Pellegrino Artusi
Tutto vi dono Autobiografia del padre della cucina italiana A cura di Alberto Abruzzese e Andrea Pollarini
www.ilsaggiatore.com (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore Š il Saggiatore, 2012
Tutto vi dono
Sommario
Introduzione Autobiografia di Pellegrino Artusi
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Nascita 20 – Puerizia e adolescenza 22 – Età giovanile 34 – Virilità 84
La scienza in cucina e l’arte di allargarsi la vita
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Artusi prima de l’Artusi 105 – Il «segreto» de La scienza in cucina 137 – Il «metodo» Artusi 148 – Artusi dopo l’Artusi 168
Ringraziamenti
179
Note
181
Fonti
201
Bibliografia
205
Indice biografico
207
Elenco delle illustrazioni
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Introduzione
La vicenda di Pellegrino si svolge, in gran parte, nell’Ottocento. È, quindi, una storia passata, lontana. Perché, dunque, occuparci ancora di lui? La ragione sta proprio nella marginalità e insieme centralità, nell’inattualità e insieme straordinaria attualità di questa storia e dei suoi elementi costitutivi. La prima domanda che ci poniamo, considerando la distanza non solo temporale che separa la Forlimpopoli pontificia o la Firenze preumbertina (i luoghi che fanno da teatro alla vita di Artusi) e la nostra epoca di sovraesposizione televisiva di ogni argomento riguardante il cibo e la cucina, è quando sia cominciato tutto ciò. È una domanda da farsi avendo di fronte – per contrasto con la domanda stessa – i ritratti di Artusi e di altri illustri suoi contemporanei, come Olindo Guerrini e Paolo Mantegazza, tutti pienamente compiaciuti delle proprie barbe, basettoni e baffi; tutti compresi in quell’austerità di volti che la fotografia, tecnologia allora assai recente, aveva il dono di rendere simili a monumenti già pronti per il futuro. Quei ritratti erano il segno di
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un mondo concreto, felice dei suoi rigori e dei suoi premi: la fronte e lo sguardo rappresentavano una tradizione percepita come duratura. Positiva. Salutare. Oggi, al contrario, ci vestiamo di immagini istantanee, sfuggenti, effimere: non esprimiamo l’orgoglio di una vita privata, ma i tempi e gli spazi di una sfera pubblica che ci ha invaso. Viviamo in un clima culturale caratterizzato dai sensi, dalla loro instabilità e dalle loro nevrosi. Siamo immersi in sensazioni, in una dimensione in cui lavoro e tempo libero, cultura ed esperienza, turismo e iniziazione si sovrappongono senza soluzione di continuità. Se fu difficile capire McLuhan quando cominciò a sostenere che la televisione non era più solo scrittura e immagine ma addirittura tattilità, è ora invece chiaro a tutti che dalla mente e dagli occhi si è scesi o, se volete, sollevati verso regimi di comunicazione polarizzati sul tatto: tattilità anche e, anzi, soprattutto nel senso del palato e della digestione. L’agire gastronomico, da essere una parte del tutto, s’è fatto il tutto. Così, qualcuno ha parlato di Homo sentiens per suggerire che in questi ultimi decenni di società dei consumi il sapere ha subìto una metamorfosi epocale, pari a quella, altrettanto clamorosa, che aveva portato al passaggio da Homo ludens a Homo faber. Nel trattare del transito dai beni materiali della civiltà industriale ai beni immateriali della civiltà postindustriale, filosofi e sociologi si sono equamente divisi tra giudizi positivi e negativi, bloccati nella convinzione, tipicamente dicotomica e dunque moderna, che da questo trapasso l’Homo sapiens possa avere qualcosa da guadagnare ma anche da perdere. Sulla linea di confine di una civiltà tradizionale in via di modernizzazione, la vita e le opere di Artusi ci mostrano la realtà di un processo,
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non clamoroso eppure proprio per questo significativo, in cui i sensi e il sapere sono nati e cresciuti in intima comunione. Illustrano la catena di relazioni tra storia pubblica e storia privata sulle quali, per quanto frammentarie e «umili», si sono andate formando le basi di una cultura del cibo nazionale, fatta di tanti localismi (nonché omissioni e parzialità), ma italiana e globale. Abituati come siamo a ragionare su un determinato prodotto di mercato in rapporto ai territori destinati a consumarlo, le vicende che portano alla fortunata impresa di Artusi ci mostrano invece i tanti segmenti e momenti di territorio – luoghi, persone, eventi – che hanno partecipato alla sua creazione. Tra gli autori e le autrici di libri sull’arte della cucina, Artusi è uno dei più rinomati: il suo libro, La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene. Manuale pratico per le famiglie, ininterrottamente pubblicato in innumerevoli edizioni, tuttora fa bella mostra di sé sugli scaffali a uso e consumo di chi ama cucinare e mangiare bene. Per quanto siano mutati i costumi dietetici, il peso delle porzioni e il linguaggio corrente, rimane un testo di riferimento. Un libro alimentato dall’esperienza – collettiva e insieme singola, diretta e indiretta – delle sue ricette che restano e si tramandano nell’uso (variando a seconda di chi le esegue, traducendole in piacere personale, in complicità del gusto). Un autore non soltanto riproposto e diffuso dalla pubblicistica di genere, che dei piaceri della tavola è la continua rielaborazione simbolica e mitologica, ma emerso anche nella letteratura colta.1 Presente nella sempre viva, rinnovata, memoria delle pratiche alimentari – che sono la massima parte delle tradizioni popolari, il vero palinsesto della vita quotidiana e dell’immaginazione familiare – il nome Artusi è cresciuto sino a offuscare il suo stesso
