Tuttissanti

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Teresa Ciabatti

Tuttissanti


Sito & eStore – www.ilsaggiatore.com Twitter – twitter.com/ilSaggiatoreED Facebook – www.facebook.com/ilSaggiatore © il Saggiatore S.r.l., Milano 2013


l’opera – Il male supremo, quello banale e terrestre, disappropriante e dissociativo, esiste. Il male è Luciano Lualdi, l’impresario più importante dello star system nostrano, l’uomo che influisce sulla vita politica e sottoculturata dell’Italia targata talent. Demiurgo spietato di tronisti palestrati e starlette anoressiche, Lucio succhia dall’interno la linfa vitale dei nuovi ragazzi di vita: la folla votata al palcoscenico per imporre il proprio nome, le proprie vocazioni inesistenti, la propria inconsistenza – cifra di un’intera nazione ipnotizzata davanti allo schermo televisivo. Ingenua vittima sacrificale è Christian Russo, muscoloso, ventenne, occhi chiari trasparenti, con una malattia che gli rode l’anima e una che gli toglie il respiro. Christian, il burattino, e Lucio, l’arbitro dei destini: un incastro tra identità speculari, perfetto fino quando l’ironia tragica della realtà stravolge quell’equilibrio. A raccontare questa storia è Teresa Ciabatti, cantrice della nostra contemporaneità, con meccanismo narrativo perfetto, che si intrude nel vilipendio morale e fisico che è la cifra del nostro presente. La scrittura affonda il bisturi laddove la malattia scintilla, sprofondando nell’epica trash italiana di oggi, che in Tuttissanti si narra e


trionfa, in una ricognizione drammaturgica del disagio e del formidabile di un’epoca. Una forma di racconto che pendola tra realismo apparente e trance, tutt’altro che immaginaria.

l’autrice –Teresa Ciabatti, scrittrice e sceneggiatrice italiana, è nata a Orbetello e vive a Roma. All’esordio nel 2002 con Adelmo, torna da me (Einaudi Stile Libero), da cui è stato tratto un film, ha fatto seguito il romanzo I giorni felici, uscito nel 2008 per Mondadori. Nel 2013 Teresa Ciabatti ha pubblicato Il mio paradiso è deserto (Rizzoli). Collabora con IoDonna.


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«Vedi, figlio mio, tu sei sempre stato bellissimo. Negli anni Novanta, quando facevi il modello, lo stilista Enrico Coveri ti aveva definito “dio sceso in Terra” per la perfezione del tuo viso e del tuo corpo. «Fu così che Rossano, più piccolo, ma con tanta voglia di diventare “qualcuno“ nella vita, iniziò a emularti, eri la sua guida in un ambiente, quello della moda, che lui imparò a conoscere grazie a te […]. Di lì a poco è arrivato il successo per lui e, come madre, sono fiera dei traguardi che ha raggiunto. E tu, che cosa hai fatto? Niente.» Rosa Rubicondi, da una lettera al figlio Riccardo, fratello del più famoso Rossano, DiPiù, giugno 2013



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«Mi stia a sentire, è una forma lieve, sennò omettevo non crede? Faccio sport senza problemi, tre quattro volte a settimana» afferma il ragazzo che si chiama Christian e sarà il quinto. Non sarà il primo, sarà il quinto. Chi gli siede di fronte, al di là della scrivania, sa che è il quinto, non il primo. L’uomo riceve i candidati in ufficio. Cerca di incontrare tutti, anche quelli che non gli interessano, e questo non gli interessa, già lo sa, lo ha saputo subito dalle foto del book: il book di un ragazzo qualunque. «Faccio boxe a livello dilettantesco» continua il ragazzo. «Incontri, dimostrazioni, cose così, e se mi viene un attacco» tirando fuori la

