Segno 270

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segno Spedizione in abbonamento postale Poste Italiane S.p.A. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 00 in libreria ROC · Registro degli operatori di comunicazione n. 18524 - ISSN 0391-3910

E 5.

Anno XLIII - DIC 2018/GEN 2019

Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea

FRANCESCO SOMAINI

KATHARINA GROSSE - MAXXI ROMA

All’interno ANTEPRIMA/NEWS DOCUMENTAZIONE GRANDI MOSTRE ARTISTI IN MOSTRA – RECENSIONI, IMMAGINI – LIBRI E CATALOGHI


AN EVENT BY


segnodicembre 2018 / gennaio 2019

C A S S I N O M U S E O ARTE CONTEMPORANEA

E 5.

Anno XLIII - DIC 2018/GEN 2019

Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea

a Casilina Nord, 1 – 03043 Cassino +39 3351268238 info@camusac.com

segno Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea

Klaus Munch Resine, PVC, (1987 - 2018)

Artisti in copertina FRANCESCO SOMAINI

Francesco Somaini

Mario Surbone Inciso R12 1972

Primavera d’Altoforno, 1963

# 270 - Dicembre 2018 / Gennaio 2019

Klaus

MUNCH Mario

SURBONE

sommario

bronzo patinato con lucidi parziali su base originale in ferro a parallelepipedo 45 x 56 x 53 cm. (Galleria Open Art, Prato)

Mario Merz [26]

#270

Spedizione in abbonamento postale Poste Italiane S.p.A. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 ROC · Registro degli operatori di comunicazione n. 18524 - ISSN 0391-3910 00 in libreria

Katharina Grosse KATHARINA GROSSE - MAXXI ROMA

a cura di Bruno Corà 14 DICEMBRE 2018 30 APRILE 2019

All’interno ANTEPRIMA/NEWS DOCUMENTAZIONE GRANDI MOSTRE ARTISTI IN MOSTRA – RECENSIONI, IMMAGINI – LIBRI E CATALOGHI

Ingres Wood, 1959

Legno, rivestimento dimensioni variabili (Allestimento per Collezione MAXXI Roma)

4/9 News Istituzioni e Gallerie RE.USE. [34]

Anteprima Mostre Istituzioni e Gallerie in Italia ed estero (a cura di Umberto Sala e Paolo Spadano)

Luigi Mainolfi [40]

100% Italia. Cent’anni di capolavori, Museo Fico Torino e altri luoghi (doc.dal cs. pag.10/15) Lo spazio dell’immagine, MAXXI Museo Roma (doc.dal cs. pag.16/19) Dream: l’Arte incontra i sogni, Chiostro del Bramante (Paolo Balmas pp.20/21) Artissima Sound, OGR Torino (Fabio Vito Lacertosa pp.22/25 Mario Merz, Hangar Bicocca Milano (Angela Faravelli p.26) Jan Fabre, Building Milano (Angela Faravelli pag.27) Mimmo Rotella, Galleria Nazionale Roma (Duccio Nobili p.27) Pendulum, Fondazione Mast Bologna (Francesca Cammarata pp.28/33) RE.USE, Sedi varie Treviso (Stefano Volpato pp: 34/35) J.M. Basquiat / Egon Schiele, Fondation Louis Vuitton Parigi (C. Paccagnella, p.36) Zheng BO, PAV Torino (a cura di L.S. p.37) Claudio Verna, Cardi Gallery Milano (Angela Faravelli p.38) Flavio De Marco / Philippe Hurteau, Galleria G7 Bologna (doc.dal cs. p.38) Alfredo Jaar, Galleria Lia Rumma Milano (Angela Faravelli p.39) Luigi Mainolfi, Galleria Santo Ficara Firenze (doc.a cura di LS p.40) Giulio Paolini, Fondazione Carriero Milano (Angela Faravelli, p.41) Tino Stefanoni, Galleria Il Milione Milano (Angela Faravelli, p.42) Nelio Sonego, Galleria A Arte Invernizzi Milano (Angela Faravelli, p. 43) Michelangelo Pistoletto, Galleria Giorgio Persano (Comunicazione di M.Pistoletto pp.44/45) J.Macchi, H.Sugimoto, S.Gupta, Galleria Continua San Gimignano (Rita Olivieri pp.46/48) Nari Ward, Villa Pacchiani S.Croce Arno (Rita Olivieri p.49) Pop Art in Italia, Galleria Verrengia Salerno (Antonello Tolve pp.50/51) Paolo Icaro, Galleria Minini Brescia (doc.dal cs. p.52) Sottobosco, Museo National de Arta, Romania (doc.dal cs.pag.53) Francesco Somaini, Galleria Open Art Prato (M.Letizia Paiato pp.54/57) Stefano Di Stasio, Galleria Bagnai per Chiesa SS.Lorentino e Pergentino, Arezzo (Vittoria Coen pp.58/59) Foresta Urbana, Polo Museale Palermo (Serena Ribaudo pp.60/61) Reazione a catena, Galleria Bonelli Milano (Alice Iuffrida pp.62/63) Incontri, Chiesa dell’Annunziata Teano (M.Letizia Paiato pp.64/65) Salvatore Anelli, Fondazione Giuliani, Cosenza (Giuseppe Cipolla p.66) Intersezioni digitali, Chiesa storica Padova (Cecilia Paccagnella p.67) Nel visibile e oltre, Spazio Matta Pescara (M.Letizia Paiato p.68) Lucia Rotundo, Galleria Spaziosei, Monopoli (Antonella Marino p.69) Thomas Braida, Centro Arti Visive Pesaro (Stefano Verri p.70) Daniel Buren, Omaggio a Roma, Palazzo De Angelis (Maila Buglioni p.70) Elio Marchegiani, Primo Marella Gallery Lugano (doc.Elio Marchegiani p.71)

Pop Art in Italia [50]

news e calendario eventi su www.rivistasegno.eu

o documentazioni 10/71 Attività espositive/ Recensioni

Intersezioni Digitali [67]

72/74 Arte & Letteratura/ Libri e cataloghi Documentazione in breve di libri o cataloghi pervenuti in redazione e iniziative editoriali di diverse tecnologie a cura di M.Letizia Paiato e Umberto Sala

segno

Direttore responsabile LUCIA SPADANO (Pescara) Condirettore e consulente scientifico PAOLO BALMAS (Roma) Direzione editoriale UMBERTO SALA Caporedattore: Maria Letizia Paiato. Redazione web: Roberto Sala

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L’importo può essere versato sul

periodico internazionale di arte contemporanea Direzione e redazione Corso Manthonè, 57 65127 Pescara

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>anteprima< VENEZIA

GIARDINI E ARSENALE

Biennale Arte 2019 a prossima Biennale s’intitola May You Live in Interesting Times a cura di Ralph Rugoff e si svolgerà dall’11 magL gio al 24 novembre 2019. La frase è un’espressione tratta dalla

lingua inglese, a lungo ed erroneamente attribuita a un’antica maledizione cinese, che richiama periodi d’incertezza, crisi e disordini: “tempi interessanti” per l’appunto, come quelli che stiamo vivendo. «In un›epoca nella quale la diffusione digitale di fake news e di “fatti alternativi” mina il dibattito politico e la fiducia su cui questo si fonda, vale la pena soffermarsi, se possibile, per rimettere in discussione i nostri punti di riferimento. In questo esempio specifico, si dà il caso che non sia mai esistita un “antico anatema cinese”, nonostante i politici occidentali lo citino nei loro discorsi da oltre un secolo. Questa espressione, pur essendo frutto dell’immaginazione, un surrogato culturale, ha avuto però un effetto reale nella retorica e nel dibattito pubblico. Tale artefatto d’incerta natura, sospetto ma anche ricco di significati, apre a potenziali percorsi di approfondimento che vale la pena perseguire, soprattutto in questo momento storico in cui i “tempi interessanti” che invoca sembrano essere di nuovo con noi. Per questo la 58. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia prenderà il titolo da un falso anatema». Con queste parole Ralph Rugoff ha spiegato così la propria scelta, ossia l’organizzazione di una mostra che in sostanza non avrà un vero e proprio tema, ma metterà in evidenza un approccio generale al fare arte e una visione della funzione sociale dell’arte che includa sia il piacere che il pensiero critico. Per il Padiglione Italia gli artisti proposti da Milovan Farronato sono: Enrico David, Chiara Fumai e Liliana Moro, scelti «a cavallo tra due generazioni, le cui opere e biografie, sebbene molto diverse, segnano significativi percorsi artistici contemporanei che si distinguono per spirito

Ralph Rugoff e Paolo Baratta. Photo by Andrea Avezzu’. Courtesy of La Biennale di Venezia

di ricerca tra passato e presente». “Internazionalità, contemporaneità, creatività”, ha dichiarato il ministro Bonisoli, “sono le parole che caratterizzeranno il progetto del Padiglione Italia, grazie al contributo di questi tre protagonisti dell’arte, le cui opere daranno vita ad una mostra originale e innovativa sotto la guida esperta di un curatore loro coetaneo”. Fra i tre spicca chiaramente il nome della Fumai, la cui scomparsa lo scorso anno ha scosso profondamente il mondo dell’arte, e che meritava certamente di rappresentare l’Italia molto prima, mentre nei casi di Enrico David e Liliana Moro si parla di ritorni. Il primo nel 2013, infatti, aveva partecipato alla Biennale di Massimiliano Gioni, la seconda a quella del 1993 firmata Achille Bonito Oliva. Spiega il curatore del Padiglione: “i lavori di questi artisti spiccano per l’inestinguibile desiderio di esplorare territori in cui il quotidiano, la sopravvivenza, la tradizione e la narrazione hanno una forte presenza. Ho lavorato a stretto contatto con questi tre artisti nel corso degli anni, in occasione di mostre personali e collettive in Italia e all’estero, e sono felice di poter affiancare le loro pratiche in questa mostra su grande scala, che includerà lavori nuovi ma anche opere del passato”.

NAPOLI

FONDAZIONE PLART

Bruno Munari lla Fondazione Plart, viene proposta la mostra di Bruno Munari. “I colori della luce” a cura di Miroslava Hajek e MarA cello Francolini, insieme alla Fondazione Donnaregina per le arti

MILANO

FONDAZIONE PRADA

Sanguine cura dell’artista belga Luc Tuymans è la mostra organizzata in collaborazione con MHKA (Museo d’arte contempoA ranea di Anversa), KMSKA (Museo reale di belle arti di Anversa)

e la città di Anversa e concepita come una intensa esperienza visiva composta da più di 80 opere realizzate da 63 artisti internazionali, di cui oltre 25 sono presentati esclusivamente alla Fondazione Prada. “Sanguine” è una lettura personale del Barocco, costituita da accostamenti inediti e associazioni inaspettate tra lavori di artisti contemporanei e opere di maestri del passato. Senza seguire un rigido ordine cronologico o un criterio strettamente storiografico, Tuymans elude la nozione tradizionale di Barocco e invita a rileggere l’arte seicentesca, ma anche quella contemporanea, mettendone al centro la figura dell’artista e il suo ruolo nella società. Seguendo la lezione di Walter Benjamin, secondo il quale il Barocco segna l’inizio della modernità, Tuymans indaga in questa mostra la ricerca di autenticità, il valore politico della rappresentazione artistica, il turbamento indotto dall’arte, l’esaltazione della personalità dell’autore e la dimensione internazionale della produzione artistica, riconoscendo nel Barocco l’interlocutore privilegiato dell’arte di oggi. Il titolo della mostra – una parola che identifica il colore del sangue, il temperamento violento e ricco di vitalità di una persona, ma anche una tecnica pittorica – suggerisce una molteplicità di prospettive attraverso le quali si possono interpretare le opere esposte in cui convivono violenza e simulazione, crudeltà e teatralizzazione, realismo ed esagerazione, disgusto e meraviglia, terrore ed estasi. Fino al 25 febbraio 2019. 4 - segno 270 | DICEMBRE 2018 / GENNAIO 2019

contemporanee, nell’ambito dell’edizione 2018 di Progetto XXI. L’esposizione analizza un aspetto in particolare e uno specifico corpo di lavori di Munari, le Proiezioni a luce fissa e le Proiezioni a luce polarizzata realizzate negli anni Cinquanta del secolo scorso, con cui porta a compimento la sua ricerca volta a conquistare una nuova spazialità oltre la realtà bidimensionale dell’opera. Le proiezioni dirette e quelle polarizzate sono state presentate per la prima volta nel 1953 a Milano nello studio di architettura B24, che allora era uno spazio per le esposizioni del MAC-Movimento per l’arte concreta, e poi nel 1955 al MoMA di New York con il titolo di Munari’s Slides, nell’ambito di una mostra personale. Successivamente presentate nel 1955 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma ed infine a Tokyo, Stoccolma, Anversa, Zurigo, Amsterdam. Questa parte peculiare della complessa e variegata produzione artistica di Bruno Munari viene per la prima volta presentata a Napoli, a seguito della ricerca condotta dalla Fondazione Plart, che ha svolto un accurato lavoro scientifico di digitalizzazione dei vetrini che saranno proiettati in specifici ambienti della mostra. Fino al 20 marzo 2019. Bruno Munari, Vetrini a luce polarizzata, 1953. Materiali vari. Courtesy Miroslava Hajek


>news istituzioni e gallerie< PRATO

MUSEO PECCI

Aleksandra Mir / Soggetto Nomade n occasione dell’anniversario del suo trentennale, il Centro per l’arte contemporanea presenta una nuova entrata nella sua colIlezione con la monumentale installazione Triumph di Aleksan-

dra Mir, esposta per la prima volta in Italia. Triumph, ultimata nel 2009, esposta nello stesso anno alla Schirn Kunsthalle di Francoforte e nel 2012 alla South London Gallery di Londra, è una spettacolare installazione di Aleksandra Mir composta da 2.529 trofei, collezionati dall’artista nell’arco di un anno in Sicilia, tra Palermo e dintorni. cura di Marta Papini, fino all’8 marzo 2019. Segue la mostra Soggetto nomade. Identità femminile attraverso gli scatti di cinque fotografe italiane, 1965-1985: Paola Agosti, Letizia Battaglia, Lisetta Carmi, Elisabetta Catalano, Marialba Russo a cura di Cristiana Perrella e Elena Magini. Soggetto nomade raccoglie per la prima volta in una mostra gli scatti di cinque fotografe italiane restituendo da angolazioni diverse il modo in cui la soggettività femminile è vissuta, rappresentata, interpretata in un periodo di grande cambiamento sociale per l’Italia. Anni di transizione dalla radicalità politica all’edonismo, anni

CASSINO

Mario Surbone e Klaus Münch

ono due le mostre che inaugurano negli spazi del CaMusAC: la prima, S la personale di Mario Surbone intitolata

Incisi (1968-1978), la seconda quella di Klaus Münch Resine, PVC, Cupole (19872018). Nonostante le diversità delle esperienze compiute da ciascuno dei due artisti ospitati ciò che, in entrambi i casi, ha risalto è la coerenza della ricerca e la qualità rigorosa degli esiti. Infatti, se per Mario Surbone appare centrale nella sua azione il modo di sensibilizzare le superfici, sia di cartone che di metallo, attraverso interventi incisori che producono sui supporti elevazione di quote, aperture di spazio, articolazioni plastiche determinanti immagini geometriche e ritmi modulari, per Münch gli elementi distintivi si dichiarano di differente provenienza. Per l’occasione è prevista la pubblicazione di due cataloghi distinti che raccoglieranno tutte le opere degli artisti presenti in mostra e un saggio critico di Bruno Corà, direttore del Museo.

MATERA

La mappa delle emozioni di Matera

a Secretissima camera allestita al terzo piano di Palazzo dell’AnnunL ziata a Matera offrirà ai visitatori un vero

Lisetta Carmi, I Travestiti, la Gilda, 1965-1971 fotografia, stampa originale a gelatina d’argento © Lisetta Carmi Courtesy Galleria Martini & Ronchetti.

di piombo ma anche anni di grande partecipazione e conquiste civili, dovute principalmente proprio alle donne, e alle battaglie femministe. Fino al 30 marzo 2019.

e proprio portale di accesso alla scoperta della città dei Sassi, Capitale Europea della Cultura 2019. Si tratta di una mostra interattiva che racconta le emozioni di 400 abitanti di Matera tra i 10 e gli 80 anni. Ognuno ha ricevuto una scatola blu con una piantina della città e un foglio di carta velina su cui appuntare ricordi e sensazioni. Giovani narratori e moderni cartografi guidati dallo scrittore Alessandro Baricco, dall’artista Stefano Faravelli e dalla danzatrice-coreografa Heike Hennig hanno poi elaborato un’inedita mappa sotto forma di percorso multisensoriale allestito dallo scenografo Paolo Baroni. Un lavoro corale su emozioni, anima dei luoghi, memoria che mette in relazione le persone coinvolte e i visitatori stessi con diverse forme d’arte: poesia, narrativa, pittura, scultura, video-performances e danza. Fino a luglio 2019.

MILANO

Šejla Kamerić

a Fondazione Pini presenta la mostra Summerisnotover di Šejla KameL ric, a cura di Erzen Shkololli, i cui lavori accompagnano il pubblico alla scoperta dei nuovi spazi espositivi della Fondazione. Šejla Kameric per l’occasione ha sviluppato un progetto che riflette sulla percezione che abbiamo delle notizie, sottolineando come sia cambiato il ruolo della fotografia così come il problema dell’utilizzo delle immagini (di guerra) e della loro distribuzione. In questo senso, se storicamente guerre e rivoluzioni hanno spesso avuto inizio in primavera e in

Marinus Boezem

estate, oggi queste stagioni sono forse il periodo in cui utilizziamo più intensamente i social media per mettere in mostra le nostre vite. Alterando la presunta autenticità della fotografia e adoperando le stesse tecniche dei social per raggiungere un pubblico diffuso, Šejla Kameric supera la tradizionale convinzione che la fotografia esista come categoria separata e distinta. L’artista crea, quindi, un gigantesco flusso di immagini per ricordare allo spettatore che l’estate non è finita: la guerra non è finita. Fino al 3 febbraio 2019.

MILANO

Marinus Boezem

ird’s-eye view è il progetto dell’artista olandese alla Galleria FumaB galli, a cura di Lorenzo Bruni, che pro-

pone un’ampia installazione site-specific realizzata con semi di mangime per volatili. La materia organica, nutrimento animale ed evocatrice del ciclo naturale della vita, disegna sul pavimento della galleria lo spazio fisico e concettuale della pianta della Basilica di San Francesco ad Assisi. Grazie anche ai rami d’albero posti alle pareti, l’intervento installativo trasforma il contenitore architettonico in un luogo di suggestioni in cui le categorie di esterno e interno, cultura e natura, storia e memoria, realtà e poesia, richiedono d’essere riformulate.

Šejla Kameric, Summerisnotover Fondazione Adolfo Pini, 2018 credits Andrea Rossetti.

DICEMBRE 2018 / GENNAIO 2019 | 270 segno - 5


>anteprima<

Peppe Esposito, Scampia circo.

NAPOLI

presenta i 135 scatti vincitori, realizzati da 42 fotografi provenienti da 22 paesi di tutto il mondo. Una giuria internazionale ha esaminato per tre settimane 73.044 fotografie di 4.548 fotografi. Vincitore assoluto di questa edizione è stato Ronaldo Schemidt, fotografo venezuelano dell’Agence France-Presse, che ha immortalato un ragazzo, investito dale fiamme a causa della esplosione di una motocicletta, che scappa durante una manifestazione di protesta del 3 maggio 2017 contro il presidente Nicolás Maduro, a Caracas.

di un ordine socialmente riconoscibile a una linea più astratta, come se l’artista avesse rivolto uno sguardo nuovo alle forme usuali, come un viaggiatore senza alcuna conoscenza pregressa della finalità degli artefatti di una qualche cultura materiale estranea. Eva Marisaldi, Trasporto Eccezionale, PAC Milano 2018.

ROMA

Peppe Esposito Roma Napoli assenze e presenze fumettaria 1978 – 2018 lla Private Banker Fideuram Vo- Scuola Romana di Fumetti na mostra che vuole essere qualcosa mero, mostra curata da Franco RicA cardo. Dopo “Vomero vivo”, primo proget- Udi più di una semplice celebrazione. Innanzitutto per il tema: Roma. La città che to espositivo del programma “Complicità conflitti”, dedicato al mezzo fotografico, l’indagine sulla città contemporanea ed i suoi abitanti, continua con gli scatti di Peppe Esposito, protagonista di una personale ricerca che va dalla fotografia al visual design, dalla pittura alle installazioni, fino alle nuove tecnologie digitali e multimediali. Sono esposte quaranta immagini in bianco/nero e dieci ritratti a colori, che, insieme, compongono un racconto visivo di Napoli, metropoli immortalata da Esposito, che conquista corpi e spazi rivelando le molteplici identità della città e le sue trasformazioni dal 1978 ad oggi, in un gioco di conflitti tra presenze ed assenze, artificio e realtà. La mostra è accompagnata da un catalogo della EffeErre Edizioni.

ARCO (NA)

Complesso museale di Santa Maria delle Anime del Purgatorio: Ritorno.

Il culto delle anime pezzentelle

D

al 1° Dicembre per la prima volta in assoluto sono esposte oltre cento anime del Purgatorio, realizzate in terracotta dipinta fra XIX e XX secolo, acquisite dall’Opera Pia Purgatorio ad Arco e provenienti da una collezione privata e un tempo popolanti le edicole scomparse di alcune città. Le anime, mai esposte prima, sono le protagoniste di una mostra, unica nel suo genere, intitolata “Ritorno. Il culto delle anime pezzentelle” Tornano “a casa” oltre cento anime del Purgatorio che un tempo popolavano le edicole in strada.

nel proprio centro storico, non solo ospita la Scuola nel nome del fumetto, ma perchè ne ha soprattutto prodotto l’humus culturale e influenzato il percorso, con la sua grande bellezza e le sue molte contraddizioni. Roma, più che mai Capitale, che attrae studenti e insegnanti da tutta Italia, e che trovano nella SRF la loro casa comune. Roma, vista attraverso lo sguardo ora innamorato, ora ironico, ora malinconico e talvolta dissacrante, di artisti che si esprimono attraverso i comics, l’illustrazione o addirittura lo storyboard cinematografico. Il tutto in una miscellanea di stili che rispecchiano le diverse anime della SRF. Esposte opere di autori, docenti o ex allievi della Scuola che, per l’occasione, danno la loro personale visione della città eterna. Come Massimo Rotundo, disegnatore di Tex, Stefano Caselli, disegnatore Marvel, Marco Gervasio con il suo “PaperTotti”, Eugenio Sicomoro, che collabora con i maggiori editori francesi, Arianna Rea, autrice per la Disney America, Simone Gabrielli, disegnatore della Glénat e della Bonelli, Maurizio Di Vincenzo, disegnatore di Dylan Dog, Lorenzo “LRNZ” Ceccotti, autore per Bao Publishing, Riccardo Federici, disegnatore per DC Comics, Carlo Labieni e Marco Valerio Gallo, storyboard artist, Claudio Bruni, regista d’animazione e Greg, Lillo e Max Paiella, attori dal passato da “fumettari” e docenti della SRF, solo per citare alcuni nomi. Fino al 6 gennaio. Peter Belyi, Galleria Pack Milano.

orgente è la storia del congelamento dello scorrere del tempo. Il liquido – S acqua? petrolio? – ha improvvisamente

World Press Photo

orna a Napoli, per il terzo anno consecutivo, World Press Photo, la mostra T di fotogiornalismo piu’ importante al mon-

do. Presente in oltre 100 citta’ e piu’ di 45 Paesi, la tappa partenopea e’ organizzata grazie all’impegno di CIME ed ospitata dal PAN grazie al supporto dell’Assessorato alla Cultura e al Turismo. L’esposizione

Vincenzo Rusciano a Galleria Nicola Pedana presentare Skyline, la prima personale dell’arL tista napoletano che presenta un nucleo

di sculture inedite, dal titolo “Graphite”, che prendono le mosse dalla propria ricerca artistica degli ultimi anni, quella produzione dove la figurazione classica si mescola con gli utensili tratti dalla archeologia che rimandano a ciò che, fino a ieri, era il suo operare quotidiano.

