Imma Vitelli
Tahrir I giovani che hanno fatto la rivoluzione
Ad Alessandro, habibi
Tahrir
Sommario
Prefazione di Gad Lerner
11
Prologo. Un eroe involontario
15
1. Le cinque stelle di Tora
35
2. I denti rotti di Khaled Said
65
3. I complotti di un comandante trotzkista
73
4. La caverna è un’idea balzana, papà
83
5. Gli eredi della sconfitta
101
6. I vecchi a casa, law samaht
109
7. La piccola moschea e la villa dell’infedele
121
8. E la Fiat 128 muore
129
9. Il conducente senza treno
143
10. Una fatwa per vivere da sola
157
11. La ceretta al Marriott
167
12. Uccideteli tutti!
175
13. La minaccia oltre la siepe
183
14. Allahu akbar
191
15. Contrordine, compagni!
199
16. GesĂš a Tahrir
207
17. La nemesi di Mubarak
219
18. Resisti, resisti, papĂ
235
19. Democrateya!
243
Ringraziamenti
253
Gli uomini normali non sanno che tutto è possibile. David Rousset
Piazza Talaat Harb ponte 6 ottobre Museo Egizio
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PIAZZA TAHRIR
UniversitĂ americana
InterContinental Hotel
Qasr el Aini
Mogamma
Il Cairo. L’area di piazza Tahrir
Prefazione di Gad Lerner
Il rendiconto della scelta di vita compiuta dieci anni fa da Imma Vitelli – la traversata del Mediterraneo per un incontro totalizzante col mondo arabo – trova nelle pagine emozionanti che vi accingete a leggere il suggello di un accadimento raro e sublime: il costituirsi per fusione improvvisa di un popolo di giovani nel cuore di una nazione antichissima, l’Egitto, e il suo sbocco in una rivoluzione incompiuta ma a suo modo grandiosa. È un romanzo? È un libro di storia? O non somiglia piuttosto a una sinfonia i cui movimenti convergono fino a manifestarsi nel suo tema culminante, come un’apoteosi corale e melodiosa, nonostante il tributo di sangue versato nel corso della sua preparazione, la notte di venerdì 28 gennaio 2011 in piazza Tahrir, al Cairo? Di certo il racconto si snoda ben oltre la pur rigorosa disciplina del reportage. Ci conduce all’incontro con la dimensione esistenziale di una gioventù – gli shebab – che erroneamente ritenevamo distante, imperscrutabile, e che invece dopo la lettura riconosciamo come prossima, familiare. Un’impresa degna della migliore letteratura, come accade solo di rado al giornalismo. Devo spiegare perché interpreto questo libro come rendiconto di una scelta di vita. Quando l’ho conosciuta, Imma Vitelli era una giovane donna rigorosa e contemporanea, reduce da un apprendistato giornalistico alla Cnn di Atlanta. Mi pa11
reva talmente «poco italiana» da chiederle se il suo nome non fosse per caso finnico. Macché: è una Immacolata nativa della Lucania che ha scelto di temperare il suo ardore meridionale misurandosi con la scuola del giornalismo anglosassone, rifuggendo il provincialismo dei mass media nostrani, fino a poter essere annoverata fra i pochi esponenti del giornalismo italiano coinvolti nell’élite itinerante degli inviati di guerra in Medio Oriente. Per realizzare tale aspirazione, non senza una certa dose d’incoscienza e sprezzo del pericolo, ha investito tutta se stessa. Nell’estate del 2002 si è trasferita da Roma al Cairo, per un anno e mezzo. Fu lei ad accogliermi all’aeroporto internazionale di Beirut nel 2007, quando feci ritorno dopo cinquant’anni nel mio paese natale. Aveva già seguito la rivoluzione libanese, costata alle truppe siriane il ritiro dal paese dei cedri, e poi la guerra tra gli Hezbollah e Israele, con varie incursioni dall’Iraq all’Afghanistan, passando dalle madrasse pakistane ai paradisi artificiali del Golfo. A quel punto era già in grado di parlare un arabo fluente, rompendo la barriera d’incomprensione che limita l’attività della maggioranza dei corrispondenti stranieri. Ha sacrificato a tale impegno culturale le frequentazioni redazionali più consuete di cui sono intessuti tanti percorsi di carriera. Come vedrete, ne valeva la pena. Così Imma Vitelli si è presentata ancora giovane, con un’attrezzatura impareggiabile, all’appuntamento cruciale della Primavera araba, favorita nel suo vivere in sintonia con la moltitudine di questi giovani nuovi protagonisti della storia contemporanea. Ne scaturisce un’esperienza di relazioni appassionate: è come se l’autrice e i suoi interlocutori scoprissero insieme l’insperato passaggio dalla dimensione minoritaria della resistenza alla dittatura – funestata da delazioni, arresti, torture – alla sollevazione di popolo. Li accomuna un sentimento che nessuna delle generazioni precedenti aveva potuto assaporare: il ritrovato orgoglio di essere arabi superando la frustrazione, il complesso d’inferiorità, la necrofilia del martirio sublimata come falsa risposta all’infelicità così ben descrit12
ta da Samir Kassir. Arabi contemporanei, compartecipi di un grande movimento globale per la libertà e la dignità. Capitolo dopo capitolo, si snoda il racconto della fusione tra diversi che li conduce infine nell’epicentro simbolico e dirompente di piazza Tahrir. Conosceremo il visionario nonviolento Ahmed Maher e il suo giovanissimo partner Mohamed Adel, seguaci delle pratiche di disubbidienza civile sperimentate in Serbia contro Miloševic´. L’ingegnere trotzkista Khaled el Sayed vivrà la sua epopea di fianco a un esponente dei Fratelli Musulmani come Islam Lutfi. E la musulmana velata Amina Zaki parteciperà fra i bivacchi alla preghiera comune islamico-cristiana organizzata da una psicoanalista dagli abiti provocanti come Sally Toma. Mentre i gerarchi che da trent’anni garantiscono il regime oppressivo della famiglia Mubarak scopriranno troppo tardi l’effetto dirompente dei social network, ramificatisi grazie alla regia di Wael Ghonim, direttore marketing di Google in Medio Oriente. È una trama avvincente dal virtuale al reale, da Facebook a Tahrir. Nella quale svolgono un ruolo tutto sommato secondario i dissidenti più anziani come il politico Mohamed El Baradei, lo scrittore Alaa al Aswani, il chimico Ahmed Zewail. Perché è la progressiva manifestazione del coraggio di piccoli gruppi disposti a sfidare in pochi la polizia, fino a divenire moltitudine, giorno dopo giorno, esaltando il sacrificio dei caduti ma senza mai derogare alla scelta nonviolenta, che alla fine dà luogo ai grandi raduni del 25 e del 28 gennaio. Sopportando il prezzo terribile di più di 800 morti e rimanendo accampati in una piazza divenuta riferimento mondiale della resistenza giovanile, fino alle dimissioni di Mubarak l’11 febbraio 2011. Non si tratta di un vero e proprio rovesciamento del regime, è vero. Le forze armate si liberano dell’ingombrante raìs ma non rinunciano al controllo delle istituzioni egiziane. Mai, però, prima di allora il paese delle piramidi aveva conosciuto una sollevazione univoca di tale possanza, non riducibile a tumulto. Qualunque sia l’esito politico futuro, tutt’altro che scontato, e per quanto resti problematico il conseguimento di 13
una dialettica democratica matura, il libro di Imma Vitelli evidenzia che la gioventù egiziana ha inaugurato una nuova fase storica. Molti di loro sono figli di integralisti che portano all’ordine del giorno nel mondo arabo la necessità stringente della fuoriuscita dall’oscurantismo. Per questo il 2011 verrà ricordato come un anno fatidico. L’anno della caduta dei tiranni considerati fino al giorno prima inamovibili, e per questo spalleggiati da un Occidente incapace di concepire un diverso assetto mondiale. Ricordo le confidenze spaventate pervenutemi in quei giorni drammatici del gennaio 2011 da statisti pure aperti e democratici: si sentivano rassicurati dal fatto che a reggere il potere restasse al Cairo un notabile come Suleiman, capo dei famigerati servizi segreti. Equiparavano la gioventù in rivolta a una pericolosa orda barbarica da cui proteggersi. Si rivelavano incapaci di inseguire il corso della Storia a cui Imma Vitelli, in queste pagine, restituisce volti e personalità davvero indimenticabili.
