Serge Enderlin
Volt! L’auto elettrica non salverà il mondo Traduzione di Tania Spagnoli
www.ilsaggiatore.com (sito & eStore) Twitter @ilSaggiatoreEd Facebook il Saggiatore editore © Serge Enderlin, 2011 © il Saggiatore S.p.A., Milano 2012 Titolo originale: Volt! La voiture électrique sauvera-t-elle le monde?
Volt! a Romane, Octave e Victor
Sommario
Introduzione
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1. Maledetta America
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2. In Cina (survoltata)
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3. Una scommessa israeliana per il mondo
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4. In Bolivia (fuori fase)
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5. Portogallo, la corrente verde
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6. In California, l’ottimismo è l’ultimo a morire
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Epilogo
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Ringraziamenti
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Bibliografia
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Introduzione
Sto per parlarvi dell’automobile elettrica, pietra filosofale della postmodernità industriale e dell’ecologia politicamente corretta. Ma, per non nascondervi niente, vi confesso che questa storia ha avuto inizio con un problema di carta igienica. Poco più di tre anni fa, un quotidiano del Michigan ha pubblicato una lettera strabiliante scritta da Naomi Khalil, direttrice di un liceo pubblico di Detroit, e indirizzata ai genitori degli studenti. La lettera racconta molto meglio la crisi americana di un trattato di economia: Cari genitori, date le attuali restrizioni di bilancio, vi preghiamo di tenere in seria considerazione questa richiesta del tutto inconsueta, ma al momento fondamentale. Per il buon funzionamento della scuola, e soprattutto per la salute e la sicurezza dei ragazzi, vi chiediamo gentilmente di fornirci carta igienica, sacchi dell’immondizia e lampadine, poiché la scuola non ha più i mezzi per acquistarli. A partire da lunedì, gli articoli potranno essere depositati in segreteria. Grazie.
La prima potenza mondiale costretta a elemosinare per i suoi studenti! Un aneddoto come metafora di un interessante
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spunto di riflessione. E abissi di perplessità: come ha potuto l’America ridursi così in poco tempo? Come è possibile che il passaggio di potere dagli Stati Uniti alla Cina, previsto soltanto per il 2030, sia ormai imminente? La supremazia planetaria, oggi come ieri, si regge sul controllo dell’energia, delle sue risorse e dei suoi circuiti di distribuzione. Un tema di cui mi occupo da più di un decennio, ancor più appassionante perché le certezze di oggi vengono subito rimpiazzate dai dubbi di domani. In Black Out mi interrogavo sulle probabilità di successo di una rivoluzione verde giudicata indispensabile per sfuggire alla catastrofe climatica e all’esaurimento delle risorse, a partire dall’oro nero, re delle materie prime. Cinque anni fa si contemplava ancora – oggi fortunatamente molto meno – la possibilità di sostituire la benzina nei serbatoi delle nostre auto con carburante vegetale, per esempio trasformando il mais in etanolo. Un’aberrazione, ecologica ed economica, che ha portato a più riprese a un aumento vertiginoso dei prezzi del grano sui mercati mondiali e che ha avuto come effetto immediato una difficoltà maggiore da parte dei paesi poveri ad accedere a questo bene essenziale. Sul piatto o nel serbatoio? La questione dei carburanti di origine vegetale si è ridotta a questa anomala equazione. Il che dimostra come nel nostro mondo globalizzato, assetato di energia, le soluzioni tecnologiche proposte per risolvere un problema anticipino spesso… gli altri problemi che ne derivano. Ormai è così anche per l’automobile elettrica. Presentata come la panacea di tutti i nostri mali petroliferi, sulle prime appare affascinante. Ed ecco, acclamato dai suoi promotori, un successo tecnologico che ci permetterà di salvare il pianeta senza dover minimamente rinunciare alla nostra libertà di cittadini motorizzati. Eppure, per quanto le Bluecar
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che iniziano a girare per Parigi nell’ambito del programma Autolib possano suscitare simpatia, non sarà certo qualche centinaio di veicoli elettrici in una metropoli occidentale a cambiare il quadro d’insieme. E il quadro è drammatico. A novembre del 2011, l’Agenzia internazionale dell’energia (Aie), che pure è stata a lungo vicina agli ambienti petroliferi, ha annunciato nell’ultimo rapporto annuale World Energy Outlook che abbiamo superato il limite. Secondo Fatih Birol, economista a capo dell’Aie, abitualmente uomo di buon senso, non ci restano che due anni per fare marcia indietro. Ancora oggi si investe cinque volte di più nelle energie fossili, produttrici della CO2 responsabile del riscaldamento climatico, che in quelle rinnovabili. Non ci restano che ventiquattro mesi per invertire questa tendenza. Altrimenti lo scenario in cui il riscaldamento globale si limita a «soli» due gradi non sarà più d’attualità. Sarà peggio, molto peggio: probabilmente prepararsi è già una forma di igiene mentale. Sfida climatica, guerre energetiche tra grandi potenze, disfatta delle economie occidentali. È su questo trittico infernale che si basa la storia che sto per raccontarvi. Un grande reportage nel cuore delle rivalità tra Stati Uniti e Cina, passando per Bolivia, Israele e Portogallo. Nessuna pretesa di essere esaustivo, né di offrire delle soluzioni. Si tratta semplicemente di illustrare le condizioni di un mondo connesso ma confuso, alle prese con molteplici contraddizioni; spettacolo affascinante in cui si alternano paure, iniziative e illusioni. L’auto elettrica è il filo conduttore, a volte sottile, di questa storia in itinere e, non costituendo un rimedio ma un sintomo delle nostre convulsioni energetiche, non è presente in tutte le pagine. Essa è soprattutto un pretesto per imboccare delle strade traverse che rappresentano
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delle istantanee del tempo presente – i reportage sono stati realizzati tra il gennaio del 2009 e l’ottobre del 2011. Come si suol dire, rivendico gli errori e le imprecisioni contenuti nel testo: sono tutti miei. Ho parlato abbastanza, si parte.
