Sul velo

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Marnia Lazreg

Sul velo Lettere aperte alle donne musulmane Prefazione di Concita De Gregorio e Nicla Vassallo Traduzione di Bruna Tortorella


Copyright © 2009 by Princeton University Press. All rights reserved. No part of this book may be reproduced or trasmitted in any form or by any means, electronic or mechanical, including photocopying, recording or by any information storage and retrieval sistem, without permission writing from the publisher. Raffaello, La velata, p. 10. Fotografia di Nicola Lorusso (1990), Archivi Alinari, Firenze. Per concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. www.saggiatore.it © il Saggiatore s.p.a., 2011


Sul velo Alla memoria di mia madre, la cui apertura al mondo e il cui indomito desiderio di libertĂ continuano a essere per me una grande fonte di ispirazione.



Per noi non è questione di scegliere tra una cosa o l’altra. Il problema non è fare un tentativo utopistico e sterile di ripetere il passato, ma andare oltre. aimé césaire,

Discorso sul colonialismo



Sommario

Prefazione. La velata di Concita De Gregorio e Nicla Vassallo 11 Ringraziamenti

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Introduzione

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prima lettera.

La modestia seconda lettera. Le molestie sessuali terza lettera. L’identità culturale quarta lettera. Convinzione e fede quinta lettera. PerchÊ le donne non dovrebbero portare il velo

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Note

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Bibliografia

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Indice

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Raffaello, La velata. Galleria Palatina, Firenze.


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Nelle mie opere precedenti, ho sempre criticato il modo in cui le donne musulmane sono generalmente rappresentate nei libri e dai mezzi di informazione. Da una parte, si dice che sono oppresse dalla loro religione, che di solito viene vista come nemica del progresso sociale delle donne. Da questo punto di vista, il velo è sempre stato considerato il segno più tangibile della loro «oppressione». Dall’altra, le donne musulmane sono descritte come l’anello più debole delle società musulmane, che dovrebbe essere preso di mira dalla propaganda politica per raggiungere due scopi: dimostrare che la religione islamica è arretrata e misogina, e sottolineare l’insensibilità o la crudeltà degli uomini che usano l’Islam a fini politici. Questa teoria ha reso accettabile sostenere che l’attacco all’Afghanistan del 2001 fosse una guerra di «liberazione» delle donne. In seguito, la costituzione afghana e quella irachena, entrambe patrocinate dagli americani, sono state elogiate perché difendevano i «diritti» delle donne, nonostante la realtà dimostrasse il contrario.1 In questa situazione, qualsiasi donna musulmana che spari a zero sull’Islam e lanci accuse contro le culture musulmane viene subito creduta e diventa una star.


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Non intendo schierarmi né da una parte né dall’altra della contesa ideologica a favore o contro l’Islam. Non provo nessun malanimo nei confronti dell’Islam. Sono nata in una famiglia musulmana in un paese a prevalenza musulmana e sono fiera delle mie origini. Ho deciso di dedicare queste lettere alle donne islamiche che già indossano il velo o stanno pensando di farlo. Ovviamente, scrivere delle donne significa scrivere anche degli uomini. A molti di quelli che vivono nel mondo musulmano, a tanti individui in buona fede messi alle strette dagli eventi geopolitici, queste lettere potranno sembrare inutili. Ma forse, per difendersi meglio, queste persone devono prima risolvere la questione apparentemente poco importante dell’uso del velo. Le mie lettere sono dirette anche a tutti coloro, uomini e donne, che si sforzano di comprendere l’esperienza umana. Sono arrivata a un punto della mia vita in cui non posso più continuare a tacere su una questione, quella del velo, che negli ultimi anni è stata così politicizzata da rischiare di condizionare e distorcere l’identità delle giovani donne e delle bambine che vivono in tutto il mondo musulmano, ma anche in Europa e in Nord America. La tendenza a rimettere il velo emersa negli ultimi vent’anni in alcuni paesi sta guadagnando terreno. A darle forza è il conservatorismo sociale diffuso nel mondo musulmano, la divulgazione di opere religiose che esaltano la vocazione delle donne a essere mogli e madri, a cui si aggiunge un rinnovato o comunque maggiore coinvolgimento degli uomini nelle questioni che concernono il modo di vestirsi e di comportarsi delle donne. In alcuni negozi di Algeri ho sentito uscire dagli altoparlanti la voce di sedicenti leader religiosi che esortavano le donne a coprire