Prologo Un eroe involontario
Seduta dentro un Boeing dell’Alitalia diretto al Cairo, cerco di fare ordine nei miei pensieri. L’aereo è mezzo vuoto. Siedo, come sempre, quando posso, nella business class dei poveri: la fila dell’uscita di emergenza. Mi guardo intorno. Davanti a me, un paio di giovanotti, tondi di viso, abbienti di aspetto, parlano fitto, i volti eccitati, frementi di un’energia felice. Nelle cappelliere hanno grandi buste di stilisti italiani alla moda. Erano in vacanza, in Italia, mi pare di capire. «Non ci posso credere» dice uno, bruno. «Se ne andrà davvero?» chiede l’amico. «Non lo so, ma già così mi sembra incredibile» gli risponde il bruno. Smetto di ascoltarli; ho da fare. Sono state settimane intense. Vengo dalla Tunisia, e prima ancora dall’Afghanistan: sono stanca. Ma ho promesso al direttore di Vanity Fair che gli avrei mandato il pezzo tunisino. Mi tocca scriverlo. Chiudo gli occhi e cerco un’immagine, un momento, una visione che mi è entrata nel cuore. Lo faccio sempre, prima di mettermi alla tastiera, prima ancora di studiare il groviglio di parole che non oso chiamare appunti. Riavvolgo il nastro della mente, alla ricerca di un ricordo, di una persona, di un paesaggio, di una frase che mi aiuti a tirare le fila di un’emozione. È sempre da lì che parto, quando scrivo: dall’istante in cui mi sono venuti i brividi. È successo spes15
so, in Tunisia; succederà in Egitto, e poi in Libia, tutti i giorni. La hostess mi distrae dai miei pensieri, offrendo un rinfresco; prendo un tè e richiudo gli occhi. Mi rivedo all’arrivo, a Tunisi, all’immigrazione: rivedo la signora paffuta che mi accoglie con un «Benvenuta rivoluzione». Rivedo una vecchina dentro il palazzo saccheggiato di una stella caduta dell’ancien régime: la gioia che crepitava incredula tra le sue rughe. Sento il ruggito della casbah occupata da una gioventù cocciuta, ricciuta, determinata a non farsi scippare il proprio posto nella Storia. Torno ancora più indietro, lontano da Tunisi, nell’interno desolato di un paesaggio brullo, di dossi di pietre, pecore, pastori e casupole brutalmente lottizzate, avvilite da corone di fichi d’India. È la strada che mi porta sulla tomba di Mohamed Bouazizi. Ricordo il quieto sconforto del paesaggio: non c’è anima viva, e anche quando compare, per sbaglio, un’anima per la via, sembra già morta. Solo i rari caffè, con i tavolini sbilenchi di legno all’aperto, forniscono ogni tanto una desolata distrazione: desolata per la gioventù seduta, inerte. Gennaio è il più crudele dei mesi, in Nord Africa: un mese di bassa produttività, un mese di tregende scatenate dalla fame. Le precedenti rivolte sono avvenute tutte in queste settimane: i tumulti del pane in Egitto, nel ’77, e anche i disordini in Tunisia nel ’78 e nel ’82. È un mese stregato, per il grasso potere; il mese in cui il fardello del popolo si fa insopportabile: la pancia è vuota, e viene istintivo rinfacciare al principe corrotto i suoi peccati. Non ci sono turisti nei grandi alberghi a pagare gli stipendi di torme di autisti, camerieri, cuochi, inservienti, guide e faccendieri; neanche l’agricoltura offre una tregua, con il raccolto delle olive e dei datteri ormai concluso. Mi chiedo cosa sarebbe successo, se Bouazizi si fosse immolato un altro mese: sarei ora qui a riavvolgere il nastro della strada che porta alla sua sepoltura? Si trova in un luogo misterioso; ci perdiamo spesso tra sentieri di terra rossa, unica compagnia l’invariabile spianata blu del cielo nordafricano. Mi torna in mente il suo sorriso, su di 16
un enorme poster, in cima a un monumento – una spiga di grano dorata – nella piazza principale del suo paese, Sidi Bouzid. Nella foto indossa una giacca nera, la giacca della festa, e una maglietta bianca, e ha un’espressione, se non lieta, birichina, le labbra vagamente ridenti, come di chi non si possa permettere di più. Aveva 26 anni ed era un arabo come tanti. Viveva in una decrepita periferia di vie derelitte e senza asfalto, in una modesta casa dal cortile di cemento, ravvivato dal rosso dei peperoni al sole. Mi tornano in mente le sue sorelle, Basma, di 16 anni, e Samia, di 19: ragazze esili e timide, tristi sotto il velo. Sono state loro a raccontarmi chi fosse il giovane uomo che per un caso imponderabile della Storia è diventato l’improbabile eroe degli arabi, il catalizzatore di uno straordinario risveglio, di un contagio, di una suggestione, che ha schiantato le vetuste e tarlate colonne della dittatura. Mohamed Bouazizi studia fino alla quarta superiore, è un ragazzo sveglio, bravo in fisica e matematica. Al ritiro dalla scuola, i professori bussano alla casa a un piano dal cortile di cemento e gli chiedono di tornare. Ma Mohamed non lo fa, ha bisogno di guadagnare; la famiglia, di cinque figli più mamma e patrigno, conta sul suo aiuto: sono solo lui e il patrigno a lavorare. Dal padre, morto quando lui aveva un anno, ha ereditato un carretto, che Mohamed riempie di frutta e spinge per le sconnesse vie del paese, dall’età di sei anni. Lo vedo, alto e magro, la schiena curva, il sorriso pronto, che getta il bando; mi ricorda i venditori ambulanti della mia infanzia in un paese della Lucania: «Mele! Pere! Banane! Di prima classe! Avanti! Cosa aspettate?». Poi va a fare il militare, sul mare, a Biserta, e spera, come tanti nelle sue ingrate zone, di mollare il carretto per uno stipendio fisso e dignitoso nelle forze armate. Ci sono posti nel Sahara, è lì che vuole andare. Studia tanto i manuali per l’esame. Ci crede. Pensate: se l’esercito tunisino l’avesse preso, chissà quale sarebbe stato il corso della Storia, chissà quale sarebbe stata la scintilla della Primavera araba. 17