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Detroit, Michigan, gennaio 2009 Questa grande città decaduta esercita su di me un fascino morboso. Il che forse spiega perché le mie vicissitudini mi riportino qui di continuo. Quarta visita in meno di cinque anni, e la situazione non migliora. Splendore spettrale dei tempi andati, rovine eloquenti. Se la decadenza urbana fosse una natura morta, troverebbe qui, più che in qualsiasi altro luogo degli Stati Uniti, la sua massima espressione. Aggirarsi per Detroit significa vedere con i propri occhi come muoiono, prima o poi, le grandi potenze. Quando ho dovuto scegliere il luogo da cui assistere all’investitura di Barack Obama, quel 20 gennaio del 2009, mi è subito venuta in mente la metropoli in rovina del Michigan. Due mesi prima, all’epoca del trionfo elettorale alla Casa Bianca del candidato democratico, mi trovavo ad Abu Dhabi, vivace capitale degli Emirati Arabi. Una metropoli in fermento, una scommessa sull’avvenire dove gli edifici più assurdi spuntano da terra con velocità e arroganza, dove si pensa unicamente a consumare e la fede nel futuro è talmente contagiosa da poter rientrare nella lista delle sostanze dopanti. Una città scandalosamente insolente, senza memoria, crocevia del
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nuovo mondo globalizzato. Ma al tempo stesso una città che sprigiona un’energia furiosa, la stessa energia che un secolo fa doveva emanare Detroit. Quella notte ad Abu Dhabi, sullo schermo piatto del bar di un anonimo hotel di lusso, Al Jazeera trasmetteva in diretta il discorso del futuro quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti di fronte a una folla stravolta per la felicità in un parco pubblico di Chicago. Due milioni di persone gridavano insieme a lui «Yes We Can!», quasi ad annunciare l’alba di una nuova era. Dopo gli anni di Bush, l’America aveva il suo nuovo supereroe, l’uomo grazie al quale sarebbe riuscita a riconciliarsi con il resto del mondo e ad arrestare il suo declino. Yes We Can? Non a Detroit. Non più, ho subito pensato, ed ecco perché vi sono approdato un’altra volta, nel gelo crepuscolare di un rigido inverno. Quando ritiro le chiavi dell’auto a noleggio, la ragazza allo sportello recita con tono complice quello che probabilmente ripete a tutti coloro che danno l’impressione di non avere un buon motivo per essere qui: «Conosce Detroit? Ci sono zone in cui è meglio non perdersi». La reputazione di città maledetta è dura a morire. E anche se la capitale dell’automobile non è più quella del crimine (ormai è più conveniente altrove), bisogna ammettere che i turisti sono rari. In linea di massima non si viene qui per piacere, ma per necessità. All’uscita dall’aeroporto, senza una meta precisa imbocco la freeway e decido, scorgendo un cartello, di deviare in direzione Pontiac, una sessantina di chilometri più a nord. Perché è un luogo evocativo, che nel 1929 ha dato il nome a un marchio automobilistico del gruppo General Motors. E perché lì, probabilmente, hanno qualcosa da dire su Obama e sull’avvenire del paese. Ancora non avevo idea che Pontiac (il marchio) sarebbe sparito di lì a diciotto mesi, vittima della drastica ristrutturazione della gm. Pontiac (la città)
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nel frattempo esiste ancora, sebbene dimezzata. Come Detroit, in quarant’anni ha perso più della metà dei suoi abitanti, e si vede. Per le strade non c’è anima viva e nell’unico bar aperto sulla Main Street regna un’atmosfera lugubre, da fine del mondo. «Non c’è nessuno» dice un omone sbrigativo dietro il bancone. «La gente non si ferma più a farsi un bicchierino dopo il lavoro. Non perché non abbia più sete, ma perché a lavorare non ci va proprio più. Cassa integrazione.» In effetti, il grosso stabilimento Centerpoint della General Motors a Auburn Hills, poco lontano da lì, ha chiuso i battenti prima di Natale, dopo aver bloccato la produzione per diverse settimane nel tentativo di smaltire decine di migliaia di veicoli invenduti, accumulati nel gigantesco parcheggio fuori dagli impianti di assemblaggio. Il barista è un uomo di poche parole. «Non c’è niente da dire, è una situazione deprimente. Sì, deprimente è la parola giusta.» Dopo aver divorato un hamburger mezzo freddo, pago il conto e riparto in cerca di un altro luogo mitico della saga dell’automobile americana e di testimonianze su come i suoi operai – le tute blu delle Big Three (gm, Chrysler e Ford) che hanno preso parte all’epopea dell’America motorizzata – vivano la fine dell’impero. Faccio qualche passo sul marciapiede ricoperto di brina e un ragazzo, le mani affondate nelle tasche di un giubbotto col cappuccio, mi fa segno di avvicinarmi. Probabilmente vorrà raccontarmi la sua vita senza illusioni o darmi la sua opinione sulla recessione, la più terribile dai tempi della Grande Depressione negli anni trenta. E invece si avvicina il più possibile e bisbiglia: «Ho del crack. Ne vuoi?». Altro quartiere operaio, stavolta nel cuore di Detroit. Hamtramck è uno di quei luoghi su cui si è costruita la gloria della prima potenza mondiale. Non soltanto perché la General
