Segno 253

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segno Spedizione in abbonamento postale Poste Italiane S.p.A. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 ROC · Registro degli operatori di comunicazione n. 18524 - ISSN 0391-3910 00 in libreria

E 5.

ESTATE 2015

253

Anno XL

Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea

Speciale Biennale di Venezia salvador dalì - SPAGNA

lili reynaud dewar - ARSeNALe

Bgl art ColleCtive - CANADA

elisaBetta Benassi - BeLGIO

Fiona hall - AUStRALIA Qiu ZhiJie - ARSeNALe

riCardo Brey - ARSeNALe

MaJa BaJeviC - ARSeNALe


accademia nazionale di san luca www.accademiasanluca.eu

L’arte è cibo per l’anima e per la mente Guido Reni, La Fortuna, 1637 ca. Accademia Nazionale di San Luca, Roma

Mostra “Il Tesoro d’Italia” . Padiglione eataly MILANO 2015 NUTRIRE IL PIANETA ENERGIA PER LA VITA


#253 sommario

segno Spedizione in abbonamento postale Poste Italiane S.p.A. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 ROC · Registro degli operatori di comunicazione n. 18524 - ISSN 0391-3910 00 in libreria

E 5.

auri - PADIGLIONe CeNtRALe

estate 2015

ESTATE 2015

253

Anno XL

Speciale Biennale in copertina di Venezia salvador dalì - SPAGNA

lili reynaud dewar - ARSeNALe

segno Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea

Bgl art ColleCtive - CANADA

DIGLIONe CeNtRALe

s - GRAN BRetAGNA

katharina grosse ARSeNALe

elisaBetta Benassi - BeLGIO

Fiona hall - AUStRALIA Qiu ZhiJie - ARSeNALe

riCardo Brey - ARSeNALe

Mario Merz [40]

Céleste Boursier-Mougenot - FRANCIA

rirkrit tiravaniJa - ARSeNALe MaJa BaJeviC - ARSeNALe

Joan Jonas - StAtI UNItI D’AmeRICA

Immagini dalla 56a

Biennale di Venezia foto di Roberto Sala

4/23 News gallerie e istituzioni 08/06/15 19:24

Jannis Kounellis [58]

News gallerie e Istituzioni Art Basel e dintorni Le mostre in Italia ed all’estero

a cura di Lisa D’Emidio e Paolo Spadano

24/41 Biennale di Venezia /

e mostre collaterali

Opinioni e commenti di: Paolo Balmas, Francesco Moschini, Antonella Marino, Ilaria Piccioni, Fernando De Filippi, Rita Salvadei, Marilena Di Tursi, Pietro Marino, Gabriele Perretta, Marco Scotini, Alessandro Azzoni, Lucia Spadano, Umberto Palestini. Foto di Roberto Sala

recensioni & documentazione Tony Cragg [44]

Arts & Foods (Simona Olivieri) pagg.42-43 Tony Cragg (Simona Olivieri) pag. 44 Anselmo, Laib, Spallet (Gianmarco Corradi) pag 45 Jean Munoz (Simona Olivieri) pag. 46 Anthony Gormley (Rita Olivieri) pag47 Kapoor, Kounellis, Pistoletto, Serse (Rita Olivieri) pagg.48/51 Industria Oggi (Francesca Cammarata) pagg.52/53 Gianni Colombo (Enrico Liuzzo intervista Marco Scotini) pagg. 54/57 Jannis Kounellis (Simona Olivieri) pagg.58/60 Pedro Cabrita Reis (Gabriella Serusi) pag.61 Li Song Song (Francesca Cammarata) pag. 62 Esko Mannikko/Enrico David (Anna Maria Restieri) pag.63 Incontri DAC (Giuliano Sergio) pag.64 David Tremlett (Stefano Taccone) pag.65 TraCarte (Maria Vinella) pagg 66/67 Nutrimentum (Giuliana Benassi) pagg.68/69 Expo Marche (Dario Ciferri) pagg. 70/71 Vito Bucciarelli (Lucia Spadano), Alessandro Bulgini (Antonella Marino) pag.72 HH.Lim- Felice Levini (Lucia Spadano) pag. 73 Domenico Carella (Maria Vinella)/ Rita VItali Rosati (M.L. Paiato) pag.74 C. Pietroiusti (Ilaria Piccioni), Pietroniro - Salvino (Giuliana Benassi) pag.75 Art Hub Carrara (Lisa D’Emidio), Brunella Longo (Paolo Balmas) pag.76

Gianni Colombo [54]

news e tematiche espositive su www.rivistasegno.eu

42/81 Attività espositive /

Documentazione in breve: Sergio Nannicola, Ugo Marano, Miguel Pozo, Zino, Josè D’Apice, Eva Frapiccini (AA.VV.) pag.77 Giulio Di Mitri (Rino Cardone) pagg. 78/79 Tre decenni al Castello di Rivara (Gabriella Serusi) pagg. 80/81 Nuova Sede Prada (Gianmarco Corradi) pagg. 82/83

84/95 Osservatorio critico letterario

Castello di Rivara [80]

O DeL PADIGLIONe CeNtRALe

# 253 - Estate 2015

Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea

Libri, Progetti editoriali, iniziative

a cura di Lucia Spadano e collaboratori Un progetto editoriale tra arte, architettura, grafica e fotografia (Rossella Martino) pagg 84/89 Io sono l’autoritratto di Paola Turci (Ester Bonsanto) pagg 92/93 Argomentazioni critiche (Gabriele Perretta) pagg.94/95

segno periodico internazionale di arte contemporanea

Direzione e redazione Corso Manthonè, 57 65127 Pescara Telefono 085/61712

redazione@rivistasegno.eu www.rivistasegno.eu

Direttore responsabile LUCIA SPADANO (Pescara) Condirettore e consulente scientifico PAOLO BALMAS (Roma) Direzione editoriale UMBERTO SALA

ABBONAMENTI ORDINARI E 25 (Italia) E 40 (in Europa CEE) E 50 (USA & Others)

Soci Collaboratori e Corrispondenti: Paolo Aita, Raffaella Barbato, Giuliana Benassi, Francesca Cammarata, Simona Caramia, Viana Conti, Gianmarco Corradi, Lia De Venere, Marilena Di Tursi, Antonella Marino, Luciano Marucci, Cristina Olivieri, Rita Olivieri, Simona Olivieri, Maria Letizia Paiato, Ilaria Piccioni, Gabriele Perretta, Gabriella Serusi, Stefano Taccone, Maria Vinella.

ABBONAMENTO SPECIALE PER SOSTENITORI E SOCI da E 300 a E 500 L’importo può essere versato sul c/c postale n. 1021793144 Rivista Segno - Pescara

Distribuzione e diffusione Spedizione in abbonamento postale Poste Italiane S.p.A. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1, Pescara - ROC · Registro degli operatori di comunicazione n. 18524 Edito dalla Associazione Culturale Segno e da Sala editori s.a.s. associati per gli esecutivi e layout di stampa Registrazione Tribunale di Pescara nº 5 Registro Stampa 1977-1996. Traduzioni Lisa D’Emidio. Art director Roberto Sala Coordinamento tecnico grafico Massimo Sala - Tel. 085.61438 - grafica@rivistasegno.eu. Redazione web news@rivistasegno.eu Impianti grafici e legatura: Publish e Nuova Legatoria (Cepagatti - Pe). Ai sensi della legge N.675 del 31/12/1996 informiamo che i dati del nostro indirizzario vengono utilizzati per l’invio del periodico come iniziativa culturale di promozione no profit.


>news istituzioni e gallerie<

Art Basel Appuntamento annuale imperdibile per ogni appassionato fin

dal 1970, la 46° edizione di Art Basel torna dal 18 al 21 giugno a occupare le Hall 1 and 2 del Messe Basel. Otto le sezioni nelle quali la fiera si dipana, con una partecipazione complessiva di oltre trecento espositori. Ben 223 le gallerie partecipanti alla sola sezione principale, GALLERIES, che rappresentano un corpus di oltre 4000 artisti. FEATURE mette in risalto progetti speciali, tra presentazioni di particolari artisti, collaborazioni speciali e mostre tematiche; 30 le gallerie da 13 paesi, tra cui troviamo Raffaella Cortese (Milano) che presenta lavori di Zoe Leonard e James Welling, Luxembourg & Dayan (New York, Londra) propone due dei lavori più “politici” degli anni ’60 e ‘70 di Michelangelo Pistoletto, La Gabbia e Mobili Capovolti; a Vito Acconci è invece dedicato l’allestimento di Grieder Contemporary (Zurigo). STATEMENTS è dedicata a progetti personali di artisti emergenti, due dei quali saranno insigniti del Baloise Art Prize; quest’anno i protagonisti sono Mathieu Kleyebe Abonnenc, Beatrice Gibson, Kasper Akhøj, Julia Rommel, Kasia Fudakowski, Amalia Ulman, Caline Aoun, Rey Akdogan, Borna Sammak, Avery Singer, Zhao Zhao, Raphael Hefti, Bunny Rogers, Nicolas Party, Abbas Akhavan, Nancy Lupo. In EDITION, 15 espositori specializzati in serie limitate, stampe e multipli, presentano i frutti della collaborazione con grandi artisti. UNLIMITED, a cura di Gianni Jetzer, è la piattaforma per esposizioni e progetti che travalicano I tradizionali limiti imposti dalle dimensioni di uno stand. Ben 74 le proposte, tra le quali progetti di Kenneth Anger, Ed Atkins, Julius von Bismarck, Martin Boyce, Martin Creed, Olafur Eliasson, Dan Flavin, Gilbert & George, John Gerrard, Jeppe Hein, Robert Irwin, Ryan McGinley, Bruce Nauman, Roman Ondák, Pedro Reyes, David Shrigley, Gary Simmons, Lorna Simpson, Sturtevant e Zhang Enli. Presenti la galleria Massimo De Carlo (Milano, Londra) che propone John M Armleder e Tony Lewis; A arte Invernizzi (Milano) con Gianni Colombo; Galleria Continua (San Gimignano, Pechino, Les Moulins) con Ai Weiwei, Shilpa Gupta, Pascale Marthine Tayou, Kader Attia; la Galleria dello Scudo (Verona) con Emilio Vedova; Magazzino (Roma) con Mircea Cantor; Galleria Massimo Minini (Brescia) con Hans-Peter Feldmann; Galleria Franco Noero (Torino) con Sam Falls, Jim Lambie, Darren Bader; Tornabuoni Art (Parigi) propone, invece Dadamaino e Jannis Kounellis. PARCOURS si articola nel tessuto urbano, armonizzandosi con I quartieri storici nei quali sono allestite installazioni sitespecific, ma anche interventi e performance. A cura di Florence Derieux. Tra gli altri: Alexandra Bachzetsis, Davide Balula, Adriano Costa, Alicia Framis, Piero Golia, Tobias Kaspar, Alicja Kwade, Nate Lowman, Michaela Meise, Jonathan Monk, Vik Muniz, Ciprian Mureşan, Peter Regli, David Renggli, Ugo Rondinone, Yves Scherer, Lara Schnitger, Alyson Shotz, Daniel Silver, Philippe Thomas, Blair Thurman e Francisco Tropa. La sezione FILM presenta un ricco programma di pellicole e lavori video, selezionati da Maxa Zoller. Novità è la collaborazione col Festival di Locarno per alcune proiezioni speciali. Tra gli eventi più attesi, la premiere europea di Peggy Guggenheim: Art Addict, ma anche Jellyfish Eyes, prima regia di Takashi Murakami e Karima: A Day in the Life of a Henna Girl, di Hassan Hajjaj. Di sicuro interesse anche i video di Julieta Aranda, Katie Armstrong, Will Benedict & David Leonard, Pauline Boudry & Renate Lorenz, Kimsooja, Oliver Laric, Karolin Meunier, Laure Provost, Michael Snow, Mounira Al Solh, Agnès Varda e Kan Xuan. In MAGAZINES, troviamo 25 stand di riviste di settore e un nutrito stand collettivo, per un totale di 94 riviste specializzate presenti, da 20 paesi. L’offerta di Art Basel non finisce, ovviamente, qui: TALKS propone una lunga serie di incontri e discussioni, suddivisi tra un programma mattutino (Conversations) e pomeridiano (Salon), che vanno a sviscerare ogni problematica dell’arte, dal collezionismo, alle dinamiche della fruizione, ai temi geopolitici e storici. 4 - segno 253 | ESTATE 2015

Michelangelo Pistoletto, La Gabbia, allestimento alla Sidney Janis Gallery, New York, 1974, courtesy l’artista Hans-Peter Feldmann, Sea paintings, dimensioni variabili courtesy Massimo Minini, Brescia

Thomas Schutte, Glaskopf, 2013 courtesy Galleria Tucci Russo, Torre Pellice (to)

Liste Festeggia i suoi primi vent’anni LISTE - Art Fair Basel, fiera da sempre dedicata alla promozione di giovani gallerie e artisti. Il limite intenzionale di 79 espositori vuole mantenere altissimo il livello qualitativo dell’offerta all’interno della Volkshaus Basel. I partecipanti a questa edizione, dal 16 al 21 giugno, provengono da 31 paesi: per l’Italia troviamo la galleria Frutta (Roma), la galleria Fonti (Napoli), Francesca Minini (Milano), Monitor (Roma) e Federico Vavassori (Milano). Accanto a trenta presentazioni di singoli giovani artisti e alcune eccellenti “riscoperte” (Dabernig, Favelli, Filko, du Pasquier), troviamo il Performance Project, quest’anno curato da Eva Birkenstock che col titolo Passing Peaks. A Series of Performative Individuations focalizza l’attenzione su artisti che, partendo dalla propria corporeità, stratificano un’ampia gamma di materiali, fonti e riferimenti. Zazazozo con Melanie Bonajo e Joseph Marzolla; Trajal Harrell con Thibault Lac; Jeremy Wade; Florentina Holzinger e Vincent Riebeek con Nils Amadeus Lange, Annina Machaz, Manuel Scheiwiller; Ieva Miseviciute; Villa Design Group ed Egle Budytyte. Già annunciato il vincitore della 12° edizione dell’Helvetia Art Prize, si tratta di Dijan Kahrimanovic, che ha convinto la giuria con un’opera realizzata con negativi smaltiti ed è quindi protagonista con una personale a Liste. Special Guest di quest’anno HeK (House of Electronic Arts Basel), dialogo tra arte, tecnologia e media con opere di Aram Bartholl, Constant Dullaart, Evan Roth, Raquel Meyers e un progetto dello Swiss Arts Council Pro Helvetia for promoting the Visual Arts, che ha selezionato otto artisti tra i moltissimi che ambivano alla pubblicazione di una monografia, dando vita a Collection Cahiers d’Artistes 2015, Serie XII. Thomas Bonny, Delphine Chapuis Schmitz, Daniel Karrer, Gabriela Löffel, Sara Masüger, Filib Schürmann, Miki Tallone e Benjamin Valenza.


>news istituzioni<

Scope Marlene Dumas Nono anno a Basilea per SCOPE Art Show che dal 16 al 21 La Fondation Beyeler ospita, fino al 6 setgiugno torna alla sua primitiva location, il New Art District sul Reno. 85 gli espositori, oltre ai 10 del Breeder Program (sorta di incubatrice per gallerie “neonate”) e a una selezione di gallerie curata da Juxtapoz Magazine. II edizione (la prima nel 2014 a Miami) per Feature | Korea, evento che offre uno sguardo sui trend culturali coreani riservando più di una sorpresa riguardo le pratiche artistiche dell’estremo oriente. Dall’Italia la galleria anOTHER art gallery ltd. (Farindola, ch) con Karen Stamper, Michael Downs e Paul Critchley; la galleria Emotions of the World (Milano) con Filipa Taquenho, Chelsea Owens e Geovana Clea; Gagliardi Art System (Torino) con Fabio Viale, Daniele D’Acquisto, Glaser / Kunz e I Santissimi; la Galleria Doris Ghetta (Bolzano) con Alin Bozbiciu; Montoro12 Contemporary Art (Roma) con Larissa Sansour, Faig Ahmed, Emmanuele De Ruvo e Dmitri Obergfell; Primo Marella Gallery (Milano) con Abdoulaye Konaté; WUNDERKAMMERN (Roma) con Agostino Iacurci. Karen Stamper, Dockside, trittico, collage acrilico su pannelli di legno, cm.51x25,5 ognuno, courtesy anOTHER art gallery ltd., Farindola (ch)

Agostino Iacurci, Easy Ways To Hide Yourself, courtesy WUNDERKAMMERN, Roma

Volta Giro di boa del primo decennio per Volta, fiera nata dal desiderio

mediare tra i colossi del mercato di Art Basel e i giovani temerari di Liste. Volta11, dal 15 al 20 giugno, con la direzione artistica di Amanda Coulson accoglie al Markthalle 69 espositori da 19 nazioni, 37 le città rappresentate, con due presenze di casa nostra: Laura Bulian Gallery (Milano) con Nikita Kadan, Marat Raiymkulov e The Flat – Massimo Carasi (Milano) con Michael Bevilacqua, Paolo Cavinato, Leonardo Ulian. La configurazione è quella consolidata, con un’ampia offerta di progetti di singoli artisti e dinamiche collaborazioni; il tutto nell’intenzione di dare il massimo risalto ai protagonisti dell’arte. Marat Raiymkulov, The Minotaur, 2009, video, 1’07”, courtesy Laura Bulian Gallery, Milano

tembre, The Image as Burden di Marlene Dumas, esposizione incentrata sul rapporto dell’artista alla figura umana. Ricca la selezione di tele, disegni e rari collage sperimentali di inizio della carriera, che offre un’esauriente panoramica che spazia dalla metà degli anni ’70 fino ai nostri giorni. I ritratti singoli o di gruppo, sono soggetti senza tempo, coi quali tutti abbiamo familiarità, come i temi dell’amore, morte, identità o dolore, che creano un ponte tra il presente e la storia dell’arte. L’artista concede autonomia al colore, senza perdere di vista la figura umana, la tavolozza è ricca di toni e contrasti espressivi, ma lascia spazio a volte a sfumature diafane. I volti hanno tratti marcati, i corpi sembrano fragili, eppure le tele emanano una forza di seduzione che non può non catturare l’osservatore. Il percorso segue un andamento quasi prettamente cronologico, fa eccezione la prima sala, che raccoglie per preciso volere della Dumas opere chiave quali The Painter (1994), The Sleep of Reason (2009) e The Artist and His Model (2013). I nuovi lavori, inediti, si focalizzano in misura crescente sulla relazione tra figura e spazio.

Marlene Dumas, The Painter, 1994, olio su tela, cm.200x100, courtesy l’artista e The Museum of Modern Art, New York, foto Peter Cox, ProLitteris, Zurigo

Photo Basel Dal 17 al 20 giugno, Photo Basel, prima fiera elvetica interamen-

te dedicata all’arte fotografica. La cornice è l’Ackermannshof, nel centro storico di Basilea, in cui trovano spazio gallerie da tre continenti: Stieglitz19 (Anversa), Galerie Esther Woerdehoff, Baudoin Lebon e David Guiraud (Parigi), Kahmann Gallery (Amsterdam), Carlos Caamaño - Proyecto Fotográfico (Lima), Cohen Gallery (Los Angeles), Grundemark Nilsson Gallery (Stoccolma/ Berlino), amanasalto (Tokyo), Photo Edition Berlin e cubusm, shifting perception (Berlino), PH Neutro (Pietrasanta, lu), widmertheodoridis (Eschlikon, Svizzera), Sabrina Raffaghello e mc2gallery (Milano), Degen Gallery (Basilea), Aluägä (Losanna), Capricious Publishing (New York). Con la partnership culturale della fondazione Gute Aussichten e del premio FOCUS photo l.a., il focus è sugli artisti under 40 e sull’esposizione speciale Drive In, a cura di Esther Woerdehoff, incentrata sulle automobili e l’approccio dei fotografi nel corso dell’ultimo secolo.

PUTPUT, Poposicles, 2012, stampa a getto d’inchiostro su7 carta cotone fotografica, edizione di 5, cm.20x27, courtesy Galerie Esther Woerdehoff, Parigi

Solo Project L’esperienza di Solo Project, nata dall’intraprendenza del galle-

Sandra Senn, Schwimmraum, 2014, stampa, cm.103x100 courtesy Galerie Voss, Düsseldor

rista belga Paul Kusseneers, giunge dal 17 al 21 giugno alla sua ottava edizione. Gli espositori sono stati rigidamente selezionati e tutti, nella vasta Sankt Jakobshalle, presentano progetti di singoli artisti o collettivi. Dall’Italia Antonella Cattani Contemporary Art (Bolzano) con Paolo Radi e Antonella Zazzera. Tra gli altri espositori: A B Contemporary (Zurigo); Galerie Artcube (Parigi) che presenta Peter Klasen; Galerie Brandt (Amsterdam) con Sander Cedee; Arte Giani (Francoforte); Galerie Bernard Jordan (Parigi, Berlino, Zurigo) con Renée Levi; Kir Royal Gallery (Valencia); Kusseneers gallery (Bruxelles) che porta opere di Vincent de Roder, Ermias Kifleyesus, Wolfram Ullrich e Caroline Van den Eynden; Galerie Mäder (Basilea) con Christian Schoch e Adriana Stadler; Emmanuel Post (Berlino) con opere di Anna Leonhardt; TMproject (Ginevra); Galerie Voss (Düsseldorf) con lavori di Harding Meyer e Sandra Senn. ESTATE 2015 | 253 segno - 5


GALLERIA TEGA ART BASEL 46 Hall 2.0 Booth F10

Via Senato 20 - Milano 20121 Tel. +39(0)276006473 info@galleriatega.it Piero Manzoni, Achrome, 1962-63 polystyrene beads and kaolin on canvas,147x114 cm


June 17-21 2015

St Jakobshalle Basel

Harding Meyer | Sandra Senn GALERIE VOSS MĂźhlengasse 3

(an der Kunstakademie)

D-40213 DĂźsseldorf

Tel +49-211-13 49 82 Fax +49-211-13 34 00

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>news istituzioni e gallerie< ANVERSA

The Welfare State L’M HKA Antwerp propone una mostra dedicata al welfare state, nozione astratta, ma anche in qualche modo concreta, politica e allo stesso tempo burocratica, che implica regole, diritti, doveri, ma soprattutto la capacità dell’individuo di sentirsi parte di un organismo sociale. Molti artisti sono affascinati dalle tematiche a esso connesse, otto dei quali si confrontano fino al 27 settembre in The Welfare State: Francisco Camacho Herrera, Josef Dabernig, Kajsa Dahlberg, Róza El-Hassan, Donna Kukama, Artūras Raila, Anne-Mie Van Kerckhoven e Stephen Willats. AnneMie Van Kerckhoven, Atman wombman, 1988, courtesy l’artista e Zeno X Gallery, Anversa

ARLES

Les Rencontres 2015 Il festival Les Rencontres de la Photographie, ribadisce con l’edizione 2015 la vocazione alla contaminazione, confronto tra la fotografia e le più svariate discipline. A 46 anni dalla prima esperienza, tra il 6 luglio e il 20 settembre Arles si conferma luogo di scambio per artisti, professionisti e pubblico. All’interno del ricco programma non mancano focus su paesi lontani (Giappone e terra del fuoco), sul documentario fotografico (Woods & Galimberti, Caruana, Majoli & Pellegrin, Tézenas, Bouët), spazi per particolarissime collezioni (Oursler, Donat, Deruytter), per fotografi emergenti (tra cui Olympus engages in a photographic conversation, con i giovani Elsa Leydier, Swen Renault e Rebecca Topakian in dialogo con i maestri Denis Darzacq, Dorothée Smith e Paolo Woods; Alice Wielinga con North Korea, a life between propaganda and reality e l’assegnazione del 2015 Discovery Award), la sezione Resonances approfondisce i punti di contatto con architettura (Las Vegas Studio, Michiels, Cablat, Brunetti), musica (Total Records, The LP Company, MMM) e cinema (Paul Ronald su Fellini, Sandro Miller con John Malkovich). Di grande interesse le esposizioni Together, Photography della collezione della Maison Européenne De La Photographie, alla Chapelle Saint-Laurent e alla Chapelle du Méjan, Daring Photography, avanguardie al Musée Réattu, dalla partnership tra Centre National des Arts Plastiques (CNAP) ed École Nationale Supérieure de la Photographie (ENSP) It’s Sunny, I’m Going Out, all’ENSP in collaborazione con l’Institut National de la Santé et de la Recherche Médicale (INSERM) Art Researches #4. Tutto questo senza dimenticare il richiamo esercitato dalle 5 Nights, dedicate rispettivamente a Martin Parr, a Chère Humaine (film fotografico di Stéphane Breton con scatti di Michael Ackerman, Lorenzo Castore, Arja Hyytiäinen e Juan Manuel Castro Prieto / Agence Vu), a Jacques Attali, a Rodolphe Burger e all’iniziativa Byopaper! (Bring Your Own Paper) che offre uno spazio ai progetti degli appassionati che volessero proporsi. 8 - segno 253 | ESTATE 2015

basilea

Anicka Yi / Vincent Fecteau Doppia inaugurazione alla Kunsthalle Basel, in occasione della settimana fieristica. L’artista coreana Anicka Yi presenta in 7,070,430K of Digital Spit i frutti di una ricerca in corso da cinque anni, lavori che nascono da materie deperibili (ad esempio patatine fritte o secrezioni di lumaca), accostano elementi dissonanti e annodano una riflessione su temi molto personali quali abbandono, divorzio e morte. Le sale (tutto il pianterreno del museo), per completare l’esperienza offerta al visitatore, sono impregnate di uno specifico odore, creato dall’artista, l’odore “dell’oblio”. Lo statunitense Vincent Fecteau propone, invece, l’esposizione You Have Did the Right Thing When You Put That Skylight In, resoconto di una singolare accezione estetica fatta di materiali casalinghi (bastoncini di ghiacciolo, tappi di Champagne), un lavoro manuale meticoloso e una grammatica formale molto rigida. Le sculture in mostra, databili dal 2000 a oggi, appaiono come nate da una lentissima accumulazione di materiale che lascia però ben visibili i segni della mano creatrice. Fino al 23 agosto. Le due mostre sono le prime proposte espositive sotto la direzione di Elena Filipovic, che ha recentemente sostituito Adam Sczymczyk, in seguito alla sua nomina come direttore artistico di dOCUMENTA(14). La Filipovic, in senior curator al WIELS Contemporary Art Centre di Bruxelles è l’undicesimo direttore della Kunsthalle nei suoi 175 anni di vita. Vincent Fecteau, Untitled, 2012, cartapesta, pittura acrilica, cm.52x110x90, Courtesy Galerie Buchholz, Colonia, Berlino, Greengrassi, Londra, Matthew Marks Gallery, New York, Los Angeles

future present In occasione della chiusura per lavori del Kunstmuseum Basel, classica sede espositiva per la Emanuel Hoffmann Foundation, Schaulager allestisce fino al 31 gennaio 2016 la mostra Future Present, prima esposizione delle opere della collezione da trent’anni a oggi. In un’area di 4300 m2 troviamo ogni possibile mezzo espressivo utilizzato negli ultimi decenni (dipinti, sculture, disegni, installazioni, fotografie, video, lavori digitali), con nomi che vanno da Robert Delaunay a Joseph Beuys, David Claerbout o Bruce Nauman, occasione unica per comprendere decisioni di acquisizione, linee di interesse passate e di sviluppo futuro per la collezione.

works of abstraction PREKÄRES ARKADIEN Galerie Henze & Ketterer & Triebold presenta a Riehen (Basilea) Works of Abstraction, esposizione di opere di Francis Bott, Karl Hartung, Fred Thieler e Fritz Winter, artisti accomunati dall’essere tutti nati all’inizio del XX secolo e dallessere partiti dalla figurazione per poi proseguire l’intero percorso produttivo nel segno dell’astrazione. Fino al 29 agosto. Gli spazi espositivi di Wichtrach (Berna) ospitano, invece, i due capitoli di Prekäres Arkadien (“Arcadia precaria”), dedicati rispettivamente a Eduard Bargheers, Max Peiffer Watenphul, Hans Purrmann col sottotitolo Im Italienischen Exil, e a George Grosz con Im Amerikanischen Exil. Fino al 22 agosto.

Eduard Bargheer, Stadt, 1956, acquerello, cm.45,5x59, courtesy Galerie Henze & Ketterer, Wichtrach (Berna)

BELLINZONA

Angolazioni 1 Al MACT/CACT Arte Contemporanea Ticino, Angolazioni 1. Artisti della collezione d’arte Matasci, esposizione che omaggia il collezioEnnio Morlotti, nista svizzero Mario Landscape, 1957 Matasci. La mostra si courtesy Matasci Art Collection, Svizzera incentra sulle identità storiche del Ticino, terra capace di fare propria l’identità Elvetica, pur sentendosi contemporaneamente e non senza difficoltà di cultura italiana, attraverso le opere di Edmondo Dobrzanski, Ennio Morlotti, Varlin (Willy Guggenheim). Fino al 9 agosto.

BERLINO

William Tucker La Buchmann Galerie propone una personale dello scultore statunitense William Tucker. Le opere in mostra ruotano attorno alla tematica del corpo umano, approccio sorprendente per Tucker, che si insinua tra figurazione e astrazione senza che ciò appaia come una contraddizione. Emblematica la trasposizione, effettuata oer l’occasione, di Tauromachia (2008) dallo stucco originale al bronzo. William Tucker, Tauromachy, veduta dell’installazione, 2008, bronzo, cm. 258x140x158(h), courtesy Buchmann Galerie, Vienna

Joseph Beuys, Schneefall, 1965, 32 pezze di feltro su tre rami d’abete, cm.23x120x375, courtesy Emanuel Hoffmann Foundation, prestito permanente all’Öffentliche Kunstsammlung Basel, foto Martin P. Bühler, Öffentliche Kunstsammlung Basel, 2014, ProLitteris, Zurigo

Bernhard Martin Assegnato a Bernhard Martin il Fred Thieler Prize for Painting per il 2015. Le narrative pittoriche dell’artista tedesco, spesso allusive a modelli del passato (dai maestri del Rinascimento, a Picasso e Bacon) sono in mostra fino al 24 agosto alla Berlinische Galerie.


>news istituzioni e gallerie<

Dor Guez, The Sick Man of Europe, The Painter, 2014, courtesy carlier | gebauer, Berlino Janaina Tschäpe, Blood, Sea, 2004 video installazione in 4 canali, 13’ 48’’ courtesy carlier | gebauer, Berlino

Dor Guez / Janaina Tschäpe carlier | gebauer fa, tra il 13 giugno e il 25 luglio, una doppia proposta: Dor Guez presenta opere dalla prima parte (su cinque) del progetto The Sick Man of Europe, che esamina la storia militare dell’Est europeo attraverso la lente delle pratiche creative individuali dei soldati; Janaina Tschäpe propone, invece, Fernweh, esposizione che include una grande tela, alcuni acquerelli e un video, tutti caratterizzati dai temi del biomorfismo, dell’ibridazione, della memoria e della “plasticità della soggettività”.

Free from my Happiness Nell’ambito dell’International Photo Festival Ghent 2015, Free from my Happiness, collettiva dei fotografi sudafricani Sibusiso Bheka, Tshepiso Mazibuko e Lindokuhle Sobekwa. Accomunati dall’essere cresciuti nella township di Thokoza, i tre si sono avvicinati all’arte fotografica nel 2012 attraverso il progetto Of Soul and Joy, del Rubis Mécénat Cultural Fund e sono stati guidati nel loro percorso dai fotografi belgi Tjorven Bruyneel e Bieke Depoorter. Nella cornice della Sint-Pietersabdij (Abbazia di San Pietro), gli scatti ci trasportano nelle township, attraverso storie a loro familiari: Bheka presenta sue memorie giovanili con la serie At night, they walk with me, Mazibuko indaga lo spazio intimo delle persone con Encounters photographs, Sobekwa documenta la vita dei giovani che fanno uso di nyaope (una droga che da una pesante assuefazione) nella serie Nyaope. Everything you give me my Boss, will do. Fino al 30 agosto. Sibusiso Bheka, At night, they walk with me, Thokoza, South Africa, 2015, courtesy l’artista

BRATISLAVA

Transizioni di energia Alla Dom umenia/Kunsthalle Bratislava, collettiva a cura di Lorella Scacco dal titolo Transizioni di energia, a cui partecipano Flavia Bigi, casaluce/geiger & synusi@cyborg, Juliana Herrero, Sissa Micheli, Francesca Romana Pinzari. Le cinque artiste internazionali, che vivono in Austria, Francia, Italia e Slovacchia indagano le diverse forme di energia, le transizioni dall’una all’altra e come l’individuo e l’ambiente interagiscano con il fusso della vita in campi diversi. Fino al 5 luglio. Francesca Romana Pinzari, The first time we kissed, 2009, still da video, courtesy l’arista

FRANCOFORTE

Jörg Sasse La Galerie Wilma Tolksdorf propone i lavori di Jörg Sasse della nuova serie Cotton Paintings. A differenza del solito, questa volta la base di partenza non consiste in immagini fotografiche, ma in scansioni di tessuti, seguentemente editati digitalmente dando maggiormente l’idea della pittura, anziché della fotografia.

GINEVRA

Nuit Des Bains L’Associazione Quartier des Bains Genève, sodalizio composto da 11 gallerie e 6 istituzioni culturali, ha dato vita alla consueta Nuit Des Bains. Tra le inaugurazioni più interessanti: Khaled Jarrar con That thou canst not stir a flower without troubling of a star da Art Bärtschi & Cie; Jason Dodge al Centre d’édition contemporaine; Claude Viallat alla Galerie Bernard Ceysson; Torsten Slama con Le Reste Parfait da Jancou; Claudio Moser con noon at night da Skopia / P-H Jaccaud e Peter Halley da Xippas Art Contemporain. giorgio griffa Il Centre d’Art Contemporain propone, con la curatela di Andrea Bellini, una ricognizione sull’opera di Giorgio Griffa dal titolo Retrospective 1968–2014. 40 i lavori in mostra, a seguire lo sviluppo della ricerca del maestro torinese, dalle linee orizzontali, agli Alter Ego dedicati agli artisti del passato, da Arabesco ai dipinti recenti. La mostra sarà, successivamente, allestita alla Kunsthalle di Bergen, alla Fondazione Giuliani di Roma e al Museo Serralves di Porto. Giorgio Griffa, Paolo e Piero, 1982, courtesy l’artista e Casey Kaplan, NY. Foto Jean Vong

Lili Dujourie, In mijn nacht nadert niemand, 1985, courtesy l’artista

chiara lecca Il Museo di Storia Naturale Ottoneum ospita, fino al 6 settembre, Quod paret, mostra di Chiara Lecca nata con l’intento di creare una sinergia tra la contea di Kassel e l’Italia. Le opere in mostra dialogano con gli allestimenti permanenti del museo, come il progetto Nutrimentum. L’arte alimenta l’uomo, patrocinato da Expo Milano 2015, o Forma, opera scaturita dalla collaborazione straordinaria con Jannis Kounellis, concepita come confronto sulle interconnessioni tra cibo, arte e sopravvivenza. Esposte anche serie realizzate tra il 2008 e il 2015, tra cui Moths and Chiara Lecca, Fake marble #5, butterflies 2013, vescica animale, vetro, courtesy Galleria del 2008, cm.29x21x21, Fumagalli, Milano Peli superflui del 2009, Ovo e Bowels del 2010, Ovogenesi e Phasianis del 2012, fino ai recenti Fake Marble e Bigbigbubble.

lingen

GENT

Lili Dujourie Lo S.M.A.K. ospita Plooien in de tijd - Plis du temps, personale di Lili Dujourie che presenta lavori in marmo, carta, acciaio, ma anche velluti e ceramiche, con un’attenzione speciale alla decorazione ornamentale che mette in risalto la sensualità della materia. Fino al 4 ottobre.

kassel

documenta 1997 - 2017 Il concetto di come debba essere intesa un’esposizione è profondamente mutato nel corso degli ultimi venti anni. Il “format” attuale è evoluto verso un contenitore che non si limiti a presentare opere, ma anche (e, spesso, soprattutto) a comunicare idee, concetti e teorie a un pubblico sempre più vasto. Queste riflessioni sono il cuore del Symposium documenta 1997 - 2017: erweiterte Denkkollektive / expanding thoughtcollectives, in programma il 18 luglio alla documenta Halle, nel quale i direttori delle ultime quattro edizioni di Documenta (Catherine David, Okwui Enwezor, Roger M. Buergel, Carolyn Christov-Bakargiev), più il direttore del 2017 (Adam Szymczyk) si confrontano con studiosi internazionali del campo delle arti: Carmen Amor, Karen Barad, Beatrice von Bismarck, Kristina Buch, Peter Galison, David Joselit, Hiwa K, Lu Jie, Michael Lüthy, Sarat Maharaj, Oliver Marchart, Laura Zheng Ning, Ruth Noack, Nikos Papastergiadis, Griselda Pollock, Tino Sehgal, Raqs Media Collective/Shuddhabrata Sengupta, Wang Jianwei.

Chloe Wise Alla Galerie Sebastien Bertrand, prima personale in Svizzera per Chloe Wise. Per That’s something else, my sweet, l’artista canadese ha trasformato lo spazio espositivo nel suo studio, per una residenza di alcune settimane durante la quale ha prodotto opere (sculture e dipinti), in mostra fino al 4 luglio, legate alla tematica del cibo, più nello specifico al “picnic” in quanto storico simbolo di edonismo.

SEBASTIAN STÖHRER Alla Kunsthalle Lingen, Helm, Heisenberg und Bube, personale di Sebastian Stöhrer. In mostra una serie di oggetti in ceramica che, a prima vista, non può non ricordare la scultura informale degli anni Cinquanta e Sessanta. Sebastian Stöhrer courtesy Kunsthalle Lingen, Lingen (Ems)

ESTATE 2015 | 253 segno - 9


>news istituzioni e gallerie< LONDRA

Boetti / Burri Da Mazzoleni London, a cura di Rinaldo Rossi e Corinna Turati, la riproposizione de Il Muro, parete nell’abitazione di Alighiero Boetti, che l’artista aveva ricoperto di foto, immagini e oggetti, a evidenziarne (semmai ce ne fosse bisogno) l’estrema varietà di ciò che riteneva fonte di ispirazione. Fino al 31 luglio. A seguire, in occasione del centenario della nascita dell’artista, ricca esposizione di opere storiche Alberto Burri, a coprire sei decadi di ricerca artistica. START Annunciata tra il 10 e il 13 settembre, alla Saatchi Gallery, la seconda edizione di START, piattaforma per giovani gallerie, artisti emergenti. Gli espositori, provenienti da ogni parte del globo, saranno dislocati sui tre piani della galleria. A complemento della fiera, 4 progetti speciali: una personale del collettivo giapponese Chim Pom, vincitore del 2015 Prudential Eye Awards; un altro collettivo nipponico, TeamLab, presenta un’installazione che coniuga arte e nuove tecnologie; un’esposizione di opere della scena artistica di Singapore e, infine, This Is Tomorrow, in cui dieci gallerie presentano personali di artisti della “prossima generazione” i cui lavori nascono da riflessioni legate all’odierna scena globalizzata. Sprayed Gagosian presenta la collettiva Sprayed, a cura di Jona Lueddeckens e Greg Bergner, esposizione che spazia su quattro generazioni di artisti che hanno adottato l’impulsiva forza della bomboletta spray. Opere di: Adian, Artschwager, Auerbach, Barré, Basquiat, Batchelor, Blair, Chamberlain, Christensen, Colen, Ekblad, Elrod, Goldstein, Golia, Gordon, Grosse, Guyton, Hamilton, Haring, Hartung, Israel, Klee, Koons, Korine, Latham, Logan, Lowman, Mosset, Murakami, Oehlen, Jules Olitski, Ostrowski, Parrino, Polke, Prina, Rondinone, Rosenkranz, Ruby, Ruscha, Schendel, Schnabel, D.Smith, Stingel, Thurman, von Heyl, Warhol, Weiner, West, Williams, Wool, Wright. Fino all’1 agosto. Katharina Grosse, Untitled, 2015, acrilico su tela, cm.240x388, courtesy l’artista e VG Bild-Kunst Bonn, foto Olaf Bergmann

lussemburgo

Memory Lab Phantom of Civilization Nella cornice del V Mese Europeo della Fotografia in Lussemburgo (in partnership con le città di Atene, Berlino, Bratislava, Budapest, Ljubljana, Parigi e Vienna), al Casino Luxembourg Memory Lab - Photography Challenges History, esposizione (dislocata anche al Cercle Cité e al Musée national d’histoire et d’art) incentrata sui temi del ricordo e della storia mediati dell’apparecchio fotografico e da quello degli artisti Vladimir Nikolic, Adrian Paci e Aura Rosenberg. L’esposizione Phantom of Civilization presenta il lavoro di tre artisti di Taiwan, Fujui Wang, Chi-Tsung Wu e GoangMing Yuan che, attraverso video, suoni e installazioni creano ambienti che riflettono profondi aspetti della civiltà contemporanea. Fino al 6 settembre. Adrian Paci, Centro di permanenza temporanea, 2007, still da video, courtesy l’artista e kaufmann repetto, Milano

MARBELLA

Art Marbella Il Palacio de Ferias, Congresos y Exposiciones ospita, fino al 3 agosto, la prima edizione di Art Marbella, fiera d’arte del Mediterraneo che va a collocarsi in un contesto in cui la cultura trova terreno particolarmente fertile (basti pensare alla vicina Malaga). Il comitato curatoriale, composto da Omar López-Chahoud, Neri Torcello e Maria Chiara Valacchi, propone una kermesse dedicata alla contemporaneità, ma con chiari riferimenti ad artisti consolidati (la sezione Masters), per fornire un contesto ai più giovani.

MELBOURNE

Melbourne Awards I Melbourne Art Foundation Awards for the Visual Arts, evento biennale che dal 2005 alla Great Hall dell’NGV International celebra l’eccellenza nel settore delle arti visive australiane, affiancano quest’anno, alle sezioni Visionary Award e Artist Award, un riconoscimento, lo Young Artist Award, pensato come supporto alla ricerca di un giovane. Cerimonia di premiazione il 20 agosto.

MONaco di baviera

lubiana

Moio&Sivelli Nel novero delle tematiche proprie dell’EXPO, gli artisti Moio&Sivelli sono protagonisti al Museo Civico di Lubiana della mostra Orizzonte acqua: sulla via dell’EXPO Milano 2015, evento a cura di Chiara Pirozzi. Il duo è stato invitato a realizzare una videoinstallazione site-specific, che indagasse il tema dell’acqua. Ne è risultata Liquidreamscape, che attraverso l’uso della tecnica dello stop-motion dipana una descrizione per immagini in movimento sull’importanza, spesso data per scontata, di un uso corretto delle risorse idriche a nostra disposizione. 10 - segno 253 | ESTATE 2015

johnathan bragdon Alla Galerie Klüser. The Sky Underfoot, personale di Jonathan Bragdon che trae le mosse dalla celebre frase pronunciata da Segantini sul letto di morte: “Voglio vedere le mie montagne”, già a suo tempo ripresa da Beuys. Lo svizzero Bragdon si inserisce nella tradizione del paesaggismo alpino ritraendo le montagne del Canton Vallese, alla ricerca del sublime armato soltanto di carta e matita. Fino al 30 luglio. Moio&Sivelli, Liquidreamscape, 2015, 4 canali video, 6’ 00’’, courtesy gli artisti e Museo Civico di Lubiana

NEW YORK

Michael Zelehoski Mike Weiss Gallery propone, fino al 20 giugno, New Order, personale di Michael Zelehoski in cui l’artista restituisce vita a oggetti di recupero, riducendoli alla bidimensionalità. Ne risulta non lo specchio dell’oggetto di partenza, ma una sfida ai nostri processi percettivi.

Michael Zelehoski, New Order, dettaglio dell’allestimento, courtesy Mike Weiss Gallery, New York Conor McGrady, Retreat 4, 2013, Stampa Giclée, cm.33x48,3, courtesy Miyako Yoshinaga, New York

Conor McGrady Alla galleria Miyako Yoshinaga, fino all’11 luglio, Intrusion, personale di Conor McGrady. In mostra i più recenti disegni concettuali di strutture architettoniche, incentrati su costruzioni industriali e istituzionali. Con una vocabolario visivo che comprende Bauhaus, costruttivismo e minimalismo, stupisce una paletta di colori limitata al bianco e nero, con qualche sfumatura di grigio, a sottolineare un approccio ironico. Ideas City Piattaforma collaborativa, civica e creativa, Ideas City si fonda sulla mission del New Museum: “nuova arte, nuove idee”, espandendo lo spazio museale ben oltre le mura del museo stesso. L’edizione 2015 ha come tema le città invisibili (una evidente eco calviniana): decine di artisti e un centinaio di organizzazioni si confrontano su tematiche chiave come cittadinanza, rappresentanza, espressione, partecipazione, dissenso e la ricerca di visibilità nello spazio urbano. 120 gli eventi in programma, tra esposizioni, convegni, laboratori, progetti e performance.

PARIGI

Le Corbusier Il Centre Pompidou, in occasione del cinquantenario della scomparsa di Le Corbusier, ne raccoglie 300 tra dipinti, sculture, disegni, modelli, oggetti, foto, film e documenti per raccontare il genio visionario e la capacità di diventare punto di riferimento per generazioni di colleghi. Dai 5 punti fondamentali della nuova architettura (pilastri, tetto giardino, pianta e facciata libere e finestre a nastro), fino alla definizione del Modulor, il percorso che ha consentito una radicale modifica nel modo di abitare. Le Corbusier col modello del Modulor, courtesy Fondation Le Corbusier, Parigi


>news istituzioni< Marcel Broodthaers Al Musée d’Art Moderne - Département des Aigles, Monnaie de Paris, fino al 5 luglio, il poeta, filmaker, fotografo, artista visivo Marcel Broodthaers, che ha anticipato di decenni la riflessione sul rapporto tra l’opera d’arte, il museo e il pubblico, è omaggiato con un percorso espositivo attraverso la sua memoria e la sua visione di come possa essere concepita una mostra, intesa cioè essa stessa come un mezzo di espressione artistica. Mary A. Waters La Galerie Pièce Unique propone New Works, personale dell’artista londinese (operante tra Irlanda e Paesi Bassi) Mary A. Waters. Affascinata dal Rinascimento italiano e i maestri fiamminghi, l’artista si confronta da anni con tale figurazione riproducendola, spesso in bianco e nero, facendo propri motivi e tecniche, inparticolare quelle legate alla ritrattistica.

Boltanski, Mauri, Vece, Garaicoa, Baruchello, Favelli, Durham, Plensa, Nicolai, Chafes, De Lucchi, Koshlyakov, Sierra e Galindo. Testimonianze e documenti di Claudio Abate, Rodolfo Fiorenza e Claudio Martinez, video documentari di Giada Colagrande, Valerio Pittiglio, Dafni & Papadatos. Fino al 20 gennaio 2016.

san gallo

florian graf La Kunst Halle Sankt Gallen propone una personale di Florian Graf dal titolo Chamber Music. L’artista, con animo da flâneur, lascia vagare lo sguardo soffermandosi su dettagli architettonici e sociali, indagandone le reciproche interazioni. Le opere in mostra curano in special modo la “triade” spazio pubblico, spazio privato e spazio naturale.

Individual Stories Alla Kunsthalle Wien, fino all’11 ottobre, Individual Stories. Collecting as Portrait and Methodology, selezione di 20 artisti che hanno acconsentito a mostrare le loro collezioni personali o loro opere da esse ispirate. A cura di Luca Lo Pinto, Nicolaus Schafhausen, Anne-Claire Schmitz. Gli artisti: Saâdane Afif, Jacques André, Marie Angeletti, Thomas Bayrle, Barbara Bloom, Herbert Brandl, Andrea Büttner, Hans-Peter Feldmann, Camille Henrot, Michaela Maria Langenstein, Pierre Leguillon, Hanne Lippard, Maurizio Nannucci, G.T. Pellizzi, Max Renkel, Michael Riedel, Hubert Scheibl, Yann Sérandour, John Stezaker, Johannes Wohnseifer.