Ma non lo prendono. È superato, in curva, da un raccomandato. Immagino la sua delusione, il suo capo chino, la sconfitta: non ha altre frecce al suo arco. Non le ha nessuno, da quelle parti. Ci sarebbe stato solo il carretto, per sempre. «Mele! Pere! Banane! Di prima classe! Cosa aspettate?» Tutti i giorni della vita. Dalle 8 alle 12, dalle 14 alle 17, per 7 dinari al giorno, poco più di 3 euro. Non ci fa niente, con quei pochi denari. Non si può sposare, non può permettersi una famiglia, avere dei figli. Non può neppure affittare una casa e comprare i mobili, come richiesto dalle usanze. È condannato: la sua vita è un ergastolo, la sua sentenza il carretto, su cui deve pure pagare le tangenti. Non ha la licenza, non ce l’ha nessuno. Per continuare a vendere, deve pagare un pedaggio ai vigili, è la regola. La mattina di venerdì 17 dicembre 2010 esce alle 8, sorridente come sempre. Si lascia alle spalle la polvere della sua via, nel quartiere Nur, che a ripensarci adesso fa sorridere, poiché Nur in arabo vuol dire «luce». Prosegue spedito, facendo la réclame alle sue mele. Arriva nel centro del paese, sempre urlando, sempre scarpinando, e lì, davanti alla costruzione bianca a un piano del palazzo del governatore, viene fermato da un’ispettrice del Comune, tale Faida Hamdy. Non sapremo mai con certezza cosa succede a questo punto. Chi era presente allora riferisce che la donna gli confisca la merce, e Mohamed si dispera, resiste e non molla, impreca: è tutto quello che ha, la frutta, e la sua famiglia conta su di lui per mettere a tavola la cena. Si attacca alla bilancia, sopra il carretto, e per qualche secondo lui tira da una parte, e la donna dall’altra; è un match di forza, che la donna avrebbe perso se non avesse fatto ricorso alle mani. Chi c’era racconta che Faida Hamdy reagisce con violenza alla resistenza di Mohamed, e lo schiaffeggia due volte: un fatto inaudito, in un paese musulmano, che la donna alzi le mani su un uomo. Quel che è certo è che Mohamed perde il carretto e la merce, e il cielo si schianta sulla sua testa. Non ha risparmi, non possiede nulla, solo quel carretto ereditato dal padre morto, che adesso è sotto 18
sequestro, dietro alla porta del palazzo. Allora va al Comune, a piangere la sua sorte, e le guardie gli ridono in faccia. Fuori di testa, come ipnotizzato, poiché non esiste nient’altro al di fuori della sopravvivenza, al di fuori della salvezza del carretto, si reca al palazzo del governatore, il palazzo bianco a un piano, all’incrocio principale del paese, e anche lì lo scherniscono, lo insultano, gli danno del pezzente, non lo lasciano entrare. Ed è allora che accade l’imprevedibile. La hostess interrompe di nuovo il flusso dei miei pensieri; la cena è servita. Gradisco pesce o pollo? Qualcosa da bere? Ordino del pollo, e un bicchiere di vino bianco, e richiudo gli occhi. Rivedo il volto minuto della sorella minore, Basma. Rievoca i minuti in cui la vita di Mohamed Bouazizi smette di essere insulsa e si consegna alla Storia. «Mio fratello bussa tre volte alle porte del governatore e per tre volte gli dicono va via zozzone» mi racconta Basma. Allora lui attraversa la via principale di Sidi Bouzid, entra in un negozio di ferramenta e acquista un litro di acetone. Torna, con la bottiglia in mano, a bussare alla porta del governatore e davanti alla guardia si versa il liquido in testa e gli ordina di farlo passare, mostrandogli l’accendino. «Mio fratello non voleva morire» mi dice Basma. «Li voleva solo spaventare.» La rivedo mentre piange, ora. «Era così caro. Gli lavavo i vestiti e mi dava delle monete.» La rivedo mentre tira su col naso. «Ho sperato così tanto che sul suo letto di morte aprisse gli occhi e dicesse vieni Basma.» La rivedo mentre si asciuga le lacrime. Apro gli occhi, e non sono sul Boeing dell’Alitalia. È un momento magico, accade spesso, quando mi commuovo. Sono al cimitero. Lo rivedo, a occhi aperti: è su un declivio di terra nuda, senza recinti, su cui riposa una distesa di tombe bianche, semplici e allineate, confinanti a sud con sparsi alberi di ulivo. Quella di Bouazizi è in fondo, nell’ultimo filare; è avvolta da un’enorme bandiera rossa della Tunisia. Sotto è visibile il cemento vivo; i parenti non hanno ancora messo la calce. Mi colpiscono due coppette con l’acqua; fanno parte della tradizione tunisina: sono per gli uccelli che vengono a bere e, così facen19
do, assieme all’acqua portano via i peccati del defunto. Mi tornano in mente le ultime parole di Basma, la sorella. «Mohamed è in paradiso, ora. Sono così fiera di lui. Ci ha liberati tutti.» Il capitano annuncia che stiamo per atterrare. Il cielo è sereno al Cairo, ci sono 16 gradi. Al nastro bagagli l’attesa è eterna. In un angolo della sala, un gruppo di turisti brasiliani si chiede se sia il caso di andare a Luxor. Io ho un problema. Alle 18 scatta il coprifuoco; gli amici del Cairo consigliano di dormire all’aeroporto. Lì fuori, succedono cose strane. È il 30 gennaio 2011 e la polizia è svanita dalle strade. È il Far West, mi dicono: il potere ha reagito all’insurrezione aprendo i cancelli di sette prigioni. L’aveva fatto anche Ben Ali, in Tunisia, e prima di lui Saddam, al tempo dell’invasione degli americani. Lo farà Gheddafi in Libia qualche settimana dopo. Qualcuno deve scrivere un giorno il ritratto psicologico del tiranno: quando il gioco si fa duro, recitano tutti lo stesso copione: il caos! Il caos! Lo creano, per poter dire che c’è bisogno di loro per ristabilire l’ordine. Guardo gli egiziani in attesa come me delle valigie: è passata un’ora, e nessuno che accenni a un principio di tumulto. Comincio a dubitare che lì fuori ci sia una rivoluzione. O forse questi si trovavano all’estero quando si è diffuso il contagio, e ancora sono immuni dal virus della protesta. Vedo, a fianco del nastro, un egiziano alto e molle, con la targhetta dell’Alitalia appuntata sul petto. Gli chiedo spiegazioni. «A causa della crisi, manca il personale» dice. E dunque? «Inshallah» risponde. Se Dio vuole. Tre ore dopo siamo fuori. È buio ormai, c’è il coprifuoco. Che fare? Avevo chiesto all’hotel di mandarmi un’auto: «A causa della crisi, ci rincresce non poterla soddisfare». E adesso? Uno dei giovanotti tondi di viso, abbienti di aspetto parlotta fitto con un autista. Prende il suo numero. Mi dice di stare tranquilla. Sostiene che impiegherò più tempo del normale ad arrivare, e pagherò il triplo del normale, ma alla fine arriverò alla meta. «O preferisci trascorrere la notte all’aeroporto?» «Nossignore» dico. 20