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Motors vi ha fabbricato, e vi fabbrica ancora oggi, alcuni dei suoi modelli più prestigiosi, ma anche e soprattutto per la sua reputazione di centro di aggregazione unico, testimonianza della prima mondializzazione industriale. Dagli inizi del xx secolo, attirati dalla promessa di posti di lavoro nelle fabbriche dei fratelli Dodge, migliaia di polacchi sbarcarono ad Hamtramck. Negli anni settanta rappresentavano il 90% della popolazione del quartiere, che modellarono a loro piacimento, portandovi un piccolo pezzo di Europa centrale. Negli ultimi quarant’anni, le successive ondate d’immigrazione (neri del Sud, yemeniti, bengalesi, arabi) hanno certo rimescolato le carte etniche del melting pot, ma i «polacchi» – i quali, per la maggior parte, sono diventati cittadini americani – costituiscono sempre la comunità più consistente. C’è anche una grande statua di pietra di Giovanni Paolo ii all’inizio della strada principale – il pontefice è passato di lì nel 1987, benedicendo gli operai e le chiavi inglesi. Nei bar servono le klobasa (salsicce) fumanti cotte su delle piccole griglie e la Zywiec, birra leggera prodotta a Zakopane, ai piedi dei monti Tatra. L’insalata di verza è d’obbligo, come i cetriolini sottaceto. E alla parete è appeso il ritratto del maresciallo Piłsudski, eroe nazionale che ha battuto i bolscevichi russi. Ecco l’atmosfera che regna in questo bar affacciato sulla strada, di fronte a un curioso quadrilatero di metallo marrone con i vetri rotti. A prima vista sembra il salone per esposizioni di un concessionario di automobili, o quello che ne rimane. Sulla parete frontale dell’edificio campeggia uno slogan al quale mancano alcune lettere, probabilmente cadute – chi potrebbe essere così stupido da rubarle? Ormai si legge questo: b y am r c n! Risolto velocemente, il rebus indica che un tempo, non così lontano, il proprietario dell’immobile aveva proclamato sulla vetrina la sua preferenza per le auto patriottiche: buy
1. Maledetta America 17 american ! Ma i clienti non hanno acquistato. Né auto americane, né qualsiasi altro prodotto, non comprano più. E ora la via sta morendo. Una attività su due ha chiuso, nessuno si ferma più da queste parti. «Nessuno vuole più i miei pierogi (ravioli polacchi)!» si lamenta la padrona del bar. «Non ci sono più soldi, è finita.» I clienti abituali annuiscono. Si succedono allora le testimonianze d’oltretomba, il gemito lancinante dei caduti del sogno americano. Nel frattempo, su un piccolo schermo gracchiante, Barack Obama presta giuramento davanti al Campidoglio con la mano sulla Bibbia. Un vecchio sdentato, i baffi radi, inizia: «Qui va tutto a rotoli, quell’Obama, no, non è male, ma cosa potrà mai fare? Non c’è bisogno di aver studiato per capire che questa volta è davvero la fine. Di crisi ne abbiamo conosciute tante, ma come questa mai! La fiducia, ecco cosa si è perso. Nessuno ha più fiducia in niente. L’America non è altro che l’ombra di se stessa». Interviene un altro uomo, sulla cinquantina, alto e ossuto, zigomi sporgenti, sigaretta tra le labbra: «Larry Flynt, il re del porno! Anche lui ha dichiarato fallimento. Per dire come siamo messi…». Grasse risate dei compagni, mentre si avvicina un tipo robusto, dall’aspetto sudamericano, le ciglia folte. Un cliente abituale che saluta la platea. Celso Duque ha trentadue anni. Ha iniziato a montare telai nello stabilimento gm di Hamtramck all’età di sedici anni, appena arrivato dal Messico grazie al ricongiungimento familiare. Finora non si era mai lamentato perché, da povero immigrato qual era, l’America gli aveva offerto una vita insperata. Impiego stabile, salario alto, quasi quattromila dollari al mese nelle annate buone, e anche qualche prospettiva di avanzamento, di diventare capo squadra e di non doversi più sporcare le mani, o quasi. L’ascensore sociale. In piccolo, ma comunque ascensore sociale. Solo che questa volta è guasto. E Celso Duque non ha bisogno di essere incorag-
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giato a parlare perché di tempo ne ha da vendere, cassa integrazione, anche lui come gli altri. Partiamo su una vecchia Chevrolet traballante alla scoperta del quartiere in cui vive, dall’altro lato di Detroit. Una fila di villette a schiera di legno bianche, tutte identiche. America da cartolina, graziosa senza ostentazione, un tantino sbiadita. Le stanze sono minuscole, ma nell’insieme è confortevole. «Lavorare come operaio delle Big Three era un buon impiego» spiega Celso. «Non ti garantiva una vita di lusso, ma almeno una vita dignitosa. Ormai non c’è più niente di certo. Prima di tutto perché decine di migliaia di posti scompariranno. E poi perché le case, nella mia via, presto saranno tutte vuote. Sono state comprate a credito, senza alcun apporto di capitale, ha mai sentito parlare dei subprimes? Le banche vengono a pignorare le case perché i proprietari non riescono più a pagare il mutuo e li sbattono fuori.» Celso non è caduto nella trappola dei soldi facili. Riesce ancora a pagare le rate della casa, ma per quanto tempo sarà in grado di farlo? Mi porta dal suo responsabile sindacale per parlare della crisi, ma insiste perché facciamo una deviazione, vuole mostrarmi il «peggio di Detroit». Vada per la ballata, che prende presto l’aspetto di una carrellata su una civiltà sprofondata. Prima attraversiamo il quartiere di Highland Park, un tempo centro nevralgico della città; è qui in effetti che Henry Ford fabbricò in serie, dagli inizi del xx secolo, la mitica Ford T, prima automobile popolare della storia. Montaggio a catena, fordismo, l’industria moderna come la conosciamo noi è nata in un certo senso in questo edificio di mattoni rossi abbandonato negli anni sessanta, al culmine delle sommosse razziali che hanno segnato l’inizio del declino di Detroit, prima dell’agonia attuale. Nei dintorni, uno scenario bellico. Case pericolanti, distrutte, crollate, bruciate, consumate, smembrate, devastate. Lungo intere strade, la città si