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libro. L’aureola di Artusi ha avvolto di sé la sua stessa creatura. Un progetto editoriale straordinario – quanto paziente, addirittura cavilloso – ha prodotto una sorta di divo: un nome che assicura una qualità inimitabile, unica («Che gloria! Il libro che diventa nome» come dirà Alfredo Panzini nel suo Dizionario moderno del 1905). Si potrebbe dire, a voler usare una distinzione canonica nel campo letterario, che l’uomo era di genere «umile», eppure ciò che ha prodotto ha infine raggiunto la dimensione del «sublime». A suggerirci questa interpretazione – che punta tutto sul mostrare quanto si può produrre nella sintesi tra i regimi ordinari e i regimi straordinari della vita quotidiana – è la lettura della sua stessa autobiografia. La scienza in cucina mostrava già di suo l’inclinazione a condire la pagina di brevi narrazioni personali e di massime universali: un’attitudine che oggi potremmo chiamare glocal (e si vedrà più avanti quanto sia appropriato parlare di Artusi negli stessi termini che sono ora di moda nella società delle reti e delle relazioni faccia a faccia). Ma è soprattutto nel leggere le sue pagine autobiografiche che si è spinti a spiegare la distanza che sembra dividerle dalla fortuna del manuale e dalla fama del suo autore. Un vuoto che si può colmare solo con una ricerca storica che mostri come l’operato artusiano – le pratiche della sua cucina così come quelle della sua capacità di amministrare e contrattare la vita: abitare, lavorare, e vendere – debba essere fatto confluire in una sola grande narrazione. Nella Postfazione «La scienza in cucina e l’arte di allargarsi la vita» si è ricostruita questa narrazione, mettendo insieme infor-
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mazioni attinte da testi che in vario modo funzionano da mappa di riferimento per capire come nasce, si struttura e si diffonde La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene. I materiali raccolti fanno da portata principale, assai più che da «contorno». Dalla lettura delle fonti indirette s’è potuto fare emergere lo stile di Artusi. Innanzitutto i toni inconfondibili di un ceto scolarizzato che, in netta seppure cauta ascesa tra civiltà paesana e società urbana, andava assumendo il ruolo di borghese laborioso nel lungo trascorrere della storia italica prima e dopo la nascita della nazione. Ne discende la patina domestica, bozzettistica, aneddotica e ideologica, che colora il suo modo di esporre le ricette de La scienza in cucina nel costante e consapevole intento di riscaldare e rinsaldare l’interessata conversazione con i suoi clienti e committenti. E anche le sue prove letterarie, scritte a commento di opere di Ugo Foscolo e di Giuseppe Giusti seguendo i canoni educativi ricevuti da una allora diffusa coscienza positivista e anticlericale, di natura familiare e insieme commerciale assai più che politica, morale assai più che etica. Una morale autenticamente popolare proprio in quanto istintivamente conservatrice nei rapporti d’ordine gerarchico: tra uomo e donna, marito e moglie, padrone e servo. E anche tra individuo e potere. In altre parole, abbiamo documentato non tanto l’autobiografia quanto piuttosto la biografia di Artusi – ambiente, famiglia, formazione, affetti, eventi notevoli, personaggi e relazioni, attività commerciali – e soprattutto abbiamo continuato a raccontare da dove, senza che ancora nulla vi avesse fatto presagire il maestro di cucina e l’impresa editoriale che ne avrebbe ricavato,
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si era bruscamente interrotta (inceppata o spenta) la sua ordinata scrittura. Nel tentare il genere dell’autobiografia Artusi sapeva bene, l’aveva imparato letteralmente a sue spese, che ci vuole un pubblico e un contenuto vendibile se si vuole avere successo come scrittori, e questa sua tentazione deriva probabilmente dalla consapevolezza di se stesso (quando scrive della propria vita sa bene di essere Artusi) più ancora che dal fatto di avere qualcosa davvero da raccontare. Una tentazione e anche un risultato che corrispondono a molte altre autobiografie del tempo,2 in particolare per quanto riguarda lo scarto di interesse, attenzione e consapevolezza che mostrano gli autori di questo genere narrativo (fatta eccezione, in parte, per alcuni casi di scrittori di professione) nei confronti dei fatti della storia in cui sono immersi, rispetto alla loro vita familiare, personale, privata. A proposito di queste autobiografie si è parlato persino di una loro ambiguità «funzionale», un impeto pedagogico fondato sulla «doppia menzogna» di un gioco personale tra svelamento e omissione.3 Per quanto confermassero la loro motivazione locale e intima – se non altro considerando il costante ricorso all’autofinanziamento e quindi anche il limitatissimo numero di copie fatte circolare – queste autobiografie hanno goduto di un sistema editoriale in ascesa, con al centro l’area tosco-piemontese e in molti modi ne sono state un riflesso, sia per l’espandersi della lingua italiana di matrice toscana,4 sia per l’attenzione rivolta alla storia e alle biografie nel quadro di ricomposizione di una tradizione letteraria rivolta ai classici e insieme ai fermenti risorgimentali e nazionali.5 Tutto ciò aiuta a comprendere le ambizioni ordinarie di Artusi: quelle di letterato (più commen-