Il taxi è una vecchia Fiat 128 nera; ne avrò prese centinaia, le riconosco. Mi danno un senso di sicurezza, di innocenza, di già vissuto. So che non c’è l’aria condizionata e che respirerò a pieni polmoni l’aria fetida della megalopoli, sempre che i finestrini siano bloccati di sotto e non di sopra, come talvolta accade. Sono bloccati di sotto. Molto bene. Almeno ho delle certezze su cui contare. Ho vissuto al Cairo per più di un anno, a partire dall’estate del 2002. Era tutto così antico, così fuori dal tempo. Il malessere, il disagio, la decadenza erano palpabili. L’aria era irrespirabile, soprattutto in autunno, quando si bruciavano le stoppie di riso sulla strada a nord per Alessandria, e una nuvola nera si spostava sul Cairo e ti entrava in casa e si posava ovunque, anche sui cuscini. Le strade erano infestate da taxi neri e velenosi, forse le prime Fiat 128 mai fabbricate, identiche a quella che adesso arranca per uscire dall’aeroporto. Le chiamavo taxi inshallah, non era mai chiaro se saresti arrivata a casa. Capitava, spesso, di arenarsi a chilometri dalla meta. Era quasi un rituale, ormai; sapevi di dover trovare una diversa soluzione quando l’autista immergeva nel cofano la sua testa vacua. La prima frase in egiziano che ho imparato è stata fut alena bocra, riprova domani. Vorrei visitare una scuola, fut alena bocra, vorrei intervistare tal dei tali, fut alena bocra, vorrei rinnovare il permesso di soggiorno, fut alena bocra. Fut alena bocra era il manifesto della sconfitta araba, l’ammissione quotidiana che era inutile provarci: nulla sarebbe cambiato. Il paese mi ricordava una mummia, di quelle in esposizione al Museo Egizio. Le donne erano figure immote, nei loro veli; cercavo teste scoperte e non le trovavo. Gli uomini erano grigi, alti e magri, e camminavano a passo spedito per le vie polverose. Andai a vivere nel più occidentale dei quartieri, su un’isola in mezzo al Nilo, di nome Zamalek. Il palazzo era una torre con qualche pretesa, la cui facciata 21
non era mai stata dipinta, e dava sul Nilo, da un lato, e sul club Gezira, dall’altro. Come in ogni edificio signorile, nel sottoscala dormivano per terra i bawab, i portieri nubiani. Era un’accurata rappresentazione della piramide sociale. C’erano molti appartamenti sfitti, su in cima, e molti bawab avidi di mance giù in cortile. Essendo un paese musulmano, e conservatore, il proprietario fece storie all’idea di ospitare una coppia di stranieri, khawaga, illegali, nel senso che non eravamo sposati: la legge proibiva la convivenza non santificata dal vincolo matrimoniale. A volte avevo l’impressione che l’intero paese, anzi l’intero mondo arabo, ventidue nazioni governate da raìs e sovrani flaccidi e rapaci, avesse immerso la testa dentro un cofano. Hosni Mubarak era al potere dal 1981, dal giorno in cui fu assassinato Anwar Sadat; prima di Sadat c’era stato Gamal Abdel Nasser; dal 1956 l’Egitto aveva avuto tre presidenti. I movimenti islamisti che avevano provato a fare la pelle a Mubarak negli anni novanta erano stati fatti a pezzi, letteralmente; i capi erano andati in esilio ed erano entrati a far parte della galassia di un saudita allampanato ed eccentrico di nome Osama bin Laden. Non c’era davvero opposizione, e quelli che ci provavano finivano in prigione. Almeno una volta al mese uscivano notizie di arresti di massa di Fratelli Musulmani; la polizia politica si presentava a casa, li prelevava nottetempo e li trasferiva in caserme segrete. Il mantra di tutti i regimi arabi era la parola «stabilità». C’era stato lo shock delle guerre con Israele, nel ’48, nel ’67 e nel ’73, e quell’insicurezza era stata sfruttata dai raìs per costruire imponenti stati di polizia. In Egitto c’erano 1,8 milioni tra poliziotti e agenti scelti su 80 milioni di abitanti. Erano dappertutto, anche davanti alle scuole, le uniformi di lana nere, in cui friggevano d’estate sotto il solleone del Nord Africa. Le elezioni erano una farsa, le vinceva il presidente con il 97% dei voti. I quotidiani, con poche eccezioni, aprivano tutti i giorni con la stessa parola: Mubarak. C’era stata, in quel periodo, un’interessante variazione sul tema; Gamal Mubarak, il 22
secondogenito di Hosni, aveva cominciato a battere i corridoi del partito al potere, promettendo un glorioso futuro di democrazia e prosperità. Non ci credeva nessuno. I miei amici emigravano nel Golfo: a Dubai e a Doha e a Riyad. Avevano studiato all’Università americana o all’Università del Cairo, si erano laureati con il massimo dei voti, si erano scontrati con la legge ferrea di ogni dittatura – mangia solo chi sta dentro il Palazzo – ed erano andati a cercarsi un futuro in paesi meno gentili, meno dolci, meno ospitali dell’Egitto, nelle austere monarchie del Khalij, del Golfo. Amr, invece, era rimasto. Si arrangiava facendo traduzioni, e ogni giorno che passava diventava più magro. Non era andato via, mi disse un giorno, per non lasciare la madre sola. Ma era tutto uno strazio. Non aveva i soldi per comprarsi una casa, e senza una casa non poteva trovarsi una fidanzata, e senza una fidanzata non era possibile fare l’amore, poiché flirtare era durissimo al Cairo, e anche le coppie ufficiali che rubavano baci la sera in auto talvolta venivano prelevate dagli agenti in divisa di lana nera. L’ultima volta che vidi Amr fu un anno circa prima della rivoluzione. Mi venne a trovare nei giardini dell’hotel Marriott, a Zamalek, uno dei miei posti preferiti, con i tavoli sotto le palme e le acacie e una sensazione di libertà inedita in una città severa, morigerata, profondamente islamica. Amr mi venne incontro, magro magro, il volto scavato, l’ombra del giovane uomo che ricordavo. Cercai di offrirgli una Stella, la birra egiziana, mi disse che aveva smesso di bere e anche di fumare. Nella sua disperazione di giovane uomo senza un lavoro, senza una casa, senza una donna, senza un futuro, aveva trovato conforto, anche lui, nella religione. Era una reazione tipica, molto diffusa, un rifugio ultraterreno, offerto in abbondanza dalla televisione. Impazzavano i telepredicatori; accendevi la tv e trovavi barbuti vagamente minacciosi recitare versi del Corano. La loro voce sembrava onnipresente: sugli autobus e sui treni, sui taxi e nelle suonerie dei cellulari. C’era un programma cult che se23
