Tunguska o la fine della natura

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Michael Hampe

Tunguska o la fine della natura Romanzo filosofico Traduzione di Mario Farina


Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreED Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore © 2011, Carl Hanser Verlag München © il Saggiatore S.p.A., Milano 2013 Published by arrangement with Marco Vigevani Agenzia Letteraria Titolo originale: Tunguska oder Das Ende der Natur


Tunguska in memoria di Hermann Hampe e Richard B. Braithwaite, che si sono dedicati anche a ciò che è naturale


Quanto il dì risplendé, con vele spase Navigavamo. Spento il giorno, e d’ombra Ricoperte le vie, dell’Oceáno Toccò la nave i gelidi confini, […] Cui nebbia, e bujo sempiterno involve. […] Ed ecco sorger della gente morta Dal più cupo dell’Erebo, e assembrarsi Le pallid’Ombre. Omero, Odissea, Libro xi, 14-17 e 46-48 Diogene O Polluce, i’ vo’ darti un incarico. Poiché tosto ritornerai su, ché, pensomi, spetta a te di riviver dimani […] Non altro che questo: ammoniscili che smettano le inezie, e il contender degli universali, […] e il far coccodrilli, o il riempir la mente di quistioni difficili. Luciano di Samosata, Dialoghi dei morti, Dialogo i, «Castore e Polluce» Siccome i morti hanno bensì spirito, devono veder presto i limiti di tutto ciò che è materiale. Bernard de Fontenelle, Nouveaux dialogues des morts, «A Lucien, aux Champs Élysées» Quando il risucchio semispento della nave affondata mi prese, fui allora tirato […] verso il vortice che si chiudeva […] e sempre attratto dal nero bottone della bolla, all’asse di quel cerchio che roteava lento, girai come un altro Issione. Finché, nel toccare quel centro vitale, la bolla nera esplose […] e saltando a galla con forza per essere così leggera, la cassa da morto-salvagente balzò quant’era lunga dal mare, ricadde, e mi galleggiò accanto. Hermann Melville, Moby Dick, Epilogo


Gli orologi si fermarono all’una e diciassette. Una lunga lama di luce e poi una serie di scosse profonde. Lui si alzò e andò alla finestra. Cosa c’è?, disse lei. Lui non rispose. Andò in bagno e premette l’interruttore ma la corrente era già andata via. Un debole bagliore rosato alla finestra. Lui si chinò su un ginocchio e alzò la levetta per bloccare lo scarico della vasca e aprì al massimo tutti e due i rubinetti. Lei era ferma sulla porta in camicia da notte, aggrappata allo stipite, una mano a sostenere il pancione. Cosa c’è? Che succede? Non lo so. Perché ti fai il bagno? Non mi faccio il bagno. Cormac McCarthy, La strada Quando gli ecologisti più frenetici esclamano tremebondi: «La natura sta morendo», non riescono a vedere quanta ragione abbiano. Grazie a Dio la natura sta morendo. Sì, il grande Pan è morto! Dopo la morte di Dio […] era ora che anche la natura cedesse il passo, altrimenti presto non si sarebbe più potuto fare politica. Bruno Latour, Politiche della natura. Per una democrazia delle scienze Ciò che si muove non si muove né in quel luogo in cui è, né in quello in cui non è. La freccia in movimento sarà in quiete. Zenone di Elea, D.-K. 29 e D.-K. 29.2 Poiché da qualche parte nell’espressione si nasconde un importante termine del tempo. Thomas Pynchon, Contro il giorno



Sommario

I CINQUE ELEMENTI. Un dialogo dei morti

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Acqua Primo dialogo Arrivo 24; Čerenkov racconta l’esperienza di suo prozio  27; Feierabent

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Terra Secondo dialogo

63 71

dubita per la prima volta  29; Il panico di Leonid Kulik  30; Come si distinguono i fatti dalla finzione?  32; Che cos’è una spiegazione naturale?  36; Evento naturale unico  46; Fantasia e cosmogonia  50; Natura e matematica  54; La natura vivente  58