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il loro corpo e a ricordare il loro dovere di mogli. Ho visto preadolescenti che indossavano foulard stretti intorno alla testa e abiti lunghi camminare per mano alle loro madri vestite nello stesso modo. Io non ho una figlia, ma la vista di quelle bambine suscita in me sentimenti che mi turbano come donna e come intellettuale. Non posso rimanere una semplice spettatrice davanti a una tendenza che ritengo profondamente sbagliata e che limita la possibilità delle donne di gestire il proprio corpo come parte del loro sviluppo umano. Ho intenzione di parlare del velo, non dal punto di vista trito e artefatto dell’esegesi religiosa, ma in quanto aspetto essenziale di una tendenza in buona parte organizzata e di conseguenza dannosa per il progresso delle donne. Quelle ragazzine mi fanno tornare alla mente una cosa che mi è successa quando avevo circa sette anni e stavo giocando con i miei amici davanti a casa. Un bambino, figlio dei vicini, mi stava tenendo per le trecce e stava facendo movimenti osceni con il corpo. Allarmata dalle mie grida di aiuto, mia madre aprì la porta di casa e vide la scena. Dato che doveva intervenire subito, non poteva rientrare in casa per mettersi il velo. Perciò si tolse uno zoccolo e lo lanciò contro il ragazzo, ma sbagliò la mira. Lo zoccolo mi arrivò in fronte e mi fece un taglio che cominciò a sanguinare. A ricordo di quell’incidente ho portato una cicatrice sulla fronte per diversi anni. Se mia madre non fosse stata così profondamente condizionata dalla cultura del velo, avrebbe semplicemente percorso i cinque o sei metri che la separavano dal mio aggressore. Trent’anni dopo ha smesso di portarlo. Mi chiedo se per caso, nel corso del tempo, quell’episodio non si sia sedimentato nel suo subconscio preparandola


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psicologicamente a prendere quella decisione. La strada in cui vivevamo era in una zona residenziale e durante le ore di lavoro c’erano pochi uomini in giro. Mia madre avrebbe potuto attraversarla senza che nessuno la notasse. Ma non poteva farlo e non lo fece. Quando sono cresciuta e ho cominciato a riflettere su quell’incidente, mi sono chiesta che cosa sarebbe successo se il ragazzo fosse stato più grande e avesse avuto un’arma. Il velo avrebbe impedito a mia madre di salvarmi la vita? Probabilmente no, ma il potere dei condizionamenti sociali sulla mente umana non va sottovalutato. Il velo faceva parte integrante di lei, non poteva uscire senza indossarlo. Prima di lanciare lo zoccolo contro il ragazzo, per un attimo era rimasta completamente paralizzata. Da allora, molte donne sono riuscite a separare il loro senso di identità dal velo. Ma oggi è in atto un tentativo organizzato di imporre di nuovo alle donne la cultura del velo sulla base di tutta una serie di argomentazioni spesso contraddittorie e con l’apparente consenso di alcune di loro. Chiunque abbia riflettuto sull’argomento, si sente inevitabilmente a disagio al pensiero di quanto il velo sia ingiusto nei confronti delle donne. Lo scrittore algerino Kateb Yacine ricordava di aver detto a sua madre, che lo stava accompagnando al bagno turco, di tirarsi su il velo che aveva lasciato scivolare (probabilmente dal viso e dalla testa) per respirare più liberamente. Erano su una strada deserta, eppure il figlio aveva perentoriamente ordinato alla madre: «Rimettiti il velo!». Anni dopo, si è chiesto come aveva potuto imporle una cosa del genere quando non c’era nessun uomo in giro, e se anche lui non aveva «in qualche modo contribuito alla segregazione delle