guivo spesso: le previsioni del tempo della tv saudita Noor. Le leggeva uno sceicco con un puntuto barbone bianco, e si concludevano immancabilmente con: «Domani ci sarà il sole, inshallah», se Dio vuole. I responsabili del canale erano contrari all’utilizzo della tecnologia dei satelliti per prevedere le temperature poiché, a loro avviso, soltanto il Signore onnipotente poteva conoscere gli umori venturi del cielo; il tentativo di prevederli era una dimostrazione dell’arroganza degli uomini. Era tutto molto inshallah in quegli anni e, pertanto, al Cairo non succedeva niente. A quel tempo collaboravo con un piccolo giornale per il quale dovevo scrivere per contratto un pezzo a settimana. Era difficile. I miei capi, a Roma, mi facevano le domande che si facevano tutti, fuori, nei mesi dell’invasione americana dell’Iraq: «Ma esiste una piazza araba?». Io dicevo no, non esiste, questi dormono. Ogni volta che qualcuno ci provava, a indire una manifestazione, si presentavano cento persone e mille poliziotti, cinquecento se andava proprio bene, e cinquemila agenti, c’era sempre questo rapporto schiacciante tra la gente e le divise, tanto per non dare adito a idee strane. E ora? Il film che scorre fuori dal finestrino del mio taxi, è inedito. Il Cairo ha le sembianze di una curiosa zona di guerra: curiosa perché non si sentono spari. Ci sono tanti carri armati e posti di blocco, di diversa natura. Militari in divisa si alternano a ragazzini in jeans e maglietta, armati di bastoni e coltelli. Guardo meglio. I ragazzini sono armati anche di diversi oggetti contundenti e stravaganti, sottili a un’estremità, potenti dall’altra: mazze da baseball. Sorrido. Mi torna in mente il racconto dell’amico Max Rodenbeck. Barricato in casa, nella sua favolosa villa nel più favoloso dei quartieri, ha reagito a una presunta minaccia, un trambusto esterno, aggrappandosi alla prima arma che potesse servire alla bisogna: una lampada bianca art déco. I ragazzini sono amichevoli, molto. Sono lì a difendere le lo24
ro case dai galeotti «in libera uscita». Alla vista del passaporto della khawaga, lasciano passare, con un sussulto di fierezza. Intuisco che sono felici dell’arrivo di testimoni. I militari un po’ meno. Non è il loro mestiere, gestire il traffico della capitale in tempi di sommossa. Non gradiscono il ruolo di pompieri. Sono bruschi. «Vada! Vada! Circolare.» Arrivo al Marriott di Zamalek che saranno le 10. L’albergo pullula di giornalisti; nella lobby ci sono i protagonisti della tv. È una delle disgrazie di guerre e rivoluzioni, l’abbattersi del circo mediatico, soprattutto delle televisioni, con le loro rovinose troupe e le loro star cotonate. Mi fanno sempre l’effetto di orde barbariche, cavallette nefaste da cui girare al largo, il simbolo della malattia degenere del giornalismo, la commistione tra informazione e spettacolo. Gli americani sono i peggiori; i più narcisi, i più arroganti, spesso anche i più ignoranti. Sono i primi ad arrivare, e i primi ad andare via, e nel mezzo, tra l’arrivo e la partenza, quanti collegamenti! Quante breaking news! Quanti resoconti fenomenali di avventure che riguardano prima le star cotonate paracadutate da fuori, e dopo la storia che dovrebbero raccontare! Prendo possesso della mia stanza; è sul lato del Nilo. Dalla finestra, vedo dall’altra parte del fiume, i carri armati parcheggiati davanti alla torre bianca del ministero degli Esteri e, più in là, a un centinaio di metri a destra, a presidio dell’orrendo mabna al telefision, il palazzo della tv di stato. Chiamo l’amico Max. Dice: «Vieni». Dove? «A Tahrir.» Come? «A piedi, non ci sono taxi, è tutto bloccato.» Esco dalla mia camera; nella lobby incrocio il volto rubizzo di Robert Fisk, il leggendario inviato dell’Indipendent. L’ultima volta che l’ho incontrato, a Beirut, mi ha detto di aver raccontato trenta guerre e che a 60 anni si sveglia al mattino e si chiede: «Dove sarà la prossima esplosione?». Fuori, la Corniche è spettrale. Max ha consigliato di cammi25
nare sulla shara Gezira, quella tra il parco Gezira e il Nilo, e di attraversare il ponte Qasr al Nil, pare sia il percorso più sicuro. La shara Gezira è vuota, per strada ci sono solo io. È una sensazione strana. Il Cairo è una megalopoli di 18 milioni di persone che, all’apparenza, non dormono mai; in condizioni normali, ha livelli di inquinamento acustico pari ai decibel di una discoteca il sabato sera. Spezza il silenzio il latrare di un cane; detesto il latrare dei cani, mi fanno sentire indifesa. Allungo il passo, e mi volto spesso indietro. Capisco che andrà tutto bene all’altezza del parco: c’è un posto di blocco. Sono i residenti di Zamalek: fanno anche loro, a turno, la guardia al quartiere. Più adulti, rispetto a quelli che ho incontrato sulla strada dall’aeroporto; e perfino più curiosi. C’è chi beve vino bianco, seduto su di una Harley nera; e chi sta in piedi e mima, nel mezzo della via, un colpo da golf. Mi vedono bianca e sola e, come cavalieri di un Grand hotel, mi danno il benvenuto e alzano il passaggio a livello fatto di scope. Max mi aspetta in un vecchio attico di un suo amico, Pierre Sioufi: un omone gigantesco, dal sorriso buono, che si sarebbe sentito a suo agio in Europa durante il ’68. In Medio Oriente non è arrivato, il ’68, in compenso c’è stato il ’67, la Caporetto degli arabi, per mano di Israele. L’attico si trova in centro, nel vecchio quartiere europeo, sulla Talaat Harb, all’angolo con Tahrir, e ferve di eccitazione. Pierre Sioufi indossa una maglietta di Che Guevara, troppo piccola per la sua pancia florida; Khalid Abdalla, una star del cinema, il protagonista del film Il cacciatore di aquiloni, fa foto a raffica, avanti e indietro; e lungo un fitto e buio corridoio torme di ragazzi sono spalmati sul pavimento, affaccendati su Facebook, YouTube e Twitter. Ci cammino sopra, a saltelli, per arrivare al balcone. Ha una vista magnifica su piazza Tahrir. È lì che trovo i miei amici, stravolti. Karima zampetta come un grillo, lei signora della buona borghesia cairota, non si contiene: «È incredibile! È incredibile! Siamo davvero in Egitto?». 26