Naturale e artificiale  71; Natura predisposta  73; Tesla come autore dell’evento  77; Se esista una gerarchia nella natura e un diritto sulla morte degli animali  80; Interesse umano e natura  92; Nidifughi nati troppo presto  101; Osservazione del mondo e tecnica  105

Fuoco Terzo dialogo

109 115

Casualità assoluta  115; Percezione del passato  121

Aria Quarto dialogo

131 136

Feierabent sull’apparire delle connessioni  136

Quinta essenza

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NATURALITÀ DIVISA. Un saggio di filosofia della natura

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La separazione originaria  167; Distacco dall’essenza  172; Linguaggio e mondo  174; Tutto dev’essere spiegato  177; Vita  179; Ciò che accade di per sé  181; La natura divina  184; Il corpo come natura  186; Il soprannaturale e la tecnica  189; La natura umana nascosta   192; Natura finita e natura infinita  194; «Skepsis» e devozione per la natura  197; Il naturale e lo sbagliato  201

Postfazione

213

Eventi unici e irripetibili  213 Ciò che è spiegabile e ciò che è inspiegabile   215; Fine della natura: tre modi  218; Ringraziamenti   221

Note

223

Indicazioni bibliografiche

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Indice delle illustrazioni

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I CINQUE ELEMENTI Un dialogo dei morti



Acqua

Per la frazione di un secondo, il soffio della balena richiamò alla mente una figura umana, semisdraiata; mentre si portava in posizione seduta, distendeva le braccia e rovesciava la testa all’indietro. Faceva pensare a una persona sul punto di alzarsi dal proprio giaciglio, che al risveglio si mette seduta stiracchiando la schiena e il collo. Era proprio come se una delle braccia distese fosse lì lì per portare la mano davanti alla bocca spalancata in uno sbadiglio. Questo veniva da pensare guardandola. O, al contrario, sembrava un uomo seduto che, esausto, si lascia cadere sul letto con le braccia aperte, nell’attesa di addormentarsi sul morbido giaciglio. Forse anche un tuffatore, quando dalla piattaforma spicca un salto1 all’indietro e, nella sua strada da un elemento all’altro, per un attimo assume proprio questa posizione di mezzo con le braccia allargate, prima di stendersi completamente come una freccia e sparire in acqua davanti al giudice di gara. Proprio come il corpo di un uomo che nella fossa si disgrega e ritorna terra, la fontana della balena si disintegrò, l’immagine dell’uomo mezzo seduto e mezzo sdraiato sprizzò in miriadi di gocce e si perse nuovamente in mare. La balena sparì nell’oscurità delle profondità marine tra alghe lunghe più di cinquanta metri, in gole rocciose ricoperte di molluschi neri. Da queste gole si staccano spesso giganteschi branchi di aringhe e sgombri che salgono diretti verso il Sole. Danzano nella corrente come stormi di uccelli, oppure, quando vengono cacciati dai delfini, dalle foche o dagli altri predatori, sfuggono formando figure complicate e muovendosi co-