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coniuga all’imperfetto. Era, non è più. Non devono esistere molti altri posti in cui un tale annientamento non sia dovuto a bombardamenti aerei. Sterpi, a volte persino alberi, crescono nei salotti, attraverso i tetti crollati. Alle finestre, tende squarciate ondeggiano al vento. Abbandonate progressivamente nel corso dei decenni, le case sono servite da rifugio alle legioni di naufraghi della crisi. Bruciano quando i fumatori di crack, completamente fatti, non si accorgono dei residui infiammabili. A volte i corpi carbonizzati non vengono neanche ritrovati. Da tempo ormai i pompieri non intervengono più. Per salvare cosa? Chi vorrebbe, un giorno, tornare ad abitare qui? Le fabbriche si sono trasferite altrove. Nelle lontane periferie, dove vivono gli umani, perché ce ne sono nel Michigan, a migliaia. E si apprestano a vivere un vero bagno di sangue sociale. George McGregor è quello che può essere definito un barone sindacale. Regna sul Local 22 dello United Auto Workers (Uaw), una delle decine di sezioni della città (local unions) del più potente sindacato industriale degli Stati Uniti, fondato a Detroit nel 1935. Lo incontriamo sulla Michigan Avenue, una delle autostrade che attraversano la città e permettono di raggiungere in poco tempo le periferie dalla downtown. McGregor è un nero del Sud arrivato dall’Alabama negli anni sessanta, quando i produttori di automobili non trovavano abbastanza personale nella regione dei Grandi Laghi. Capelli grigi impomatati, sfoggia diversi anelli d’oro alle dita ed è talmente lezioso da indossare un maglione bordeaux con lo stemma dello Uaw, su cui ha fatto ricamare il suo nome in lettere gotiche, dorate. L’ufficio non è da meno, opulenza pacchiana molto americana: cornici dorate che racchiudono foto di McGregor accanto a personalità politiche locali e nazionali;
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penne dorate allineate accanto al computer. E dei trofei, tanto per cambiare dorati, conferiti al «miglior negoziatore salariale» di una qualche annata. Eppure la realtà non ha nessun lustrino. Lo Uaw ha costruito la sua notorietà ottenendo, nell’arco del tempo, degli stipendi molto buoni per i suoi membri più attivi e dei generosi pacchetti finanziari per i suoi pensionati. Talmente generosi che hanno finito per costituire il maggior handicap delle compagnie automobilistiche. Le loro spese sociali raggiungono ogni anno decine di miliardi di dollari, somme che società straniere come la Toyota non si ritrovano a spendere: a partire dagli anni settanta, i giapponesi hanno impiantato le loro fabbriche nel Sud del paese, negli stati conservatori e liberali, in cui ottengono non soltanto delle esenzioni fiscali, ma evitano anche l’influenza dello United Auto Workers. Così, quando Washington inizia a mettere in discussione le agevolazioni degli operai del Nord a favore del salvataggio della General Motors, George McGregor si trova sotto pressione. «Ne ho conosciuti di alti e bassi» dice «ma mai come adesso. È semplice, siamo agli inizi di un vero massacro sociale. I licenziamenti sono talmente numerosi che l’amministrazione non riesce più a starci dietro. I centri per l’impiego hanno dovuto imbastire delle soluzioni d’emergenza per permettere ai lavoratori di iscriversi il più velocemente possibile alle liste. Possono farlo chiamando un numero verde e una voce registrata spiega loro come devono muoversi: “per informazioni generali digiti 1, per presentare una domanda di indennizzo digiti 2” eccetera. Il problema è che le linee sono sature e il numero risulta sempre occupato. Stessa cosa su Internet, il sito non è mai accessibile, il server è impazzito.» Per questo il suo telefono squilla ogni quindici secondi. McGregor deve rassicurare i sindacati sconvolti dalla crisi e per farlo ha una risposta standard: «Troveremo