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pompetta «basta uno spruzzo» dice avvicinandola alla bocca. Con una parola o un semplice cenno del capo, l’uomo dietro la scrivania decide i destini dei ragazzi, dispone delle loro giovinezze. Scuote la testa, eccolo il cenno. E precisa: «In questo mestiere ci vuole grande resistenza, non è come sembra da fuori, certa gente per denigrare… non lavori in miniera, per carità, però ti assicuro che in quanto a sforzo fisico…». Christian capisce i dubbi, ma si dichiara disposto a tutto se solo lo prendesse in considerazione, anche per un periodo breve, brevissimo, una prova a termine, perché per lui è davvero importante, significa riscattarsi da una vita a Maddaloni, lei non può immaginare cos’è Maddaloni, l’inferno è Maddaloni, significa dimostrare a tanta gente di Maddaloni che lui non è il fallito che dicono, sia chiaro, non cerca di costringerlo, o peggio ancora di impietosirlo, se gli dice no capisce, capisce davvero senza rancore, figuriamoci, solo essere lì, poterlo guardare in faccia, è già un fatto, una cosa che si ricorderà per sempre, sai le volte che l’ha visto in televisione, e ora non gli sembra vero di stare così vicino, dal vivo.

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Christian Russo è ben messo: muscoloso, spalle larghe. Non altissimo, ma proporzionato. Denti ingialliti dagli antibiotici assunti da bambino, sopracciglia troppo folte che si uniscono sopra l’attaccatura del naso. Il suo autentico problema tuttavia è la pelle: deturpata da segni di acne giovanile. L’uomo scruta con attenzione il ragazzo, ne studia le possibili migliorie, è un lavoro duro, per ottenere cosa poi? Anche migliorato, il ragazzo Christian Russo sarebbe uguale a tanti altri, non ha niente di speciale. Eppure quegli occhi chiari fissi, i modi remissivi… cosa gli succede? Con l’età forse il cuore si fa più tenero? Inizia a rincoglionirsi? «Non so» ripete preparandosi al rifiuto, a resistere al decadimento senile. «Con la salute non si gioca.» La pompetta lo preoccupa. Poi l’espressione del ragazzo, rassegnata delusione, ma anche comprensione senza accusa, quelle parole «la ringrazio comunque di avermi dato la possibilità», la mano che gli tende con sudore, ebbene tutto questo lo fa crollare. Prova una sensazione strana, una specie di

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slancio che non saprebbe definire con esattezza, non interesse non ammirazione, sa che ci farà poco con un simile soggetto. La verità è che lui vuole dare a quel ragazzo una possibilità, offrire un’occasione a questo bulletto del casertano, orfano di padre, fratello down, madre cassaintegrata. Perché questa è la miseria. La miseria delle scarpe sfondate, dei bassi sporchi e fatiscenti, delle spese ai discount o peggio: degli omaggi della Caritas. La miseria della cassaintegrazione, delle pensioni di invalidità che devono mantenere un’intera famiglia. La cruda miseria. Quella miseria che lui, dopo la povertà dell’infanzia, non ha mai smesso di avvertire come spettro, anche quando ne era fuori, lontanissimo, anche ora che ha ventidue appartamenti a Milano e tre ville tra mare e lago, che gira in Porsche, che spende diecimila euro a serata, anche ora la sente pronta a tornare, quella povertà. Non che la sua sia stata un’infanzia infelice. Povera sì, ma non infelice: c’era la casa in campagna, e mamma che inseguiva le galline nell’aia, e nonna che sputava nella farina per passare loro la salute di ferro, e c’era l’asinello

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nato senza che nessuno si fosse accorto dell’asina incinta. E c’era quel giorno, il dodicesimo compleanno di Giovanna: Giovanna che traballando sulle scarpe col tacco va in camera di mamma, e lui che la segue, e mamma che dice quanto sia bella così alta, e lei che davanti allo specchio si porta una mano al cuore e mormora «oh, sono magnifiche», un attimo prima di accorgersi di lui e intimargli di andarsene, che quella è una faccenda privata, e allora lui si gira e se ne va, rigettato dal mondo di donne. Ha sei anni ed è abituato a passare le giornate in solitudine. Certe volte, quando mamma cucina, si distende sul pavimento a disegnare. I giorni sono un unico giorno che si allunga in mesi e anni. Giorni uguali che si susseguono. Eppure quel giorno lui lo ricorda bene, è un giorno diverso. Rivede la bambola sul pavimento, la bambola che nonna ha regalato a Giovanna («Che ci faccio con questa?» l’ha accantonata stizzita lei. «Non ho mica sei anni»). E di colpo è come se sul pavimento ci fosse lui, rannicchiato in uno di quei giorni sempre uguali. Si china a prenderla, e mentre dal corridoio arrivano le voci di mamma e Giovanna

