, dell’ennesimo furto simbolico da parte degli uomini di ciò che è proprio e differente nelle donne: Gli uomini si appropriano della creatività naturale delle donne, della loro capacità di mettere al mondo dei figli – ma fanno anche di più. Il potere generativo maschile si estende in un altro ambito; gli uomini trasformano ciò di cui si sono appropriati in un’altra forma di generazione, l’abilità di creare una nuova vita politica o di mettere al mondo il diritto politico.28

Si dà il caso, tuttavia, che gli uomini possono mettere al mondo solamente corpi artificiali come il corpo politico della «società civile»: Hobbes l’ha in mente come comunità, Rousseau come corpo collettivo, Locke come corpo politico. La nascita di un essere umano è la nascita di un maschio o di una femmina, mentre la creazione della società civile produce un corpo modellato sull’immagine del corpo maschile che si viene a chiamare «individuo civile», mistificandosi così in neutro. Seguendo il filo della lettura rivoluzionaria offertaci da Carole Pateman si possono ricavare conclusioni davvero sorprendenti, come quella che riguarda la nascita della nozione democratica di «rappresentanza», inestricabilmente legata alle contradditorie vicende dell’appropriazione maschile irriflessa del potere generativo, dell’incarnazione, dei corpi.29


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