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tatore che critico) e quelle di cittadino (sarà, come vedremo, il suo testamento a dircelo in tutta chiarezza). E il rimanente? Il rimanente, dunque il mito della sua opera, è paradossalmente nel rovescio della sua autobiografia: ciò che in essa viene omesso è la migliore traccia per capire la grandezza del personaggio, per arrivare alla scelta che – seppure compiuta in tarda età – gli cambierà la vita. Se qui ci siamo tanto soffermati sul genere autobiografico, è stato per dare uno sfondo a ciò che nella narrazione di Artusi sembra essere la rimozione più grande: se stesso. Nei suoi ricordi ci sono tutti i vezzi dell’epoca, la cifra moderata del proprio carattere e del proprio ceto, l’impertinenza anticlericale del suo ambiente geopolitico e del suo momento storico, ma niente che sappia spiegare – e qui invece si sarebbe trattato di avere memoria – il suo passato. In poche pagine arriva a sovrapporre in rapidissime sequenze eventi minimi e massimi, commediole e tragedie. La morte con piccole miserie quotidiane. Come nulla fosse. Persino con poco sentimento (e, come vedremo, di traumi la sua famiglia ne soffrì di terribili). Saremmo tentati di chiamarla una vita banale, tutt’altro che spericolata, o comunque capace di schivare i pericoli. Persino e, anzi, soprattutto quelli del desiderio. A volere interpretare l’eccellenza o comunque la profondità dei «mezzi termini» con cui il nostro si esprime raccontandosi (e con lo stesso stile, come si vedrà nella Postfazione, conversando con le sue lettrici cuciniere), una traccia assai utile può essere individuata in un breve saggio di Gian Piero Jacobelli dedicato a Brillat-Savarin (1755-1826), e curiosamente, data la distanza
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temporale, geografica e culturale che separa Artusi dal celebre autore della Fisiologia del gusto. Tuttavia la traccia, facendo riferimento al «giusto mezzo» delle relazioni conviviali – nel luogo «tra crapula e ascetismo»: che altro se non tra carne e linguaggio? – sembra saper cogliere un qualcosa che va al di là delle due rispettive personalità, i due così diversi caratteri, oggetto peraltro di visioni culinarie in dichiarata competizione nazionalista. Sembra toccare l’intima natura del cibo, del suo dire e del suo dirsi come relazione e dunque – se il discorso del cibo vuole riuscire, vuole rendere, e se la «ricetta» ha da compiersi davvero – come rapporto di mediazione con l’altro.6 Al contrario, si può dire che il perturbante è Artusi in persona: lui ha operato direttamente sulla propria natura lasciando tale e quale il sé ordinario – quello antieroico, che poteva benissimo continuare nell’inerzia della scrittura e della vita domiciliare – ma accrescendo a dismisura il sé di una vita nuova, da innovatore e imprenditore di quanto di più umile ci sia: cucinare. Allargarsi la vita, diremo più avanti, trovandovi una virtù romagnola che s’è protratta sino a oggi. Di tutto questo, diremo poi, ma a questo punto possiamo riformulare la domanda iniziale: perché Pellegrino Artusi è ancora oggi tanto attuale? In considerazione di quanto si vedrà più avanti per, almeno, sei buoni motivi. Perché Artusi rappresenta uno dei pochi casi veramente riusciti di Italian Dream. In un paese in cui la classe dirigente si è formata e si forma quasi esclusivamente per cooptazione, è uno dei pochi esempi in cui una figura estranea all’establishment – sociale, culturale, editoriale – del suo tempo, e so-
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stenuta solo da pochi personaggi eccentrici e «visionari», riesce a diventare un protagonista autentico. Perché, di fatto, è il primo «guru», nel senso che diamo oggi a questo termine. È il primo ad assumere le caratteristiche di maître à penser a partire da un sapere fino a quel momento considerato «servile». Il battaglione di cuochi, stilisti e maestri di cerimonia che ogni giorno ci dispensa la propria visione del mondo ha in Pellegrino Artusi (magari senza saperlo) il proprio indiscusso capostipite. Perché è l’uomo che unifica la cucina italiana a partire da un «algoritmo ideale e sensoriale» che mette assieme gli elementi più disparati (il linguaggio e il gusto, la scienza e la narrazione, la storia e l’innovazione) e li riunisce in un concept coerente e compatto che riscrive tutte le regole precedenti. Perché la sua opera sancisce il passaggio da una visione premoderna a una moderna della cucina e prepara l’avvento dell’industria alimentare e delle tecnologie applicate alla gastronomia in virtù di un talento particolare nel tenere assieme vecchio e nuovo (essendo lui in prima persona perennemente in bilico tra vecchio e nuovo). Perché il suo modus operandi anticipa di un secolo molte moderne tecniche di marketing editoriale (dal word of mouth al 2.0, dal brand al direct marketing), dando luogo a un originalissimo modello di produzione letteraria «sperimentale» e «interattiva». Perché fa tutto questo tra i settanta e i novantuno anni, buttandosi nell’impresa che gli si apre davanti con l’entusiasmo e il senso di «infinitezza» di un ragazzo.