Una sua amica si stropiccia gli occhi: «Non ci posso credere». Un suo amico finge imperturbabilità, poi cede: «Ho la pelle d’oca». Max mi abbraccia, gli brillano gli occhi. Sono trent’anni che vive al Cairo, trent’anni che bivacca sull’abisso dell’infelicità araba. «Finalmente» dice. Guardo dall’alto la piazza, e vengono anche a me i brividi. È lì che capisco che nel più letargico dei paesi, il più importante fra quelli arabi, si sta davvero compiendo un miracolo: è arrivata la rivoluzione. Piazza Tahrir è sempre stato il cuore sdrucito della città, la piazza Venezia d’Egitto, una rotatoria di traffico impazzito e librerie dozzinali e locali fast food, con il nefasto edificio del Mogamma, la sede kafkiana della burocrazia egiziana. Ora è un immenso accampamento. Nei diversi punti della spianata, a est, davanti ai palazzi art déco del primo Novecento, e a nord, dalla parte del Museo Egizio, a ovest, di fronte ai cantieri del Nile Hilton, e a sud, nei giardini del Mogamma, brulica un’ardente fiumana. Odo un unico urlo, una sola preghiera: «Erhal!», vattene. A ognuna delle otto entrate della piazza, oltre ai carri armati e ai soldati, che talvolta pregano sull’asfalto assieme agli shebab, i giovani, ci sono i posti di blocco della rivoluzione, a destra le donne, a sinistra gli uomini. Non è possibile entrare e uscire senza essere perquisiti da una signorina gentile ma risoluta che, mentre ti palpa, dice: «Welcome, welcome. Sorry, sorry». C’è chi dorme sui marciapiedi e sulle aiuole, chi canta improvvisate canzoni con flauti e liuti e chi raccoglie la spazzatura con guanti di plastica e la depone in perfette colline sulle vie dell’improvvisato campeggio. Un ragazzo disegna su un muro il volto di Mubarak: è nero e di carbone, somiglia a un santino, una di quelle foto dei manifesti delle pompe funebri. Un altro ragazzo si ferma e lo guar27
da, poi tira fuori una bomboletta spray e scrive la sua. Dall’alto vedo teste che si muovono nella sua direzione; si forma un capannello dai confini fluidi, aperti. Dalla mia postazione faccio fatica a leggere la scritta, ma deve essere importante, poiché il capannello si spella le mani e grida qualcosa che non capisco. Non lo capisco perché nel frattempo due caccia compaiono terrificanti sopra le nostre teste, e per un attimo sembrano piombare sulla folla, quasi stiano per schiantarsi, poi impennano e risalgono oltre il Nilo. È il potere che ricorda al popolo i rapporti di forza. Torno con lo sguardo al capannello: non c’è più. È la natura della folla, questo aggrumarsi e ritirarsi liquido. È rimasta, rossa e solitaria, la scritta: GRAZIE BOUAZIZI. All’università, a Roma, avevo svogliatamente studiato Sociologia. Pochi libri mi sono rimasti dentro, di quegli anni confusi; uno di questi è Psicologia delle folle di Gustave Le Bon. Ci avevo pensato la prima volta nella casbah di Tunisi, tra le tende di quella rivolta, osservando ragazze velate farcire panini di pita con cucchiaiate di harissa, il peperoncino piccante companatico dei poveri del mondo. Erano lì, sotto i portici della residenza del Primo ministro, a farcire panini con una tale ferocia che sapevi che non se ne sarebbero andate, sarebbero rimaste anche tutta la vita con i loro cucchiai di harissa. Che cosa era successo? Che cosa era cambiato nei loro cuori? Che cosa aveva fatto di un’infelicità una rivoluzione? Le Bon è stato uno dei fondatori della psicologia sociale, e pubblicò il suo libro nel 1895, dopo aver studiato la primavera dei popoli del 1848 e l’affacciarsi delle masse nella Storia. Che cosa aveva scritto Le Bon di tanto rilevante da influenzare Freud e Jung? Quale teoria aveva proposto, allora, tanto definitiva e universale da osservarne oggi la realizzazione, a Tunisi, al Cairo, a Bengasi e in tutte le piazze infiammate dall’orgoglio arabo? Cito alcuni passi: I grandi cambiamenti di civiltà sono conseguenza dei cambiamenti nel pensiero dei popoli. Grazie alle folle si completa la 28
dissoluzione di civiltà troppo invecchiate. I soli cambiamenti importanti, quelli che consentono il rinnovarsi delle civiltà, avvengono nelle opinioni, nei concetti, e nelle credenze. Gli eventi degni di memoria non sono che gli effetti visibili di invisibili mutamenti dei sentimenti umani. Ci sono dei momenti critici, durante i quali il pensiero umano si trasforma. Questi momenti critici di solito si rivelano in presenza di condizioni di vita e di pensiero completamente nuovi, prodotte dalle moderne conoscenze della scienza. La potenza della folla nasce con il propagarsi di certe idee che si radicano lentamente negli spiriti, poi grazie al graduale associarsi degli individui si consente la realizzazione di concetti fino ad allora teorici. Grazie a una potenza unicamente distruttiva, le folle agiscono come quei microbi che accelerano la dissoluzione dei corpi malati o dei cadaveri. Quando l’edificio di una civiltà è tarlato, le folle ne provocano il crollo. È in quel momento che si manifesta il loro compito. Per un attimo la forza cieca del numero diventa la sola filosofia della Storia.