Alberto Burri a Galleria Vistamare propone una mostra di opere di Alberto Burri della L sua produzione grafica appartenenti a ben Peter Belyi

Ronaldo Schemidt

CASERTA

PESCARA

MILANO

NAPOLI

Vincenzo Rusciano, Danilo Donzelli Photography.

interrotto il suo movimento ed è diventato strati di truciolato. Fine. La sorgente si è prosciugata. Il “presente scorrevole” di un individuo privo di fede nel progresso, un progresso aperto ai flussi di informazioni, è divenuto una fonte secca. Nel lavoro di Peter Belyi, alla Galleria Pack di Milano, l’alienazione ha rimpiazzato l’esperienza sovietica e la nostalgia della modellatura commemorativa (La Biblioteca di Pinocchio, Galleria Pack, 2007). Sorgente si trova sul ciglio della transizione dalla critica

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sette cicli della sua straordinaria creazione: dalle Combustioni (1965) ai Cretti (1971), dai Multiplex (1981) ai Mixoblack (1988), dal Sestante (1989) agli Oro e Nero (1993), ai Monotex (1994), nonché il Multiplex Rosso Alfa, 1982 e un Cellotex, la cui materia ha distinto tutta la creazione di Burri a partire dagli anni Cinquanta agli anni Novanta. Alberto Burri, Vistamare, Pescara.



EXHIBITION

GIOIELLI DʼARTISTA

ANTONIO PARADISO

04.12.2018 31.01.2019

GI OIE L L I E OPE R E DʼA RTE DI ANTONIO PARADISO a cura di Ermanno Tedeschi

BABS ART GALLERY

Via Maurizio Gonzaga, 2 ang. Piazza Diaz - 20123 Milano (Italy +39 02 87338370 · +39 347 9350394 info@babsartgallery.it www.babsartgallery.it


BLACK MIRROR

40 international artists at Mario Mauroner Contemporary Art Vienna

Carlos AIRES Jean-Charles BLAIS Pedro CALAPEZ Carmen CALVO Iván CAPOTE Fabrizio CORNELI Plamen DEJANOFF Fred EERDEKENS Manfred ERJAUTZ FERRO Vadim FIŠHKIN Kendell GEERS Paolo GRASSINO Fabian HERKENHOENER Markus HOFER Rebecca HORN Michael KIENZER Nicolas KOZAKIS LAB[au] Davide LA MONTAGNA

MAM

Jan LAUWERS Mateo MATÉ Philip MENTZINGEN Marzena NOWAK Irina OJOVAN Bruno PEINADO Javier PÉREZ Michelangelo PISTOLETTO RaumZeitPiraten Anselm REYLE Bernardí ROIG Anneliese SCHRENK Michael SCHUSTER Esther STOCKER Barthélémy TOGUO Pedro TYLER Markus WILFLING José YAQUE Vadim ZAKHAROV

Mario Mauroner Contemporary Art Vienna Weihburggasse 26 - 1010 Vienna


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00%Italia è una mostra dedicata agli ultimi cento anni di arte italiana, dall’inizio del Novecento ai giorni nostri.
 Con un percorso storico esaustivo, il progetto è l’occasione per evidenziare il ruolo preminente dell’arte italiana, nella creatività europea e mondiale contraddistinta da forti personalità con artisti e capolavori, scuole e movimenti. Gli artisti considerati come capisaldi della cultura internazionale sono esposti, con una o più opere rappresentative del proprio percorso e del periodo storico di appartenenza. Il Museo Ettore Fico di Torino si è avvalso della collaborazione e del supporto strategico della Associazione Nazionale delle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea, dell’Associazione Fondazioni e Casse di Risparmio e 88 Fondazioni di origine bancaria sul territorio nazionale, nonché di Gallerie d’Italia di Intesa Sanpaolo, che hanno attivato la ricerca di un insieme di opere importanti, spesso mai esposte, al fine di offrire una mostra inedita per il grande pubblico nazionale e internazionale. 100%Italia è un viaggio segnato da tre grandi guerre che hanno mutato il mondo e
 la sua percezione ed è, soprattutto, un resoconto della creatività e della genialità italiana da sempre “cartina al tornasole” dello stato dell’arte. L’intera mostra si propone al pubblico con un progetto a più livelli.
 Il primo è lineare e cronologico dove le opere si susseguono, anno dopo anno, in una sequenza senza soluzione di continuità. Il secondo è quello dei movimenti che maggiormente hanno influenzato il gusto e le estetiche mondiali. Il terzo è un progetto didattico e divulgativo per chi volesse approfondire in modo unitario percorsi e storie legate all’arte italiana. 
Ogni sezione è illustrata attraverso saggi che prendono in esame i maggiori movimenti diventando uno strumento fondamentale per la comprensione della nostra storia, del nostro passato e del nostro futuro. 100%Italia propone all’attenzione del pubblico quelle opere che solitamente vengono conservate in collezioni private e che difficilmente vengono esposte pubblicamente per implementare la conoscenza sul piano scientifico e artistico e, con le collezioni pubbliche conservate nei musei, dare un quadro completo della nostra creatività. Le sezioni nelle varie Sedi FUTURISMO, a cura di Luigi Sansone Il 20 febbraio 1909 Filippo Tommaso Marinetti pubblica sulle pagine de «Le Figaro», a Parigi, il famoso Manifesto del Movimento Futurista, programma che avrebbe scosso l’arte e la cultura del Novecento. L’11 febbraio 1911 Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, Gacomo Balla e Gino Severini sottoscrivono il Manifesto dei pittori futuristi, rivolto “agli artisti giovani d’Italia!” e l’8 marzo dello stesso anno, al Politeama Chiarella di Torino, Boccioni darà lettura del Manifesto. Negli anni successivi fu tutto un susseguirsi di proclami futuristi intesi a rinnovare la pittura, la scultura, la musica, la letteratura, il 10 - segno 270 | DICEMBRE 2018 / GENNAIO 2019


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Nel 1929 viene pubblicato il Manifesto dell’Aeropittura firmato, tra gli altri da Depero, destinato a ispirare per tutti gli anni Trenta una lunga serie di aeropitture futuriste. Il movimento inoltre prende nuovo slancio con una serie di grandi rassegne ospitate dalla Galleria Pesaro di Milano tra il 1927 e il 1933.

Umberto Boccioni, Gli uomini, 1910

Giacomo Balla, Balfiori, 1915

teatro, l’architettura e la fotografia.
 In breve tempo il Futurismo entrò in contatto con gli altri movimenti d’avanguardia (Cubismo, Dadaismo, Surrealismo) e da Milano, città di origine del movimento, si estese a Parigi, Berlino, Londra e poi in Russia, Stati Uniti e Giappone. Dopo
la forzata interruzione della Prima Guerra Mondiale, Marinetti cercò di ricompattare le fila del movimento organizzando, nella primavera del 1919 presso la sede della Galleria Centrale d’Arte di Milano, la Grande Esposizione Nazionale Futurista, rinnovando e riaffermando il valore del movimento. SECONDO FUTURISMO, a cura di Luigi Sansone, Dopo i tragici eventi della Prima Guerra Mondiale nel 1921
il Futurismo acquista nuovo vigore con la pubblicazione dei manifesti Il tattilismo di Marinetti e Il teatro della sorpresa
firmato da Marinetti e Francesco Cangiullo, a cui seguono il Manifesto dell’Aeropittura (1929) e il Manifesto della Fotografia (1930). L’evento più importante che riunisce molte delle forze futuriste in Italia avviene nell’autunno del 1924 in occasione del Primo Congresso Futurista al teatro Dal Verme di Milano, a cui partecipano trecento delegati di tutti i gruppi futuristi italiani. Fortunato Depero, Pietre alpestri, 1934

METAFISICA E NEOMETAFISICA, a cura di Lorenzo Canova La pittura Metafisica nasce nel 1910 a Firenze con il quadro L’enigma di un pomeriggio d’autunno di Giorgio de Chirico che apre un percorso fondamentale dell’arte del Novecento e una linea maestra delle avanguardie. Influenzata dalla filosofia
 di Nietzsche e di Schopenhauer, la Metafisica di de Chirico trasforma radicalmente l’impianto pittorico tradizionale nei suoi nessi spaziali, metaforici e compositivi creando un sistema multiplo di aperture prospettiche, di piani sfalsati, di ombre e di luci in cui l’enigma nascosto nella realtà prende forma concreta nelle piazze e nelle architetture, negli interni 
e negli assemblaggi degli oggetti. Con l’invenzione dei Manichini e degli Archeologi, con le immagini dei Mobili nella valle e dei Gladiatori, de Chirico ha percorso quasi settant’anni di storia in quella che oggi viene giustamente definita la sua “metafisica continua”. Nel 1917 a Ferrara l’incontro di de Chirico con Carlo Carrà e poi con Giorgio Morandi genera un momento di ricerca condivisa (che coinvolge in un modo speciale anche Filippo de Pisis) su temi comuni; da questo periodo straordinario si sviluppa una linea basilare per l’arte italiana ed europea. REALISMO MAGICO, a cura di Elena Pontiggia Parlare di un Realismo Magico nell’arte italiana fra le due guerre è intendere una vasta parte della pittura del periodo. L’espressione è coniata da Massimo Bontempelli nel 1927. Riferendosi alla letteratura, lo scrittore afferma che il 
realismo magico è in sintonia con la «precisione realistica» e l’«atmosfera magica» dell’arte quattrocentesca e si avvicina a maestri come Masaccio, Mantegna, Piero «per quel loro realismo preciso, avvolto in un’atmosfera di stupore lucido». Perchè lo stupore è, appunto, «espressione di magia». La definizione non venne adottata in campo artistico (nessun artista disse di sé, all’epoca, di appartenere al Realismo Magico), ma serve perfettamente a indicare l’arte postfuturista e postmetafisica. Dobbiamo intendere infatti per Realismo Magico una figurazione dal disegno nitido, ben costruito e volumetricamente solido, senza pittoricismi ottocenteschi; una figurazione vagamente ispirata al Quattrocento. Il Realismo Magico rappresenta una quotidianità insieme familiare e straniata, una fisionomia evidente e misteriosa accomuna
tanti artisti dell’epoca, in cui gli enigmi della Metafisica si stemperano in un realismo incantato che ne è insieme la metamorfosi e il superamento.Protagonisti del Realismo Magico sono Rosai, Garbari, Gigiotti Zanini, che vivono a Firenze in quel periodo e sono a conoscenza delle intuizioni di Soffici. Lungo gli anni Venti e Trenta operano invece a Roma Antonio Donghi, autore fra i più stupefatti e incantati, e a Milano i più giovani Gianfilippo Usellini e Cesare Breveglieri. Ma anche artisti come Casorati si possono avvicinare, con la loro atmosfera immobile, al clima del Realismo Magico. NOVECENTO, a cura di Elena Pontiggia Il Novecento si raggruppa a Milano, intorno a Margherita Sarfatti, nel 1920 e viene fondato ufficialmente nel 1922. In quegli 
anni si sviluppa una poetica precisa, che si potrebbe definire l’aspirazione a una classicità moderna. Il rapporto con l’arte del passato, l’attenzione al mestiere, l’interesse per la figura,
 il primato del disegno, la costruzione di una solida voFausto Pirandello, Spiaggia, 1940

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lumetria sono le sue principali caratteristiche, e lo rendono una delle espressioni più alte in Italia del “Ritorno all’ordine “ (cioè di quel movimento che attraversa tutta l’Europa del primo Dopoguerra
e e intende conciliare le conquiste delle avanguardie con una rinnovata meditazione sull’antico). Nel 1926 si ripropone sulla scena artistica milanese alla Prima Mostra del Novecento Italiano, ma ormai è una famiglia allargata, enorme ed eterogenea. Dalla seconda metà degli anni Venti il Novecento non vuole più essere un gruppo di tendenza, ma solo una generica, ecumenica, raccolta di tutta l’arte italiana, finché la Quadriennale di Roma (la cui prima edizione è del 1931) gli subentra con ben altre forze, sancendone inesorabilmente la fine. CORRENTE, a cura di Elena Pontiggia Il movimento di Corrente, nato a Milano nel 1938 intorno all’omonima rivista fondata da un ragazzo di appena diciotto anni, Ernesto Treccani, raduna vari giovani artisti, come Birolli, Guttuso, Sassu, Migneco, Valenti, Cassinari, Morlotti, Vedova e altri tra cui, in posizione più autonoma, Manzù, Tomea, Broggini, Mucchi. Non formano un gruppo, ma sono accomunati da un espressionismo inizialmente lirico, poi sempre più realistico, impostato sul colore, la luce e l’espressione dei drammi e delle passioni dell’esistenza. La rivista chiude nel 1940, ma il movimento rimane in vita fino al 1943. L’espressionismo lirico che influenza Corrente ha inizio nei primi anni Trenta, intorno al critico Edoardo Persico. Era il 1930- 32 e l’estroso critico napoletano promuoveva a Milano, proprio dove era nato il Novecento, un’arte di ascendenza romantica opposta a quella classicheggiante di Sironi e Funi: un’arte incentrata sul colore anziché sul disegno e il volume, sul pathos dell’immagine. ASTRAZIONE, a cura di Claudio Cerritelli Il percorso dedicato alle ricerche dell’Astrattismo geometrico comporta l’individuazione di una linea di continuità sia con gli esiti non figurativi in campo futurista, sia con l’impostazione di radice metafisica, mentre un ruolo diverso assume il riferimento a modelli storici (Costruttivismo, Neoplasticismo, Bauhaus), con relativi processi di assimilazione. Per l’Astrattismo degli anni Trenta non è possibile parlare di poetica unitaria ma di contributi diversificati sul comune terreno della costruzione autonoma di forme e colori. Il linguaggio della geometria esprime una tensione verso la ricerca di equilibri ritmici legati alla dialettica tra composizione e variazione. Dopo il 1946 si pone l’esperienza del Gruppo Forma 1 che rimette in gioco il destino della pittura e il nuovo impegno nel contesto politico 
e sociale dell’immediato Dopoguerra. Un altro significativo contributo è quello offerto dal MAC (Movimento Arte Concreta) che tra il 1948 e il 1958 affronta un tipo di astrazione come modo aperto di intendere la forma, libera da ogni costruzione già determinata. INFORMALE, a cura di Claudio Cerritelli Le differenti ricerche che confluiscono nell’area dell’Informale esprimono il valore espressivo del segno e della materia
 come possibilità di comunicare una tensione esistenziale e una necessità comune di ritrovare le radici originarie della forma. In tal senso, i linguaggi dell’Informale rimandano a morfologie primordiali, stratificazioni e frantumazioni. L’identità dell’Informale non si identifica in uno stile dominante ma è riconducibile a differenti modi di testimoniare le potenzialità espressive di una visione aperta al continuo esperimento, al divenire indeterminato della forma senza alcun canone che possa garantire valori stabili. PITTURA ANALITICA, a cura di Claudio Cerritelli In un periodo storico fortemente caratterizzato da un furore ideologico, come furono gli anni Settanta in Italia, la pratica della pittura si era trovata a mal partito, sottoposta a ogni genere di critica in quanto paradigma della tradizione e di tutto ciò che “non” doveva essere più fatto d’ora in poi. Naturalmente, dal punto di vista quantitativo, chi utilizzava la pittura era ancora la stragrande maggioranza degli artisti, ma questi ormai non venivano più considerati nel sistema dell’arte d’avanguardia. Tuttavia, un gruppo di artisti che non voleva rinunciare a uno strumento così versatile e così “umano”, e comunque si sentiva perfettamente in grado di “competere” anche concettualmente con le tendenze più avanzate pur usando un strumento apparentemente così tradizionale come la pittura, diede vita a un movimento – che non fu mai un gruppo – che si interrogava sui motivi del dipingere e della funzione dell’artista, nel momento stesso in cui realizzava l’opera. 12 - segno 270 | DICEMBRE 2018 / GENNAIO 2019

Mimm Rotella, Qui etes vous Polly (ph beppe giardino)

Valerio Adami, Privacy, 1966-67

POP ART, a cura di Lorenzo Canova Alla fine degli anni Cinquanta l’Informale e l’Astrazione raggiungono i propri limiti espressivi, lasciando spazio al fenomeno della Pop Art, in linea con una società in rapida trasformazione, dominata dai mass media e dal consumismo. Caratteristica fondamentale è l’inserimento di oggetti e miti della società di consumo e della cultura “popolare” (da cui il termine “pop”), come la pubblicità dei cartelloni, le notizie dei rotocalchi, le locandine cinematografiche e gli spot televisivi. Gli artisti si interrogano sul problema della riproducibilità dell’arte nell’epoca industriale, proponendo ripetizioni ossessive e accumulazioni di oggetti tramite collages e assemblages, in atteggiamento critico nei confronti del cambiamento di valori indotto dal mercato durante il boom economico. La Pop Art nasce a Londra (nel 1956, con l’opera Just what is it that makes today’s homes so different, so appealing? di Richard Hamilton), ma anche in Italia maturano esperienze analoghe. L’esperienza italiana presenta alcune caratteristiche peculiari che la distanziano dai contemporanei esiti inglesi e statunitensi. Esemplare in questo senso è la cosiddetta Scuola di Piazza del Popolo di Roma: artisti che, pur aggiornati sui nuovi linguaggi e metodi espressivi “pop”, condividono il riferimento comune alla tradizione della storia dell’arte italiana. OPTICAL, a cura di Marco Meneguzzo Sotto il termine ampio di Optical Art si raccoglie tutta una vasta galassia di artisti e di gruppi che, a cavallo del 1960, hanno fatto del panorama artistico italiano uno dei più avanzati al mondo. Dopo il decennio dominato dall’Informale, quasi
 per reazione a quell’indagine esistenziale e individualistica,
 si sono sviluppate delle ricerche che evidenziavano il lato razionale e quasi “fisiologico” del vedere. I gruppi nati a Milano (Gruppo T e Gruppo MID) e a Padova (Gruppo Enne) sono i più rappresentativi di questa tendenza, che mirava a coniugare 
la prassi dell’artista con la psicologia della forma. Di fatto, la definizione di Optical Art Agostino Bonalumi


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Maurizio Nannucci

Giorgio De Chirico, La battaglia sul ponte, 1969

per quanto riguarda l’Italia dovrebbe essere ricondotta a quelle di Arte Programmata o al massimo di Arte Cinetica. Le ricerche dei gruppi e degli artisti italiani genericamente denominati “optical” si sono indirizzate dunque all’oggettività del vedere, alla misurabilità estetica, come allora teorizzava il filosofo Max Bense o il nostro Umberto Eco. MINIMALISMO, a cura di Marco Meneguzzo Per quanto riguarda la cultura artistica italiana, sotto la voce “minimalismo” si radunano esperienze artistiche anche molto diverse, che vanno dalle “strutture primarie”alla ricerca del “grado zero” dell’arte, dai prodromi dell’arte ambientale al monocromo estroflesso: al contrario della Minimal Art, qui la definizione di “minimalismo” non appare come un movimento o un gruppo, ma come una categoria ideale. Sia che si tratti di materiali “inespressivi”, come potrebbe essere il cemento, sia che si adotti la monocromia, sia che
la superficie venga indagata in tutte le sue possibilità “al limite”– per esempio attraverso estroflessioni e centinature –, sia che il lavoro si apra all’ambiente pur mantenendo lo statuto immediato e visibile di opera, l’intento degli artisti è stato quello di sperimentare i confini fisici e ideali del linguaggio tradizionale della pittura e della scultura. ARTE POVERA, a cura di Marco Meneguzzo L’Arte Povera – movimento tutto italiano, nato a Torino, ma con significative presenze anche a Roma, a Milano e a Genova – si può considerare, agli inizi, come una reazione alla Pop Art. Sicuramente le tensioni sociali e il momento della contestazione studentesca e operaia, costituiscono lo sfondo su cui nasce il gruppo dell’Arte Povera (la definizione, coniata dal critico Germano Celant teorico del gruppo, è del 1967). Per quanto riguarda le novità linguistico-formali esse vanno però ricercate nella possibilità di non rappresentare più l’oggetto o la materia, ma di “presentarli” nella loro realtà materiale. Ecco allora che a un assunto ideologico l’Arte Povera si definisce tale proprio in reazione all’opulenza dell’oggetto pop e della società che esso rappresenta. Si uniscono argomenti formali precisi,
 fatti di elementi fisici primari, non ancora “contaminati “ dalle sovrastrutture culturali e presentati quasi come elementi bruti, semplici, legati a un’idea essenziale, povera ma sostanziale, del rapporto Jannis Kounellis

tra uomo e realtà: il carbone, il neon, l’acciaio, il piombo, il vetro, il ferro, lo specchio, ma anche gli alberi o addirittura gli animali diventano così il terreno d’azione degli artisti “poveristi”, che nella diversità dei materiali e delle realizzazioni mostrano però di avere nel concetto di “energia” il loro terreno comune. ARTE CONCETTUALE, a cura di Marco Meneguzzo L’Arte Concettuale (definizione comunque vaga, ma fortunata...) ha per oggetto il linguaggio e soprattutto il linguaggio della parola, più ancora che della visione. Si suole datare il suo
 inizio al 1967 con i Paragraphs on Conceptual Art scritti dall’americano Sol LeWitt, ma anche in Italia nello stesso anno già si possono ritrovare ricerche dello stesso tipo, soprattutto nei lavori di Giulio Paolini, di Emilio Isgrò, di Alighiero Boetti e di Vincenzo Agnetti. Il processo mentale che si mette in atto per arrivare a un risultato artistico diventa l’aspetto più importante del fare arte: l’idea è più importante della sua formalizzazione, il progetto più del prodotto. L’aspetto visivo non scompare del tutto: l’Arte Concettuale non intende infatti abbandonare il linguaggio dell’arte per arrivare, per esempio, a quello della linguistica, ma vuole sperimentare il limite cui può giungere il concetto di “arte”. TRANSAVANGUARDIA, a cura di Luca Beatrice Nel 1979 Giancarlo Politi, che dal 1967 pubblica la rivista «Flash Art», edita un piccolo saggio illustrato, copertina tricolore, dove Achille Bonito Oliva espone la sua teoria circa 
il ritorno della pittura dopo un decennio dominato dall’Arte Concettuale. (*). Siamo in piena epoca postmoderna che, a partire dalla architettura, prevede un diverso rapporto con la storia, intesa come bagaglio di immagini e citazioni. Guardare al passato, al primitivismo, alle esperienze del Novecento, riscoprire manualità e valore artigianale, significa in qualche modo che il tempo dell’avanguardia è terminato. Il prefisso “trans” sta a indicare la necessità di un attraversamento orizzontale tra alto e basso, serio e faceto, contemporaneità e tradizione. La Transavanguardia è il fenomeno più importante nell’ambito della pittura e, dopo il Futurismo e l’Arte Povera, è l’ultimo “gruppo” di artisti italiani che è stato capace di imporsi all’estero. NUOVA FIGURAZIONE, a cura di Luca Beatrice Negli anni Ottanta Roma si impone come la “capitale” dell’arte italiana, riprendendo quel ruolo internazionale che ebbe nell’immediato Dopoguerra.
 Una cronaca che prende vita nei quartieri, a partire da San Lorenzo e dall’ex Pastificio Cerere dove i Michelangelo Pistoletto, Suonatrice di liuto (ph beppe giardino)