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una soluzione, ci batteremo». Mi stupisco tuttavia che non si fosse accorto di niente. «Tutti sanno che gli americani comprano delle macchine aberranti, basta guardarsi intorno. Troppo grosse, troppo care, troppo ciucciabenzina, e il prezzo del petrolio non fa che salire…» McGregor stringe i pugni e tuona: «Non è questo il problema! Scegliere l’auto che si preferisce è una libertà fondamentale qui e, a ogni modo, nessuno riuscirebbe a vendere neanche le macchine piccole, è venuta meno la fiducia». «Eppure i giapponesi vendono abbastanza bene le loro…» Il sindacalista stringe ancora di più i pugni e poi esplode di nuovo: «È una merda! Se si continua così la gente finirà per comprare delle auto cinesi… Glielo dico io qual è il problema: Wall Street, tutti quegli stronzi che si sono arricchiti sul nulla e che Washington ha salvato a colpi di decine di miliardi. Mentre noi, sì noi, produciamo delle cose vere. Quattro ruote, una carrozzeria, un motore, questo è tangibile, questo è reale. Se vogliono che in questo paese rimangano solo banchieri e avvocati, basta dirlo!». La sua collera è un po’ finta, troppo teatrale in ogni caso per non far parte del repertorio retorico che deve sfoggiare durante le negoziazioni. Non deve essere facile avere a che fare con un uomo della sua risma. Al momento di salutarlo, rimpiangiamo quasi di avergli teso la mano e contiamo, inconsciamente, le falangi scampate alla stretta. A questo punto, e senza entrare troppo nei dettagli, conviene forse ricordare in che modo la General Motors si sia ridotta così (e in modo minore anche la Chrysler-Ford, che sta attraversando la crisi senza troppi danni). Già nel 2005, l’agenzia di rating Standard & Poor’s declassa le azioni della gm a livello di junk bonds, ultimo stadio di credibilità sul mercato prima della spazzatura. Per via della concorrenza
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con i giapponesi, soprattutto con la Toyota che sta per fregargli il rango di numero uno nel mondo, il gruppo risente di sovracapacità produttiva, di costi fissi enormi – la copertura sanitaria dei suoi pensionati – e di un’apatia commerciale inverosimile: nessuno dei suoi strateghi si è accorto che il vento sta cambiando. Contrariamente alle affermazioni di McGregor, il rincaro del petrolio ha iniziato a gravare sul budget automobilistico degli americani, molto più cospicuo di quello degli europei: distanze più lunghe, spostamenti più frequenti, e macchine poco economiche. Impercettibilmente, lo spirito cambia; il rapporto che l’homo automobilicus americano ha con il proprio mezzo è all’alba di una nuova era. L’indice più significativo di questo mutamento è il successo che negli Stati Uniti (di sicuro nei centri urbani della California e della costa orientale, e tra i radical chic) ha avuto la Toyota Prius, una macchina di taglia media e senza prestazioni particolari, ma «verde»: un ibrido che funziona in parte a elettricità e consuma poca benzina. L’esatto contrario di quello che stanno facendo i produttori americani, che continuano a saturare il mercato di mostruose 4x4, gas guzzlers o ciucciabenzina. Nel 2005, le spie rosse erano già accese alla General Motors. Certo, 324mila salariati permettono al gruppo di raggiungere 193 miliardi di giro d’affari, più gli 8 milioni di auto vendute. Ma la gm perde denaro, 3 miliardi, e non vale più niente in borsa: la sua capitalizzazione, 17 miliardi di dollari, farebbe ridere un imprenditore della Silicon Valley. Come se non bastasse, i debiti toccano la somma colossale di 292 miliardi! Sebbene abbia rappresentato a lungo quasi la metà del mercato automobilistico degli Stati Uniti, il gruppo si avvicina pericolosamente al 25%. Alla fine del 2005, gm è sull’orlo del precipizio e annuncia che nei successivi tre anni taglierà 25mila posti di lavoro. L’azienda raggiunge anche un accordo con il sinda-
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cato Uaw per ridurre le spese mediche di quasi un milione di salariati e pensionati. Ma non cambia niente. Le vendite continuano a diminuire, al contrario della cilindrata dei modelli proposti dal produttore. Il 9 ottobre 2008, in pieno tornado finanziario sui mercati, le azioni General Motors calano ulteriormente a Wall Street, dove non valgono più che qualche cent. La cessazione dei pagamenti dell’impresa che fu il fiore all’occhiello dell’industria americana non è più esclusa. Troppo occupata a salvare le banche, l’amministrazione Bush, ormai agli sgoccioli, guarda altrove. Il 19 dicembre, forse soltanto poche ore prima di depositare il bilancio definitivo, il governo fa qualche concessione per risanare la gm e annuncia un piano di salvataggio di 17 miliardi di dollari. Ma le condizioni sono drastiche, la gm deve ristrutturarsi. Il gruppo annuncia la soppressione di 10mila posti amministrativi e l’istituzione dell’indennità di buonuscita per… 62mila salariati! Incredibile? Sì, ma non sufficiente. Appena salito al governo, Obama esige la testa di Rick Wagoner, lo screditato amministratore delegato della General Motors. E nell’arco di qualche settimana la situazione evolve. In cambio di aiuti aggiuntivi, a colpi di miliardi qua e là, il governo americano prende il controllo delle operazioni. Il 1º giugno 2009, l’azienda automobilistica viene prima di tutto messa sotto la protezione del capitolo undici della legge sui fallimenti. La gm è rovinata (172 miliardi di debiti per 82 miliardi di attivo), ma al riparo dai creditori. Sull’onda della crisi, il governo assume la guida della compagnia, nazionalizzata per il periodo del salvataggio. Durante la sua campagna elettorale, Barack Obama non avrebbe mai immaginato che diventando presidente degli Stati Uniti sarebbe diventato di fatto anche presidente di uno dei più grandi gruppi industriali del paese! Dall’estate 2009 all’estate 2010, la gm è «risanata». Una parola dolce per una terapia d’urto.