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donne».2 Si era comportato da censore, ignorando il suo desiderio di gestire liberamente il proprio corpo, libertà della quale lui godeva senza che nessuno la mettesse in discussione. Questo pensiero lo tormentava. Era stato uno dei tanti uomini che imponevano alle donne della loro famiglia di rimanere nascoste dietro il velo. Quando diventai più grande, a volte d’estate mio zio mi portava con sua moglie e mia madre (entrambe velate dalla testa ai piedi) a prendere qualcosa in una gelateria sul lungomare frequentata soprattutto da francesi. Per me la cosa più divertente era osservare mia madre e mia zia infilare faticosamente gli alti bicchieri pieni di succo di frutta e le lunghe cannucce sotto il loro velo bianco, piegando la testa in avanti e tirandolo per liberare la mano destra che lo teneva fermo sul viso in modo da lasciare un’apertura per un occhio solo. Era una manovra delicata che richiedeva pochi secondi, durante i quali io mi aspettavo sempre che il bicchiere cadesse e si rompesse, facendo girare a guardarci tutti quelli che ci stavano intorno. Mio zio era molto esperto in materia di religione. Portava uno shesh rosso con una nappa nera che ballonzolava nell’aria quando camminava e i pantaloni a pieghe tradizionali (sarawal) con sopra camicia, cravatta e giacca alla francese. Si considerava un modernista, ma non disse mai a mia madre e a mia zia che potevano togliersi il velo per bere in pace o che il Corano non prescrive che le donne debbano nascondere il viso. Né che la religione non deve creare sofferenze inutili, un altro principio contenuto nel Corano. Eppure faceva prediche agli altri dicendo che avevano un concetto sbagliato della religione. Il suo modernismo si limitava a portare sua moglie e sua cognata in un posto pieno di


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francesi dove gli uomini e le donne sorseggiavano le loro bibite allo stesso modo. L’accettazione del velo come norma, il potere che esercita sulla mente degli uomini (e delle donne), può essere così accecante da diventare fatale. Nel marzo del 2002, i media sauditi riportarono la notizia che quindici ragazze erano morte in un incendio scoppiato nella loro scuola di Mecca perché gli agenti della buoncostume avevano impedito ai vigili del fuoco di avvicinarsi a loro adducendo come motivo il fatto che non erano vestite nel modo appropriato (con il velo sopra la lunga abayaa nera) e toccarle sarebbe stato peccato. Il padre di una di loro ha dichiarato: «Il guardiano della scuola si è perfino rifiutato di aprire i cancelli per farle uscire».3 I vigili del fuoco hanno dovuto scontrarsi con la polizia per salvare qualche vita. Non sto raccontando questo episodio per puro sensazionalismo, ma per osservare che rappresenta uno dei due estremi della cultura del velo: da una parte c’è l’incapacità di mia madre di uscire di casa per aiutarmi senza che nessuno glielo impedisse se non il suo stesso io condizionato dalla società; dall’altra ci sono le squadre speciali della polizia che impongono la necessità del velo a rischio di far morire delle ragazze. In mezzo ci sono tanti atteggiamenti diversi quanti sono i modi di portare il velo. Il suo potere è tale che riesce a catturare la fantasia, a frustrare, a costringere, a ispirare e a indebolire. La tendenza a rimettere il velo coincide con l’impostazione adottata anche dalle studiose femministe che, contestando l’idea che il velo sia un segno di «oppressione», in realtà rende l’oppressione più intellettualmente accettabile. Pur ammettendo che il velo può rafforzare le disuguaglianze di genere, questo


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approccio mette in primo piano in modo acritico e apologetico le ragioni addotte dalle donne della piccola borghesia per portarlo. Le sue fautrici fanno tutta una serie di sottili distinzioni teoriche per trovare i presunti motivi pratici che si annidano dietro il velo, stravolgendone l’uso e trasformandolo in uno strumento di potere. La conclusione è che, dopotutto, le «oppresse» non sono poi tanto oppresse, la loro è una forma di potere. E la ricercatrice si limita a studiarne le manifestazioni.4 Per lei, quando una donna decide di portare il velo sta esercitando il suo potere, e la considera una cosa positiva perché le permette di lavorare fuori casa o di evitare che il marito si ingelosisca. Nel tentativo di «dare voce alle donne», le sostenitrici di questa teoria dimenticano la realtà di quelle che rifiutano il velo. Di solito le liquidano dicendo che appartengono a una «élite», che sono «borghesi» e «occidentalizzate». Implicitamente, tutti quelli che difendono il velo cercano di sminuire l’importanza delle donne islamiche che ne hanno una visione diversa dalla loro e di delegittimarne l’opinione, convalidando al tempo stesso la propria posizione di osservatori imparziali desiderosi solo di scoprire i motivi dell’uso o del ritorno al velo in opposizione alle donne islamiche «occidentalizzate». In questo modo, gli esperti esterni spostano il pregiudizio sulle «élite» locali accusandole di essere «occidentalizzate». Una donna si erge a vendicatrice di una classe sociale e si dice capace di decifrare i misteri che si nascondono dietro il velo; l’altra è privata della sua individualità e accusata di imitare semplicemente le donne «occidentali». Sarei tentata di definire questa impostazione una sorta di masochismo intellettuale da parte delle studiose che considerano le donne islamiche «occidentalizzate» perché