Autobiografia di Pellegrino Artusi
Sono di parere che il conoscere la vita di un uomo, anche dei più comuni come sarei io, quand’esso è vissuto molto, specialmente in tempi burrascosi, possa riuscire di qualche giovamento agli altri e perciò mi sono deciso, benché un po’ tardi, di scriver la mia. M’ingegnerò quanto più posso di essere imparziale ed esatto tanto verso di me quanto verso le persone che sarò costretto di portar sulla scena, ma vista e considerata la mia barbogia età di anni 82 prego il lettore di un benigno compatimento se trova in questi appunti slegata la forma, prolisso il dettato e non corretta la frase, quindi ripeterò coll’Ariosto:1 Né che poco io vi dia da imputar sono se quel che posso dar tutto vi dono.
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Nascita Nacqui in Forlimpopoli ai 20 di agosto del 18202 da Agostino e da Teresa Giunchi nata da buona famiglia di Bertinoro. Mio nonno, Francesco, esercitava l’arte del muratore e quale capomaestro il più capace nel suo paese godeva stima nell’arte sua e lasciò morendo due case e dei quattrinelli. Nell’arte medesima aveva iniziato mio padre, ma egli sentendosi forse nato a qualcosa di meglio e una gran voglia d’industriarsi e di slanciarsi nel mondo in cerca di una fortuna, giunto all’età di 18 anni, gettò in un canto la martellina,3 lo sparviere,4 la cazzuola ed il giornello,5 che conservò sempre come ricordo, e prese moglie. La prima sua fortuna fu d’incappare in una donna intelligente e buona che pareva appositamente nata per secondarlo nelle sue aspirazioni commerciali. Prima operazione fu di aprir una bottega6 che in una città avrebbe il nome di drogheria, ma in un piccolo paese, specialmente nei primordi suoi, si poteva chiamare un guazzabuglio d’ogni cosa un poco. La direzione della medesima era affidata alla moglie la quale col suo tatto manieroso, col non mai ingannare nessuno e col peso giusto, si fece in progresso di tempo un credito tale che per una estensione di circa venti chilometri intorno contadini, parrochi e possidenti calavano a lei per le loro provviste. Per mantenere poi in riputazione il suo esercizio se dava il caso che mio padre le avesse portato una merce difettosa la faceva vendere sotto prezzo ad estranei e quando capitava qualcuno, come segue talvolta, che avrebbe voluto il genere a perdita, nel pericolo di sviar l’avventore, cercava di appagarlo egualmente perché tor-
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nando era probabile, essa diceva, che in qualche altro articolo si fosse poi ricattata.7 Mio padre che a poco a poco si era dato al commercio in grande, ma, da principio con limitati mezzi, non trascurava fatica alcuna o lavoro che ingrato fosse, prendendo coraggio dall’esito fortunato delle sue prime imprese, le quali riuscivano a bene anche perché nella scelta della professione aveva colpito proprio dove la natura lo aveva chiamato, poiché il genio commerciale si può dire che era ingenito in lui, cosicché se questo non fosse stato moderato da una eccessiva prudenza, avrebbe accumulate grandi ricchezze. Fu per questo che nella sua lunga carriera di negoziante onesto non firmò mai cambiali anche perché, all’occorrenza, trovava facilmente credito presso gli amici a modico interesse con una semplice ricevuta. Erano tempi quelli di molta buona fede segnatamente in Romagna.