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Decine di migliaia di posti soppressi negli Stati Uniti e altrove nel mondo. Quindici stabilimenti chiudono i battenti, soprattutto negli stati della cosiddetta «cintura della ruggine», la rust belt (Michigan, Illinois, Ohio). Nel novembre 2010, la General Motors viene riquotata in borsa, denazionalizzata. Il malato esce dall’ospedale dopo una lunga convalescenza. Pallido, debilitato, smagrito, stravolto, ma sopravvissuto. Detroit è una città in cui sarebbe assurdo passeggiare. Del resto nessuno ci prova. Quando una domenica parcheggio l’auto davanti al Detroit Institute of Arts, mi rendo conto che durante la settimana non ho fatto un metro a piedi, o quasi. È tempo di sgranchirsi le gambe. Il museo, che gode di fama mondiale, ospita un’interessante collezione di pittori internazionali, opere accumulate dai baroni dell’automobile quando avevano ancora abbastanza soldi da consacrare al mecenatismo culturale. Ormai le acquisizioni sono sempre più rare, e la città custodisce gelosamente il patrimonio di una delle ultime istituzioni rimaste ancora in piedi. La fama del posto non è dovuta a Picasso e ad altri classici, ma a un ciclo di giganteschi affreschi di Diego Rivera, i Detroit Industry Murals, che ricoprono le pareti di una corte interna quadrata, vero peplum grafico in onore dell’industria trionfante. Il pittore messicano, compagno di Frida Kahlo, è al culmine della sua carriera quando Edsel Ford, uno dei figli di Henry Ford, lo contatta nel 1930. Nei due anni successivi, l’artista realizzerà quella che considera la sua opera più riuscita. Il ciclo è un’ode all’ascesa del potere americano, alla magnificenza dello strumento industriale. Vi sono raffigurati degli operai indaffarati alle catene di montaggio, che assemblano pezzi metallici sul telaio, mentre sullo sfondo rosseggiano gli altiforni in cui si lavora l’acciaio fuso. La scena fa immancabilmente pensare ai manifesti propagandistici realiz-
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zati nello stesso periodo dall’altra parte del mondo, che celebrano la marcia del proletariato alla conquista del progresso. Non a caso, del resto, appena Rivera nell’autunno del 1933 presenta il lavoro alle autorità, si scatena una virulenta polemica. «Antiamericano» dice la critica, che vi vede un intollerabile manifesto marxista. Rivera era già sospetto agli occhi dei suoi denigratori. Qualche anno prima, a Chicago, ha tentato con discrezione di farsi approvare un piccolo ritratto di Lenin, nascosto in mezzo a un altro gigantesco affresco. Ma a Detroit il pittore supera se stesso. «Blasfemo» urla a sua volta il clero, oltraggiato da un dettaglio che salta agli occhi soltanto a coloro che hanno fatto la scelta di offendersene: in un angolo, si distingue una parodia della natività. Un medico (Giuseppe) e un’infermiera (Maria) vaccinano un neonato. Appena al di sotto, un ammiccamento sottile ma alquanto sacrilego: uno spermatozoo emerge da un magma informe. Rivendicazione d’ateismo, propaganda comunista, l’affresco di Diego Rivera racchiude tutte le paure dell’America conservatrice. Il Detroit News, in un editoriale al vetriolo, si accanisce contro la «volgarità» degli affreschi e diverse comunità religiose ne richiedono perfino la distruzione per proteggere le famiglie da uno spettacolo altamente immorale. Ma il clan Ford sostiene l’artista. Tanto più che, nell’insieme, l’opera comunica l’armonia tra gli uomini e le macchine nello stabilimento Rouge di Ford, le cui officine sono state prese a modello da Rivera. Chi, oggi a Detroit, avrebbe i mezzi per commissionare a un pittore di spicco un’opera di tale ampiezza? E per raffigurare che cosa? Immagino le scene di desolazione urbana sotto i devastanti colpi di pennello di un artista iconoclasta. Mi rimetto al volante, ancora una volta senza una meta precisa. Piacere gratuito della navigazione sull’asfalto deserto. Dopo un’ora, la piovra urbana estende ancora i suoi tentacoli. Più
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ci si allontana da Detroit, più la miseria defluisce. Ben presto non si vede nient’altro che isolati di villette identiche, periferie ricche di carta patinata, disincarnate come in un film di David Lynch. Ed ecco che appaiono, uno dopo l’altro, giganteschi parcheggi pieni di macchine nuove. Piano piano, su entrambi i lati della strada, si vedono solo concessionari di automobili. Mi fermo da Lafontaine Motors. Quella mattina stessa, sulla stampa locale, le statistiche delle vendite indicavano un calo del 50% rispetto all’anno precedente. Andiamo a verificare. Qui l’acquisto di una macchina non è una semplice transazione tra venditore e cliente. Ha tutta un’altra portata: si tratta di un’esperienza umana della massima importanza. Per questo non si lesina sui mezzi. Oltrepassata la porta scorrevole, non si accede a un semplice spazio consacrato alla vendita di automobili, ma a un tempio della voluttà automobilistica, in cui tutto è stato programmato per trascorrere delle piacevoli giornate. Come, delle giornate intere? «Certo» spiega la commessa bionda pesantemente truccata che accompagna il nuovo arrivato. Gli sta sempre alle calcagna e ripete otto volte che è «al suo servizio». «La Lafontaine Motors» precisa l’irritante creatura «non è una semplice concessionaria d’auto, ma un vero e proprio luogo dove vivere. Abbiamo un ristorante, alla sua sinistra, e un bar, alla sua destra; laggiù troverà un parrucchiere e anche un parco giochi per bambini. Che sciocca, stavo per dimenticare la parte più importante: ed ecco il nostro showroom, in cui sono esposti più di settanta modelli! No, non metta le dita sul cofano di quell’auto, mi perdoni, ma deve luccicare, tutto luccica sempre da Lafontaine Motors. Sono al suo servizio.» Approfittiamone. «Sono venuto a parlare con il direttore, sto scrivendo un libro e mi piacerebbe che mi spiegasse come vanno gli affari…»