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Marco Tirelli

Piero Gilardi

giovani pittori hanno
 i loro studi e il loro “quartier generale”, a cominciare dal ristorante Pommidoro dove era solito cenare, quasi ogni sera, Pier Paolo Pasolini. Coetanei o poco più giovani dei colleghi
 della Transavanguardia, sono meno iconici, meno figurativi, guardano all’astrazione e alla sperimentazione segnico materica. Non fanno riferimento a un unico curatore e non firmano un manifesto, riscontrando semmai l’interesse di tutto l’ambiente critico e accademico, da Maurizio Calvesi a Filiberto Menna. Citazionisti e Anacronisti. Dall’altro lato del Tevere nasce e si sviluppa un’ulteriore corrente pittorica che prende nomi e appellativi diversi: Ipermanierista, Anacronista, Citazionista. Dando per scontato l’approccio concettuale e non la semplice rivisitazione del passato, questi pittori, peraltro molto dotati dal punto di vista tecnico, si “divertono” a elaborare assurde visioni atemporali, creando un effetto di totale disorientamento. Chi guarda spesso non capisce dove si trova e cosa vede. Rispetto alla Transavanguardia e alla Nuova Scuola Romana, il successo degli Anacronisti resta confinato agli anni Ottanta, in parallelo allo sviluppo dell’architettura postmoderna che trovò, proprio a Roma, in Paolo Portoghesi il maggior teorico, e nella critica d’arte la figura di Italo Mussa, teorizzatore della Pittura Colta. Partendo da Roma, per tutti gli anni Ottanta, il ritorno alla 
pittura e in particolare all’immagine, si sviluppa nell’intera Penisola. Senza dimenticare peraltro la scultura, altra possibilità espressiva e di studio della materia che cresce in parallelo. Fioriscono, seppur con meno fortuna, altri gruppi, ad esempio 
i Nuovi Nuovi e i Nuovi Futuristi teorizzati da Renato Barilli, entrambi in direzione di una figurazione più soft che guarda anche alla tecnologia e al design. La pittura, in ogni caso, si dimostra multiforme e plurale. Ogni città alimenta un proprio specifico territoriale che la rende differente, e riconoscibile, rispetto alle altre esperienze. Più leggera quella di Milano, 
di origine con-

Gilberto Zorio

cettuale e di impianto ludico; non immune all’influenza dell’Arte Povera quella torinese, viscerale e barocca a Napoli, dove la galleria di Lucio Amelio funge da polo di attrazione per i grandi artisti internazionali e le giovani promesse. INTERNAZIONALITÀ, a cura di Giorgio Verzotti Gli anni Novanta segnano una svolta nella considerazione internazionale dell’arte italiana: la Transavanguardia nel decennio precedente aveva fatto da testa di ponte a un successo internazionale per la prima volta immediato, con 
la conseguenza di portare anche le generazioni precedenti, 
in primis gli artisti dell’Arte Povera, a un’attenzione inusitata anche sul piano delle quotazioni di mercato. Negli anni Novanta, anche grazie a questa nuova considerazione, il sistema dell’arte italiano inizia Carla Accardi

ARTISTI CON OPERE STORICHE IN MOSTRA Carla Accardi, Valerio Adami, Afro, Vincenzo Agnetti, Mario Airò, Carlo Alfano, Attilio Alfieri, Adriano Altamira, Getulio Alviani, Alfredo Gauro Ambrosi, Giovanni Anceschi, Cesare Andreoni, Franco Angeli, Giovanni Anselmo, Marina Apollonio Francesco Arena, Rodolfo Aricò, Stefano Arienti, Salvatore Astore, Fedele Azari, Carla Badiali, Arnaldo Badodi, Marco Bagnoli, Enrico Baj, Nanni Balestrini, Giacomo Balla, Mario Ballocco, Giuliano Barbanti, Giancarlo Bargoni, Luciano Bartolini, Luigi Bartolini, Massimo Bartolini, Gianfranco Baruchello, Carlo Battaglia, Rino Gaspare Battaini, Vanessa Beecroft, Vasco Bendini, Vinicio Berti, Gianni Bertini, Domenico Bianchi, Alberto Biasi, Gastone Biggi, Umberto Bignardi, Renato Birolli, Irma Blank, Umberto Boccioni, Renata Boero, Alighiero Boetti, Agostino Bonalumi, Eros Bonamini, Arturo Bonfanti, Monica Bonvicini, Aroldo Bonzagni, Davide Boriani, Pompeo Borra, Jessie Boswell, Bot, Maurizio Bottarelli, Cesare Breveglieri, Luigi Broggini, Alessandro Bruschetti, Anselmo Bucci, Alberto Burri, Marisa Busanel, Paolo Buzzi, Enzo Cacciola, Corrado Cagli, Cagnaccio di San Pietro, Angelo Cagnone, Antonio Calderara, Nino Calos, Pier Paolo Calzolari, Duilio Cambellotti, Marcello Camorani, Massimo Campigli, Giovanni Campus, Francesco Cangiullo, Pasqualino Cangiullo, Giuseppe Capogrossi, Benedetta Cappa, Carmelo Cappello, Antonio Carena, Felice Carena, Arturo Carmassi, Giorgio Carmelich, Eugenio Carmi, Aldo Carpi, Carlo Carrà, Ugo Carrega, Nicola Carrino, Athos Casarini, Felice Casorati, Bruno Cassinari, Enrico Castellani, Maurizio Cattelan, Emanuele Cavalli, Angelo Caviglioni, Vincenzo Cecchini, Bruno Ceccobelli, Mario Ceroli, Sandro Cherchi, Gigi Chessa, Sandro Chia, Giuseppe Chiari, Ennio Chiggia, Alfredo Chighine, Carlo Ciussi, Francesco Clemente, Fabrizio Clerici, Ettore Colla, Gianni Colombo, Pietro Consagra, Bruno Contenotte, Riccardo Cordero, Claudio Costa, Toni Costa, Franco Costalonga, Paolo Cotani, Tullio Crali, Roberto Crippa, Enzo Cucchi, Pirro Cuniberti, Giulio D’Anna, Dadamaino, Sandro De Alexandris, Cristoforo De Amicis, Giorgio de Chirico, Gino De Dominicis, Raffaele De Grada, Federico De Leonardis, Mario De Luigi, Nicola De Maria, Filippo de Pisis, Francesco De Rocchi, Aldo De Sanctis, Angelo Del Bon, Lucio Del Pezzo, Enrico Della Torre, Mino Delle Site, Fortunato Depero, Gianni Dessì, Bruno Di Bello, Renato Di Bosso, Lucia Di Luciano, Rä Di Martino, Gabriele Di Matteo, Stefano Di Stasio, Nicolay Diulgheroff, Antonio Donghi, Piero Dorazio, Gillo Dorfles, Gerardo Dottori, Gianni Dova, Leonardo Dudreville, Chiara Dynys, Carlo Erba, Diego Esposito, Luciano Fabro, Farfa, Lara Favaretto, Claudio Favelli, Pericle Fazzini, Giuseppe Ferrari, Vincenzo Ferrari, Ferruccio Ferrazzi, Tano Festa, Ettore Fico, Luigi Fillia, Leonor Fini, Giosetta Fioroni, Piero Fogliati, Antonio Fomez, Lucio Fontana, Riccardo Francalancia, Edoardo Franceschini, Achille Funi, Giuseppe Gabellone, Nicola Galante, Omar Galliani, Pinot Gallizio, Giuseppe Gallo, Paola Gandolfi, Tullio Garbari, Franco Garelli, Paolo Federico Garretto, Marco Gastini, Renato Guttuso, Pietro Gauli, Pietro Gentili, Franco Gentilini, Alberto Ghinzani, Piero Gilardi, Domenico Gnoli, Ezio Gribaudo, Giorgio Griffa, Franco Grignani, Laura Grisi, Gruppo MID, Riccardo Guarnieri, Virgilio Guidi, Paolo Icaro, Massimo Iosa Ghini, Emilio Isgrò, Marcello Jori, Jannis Kounellis, Ugo La Pietra, Ketty La Rocca, Maria Lai, Edoardo 14 - segno 270 | DICEMBRE 2018 / GENNAIO 2019


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Giulio Paolini

Pietro Consagra

a organizzarsi per raggiungere standard da tempo validi in altri Paesi: nascono nuove gallerie molto dinamiche e soprattutto musei pubblici e fondazioni private che giungono col tempo a promuovere seriamente l’arte italiana fuori dal nostro Paese, con particolare attenzione ai giovani talenti. Alcuni fra questi, fin dall’inizio del decennio, investono personalmente nella loro promozione scegliendo di vivere all’estero, alcuni iscrivendosi nelle locali accademie d’arte, fra Berlino, NewYork o Los Angeles, e lì iniziano o proseguono la loro carriera, creando direttamente contatti internazionali.

Enrico Castellani

(*) Ci è caro ricordare e sostenere che le premesse del movimento della transavanguardia, sono state da noi anticipate sulla Rivista Segno n.13, in una intervista ad Achille Bonito Oliva per

la mostra storica ad Acireale nel settembre del 1979 con opere di Chia, Clemente, Cucchi, De Maria, Paladino. In tale intervista molto concisa, senza usare al momento il termine “transavanguardia”, Bonito Oliva dichiara che “…Finalmente questi artisti assumono la pratica pittorica come un movimento affermativo, come un gesto non più di difesa ma di penetrazione attiva, diurna e fluidificante…Il recupero della manualità significa ribadire il valore della pittura, così come il recupero dell’immagine figurativa significa l’incrocio tra memoria culturale ed urgenza legata alla espressività soggettiva. ….. L’arte è il movimento eccellente che gratta la pelle del reale, è un mettere il sale nelle ferite o nelle feritoie. Dalle feritoie la vita diventa oggetto di uno sguardo acuto, il linguaggio diventa l’angolatura per una immagine di intensità…”

Chiara Dynys

Maurizio Mochetti

Landi, Pierluigi Lavagnino, Bice Lazzari, Leoncillo, Carlo Levi, Corrado Levi, Osvaldo Licini, Umberto Lilloni, Francesco Lo Savio, Leone Lodo, Marco Lodola, Sergio Lombardo, Mino Maccari, Mario Mafai, Alberto Magnelli, Luigi Mainolfi, Gian Emilio Malerba, Renato Mambor, Piero Manai, Giacomo Manzù, Giuseppe Maraniello, Elio Marchegiani, Enzo Mari, Carlo Maria Mariani, Umberto Mariani, Filippo Tommaso Marinetti, Marino Marini, Eva Marisaldi, Gino Marotta, Auturo Martini, Sandro Martini, Pietro Marussi, Titina Maselli, Paolo Masi Manfredo Massironi, Umberto Mastroianni, Vittorio Matino, Eliseo Mattiacci, Fabio Mauri, Roberto Melli, Fausto Melotti, Alessandro Mendini, Franco Meneguzzo, Francesco Menzio, Mario Merz, Marisa Merz, Francesco Messina, Giuseppe Migneco, Umberto Milani, Paolo Minoli, Maurizio Mochetti, Aldo Mondino, Gian Marco Montesano, Cesare Monti, Carmengloria Morales, Giorgio Morandi, Marcello Morandini, Mattia Moreni, Marisa Mori, Ennio Morlotti, Liliana Moro, Nelson Morpurgo, Bruno Munari, Anton Zoran Music, Carlo Nangeroni, Mario Nanni, Maurizio Nannucci, Ugo Nespolo, Mario Nigro, Gastone Novelli, Nunzio, Claudio Olivieri, Giorgio Olivieri, Germano Olivotto, Luigi Ontani, Ubaldo Oppi, Luciano Ori, Corrado Ortelli, Giancarlo Ossola, Goliardo Padova, Giovanni Paganin, Siro Paganini, Mimmo Paladino, Giulio Paolini, Gianfranco Pardi, Renato Paresce, Claudio Parmiggiani, Pino Pascali, Antonio Passa, Luca Maria Patella, Enrico Paulucci, Andrea Pazienza, Giuseppe Penone, Tullio Pericoli, Achille Perilli, Diego Perrone, Gianni Pettena, Gianni Piacentino, Lamberto Pignotti, Pino Pinelli, Fausto Pirandello, Vettor Pisani, Michelangelo Pistoletto, Paola Pivi, Piero Pizzi Cannella, Giovanni Pizzo, Fabrizio Plessi, Arnaldo Pomodoro, Giò Pomodoro, Paolo Portoghesi, Concetto Pozzati, Enrico Prampolini, Emilio Prini, Pierluigi Pusole, Mario Raciti, Mario Radice, Sergio Ragalzi, Carol Rama, Domenico Rambelli, Luciano Ramo, Antonietta Raphaël, Mauro Reggiani, Regina, Angelo Rognoni, Romolo Romani, Sergio Romiti, Ottone Rosai, Aldo Rossi, Mino Rosso, Mimmo Rotella, Gianni Ruffi, Piero Ruggeri, Luigi Russolo, Alberto Salietti, Remo Salvadori, Salvo, Pupino Samonà, Antonio Sanfilippo, Antonio Sant’Elia, Giuseppe Santomaso, Sergio Sarri, Germano Sartelli, Aligi Sassu, Vincenzo Satta, Angelo Savelli, Alberto Savinio, Carlo Sbisà, Antonio Scaccabarozzi, Emilio Scanavino, Salvatore Scarpitta, Paolo Scheggi, Mario Schifano, Toti Scialoja, Scipione, Paolo Scirpa, Pio Semeghini, Sergio Sermidi, Gino Severini, Elisa Sighicelli, Turi Simeti, Gianni Simonetti, Mario Sironi, Ardengo Soffici, Gino Soggetti, Atanasio Soldati, Ettore Sottsass, Giuseppe Spagnulo, Ettore Spalletti, Luigi Spazzapan, Adriano Spilimbergo, Aldo Spoldi, Fausta Squatriti, Mauro Staccioli, Tino Stefanoni, Rudolf Stingel, Luigi Stoisa, Guido Strazza, Luiso Sturla, Cesare Tacchi, Emilio Tadini, Aldo Tagliaferro, Tancredi, Ernesto Tatafiore, Tato, Thayaht, Matteo Thun, Marco Tirelli, Grazia Toderi, Fiorenzo Tomea, Arturo Tosi, Mario Tozzi, Ernesto Treccani, Luca Trevisani, Francesco Trombadori, Antonio Trotta, Giulio Turcato, Giuseppe Uncini, Gianfilippo Usellini, Franco Vaccari, Tino Vaglieri, Valentino Vago, Italo Valenti, Nanni Valentini, Walter Valentini, Grazia Varisco, Nico Vascellari, Emilio Vedova, Vedovamazzei, Mario Vellani Marchi, Claudio Verna, Renato Vernizzi, Luigi Veronesi, Francesco Vezzoli, Alberto Viani, Cesare Viel, Nanda Vigo, Luca Vitone, Adolfo Wild, Francesca Woodman, Bruno Zanichelli, Gigiotti Zanini, Gianfranco Zappettini, Rougena Zatkova, Alberto Zilocchi, Alberto Ziveri, Gilberto Zorio. DICEMBRE 2018 / GENNAIO 2019 | 270 segno - 15


MAXXI Roma

Lo spazio dell’immagine Il museo mette in mostra la sua Collezione con un nuovo allestimento dove protagoniste sono alcune tra le 70 nuove acquisizioni di arte, architettura e fotografia. In mostra opere di Mario Airò, Stefano Arienti, Alighiero Boetti, Monica Bonvicini, Mark Bradford, Candice Breitz, Paolo Di Paolo, Pablo Echaurren, Giuseppe Gabellone, Katharina Grosse, Hassan Hajjaj, Rafael Y. Herman, LABICS, Sol LeWitt, Diego Marcon, Tony Oursler, Yan Pei-Ming, Paolo Pellegrin, Michael Raedecker, Aldo Rossi, Yinka Shonibare MBE, Wolfgang Tillmans, Marco Tirelli, Giulio Turcato, Lauretta Vinciarelli e Bill Viola

Veduta allestimenti inaugurazione - foto Musacchio, Ianniello, Pasqualini courtesy Fondazione MAXXI Katharina Grosse , Ingres Wood Seven, 2017 - foto Musacchio, Ianniello, Pasqualini courtesy Fondazione MAXXI

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Veduta allestimenti inaugurazione - foto Musacchio Ianniello courtesy Fondazione MAXXI

I

mponente nei colori e assolutamente spiazzante nel bianco della galleria del piano terra del MAXXI, è la gigantesca opera di Katharina Grosse Ingres Wood Seven che accoglie i visitatori. Questa grande nuova collettiva di 25 autori è dedicata ad alcune delle Nuove Acquisizioni 2018, con oltre 50 opere, che hanno arricchito a diverso titolo la collezione di Arte tra acquisti, donazioni, comodati, grazie anche al nuovo fondo dedicato ai lavori su carta”. Accanto alla imponente installazione della Grosse, troviamo i lavori di Monica Bonvicini Bent and Fused (2018) e di Yinka Shonibare MBE Invisible Man (2018), entrambi prodotti in occasione della mostra Eco e Narciso realizzata a Palazzo Barberini, un corpus di opere su carta di Pablo Echaurren, donato dalla Fondazione Echaurren Salaris - Roma, e tre fotografie di Hassan Hajjaj già parte del progetto site specific Le Salon Bibliotèque esposto nella mostra African Metropolis. In quest’area anche due importanti corpus fotografici: quello di Paolo Di Paolo donato dall’autore, interprete sensibile e attento dell’Italia tra gli anni Cinquanta e Sessanta, che a marzo 2019 confluirà nella grande mostra a lui dedicata realizzata in partnership con Gucci, e il polittico dedicato a L’Aquila di Paolo Pellegrin, protagonista di una personale in corso fino al 10 marzo 2019. Il percorso prosegue in una seconda parte in cui le opere della Collezione Arte e Architettura sono state scelte e combinate, in un allestimento che prende in prestito il titolo di una importante esposizione realizzata a Foligno nel 1967- LO SPAZIO DELL’IMMAGINE - in cui i lavori esposti erano costituiti per lo più da ambienti plastico-spaziali, realizzati dai protagonisti dell’arte italiana di quel periodo. Circa 20 opere per un percorso di riflessione sul tema dell’immagine e dello spazio da essa generato, a partire da altre due importanti acquisizioni, una produzione ad hoc di Marco Tirelli e due

Yinka Shonibare MBE Invisible Man, 2018 foto Musacchio Ianniello courtesy Fondazione MAXXI

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Alighiero Boetti, Orme I, 1990, Comodato MAXXI

grandi lavori di Giulio Turcato Asteroidi (1983) e Biologico (1992) in comodato. Accanto a queste una serie di modelli (2014-2015) del duo di architetti Labics, nuovo comodato della Collezione Architettura, la serie di disegni (1986-2017) di Lauretta Vinciarelli e il progetto per il Teatro del Mondo (1979) di Aldo Rossi. “Le collezioni di architettura - afferma Margherita Guccione Direttore MAXXI Architettura - si rivelano ancora una volta un patrimonio inesauribile di letture e spunti di ricerca sempre nuovi in cui il passato rivela la sua attualità e il presente trova le sue radici”. Le opere di architettura dialogano infatti con alcuni capisaldi della collezione come le Orme (1990) di Alighiero Boetti, Mao e Pope (2005) di Yan Pei-Ming e Corda di carta

di giornali (1986-2004) di Stefano Arienti, e con lavori come Il Vapore (1975) di Bill Viola e Springadela (2000) di Mario Airò, che mescolano strumenti analogici e nuove tecnologie, accanto alle video installazioni Becoming Meg (2003) di Candice Breitz dalla Donazione Claudia Gian Ferrari, e Il malatino (2017) di Diego Marcon, vincitore 2018 del MAXXI BVLGARI Prize e scelto da AMACI per il progetto Museo Chiama Artista. In occasione dell’inaugurazione della mostra il museo ha ospitato una conversazione con Nico Vascellari, che insieme ad Andrea Lissoni, curatore della Tate Modern di Londra e a Bartolomeo Pietromarchi Direttore del MAXXI Arte, ha presentato il volume edito da Manfredi Edizioni, Nico Vascellari. Revenge. (LS dal cs)

Nico Vascellari, Revenge, 2018 / foto Musacchio Ianniello, courtesy Fondazione MAXXI

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Candice Breitz, Becoming Meg, 2003 / Donazione Gian Ferrari - Courtesy Fondazione MAXXI

Yan Pei Ming, Mao e Pope, 2005 / foto Musacchio Ianniello courtesy Fondazione MAXXI Monica Bonvicini, Bent and Fused, 2018 / foto Musacchio Ianniello courtesy Fondazione MAXXI

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Chiostro del Bramante, Roma

DREAM

L’arte incontra i sogni Una mostra che affronta il sogno come elemento di riflessione, di scoperta, come espressione privata, come porta d’accesso allo spazio più profondo dell’animo.
 A opere site-specific si alternano lavori ripensati per gli spazi del Chiostro del Bramante, in una successione che diviene un unico grande racconto, anche grazie al coinvolgimento diretto degli artisti. Anselm Kiefer, Untitled 1995 (cm. 230 x 170) courtesy Lia Rumma

D

i primo acchito, stanti la centralità dello spazio espositivo e l’autorevolezza del curatore (Danilo Eccher), verrebbe da pensare ad una rassegna di capolavori, storicamente già consolidati, con tanto di saggio introduttivo, schede e apparati critici di supporto. Niente di tutto questo. In realtà appena varcata la soglia del celebre edificio rinascimentale, rivelatosi nel tempo, come sede espositiva, tanto misurato e rassicurante quanto duttile e accogliente, ti accorgi subito che stai per essere immesso all’ interno di una esperienza comunicativa del tutto nuova e tutt’altro che superficiale, ovvero di un percorso che promette di legare tra loro le varie opere esposte in maniera via via più coinvolgente servendosi non di abili espedienti retorici o affabulatori, ma del tuo stesso desiderio di esplorare sempre più a fondo le emozioni che ogni nuova tappa viene suscitando all’interno della tua persona intesa come unità di coscienza ed inconscio. Il presupposto teorico di questo modo di avvicinare l’opera al fruitore lo si può ricavare dalla lettura del saggio in catalogo dello stesso Eccher in cui egli si sforza di confrontare le peculiarità dell’immagine d’arte con quelle dell’immagine scientifica e dell’immagine magica, per aiutarci ad uscire dalla logica che vorrebbe la scienza preposta soltanto a pratiche classificatorie o di riscontro, la magia ricondotta ad un semplice repertorio di obsolete credenze da citare solo con il dovuto distacco, e l’arte come una attività che può anche attingere ai prodotti di questi “saperi” , in qualche modo, paralleli ma solo laddove essi vengano debitamente riassorbiti entro i limiti della propria autonomia estetico formale.