Yann Sérandour, Cactus Cuttings #1, 2014, courtesy l’artista e GB Agency, Parigi Ernesto Neto, courtesy TBA21, Vienna Mary A. Waters, Girls Mirrored 2 (She thought it would be better together), 2015, dittico, olio su lino, courtesy l’artista e Galerie Pièce Unique, Parigi Jasmine Murrell (HOWDOYOUSAYYAMINAFRICAN?), Immortal Uterus, 2014, courtesy l’artista

Florian Graf, do (Tower-House), 2015, courtesy Kunst Halle Sankt Gallen, San Gallo. Foto Gunnar Meier Ulla Rauter, Sonagraphie, courtesy MAM, Vienna

ROTTERDAM

HOWDOYOUSAYYAMINAFRICAN? Witte de With ospita il collettivo multidisciplinare HOWDOYOUSAYYAMINAFRICAN? con la mostra NO HUMANS INVOLVED. Il collettivo, formato da 45 artisti (pittori, scrittori, poeti, compositori, accademici, filmmaker e performer) che da venti anni vivono e lavorano insieme, propongono i lavori creati proprio a Rotterdam negli ultimi due mesi: installazioni video e scultoree, stampe, paesaggi sonori e corti in video che ruotano attorno alla domanda fondamentale “cosa significa essere umani in un mondo che contesta di continuo l’umanità di certe persone”?

Saint-Etienne

passaggi Il Museo d’arte moderna e contemporanea di Saint-Etienne Metropole ospita, per la prima volta fuori dall’Italia e all’interno di un museo pubblico, la Fondazione VOLUME!. L’esposizione Passaggi è dedicata all’attività che la Fondazione svolge dal 1997 negli storici spazi romani, un percorso di libera rilettura delle sue stanze attraverso la creazione artistica preservandone unicità e transitorietà. Protagoniste le opere di Pirri, Lange, Kounellis, Dessì, Zorio, Nunzio, Bassiri, Morellet, Pizzi Cannella, Paladino, Botta, Arcangelo, Gallo, HH Lim, Ceccobelli, Gastini, Zaza, Chiricozzi, Maraniello, Balka, Cabrita Reis,

Ernesto Neto and the Huni Kuin Thyssen-Bornemisza Art Contemporary (TBA21-Augarten), in collaborazione con Kunsthalle Krems, ospita l’esposizione Aru Kuxipa | Sacred Secret, frutto del lavoro dell’artista brasiliano Ernesto Neto con la tribù amazzonica degli Huni Kuin. L’artista ha dato vita a un esperimento pionieristico, stabilendo zone di contatto con ciò che definisce “il nostro futuro ancestrale”, e investigazioni sugli oggetti di natura spirituale. Fino al 25 ottobre. Michael Kienzer, Ohne Titel, 2014, gomma, plastica e vetro, cm.92,5x68,5x4,5, courtesy Galerie Elisabeth & Klaus Thoman, Vienna

VIENNA

Ulla Rauter Mario Mauroner Contemporary Art presenta Silent roomnumberOne, personale della giovane artista multimediale austriaca Ulla Rauter. L’allestimento mette in evidenza quanto possa essere attraente il silenzio, ruotando attorno a un processo in cui la voce genera il suo stesso corpo che si dipana tridimensionalmente in frequenza, volume e tempo. Emblematiche le Sonagraphie, tempo-frequenza come impronta vocale visiva, lastre fluorescenti che sotto la luce UV restituiscono il “disegno” della registrazione vocale. Michael Kienzer La Galerie Elisabeth & Klaus Thoman propone, a cura di Severin Dünser, una personale di Michael Kienzer, artista le cui sculture tendono a sovvertire i meccanismi convenzionali della percezione, rivoluzionando il sistema cognitivo dell’osservatore. Le opere in mostra si muovono in un complesso sistema di riferimento spaziale e sociale. Fino al 5 settembre. ESTATE 2015 | 253 segno - 11


>news istituzioni e gallerie< aCIreale

Michele Canzoneri La Galleria del Credito Siciliano propone, fino all’11 ottobre, un’importante esposizione dedicata all’opera di Michele Canzoneri dal titolo Opera completa 1984-2015. Percorso espositivo che prende la forma di un diario lungo quarant’anni, attraverso un pensiero e una ricerca artistica che trova nella dimensione del progetto e della riflessione preparatoria un elemento di continuità e fortissima caratterizzazione, in cui il valore del progetto ha la stessa rilevanza dell’esecuzione.

Andrea Bianconi, Sheba Chhachhi, Vittorio Corsini, Valentino Carrai-Luca Mauceri-Carlo Trucchi, Rolando Deval, Aron Demetz, Paolo Grassino, Moataz Nasr, Hans Op de Beeck, Alfredo Pirri, Fabrizio Plessi, Davide Rivalta, Bernardi Roig, Pietro Ruffo, Shigeru Saito, Nicola Samorì, Tomas Saraceno, Maurizio Savini, Pinuccio Sciola, Santiago Sierra, Danae Stratou, Ai Weiwei, Erwin Wurm. Fino al 25 ottobre.

bologna

Raccontare un luogo La Galleria Enrico Astuni presenta, fino al 7 novembre, la collettiva Raccontare un luogo - (Tales of a Place). La mostra, a cura di Lorenzo Bruni, coinvolge otto artisti di generazioni e riferimenti culturali differenti, che hanno proposto e ideato le opere appositamente per l’occasione. Mario Airò, Mel Bochner, Cuoghi Corsello, Christian Jankowski, Suzanne Lacy, Maurizio Nannucci, Antonis Pittas, Nedko Solakov.

Michele Canzoneri, Palmira, 2004 courtesy l’artista Giuliano Vangi, Frammenti d’umanità, locandina courtesy l’artista

carrara

michelangelo pistoletto Il maestro dell’Arte Povera Michelangelo Pistoletto è stato chiamato dall’ONU a ideare un regalo per festeggiare i primi 70 anni dalla nascita delle Nazioni Unite. Nasce così una vasta istallazione ambientale, il Terzo Paradiso, che verrà collocata nelle sedi principali dell’Onu a Ginevra il 24 ottobre prossimo al cospetto delle massime autorità e del Segretario Generale Mueller. La realizzazione è affidata ai laboratori Nicoli di Carrara che lavorano le 183 pietre, provenienti da ogni angolo del globo (dai graniti africani agli onici della Turchia, dalle pietre calcaree alle limestone degli Usa) che la compongono. Nel corso dell’estate, nella cornice di Piazza XXVII aprile, il dono di Pistoletto sarà presentato in anteprima per la città di Carrara.

chieti

bruno di pietro A Palazzo de’ Mayo, nel S.E.T. (Spazio Esposizioni Temporanee), HEART!, personale di Bruno Di Pietro. L’esposizione di dipinti e sculture del maestro abruzzese celebra il terzo anno di apertura della sede museale teatina. Fino al 13 settembre.

como

Mario Airò, Walt’s overture (As of Forms), 2007 acrilico su legno, neon, cm.151x330x15 courtesy Vistamare benedettaspalletti, Pescara Luigi Ontani, Natura extramorta antropomorfa 2015, courtesy l’artista. Foto Luciano Leonotti

ancona

Giuliano Vangi Nell’ambito della VI edizione della Biennale Arteinsieme, gli spazi del Museo Tattile Statale Omero alla Mole Vanvitelliana, accolgono Giuliano Vangi con la mostra Frammenti d’umanità. Giuliano Vangi e i giovani artisti. Opere emblematiche che testimoniano la ricerca artistica del maestro sulle sofferenze, inquietudini e speranze dell’uomo di oggi dialogano con dieci lavori multisensoriali, fruibili tattilmente, selezionati tra quelli realizzati dagli studenti dei Licei Artistici e delle Accademie delle Belle Arti di tutta Italia, che hanno partecipato al concorso arti figurative della Biennale. Fino al 23 agosto.

arezzo

Icastica Terza edizione per ICASTICA, manifestazione culturale che quest’anno si concentra sul tema della cultura da coltivare, nel solco del concetto “Nutrire il Pianeta. Energia per la Vita”, dell’Expo di Milano 2015. Dislocate in numerose sedi espositive (come la Galleria Civica Arte Contemporanea e il Museo Statale Casa Giorgio Vasari) e nello spazio cittadino troviamo opere di artisti quali Cimabue, Piero della Francesca, Giorgio Vasari, Benedetto da Maiano, Pietro Lorenzetti, Etel Adnan, Massimo Barzagli, 12 - segno 253 | ESTATE 2015

luigi ontani La Casa-Studio “Giorgio Morandi” e i Fienili del Campiaro ospitano la mostra Luigi Ontani incontra Giorgio Morandi. CasaMondo. Le nature extramorte antropomorfe, create appositamente da Luigi Ontani per le stanze Morandi, si innestano nella trama delle cose, dei colori del percorso sentimentale delle stanze, della vita del maestro bolognese. Nei Fienili sono, invece, esposte ceramiche storiche insieme ad alcune create appositamente, e proiettato un video su Ontani di Massimiliano Galliani, girato in Romamor, il villino in cui l’artista vive una parte del suo tempo.

brescia

DAN GRAHAM / MIEKO MEGURO Alla Galleria Massimo Minini, Dan Graham, A new work with curves, mostra omaggio a poco meno di 40 anni dalla prima collaborazione con l’artista. Dan Graham presenta un nuovo padiglione, vecchie e nuove fotografie, modelli di padiglioni. Vera novità, la project room affidata a Mieko Meguro, artista giapponese da poco consorte di Graham. Mieko ritrae Dan nei suoi momenti più quotidianamente domestici, facendolo scendere dal piedistallo: un mito dell’arte d’oggi si lava i denti, si fa la barba, beve il caffè, legge un libro sdraiato sul letto... Insomma, il Mito viene ricondotto alla sua dimensione umana.

Com’è viva la città Ospitata nella dimora storica di Villa Olmo, fino al 29 novembre, la mostra Com’è viva la città. Art & the City 19132014 raccoglie oltre cinquanta opere che, attraverso diversi media e linguaggi espressivi, indagano i modi del vivere quotidiano. Lo sguardo è quello di artisti italiani ed internazionali come Maselli, Bartolini, Moriyama, Turcato, Cingolani, Warhol, Christo, de Chirico, Savinio, Casorati, Pistoletto, Lichtenstein, Chia, Cattelan, Newton, Toderi, Jori, Vitali, Longoni, Beecroft e Linke.

Andy Warhol, Vesuvius, 1985, serigrafia su carta cm.80x100, Collezione Privata, Como

firenze

Giuseppe Gabellone BASE / Progetti per l’arte presenta un progetto di Giuseppe Gabellone, ideato appositamente per l’occasione. Il gesto è semplice quanto pieno di significati (e risonanze duchampiane): spostare un elemento esterno dell’illuminazione pubblica all’interno dello spazio espositivo, evidenziando la relazione di contrasti tra l’arte contemporanea e la culla del rinascimento. In mostra anche due disegni su carta in dialogo con l’opera del 1966 Rosso, poema idroitinerante di Maurizio Nannucci e l’intervento di Mario Airò dal titolo Il mondo di rugiada è il mondo di rugiada, eppure, eppure... del 1988. Dan Graham, New work with curves, 2014-2015 acciaio e specchi, cm.233x305x473 courtesy Massimo Minini, Brescia


>news istituzioni<

Christo, The Floating Piers progetto per il Lago d’Iseo, courtesy l’artista

Emanuela Fiorelli, Sistema emergente, 2010 cm.150x115x11, courtesy l’artista

frosinone

Biennale di Alatri XXXII edizione per la Biennale di Alatri (fr), intitolata Forme e figure dell’immaginario. La direzione artistica è di Luigi Fiorletta, mentre la curatela è affidata a Loredana Rea. Protagonista al Chiostro di San Francesco è un’accurata selezione di opere di sei artisti: Giovanni Albanese, Iginio De Luca, Emanuela Fiorelli, Licia Galizia, Carlo Pizzichini, Paolo Radi, differenti per formazione ed esiti formali ma che affondano le proprie ricerche in un terreno comune: la necessità di un equilibrio tra dimensione immaginativa e realtà.

genova

COLLEZIONARE IL FUTURO In occasione dei 40 anni della collezione di Sergio Bertola, fino al 13 settembre, il Museo d’Arte Contemporanea Villa Croce ospita la mostra Collezionare il Futuro. Puntare su artisti agli esordi come forma di scommessa sul futuro, intuire le svolte dell’arte contemporanea: la collezione Bertola nasce così, a Genova nel 1975, grazie all’amicizia con personaggi come Ida Gianelli o Germano Celant, e riunisce lavori di artisti la cui valenza radicale resta a tutt’oggi indiscussa, come Boetti, Cragg, Cattelan e Murakami.

la spezia

Matteo Marangoni Cardelli & Fontana artecontemporanea ha ospitato nei suoi spazi, tra maggio e giugno, il vincitore della residenza d’artista offerta all’interno dell’edizione 2014 del concorso internazionale Sonic Arts Award, Matteo Marangoni. L’artista presenta così, fino al 6 settembre, una nuova versione dell’opera sonora Quiet Before the Storm, appositamente progettata per gli spazi industriali della Ex Ceramica Vaccari.

Matteo Marangoni, Quiet Before the Storm, dettaglio dell’allestimento courtesy Cardelli & Fontana, La Spezia

lago d’iseo

christo Annunciato al Maxxi - Museo nazionale delle arti del XXI secolo il nuovo progetto di Christo in Italia: The Floating Piers. Nel giugno 2016, 70.000 metri quadri di tessuto giallo cangiante, sostenuti da un

sistema modulare di pontili galleggianti comporranno una installazione che si sviluppa a pelo d’acqua sul Lago d’Iseo seguendo il movimento delle onde. Tre chilometri di pontili larghi 16 metri e alti 50 centimetri, dai bordi degradanti, creeranno sulle acque del lago un suggestivo percorso pedonale.

Fashion as Social Energy A cura di Anna Detheridge e Gabi Scardi, la mostra Fashion as Social Energy presenta, fino al 30 agosto a Palazzo Morando, il lavoro di quattordici artisti internazionali particolarmente sensibili al rapporto tra arte e moda, come forme capaci di catalizzare desideri, ansie, esigenze, ossessioni del presente, e alle trasformazioni in corso nella contemporaneità: Luigi Coppola e Marzia Migliora, Rä di Martino, Mella Jaarsma, Kimsooja, Claudia Losi, Lucy+Jorge Orta, Maria Papadimitriou, Michelangelo Pistoletto, Kateřina Šedá, Nasan Tur, Otto von Busch, Wurmkos e Bassa Sartoria, Andrea Zittel.

lucca

Creativa Produzione La Fondazione Centro Studi Licia e Carlo Ludovico Ragghianti dedica una mostra al design toscano, nasce nell’ambito della iniziativa Piccoli Grandi Musei 2015. Toscana ‘900. Musei e Percorsi d’arte. L’esposizione, dal titolo Creativa Produzione. La Toscana e il design italiano 1950-1990, è curata da Gianni Pettena, Davide Turrini, Mauro Lovi e presenta nomi quali Ettore Sottsass, Lella e Massimo Vignelli, Michele De Lucchi, Giovanni Michelucci, Lapo Binazzi, e marchi come Richard Ginori, Poltronova e Piaggio. Fino all’1 novembre.

Kateřina Šedá, For Every Dog a Different Master, 2007, camicie di cotone, dimensioni variabili, courtesy l’artista e Franco Soffiantino Contemporary Art, Milano, UniCredit Art Collection, Milano Tony Cragg, First Person, 2014, marmo bianco, cm.165x104x165, courtesy l’artista e Lisson Gallery, Milano. Foto Micheal Richter

Michele De Lucchi, Vaso Sholapur (per Up&Up) 1985, courtesy l’artista David Douglas Duncan, ritratto di Pablo Picasso courtesy l’artista

David Douglas Duncan A Villa Le Pianore, a Capezzano Pianore (Camaiore, lu), fino al 13 settembre, per la prima volta mostrato al pubblico il contenuto della cartella Picasso per Camaiore, che il fotografo David Douglas Duncan ha donato, nel settembre dello scorso anno, alla cittadina della Versilia. Oltre a un disegno autografato da Picasso, troviamo immagini, stampe e provini a contatto, in parte inediti, scattati negli anni dell’intenso sodalizio tra i due, che rappresentano un documento unico, raccontandoci il processo creativo e la quotidianità dell’artista catalano.

Tony Cragg Prima personale di Tony Cragg alla Lisson Gallery Milan. Esposta una nuova serie di opere legno, pietra e acciaio inossidabile, affiancate da lavori su carta. In mostra anche due sculture in bronzo e marmo di grandi dimensioni, Over the Earth e First Person (quest’ultima collocata all’esterno della galleria), opere che non si rivolgono solo alla natura e all’energia del mondo organico, ma anche alla realtà potenziata che si sprigiona attraverso la tecnologia e alle molteplici prospettive che ci sopraggiungono dalla velocità e versatilità della vita moderna. Fino al 18 settembre David Murphy, Untitled, 2015, dettaglio vernice a base di caseina su carta viraggio al selenio, cm.38x28 courtesy Monica De Cardenas, Milano/Zuoz

milano

David Murphy Prima personale italiana per David Murphy, negli spazi milanesi di Monica De Cardenas. La mostra dal titolo Deep, Deeper ha il suo punto focale in tre grandi sculture realizzate ognuna con un unico grande foglio di alluminio, modellato pazientemente dall’artista inglese con ripetuti colpi di martello. Fino al 31 luglio. ESTATE 2015 | 253 segno - 13



>news istituzioni e gallerie< La famosa invasione degli artisti a Milano Suddivisa in due sedi espositive, la Sala delle Colonne alla Fabbrica del Vapore (fino al 27 giugno) e la galleria Antonio Colombo Arte Contemporanea (fino al 24 luglio), La famosa invasione degli artisti a Milano (titolo ispirato al racconto di Dino Buzzati La famosa invasione degli orsi in Sicilia) vede pittori, designer e writer interpretare splendori e miserie di una città in continua evoluzione. A cura di Luca Beatrice e Ivan Quaroni. Gli artisti: 108, Aka B, Argiolas, Ausgang, Biagetti, Bortolossi, Cantafora, Chiesi, Cingolani, Clayton Brothers, Cella, Cuoghi, Damioli, De Biasi, Dem, Du Pasquier, El Gato Chimney, Forese, Fornasetti, Frangi, D.Galliano, Giacon, Lauretta, Heshka, Hurricane, Kaufmann, Memphis, A.Mendini, F.Mendini, Melchiotti, Olinsky, Pericoli, Petrus, Sale, Salvino, Salvo, Sesana, Shout, Squaz, Stonehouse, Thorimbert, Todd, Ventura, Verlato, E.P.Watson, Ziegler.

the wolf and the tiger Al Museo della Permanente, fino al 31 luglio, frutto di un’indagine rigorosa e costante, su un’arte in continua trasformazione, THE WOLF AND THE TIGER. Scultura italiana e coreana dimostra la pluralità degli orientamenti tra differenti generazioni e culture, ma suggerisce affinità creative e poetiche. Opere di Marini, Martini, Fontana, Cavaliere, Fabro, A.Pomodoro, A.Cascella, Nocera, Bucciarelli, Ghinzani, Varisco, Coletta, Consagra, Staccioli, Corsini, Massari, Pellegrinetti, Rocchi, Priod, G.Caravaggio, Valentini, Vedovamazzei, Nunzio, Arena, Nam June Paik, Bahk Seon Ghi, Lee Ufan, Moon Seup Shim, Han Jin Sub, Kim Young-Won, Park Heon Youl, Jin Kyu Kwon, Suk Won Park, Yong Deok Lee, Seung Mo Park, Hwan Kwon Yi, Kang Ai- Ran.

napoli

Satoshi Hirose La Galleria Umberto Di Marino presenta Heteronym di Satoshi Hirose, primo evento di ten more ten, serie di esposizioni programmate nell’arco dell’anno per il decennale di attività della galleria e il ventennale dalla fondazione del primo spazio a Giugliano. Nell’occasione Hirose espone nuove opere e reinterpretazioni di lavori passati. Fino al 12 settembre.

pietrasanta

fabio Viale La Galleria Poggiali e Forconi propone Punk, nuovo progetto di Fabio Viale concepito per le due sedi della galleria a Pietrasanta: il complesso post-industriale dell’Ex Marmi e lo spazio espositivo di via Garibaldi. In mostra 15 opere tra cui P Zero, La Suprema, Torno Subito, Madonna, Souvenir Gioconda, Souvenir David, Pugno, Infinito e Kouros. Fino al 7 agosto.

Maximo Pellegrinetti, Cadute, 2014 travertino e basalto, cm.119x172x2 courtesy l’artista Lucio Fontana, Drago, 1949-1950, ceramica colorata, cm.32x105x29,5, arch. Fontana 3823/1 courtesy Studio la Città e Galleria Tonelli Foto Michele Alberto Sereni Andrea Chiesi, Karma 4, 2015, olio su lino, cm.70x100, courtesy Antonio Colombo Arte Contemporanea, Milano Marjolijn De Wit, Untitled, 2010, olio su tela, cm.140x130, courtesy Otto Zoo, Milano

family guys Otto Zoo presenta Family Guys, collettiva con lavori di 15 artisti che hanno collaborato in anni recenti con la galleria, a sottolineare la sfera intima, quasi familiare, in cui ci si muove. Bellomo, Coste, TYong Chung, Dalfino Spinelli, De Wit, Forstner, Kopp, Marathaki, Martini, Mauri, Morganti, Raceviciute, Ruscica, Squillacciotti, Vestrucci. Keith Tyson & Hugo Wilson ProjectB annuncia una bi-personale di Keith Tyson e Hugo Wilson dal titolo De Pictura. Dialogo tra due artisti Inglesi, rappresentanti di diverse generazioni e protagonisti della storia della galleria, raccontato attraverso la giustapposizione di due stanze. Tyson presenta per la prima volta in Italia la nuova serie Unnatural Portrait, opere eseguite a tecnica mista su alluminio; Wilson espone quattro pannelli a olio in cui i riferimenti storico/mitologici che caratterizzano la sua opera si dissolvono in una pennellata o nella matericità delle due sculture di terracotta. Keith Tyson, Unnatural Portrait, 2015, tecnica mista su alluminio, courtesy ProjectB, Milano

Mimmo Paladino, illustrazione per Fiabe ebraiche, a cura di Elena Loewenthal, 2003, acquerello, collage su carta, cm.21,2x13,5, Einaudi, Torino

pisa

Lucio fontana La Galleria Tonelli, insieme allo Studio La Città di Verona, propone la mostra The Fontana I Love, dedicata alle opere in ceramica e gesso di Lucio Fontana. Picture Perfect Nasce, per iniziativa di Irene Crocco, il nuovo spazio espositivo milanese VIASATERNA arte contemporanea. La mostra inaugurale è Picture Perfect, collettiva a cura di Fantom (Selva Barni, Massimo Torrigiani, Francesco Zanot), con una selezione di opere ispirate, influenzate o innescate dal linguaggio fotografico. Feldmann, Hamilton, Kristensen, Milizia, Mohri, Murayama, Nakano, Payer, Pintucci, Qiang, Vitturi. Gianfranco Zappettini Alla MAAB Gallery, fino al 10 luglio, personale di Gianfranco Zappettini dal titolo Opere 1966-1971. Selezione di lavori che testimoniano l’attenta riflessione sulla struttura interna del quadro, sulla propria definizione di geometria, sui confini della percezione ottica e anticipano il periodo analitico di cui Zappettini sarebbe stato assoluto protagonista. Gianfranco Zappettini, Strutture in BX 35-68, 1968 acrilico su tela, cm.120x170 courtesy MAAB Gallery, Milano

Mimmo Paladino La Fondazione Palazzo Blu, in collaborazione con la Scuola Normale Superiore di Pisa, dedica una mostra ai classici della letteratura attraverso le opere di Mimmo Paladino. 98 i disegni originali in esposizione per Paladino tra arte e letteratura, tra cui quattordici inediti dedicati al tema dantesco. A cura di Giorgio Bacci. Fino al 13 settembre.

rivoli

Uriel Orlow Videocontaminazioni Il Castello di Rivoli ospita, fino all’11 ottobre, Unmade di Uriel Orlow, a cura di Marcella Beccaria. In mostra, in particolare, Unmade Film, progetto che ruota attorno all’ospedale Kfar Shau’l (Israele), dedicato al trattamento dei disturbi mentali dei sopravvissuti all’Olocausto. Il rapporto tra video e nuovi media nell’arte è il tema del convegno e della rassegna Videocontaminazioni. Fiction / Reality, al Castello fino al 2 agosto. Il progetto, a cura di Massimo Melotti, presenta video di artisti che hanno incentrato la loro ricerca sulle “contaminazioni” tra arti visive, video e nuove tecnologie, ma anche tra culture diverse: Vuk Cosic, Massimiliano e Gianluca De Serio, Coniglioviola e Diego Scroppo. Vuk Cosic, Bruce Lee, courtesy l’artista

ESTATE 2015 | 253 segno - 15


PINO SPAGNULO CAMUSAC

Canzone di Fuoco Cassino Museo di Arte Contemporanea

a cura di Bruno Corà Nuove proposte e acquisizioni

Una mostra al CAMUSAC di opere che accrescono la collezione permanente del Cassino Museo di Arte Contemporanea e un omaggio ad Achille Pace

Dopo l’imponente mostra di sculture di Pino Spagnulo e la calibrata mostra di rilievi di Turi Simeti, il Museo di Arte Contemporanea di Cassino offre un’opportunità di osservazione delle sue nuove acquisizioni e di alcune giovani proposte che rivelano l’interesse dell’istituzione ad articolare le dotazioni già ampie di scultura con nuovi pronunciamenti di carattere pittorico plastico. La rosa di nomi comprende gli artisti Carlo Colli, Lindo Fiore, Raffaella Formenti, Abel Herrero, Karpüseeler, Ümit İnatçı, Luigi Magli, Giulia Marchi, Bruno Marcucci, Nevio Mengacci, Vincenzo Merola, Klaus Münch, Gianfranco Notargiacomo, Carlo Rea, Mario Sughi, di ciascuno dei quali sono presentate tre opere, soprattutto degli ultimi anni. Nella compagine ordinata secondo un criterio di poetica individuale a confronto, senza che si pretenda di indicare alcuna tendenza, si riconoscono artisti dai percorsi già consolidati come quelli di Notargiacomo, di Fiore, di Marcucci, di Münch, di Mengacci e Magli, mentre di altri come Rea, Herrero, Formenti, Marchi, Karpüseeler, İnatçı, Colli, Merola e Sughi si prendono in considerazione i risultati di percorsi più recenti, lungi dal rappresentare linee di lavoro quanto piuttosto tracce di ricerca e di innovazione strumentale e tecnica. La mostra, che si inaugura il 15 giugno 2015 alle ore 18, resterà aperta sino ad ottobre, consentendo in tal modo al pubblico giovanile e studentesco di poterla visitare alla ripresa dell’anno di studi, sia delle medie superiori, sia dei corsi universitari. Un’enclave dedicata all’opera di Achille Pace, protagonista del dibattito artistico sin dalla fine degli anni Sessanta, nonché pioniere della prima aggregazione del Gruppo Uno con Uncini, Carrino, Biggi, Frascà e altri sarà altresì allestita una mostra ‘omaggio’. Un nucleo rappresentativo di lavori di Pace verranno esposti con l’obiettivo di gettare nuova luce sull’artista molisano, grande inventore e promotore del Premio Termoli di cui è stato l’anima. Per la circostanza saranno editi i relativi cataloghi con brevi saggi e contributi critici di Bruno Corà e Tommaso Evangelista, con un corredo di immagini e di apparati relativi alle opere in mostra.

dal 19 dicembre 2014

CAMUSAC Via Casilina Nord, 1 - 03043 Cassino (FR) Tel. +39 366.59.04.400 - info@camusac.com - www.camusac.com ARTE CONTEMPORANEA



Accademia di Belle Arti di Urbino e Studio Chiesa

www.nutrimentum.org

presentano

a cura di Umberto Palestini ed Elisabetta Pozzetti

COMUNE DI CIVITELLA DEL TRONTO

Data, Orto dell’Abbondanza, Urbino 13 maggio - 14 giugno 2015

Fortezza Borbonica, Civitella del Tronto (TE) 11 luglio - 30 settembre 2015

progetto con il patrocinio di

main partners

special partner

ORDINE DEI DOTTORI AGRONOMI E DEI DOTTORI FORESTALI DI MILANO


roma

Sintattica Lo spazio del Museo Andersen, viene riletto fino all’11 ottobre da interventi site specific con opere inedite di Claudioadami, Luigi Battisti e Pasquale Polidori. La mostra Sintattica, a cura di Francesca Gallo, mette alla prova i nessi che legano passato e presente, esemplificando come i principi del linguaggio verbale siano stati assorbiti e tradotti nelle arti visive.

salerno

La Scultura dopo il Duemila Il FRac di Baronissi (sa) propone La Scultura dopo il Duemila. Idolatria e iconoclastia. Con la curatela di Ada Patrizia Fiorillo, esposte opere di Arcuri, De Ruvo, Fiorelli, Frattini, Galli, M.Galliani, Utopia Giordano, Lanaro, Rinedda.

teramo

Desiderio L’ARCA | Laboratorio per le arti contemporanee presenta la mostra Desiderio, a cura di Arianna Rosica e Damiano Gullì, con una speciale sezione dedicata ai video dal titolo Cinema Desiderio, a cura di Barbara Meneghel. Opere di Alviani, Arienti, Baruchello, Berti, Caravaggio, Canevari, Gabini, Goldschmied & Chiari, Icaro, Moro, Muroni, Mosca, Nagasawa, Sarleti, Stampone, Tocca, Vedovamazzei, Vignando. Video di Allieri, Balsamo, Bertocco, Bisagni, Goldschmied & Chiari.

teramo - pescara -ascoli

arte in centro Torna dal 26 luglio al 6 settembre, “ARTE in CENTRO”- Mete Contemporanee, progetto nato nel 2014 con la volontà di configurare, tra l’Abruzzo e le Marche, un polo di riferimento per l’arte contemporanea valorizzando al contempo il patrimonio storico e ambientale del territorio. Composto da Associazione Arte Contemporanea Picena di Ascoli Piceno, Fondazione Malvina Menegaz per le Arti e le Culture di Castelbasso – Teramo e la Fondazione Aria – Fondazione Industriale Adriatica di Pescara, questo sistema integrato propone un progetto curatoriale in un unico percorso espositivo, a cura di Andrea Bruciati, nelle sedi della Galleria O. Licini di Ascoli Piceno, di Palazzo Clemente e Palazzo De Sanctis a Castelbasso, del Museo delle Genti d’Abruzzo e dello Spazio Matta a Pescara. Al centro del progetto una “riflessione differente” sulla storia dell’arte italiana a partire dal lavoro dei maestri, visti in relazione ad artisti di generazioni successive, che esprimono sensibilità affini all’interno dell’arte e della società contemporanea.

torino

GROW IT YOURSELF Il PAV- Parco Arte Vivente presenta GROW IT YOURSELF, seconda collettiva a cura di Marco Scotini. La mostra si concentra su esperienze internazionali di forme cooperative, dalle organizzazioni comunitarie al crescente movimento de-

gli orti urbani, sviluppandosi attraverso la ricerca dei collettivi Futurefarmers, Myvillages, Inland-Campo Adentro (ideato da Fernando Garcia-Dory con differenti artisti partecipanti) e tramite un inedito contributo di Piero Gilardi. tutttovero La GAM, il Castello di Rivoli, le fondazioni Sandretto Re Rebaudengo e Merz ospitano TUTTTOVERO la nostra città la nostra arte Torino 2015, evento a cura di Francesco Bonami. L’esposizione declina il concetto di vero lungo due secoli, selezionando dal patrimonio artistico dei musei torinesi, le opere che raccontano come il mondo sia mutato, trasformandoci e trasformando il concetto di realtà nella nostra cultura e società. Alla GAM e a Rivoli fino all’8 novembre, alle Fondazioni Sandretto e Merz fino all’11 ottobre.

trento

Il Sosia Al Mart, a cura di Federico Mazzonelli, la mostra Il Sosia. 8 artisti si confrontano con opere moderne e contemporanee di prestigiose collezioni private su uno dei temi più indagati: il doppio. Coser, Fliri, Marisaldi, Migliora, Paci, Raffaelli, Ronchi e Vitone creano sei site-specific e due interventi su lavori già esistenti, in dialogo con maestri come Medardo Rosso, de Chirico, Ghirri, Paolini, Pistoletto e Calzolari, ma anche artisti stranieri come Buren, Gander, Horn,


Opere dalla Fondazione Berardelli

Warhol

Christo

Ray

Chiari

De Vree

Vermi

Beuys

CHAGALL

Kolรกล

SPOERRI Novรกk

Simonetti

Munari

Schifano TINGUELY

Desiato

Claude Mirรณ Marinetti DUCHAMP

2015

TRACARTE 6

ARMAN Miccini

Fondazione Banca del Monte di Foggia

Fondazione Banca del Monte Foggia, 16 maggio - 26 giugno 2015 a cura di Vito Capone Maddalena Carnaghi

testo critico

Gaetano Cristino

Via Arpi, 152 - Foggia- Tel. 0881.712182 www.fondazionebdmfoggia.com


CON IL PATROCINIO

Comune di San Benedetto del Tronto

Comune di Cupra Marittima

Comune di Monteprandone

Comune di Monsampolo del Tronto

Comune di Offida

Provincia di Ascoli Piceno

SAN BENEDETTO DEL TRONTO

PalaRiviera

CELEBRA

20ANNI

TITOLO

DELLA

GALLERIA MARCONI

CURATRICE ARTISTI

DARIO CIFERRI

CURATORE DEL PROGETTO INSTALLATIVO

SE UNA NOTTE D’INVERNO UN VIAGGIATORE Nikla Cingolani Federica Amichetti Valentino Bardino Violetta Canitano Pierfrancesco Gava Luigi Grassi Dario Maglionico Piero 1/2botta Sebastiano Mortellaro Giuseppe Negro Alessandro Rivola Silvia Sanna Giuseppe Tomasello

TITOLO

CURATRICE ARTISTI

SUB SPECIE AETERNITATIS

TITOLO

Rebecca Delmenico Karin Andersen Annalisa Cattani Claudia Losi Sabrina Muzi Eugenio Percossi Christian Rainer Giovanna Ricotta Paola Sabatti Bassini Rita Soccio Cosimo Terlizzi Lidia Tropea

CURATRICE ARTISTI

SONNO O SON DESTO Cristina Petrelli Maria Chiara Calvani Mariangela Capossela Paolo Consorti Nicola Di Caprio Rocco Dubbini Paola Risoli Giovanni Manunta Pastorello Carla Mattii Giuseppe Restano

EVENTI SPECIALI

Mostra Collettiva degli alunni:

CUPRA MARITTIMA Stazione FFSS TITOLO

CURATRICE ARTISTI

ISC SUD - ISC CENTRO - ISC NORD San Benedetto del Tronto ISC MONTEPRANDONE

Presentazione del progetto: «ARTE POLLINO» Gaetano Lofrano Presidente di Arte Pollino

MINIMA CURVATURA (Il tempo come differenza)

Anna Rita Chiocca Francesca Gentili Giovanni Presutti Josephine Sassu Marco Scozzaro

MONSAMPOLO DEL TRONTO Chiostro di San Francesco TITOLO CURATRICE ARTISTI

MONTEPRANDONE Palazzo Parissi TITOLO

CURATRICE ARTISTI

IL CORPO NON MENTE

Valentina Falcioni Franco Anzelmo Giuseppe Biguzzi Armando Fanelli Niba Mario Vespasiani Rita Vitali Rosati

TERATOPHOBIA

CHI HA PAURA DEI MOSTRI?

Maria Letizia Paiato Mara Aghem Giovanni Alfano Attinia Luca Bidoli Giorgio Pignotti Zino

OFFIDA Showroom Ciù Ciù TITOLO CURATRICE ARTISTI

www.marchecentrodarte.it

ALTER MODERNITAS

Lucia Zappacosta Nicola Caredda Roberto Cicchinè Tiziana Contino Gianluca Cosci Peter De Boer Elena Giustozzi

a ediz.

5

expo d’ARTE CONTEMPORANEA 19 APRILE 14 GIUGNO 2015


Desiderio Direzione di Umberto Palestini A cura di Arianna Rosica e Damiano Gullì Getulio Alviani Stefano Arienti Gianfranco Baruchello Simone Berti Gianni Caravaggio Paolo Canevari Alessandro Gabini Goldschmied & Chiari Paolo Icaro Liliana Moro Igor Muroni Angelo Mosca Hidetoshi Nagasawa Angelo Sarleti Giuseppe Stampone Michele Tocca Vedovamazzei Mauro Vignando

Cinema Desiderio A cura di Barbara Meneghel Davide Allieri Chiara Balsamo Francesco Bertocco Filippo Bisagni Goldschmied & Chiari

dal 12 Giugno al 6 Settembre

2015

Vernissage 11 Giugno L’ARCA Laboratorio per le arti contemporanee Largo San Matteo, Teramo www.larcalab.it

Città di Teramo

Assessorato alla Cultura


Myvillages Inland Campo Adentro

Futurefarmers Piero Gilardi

Grow It

Yourself

12-06-2015 / 18-10-2015

curated by Marco Scotini

www.parcoartevivente.it

with the support of


MILLE FUTURI POSSIBILI “All the World’s Futures” 56a edizione della Biennale di Venezia curata dal nigeriano Okwui Enwezor. In queste pagine le prime riflessioni di esperti e collaboratori da noi interpellati. Foto di Roberto Sala

Francesco Moschini

Una rilevante narrazione storica

F

orse la migliore edizione della Biennale di Venezia della, fin troppo lunga, presidenza di Paolo Baratta, affidata quest’anno alla cura di Okwui Enwezor (Nigeria 1963), anche lui, come tutte le precedenti “griffate” scelte curatoriali, selezionato andando sul sicuro tanto per una indiscussa storia professionale alle spalle quanto per una, altrettanto indiscutibile, aura mediatica internazionale. Agli eccessi enciclopedici della pur pirotecnica passata edizione di Massimiliano Gioni, all’insegna del “liberi tutti”, fa da contrappunto l’attuale impeccabilità da ripercorso museale, anche nella puntigliosità dell’allestimento, di questa edizione. Una mostra davvero con i fondamenti sul piano politico, storico e culturale con non larvati riferimenti alla storia complessiva della evoluzione del concetto di “biennale” di cui Enwezor ripercorre in catalogo luoghi, padiglioni e metodologie di sguardi, variazioni geografiche e storiche delle nazioni partecipanti, dagli esordi del 1895 fino ai più recenti, sino all’istituzione di un filo rosso di continuità con la svolta epocale della stessa biennale in chiave politica tra il 1968 e il 1974. All’acribia filologica di restituire nel catalogo le molteplici edizioni delle opere di Karl Marx, a partire dal Capitale, agli appunti di Louis Althusser dedicati al “Séminaire sur Le Capitale” del 1964, il curatore fa corrispondere la dimensione politica del suo sguardo su “Tutti i Futuri del Mondo”, come recita la sua edizione “All The World’s Futures”, per comprendere gli sradicamenti culturali, le migrazioni geografiche, le tematiche del lavoro, della guerra, della pace, delle competizioni - e qui, certamente, pur sapendo quanto sia inusuale segnalare in maniera così perentoria un’assenza, tra gli artisti italiani invitati non doveva mancare Mauro Folci che da tempo memorabile sta portando avanti un lavoro straordinario proprio su queste tematiche. Il tutto viene riletto attraverso il filtro, chiarito dallo stesso Enwezor, di una triplice riverifica, quella del “giardino del disordine”, quella della “vitalità: sulla durata epica” e quella della “rilettura del Capitale”, nell’Arena per tutta la durata della Biennale affidata, con modalità volta per volta caratterizzanti, a personalità diverse. Sebbene

24 - segno 253 | ESTATE 2015

quello della rilettura di testi apicali, protratta nel tempo abbia, almeno in Italia, precedenti illustri, ormai storicizzati, da tempi non sospetti, si pensi alle mitiche letture dell’intero corpus dantesco di Vittorio Sereni, o alle più recenti, e televisive, di Roberto Benigni, così come alle evangeliche riletture integrali dei sacri testi, condotte senza soluzione di continuità, dal giorno alla notIn alto il corridoio laterale dell’Arsenale con l’installazione di Ibrahim Mahama, nel riquadro Okwui Enwezor; Sotto, l’ingresso al padiglione centrale ai Giardini con le bandiere nere di Oscar Murillo e la scritta Blues blood bruise di Glenn Ligon.


biennale di venezia mille futuri possibili

Emily Kame Kmgwarreye, Earth’s Creation, 1994

Fabio Mauri, Il Muro Occidentale, o del Pianto, 1993

Robert Smithson, Dead Tree, 1969

te, nello spettacolare palcoscenico delle basiliche romane. La tecnica del montaggio in questa narrazione è debitrice alla teoria del formalisti russi, da Viktor Borisovic Šklovskij a Sergei Michajlovic Èjzenšejn, per cui ogni «stazione» va vista, come nell›autonomia del singolo fotogramma, per la propria bellezza formale, senza mai cadute formalistiche. Anche gli accostamenti, le sequenze della narrazione hanno così la loro rilevanza, penso alla straordinarietà della sala in cui si fronteggiano le struggenti fotografie del 1936 di Walker Evans con le conflittualità esibite dei modelli di Isa Genzken; o all’alternarsi nello snodo ritmato e labirintico degli impeccabili percorsi espositivi dell’Arsenale di veri e propri ricettacoli isolati, luoghi del silenzio e del sacro dove trovano spazio le deformanti corrosività di Marlene Dumas, la sacralità di Chris Ophili o le riverse monumentali fisicità, disperatamente in consunzione, di Georg Baselitz. Il tutto a indicare quanto il tempo, la corporeità e il caso attraversino il lavoro sia dei grandi artisti affermati, come quelli appena citati, sia la schiera delle nuove generazioni coinvolte, molte delle quali provenienti da zone geografiche ora in fermento, alcune «periferiche» e altre sulla via del proprio affacciarsi sulla scena internazionale. Se, al di là delle stringenti indicazioni di lettura del curatore, dovessi segnalare alcuni sorprendenti elementi di continuità dell›intera esposizione, sicuramente citerei il tentativo di proporre le singole sequenze dei lavori in una sorta di archivio della memoria da ricostruire, quasi a indicare un possibile rinvio al «Palazzo Enciclopedico» della passata edizione; poi non dimenticherei di rilevare il singolare e fin troppo pervasivo ricorso alla pratica del disegno, non sempre di altissimo livello, con cadute a volte al limite dell’illustrativo; così come direi della restituita compostezza classica agli elementi performativi, raggelati anziché in atto; ma anche del ricorso costante al silenzio contrapposto a suoni di ogni tipo, che costituisce una sorta di colonna sonora dell›intero percorso; o del tentativo di dare pacatezza e compostezza alla durezza e alla esplosività delle tematiche trattate. Nota altrettanto positiva, la constatazione di un alleggerimento del condizionamento dai vincoli del mercato più aggressivo. Per il Padiglione Italia, confesso che sono andato a Venezia convinto che avrei visto la più bella edizione degli ultimi lustri, per la stima che nutro da sempre nei confronti del cura-

Wangechi Mutu, She’sgot thewholeworldinher, 2015

Rirkrit Tiravanija, Demonstration Drawings, 2015

Huma Bhabha, Atlas, 2015

ESTATE 2015 | 253 segno - 25


tore Vincenzo Trione, tra i pochi in Italia a possedere i fondamenti dello storico ad ampio spettro, con i suoi molteplici, ma sempre puntuali, interessi pluridisciplinari. La mostra - «Codice Italia» tende a cogliere gli elementi di una possibile riconoscibilità identitaria degli artisti coinvolti. Forse per le troppe aspettative, ho dovuto stemperare il mio entusiasmo, pur ammettendo che la scelta dei quindici artisti italiani, dai più affermati a quelli più «di scoperta», si è dovuta duramente confrontare con una troppo stringente definizione e separatezza degli ambiti all›insegna di una mostra concepita come insieme di quartieri, strade, che, nella ricerca di un effetto città, per la totale negazione e annullamento degli straordinari spazi in cui era allestita secondo il progetto dell›architetto Giovanni Francesco Frascino, si è trasformata nell›immagine di una catacombale visita ai sepolcri appena alleggerita da un vago retrogusto neorealista da strapaese, con calli e campielli. Rispetto alla teatralità di una scena costruita per essere fruita ma con la convinzione di trovarsi di fronte ad una sequenza impenetrabile di «sancta sanctorum» da contaminare con la propria presenza, solo le due artiste Marzia Migliora e Vanessa Beecroft tengono volutamente lo spettatore fuori dal loro «recinto», con degli accorti «elementi di dissuasione» che costringono unicamente ad una visione dall›esterno. Gli artisti coinvolti hanno forse goduto di un eccesso di libertà nella formulazione non tanto della loro proposta espositiva, troppo spesso demandata alla immediata riconoscibilità degli elementi più consolidati della loro poetica, quanto nella ricostruzione del proprio «atlante warburghiano», idea straordinaria del curatore, sul quale si poteva essere più stringenti anche con un affiancamento maieutico, per indurre gli artisti ad uscire allo scoperto, a dare il meglio di sé nella ricostruzione-rivelazione della propria formazione, come magistralmente ha fatto Andrea Aquilanti. Anche le indicazioni di discendenze artistiche, come quella da Medardo Rosso segnalata per Alis/ Filliol e, allo stesso modo, per Luca Monterastelli, sembrano più forzature «a posteriori», nell›intenzione di trovare una possibile giustificazione a troppo ricorrenti e debordanti formalismi. Impari, poi, i contributi internazionali: dall›ovvia, scontata e imbarazzante opera di un genio, per altro, come Peter Greenaway; al monumentalismo retrò di William Kentridge, in bilico tra la retorica di una visione troppo ampliata sull›intera storia romana, da quella primordiale, a quella medievale, a quella del ventennio fascista, per giungere ad una attualità dove, al di là dello struggente corpo pasoliniano, siamo costretti a passare attraverso bozzetti tra il fumetto e la cartellonistica filmica; sino alla forza prorompente della continuità dello sguardo di JeanMarie Straub, per il quale è stato allestito, in maniera esemplare, fuori dal Padiglione Italia, un vero e proprio «tempio della ragione» nel quale, enciclopedicamente, viene ripercorsa l›ossessiva ricerca del rapporto tra passato e presente, con i suoi tempi spezzati e le sue brusche interruzioni. Esemplare poi l›esito editoriale della mostra italiana, non un semplice catalogo ma un vero e proprio volume, utilissimo strumento di riflessione con interventi davvero necessari e tra i più rappresentativi della cultura, per dare continuità a questa prima, importante, ricognizione sull›idea di una identità italiana. n