Puerizia e adolescenza Frattanto la famiglia andava crescendo e di pari passo i guadagni per mantenerla decorosamente. Mia madre fu prolifica di ben tredici figliuoli8 ed io, solo superstite di maschi, fui il nono della brigata e mi fu imposto il nome di Pellegrino voluto da mia madre, che già lo aveva ripetuto altre due volte con un maschio e un femmina, per radicare questo nome nell’albero della famiglia in omaggio ad un suo zio canonico, D.n Pellegrino Giunchi di Bertinoro, brav’uomo, diceva essa, dotto e benefico, miope di sopraggiunta, il qual difetto fu cagione della sua morte
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essendo caduto da un precipizio. Noto questo difetto fisico, in sé di poca importanza, perché mi pare di vedere nella discendenza un fenomeno di atavismo. Io pure sono miope e pizzico di letteratura benché malamente e una mia pronipote, Pellegrina9 anch’essa, è corta di vista ed ha una marcata disposizione alle belle lettere e alla poesia. Proseguendo sul conto della mia buona mamma e de’ suoi molti figliuoli devo dire che in quei tempi, ad eccezione forse delle grandi città, alle donne non si dava quasi punta istruzione ed era grassa se sapevano scrivere una lettera colma di errori, quindi pregiudizi e superstizioni quante ce n’entra di che, purtroppo il mondo n’è ancora pieno sebbene questa vantata istruzione abbia poi fatto tanti progressi. Mi raccontava essa che, tuttora lattante, mi aveva fatto ingoiare, per inocularmi nel sangue non mi rammento quali prodigiose virtù, un cuor di rondine crudo, strappato dalle viscere palpitanti di quel grazioso uccelletto. L’adolescenza è l’età in cui resta più impressa la memoria delle cose le quali, nell’età adulta, sfuggono presto, perciò mi rammento il grande inverno del 1828-29 detto l’anno del nevone10 perché della neve ne cadde un subisso tale e tanto era alta che due persone incontrandosi non si vedevano e si era così impietrita sul terreno che di marzo occorreva il piccone per romperla e portarla via. Poi sopraggiunse il periodo spaventoso dei terremoti11 in Romagna ove sulla piazza di Forlimpopoli, di fronte alla casa paterna, ho dormito all’aperto per 40 notti dentro a un cestone da seta perché la terra era in un continuo sussulto e le autorità erano così imprudenti da permettere che si aprissero, per le preghiere, le chiese di nottetempo e mi ri-
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cordo che, bambinetto, attaccato al ferraiuolo12 di mio padre mi era in una chiesa smarrito tra la gran folla e fui trovato attaccato al ferraiuolo di un altro uomo, a un padre putativo, che io avevo scambiato pel vero. Poi, tanto io che le mie sorelle si pagò presto il fio di aver dormito alla bella stella. Fosse l’umidità e il contatto con gente del popolo poco pulita ci si manifestò a tutti una rogna delle più feroci. Bisognava veder che pustole e il prudore era tale che io mi attaccavo con la schiena allo spigolo di una porta e lì, con un furore spasmodico, mi dimenavo a più potere. Fummo poi tutti guariti alla buona stagione con una pomata e bagni zolfati. Circa a quel tempo, avrò avuto forse l’età di 7 anni, sentii per la prima volta quanto pesavano le mani di mio padre. Passando da una bottega di calzolaio raccattai di terra una coccola13 di querce che mi pareva un oggettino assai grazioso per baloccarsi. Vedutala un giorno mio padre mi chiese da chi l’avessi avuta ed io glielo narrai ingenuamente. Vieni con me che voglio vedere il luogo dove l’hai presa? diss’egli allora e giuntivi insieme me la fece riporre nel posto dove l’avevo trovata e poi mi appioppò una grandine di scappellotti che mi fecero trasecolare. Ho poi rivolto spesso il pensiero a questo castigo per giudicare se fosse stata una lezione ben meritata e l’ho sempre ritenuta inopportuna e fuori di luogo poiché in quella età non potevo ancora essermi formato il concetto del mio e del tuo. Più colpevole sono stato quando, un po’ più grandicello, mi prese su in baroccino un nostro stalliere, spedito da mio padre a Meldola per una commissione, ché essendoci imbattuti per la strada in una tacchina seguita da un branco di pulcini ne agguantammo
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due portandoli a casa, della qual bricconata non fui punito per aver saputo trovar sì bene la scusa da palliarla. Avevo promesso allo stalliere che, fatti grandi, quei due tacchini li avremmo mangiati insieme; ma quelle due povere bestie pareva le avesse colpite la maledizione perché crescevano poco e stentatamente. Le ho però ancora sulla coscienza per la ragione che, essendomi andato a confessare di quel peccato, il prete mi disse che se non conoscevo il padrone per la restituzione del valore (sette od otto bajocchi) li avessi versati nella borsa delle elemosine il che non feci sembrandomi che questa penitenza puzzasse di bottega lontano un miglio. Tanto per levarmi di casa si cominciò a mandarmi a scuola e il mio primo maestro era un buon uomo di condizione civile e molto paziente, che voleva tanto bene ai bambini; ma il poveretto, avendo perduto la locomozione per abuso di mercurio, che