Janish Kapoor, Dream, courtesy Chiostro del Bramante, 2018, Milano

Un presupposto, quello costituito dal saggio del curatore cui fa da contrappunto lo scritto di orientamento più strettamente filosofico di Federico Vercellone il quale ci aiuta a situare in maniera ancora più stringente lo statuto etico-gnoseologico del sogno nella catena evolutiva del pensiero occidentale per poi proiettarlo in avanti come possibile chiave di lettura dell’ormai improrogabile costruzione di un nuovo modello identitario, non più discriminatorio e votato alla dominazione, ma orientato al recupero dei valori dell’individualità massacrata dalle nuove logiche del consumo merceologico-informazionale. Da questa serie di considerazioni nasce la logica fruizionale della mostra basata su di un doppio movimento, all’inizio verso l’esplorazione del nostro inconscio che le opere chiamate in causa tendono ciascuna a suo modo a far sconfinare verso l’archetipale e l’ancestrale e poi in direzione di una risalita ai valori dell’universalità e della progettualità, non più consegnati al distacco dell’utopia politica, ma nutriti dell’energia che proviene loro dal basso, da un territorio più vasto che ci ha già predisposto ad un sentire anch’esso universale, ma nel senso di una maggior vicinanza con il dato organico e naturale. Il compito di innescare, animare e concatenare questo doppio movimento fino a costituirlo in percorso esplorativo ed emozionale insieme, se lo è assunto un ulteriore elemento fondato sulla parola: le cosiddette “Voci del sogno” ovvero una serie d 14 brevi ma intensissimi testi di Ivan Cotroneo che ogni visitatore può ascoltare in cuffia e che fanno parte integrante della visita. Non sono dedicati ad un opera in particolare né hanno un valore interpretativo o informativo, essi si susseguono ad intervalli diversi e raccolgono e rilanciano suggestioni il cui intervento è previsto secondo un ordine indicato a fianco alle opere stesse. Tecnicamente sono pura poesia, in se stessa autonoma, ma di fatto il gioco di scambi che essi istituiscono con immagini, opere, ambienti e installazioni fa tutt’uno con l’esposizione, con la passerella su cui ci muoviamo, con i silenzi e gli sguardi di chi ci sta intorno. Paolo Balmas Il percorso, gli artisti e le voci del sogno Nella perfetta architettura rinascimentale di Donato Bramante il primo omaggio al mondo dei sogni: due imponenti volti femminili dagli occhi chiusi si fronteggiano e accompagnano nell’onirico (J. Plensa). Una donna galleggia sospesa tra sonno e veglia (B. Viola); nella confusione si perdono i punti di riferimento ma su una duna di sabbia è incastonata una piccola bussola (G. Anselmo); una stanza invasa da fasci di sterpi (M. Merz); dall’immersione della natura si intravedono luci e ombre di figure danzanti (C. Boltanski); una misteriosa creatura fatta di piume serpeggia come

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Jaume Plensa, Dream, courtesy Chiostro del Bramante, 2018, Milano

una temibile Demogorgone (K. MccGwire); una passerella conduce in fila oltre un albero sradicato e sospeso (H. Håkansson) attraverso lievi indumenti di seta trafitti da innumerevoli spilli e ricordi (D. Salcedo) fino a sculture di legno, ferro e ossa (C. Costa); la natura spaventa ma a volte soccorre con la pacatezza dei suoi elementi, tra cenere e riso (W. Laib), altre volte si mostra nella sua grandiosità con maestosi e nobili alabastri

Bill Viola, Dream, courtesy Chiostro del Bramante, 2018, Milano

(A. Kapoor). Si esce dalle tenebre per aspirare a una nuova dimensione, una pioggia d’oro rasserena (T. Tane), mentre suoni e immagini ridonano la dimensione del cosmo (R. Ikeda); un uomo disteso a terra sotto uno sconfinato cielo stellato (A. Kiefer); il viaggio prosegue attraverso una soffice caverna fatta di lana e pitture rupestri (A. Kehayoglou) e dalla natura rigogliosa della Patagonia ci si ritrova improvvisamente in una dimensione labirintica, astratta e geometrica (P. Kogler). Nel sogno vivono aperture spazio-temporali capaci di estraniare (T. Miyajima); il letto è uno dei luoghi del sogno, dormire come accesso ad altre dimensioni (L. Ontani); il sogno è colori tra dolcezza e armonia (E. Spalletti); il sogno è luce e profondità che incanta e lascia intravedere l’infinito (J. Turrell). Completa il progetto Le voci del sogno: per la prima volta al mondo le parole di uno scrittore ispirate alle opere degli artisti protagonisti di Dream e interpretate da 14 attori italiani accompagnano il pubblico in mostra attraverso una audioguida. 14 racconti inediti di Ivan Cotroneo diventano evocazione in un percorso straordinario, capace di amplificare e creare un altro sogno. Le voci sono quelle di Valeria Solarino, Valentina Cervi, Matilda de Angelis, Marco Bocci, Simona Tabasco, Giuseppe Maggio, Matteo Oscar Giuggioli, Alessandro Roja Alessandro Preziosi, Angela Baraldi, Brando Pacitto, Isabella Ferrari, Giulia Bevilacqua, Cristiana Capotondi.

Mario Merz, Dream, courtesy Chiostro del Bramante, 2018, Milano

Tastuo Miyajima Dream, courtesy Chiostro del Bramante, 2018, Milano

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OGR, Torino

Artissima Sound Sound è stata la nuova sezione di Artissima dedicata alle indagini sonore contemporanee. Parte integrante della fiera, Sound è stata allestita fuori dagli spazi istituzionali di Artissima, presso le OGR Officine Grandi Riparazioni In corso Castelfidardo 22 con la proposta di 15 progetti monografici dedicati al suono, selezionati dai due curatori Yann Chateigné Tytelman e Nicola Ricciardi.

L

a fitta agenda della Settimana dell’Arte Torinese (dall’1 al 4 novembre) si è divisa tra sette fiere - Artissima, Flash Back, Nesxt, Dama, The Others, Flat, Paratissima - e una serie di altre manifestazioni che si sono sincronizzate diffusamente attorno al totem dell’Art Week: Castello di Rivoli, Fondazione Sandretto, Ogr, Fondazione Merz, Ex MOI, Faust Fest, per citarne solo alcuni. Quest’orgia di materiale a disposizione del visitatore, nelle sue molteplici e talvolta antitetiche espressioni segniche, è – come ogni anno – un motore e una sfida per la definizione dell’immaginario visivo contemporaneo, ma anche un modo di “usare” Torino come luogo dove incontrarsi, fare il punto della situazione e persino incominciare la propria avventura professionale nel mondo dell’arte. Cultura ed esperienze che vengono ben raccontate da quell’articolato plotoncino di critici, curatori, giornalisti e aspiranti tali che la giostra annuale muove con eterno e allegro ricambio. In questo articolo abbiamo scelto di occuparci di una novità assoluta del 2018: Artissima Sound, una sezione che ha messo al centro della sua ricerca il rapporto tra l’orecchio e lo spazio attraverso opere d’arte sonore. Nato come una costola di Artissima, ma ospitato all’interno delle OGR - Officine Grandi Riparazioni, Artissima Sound ha un obiettivo preciso e per certi versi problematico: indagare da più punti di vista la produzione di opere d’arte, dal momento in cui esse mettono al centro della loro indagine il suono. “Se è ovvio che un suono lo si può ascoltare, se è dimostrato che

Marzio Zorio, Biblioteca 2018 (legno, nastro magnetico, amplificatore, 11 elementi 90 x 240 x 50 cm. ognuno). Courtesy The Artist & Raffaella De Chirico Gallery, Torino

un suono lo si può vedere, è altrettanto vero che un suono lo si possa collezionare?”, si chiede Nicola Ricciardi, direttore artistico dello spazio e co-curatore della sezione. Di conseguenza i lavori sono stati presentati e inscritti in una filiera classica, con tanto di 14 importanti gallerie rappresentative e altrettanti assetti commerciali. Il rapporto tra fiera e mostra è fertile e il risultato finale è solo parzialmente provocatorio. Sarà il monumentale relitto industriale, sarà il crudo impatto con i suoni o per dirla con le parole di Ilaria Bonacossa, quel loro intrinseco rimando al “potere trasformativo dell’arte”, sarà la consapevolezza quasi inconscia dell’emersione di “una nuova dimensione aurale nella nostra società visiva”, ma il primo contatto con Artissima Sound causa leggero stordimento e la consapevolezza di una possibile ambiguità interpretativa. Da una parte il suono come mezzo che viaggia su binari propri e che trae da questa alterità una sorgente di carisma pre-interpretativo, pre-tecnologico e pre-linguistico. Dall’altra il suono come mezzo di ridefinizione delle dinamiche sociali e delle comunicazioni tra umani e persino tra umani e oggetti. Se nel primo caso, dunque, esso si presenta nella qualità propria di agire in tutta la gradazione sensuale del non visibile, nel secondo esso si configura come mezzo rapidissimo di propagazione dei linguaggi, ontologicamente virale, feticcio del rapporto tra avanguardia e memoria. Sfuggente ma non labile, il suono sembra essere l’unica dimensione che ricostruisce ipso facto lo spazio espositivo come proiezione di quello mentale. L’impalcatura fisica su cui si

James Richards, Abyss Film, Kestnergesellschaft (installation view). Courtesy Isabella Bortolozzi, Milano

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Franz Erhard Walther, Zick-zack_Stück (Flechtung). tessuto di cotone essiccato (1350 x 310 cm.). Courtesy Jocelyn Wolff, Paris Ugo La Pietra, Audio casco. (installazione 250 x 292 x 74 cm.). Courtesy Studio Dabbeni, Lugano

costruisce ciascuna opera è un appiglio visivo su cui il fruitore è costretto a proporre ipotesi di funzionamento e con cui avviare un’avventura dinamica con l’architettura. Si legge dal comunicato di Artissima: “Riattivare ricordi, liberare l’immaginazione ed [...] evocare e svelare una realtà intangibile, sempre mutevole”. Ma entriamo nello specifico dell’esposizione. Nella prima sala, detta Duomo, troviamo sei installazioni monografiche che conferiscono all’ambiente un’aura che potremmo definire relazionale. La prima è The greenhouse di Christina Kubisch (2017, galleria Mazzoli). Una giungla di cavi giallo-verdi genera una serie di segnali sonori udibili solo in cuffia. Esperienza segreta che apre un processo di ri-costruzione della composizione semplicemente muovendo il corpo con più o meno disinvoltura nello spazio. Horror Vacui di Charles Stankievech (2008, galleria Unique Multiples) rivela con intelligenza il rapporto liminale tra il supporto e lo spazio. Il vinile di un brano dei Velvet Underground viene ascoltato in cuffia dopo essere stato precedentemente registrato in una campana di vetro. Man mano che il vinile gira

diventa inudibile per un fenomeno di fisica acustica. Zick-zack-Stück (Flechtung) Zigzag Piece (Plaiting) Schreitbahn No 12 è un’opera storica di Franz Erhard Walther (1972, galleria Jocelyn Wolff). Dal momento in cui un tappetino minimale a zigzag deve essere calcato da performer che seguano scrupolosamente le indicazioni acustiche date, la rappresentazione finisce forse per diventare una sorta di contrordine concettuale rispetto all’epoca degli spontaneismi (di cui Walther è stato testimone). Fluide propagazioni alchemiche è l’opera presentata da Roberto Pugliese (2017, galleria Mazzoli), dove all’interno di damigiane ricolme di liquidi differenti sono predisposti degli speaker subacquei. Essi emettono suoni uguali che, reagendo al liquido differente di ogni periferica, vengono fuori con timbri differenti. Biblioteca di Marzio Zorio (2018, galleria Raffaella De Chirico), è un’opera fortemente interattiva, nella quale gli spettatori, con in mano dei bastoni che in realtà sono testine magnetiche, passano su nastri stesi in orizzontale e stesi lungo una mezza dozzina di aste di legno. L’opera si rivolge all’ambiente esterno in modo DICEMBRE 2018 / GENNAIO 2019 | 270 segno - 23


Christina Kubisch, The Greenhouse, 2017 (installation view)

Susan Philipsz, strumenti musicali danneggiati dalla guerra (installation view)

da invaderlo con (dis)equilibrio mutevole e imprevedibile. Tuned Volume di Michele Spanghero (2016, gallerie Alberta Pane e Mazzoli), oltre ad essere l’ultima opera della sala Duomo, è una sorta di trottola enigmatica. Alcune vibrazioni interne propagano un’onda lungo una doppia spirale di legno. La scultura sonora riproduce allora dei suoni che promettono una armonizzazione con lo spazio ospitante. Passando alla seconda sala, detta Binario 2, che potremmo definire quella dell’ascolto puro, si comincia con Abyss Film, Kestnergesellschaft (2017, galleria Isabella Bortolozzi). La ricerca sonora e la tavolozza timbrica e spaziale di James Richards forzano lo spettatore ad interpretare la serie dei suoni concreti e spazializzati secondo la categoria interpretativa “musica”. Tale operazione, in un ambiente costruito in misura maggiore sull’oggetto “suono” che sull’oggetto “linguaggio”, risulta a tratti perciò sorprendente. Bruit Blanc (2015, galleria Massimodeluca) di VOID mette in sce-

na un’installazione brillante, sinestetica, ironica. Attraverso un intelligente progetto dello spazio che ricorda atmosfere minimaliste nordeuropee, prova a rintracciare le fonti stesse del suono, anzi del gioco visivo del suono, riuscendoci. La sala di Charlemagne Palestine, con l’opera Body Music (1973, galleria Levy-Delval) è invece un reenactement di una mostra che ebbe luogo nel 1975 presso la galleria newyorkese di Ileana Sonnabend. L’operazione si situa a metà tra la messa in scena esotica di un mondo sciamanico e la provocazione metropolitana. Dappertutto sono appesi dei tovaglioli e dei libri che in realtà sono partiture dell’autore, vibranti, frementi, fatte solo di onde di colore. Di Ugo La Pietra viene presentato Audio Casco (1967, galleria Studio Dabbeni) ed è l’opera più vecchia tra quelle in mostra. All’interno di una calotta in metacrilato trasparente si può ascoltare, in una prospettiva rivelatoria, la propria voce interagire con un flauto registrato ed eseguito dall’artista stesso. Il lavoro, che allo stesso tempo ci

Charlemagne Palestine, Body music, 1973. Courtesy & Levy Delval, Brussels

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Michele Spanghero, Tuned Volume, 2016 (legno di noce, compensato, sistema audio - 145x150x156 cm. 60 min. loop) Courtesy the artist & Galleria Mazzoli modena & Berlin

estrania e ci espone visivamente al mondo esterno, è appunto una sorta di paradosso tra il nascondersi e il mostrarsi, declinato nell’interazione di diversi sensi. C’è un corto circuito retorico nell’opera di Tomas Saraceno. Nell’uso del materiale minerale come mezzo di propagazione radiofonica, Radio Galena (2018, galleria Pinksummer) è un’opera che rappresenta, tra le altre cose, una interessante operazione di indipendenza dalle logiche tradizionali del racconto tecnologico. Coasts (2018, galleria Vera Cortês), di Daniel Gustav Cramer, è invece un’installazione minimalista composta da 4 video di quattro mari, da quattro coordinate geografiche degli stessi e da uno “spazio espositivo delimitato da un perimetro preciso” , qualunque cosa questo voglia dire. Il respiro di antologia e di archivio marittimo regala a quest’opera lo statuto sensuale di visione dei luoghi dell’uomo al di là dell’uomo. Live Through That?! (2014, galleria Emanuel Layr) è il lavoro presentato da Lili Reynaud-Dewar. L’utilizzo dell’ossessione sonora,

della danza, dei letti-altoparlante costituisce un enigmatico e talvolta respingente sistema di segni interdipendenti che parlano di abbandono e conseguente disperata ostensione pubblica della propria intimità come atto riparatorio. L’ultima opera che prendiamo in considerazione, quasi nascosta dal resto della mostra, è War Damaged Musical Instruments di Susan Philips (2015, gallerie Isabella Bortolozzi e Ellen De Bruijne). Una profonda umanità segna il passaggio di quest’opera ad Artissima Sound. Quattro altoparlanti disposti a costruire un ambiente sonoro centrale, diffondono in sala suoni provenienti da strumenti a fiato danneggiati dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Il suono è incantevole e tremolante, il tema è quello della ricostruzione. Quel tipo di ricostruzione che sa ripartire dal profondo del silenzio e della fragilità dell’esserci. Una sorta di manifesto di intenti. Fabio Vito Lacertosa

Roberto Pugliese, Fluide propagazioni alchemiche, 2017 (altoparlanti in vetro, impermeabili e liquidi, sistema audio, composizione audio) Courtesy the artist & Galleria Mazzoli

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Hangar Bicocca, Milano

Mario MERZ Igloos

U

n “villaggio” di igloo abita gli spazi dell’HangarBicocca; si tratta dell’antologica dedicata a Mario Merz (Milano, 1925-2003) la quale, prendendo come punto di partenza la precedente mostra realizzata alla Kunsthaus di Zurigo nel 1985 a cura di Harald Szeemann, si propone di esporre tutte le tipologie di igloo realizzate dall’artista in modo da formare una “città irreale”. Inizialmente spaesato lo sguardo del visitatore si ritrova a “saltare” da un’opera all’altra: una volta è catturato dalla luce emanata dalle scritte al neon rosse o blu, un’altra volta è incuriosito dai riflessi e dalle trasparenze che i vetri di rivestimento delle strutture semisferiche vengono a creare…è così che si delinea un’inedita “costellazione” di igloo la cui matrice metallica è ricoperta da una grande varietà di materiali di uso comune come argilla, vetro, pietre, juta e acciaio appoggiati o incastrati tra loro in modo instabile o tramite morsetti. Mario Merz, figura chiave dell’Arte Povera, con il suo percorso artistico ha indagato i processi di trasformazione della natura e della vita umana sviluppando – parallelamente alla produzione di opere pittoriche, scultoree e installative – la struttura dell’igloo a partire dal 1968 sviscerandone la sua complessità fisica e simbolica. Si tratta di un archetipo utilizzato come metafora delle relazioni tra interno ed esterno, tra spazio fisico e spazio concettuale, tra individualità e collettività, soglia dal forte impatto visivo che mette in connessione il contemporaneo e l’arcaico. Così nella navata dell’HangarBicocca si alternano igloo di grandi dimensioni come La goccia d’acqua (1987), trapassata da un lungo tavolo triangolare al cui vertice è installato un rubinetto dal quale sgorga acqua in un secchio, ad altri – dal diametro ridotto – in cui l’attenzione si concentra più sull’utilizzo del materiale di rivestimento, per esempio il catrame, il quale va in contraddizione con la scritta al neon su di esso apposta “Luoghi senza strada”. Il fare artistico di Merz innalza la percezione dell’o-

pera all’opera stessa: si pone in dialogo con l’architettura dello spazio circostante ma anche con il visitatore, il quale è chiamato a compiere un moto circolare intorno ad essa per poterla cogliere nella sua interezza. Inclusione ed esclusione. Dentro e fuori. Connessione e interruzione. Ciò che gli Igloo comunicano è un continuo gioco di scambi tra binomi in opposizione i cui elementi però coesistono nell’opera d’arte andando oltre le categorie di spazio e di tempo. Angela Faravelli Building, Milano

Jan FABRE I Castelli nell’ora blu

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Mario Merz, veduta delle installazioni /installation view courtesy Hangar Bicocca, Milano 2018

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omanticismo e poesia da vivere nel momento di passaggio tra la notte e il giorno, tra il sonno e la veglia. La personale di Jan Fabre (Anversa, 1958) pervade gli spazi di BUILDING restituendo al visitatore un’atmosfera quasi fiabesca; infatti una serie di opere degli anni Ottanta – la cui gran parte risulta inedita – indaga in maniera radicale e simbolica i due temi ricorrenti dell’esposizione: i castelli e l’Ora Blu. Partendo dalla definizione del particolare fenomeno dell’Ora Blu teorizzato dal famoso entomologo Jean-Henri Fabre – il quale lo identifica come quell’attimo fra la notte e il giorno, un momento di totale silenzio in natura, quando si attivano i processi di metamorfosi – l’artista realizza ritratti di castelli cogliendo la magia di questo momento unico con echi e richiami verso mondi altri. Fra i soggetti risalta Tivoli (1990) una delle opere che ha consacrato la carriera artistica di Jan Fabre a livello mondiale. Così lo sguardo del visitatore può annegare nell’inchiostro blu della penna Bic con cui l’artista realizza i suoi interventi: si passa dallo spiazzamento percettivo dovuto alla resa blu di un singolo elemento architettonico proprio del castello, come per esempio la scala principale antistante l’ingresso, ad opere in cui l’intera superficie è ossessivamente disegnata ed emerge nitidamente un’unica figura, come nell’opera site specific Il castello dei miei sogni in Turnhout (B) realizzato all’interno di BUILDING nella zona al piano terra dell’edificio con il soffitto vetrato. La mostra prosegue nei luoghi sacri milanesi della Cappella Portinari e della Basilica di Sant’Eustorgio, dove Jan Fabre colloca le proprie opere in stretto dialogo con l’iconografia cristiana innescando una serie di rimandi e parallelismi grazie a metafore visive riguardanti la fragilità dell’uomo: se da un lato un “fiume” di seta invade una navata della basilica lasciando intravedere nel flusso caotico dell’inchiostro blu come unico elemento decifrabile una pietra sospesa nel cielo – omaggio a Magritte ma anche riferimento diretto alla fondazione della chiesa cristiana – dall’altro una canoa, realizzata con ossa e polimeri i cui estremi delle pagaie terminano con dei calchi delle mani in vetro di Murano appartenenti ad alcuni abitanti del quartiere multietnico di Anversa dove è cresciuto l’artista, instaura idealmente una connessione