Hans Haacke, Blue Sail, 1964-65

26 - segno 253 | ESTATE 2015

Paolo Balmas

L’artistico esorcizza il politico

N

iente di nuovo sotto il sole a Venezia. Anche se il sole non è quello di giugno la Biennale punta ancora una volta sulla globalizzazione, la trans-culturalità, la pluralità. Tutte realtà talmente invadenti e attuali da scoraggiare qualsiasi obiezione, ma anche talmente debordanti e differenti da rendere terribilmente difficile strutturare un progetto espositivo che le riguardi e le ricomprenda. Un bel dilemma, non c’è che dire, quello su come mantenere un minimo di progettualità, per i “curators” che si vanno susseguendo negli ultimi anni alla guida di quella che resta la più antica e prestigiosa delle grandi esposizioni d’arte internazionali. Da una parte una messe allettante di materiale da esporre e valorizzare, dall’altra le insidie di vecchi criteri di classificazione e validazione pronti a resuscitare i fantasmi universalisti e totalizzanti dell’ideologia occidentale. Ci vuole ogni volta un’idea, un’idea semplice e perentoria che ci dica dove va l’arte contemporanea senza sottindendere che esista un percorso evolutivo in linea con i progressi della conoscenza e ci indichi anche a quale direzione di ricerca plaudire senza tirar giù la carta dell’impegno politico. Nel recente passato Bice Curiger puntò sulle suggestioni dell’illuminazioneintuizione (declinata al plurale per evitare certezze categoriali)

Andreas Gursky, Toys ‘R’Us, 1999/2015

Rosa Barba, Bending to Earth, 2015


biennale di venezia mille futuri possibili

Thomas Hirschhorn, Roof Off, 2015

Andreas Gursky

Walead Beshty

Jeremy Deller, Factory records

Isa Genzken

e Massimiliano Gioni sull’idea di classificazione enciclopedica (come pulsione immaginativa culturalmente trasversale). Oggi Okwui Enwezor sembra aver trovato una strada meno raffinata ma più solida chiamando in causa non l’idea di un unico “futuro” che l’arte propone all’umanità, ma il rilevamento dei tanti “futures” che tanti diversi artisti contemporanei vanno giorno per giorno inseguendo in ogni parte del mondo. Il discorso è chiaro: se le idee di futuro da prendere in esame sono tante non c’è nessuna idea prevaricatrice da imporre ad ogni costo, ma solo tante concezioni diverse da esaminare e discutere nel rispetto di ognuno. Il Moderno perde una delle sue più micidiali certezze e la funzione anticipatrice o comunque conoscitiva dell’arte è salvaguardata in ogni dove. Certamente non a caso lo stesso meccanismo lo ritroviamo attivo anche laddove il nostro curatore ci presenta i tre “filtri” cui ha pensato per ordinare la sua mostra in maniera più specificamente adeguata alla situazione Veneziana: “Vitalità – sulla durata epica”, “Il giardino del disordine”, “Il capitale: una lettura dal vivo”. Il primo filtro introduce il fattore tempo come tempo di elaborazione dell’opera, cui partecipa sensorialmente anche il pubblico dei visitatori, e pertanto ci mostra l’arte come attività “in progress” pur svincolandola da ogni dipendenza evolutiva dal passato. L’arte si muove in direzione del domani con il vigore di un dramma in cui ognuno recita la sua parte senza doversi confrontare con con ciò che è stato. La Storia non fa problema rimane un cumulo di rovine ai piedi dell’Angelus Novus di Klee-Benjamin. Il secondo esamina le miserie del presente confrontando l’antico ideale del giardino come luogo di delizie con la realtà dei Giardini in cui sorgono i diversi padiglioni nazionali di cui la Biennale si è dotata nel tempo. La memoria storica dei conflitti politico ideologici trasmessaci dai diversi stili degli edifici diviene metafora del disordine del presente cui l’arte è invitata ad opporsi a suo modo. Ancora una volta dalla Storia non impariamo nulla di buono e per quanto riguarda il presente ognuno è invitato a produrre con “filmati, film, performaces e installazioni” una sua proposta che abbia come punto di partenza il concetto di giardino. Inutile cercare di capire cosa è successo prima perché ora sta succedendo di peggio, parola d’ordine ricominciare da capo! L’arte risponde solo al presente non può non farlo, ma su quale sia l’intrinseca vocazione che la lega a questo dover essere nessuna indicazione, nessuna presa di posizione, nessuna assunzione di responsabilità. Il terzo filtro è quello che più ha dato e darà da pensare a critici e commentatori. Rileggere il Capitale tutti insieme, rileggerlo come uno dei testi sacri della Modernità ma anche come l’incunabolo di tutte le rivoluzioni storiche abortite subito, rimandate “sine die” oppure riuscite e poi degenerate. Cosa diavolo può significare una simile pratica al limite del pedissequo nel contesto della ricerca artistica attuale? Difficile rispondere specie se si tiene conto del fatto che, stanti le infinite discussioni che l’opera di Marx ha già suscitato fino allo sfinimento (e in qualche caso anche alla follia), ogni ulteriore ripresa avrà inevitabilmente le stimmate della parodia o del mantra. L’unica cosa certa è che Enwezor ha portato a casa ancora un risultato elegantemente omologo a quelli di cui sopra, la teoria politica non è ignorata, anzi ripresa in esame con buone probabilità di vederla con altri occhi, quelli di un presente infinitamente più smaliziato del mondo cui faceva riferimento il grande filosofo ed economista tedesco. Protagonista è ancora una volta l’oggi, John Akomfra, Vertigo Sea, 2015

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ciò che saprà fare un pubblico attore cui si mescoleranno - così ci viene promesso - veri e propri attori professionisti. L’artistico esorcizza il politico, tre a zero. Fin qui tutto chiaro. Le principali conquiste del pensiero post-moderno sono rispettate, sistemica e teoria della complessità neutralizzano ancora una volta ogni traccia di Newtonismo e di Metodo Cartesiano, l’imparzialità estetica ed il “politically correct” imperano e all’ideologia occidentale non viene nemmeno lasciata più la chance di piangersi addosso e chiedere perdono in quanto sarebbe ancora un atto di presunzione nei confronti di un terzo mondo che non è più tale. Qualcosa però non convince, non convince un certo retrogusto materialista e puramente documentativo che alberga un po’ dovunque nelle scelte del curatore, non convince il suo costringerci a guardare non degli elaborati in sè conclusi e consegnati al giudizio dei posteri ma sempre e solo un attivismo critico epicamente intento a digerire ed elaborare le lacerazioni del presente senza inalberare vessilli o blasfemare nemici storici, e soprattutto non convince l’idea che all’arte per muovere le sue coorti debba bastare l’inaccettabilità del disordine storicoeconomic-politico in cui viviamo senza nulla proporre circa l’enorme e altrettanto agguerrito disordine estetico-conoscitivo e organizzativo che non può non riguardarla più direttamente se è ancora vero, come fin qui è sempre stato, che l’arte è tenuta innanzitutto a cambiare non la vita ma l’arte stessa come minimo in quanto il suo stesso modo di percepirla è già arte. Se togliere di mezzo la Storia in nome di una discussione e di un confronto in divenire da stimolare e alimentare continuamente, (come indica l’idea stessa di un “Parlamento delle forme” che Enwezor ha lanciato quale ulteriore chiave di lettura della sua Biennale), può lasciare insoddisfatti e apparire dilatorio, ciò non significa che funzioni meglio l’opzione contraria, come dimostra il caso del Padiglione Italiano, curato da Vincenzo Trione sotto l’egida della “memoria”, alla ricerca di un “Codice Italia” su cui sono stati chiamati ad indagare 15 diversi artisti, alcuni dei quali di grande fama e nessuno al di sotto di uno standard qualitativo più che accettabile. Proprio perché chiamati a dire la loro su di un paese martoriato dalla crisi ma che non può non contare sulle proprie risorse culturali, i partecipanti si sono tutti tenuti in equilibrio tra un disagio che non poteva non essere rap-

presentato e una fiducia che non poteva non essere dichiarata, senza mai cadere nell’esagerazione o nella banalità, ed hanno in molti casi ottenuto risultati al di sotto delle loro possibilità, peraltro non certo favoriti, quanto ad effetto sul visitatore, da una suddivisione dello spazio architettonico ossessiva, per non dire addirittura cimiteriale. Quanto ai padiglioni stranieri, come al solito non è facile giudicare su fino a che punto le pervasive e un po’ ingombranti indicazioni del curatore-direttore siano riuscite ad ispirare i vari curatori nazionali. Come esempio di maggiore distanza da esse si potrebbe citare il Padiglione della Corea che vede il futuro alla luce di una sorta di rappresentazione fantascientifica di antiche fantasie taoiste (e vagamente sciamaniche) sulla possibilità di viaggiare nel tempo e nello spazio contraendo le distanze e annullando la gravità, mentre come esempio di aderenza non banale potrebbe essere citato quello del Messico in cui il raffronto tra l’uso delle acque a Venezia e Città del Messico, porta ad una proposta conclusiva frutto di un serrato approfondimento storico che sfocia in un concreto ma poeticissimo progetto di sistemazione della capitale messicana. Come esempi di scelte passibili di essere fraintese dal visitatore potrebbero infine essere citati il Padiglione Austriaco, in cui chi non abbia una spiccata sensibilità architettonica rischia addirittura di non capire dove sia l’opera, e quello Islandese che consistendo nella trasformazione dell’antica chiesa sconsacrata di Santa Maria delle Grazie in una Moschea perfettamente funzionale, e di fatto realmente frequentata da un certo numero di fedeli, potrebbe apparire soltanto una trovata pubblicitaria se non emanasse invece una convincente aura di pulizia emotiva e di calibrata diversificazione comportamentale. Infine non può mancare il “premio Paolo Balmas” che questa volta va a Sonia Boyce per il suo video più convincente di qualsiasi disquisizione teorica, presentato nel padiglione centrale, e a Pino Pascali per il suo sempre fresco e giocoso cannoncino con il quale questa volta ho sognato di minacciare l’Angelus Novus di Klee affinché finalmente volti le spalle alla Storia (che non è cosa sua) e guardi in avanti, sempre ammesso che non sia, come ho cominciato a sospettare da un po’ di tempo, nient’altro che un gufo travestito. n

Abdel Abdessemed - Arsenale

Taryn Simon - Arsenale

Melvin Edwards - Arsenale

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Terry Adkins - Arsenale

Qiu Zhijie - Arsenale

Newell Harry - Arsenale


biennale di venezia mille futuri possibili

Katharina Grosse - Arsenale

Bruce Nauman - Arsenale The Propeller Group - Arsenale

Pino Pascali - Arsenale

Terry Adkins - Arsenale Christian Boltanski - Arsenale

Marco Scotini

Il Capitale non è la Bibbia

N

on c’è dubbio che il centro (letterale e metaforico) della 56ma edizione della Biennale di Venezia sia l’Arena, su progetto del noto architetto ghanese-britannico David Adjaye. Da quando Catherine David aprì “100 Daus-100 Guests” a documenta X con il layout di Heimo Zobernig e Franz West, lo spazio discorsivo è entrato nello spazio espositivo contemporaneo e si è ampliato fino a trasformarsi da tribuna in palco, predisposto ad accogliere letture performative, canto, musica, cinema, ecc. Da piattaforma laterale (tra molti altri spazi) è diventata centrale e tanto più centrale, in questa biennale, è (o dovrebbe essere) il ruolo di un unico testo, un testo per eccellenza della modernità qual è Il Capitale di Karl Marx. Attorno a questa lettura-oratorio quotidiana si snodano il ciclo di canti del lavoro di Jason Moran, le performance dedicate a Luigi Nono di Olaf Nicolai, i seminari organizzati dal collettivo The Tomorrow con Kluge, Lazzarato, Piper e molti altri, le composizioni musicali sulla giustizia sociale di Charles Gaines, i canti di fabbrica recuperati da Jeremy Deller: tutto secondo un copione live ininterrotto. Attorno a questo nucleo centrale come cerchi concentrici altre performance e summit in differenti luoghi della città, installazioni artistiche nei Giardini e alle Corderie fino allo spazio web, dove settimanalmente e-flux journal posta saggi su temi caldi della contemporaneità politica, sociale, ecologica. Dunque non

Chris Ofili - Arsenale Lili Reynaud Dewar - Arsenale

c’è dubbio che “All the World’s Futures” voglia forzare i limiti del format della kermesse veneziana, rendendo difficile (e impossibile) una lettura onnicomprensiva e “a volo d’uccello” come vorrebbe essere quella dei pubblici delle biennali. Ma, torniamo al nostro spazio. Perché, innanzitutto, la riconfigurazione di un centro? Anche l’ultima documenta lo aveva riaffermato a partire dallo spazio “brain” della curatrice, nelle sale d’ingresso del Friedericianum. Ma perché un centro, ora? Poi: perché il teatro firmato Adjaye è tanto sontuoso quanto classico? Perché riafferma una divisione del lavoro di tipo tradizionale in cui ci sono attori da un lato e spettatori dall’altro? Il modello di Enwezor è stato il ciclo no-stop della biennale movimentista del 1974, in cui si metteva in scena una forma di resistenza e una presa di posizione contro il golpe in Cile: è possibile restituirne ora una versione congelata e che non sia partigiana? Meglio da questo punto di vista il set povero e aperto della Biennale “Agorà” ad Atene dello scorso anno. Ma ancora siamo sicuri che una lettura oratoriale non confligga con il carattere totalmente laico (e ancora non integrato) del Capitale? Ridurlo ad una religione? Non posso che concludere con il titolo di un lavoro di Nono riallestito da Nicolai: ”Non consumiamo Marx”. n Carsten Höller ESTATE 2015 | 253 segno - 29


Gabriele Perretta

Le differenti verità che coesistono nel contemporaneo

“E

se il futuro fosse chiuso al pari del passato e avesse ragione Einstein a considerare il nostro sforzo per distinguerli come una “testarda illusione””, quali sarebbero le conseguenze per la nostra libertà? Un tema classico viene affrontato in forma poco convincente e rigorosa mediante gli strumenti della curatorialità, modaiola e lagunare, della 56esima di Venezia. Nel 1908, il filosofo inglese John McTaggart pubblicò sulla rivista Mind un articolo dal titolo «The Unreality of Time». In quel saggio, il filosofo presentò un celebre argomento, noto in seguito come «paradosso di McTaggart», con il quale tentava di dimostrare l’irrealtà del tempo. Il tentativo non era nuovo: la tesi dell’illusorietà del tempo non trovava ospitalità solo all’interno del neoidealismo, ma era stata variamente sostenuta da critici del passato. Inediti erano, però, il modo in cui il critico impostava la questione e il rigore logico con cui argomentava quella tesi antica. Egli osservava che con il termine «tempo» noi indichiamo due ordini temporali diversi: la serie passato/presente/futuro e la serie prima-di/ contemporaneo-a/dopo-di. Detto ciò, e alla luce di un paradosso mediale, chiediamoci anche: “Può il tenente Colombo aiutarci nella ricerca del senso del mondo attuale?”. La stessa espressione “ricerca curatoriale” sembrerebbe confermare la bizzarra ipotesi. Okwui Enwezor, in All the World’s Futures, sembra che parta proprio da questo “impossibile” (e impassibile) assunto! La realtà attuale è sempre più articolata ed i suoi meccanismi sempre più complessi; è una società i cui confini di definizione sfumano, a tal punto da poterla definire società invisibile. In questo senso, gli strumenti interpretativi del pensiero si fanno analoghi a quelli del detective, il cui lavoro, similmente a quello del curator, consiste proprio nel leggere gli indizi ed interpretare le tracce, creando collegamenti e relazioni di senso impercettibili ad occhi inesperti. L’opacità non coincide, tuttavia, con l’inconsistenza. Al contrario, è più che mai necessario, afferma Enwezor, sentire il peso e l’utilità dell’interpretazione nell’atto di comprensione dell’arte “attuale”, in particolare in rapporto all’estensione dei confini geografici. Un’attività, lenta e progressiva, che il curator sente giustamente come un’urgenza della curatorialità. Prendere atto del progressivo assottigliamento delle forti idee della modernità e del crollo di determinate certezze, portano il critico ad elencare i “nuovi” problemi che si affacciano nella contemporaneità con intento scarsamente progettuale e debolmente propositivo. L’attuale complessità esistenziale dell’artista globale e l’offuscamento del reale non dovrebbero condurre ad una passiva rassegnazione teoretica, ma fungere da stimolo ad un nuovo modo d’interrogare le differenti verità che coesistono nel contemporaneo (vediamo in questo una vicinanza con le problematiche tipiche del postmoderno). La necessità d’autointerpretazione dell’artista oggi, è più difficile da cogliere rispetto al passato. Il soggetto è divenuto, grazie alla globalizzazione ed ai processi migratori, molteplicità di soggetti artistici e di classi sociali che animano l’industria culturale. Il cammino dell’arte deve dunque, da un lato, prendere le mosse da una simile coesistenza del diverso e, dall’altro, tentare un’autonomia ed un atteggiamento critico, non sempre facile nella piatta e dominante rappresentazione mediatica dell’artisticità. Il vero pensiero critico, scomodo e dissonante, è divenuto sempre più isolato, come ci fa notare proprio Enwezor, trasfigurando il Capitale di Marx in un’azione che non costituisce affatto una reale alternativa, essendo perfettamente iscritta nell’orizzonte medio del pensiero capitalistico. Il compito della curatorialità, che non fa a meno del regime liberale e della tentazione di trasformare uno strumento di lotta della classe proletaria in una ballata post-moderna, è allora quello non solo di offrire una critica, che si muove dentro uno scheletro ambiguo, ma quello di offrire una fantasiosa alternativa poetica (e non poietica), mettendo in “encomio” ciò che dovrebbe rimanere “critica e solo critica”. La sua competenza curatioriale approda in questo modo a un territorio delicato ed instabile, tuttavia è in questo territorio, crediamo, che si gioca la traballante inconsistenza del suo progetto e della pratica dei suoi argomenti. Credo sia centrale, a questo proposito, l’idea di visibilità e rappresentazione. Una riflessione, quella attorno al concetto di apparire che, non a caso, ha interessato i tre curatori delle ultime edizioni veneziane. L’autore ravvisa nella diversità tra la realtà e la sua rappresentazione artistica, uno sfasamento che concerne specialmente la nuova configurazione del mondo, un paradosso che però non riesce a concretarsi. Enwezor osserva che storicamente le società di cultura non hanno mai dato tanta importanza alla visibilità, alle immagini, alla descrizione - o meglio sarebbe dire ai tentativi di dare descrizioni - della realtà. In questo contesto tutto appare visibile e neutralizzabile: in una “virtualizzazione 30 - segno 253 | ESTATE 2015

Il nuovo palco “Arena” all’interno del padiglione centrale

della società” operata dai media e dalle nuove tecnologie digitali. Così i segni sono una delle cose più difficili da interpretare e dietro le apparenze si apre uno spazio indecifrabile dove si nasconde il vero significato di ciò che accade e di ciò che concerne l’ulteriore esteriorità e sembianza. I media e le nuove tecnologie sono a tal proposito, potremmo aggiungere, strumenti che non potrebbero sussistere se apparire e rappresentare non fossero dimensioni fondamentali dell’essere umano; determinazioni ontologiche che prescindono dalla specificità di una cultura o di una società storicamente determinata. L’apparire, come insegna Marx, è una dimensione rischiosa ma infinitamente fertile per la contraddizione dell’esistente. L’eccessiva trasparenza e visibilità creano per Enwezor, paradossalmente, un velo dietro il quale si nasconde la significatività più propria. L’eccessiva proliferazione di immagini non dà cioè vita ad una maggiore consapevolezza, ma ad un flusso di informazioni simile ad un magma opaco. È qui che dobbiamo diventare affini all’ispettore Colombo e non fidarci ciecamente ed esclusivamente delle apparenze, ma operare nel pensiero sottraendoci all’ovvietà. Privativizzazione e soggettivizzazione artistica sono la stessa cosa? Dopo l’inaugurazione della 56a Biennale la formula di trasformare il Capitale di Marx in un testo poetico è diventato un comodo alibi per la fuga dell’arte dalla politica. Ha ragione il disfattista? Se vuole riproporre la poesia per la poesia, senza capire che, in assenza di una teoria convincente, questa diventa solo nevrosi e auto-reazione, ha certamente ragione. Ma non facciamolo troppo pessimista e troppo reazionario e cerchiamo di prenderlo più sul serio. L’idea dell’arte del privato, con le pratiche etiche connesse, ha oggi una funzione apparentemente liberatoria. Investe la vita quotidiana, le forme di aggregazione degli artisti allineati: tocca cioè, il privato finanziario in senso proprio, oppure un grande privato dilatato che è poi la vita di chi non entra, nella cosiddetta “prima società”. Ma la “prima società” e il primo sistema, che è la stessa Biennale, è, per caso, Miami Art Fair o è addirittura quella notte dove tutte le vacche sono grigie? Dove gli sfruttati diventano i futuri suicidi e gli sfruttatori quelli che decidono sulle sorti dell’inaugurazione di ArtBasel? E i bisogni dell’artista flessibile che si è sostituito all’operaio comune? Quelli invece non esprimono nessuna soggettività, sono buoni solo per essere schiavizzati, quantificati e infilati in un barcone, per giunta un po’ boschiano? E intanto nella seconda società via con l’immaginazione, tanto la critica severa e dura al Capitale “ce la si sogna” e poi c’è sempre l’artistar di turno a dar conto del perché la critica dell’economia politica non abita più qui. Allora: questo nuovo (ma vecchio, vecchissimo modo) di far curatorio è la lingua della consolazione o della “monotonia”, di chi sta fuori dai giochi e tende ad entrare.? E chi invece come Enwezor nei giochi c’è, è stato partorito da un’ottima scuola sopranazionale, per rimanerci e fregarsene delle chiatte che naufragano al largo del Mediterraneo? Nel ’68, anche allora con errori e ingenuità (l’arte l’ha già detto che l’iconografia dei sessantottini e di quegli degli anni Settanta è tanto lontana dalla realtà, quanto le foto della cresima dai bambini veri), si provò a fare un confronto, di lavoro e di ricerca, fra il movimento politico e quello della pratica artistica, fra le diverse soggettività, i diversi bisogni, le diverse scelte. Oggi molte cose sono finanziariamente ambientate e incardinate, probabilmente tutto il politico del capitale è smascherato, ma per gli artisti, provare a mettersi nell’ordine di idee di non voler fare gli eroi di una rivoluzione impossibile, di non considerare i propri bisogni solo come sperimentazione di forme di vita, ma come qualcosa che trova nessi altrove e vuole risposte politiche, è già un modo per rispondere a quel signore insidioso che continua ad essere un curator. n


biennale di venezia mille futuri possibili

Fernando De Filippi

Marx nei dintorni della Biennale

U

na mostra che il curatore Okwui Enwezor definisce politica e che dovrebbe fare il punto sulla storia presente e futura ma il cui protagonista risulta essere Carlo Marx, attraverso la lettura integrale di Das Kapital in forma di oratorio insieme a tantissime opere che sembrano al contrario rappresentare l’eutanasia della cultura ed il trionfo del capitalismo. Rifacendomi ad un’esperienza messa in atto nella lontana Biennale del 1978 ho inteso proporre un gioco di creatività gratuita, un dono. Il gioco e lo scambio dei doni dovrebbero causare la cancellazione di tutte le separazioni (autore -fruitore) e la fine dell’arte come riproduzione delle merci per cui la vita e la bellezza non potranno essere distinte. Il testo “Il plusvalore consiste nell’eccedenza della somma complessiva di lavori incorporata nella merce rispetto alla quantità di lavoro pagato che la merce contiene“ condensa in un messaggio mirato una delle affermazioni fondamentali di Das Kapital. Il tentativo consiste nel mettere in discussione la corretta utilizzazione dell’arte per mano dell’artista e delle sue relazioni con il mondo della produzione assumendo nel contempo una funzione critica sul sistema dell’arte in generale. Il momento della rappresentazione diventa quindi la dimostrazione e la documentazione di una pratica artistica utilizzabile all’esterno dei luoghi deputati, degli spazi tradizionali per recuperare una forma di comunicazione più vasta servendosi di luoghi, spazi e linguaggi differenti, in questo caso utilizzati per fini opposti a quelli per cui sono stati progettati e organizzati. L’attenzione si sposta dal prodotto al contesto. Lo stesso lavoro

non assume lo stesso significato in ogni luogo. Se infatti assume per gli addetti ai lavori, all’interno, un determinato valore culturale, resta invece del tutto estraneo, riacquista cioè la loro invisibile anonimità, per il pubblico occasionale, all’esterno. L’affissione procura una diffusione più vasta del messaggio verso l’esterno del sistema dell’arte anche se poi finisce per risultare spesso parzialmente illeggibile in quanto non sempre immediatamente comprensibile. In questo modo l’azione sempre uguale in sé, muta con il mutare delle connotazioni che assume nel rapporto con il contesto in cui è calata. Si viene a determinare un fenomeno di ritorno per cui le azioni dirette ad una nuova utenza,spesso finiscono per essere comprese solo nel momento di ritorno nel luoghi deputati alla comunicazione visiva tradizionalmente intesa, i luoghi deputati della comunicazione artistica, le gallerie d’arte e i musei appunto. n Fernando De Filippi, Das Kapital, dintorni Biennale di Venezia, 2015

David Maljkovic - Arsenale Jason Moran - Arsenale

Chris Marker - Arsenale

Kay Hassan - Arsenale

Harun Farocki - Arsenale

Georg Baselitz - Arsenale Barthélémy Toguo - Arsenale Liisa Roberts - Arsenale GLUKLYA / Natalia Pershina-Yakimanskaya - Arsenale Rirkrit Tiravanija - Arsenale Maja Bajevic - Arsenale

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Rita Salvadei

Ecologia, ambiente e natura. Venezia si tinge di verde

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uest’anno, come non si vedeva da tempo, la Biennale di Venezia ha dimostrato di essere realmente espressione delle ultime istanze del contemporaneo. Assai spesso è capitato di uscire dalla mostra centrale e dai Padiglioni con la chiara sensazione di aver assistito a uno scollamento tra reale sociale e reale artistico, di contro a questa edizione che, diretta da Okwui Enwezor, propone come nodali le tematiche sociopolitiche. Tra queste, il rapporto tra uomo e natura, perlopiù inteso nell’ottica della reciproca, vicendevole e ciclica influenza. Se il Padiglione francese propone un progetto in cui l’elemento della mutevolezza della natura si esprime attraverso uno spostamento fisico - di certo non dovuto al millimetrico slittamento della crosta terrestre - il Padiglione degli Stati Uniti mette in scena l’aspetto più platealmente catastrofico. Il lavoro di Joan Jonas, diviso in tappe - come una via crucis - si concentra più generalmente sull’environment, “proiettando” direttamente il visitatore nel nostro habitat in via di distruzione. Il tema ecologista è proprio anche del Padiglione del Messico e, in qualche modo, di quello del Belgio, sebbene quest’ultimo

lo attraversi mediato dal tema postcoloniale. Mentre il Padiglione olandese ribalta la prospettiva guardando alla natura nell’ottica di ciò che ha fornito e fornisce all’uomo per il suo sostentamento. Il lavoro di Herman De Vriers, si concentra sui fenomeni naturali come elementi primari per la “costruzione” dell’esistenza umana, ponendo in evidenza un bilanciamento tra i due soggetti, attori di un delicato equilibrio in cui l’elemento del divenire riacquista (socialmente) il suo ruolo propulsore. Dunque in Laguna trova grande spazio il sentimento sociale (e neo culturale) di un ritorno alle origini, inteso come rispetto della Natura e riappropriazione di ritmi “antichi”, preceduto con evidenti segni dalle ultime Esposizioni di Architettura. Viene dunque da domandarsi se l’Arte sia seconda all’Architettura nel sentire e rielaborare le esigenze del proprio tempo. O forse è l’apparato critico e curatoriale che non sempre riesce o desidera leggere le tensioni della contemporaneità sociale, come invece Enwezor dimostra di saper fare, potendo anche solo con la sua scelta tematica (Quale il futuro del mondo?) stimolare riflessioni e proposte espositive in tale direzione. Tanto che finanche le mostre fuori Biennale toccano queste corde, alcune puntando sul sociale, altre di nuovo guardando alle tematiche ambientali, sebbene in termini e modi differenti. Come il caso di Ana Tzarev, artista croata che con uno stile neo naïf punteggia il Museo Diocesano di tele enormi, omaggio alla maestosità della Natura, madre e regina suprema. n

Céleste Boursier-Mougenot. Pad Francia Fiona Hall. Pad. Australia

Ahmed Abdel Fattah, Pad. Egitto Hermann de Vries, Pad Olanda

Danh Vo. Pad. Danimarca Joan Jonas, They Come to Us without a Word, 2013-2015. Pad Stati Uniti d’America

Irina Nakhova, Pad Russia

Ahmet Günestekin, Holy Encounter 2. Pad. Rep. Azerbaigian

Maria Papadimitriou. Pad. Grecia

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Sarah Lucas. Pad. Gran Bretagna


biennale di venezia mille futuri possibili

Ilaria Piccioni

alle macerie parte la ricostruzione per tanti futuri possibili, attraverso la guida delle infinite traiettorie artistiche? Questa è la domanda che viene affidata al visitatore della 56 Biennale Arte di Venezia, dal curatore Okwui Enwezor, instillando attraverso il titolo della mostra internazionale All the World’s Futures riflessioni e complessità sul nostro tempo. Sicuramente gli input concettuali sono molti, in particolare torna l’analisi del condizionamento del contesto politico e sociale sulle arti, con le sue diverse declinazioni e sfumature sulla creatività umana. In questa edizione a volte risultano calcate alcune “orchestrazioni” e intorno a queste le molte proposte e progetti; anche in fatto di record l’Esposizione non è da meno rispetto agli anni scorsi per estensione, numero di artisti e paesi invitati. Nelle ultime edizioni la Biennale ci ha abituato a prove di resistenza mnemonica e fisica, nell’affrontare le innumerevoli proposizioni contenutistiche, con approcci curatoriali che, anche se molto diversi tra loro, hanno sostenuto nell’osservazione della creazione artistica la dominanza delle infinite prospettive culturali e disciplinari. Torna in tutta la mostra del curatore (ai Giardini e all’Arsenale) la centralità della parola e del pensiero dell’uomo fermati nella traccia scritta, nell’espressività musicale e vocale - attraverso la performance - o nelle diverse forme di operatività lavorativa; il tutto concepito intorno a tre distinti filtri che ordinano la diversità di pratiche: Vitalità, sulla durata epica, Il giardino del disordine, Il Capitale: una lettura dal vivo. Si può ricordare questa edizione come la Biennale delle citazioni, dei riferimenti intellettuali e storici. Un elemento d’ispirazione per Enwezor viene dal Cile o meglio dalla Biennale del 1974, in cui (grazie a una riforma dell’istituzione e dello Statuto dell’epoca) si è dato spazio ad attività dedicate al paese latino americano, che nel 1973 aveva subito la destituzione violenta, da parte del generale Pinochet, del governo di Salvador Allende. E attraverso la storia - in quanto eventi e personalità - lo sguardo sul passato consente la lettura e l’analisi del presente, da qui la presenza di molti grandi artisti come Fabio Mauri che

apre il padiglione centrale dei giardini, nella sala Chini o Robert Smithson con il suo Dead tree e poi all’Arsenale lo splendido e delicatissimo video di Christian Boltanski, Animitas; il Cannone Semovente di Pino Pascali e uno spazio dedicato a 8 dipinti di Georg Baselitz. Tra le tecniche dominanti spiccano il disegno e la pittura e il video è spesso utilizzato come racconto, a volte di lunghissima durata, e così la fotografia è resa come strumento documentario oltre che estetico. Inoltre ampia centralità è data all’atto performativo, gran parte raccolto nelle molte attività che si susseguono incessanti nello spazio dell’Arena, cuore del padiglione centrale, in cui ogni giorno si tiene per tutta la durata della Biennale, anche la lettura in forma drammaturgica del Das Kapital di Karl Marx. Per riuscire a vedere per intero le molteplici varianti di alcune lunghe e complesse opere video della mostra del curatore nigeriano, si ha necessità di un tempo forse troppo prolungato; per cogliere il valore e il significato di una tale macchina espositiva è necessario disporre di alcuni giorni. Ma almeno ci sono opere che arrivano subito al senso più diretto delle arti visive come i disegni di Olga Chernysheva o il lavoro di Jeremy Deller che tra il materiale d’archivio ha scovato inedite stampe fotografiche del 1865, sul lavoro di anonime operaie siderurgiche. Poi da ricordare il bellissimo lavoro all’Arsenale del duo libanese Joana Hadijthomas & Khalil Joreige, con 354 libri d’artista posti a parete e 177 giorni di performance per la lettura in Arena o il video Vertigo Sea realizzato appositamente dall’artista ghanese John Akomfrah. Tra i padiglioni nazionali meritori la Grecia con il lavoro di Maria Papadimitriou, il Cile con Poetica de la disidencia di Paz Erràzuriz e Lotty Rosenfeld, il padiglione dell’Uruguay con l’intervento delicatissimo di Marco Maggi e interessante il lavoro di Fiona Hall per l’australiano che quest’anno si è dato una nuova veste di granito nero, ideata dallo studio Denton Corker Marshall. E per chiudere il Padiglione Italia - che ha suscitato innumerevoli critiche -pensato dal curatore Vincenzo Trione come un Codice Italia che vira però la centralità dei lavori degli artisti coinvolti in una struttura allestitiva dominante, che ingloba le opere in perimetri chiusi e scuri. n

Berna Reale, Americano, 2013, video. Antonio Manuel, Occupations/ Discoveries, 1998. Pad Brasile

Christodoulos Panayotou. Pad Rep. di Cipro

Padiglione Rep. Popolare Cinese

Chiharu Shota, Pad Giappone

Una Biennale di citazioni in molteplici varianti

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Antonella Marino

I padiglioni storici ai Giardini, tra visione critica, natura e memoria

U

n vecchio negozio di pelli di animali selvatici trasferito dalla città greca di Volos, alla Biennale di Venezia. Una bottega incasinata e polverosa, impregnata di odori ed umori, trapiantata nella sua interezza di arredi, pelli scuoiate, reperti; mentre in un video l’anziano proprietario racconta la storia di un un’attività negli anni Cinquanta molto sviluppata e ora totalmente in crisi. Va forse alla Grecia, con la monografica presenza di Maria Papadimitriou, il palmares del padiglione straniero più interessante nei Giardini. Un’ operazione di “critica adesiva”, che partendo da una realtà circoscritta riesce a parlare di questioni epocali molto più ampie. Innanzitutto, come spiega la curatrice Gabi Scardi, la metafora dell’animale selvatico - l“agrimika”, che

condivide con noi lo stesso habitat ma resiste all’addomesticamento - nel suo rapporto ambiguo con l’essere umano rimanda all’esclusione del diverso, a ciò che sfugge al controllo sociale. Mentre il senso di inadeguatezza personale del protagonista si fa espressione di un’inadeguatezza storica che coinvolge certo la drammatica situazione della Grecia, in bilico tra grave emergenza e voglia frustrata di normalità, ma anche un sentimento collettivo d’impotenza oggi sempre più diffuso. Rovina e memoria, frammento e accumulo, richiamo alla natura e denuncia politica declinata in una dimensione immaginifica sono i temi qui compresenti, che sintetizzano e informano un po’ tutta la Biennale, dalle proposte di Enwezor al loro riverbero sui padiglioni nazionali. Così ad esempio, proseguendo il giro ai Giardini, nel padiglione canadese trasformato in una precaria struttura con impalcature da cantiere, si entra all’interno di un minimarket (ritorna ancora la sfera del commercio), con prodotti vari in vista. Eppure qualcosa ESTATE 2015 | 253 segno - 33


non quadra. Sembra di essere colti da un problema agli occhi, per l’impossibilità di leggere marchi ed etichette. Le quali, si scopre subito dopo, sono state artatamente e minuziosamente sfocate. Questa simbolica difficoltà di vedere (in sintomatico pendant con la “Global Myopia” di Marco Maggi nello spazio dell’Uruguay), fa da prologo all’intervento del collettivo BGL, originario del Quebec. Dal negozietto si passa poi al caos calmo del secondo ambiente, che pare l’antro di un maniaco collezionista o l’iperbolico luogo di lavoro di un’artista, con centinaia di barattoli e assemblaggi di oggetti riciclati, in cui la metafora del disordine globale si fa più esplicita. Mentre su un soppalcato livello superiore la complicata macchina di un inventore pazzo fa scorrere lungo un nastro trasportatore le monetine lanciate dai visitatori, che finiranno per costruire un mosaico parietale in progress, capovolgendo il senso stesso dei concetti di produttività e valore. Le inquietudini evocate qui in chiave iperbolica assumono un tono ludico e più personale nel vicino padiglione inglese di Sarah Lucas (ancora una scelta di taglio monografico, possibile che solo l’Italia abbia la mania delle ammucchiate arbitrarie?). Palloncioni rigidi “gonfiati” come gialli falli giganti, lacerti di corpi femminili con sigarette infilate in tutti gli orifizi, gattoni flosci ma in realtà durissimi, realizzati in resina, bronzo, pvc, traspongono però su un registro più estetico e formale le provocazioni sessuali e identitarie cui l’ex bad girl della Young British Art ci aveva abituato. Oppure si stemperano in contemplazione di natura nel rilassante ambiente predisposto da Celeste Boursier - Mougenot per la Francia: trasformata con nuvole di schiuma in alto e sedute ai lati in un luogo di sosta (dato il livello di stanchezza molto apprezzato), dove lasciarsi ipnotizzare dai movimenti lenti di veri pini su grandi zolle di terra, animati con una tecnologia sofisticata che produce correnti elettroniche sonore. E se l’Olanda, con Hermande Vries, offre un’inventariazione di esemplari floreali, erbe ed altre essenze, frutto anche di un’esplorazione sull’ecosistema veneziano, un rapporto simbiotico con l’ambiente naturale nei suoi elementi primari è al centro della ricerca di una decana della performance come Joan Jonas (già celebrata di recente nella splendida antologica all’Hangar Bicocca), a cui è riservato il

padiglione Usa che ha vinto con lei un premio alla carriera. Lungo il percorso concepito come un lungo flusso narrativo, con videoinstallazioni, disegni, suoni, si snoda un racconto visionario popolato di fantasmi, bimbi, animali, che evoca e rafforza la sintonia di questa sciamana dell’arte con il mistero fragile della natura. Sul fronte della rievocazione di memoria, da segnalare invece è il contributo di Dahn Vo (protagonista della bella mostra a Punta Della Dogana), che nel padiglione danese mette in frizione epoche diverse con accostamenti arditi di elementi del passato. Gioca infine sulla riattivazione di racconti che assumono una connotazione corale la foresta di chiavi sospese su fili rossi per il Giappone da Chiharu Shiota, con la metafora della doppia barca che tenta di suggerire una prospettiva di mobilità e di cambiamento. Timido segnale in una Biennale dove il richiamo alle tensioni del presente, ora diretto, ora più soft e allusivo, sembra avere un comune denominatore: l’assenza di reali prospettive, la mancanza di uno spiraglio progettuale verso uno dei tanti futuri che pure Enwezor si ostina a segnalare… “Transazionalismo”. È una tendenza in corso ormai da un po’ di anni e una delle parole chiave di questa Biennale. Il mescolamento di identità geografiche è praticato già nella scelta dei curatori, che non rispondono più necessariamente ad appartenenze nazionali. Così sono cinque gli italiani, tutti giovani e international oriented, chiamati a curare altrettanti padiglioni stranieri. Tra questi Marco Scotini che per quello albanese, quest’anno allocato in uno spazio centrale all’Arsenale, ha puntato sul drammaturgo e scrittore Armando Lulay. La sua indagine sui fantasmi della guerra fredda in Albania ha come fulcro una trilogia filmica, ma è resa nell’ ambiente attraverso una serie di indizi e tracce documentarie in cui s’intrecciano pubblico e privato, tra cui un enorme e ambiguo scheletro di balena del Mediterraneo lungo 11 metri! C’è poi Eugenio Viola a firmare la proposta della Slovenia: in questo caso il poco più che trentenne Jaams Summa. Il quale a sua volta lavora alla caccia di documenti di archivio e testimonianze orali per ricostruire, con un’ambientazione multimediale, la storia di un personaggio dalla doppia vita vissuto durante il periodo so-

Francesc Ruiz, Pad Spagna

Vincent J.F. Huang, Pad Tuvalu

Albanian Trilogy: A Series of Devious Stratagems Il Padiglione dell’Albania alla 56ima Biennale di Venezia

Cosa ci fa lo scheletro originale di una balena del Mediterraneo lungo undici metri in uno spazio dedicato alla storia politica? Perché è esposto lì e non altrove? Questa è la prima domanda che si saranno i visitatori del Padiglione Albanese alla 56ima Biennale di Venezia, che ospita Albanian Trilogy: A Series of Devious Stratagems, un progetto di Armando Lulaj a cura di Marco Scotini, che si dichiara come prima partecipazione organica e di impatto per l’Albania a Venezia, dopo l’elezione di Edi Rama a premier nel 2013. Lo scheletro di balena è un indizio, il segno di un passato che chiede di essere riscritto, discusso. E rinegoziare con il passato è l’obiettivo dei tre film che compongono la Albanian Trilogy, “una serie di stratagemmi equivoci”, che si susseguono proiettati in formati diversi sulle pareti del padiglione: It Wears as It Grows del 2011, NEVER del 2012, che ha già riscosso un discreto successo internazionale, e Recapitulation, inedito, realizzato apposta per la Biennale. Nel primo film lo scheletro di balena è protagonista di un atto performativo in cui viene prelevato dal Museo di Storia Naturale di Tirana da un gruppo di persone e portato fino al mausoleo dello storico leader socialista Enver Hoxha. Questa migrazione si prolunga idealmente fino a Venezia: la balena in questione era stata vittima della marina albanese, in preda alla paranoia di possibili attacchi da parte dell’Alleanza atlantica. Il cetaceo, scambiato per un sottomarino ostile era stato abbattuto nel 1963, e i resti recuperati. La figura di Enver Hoxha aleggia come un fantasma su tutto il padiglione, in una nicchia sarà esposta la sua rara serie di 71 libri, mentre il suo nome, trasformato in ammonimento, è protagonista del secondo capitolo della trilogia: NEVER, che è insieme documento filmico, performance e opera di land art. Nel 1968 il partito albanese dei lavoratori fa realizzare in pietra la monumentale scritta “ENVER” sulle pendici del monte Shpirag per celebrare il leader. Distrutta parzialmente nel ’93, nel video gli abitanti del luogo ripristinano la scritta trasformandola però in “NEVER” – “mai”. Albanian Trilogy si muove quindi fra le questioni dei regimi di visibilità e delle politiche della memoria, centrali al lavoro sia dell’artista che del curatore, che collaborano da un decennio e le cui ricerche trovano ora un esito comune, riflettendo sulle microstorie, riscoprendo dettagli marginali, sfruttando archivi e documenti d’epoca, per mettere in scena tre atti di una storia che ritorna alterata nel presente, con cui finalmente si fanno i conti. Non è un caso allora che il Padiglione compaia tra i Top 5 selezionati da un illustre testata internazionale come “The Guardian”. Alessandro Azzoni 34 - segno 253 | ESTATE 2015


biennale di venezia mille futuri possibili

BGL art collective, Canadassimo, 2014. Pad. Canada Hito Steyerl, Pad Germania

Tsibi Geva, Archeology of the Present (Tire Walls) 2015. Pad Israele

vietico del Paese, contrassegnato da una grave e tragica intolleranza e discriminazione nei confronti degli omosessuali, Infine, oltre Gabi Scardi per la Grecia e Marco Meneguzzo per l’Iran, Giacomo Zaza, co-curatore del padiglione cubano con Jorge Fernàndez Torres (col quale è attualmente impegnato nella Biennale de L’Avana). Qui il criterio transazionale costituisce proprio l’impianto critico della mostra. Accanto a quattro artisti cubani - Luis Gómez Armenteros, Susana Pilar Delahante Matienzo, Grethell Rasúa e Celia-Yunior ce ne sono infatti altrettanti provenienti da paesi connotati a loro volta da proble-

matiche politiche, economiche e sociali: l’afghana Lida Abdul, la russa Olga Chernysheva, il cinese Lin Yilin e l’italiano Giuseppe Stampone. Il risultato è un affresco polifonico molto interessante, in cui tematiche urgenti come l’integrazione con lo straniero, la relazione tra arte e sistema di potere, l’ egemonia finanziaria, le restrizioni delle libertà individuali e collettive, sono affrontate con metaforica crudezza, e una generale capacità di mettere in frizione vissuto personale, specificità del proprio contesto storico e questioni globali. n

Al Padiglione Armeno il Leone d’Oro della 56ima Biennale di Venezia

Questa la motivazione della Giuria: “Leone d’oro per la migliore Partecipazione nazionale alla Repubblica dell’Armenia per aver creato un padiglione basato su un popolo in diaspora, dove ogni artista si non solo con la sua località specifica, ma anche con il suo retaggio culturale. Il padiglione prende la forma di un palinsesto, con elementi contemporanei inseriti in un sito del patrimonio storico. Nell’anno che segna un’importante pietra miliare per il popolo armeno, questo padiglione rappresenta la tenacia della confluenza e degli scambi transculturali.” La mostra Armenity, allestita nella suggestiva cornice del Monastero Mekhitarista dell’Isola di San Lazzaro degli Armeni, e curata da Adelina von Fürstenberg rafforza la nozione di dislocamento e di territorio, di giustizia e di riconciliazione, di ethos e di resilienza cosi, indipendentemente dal loro luogo di nascita, ciascuno degli artisti parte di questo progetto porta con sé la memoria, l’identità e la verità delle sue origini. Un’adunata “transnazionale” sotto l’insegna di un’identità frammentata e dispersa, ricostruita e rinnovata con il talento di questi artisti, nipoti di coloro che sono sfuggiti al Genocidio Armeno nel 1915, il primo del XX secolo. Il loro radicato interesse nei confronti dell’identità e della memoria si sovrappone sapientemente alle nozioni di territorio, confine e geografia. Che siano nati a Beirut, Lione, Los Angeles o al Cairo e ovunque essi vivano, questi cittadini globali mettono costantemente in discussione e reinventano la loro armenità. “La Biennale di Venezia - scrive in catalogo Adelina von Fürstenberg - è da sempre specchio dei tempi, e la 56ima edizione si svolge esattamente nel 2015, anno in cui ricorre il 100imo anniversario del genocidio armeno, la cui commemorazione acquista un significato ancor più profondo svolgendosi all’interno delle mura del monastero di San Lazzaro. Gli artisti della diaspora armena, che sono chiamati a rappresentare l’Armenia in un ambito internazionale, provengono da diverse nazioni ed hanno differenti background. L’identità armena costituisce per loro una connessione ad un “paradiso perduto”, ad una terra che non coincide con quella nella quale vivono. A causa di questa dicotomia essi possono rappresentare la propria conoscenza e consapevolezza come realtà interiorizzate, attraverso concetti assoluti – valori che creano empatia e sentimenti condivisi all’interno della stessa comunità. Ciascun artista della diaspora che interpreta la sua personale esperienza e si fa portavoce di storie a lui narrate, sublima il mondo contemporaneo nel quale vive anche attraverso la cultura del paese che lo ospita. Tutto ciò crea una dicotomia risolta tra le due terre di riferimento, una fusione delle due ricollocazioni.” I 18 artisti presenti sono: Haig Aivazian, Libano; Nigol Bezjian, Siria/USA; Anna Boghiguian, Egitto/Canada; Hera Büyüktasçıyan, Turchia; Silvina DerMeguerditchian Argentina/ Germania; Rene Gabri & Ayreen Anastas, Iran/ Palestina/USA; Mekhitar Garabedian, Belgio; Aikaterini Gegisian, Grecia; Yervant Gianikian & Angela Ricci Lucchi, Italia; Aram Jibilian, USA; Nina Katchadourian, USA/Finlandia; Melik Ohanian, Francia; Mikayel Ohanjanyan, Armenia/Italia; Rosana Palazyan, Brasile; Sarkis, Turchia/ Francia; Hrair Sarkissian, Siria/UK. n ESTATE 2015 | 253 segno - 35


Luca Monterastelli. Pad. Italia

Francesco Barocco. Pad. Italia

Aldo Tambellini. Pad. Italia

Vanessa Beecroft. Pad. Italia Giuseppe Caccavale. Pad. Italia Alis / Filliol Pad. Italia

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Claudio Parmiggiani. Pad. Italia Marzia Migliora. Pad. Italia


biennale di venezia mille futuri possibili

Jannis Kounellis Pad. Italia

Nino Longobardi, Senza titolo, 2014-2015. Pad. Italia

Paolo Gioli, Pad. Italia Mimmo Paladino, Senza titolo, 2015 Pad. Italia

Andrea Aquilanti Pad. Italia Antonio Biasucci. Pad. Italia

William Kentridge. Pad Italia

Nicola SamorĂŹ. Pad. Italia

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Venezia

Fabrizio PLESSI

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enezia, città d’acqua ha naturalmente ispirato l’artista Fabrizio Plessi in un progetto interamente dedicato a questo elemento naturale. All’Arsenale è stata creata una grande installazione composta dalle Liaüt, le tradizionali barche delle isole baleari, mentre alla Ca’ d’Oro sul Canal Grande (Galleria Giorgio Franchetti) è proposta Liquid life, una antologia di Plessi sul tema dell’acqua.