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non vogliono affrontare la questione del velo, come non vogliono farlo loro stesse. In realtà si tratta di una nuova forma di pregiudizio.5 Il mio intento non è quello di difendere la borghesia mediorientale. Vorrei piuttosto attirare l’attenzione sul fatto che il continuo investimento accademico su questo settore della vita delle donne musulmane spesso assume un tono pregiudiziale o apologetico. La premessa implicita dell’approccio apologetico è che non si può discutere il velo perché le donne che lo portano hanno «scelto» di farlo, e quindi il nostro unico compito in quanto ricercatori è quello di scoprire i vantaggi che questo comporta per loro. Ancora una volta, il velo si rivela un terreno di lotta, non solo tra uomini e donne, come lo è sempre stato, ma anche tra donne islamiche (che lo rifiutano) e donne che non appartengono alla cultura musulmana o provengono da culture musulmane che in un modo o nell’altro sono favorevoli al velo. Senza contare che la legittimazione accademica del velo lo trasforma in un elemento inamovibile della cultura musulmana piuttosto che un fenomeno in evoluzione.6 A mio parere, il velo non si può ridurre alle sue razionalizzazioni, siano esse teoriche, sociopsicologiche, economiche o politiche. Per gli stessi motivi, non ha niente a che vedere con il «diritto» delle donne a indossare o non indossare un tipo di velo piuttosto che un altro. I diritti sono una questione politica, come ha dimostrato la controversia sul velo che imperversa in Francia dal 1989 e, più di recente, in Turchia. In Francia, il 17 marzo 2004, il governo ha approvato una legge in difesa della laïcité che nega alle giovani musulmane francesi il diritto di indossare il velo nelle scuole pubbliche. In Turchia, lo stato ha


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preso spunto dall’iniziativa francese per ribadire il divieto che esiste già da tempo di portarlo negli istituti d’istruzione pubblica imponendo ai docenti di denunciare ed espellere dalle loro lezioni le studentesse velate.7 Il tentativo del governo turco di annullare questa proibizione nel 2008 ha scatenato un movimento di protesta simile a quello francese. La decisione è stata ribaltata dall’alta corte turca che ha dichiarato incostituzionale il provvedimento.8 Queste controversie sono alla base della scelta di molte donne di mettere il velo. Ma è interessante notare che in entrambi i paesi al velo è stato attribuito un significato che con esso non ha niente a che vedere: è stato visto come uno strumento di proselitismo o di ingerenza della religione – considerata retriva – nella politica, e quindi un affronto al laicismo. In Francia, quelli che si opponevano al velo lo mettevano sullo stesso piano della «discriminazione sessuale»,9 e l’ex presidente Jacques Chirac lo ha definito senza mezzi termini un «attacco» ai valori francesi.10 In entrambi i casi, per qualche motivo alla donna viene negata la possibilità di decidere come vuole vestirsi. La politicizzazione del velo – il divieto di portarlo o la sua imposizione (come in Iran e in Arabia Saudita) – impedisce alle donne di decidere liberamente e le costringe a rispettare una legge invadente a discapito della loro coscienza e dei loro criteri di giudizio. Ma soprattutto, confonde ulteriormente la questione del velo definendolo inequivocabilmente come un fattore religioso, mentre i testi sacri non sono affatto chiari e categorici sull’argomento. In questo senso, quando interferisce nella vita delle donne imponendo o vietando il velo, lo stato trucca le carte a loro sfavore e le costringe a prestar fede alle motivazioni addotte dagli uni o dagli altri.


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Non intendo parlare del velo nell’ottica del conflitto tra «tradizione» e «modernità» che, come rivelano molti studi, a quanto sembra le donne risolvono adottandolo.11 I nuovi modi di portarlo limitano meno di quelli tradizionali la loro capacità di movimento, e in tutto il mondo musulmano molte donne svolgono senza problemi le loro attività professionali accanto agli uomini. Ma non considero neanche portare il velo al lavoro una nuova forma di «modernità». Né intendo rappresentarlo come simbolo dell’«alienazione», della «schiavitù» o della «sottomissione» delle donne alle norme culturali. Queste rappresentazioni non sono di nessuna utilità perché possono essere facilmente attribuite alla nostra condizione postmoderna, caratterizzata com’è dall’allontanamento da qualsiasi tipo di esperienza umana condivisa e dall’ostentazione di forme di coscienza individuale che portano a una concezione della donna nociva per la sua integrità quanto può esserlo il velo. Preferisco invece affrontare il problema da un punto di vista esistenziale e filosofico che esclude le giustificazioni spesso invocate dalle donne che lo indossano o intendono farlo. È un’impresa delicata perché si corre il rischio che le ragioni addotte da una donna per indossare il velo vengano considerate una forma di falsa coscienza, e la sua capacità di decidere una pura illusione. Come sociologa, non posso negare la libertà d’azione delle donne, né sostituire la mia alla loro partendo dal presupposto che ho più strumenti per capire le loro motivazioni. Le razionalizzazioni mistificanti non sono necessariamente l’espressione di una falsa coscienza o di una «libertà d’azione» illusoria. La capacità di agire nel mondo non è indipendente dalla struttura sociale nella quale si esprime, e non è un concetto assoluto. Al