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(«Quanto saranno: cinque, sette centimetri?» «Camminaci dentro casa, per abituarti»), lui corre in camera a nascondere la bambola. La sua bambola. La sua prima e unica bambola. Una bambola bionda, col vestito bianco di merletto, che quando la tiene tra le braccia lo fa sentire la Madonna con Gesù bambino. Quel giorno di felicità lo ricorderà per tutti i suoi sessantadue anni e quarantacinque giorni. «Come si chiama?» chiederà Giovanna. «Non si chiama.» «Oh, non esistono bambole che non si chiamano.» Lui riflette. Poi sorride. «Luciana, si chiama Luciana, ma non dirlo a nessuno.» Questa è la storia di Luciano Lualdi, detto Lucio. Nato e cresciuto a Sarzana, diventato in pochi anni divino, magnifico, eterno. Questa è la storia della sua ascesa e della sua caduta. «Welcome to Sardegna, the best island in Mediterraneo.» Ad accoglierli all’aeroporto un manipolo di fotografi che scattano furiosamente. Lucio, sandali e tunica bianca, novello San Francesco, avanti a tutti. «Non me li consumate» dice ai

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fotografi, riferendosi ai ragazzi che lo seguono, discepoli. Bermuda, magliettine aderenti su muscoli pompati, occhialoni da sole. Massa indistinta di bellezza. Prima di salire sul pullmino che li porterà in villa, Lucio si gira: «Siate onesti e morigerati». Nel gruppo c’è anche l’ultimo arrivato, Christian Russo. Lucio passa oltre per soffermarsi su Sasi, il preferito. È principalmente da lui che pretende un comportamento retto. È da lui che si aspetta rigore, a lui che chiede di alzarsi presto la mattina, jogging, pesi, alimentazione sana, niente droga. Lucio neanche deve ricordarglielo. Non c’è necessità di voce, neppure di immagine, patinata o no. La villa in Sardegna – più che la casa di Milano, più che quelle di Cortina e del Lago di Como – è il suo regno. Se dipendesse da lui, vivrebbe qui tutto l’anno, tra cielo e mare, in una specie di Genesi in cui tutto è evanescente, e dove il mare è la sua piscina, la sua grande piscina dello stesso azzurro del cielo, un unico azzurro indistinto come sogno che svanisce e si dilegua. Quella piscina che Lucio ha fatto co-

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struire su suo disegno perché fosse la più originale di Porto Rotondo (di piscine ormai ce ne sono milioni, chi è che oggi non ha la piscina in casa?): venticinque per diciotto, ponte centrale con palme, gradoni, fontana-cascata perenne che sgorga dalla riproduzione del David di Donatello, dal cazzo. Lucio ama svegliarsi per ultimo. Gli piace affacciarsi sul terrazzo e allietare la vista guardando giù, il giardino, dove si trastullano gli ospiti, corpi giovani e perfetti sotto il sole – «Sasi, molla il materassino, che so’ tre ore che ci stai», «Fai una cosa, metti la testa sotto e affogati» – e compiacere l’udito con le voci che arrivano su trasportate dal vento – «Ehi Lallo, passami il melone» – e godere dell’aria pulita, della distesa di mare sul fondo – «Vorrei stare per sempre così, a non fare un cazzo». Gli piace guardare i ragazzi dall’alto, sente che questa è la vita, questo dominio sui corpi, questo possesso della linfa vitale, sangue, sudore, respiro. È Christian a vederlo per primo. «Buongiorno» lo saluta quasi che lassù ci fosse l’Annunciazione.

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