Palazzo Falier, Venezia

Sean SCULLY

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ra le mostre collaterali alla Biennale una delle più affascinanti sia per la bellezza delle opere che per il prestigio della location, Palazzo Falier, sul Canal Grande, è quella dedicata all’artista islandese Sean Scully. La mostra dal titolo “Land Sea”, curata da Danilo Eccher e commissionata dalla Fondazione Volume! di Roma, consta di una vasta selezione di nuove opere, molte delle quali su scala monumentale e realizzate appositamente per l’occasione, offrendo

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Palazzo Flangini / Venezia

Lena LIV Lindi NSINGO

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ancing makes me joyful è il titolo di un progetto, che, l’artista contemporanea Lena Liv (nata in Russia, vive e lavora a Pietrasanta) e la danzatrice/coreografa Lindy Nsingo (Nata in Zambia nel 1987 e cresciuta tra Belgio e Sudafrica, vive a Londra) hanno presentato, in concomitanza con la 56ma Biennale di Venezia, a Palazzo Flangini sul Canal Grande. Si tratta del risultato di una collaborazione lunga un anno, composta di quattro installazioni multimediali di Lena Liv. La serie consiste in tre “costruzioni che vivono di luce” in un grande pastello, un video di documentazione della danza di Nsingo ed una coreografia site specific, scaturite dall’incontro delle due artiste, un anno fa, a Villa di Corliano, in Toscana, per esplorare i concetti di danza in quanto indagine dell’interazione reciproca tra il corpo ed il movimento, il mondo e gli esseri umani. Questo complesso gruppo di lavori di Liv esplora idee sulla migrazione, sul danzatore come metafora, e concetti presocratici riguardanti un’essenza universale. Fulcro della serie è il primo luogo d’incontro, la villa sontuosa dove Liv ha documentato la performance di Nsingo. “Nei suoi lavori, le immagini emergono misteriosamente dal loro contesto: in tutte le opere monocromatiche l’oscurità allude alla luce e nelle opere luminose policrome - la luce non illumina la materia delle cose, ma diventa materia stessa. Quindi le opere fotografiche sembrano essere dipinti e le pitture sembrano essere fotografie, l’oblio racconta la memoria e la memoria è l’oblio. La danza, un attimo effimero diventa icona del mistero dell’esistenza.”(Maura Reilly in catalogo - Editor Sally Brand). In risposta a questi lavori Lindy Nsingo, che ha creato uno straordinario movimento estetico che parla del primordiale desiderio umano

di appartenere ad un mondo in continua rotazione, ha presentato, in anteprima mondiale, la sua coreografia site-specific “Danging Makes Me Joyfull”. Su una pedana girevole ha danzato, trasformando il suo corpo (non certo esile) in un pensiero fluttuante, sinuoso e lieve: un inno alla gioia ed alla bellezza. Il suo lavoro, innovativo, audace ed atletico l’ha portata a realizzare una serie di collaborazioni con artisti visivi di fama mondiale come Shaun Gladwell e Trey Ratcliff. La famosa danzatrice Pina Bausch pensava alla danza come necessità esistenziale, così come lo è creare per Liv e Nsingo: un bisogno quotidiano, una cura per tentare di affrontare la complessa eterogeneità dell’esistenza. Nel testo che accompagna l’evento Angela Madesani, tra l’altro, scrive: “Platone legge nella danza un avvicinamento all’armonia universale, lo scrittore Luciano da Samosata la interpreta come un dono divino, nato dall’amore, che ha avuto origine nelle danze cosmiche degli astri, dal moto dei cieli e dalla loro armonia. (...) Attraverso il gesto, il movimento, il danzatore indica i sentimenti, le umane passioni. Il movimento nello spazio della giovane donna, di origine africana, sottolinea i diversi stati d’animo che popolano le nostre vite: l’angoscia, il piacere, la paura, la calma.” (L.S.)

un’affascinante visione del lavoro recente di Sean Scully, protgonista indiscusso della pittura astratta. Alcuni dei pezzi più importanti, appartenenti alla serie Doric, sono possenti composizioni su alluminio, in cui l’esplorazione di motivi architettonici si confronta con l’intensità del colore ed, inoltre, opere scelte dalla serie Landline. Queste ultime composte da larghe fasce orizzontali di colore blu, grigio e verde che paiono librarsi una sull’altra e in cui il senso del movimento viene reso quasi palpabile dalle vene di colore che sembrano trattenere lo spettatore in uno spazio incerto. Come dice Danilo Eccher: “I dipinti presenti in questa mostra emanano un certo senso di storia pur rimanendo decisamente contemporanei. Creano un equilibrio fra la rigida geometria e la romantica genuinità della pittura paesaggistica.” Le opere, infatti, si rifanno a una lunga tradizione di pittura Veneziana, dal luminismo di Tintoretto al tonalismo di Bellini e alla materialità cromatica di Tiziano, pur insistendo sul rigore del concettualismo contemporaneo. A proposito di questa mostra, Sean Scully ha osservato: “Nel realizzare questi dipinti ero concentrato sui miei ricordi di Venezia, il movimento dell’acqua col suo battere contro mattoni e pietre della città. Quando sono nel mio studio a sud di Monaco di Baviera spesso prendo l’auto e guido per alcune ore fino a Venezia. Ed era con le impressioni raccolte durante tali viaggi che tornavo nello studio. Riportavo i miei ricordi di Venezia nelle opere che dipingevo.” Catalogo Skira. (L.S.)


biennale di venezia EVENTI COLLATERALI

Palazzo Fortuny, Venezia

PROPORTIO Quali siano i fattori che fanno delle mostre a Palazzo Fortuny degli appuntamenti imperdibili tra la messe di proposte, previste per l’appuntamento biennalesco, è difficile da stabilire. Senza dubbio la cornice, il fascino insieme sontuoso e decadente della residenza veneziana, dove il contenitore, prima ancora del contenuto, reclama per sé una parte consistente dell’evento. E, non in subordine ma parimenti, la densità concettuale del tema scelto, il rigore curatoriale, la rarefatta sintonia tra la collezione del palazzo e le opere a essa relazionate. In altre parole, è la formula “Vervoordt”, quella del collezionista/gallerista/flaneur belga, già collaudata con Artempo, nel 2007, In-finitum, nel 2009, TRA, del 2011, e con l’unica antologica, Tàpies. Lo Sguardo dell’artista, del 2013, che ne ha interrotto solo temporaneamente il format. Fedele alla scansione biennale, l’eclettico Axel Vervoordt, coadiuvato da Daniela Ferretti, firma “Proportio”, una mostra che s’imbatte nell’atavico e molto occidentale problema della proporzione nelle cose e nella natura, dell’armonia universale e di quanto ancora connette la manifestazione dell’essere al ritmo e alla regolarità dei fenomeni. E che sia mediamente una questione tutta interna all’antropocentrismo, anche se ci poniamo nella liquidissima e tuttora postmoderna dimensione contemporanea, lo dimostra Bill Viola con il suo video doppio, dove un uomo visibilmente appesantito dal male di vivere si contrappone alla sua anima ben più ilare e spensierata. Sorprendentemente distante da morfologie umane, spicca un Giacometti, non rappresentato dalle scarnificate e prevedibili sagome ma da un blocco informe dove il corpo è scomparso. Ricompare in una modalità sofferta nelle anatomie imperfette e dolenti di Berlinde De Bruyckere o si dà per parti, nella testa di Marisa Merz, o per evocazioni blasonate, nel video di Susan Kleinberg intorno al Kairos del Louvre, o in una morfologia incompleta con Antony Gormley. Se Anselm Kiefer si ostina nel suo proposito di rappresentare il cosmo in un’accezione di ciclica distruzione e ricostruzione, Anish

Kapoor tinge la correlazione armonica di una sfumatura mistica e imbastisce giochi percettivi con le sfere, in cui l’assorbente concavità si fa metafora di un assoluto primigenio. Non sfugge il peso dei rapporti matematici in architettura, assunto primario dell’itinerario espositivo, che consegna lo spettatore ‘nelle sacre dimensioni’ progettate con materiali organici da Jorgen Hempel, ossia volumi di maleodorante approccio olfattivo ma di rigoroso impatto visivo. E non solo, visto che la questione è ripresa e approfondita, grazie alla presentazione di pregevoli testi di culto, nella grande biblioteca “ideale” con edizioni antiche dei trattati di Vitruvio, Dürer, Alberti, Serlio, Palladio e Scamozzi ma soprattutto con i modelli di Le Corbusier, Erwin Heerich, Ilya e Emilia Kabakov e Richard Meier. Affini, sebbene circoscritte all’ambito plastico e pittorico, le investigazioni di artisti minimalisti o di antichi maestri. Per esempio, nelle vedute architettoniche dei maestri olandesi, nel ritratto di Botticelli, in una scultura monumentale di Antonio Canova o nelle declinazioni fascinose della fornitissima Wunderkammer. Salendo, l’atmosfera si rarefa, illuminata da opere fondamentalmente bianche, dove con Ad Ryman, Agnes Martin, Kees Goudzwaard, Ann Veronica Janssens e Norio Imai, Massimo Bartolini, la spinta alla ricerca della regolarità diviene meditazione razionale, pura e geometrica corrispondenza, affrancata dalla consistenza materiale delle cose. Il ‘mood’ metafisico si rafforza nel padiglione wabi dell’ultimo piano, destinato ai coreani Chang-Sup Chung e Chong Hyun Ha, interessati semplicemente a disporre forme in una mimetica o quantomeno discreta relazione con l’ambiente. Ci pensa Marina Abramovic a movimentare ‘acusticamente’ lo spazio con “Ten thousand stars”, installazione sonora al servizio del pubblico che, in cuffia, può ‘ascoltare’ il silenzio delle galassie e predisporsi alla riformulazione degli interrogativi universali. Per esempio, se abbia ancora senso ipotizzare un ordine dell’universo, un’idea di bellezza esprimibile in rapporti numerici, o se sia meglio rassegnarsi all’evidenza di un uomo sempre meno misura di tutte le cose. Marilena Di Tursi

Giardino dell’Eden / Swatch Pavillion

Joana Vasconcelos Un'esperienza paradisiaca

L'installazione Giardino dell’Eden è parte del padiglione progettato dal Joana Vasconcelos Studio per accogliere il sorprendente Eden, realizzato attraverso l’utilizzo di fiori artificiali e luci. I fiori emergono da cilindri rivestiti di Lycra nera. All'interno dei cilindri luci, motori sincroni e dischi policromi trasparenti attivano attraverso i fiori un effetto di luce, creando l'illusione di movimento, e suoni meccanici che riproducono versi di insetti o una brezza leggera. Tali suoni meccanici diventano la base per una composizione musicale di arte elettronica di Jonas Runa che ha inoltre composto la performance elettronica Synchronicity, sulla base di Strumenti invisibili: sensori di rilevamento del movimento collegati a fonti di suono e luce – l’effetto ottenuto è di psicocinesi, metonimia o sinestesia. L'abitante di questo giardino mitologico indossa un costume elettroluminescente progettato dalla Vasconcelos. L'installazione si pone come un negativo della nozione classica di giardino. In opposizione al concetto di simulacro, il sentiero attraverso questo inaspettato Eden a bassa tecnologia rivela l'artificialità palese dei fiori e della luce che lo illuminano.

Il Giardino dell’Eden necessita per la sua presentazione di uno spazio interno privo di luce e attraverso il suono meccanico di centinaia di motori in azione, genera un sabotaggio onirico dei meccanismi di iper-realtà e simulacro. Rappresenta un ideale scrigno del tesoro, attraverso un ambiente onirico, una misteriosa esperienza, inquietante e magica, lungo un percorso che ogni visitatore sentirà come proprio, per le caratteristiche interattive della installazione stessa, come metafora di come ogni momento sia unico per la persona che lo vive. n ESTATE 2015 | 253 segno - 39


Mario Merz, 74 gradini riappaiono in una crescita di geometria concentrica, 1992. Gradini in pietra, tondino in ferro e strutture angolari, 8 igloo, ciascuno: 430 x 430 x 210 cm. Courtesy Galerie Tschudi, Zuoz.

Accademia di Belle Arti, Venezia

Mario Merz il posto sicuro della chimera di Umberto Palestini

N

el 1985 e nel 1990 Mario Merz realizza due gioielli editoriali per la raffinata e sapiente cura di Beatrice Merz: e . I volumi accompagnano mostre, progetti esemplari che vedono Harald Szemann e Amon Barzel in cabina di regia accanto a Merz. Nelle prime pagine del primo l’artista scrive: “L’arte è la chimera, della fuga in avanti e delle fughe dispersive di caccia di spavento di tutto ciò che va e non ritorna, nasce la letteratura. L’arte usa delle cose che vanno irresistibilmente e le rinnova con fili visibili in sculture opere quadri dove è possibile ritrovarsi nel posto sicuro della chimera che si chiama arte.” Nel finale del secondo annota: “Questa arte nega la nostalgia ma conserva magicamente e magnanimamente il passato nell’essere furiosamente presente”. Due pensieri che possono introdurre perfettamente un itinerario in cui le stanze, che fino a poco tempo fa ospitavano i laboratori dell’Accademia di Belle Arti di Venezia, diventano palcoscenico perfetto per la straordinaria, recente mostra di Mario Merz, , curata da Bartolomeo Pietromarchi. Venezia, essa stessa città irreale ammantata dai bagliori del sogno, diventa per l’artista un approdo dove i temi a lui sempre cari dei valori etici, dei

delicati equilibri tra natura ed artificio, delle nuove prospettive di una esigenza partecipativa che investe l’habitat e la città nel suo complesso risuonano con una forza inedita proprio in virtù dello spirito del luogo che le accoglie. Nelle sale dove per lunghi anni artisti come Emilio Vedova si erano impegnati a portare avanti il sogno chimerico della formazione all’arte, Mario Merz fa approdare opere dove l’interrogazione del concetto di spazio diventa centrale. Supporti metallici accolgono poetiche scritte al neon, impermeabili vengono trafitti da tubi luminosi, igloo dalle forme primordiali dialogano con disegni che richiamano tradizioni rinascimentali, spirali di cera ridefiniscono il concetto di superficie mentre forme elicoidali esprimono forze in eterno conflitto fra movimento ascendente o discendente. Gli elementi naturali e le architetture formali diventano quei “nuclei iridescenti di energia” come ha scritto Germano Celant. Una mostra inappuntabile, piena di una segreta armonia che si traduce in un inatteso e gradito approdo dentro il frastornante e convulso carosello di suggestioni che ogni Biennale porta con sé. è una mostra importante per la qualità delle opere selezionate, ma è anche fondamentale perché rappresenta una sorta di generoso passaggio di testimone tra uno spazio votato storicamente alla formazione, come quello di una Accademia, e uno “spazio sicuro” diventato dimora per quella “chimera che si chiama arte”. Dove il tempo non si sottomette alle lusinghe malinconiche e nostalgiche del passato, ma traduce il passato attraverso un’opera “furiosamente presente”. n

Mario Merz, Fulmine in tazzina, 1990. Tavoli in metallo, tazza, bamboo, lana di ferro, neon, pietre, argilla, 350 h x 600 x 350 cm circa Collezione Merz Veduta della mostra Mario Merz. Città irreale, Gallerie dell’Accademia, Venezia

Veduta della mostra Mario Merz. Città irreale, Gallerie dell’Accademia, Venezia

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biennale di venezia EVENTI COLLATERALI

Palazzo Grassi e Punta della Dogana

Slip of the Tongue Martial Raysse on è una mostra per visitatori distratti “Slip of the Tongue”, nel museo veN neziano di Pinault a Punta della Dogana.

Già il titolo rinvia ad errori, inciampi, ferite, anche. Il lapsus che secondo Freud rivela allarmi o problemi dell’inconscio. Ma qui deragliamenti e scambi di senso fanno parte della ricerca del curatore. Che è un artista, il celebrato vietnamita Danh Vo, 40 anni, portatore di un neoconcettualismo che fermenta emozioni. Assume oggetti, frammenti, reperti, immagini dalla memoria per ricomporli in forme mutanti e in significati cangianti. Ora ha scelto di spargere una ventina di suoi pezzi fra le opere di una quarantina di altri autori di tempi e generazioni diverse, con innesti di antico dalle Gallerie dell’Accademia e dalla Fondazione Cini. Compone così una sorta di autobiografia interiore dialogante con altre esperienze dell’arte, all’incrocio di condizioni umane. Emblematico lo svuotamento del primo salone con emergenze diradate ai margini.All’inizio miniature e iniziali di codici medievali tagliate dalle loro pagine, un cutting della bellezza destinata al mercato. In fondo, sospeso nel vuoto, un grande lampadario ottocentesco: stava nel salone di un hotel a Parigi nel quale fu firmata nel 1973 una illusoria pace per il Vietnam, Danh Vo lo ha recuperato come “monumento”. Un altro filo rosso è l’omaggio reso ad artisti gay (come lui) che hanno vissuto drammaticamente la loro omosessualità: da Martin Wong, personaggio gay dell’underground newyorchese, a Peter Hujar e il suo compagno Paul Thek, al più famoso Felix Gonzalez-Torres, tutti morti di aids. Relazioni segrete e storie sommerse dell’arte dai Sessanta ai Novanta sono segnalate con autori come Broodthaers, Fischli & Weiss, Roni Horn, Bertrand Lavier, Zoe Leonard, Charles Ray, Andres Serrano. E diversi italiani, Manzoni, Fabro, Lo Savio, Uncini, Carol Rama. L’artista include nelle sue trame nomi storici come Picasso e Brancusi (senza dire di Tiziano e Bellini).

C’è anche un drammatico torso di nudo femminile di Rodin. Ma tra scarti improvvisi il cuore della mostra sta negli onori resi a due artiste americane scomparse che hanno interpretato con coraggio femminista le rivoluzioni-emancipazioni dei Sessanta, Nancy Spero e Lee Lozano. Dunque memorie delle neoavanguardie nutrono i lapsus dell’immaginario frammentato e allucinato della sua generazione. Un rapporto fra passato e presente ben più sofisticato di quello che rivendica a Palazzo Grassi un veterano come Martial Raysse con una retrospettiva – la prima in Italia - di ben 350 opere. Il quasi ottantenne artista nizzardo è stato negli anni Sessanta un protagonista della rivoluzione pop in Europa. Spettacolari invenzioni interdisciplinari (fra cui film d’ironia sperimentale). Ritagli e assemblaggi di ingrandimenti fotografici/serigrafici di belle donne del mondo mediatico (ma anche di Ingres) in tinte sonore e fluorescenti, integrati da profili al neon di labbra o cuoricini e da inserti oggettuali, piume, penne, fiori, ma anche insolenti mosche. “Icone” di grande impatto, rivali della Marylin di Warhol. Poi, dopo una lunga crisi ai limiti della sparizione, Raysse ha praticato un “ritorno alla pittura” che strizza l’occhio con fare tra il grottesco e l’amaro alle virtù del passato (fra i suoi amori Tiziano, Tiepolo) con teleri di affollamento scenico, “ritratti”, sculture in bronzo. Lui nega che di “ritorno” si tratti. Rivendica continuità pur sparlando di Picasso e di Pollock. Ma all’ottimismo pop, oggettuale ed ironico dei Sessanta è subentrata una visione vagamente surreale di pittura con colori aciduli e smorti, aria di falsa festa o da mascherata triste. Ci sono parecchi motivi insomma per dubitare sulla coerenza fra il protagonista eccentrico del nouveau realisme di Pierre Restany, e l’evocazione – compiuta con stile - di fantasmi della bellezza dimenticata. Smaltito il Sessantotto, il suo - dice - è “un pessimismo rasserenato”. Pietro Marino

There is no place like home, Lunch, Stefano Arienti e Luigi Presicce, Isola delle Vignole, Venezia 2015

Isola delle Vignole, Venezia

There is no place like home d introdurre la Biennale di Venezia, There is no place like home, il A project-artists romano, ha scelto come

luogo di convivio e dialogo tra artisti la Polveriera dell’Isola delle Vignole a Venezia con un pranzo pic-nic. Un luogo incantato, sede dell’azienda agricola Orto delle Vignole di Guia Camerino, ha accolto i commensali tra prati di margherite e boschi di acacia per trascorrere delle ore a degustare il cibo tipico della laguna (carciofi compresi: colti, fritti e mangiati) e del buon vino bianco. Un’occasione d’incontro, un convivio di idee in un’atmosfera fuori dal tempo. Tra gli artisti presenti: Josè Angelino, Stefano Arienti, Micol Assaël, Loredana Di Lillo, Flavio Favelli, Goldschmied & Chiari, Thomas Hutton, Emiliano Maggi, Gianluca Malgeri, Jorge Peris, Alessandro Piangiamore, Luigi Presicce, Andrea Salvino, Corrado Sassi, Lorenzo Scotto di Luzio. Le azioni di alcuni artisti partecipanti hanno colto di sorpresa i commensali: la raccolta di cd di Stefano Arienti messa a disposizione del pubblico in un luogo appartato, musica da poter scegliere, ascoltare e da portare a casa; il testo di Flavio Favelli distribuito cavalcando la memoria di una lettera privata del 1976 scritta da un centro d’igiene mentale; Goldshimied & Chiari sono approdate sull’isola, quasi irriconoscibili, travestite da vecchie signore con tanto di bastone e fazzoletto in testa; il dialogo canoro tra gli strumenti a fiato di Emiliano Maggi e gli uccelli del posto. E poi un nano vestito da Joseph Beuys invitato da Corrado Sassi pronto a sussurrare le più incisive frasi dell’artista tedesco; Lorenzo Scotto di Luzio, chino su una vecchia sedia, ha ricomposto i tessuti componendo la scritta “Ciao”, ricordando l’origine veneziana del termine “s’ciao” con cui venivano chiamati gli schiavi, dal tardolatino sclavus. Tra i campi di carciofi in piena stagione, una lunga scia di pellicola verde di Alessandro Cicoria pronta ad imprimere durante la giornata forme e sagome di fiori, foglie e carciofi. Il pranzo è stato organizzato da There is no place like home. Gli artisti organizzatori Alessandro Cicoria, Stanislao Di Giugno, Giuseppe Pietroniro, Daniele Puppi, Marco Raparelli; coordinatrice del progetto Giuliana Benassi. Il progetto è stato realizzato in collaborazione con l’Associazione Culturale Vitoria Gasteiz; grazie al contributo di NEO COMUNICAZIONE (Main Sponsor), KESS Scale models (Sponsor) e Abbazia di Propezzano (Sponsor Tecnico). (R.S.) ESTATE 2015 | 253 segno - 41


Triennale, Milano

Arts & Foods Rituali dal 1851 di Simona Olivieri

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rts & Foods. Arti e cibi. Una mostra che è il racconto della relazione e dell’essenza del cibo attraverso le arti. Dai sui rituali agli oggetti, dai luoghi ai consumi, fino a diventare esso stesso soggetto narrante. Sono questi gli ingredienti della mostra, in Triennale, Arts & Foods. Rituali dal 1851, curata da Germano Celant e allestita da Italo Rota. Un percorso che partendo dal 1851 anno della prima Esposizione Universale a Londra - arriva ai giorni nostri, passando attraverso diversi temi e differenti arti e attori. Sono molteplici i livelli di lettura, che rendono tutta la complessità di questa relazione, con implicazioni simboliche, concettuali, antropologiche, sociali e materiali, in una intreccio molto complesso e articolato. Un viaggio nelle visioni e nell’immaginario che il cibo ha generato in questi quasi due secoli. Cibi e arti. Da rito borghese a problematicità nel contemporaneo. Un percorso espositivo che è una visione bulimica, o probabilmente molto generosa, che lascia qualche dubbio per la sovrabbondanza di messaggi e di piani di lettura differenti ma che sicuramente è in grado di sollecitare il pubblico stimolandolo a riflessioni e spunti nuovi anche in prospettiva della visita ad Expo. “Arts & Foods traccia un percorso storico e multidisciplinare”, dice Celant durante la conferenza stampa, “sui rituali legati al cibo, alla sua distribuzione, alla sua preparazione e al suo consumo. Dai mercato alla cucina, dai bar ai ristoranti, dagli utensili al vasellame, dal packaging agli elettrodomestici, tutto è raccontato attraverso la voce narrante dei grandi protagonisti della pittura, dell’architettura, del design, della fotografia, della moda, della letteratura, del cinema, della televisione, della musica,… un’esperienza totale, una continua stimolazione visiva ma che coinvolge anche tutti i sensi”. La mostra si sviluppa su una superficie di 7mila metri quadrati, distribuendosi sui due piani dell’edificio della Triennale e nel suo giardino. Segue il filo rosso del racconto cronologico, suddiviso poi in una serie molto ampia di tematiche. Sono più di 1500 le opere presenti che saranno le interpreti di questa storia. Dipinti e sculture, arredi e oggetti di design, elettrodomestici, fotografie e documenti, spezzoni di film e clip televisive, manifesti pubblicitari, giochi per bambini, abiti, copertine di dischi e libri di cucina, menù, stazioni olfattive e sonore e molto altro. La prima parte del percorso - a piano terra - è dedicata alla storia che va da metà Ottocento alla Prima Guerra Mondiale e ai rituali della nuova società borghese. Troviamo i luoghi deputati al mangiare, le sale da pranzo, ricostruite in scala 1:1, differenti

per epoche storiche e condizioni sociali, dalla tavola dei contadini alle sale da pranzo degli aristocratici e dei borghesi; dai caffè di primo Novecento ai bar. C’è la sala da pranzo di casa Cimino arredata da Gerardo Dottori degli anni Trenta, lo sfarzoso bar Liberty con manifesti della Campari di Dudovich. Troviamo quadri - coevi - che hanno moltissimo da dire sul cibo, con nature morte, scene d’interno e picnic all’aria aperta, la malinconica Colazione in giardino del 1883 di De Nittis o la Colazione a mezzogiorno di Nomellini che segnalano la moda del picnic o Asfissia di Morbelli del 1884 che descrive un interno domestico. Così, come due Ensor, un piccolo gioiello di Gau­guin o le due nature morte di Segan­tini e una di Bra­que. Solo per citarne alcuni. Ci si può aggirare e soffermarsi sulle moltissime vetrine che sono punti di focalizzazione sulle trasformazioni in atto, con oggetti sempre più complessi e complicati. Un percorso nella storia e nel ricordo, non è difficile infatti trovare oggetti del nostro quotidiano. Un salto nella memoria collettiva. Un altro tema è il cibo che accompagna nei viaggi, dagli autogrill alle posate che sfidano la gravità nelle prime navette spaziali, passando per tutti quegli oggetti e set che hanno liberato dal rito della tavola apparecchiata in modo tradizionale. Poi, il mercato, attraverso le tappe che lo hanno trasformato nella sua versione di massa, arrivando poi al supermercato illustrato nelle immagini di Andreas Gursky. O ancora la storia dei cuochi e della loro creatività, dal ritratto di Chef Père Paul di Claude Monet alle trasmissioni televisive di oggi. Letture e piani differenti. Televisori che proiettano spezzoni di film collocati nella parte alta delle sale, obbligando lo sguardo ad alzarsi e lo spettotare a fermarsi per concentrarsi su ciò che succede, l’intenzione è quella di non proporre un solo elemento alla volta, ma di avvolgere i presenti in un’esperienza completa, unica. Il ritmo in questa prima parte è incalzante, vorticoso, lo sguardo è continuamente sollecitato, gli oggetti si susseguono e si sovrappongono, si alternano a quelli del percorso pensato per i bambini - brevi deviazioni con passaggi abbassati e oggetti esposti all’altezza dei loro occhi - con molte opere di Warhol. Si è rapiti da imbarcazioni storiche attrezzate per il trasporto del cibo e delle spezie o dalla parete allestita con gavette di ogni parte del mondo che dice del rapporto con il cibo in condizioni ostili come durante le guerre. E, ancora, qualche richiamo antropologico, dai rituali dell’Oriente ai riti cannibali dell’Oceania - con relativi strumenti e documentazione. La mostra procede poi con una piccola deviazione nel Giardino con la fontana di De Chirico appena restaurata che si relaziona ad un enorme bottiglia di Ketchup gonfiabile. Sempre a piano terra troviamo la seconda sezione della mostra dove viene analizzato il periodo tra il Secondo Dopoguerra e gli anni Ottanta. Qui il soggetto diventa la società dei consumi. Si celebra la Pop Art. L’unica opera presente nella navata centrale della Triennale, è il botteghino di cibo da strada di Tom Sachs con l’insegna di McDonald’s, che annuncia questo cambio di prospettiva: se, nella sezione precedente il rapporto con il cibo era quello dell’ospitalità e della convivialità, in questa seconda parte il fee­ling tra uomo e cibo sembra inter­rom­persi, diventando conflittuale e l’arte non può che prenderne atto. Cambiano anche la logica e la modalità dell’allestimento, gli spazi sono molto più larghi, quasi vuoti (se paragonati alla parte precedente) e i piani di lettura sono limitati al gioco interrotto con il cibo che da nutrimento diventa comunicazione / pubblicità / opera svuotato del suo primario significato. Ci sono opere di Warhol, Oldenburg, Wesselman, ma anche di Schifano, Roy Lichtenstein e Mimmo Rotella, con un flusso continuo di pubblicità televisive e serie fotografiche, da Mulas a Ghirri, da Italo Zannier a Nino Migliori. Il cibo diventa elemen-

Andreas Gursky, 99 cent II, 2000, Andreas Gursky, Dusseldorf, © Andreas Gursky, VG BILD-KUNST, Bonn Arman, Artériosclérose, 1961, Accumulation of forks and spoons in box, Dimensions: 18.3 x 28.5 x 3 in. (47.5 x 72.5 x 7.5 cm.), Unique and Original, Arman, Studio Archive Number: APA# 8002.61.005

Theo van Doesburg, Café de l’Aubette, 1926-1928 Rotterdam, Collection Het Nieuwe Instituut Charles Rennie Mackintosh, Fish knife and fish fork for Charles Rennie Mackintosh and Margaret Macdonald Mackintosh, 1902-1904, Ó The Hunterian, University of Glascow , Glascow 2015

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Nikolai Mikhailovich Suetin, Coffee pot, 1923, Tsarenkov Collection, Londra

Virgilio Forchiassin, Spazio Vivo, 1968 Snaidero Rino SpA, Udine

Daniel Spoerri, Le coin du Restaurant Spoerri, 1969, Museo Vostell Malpartida, Gobierno de Extremadura, Spagna, Ó Mondadori Portfolio, Milano/Akg Images Wahaika, ascia-coltello (spacca-fegato), proveniente dalla Nuova Zelanda, 1887, Museo Nazionale Preistorico Etnologico Luigi Pigorini, Roma, Ó S-MNPE-L.Pigorini, Roma-EUR-su concessione del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo

Georges Braque, Natura morta con clarinetto, grappolo d’uva e ventaglio, 1911 ca., Soprintendenza alla Galleria d’arte moderna e contemporanea, Roma, Archivio Fotografico

Joe Colombo e Ambrogio Pozzi, Set prima classe Alitalia, 1970-1972, courtesy Alessandro Pedretti Design Collection

Tom Sachs, Nutsy’s McDonald’s, 2001, Vanhaerents Art Collection Brussels, Londra/Bruxelles, copyright of Tom Sachs Issey Miyake, Pleats Please, 2008, Rue des Archives/FIA/www.bridgemanart.com, ©ISSEY MIYAKE INC

Andy Warhol & The Velvet Underground, The Velvet Underground, 1966-1967

Jean Prouvé, La Maison des Jours Meilleurs, 1956, Galerie Patrick Seguin, Parigi Claude Monet, Der Koch (Le Chef Père Paul), 1882, Ó Mondadori Portfolio, Milano/www. Bridgemanart.com

Mimmo Rotella, Arachidina, 1963, Collezione privata, Milano, Fondazione Mimmo Rotella/Foto: Alessandro Zambianchi, Simply.it srl, Milano

Gerardo Dottori, Sala da pranzo di Casa Cimino, Collezione privata, Archivio Gerardo Dottori, Perugia

to artificiale, prodotto industriale. La scena cambia ulteriormente salendo al primo piano, dove è l’arte dell’ultimo quarto di secolo a dominare, con installazioni e tematiche più simboliche, suggerendo una cultura del cibo difficile e malato. Nelle fotografie, nelle tele e nelle istallazioni di questa parte finale della mostra si raccontano anche i problemi attuali legati all’alimentazione come la bulimia e l’anoressia. Il cibo è allora feticcio e mate­ria prima per gli arti­sti. Apre il percorso il Big Big Mac di Tom Friedman (davanti al quale tutti si fotografano). Troviamo, poi, la grande capanna fatta tutta con pezzi di pane di Urs Fischer, la tavola con avanzi di Spoerri, Marina Abramovic in un video che piangendo divora una cipolla, il tavolo con cozze di Broodthaers, la casa-pesce di Gehry. Non mancano opere di arte povera e i suoi interpreti come Il pane alfabeto del 1969 di Penone, l’igloo rivestito di croste di pane di Merz, i bilancini con caffè di Kounellis, e poi Beuys con Olivestone. Le variazioni alla leonardesca Ultima Cena, con Warhol, Serrano, Vik Muniz, fino alla tavolata di donne di Vanessa Beecroft. Un po’ spaesati appaiono invece gli esempi di arte relazionale e nomade di artisti orientali come Rirkrit Tiravanjia con la sua auto-furgone per cucinare in com-

pagnia e Subodh Gupta con la bicicletta come negozio ambulante. Ci sono anche i dodici gnomi da giardino imprigionati in blocchi di cioccolato di Dieter Roth. Chiude il percorso la “mozzarella in carrozza” di De Dominicis. Que­sta è certamente una mostra dove il cata­logo (Electa Edizioni), di oltre ottocento pagine, ha una fun­zione importante e dove riflessioni, approfondimenti e immagini aiutano il lettore ad una comprensione più ricca e meno scontata dei fenomeni legati al cibo. Quando il percorso sembra ultimato ci si accorge che - sempre al primo piano - entrando al Triennale Design Museum - c’è una seconda mostra connessa alla prima e dedicata alle cucine moderne e agli elettrodomestici che le compongono, firmata dallo stesso Celant e da Silvia Annicchiarico e allestita sempre da Italo Rota, dal titolo Cucine & Ultracorpi, il titolo prende spunto dal libro di Jack Finney L’invasione degli ultracorpi, dove elettrodomestici da cucina, dai frigoriferi al microonde, dalla caffettiera al contaminuti, ai bollitori, ai mixer, alle gelatiere,… diventano gli elementi narranti di un invasione di “ultracorpi”. Un percorso sulla trasformazione degli utensili da cucina in macchine autonome che sembrano poter sostituire l’essere umano. n ESTATE 2015 | 253 segno - 43


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Terrazze del Duomo, Milano

Tony CRAGG Dialogo con il Duomo di Simona Olivieri

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a qualche tempo le sculture di Tony Cragg osservano la città di Milano dall’alto, dalle Terrazze del Duomo. Anticipata da Paradosso dello stesso artista, Dialogo con il Duomo, commissionata dalla Veneranda Fabbrica del Duomo, è una mostra unica nel suo genere. Arte contemporanea che si mette in relazione con l’architettura gotica della Cattedrale milanese. Paradosso è una scultura in marmo ispirata alla Madonnina. Collocata all’interno della Cattedrale dove idealmente accoglieva tutti coloro che vi entravano è rimasta visibile fino a fine marzo ed è stata poi spostata nel punto più suggestivo della città, le Terrazze appunto. Una scultura di quasi tre metri, in marmo bianco. Una colonna tortile dalle fattezze morbide, dalle linee armoniose e dalle forme che si aprono a più interpretazioni. Emozioni scolpite nella materia. Relazione, quindi, tra forma e materia e tra autore e spettatore, questa la ricerca di Cragg, che ingaggia con i luoghi che lo ospitano e con chi osserva le sue sculture dialoghi profondi, capaci di attivare nello spazio e nel pensiero narrazioni e racconti pieni di energia. È lo stesso Cragg a spiegare che la scultura dovrebbe darci il senso della relatività di ciò che vediamo e, la consapevolezza che oltre c’è qualcosa che possiamo solo percepire. E forse il paradosso - del titolo - sta anche nella possibilità di leggervi più interpretazioni, lasciarsi ispirare dalle sensazioni e dalle emozioni, dare un senso a quello che si osserva per cambiarlo al cambiare del punto di vista. Arte contemporanea, religione,

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potenza e bellezza si affidano quindi alle forme in divenire e all’astrazione plastica della materia dell’artista britannico. Un’ambientazione insolita e decisamente inaspettata per una mostra ma arrivando sul tetto di Milano - dopo aver percorso un lungo e suggestivo camminamento circondati da sculture e gargoyle, pinnacoli di marmo, contrafforti traforati e cielo - si capisce immediatamente come le opere di Cragg siano riuscite a mettersi in relazione con questo Monumento e diventarne parte integrante. Sculture centenarie accostate per la prima volta ad opere contemporanee, costruiscono un dialogo suggestivo aprendosi verso l’infinito. Le curve sinuose, le rotondità della materia nelle sculture del maestro inglese si alternano alle linee verticali dell’architettura gotica del Duomo. Le guglie, così come le spirali di Tony Cragg, sembrano voler toccare il cielo. Dialogano e si confrontano. Un dialogo fatto di forme e ombre morbide, di materia dinamica, in continuo movimento, perché come dice l’artista - “la scultura è movimento, tempo e ritmo”. Materia che dialoga con materia. Passato che dialoga con il presente. Che sia levigata e bianca, o ruvida e nera o - ancora - riflettente e argentea, la materia accarezzata e modellata da Cragg dona alle sue opere una suggestiva forza, una mirabile eleganza. Ogni scultura è un’avventura con un materiale. Realizzate in acciaio (Eliptical Column, 2009), fibra di carbonio (Luke, 2008), bronzo (Ever After, 2006) e fibra di vetro (Split Figure, 2014), hanno forme antropomorfe, ci si può scorgere un corpo, un volto, sono volumi organici - ispirati direttamente dalla natura. E il risultato non può che essere poesia. Un appello a riflettere sulle cose come sono, su come appaiono e sulla loro vera essenza. Alle centinaia e migliaia di forme possibili che possono assumere, perché la realtà è molto più complessa di quello che ci possiamo immaginare. n


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Galleria Lia Rumma, Milano

Anselmo, Laib, Spalletti di Gianmarco Corradi

È

un percorso di nutrimento spirituale la mostra con cui la Galleria Lia Rumma di Milano sceglie di celebrare l’inizio di EXPO Milano 2015. Tre piani, un piano per ogni artista: Wolfgang Laib, Ettore Spalletti e Giovanni Anselmo. L’impatto è subito molto forte, al piano terra dello spazio in via Stilicone, con “The Rice Meals for Another Body” di Wolfgang Laib. Piccole montagne di riso invadono lo spazio e lo spirito con quel qualcosa di universale che contraddistingue l’artista, qualcosa per cui non serve una reale spiegazione. Poi in un lato dell’installazione, sempre circondato da cumuli di riso, si nota un vaso di terracotta nero con dei puntini di calce: “proviene dal terreno vicino al mio studio nel sud dell’India. Protegge il campo e tutti noi da ogni male. Il vaso è anche utilizzato per contenere le ceneri dei morti che vengono poi cosparse nei fiumi.” Il vaso catalizza anche tutte le energie negative dello spazio espositivo. La sensazione, avvicinandosi fisicamente all’opera, è di profonda quiete e distensione della mente, accompagnata da un timore di sottofondo, quello di rompere un equilibrio non solo fisico ma spirituale di una bellezza così delicata e semplice. L’incontro con l’opera di Ettore Spalletti al primo piano è invece una morbida immersione nel colore. “Parole di colore” è un gruppo di tavole di grande formato e occupa tre pareti. Azzurro, rosa e grigio, che per l’artista rappresenta il colore dell’accoglienza, quello che accoglie tutti i colori. Le stesure, mai del tutto monocrome ma varie e complesse, restano dense, e sono il risultato di essiccazioni, stratificazioni, abrasioni, in un esercizio compositivo lento, anch’esso meditativo. Ci si sente protetti dal colore e la mente è ancora più liberata, come in una passeggiata in riva al mare prima di sera, forse quel mare adriatico da cui l’artista trae ispirazione ogni giorno. Un rettangolo blu oltremare caratterizza invece l’ultimo piano della galleria, che ospita due opere di Giovanni Anselmo. In “Oltremare mentre appare all’orizzonte” Anselmo ha utilizzato

Wolfgang Laib, The Rice Meals for Another Body Installation view - Galleria Lia Rumma, Milano, 2015 Courtesy Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli

questo colore “come se fosse una materia, come un lembo o un punto di terra, come una bussola, più che come un colore in senso stretto.” L’artista vuole dire indicare una direzione: “È una indicazione di un altrove che, intorno a noi, si trova in tutte le direzioni.” Nella parete opposta, “La luce mentre focalizza” è una proiezione della parola “PARTICOLARE” sulla parete bianca della galleria. La proiezione acquista un significato: rappresenta un processo in continuo divenire, un flusso continuo di energia, che se si fermasse, se fosse una vera scritta su una parete, non avrebbe poi più nulla da dire. “Io, il mondo, le cose, la vita, siamo delle situazioni di energia e il punto è proprio di non cristallizzare tali situazioni bensì di mantenerle aperte e vive in funzione del nostro vivere. Per me è necessario lavorare in questo modo, perché non so di altri sistemi per essere nel vivo della realtà, che nei miei lavori appunto diventa un’estensione del mio vivere, pensare, agire. n

Ettore Spalletti, Parole di Colore. Installation view – Galleria Lia Rumma, Milano, 2015. Courtesy Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli Giovanni Anselmo, Oltremare mentre appare verso nord est e la luce mentre focalizza. Installation view Galleria Lia Rumma, Milano, 2015. Courtesy Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli

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Hangar Bicocca, Milano

Juan Muñoz Double Bind & Around di Simona Olivieri

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rchitettura e scultura, illusione e realtà. Dialogo e gioco, relazione e solitudine. È un narratore di storie, Juan Muñoz. Ricorre alla figura umana e al teatro per raccontare il suo universo. Una successione di soglie, tra mondi reali e mondi immaginati. Si guarda, si osserva, ci si avvicina, ci si allontana, si tende l’orecchio per ascoltare e immaginare. L’uso di luci e ombre, di disegni a gessetto su tela nera, di sfondi dipinti, crea l’illusione in nuove camere, di mondi differenti da percorrere. Sono luoghi, dislocazioni spaziali, che necessitano di movimenti lenti e fatti con cautela. Muñoz, controlla l’esperienza dello spazio e del tempo, suggerendo storie senza raccontarle mai. Varcata la soglia d’ingresso - pesanti tendaggi neri - le navate dell’Hangar Bicocca appaiono stranamente vuote. Non è una mostra semplice, Double Bind & Around curata da Vicente Todolí. È una mostra che va vissuta. Ti lascia come in sospeso. Come se ti fossi dimenticato - uscendo - di qualcuno o qualcosa. Ma non riesci a mettere a fuoco cosa. Forse non subito. Poi il pensiero torna e si ferma. Mancano le voci, manca il suono che riempie questi enormi spazi. Ma non è una mancanza fastidiosa o obbligata. Non è un silenzio insolente e neanche inospitale, al contrario è avvolgente e invitante. Mancano i codici per capirsi, per mettersi in relazione, è come arrivare in un Paese nuovo dove non si conosce la lingua. Non è reale isolamento, ne mancata relazione. È non aver ancora individuato le parole e i suoni per comunicare. È temporaneo spaesamento. Non c’è, in questi uomini di Muñoz, la reale volontà di allontanare lo spettatore e di isolarlo ma la contrario sembra esserci l’invito ad entrare in relazione, a mettersi in gioco. In questo mondo silenzioso, forse potrebbero salvare i gesti, se si volesse comunicare davvero. Invece ci si aggira un po’ spaventati e spaesati tra questi gruppi di persone che parlano e ridono silenziosamente. Lo spazio sembra moltiplicarsi e quello che vive all’interno di esso ridursi, ma è una sensazione di libertà, è come vivere in un’altra dimensione. In un altro mondo. E non è neanche un silenzio, imbarazzato, vuoto da pensieri e idee. È un silenzio ricco di inviti, sorrisi e mani tese, di pupazzi di ventriloqui che anche se hanno perso la loro voce non smettono di muovere le labbra alla ricerca di un nuovo modo di raccontare. Uno spazio riempito da gesti estremi che ti fanno sussultare il cuore. Ma proviamo a procede con ordine. Dicevo, ci accolgono un silenzio ovattato negli spazi dilatati dell’ex capannone industriale e due prime opere The Wasteland (1986) e Waste Land (1986). Sono riconoscibili per la presenza di un pupazzo da ventriloquo appollaiato su di una mensola e per un grande pavimento composto da una texture geometrica e colorata, giallo nero e grigio. Conversation Piece (1996), è collocato al centro, davanti ai nostri occhi, cinque figure in resina con i corpi imprigionati in sacchi di sabbia. Figure misteriose e volti sfuggenti, sembrano interagire tra loro, dando vita a dialoghi e danze silenziose. Sulla nostra destra, un gruppo di quattro figure quasi identiche, The Nature of Visual Illusion (1994-1997), sembrano saperne più di noi di quello che sta succedendo e ridono tra loro, contro tendaggi grigi e pesanti - dipinti - che non invitano ad essere oltrepassati, suggeriscono solo uno spazio altro però nascosto e inaccessibile, accrescendo così il senso di isolamento. Nessuno si muove. Camminando tra loro ci si sente spettatori e soggetti, parte integrante della performance. Muñoz mette al centro della sua scultura la potenza e l’enigma del corpo umano. Le dimensioni sono solo leggermente inferiori a quelle reali, monocromatiche, color grigio o color cera, in resina o bronzo, l’artista era infatti daltonico quindi dava poca importanza al colore. Con Hanging Figure (1997-2001), Muñoz passa dall’orizzontalità dello spazio all’indagine della verticalità, utilizzando le altezze del capannone. Corpi in posizioni contorte e precarie, sospesi nel vuoto che ruotano incessantemente, appesi a testa

Juan Muñoz, The Nature of Visual Illusion, 1994-1997 (particolare). Resina di poliestere, pigmento naturale, tela, acrilico su tela. Dimensioni variabili. HangarBicocca, Milano, 2015. Foto © Attilio Maranzano. Courtesy Fondazione HangarBicocca, Milano; The Estate of Juan Muñoz, Madrid; MACBA Collection. MACBA Foundation. Private long term loan