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me un unico essere. Così facendo, alcuni predatori diventano loro stessi delle prede. Come ad esempio quando un’orca riemerge e, con le fauci o la coda, catapulta fuori dall’acqua un leone marino che, a sua volta, stava inseguendo delle aringhe. Quando ce l’ha in bocca lo colpisce e lo scuote, come il cane con il coniglio e il gatto con il topo, così da rompergli le ossa nel corpo, prima di dilaniarlo con un morso colorando il mare di rosso. Qui dove non volano gli arpioni, le balenottere e i capodogli, enormi, si immergono nei banchi dando vita a una caccia che non trova opposizione. I calamari giganti a otto braccia, invece, attendono le prede per cibarsene con bocche armate di becco; bestie enormi e sorprendentemente intelligenti, i loro organi della vista assomigliano all’occhio umano (vedranno poi anche loro come vediamo noi?). Al di sotto del regno delle grandi seppie inizia la zona della notte eterna. Oltre i mille metri di profondità, più in profondo di quanto si immerga la balena, si raggiunge il luogo nel quale non arrivano i raggi del Sole. Anche qui però vivono animali. Jaques Piccard, nel 1960, a bordo del suo batiscafo Trieste, osservò a 10 916 metri di profondità un pesce degli abissi. Gli esseri che vivono in questa parte del mondo sottomarino depositano le loro uova più in alto, nelle regioni acquatiche ancora inondate dalla luce. Quando le larve sgusciano e diventano pesci, hanno ancora bisogno di anni prima di potersi spingere nelle profondità marine, nel mondo dei loro genitori, e sentirsi a casa propria sotto il peso di quella pressione enorme. È stato osservato che, due giorni prima che la luna piena si alzi nel cielo, i pesci degli abissi nuotano in superficie. Così capita che si ritrovino nelle reti dei pescatori o negli stomaci dei merluzzi, che conoscono bene la risalita del mondo abissale in occasione della luna piena. Esseri incredibili vengono perciò ritrovati nelle reti quando i pescatori le ritirano, oppure quando squartano i merluzzi. I pesci delle grandi profondità hanno, infatti, un aspetto strano: sono semitrasparenti, hanno denti vitrei, appuntiti, minacciosi e occhi sproporzionatamente grandi e ciechi. Così è il pesce lanterna, che con una specie di lume vaga nell’oscurità. La lampada pende da un sostegno che cresce proprio sopra la sua testa rotonda, una sorta di bacchetta chiamata, non senza ragione, «canna da pesca». Questa luce, infatti, attira le prede che il pescatore afferra con la sua bocca piena di denti affilati aperta su un mento incurvato dal basso verso l’alto.


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I pesci degli abissi sono fragili, poiché laggiù non c’è pressoché calcio. Quando giungono a scorgere la luce del mondo in superficie, il calcio è lì a loro disposizione. Ma la loro risalita dalla notte abissale diventa sempre più rara, e dunque le loro ossa e i loro denti diventano sempre più trasparenti. Non assomigliano un po’ alle ombre dell’Ade, assetate di sangue, che in Omero incutono timore ai viventi? Questi esseri sono animali dall’aspetto feroce e, allo stesso tempo, sotto la pelle e sotto i muscoli sottili, sono fragili come porcellana.Una volta migrati dal luogo di nascita verso il loro ambiente naturale, i loro occhi diventano sempre più grandi, di modo da poter vedere ancora qualcosa nel progressivo venir meno della luce, finché, giunti sul fondo, non ne hanno più bisogno e diventano quasi ciechi, se non del tutto. Anche gli spettrali pesci diavolo hanno delle luci sui tentacoli posti sopra gli enormi occhi ciechi. «Nonostante i loro occhi siano atrofizzati» così si dice «tutti i pesci di grandi profondità hanno degli organi luminosi. La molecola (atp) che immagazzina la loro energia corporea si lega a una sostanza luminescente detta luciferina e si ossida, in presenza di ossigeno, producendo la bioluminescenza. In alcuni organi luminosi la luminescenza può essere disattiva, perché