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

con l’Arca di San Pietro e gli affreschi presenti nella cappella. Quest’ultima opera, presentata nell’ambito della Biennale di Venezia del 2017 all’interno della suggestiva Abbazia di San Gregorio, si propone di richiamare alla mente del visitatore il tragico passato colonialista del Belgio, risultando tuttavia attuale visti i recenti fatti di cronaca relativi agli sbarchi di migranti sulle coste Europee… Così Jan Fabre attraverso la sua arte si fa “cavaliere della disperazione e guerriero della bellezza”. Angela Faravelli

Jan Fabre, Castle in the Hour Blue, 1990. courtesy Building Milano

Jan Fabre,Tivoli in the Hour Blue, 1990. courtesy Building Milano

Galleria Nazionale, Roma

stra permette quindi di leggere Mimmo Rotella come una cartina al tornasole degli sviluppi tanto artistici quanto culturali in senso lato della società italiana. Dalle prime sezioni in cui si fanno i conti con i fermenti dell’Informale e della Pop Art, l’opera di Rotella si rimette a fuoco in un più stringente rapporto con le impaginazioni della grafica pubblicitaria e reclamistica; il confronto prosegue, nella seconda sezione della mostra, con gli sviluppi tra gli anni settanta e novanta della sua opera, estremamente ricettiva nei confronti di situazioni come quella della pittura-pittura anni Settanta o del ritorno alla pittura del decennio successivo. A sostegno di questa importante mole di opere corre un sistema documentaristico che accompagna l’esposizione arricchendola di utili materiali archivistici: cataloghi d’epoca, pubblicazioni e fotografie permettono di comprendere con maggior accuratezza il percorso umano, oltre che artistico dell’artista, segnato in particolar modo dal funambolico Autorotella. Autobiografia di un artista, pubblicato nel 1972. La mostra è ulteriormente arricchita da un corposo catalogo che si distingue per la qualità editoriale e per la ricchezza degli interventi critici tra cui si annoverano, oltre al saggio iniziale di Germano Celant e quello della co-curatrice Antonella Soldaini, gli interventi di Clare Bell, Tobia Bezzola, Paola Bonani, Ester Coen, Vincenzo De Bellis, Veronica Locatelli, Lola Lorant, Elizabeth Mangini, Gianfranco Maraniello, Massimo Mininni, Luca Pietro Nicoletti, Massimo Romeri, Paul-Louis Roubert, Francesca Pola, Marta Sironi, Chiara Spangaro, Francesco Tedeschi, Giulia Tulino e Riccardo Venturi. Duccio Nobili

Mimmo ROTELLA Manifesto

E

ntrando nel Grande Salone centrale della Galleria Nazionale di Roma, ci si trova letteralmente circondati da oltre centocinquanta opere di Mimmo Rotella. I singoli pezzi non si susseguono ordinatamente lungo una linea immaginaria tracciata sulla parete, ma si accostano come tessere di un mosaico ricoprendo quasi completamente la superficie delle pareti del salone. Composte come in una di quelle quadrerie ancora visibili nelle sale di alcuni palazzi romani, le opere sono raggruppate in sei sezioni o billboards, per usare le parole del curatore Germano Celant, che scandiscono i differenti momenti della produzione dell’artista. La prima metà del salone è occupata dalle tre sezioni dedicate alle opere storiche: dai Décollage degli anni sessanta si passa ai Retro-d’affiche del decennio precedente, per poi fare un nuovo salto in avanti alle opere della fine degli anni sessanta. È questo un momento in cui alla scanzonata leggerezza della pubblicità e delle icone pop, da Marylin Monroe a J.F.Kennedy, Rotella sostituisce il più severo bianco e nero delle fotografie d’attualità, legate ora alla contestazione e allo stragismo. Lo scopo di un allestimento di questo tipo è quello di decentrare l’attenzione dello spettatore dal dato formale della singola opera per dare una panoramica più ampia sui contenuti del lavoro e sul rapporto con l’attualità politica e culturale. Un piano-sequenza di questa mo-

Mimmo Rotella, Manifesto, insieme manifesto dei riporti fotografici e artypos

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Fondazione MAST. Bologna

PENDULUM Oltre 250 immagini storiche e contemporanee, realizzate da 65 artisti internazionali per mostrare la genialità e l’energia che negli ultimi due secoli hanno spinto gli uomini a progettare mezzi e infrastrutture per muovere merci, persone e dati. Una riflessione a più voci sul tema della velocità che caratterizza l’attuale società globale dove il pendolo simboleggia il moto perenne del mondo e dei suoi abitanti nello spazio e nel tempo

Sonja Braas, Container, 2015, dalla serie “Un eccesso di prudenza” / from the series “An Abundance of Caution”, 2014-2017 (stampa a pigmenti / pigment print, 176 x 144 cm.) © Sonja Braas

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empo e movimento sono gli argomenti di riflessione al centro della mostra allestita al MAST di Bologna, intitolata appunto “Pendulum”. Entrambi i temi si allacciano ancora una volta al genere della fotografia industriale, in accordo con il programma stabilito dalla Fondazione MAST sin dall’inizio della sua attività. Ricordiamo in merito che la mostra in corso, a cura di Urs Stahel, coincide esattamente con il quinto anniversario di apertura del Centro Culturale Multifunzionale, ricorrenza celebrata con questa esposizione di circa duecentocinquanta opere, tutte appartenenti alla fondazione. Il pendolo, strumento fisico lungamente studiato dagli scienziati nel corso dell’età moderna, è al centro di una storia che parte da Galileo e incontra Focault, facilmente in grado di rappresentare, dunque, i concetti di tempo e di modernità. In riferimento a quanto detto, significativo è proprio il pendolo messo appunto dall’ultimo fisico sopra menzionato, nel 1851, composto da una sfera di 30 kg che, sospesa ad un filo di 68 metri, rende palese il moto di rotazione terrestre. Oltre ad essere emblema dello scorrere del tempo, il pendolo di Focault si collega, in questa occasione, ai temi del lavoro in fabbrica e della produzione in serie, il XIX secolo risulta essere infatti l’epoca in cui la rivoluzione industriale imprime in modo significativo i suoi tratti all’economia occidentale. Il concetto di tempo è sondato in quanto principio che rende possibile l’alternarsi degli eventi, dimensione entro la quale possono verificarsi fenomeni come il movimento. Quest’ultimo è qui inteso sia nel suo aspetto concreto che figurato, nello sviluppo dei temi proposti infatti il curatore vuol porre l’accento sull’avvicendarsi delle idee, generatrici di quel progresso che ha luogo grazie all’ingegno e alle attività umane. Nelle opere in mostra al contempo viene documentato il movimento fisico di cose e individui, ciò avviene nella rappresentazione dei viaggi di materie prime e merci, nel documentare i movimenti di oggetti e persone che lavorano, nello scorrimento delle catene

Luca Campigotto, Marghera, 1997 (stampa a pigmenti / pigment print, 125,8 x 108,9 cm.) © Luca Campigotto

Richard Mosse, Skaramaghas, dalla serie “Il castello” / from the series “The Castle” C-print su carta metallizzata / c-print on metallic paper, 127 × 733 cm © the artist, courtesy carlier | gebauer, Berlin, Jack Shainman Gallery, New York.

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

di montaggio. Nell’analisi del fenomeno industriale presentato alla rassegna “Pendulum”, la riflessione sul tempo avviene spesso mediante varie rappresentazioni dello spazio. E’ posto l’accento dunque sulla realtà dei collegamenti tra aree geografiche a volte molto lontane tra loro, delinenando così i tratti di un’epoca nella quale i meccanismi che generano profitto coinvolgono l’area globale. Come in altre occasioni il curatore Urs Stahel affronta il tema dell’industria osservandone le varie sfaccettature, ponendo in rilevanza le sue luci e le sue ombre. La mostra “Pendulum” si compone quindi di opere realizzate tra gli anni cinquanta e l’epoca odierna, ciascuna interprete di uno specifico punto di vista nel racconto dei meccanismi di lavoro e produzione. Il tema dell’industria viene quindi sondato osservando gli effetti di quest’ultima sui territori e sugli individui, tenendo conto delle distanze storiche e geografiche.

Mario Finocchiaro, Milano, Darsena / Milan Dooks c. 1958 (stampa ai sali d’argento / gelatin silver print, 42 x 53 cm ) © Mario Finocchiaro

Floto + Warner, Sala verniciatura dell’Eclipse / Eclipse Paint Room, Eclipse Aviation, Albuquerque, NM USA, 2007 (stampa a pigmento / pigment print, 40,6 x 50,8 cm) © Floto + Warner

Possiamo dunque osservare, nello spazio della sala espositiva, i ritratti di fabbriche ottocentesche giustapporsi alle foto che documentano gli interni asettici delle industrie contemporanee, le immagini degli operai al lavoro che si alternano ad ambienti

deserti e automatizzati. Si susseguono via via immagini di oggetti, ripetizioni di forme modulari che ci mostrano i meccanismi di produzione in serie, disposizioni di merci pronte alla partenza. A raccontare le distanze riempite dai collegamenti tra un luogo e

Luciano Rigolini, Automobili americane del 1963 / 1963 American Cars, 2016 stampe ai sali d’argento, trittico / 60 gelatin silver prints, triptych. 128 x 110 cm ciascuna / each © Luciano Rigolini

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Jacqueline Hassink, London 32, video stills from the installation iPortrait / fotogrammi dall’installazione iPortrait, 2010-2017 Courtesy of the artist

Mimmo Jodice, Napoli, Manifestazione a Piazza Garibaldi / Naples, Demonstration in Piazza Garibaldi, 1967 (stampa ai sali d’argento / Gelatin silver print, 19,3 x 29 cm © Mimmo Jodice

Mimmo Jodice, Milano, Stazione Centrale / Milan, Central Station, 1969 (stampa ai sali d’argento / gelatin silver print, 29 x 19,3 cm © Mimmo Jodice

David Goldblatt, I passeggeri di KwaNdebele / The Transported of KwaNdebele, 1983-1984 Stampa ai sali d’argento / gelatin silver print, 32,5 x 44, 6 cm © The David Goldblatt Legacy Trust, Courtesy Goodman Gallery, Johannesburg and Cape Town. Lewis Hine, East Side Market, New York, 1925 (stampa ai sali d’argento / gelatin silver print, 26,6 x 34,3 cm)

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Mario De Biasi, Gamba de legn, Milano, 1951 (stampa ai sali d’argento / gelatin silver print, 45,7 × 55 cm © Archivio M.De Biasi. Courtesy of Mondadori Portfolio


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Robert Häusser, Strada per la fabbrica / Road to the Factory, 1980. (stampa ai sali d’argento / gelatin silver print, 29,5 x 41 cm © Robert Häusser – Robert-Häusser-Archiv / Curt-Engelhorn- Stiftung, Mannheim E.O. Hoppé, King George V’s Docks, London, England, 1934 © 2018 Curatorial Assistance, Inc. / E.O. Hoppé Estate Collection

Ugo Mulas, Alfa Romeo Pirelli, c. 1970 Stampa ai sali d’argento / gelatin silver print, 26,7 x 36 cm Fotografie Ugo Mulas © Eredi Ugo Mulas. Tutti i diritti riservati. Courtesy Archivio Ugo Mulas, Milano – Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli

un altro sono le immagini di strade, porti e ferrovie di numerose città del mondo assieme ai mezzi di trasporto che li animano. Il meccanismo di produzione e distribuzione dei beni viene inoltre sondato nel suo impatto sulla vita dell’uomo, diversificato a seconda del ruolo che quest’ultimo ricopre nel processo di funzionamento della grande macchina globale. Accanto agli uomini nelle fabbriche europee del secolo scorso osserviamo individui che si recano quotidianamente al lavoro, scene di lavoro in contesti lontani da quello occidentale, come quello delle realtà asiatiche o sudamericane. Il lavoro viene raccontato alternatvamente come fatica, sacrificio che non affranca dalla povertà, momento di creazione, ricerca nel campo della scienza e della tecnica a beneficio della comunità intera. La mostra documenta inoltre le ripercussioni ambientali dei meccanismi di produzione e distribuzione delle merci, il mutamento del paesaggio e il depauperamento delle risorse naturali. Uno sguardo attento viene infine rivolto al fenomeno delle migrazioni, lo spostamento di masse di individui da un’area all’altra del pianeta alla ricerca di qualità e modelli di vita differenti. La migrazione, come dichiaDICEMBRE 2018 / GENNAIO 2019 | 270 segno - 31


O. Winston Link, Licenza al treno a doppia trazione / Highball for the Double Header, 1959. (stampa ai sali d’argento / gelatin silver print, 39 x 48,8 cm © O. Winston Link, courtesy Robert Mann Gallery

Helen Levitt, N.Y. (metropolitana), dalla serie “Metropolitana” / N.Y. (subway), from the series “Subway”, 1975. (stampa ai sali d’argento / gelatin silver print, 19,4 x 29,4 cm © Film Documents LLC, courtesy Galerie Thomas Zander, Cologne

Annica Karlsson Rixon, Camionisti (bianchi) / Truckers (white), 1994-1999 - 736 stampe digitali a colori montate su d-bond / 736 digital prints mounted on d-bond 8,5 x 12,5 cm ciascuna / each © Annica Karlsson Rixon Dorothea Lange, La nuova California – Costruzione di un’autostrada vicino a Hercules / The New California - Highway Construction, near Hercules, 1956 (stampa ai sali d’argento / gelatin silver print, 24 x 37,5 cm) © The Dorothea Lange Collection, the Oakland Museum of California. Gift of Paul S. Taylor.

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Edgar Martins, Paint shop, BMW Group Plant Munich (Germany), 2015 © Edgar Martins

Peter Keetman, Stabilimento Volkswagen / Volkswagen plant, 1953 Stampa ai sali d’argento / Gelatin silver print, 50 x 40,5 cm © Peter Keetman Estate, F.C. Gundlach Foundation

Vincent Fournier, Space Shuttle Discovery, Orbiter Process Facility Bay 2, John F. Kennedy Space Center [NASA], Florida, U.S.A., 2011 © Vincent Fournier, from the Space Project série

Alexey Titarenko, Stazione della metropolitana Vasileostrovskaya (Variante Folla 2), dalla serie “Città delle ombre” / Vasileostrovskaya Metro Station (Variant Crowd 2), from the series “City of Shadows”, 1992 © Alexey Titarenko, courtesy of Nailya Alexander Gallery, New York Martin Munkacsi, Nelle pampas argentine, strade accidentate, buche / In the Argentine pampas, bad streets, potholes, c. 1932 (stampa ai sali d’argento / gelatin silver print, 33,3 x 26 cm) © Estate of Martin Munkácsi, Courtesy Howard Greenberg Gallery, New York

Rudolf Holtappel, Condotto di gas d’altoforno (Regione della Ruhr) / Furnace Gas Pipe (Ruhr Area), 1958-1962. (stampa ai sali d’argento / gelatin silver print, 34,5 x 34 cm © Estate of Rudolf Holtappel Jakob Tuggener, Treno espresso a La Napoule, Costa Azzurra / Express train at La Napoule, Côte d’Azur, 1960. (stampa ai sali d’argento / gelatin silver print, 35,3 × 57,7 cm © Jakob Tuggener Foundation, Uster

ra lo stesso curatore, sembra configurarsi come il fenomeno in grado di far vacillare quei confini invisibili che fermano i destini degli individui, determinati d un meccanismo economico che suddivide per funzioni l’area globale. La migrazione dei popoli rappresenta dunque un ciclo di eventi non previsto dal sistema in atto, capace di porre in discussione le regole del gioco. Francesca Cammarata DICEMBRE 2018 / GENNAIO 2019 | 270 segno - 33


Treviso, sedi varie

RE.USE Scarti, oggetti ed ecologia nell’arte contemporanea

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na piacevole passeggiata a Treviso è l’occasione per visitare RE.USE, promossa da Treviso Ricerca Arte e curata da Valerio Dehò. Articolata in tre sedi, (Museo S. Caterina, Museo Casa Robegan, Ca’ dei ricchi - piano nobile) RE.USE è una mostra che racconta l’avventuroso rapporto d’amore e odio tra i lavori di cinquantotto artisti e un mondo pieno di cose e immagini, da Duchamp fino ai nostri giorni.

Salvatore Scarpitta, Ammiraglio, 1958 (tecnica mista, bende e olio) Enrica Borghi, La Regina, 1999 (bottiglia di plastica, bottiglie in politirene)

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Silvano Tessarollo, S-2003-Homo (pupazzo in ovatta, cera, colori industriali)

Yannis Kounellis, senza titolo, 1983 (assemblage)


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

La sede di Ca’ dei Ricchi rilancia ulteriormente sull’attualità, indagando tendenze che sembrano superare il confronto serrato con l’oggettualità. Il paziente intaglio stratificato di Andrighetto si sgancia infatti dal supporto, semplice pretesto per un atto decorativo di cura e rivelazione. Una simile estetica fertilmente ruvida, artigianale, informa il prototipo di Bazzana, lontanissimo dal racconto odierno dell’innovazione iperaccellerata e digitale. A questo ammicca il giardino zen popolato da plastiglomerati di The Cool Couple, parte del progetto Karma fails, che indaga l’asservimento dei nostri tempi alle inesorabili ragioni del business. Si passa dall’oggetto al desiderio, nel lavoro dell’inglese Monk, che su delle tazze da tè indica la data di un appuntamento con la Regina, nel 2039. La nostra spontanea propensione a trasformare le cose in “oggetti d’affezione”, per dirla con Man Ray, è messa in scacco. L’evento è rimandato; oltre l’oggetto, rimane il puro desiderio con cui misurarsi, e una temporalità che è al tempo stesso promessa e precarietà. Stefano Volpato Alberto Burri, Nero, 1956 (acrilico, tela ruvida, collage e stoffa su lana) Credits Gianpaolo Arena e Massimo Spada

Marco Bolognesi, The Palace, 2014 (collage, giocattoli, plastica, legno, realtà aumentata)

Tony Cragg, Buildings (mattoni), courtesy LaGaia Collection

Tagliare un campo così esteso attraverso la pratica del riuso avvicina momenti diversi, scardinandoli dalla rigidità storiografica. Se da un lato si conferma l’impostazione critica del ready-made come faro del contemporaneo, appare meno scontata quella rinuncia all’autorialità che l’operazione sottende. Per gli artisti è una lotta a far rientrare dalla finestra quel che è uscito dalla porta: i tableaux-pieges di Spoerri e la loro traslazione a parete come quadro-finestra o i sacchi di Burri, il cui violento processo creativo è mediato dall’occhio sapiente del pittore. Così anche per i lavori più dematerializzati, come l’azione sciamanica di Gina Pane, Table de lecture: dieci fotografie e una cassettina contenente la terra che l’artista ha idealmente ricongiunto al cielo. Oltre la mera documentazione, il piccolo altare tradisce l’intimità spirituale di un moderno ex-voto. Lo è, in negativo, anche l’accumulazione nevrotica dei mozziconi di Hirst. La tripartizione della mostra sonda l’evoluzione di una coscienza ecologica in anni anche più recenti, più poetica che politica. Guardano alle macchine celibi di Tinguely gli assemblaggi meccanici di Albanese, come Uno che fa buchi nell’acqua: ma la denuncia della propria inutilità ha qui sin dal titolo un tono disilluso e autoironico. L’insegna neon di Matteo Attruia, TUtto, pone un’intuizione tanto semplice quanto fulminante circa il rapporto tra i poli io-mondo, indissolubilmente legati dalla luce e dall’atto del vedere (o non vedere).

Giovanni Albanese, Professionista, 2012 (ferro, legno, luce stroboscopica). Credits Simon d’Exea Paul McCarthy, Peters Patrick pecker-Leg, 1993 (tecnica-mista)

Arcangelo Sassolino, IUBP, 2015 (acciaio, aria, gomma) Credits Pamela Randon

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Fondation Louis Vuitton, Parigi

Jean-Michel BASQUIAT Egon SCHIELE

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ettant’anni segnano la distanza che divide due artisti nati e cresciuti in epoche diverse, dove i cambiamenti sociali hanno avuto un forte impatto sullo sviluppo di entrambi. Se però non fosse che per una questione temporale e stilistica, Jean-Michel Basquiat ed Egon Schiele, potrebbero essere paragonati al binomio di poeti maledetti Rimbaud-Verlaine, poiché, senza ombra di dubbio, anche le loro esistenze non sono state serene, nonostante invece di poesia, si occupassero di arte in senso stretto. Entrambi scomparsi all’età di 28 anni, il lascito che hanno fornito ai posteri è stato di grande effetto e il loro lavoro è comunque riuscito ad ottenere un’eco di portata mondiale. Tra le pareti irregolari dell’edificio della Fondation Louis Vuitton, progettato da Frank O’Gehry, Parigi ha voluto ricordare queste due anime dannate. La mostra, che si sviluppa sui diversi piani della Fondazione, inizia con la presentazione di opere e disegni di Egon Schiele (1890 – 1918), raggruppate per temi, segnati dall’evoluzione stilistica dello stesso. Nelle prime opere è possibile percepire un segno ornamentale e semplice, derivante dagli insegnamenti appresi durante il periodo trascorso secondo le regole dello Jugendstil. Esemplare è il disegno “Jeune garçon nu, couché sur une couverture à motifs” (1908), dove è possibile constatare la leggerezza del tratto che forma una figura quasi eterea, in un atteggiamento considerato taboo nei primi anni del Novecento, ed è possibile percepire la lezione di Gustav Klimt attraverso l’uso dell’oro decorativo che scandisce lo spazio. Il tema che emerge rimarrà una costante nel lavoro del nostro e sarà motivo di scandalo in una società ancora legata al passato, a differenza di oggi, dove i nudi di Schiele sono famosi e ammirati in tutta la loro bellezza estetica, che va al di là dell’erotismo. Successivamente, l’artista viennese prende le distanze dalle influenze iniziali al fine di elaborare e dare spazio alla propria voce interiore, costruendo figure con un tratto più sicuro ed espressivo, il quale renderà le sue opere inconfondibili: è il periodo degli autoritratti e dei ritratti, come “Autoportrait, Grimançant” (1910). L’ultima tappa è definita da una linea frammentata e combinata, in cui i corpi vengono amputati e sembrano talvolta fluttuare sulla superficie intonsa, come ad esempio “Nu masculin couché” (1911). Questa mostra, quindi, traccia il percorso artistico di Schiele e si sofferma su una scelta di disegni per concentrare l’attenzione sull’aspetto più importante della sua opera, mettendo in secondo piano le tele dipinte, presenti in numero contenuto. Dalla Vienna degli anni Dieci si passa, poi, alla New York di Jean-Michel Basquiat (1960-1988), al quale è dedicata la maggior parte dello spazio espositivo. Questo focus sull’artista più vicino al nostro presente sembra indirettamente trasmettere l’idea che Schiele, precedente, il cui lavoro è stato sintetizzato in un ambiente più ristretto, abbia dato semplicemente modo di avviare e presentare il vero protagonista della mostra, e che fungesse da punto di partenza nella riflessione più approfondita sulla poetica del secondo. Partendo quindi da un’arte più chiara e facilmente comprensibile e interpretabile, anche da chi di arte propriamente non se ne intende, si passa a uno stile decisamente più ermetico e enigmatico, carico di simboli e significati nascosti, dove le figure sono più stilizzate, rappresentate da una tavolozza ricca di colori e dall’uso non

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Egon Schiele Autoportrait au motif de paon, 1911 (gouache, aquarelle et crayon gras sur papier, monté sur carton. 51,5 x 34,5 cm.) Photo : Courtesy of Ernst Ploil, Vienne

tradizionale del pennello, che non si preoccupa di sbavature e contorni definiti. Basquiat, inoltre, utilizza le parole come mezzo di espressione, attorno al quale ruota la maggior parte delle composizioni. La scrittura viene caricata di un valore estetico ed è utilizzata per esprimere l’avversione dell’artista contro una società opprimente. L’enfant-prodige viene in questa sede mostrato attraverso le tappe che lo hanno condotto a perfezionare la propria tecnica, a partire dal fascino suscitatogli da Andy Warhol, con il quale riuscirà a collaborare, come si può constatare da “Dos Cabezas” (1982). Da questo legame deriva l’impianto pop che contraddistingue le opere di questo periodo. Un’altra componente che ritorna spesso sulle pareti della Fondazione riguarda l’influenza che la musica – jazz in primis – ha avuto su Basquiat: “Now is the time” (1985) rappresenta un vinile. Infine, come si può evincere dall’opera “Grillo” (1984), le sagome che l’artista ritrae sono dipinte di nero e sembrano ricordare le maschere africane che sono state tanto studiate e riprodotte nei primi anni del XX secolo, facendo intendere la volontà di Basquiat di omaggiare le sue origini. Anche in questa parte della mostra, nonostante l’autore sia cambiato, rimane una forte carica espressiva e intensità, probabilmente punto cardine sul quale la mostra ha puntato. Inoltre, l’occasione vuole sottolineare che, pur essendo protagonisti in contesti lontani, i due artisti vengono messi in relazione attraverso un’esistenza analoga, in tempi di grossi cambiamenti che hanno segnato due città nel corso della storia, che si sentivano estranei, inadatti e incompresi, ma, malgrado le avversità, hanno sempre promosso il loro inno alla vita e sono riusciti a vivere 28 anni al massimo delle proprie potenzialità e possibilità, lasciando un segno indelebile. Cecilia Paccagnella Jean-Michel Basquiat, Dos Cabezas 1982 acrylic and oilstick on canvas with wood supports 59¾ x 60½ (151.8 x 153.7 cm.)