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Juan Muñoz, Veduta dell’installazione “Double Bind & Around”, HangarBicocca, Milano, 2015. Foto © Attilio Maranzano Courtesy Fondazione HangarBicocca, Milano; The Estate of Juan Muñoz, Madrid

in giù con una corda alla caviglia, o in bocca che ricordano i corpi dei giustiziati dipinti in Los Desastros de la Guerra (1810-1820) da Francisco Goya (1746-1828) o le incredibili acrobazie da circo come in Degas. Living in a Shoebox (For Diego) (1994), è composta da manichini in miniatura seduti all’interno di una scatola per le scarpe che si muove a intermittenza, sospesi a mezz’aria su rotaie di un modellino per treni, costringendo lo spettatore a stare con il naso in su, ipnotizzato, a seguire questo circuito claustrofobico. Conversation Piece, Dublin (1994), comprende una moltitudine di figure umane anonime, anche questi personaggi sono caratterizzati da strutture sferiche al posto delle gambe e sproporzionate rispetto al busto, surreali biglie antropomorfe, instabili, con occhi chiusi da cicatrici e indifferenti alle persone e allo spazio circostante. Visi che ricordano i volti modellati nella cera da Medardo Rosso, che Muñoz ammirava. Sospensione del tempo, tra un respiro e l’altro. Vagando tra queste presenze mi è venuto da pensare a come avrebbero potuto dialogare con i Palazzi Celesti di Kiefer, divisi solo da un telo nero (questa volta reale) che tanto hanno da dire e urlare nel loro silenzio carico di paure, sottintesi e fragilità - forse - solo apparenti. A questo punto arriviamo a metà della navata e percorso espositivo ruotare attorno a Double Bind, l’ultima installazione pensata e realizzata dall’artista. Istallata nel 2001 alla Turbine Hall della Tate Modern di Londra e mai più riproposta. “L’occasione di una vita, per suscitare meraviglia”, come la definiva il suo autore. Tre piani e due ascensori, in lontananza, che attraversano senza sosta lo spazio. Ci conducono, senza in realtà poterli usare, attraverso tre luoghi diversissimi tra loro, in una scansione verticale che ricorda - come suggestione - un parcheggio sotterraneo. Poca luce, spazi ampi e popolati ma non si sa bene da cosa o chi. In Double Bind la visione parte dall’alto. Da una balconata. Lo spazio è vuoto. Sul pavimento sono segnate geometrie nei toni del grigio e del giallo che scandiscono con regolarità lo spazio. Geometriche malinconie che ricordano le architetture di De Chirico. Sono finestre verso il basso, prospettive, aperture, alcune reali altre solo suggerite, immaginate. Ma ci si rende conto di questa illusione solo da sotto. Scendendo infatti lo spazio è silenzioso e buio, quasi fosse notte, solo i tagli di luce che arrivano dall’alto illuminano debolmente. A metà tra questa oscurità e il cielo grigio, c’è un luogo, nascosto, quasi protetto. Architetture scandite da balconate, balaustre, condizionatori e finestre sbarrate, porte chiuse o solo socchiuse. Una sorta di limbo abitato da figure sfuggenti e grigie. I tratti dei volti sono definiti e allo stesso tempo sfuggenti con sorrisi obliqui e un po’ inquietanti. Sorpresi sembrano nascondersi come fossero stati scoperti a fare qualcosa di sbagliato, o forse sono solo lavoratori in pausa o ancora intrusi alieni. È in questo spazio sospeso che emerge la complessità dell’opera di Muñoz, la sua necessità di far dialogare scultura, architettura e spettatore. Di creare spazi illusori e teatrali. Appunto, di raccontare storie. Double Bind doppio legame tra illusioni ed emozioni, tra interrogativi e smarrimenti. Un mondo di presenze-assenze, di storie senza voce che hanno reso famoso l’artista. Al di là di Double Bind c’è un altro grande spazio, un vuoto di cemento con un’incredibile scala a chiocciola del 1930 in un angolo, e cinquanta figure ferme sul pavimento, Many times (1999). È come entrare nella piazza affollata di una città, a Jemaa el-Fnaa a Marrakech. Una folla brulicante. Figure umane con lineamenti cinesi con sorrisi ambigui in divise da lavoro - forse dei tempi di Mao - ad un primo sguardo molto realistiche, ma poi ci si accorge che sono, anche queste, appena più basse della media, con la testa è piccola, gli occhii chiusi, i corpi sono senza piedi. Sembrano parlare tra loro, ma in verità ognuno parla per sé o forse pensa, riflette. Sono anch’essi personaggi segnati dalla difficoltà di comunicare. E qui, tra questa folla silente, rimbomba lo smarrimento e la solitudine nell’individuo nella nostra epoca. Ma, poi, può succedere che le solitudini - individuali - si incontrino e nascano amori odi confronti, vita. Ora si torna indietro, all’inizio del percorso, riattraversando tutto lo spazio. Si torna al pupazzo che siede su una mensola, le gambe penzoloni con uno sguardo di gioia pazza sul volto. Si trova lì, in attesa, scrutando un vuoto che è un vasto deserto o un immenso mare. Vien voglia di tornare a camminare su quel “vuoto”, sentire se ora ha qualcosa da dirci, o se invece è pronto ad ascoltare. È una mostra che va vissuta - dicevo - e il risultato è destabilizzante, di spiazzamento percettivo in continuo bilico tra illusione e realtà. Di silenzi riempiti di gesti, emozioni e sentimenti. n


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Antony Gormley, HUMAN. Forte di Belvedere, Florence, Italy Photograph by Antony Gormley Courtesy Galleria Continua and White Cube © the Artist

Firenze, Forte di Belvedere

Antony Gormely Human

tà che riporta ad una narrazione soggettiva e contemporaneamente ad una macro storia, patrimonio di tutti. La loro potenzialità, se pur apparentemente bloccata nel ferro, materiale pressoché ignoto alla scultura tradizionale eppure comune nel quotidiano, si esplica nel rapporto con chi guarda e con il luogo dove questi uomini, o i blocchi che compongono certe figure, si fanno spazio in considerazione degli elementi ambientali, storici e naturali presenti, cui sempre rimandano. Nella costante affermazione di concretezza, esperibile da chi osserva queste figure talora scomposte e frantumate, e misurabile nello spazio circostante, si ha la ricomposizione della vita nella sua essenza, nei moti di luce e di oscurità. In Critical Mass II da una parte del terrazzo le dodici figure allineate evidenziano progressivamente il cammino umano e la sua ascesa spirituale, dall’altra il groviglio pesante di corpi evoca le tragedie del secolo appena trascorso e quelle attuali, riportando alla duplicità dell’essere uomo e della storia, tra bene e male, tra progresso e martirio. L’installazione del 1995, originariamente collocata a Vienna in un vecchio deposito di tram, rifletteva sulla storia tedesca, ora riproposta e adattata al Forte di Belvedere acquista una valenza universale, il cui impatto, e forse il suo monito, diventa ancora più forte nello scenario diffuso di tanta bellezza. n Antony Gormley, HUMAN. Forte di Belvedere, Florence, Italy Photograph by Emiliano Cribari Courtesy Galleria Continua and White Cube © the Artist

di Rita Olivieri

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uman di Antony Gormley a Firenze al Forte di Belvedere è una fra le più straordinarie esposizioni realizzate dallo scultore britannico, acclamato nella scena internazionale, sia per il numero di opere installate, oltre cento, sia per il rapporto con lo spazio architettonico e naturale, nello sfondo di un paesaggio urbano dalle caratteristiche uniche e irripetibili. Curata da Arabella Natalini e da Sergio Risaliti, in collaborazione con Galleria Continua e White Cube, suggerisce nel percorso degli uomini in ferro a scala umana l’idea di un nuovo umanesimo dove l’uomo non è più al centro ma è immerso nel mondo, diventato perno di “un’esperienza di esplorazione immaginativa”, secondo le parole dello stesso Gormley, proprio in uno dei luoghi medicei simbolo di potere e bellezza. Gli uomini in ferro punteggiano lo spazio del Forte, ora reso interamente percorribile, dislocati in modo capillare nelle sale interne della palazzina, sui bastioni, sulle terrazze e sulle scalinate in una costante messa in luce della complessa struttura architettonica e della collina, rilette e rivitalizzate dalla scultura di Gormley. La relazione fra i corpi scultorei in pose diverse, in piedi, accovacciati, distesi, seduti, e lo spazio, elemento dalla duplice natura, interiore ai corpi ed esterno intorno ad essi, è denominatore comune di tutto il percorso e fattore generante di molteplici echi nello spettatore. Questi corpi metallici sono -come afferma Gormley – “fossili prodotti industrialmente. Sono tracce di un corpo reale, plasmato o scansionato, e poi costruito; non è una strategia emotiva ma scientifica”; sono espressione dell’ oggi ed emanano campi di energie, risonanze esperenziali, spingendo verso un’interiori-

Antony Gormley, HUMAN. Forte di Belvedere, Florence, Italy. Photograph by Antony Gormley. Courtesy Galleria Continua and White Cube © the Artist

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Anish Kapoor, Descension. Da sinistra, Untitled, 2015. Alabastro, 131,5 x 74 x 35 cm. Untitled, 2015.
Alabastro, 32,5 x 130 x 96 cm. Untitled, 2015. Alabastro,
67 x 55 x 43,5 cm. Untitled, 2015. Alabastro, 120 x 93 x 49 cm. Courtesy the artist and GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins. Photo Ela Bialkowska, OKNO STUDIO

Continua, San Gimignano (Si)

KAPOOR, KOUNELLIS PISTOLETTO, SERSE di Rita Olivieri

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ensa di motivi è Descension, la personale di Anish Kapoor, uno degli artisti fra i più rilevanti della scena attuale, appositamente ideata per la Galleria Continua di San Gimignano. Incentrata sui rapporti spaziali che l’opera compone intorno a sé e, fra gli altri, sul tema del vuoto, rimanda agli eterni problemi della conoscenza inerente l’essere umano, coinvolgendo nell’ambito artistico la filosofia e la religione. Nel lavoro di Kapoor, nella somma astrazione della sua scultura, vi è la ricerca di risposte alle eterne domande dell’uomo, quelle


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Anish Kapoor, Descension. In primo piano, Untitled, 2015.
Alabastro, 32,5 x 130 x 96 cm. Courtesy the artist and GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins. Photo Ela Bialkowska, OKNO STUDIO

Anish Kapoor, Descension. In primo piano, Untitled, 2015. Alabastro, 120 x 93 x 49 cm. Courtesy the artist and GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins. Photo Ela Bialkowska, OKNO STUDIO

che giacciono nel profondo di ognuno. L’arte - come lui stesso afferma - “coincide con il tentativo di andare all’origine di queste domande. E in fondo a queste domande c’è la coscienza, cioè una dimensione che la scienza non riesce a definire, ad afferrare compiutamente. L’arte è proprio la via d’accesso privilegiata alla coscienza”. La sua opera, e questa mostra lo esemplifica, esplora le relazioni dicotomiche fra interno ed esterno, fra la profondità e l’ascesa, la liquidità e il mondo solido, il suono e il silenzio. Le proprietà delle materie utilizzate, tra cui

l’alabastro di Volterra, l’opacità e la lucentezza dei colori, tra cui il rosso, spesso pigmento come in Endless Column del 1992, e le superfici specchianti catturano in un crescendo lo spettatore e lo conducono alla scoperta di quella che Kapoor chiama la sua “mitologia”. Al centro della platea è collocata l’installazione omonima al titolo della mostra, che rivisita Descent into Limbo del 1992 presentata a Kassel a Documenta IX. Descension nel movimento vorticoso e sonoro dell’acqua scura, nell’ampia cavità, rappresenta una sorta di discesa agli inferi, verso il fondo,

Anish Kapoor, Descension. Da sinistra, Untitled, 2015. Alabastro, 131,5 x 74 x 35 cm. Untitled, 2015.
Alabastro, 32,5 x 130 x 96 cm. Untitled, 2015. Alabastro,
67 x 55 x 43,5 cm. Untitled, 2015. Alabastro, 120 x 93 x 49 cm. Courtesy the artist and GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins. Photo Ela Bialkowska, OKNO STUDIO

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Jannis Kounellis, Senza Titolo, 1996. Legno, sacco juta, coltello. Courtesy the artist and GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins. Photo Ela Bialkowska, OKNO STUDIO

dove ogni certezza è dissolta, verso l’inconoscibile sottostante all’apparente stabilità terrena. Jannis Kounellis, protagonista nel panorama internazionale, i cui lavori sono presenti nelle maggiori collezioni del mondo e nelle più prestigiose istituzioni museali, espone per la prima volta negli spazi di Galleria Continua. La sua opera austera e lirica, realizzata con materiali extrapittorici, ha una forza attrattiva straordinaria, perché parla dell’uomo, dei suoi oggetti-reperto, dei suoi luoghi, delle sue emozioni, dei drammi individuali e storici, delle utopie e ancora del ruolo dell’artista e della funzione etica dell’arte nel mondo attuale. “Io cerco – dichiara l’artistatra i frammenti, emozionali e formali, le deviazioni della storia,

sono drammaticamente alla ricerca di un’unità, per quanto questa sia irraggiungibile, utopica, impossibile, e proprio per queste ragioni drammatica”. Al centro dello spazio dell’Arco dei Becci campeggia imponente e solenne Senza Titolo del 1996, installazione storica, significativa del vasto repertorio dell’artista: una trave formalmente simile a una croce sostiene un sacco trafitto da un coltello. Enorme è il potere evocativo e la forza dell’insieme scaturiti dall’ amara consapevolezza della deriva del tempo presente che vede sgretolarsi l’idea umanistica, ma che non rinuncia al sogno. Con Prima dello Specchio Michelangelo Pistoletto, altro grande protagonista dell’arte contemporanea a livello internazionale,

Jannis Kounellis, Senza Titolo, 2015. Bottiglie, giacche. Courtesy the artist and GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins. Photo Ela Bialkowska, OKNO STUDIO

Michelangelo Pistoletto, Autoritratto oro, 1960. Olio, acrilico e oro su tela, 200 x 150 cm. Courtesy the artist and GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins. Photo Ela Bialkowska, OKNO STUDIO

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Michelangelo Pistoletto, a sinitra: La folla, 1959. Olio e acrilico su tela, 200 x 100 cm; A destra, Autoritratto, 1957. Olio e acrilico su tela, 200 x 100 cm. Courtesy the artist and GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins. Photo Ela Bialkowska, OKNO STUDIO

torna ad esporre per Galleria Continua. Nella corposa mostra sono proposti lavori dal 1956 al 1961-62, in cui dalle prime opere centrate sull’autoritratto, in una pittura dalla consistenza materica, l’artista arriva a realizzazioni nelle quali si raffigura in dimensioni reali, giocate nel rapporto con i fondi monocromi . Indicative di questo percorso sono sia Autoritratto del 1956 e del 1957, drammatici volti e drammatiche teste che occupano quasi tutta la superficie della tela, sia Il presente-Uomo di schiena e Il presente-Autoritratto in camicia, entrambe del 1961, dove la figura ha perso ogni carattere di intensità materica e di espressività. Persona di schiena del 1962, a conclusione, è esemplificativa della svolta dei Quadri specchianti, nei quali lo specchio

d’ora in poi sarà motivo ricorrente e strumento concettuale. Nella personale dedicata all’opera di Serse, artista importante nella scena italiana, titolata L’esperienza del paesaggio, sono presentati lavori in gran parte recenti, realizzati tutti con il disegno a grafite. Sono paesaggi che accennano all’acqua, alla terra e al cielo, di una visionarietà che li rende unici: luoghi del pensiero e dell’anima più che della realtà. La decontestualizzazione degli elementi porta a percepire un altrove che si cela dietro le forme evocate, talora solo vagamente riconoscibili, espressione di un meditare oltre lo sguardo, come nelle opere Ai sali d’argento del 2005 e in quelle del ciclo A fior d’acqua datate 2015 e infine in Gas dello stesso anno, esplosione di ombra e di luce. n

Serse, A fior d’acqua, 2015. Grafite su carta su alluminio, 100 x 142 cm. Courtesy the artist and GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins Serse, A fior d’acqua, 2015. Grafite su carta su alluminio, 100 x 142 cm. Courtesy the artist and GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins

Serse, Ai sali d’argento, 2005. Grafite su carta su alluminio, 50 x 70 cm. Courtesy the artist and GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins

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Fondazione MAST, Bologna

Industria oggi di Francesca Cammarata

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alla ricerca dei ventiquattro artisti ospitati al MAST di Bologna in occasione della mostra “Industria oggi”, il tema della fotografia industriale incrocia una riflessione più generale e ampia che riguarda il capitalismo, i mutamenti che hanno investito l’industria dalla fine dell’ultimo secolo a oggi e il suo ruolo nel mondo attuale. Le opere degli artisti invitati sviluppano tutte assieme il tema in modo esauriente affrontandone aspetti significativi. Emerge ad esempio la differenza tra le strutture industriali nell’attuale mondo sviluppato rispetto a quelle del passato o a quelle dei paesi emergenti. E’ più volte ripetuta la denuncia degli effetti sociali del capitalismo globale che interessano i paesi europei e allo stesso tempo le aree del mondo dotate di risorse energetiche o manodopera a basso costo. Emerge tra tutto il resto l’idea di fabbrica, produzione e progresso nell’immaginario delle giovani generazioni in occidente. Gli stimoli diversificati provenienti dalle opere esposte consente la costruzione di una visione organica che focalizza le contraddizioni di una contemporaneità divisa tra l’anelito a ripensare l’economia e un meccanismo che riporta al quadro di disuguaglianza sociale che ha accompagnato l’industrializzazione dei primi secoli. Se da un lato infatti nell’oc-

cidente sviluppato viene sottolineata dal mondo scientifico e intellettuale la necessità di un sistema di economia più vicino alle esigenze ambientali, territoriali e al tema della distribuzione della ricchezza, dall’altra la condizione di globalità circoscritta al solo capitalismo esaspera di quest’ultimo, del tutto fuori controllo, la parte più aspra. Industria oggi a cura di Urs Stahel si estende, per la parte fotografica nell’intera sala espositiva del primo piano, si arricchisce della proiezione dei film “...Stromness...” di Simon Faithfull (2005) e “The Forgotten Space” di Allan Sekula e Noël Burch (2010) al piano terra. La mostra prende avvio da una riflessione sulla fotografia industriale contemporanea la cui produzione e custodia non è più direttamente legata alle imprese come accadeva fino alla prima metà dello scorso secolo. Se infatti fino agli anni ‘60 del ‘900 negli uffici delle fabbriche erano custoditi dei veri e propri archivi di documentazione fotografica, a cura di artigiani esperti, l’immagine dell’industria nei tempi più attuali è tracciata da fotografi indipendenti e di formazione artistica, in altri casi si slega addirittura dalla dimensione artigianale per collegarsi direttamente dalle arti visive. Industria oggi si apre al pubblico con il bagliore elettrico su fondo nero di Hiroshi Sugimoto, come a voler richiamare l’energia che trasmette la vita alle macchine. Qui lo scuro cromatismo e l’inquietudine espressa appare in contrasto con il rassicurante e razionale spazio dello stabilimento Ferrari, nella serie di foto dai colori bianchi e pastello realizzate da Olivo Barbieri. Nella fabbrica di Maranello il clima decisamente rassicu-

Vera Lutter, Battersea Power Station, II, July 3, 2004. Centrale elettrica di Battersea, II, 3 luglio, 2004 Unique silver gelatin print, 192 x 427 cm © Vera Lutter, Courtesy of the artist , New York

Jim Goldberg, Vlad #1 (silo boy), 2006. Ucraina, dalla serie Open See. Dye diffusion transfer print and ink 152,5 x 122 cm
© Jim Goldberg, Courtesy of the artist and Pace/MacGill Gallery, New York

Edward Burtynsky, Shipbreaking #10, Chittagong, Bangladesh, 2000 Demolizione di navi #10. Digital C-print, 157,5 ×132CM © Edward Burtynsky, courtesy Nicholas Metivier Gallery, Toronto/Gallerie Springer, Berlin

Olivo Barbieri, Maranello, Modena, 2003/2014. Archival Fine Art Photo Rag Baryta. Polyptych in ten parts (78,7 x 100 cm each)
 © Olivo Barbieri, Courtesy siebenhaar art projects, Frankfurt am Main, Germany

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Mitch Epstein, Stabilimento a carbone di Gavin, Cheshire, Ohio, from American Power, 2003/2015. C-print 144 x 116,5 cm 
© Mitch Epstein, Courtesy Yancey Richardson Gallery, New York

Thomas Struth,
Tokamak Asdex Upgrade Interior 2, Max Planck IPP, Garching, 2009/2011. Interno del Tokamak Asdex Upgrade 2, Istituto Max Planck di Fisica del Plasma. C-print © Thomas Struth

rante sembra far risaltare maggiormente l’assenza umana. Linee dritte e forme minimali caratterizzano anche le foto della serie Global soul di Henrik Spohler proiettandoci tuttavia in un mondo astratto, decisamente lontano dal reale. Un richiamo all’universo fantascientifico avviene con Il robot di Vincent Fournier che sembra voler spingere alla dimensione dell’immaginario la fiducia nel progresso tecnologico quale elemento di liberazione per l’uomo. Jim Goldberg, Massimo Vitali, Ad Van Dendaren e Allan Sekula si soffermano in modo più diretto sulla questione sociale, facendo riferimento ai temi della povertà e dell’emigrazione. Nelle opere di questi artisti la fabbrica non è espressamente ritratta , vengono ripresi piuttosto gli effetti del capitalismo mondiale. Nel trittico bianco e nero di Vera Lutter: La centrale elettrica di Bettersca, la “sorgente” dell’energia e quindi della produzione si trasfigura in uno scenario dall’atmosfera gotica. Poco rassicuranti appaiono allo stesso tempo e per ragioni molto diverse i monocromi di Mitch Epstein e Simon Faithfull entrambi avvolti da un tocco

surreale e visionario. Di segno più realista sono i “paesaggi” di Richard Learoyd e Ariel Caine ottenuti rispettivamente attraverso metodi arcaici di ripresa e stampa, e attraverso operazioni di ricerca su Google Hearth. In queste opere acquista risalto la questione del rapporto tra produzione, ambiente e architettura. Nuovamente la connessione tra capitalismo e disuguaglianze appare nelle indagini di Bruno Serralongue, Brian Griffin e Jaquelin Hassink nel loro documentare ciascuno, i rituali, i volti e i tavoli del potere . Grande pittoricità troviamo nelle immagini di Miyako Ishiuchi, Sebastiao Salgado e Stéphan Couturier in un astrattismo formale che richiama le avanguardie europee del primo Novecento, mentre un universo avveniristico descrivono Thomas Struth e Trevor Plaghen, dove scenari da fantascienza e fantapolitica confluiscono in ambienti e fatti del mondo attuale. Infine Edward Burtynsky con i suoi relitti navali sembra voler alludere aspettative e fallimenti creati nelle società dal progresso industriale, facendoci immaginare una sorta di nuovo Naufragio della speranza. n

Massimo Vitali, Calambrone (#0442), 1999/2013. C-print 235,5 x 185,5 cm © Massimo Vitali, Courtesy Brancolini Grimaldi Gallery, London

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Gianni Colombo, Spazio diagoniometrico, 1992-2015. Veduta parziale dell’esposizione A arte Invernizzi, Milano. Courtesy Archivio Gianni Colombo, Milano e A arte Invernizzi, Milano. Foto Bruno Bani, Milano

Galleria A Arte Invernizzi, Milano

Gianni Colombo L’ultimo ambiente intervista a Marco Scotini di Enrico Liuzzo

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ventidue anni di distanza dalla sua prematura scomparsa e dalla sua ultima personale, tenutasi presso la Galerie Hoffmann di Friedberg (tra il 1992 e 1993), Gianni Colombo è al centro di una grande riscoperta internazionale da parte delle istituzioni e delle generazioni artistiche emergenti, con la proposta di quattro nuove personali - tra Milano, Basilea e Londra - dell’artista milanese: uno dei principali protagonisti internazionali dell’arte programmata e ambientale, teorizzatore e fautore di un’architettura/arte volta alla creazione di spazi praticabili che demoliscono le rigide concezioni spazio-temporali e restituiscono i corpi alla loro plasticità. Colombo, realizzò tra gli anni sessanta e novanta, ambienti architettonici destabilizzanti e paradossali, tramite l’utilizzo di movimenti meccanici, luci e ironie strutturali, generate dalla più semplice inclinazione di una superficie. L’intento, dell’artista cinevisuale, è stato quello di innescare nei visitatori di questi spazi attraversabili, una reazione creativa, fisica e psicologica, sollecitandone le percezioni sensoriali e le stimolazioni coscienti. Questi ambienti vengono ripresentati in quattro importanti spazi espositivi, da maggio fino a dicembre. E› la Galleria Invernizzi, che ha inau54 - segno 253 | ESTATE 2015

gurato, e proposto un re-enactment dell’ultima sua personale in Germania. L›opera protagonista di questa esposizione, è lo Spazio Diagoniometrico, realizzato dall’artista nel ‘92. Ne parliamo con il curatore dell’Archivio Colombo, Marco Scotini: - La bella iniziativa della Galleria Invernizzi è quella di riallestire l’ultima mostra e l’ultimo ambiente di Colombo, con la “Bariestesia” che accoglie (imprevista) lo spettatore all’ingresso invitandolo a verificare le condizioni del proprio equilibrio, in una continua variazione di passi che si succedono nel percorso della scala. Straordinari sono alcuni “Spazi curvi” che pendono dal soffitto. In questa ultima mostra, Colombo aveva messo a punto per la prima volta l’ambiente Spazio diagoniometrico (für Hans Poelzig): vero e proprio traguardo artistico che dopo molti anni viene riproposto al pubblico. Lo Spazio Diagoniometrico è la perfetta conclusione delle sue avventure spaziali con l’architettura modernista. Dopo gli omaggi degli anni Ottanta a Henri van de Velde, Theo van Dooesburg e Bruno Taut la dedica di questo ambiente ad Hans Poelzig sottolinea, ancora una volta, il suo grande legame con la cultura dell’espressionismo tedesco. Il Gabinetto del Dottor Galigari (1920) di Robert Wiene è, in Colombo, l’altra faccia della medaglia del Grosses Schauspielhaus (1919) di Poelzig: le condizioni spaziali e i tempi cinematografici non cessano mai di definire i suoi ambienti. C’è sempre una precisa volontà di ritornare ai pionieri del modernismo architettonico così come agli esordi del cinema muto, slapstick ed espressionista. Non dobbiamo dimenticare, inoltre, che Poelzig


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Gianni Colombo, Spazio elastico. Triangolo, 1981. Tavola, filo elastico, 88x102 cm Courtesy Archivio Gianni Colombo, Milano e A arte Invernizzi, Milano. Foto Bruno Bani, Milano Gianni Colombo, After points, 1964 Metallo, plexiglas, lampada, animazione elettromeccanica, 45x45 cm Courtesy Archivio Gianni Colombo, Milano e A arte Invernizzi, Milano Foto Bruno Bani, Milano

è anche lo scenografo di Der Golem e che lo Schauspielhaus viene demolito a Berlino nel 1988 dunque 3 anni prima della realizzazione dell’ambiente di Colombo, di cui quest’ultimo vuole essere un omaggio. Nello Spazio Diagoniometrico gli elementi colonnari degli ambienti precedenti si trasformano in stalattiti “gotiche” che girano su se stesse (alla maniera dei dervisci ruotanti) come estrema messa in forma di una cattedrale laica, quale luogo primo della metamorfosi e della variazione, quale costante esercizio di liberazione. - Uno degli ambienti più importanti realizzati da Colombo, è “Architettura Cacogoniometrica”, realizzata per il PAC di Milano e per la Biennale di Venezia del 1984. L’opera viene esposta presso Art Unlimited a Basilea: si tratta di un’altra aggiunta importante al nuovo inquadramento dell’artista. - Sempre per iniziativa di Invernizzi e con la collaborazione dell’Archivio Colombo, viene riallestito a Basilea questo grande ambiente di 70 metri quadri. È la prima volta che viene reinstallato dopo la sua presentazione alla Biennale di Venezia dell ’84. Aspetto con grande curiosità di rivederlo dopo molti anni perché quella era una delle prime biennali che vedevo e anche uno dei primi lavori di Colombo con cui mi imbattevo, dunque del tutto ignaro del ruolo che poi mi sarebbe capitato di svolgere. Ricordo che la kermesse veneziana era terribile con tutte le citazioni posmoderne e pittoriche di quella che si definiva “arte allo specchio”. Perciò entrare nel vuoto di quello spazio dai piani inclinati e fermarsi tra le sue colonne sghembe era come respirare, dopo tutto e finalmente. ESTATE 2015 | 253 segno - 55


Gianni Colombo, Architettura cacogognometrica, XLI Esposizione Biennale Internazionale d’Arte, Venezia 1984 Courtesy Archivio Gianni Colombo, Milano e A arte Invernizzi, Milano

- L’esito più noto e più alto della ricerca dell’artista è “Spazio elastico”, realizzato per la prima volta per “Trigon a Graz” nel ‘67 poi premiato con Leone d’oro alla Biennale di Venezia del 1968. L’ambiente verrà riproposto alla Fondazione Carriero di Milano il prossimo settembre. - All’interno di una bella sala storica con stucchi dorati, specchi, affreschi e restaurata magistralmente da Gae Aulenti, abbiamo pensato di riallestire con il curatore Francesco Stocchi questo cubo bianco, totalmente minimale e anonimo all’esterno quanto magico e lunare al suo interno. Si tratta della mostra inaugurale della Fondazione Carriero e vede i tre piani assegnati rispettivamente a Colombo, Giorgio Griffa e il giovane artista francese Davide Balula. Sarà una mostra più orientata sulla performatività dello spazio. 56 - segno 253 | ESTATE 2015

- Nel 1970 Colombo realizzò per Vitalità del Negativo la “Topoestesia” che verrà esposta al pubblico a Londra nel mese di ottobre presso la galleria Robilant + Voena. Così si chiude, in un certo senso, l’anno di Colombo cominciato con Monica De Cardenas a Zuoz. - Sarà un altro grande evento in cui molti altri lavori di Colombo fino agli anni ‘80 saranno presentati al pubblico inglese. Per me e per Francesca Pola si tratterà di recuperare il rapporto dell’artista con la cultura cinetica oltre Manica degli anni ’60 quando Colombo espone con Lygia Clark, Medalla, Soto, Takis e Tinguely nella mostra “In Motion” curata da Guy Brett (e dove Colombo è l’unico italiano). Ma sono anche gli anni della galleria e della rivista Signals, a cui oggi guardiamo come a dei cimeli. Non anticipiamo nulla e lasciamo che sia una sorpresa! n


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Gianni Colombo, Strutturazione pulsante, 1959. Polistirolo, gommapiuma, legno, animazione elettromeccanica, 82x82 cm Courtesy Archivio Gianni Colombo, Milano e A arte Invernizzi, Milano. Foto Bruno Bani, Milano Gianni Colombo, Spazio elastico, 1967-69 Metallo, filo elastico, animazione elettromeccanica, 86x86 cm Courtesy Archivio Gianni Colombo, Milano e A arte Invernizzi, Milano Gianni Colombo (dal basso verso l’alto), Bariestesia, 1974-1985 Legno, dimensioni variabili; [Senza titolo], 1992 Tavola, metallo, animazione meccanica, 59,5X59,5 cm Veduta parziale dell’esposizione. A arte Invernizzi, Milano Courtesy Archivio Gianni Colombo, Milano e A arte Invernizzi, Milano Foto Bruno Bani, Milano

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Christian Stein, Milano

Jannis Kounellis di Simona Olivieri

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a mostra - alla galleria Christian Stein e curata da Eduardo Cicelyn - Jannis Kounellis, è una selezione di opere fatta da Urs Raussmüller e Gianfranco Benedetti che raccontano e pongono l’accento sulle caratteristiche salienti della lunga carriera dell’artista. Alcune delle opere esposte sono visibili al pubblico per la prima volta, altre lo sono per la prima volta in Italia. Vengono soprattutto dalla Raussmüller Collection, qualcuna dalla Christian Stein, oppure sono di proprietà dell’artista stesso. Il percorso espositivo comincia dai primi anni Sessanta, quando l’attenzione di Kounellis si rivolgeva soprattutto ai segni del paesaggio urbano: frecce, numeri, lettere e a tutti quei segnali presenti nelle città. In corso Monforte sono presenti suoi quadri che vanno dal 1960 al 1967 dipinti con smalto e acrilici, in grandi formati. L’artista utilizza un linguaggio personale, denso e ricco, fatto di presenze e assenze, di peso e leggerezza. Le sue opere portano con sé tracce di altre memorie. E lo fa introducendo nelle sue opere frammenti provenienti dal mondo reale, includono la vita stessa. Sono composizioni di elementi del quotidiano (vestiti, mobili, vele, scafi, coltelli, trenini elettrici), di animali, di piante, di carbone, di fuliggine,… che Kounellis mette in relazione l’un con l’altro in modo da creare nuove realtà, che agiscono sulla fantasia dell’osservatore. Non si sofferma sull’esposizione analitica e intellettuale di un concetto ma racconta con codici nuovi, fa riferimento ad un nuovo vocabolario di simboli che partono dal reale per costruire una nuova poetica. Si interessa alla materia e agli elementi naturali. Al contrasto tra naturale e industriale. Un fiore in ferro con al centro una fiamma all’acetilene è una delle sue opere esposte, Senza titolo (1967). Nelle selezione di opere presentate dello spazio di Pero si respira il senso di una pratica artistica che ha assunto il mondo reale, il mondo esterno, come cornice dell’opera, non c’è più solo la ricerca di una nuova spazialità ma anche la volontà di impiegare materiali non legati alla tradizione pittorica che lo introduce a forme, colori, odori distintivi degli elementi primari naturali o tecnologici da trasformare in energie poetiche attraverso i meccanismi dell’immaginario, del mito, della cultura, degli ideali classici e religiosi, delle passioni. L’abbandono del concetto tradizionale di rappresentazione pittorica con una radicale “uscita dal quadro” arrivando anche alla presenza e all’uso di esseri viventi - come un pappagallo e altri uccelli - all’interno in un contesto artistico. Un incantato giardino esotico. Qui oltre ad elementi naturali come carbone, la terra, il cotone e piante grasse è presente un animale vivo: un pappagallo. Se ne sente l’odore, il rumore dei movimenti sul bastone che lo sorregge, i suoi occhi inseguono la nostra curiosità,

Jannis Kounellis, Senza titolo, 1975, Fabio Fabbrini © 2015 Raussmüller Collection

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Jannis Kounellis, Urs Raussmüller, Fabio Fabbrini © 2015 Raussmüller Collection

“Bisogna incidere dentro la carne della pittura i problemi e i dolori, sussurrare all’orecchio della gente il canto antico che spinge a riconoscere nel nuovo estremo l’ultimo tratto di un millenario accumulo; e so anche che è puerile immaginare che si possa realizzare tutto questo nel silenzio di una stanza vuota”.

le sue piume colorate e lo sgranocchiare dei semi, Senza titolo (1967). Andare oltre la superficie del quadro e tutto il mondo che si apre intorno diventa la cornice dell’opera. A partire dalla fine degli anni Sessanta, Kounellis comincia a creare delle composizioni di oggetti e materiali. L’incontro dei materiali non è casuale o illogico, o assurdo, o con la stravaganza del sogno. C’è una precisa volontà compositiva, gli oggetti vengono composti come le parole di una frase e vanno a creare un preciso effetto di contrasto evocativo, in una poesia della materia. Esposti da Christian Stein troviamo allora sacchi di iuta cuciti con un mucchio di semi di girasole (Senza titolo, 1968), porte murate con ferro e pietre (Senza titolo, 1969), strutture in ferro con carbone (Senza titolo, 1967), mucchi di sale in grandi recipienti di rame (Senza titolo, 1987), finestre dello studio dell’artista (Senza titolo, 1987), composizioni di armadi e lampade a olio su pareti


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Jannis Kounellis Photo Manolis Baboussis

Jannis Kounellis, Senza titolo, 1987, Fabio Fabbrini © 2015 Raussmüller Collection

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Jannis Kounellis, Photo Manolis Baboussis

Jannis Kounellis, Senza titolo, 1997, Fabio Fabbrini © 2015 Raussmüller Collection

di ferro arrugginito. E ancora cappotti neri appesi a ganci su putrelle in ferro da cantiere (Senza titolo, 1985-2015), mensole di ferro con frammenti di legno e putrelle di ferro e sacchi di iuta (Senza titolo, 1987),… Il materiale usato non ha un valore formale in sé, né semplicemente materico. Sono materiali che vengono usati in un modo simbolico ed estremamente libero, ma con senso. Le cose con i lori volumi, odori, colori ne fanno la superficie, moltiplicandosi lungo una linea di proliferazione inarrestabile: ed è l’arte a portare ordine e misura, indicando una centralità della visione che dà sostegno e stabilità ma nessuna certezza. O, ancora dove l’oggetto classico - il frammento di antichità che non viene emulato ma campionato attraverso il calco - diventa elemento di composizioni più complesse. Il volto, la maschera greca, diventa un elemento fondamentale nella sua 60 - segno 253 | ESTATE 2015

poetica, perché stabilisce un ruolo e un’identità, un personaggio. Senza titolo, 1975 è una composizione con calchi di gesso, un tavolo di legno sul quale sono appoggiati e capelli veri di colore nero che partendo dalla maschera creano una sorta di onda sulla parete. Stratificazioni di Storia e Cultura. Non, quindi, uno snaturamento del classico ma a una nuova sintesi poetica in cui il contrasto tra gli oggetti – siano essi quelli dell’industria, della natura o della memoria culturale – sia capace di far scaturire un nuovo linguaggio e nuovi significati. Con lo sguardo spesso rivolto al passato, alla pittura rinascimentale e seicentesca italiana e alla classicità della sua terra d’origine, Kounellis ha elaborato in senso moderno il suo viaggio nell’arte, portando con sé tracce di altre vicende, di lontane memorie e di premonizioni. Le Radici del presente. n


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Pedro Cabrita Reis, Il palazzo vuoto, 2015. Ferro, 5,20 x 10 x 9,13 cm. Photo João Ferrand. Courtesy l’Artista e Galleria Giorgio Persano

Galleria Giorgio Persano, Torino

Pedro Cabrita-Reis di Gabriella Serusi

È

una mostra matura e ponderata, ricca di sfumature emozionali, quella allestita da Pedro Cabrita–Reis negli spazi della galleria Giorgio Persano. L’artista portoghese, classe 1956, si conferma come una delle voci più interessanti nel panorama dell’arte contemporanea europea, capace com’è di coniugare la ricerca sul linguaggio della scultura con le tematiche affrontate di volta in volta nella costruzione di un progetto. Evocativo senza essere letterario, intimo senza essere autobiografico, maestoso senza essere monumentale, il suo lavoro di “costruttore” di spazi immaginifici si rivela piuttosto come una disamina di natura quasi filosofica sui concetti di temporalità e di conoscenza. La memoria – intesa come facoltà dell’uomo di trasformare la percezione di un momento o di un’esperienza in conoscenza –è per l’artista l’anello di congiunzione fra il significato della storia di ogni singolo uomo e il senso più ampio del tempo storico, della storia collettiva in altre parole. E l’Architettura, verso la quale Cabrita-Reis ha sempre mostrato un’attenzione particolare non è soltanto la modalità funzionale con cui gli uomini occupano degli spazi utili alla fruizione di un certo luogo in un dato tempo (connesso peraltro alle dinamiche politiche ed economiche) ma è la maniera dell’Uomo di proiettarsi dentro la natura, portando con sé non soltanto i bisogni ma anche l’immaginazione. Lo Spazio è Tempo per Cabrita-Reis: tempo presente ma anche rilettura del tempo passato. Quanto conti la trasposizione sensoriale, individuale, percettiva del

tempo interiore nell’interpretazione dello spazio collettivo, lo si capisce bene anche dai titoli delle sue mostre: dallo “spazio del silenzio” (GAM, Torino 2000) a quest’ultima esposizione in galleria intitolata “Il castello vuoto”, in cui a dominare sono appunto i concetti di sottrazione, di vuoto, di ascolto, di interiorizzazione dello spazio. Impiegando nove tonnellate di acciaio, l’artista ha realizzato in galleria una struttura architettonica in scala reale che suggerisce le possibilità dell’attraversamento più che dell’abitabilità. L’adattabilità allo spazio è una necessità che nel caso di Cabrita-Reis diventa urgenza concettuale. in un dialogo fra vuoto e pieno, fra interno e esterno, fra reale e immaginario, l’architettura costruita suggerisce allo spettatore l’idea di spazio-tempo sospeso fra passato e futuro o meglio quella di spazio della percezione che - come sappiamo – è momento di sintesi fra dato reale e rilettura individuale della storia collettiva. Cabrita-Reis non si è limitato a confrontarsi con lo spazio architettonico della galleria; seguendo il suo estro eclettico, l’indagine passa fluidamente dall’impiego del linguaggio della scultura a quello della pittura, secondo una modalità diventata ormai cifra stilistica della sua ricerca artistica. la pittura infatti, più di ogni altro mezzo espressivo, ha a che fare con l’esperienza del tempo personale, con la dimensione del silenzio e con la percezione sensoriale. attraverso le opere in mostra, si accede così ad una conoscenza più profonda e riflessiva delle cose, più intima, dove ogni elemento singolo ritrova la propria “aura” ma riverbera di una luce e di una comprensione più generale e universale perché come ha suggerito lo stesso artista in occasione della mostra alla GAM di Torino, “immaginate l’attimo in cui percepite l’oggetto e al di là dell’oggetto intravedete un crocevia di ricordi che riaffiorano da luoghi lontani”. n ESTATE 2015 | 253 segno - 61


MAMbo, Bologna

Li Songsong di Francesca Cammarata

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rima personale italiana dedicata all’artista cinese Li Songsong. L’autore, riconosciuto come una delle figure di maggior rilievo tra gli artisti più giovani del panorama artistico cinese, realizza supporti ricoperti da impasto denso, costituito prevalentemente da pittura a olio. Una mostra che segna il rafforzato interesse in ambito critico e curatoriale verso la scelta di un mezzo tradizionale come quello pittorico quando adottato dalle nuove generazioni. Li Songsong nelle sue opere si preoccupa a tutti gli effetti di rappresentare utilizzando il metodo figurativo al fine di comprendere e interrogare la società in cui vive. Le scelte di rappresentazione riguardano scene di vita, personaggi, fatti storici o avvenimenti pubblici di piccola o grande importanza riguardanti soprattutto la Cina. Insolita risulta nel lavoro di questo artista la pratica di raffigurare, realizzata per assemblaggi, dove le immagini frammentate appaiono eseguite attraverso la composizione di più supporti come pannelli di alluminio ricoperti dal colore o tele reciprocamente accostate. Frazionata e casuale la scelta dei soggetti che provengono da immagini trovate casualmente tramite i comuni mezzi di comunicazione o diffusione della cultura: riviste, quotidiani, libri, siti web. Ugualmente discontinue appaiono inoltre certe suggestioni estetico espressive che sembrano mutuate dalle correnti artistiche occidentali: è possibile in certe opere avvertire tracce pop. In altri casi forme, contorni e trattamento del colore fanno ricordare le avanguardie espressioniste, in qualche altro caso persino il paesaggio ottocentesco. Il lavoro di Li Songsong è significativo di quanto sorprendente appaia la capacità della pittura di sondare l’inedito nell’interpretare il mondo che ci circonda, supportando indagini che riguardano attuali faccende umane e culturali. Dall’opera dell’artista osserviamo infatti come a rallentatore i valori e gli ideali di una generazione prendere altre forme nel loro passaggio a quella successiva, gli stili di vita all’interno di un grande paese mutare al consolidarsi di un preciso modello economico; l’adattarsi di modelli culturali provenienti da lontano ad un contesto segnato da una differente identità politica. Nei lavori esposti, tutti collocabili all’incirca tra il 2004 e il 2014 appare marcato l’aspetto narrativo e in certi casi sembra enfatizzata una componente celebrativa come nei ritratti di Lenin, Marx o Che Guevara. La leggerezza nel rappresentare rende comunque dilettevole la loro fruizione e la lontananza culturale dal nostro occidente fa osservare immediatezza nell’elaborazione di linguaggi maturati altrove per i quali forse non si avverte l’autorità della tradizione. E’ così che la generosità materica nella pittura a olio di Li Songsong, la forma casuale dei pannelli di alluminio ripiegati e utilizzati come supporto, la deformazione delle figure composte come in un puzzle da elementi giustapposti, incontrano l’approccio analitico di un processo che contempla il sezionamento e la ricostruzione, per un’indagine che ha in fondo come oggetto

Li Songsong, Big Girls, 2014. Olio su tela. Courtesy l’artista e Pace Gallery, Beijing

l’universo reale. La presenza di caratteri di segno opposto del resto si incontra più volte nella poetica di questo artista non solo per ciò che riguarda l’aspetto esecutivo dell’opera. L’attenzione ai mutamenti culturali nel suo paese d’origine per esempio, ponendo in risalto questioni che superano la dimensione geografica o nazionale, focalizza il contrasto della nostra coscienza civile tesa tra l’interesse per il bene collettivo e la preoccupazione per le esigenze del singolo. Occorre ricordare inoltre lo snodo tra presente e passato sul quale questo autore intende porre il punto di osservazione per la propria analisi. La poetica di Li Songsong non si ferma al processo di rappresentazione e le scene raffigurate non costituiscono il pretesto per fare pittura. L’attenzione dell’artista si focalizza, attraverso il materiale reperito nel presente, sulla cultura visiva che compone la memoria della gente comune nell’intento di consolidare una coscienza del passato. Le immagini “ritrovate” si configurano dunque come veri e propri documenti d’archivio volti a tracciare un percorso critico a ritroso effettuando alla stesso tempo una analisi dell’era attuale. n

Li Songsong, Historical Materialism, 2014. Olio su tela. Courtesy l’artista e Pace Gallery, Beijing

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Fondazione Maramotti, Reggio Emilia

Esko Männikkö Enrico David di Anna Maria Restieri

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ue mostre che accompagneranno i visitatori fino all’autunno, due artisti all’apparenza estremamente diversi: il fotografo Esko Männikkö, al quale è dedicata un’ampia retrospettiva (Time Files a cura di Maija Koskinen), e il pittore e scultore Enrico David, (La Caduta con una conversazione tra Jonathan Miles ed Enrico David e testo Mario Diacono). Li accomuna tuttavia un senso di sospensione del tempo, una presenzaassenza ritmata dalla luce, dalla composizione e da un forte senso della natura per Männikö, e che in David si materializza in forme che appaiono e scompaiono, sempre di forte matericità. Entrambi raccontano delle storie ed entrambi sono, sebbene in modi differenti, legati alla realtà. Finlandese, annidato a Oulu, non lontano dal Circolo Polare Artico, Esko Männikö sfoggia una nordica riservatezza. Di se stesso dice “Sono un fotografo di pesci, cani e vecchi uomini. Andavo a caccia con mio padre… Sono ancora un cacciatore. Un collezionista di immagini”. Le cornici che accolgono le sue foto sono recuperate da mercatini o realizzate su misura con legni di recupero con il preciso intento di legare il suo lavoro alla tradizione pittorica. I soggetti? ” Uomini, paesaggi, interni fatiscenti, still life, racchiusi in serie scattate dal 1991 al 2013 (Female Pike, Organized Freedom, Flora & Fauna, Harmony Sisters, Blue Brothers), iniziate in tempi diversi, ma “aperte” all’infinito: “tutte le mie serie fotografiche possono cre-

scere in immagini”. In generale le foto che ritraggono personaggi, quasi sempre lavoratori con i quali Esko ha trascorso lunghi periodi dividendone le semplici abitazioni, sono antecedenti alle altre. L’artista è troppo introverso per resistere a una compagnia prolungata e così la alterna a soggetti come luoghi abbandonati e rovine metafisiche. “Mi ispirano, mi emozionano. La mia anima è sempre presente quando scatto”. Si tratti di persone, oggetti o interni, frammenti di vita quotidiana o lande sperdute, tutto è ammantato dall’uso sapiente della luce, che ricorda i lunghi crepuscoli scandinavi dai riflessi dorati. Pittura, scultura e installazioni sono invece il linguaggio espressivo di Enrico David. Le opere in mostra sono in stretta connessione tra loro. Così un grande dipinto costituisce quasi il fondale per le Unfinished figures, la parte scultorea dell’allestimento. L’inquietante figura sospesa al soffitto, con la testa rovesciata, mentre dal pavimento sembra emergere una figura imprigionata in un reticolo. “Dispersioni erranti di un fluire inconscio”, come le definisce il loro autore. Figure che collassano e si trasformano, simboli di caduta e rinascita nello stesso tempo, espressione di stati emozionali, profondamente umani. Tema quanto mai “sottile”, ma sorretto sia da tecniche sperimentali sia artigianali, in materiali disparati. Le sculture sono, per esempio, rivestite di gesmonite, materiale più duro del gesso, che può essere levigato, dipinto e trattato con grande flessibilità. Tra le fonti di ispirazione dell’artista: l’arte popolare, il design del XIX secolo, la pubblicità , la moda e la storia dell’arte. “Trovo che l’incontro tra queste diverse materie e queste diverse forme di espressione sia una sorta di traduzione della nostra natura frammentaria e contraddittoria”.Catalogo Silvana Editoriale. n