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l’aggiunta di ossigeno è ridotta».2 Alcuni di questi cacciatori, ciechi ma luminosi, hanno persino uno specchio plasmatico dietro la lanterna, con il quale possono diffondere la luce. Quando una vittima, dotata di una vista migliore, si avvicina alla bocca del predatore ed entra nel suo cono di luce, questi tira verso di sé la propria lanterna, la ferma appena davanti alla bocca e apre la branchia che ha dentro le fauci, così da formare un vortice sopra la bocca che trascina la vittima direttamente nel suo stomaco. Mentre nelle profondità di migliaia di metri si caccia in questo modo da milioni di anni, più in alto, dove saltano i delfini, la msc Norach, lunga quattrocento metri e carica di sedicimila container refrigerati, traccia la propria scia in un mare grigio, tranquillo, coperto da un sottile lembo di nebbia. Dalla prospettiva di un albatros che vola alto nel cielo, questi container sembrano bare accatastate, solo che sono molto più grandi. All’interno di ognuno di essi potrebbero essere stipati venticinquemila chili di carico. Se consideriamo in sessanta chilogrammi il peso medio dei cadaveri (i neonati, i bambini più leggeri e i vecchi vengono compensati dagli adulti più pesanti e dai politici più grassi), avremmo spazio per 6 666 666 cadaveri a bordo della Norach. In alternativa, più persone vive potrebbero trovare posto come passeggeri in ognuna delle sedicimila gelide casse. Il risultato sarebbe una piccola città galleggiante, delle dimensioni di Pécs in Ungheria, o di Osnabrück in Germania. In ogni parte del mondo queste navi portacontainer solcano il mare e abbandonano di quando in quando l’oceano per risalire i fiumi verso le città, come sul fiume Huangpu alle foci dell’imponente Yangtze, vicino a Shanghai. Qui scaricano le loro casse e ne caricano delle altre – piene di carabattole, pneumatici per auto, T-shirt, cuscinetti a sfera, cravatte, tubi di gomma, mutande e motociclette; cariche di romanzi rosa, tastiere, coltelli, stampanti, pillole per il mal di testa, fucili, poltrone da ufficio, asciugatrici e televisori; piene fino a scoppiare di scatole di cartone che contengono aspirapolvere, telefoni cellulari, vibratori, impianti stereo, macchine fotografiche, lampadine, orologi da polso, bambole di plastica, collanine di vetro, pentole da cucina, cartucce, portadocumenti e rossetti, tutti con attaccata l’etichetta «Swiss made», oppure «made in China», «made in Germany», «made in Taiwan», «made in UK», «made in Japan»; sacchi di farina di soia dal Brasile, lamine di acciaio dall’India,


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casse di lana di pecora dall’Australia, o banane, sempre dal Brasile. Nei World Trade Center sparsi per il globo si sorveglia da vicino sia la circolazione delle merci, sia il corso del denaro che queste mettono in moto – il movimento rapido e ininterrotto del mezzo di scambio universale. A differenza dell’acqua, che sale evaporando e ridiscende sotto forma di pioggia, il denaro, miracolosamente, aumenta durante il proprio percorso nel fiume di dati elettronici, da solo, come dal nulla, così come si riproducono i parassiti (male sui causa) sui quali veglia Belzebù. Nei piani alti, dietro le vetrate da dove lo sguardo vaga in flussi meandrici sulle città fumose, siedono su poltrone di pelle, vestiti di nero, con bicchieri di cristallo pieni di brandy invecchiato che oscillano accanto ai bilanci commerciali freschi di stampa. Dall’alto delle loro cravatte blu o rosse parlano di continuo, e non solamente per dire le solite menzogne; blaterano spesso di «creatività», di «progresso», oppure del fatto che «solo i più capaci sopravvivranno». Regolarmente questi sacerdoti del denaro recitano il salmo della religione del mercato: «l’uomo» dicono parlando del principale flagello per gli altri esseri viventi «è l’animale vincente». «Noi», ora intendono se stessi, ossia la piaga delle piaghe, «siamo i vincenti di questa specie di vincenti. Questo ci impone di essere duri, ci impone il dovere della mancanza di riguardo. Solo la crudeltà conduce al successo.» Così borbottano coloro i quali vivono mulinando perennemente nel gioco infantile della concorrenza, opportunaamente armati di contratti e garanzie, mentre le cornacchie ridono volando attorno alle loro torri. Anche le formiche, dalla loro boscaglia, arrivano vicino ai portoni argentei e splendenti delle sedi centrali, scalano l’umido fallo luccicante del denaro per strappare dagli arbusti sempreverdi degli attici le foglie di cui si nutrono. Gli insetti striscianti sopravvivranno quando le torri non saranno più abitabili (così come i lupi tornano nei boschi dopo la bonifica dei campi minati). Giovani signore vestite con abitini neri si presentano ai buffet mentre i loro uomini consolidano le reciproche strategie future, mentre il Sole cala sul fiume e sulle navi che salgono e scendono la corrente. Brindano a loro stessi. Sono così imponenti le arterie della Terra sulle quali viaggiano le navi quando lasciano il mare dirette nelle città dalle gigantesche torri in vetro e acciaio. Come ad esempio l’Enisej, nel quale, vicino a Turuchansk, poco più a sud del Circolo polare artico, sfocia il Tunguska, sul cui corso il