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

PAV Parco Arte Vivente, Torino

Zheng BO

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rima personale italiana dell’artista cinese Zheng Bo (Pechino 1974) a cura di Marco Scotini, per la nuova stagione espositiva dedicata, in particolare, al rapporto tra ecologia e arte nel continente asiatico. Intitolata Weed Party III, la mostra è pensata appositamente per il PAV e si confronta con specie vegetali del territorio piemontese. Attento indagatore del rapporto tra piante, società e politica, Zheng Bo è tra i più interessanti artisti cinesi dell’ultima generazione. Presente a Manifesta 12 a Palermo, è reduce della seconda Yinchuan Biennale e coinvolto nell’undicesima edizione della Biennale di Taipei. Nella sua serie di opere Propaganda botanica, Zheng Bo fa ricorso a slogan storici marxisti che ricrea con l’uso di elementi vegetali in modo da espandere nozioni come “uguaglianza”, “lavoratore” o “socialismo” oltre la sfera dell’umano. Il suo ultimo slogan “Earth Workers Unite”, concepito per Yinchuan Biennale e costituito di 370 piante di pioppo, lasciava aperta la possibilità di una doppia interpretazione: non tanto che fossero i lavoratori del pianeta Terra ad unirsi tra loro (secondo la versione ortodossa), quanto che diventasse possibile l’associazione tra Terra e lavoratori contro lo sfruttamento comune. A partire dal 2003, la pratica artistica socialmente impegnata di Zheng Bo ha riguardato ecologia, progetti partecipativi, comunità marginalizzate e tematiche di genere. L’uso frequente delle piante selvatiche tipi-

che degli ambienti urbani - e considerate convenzionalmente erbacce - connette il suo lavoro a metafore politiche in cui ciò che è sgradito, abbandonato, dimenticato o “fuori posto” diventa una sostanziale forza ecologica per diffondere culture di resistenza e resilienza. Esteso ad alcune città nell’ultimo decennio, il suo progetto con le erbacce (weed) ha preso differenti nomi, come Weed Plot (nel tetto del Sifang Art Museum a Nanchino), Weed Commons (per il Times Museum di Guangzhou) e Weed Party (una serie ancora in corso cominciata a Shanghai nel 2015 e ora approdata al PAV). In quest’ultimo progetto, l’artista cerca di immaginare un partito politico post-umano dove gli esseri umani ed extra-umani non risultano più separati tra loro. Il Weed Party concepito per il PAV si pone come il terzo appuntamento dopo il giardino d’erbacce e terra realizzato per l’interno del Leo Xu Projects di Shanghai nel 2015 e il lavoro sulle felci per TheCube Project Space di Taipei nel 2016. In questa serie di episodi espositivi, Zheng Bo indaga il rapporto (ben oltre la metafora) tra il carattere incontrollabile dei movimenti politici spontanei e il potere infestante e inestirpabile delle piante cosiddette parassitarie. La possibilità di disseminarsi e di riprodursi continuamente, la capacità di resistere a lungo e in condizioni sfavorevoli, il fatto di rappresentare una minaccia per il campo coltivato, sono tutti attributi che connotano le forme di vita tanto delle insorgenze attiviste che delle specie vegetali rispetto all’ecosistema in cui viviamo. Al centro fisico e concettuale della mostra al PAV - spiega lo stesso curatore - vi è la grande istallazione/giardino After Science Garden, concepita ad hoc per lo spazio della serra del centro d’arte contemporanea e sviluppata in dialogo con il territorio, sia dal punto di vista botanico sia nell’interazione con attivisti e ricercatori locali, con i quali l’artista immagina le possibili configurazioni dei futuri movimenti sociali ed ecologisti. Il percorso prosegue con gli erbari grafici Survival Manual I e II, frutto di una ricerca sulla relazione tra mondo vegetale e sopravvivenza in una prospettiva storicizzata, la stessa prospettiva da cui parte la lettura inedita dell’internazionalismo comunista cinese a Parigi, che dà corpo alla maquette A Chinese Communist Garden in Paris. A chiudere la mostra, i due film del ciclo Pteridophilia (l’ultimo della trilogia verrà presentato a Taipei), che esplora il potenziale delle teorie eco-queer mostrandoci sette giovani uomini intrattenere rapporti intimi con diversi tipi di felci in una foresta di Taiwan. (red. LS)

Nelle tre immagini: Zheng Bo, Il Partito delle Erbacce / Weed Party III / Socialism Good (courtesy Pav, Torino 2018)

PAV_zb_socialism good.jpg

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Cardi Gallery, Milano

Claudio VERNA

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elicate e grandi tele, apparentemente quasi diafane, si contrappongono visivamente a l’interno degli spazi della galleria ad altre più dense e pregnanti di colore. Si tratta della personale di Claudio Verna, protagonista della pittura italiana degli anni Settanta e figura di riferimento della Pittura analitica, in cui opere storiche a partire dal 1967 si confrontano

con quelle più recenti fino al 2016, in una continua e incessante ricerca della essenza della pittura. Lo sguardo del visitatore viene catturato dalla mutevolezza delle tele; infatti variando la propria posizione nello spazio si potranno apprezzare una serie di giochi di luce i quali mettono in rapporto la superficie, il colore, la forma e la materia secon-

Claudio Verna, Pittura, 1974. (acrilico su tela, 100 x 140 cm,)

Galleria G7, Bologna

Flavio DE MARCO Philippe HURTEAU

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a mostra che inaugura la stagione espositiva 2018/2019 della galleria G7 dal titolo “Schermorama” è un progetto che nasce dall’incontro di due artisti, Flavio de Marco e Philippe Hurteau, che per vent’anni hanno svolto una ricerca parallela su una tematica comune: lo schermo del computer. 
La loro riflessione presenta aspetti differenti in cui la rappresentazione incrocia astrazione e figurazione, gesto e analisi, colore e monocromia, composizione e improvvisazione, in un’alternanza di immagini sempre relazionate con gli elementi caratteristici dello schermo. Nel testo critico che accompagna la mostra Francesco Poli scrive – tra l’altro – “Sia Hurteau che De Marco hanno sviluppato la loro ricerca a partire da una riflessione che istituisce un’analogia di fondo fra il quadrofinestra di cui parla Leon Battista Alberti (che aveva definito le condizioni di una nuova visione prospettica del mondo) con lo schermo rettangolare del computer. Per De Marco quest’ultimo è l’attuale iperfinestra albertiana

aperta sulle rappresentazioni del mondo, il contesto con cui si confrontano e si scontrano costantemente le sue investigazioni pittoriche.
Dal canto suo Hurteau, in un testo teorico molto approfondito (La peinture à l’age de l’écran, notes) scrive con paradossale e provocatoria acutezza: “La pittura all’epoca dello schermo digitale: una contraddizione in termini? Di fronte a un quadro sul muro, prendo in mano un telecomando ma l’immagine non si muove, il suo rettangolo non produce luce, si accontenterebbe di un po’ più di

do delicati equilibri volti ad far emergere e apprezzare la bellezza del colore. Proprio la ricerca sul colore è al centro della carriera artistica di Claudio Verna da oltre cinquant’anni e questa mostra diventa l’occasione per apprezzare l’uso del bianco che fa il pittore, colore che non assume mai un valore neutro e non è utilizzato per identificare lo spazio vuoto, bensì come risultante della sintesi di tutte le altre tonalità. Il fare pittura di Verna è strettamente legato all’incisione della luce sull’opera: le sue superfici presentano sempre una complessa tessitura vibrante di colori sovrapposti e intrecciati in modo che una volta esposte all’agente luminoso il colore possa emergere in maniera differente, rimanendo il protagonista assoluto e indiscusso con la sua capacità di espandersi nello spazio e di suscitare emozioni. Nelle composizioni dell’artista la griglia diventa un sistema di coordinate che determina un impianto formale statico affinché il ruolo attivo spetti esclusivamente al colore: emotività e razionalità, tonalità e geometria… non è indifferente l’aspetto sensoriale che i dipinti di Verna esercitano sull’osservatore. Dunque una indagine sulla pittura come mezzo, strumento e linguaggio; un equilibrio armonioso la cui analisi e lettura oscilla tra il razionale e l’emotivo, una espressione della irrinunciabilità inafferrabile e misteriosa del fare pittura. Angela Faravelli

luce esterna. Questo schermo – monomedia – sembra inerte, muto: un oggetto comatoso”. E si chiede qual è l’avvenire del quadro: “Da una parte questo dipinto fisso per sempre, e dall’altra uno schermo interattivo e luminoso che può emanare potenzialmente un’infinità di immagini in movimento di un realismo allucinante. Da un lato questo oggetto/immagine appesantito da un passato glorioso, merce culturale altamente feticizzata; dall’altro questa carcassa di plastica nera brillante piena di tecnologia che finirà sul marciapiede come rifiuto quando sarà consumata... E tuttavia si rassomigliano...” Il progetto, condiviso con la gallerista francese Suzanne Tarasieve, si compirà con una seconda esposizione a Parigi nel 2020. (dal cs.)

Galleria G7Bologna, Schermorama, immagine di ambiente / installation view. 2018.

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Galleria Lia Rumma, Milano

Alfredo JAAR Lament of the images

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n’atmosfera rossa, nebbiosa, ovattata accoglie il visitatore che si accinge ad entrare negli spazi milanesi della galleria Lia Rumma. Lo sguardo si sforza di cercare delle coordinate spaziali che quasi vengono a mancare, ma è solo addentrandosi nella profondità della sala espositiva che una serie di lettere in neon rosso, in principio flebili, si fanno sempre più presenza concreta e in un gioco di ricomposizione di questa “pioggia di lacrime” letteraria appare una citazione di Seneca tratta dal De Consolatione ad Marciam:What need is there to weep over parts of life? The whole of it calls for tears (Che bisogno c’è di piangere momenti della vita? La vita intera è degna di pianto). Così Alfredo Jaar (Santiago del Cile, 1956) apre la sua personale, poetica e rigorosa, volta a far vivere allo spettatore un’intensa esperienza percettiva attraverso meccanismi di montaggio delle immagini che creano degli choc visivi, degli spiragli nella coscienza collettiva in cui lasciar depositare i significati sottesi ad ogni sua opera. Ciò che l’artista propone è un percorso che va a contrastare la perdita di capacità di saper guardare, causato del continuo flusso di immagini cui siamo quotidianamente sottoposti; è così che al primo piano della galleria l’opera Lament of the Images pur presentando due tavoli fotografici luminosi usati per guardare i negativi, in cui uno dei quali è montato al contrario e sospeso al soffitto in un continuo movimento di allontanamento e avvicinamento al tavolo inferiore, in realtà non mostra nessuna immagine. Ciò che rimane è una luce bianca abbagliante proveniente dalla fessura tra le due superfici che mano a mano si fa più ampia, come a rappresentare il grado zero della visione consapevole. Il saper vedere diventa rivelazione, affinché l’individuo abbia coscienza del reale al di là della semplice immagine. A concludere la mostra vi è Shadows, opera il cui procedimento di presentazione risulta essere la sintesi delle precedenti: in un corridoio buio e scuro si distinguono sei light box contenenti gli scatti del fotoreporter olandese Koen Wessing in Nicaragua nel 1978 che documentano gli eventi in seguito alla morte di un contadino ucciso dalla Guardia Nazionale del regime di Somoza nei giorni della guerra civile; proseguendo lungo il percorso si passa in una stanza più grande, oscurata, dove è presente l’im-

Alfredo Jaar, Lament of the Images, 2002 (two aluminum tables, glass, perspex LED lights and motor 419,1x249x122 cm) Edition of 3, 
courtesy Galleria Lia Rumma, Milan/Naples and the Artist Photo credit © Maki Ochoa

Alfredo Jaar, 
Shadows, 2014 (mixed media installation overall dimensions) variable Edition of 3 © Koen Wessing. The collection and copyright of Koen Wessing is administered by the Nederlands Fotomuseum in Rotterdam, The Netherlands. Courtesy of Lia Rumma Gallery Milan/Naples and the Artist
. Photo credit © Maki Ochoa

magine di due donne – le figlie del contadino – nel momento in cui vengono a sapere dell’uccisione del padre, le quali devastate dal dolore alzano le braccia al cielo e l’immagine lentamente diventa luce accecante. Le opere di Alfredo Jaar mettono in scena il procedimento fisico attraverso cui l’artista scava nella coscienza collettiva e deposita l’immagine nel nostro inconscio, progettando delle vere e proprie esperienze percettive e mentali in grado di penetrare dentro ciò che vediamo, portando in superficie i molteplici significati apparentemente celati dietro ad ogni immagine. Angela Faravelli

Alfredo Jaar, Red Neon 
2018 (474x600 cm) Edition of 3
 Courtesy Galleria Lia Rumma, Milan/Naples and the Artist . Photo credit © Maki Ochoa

DICEMBRE 2018 / GENNAIO 2019 | 270 segno - 39


Luigi Mainolfi, Senza titolo, 2002/2003 (legno e terracotta - 37,5 cm x 56 cm)

Galleria Santo Ficara, Firenze

Luigi MAINOLFI

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opo aver realizzato lo scorso aprile il grande sipario del Teatro Obihall, per il quale periodicamente viene chiamato a cimentarsi uno dei massimi artisti italiani, Luigi Mainolfi torna a Firenze con una personale da Santo Ficara, presentata da Fabio Cavallucci. La forma della pittura e il colore della scultura è il titolo della mostra, che gioca sui due versanti del suo lavoro. Da una parte la scultura, a cui, dopo la prima stagione performativa, Mainolfi si è dedicato con determinazione dalla fine degli anni Settanta, quasi a voler contraddire l’allora diffuso “ritorno alla pittura” nel quale si raccoglieva la maggior parte dei suoi colleghi. Dall’altra, la pittura, appunto, che per lui consiste sopratutto nello studio della superficie, della pelle delle cose, ma nella quale non è mancata la ricerca sul colore. Il quasi gioco di parole del titolo – scrive in presentazione Fabio Cavallucci - manifesta infatti come Mainolfi veda una relazione strettissima tra i due ambiti: la pittura non può darsi senza forma, senza confinare il colore in macchie che gli conferiscano un senso; allo stesso modo la scultura non può non avere un colore, non foss’altro quello della materia di cui è fatta, la cui superficie, nella visione “animistica” di Mainolfi, è un po’ una membrana che traspira ed emana energia. La superficie, la pelle della scultura, acquista colorazioni cangianti, si riempie di pori, di microfessure, si accende, nei lavori recenti in questa mostra, di colori più forti, che però riecheggiano i rossi vivi delle prime opere, a rivelare una continuità di pensiero e di metodo presente in tutta la sua ormai lunga carriera. È la superficie del globo, è la pelle della nostra madre terra, che si manifesta nei tracciati geometrici che suddividono i campi, i boschi, i deserti, i prati. È come se Mainolfi si librasse sopra di essi e li cogliesse a volo d’uccello. Oppure, quando l’altezza del volo è ravvicinata, appaiono i particolari, come le foglie di tabacco, quando vengono distese ad essiccare. Ma se ben si osserva, quella terra è viva, c’è una materia magmatica che bolle sotto di essa: i vulcani che affiorano sono anche capezzoli, fonti da cui scaturisce una energia che viene dal profondo. Ma c’è anche la possibilità opposta, di girarsi e guardare il cielo da sotto in sù, con leggerezza, come nel lavoro più recente, composto da 48 formelle, intitolato Tutte le volte che il firmamento mi cade addosso (2018), che completa quell’aspirazione dell’artista a manifestare, pur per frammenti, le varie forze che animano l’intero nostro universo. (red.LS)

40 - segno 270 | DICEMBRE 2018 / GENNAIO 2019

Luigi Mainolfi, Foglie nere, 2017 (terracotta policroma - 75 cm x 75 cm)

Luigi Mainolfi, Firmamento rosso, 2018 (terracotta policroma - 160 cm x 160 cm)

Luigi Mainolfi, Tutte le volte che il firmamento mi cade addosso, 2018 (tecnica mista su tavola - 22 cm x 15 cm cadauno); Luigi Mainolfi, Titan, 2008 (bronzo 150 cm x 190 cm x 55 cm)


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Fondazione Carriero, Milano

Giulio PAOLINI del Bello ideale

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n fare arte che va oltre i limiti dello spazio e del tempo è quello di Giulio Paolini, una mise en scène presso gli spazi della Fondazione Carriero del suo percorso artistico ipoteticamente costituito da un’opera unica e continua. L’esposizione si articola nei tre piani della quattrocentesca Casa Parravicini scandendo la suddivisione in tre grandi nuclei tematici, i quali invitano il visitatore a scoprire tre lavori inediti pensati appositamente per la Fondazione assieme ad opere realizzate nell’arco di cinquantasette anni non ordinate cronologicamente. Così al piano terra, senza mai rivelare in maniera diretta la presenza dell’autore, si indaga il concetto del ritratto e dell’autoritratto attraverso opere come Monogramma (1965), una tela sagomata come la figura umana, oppure Dit autrefois “Gilles” (1995) in cui il soggetto del celebre ritratto di Antoine Watteau viene scomposto e disposto su diversi piani sui quali l’artista interviene modificandone alcune parti con la tecnica del collage fino ad arrivare alla negazione del ritratto stesso, apponendo un cartoncino bianco sulla parte corrispondente al viso del soggetto. Proseguendo al primo piano l’esposizione approfondisce le molteplici possibilità della superficie geometrica intesa come linea, prospettiva o orizzonte, punto di origine di tutta la ricerca di Giulio Paolini iniziata a partire dal 1960, sondando le potenzialità di spazio e di tempo, fino a “stressare” oltre il limite i due concetti, sfociando in opere concettuali. Dulcis in fundo, la scenografica sala all’ultimo piano presenta il nucleo relativo al mito e al classico, “uno di due”. Qui l’artista diventa archeologo: si appropria dei reperti classici estrapolandoli dal loro contesto di appartenenza; in questo modo gli oggetti risultano sospesi nel tempo e si offrono allo sguardo del visitatore secondo nuove e inattese prospettive di interpretazione del presente. Risulta evidente la volontà di Paolini di uscire dal naturale ordine di scorrimento del tempo per collocarsi in una dimensione parallela di eterno presente in cui l’opera, che già esiste, si rende manifesta alla collettività attraverso l’incessante scoperta dell’artista, il quale però risulta estraneo al processo di creazione dell’opera stessa. Così “l’idea di bellezza” anelata da Paolini rimane sempre velata e impenetrabile in quanto la percezione dell’opera risulta essere anche il suo limite; in questo modo il bello ci provoca, ma allo stesso tempo difende gelosamente il segreto della sua impenetrabilità, lasciando l’artista in un gesto di inafferrabilità che tende verso l’infinito. Angela Faravelli

Giulio Paolini, del Bello ideale, 2018 installation view della mostra alla Fondazione Carriero, Milano Ph. Agostino Osio Courtesy Fondazione Carriero, Milano

DICEMBRE 2018 / GENNAIO 2019 | 270 segno - 41


Galleria Il Milione, Milano

Tino STEFANONI per grazia ripetuta

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aesaggi urbani semplici, essenziali: un caseggiato con il muro di cinta, dei cipressi e una bandiera. Vedute di interni ordinate, famigliari: un divano, un tavolino e una pianta da appartamento. La personale che la Galleria Il Milione dedica a Tino Stefanoni, ad un anno dalla sua scomparsa, è un omaggio alla pittura metafisica del maestro: egli utilizzava la pittura come mezzo di analisi e non come fine, lavorando sempre sull’idea “della cosa” e mai “sulla cosa stessa”, ricercando l’essenzialità dell’esistente, attuando una riflessione sull’arte stessa. La mostra presenta una serie di opere a partire dagli anni Novanta in cui la figurazione dell’artista è da interpretare come metafora concettuale; quello di Stefanoni è sempre stato un lavoro sul linguaggio il quale presuppone una presa di distanza dai fenomeni spaziotemporali, in cui viene esaminato il nostro rapporto con gli oggetti attraverso il rigore mentale geometricamente scandito, arrivando al risultato di una disarmante ovvietà. È poi la trascendenza del significato che trasmette l’opera, attraverso una pittura come essenzialità del disegno, che porta lo sguardo e la mente di chi si accinge ad osservare il suo “catalogo degli oggetti” oltre l’apparenza del reale, richiamando un mondo altro, fatto di archetipi e visioni geometricamente regolate. Le composizioni di Tino Stefanoni sono sempre precise, meditate, volte a trovare il lato nascosto delle cose: da un lato le opere appartenenti al ciclo dei “Frammenti” si focalizzano sulla forma della tela stessa che risulta una volta triangolare, una volta circolare e un’altra volta ancora rettangolare, all’interno della quale un solo elemento si staglia sullo sfondo blu del cielo, per poi raggiungere il culmine dell’essenzialità nel ciclo delle “Sinopie” – profili neri e grigi su fondo bianco, senza altro colore – un ritorno alla pittura acroma degli anni giovanili, massima espressione dell’aura misteriosa e del senso di spaesamento emanati dai lavori dell’artista.