E quando avviene questa epocale mutazione? In determinate circostanze, e soltanto in tali circostanze, un agglomerato di persone possiede caratteristiche nuove ben diverse da quelle dei singoli individui che le compongono. La personalità cosciente svanisce, i sentimenti e le idee di tutte le unità si orientano nella medesima direzione. Si forma così un’anima collettiva, senza dubbio transitoria, ma con caratteristiche molto precise. La collettività diventa una folla organizzata, psicologica, con una unità mentale. Ciò che più ci colpisce di una folla psicologica è che gli individui che la compongono – indipendentemente dal tipo di vita, dalle occupazioni, dal temperamento o dall’intelligenza – acquistano un’anima collettiva per il solo fatto di appartenere alla folla. Tale anima li fa sentire, pensare e agire, in un modo del tutto diverso da come ciascuno di loro, isolatamente, sentirebbe, penserebbe e agirebbe. L’individuo dentro la folla acquista, per il solo fatto del nume29
ro, un sentimento di potenza invincibile. Ciò gli permette di cedere a istinti che, se fosse rimasto solo, avrebbe senz’altro repressi. Ogni sentimento, ogni atto è contagioso in una folla, e a tal punto che l’individuo sacrifica molto facilmente il proprio interesse personale all’interesse collettivo. Si tratta di un comportamento innaturale, del quale l’uomo diventa capace quasi soltanto se entra a far parte di una folla. Migliaia di individui separati, sotto l’influenza di emozioni violente, possono acquistare le caratteristiche di una folla psicologica. Basta allora che una circostanza casuale li riunisca perché il loro comportamento acquisti quella forma che è particolare delle folle.
E cosa è stata per gli arabi, la circostanza casuale, l’incidente della Storia, che ha fatto di singoli individui una folla? L’immolazione, il 17 dicembre del 2010, nel brullo entroterra tunisino, di un giovane uomo di nome Mohamed Bouazizi. E che cosa c’è in quel gesto che parla a 350 milioni di arabi, al punto da farli sollevare come un solo uomo? Cosa c’è in quel gesto che è mancato a un altro incidente della Storia, che avrebbe dovuto creare, nelle intenzioni degli artefici, il casus belli incendiario dell’intera nazione araba? Perché, insomma, il gesto di Mohamed Bouazizi diventa il manifesto di un risveglio, di una primavera, e il crollo delle Torri l’11 settembre il cimitero di un altro, diverso sogno di rivoluzione? Pensiamoci. Che cosa è avvenuto l’11 settembre? Quattro aerei vengono dirottati da diciannove uomini arabi, due si schiantano contro le Twin Towers di Manhattan che crollano, il terzo si scaglia contro un’ala del Pentagono, il quarto in un campo della Pennsylvania abbattuto dalla ribellione dei passeggeri, che provano a riprenderne il controllo. Questi i fatti. Ma che cosa hanno pensato gli arabi? Perché non si sono sollevati? Erano queste le intenzioni di Osama bin Laden e del suo successore al vertice di Al Qaeda, Ayman al Zawahiri. La dimostrazione di potenza di un’avanguardia islamica che umilia il Grande Nemico, il protettore dei tiranni, il difensore di Israe30
le, il custode di uno status quo che umilia i musulmani, avrebbe scosso l’apatia delle folle arabe, e le avrebbe indotte all’azione. Un piano davvero folle. Cosa c’era di commovente nella morte di migliaia di persone? In chi o che cosa si potevano immedesimare gli arabi? Quale molla profonda poteva scattare? La reazione generale fu di rimozione. Non siamo stati noi. Non ne siamo capaci. Abbattere le Torri a bordo di aerei dirottati? Saranno stati gli ebrei. Loro sì che saprebbero come fare. E poi chi erano questi dirottatori arabi? Chi li pagava? E come gli è venuto in mente? La gente non ci crede, e anche chi ci crede, e un po’ gongola alla vista del gigante crudele accecato, tira dritto per la sua strada e pensa: abbiamo già così tanti problemi e altri ne avremo, vedrete; se sono stati davvero degli arabi, il conto lo pagheremo tutti. E il conto, infatti, lo pagano due paesi musulmani, di cui uno arabo, l’Afghanistan e l’Iraq, e i tiranni restano sul trono, anzi agevolano le avventure del gigante accecato a Kabul e in Mesopotamia. Fino al 17 dicembre 2010, il giorno dell’immolazione di Mohamed Bouazizi. Cosa fa di quel gesto l’incidente della Storia che trasforma singoli individui in una folla rivoluzionaria? Per capirlo dobbiamo tornare a Sidi Bouzid, a quella mattina tersa nel centro di un paese di basse casupole derelitte e abusive. Al momento in cui Mohamed Bouazizi perde il carretto e le sue mele, e bussa disperato alle porte del potere. Al momento in cui, umiliato, acquista un litro di acetone, e bussa di nuovo, e urla restituitemi il carretto, io sono un uomo. Ha la testa fradicia di acetone e l’accendino in mano, e al ghigno della guardia, dice: basta. La misura è colma. Non potete farmi questo. Non è giusto. Non lo accetto. Non ve lo permetto. Non sono una bestia. Sono un uomo. Ridatemi il mio carretto. Ridatemi le mie mele. Non so cosa abbia fatto la guardia. Può darsi che abbia riso, può darsi che si sia grattato la testa. Di certo Mohamed Bouazizi si sente perso. Non sa bene quel che sta facendo, non ragiona, sa solo che non ne può più, e che rivuole il suo carretto, il carretto che gli ha regalato suo padre, con le sue mele. 31