Enrico David, Gradazioni di un Lento Rilascio 2015. Legno, rame, gesmonite, carta, pigmenti 298 x 44 x 50 cm © Enrico David, ph. Richard Ivey. Courtesy Michael Werner Gallery, New York and London. Collezione Maramotti, Reggio Emilia

Esko Männikkö, Sodankylä, 1995 stampa a colori a getto d’inchiostro dalla serie Female Pike © Esko Männikkö

Esko Männikkö, Kuivaniemi, 1991 stampa a colori a getto d’inchiostro dalla serie Female Pike © Esko Männikkö

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Fabrice Hyber, L’homme de Bessines (POF n°125), Fontana in bronzo, 86 cm, 1991-2012 (photo Marc Domage)

A-rena di Anacapri

Incontri DAC di Giuliano Sergio

L’

A-rena di Anacapri è un’avventura nata a Parigi, all’Espace d’art contemporain HEC, quando Mario e Dora Pieroni di RAM radioartemobile, assieme ad AnneValérie Delval, hanno radunato artisti, critici e imprenditori attorno ad un tavolo per riflettere sulle possibilità di dialogo tra arte e aziende. Da anni gli incontri D/A/C (Denominazione Artistica Condivisa), propongono l’idea che si debba costruire una rete di relazioni, trovare forme alternative per un’apertura al mondo imprenditoriale che spesso chiede di essere sorpreso nelle dinamiche produttive, nelle logiche di mercato, nell’azzardo delle associazioni. Oggi, dopo quell’incontro, sei artisti allestiscono uno spazio comune con opere che sono nate da commistioni con il mondo dell’industria. Sono lavori che tentano uno “slittamento” rispetto alle pratiche correnti, per aggirare un modello artistico sempre più monolitico, un sistema dell’arte contemporanea che tende ad uniformare modalità di produzione e di ricezione. L’incontro con l’industria allora non è solo “utile”, ma “essenziale” – per gli artisti come per gli imprenditori – perché offre uno spazio di ricerca miracolosa-

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mente gratuito, dove poter perdere il filo tra soggetto e prodotto e ripensare l’arte come semplice relazione, sistema, gioco. È questa l’inclinazione che attraversa i lavori in mostra. Da primo Fabrice Hyber che con i suoi POF ( Prototypes d’Objets en Fonctionnement) reinventa forme e funzioni degli oggetti quotidiani. Hyber aveva fondato anche una società, la UR (Unlimited Responsibility), per produrre le sue opere e quelle di altri artisti, ma soprattutto per portare l’arte nell’universo del consumo, demistificandolo con la forza della sua ironia: “i POF sono delle aperture -spiega - delle possibilità”, è questa la responsabilità illimitata che l’artista si assume e che gli permette una funzione vitale nella società. In questa direzione, Donatella Spaziani intende la produzione industriale e artigianale come uno spazio estetico, un processo dove innestare il proprio intervento, non per “adornare” o “abbellire”, ma per modificare finalità e risultati della fabbricazione, segnando una presenza esistenziale che vive nell’oggetto prodotto: così il suo corpo diventa misura, sagoma che appare nello spazio domestico, sui parati e le piastrelle e, allo stesso modo, costituisce la forma che modella le sedute e i materassi che progetta. Athina Ioannou considera invece l’artista stesso come un’impresa, il suo lavoro pittorico parte dalla progettazione di un elemento, in questo caso un tavolo, che in seguito si estende e polarizza lo spazio, lo investe attraverso un ritmo in moduli di luce e colori. Antonello Curcio usa la tecnica industriale per creare citazioni pittoriche che trasferisce su tovaglie di toile de Jouy mentre Florent Lamouroux si interessa ai simboli della fabbrica: i sui lavori sono una “produzione supplementare dell’industria”, dove i gesti, le divise, e gli oggetti diventano icone con le quali l’artista si misura. Da ultimo, Benjamin Sabatier crea sistemi predefiniti che invitano il pubblico a produrre l’opera secondo delle istruzioni date. La sua ricerca cita esperienze che hanno segnato i rapporti tra l’industria e gli artisti e che oggi possiamo rileggere con piena consapevolezza. Cosa c’entra Capri in tutto questo? Molto, se si pensa al suo ruolo di “porto franco”, di vetrina internazionale dove da millenni si inscenano gli sfarzi del potere. A Capri questi oggetti, lontani dalle fabbriche e dai musei, trovano la loro verifica tra gli echi neoclassici del giardino di Federico Guiscardo, una piccola arena dove misurare l’ironia di altalene e fontane, maschere, tavoli e pavimenti, in uno dei luoghi più ludici della storia. n


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Alfonso Artiaco, Napoli

David Tremlett

di Stefano Taccone ssendo ormai una vecchia conoscenza per il pubblico dell’arte napoletano – alla sua sesta personale da Artiaco, oltre che presente dal 2002 nella Stazione della Metropolitana di Rione Alto a Napoli con un coloratissimo wall drawing -, nonché più in generale assai attivo nel nostro paese da molti decenni – fu la gallerista barese Marilena Bonomo ad invitarlo per la prima volta in Italia nei primi anni Settanta -, con Form & Rhythm David Tremlett (St. Austell, Cornovaglia, 1945), piuttosto che lavorare direttamente sulle pareti - come per lo più è solito fare - presenta tredici nuove opere a pastello su carta derivanti da alcuni bozzetti realizzati in Giappone e in Vietnam nel 2012. I viaggi in terre lontane costituiscono del resto un presupposto ricorrente quanto a prima vista insospettabile per la sua produzione, fin da quando, nel 1971, si mise in viaggio per l’Australia con l’obiettivo di raggiungere i genitori - che si erano recati lì sei anni prima e di cui non aveva avuto più notizie -, ma anche annotando, attraverso la mediazione di taccuini da disegno, della macchina fotografica e dei pastelli

E

stessi, le sensazioni provate durante il viaggio e lasciando che si trasformassero finalmente in forme e colori. Su di uno sfondo steso con pennellate appena più vibranti, sempre ripartito in campiture rettangolari, trovano così posto macrosegni in continua, mutevole, reciproca tensione plastico-cromatica, simili a squadrette da disegno misteriosamente deformate e rivestite di bruni e rossicci. Non di meno l’apparente irrazionalità di certi tracciati, lo sforzo incongruo in cui il singolo elemento sembra prodigarsi è riscattato da una sapiente regia che inventa nuovi possibili equilibri. Il risultato finale si coglie all’intersezione tra geometrico e dinamico. Se nella tradizione visiva occidentale la geometria costituisce cioè un antidoto al disordine del mondo e della creazione, un sistema di regole nel quale inscrivere il fluire accidentato della propria scrittura, in Tremmlett la geometria è spogliata del suo rigore cartesiano, la miriade di quadrilateri che popola le sue superfici sembra flettere i suoi lati in maniera tale da funzionare ad incastro, come in un gioco di intelligenza, ove nulla deve restare fuori dal rettangolo che delimita la superficie. Abbandonare la logica della perpendicolarità – ce lo insegna già quasi un secolo fa la diatriba tra Piet Mondrian e Theo van Doesburg – conduce necessariamente ad una drammatizzazione del linguaggio. n

David Tremlett, Form & Rhythm, veduta parziale della mostra. Galleria Alfonso Artiaco Napoli - Maggio 2015

David Tremlett, Form and rhythm #8, 2014. Pastello su carta,- cm 122 x 150

David Tremlett, Form and rhythm #13, 2014. Pastello su carta, cm 122 x 150

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Fondazione Banca del Monte, Foggia

TraCarte Opere dalla Fondazione Berardelli di Maria Vinella

L’

arte come strumento di conoscenza. L’arte come strumento di trasformazione. L’arte come strumento di seduzione. Gli intrecci significativi della creatività visiva del Novecento ruotano intorno a questi fulcri energetici. Arte – Vita – Eros. Progetto – Memoria – Utopia. Le più importanti pagine dell’arte moderna e contemporanea narrano le avventurose fughe lungo i territori della tradizione e dell’innovazione. Esempi paradigmatici, in tal senso, sono accolti nella mostra “Opere dalla Fondazione Berardelli”, curata da Vito Capone e Maddalena Carnaghi per la Galleria della Fondazione Banca del Monte di Foggia. È› la seconda volta che la Fondazione foggiana ospita, nell’ambito del noto progetto “TraCarte”, già alla sesta edizione, opere d’arte contemporanea della Fondazione di Brescia, che tra le proprie finalità ha quella di restituire un quadro storico completo del frammentario panorama della poesia visuale nazionale e internazionale e di far conoscere gli artisti del movimento stesso. Se in occasione della mostra “Rigorosamente libri”, indiscussi protagonisti sono stati i Libri d›artista e i Libri oggetto, questo secondo appuntamento consente di allargare l’orizzonte conoscitivo a raffinate esperienze dell’avanguardia, sottolineandone le molteplici consonanze e i sottili intrecci, come spiega in catalogo Saverio Russo, Presidente della Fondazione. Nell’edizione 2015 del progetto culturale, vengono presentate le opere di ventuno artisti italiani e stranieri. Attraverso il loro lavoro è possibile ripercorrere alcune tappe significative del Futurismo, del Cubismo, del Surrealismo, del Nouveau Realisme, della Pop Art, del Fluxus, difatti la Collezione Berardelli comprende non soltanto testimonianze dei protagonisti della Poesia Visiva ma anche lavori di artisti che si sono cimentati con la creatività verbo-visiva in genere. Così, possiamo ammirare nella Galleria della Fondazione le deflagrazioni delle “parole in libertà” di Filippo Tommaso Marinetti; numerose opere in acquaforte degli anni settanta di Marcel Duchamp della serie “Gli amanti”; una delicata tecnica mista di Marc Chagall; un biomorfismo di Joan Mirò degli anni cinquanta. Tra gli autori del Nouveau Realisme, troviamo in mostra opere di Arman, foto di impacchettamenti di Christo e JeanneClaude, serigrafie della serie “Incidenti” di Daniel Spoerri, un bellissimo lavoro a collage e china di Jean Tinguely (in questo caso, la scrittura è affidata alle firme variopinte di vari artisti contemporanei). Accanto ad alcune importanti testimonianze di Joseph Beuys, un manifesto degli anni ottanta, documento di una mostra veneziana, a doppia firma Warhol - Beuys. Coniugano immagini e parole anche i lavori di scrittura visivo-musicale

Mario Schifano, Paesaggio anemico, 1980, acrilico su tela

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Giuseppe Chiari, Senza titolo, 1976, tecnica mista su cartone

Jiri Kolar, Cappella Sistina, 1971, crumplage


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Filippo Tommaso Marinetti, Une assemblée tumultueuse (Sensibilité numérique), 1918, stampa tipografica

Beuys by Warhol, Paintings+Prints, Schellmann & Kloser, maggio, giugno 1980 Bruno Munari, Quando qualcuno dice che..., s.d., tecnica mista su ardesia

di Giuseppe Chiari (incantevole lo slittamento linguistico del polimaterico del ’76 titolato “Piano-forte”) e le delicate tecniche miste su carta di Gianni-Emilio Simonetti. Di forte carica ideologica – come spiega in catalogo il testo di Gaetano Cristino – l’opera del toscano Eugenio Miccini, mentre del napoletano Giuseppe Desiato troviamo in esposizione due belle opere pittoriche. Ancora, segnaliamo i lavori di Man Ray, Mario Schifano e Arturo Vermi, Paul De Vree, Jirì Kolár, Ladislav Novak, e – infine – dell’amatissimo Bruno Munari, del quale possiamo ammirare alcune xerografie degli anni novanta e una lavagnetta di ardesia con la colorata e mitica scritta “Quando qualcuno dice questo lo so fare anch’io vuol dire che lo sa rifare altrimenti lo avrebbe già fatto prima”. n

Ladislav Novak, Le poète et les autres, 1974, alchimage-froissage, acquarello e china su carta

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Da Urbino a Civitella del Tronto

Nutrimentum di Giuliana Benassi

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uale luogo più congeniale per dare vita ad un’osmosi tra arte e città, se non Urbino? Nell’ultima stagione un felice connubio tra l’Accademia di Belle Arti e gli spazi incantati della città ducale (Palazzo Ducale in primis e poi anche Casa Raffaello-Bottega Giovanni Santi e il teatro Sanzio) hanno fatto e stanno facendo rivivere l’anima rinascimentale della corte dei Montefeltro assieme a quella contemporanea dell’Accademia mettendo in gioco gli artisti che si cibano, vivono e respirano tra le mura ariose di una delle città più belle al mondo. Immediatamente dopo l’unità d’Italia la Galleria Nazionale delle Marche e l’Accademia di Belle Arti nacquero insieme come “frutto di quel pensiero ‘aperto’ che considerava l’educazione delle nuove generazioni e la conservazione delle testimonianze del passato il nutrimento fondamentale del nuovo stato e, soprattutto, dello spirito civico dei cittadini”, racconta Maria Rosaria Valazzi, Soprintendente per i Beni Storici Artistici ed Etnoantropologici delle Marche. Con questo stesso sguardo, il direttore dell’Accademia di Belle Arti Umberto Palestini ricorda il “lascito ideale” di Alberto Boatto a partire dall’insostituibile ricchezza della biblioteca dell’Accademia che consta di oltre tremila volumi e riviste da collezione. Per un continuum reale ed ideale, per un restauro non solo di facciata: i progetti espositivi degli ultimi mesi - a partire dal più recente “Nutrimentum”sono vivida espressione di un lavoro che si muove in una duplice direzione, cioè verso la ripresa di quelle ragioni illuminate insite nella tradizione natale e verso un’apertura alle tematiche contemporanee. Basta una definizione per descrivere l’unicità di Urbino: “Una città in forma di palazzo esser pareva” (Baldassar Castiglione). Questa espressione è tanto più vera, quando la si vive concretamente. Non esiste niente di più naturale e logico che “abitare” gli spazi architettonici della città avvertendone l’abbraccio e dando loro nuove identità. E “Nuove Identità” è infatti il titolo della mostra collettiva chiusasi lo scorso gennaio, curata da Ludovico Pratesi in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti, presso i sotterranei di Palazzo Ducale. Protagonisti i giovani autori dell’Accademia urbinate – Annalisa D’Annibale, Barbara Amadori, Corrado Di Pasquale, Dario Picariello, Davide Mancini Zanchi, Federico Ambrosio, Giacomo Podestà, Laura Fonsa- che hanno esposto lavori fedeli al genius loci, alla ricerca dell’equilibrio tra gratitudine alla cultura rinascimentale e fedeltà alla vocazione accademica sempre sospinta alla sfida contemporanea. In dialogo con le stanze intrise di storia del Palazzo Ducale, i giovani autori hanno voluto

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Sara Bertuccioli, Cubo cibo, In basso, Francesco Mori, Settanta chilogrammi, 2015 Vedute della mostra Nutrimentum negli spazi Data di Palazzo Ducale, Urbino 2015

far riaffiorare elementi e possibili retroscena di uno dei palazzi più vivi della storia del Rinascimento; come i grandi fogli stesi di Laura Fonsa che ricalcano le impronte dei pavimenti alla ricerca di tracce delle vite che furono o l’uovo sospeso/appeso con una canna da pesca di Davide Mancini Zanchi che interpreta un possibile “dietro le quinte” di Piero della Francesca, immaginato dal giovane artista come escamotage atto a dipingere il celebre uovo della Pala di Brera dal vero. Nell’ambito di questa cucitura felice tra rapporti istituzionali per la creazione di un “net” reale e non virtuale tra tradizione e contemporaneità, il rientro de La Muta di Raffaello - avvenuto il 25 marzo 2015 dopo una lunga seduta di restauro eseguita dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze - ha dato adito ad una celebrazione avviata con il concorso “Oltre il silenzio-La Muta del III Millennio” realizzato con un taglio internazionale grazie alla collaborazione con il Royal College of Art di Londra accanto all’Accademia di Belle Arti di Urbino e il CNA locale. Ancora una volta torniamo a chiamare in causa un pezzo importante di storia per poterla rivivere come ragionamento estetico e occasione nuova di studio critico. Al centro del progetto il dipinto di Raffaello e la domanda “ come sarebbe vestita la Muta oggi?”.


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Sopra, Dario Picariello Verde rame (stilleben), 2015. A destra, Ilaria Gasparroni Un lavoro del cavolo!, particolare, 2015 Sotto, Noa Pane Senza titolo, 2015 Vedute della mostra Nutrimentum negli spazi Data di Palazzo Ducale, Urbino 2015

Proposte di ricerca fanno incontrare la moda e l’arte per i settori dei due Istituti di Londra e Urbino con lo scopo di attualizzare lo sguardo di un dipinto che continua a destar domande. Le risposte sono state la mostra a Casa Raffaello, mentre presso il Teatro Sanzio la premiazione degli artisti vincitori Cibelle Cavalli Bastos, Andrea La Rocca, Paula Knorr e Dario Picariello, accolti in pompa magna grazie alla scenografia del pittore Rinaldo Rinaldi che ha diretto il Biennio di scenografia dell’Accademia per la realizzazione del dipinto La Muta su grande scala e alla partecipazione di Alberta Ferretti, Antonella Antonelli, Arianna Rosica, Andrea Viliani, Paolo Canevari e Sergio Silvestrini. Se è vero che l’arte è insaziabile (citando Eleonora Duse) torniamo a Palazzo Ducale dove recentemente gli spazi della Data, pertinenti alle antiche stalle realizzate da Francesco di Giorgio Martini sono stati riaperti per accogliere la mostra “OS_1 Nutrimentum” curata da Umberto Palestini e Elisabetta Pozzetti, in corso fino al 14 giugno 2015. Il cibo entra trionfante, assieme al marchio EXPO, per dar voce ai giovani artisti dell’Accademia (Federico Ambrosio, Marco Bacoli, Sara Bertuccioli, Kane Caddoo, Gian Martino Cecere, Matteo Costanzo, Benedetta Fioravanti, Ilaria Gasparroni, Donato Mariano, Francesco Mori, Noa Pane, Simona Pavoni, Dario Picariello, Jana Radovic, Marika Ricchi, Agnese Spolverini, Ricardo Aleodor Venturi, Anna Zanichelli). L’alimentazione viene affrontata attraverso vari focus e per mezzo di linguaggi disparati, prima di tutto ricordando che l’uomo si ciba anche di bellezza e l’arte - che ne interpreta anche gli aspetti più “intestinali”- la incarna almeno nello scopo così come nella libertà di non averne uno, (dato che neanche la bellezza può essere tacciata di fini). Ne viene fuori un percorso che sviscera la tematica del cibo e testimonia l’avvio di una ricerca che ha visto impegnata l’Accademia in sintonia con le grandi questioni messe al centro quest’anno, contribuendo a estendere il dibattito anche alle ultime generazioni. Dalla riflessione sulla deperibilità del cibo nella natura morta tinta di verderame delle fotografie “allestite” di Picariello, ai binomi cibo-sesso e fame-pulsione affrontati negli scatti di Spolverini, per arrivare alle sagome viscerali e “malate” di Pane, l’iter espositivo traccia testimonianze estetiche destinate ad approdare durante l’estate presso la Fortezza di Civitella del Tronto. Lavori giovani, ma appunto frutto di una indagine maturata nel crocevia di un’esperienza che regge il confronto con gli spazi e che sa destare ulteriori riflessioni sulla tematica. n ESTATE 2015 | 253 segno - 69


Marche Centro d’Arte

Expo di arte contemporanea Marche Centro d’Arte ha presentato la V edizione dell’Expo di arte contemporanea, un progetto articolato che dimostra di poter e saper crescere nel territorio senza vincolarsi ad esso, ma guardando sempre più all’esterno. Anticipata al mese di aprile l’inaugurazione, anche per permettere l’incontro con il mondo della scuola, l’Expo si è dato una scansione ritmica che ha permesso di sviluppare in dettaglio le diverse componenti territoriali che si sono affiancate alle mostre d’arte. Quest’anno Marche Centro d’Arte ha celebrato i venti anni di attività della Galleria Marconi di Cupra Marittima e il lavoro svolto da Franco Marconi, titolare della Galleria e co-ideatore e direttore artistico del progetto Marche Centro d’Arte. Sono stati 20 anni di resistenza e lavoro che hanno portato la Galleria Marconi ad essere un punto di riferimento per il territorio e una realtà riconosciuta e sempre aperta a nuovi stimoli. Fare cultura, promuovere l’arte, difendere il lavoro degli artisti, costruire ogni giorno un legame con uomini, progetti, idee, sono solo alcune delle caratteristiche mostrate dalla galleria in questi anni. Per sviluppare l’Expo sono stati invitati allora 42 tra gli artisti che hanno esposto in galleria, a cui sono stati affiancati i 12 nomi emersi dal bando della Selezione MCdA. Gli artisti hanno così offerto uno sguardo sulla strada percorsa, ma anche un possibile percorso per il futuro, perché, come è accaduto negli anni passati, dal bando potrebbero uscire gli artisti che esporranno in Galleria nei prossimi anni. A gestire il progetto e tutto il lavoro sono state invitate poi sette curatrici : Nikla Cingolani, Anna Rita Chiocca, Rebecca Delmenico, Valentina Falcioni, Maria Letizia Paiato, Cristina Petrelli, Lucia Zappacosta, che si sono occupate delle diverse sezioni. Sette curatrici che sono esemplificative anch’esse del passato, del presente e del futuro della Galleria. Nella costruzione di questo complesso percorso Marche Centro d’Arte ha coinvolto 5 città della Provincia di Ascoli Piceno: Cupra Marittima, Monsampolo del Tronto, Monteprandone, Offida, San Benedetto del Tronto, città che hanno ospitato le diverse sezioni dell’Expo. Cupra Marittima, presso gli ex spogliatoi della Stazione Ferroviaria, ha visto Anna Rita Chiocca presentare la collettiva Minima curvatura (Il tempo come differenza) con le opere di Francesca Gentili, Giovanni Presutti, Josephine Sassu, Marco Scozzaro. Presso il Polo Museale ex Convento S. Francesco a Monsampolo del Tronto Valentina Falcioni ha presentato Il corpo non mente con i lavori di Franco Anzelmo, Giuseppe Biguzzi, Armando Fanelli, Niba, Mario Vespasiani, Rita Vitali Rosati. TERATOPHOBIA - chi ha paura dei mostri? è il titolo che ha dato Maria Letizia Paiato alla sua sezione, presso Palazzo Parissi a Monteprandone, presentando le opere di Mara Aghem, Giovanni Alfano, Attinia, Luca Bidoli, Giorgio Pignotti, Zino. Lo Showroom Ciù Ciù in Piazza del Popolo ad Offida ha ospitato ALTER MODERNITAS la sezione curata da Lucia Zappacosta con i lavori di Nicola Caredda, Roberto Cicchinè, Tiziana Contino, Gianluca Cosci, Peter De Boer, Elena Giustozzi. Infine il PalaRiviera di San Benedetto del Tronto, che ormai è la sede storica dell’Expo, ha ospitato anche per la V edizione tre 70 - segno 253 | ESTATE 2015

In alto: Roberto Cicchina A destra: Niba In basso a destra: Giorgio Pignotti Sotto: Peter De Boer

Franco Anzelmo

Armando Fanelli

sezioni: “Se una notte d’inverno un viaggiatore” a cura di Nikla Cingolani con le opere di Federica Amichetti, Valentino Bardino, Violetta Canitano, Pierfrancesco Gava, Luigi Grassi, Dario Maglionico, Piero Mezzabotta, Sebastiano Mortellaro, Giuseppe Negro, Alessandro Rivola, Silvia Sanna, Giuseppe Tomasello; SUB SPECIE AETERNITATIS a cura di Rebecca Delmenico con i lavori di Karin Andersen, Annalisa Cattani, Claudia Losi, Sabrina Muzi, Eugenio Percossi, Christian Rainer, Giovanna Ricotta, Paola Sabatti Bassini, Rita Soccio, Cosimo Terlizzi, Lidia Tropea; SONNO O SON DESTO a cura di Cristi-

na Petrelli con le opere di Maria Chiara Calvani, Maria Angela Capossela, Paolo Consorti, Nicola Di Caprio, Rocco Dubbini, Paola Risoli, Giovanni Manunta Pastorello, Carla Mattii, Giuseppe Restano Visitare l’Expo in tutte le sue diverse sedi e declinazioni permette anche di entrare in contatto con il territorio piceno, le sue bellezze e le sue ricchezze, paesaggistiche, culturali, architettoniche ed artistiche. Marche Centro d’Arte è andato ad inserirsi in questo tessuto e ha provato ad interagire con i luoghi senza stridere e senza restare soffocato. Il risultato è un lavoro di amalgama che premia le opere e


attività espositive recensioni e documentazione

Armando Fanelli

Josephine Sassu Claudia Losi

Federica Amichetti

Eugenio Percossi

Giuseppe Restano

Giovanni Presutti

Giovanni Alfano

Cosimo Terlizzi

Mara Aghem

Alessandro Rivola

Mario Vespasiani

Attinia

Nicola Di Caprio

la ricerca degli artisti e rafforza la ricchezza dei luoghi ospitanti. Così sia quando ci troviamo in luoghi storici come la Piazza del popolo di Offida, il Chiostro di S. Francesco a Monsampolo o Palazzo Parissi ad Offida, che quando siamo in luoghi contemporanei come la Stazione di Cupra o il PalaRiviera di San Benedetto del Tronto, l’impressione che si ha è di un ordine, di una accurata ricerca di dialogo fra luogo e opere. C’è dell’altro, a mio giudizio, su cui bisognerebbe riflettere: è il dialogo tra costa e interno che l’arte produce in questo tour artistico tra mare e colline, non si ha l’idea di un centro e un contorno,

ogni sede, ogni mostra è come il nodo di una rete, se San Benedetto presenta più sezioni è solo perché ha a disposizione una superficie espositiva maggiore. Ci troviamo di fronte a un Expo diffuso nel territorio e plurale perché è proprio il territorio che porta a far sviluppare questa pluralità di idee. Il presidente di Marche Centro d’Arte, Lino Rosetti, parla spesso dell’importanza della funzione dell’arte come forza di aggregazione per il territorio, probabilmente vedere come le sedi, le città, gli artisti, i curatori e gli organizzatori sono riusciti a mettersi in relazione tra di loro è la dimostrazione che questo

assunto può essere vero e realizzabile, quando il lavoro è fatto con onestà e rispetto. La domanda è a questo punto su cosa ci potrà riservare la VI edizione, perché i presupposti per migliorare ancora ci sono, purché non si rinunci all’idea che ogni dettaglio è importante, che ogni partecipante è indispensabile, che realizzare progetti importanti è possibile anche in momenti di crisi, basta avere la consapevolezza del lavoro da fare e delle proprie forze e capacità. Tutto questo Marche Centro d’Arte per ora è riuscito a farlo. Dario Ciferri ESTATE 2015 | 253 segno - 71


Palazzo Pantaleo - Taranto

Alessandro bulgini

Un trono composto da una vecchia sedia in plastica issata su tipiche lattine di birra, e un motorino decorato a motivi bianco/neri, gli stessi che ricoprono in un secchio gusci di cozze, dei pneumatici, un relitto di barca abbandonato in acqua, qui fotografato. O ancora, una cartina dell’Italia sbiadita dal contatto con l’umidità, che la divide in due parti dando al sud più nitido rilievo; le insegne colorate su assi di legno del palio dei pescatori tarantini; un dipinto preso dalla bottega di un vecchio artista/artigiano del posto; tante immagini, giganti o piccole, che documentano azioni compiute quotidia-

namente per un mese nella città vecchia a Taranto. Tipo: tentare per un’ora di “spostare un’isola” cittadina, un lembo di terra tra Mar Piccolo o Mar Grande, con una semplice barchetta a remi (operazione paradossale, documentata come le altre dall’obiettivo fresco di Cosimo Calabrese). Sono le tracce espositive riunite nelle sale di Palazzo Pantaleo a Taranto. Installazioni, video, foto, dell’intenso progetto relazionale “Taranto Opera Viva” che Alessandro Bulgini ha realizzato risiedendo per un mese nel bellissimo ma degradato centro storico, rapportandosi alla gente del posto con l’esigenza di riattivare un tessuto umano più che fisico e stimolarlo a riappropriarsi creativamente dei propri luoghi e delle proprie storie. Antonella Marino

Alessandro Bulgini, Taranto Operativa, 2015, courtesy l’artista

Polo Museale S.Spirito - Lanciano

Vito bucciarelli

“Ciclicamente la terra viene ridistribuita” questo il titolo che Vito Bucciarelli ha voluto dare alla sua mostra allestita presso il Polo Museale di Santo Spirito, a Lanciano. L’espressione, che fuori dal contesto storico-sociologico da cui nasce, finisce per assumere un sapore predittivo e blandamente visionario, è tratta da un libro degli anni Trenta, con immagini della Cina, conservato dal padre dell’artista, che, in quel continente, da giovane aveva soggiornato per alcuni anni. La disponibilità a stupirsi connaturata all’infanzia e le effettive meraviglie di una terra lontana, divengono il terreno di coltura per un intreccio tra Memoria e Futuro che si rilanciano e si rinsaldano vicendevolmente. Oggi, come negli anni Settanta, testimone e protagonista del lavoro di Bucciarelli è ancora lo “psiconauta” (un immagine

del corpo dell’artista in posa, inizialmente stampata sulla tela, e divenuta poi, col tempo, oggetto tridimensionale in gesso o ceramica) ma si tratta, questa volta, di uno psiconauta significativamente realizzato in cartapesta. Questo disarmante e disarmato omino continua dunque il suo viaggio tra i valori e gli obblighi della pittura, tra un dover essere che non accetta più di proporsi come ideologia e aspirazioni che si nutrono di libertà ma solo a patto che essa sappia essere costruttiva. Lo psiconauta di carta pesta guarda l’opera e si guarda intorno poggiato sui nuovi orizzonti che ha aggiunto al suo bagaglio di strumenti d’indagine, ovvero su sottili barre metalliche, fissate alla parete con la naturale funzionalità di un pezzo d’arredo. Sono barre che ora consentono alla sua figura di stagliarsi contro cieli di colori assoluti: gialli, viola, arancio, blu, rosa.... Il riferimento al “colore-luce”, come ci suggerisce l’artista stesso, non fa riferimento ai pittori antichi, e neppure, come verrebbe da pensare, agli Impressionisti, bensì alle tele di Marc Rothko, cioè ad un

Vito Bucciarelli, Ciclicamente la terra viene ridistribuita, 2015, foto Antonio De Biaso

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modo di concepire la pittura che nasce da momenti di libera espansione gestuale e cromatica, ma si confronta programmaticamente con i limiti dello spazio abitato e abitabile, ovvero con la percezione che l’individuo ha del proprio rapporto fisico con l’intorno. Così il colore/luce rimane l’unico protagonista dell’esperienza percettiva ed è pronto ad accogliere delle piccole tele “digitali”, su cui sono impresse, in bianco e nero, immagini evocatrici di visioni notturne, tratte da una serie di foto che documentano angoli o paesaggi della Cina. Siamo dunque autorizzati a dire che le grandi aree di colore omogeneo che Bucciarelli sottopone alla nostra attenzione e lega al nostro sguardo, ricevono, in qualche modo, la loro investitura di spazio pittorico-esistenziale grazie agli orizzonti, suggeriti dalle barre di cui sopra, ma nel far questo dobbiamo anche ammettere la possibilità di affermare che una simile cornice a metà tra il segno e il sostegno non può a sua volta esimersi dal riflettere le proprie qualità identificative sullo spazio stesso, caricandolo di tutta una nuova serie di possibilità espressive e analitiche ad un tempo. Riflesso metallico, linearità e flessihilità attivano, infatti, dinnanzi agli occhi di chi guarda, un processo di combinazioni distributive e relazionali, simili a quelle su cui si basano la scrittura o il disegno geometrico: divengono cioè (mi si perdoni l’ossimoro!) “visioni concrete”. Le didascalie delle opere sono frasi tratte dal “Milione” di Marco Polo, probabilmente a partire dal momento in cui Marco e Kublai Khan cominciano ad avere un intenso dialogo costellato dalle descrizioni delle città di cui il veneziano relaziona all’imperatore dei Tartari. La mostra è completata, infine, dalla proiezione di alcuni video girati dagli anni Settanta ad oggi che hanno come protagonista lo “psiconauta” in tutte le sue trasformazioni. In una conversazione con Romano Gasparotti (riportata in un libro che accompagna la mostra), Vito Bucciarelli, spiega come è nato il suo omino viaggiante nello spazio. “Il personaggio, che chiamai ‘strumento dello psiconauta’ - egli dice - è il risultato di una modellazione avvenuta all’inizio degli anni Settanta. Il referente di tale modellazione è stata un’immagine del mio corpo in posa stampata su tela. Ne è scaturito un oggetto sul quale, nel corso degli anni, ho tasferito tutte le esperienze del mio pensiero e del mio approccio fenomenologico al reale.” Dopo Rothko e l’Action Painting dunque ancora un modo di dipingere con il proprio corpo, ma questa volta attraverso un coinvolgimento estroflesso e come rifratto per renderlo nuovamente capace di accogliere in se le istanze della memoria, sia personale che culturale di chi fa e di chi vive l’opera d’arte. Lucia Spadano


attività espositive recensioni e documentazione

Galleria Paola Verrengia - Salerno

felice levini & h.h. lim “No Coffee, no cigarettes” è il titolo di una performance e di una mostra, allestita alla Galleria Paola Verrengia da H.H. Lim e Felice Levini: due artisti che, pur avendo provenienze diverse sia quanto ad etnia che quanto a formazione culturale, hanno in comune un modo di procedere nella costruzione delle loro opere che va ben al di là della semplice omologia formale ed approda semmai ad un sistema di coordinate mobili e predisposte alla complementarietà che stanno alla base del fascino aperto ma ricco di rimandi non immediatamente evidenti e come “sospesi” del loro lavoro. Entrambi si servono della scrittura la quale se in Levini, sottolinea un peculiare rapporto tra immagini e parole (citazioni e frasi non sono mai un semplice corredo esplicativo delle icone, ma assumono spesso forma di aforismi) nel caso di Lim insiste invece sulla relazione tra parola e spazio, usati come soggetti di una manipolazione diretta in cui il materiale visivo e il simbolo alfabetico si sovrappongono e si scambiano le parti in un gioco sempre nuovo e spesso inatteso di riferimenti semantici. Un ulteriore procedimento che li accomuna è quello di “animare” le proprie installazioni con delle performances dotate di un loro tempo ed una loro struttura autonomi ma concepiti come perfettamente adeguati ad entrare in risonanza con il racconto visivo di volta in volta presentato, ad entrarvi non in qualità di commento ma con una funzione di rilancio e per così dire, di “ulteriore scommessa” sul senso sotteso all’operazione comunicativa. Lim è di origine cinese, nato in Malesia, ma vive a Roma dal 1976. La sua capacità di sintetizzare temi e contesti socio-culturali di diversissima provenienza e l’interesse per il linguaggio come luogo di tale sintesi derivano proprio dalla vocazione del suo paese d’origine, nazione multiculturale, multilinguistica e multietnica per lunga tradizione. Levini, è nato a Roma dove vive e lavora, usa invece la performance per rendere nuovamente umane le icone che egli stesso ha in precedenza creato, le quali divengono tridimensionali prendendo vita grazie alla buona volontà del performer. Un senso più profondo, ma non per questo più difficile ad attingersi, riconsiderato come base intemporale e, in qualche modo, anche “trasversale” su cui intervengono i diversi linguaggi. Più in particolare la performance nel caso di Lim, è stata spesso giocata sulle doti che il saggio deve acquisire per potersi rapportare al meglio con il fluire apparentemente disordinato ed imprevedibile dell’esistenza. Doti come la pazienza (“Il Pescatore”), il controllo dello slancio (“Equilibrio sul Pallone” e “Il Tuffo”), oppure l’attesa fondata su di una fiducia progressivamene acquisita attraverso un percorso meditativo. è il caso quest’ultimo dello “Zerbino d’oro”, un tappeto rituale, che si riaggancia al mito di Re Mida, il quale, come sappiamo, trasformava in oro tutto ciò che toccava allo stesso modo in cui lo zerbino trasformerà in oro tutto ciò che attraversa la soglia da lui individuata e contrassegnata. L’oro oltre la soglia , ovviamente, altro non è che l’arte intesa come valore. Quello stesso valore cui aspirava il processo alchemico in un clima culturale più internazionale anche se meno direttamente connotato

In alto: H.H. Lim, Buongiorno, 1996 In basso: Felice Levini, Astratti Furori, 2014, cm.160x118 (courtesy Galleria Verrengia, Salerno)

ed esibito rispetto a quello della civiltà ellenica. Oggi la nebulosa e quasi segreta internazionalità ed interculturalità del “Sapere” alchemico è stata sostituita da un altro mito di più facile accesso ma altrettanto soggetto ad equivoci e fraintendimenti: quello della società globalizzata, l’arte dovrà dunque riaffermare il suo valore rispetto ad essa nonostante le deviazioni e le ingannevoli rifrazioni di questo nuovo e assai meno affascinante sapere separato. Lim è di origine cinese, nato in Malesia, ma vive a Roma dal 1976. La sua capacità di sintetizzare temi e contesti socio-culturali di diversissima provenienza e l’interesse per il linguaggio come luogo di tale sintesi derivano proprio dalla vocazione del suo paese d’origine,

nazione multiculturale, multilinguistica e multietnica per lunga tradizione. Levini, è nato a Roma dove vive e lavora, usa invece la performance per rendere nuovamente umane le icone che egli stesso ha in precedenza creato, le quali divengono tridimensionali prendendo vita grazie alla buona volontà del performer. (E basti qui ricordare i “Carabinieri” in alta uniforme oppure i “4 Cardinali”, rappresentanti i punti dell’orientamento geografico, presentati alla Biennale del 1993) Un’operazione di natura ciclica che spesso lo vede esibirsi in prima persona, con una logica di volta in volta commisurata all’opera, ma anche carica di riferimenti alla cultura popolare, del nostro paese. Lucia Spadano ESTATE 2015 | 253 segno - 73


S.Maria Nova del Pilastrello - Vimodrone

Rita vitali rosati

Domenico Carella, Carta industriale e ferro, 2015, cm.50x50x50, foto Barbara La Ragione

Art’infabbrica - Foggia

domenico carella Domenico Carella, artista pugliese del quale già conosciamo i grandi collages fatti di giornali, specchi, innesti di acrilici, foglia-argento, foglia-oro, bitume e grandi quantità di consonanti e vocali, numeri arabi e romani, simboli di punteggiatura, maiuscole e minuscole, di dimensioni e stili diversi, moltiplicati all’infinito con stampe laser su legno, in quest’ultimo progetto espositivo intitolato “Colonna 2015” raccoglie migliaia di fogli colorati e bianchi, chili e chili di pagine a stampa, e li accumula, giorno dopo giorno, sino a creare un’unica, altissima, incredibile installazione ambientale (alta ben cinque metri), un monumento dedicato all’epoca post-gutenberghiana. Da anni, nelle opere dell’artista pugliese, gli alfabeti assumono fascinazioni diversificate, si fanno segno-progetto, segnofigura, segno-paesaggio, segno-architettura. Segno come racconto del quotidiano. Segno come storia del presente. Anche in questa architettura/scultura della narrazione ogni segno è ambiguo, in-divenire, in-definibile. Forma provvisoria pronta a tradursi in altro. Sempre in movimento, in mutazione, in fuga verso un altrove. Mobile s-nodo di un sistema di relazioni tra grafemi, frammenti, sillabe, parole. Non più marmo, non più pietra né bronzo, ma pile di quotidiani per definire un discorso poetico sul mondo, uno sguardo contemplativo sul tempo. Questa è la “Colonna 2015” di Carella, un totem di pagine di carta eretto come colonna coclide per onorare la memoria di un effimero immaginario collettivo. Così, mediante un ideale viaggio di purificazione, l’artista riconcilia passato e futuro in un territorio che è quello dell’arte. In questo spazio magico, egli recupera le pause, i silenzi, i vuoti che preannunciano il pensiero riflessivo e l’esperienza meditativa. In un momento storico di vasta contaminazione linguistica, in cui l’esperienza del reale viene fusa e confusa nell’inganno del virtuale, l’opera si interroga sulle nuove modalità della conoscenza, sui cortocircuiti di senso generati dal medium di massa; innesca strategie di disobbedienza. Lo testimonia anche il libro d’artista edito da Danilo Montanari di Ravenna (a cura di Loredana Rea e della scrivente Maria Vinella) che accompagna il progetto, preziosa occasione di riflessione e di confronto per un gruppo attento di testimoni, critici e storici dell’arte (Romeo D’Emilio, Matteo Galbiati, Kevin McManus, Marco Tonelli, Raffaella Barbato, Isabella di Liddo, Sara Errico) che hanno contribuito al farsi di questo creativo work in progress, mescolando produttivamente pensieri e parole alle visioni dell’arte. Maria Vinella 74 - segno 253 | ESTATE 2015

Appena fuori Milano, nel comune di Vidromone, sorge la piccola cappella quattrocentesca del Pilastrello dedicata alla Beata Vergine, addossata all’oratorio di Santa Maria Nova dove sono conservati, splendidi affreschi attribuiti alla scuola di Bernardino Luini. È in questo piccolo edificio, avvolto nell’isolamento della preghiera, consono alla sacralità del luogo, che trova dimora l’irriverente installazione di Rita Vitali Rosati; un lavoro che, ispirato e affine a temi propri della cristianità, racconta e mette in luce drammi e disagi tipici della società contemporanea, il desiderio e la necessità di comprensione e amore nel e per l’“altro”. Rita Vitali Rosati è una vera signora dell’arte, che con eleganza entra in punta di piedi, ma letteralmente armata della forza delle sue immagini, sovvertendo innanzi tutto il concetto di Sancta Sanctorum. La parte più sacra della piccola chiesa, è, infatti, immaginata dall’artista, non più come luogo interdetto ai proseliti, ma nella sua estensione all’intera area dell’edificio, come spazio della comunità, traslando così il senso di contemplazione divina sul piano dell’umanità. Un percorso, tuttavia, affatto che semplice. Infatti, la linea retta che conduce all’altare è ostacolata dalla presenza di ritratti dislocati lungo il tragitto che rendono il corridoio difficile e faticoso da percorrere, metafora degli ostacoli che spesso accompagnano il cammino della vita. Scrive Giovanna Giannini Guazzugli curatrice della mostra: «Nonostante l’artificio, la messa in scena, le pose studiate, i ritratti sono sfacciatamente veri. Costringono a guardare, a partecipare, forti di un simbolo comune che riassume bene molte sfumature di sofferenza e disagio drammaticamente diffuse nella società contemporanea». Il simbolo comune cui si riferisce la curatrice, è quella corona di spi-

ZooZone Art Forum - Roma

Cesare pietroiusti

Guardare indietro a ciò che si è lasciato volontariamente, per selezione, può dare con il tempo un risultato di verifica inaspettato. Cesare Pietroiusti con Lavori da vergognarsi, ovvero Il riscatto delle opere neglette sembra valutare la sua idea di retrospettiva con occhi critici e severi. Perché da una selezione di opere del passato si rivede che queste sono state selezionate, o meglio, scartate perché considerate inadeguate e che sono descritte da lui stesso come “lavori, insomma di cui mi sono vergognato e che ho nascosto, e che oggi, per vari motivi, possono aspirare a un riscatto.” Così dalla rivisitazione di questi lavori può nascere una nuova opera, fatta della stessa complessità e della riconsiderazione del motivo che ha fatto maturare lo scarto. Quindi il problema centrale è nella mostra, quello strumento che consente di osservare l’opera in un contesto e un allestimento che comprende un investimento di significato specifico. Infatti nella mostra da Zoozone Art Forum di Roma il significato è deciso e decisivo, netto, parla il linguaggio chiaro delle immagini “rifiutate” e prima ancora della stessa volontà dell’artista di palesare l’irrisolto conflitto con l’opera d’arte. Un conflitto antico quanto l’uomo, che viene messo in

ne che cinge il capo delle persone ritratte. Una corona che, lungi dall’essere un segno di blasfemia, diventa l’oggetto concreto, la rappresentazione delle proprie pene, e al contempo anche il segno del Figlio di Dio che si è fatto uomo. È in questo modo che Rita Vitali Rosati mostra la fragilità dell’essere umano, osservandola e giudicandola, non come una debolezza, non come una vergogna, ma come un dono prezioso che ci avvicina agli altri. E quella stessa corona di spine, la porta anche la protagonista del video Epitaph che si muove nello spazio del mercato di Fabriano, città dove vive e lavora l’artista. Qui, questa figura androgina, offre la corona ad ambulanti e massaie chiedendo loro di volerla condividere con lei. Se nei ritratti, il simbolo della cristianità per eccellenza, della sofferenza di Cristo è un fardello che gli uomini e le donne portano ancora da soli, in Epitaph si palesa la necessità di condividerlo, lasciando aperta anche e soprattutto la possibilità di un rifiuto. Questo invito finale è dunque un invito che risuona nella piccola chiesa, forse più forte e potente dei tanti messaggi di santità che quelle stesse mura nei secoli hanno assorbito, perché tocca sul vivo la capacità di ciascuno di noi di mettersi a disposizione dell’altro. È un messaggio di altruismo, è un messaggio di abnegazione. La mostra organizzata in collaborazione con Sponge ArteContemporanea è il primo appuntamento del ciclo espositivo ideato per diffondere la conoscenza della Chiesa di Santa Maria Nova del Pilastrello. Maria Letizia Paiato Rita Vitali Rosati, Sancta Santorum

evidenza e a volte risolto con la mostra, che costringe a un cimento e una analisi senza filtri o scusanti. Questa possibilità finora poco considerata porta ad affrontare il non finito, a lavorare per correggere e sforzarsi di raggiungere un valore. Scardinando la pigrizia, che ha portato a fermarsi e pensare conclusa un’opera che invece tratteneva ingenuità e scarso contenuto, si può raggiungere un “riscatto” dall’oggettualità stessa o dalla ricerca di senso assoluto. Le opere esposte hanno didascalie che sono parte integrante del lavoro, scritte con cura da Pietroiusti raccontano la genesi dei lavori e la motivazione che ha portato al rifiuto. Insomma un lavoro di auto analisi e di ricerca a 360°, per raggiungere uno straccio di significato critico: davvero una mostra da vedere e da cui prendere qualche spunto di ricerca. Ilaria Piccioni