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ciarpame dell’uomo viene trasportato al luogo di destinazione. Una nave di container fa una figura straordinaria quando si fa strada su un fiume, su uno di questi corsi d’acqua che fuoriescono dalla Terra. Se qualcuno si trovasse fuori da una casa di campagna, magari nei pressi di Stade, e, allungato su una sdraio, riposasse sotto un melo guardando in lontananza, allora uno di questi mostri gli si potrebbe stagliare all’orizzonte. Dal momento che non si scorgerebbe qual è il carico, farebbe un’impressione maestosa. Il viandante di ferro infatti attraversa il paesaggio bucolico sulla rotta fluviale da Stade per Amburgo, lento e silenzioso come sarebbe una balena che da Rotterdam si fosse smarrita nel Reno e vagasse fuori dalle acque salate per lo stupore degli abitanti di Colonia: un gigante acquatico sconosciuto. Allo stesso modo ci si deve meravigliare di quegli esseri acquatici di ferro, città in movimento, che si spingono attraverso il paesaggio dell’Elba e del Canale di Kiel passando davanti alle mucche e ai villaggi. Imperterriti, lenti, di un altro mondo rispetto a quello in cui li si vede. E gli uomini? Non vivono forse anch’essi nelle loro città come degli estranei tra le altre specie? Non sono forse anche loro rinchiusi, al sicuro, in container di pietra dentro una strana nave sferica bianca e blu, circondata da un’atmosfera che la avvolge come una nebbia? Entra in un ciclo la materia della quale sono fatti per breve tempo gli uomini? La materia in cui vivono sulla crosta incredibilmente sottile di quel globo internamente fluido e incandescente e sempre in movimento come l’acqua nelle correnti e nei vortici marini? (In questi vortici arriva dal carico dei container una quantità di plastica, e qui viene sbriciolata, ridotta a frammenti sempre più piccoli, e mangiata dai pesci che la scambiano per plancton. Anche molti degli oggetti di gomma del carico: pneumatici, cinghie di trasmissione, guarnizioni, carcasse di lavatrici e aspirapolvere, dopo essere stati utilizzati scompaiono nella palude del fondo marino, nello zoccolo continentale.) Tuttavia tra il cielo e il mare l’acqua compie il proprio ciclo ripulendosi costantemente, abbandona ciò che è grezzo e marcio, sale come una nebbiolina, lascia indietro anche il sale che rimane nel mare e ricade poi sulla terra e sugli oceani sotto forma di pioggia. (Viene forse da qui l’idea degli uomini secondo la quale anch’essi circolano come anime tra il cielo e la Terra, come se rinascessero dopo la morte?) Gli uni continuano a muoversi nei loro container di pietra, mangiano, respirano, di-