Non sa dove sta andando, il suo è un atto di distruzione. Dice: basta. Non può andare avanti. E che accada quel che deve accadere. E accende la fiamma e l’avvicina alla testa e brucia, poiché il potere non gli lascia altra scelta. Deve farlo, per sentirsi un uomo. Deve accendere quel fuoco, se vuole lavare la sua umiliazione. Deve morire, di acetone, se vuole smettere di essere una bestia e rinascere, mentre muore, da uomo. E la gente è colpita. Prima in quel quartiere, poi in tutto il paese, poi nei paesi vicini, poi in tutta la Tunisia, infine oltre confine, la gente piange il sacrificio di quel giovane uomo. Lo capisce. Lo sente nelle viscere. Sa perché quel ragazzo sconosciuto, con il più arabo dei nomi, Mohamed, Maometto, come il profeta, si è dato fuoco. Riconosce il suo dolore: è anche il loro. Ridatemi il carretto, impreca Bouazizi. Non ve lo permetto. Ha ragione, pensa la gente. E scende in piazza, forte di quel dolore, e la polizia l’ammazza. Ma la folla ormai ha un esempio, un sentiero, un’icona. Non è più come prima. È cambiata l’equazione. La gente non ha più paura. Cosa ha da perdere? La vita. E cosa vale la vita senza l’onore? La prima fase della rivoluzione egiziana dura diciotto giorni, dal 25 gennaio all’11 febbraio 2011. Da quel martedì iniziale a quel venerdì finale, quante emozioni, quante scoperte! La prima avviene una mattina di fine gennaio, a Tahrir. Mi aggiro per la piazza, sotto un cielo stranamente grigio. Pioviggina, al Cairo, tutta barakat, benedizione, dicono gli arabi. Mi domando chi siano, i ragazzi e le ragazze che chiedono i documenti ai posti di blocco improvvisati, e da dove vengano i fondi per acquistare i panini e l’acqua che mani gentili e sconosciute mi offrono di sovente, assieme all’immancabile «Welcome to Egypt». E le coperte del bivacco? E le tende? Ce ne sono dozzine, piccole e grandi, bianche e verdi, tra le aiuole delle rotatorie al centro della piazza. Mi torna in mente un’altra intifada, quella del Libano, di qualche anno prima. Era il 2005, e in quel caso la circostanza casuale, l’incidente della Storia, che fece di singoli individui una folla, fu l’assassinio di un ex premier, Rafiq 32
Hariri. Per settimane, piazza dei Martiri a Beirut si riempì della febbre dei libanesi, che alla fine vinsero la battaglia e mandarono a casa i siriani, che occupavano da trent’anni il loro piccolo paese. A colpirmi, i primi giorni, furono le immagini sofisticate della rivolta, le spille e i manifesti e le sciarpe e le magliette, brandite dalle signore altolocate di Ashrafieh in piazza con i cagnolini e le filippine al seguito. Feci una ricerca, e scoprii che a organizzare l’intifada, i suoi slogan, i suoi loghi, a dare una forma laccata a ciò che era una genuina rivolta di popolo era intervenuta una nota società di marketing, la Saatchi&Saatchi; ma quello era il Libano, il più stravagante dei paesi arabi. Mi aggiro per Tahrir e cerco segni di un’avanguardia, e li trovo, all’improvviso, tra le tende al centro dell’aiuola. Sono qui per parlare con un poeta. Lo aspetto, su di una collinetta di fango, sotto la pioggia, mentre confabula con un altro ragazzo. Avranno, sia lui sia il poeta, non più di 30 anni. Si aggiunge un terzo, forse anche più giovane, la testa coperta dalla bandiera dell’Egitto. Parlottano fitto, in disparte; si scambiano furtivi bigliettini e passaparola segreti. Ogni tanto qualcuno si avvicina e li interrompe e prova a baciar loro la mano. Strabuzzo gli occhi. Guardo meglio. In effetti succede proprio questo. Un signore anziano, e con la barba, si avvicina al trio di giovanotti che parlotta fitto, in disparte, e senza aspettare, senza chiedere il permesso, prende la mano del poeta e prova a baciarla. Il poeta la ritrae timido e sorride e dice una roba del tipo siamo qui affinché tu non debba mai più baciare la mano a nessuno. Hai visto? Dico a me stessa. Un vecchio che bacia la mano a un ragazzo, nella più patriarcale delle società, in cui il padre, l’anziano, il boss ha sempre ragione; in una società in cui ti insegnano nella culla la sottomissione, in cui se sei giovane non conti nulla. Ho appena visto un vecchio con la barba provare a baciare la mano di un ragazzo imberbe. «Chi siete?» chiedo al poeta, un giovane dolce e arguto, che si fa chiamare Abdul Rahman Yusuf. Non è il suo vero nome; quello lo ha messo da parte, ed è anche questa una piccola rivoluzione. Suo padre è un importante telepredicatore, uno sceic33
co famoso, forse il più noto, in Egitto, e anche fuori: Yusuf el Qaradawi. Fa parte dei Fratelli Musulmani, e ha un pulpito, un programma sulla tv Al Jazeera, dal quale scaglia i suoi strali contro l’America e Israele e la tirannide e la corruzione dei costumi degli arabi. È un vecchio altezzoso, barbuto, roboante, pio e zelante, ed è difficile credere che sia il padre del poeta. Abdul Rahman Yusuf mi sorride. Dice: «Siamo la gioventù egiziana. Siamo un gigante che si è ormai sollevato e che sta scrivendo col sangue la sua poesia di libertà». Bello. Mi piace. Molto. Ma chi siete? «Siamo l’avanguardia della rivoluzione.» Il giorno dopo mi procuro i loro nomi e i numeri. Desidero incontrarli, e ascoltare le loro storie. Senza di loro l’incidente della Storia, che sgomenta ed esplode, l’immolazione di Mohamed Bouazizi, sarebbe scemato nella pattumiera delle poesie che ci commuovono, ma che non germinano fiori. Senza i loro sforzi, nella costruzione di un diverso edificio, mattone dopo mattone, quando non ci credeva nessuno, la deposizione del dittatore non avrebbe avuto luogo. Senza le loro azioni vorticose, a tirare le fila della folla, sarebbe stata ardua la vittoria. E loro non rappresentano solo i giovani egiziani, bensì un’intera generazione: sono tunisini, libici, yemeniti, siriani, del Bahrein e di ogni singolo paese arabo in cui la modernità, la presenza di nuove condizioni di vita e di pensiero ha prodotto gli anticorpi a tirannidi ammuffite. Erano pronti, nell’attimo in cui la forza cieca del numero diventava la sola filosofia della Storia. L’aspettavano da tempo.
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