Le opere di Tino Stefanoni sono magnetiche, lo sguardo viene catturato dagli elementi facenti parte del nostro quotidiano per poi “vivere” un fenomeno quasi catartico che si svolge tra la superficie della tela e il nostro sguardo in cui si accede, tramite l’opera, alla rivelazione della magia delle cose comuni, una ricerca della poeticità racchiusa nella prosa di tutti i giorni. Angela Faravelli

Tino Stefanoni, Senza titolo N3, 2001 (acrilici su tela , 32x42 cm). Courtesy Galleria Il Milione, Milano

Tino Stefanoni, Senza titolo N84 2003 (acrilici su tela , 32x42 cm). Courtesy Galleria Il Milione, Milano

Tino Stefanoni, Senza titolo L55, 1999 (acrilici su tela, 32x46 cm). Courtesy Galleria Il Milione, Milano

Tino Stefanoni, Senza titolo L63, 1999 (acrilici su tela, 36x36 cm). Courtesy Galleria Il Milione, Milano

Tino Stefanoni, Frammento E91 1995 (acrilici su tela , 60x200 cm). Courtesy Galleria Il Milione, Milano

42 - segno 270 | DICEMBRE 2018 / GENNAIO 2019


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

A arte Invernizzi, Milano

Nelio SONEGO a.r.c.h.u.s. tempi diversi

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elicate composizioni geometriche si sviluppano sulla superficie della tela identificando ipotetiche direttrici di ripartizione dello spazio. Al piano superiore della galleria sono presentate una serie di opere di Nelio Sonego appartenenti al ciclo degli “Strutturali” iniziato dall’artista a partire dalla fine degli anni Settanta nelle quali le vibrazioni cromatiche, talvolta quasi diafane, mettono in evidenza l’idea in progress di spazialità intesa come piano di coordinate cartesiane. L’esplorazione aperta delle potenzialità del segno, la relazione con lo spazio e il tempo dell’esistenza hanno indirizzato la ricerca artistica di Sonego all’indagine della geometria combinata con gli elementi spazio-temporali propri del reale; così all’elemento euclideo si contrappone la libertà di disposizione e la forte tensione dinamica, principi che hanno condotto l’artista ad individuare una geometria personale definita nella serie di opere appartenenti al ciclo dei “Triangoarcoli” e degli “Angoarcoli”. La volontà di dare forma a una pulsione interiore fa sì che il progetto di Nelio Sonego prenda corpo attraverso segni che esprimono allo stesso tempo vitalismo e automatismo, senza mai cadere in ripetizione, stasi o sovrapposizione. Dunque il fare pittura dell’artista si identifica con un flusso di tensioni cromatiche che sfidano il vuoto, come avviene sulla superficie delle opere presentate al piano inferiore della galleria; qui gli “Orizzontaliverticali” si liberano dalla gabbia geometrica ortogonale e diventano il simbolo della personale adesione ad un ciclo cosmico, come sottoscrive Nelio Sonego nel Manifesto Tromboloide e Disquarciata (1996) insieme agli artisti Bruno Querci e Gianni Asdrubali e al poeta Carlo Invernizzi; il segnogesto è momento in uno spazio-tempo, l’opera si esplica nell’hic et nunc, come epifania di un’energia interiore, il tempo risulta sospeso, definendo un eterno presente fatto di stratificazione di istanti.

Vedute parziali dell’esposizione Nelio Sonego. a.r.c.h.u.s. tempi diversi © A arte Invernizzi, Milano, 2018, foto Bruno Bani, Milano

Le opere, frutto dell’azione fisico-corporea dell’artista, risultano inoltre in forte combinazione con lo spazio circostante e mostrano la forza che erompe infallibile sotto l’impulso di una carica vitale disciplinata; Sonego attraverso la combinazione di pochi elementi quali segno, colore e superficie, dà corpo ad un gesto assoluto che non teme la ripetizione bensì evidenzia un significato visivo in perpetua evoluzione con echi filosofici. Angela Faravelli

Vedute parziali dell’esposizione Nelio Sonego. a.r.c.h.u.s. tempi diversi © A arte Invernizzi, Milano, 2018, foto Bruno Bani, Milano

DICEMBRE 2018 / GENNAIO 2019 | 270 segno - 43


Galleria Giorgio Persano, Torino

Michelangelo PISTOLETTO

A

l racconto di un rapporto intrapreso quasi 50 anni fa, Michelangelo Pistoletto inaugura alla Galleria Persano una mostra che si sviluppa in un doppio percorso: una grande installazione concettuale che occupa completamente lo spazio di via Principessa Clotilde e un’esposizione di numerosi quadri specchianti nell’adiacente ex Opificio Pastiglie Leone. L’installazione in Via Principessa Clotilde è un omaggio all’operosità umana e una forte dichiarazione d’intenti da parte di Pistoletto. Una struttura in legno grezzo si articola a formare diciassette spazi aperti e che rappresentano i diversi ambiti della società. Queste cellule, pur indipendenti, fanno parte di un unico organismo e, interconnesse, compongono il sistema che congiunge arte e società. La mostra prosegue negli spazi dell’ex Opificio Pastiglie Leone, luogo storico dell’industria torinese. Qui, le relazioni umane sono mostrate nella loro luce più contemporanea. Una serie di quadri specchianti fissa momenti di conversazioni quotidiane mediate da dispositivi digitali. I soggetti rappresentati paiono isolarsi nei loro gesti, portando ancor più lo spettatore a ricercare un dialogo con essi. L’arte di Pistoletto si sviluppa dunque nella comunicazione, sia attraverso una costruzione architettonico-simbolico-concettuale, sia attraverso sequenze di immagini che rappresentano l’oggi, il tempo.

COMUNICAZIONE. Le porte di Cittadellarte “Alla fine del mese di settembre 1976, invitato da Giorgio Persano a tenere una personale nella sua galleria, ho deciso di realizzare una mostra consistente in “100 Mostre nel mese di ottobre”. Come? Pensandole e descrivendole tutte in quel mese, e numerandole da una a cento, per essere subito stampate in un libretto (giallo) di 9 x 9 x 1,5 cm presentato in galleria come opera compiuta in sé, ma contemporaneamente estesa nel tempo a venire, cioè quando le mostre descritte avrebbero potuto essere eseguite, sia da me stesso sia da altri. Fino a oggi ho realizzato personalmente un certo numero di quelle mostre e altri artisti ne hanno preso lo spunto, come da un ricettario. Ora, dopo 42 anni, una di esse viene attuata nella stessa Galleria Persano. Giorgio Persano ha fatto la scelta, da me condivisa, ed è la numero cento. Essa dice: La mostra sarà suggerita dal luogo. Il tempo è passato e dall’ottobre 1976 il mio lavoro ha percorso molta strada, fino alla creazione di una Fondazione denominata Cittadellarte, a Biella. Si tratta di una istituzione 44 - segno 270 | DICEMBRE 2018 / GENNAIO 2019

che pone l’arte in relazione diretta con i differenti settori che compongono la società attivando un processo di rigenerazione che si estende nella società stessa. La Galleria Persano ha nel frattempo cambiato collocazione e dimensione insediandosi in uno spazio ex industriale di Torino. Così ho fatto io stesso scegliendo un ex opificio tessile per dare luogo a Cittadellarte. Ora, con l’ultima delle cento mostre enumerate nel libretto giallo, estendiamo idealmente e praticamente il piccolo parallelepipedo 9 x 9 x 1,5 cm portandolo alla dimensione spaziale corrispondente ai luoghi e alle attività attuali, sia della Galleria sia della mia attività, oggi dedicata in gran parte alla Cittadellarte. Il mio lavoro continua a intrecciare nuovamente i tempi e gli spazi articolandosi in una fitta rete di interconnessioni e comunicazioni. Le porte di Cittadellarte installate nella Galleria mettono in comunicazione diciassette stanze che suddividono l’intero spazio espositivo e rappresentano altrettanti settori della compagine sociale. Comunicazione è infatti il titolo che ho assegnato a questa centesima mostra del libretto giallo. Essa tuttavia non si limita a un unico luogo, si articola bensì in due luoghi. Nel secondo luogo, separato ma non lontano dal primo,


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Michelangelo Pistoletto Comunicazione. Le porte di Cittadellarte, 2018 Installation view Ex Opificio Pastiglie Leone Photo Nicola Morittu. Courtesy Galleria Giorgio Persano

è esposto un gruppo di Quadri Specchianti, specificamente realizzato sul tema della comunicazione. I Quadri Specchianti continuano a essere memoria storica di momenti apparsi nello specchio della vita, compresi quelli attuali. Oggi il fenomeno della comunicazione ha assunto caratteristiche e dimensioni inimmaginabili fino a qualche decennio fa. Un piccolo telefono tascabile ci mette istantaneamente in rete con il mondo intero. I Quadri Specchianti, come computer ante litteram, sono allo stesso tempo il presente e la memoria. Inoltre queste opere esposte sono dei selfie in quanto ritraggono la persona con tutto ciò che sta alle spalle. L’umanità è ormai tecnologicamente collegata, fino al punto da rendere precaria la comunicazione interindividuale fuori dal sistema tecnologico. I lavori in mostra non hanno funzione né apologetica né critica, semplicemente documentano lo stato delle cose. Dobbiamo tuttavia constatare che la comunicazione ha anche un risvolto, ed è l’incomunicabilità. Per questo diviene impellente sviluppare una dimensione inedita che connetta il lato positivo e il lato negativo dei processi comunicativi trovando nuovi equilibri nei rapporti tra la natura e l’artificio, tra le persone singole e la società, come visualizzato nelle porte di Cittadellarte.” Michelangelo Pistoletto, agosto 2018

DICEMBRE 2018 / GENNAIO 2019 | 270 segno - 45


Galleria Continua, San Gimignano

Jorge MACCHI Hiroshi SUGIMOTO Shilpa GUPTA

C

ome di consueto, Galleria Continua propone, nei suoi diversificati spazi, tre personali di artisti fra i più acclamati e di rilievo nel panorama artistico contemporaneo: l’argentino Jorge Macchi, l’indiana Shilpa Gupta e il giapponese Hiroshi Sugimoto. “Suspension Points” di Macchi, per la curatela di Laura Hakel, con sculture di varie dimensioni, installazioni e dipinti a olio su tela e acquerelli, ha il potere di proiettare il visitatore in un mondo di sospensioni. Questo metodo può ricondursi al cosiddetto “principio dell’iceberg” elaborato da Ernest Hemingway e descritto nel libro dal titolo omonimo, ovvero che buona parte del materiale compositivo che vive nella mente dello scrittore non deve essere espresso, perché quello che più conta è il non scritto. Ciò avviene anche nelle arti e analogamente nell’ esposizione di Macchi, dove sono visibili delle omissioni che l’osservatore finisce per reintegrare con la sua immaginazione. Emblematico è il dittico, che dà il titolo alla mostra, in cui la miriade di punti organizzata nella figura a sinistra si dissolve in quella di destra, occupando i bordi del foglio e lasciando vuoto il centro: è compito dello spettatore rimediare all’assenza. Lo stesso può dirsi per le essenziali strutture in metallo, titolate “Present ” del 2018, simili a involucri svuotati della preesistente materia, che mettono in moto la mente di chi guarda nel ricostruire l’oggetto originario. Nella scultura “Portal” , una grande e comune cerniera si erge come se fosse una stele; colpisce la sua posa statuaria in mezzo allo spazio vuoto e che entra fra le strette maglie aperte in alto. Con “La noche de los museos” del 2016, installazione collocata al centro della platea dell’ex cinema, costituita da un ampio tappeto con decorazioni di fili colorati e da quattro faretti ‘precipitati’ dal soffitto sulla sua superficie, si ha, grazie alla luce materializzatasi sull’oggetto, l’idea della sospensione del tempo e la percezione dell’illusorietà spaziale. Anche il video “Himno”, 2018, ha la luce come componente fondamentale nell’ apparire e scomparire delle immagini e nell’idea di un tempo che pare circolare e infinito nei due momenti di stasi e di movimento, in cui si articola ogni scena.

Jorge Macchi, Himno, 2018 (video proiezione). Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana- Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio

Il rapporto con la musica che caratterizza da sempre l’opera di Jeorge Macchi è ancor più esplicito in questo contesto per la collaborazione con il compositore argentino Edgardo Rudnitzky per la colonna sonora delle proiezioni video; è ribadito anche dalla presenza di vecchi giradischi dislocati uno per ambiente, che diffondono il suono dei vinili in presenza dello spettatore. L’esperienza individuale di chi guarda dunque e le visioni dell’artista, sospese e vagamente surreali, in questa interazione necessaria, rendono il percorso espositivo ancor più coinvolgente e inaspettato.

Jorge Macchi, Suspension Points (vedute della mostra Galleria Continua, San Gimignano) Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana- Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio

46 - segno 270 | DICEMBRE 2018 / GENNAIO 2019


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Jorge Macchi, La noche de los museos, 2016 (tappeto in lana e luci spot - 554 x 665 cm) Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana- Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio

Jorge Macchi, Waking hours, 2018 (installazione sonora in collaborazione con Edgardo Rudnitzky (sound installation in collaboration with Edgardo Rudnitzky) Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / HabanaPhoto Ela Bialkowska, OKNO Studio

Jorge Macchi, Suspension Points (vedute della mostra Galleria Continua, San Gimignano) Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana- Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio

DICEMBRE 2018 / GENNAIO 2019 | 270 segno - 47


Shilpa Gupta affida all’arte un ruolo di primaria importanza, considerandola come portatrice di valori nella vita pubblica ed espressione dei diritti dell’uomo, tra cui quello della libertà. Da un linguaggio intenso e allusivo è caratterizzata la scultura esposta, nella quale tre figure femminili si nascondono gli occhi, o le orecchie e la bocca: “Spesso, come sta accadendo in questo momento - afferma l’artista - le voci della verità causano disagio e vengono stroncate, tuttavia l’eco rimane e continua ad essere ascoltata”. Altro lavoro di carattere più soggettivo è invece l’installazione con la scritta luminosa “Thought Inside a Thought” del 2017, che porta a riflettere sul mondo interiore, sullo svilupparsi del pensiero e sui meccanismi che lo regolano. Con la mostra di Hiroshi Sugimoto, titolata “The First Encounter” , lo sguardo del visitatore riconosce i teatri di alcune città italiane, a cui sono dedicate varie fotografie scattate dal 2013 ad oggi, una serie che si ricongiunge idealmente con quella elaborata nella seconda metà degli anni Settanta. Lo schermo bianco della proiezione, collocato sui palcoscenici, irradia la luce d’intorno e nella modulazione dei grigi permette di vedere particolari altrimenti invisibili, connotando i dettagli di ogni contesto teatrale. Shilpa Gupta, Thought Inside a Thought, 2017 (neon diameter 183 cm) Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio

Shilpa Gupta, Untitled, 2017-2018 (polymer resin, wood 135 x 84 x 91,5 cm 53 x 33 x 36 inches) Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio

Contemporaneamente Sugimoto ripercorre le tracce di quattro nobili giapponesi dell’Ambasciata Tensho, convertiti al cristianesimo e partiti nel 1582 per l’Europa, con lo scopo di raggiungere Roma. Di loro - come lui stesso ricorda - egli sente “le voci” che gli chiedono: “Vogliamo vedere attraverso i tuoi occhi gli stessi luoghi che una volta vedemmo in Europa”. Così il viaggio italiano si arricchisce di nuove soste e fotografie, per concludersi con uno scatto memorabile di fronte alla “Pietà” di Michelangelo. Rita Olivieri 48 - segno 270 | DICEMBRE 2018 / GENNAIO 2019

Hiroshi Sugimoto, Pieta, by Michelangelo 2016 (stampa in gelatina d’argento | gelatins-silver print 185 x 155 x 3 cm / con cornice | framed). Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana _ Photo Ela Bialkowska, OKNO Studio Hiroshi Sugimoto, Staircase at Villa Farnese II, 2016 (stampa in gelatina d’argento | gelatins-silver print - 185 x 155 x 3 cm / con cornice | framed)


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Villa Pacchiani, Santa Croce sull’Arno (Pisa)

Nari WARD

È

dal 2013 che a Santa Croce sull’Arno si realizza il progetto Arte - Impresa - Territorio, a cura di Ilaria Mariotti , che coniuga il lavoro di un artista di livello internazionale, e rappresentativo del nostro tempo, con la realtà imprenditoriale del distretto di lavorazione del cuoio. Voluto dal Comune, con il sostegno della Regione Toscana, di Galleria Continua e Associazione Arte Continua e , fra gli altri, dell’Accademia di Belle Arti di Firenze, quest’anno ha coinvolto Nari Ward, di origine giamaicana ma residente a New York, che ha realizzato i lavori per la mostra “Holding Patterns” . In essa fondamentale e determinante è stato il rapporto dell’artista con UNIC-Concerie Italiane e Lineapelle S.r.L. una associazione di industriali delle aziende del settore conciario, che è dedita, fra l’altro, alla promozione culturale. Proprio da questa relazione, instauratasi durante le visite di Ward alle imprese del territorio, sono emerse tematiche comuni, come quelle di produzione e natura, di natura e società e di trasformazione dei materiali. Quest’ultimo dato riguarda sia le concerie per il loro tramutare le pelli da grezze in manufatti particolarmente raffinati, sia l’artista che nella sua pratica trasforma le “cose” e la loro materia. Nari Ward, fin dagli anni Novanta del secolo scorso, andava a scovare nei sobborghi di Harlem oggetti e materiali di scarto fra i più inusuali e ne modificava lo status attraverso il linguaggio, rievocando in una sorta di ritualità il loro retaggio di provenienza e le storie a cui erano connessi. “Holding Patterns” presenta molteplici lavori inediti, installazioni, fotografie e un video, caratterizzati da una grande varietà di forme, con l’utilizzo di plexiglass, pelle, ferro, resine e inerti a testimoniare il sorprendente cambiamento acquisito dai materiali, le sollecitazioni delle imprese del territorio e la progettazione dell’artista, come lui stesso sottolinea, legata a “possesso, appartenenza e visibilità”. In “Ballast of Miracles”, del 2018 molteplici palloncini, come quelli che animano le feste cittadine e in ricordo della Luminaria pisana a cui Ward ha assistito, sono collocati nella sala centrale di Villa Pacchiani in un gioco di trasfigurazione dello spazio, di nitidezze e opacità visibili nonché di mistero.

Nari Ward, Ballast of Miracles, 2018 (resina, oggetti trovati, KEU2001, ferro, cemento / resin, found objects, KEU2001, iron, concrete / dimensioni variabili / variable dimensions) “Holding Patterns” per “Arte - impresa – territorio. Nari Ward”, Villa Pacchiani, Santa Croce sull’Arno, 2018. Ph. Ela Bialkowska OKNOstudio Nari Ward, Limpidus Goats 2018 (plexiglass, polveri di estratti concianti: mimosa, quebracho, castagno / plexiglass, vegetable tanning powders: mimosa, quebracho, chesnut / cm 111 x 57 x 70 )

Nari Ward, Insistence on Opacity, 2018 (plexiglass, KEU 2001, ferro, pelo di animale / plexiglass, KEU 2001, iron, animal hair / cm 221 x 169 x 35; cm 49 x Ø 40)

“Back to Nature Treatment” dello stesso anno è un monumento alla natura allestito con materiale artificiale, costituito dai tubi utilizzati nel processo di depurazione delle acque di lavorazione, ora trasformati in tronchi d’albero a evocare uno scenario boschivo. Con “Gifted Witness”, 2018 è messo in scena un pezzo di realtà, con le due scarpe appartenenti all’artista, quasi completamente coperte dai lacci flessibili e sinuosi in una scultura a terra che si configura come un movimento spiraliforme di crescita. Indubbiamente il video, titolato come la mostra, rappresenta il punto focale di tutto il percorso espositivo. È scaturito dalle suggestioni emerse durante una visita di Nari Ward alla Torre di Pisa, nella quale egli ha visto dei turisti scattare foto mantenendo la posa fittizia di “sorreggere” la torre e dei migranti tentare di vendere la loro merce. Le immagini filmiche mostrano due profughi che sono al tempo stesso turisti e migranti in una contaminazione di gesti e pose in sequenza, di fronte ai quali diventa urgente e indispensabile ripensare la realtà con occhi nuovi. Rita Olivieri Nari Ward, Immigrist WallMale Figure 01, 2018 (fotografia, ferro, legno / photo, iron, wood /cm 170 x 65 x 6) “Holding Patterns” per “Arte impresa – territorio. Nari Ward”, Villa Pacchiani, Santa Croce sull’Arno, 2018. Ph. Ela Bialkowska OKNOstudio

Nari Ward, Pass Series: Cherry in the snow, 2018 (ossa da rosicchiare per cani, ferro, rossetto Revlon, piedistallo / rawhide dog chew, iron, Revlon lipstick, pedestal / cm 30 x 30 x 150 cad / each) “Holding Patterns” per “Arte - impresa – territorio. Nari Ward”, Villa Pacchiani, Santa Croce sull’Arno, 2018. Ph. Ela Bialkowska OKNOstudio Nari Ward, Holding Patterns, 2018 (video) “Holding Patterns” per “Arte - impresa – territorio. Nari Ward”, Villa Pacchiani, Santa Croce sull’Arno, 2018. Ph. Ela Bialkowska OKNOstudio