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tempo stesso, la questione del velo mi coinvolge personalmente perché sono una donna che è cresciuta circondata da parenti, vicine e amiche che lo portavano e ancora lo portano. Nel mondo musulmano, come in «Occidente», l’immaginazione popolare ha fatto del velo l’essenza dell’Islam, lasciando poco spazio per esaminare questa usanza al di fuori della religione, o studiarne gli effetti psicologici potenzialmente deleteri. In Nord Africa e nel Medio Oriente la percezione che le donne hanno del velo è cambiata. Negli anni cinquanta e sessanta, quando alcuni paesi di queste regioni hanno riacquistato la loro sovranità politica, nei centri urbani le donne giovani che portavano il velo non erano molte. Negli anni settanta e ottanta, in seguito alla nascita del movimento islamista, c’è stata un’inversione di tendenza. Le donne hanno spiegato il loro ritorno al velo come conseguenza di una maggiore consapevolezza del posto che la religione occupava nella loro vita e della sua importanza; come una forma di modestia nel vestire; come protezione dalle molestie sessuali e dagli sguardi indiscreti degli uomini, e come dichiarazione politica, soprattutto nelle famiglie degli uomini che appartenevano al movimento islamista. Dopo l’11 settembre 2001, nei paesi occidentali portare il velo ha acquistato un nuovo significato, è diventato una richiesta di accettazione da parte dei non musulmani e, al tempo stesso, un modo di combattere il pregiudizio ostentando la differenza. In Francia, le donne lo hanno anche visto come uno strumento di «liberazione» dall’«assimilazione» forzata da parte della cultura maggioritaria e, in alcuni casi, dallo stretto controllo dei loro movimenti da parte dei genitori. Il tema più difficile da discutere è quello della fede e della convinzione. Rispetto le donne


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che, dopo aver studiato i testi sacri, sono giunte alla conclusione che devono velarsi, o che senza velo vivrebbero nel peccato. Dubito, tuttavia, della loro convinzione se hanno semplicemente seguito le opinioni di altri, uomini o donne che siano, sul significato religioso del velo. Anche se le pratiche religiose coinvolgono tutta la comunità dei fedeli, la fede è una questione personale. Nonostante questo, considerando che nelle culture mediorientali quella femminile è sempre stata una questione spinosa, è fondamentale che ogni donna che decide di portare un qualsiasi tipo di velo esamini la sua coscienza e decida se quello è l’unico modo che ha per soddisfare le sue esigenze spirituali. A causa sia del ruolo che nel corso della storia ha sempre svolto nel determinare l’esclusione delle donne dalla vita sociale sia della sua elasticità, il velo è carico di significati che non possono essere semplicemente spazzati via perché lo decide una donna. Ogni volta che una donna mette il velo, la sua decisione coinvolge altre donne, compresa sua figlia. Il velo è al tempo stesso un concetto – esistono vari modi di pensarlo, parlarne, percepirlo e anche darlo per scontato – e una consuetudine. In quanto concetto costituisce un punto d’intersezione tra ideologia politica, cultura e libertà d’azione. In quanto consuetudine, non può essere separato dalla storia. Ed è come parte della storia, la storia del rapporto tra uomini e donne, che viene vissuto e percepito dalle donne in varie parti del mondo. La combinazione tra concetto e consuetudine lo rende «naturale» facendolo apparire normativo e immutabile. La storia del velo influisce sul concetto, spiega le sue modalità d’uso e ci aiuta a capire quale può essere il suo sviluppo futuro.