Cesare Pietroiusti


attività espositive recensioni e documentazione

MACRO - Roma

giuseppe pietroniro andrea salvino è con gli artisti Giuseppe Pietroniro e Andrea Salvino che il MACRO di Roma ha inaugurato la rassegna espositiva dal titolo “Appunti di una generazione #1”, a cura di Costantino D’Orazio. Due personali - poste una di fronte all’altra nelle stanze “Studi d’artista” del MACRO al secondo piano - dialogano ciascuna con il proprio spazio per farlo diventare ambiente dai confini inediti nel caso di Pietroniro e cabinet iconografico dedicato alla memoria storica nel caso di Salvino. Le due mostre si interfacciano l’una con l’altra per esser entrambe pagina/testimonianza del lavoro di due artisti figli della generazione attiva a Roma dagli anni ‘90; quest’ultimo aspetto è motivo d’indagine di tutto il progetto che proseguirà a febbraio 2016 con gli artisti Federico Pietrella e Donatella

Spaziani. “E’ come se nulla fosse...” - titolo della mostra di Pietroniro- può essere anche avvertito come un sottile sussurro velatamente ironico da parte dell’artista. Perché? Per diverse ragioni. Innanzitutto entrando nello spazio espositivo si entra nell’opera vera e propria dove percezione e punto di vista prospettico si mescolano fino a fondersi e contraddirsi per poi ritrovarsi. Tre pareti concepite per moduli pittorici restituiscono l’illusione di spazi prima lontani e poi vicini, scorci laterali e visioni frontali, sezioni specchianti e deformanti pongono lo spettatore in uno spazio altro (quello mentale dell’artista?) che cambia inevitabilmente ad ogni passo, che spiazza con discrezione, attraverso lo sguardo. Un gioco da illusionista che culmina nell’intervento del pannello addossato di spalle alla parete libera dell’ingresso, in cui è possibile intravedere di scorcio un paesaggio riflesso e visualizzato in profondità senza poter stabilire con certezza l’origine dell’immagine. Di tutto questo, come se nulla fosse, se ne può fare esperienza. Nella mostra “Ricominciare da capo non si-

Andrea Salvino, Ricominciare da capo non significa tornare indietro, 2015, veduta della mostra, foto Giorgio Benni

CAP Centro Arti Plastiche di Carrara

Art Hub Carrara

Associazione BlitzArt, in partenariato con il Comune di Carrara e con la L’ collaborazione del Centro per l’Arte Con-

temporanea Luigi Pecci, ha creato Art Hub Carrara - Incubatore delle professioni dell’arte, il primo hub italiano dedicato ai mestieri del contemporaneo, e la cittadina toscana di Carrara ne è perfetto contenitore. Intento di Art Hub Carrara, partendo come start up, è quello di diventare luogo permanente di coworking artistico – un hub, appunto – in cui profili diversi ma complementari si relazionino e collaborino alla creazione e progettazione di iniziative culturali contemplandone la produzione e l›esito a 360° – dal manufatto all’hashtag, per dirla con un tweet. Si propone come incubatore vivo e attivo nel quale maestri e maestranze possano misurarsi in concreto e nell’immediato, passando a strettissimo giro dalla formazione al lavoro vero. Si articolerà su tre fasi in tutto il 2015: fase attuativa sarà il Summer CAmP che avrà luogo a settembre, un corso di progettazione culturale in cui studenti e giovani lavoratori saranno affiancati da tutor e professionisti del circuito del contemporaneo nell’ideazione di progetti ed eventi da proporre a istituzioni pubbliche e private. Prima però nell’ambito dell’Hub Exhibition – dal 10 luglio al 4 ottobre – le opere della collezione permanente del CAP Centro Arti Plastiche di Carrara (Kounellis, Aldo Mondino, Nunzio, Perino e Vele, Vangi, Aldo Mangiarotti, Guadagnucci, Kenneth Armitage, Viani etc.) saranno rilette in chiave lavorativa, evidenziando quanti e quali braccia e menti – oltre a quelle dello scultore – abbiano lavorato su un’opera. Il progetto è stato presentato a maggio presso il CAP, sede di tutte le iniziative di Art Hub Carrara, con tre giorni di Case

History al quale sono intervenuti 15 protagonisti che hanno raccontato riti e virtù del loro lavoro e lo hanno presentato a un pubblico vario. Tra gli intervenuti Fabio Cavallucci, direttore del Pecci, la crowdfunder Chiara Spinelli, che ha illustrato il complesso mondo della raccolta fondi del futuro, l’avvocato Filippini La Rosa (consulente di gallerie e musei), Sara Dolfi Agostini, contributor di Art Economy del Sole 24 Ore, Stefano Le Pera della piattaforma di job matching Whatchado Chiara Laterza, social media manager di H-ART, Filippo Tincolini di Torart (l’innovatore che realizza sculture con robot 3D per Gormley, Zaha Hadid etc.), Fabio Viola, la gamification al servizio dell’arte e creatore di TuoMuseo, l’ufficio stampa Rosi Fontana, la editor Debbie Bibo, Jacopo Antolini, perito ed esperto d’arte, Laura Fiaschi e Gabriele Pardi, designer a capo di Gumdesign, Christian Marinari, progettista educational per il Pecci e già per la Strozzina, Renata Bianconi della Galleria Bianconi, e Francesca Alix Nicoli, giornalista d’arte titolare dei Laboratori Artistici Nicoli di Carrara, azienda per la lavorazione artistica dei marmi a conduzione familiare da sei generazioni, associata all’Unione delle Imprese Storiche Italiane: “I nostri Laboratori Artistici sono stati riconosciuti nel 2000 come Sito Unesco Portatore di Un messaggio di Pace. Come recita il motto delle Imprese Storiche, noi giovani imprenditori abbiamo una tradizione a volte ingombrante che rischia di strozzarci come quelle radici ostinate e tenaci degli alberi plurisecolari, penso al peso dell’autorità della figura paterna e l’insopportabile fardello del passato. Abbiamo però dalla nostra una naturale disposizione ad accettare sempre nuove sfide, proiettandoci sul domani, con sogni audaci e progetti quelli invece molto concreti e ben piantati a terra. Una insaziabile curiosità intellettuale mi ha dunque spinta ad avvicinare i migliori interpreti del nostro tempo per sentire la loro diretta testimonianza, testare la loro

gnifica tornare indietro” di Salvino, invece, ci troviamo di fronte a immagini pittoriche e disegni: una sintetica retrospettiva che abbraccia dipinti degli anni ‘90 e opere più recenti. Sebbene il fatto cronostorico sia presente nel lavoro di Salvino, si ha l’impressione di immergersi in un immaginario fuori dal tempo che cita fatti storici noti o meno noti, ripescati dal lontano passato o più recenti, affiancati nelle pareti come in una pagina dell’atlante di warburgiana memoria in cui le immagini funzionano come “batteria” di significato per tessere una narrazione rapsodica della storia, spesso scomoda e non ufficiale. Episodi raccapriccianti, immagini legate all’erotismo o alla pornografia, alla violenza e agli slogan ad essa legata, citazioni di film o nostalgie dal sapore reazionario costituiscono “documenti d’archivio” ingentiliti dal romanticismo del gesto pittorico che nella tecnica e nei colori richiama spesso il pointillisme o dal tratto repentino dei disegni che fa rivivere volti o ibridi su fogli di carta, accentuandone, per contrasto, il significato. Giuliana Benassi Giuseppe Pietroniro, è come se nulla fosse…, 2015 veduta della mostra, foto Giorgio Benni

Vanessa Beecroft, Biennale di Venezia, 2015

sensibilità acuta e visionaria – Jan Fabre, Vanessa Beecroft, Ilya Kabakov – artisti di grido sulle scene internazionali che ho dapprima intervistato e poi invitato a cimentarsi con un materiale carico di storia e di tradizioni come il marmo, un materiale

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Jan Fabre

nobile che parla greco antico. Fu amore a prima vista, Vanessa Beecroft cercava i materiali più rari e preziosi come lapislazzuli, malachite, ma anche il cipollino delle Apuane che la riportava visivamente a quell’estetica, come la chiamava lei “psichedelico-chic”, così dominante nella Los Angeles degli anni ’70. Jan Fabre invece pretendeva dai nostri scultori professionisti interminabili sessioni di lavoro durante le quali essi erano chiamati ad improvvisazioni artistiche per le quali non erano stati assolutamente formati né preparati, nel corso di oltre vent’anni di apprendistato del mestiere in bottega. Un artigiano esegue a regola d’arte, questo vale per definizione. Ci voleva quel genio rivoluzionario di Fabre a metterci dentro un po’ di originalità, ad estorcere dalle viscere di questi scultori, che sono in principio puri esecutori di idee partorite da altri, idee nuove, inedite soluzioni formali. Oggi Vanessa rappresenta l’Italia alla Biennale di Venezia su invito del curatore Vincenzo Trione ed è una grande soddisfazione per noi che abbiamo partecipato da levatrici alla nascita di questi capolavori. Viceversa il fiammingo Jan Fabre ha incantato il mondo intero presentando alla Biennale di Venezia del 2011 il ciclo Pietas, una immensa scenografia teatrale ospitata nella cornice architettonica di una chiesa romanica sconsacrata, ove i candidi marmi apuani hanno dato sfoggio di dettagli sulla morfologia degli animali e in particolare degli insetti che venivano descritti in punta di scalpello maniacalmente dai nostri scultori. Il realismo tipico dell’arte fiamminga fu così trasporto nella esecuzione di originalissime opere in marmo che andavo ad inserirsi in un contesto di opera d’arte totale, su una grande pavimentazione laminata a foglia oro, su bozzoli di scarabei scintillanti alle pareti in un complesso e ben organizzato ambiente artistico. Oggi gli studi sono ingaggiati ed intercettati dal maestro di arte povera Michelangelo Pistoletto nella produzione di uno specialissimo regalo di compleanno: Pistoletto è chiamato dall’Onu a ideare un regalo per festeggiare i primi 70 anni dalla nascita delle Nazioni Unite, che ricordiamo furono create come Società delle Nazioni per volere di Winston Churchill nel 1945. E i laboratori Nicoli realizzano per Pistoletto una vasta istallazione ambientale, il Terzo Paradiso, che verrà collocata nelle sedi principali dell’Onu a Ginevra il 24 ottobre prossimo al cospetto delle massime autorità e del Segretario Generale Mueller. Il lavoro consta di 183 pietre di media pezzatura con forme molto irregolari, superfici grezze, profili mossi o spaccati. Le 183 varietà diverse di materiali lapidei, e sono inclusi graniti africani, onici della Turchia, pietre calcaree, limestone degli Usa e moltissime altre tipologie, daranno rappresentazione dei 183 paesi affiliati all’Onu attraverso una corrispondenza biunivoca paese-pietra (presenteremo in anteprima per la città di Carrara il Terzo Paradiso di Michelangelo Pistoletto nel corso dell’estate 2015)”. Lisa D’Emidio 76 - segno 253 | ESTATE 2015

Brunella Longo, L’Altra Partecorretta 5

The House Art Rooms - Kirenia

brunella longo

Se ci si pensa bene la fotografia “classica”, quella dei grandi maestri dell’800 e del 900, non era poi così meccanica ed oggettiva come siamo portati a credere. La scelta delle pellicole, della fotocamera e degli accessori, le preferenze quanto a illuminazione, esposizione, profondità di campo e inquadratura, per non parlare delle opzioni offerte dallo sviluppo a studio e dalla stampa a mano, erano molto di più che un insieme di margini di manovra su cui lavorare per avvicinarsi ad un proprio ideale di perfezione tecnica, erano vere e proprie fasi di un rituale progressivo attraverso il quale la personalità irripetibile di ogni operatore combatteva la propria battaglia tesa a piegare la natura alle esigenze dell’immaginazione. Oggi, grazie alle possibilità offerte dall’elaborazione al computer, riflessioni del genere potrebbero apparire superflue, la ripresa iniziale potrebbe, infatti , essere considerata poco più che un materiale grezzo su cui lavorare e l’intervento con i programmi sempre più sofisticati che il mercato del soft mette a nostra disposizione essere visto come l’unico vero luogo di nascita e crescita dei linguaggi e delle poetiche di ciascuno. Se così fosse però, non si spiegherebbe come mai le immagini rielaborate a partire dalla residuale impenetrabilità dell’analogico si prestino assai meglio di quelle già informatizzate ad essere elette come territorio privilegiato per l’avvio di un indagine volta a ricostruire, al di fuori dei tempi notarili della storia, l’intreccio sottile ma saldo che ogni artista finisce per istituire tra la propria interna disponibilità al simboBrunella Longo, L’altra Partecorretta 1

lico e l’insopprimibile aspirazione di tutti alla bellezza intesa come valore primario. “Art-Emide” la mostra di Brunella Longo inauguratasi il 25 maggio presso la galleria “The House Art Rooms” nella città cipriota di Kirenia, è una bella dimostrazione proprio di questo: di come la consuetudine con le tecniche tradizionali, anche laddove non ne restasse più traccia negli effettivi procedimenti utilizzati, possa assumere il ruolo di palestra di riferimento per gli esercizi dell’immaginazione intesa come impulso primario a distaccarsi dal dato psicofisiologico per risalire fino all’istituzione di un codice linguistico. La magia, sorella del mito e madre della conoscenza, ha bisogno infatti di confrontarsi continuamente proprio con la durezza strutturale della realtà per poter trovare i cardini su cui imperniarsi e le sporgenze da cui lanciarsi, ha bisogno di omologie, complementarità, confini, assonanze, mutamenti di scala, luci, ombre e persino incertezze per costruire una testualità iconica e icnonologica adeguata ad una condivisione non raggelata ed univoca ma sempre pronta a rimettersi in moto attraverso nuove perlustrazioni dell’universo del senso. Nè più né meno il lavoro che Brunella Longo ha sviluppato negli anni, passando attraverso i diversi cicli di sperimentazione che hanno visto sovrapporsi ad una iniziale ricognizione del paesaggio naturale, sia oggetti anch’essi naturali che il corpo stesso dell’artista (in azione o analizzato anch’esso come territorio aurorale) sia, infine, una serie di riferimenti all’arte del passato mai banali o scontati ma sempre inseriti laddove il contesto sembrava richiamarli in virtù della complessità semantica raggiunta - o forse sarebbe meglio dire, “ritrovata” - grazie ad una esplorazione verticale ed imprevedibile ma tutt’altro che priva di consequenzialità. Paolo Balmas


attività espositive recensioni e documentazione

Napoli

Sergio Nannicola

l’aquila

Sergio Nannicola Progettata da Sergio Nannicola nel 2010 e realizzata cinque anni dopo nel “Parco delle sculture” al MuBAQ (Museo dei bambini - L’Aquila), l’installazione Policentrica - Pietre della memoria, è stata inaugurata con una originale performance dell’autore. Nel “primo atto” dell’azione, Nannicola ha “occultato” nel “cuore traforato” delle rocce, una pen drive, una poesia e uno spartito musicale (entrambi su carta). Nella “pennetta digitale” una presentazione critica di Antonio Gasbarrini e due libri: L’epopea aquilana del Popolo delle Carriole. All’Avanguardia dell’indignazione hesseliana; e il De umbris idearum scritto in latino da Giordano Bruno e pubblicato a Parigi nel 1582. Implacabile testimone della mancata ricostruzione dopo il sisma, l’opera abbina, con le sue silenti rocce e con i messaggi in esse incorporate, la componente estetica d’un arte tutto e solo contemporanea, a quella civico-etica. Creando così un arcobalenico ponte immaginifico tra le generazioni dell’antico passato (la vicina necropoli di Fossa in cui è stato costruito il MuBAQ), quelle presenti stravolte dal sisma e le future che avranno l’opportunità d’imbattersi negli eloquenti frammenti memoriali della tragedia tuttora in corso d’una intera comunità. (Dal c.s.)

Ugo marano Nell’ambito del Festival Internazionale del design - tradizione, innovazione e sviluppo sostenibile progetto - POR FESR 2007-2013, alla Fondazione Plart la mostra Ugo Marano. Una collezione privata di Ugo Marano, a cura di Marco Di Capua. Si tratta di un omaggio alla straordinaria produzione artistica dell’artista campano scomparso nel 2011, reso attraverso una delle collezioni più complete e articolate. Negli spazi della Fondazione, grazie a un allestimento curato dall’architetto Enzo Tenore, ceramiche, metalli, legni, tessere musive, disegni, parole compongono un corpus di lavori che testimoniano una grande sensibilità artistica e restituiscono al visitatore un alfabeto espressivo che si alimenta di frammenti esistenziali e di storie vissute che, come piccoli tasselli di un mosaico corale, si legano e stratificano costituendosi in un linguaggio originale al confine tra arte, architettura e design. Vasi di grande formato, troni in attesa di umane divinità, piatti con iscrizioni, Marano indaga l’oggetto come potente dispositivo narrativo in cui è possibile leggere una complessità di valori storici, sociali, etici e politici in dialogo con l’ambiente privato nel quale si trovano a ri/vivere. All’apparenza fragili e lievi, le opere in mostra conquistano, nel tempo e nello spazio, una propria valenza di originalità persistente e tenace. Gli scritti esposti si propongono come ulteriore filtro sensibile di relazione con l’essere umano e con l’ambiente che lo circonda, divenendo propagazione dell’identità dell’individuo nella società. Presentati anche due video inediti, il primo realizzato ad hoc dal videomaker Pasquale Napolitano e il secondo, L’Assenza di Ugo Marano, realizzato da Lino Fiorito nel 2011 dopo la scomparsa dell’artista. (c.s.)

Roma

josè d’apice Juan Miguel Pozo, Utopia, cm.200x250 courtesy l’artista

pietrasanta (lucca)

Juan Miguel Pozo Nuovo spazio espositivo ESTART Gallery a Pietrasanta. Proposte di giovani talenti o artisti affermati, che utilizzano diversi mezzi espressivi dalla pittura al collage, dalla performance alla fotografia. La programmazione estiva prevede, fino a Settembre, un ciclo di tre mostre a cura di Claudio Composti. La prima è del pittore cubano Juan Miguel Pozo, alla quale seguiranno quelle di due giovani artisti: l’italiana Francesca Belgioioso e il francese Rubén Brulat. Pozo tratta la materia pittorica con uno stile tutto personale, creando una interessante miscela tra influenze Pop e Surrealiste e un tocco di Street Art. Dietro immagini estetiche di forte impatto, nasconde tematiche politico-sociali.

milano

Zino Nel parcheggio multipiano di Via Gorizia, trasformato per l’occasione in museo temporaneo per ospitare Luogo Comune/ Common Place, esposizione provocatoria e riflessiva di Zino (nome d’arte di Luigi Franchi), artista la cui ricerca si muove intorno al concetto di estetica dell’oggetto e della comunicazione visiva. «Sono molto soddisfatto - dice l’artista - perché non solo la gente è accorsa numerosa a vedere le mie opere, ma tra loro si sono sviluppate discussioni. Spero di essere riuscito nell’intento di offrire un nuovo punto di vista, che è poi il ruolo dell’arte». La mostra, curata da Maria Letizia Paiato con Raffaele Quattrone, verrà riproposta in altre città.

Al Museo “Venanzo Crocetti personale di JOSÉ D’APICE a cura di Francesco Poli. L’evento, ideato e organizzato dalla Fondazione Malvina Menegaz di Castelbasso rientra nel percorso che da oltre dieci anni la stessa Fondazione porta avanti nell’ambito della promozione dei linguaggi artistici e delle più significative espressioni dello scenario contemporaneo. Nella mostra sono proposti lavori inediti di José D’Apice, un artista di cui Francesco Poli in catalogo lo descrive come “un inquietante e problematico esploratore dell’immaginario, che ha dato vita nel tempo a un mondo fantastico carico di implicazioni criptiche e di vasti e articolati riferimenti culturali artistici, letterari, filosofici, scientifici, antropologici, e molto altro. E lo ha fatto mettendo in atto modalità compositive basate su procedimenti sempre spiazzanti in chiave di combinazione, fusione e trasformazione metamorfica degli elementi grafici figurativi e di quelli concretamente oggettuali”. A proposito dei libri in mostra, Francesco Poli chiarisce come “il gusto per la narrazione assume una sua più esplicita evidenza, in particolare, in un significativo filone della sua produzione, quello dei libri, opere tridimensionali quanto mai bizzarre realizzate assemblando i più disparati eleZino, Project, 2015, courtesy l’artista

menti e oggetti (insieme a inserti disegnati o a collage) e utilizzando materiali come legno e piombo”. Sono assemblage anche altri tipi di artefatti tridimensionali che spesso si configurano come dei contenitori a forma di scatole aperte o di vetrinette da appendere al muro. Sono delle “boîtes à surprise”, delle “boîtes magiques” (quasi sempre rivestite di fogli di piombo) che si collegano come i “libri” alla migliore tradizione degli oggetti dadaisti e surrealisti a funzionamento simbolico. (c.s.)

Josè D’Apice, Laura e le sue ancelle matita colorata, grafite, china, gessetto, piombo, viti e gesso su legno, cm.155x150 Eva Frapiccini, Selective Memory | Selective Amnesia, 2015, veduta della mostra

Torino

eva frapiccIni

La ricerca artistica di Eva Frapiccini indaga l’influenza e la permanenza dei condizionamenti politici e culturali nei processi di creazione del ricordo; i suoi lavori nascono dalla conoscenza ed esperienza personale di Paesi stravolti da eventi politici, per indagare il tema dell’identità e le sue forme invisibili di espressione. La Galleria Alberto Peola ospita la mostra Selective Memory | Selective Amnesia, seconda collaborazione con l’artista che esplora il processo di sedimentazione e rimozione del ricordo, partendo dalle riflessioni del neurologo e filosofo Israel Rosenfield nel suo The Invention of Memory. Gli input sensoriali, secondo Rosenfield, sono per tutti condizione necessaria per la costruzione del ricordo, mentre varia il modo in cui le informazioni vengono immagazzinate e trasformate, il significato che ad esse viene attribuito. La memoria è un dispositivo dinamico, in quanto soggetta ad aggiornamenti e modifiche che rispecchiano il susseguirsi degli eventi e delle esperienze, per essere funzionale al vivere quotidiano. Nello stesso modo Frapiccini utilizza il metodo di raccolta e trasformazione di documenti, rielaborando per la prima volta il suo archivio fotografico. In Velluto (Velvet, 2015) l’artista realizza una serie di immagini lavorando su porzioni di fotografie, alla ricerca di tasselli di colore indefinito. L’installazione-archivio Lamine (Foils, 2015) è composta da 8 foto realizzate in differenti anni e viaggi. La chiave di lettura è l’atmosfera sospesa tra luoghi difficili da decifrare, frutto di una ricerca continua sul potere evocativo e significante dell’immagine. Golden Jail. Discovering Subjection (Prigione Dorata. Scoprendo la Sudditanza) è una serie di fotografie su carta cotone, arrotolate e sovrapposte, realizzato tra il Cairo e il Bahrein, tra il 2012 e il 2014. (c.s.) ESTATE 2015 | 253 segno - 77


Giardino Biblioteca di Area Umanistica - Università degli Studi di Siena

Giulio De Mitri In attesa dell’alba

’immagine della farfalla nell’antico Egitto ornava le tombe dei faraoni a L significare la condizione dell’anima, so-

spesa tra terra e cielo. Anche nell’antica Grecia le tombe delle famiglie reali erano raffigurate con dipinti di farfalle: simbolo del “respiro dell’anima” e della trasformazione che subisce l’essere umano, quando passa dal mondo in cui vive a una “vita più piena”. Gli artisti classici della Cina associavano, invece, la forma della farfalla alla gioia e alla felicità coniugale. L’opera installativa di Giulio De Mitri fa da sommatoria, di questi “addendi semantici”: trasferendoli, con

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eleganza e liricità, nella modernità estetica dell’arte. Migliaia di farfalle prodotte per mano d’artista, ovvero, da Giulio De Mitri, esponente affermato della Light Art, sono state introdotte nel Giardino della Biblioteca di Area Umanistica dell’Università di Siena. Un’opera a metà tra installazione e scultura. Un progetto promosso dalla Cattedra di Arte Ambientale ed Architettura del Paesaggio e dal Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali. Quest’opera che ha per titolo “In attesa dell’alba” si pone sull’onda lunga di una ricerca artistica che recupera il senso della “contemplazio-

ne della bellezza”: spesso tradita - per la verità - dalle neo-avanguardie artistiche del nostro tempo, quando si ha un ruolo “dissacrante” e rinunciano a fornire stimoli percettivi scegliendo modi di manifestarsi residuali o provocatori (come ben spiegò Walter Benjamin nel saggio intitolato “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”). Al contrario, Giulio De Mitri è molto attento alla qualità degli stimoli, per produrre i quali si serve da sempre di materiali e tecnologie selezionati. Vuoi per una sua necessità estetica, vuoi per una sua scelta stilistica e vuoi, anche, per una sorta di deformazione professionale, senz’altro dettata dall’essere docente di “Tecniche e tecnologie delle arti visive” all’Accademia di Belle Arti di Catanzaro. In questa installazione, realizzata per l’Ateneo senese, Giulio De Mitri ha utilizzato del polipropilene, ovvero, un polimero termo-


attività espositive recensioni e documentazione

plastico bianco, molto duttile, elastico e morbido al tatto. De Mitri l’ha lavorato con l’impiego del laser, per ottenere delle forme perfette che ha, poi, installato nello spazio che gli è stato assegnato dall’Università di Siena. Nel corso degli anni, Giulio De Mitri ci ha abituato nelle sue opere, oltre all’impiego di materiali innovativi come, ad esempio, tubi fluorescenti, led, fibre ottiche e plexiglas. Egli è giunto persino a brevettare una sua tecnica particolare, i tecnolight-box: grandi teche tridimensionali che rafforzano quella dimensione di mistero e di spiritualità, che avvolge il suo lavoro. In questa installazione (come nelle precedenti: “Sacralia”, “Esperidi”, “La luce come corpo”, etc.) ci sono qualificati rimandi all’antropologia culturale: una disciplina scientifica che è ben nota a Giulio De Mitri, il quale è già stato docente, proprio di questa materia, in diverse Accademie e Università Italiane. Il pensiero antropologico che ci presenta l’artista della Light Art (con naturali sconfinamenti nell’Arte Ambientale) si fonde alla pedagogia dell’arte, laddove egli utilizza l’immagine della farfalla (come ha già fatto, in passato, con l’allegoria e con il simbolo della stella) per catalizzare l’attenzione sulla “trasformazione” e sulla “rinascita” dell’individuo: ovverosia verso tutto ciò che porta a raggiungere qualcosa di migliore, di magico e d’intangibile. E cosa c’è di meglio dell’arte per attestare questi principi e queste idee? Giulio De Mitri lo sa bene. E con l’utilizzo dell’archetipo e dell’espressione figurata della farfalla egli dà completa e assoluta centralità all’essere umano (in una visione “neoumanistica universale”) proiettando la persona in una dimensione spirituale, quella dell’anima, all’eterna ricerca di una sua destinazione metafisica, metempirica e trascendente, pronta a consumarsi, però, nel “furore estetico” dell’arte e della bellezza tout court. Egli riesce a far questo estendendo, di fatto, il mondo dei simboli (appartenenti all’inconscio umano) e dei segni combacianti con la volta celeste e con la natura, con la percezione incondizionata dell’Essere Assoluto: che è compendio, in se stesso, di fascino, incanto, meraviglia, stupore e magnificenza, travasati dal Mondo dell’Invisibile, direttamente nel Creato e per ciò stesso nella percezione estetica dell’arte. Si tratta - in definitiva - di una “dimensione immaginifico/creativa” (per molti versi illusoria, sensoriale e fantastica, ma con riscontri concreti nella realtà) che si alimenta, a sua volta, di una “dimensione onirico/luminosa”: per usare, in questo caso, le parole di Martina Soricaro, alla quale Massimo Bignardi ha affidato la curatela dell’evento, per la rassegna senese “Il Giardino delle Muse. Installazioni di artisti contemporanei”. Con l’installazione ambientale “In attesa dell’alba”, si conferma l’assoluto rilievo che occupano le opere di De Mitri all’interno del panorama artistico contemporaneo, la cui valenza è stata già testimoniata agli albori - negli anni ’80 - dallo storico dell’arte Enrico Crispolti (presente a questo importante evento), che inserì l’artista pugliese nel fenomenico gruppo “Una nuovissima generazione dell’arte italiana”. Rino Cardone

Giulio De Mitri, In attesa dell’alba, 2015 Installazione ambientale site specific (particolari) 1000 elementi in polipropilene di colore bianco e in diverse dimensioni, disegno inciso e proiettato con corpo illuminante di colore blu. Palazzo Fieravecchia, Siena.

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Castello di Rivara - Torino

tre decenni d’arte

C

ome di consueto, il mese di maggio segna l’apertura della stagione estiva del Castello di Rivara, Museo d’Arte Contemporanea. Quest’anno però l’occasione è davvero speciale perché il Museo e il suo direttore artistico, Franz Paludetto, festeggiano trent’anni di attività, una lunga storia d’amore per l’arte contemporanea iniziata nel 1985, quando Franz Paludetto, giovane e indomabile, fiancheggiato dall’amico artista Aldo Mondino, si tuffò in quella che lui stesso ha più volte definito un’avventura solitaria. Questi trent’anni – va detto con chiarezza – sono stati trent’anni di incontri, alcuni molto importanti, di passione, di discussione intorno ai temi dell’attualità, di scoperta e certamente di mostre. Franz, con il suo talento e la sua curiosità indiscussa, ha fatto scoprire alla città di Torino e al pubblico italiano, innumerevoli artisti provenienti da tutto il mondo. E in questo percorso anomalo e indipendente, Paludetto ha trasformato l’architettura barocca del castello in un luogo vitale, anzi vitalissimo, dove si potevano incontrare curatori di fama internazionale, artisti giovani che di li a poco sarebbero diventate

Aldo Mondino

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star dell’arte, collezionisti intraprendenti e coraggiosi. Bisogna almeno citare le mostre dedicate alla scoperta dell’arte tedesca, fotografia e pittura in primis, ma poi “Viaggio a Los Angeles”, durante la quale venne installata e presentata la giostra di Charles Ray, poi finita in una prestigiosa collezione privata; “Equinozio di Primavera”, grandiosa ricognizione internazionale sulla pittura (uno dei grandi amori di Paludetto) figurativa e astratta. La storia del Castello di Rivara corre a fianco della storia dell’arte contemporanea – anche di quella italiana – verso la quale il gallerista ha sempre mostrato un’attenzione particolare, un gusto persolale e libero, diretto al cuore del lavoro artistico, scevro di preconcetti, estraneo alle formule del provincialismo consolidato. Alla fine degli anni ottanta, raccoglie intorno a sé, dopo Mondino e Boetti, un gruppo di artisti di area torinese fra cui Salvatore Astore, Sergio Ragalzi, Ferdi Giardini, Plinio Martelli, intercettando una nuova sensibilità artistica nata dopo l’Arte Povera. Con loro farà mostre, alcune grandiose, memorabili e inconsuete, aprendo la strada ad un percorso che continuerà negli anni Novanta

con la nuova generazione di artisti di origine torinese, costellata di nomi come quelli di Pierluigi Pusole, Paolo Grassino, Paolo Leonardo, Nicus Lucà, Bartolomeo Migliore, Mimmo Borrelli, Maura Banfo, jessica Carroll, Francesco Sena. Per raccontare la storia degli ultimi trent’anni del Museo, che poi è la storia della vita del suo direttore artistico, Paludetto ha organizzato una grande esposizione visitabile durante tutta la stagione estiva, allestita negli spazi del castello vecchio e nella zona delle scuderie. Ogni stanza di questo meraviglioso luogo è dedicata a un artista, ogni angolo è occupato da un’opera e tutto il castello nell’insieme risuona di una melodia corale punteggiata di fotografie in bianco e nero che ripercorrono vicende, incontri, personaggi che con Franz Paludetto hanno lavorato, discusso e prodotto eventi e mostre. Entrando, si incontrano i lavori scultorei e installativi di Cavenago e Mazzucconi, mentre a parete (nella stessa stanza) fa bella mostra di sé una gigantesca pittura di Hermann Nitsch nata durante una delle performance eseguite dall’artista negli spazi del castello. Poi via via si incontrano le opere di Arcangeli, Mondino


attività espositive recensioni e documentazione

Marco Mazzucconi e Maurizio Arcangeli

con la torre di torrone e gli affascinanti e divertenti lampadari da cui pendono come cristalli un infinito numero di penne a biro Bic; Martelli con le sue grandi fotografie dipinte e le giocose immaginifiche sculture di gusto vagamente grottesco. Sempre al piano terra, i lavori di Salvatore Astore spiccano per maestosità ed eleganza: grandi stanze da bagno dipinte in bianco e nero con pittura industriale che corrono alle pareti della sala circondando una scultura dal titolo “Cranio uomo”. Di Sergio Ragalzi si possono ammirare le gigantesche e affascinanti pitture dell’85 intitolate Ombre atomiche, maschile e femminile, pervase di inquietudine e irriverenza visiva; le installazioni popolate di presenze animali dominate dal colore nero e pervase da una tensione palpabile. Con le opere pittoriche e le sculture, entrambe realizza-

ti con la tecnica della cera divenuta negli anni cifra stilistica dell’artista, Francesco Sena introduce lo spettatore negli anni ’90. All’ artista è dedicata nella grande navata delle Scuderie la mostra personale “Il pasto di ogni giorno”, una impegnativa installazione pittorica di grande atmosfera. Se lo scultore Paolo Grassino concentra la sua attenzione sulla condizione umana mettendo in scena un gruppo sparuto di figure sospese al soffitto della stanza con le braccia e i polsi legati dietro la schiena a simboleggiare l’impossibilità di movimento, poco più in la Maura Banfo, in maniera più intima e poetica, in un piccolo spazio ricavato nella torre del castello, indirizza lo sguardo dello spettatore verso un piccolo e fragile “Nido” appoggiato con levità su una base. il nido, come più volte ha spiegato l’artista diventa metafora di

uno stato di protezione, luogo appartato e sicuro in cui rifugiarsi dal mondo. E di Natura parla anche Jessica Carroll con la sua “Pianta acquatica”, fantasiosa mimesi in vetro e acciaio, elegantissimo incrocio di forme e materia che invitano in un mondo altro, forse sommerso, fatto di bellezza e leggerezza. In mostra, passeggiando fra le stanze, si incontrano anche i lavori spiazzanti e provocatori di Nicus Lucà, le strutture articolate e labirintiche di D’oria, i divertenti lavori di Bolla, le figure mimetizzate sulle pareti di Carlo Gloria e tanti altri che insieme alle opere storiche presenti nel futuro Museo dell’Arte Italiana (progetto al quale Paludetto sta caparbiamente lavorando da anni) raccontano una lunga e appassionata storia, cominciata tanti anni fa e non ancora finita. Gabriella Serusi

Umberto Cavenago e Hermann Nitsch

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Milano

nuova sede permanente della fondazione prada Milano ha un nuovo tempio dell’arte. A voler mescolare sacro e profano, vista la collocazione piuttosto periferica rispetto al centro di Milano, la nuova sede permanente della Fondazione Prada si potrebbe considerare come una meta di pellegri-

naggio dove cercare il senso del proprio vagare. Si trova in Largo Isarco, nella zona sud est della città, e precisamente in una ex-distilleria degli anni Dieci del Novecento, reinventata dallo studio OMA sotto la guida di Rem Koolhaas. A sette edifici preesistenti ne sono stati aggiunti tre nuovi: Podium, Cinema e Torre. “An Introduction” occupa la galleria Sud e una parte del Deposito. Qui l’accento è posto su anni Sessanta, New Dada e Minimal art, con opere di Walter De Maria, Yves Klein, Piero Manzoni, Donald Judd e Barnett Newman, per poi passare a Pino Pascali ed Edward Kienholz. In tutto settanta opere della Collezione

Prada tentano di raccontare un’avventura esistenziale tra arte e vita dove nozioni e passioni si traducono in collezione: il percorso passa attraverso una una quadreria che include opere di William N. Copley, Lucio Fontana, Mario Schifano e Jeff Koons. L’artistico si estende poi al quotidiano: con i “veicoli d’artista” del Deposito l’oggetto diventa strumento di un modo di pensare e guardare oltre la tradizione. La galleria Nord è invece occupata da “In Part”, che si presenta come un’indagine focalizzata sulla tensione tra la parte e il tutto: frammenti corporei, rovine, primo piano fotografico e silhouette incomplete, con opere di artisti

In alto: Wes Anderson, Bar Luce, 2015, courtesy Fondazione Prada, foto Attilio Maranzano In basso: Robert Gober, Corner Door and Doorframe, 2014-2015, porta, telaio, muro costruito, foto Attilio A sinistra e a fondo pagina: Fondazione Prada, la nuova sede di Milano, progetto architettonico di OMA, 2015, foto Bas Princen

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attività espositive recensioni e documentazione

come Cattelan, Fontana, Hockney, Vezzoli, Pistoletto, Serra, Picabia, Nauman. Negli spazi della Cisterna, “Trittico” è una dinamica strategia espositiva che ospiterà a rotazione tre lavori della Collezione. Le geometrie minimaliste di tre opere di Hesse, Hirst e Pascali riempiono attualmente lo spazio. Il cinema ospita un documentario, concepito da Roman Polanski e diretto dal Laurent Bouzerau, dal titolo “Roman Polanski: My Inspirations”, mentre lo spazio sotterraneo accoglie l’installazione permanente di Thomas Demand “Processo Grottesco”, in cui il pubblico esplora le diverse fasi che hanno portato l’artista alla realizzazione della fotografia

dal titolo “Grotto”. Un modello in cartone riproduce nei minimi dettagli le Cuevas del Drach dell’isola di Maiorca. La Haunted House ospita opere di Robert Gober e Louise Bourgeois. I vari piani, divisi da scale, permettono ai visitatori di prender tempo per assimilare più lentamente le opere osservate. La torre è rivestita di foglia d’oro, “come segnale di quanto l’arte e la cultura possano dare valore a ciò che prima era degradato, trasformare quello che era povero in ricco.”, ha affermato Koolhas. La mostra “Serial Classic”, cocurata da Salvatore Settis e Anna Anguissola, occupa i due livelli del Podium e ha come tema quello della copia nell’arte

classica e la serialità, ponte perfetto tra la perfezione classica e l’arte contemporanea. Il Bar Luce infine, ideato dal regista americano Wes Anderson, ricrea l’atmosfera di uno storico caffè milanese e celebra il cinema italiano degli anni Cinquanta e Sessanta. In attesa delle attività future della Fondazione, il suo nuovo viaggio parte da una considerazione che promette bene: «Siamo convinti che la cultura sia profondamente utile e necessaria. Oltre che coinvolgente e attrattiva. Deve arricchire la nostra vita quotidiana, aiutarci a capire i cambiamenti che avvengono in noi e nel mondo». Gianmarco Corradi

In alto: e in basso: An Introduction, 2015, veduta della mostra, foto Attilio Maranzano A destra e a fondo pagina: Serial Classic, 2015, veduta della mostra, foto Attilio Maranzano

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A.A.M. Architettura Arte Moderna / Imprese ad Arte

Un progetto editoriale tra arte, architettura, grafica e fotografia di Rossella Martino

L’

impegno di Francesco Moschini e di A.A.M. Architettura Arte Moderna in campo culturale è sempre stato orientato a promuovere i rapporti interdisciplinari tra le diverse forme artistiche, approccio oggi indispensabile per definire una visione complessa e totalizzante della contemporaneità. Ciò significa – come appare evidente dalle iniziative condotte in quasi quarant’anni di attività, ripercorse, per quanto riguarda il solo ambito editoriale, nel precedente numero di Segno – offrendo la propria consulenza artistica a imprese e istituzioni, cercando di costruire, mediante il confronto produttivo tra le singole opportunità, un quadro di riferimento capace di coniugare teoria e prassi, sapere e saper fare. Sotto questo auspicio, si era sviluppata la particolare politica condotta nel corso degli anni Novanta dal Gruppo Ferruzzi, la notissima azienda industriale e finanziaria di Ravenna, e dalla Montedison, sotto l’egida di Raul Gardini, caratterizzata dall’esplicita volontà di coinvolgimento delle “arti” nell’ambito della propria attività; dall’occasione dell’esposizione didattica del restauro di Palazzo Marino per la Montedison, nasceva, quasi casualmente, tra il 1988 e il 1990 un incarico di consulenza, inizialmente del tutto informale, sui temi dell’arte, dell’architettura, dei rapporti di essa con l’immagine e l’identità urbana. La consulenza artistica di A.A.M. Architettura Arte Moderna, nella figura del suo responsabile culturale, Francesco Moschini,

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che guidava, con suggerimenti e provocazioni la stessa creazione artistica, si svolgeva, allora, senza la vera struttura della prestazione professionale, ma si concretizzava in una presenza costante al tavolo di decisioni che maturavano in successione serrata. Il XXXIV Festival dei due Mondi di Spoleto del 1991 rappresentò, poi, la prima occasione ufficiale nella quale veniva presentato il lavoro svolto nel corso del singolare incontro tra una struttura operante nel campo culturale dal 1978 e due società, allora, di dimensioni multinazionali, all’interno delle loro sedi istituzionali: Palazzo della Ferruzzi Finanziaria a Ravenna, Palazzo delle Arti e dello Sport dedicato a Mauro De’ André, infine Palazzo di viale Castrense a Roma. In tutti questi casi le architetture furono portate a confrontarsi con calibrati interventi artistici, pittorici o scultorei, con un occhio rivolto anche alla rivisitazione di tecniche locali tradizionali, come per i mosaici di Ravenna rielaborati dall’artista Alighiero Boetti, al fine di individuare un altro spazio, architettonicamente irrappresentabile, ma artisticamente esperibile. Queste iniziative, che miravano a qualificare l’immagine della società anche sul piano culturale, si distinguevano da altri progetti analoghi per la scelta, coraggiosa, di investire sull’arte moderna contemporanea, con una profonda attenzione all’opera di artisti meno noti, cui si affiancavano personaggi più conosciuti come, per esempio, Alberto Burri o Achille Perilli. Memoria di questi ed altri interventi è conservata nel catalogo dalla prestigiosa veste editoriale curata da Giuseppe Basile, uscita per il Gruppo Ferruzzi Percorsi nel moderno e nel contemporaneo. Ferruzzi per l’arte, dove si chiarisce il ruolo rivestito dal Gruppo Ferruzzi, non solo di committente, ma di “promotore di iniziative culturali, nella logica di una sempre più profonda integrazione tra produzione, cultura e società […] che si avvale di strutture di consulenza esterna in grado di guidare e dirigere gli sforzi dell’azienda in questa direzione […] di produzione culturale che si propone di affrontare e verificare problematiche artistiche abitualmente oggetto di discorso che spesso non trova un momento operativo nella ricerca.” Allo stesso modo, venticinque anni dopo, il forte interesse per l’Architettura e per l’arte contemporanea che vedono Italiana Costruzioni SpA – impresa dal 1999 presente intensamente e prestigiosamente nel settore del restauro monumentale, della manutenzione delle opere d’arte e dei beni architettonici – una piccola, ma attenta collezionista di opere d’arte, hanno portato l’impresa a raccontare la nascita del nuovo marchio Valore restauro sostenibile attraverso un catalogo, opera prima della nuova collana editoriale “Imprese ad Arte”, rivolta ad aziende e istituzioni che intendono avvalersi della consulenza artistica di A.A.M. Architettura Arte Moderna per rappresentare e promuovere la propria attività, sotto il coordinamento scientifico e culturale di Francesco Moschini e Gianfranco Dioguardi. Il catalogo “Valore restauro sostenibile Fratelli Navarra” curato da Francesco Maggiore e Vincenzo D’Alba, con il coordinamento scientifico e culturale di Francesco Moschini e Gianfranco Dio-


osservatorio critico ATTIVITA EDITORIALI

In questa pagina: Copertina e interno del catalogo Valore Restauro Sostenibile Fratelli Navarra a cura di Vincenzo D’Alba, Francesco Maggiore. Coordinamento scientifico e culturale di Gianfranco Dioguardi e Francesco Moschini. Courtesy A.A.M. Architettura Arte Moderna. Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva. Nella pagina a fianco: Copertina e interno del cofanetto Percorsi nel moderno e nel contemporaneo. Ferruzzi per l’arte a cura di Francesco Moschini. Courtesy A.A.M. Architettura Arte Moderna. Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva

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guardi, è realizzato a partire dal progetto grafico di Ivan Abbatista in collaborazione con Orlando Lacarbonara. “Valore restauro sostenibile Fratelli Navarra”, nel maneggevole numero di quaranta pagine, diviene l’occasione per ripercorrere l’intensa attività svolta dal 1999 a oggi dal gruppo Fratelli Navarra Srl, nell’ambito del restauro, del recupero conservativo e della rivitalizzazione del territorio, per chiarirne i principi ispiratori che ne hanno guidato le realizzazioni e che, oggi, definiscono gli obiettivi del nuovo marchio Valore restauro sostenibile, che sono: proporre una «Italian way of doing restoration» nel più generale ambito del Made in Italy; innovare nei procedimenti l’operazione di conservazione del valore nel tempo, con particolare attenzione ai valori culturali del contesto in cui il bene monumentale è immerso; operare sulla base di una governance che coniughi azioni dirette e interventi specialistici, in una perfetta sintesi di discipline molteplici e complementari; sviluppare interventi di formazione per promuovere la professionalità e l’educazione alla conservazione programmata e preventiva; promuovere il partenariato pubblico-privato, traducendo la responsabilità sociale in sostenibilità economica e finanziaria; considerare la cultura un ingrediente fondamentale della creazione del valore e la gestione consapevole una condizione necessaria per la fruizione del patrimonio culturale. Il catalogo si caratterizza per l’accuratezza delle scelte grafiche, fotografiche e illustrative; le illustrazioni, in particolare, sono firmate da Vincenzo D’Alba; tra queste, la “Iconografia della Impresa Fratelli Navarra” identifica in chiave simbolica la “impresa” – intesa qui come una organizzazione in grado di decifrare le innumerevoli e contrastanti esigenze dell’uomo – con una mano che si erge da una torre cilindrica, collocata in un paesaggio antropizzato, in grado di trattenere il caos degli elementi dell’architettura e del costruire, espressione di un inestricabile

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horror vacui. L’intero progetto editoriale di “Imprese ad Arte” riconosce nel fascino dell’artigianalità il filo conduttore che unisce il fare Architettura con il fare Design e che si accompagna alla evocazione dell’immaginario del processo cantieristico in costante e lenta esecuzione manuale. Stampato in tiratura limitata di settecento copie numerate a mano su carte Favini Burano, Fedrigoni Arcoset e Polyedra Fizz Lilium in tre lingue, il catalogo “Valore restauro sostenibile Fratelli Navarra” è assemblato, di fatti, con una rilegatura bodoniana in modo artigianale – operazione che rende, pur in eventuali imperfezioni, unico ciascun esemplare –, laddove la prima e la quarta di copertina in cartone spesso racchiudono, esternamente, il volume rilegato, internamente, in brossura, rimandando alla immagine di un sigillo di un faldone di un progetto; la prima di copertina rievoca, a partire dall’intaglio/carving del titolo, letteralmente scavato nella stessa, la stratificazione storica e progettuale, intesa come reale campo d’azione dell’impresa. Anche l’impaginato concorre a evocare la sfera della manualità e dell’artigianalità, declinazione tecnica della credibilità esecutiva di una impresa che presenta e documenta il proprio lavoro; gli elementi del volume mirano a riprodurre lo stesso paradigma poetico del progetto architettonico, utilizzando, allo scopo, il carattere monospaziato, nelle due versioni “sans” e “serif”.”Il valore del lettering nel disegno dell’alfabeto – chiarisce Ivan Abbattista – è il secondo elemento portante del progetto editoriale. Il carattere tipografico utilizzato nelle titolazioni è uno stencil geometrico e lineare, che rimanda immediatamente all›immaginario dei lavori in corso, documentando il suo continuo essere in opera”, come condizione con la quale, costantemente, una impresa si trova, nella prassi lavorativa, a rapportarsi e scontrarsi.