allora si usava nelle malattie secrete, era obbligato reggersi sulle gruccie le quali spesso e volentieri faceva assaggiare alla moglie bella e di forme giunoniche; ma, leggiera e bisbetica in modo che era la sua disperazione. Nella mia tenera età e nella fanciullezza sono stato martoriato da malattie e per una di queste dovetti separarmi dal mio buon maestro e più di tutte mi rammento di un’altra quasi mortale che mi tenne in letto da oltre un mese. I medici la battezzarono per un sinnoco14 ma dev’essere stata una tifoidea perché mi caddero tutti i capelli; però sempre mi è rimasto grato il ricordo della convalescenza la quale mi faceva gustare i cibi come delizie di sapori gratissimi mai più sentiti. E giacché sono a parlare di malattie un’altra volta pareva che inclinassi a mala salute per un’imprudenza commessa a dispetto della mia povera madre
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che non voleva. Godevo del benefizio di un sudore abbondante all’estremità che ritengo sia uno spurgo assai giovevole alla salute e non offensivo agli astanti, se si ha la cura di tenersi molto puliti ed ero un gran dilettante di tamburello e ritengo che questa ginnastica mi abbia giovato e sia molto opportuna a rinforzare la fibra. Avvenne un giorno d’estate che dopo una partita di giuoco, accaldato e tutto trafelato dal sudore gettai i piedi in una mastella d’acqua tirata allora allora dal pozzo. La sopressione di quel benefizio fu istantanea e d’allora in poi non l’ho più riavuto e cominciando di lì a poco a intristire avevo preso l’aspetto di tisicuccio. Per buona ventura mio padre mi portò con sé alla fiera di Sinigallia e là, con un ragazzo mio coetaneo, sulla spiaggia del mare tuffandoci e rivoltandoci nell’arena più volte al giorno ritornai fondo come prima. Oltre al tamburello la mia gran passione, da ragazzo, era di far volar l’aquilone nel quale esercizio ero diventato maestro talché, dopo averlo alzato alle nuvole, andavo a una finestra della mia casa e facendomi gettare il filo di là lo reggevo immobile per ore intere. Ero pur divenuto gran giuocatore di noccioli15 e professore alle trottole, ché si scommetteva a chi le faceva con la frusta durar di più e vincendole ne avevo formato una collezione di quattordici. Più tardi poi fui preso da una vera mania per la caccia col fucile nella quale riescii men che mediocre per due ragioni, a mio credere, la prima per mancanza di sangue freddo, la seconda perché, essendo difettoso di vista, non coglievo quasi mai l’uccello al frullo. Per questa passione ardente feci uno sproposito un giorno da perderne la salute. Era di marzo e un mio amico contadino venne a prendermi qualche ora avanti giorno e sempre a piedi siamo arrivati
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al cosiddetto Ponte della Vecchia alla foce del Savio e continuamente cacciando attraversammo la famosa pineta di Ravenna, portandoci sino alla spiaggia dell’Adriatico. Il più brutto fu il ritorno che, essendomisi enfiati i piedi dovetti scalzarmi e, stanco morto, appoggiato al braccio del mio compagno questi mi trascinò fino a casa ove giungemmo verso la mezza notte. Di questo strapazzo che tra l’andata, il ritorno e i passi fatti per inseguire nelle praterie le allodole (credo non esser lontano dal vero se calcolo una percorrenza di 50 chilometri) me ne risentii per quindici giorni. Qui viene opportuno il narrare un fatto di poca importanza, ma che può servire di avvertimento. Mia madre ed io eravamo un giorno fuori di una porta a passeggio seguiti da un cane mastino che tenevamo per guardia e che io a sproposito nutrivo a sazietà con trippa cruda. Imbattutosi in un maiale gli si slanciò all’orecchio con tal ferocia che io, per quanti sforzi facessi, cacciandogli perfino la copiosa e pendente pelle del muso fra i denti, che se la lacerava, non mi riesciva di distaccarlo. Accorse il proprietario armato di fucile che minacciava di scaricarlo sul gruppo di queste tre bestie, me compreso, attaccate insieme e col suo aiuto finalmente fu sciolto. Mio padre aggiustò la partita con qualche sacco di granturco al contadino pel maiale sciupato e la notte avvelenò il cane dandomi da bere che era morto naturalmente, di che non mi potevo dar pace e piansi tanto. Il triste caso non mi aperse gli occhi perché essendomi poi allevato un cane da caccia nutrii anche questo nella stessa maniera per la qual cosa era venuto anch’esso così battagliero cogli altri cani che dal gran mordere aveva perduto i denti. Essendo gli animali carnivori fisicamente simili all’uomo mi dò a credere che quei