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«Ha un appuntamento?» «Non esattamente. Non fisso mai gli incontri. Preferisco discutere a spizzichi e bocconi. Passavo da queste parti e ho pensato che…» «Aspetti un attimo. John non può mica ricevere una persona qualsiasi in un momento qualsiasi, questo non va bene, assolutamente no…» Non fa in tempo a finire la frase che passa John Lafontaine, è scritto sul suo badge di metallo argentato, con la dicitura «Sales Director». Ha i capelli a spazzola e una barba così perfettamente sagomata da non lasciare dubbi sulle sue regolari visite dal parrucchiere, subito dietro lo showroom. «Non vuole comprare un’auto, ma solo fare delle domande? Non mi interessa.» Le mie suppliche non servono a niente: «No comment, va tutto bene alla Lafontaine Motors, le macchine vanno a ruba, no grazie va tutto bene, la crisi?». Mentre esco dal negozio, conto automaticamente le file di auto invendute. Centinaia di macchine nuove, la calandra rosso fiammante. Marziali, in attesa dell’ordine di mettersi in moto che non arriverà mai. Sono disposte in modo regolare, divise per modello, dalla più grande alla più mostruosa, motori di sei litri che basterebbero ampiamente alla propulsione di un carro armato. Sono patetiche ma quasi belle, perfettamente allineate, un punto di fuga in prospettiva che si perde in lontananza. C’è un tizio che si aggira intorno a una grossa 4x4 Chevrolet. Dice di non essere (ancora) un acquirente, ma che si deve comprare adesso o mai più. «Non vendono più niente. E un rivenditore fermo è destinato a morire. Un modello da 30mila dollari, trattando bene, si può pagare 18mila. Forse aspetto qualche altra settimana.» La discussione potrebbe prendere una piega interessante se John Lafontaine non spuntasse furioso nel parcheggio. «La smetta di fare domande ai clienti. Li demoralizza, è antiamericano!»
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Ed ecco come in un nonnulla si viene trattati come il primo Diego Rivera che capita. I dirigenti della General Motors sono invisibili. Rinchiusi nel complesso di torri di vetro che ospita la sede della compagnia, il mal nominato Renaissance Center (qui lo chiamano RenCen), sudano sette camicie sui comunicati stampa che dovrebbero rassicurare i mercati. Mancano alcune ore all’apertura del North American International Auto Show, detto anche il Salone dell’Auto di Detroit, che in tempi normali servirebbe da vetrina all’ottimismo dei produttori e ai loro nuovi modelli. Comincia con due giornate riservate esclusivamente ai media. Così, all’inizio di ogni gennaio, ha luogo una messa solenne dalla liturgia immutabile, con i suoi officianti e i suoi comunicandi. Gli officianti: gli addetti stampa e altri oratori, carichi di opuscoli splendenti e con la bocca piena di parole confortanti sul futuro roseo. I comunicandi: il circo mediatico dei giornalisti automobilistici, centinaia di individui al servizio del culto della santa automobile. Ma quest’anno alla cerimonia regna un’atmosfera triste. Per adeguarsi all’austerità dei tempi che corrono, le Big Three hanno simbolicamente deciso di limitare le spese. Niente champagne, niente serate sfarzose nei migliori ristoranti della città, niente regali per i giornalisti automobilistici. La razzia dei pasticcini è rimandata a giorni migliori. E quel che è peggio è che anche le languide creature pagate per fondere i loro corpi gracili con i cavalli motore sono state pregate di rivolgersi altrove. Di colpo, la grande celebrazione maschilista assume l’aspetto di una fiera agricola ucraina, in barba alla tradizione. Prendete questo giornalista giapponese che ha attraversato il Pacifico e gli Stati Uniti per «coprire» l’evento. Per lui il Salone di Detroit è una scappatella quasi malandrina, serate che si protraggono in locali loschi, alcol a volontà, tutto
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a spese di altri. E invece niente, deserto della sete. Nessuno regala più niente. Nelle campate del Cobo Center, il palazzo delle esposizioni, l’umore non è tetro, ma crepuscolare. Bisogna far buon viso a cattiva sorte. Anche la General Motors prende il coraggio a due mani. Il gruppo svelerà l’auto che gli salverà la vita. Forse. O forse no, in effetti, ma poco importa, l’essenziale è far finta di crederci. Se ancora qualche anno fa la gm faceva sfilare i suoi modelli più ingordi, questa volta li ha messi da parte a favore di auto più piccole, quelle che in America non compra nessuno. Bisogna dimostrare di aver recepito il messaggio, sono tempi duri. Bisogna dimostrare, soprattutto, mentre il gruppo supplica Washington di salvargli la vita, di essere pronti a fare degli sforzi. Allora conviene essere «verdi», green a 360 gradi. Quando Rick Wagoner sale sul palco per la rituale conferenza stampa, piomba il silenzio. Qualche settimana dopo, l’uomo che sovrintende al destino della gm sarà costretto a cedere il posto e probabilmente sa già che la sua carriera verrà interrotta dalla Casa Bianca. Quindi, per il suo ultimo giro di pista annuncia l’entrata in scena dell’auto miracolo: «Ladies and gentlemen, here comes the Volt!». Mitragliata dai flash dei fotografi e ripresa da decine di telecamere, ecco che avanza sul parquet lucidato l’ultima scommessa del gruppo moribondo: un’automobile di taglia media, per niente spettacolare, ma elettrica! O meglio quasi, poiché contiene due motori: uno elettrico, dotato di un’autonomia molto limitata e, in aggiunta, un piccolo motore a benzina tradizionale per… caricare la batteria. Un lieve progresso, sì, ma non ancora il veicolo rivoluzionario che segnerà la fine di un’epoca. Messo sul mercato agli inizi del 2011, ha per altro un difetto maggiore: il prezzo. 40mila dollari, una somma esagerata per una macchina di taglia media. Eppure per la gm il momento è solenne, a dimo-