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“Nel passato sono stati numerosissimi gli interventi effettuati dalle imprese specialistiche del Gruppo Navarra” – scrive Gianfranco Dioguardi nel suo saggio di presentazione del catalogo, dal titolo, Dalla tradizione del passato: una storia di esperienze – “Interventi, tutti, molto diversificati sia quanto a tipologie tecniche, sia per i relativi contesti territoriali, sia per le esigenze funzionali del dopo recupero (per esempio, Villa Scheibler a Milano; a Roma l’Hotel de Russie, il Palazzo Kock, il Palazzo del Clementino in Piazza Esedra e il Palazzo di Propaganda Fide; a Bologna la Manifattura delle Arti al DAMS; a Torino la Stazione di Porta Nuova; a Genova il Palazzo Ducale; a Napoli il Real Albergo de’ Poveri; e, ancora, molteplici interventi conservativi a L’Aquila).” Fra le tante iniziative realizzate, i cinque cantieri di

Piazza San Pietro a Roma del 2013,della Basilica di Sant’Antonio a Padova del 1999, del Palazzo della Ragione a Verona del 2007, del Castello Sforzesco a Milano del 2013 e di Villa Reale a Monza del 2014 sono stati ritenuti particolarmente significativi per l’importanza del loro contesto storico, tecnico,territoriale, e oggetto di approfondimento all’interno del catalogo che quivi si presenta; a questi, segue una sequenza sintetica degli altri interventi di restauro effettuati, negli anni, dal gruppo Fratelli Navarra Srl e una appendice dedicata alla presentazione di due tra i più recenti e rilevanti interventi operati dal gruppo, riguardanti gli scavi realizzati a Roma in via Urbana e in via dei Villini, durante i quali sono emerse articolate sequenze stratigrafiche e preziosi reperti databili all’epoca della tarda repubblica fino all’età moderna, che si sono rivelati di estremo interesse non solo storico-artistico e archeologico, ma anche scientifico, a testimonianza dell’impegno profuso dal gruppo Fratelli Navarra Srl anche nell’ambito dell’indagine e del recupero di siti archeologici e, più in generale, nella protezione, conservazione e salvaguardia delle testimonianze storiche. Quest’ultima sezione è anticipata da un disegno di Vincenzo D’Alba intitolato “Archeologia”, in cui la dimensione archeologica descritta appare come una dimostrazione della bellezza di un passato che, nonostante sia nascosto, può in ogni momento rivelare una storia incredibile perché ancora carica di opportunità per il presente; gli elementi architettonici moderni che si ritrovano all’interno dello scavo dicono quanto la nostra stessa epoca possa, anch’essa, nel futuro, essere riconosciuta per la sua bellezza costruttiva. Le fotografie costituiscono certamente il cuore del volume e della sua rappresentazione, ed accompagnano i cinque progetti nelle quattro pagine di sviluppo complessivo di ciascuna scheda, secondo una struttura ricorsiva. Per scelta, accanto a brevi cenni storici sull’oggetto dell’intervento e alcune indicazioni tecniche, nella pagina destra, viene sempre presentata una fotografia in

Nella pagina a fianco, in alto a sinistra, Iconografia impresa Fratelli Navarra Disegno di Vincenzo D’Alba. China su carta, 2014; In alto a destra, Restauro Disegno di Vincenzo D’Alba China su carta, 2014; In basso, Archeologia. Disegno di Vincenzo D’Alba China su carta, 2014 In questa pagina, Cinque progetti di restauro Disegno di Vincenzo D’Alba China su carta, 2014 Tutte Courtesy A.A.M. Architettura Arte Moderna Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva

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Alessandro Montanari, Colonnato della Basilica di San Pietro Fotografia di Alessandro Montanari. Copyright Alessandro Montanari Courtesy A.A.M. Architettura Arte Moderna Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva

Giuseppe De Mattia, Basilica di Sant’Antonio da Padova. Fotografia di Giuseppe De Mattia. Copyright Giuseppe De Mattia Courtesy A.A.M. Architettura Arte Moderna. Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva

Giuseppe De Mattia, Palazzo della Ragione di Verona. Fotografia di Giuseppe De Mattia. Copyright Giuseppe De Mattia Courtesy A.A.M. Architettura Arte Moderna. Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva

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Allegra Martin, Castello Sforzesco di Milano. Fotografia di Allegra Martin. Copyright Allegra Martin Courtesy A.A.M. Architettura Arte Moderna. Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva Allegra Martin, Villa Reale di Monza. Fotografia di Allegra Martin. Copyright Allegra Martin Courtesy A.A.M. Architettura Arte Moderna. Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva

bianco e nero dell’architettura in questione, riscontrando in questa modalità di rappresentazione una ulteriore riflessione sulla memoria storica. Le fotografie del catalogo”Valore restauro sostenibile Fratelli Navarra” sono a firma dei giovani fotografi Allegra Martin, Giuseppe De Mattia e Alessandro Montanari. Il cantiere della Basilica di Sant’Antonio a Padova rappresenta, in ordine di tempo, il primo cimento impegnativo che ha visto il gruppo – allora istituendo – della Fratelli Navarra Srl misurarsi con attività, insieme, di restauro, consolidamento e risanamento del complesso conventuale, in tutte le sue parti e sperimentare, per la prima volta sul campo, quei principi ispiratori poi confluiti negli obiettivi di Valore restauro sostenibile. Nel dicembre 1998 la Veneranda Arca di Sant’Antonio di Padova coinvolge l’impresa, la quale, sotto la guida scientifica del prof. Giorgio Croci, la direzione generale dei lavori dell’arch. Marco Silvestri, del progettista arch. Borghi e dell’ing. Falini, effettua numerose operazioni che si inscrivono in una pratica di restauro di tipo conservativo, attuato secondo un’ottica filologica, distinguendo un ”cantiere alto” relativo all’intervento sulle cupole, sui campanili e sulla copertura della biblioteca antoniana annessa alla basilica, da un “cantiere basso” che ha riguardato il restauro e l’adeguamento funzionale dell’ex refettorio a penitenzieria. Il cantiere della Villa Reale di Monza, rappresenta, invece, il più recente intervento di restauro affidato alla guida dell’arch. ing. Massimo Mazzoleni, dell’arch. Maria Signorelli, del prof. arch. Francesco Augelli, e della dott.ssa Giuseppina Suardi; prima dell’avvio dei lavori si è proceduto ad un necessario studio storico-architettonico sul manufatto e, contestualmente, ad un’approfondita campagna di indagine diagnostica per comprendere la situazione conservativa e per formulare un progetto di intervento basato sulla conoscenza storica e su dati tecnicoscientifici, che, per alcune parti, ha necessitato interventi di risanamento strutturale, rifacimento e consolidamento, affidati al prog. ing. Giorgio Croci e all’arch. Ajmen Herzalla. Il progetto

di restauro del corpo centrale della Villa Reale di Monza è stato, inoltre, realizzato attraverso una procedura di concessione di lavori pubblici ex art. 144 D.L. 163/2006, un modello innovativo – soprattutto nel settore dei beni culturali – che consente la realizzazione di opere pubbliche avvalendosi del contributo economico del soggetto privato, a vantaggio della pubblica amministrazione. Il soggetto privato ha sostenuto parte dei costi per la realizzazione dell’intervento, che recupererà nella fase di gestione, all’interno delle aree oggetto della concessione, per un periodo di tempo determinato. Nel caso della Villa Reale di Monza il contratto di concessione ha una durata di ventidue anni dalla stipula del contratto stesso. Il restauro della Villa rappresenta il primo caso in Italia di ricorso alla concessione di costruzione e gestione applicato ai beni culturali. “I singoli esperimenti sul territorio, compiuti dal Gruppo Navarra”– scrive ancora Gianfranco Dioguardi nel suo saggio – “hanno concorso ad accumulare la ricca esperienza della tradizione che oggi si proietta nel futuro per conquistare nuove frontiere nell’ambito della «sostenibilità» del restauro, utilizzando procedure, metodi e tecniche volte a realizzare un «Restauro Sostenibile» nel settore edilizio, sia su singole fabbriche o elementi artistici sia, più in generale, sul tessuto urbano (contesti storici e periferie delle città). L’obiettivo è perseguito coniugando l’esperienza propria della tradizione con l’innovazione portata da metodi acquisiti anche in forme di concessione esclusiva, per rendere sostenibile la definizione classica di «restauro»» Oggi Italiana Costruzioni SpA è guidata dai figli di Claudio Navarra – storico fondatore del marchio nel 1975 – Attilio e Luca, i quali hanno raccolto il bagaglio di esperienza acquisito in oltre trent’anni di presenza nel campo delle costruzioni e celebrato nel catalogo “Valore restauro sostenibile Fratelli Navarra”, attraverso il grande impegno messo in campo per la realizzazione di opere di alto livello tali da garantirle la prospettiva di un futuro in costante sviluppo. n ESTATE 2015 | 253 segno - 89


Autori Vari

Enciclopedia delle Arti Contemporanee

A cura di Achille Bonito Oliva Electa, 2013, pp. 427. Euro 75,00 uanto tiene ancora l’idea o il progetto di un’enciclopedia, per giunta delle arti contemporanee? Le questioni che si pongono affrontando la domanda sono molteplici. La prima riguarda l’idea stessa di enciclopedia, deragliata dopo mixed-media, ibridazioni, crisi, opere aperte e quant’altro, con una deflagrazione che con l’arte ha abbracciato tutti gli altri campi del sapere. Ci si chiede inoltre se ha senso fermare in una dimensione temporale il contemporaneo, quando le avanguardie più intransigenti, all’inizio dell’altro secolo, si ispiravano al teatro antico e all’antropologia, per trovare il linguaggio più nuovo e dire l’inquietudine più recente. Manca inoltre una coesione sistematica dell’insieme: anche oggi ci si chiede cos’è contemporaneo, visto che in questo periodo, e in questo clima, abitano molti, anche eccezionali in valore, contro-tempisti, che il novecento l’hanno guardato in tralice, e cito, come minimi esempi, Rachmaninov, Vespignani, Bufalino, quando l’elenco sarebbe lunghissimo. Dopo questa sfilza di domande tutti sarebbero scoraggiati. Eppure, come tanti grandi temi, l’idea di enciclopedia periodicamente torna a farsi spazio nei nostri pensieri, e con il solito gusto venato di geniale follia che da sempre lo connota, Achille Bonito Oliva raccoglie il guanto di sfida che tale impresa fragorosamente lancia a tutti quelli che si vogliano cimentare nella prova. E direi

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Fuori Quadro

che la sfida è vinta, ovvero che ABO è riuscito ad ordire una trattazione che sembra accontentare tutti. Da una parte è ovvia la profondità assegnata alle “figure d’ordine”, quelle che di sé hanno informato il “secol novo”; dall’altra emerge una serie calibrata di suggestioni, che spinga ad investigare sulle tematiche esposte, le quali riescono a farsi leggere sia come approfondimenti che come iniziazioni, da chi voglia affrontare queste belle pagine con lo spirito, ormai purtroppo raro, dell’acculturamento. I titoli dei volumi (il primo è dedicato al “Tempo comico”; il secondo, che ho consultato, al “Tempo interiore”) illustrano bene lo spirito della compilazione, che sceglie connessioni trasversali, dunque applicabili alle diverse discipline. Così i vari temi vengono illustrati attraverso citazioni dirette delle opere, fondamentali commenti prodotti nel periodo, e, ovviamente, i testi opportunamente redatti per l’enciclopedia. Ben poche sono le critiche che si possono muovere allo stuolo di specialisti, scelti con grande perizia, che hanno dovuto fare un sapiente lavoro di ellisse, onde riuscire a conchiudere temi ben conosciuti a causa della loro espansività, al contempo mostrare lo stato attuale della ricerca attorno questi stessi temi. Insomma finito e interminabile, determinato e casuale, attimo ed eterno, tutte coppie applicabili con uguale pregnanza ad una cultura che ha voluto essere tutto e il suo contrario, sono stati ridotti a unità, in queste pagine che hanno saputo trovare il giusto metodo per osservare il contemporaneo, e scegliere la distanza adatta alla maggior parte dei lettori. (Paolo Aita)

Un programma di e con Achille Bonito Oliva al 14 giugno 2015 torna Fuori quadro, il programma di arte di Raitre, ideato e condotto da Achille Bonito Oliva la domenica alle 13.25. Otto puntate non di informazione ma di formazione, alla scoperta dell’arte contemporanea in compagnia di uno dei critici d’arte più conosciuti e stimati a livello internazionale. Eclettico, provocatore, sicuramente originale, Achille Bonito Oliva ogni settimana analizzerà e racconterà un tema, sviluppato attraverso indagini e riflessioni storiche e critiche, immagini inedite per la tv generalista, interviste con personalità italiane e straniere dell’arte contemporanea. Diverse le novità di questa edizione, a partire dall’introduzione con Achille Bonito Oliva che, all’alba, lancerà l’argomento della puntata da una piazza romana, con la luce delle prime ore del mattino ad esaltare la bellezza dei luoghi. Dopo un video d’arte che introduce anche visivamente il tema affrontato, dallo studio A.B.O. svilupperà il racconto della puntata, scandito da due interviste realizzate in esterna dal conduttore stesso con personalità del mondo dell’arte e della cultura, artisti internazionali di altissimo livello come Gianfranco Barucchello, Maya Bajevic, Vanessa Beecroft, Daniel Buren, Mircea Cantor, Tracey Emin, Lara Favaretto, Shilpa Gupta, Anish Kapoor, William Kentridge, Wolfang Laib, Antonio Marras, Hidetoshi Nagasawa, Hiroshi Sugimoto, Rikrit Tiravanija, Sisley Xhafa. Nel corso di ogni puntata, vengono dedicati spazi di approfondimento ad un artista o ad un movimento artistico e, sul finale di trasmissione, una rubrica chiamata “Opera Aperta”, esaminerà un’opera d’arte vista come modello esemplificativo del tema della puntata. Ogni settimana A.B.O. saluterà quindi il pubblico con la “morale della favola”, una breve frase ad effetto, posta come chiusura ideale di tutto il racconto. Tre nuove ribriche arricchiscono l’edizione di quest’anno: “Arte e Mestieri” condotta dalla giornalista Marta Perego, che intervisterà i protagonisti di professioni collegate al mondo dell’arte, “Totomodo” ispirata all’omonimo film di Achille Bonito Oliva, in cui il grande attore napoletano Totò descrive i principali movimenti dell’arte contemporanea. “Il tallone di Achille” a conclusione di puntata, con A.B.O. che dialoga con la giovane Sveva Fratino, un’adolescente che giocosamente ripete una frase ermetica detta dal critico nel corso della puntata e ne chiede spiegazione.

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In opera Conservare e restaurare l’arte contemporanea

A cura di Isabella Villafranca Soissons, Marsilio Editori l volume illustra gli ambiti d’intervento, le sfide e le opportunità di una professionalità emergente e poco conosciuta dal grande pubblico, quella del restauratore di opere contemporanee. Pur supportato da un impianto rigoroso, il volume affronta la tematica con un approccio più divulgativo delle pubblicazioni scientifiche sull’argomento, in quanto si rivolge all’ampio pubblico di chi possiede o gestisce le opere di arte contemporanea che sono, per loro natura, instabili, deperibili ed effimere. Attraverso interviste e testimonianze approfondisce in modo coinvolgente quella che rappresenta l’ultima frontiera della conservazione, la declinazionecontemporanea di un mestiere d’arte antico, quello del restauratore, che oggi più che mai riunisce arte e scienza, operando in sintonia con l’intenzionalità dell’artista ai fini di preservare l’autorialità e originalità dell’opera. La pubblicazione raccoglie, dopo un lungo lavoro di ricerca e indagine nel mondo dell’arte e del collezionismo, una ricca serie di testimonianze, sotto forma di intervista, e di saggi specialistici. Il volume riunisce, attraverso schede tecniche dettagliate, una significativa casistica di interventi conservativi e di restauri su opere di autori contemporanei, mentre un’ampia sezione finale è dedicata ai maggiori istituti di restauro italiani, fiore all’occhiello della conservazione a livello internazionale.La differenza fondamentale tra arte del passato e del presente risiede, per il conservatore, in primo luogo nella diversità delle tecniche esecutive: per secoli metodologie e materiali codificati da numerosi manuali sono rimasti immutati. A partire dal XX secolo gli artisti iniziarono a utilizzare una varietà infinita di materiali non tradizionali, assemblandoli, a volte arditamente per mezzo di una vastissima scelta di linguaggi espressivi, anche di natura performativa e sitespecific. Per questo motivo, il campo del restauro di opere contemporanee, è sperimentale ed in continua evoluzione poiché si fonda su esperienze concrete, ogni volta diverse. Il conservatore di opere a noi coeve inoltre, accanto a conoscenze e abilità tecniche, deve spesso intervenire in assenza di una visione univoca dell’opera, gestirne o riattivarne il cambiamento: la sua azione deve quindi essere coordinata con quella di altri operatori del sistema dell’arte, tra cui artisti, collezionisti, curatori, responsabili di musei e giuristi, al fine di salvaguardare i valori che consentono all’opera di essere trasmessa, fruita, scambiata e di diventare patrimonio. C.S.

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La metà del letto

Barbera Editore, Siena 2015, pp. 128 Matteo Bianchi a lettura de “La metà del letto” di Matteo Bianchi, tenuta a battesimo da Anna Maria Carpi e introdotta criticamente da Roberto Pazzi, mi ha fatto venire in mente per associazione un certo mondo figurativo di Virgilio Guidi, sulla matrice della ricerca ansiosa della luce e muovendo dalla stessa scelta pregiudiziale della lotta contro l’assurdo. Comune a entrambi è l’operazione di un ribaltamento inconscio delle intenzioni per il quale, vincendo l’ipoteca della lotta impossibile con le forze negative, il senso puro della luce, nella pura immanenza, ha assunto il dominio della scena, in Bianchi attraverso la parola cristallina come in Guidi attraverso il colore. È una poesia, quella di Bianchi, che vive nell’ottica della rassegna dei molti dati autobiografici, del loro incrocio e delle loro combinazioni, riuscendo tuttavia a superare con naturalezza qualsiasi riferimento personale e puntiforme in una valenza subito universale, come in certe “marine spaziali” di Guidi, immagini di uno slancio verso l’immenso e l’incommensurabile. Secondo un passo dello svol-

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osservatorio critico LIBRI E CATALOGHI

Virgilio Guidi

gimento dell’antinomia, che si compie nei segni profondi archetipici, nei simboli della proiezione, della forza della vita. E le poesie di Bianchi, come le ultime tele di Guidi, sono soffuse di un neutro astrale estremamente evocativo.. La metà del letto è una sorta di quaderno degli appunti, che ricompone nella sua analisi programmatica il senso di una vita che, mentre le imponiamo la nostra regia, ci trascina a mete non desiderate, fuori da ogni possibile piano di organizzazione e di sistemazione, «sotto l’assedio del dolore», eppure dietro a un impulso superiore riconducibile a quello che chiamiamo libero arbitrio, alluso magari come «liberazione» dalle sigarette mezze fumate o dal lascito paterno delle Camel Blu. Sul nastro a scorrere delle immagini, continuamente esercita interferenza l’occhio vigile di un testimone del nostro tempo, attento a cogliere comunque e a registrare sulla cartina di tornasole perfino le vibrazioni di una vicenda generale che si riverberano sull’esperienza personale (per altro, impotente a rendere capaci di «sopportare qualunque dolore», così quello che riempie le pagine, di grande forza espressiva, dedicate alla morte della zia Rosa). Trattando della dimensione esistenziale di Matteo Bianchi, a maggior ragione va definita la sua come una poesia del “testimone”; tra adesioni e ripulse, accensioni e ricadute, da parte di chi comunque sa che bisogna andare avanti. Il poeta, infatti, è per l’autore il testimone in viaggio, anche se il viaggio è un pretesto a posteriori e le sue tappe confinano con le contrade oscure delle tenebre e con la morte, termine ineludibile tuttavia fissato con lucidità e perfino con autoironia all’insegna di quel monito alla propria Musa e a se stesso del non essere «indispensabili ad alcuno». Capita sempre più raramente di leggere un libro di versi necessario e sufficiente come questo: ricco di momenti unici e coinvolgenti, ma resi con pacata e vincente semplicità, «toccati dalla grazia della poesia», ha argomentato Pazzi nella sua introduzione. Paolo Ruffilli

L’Artista impaginato Dialoghi intorno ai cataloghi d’arte

he cos’è oggi un catalogo d’arte? Il C prodotto editoriale di una mostra? Uno strumento di marketing? Uno studio

analitico del lavoro di un artista? E che cos’è, invece, un libro d’artista? A questi interrogativi si propone di rispondere il ciclo d’incontri organizzato dalla Biblioteca d’Arte della Fondazione Torino Musei. Ciascun appuntamento affianca all’artista coinvolto il curatore del volume in oggetto, oppure un relatore esperto dell’artista stesso. Il progetto è curato da Stefania Audisio, sotto la direzione di Riccardo Passoni, direttore della Biblioteca d’Arte della Fondazione Torino Musei e vicedirettore della GAM di Torino. - 3 giugno Daniele Galliano incontra Demetrio Paparoni e Francesco Poli. La conversazione prende spunto dalla monografia “Daniele Galliano. Paintings 19932014”, a cura di Demetrio Paparoni, Milano, Skira, 2015, la più recente pubblicazione riferita all’artista torinese. - 9 giugno Salvo incontra Renato Barilli. Viene presentato per la prima volta a Torino il catalogo “Salvo”, a cura di Renato Barilli, Modena, Galleria Mazzoli Editore, 2015, che documenta le opere più recenti dell’artista. - 16 giugno Botto & Bruno incontrano Riccardo Passoni. Punto di partenza è il Catalogo Botto & Bruno: Low, Madrid, Istituto italiano de Cultura (2012-13) - 23 giugno Stefano Arienti incontra Giovanni Ferrario. Arricchito dalla presenza dei lavori su carta di Arienti, il confronto nasce dal Libro d’artista La danza delle polveri, Mantova, Corraini, 2009, realizzato da Arienti insieme a Ferrario e dalla monografia di Ferrario Quasi, Mantova, Corraini, 2015. - 30 giugno Enrico T. De Paris incontra Gabriele Beccaria e Anthony Louis Marasco Al centro del dialogo è il volume Enrico T. De Paris: on air [the future is an unmapped land], Torino, Allemandi, 2014, selezione di appunti, testi, materiali, fotografie, opere e disegni . - 7 luglio Paolo Grassino incontra Alberto Zanchetta. La discussione si sviluppa intorno al catalogo della mostra delle opere di Grassino Magazzinoscuro, a cura di Alberto Zanchetta, allestita al MAC di Lissone dal 7 marzo al 24 maggio 2015.

GAM Torino Catalogo Collezioni - Quarto volume

Il quarto volume del Catalogo Collezioni, edito da Allemandi & C., documenta l’attuale ordinamento delle collezioni GAM. Illustrato da un ricco apparato iconografico degli allestimenti, il volume riunisce i saggi d quattro autori, protagonisti in differenti ambiti della cultura contemporanea: Federico Vercellone, professore Ordinario di Estetica presso la Facoltà di Filosofia dell’Università di Torino, Massimiliano Fuksas, architetto, John Elkann, Presidente FCA, Luciana Castellina, scrittrice, con quelli di inquadramento storico-artistico di quattro storici dell’arte di alto profilo: Edith Gabrielli, Maria Vittoria Marini Clarelli, Maria Antonella Fusco, Fabrizio Vona, e infine il contributo dello staff curatoriale del museo (Riccardo Passoni, Virginia Bertone e Elena Volpato) ai quali si deve la selezione delle opere.

Ugo La Pietra Il verde risolve!

Corraini edizioni, Mantova L’architettura si ostina a costruire case, strade, quartieri, città introducendo nel costruito “il verde”, inteso come elemento capace di assolvere o “risolvere” diverse funzioni. Dimentica sempre – l’architettura – che il verde, al contrario del costruito, ha una vita propria e un proprio sviluppo e nel tempo ha sempre avuto la meglio!

Salvatore Garau Rosso Wagner

Corraini edizioni, Mantova Il volume raccoglie questa serie di opere di Salvatore Garau – pittore, ma anche musicista e scrittore, caratteristiche non secondarie per comprenderne la poetica – in cui un ossessivo monocromatismo, fatto di sfumature di rosso, sembra evocare lo spirito delle lotte mitiche degli eroi di Wagner.

Daniele Galliano Paintings 1993-2014

Si tratta della pubblicazione più recente riferita all’artista torinese. Il volume presenta una selezione di dipinti realizzati dal 1993 ad oggi ed i saggi di Demetrio Paparoni, Carter Ratcliff, Eleonora Castagnone, Antonio Zaya. Daniele Galliano Autodidatta di formazione, comincia a esporre a Torino, dove vive e lavora, all’inizio degli anni ’90, conquistandosi velocemente un posto di rilievo all’interno di quella nuova scena pittorica italiana che muove i suoi primi passi alla fine degli anni Ottanta. Il suo “realismo fotografico”, le sue immagini di luoghi e persone, cominciano ben presto a farsi notare oltre i nostri confini, e gli consentono di partecipare a importanti personali e collettive in Europa e negli Stati Uniti. Numerose sono state le collaborazioni con musicisti, registi e scrittori. Arturo Schvarz di lui ha scritto: “Quel che rende interessante l’opera di Galliano è il suo essere inserita in un movimento di pensiero europeo che affonda le proprie radici nelle migliore tradizione pittorica delle avanguardie del vecchio continente.” Demetrio Paparoni è autore di importanti monografie su artisti contemporanei ha recentemente pubblicato Il Bello, il buono e il cattivo (2014). Negli ultimi anni ha scritto testi in catalogo per mostre antologiche dedicate a Warhol, Basquiat, Haring, LaChapelle, Lichtenstein e Hopper. ESTATE 2015 | 253 segno - 91


A.A.M. Architettura Arte Moderna / Contaminazioni Attività editoriali tra Arti visive e musica

Io sono l’autoritratto di Paola Turci Testo di Ester Bonsante

C

ontinua a produrre preziosissimi frutti la poetica degli “sguardi incrociati” che A.A.M. Architettura Arte Moderna promuove da quasi quarant’anni attraverso le vulcaniche iniziative di Francesco Moschini, suo fondatore. L’indissolubile e ormai storico connubio tra disegno e scrittura, tra illustrazioni e musica, rimane un punto di partenza imprescindibile dal quale far partire, di volta in volta, sempre nuove ed imprevedibili ricerche. L’anelito all’incrocio e alla ibridazione fra sguardi, inattuale –e perciò stesso salvifico rispetto agli stanchi stagni del settorialismo diffuso-, trova una volta di più un terreno fertile in cui declinarsi. Questa volta si tratta di un’iniziativa in cui le illustrazioni sono al centro di una visione coincidente e sinestetica tra musica e arte. Paola Turci, cantautrice e interprete tra le più autorevoli e stimate nel panorama musicale italiano pubblica a ridosso dei suoi trent’anni di carriera “Io sono”, album composto da tre inediti e dodici successi. Con la consulenza artistica di A.A.M. Architettura Arte Moderna, Francesco Maggiore, art director del nuovo Cd di Paola Turci “Io sono”, costruisce nel booklet un racconto parallelo tra parole e immagini, tra testi e illustrazioni. Il connubio tra artisti e musicisti che si compie nel commento artistico di un artista a un prodotto discografico ha dei precedenti noti di tutto rispetto, basti pensare alle cover dei vinili di artisti come Salvador Dalì, Andy Warhol, Roy Lichtenstein, Andrea Pazienza, solo per fare qualche nome: forma e contenuto, immagine e suono si somigliano e nella finitezza del prodotto discografico dicono dello sviluppo musicale e artistico di un dato momento storico. Anche in quest’ultimo lavoro di incroci col disco “Io sono” di Paola Turci la forma e il contenuto del Cd si rincorrono in un dialogo assoluto e prezioso tra musica, testi, immagini e disegni. Le illustrazioni di Vincenzo D’Alba diventano il pretesto per comprendere in forma ancora più assoluta il significato delle canzoni. Disegni rarefatti eppure esplicativi di una capacità grafica quasi surrealista e simbolica che unisce astrattezza e descrizione figurativa. Quattro ritratti psicologici di donne diverse identificano una tetrarchia di ruoli sublimi e ambigui dove si riconoscono sembianze e significati classici accostati alle moderne declinazioni pop. Appaiono quindi modelli di donna neoclassici descritti con linee simili a quelle di Saul Steinberg o di Jean Cocteau dove letteratura e grafica diventano un modo unico di narrare e stupire. Vi sono poi silhouettes cariche di inchiostro dalle quali la narrazione fuoriesce in maniera imprevedibile, oscura ma, al tempo stesso, decisa e logica. I titoli dei testi diventano un ulteriore pretesto per far coincidere il potere evocativo delle parole con quello dei segni: “Io sono”, “Questa non è una canzone”, “Quante vite viviamo”, tre titoli già colmi di immagini, che dimostrano una corrispondenza straordinaria tra pensiero artistico e musicale. Ed è proprio in questa intimistica dimensione di contrappunto tra i segni di Vincenzo D’Alba che si compie l’alchemico incrocio di sguardi. Segno e suono si rivelano vicendevolmente in un contrappunto semantico che rende il Cd un fatto poetico, sinestetico da vedere,

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osservatorio critico ATTIVITA EDITORIALI

da ascoltare, da immaginare al tempo stesso. Il Cd segue a distanza di pochi mesi, l’uscita di un libro privato, dedicato a Paola Turci in occasione dei suoi cinquant’anni. Il libro, intitolato “A tua insaputa” è stato anch’esso curato da Francesco Maggiore con il coordinamento scientifico e culturale di Francesco Moschini e la consulenza artistica di A.A.M Architettura Arte Moderna. Un volume inteso come una summa di sguardi, di descrizioni, di confessioni, di ricordi dettati da 50 testimoni di vita di Paola Turci. Malika Ayane, Claudio Baglioni, Luca Carboni, Serena Dandini, Francesco De Gregori, Gianfranco Dioguardi, Dario Fo, Dori Ghezzi, Stefano Giovannoni, J-Ax, Paolo Fresu, Fiorella Mannoia, Franco Purini, Laura Pausini, Renato Zero, sono solo alcuni dei cinquanta autori invitati da Francesco Maggiore a lasciare un contributo, scritto o talvolta disegnato, in onore della cantante. Anche in quell’occasione l’incrocio fortuito e ottimamente risolto tra segni e disegni ha dato i suoi frutti: il libro, pur partendo da un pretesto privato e intimistico, ha il valore e il merito di essere un contributo storiografico imprescindibile e inedito nei confronti di una cantante e della cultura rock più in generale. Come il libro anche il Cd Io sono, nella raffinata veste grafica curata da Giuseppe Romagno, è un felice contrappunto di testi di canzoni, di immagini e di illustrazioni. Qui le immagini rassomigliano alle parole che accompagnano al punto di fondersi con esse e a non poter quasi più pensare le

une senza le altre. Una epifania di figure allegoriche, madrine e figlie al tempo stesso delle canzoni che commentano. D’Alba con la china insegue e precede l’intuizione delle parole, che la musica rende alate, fino a figurarne il senso, a renderlo palese, facendole suonare e vibrare anche in assenza di musica. Un insieme di illustrazioni potenti, assolute, rara dimostrazione di una tradizione grafica secolare ininterrotta in cui le immagini riconoscono l’eredità del mondo classico, medievale, e di quello moderno. Un cultura della linea indissolubile dalla storia tanto archetipica quanto contemporanea e profonda. Io sono è anch’esso, da questo punto di vista, come A tua insaputa, un ritratto per parti, in cui i singoli brani dicono del tutto, e in cui il tutto si rifrange nelle parti fino a dissolversi, e a sfuggire a una univocità ultima. L’immagine di copertina realizzata da Ilaria Magliocchetti Lombi così come l’attacco tetico del titolo, nella promessa dichiarativa dell’Io sono, gemma ed evolve nei quattro ritratti allegorici contenuti nelle pagine del booklet, rarefatti ritratti di Paola Turci cantante, persona e artista sempre più nitida, fascinosa, intrigante e familiare al tempo stesso. Una volta di più il mondo interno dall’esterno e dall’interno: anche con questo disco, come con il recente libro autobiografico “Mi amerò lo stesso”, edito da Mondadori e curato da Enrico Rotelli la cantante e la donna Paola Turci si rivela. Ma a questa rivelazione tratteggiata in soggettiva si aggiunge la preziosità dell’immagine ritratta dall’esterno. n

Sopra il titolo, cover del cd di Paola Turci “A tua insaputa”. Fotografia di copertina di Ilaria Magliocchetti Lombi Disegni di Vincenzo D’Alba, China su carta, 2014 Courtesy A.A.M. Architettura Arte Moderna. Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva

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La realtà dell’identico nella gastronomia dell’arte: “cambiare è difficile” di Gabriele Perretta

E

bbene, il dado è tratto. Ho deciso di impegolarmi in un argomento difficile e delicato, da trattare coi guanti e con estrema cautela, il “politichese artistico” delle mostre curate da Celant e dai suoi adepti, ma non so se il mio sguardo sarà capace di sufficiente riguardo. Dunque, le mostre. Chi sono gli organizzatori di queste mostre e di queste macchine da guerra EXPOsitivistiche? Chi sono gli organizzatori di queste politicizzatissime kermesse? In altre parole, chi si accolla l’onere di organizzare una mostra, esponendosi se va bene allo spettacolo delle proprie contraddizioni, se va ancora meglio a vere e proprie strategie di conformismo e di trasformismo ideologico? Si tratta di curatori (e quindi ultra-persone), soggetti divenuti ormai enti o organizzazioni globali che hanno un loro preciso e altrui tornaconto, non necessariamente estetico o poietico. Possono essere circoli di curatori, che coronano la loro politica con un concorso di arti del governo e di economie liberiste consacrate in tutto il globo; possono essere “avvocati-scrittori”, in anno sabatico, come di città che nell’ambito di altre logiche espositive (per esempio: Arts & Foods è l’unico Padiglione di Expo Milano 2015 in città) vogliono imporre la propria ideologia vetero-sinistrica; possono infine essere ditte che producono, vendono e importano materiale concettuale per il sistema artistico attuale, che desiderano farsi ulteriore pubblicità, magari trasformando ciò che avevano affermato e sostenuto decenni precedenti. I premi di queste solidarietà e reticenze liberal sono forniti un po’ da tutti e da tutti parimenti subite.

Non c’è davvero da fremere di gioia, a dover scrivere del cosiddetto curatorialismo storico italiano. Perché, come la sua offerta espositiva, così anche le sue problematiche non stimolano certo la fantasia, la chiarezza e la cognizione estetica. Sarà anche un bilancio critico un po’ perentorio, ma se del resto si guarda bene il loro bilancio artistico, quasi tutti i vecchi e i giovani curatori politicizzati o asettici si rivelano sconclusionatori di se stessi. Non solo incettatori ma pasticcioni; non solo epigoni ma nepotisti, forse, ma tremendamente ricchi di impennate contraddittorie e controproducenti, per la loro poiesis e per la nostra economia. In realtà, grazie al predominio di una economia garantista, del sistema artistico ufficiale, non esiste ancora altra curatorialità: le nuove cure sono medicine di comodo, dietro le quali non sta neppure la più esile omogeneità espressiva. Lo si era chiaramente capito già alla prima sull’Arte Povera celebrata (Triennale di Milano 2011), rassegna di vecchie tendenze, ma una mano sommaria di vernice ideologica era riuscita a compattare in qualche modo un quadro linguistico sfilacciato. Arrotolati i tappeti rossi dei musei internazionali e delle legittimazioni al fianco della land art, dell’arte concettuale e dell’antiform, infatti, il tutore dei tutori (poverismo docet) ha rappresentato la propria unità sfaldata sull’angusto spazio della difesa, della propria unica esistenza curatoriale, contro il borioso disagio della curatorialità emergente e la malaugurata riesumazione del vecchio ready-made popist. Qual è la strategia che ha preparato il packaging della Triennale, firmato da Celant e da Pisapia? Si tratta effettivamente di bei talenti ancora in cerca di un’identità matura, che sortiscono dalla generale inconsistenza di qualità, metodo e disinvoltura, per esperienze eccentriche che non investono sistemi e caratteri specializzati o si tratta di pura retorica del liberalismo estetico ultra confezionato? E soprattutto qui, nella totale assenza di un progetto (pardon, al di là di quello economico che c’è e come) espressivo collettivo, che la “nuova arte povera” degli anni duemila ha di rosso soltanto la 94 - segno 253 | ESTATE 2015

vergogna, se raffrontato alla spregiudicata e snobistica radicalità di All theWorld’s Futures, o alle perfidie memorialistiche che tendono a trasformare l’appuntamento lagunare in una noiosissima ri-enunciazione di “ambienti, partecipazioni, strutture e imitazioni ideologiche, di Biennali degli anni Settanta, dominate dalle versioni del Das Kapital, di trasposizione togliattiana. Ma non si può eternamente accampare l’ombra del nemico, come giustificazione per tacere le pesanti ambiguità di molti artisti e curatori “reduci sinistresi”: il rituale del far quadrato oltre a essere spaventosamente noiosi, finisce per scadere nell’ipocrisia integralista, dove l’arroccamento impedisce ogni apertura, e la cristallizzazione del potere economico gestito e manipolato soffoca ogni dialettica di stimoli. Le personalità che si emancipano da questo grigiore espositivistico e showbizistico, abbracciato e sposato da Cucine e Ultracorpi (Alla Triennale di Milano) e da Arts & Foods, per ricercare una vena neo-popist originale, non nascono dunque dall’accettazione della realpolitik Expo2015, ma nonostante esso/i. è un ritardo che non sono certamente i retroterra specifici a poter spiegare, ma che rimanda piuttosto a una diversa maniera di pensare e vivere l’arte globale. Individuare la principale responsabilità di quest’impasse nel nodo mostre Expo 2015 - All theWorld’s Futures, non significa certamente richiedere lo scioglimento del vincolo; i guasti non risiedono evidentemente nella politica, bensì nei modi specifici nei quali essa è stata assunta. Se fuori da questo ostinato segno liberista nulla possiede l’alito dell’esistenza, magari dei senza tetto e dei ragazzi no-expo di Milano, del mese scorso, sotto le sue ali non si è però schiuso alcun dibattito profondo. L’ispirazione non è uscita dalle scarne battute della citazione o anche della protesta, e non è da oggi (e non è solo in arte e in architettura) che la sloganistica innesca una superficialità contratta e stagnante. Si è addirittura arrivati a concepire espressività e ricerca di linguaggio come contrapposte ad una malintesa ragion di mercato, dietro la quale spunta quel morbo contagioso e subalterno chiamato “elitismo curatoriale”, che ricalca - senza disturbarlo - l’ordine dei codici art pour l’art. Dal costume della società dello spettacolo, insomma quello curatoriale mutua i modi più inibiti e consunti: a un’arte di vita, un’espressività da scoprire e liberare, proprio in un momento come questo, si preferisce il cerimoniale dell’enfasi e della catalogazione.

E non ci si può proprio stupire se, dunque, nonostante molte recensioni compiacenti e diplomatiche, quasi la totalità delle opere d’arte che vengono dopo l’esperienza stessa dell’arte povera, in Arts & Foods, è sinceramente dis-identificata nelle anime sensibili di chi nel ’68 perseguiva la natura al posto dell’artificio. Qualche antidoto succoso l’hanno saputo proporre personalità tese a spaziare e approfondire la rivoluzione mediatica della seconda metà degli anni Ottanta: i media listi, in una dinamica lucida nella quale accettano di mettersi continuamente in discussione, seguendo i sentieri dei “diritti alla città”, fino alle tane più calde del No-Expo! A differenza degli slogan dei consolidati artisti neo concettuali del catalogo storico del capitale targato Triennale, dentro Milano, col sorgere di Maggio, lo “spazio urbano” diventa una vera e propria Galleria d’Arte pubblica, che fa da specchio alle mostre curate da Celant ed alla retorica


osservatorio critico ARTE E SISTEMA DELL’ARTE

dissimulazione marxiana, che i poeti di Enwezor perseguono a Venezia. In questa evoluzione, è apparso ultimamente un nuovo elemento che (citando ancora una volta il gergo del marketing usato dall’incolpevole agenzia Play the city) possiamo chiamare “gamification”. Lo spazio urbano è un terreno di gioco, e il gioco consiste nel distruggere simboli del capitalismo e affrontare la polizia. Si tratta di un registro ironico, al quale ricorre ad esempio il Comitato No Expo, quando su Facebook pubblica una serie di banner che invitano all’azione ricorrendo a una retorica videoludica — “Prendi il tuo joypad e non farti giocare da Expo!” — involontariamente vicina a quella del video promozionale del “Programma volontari” di Expo, che invitava a lavorare per l’evento in cambio di “tanti like”. A formare una nuova generazione di artisti-curatori (e di poliziotti-mercanti) ci penserà forse un videogioco, basato sull’analisi accurata del fenomeno delle esposizioni alternative rispetto a quelle di regime. La gamification dei riots è una manifestazione artistico-politica, assimilata allo show: segnala la definitiva dissoluzione della critica in un guazzabuglio di riferimenti pop, che hanno la stessa cornice e la stessa oggettualità realistica dei designer curati e selezionati da Celant e dallo scaltro Studio Italo Rota. A guardare meglio tra le scritte murali tracciate tra la manifestazione del 2 maggio a Milano, si nota che accanto a “Play the city”, si trova la parola “Debito” e una grande X: esattamente come sul manifesto e sul banner che ha circolato in rete. Il motto videoludico dei No Expo era dunque un’incitazione all’illegalità o una performance che mette subito alla berlina le sculture di Ron Muek? L’immaginario del Comitato No Expo assomiglia a un Alternate Reality Game, ovvero una finzione interattiva (spesso a scopo pubblicitario) che da Internet contamina il mondo reale e si costruisce da sola una rete sociale ed estensiva della mostra di Celant.

La gamification dei riots è un fenomeno trans-artistico: segnala la risolutiva dissoluzione dell’eredità di un’arte di sistema bloccato. Il Capitale ha conquistato un’ulteriore spazio, col suo fascino da artista globale passa dalla Triennale finanziaria, alla finanziarizzazione della rete sociale, in un guazzabuglio di riferimenti pop che vanno dai comic anarchici di Grant Morrison (Invisibles) e Alan Moore (V for Vendetta) a Matrix, da Fight Club alla cultura del trolling. Questo immaginario veicolato dall’industria culturale, vicino allo spirito stesso di Arts and Foods, convive in piazza (e in rete) con gli agenti di un comitato artistico invisibile e provocatorio — che promuove un’insurrezione gratuita, senza rivendicazioni né messaggi — e con l’ala dura dell’anarchismo — secondo cui “la lotta di classe è obsoleta” e conta solo la lotta “contro l’arte e la performance chiusa nel Palazzo”. Una lotta che non potendo essere politica per sua manifesta astrattezza, si risolve nel puro estetismo. Estetica del disturbo, del sabotaggio, della distruzione. Estetica dell’entropia (per citare Invisibles e il Comitato Invisibile), forza termodinamica che erode la materia e accompagna l’universo verso il suo massimo stato di disordine. Negli anni Novanta, negli ambienti antagonisti del medianismo, ricorrevano confronti post-situazionistici, si parlava di un “terrorismo poetico” da realizzarsi per mezzo dalla costruzione di zone temporaneamente autonome o TAZ. Qui, invece, nell’altro spazio sociale del noExpo, nella piazza del 2 maggio e del riflesso sociale della Triennale il concetto di “autonomia dell’arte e della comunicazione” non sembra più fare riferimento alla tradizione del poverismo, alla quale Celant stesso oggi è estraneo, bensì alla prospettiva artistico-anarchica che ha finito per cannibalizzare quel che resta della vecchia società dello spetta-

colo, sfogatasi nel sistema dell’arte e nelle sintesi curatoriali di Triennali, Biennali e Quadriennali. La TAZ può essere il centro sociale autogestito, ma anche i dipinti di Igor Baskakov (Twix, 2001), il pesce biblico di Frank O. Gehry, i macchinari senza meccanismi di Krzysztof Wodiczko, il destabilizzante Project for the Walls of a Dining Room: Broken Plate of Scrambled Eggs, with Fabrication Model of the Dropped Bowl Fountain di Oldenburg e van Bruggen, l’autoritratto di Braco Dimitrijevic, Triptychos Post Historicus del 1996, e il cosiddetto flash mob (pratica ormai recuperata dai brand e dai media): ovvero l’insurrezione di piazza circoscritta nel tempo e nello spazio. Se quella di Milano era una TAZ o un ludus rituale, tuttavia, lo è stata soprattutto con la complicità performativa della forza pubblica. Raramente una manifestazione ha lasciato così tanti WALL DRAWINGS, grazie al tempo concesso dalle forze dell’ordine al blocco nero per svolgere le diverse operazioni di scrittura, devastazione e combustione. Ed ecco che la zona temporaneamente autonoma appare per ciò che è davvero: l’inverso speculare della governamentalità museografata, il suo complemento perfetto.

Riusciremo a immaginare scene come quelle viste a Milano, senza la presenza di un imponente apparato poliziesco la cui sola funzione sembra essere quella di fornire un contesto nel quale si manifesti la violenza artistica, come pura forma di trasgressione e di spettacolo? In questo senso, la piazza o la TAZ o il fight club, a differenza dello specchio e della fotografia, che secondo Celant giustificherebbe l’attualità e il progressismo dell’arte povera, rischiano di trasformarsi in eterotopie, ovvero «spazi in cui coloro che deviano dalla norma sono collocati». Queste eterotopie (Foucault aveva in mente il carcere o l’ospedale psichiatrico) “servono non solo a governare i corpi che contengono, ma anche, e soprattutto, a strutturare gli spazi e le relazioni di potere che le circondano”. Delimitando fisicamente lo spazio e il tempo di espressione degli antagonisti, disegnando un provvisorio “vuoto” politico al cuore dello spazio urbano, insomma istituendo uno “spazio di gioco altro al gioco dell’arte sistemica”, a Milano si sono create le condizioni necessarie perché venisse officiato il culto sacrificale dell’impotenza politica: la rappresentazione spettacolare della sommossa in forma di gioco di ruolo. Un rito popist che, al costo di qualche macchina e vetrina, sfoga la rabbia degli oppressi e abbevera il mercato di nuovi simboli da consumare. È fin troppo chiaro, comunque, che si tratta di scelte artistiche legate alla spirale del capitale che, per quanto generalizzabili, sia dal campo semiotico che dalla Piazza, non possono innestare semi nuovi su tutto il terreno artistico. I mutamenti radicali nella pratica collettiva dell’arte, nonché del modo di viverla, rimandano a tempi ben più lunghi e richiedono trattamenti assai più profondi. Ma nulla potrà veramente trasformarsi, finché i curator senior e junior gestiranno i rapporti con il liberalismo dominante, solo secondo un calcolo finanziario immediato, rimandando quei dibattiti sempre più irrimandabili. Senza autogestione cooperativa non c’è una nuova arte oggi, e non ci sarà nemmeno in futuro. Chi preferisce glissare, continui pure a tenersi il suo misero provincialismo di finta avanguardia. ESTATE 2015 | 253 segno - 95


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