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popoli i quali si nutrono a preferenza di carne debbono essere perciò più fieri e più crudeli degli altri. Tornando un passo addietro, come dice la nonna quando racconta novelline, mi ricordo, per lo spavento che n’ebbi, della rivoluzione del 1831 e delle fucilate tirate di nottetempo ai soldati papalini che, non volendosi arrendere, ne furono uccisi due. Poi i festeggiamenti e le baldorie pel trionfo della rivoluzione che, purtroppo, fu di corta durata e l’arresto del mio nonno che, essendo forse codino, gli scappò detto «Quando finirà questa commedia» ma dopo poche ore di carcere, per intercessione di mio padre fu liberato. E giacché sono in questo argomento mi converrà dire che gli austriaci invadendo subito la Romagna non ne esentarono il mio paese e la mia casa pareva trasformata in un quartiere. La miglior camera fu occupata da un pezzo grosso, un generale io credo, e molti soldati ungheresi dormivano in terra nelle altre stanze sopra dei sacconi e dei materassi. Mia madre, per precauzione, aveva noi ragazzi mandati fuor di casa e la servente, che era giovane e appetitosa, per salvarla da probabili insidie le aveva tinto il viso col carbone e scarduffiata16 e vestita in modo da non giovarsene; ma, per esser giusti, bisogna dire che quegli ungheresi, nei pochi giorni che vi rimasero, si portarono molto bene anzi alcuni di quei giovanotti destarono simpatie. Infatti abbiamo sempre giudicato gli ungheresi il popolo più civile di quella nazione austriaca tenuta in concetto, presso di noi, di barbara e brutale. Ristabilito il governo pontificio cominciarono i processi e le persecuzioni. Per l’uccisione dei due papalini furono arrestati tre miei concittadini e più per induzione che per prove dirette,
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condannati a morte, poi commutata la pena nella galera a vita indi deportati al Brasile. Di là, a piede libero, breve tempo durarono a scrivere alle loro famiglie, poi non se ne seppe più nulla. Passati poi molti anni la vecchia madre di un di loro, che era di civil condizione, piangeva sempre il suo figliuolo e non avendo ancora perduta la speranza di rivederlo pregava me che allora viaggiavo per affari, perché facessi delle ricerche e m’informassi da qualcuno che fosse di là venuto per averne novelle. Tempo perso perché pochi erano i rapporti che l’Italia aveva con quella nazione e molto rare a quei tempi le comunicazioni con la medesima. Dopo questa digressione riprenderò a narrare le ragazzate della mia giovinezza. Venuto su grandicello si pensò di mandarmi a scuola, a quelle pubbliche,17 ma che scuola! Mio padre non poteva occuparsene perché spesso era fuor di paese e la compiacenza di mia madre era tale che spesso e volentieri la disertavo; ma che razza di maestri a quei tempi, specialmente per le classi inferiori! Veri aguzzini. Quello di cui parlo era di soprammercato un uomo atrabiliare18 e per soprannome lo chiamavano Strapianton. Papista sfegatato, il sabato ci faceva leggere l’uffizio della Madonna in latino senza capirne una parola. Ad ogni po’ che la lezione non si sapesse, para la mano, diceva, e giù, spalmate19 col nerbo e un bel giorno poi che fui ingiustamente accusato dai compagni che ero io che mi divertivo a infilare nel corpo delle mosche un brindellino di carta che poi alcune volavano, così conciate, sul banco del maestro, mi furono appioppate tante nerbate sulla schiena da risentirmene per tre giorni in letto. Poi si stava in apprensione e si tremava al solo pensarci, di ricevere per qualche
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mancanza, un cavallo che si praticava, mi dicevano, col mettere a cavalcioni di uno scolaro più grande il piccolo delinquente ed il maestro rincorrerlo col nerbo in mano. Questa crudele punizione io però non l’ho mai vista applicata, ma il fatto sta che per questi motivi, pel metodo pessimo dell’insegnamento e per la poca voglia di studiare, l’asino della classe era un chierico ed io gli tiravo la coda. Passato ad altra scuola di grado superiore alla prima, che teneva vece di ginnasio, vi trovai per insegnante un buon prete, D.n Bonnoli, di principii liberali, quindi in mala vista al governo il quale un bel giorno lo fece arrestare poi confinare a Roma ove dimorò non so quanti anni. Che punizione credete che ci desse questo sacerdote, che di certo non era di cattivo animo, quando non si sapeva la lezione? Ci prendeva un ciuffo di capelli della tempia e tirandoci giù quasi a toccar la terra col capo ci faceva veder le stelle. Eccomi dunque di nuovo senza maestro quindi a consiglio fra loro i miei genitori cosa se ne dovesse fare di questo monello. Mia madre, povera donna, proponeva di mettermi in un collegio di Gesuiti (stavo fresco per mio!) e mio padre che aveva per amici intimi due delle più rispettabili persone del paese, il signor Filippo Goberti gonfaloniere e il C.co Mignani, dimandò a loro consiglio e mio padre avendo detto che io volevo fare come lui il mercante, essi risposero che allora non era necessaria molta istruzione. Quando poi, fatto adulto, ho riflettuto a questo consiglio non mi parve da gente savia perché un fondo d’istruzione ben data in qualunque caso è sempre giovevole, per la ragione che le disposizioni della natura talvolta si manifestano tardi ed io mi accorsi poi che pel commercio non ero nato e che se