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strazione della saggezza e della modestia a cui il gruppo ha promesso di conformarsi. Se quell’auto potesse parlare, direbbe probabilmente «vi ho capito». Ma siccome siamo in America, dove l’entusiasmo è un elemento vitale anche quando tutto va a rotoli, l’irruzione della Volt sullo stand della gm è accompagnato da una sfilata stile majorette… composta da operai meritevoli e dai quadri superiori del gruppo che intonano slogan pieni di promesse. «Charged up! Ready to go!» (Siamo carichi! Pronti a partire!). La cosa più sconvolgente in questo corteo privo di ogni forma di spontaneità è la presenza alla sua testa del personaggio politico più potente del Michigan, dove due impiegati su tre dipendono dall’automobile. Jennifer Granholm, governatrice democratica dello Stato, non si fa certo problemi a intonare il ritornello del giorno. Favolosa America. In quale altro paese assisteremmo senza vergogna a uno spettacolo così patetico? Mentre ha luogo questa scena surreale, Bob Lutz rassicura gli specialisti. Quasi ottantenne, l’uomo vanta sessant’anni di esperienza nel campo dell’industria automobilistica e ha al suo attivo diversi salvataggi dell’ultimo minuto. È un po’ l’ancora di salvezza, uno sbruffone dalla voce roca e dal fisico da rugbista. Per due volte ha impedito alla Chrysler di affondare e gli è stata affidata un’ultima missione: ripetere l’impresa con la gm. A quanto pare nessuno sembra notare che l’avvenire del gruppo gravi in parte sulle spalle di un uomo che dovrebbe essere in pensione ormai da quindici anni. Ma è un mito vivente dell’America corporate, un titolo incontestabile. Tuttavia, lascerà definitivamente il gruppo qualche mese più tardi, dopo aver interpretato il ruolo di direttore d’orchestra sul Titanic. In fondo al Cobo Center, un uomo ha assistito a tutta la scena senza aprire bocca. È cinese e si chiama Henry Li. Se ne sta in piedi davanti a un’automobile del marchio byd, di cui scopro l’esistenza
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in quello stesso istante – come avrete intuito, non sono per niente un appassionato di automobili. Stretta di mano. «Che cosa ha di speciale l’auto alle sue spalle?» «È il nostro modello e6.» «Grazie, so leggere. Intendevo dire, che cosa ha di nuovo?» «È completamente elettrica, ha un’autonomia di trecento chilometri con una sola ricarica.» «Ma è impossibile! Due minuti fa la General Motors ha presentato il suo prototipo, la Volt, che è solo parzialmente elettrica, dispone di un’autonomia ridotta e non è ancora nelle catene di montaggio…» «In Cina è diverso, noi siamo pronti! Venga a farci visita a Shenzhen.» Ed eccomi, sempre a Detroit, con una ragione in più per scrivere questa storia. E come punto di partenza una verità che è come uno schiaffo ben assestato, una semplice frase («noi siamo pronti»), pronunciata da un cinese in completo grigio, dai modi freddi e quasi arroganti. Non serve di più per delineare lo scenario. Da un lato, un Occidente postmoderno sfinito dalla crisi, indebitato fino al collo, invischiato nel finanziamento impossibile della sua democrazia socialmente generosa. Dall’altro, un nuovo mondo, cinese (ma anche indiano, brasiliano eccetera), sul punto di soppiantare il primo. Ormai è solo una questione di giorni. Certo, esistono ancora in Europa e negli Stati Uniti immensi poli di prosperità e di inventiva, basti pensare alla Silicon Valley che ciclicamente supera le crisi sull’onda della creatività e dell’innovazione, producendo ricchezza e posti di lavoro. Naturalmente ormai c’è un abisso tra la Apple e, per esempio, la General Motors. Ciò non toglie che la frase di quel cinese e il suo invito («Venga a farci visita a Shenzhen!») mi abbiano rimesso in moto.
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Bisogna vedere con i propri occhi per raccontare. Diffidare delle statistiche e delle cifre sulla crisi mondiale. Memorizzarne qualche dato solo per andare a verificare personalmente: 46 milioni di americani su 300 campano con l’assegno alimentare; o ancora: ogni santo giorno, la Banca centrale cinese mette da parte 1,7 miliardi di dollari di riserve internazionali supplementari. Diffidare, dunque, delle percentuali e delle parti di mercato, delle analisi economiche e del rigore delle cifre in colonna. Preferire a queste le storie a portata d’uomo perché permettono, altrettanto bene, di abbozzare a grandi linee i contorni di un mondo illeggibile. È giunto il momento di lasciare Detroit. Ma non senza aver parlato di un’iniziativa che riscuote un grande successo da queste parti. Visto che l’amministrazione comunale ha capito che ormai niente o nessuno si occuperà mai dei terreni incolti del centro, incoraggia i disoccupati, i poveri e tutti gli emarginati a coltivare il loro giardino. E non soltanto nel senso volterriano del termine. All’ombra dei grattacieli art déco che un tempo fecero la grandezza della metropoli del Michigan, uomini e donne, vanga e pala alla mano, coltivano oggi pomodori, porri e carote. Delle buone verdure biologiche, a prezzi economici, ottime per la salute. Nelle tentacolari città cinesi, il metro quadrato è troppo prezioso perché l’elemento vegetale abbia voce in capitolo. La Cina? Appunto, andiamoci.