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geriscono, si accoppiano con i loro simili nelle notti d’estate e procreano. Gli altri giacciono sottoterra freddi e rigidi, sdraiati in casse di legno, silenziosi mentre tornano a decomporsi nel loro elemento primario e i loro discendenti ancora in vita ne bagnano la fossa con innaffiatoi verdi. Così la materia forma occasionalmente una lunga catena di proteine, che magari si dà la forma di sperma o di ovaia e, di nuovo, assieme all’acqua, al grasso e altri materiali forma un feto che cresce, si muove autonomamente e, di tanto in tanto, diventa una persona pensante. Nei miliardi di anni di questi cicli della materia, il circolo è stato più volte inibito, rallentato, una volta è stato quasi arrestato, ma mai interrotto in modo definitivo. (Non dovrà mai trovare fine?) I ritrovamenti di fossili mostrano che la vita, dalla sua nascita in acqua, è stata quasi cancellata almeno già cinque volte. Duecentocinquantun milioni di anni fa, quando il clima si surriscaldò, morì il novantacinque percento di tutte le specie. Sessantacinque milioni di anni fa la caduta di una cometa o di un asteroide provocò l’intensificarsi dell’attività vulcanica e, dunque, una strage di massa. Oggi, sul pianeta, gli uomini sono parte della natura, ma non come passeggeri inoffensivi, come le volpi e le cornacchie che si possono incontrare nel mondo, bensì come un tempo (e come ancora oggi) i vulcani e i meteoriti. Ora essi sono una catastrofe naturale onnipresente nel pianeta, la prima che da se stessa si percepisce come tale. Nei prossimi trent’anni, queste sono le stime, provocheranno l’estinzione del venticinque percento dei mammiferi presenti sulla Terra e in cinquant’anni, grazie alla pesca, avranno sterminato il novantacinque percento dei grandi pesci che oggi nuotano nel mare.3 Se si tiene conto delle conoscenze archeologiche, l’attività umana sulle coste, a partire dall’anno Mille, ha decimato il novanta percento delle specie marine e distrutto il sessantacinque percento delle alghe e del biotopo acquatico.4 Gli uomini, o ciò che accade per la loro presenza (qualcuno ne ha colpa?), sono una bomba che detona quotidianamente, la caduta perenne di un meteorite, i milioni di camini vulcanici in costante eruzione, i morsi del Tirannosaurus rex riprodotti miliardi di volte (ha a che fare con la morale tutto ciò?). Così, con 3,8 milioni di ami da pesca gettati ogni notte, trascinano quotidianamente milioni di pesci fuori dall’acqua,5 con milioni di lame, ogni giorno, dilaniano migliaia di tonnellate di uccelli, maiali e manzi. Sono diventati lo streptococco autocosciente di sé, la peste planetaria che ha colpito tutte le altre specie,


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inclusa se stessa, con la sola eccezione dei virus. Avrebbero fatto diversamente i pescecani o le iene se fossero stati autocoscienti (e forse lo sono), se fossero stati intelligenti (e potrebbero essere anche questo), se avessero posseduto la tecnica? Non avrebbero cacciato ogni cosa che fosse commestibile? Non sarebbero diventati sempre di più, popolato ogni angolo della terra e dell’aria e, poi, nuovamente morti? Qui gli amici degli squali protesteranno e diranno che l’uomo, già da tempo, ha decimato questi pesci. Ma cosa ne avrebbero fatto di noi gli squali se solo avessero potuto? Dove hanno condotto, a oggi, l’autocoscienza e la libertà, grazie alle quali gli uomini si considerano buoni? Quella presunta (che espressione!) «caratteristica che li rende unici»? A soffrire di meno? E dove sarebbe dimostrato? Gli squali, una volta liberi e autocoscienti, sarebbero responsabili delle loro prede, oppure compirebbero un’ingiustizia verso ciò che cacciano? Gli uomini sono i più furbi tra i cacciatori e sono molti, molti di più, sono cavallette che si stermineranno fra loro dopo che avranno sterminato tutti gli altri, a meno che non le annienti un virus (sarebbe un bene?), liberando così le altre specie del mondo da questa piaga, di modo che non faccia più danni, nemmeno nel fondo del mare. A cosa porta questo lamento? A pensare la natura contro l’uomo? Sono dunque due cose diverse? Alla natura contro se stessa? Perché è lei ad aver prodotto l’uomo. Gli uomini ci sono, e sono persino tanti, ma la natura esiste? Nelle zone più fredde degli oceani, dove non piove e la neve cade sui ghiacci, l’acqua salata, più densa del ghiaccio, scorre sotto di questo e produce così una corrente che unisce l’un l’altro tutti i mari in un’unica grande massa acquatica in movimento. Qui fluttuano, in grandi banchi trasparenti di krill, milioni e milioni di minuscoli gamberetti, l’alimentazione primaria dei misticeti. In questi mari ghiacciati, questi lontani discendenti degli ungulati si aggirano aspirando l’acqua, proprio come i bufali, loro antichi progenitori, pascolano nella torrida savana dell’Africa brucando l’erba. Tramite il loro caratteristico soffio, poi, quest’acqua, da cui è stato filtrato il krill, esce dal corpo delle balene e ricade in mare. Questo elemento liquido e ondivago che ricopre il settantuno percento della superficie terrestre e rappresenta il novantanove percento dello spazio popolato dalla vita delle piante,6 è costituito per due parti su tre da ciò che il Sole brucia: l’idrogeno. I chimici ci spiegano che la combustione è dovuta a ossidazione; il prodotto della combustione dell’idroge-