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mi fossi avviato per gli studi classici sarei forse riuscito qualcosa. Accettato il consiglio degli amici allora fu pregato il medico primario del paese, che passava per un gran dotto, a darmi lezione. Visto e considerato che io dovevo fare il mercante che scuola credete mi facesse questo famoso dotto? Mi procurò un trattato di lettere commerciali, poi mi faceva leggere un libro qualunque a voce alta per correggermi gli strafalcioni che dicevo; m’insegnò le quattro regole dell’aritmetica e mi dava dei conti da fare; povera istruzione, come vedete, da trafficante spicciolo, ma io miravo molto più in alto. Fortunatamente che mio padre si accorse in tempo che così non si andava e prese una risoluzione in meglio come dirò in appresso, ma frattanto, per far le pratiche di commercio, mi conduceva con sé a viaggiare e ai mercati settimanali nelle vicine città, e questo fu il tempo più malamente speso nella mia vita, perché di studi la mente rimaneva digiuna e l’ozio mi divorava; però cominciai a prendere il gusto alle grandi città e a non trovarmi più bene nel paese nativo pei confronti che continuamente facevo. La prima città grande che vidi fu Bologna, per la quale ho poi sempre simpatizzato, poi Sinigallia al tempo della famosa fiera e Ancona, ma nel passare da Pesaro mi faceva senso il vedere sulla porta di quella città collocati in due nicchie due teschi umani che erano le teste di due celebri assassini colà poste a terrore dei malfattori. Il mio carattere pronto all’ira e rotto nelle bravate, voltato in là non ero più quello, fuoco di paglia, in apparenza tranquillo, di poche parole e timido in modo, per eccessiva eccitabilità nervosa e fors’anche per un incerto amor proprio, che venuto
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in cospetto d’altri, spesso divenivo pallido in viso e la parola mi rientrava in gola nel conversare; ma dentro mi bollivano le passioni, talché spesso in famiglia volevo farla da padrone e da prepotente. La maggiore delle mie sorelle 20 sposò nel paese un piccolo possidente e impiegato del comune, le altre due 21 che le succedevano andarono a marito, caso raro tutte due in un giorno con due fratelli; ma ad una di queste, che si chiamava anch’essa Pellegrina, tolsi io la fisima dal capo di farsi monaca e credo facessi bene perché poi mise al mondo un branco di figliuoli. C’era in paese un prete, anzi un parroco, ignorante e bigotto, figliuolo di un pover’uomo che campava a far bigonce 22 e mastelle, il quale credendo forse di acquistar merito presso Dio, si affaticava col confessionale di persuader le fanciulle a farsi monache e ne aveva convertite parecchie e gli era facile perché nel periodo dello sviluppo, come si sa, la donna va soggetta ad isterismi e a frequenti malinconie. Io che mi ero accorto dall’abito dimesso e scuro e dalla compunzione che questa mia sorella si avviava per quella strada, l’appostavo la mattina presto quando era per uscire di nascosto dal portone di dietro e a forza di spinte e di capiotti23 la ricacciavo in casa. In codesto modo la persuasi. Di questi atti arbitrari e di qualche scapataggine, propria di quell’età, avevo poi da render conto a mio padre, che gli erano riferite quando tornava a casa; ma il mestiere di padre a cui incombe l’obbligo di non far deviare i figliuoli dalla via retta, pochi lo sanno fare. Non ne studiano l’indole e spesso, con le troppe blandizie o con l’eccessiva severità, sono cagione della loro rovina. Il mio si mostrò meco sempre troppo severo talché ero già divenuto adulto che non potevo sostenere il suo sguardo.
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Una volta avendo trovato il nerbo, istrumento di tante vergate me la presi con lui e lo scaraventai sul tetto e allora andò in opra una fune, ma stanco alfine di tante percosse, che mi parevano esorbitanti ed ingiuste, mi atteggiai ad eroe, simile a Muzio Scevola, e mezzo ignudo, essendo d’estate, mi misi ritto stecchito colle braccia lungo il corpo e mi lasciai flagellare quella volta imperterrito senza fare alcun movimento e senza neanche mi uscisse un ohi! dalla bocca. A quei tempi il rivoltarsi ai genitori la cui autorità sembravaci sacra, non passava neppur per la mente. Però questo risoluto contegno mio fece tale impressione a mio padre che d’allora in poi non mi toccò mai più. Del resto io sarò ai miei genitori eternamente grato non per l’esistenza che mi hanno dato, ché questa la credo una sventura, ma perché mi hanno lasciato in eredità un buon nome e una vita comoda, e scuso in parte il carattere irascibile di mio padre, perché soffriva di emorroidi e di fegato, malanni che danno tristezza e malumore e poi, essendo uomo d’affari, quando questi non vanno a seconda si diventa irrequieti e si scarica facilmente sugli altri la bile che vi divora. Ciò che più mi crucciava, da non potergliela perdonare, si era di contrariarmi spesso, anche quando non ero più ragazzo, un onesto divertimento; allora io reagivo disubbidendo la quale disobbedienza io poi scontavo con la pena di veder mio padre per una settimana col muso lungo. Voglio però esser giusto e dire, a lode di lui, che quando veniva il momento del pericolo o qualche caso straordinario, che riferirò più avanti, scattavano in lui tratti di bontà per me che non potrò mai dimenticare, come non ho dimenticato un’ultima mia monelleria.