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Le lettere aperte che seguono sono un invito a riflettere più a fondo sui motivi per cui le donne stanno reclamando il diritto di portare il velo come parte essenziale della loro identità, lo stanno difendendo e definendo come uno strumento di «liberazione». Negli ultimi quindici anni, ho parlato con molte donne, giovani e vecchie, in Medio Oriente, in Africa del Nord, in Francia e negli Stati Uniti, che hanno portato un qualche tipo di velo; donne che se lo erano tolto per un po’ di tempo ma avevano sentito la necessità di rimetterlo; e donne che stavano pensando di adottarlo. Ho preso molto sul serio le loro argomentazioni, ma voglio esaminarle perché sono convinta che solo una riflessione razionale può aiutare le donne a capire meglio loro stesse, soprattutto in un’epoca politicamente tumultuosa come questa. Perché la posta in gioco è quello che le donne pensano di se stesse quando discutono di religione, quando fanno quello che ritengono sia il volere di Dio, quando sostituiscono le norme religiose all’azione politica, o (cosa ancora più importante) quando ricorrono alla tradizione come strumento di protesta politica. Ho preso in esame tutti i motivi e le giustificazioni che adducono per portare il velo, li ho messi in discussione e ne ho tratto tutte le necessarie conclusioni, comprese quelle che potrebbero risultare preoccupanti, allarmanti o intollerabili. Considerando come è stato frainteso l’Islam, in quanto religione e cultura, nel corso della storia, non c’è modo di parlare seriamente del velo senza dare al lettore l’impressione che si stia denigrando o cercando di giustificare una cultura ricca di alti ideali ma anche di usanze meno encomiabili. Quindi dovrò chiarire alcuni termini. Per esempio, quando uso l’espressione


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«donne musulmane» non intendo dire che tutte le donne che vivono nei paesi in cui l’Islam è la religione predominante sono necessariamente praticanti o accettano l’usanza del velo. Mi riferisco semplicemente a quelle che hanno scelto di portarlo per manifestare la loro appartenenza religiosa. Il modo migliore per definirle sarebbe «donne che portano il velo perché pensano che la religione islamica glielo imponga», ma sarebbe troppo scomodo. Non esistono «donne musulmane» generiche, come non esistono «donne cristiane» generiche, esistono solo donne concrete in situazioni concrete. Per evitare l’etichetta «uomini musulmani», uso l’espressione «fautori del velo», che possono essere teologi o persone che hanno deciso di aderire all’interpretazione più conservatrice dell’Islam. Chiamo poi «islamisti» o «neofondamentalisti» quei movimenti di opposizione che usano la religione come strumento di mobilitazione sociale, sebbene anche questa sia un’etichetta imprecisa. Il lessico del velo si presta a una certa confusione. Il concetto stesso di «velo» in arabo è reso con una serie di termini che hanno significati diversi nei diversi paesi e nelle regioni interne a quei paesi. Inoltre, le parole del Corano che si riferiscono all’abbigliamento decoroso per una donna sono state interpretate e tradotte in vari modi che ne rendono ancora più instabile il significato. Comunque, oggi le parole usate in riferimento alle forme più comuni di velo sono: hijab, jilbab, niqab e khimar. L’hijab è diventato la forma standard in tutto il mondo musulmano, che coesiste con i vari stili locali.12 Prevede una sciarpa avvolta intorno alla testa in modo più o meno complicato, che copre il collo ma non il viso, su una lunga veste, un paio di pantaloni larghi, o entrambe le cose. Spesso si riduce


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semplicemente a un foulard avvolto intorno alla testa e al collo, indossato su un abito moderno. La jilbab consiste in una lunga veste che copre tutto il corpo, una sciarpa intorno alla testa, un paio di calzini pesanti indossati con scarpe basse (di solito sandali) e guanti.13 Spesso alla jilbab viene aggiunto un velo nero sul viso (niqab),14 soprattutto dalle donne che appartengono a un movimento specifico come quello salafita (o da quelle che aderiscono all’interpretazione più conservatrice dell’Islam). Oggi la parola khimar si riferisce a un copricapo specifico che avvolge strettamente la testa e ricade sul collo e sulle spalle come una mantella.15 Per evitare confusioni, userò la parola hijab, che si riferisce alla forma più comune, o la parola «velo» in modo intercambiabile, tranne in alcuni casi specifici. Nelle mie lettere, ho cambiato i nomi delle donne che ho intervistato nel rispetto della loro privacy. Ognuna delle prime quattro lettere prende in esame una delle principali argomentazioni a favore del velo o del ritorno al velo portate dalle donne o dai suoi fautori. La quinta elenca i motivi per cui le donne non dovrebbero portarlo.


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