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no è l’acqua, due atomi di idrogeno (H) uniti a un atomo di ossigeno (O): accadueo. L’esperimento della miscela tonante, che dimostra tutto ciò, ci viene a volte mostrato in prima superiore. Il professore prende l’idrogeno da una bombola rossa e lo immette nella beuta di vetro tenuta ferma da una morsa di ferro. Quindi aggiunge l’ossigeno contenuto nella bombola blu. Con il becco di Bunsen rende incandescente una barra metallica e la porta all’interno della miscela gassosa contenuta nella beuta. Un’esplosione: «Vedete le gocce che si sono formate sulla parete interna del recipiente?». Abbiamo visto e, sì, ci abbiamo creduto, per il resto della nostra vita ne siamo rimasti convinti. Come durante la pioggia le gocce scorrono sui vetri delle finestre, allo stesso modo l’acqua scivola all’interno della beuta. Da quel momento la pioggia sulle finestre ricorda l’esperimento della miscela tonante. Com’è facile fare la pioggia, o l’acqua, basta avere in mano la beuta con i gas e una barra incandescente! Gli alchimisti volevano produrre oro partendo dal mercurio, ma non erano in grado di fare neppure l’acqua: far sibilare i gas, farli scoppiare, e veder scorrere l’acqua. E se Faust, Casanova e Cagliostro avessero potuto immaginarselo? L’elemento dei calamari, degli sgombri, delle alghe e delle balene, il mondo dei merluzzi e dei pesci diavolo è il prodotto della combustione di un gas, il gas del Sole. Aristotele, con la sua teoria dei quattro elementi, sarebbe rimasto sbigottito di fronte alla prova della miscela tonante. Possiamo produrre il freddo e l’umido partendo dal caldo e dall’asciutto? Può ciò che estingue il fuoco essere egli stesso un figlio del fuoco? Ma tutti gli elementi sono il risultato della combustione dell’idrogeno in una stella come il Sole, diceva l’insegnante di chimica, per il quale l’acqua non era già da tempo un elemento. Come sia giunta sulla Terra nessuno lo sa. Ci fu una grande miscela tonante nei tempi remoti? Il Sole non brucia acqua, ma altri elementi. Alcuni suppongono che un enorme frammento contenente anche ghiaccio abbia portato dallo spazio l’acqua sulla Terra (alcuni pensano che anche la prima forma di vita sia arrivata sul nostro pianeta in questo modo).7 Recentemente è stato scoperto del ghiaccio su un asteroide, uno di quei piccoli corpi senza meta che compiono un moto intorno al Sole percorrendo, nella maggior parte dei casi, una traiettoria compresa tra le orbite di Marte e di Giove. Quelli che, su un’orbita eccentrica, giungono vicini al Sole, sviluppano talvolta una coda di gas causata dal calore emanato dalla nostra stella e si trasformano in comete, brillando nel cielo


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notturno. Gli astronomi hanno osservato lo spettro di riflessione dell’asteroide Themis, di duecento chilometri di diametro, e hanno scoperto che questo corpo celeste è ricoperto da un sottile strato di ghiaccio. Non è possibile che molto tempo fa, miliardi di anni fa, qualcosa di simile sia precipitato sulla Terra e abbia così portato su di essa almeno una percentuale dell’acqua terrestre?8 Il modo in cui un simile nomade spaziale abbia potuto ricevere su di sé l’acqua rimane tuttavia ancora inspiegabile. Diversamente da ciò che accadeva in tre dei quattro elementi della teoria aristotelica, che erano popolati dagli uccelli (l’aria), dai pesci (l’acqua) e dagli altri animali (la terra), gli elementi della chimica moderna non sono più abitati da nessuno. Sono realmente puri (a meno che particelle più piccole degli atomi, come elettroni e protoni, non siano in qualche modo in grado di abitarli, chi lo sa?). Nessuno potrebbe dire di sentirsi come un pesce nell’acqua se si trovasse dentro uno dei materiali da cui è composta la tavola periodica, che comprende ben più dei quattro elementi fondamentali di Aristotele. Inabitabili sono l’elio, il litio, il berillio, il ferro, il cobalto e ovviamente l’ununoctio, il gas nobile radioattivo prodotto per la prima volta nel 2005 – bel nome, ma comunque invivibile, proprio come il Sole che mediante una combustione trasforma l’idrogeno in elio. Quattro miliardi di anni fa la superficie terrestre doveva essere diventata talmente fredda, sicuramente al di sotto dei cento gradi centigradi, da far sì che l’acqua, ancora in stato gassoso, potesse precipitare, senza dover più restare sospesa come vapore. Dopo la pioggia durata eoni, un mare piatto, un’enorme lastra fredda di minerali allo stato liquido, ha circondato il supercontinente Vaalbara. Esattamente come descritto nella mitologia greca, in cui il fiume Oceano, rifluendo in se stesso, dà origine a un mondo circolare. Al tempo del Vaalbara non c’erano né uomini né animali sulla Terra, e nessun pesce nuotava ancora in questo mare ghiacciato. La Norach, molto dietro la balena, attraversa un banco di nebbia infinito, foschia, acqua in forma gassosa. Il motore della nave batte in modo regolare, come il cuore possente di un capodoglio, un cuore della grandezza di un metro cubo. Container di ogni colore, grigio sporco sotto il blu scrostato, o tinteggiati di un rosso splendente e di verde, si accatastano sul ponte dando vita a forme simili agli edifici di una città antica. Su un lato della rampa di carico lasciata cadere, proprio sopra a un refrigeratore giallo posto a poppa della nave immensa, c’è un uomo seduto su


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una sedia sdraio; è magro, vecchio, in abiti da riposo, porta una benda nera su un occhio e ha le gambe distese. Si è appoggiato allo schienale e la nuca sporge appena dalla sdraio a righe, toccando la parete gelida del container. Da quella posizione, il suo sguardo è rivolto in alto, nella nebbia. A un tratto altre tre figure compaiono dai container dietro di lui, e si muovono silenziose sulla rampa. Uno è tarchiato, vestito con un abito in principe di Galles e ha una pipa in bocca, le lenti nella montatura nera dei suoi occhiali sono spesse. Un altro indossa una camicia a quadri e un morbido abito di flanella, è dinoccolato e si muove in modo goffo, ha il viso allungato che sembra quello di un montanaro e la fronte alta: dà subito l’impressione di essere amichevole e spaesato. Il terzo indossa un abito nero serioso con il colletto rigido, di quelli che si usavano nel xix secolo, è calvo. Un pastore anglicano, forse? La sirena antinebbia della nave emette un suono profondo. Ogni tanto si sentono i versi e i canti delle balene sotto la superficie dell’acqua.


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