DICEMBRE 2018 / GENNAIO 2019 | 270 segno - 49


Galleria Paola Verrengia, Salerno

Pop Art in Italia Ieri, oggi, domani

N

ata in un’atmosfera che sente l’esigenza di spingersi oltre l’informale e di elaborare un discorso sulla pelle della città, la Pop Art è l’espressione di un’arte essenzialmente realistica che si nutre dei mezzi di comunicazione di massa e che considera la scena metropolitana «come uno spettacolo visivo in cui le immagini recano con sé una molteplicità di messaggi, di significati logici, emotivi, simbolici: una realtà che non può essere elusa o negata, ma dev’essere indagata e compresa nei suoi fattori formativi e negli elementi che la costituiscono» (Boatto). Intesa da alcuni come fenomeno di reportage cronachistico che registra l’impatto dei mass media nella società moderna, la Pop Art rappresenta il riscatto estetico della superficialità («sono una persona profondamente superficiale» ha segnalato Warhol), la rivendicazione dei segni primari dell’ordinario, il trasferimento nell’opera di immagini e di oggetti d’uso comune assunti per palesare «una società opulenta in cui alla psicologia del risparmio e del produrre si sostituisce la psicologia dello spreco e del consumo» (Menna). Senza alcuna ingenuità l’artista pop fa proprio un clima in cui il mercato trasforma ogni strato della società moderna, dove la junk-culture plasma il nuovo dispositivo economico che si alimenta di tutti i fenomeni della comunicazione di massa (i fumetti, i rotocalchi, la televisione, il cinema, il cartone animato, la moda, la musica, il cibo), dove il consumatore è disorientato e avviluppato dalle sollecitazioni della pubblicità, dove nascono nuovi miti e nuove ritualità, dove l’uomo è «compromesso», in definitiva, «con tutte le manifestazioni della realtà», è «rovesciato all’esterno a catturare il mondo» (Boatto). La capacità di cogliere le varie sfaccettature del quotidiano e di mostrare tutti quei prodotti che l’industria culturale ha generato per riempire il tempo libero e per massaggiare i cervelli con le produzioni massive (cromaticamente erotiche e spettacolari), porta l’artista a concepire uno stile del prelievo rapido e nervoso – così come nervosa si mostra la scena metropolitana – per deflagrare nell’ambito di un behavior orientato fondamentalmente verso la demistificazione dei prodotti e dell’ideologia massmediatica. Di questa corrente artistica sviluppatasi soprattutto in Inghilterra (il termine è stato infatti coniato nel 1955 da Leslie Fiedler e Reyner Banham) e negli Stati Uniti tra la seconda metà degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta del Novecento, «in relazione a analoghe esperienze maturate in altri paesi d’Europa» (Menna), la scena italiana è brillante itinerario che fa i conti con un ritorno alla figurazione – ma svuotata di connotazioni o derive mimetiche – e con una frattura critica che si consuma nel corso del convegno Lo spazio nell’arte oggi (dove sono assenti Crispolti, Del Guercio, Sanguineti, Tadini e Vivaldi) e della seconda rassegna di Amalfi, l’Impatto percettivo. La «pietra dello scandalo» (Trimarco) è appunto la nuova figurazione, a cui ben presto si preferisce una figurazione novissima, e la mancanza di una Possibilità di relazione avanzata già il 25 maggio 1960 (da Crispolti, Sanesi e Tadini) in una rassegna organizzata alla Galleria L’Attico di Roma sulla scia teorica del tema relazionista elaborato proprio in quegli anni da Enzo Paci e basato sull’idea di possibilità. Squisitamente non omogenea e orientativamente legata a due nuclei operativi che gravitano su Roma e su Milano, la Pop Art italiana è l’arte della dolce vita, l’espressione del boom economico, l’evoluzione inevitabile di una lingua che si allunga sul costume popolare degli anni Sessanta, la via di uscita dalla «soffocante accademia informale che ancora imperversava in Europa dove, ad eccezione di una mezza dozzina di veri grandi artisti, il resto era scadente e noioso» (Ceroli). Seguendo l’itinerario italiano, dove la Pop Art trae linfa da una scena urbana stratificata nella storia e nella memoria dei luoghi, la mostra Pop Art in Italia. Ieri, oggi, domani centra l’attenzione sul percorso di alcuni artisti significativi che hanno operato sin dalla prima metà degli anni Sessanta per celebrare il nuovo scenario e mordere la realtà con gli ingredienti stessi della realtà. La via italiana del pop è delineata infatti mediante il lavoro di sette nomi preziosi – Valerio Adami, Franco Angeli, Mario Ceroli, Tano Festa, Giosetta Fioroni, Mario Schifano e Emilio Tadini – che rappresentano un piccolo ma incisivo resoconto 50 - segno 270 | DICEMBRE 2018 / GENNAIO 2019

Mario Ceroli, Courtesy Galleria Paola Verrengia, Salerno

Franco Angeli, Half dollar (smalto su tela emulsionata, metà anni ‘70, 150x100 cm.) Courtesy Galleria Paola Verrengia, Salerno

Giuseppe Restano, Gomma verde (olio su tela, 110x90 cm, 2001) Courtesy Galleria Paola Verrengia, Salerno

di quel racconto che ha segnato una stagione dell’arte favorita dalla libertà di rivolge l’attenzione agli oggetti, ai miti e ai riti contemporanei, ai linguaggi della società dei consumi e al loro culto. I fumetti e i cortocircuiti linguistici di Adami, l’intenzione marcatamente ideologica di Angeli, le silhouettes lignee di Ceroli, il richiamo metafisico di Festa, le inquadrature segninfantili di Fioroni, i paesaggi anemici o gli ingrandimenti di Schifano che via via lasciano il posto a un Futurismo rivisitato e i racconti onirici di Tadini («scrittore che dipinge» e «pittore che scrive» a detta di Umberto Eco) ridisegnano in questo percorso un clima esclusivo e risanano inoltre lo strappo di quell’impatto reso, oggi che gli attriti sono stati affievoliti o cancellati dal tempo, quantomai costruttivo. Accanto a questo nucleo più strettamente storico, sono presenti in mostra sei figure dell’arte di generazione più recente - Romina Bassu, Michele Chiossi, Francesco De Molfetta,


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Pop Art in Italia, ieri, oggi, domani, allestimento mostra / installation view, Galleria Paola Verrengia, Salerno

Mario Schifano, Courtesy Galleria Paola Verrengia, Salerno

Giampaolo Frizzi, Lucio Perone e Giuseppe Restano - che da angolazioni differenti o a volte piacevolmente stridenti elaborano discorsi sulla manipolazione e sul consumo di immagini, di immagini di immagini, di immagini di immagini di immagini. In questo esagono che assume poliglottismo tecnico e materico nonché fresco babelismo linguistico, si incontrano l’erotica erosione della pittura proposta da Bassu, la scultura da videogioco anni Ottanta che ricama il mondo di Michele Chiossi, l’ironia vivissima di De Molfetta, la fumettista nostalgica di Frizzi, gli esuberanti oggetti eterocromatici di Perone e i ritagli di tempo proposti da Restano: modalità e approcci al mondo della vita che rappresentano, del nostro fuggitivo presente, originali contributi alla diffusione del popism made in Italy, aggiornato rispetto a nuove esigenze comunicative e aperto a (inevitabili?) avventure future. Antonello Tolve DICEMBRE 2018 / GENNAIO 2019 | 270 segno - 51


Paolo Icaro, Spazi di spazio, 2017 (alluminio, 200x50x50 cm 3 elementi)

Paolo Icaro, Spazi di spazio, 2017 (alluminio, 200x36x30 cm - 3 elementi) Courtesy l’artista e Galleria Massimo Minini, ph. Gilberti&Petrò

Galleria Massimo Minini, Brescia

Paolo ICARO

L

e sculture di Paolo Icaro alla galleria Massimo Minini sono parte di un’unica istallazione dal titolo “Alla ricerca dell’equilibrio perduto”, che collega tre ambienti, in cui sculture verticali sono illusoriamente composte in precarie geometrie, garbugli, gomitoli. Si tratta di una mostra, curata da Chiara Bertola, che ha scelto e discusso i lavori con l’artista. “Da qualche anno seguo da vicino il lavoro di Icaro – afferma Chiara Bertola - Recentemente abbiamo allestito una mostra alla Fondazione Querini Stampalia e, in quella occasione ho avvertito chiaramente la sua volontà di distruggere quell’idea di scultura vissuta soltanto come forma e oggetto, per connettersi al processo del fare scultura, che per lui significa principalmente “farsi luogo”: in altre parole dare origine allo spazio. Molte cose sono condensate nelle forme di questo straordinario scultore: forme che non tengono e che si sbriciolano come la crosta del pane, lasciando sempre nell’aria la traccia e la cadenza del gesto che le ha create. Le figure di Icaro sono nuclei di relazioni e di intensità. Perché ogni cosa è un campo di relazione e ciò che

conta sono gli aspetti sottili e sfuggenti di tali collegamenti. Lo scopo dell’artista è proprio quello di ravvicinare le cose, metterle in rapporto lasciando che questa giustapposizione produca il suo significato e comunichi al pubblico un nuovo modo di guardare e comprendere la realtà che abitualmente ci circonda. Ma questa idea di trasformazione ci riporta al tema dell’equilibrio, una dimensione che tanto ha impegnato questo artista e che tanto ha sperimentato anche attraverso il corpo. Penso a quella semplice “Linea di equilibrio” degli anni Sessanta nella quale l’artista camminava facendo di questo andamento una misura anche interiore; oppure alle “Forme e le linee tese” realizzate partendo dal concetto di forma rubata al caso, “come se ci fosse sempre un’idea di continuità dell’opera con la vita”. Le sue opere si risolvono perché offrono la possibilitò di ritrovare un punto. C’è sempre un punto che lui chiama “punto nevralgico”, in cui l’incontro dello spazio, del tempo e dell’azione umana si materializza in concreazioni fragili e multiformi, in un inizio senza fine”. (A cura di L.S.)

Paolo Icaro, Percorso, 2017 (alluminio, 44x52x57 cm) Courtesy l’artista e Galleria Massimo Minini, ph. Gilberti&Petrò

Paolo Icaro, Viaggio, 2018 (ferro ossidato, 45 x 45 x 50 cm) Courtesy l’artista e Galleria Massimo Minini, ph. Gilberti&Petrò

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Enzo Cucchi e Ioan Sbârciu, gli allestimenti delle loro opere. Foto Stefan Badulescu

Muzeul National de Arta , Cluj-Napoca, Romania

SOTTOBOSCO

Trilogia di mostre, a cura di Antonello Tolve, in collaborazione con l’UAD - Universitatea de Artâ si Design Cluj-Napoca, con la Facultatea de Litere | Departamentul de Limbi si Literaturi Romanice della Universitatea Babes-Bolyai, con la Galleria Richter Fine Art (Roma) e la Sector 1 Gallery (Bucuresti), per celebrare i settant’anni di Ioan Sbârciu. Nel percorso di queste tre mostre – scrive il curatore - l’itinerario si apre con un colloquio tra due maestri di stessa generazione, Enzo Cucchi e Ioan Sbârciu, indici di una totalità della pittura, che elaborano, per l’occasione, un incontro tra il micro e il macro dell’atmosfera silvestre dove si instaurano contatti tra segni che “sembrano venir di corsa da dietro l’angolo per mescolarsi al suono scuro della visione” (Cucchi) e ampie distese cromatiche dove a volte si scorge un verde vitreo ed altre “un verde spento come il vento che la mattina scherza tra gli alberi” (Sbârciu). La seconda mostra del progetto è delineata da una generazione di artisti nati tra gli anni Settanta e Ottanta – Georgeta-Olimpia Bera, Kudor Duka István, Cristian Lâpusan, Anca Bodea Muresan e Andrea Salvino – e genera un momento di lucida analisi su figure dell’arte il cui modus operandi tocca la realtà con un atteggiamento riflessivo sull’intimità, sulla memoria, sul tempo della pittura. Questa seconda tappa del sottobosco offre temperature pittoriche di artisti già formati, di docenti impegnati nella loro ricerca personale e contemporaneamente legati alla didattica dell’arte, a seguire il proliferarsi di generazioni più recenti. Polifonica, morbida e cremosa, aperta a nuove leve dell’arte italiana e della Scuola di Cluj, la terza mostra che si incontra nel sentiero linguistico è un progetto più strettamente legato alle generazioni nate tra la fine degli anni Ottanta e la prima metà degli anni Novanta. Il passaggio sulle nuove leve della Scuola di Cluj e su alcuni nomi dell’arte italiana – Veronica Bisesti, Gagyi Botond, Dario Carratta, Giovanni De Cataldo, Luca Grechi, Mihai Gules, Andrei Ispas, Tincuta Marin, Alexandra Muresan, Oana Nastasache, Emma Pâvâloaia, Jacopo Pinelli, Lucian Popâilâ, Marcel Rusu, Andrei Sclifos – rappresenta, in questo viaggio, una riflessione irrinunciabile non tanto sul presente, quanto piuttosto sul verzicare creativo che si fa strada sulla piattaforma dell’arte per prendere voce, per disegnare forme calate nella materia (sinoli di materia e forma), per farsi trait d’union tra il passato e quello che passato non è. Chiude la mostra una pubblicazione (IDEA edizioni) che salta il fosso del catalogo tout court per diventare mostra di carta, luogo non già di documentazione, ma di azione creativa, di piacevole scoperta, di animata plasticità. (doc.dal cs.) DICEMBRE 2018 / GENNAIO 2019 | 270 segno - 53


Francesco Somaini Antropoammonite IV 1975 (bronzo patinato grigio - 64 x 62 x 28 cm.)

Galleria Open Art, Prato

Francesco SOMAINI La stagione americana

F

ra le immagini più iconiche e capaci di sintetizzare quell’atmosfera ermetica propria dell’arte degli anni Cinquanta e Sessanta in Italia, in molti ricorderanno la fotografia pubblicata su «Oggi» che ritrae Alberto Sordi che guarda, o meglio attraversa, il Nudo di Alberto Viani alla Biennale di Venezia del 1958. In quello sguardo di perplessità del grande attore, si esemplifica tutto il senso di un’estetica incomprensibile al grande pubblico ma esemplare nell’evidenziare le peculiarità delle ricerche scultorie dell’epoca. Ricerche, per così dire, di segno e materia, dove quest’ultima mostra la propria forza o energia diventando forma e dove il segno, spezzando lo spazio, diventa traccia effimera del contingente. Ricerche figlie della tragedia, quella della guerra, che troncano il proprio agire nel solo significato del presente, percepito come effimero e come frammento e dove, la legittimità dell’opera si misura nell’uni54 - segno 270 | DICEMBRE 2018 / GENNAIO 2019

cità del momento. In questo clima, storicizzato come Informale in Europa ed Espressionismo Astratto in America, incontriamo la straordinaria personalità di Francesco Somaini, la cui opera, come spesso la critica coeva e postuma non ha mai tralasciato di rilevare, mostra pienamente tutte le caratteristiche di una genealogia prettamente informale. Superati gli anni dell’esordio, dove nell’artista il fascino per un’estetica scultoria di matrice primo-novecentesca è ancora presente (si pensino le sculture degli anni Quaranta ancora così vicine a quelle del maestro Giacomo Manzù), Francesco Somaini entra nella seconda metà del secolo sviluppando un’originale indagine nel rapporto tra la materia e la sua stessa definizione espressiva. Il successo e il riscontro della sua proposta sono immediati. Non casuale, nel decennio Cinquanta è la sua pressoché costante presenza in Biennale, l’invito a tutte le Quadriennali del periodo (1951, 1955, 1959) e quello alla Triennale di Milano (1954), senza contare le numerose esposizioni che lo vedono protagonista negli appuntamenti nazionali più importanti dedicati alla scultura. Non mancano infine le partecipazioni all’estero fra Parigi, Anversa, Oslo, San Paolo del Brasile (dove alla Biennale del 1959 riceve il premio come migliore scultore straniero) e infine New York dove, nel 1960 realizza una personale all’Italian Cultural


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Francesco Somaini - Grande Martirio Piagato (II Versione) 1960 (peltro con lucidi parziali e base originale in legno - 133 x 65 x 50 cm.)

Institute presentata Giulio Carlo Argan, seguita nello stesso anno dalla partecipazione in Biennale che gli dedica, a soli trentaquattro anni, una sala personale. Una carriera, quella di Somaini, puntellata di continui riconoscimenti che si susseguono in oltre cinquant’anni di carriera, dove forse è proprio il 1960 a rappresentare il momento d’interesse da parte di collezionisti e istituzioni statunitensi verso la sua opera. È proprio questo il nodo centrale della proposta espositiva della galleria Open Art di Prato realizzata in collaborazione con l’archivio dell’artista, diretto da Luisa Somaini, storica dell’arte e figlia del maestro

che, nel ritmarsi di una serie di opere selezionate, evidenziano le motivazioni sottese di quest’attenzione internazionale. Attenzione tutt’altro che scontata se pensiamo alla contemporanea ondata di nuovi realismi che si affrancano alla cosiddetta stagione d’oro dell’Informale, culminanti nel nostro Paese nel ‘cinematografico’ sbarco a Venezia della Pop Art alla Biennale del 1964. Tuttavia, l’opera di Somaini è sintomatica di una pulsione innovativa che si estende ben oltre l’origine dell’esperienza informale, mostrando la propria forza, soprattutto quella disgregativa della materia, che permea le strade della scultura fino e

Francesco Somaini, La Stagione Americana, Galleria Open Art, Prato 2018

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Francesco Somaini, La Stagione Americana, veduta generale delle installazioni, Galleria Open Art, Prato 2018

oltre gli anni Settanta, dimostrando al contempo la convivenza e pluralità di linguaggi presenti in quello stesso periodo. Le opere qui in mostra, appartenute a importanti collezioni americane o presentate in esposizioni che l’artista realizzò oltreoceano, raccontano tanto la sua genio quanto il gusto del giovane popolo americano. Si veda ad esempio Piccola Assalonne (Corona) del 1959 ma anche e soprattutto Proposta per un monumento del 1958 e del 1963, sfociata nella grande opera di Baltimora del 1970. Una proposta che esemplifica l’indagine condotta dall’artista intorno al concetto di monumento, e di esso in relazione ad un’idea di città moderna e futuristica. Una proposta che trova origine nella riflessione generatasi dalla visione dello skyline di New York, confluita in seguito in un complesso discorso sull’arte e l’architettura, fondato sulla sintesi tra forma organica, geometria e volume. Ancora, in galleria incontriamo due esemplari della serie dedicata alla Nauta II del 1960 (un piombo scavato a fiamma,

esposto alla Biennale di Venezia dello stesso anno), Racconto sul Cielo del 1961, Racconto Patetico I del 1962, provenienti da prestigiose collezioni come quella di John D. Rockfeller nel caso di Racconto sul Cielo. Un collezionismo evidentemente attratto da una memoria che, come la definisce Francesco Tedeschi, nell’approfondito testo critico che accompagna la mostra, ricorda un’atavica “età del ferro”. Ecco il punto focale. Se da un lato, il tema del frammento, dell’effimero, dell’espressività autonoma della materia, del superamento della distinzione fra astratto e figurativo (che ci fa apparire Somaini, per certi aspetti, così vicino a Fontana), se l’idea di esplosione atomica sono elementi tali da renderlo un artista informale a tutti gli effetti (seppure problematicamente come afferma Tedeschi), dall’altro il processo tecnico lo porta in una dimensione assolutamente rappresentativa. Una dimensione che «[…] non parte più dalla natura o dall’oggetto, ma dalla realtà quale si dà alla percezione immediata, dalla materia; il suo processo è un processo di svi-

Francesco Somaini - Memoria dell’Apocalisse II 1962 (bronzo patinato con lucidi parziali su base in ferro a putrella 211x102x130 cm)

Francesco Somaini - Grande Martirio Piagato (II Versione) 1960 (peltro con lucidi parziali e base originale in legno - 133 x 65 x 50 cm.)

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Francesco Somaini, La Stagione Americana, veduta parziale delle installazioni, Galleria Open Art, Prato 2018

luppo o di crescita della materia attraverso l’esperienza umana che agisce in essa; il risultato è la definizione di una nuova materia che […] è di fatto materia plastica o spaziale […]» (Argan, difficoltà della scultura, 1949). La definizione di una nuova materia, si direbbe qui, è dunque una nuova idea di rappresentazione, pensiero che, evidentemente, non sfugge all’attento e curioso sguardo americano, già immerso in un clima volto al recupero di linguaggi tendenti a nuova rappresentazione o attratti verso chi era capace di offrirne visioni alternative in chiave esistenziale. Somaini, in tal senso, sembrerebbe coniugare tendenze europee e americane, così la sua ricerca condensare, di fatto, orientamenti contrapposti che, da quell’“età del ferro” richiamata da Tedeschi – da meglio intendersi come età industriale – in cui la società americana riconosce le proprie radici, mutua in un’“età plastica”. Cosa significa? È sempre Tedeschi a spiegarlo: «[…] artisti come Somaini – si collocano nella posizione – di chi difende e afferma una concezione moderna, proveniente dall’Europa,

ma figlia della storia e della tradizione, nella fattispecie quella italiana». In questo carattere innovativo, autonomo e teso al domani, che Somaini coniuga al vento informale, spinto nell’esperire l’opera come un momento unico, si può probabilmente riassumere il perché di tanta popolarità in territorio americano. Un successo che, in ultima battuta, non esclude la tecnica come già suggerito. Intorno alla metà degli anni Settanta Somaini, infatti, giungerà a una particolare definizione di traccia a bassorilievo, introducendo definitivamente il senso di azione, perlustrazione e dinamismo che si riscontrerà parallelamente nella progettazione urbana. Di queste matrici, il cui risultato sono enigmatiche immagini in negativo, in mostra vi è il bronzo Antropoammonite IV del 1975. Infine, sebbene sia quasi superfluo farlo, si ricorda che di Somaini hanno scritto le più importanti voci critiche del nostro tempo, da Giulio Carlo Argan, Enrico Crispolti a Francesco Poli, da Léon Degand a Michel Tapié. Maria Letizia Paiato

Francesco Somaini, Obliqua, il Gesto, 1959. Bronzo patinato con lucidi parziali su base originale, 18,5 x 40 x 23 cm.

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Chiesa dei SS. Lorentino e Pergentino, Arezzo

Stefano DI STASIO

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atrocinata dal Comune, la Fraternita dei Laici di Arezzo ha accolto, in una splendida cornice architettonica nel centro storico, la mostra personale di Stefano Di Stasio, con lavori realizzati tra il 2017 e il 2018 di piccole, medie e grandi dimensioni, curata da Fabio Migliorati, in collaborazione con la Galleria Alessandro Bagnai. Due Biennali di Venezia all’attivo, numerose Quadriennali di Roma, Di Stasio ci narra, oggi, in questa occasione, la freschezza di un continuo fluire di spunti e immagini. Le undici tele esposte rappresentano un dialogo, mai interrotto, dell’artista con la pittura. Paesaggi dell’anima, allegorie e simbolismi, echi e citazioni del mondo classico, fanno da sempre parte del suo immaginario, che trova in questa recente produzione, un rinnovato gesto dichiarativo sul senso e l’opportunità del mettere in scena se stesso e il suo mondo. Tra interni ed esterni possiamo leggere le profondità di un io nascosto che diventa protagonista di un teatro surreale e metafisico al contempo. Un’umanità sognata e riproposta sulla tela si affaccia su una periferia urbana, emerge in una stanza con un albero divelto alle radici, esplora il mito di Diana (La stanza di Diana, 2018), mentre i bagliori della notte accendono la città che dorme. Guardando le figure maschili protagoniste della scena non possiamo non pensare ad immanenti autoritratti che diventano icone senza tempo in luoghi non luoghi. Infondo, l’io e il suo doppio appartengono da sempre al racconto di Di Stasio, fin da quando, negli anni settanta, cominciava ad intraprendere la lunga strada dell’arte, come una scala di Giacobbe dove l’immaginario già accompagnava la riproposizione e trasfigurazione dell’orizzonte onirico accentuato dalla pittura, dopo una breve avventura iniziale nell’installazione. Come in una rivisitazione de I viaggi di Gulliver, l’artista mostra se stesso in versione ingigantita, o lillipuziana con la stessa disinvoltura con la quale fa nascere i propri personaggi, inseriti tra le quinte di un teatro immaginifico. Tuttavia, in questi dipinti di recente produzione, possiamo scorgere, rispetto al passato, un rafforzato, voluto e stridente cromatico accordo. Tra i bruni e gli ocra compaiono rossi e verdi accesi, blu elettrici che ci rapiscono dal sogno per accompagnarci in una realtà aumentata. Non quella creata dai pixel di una tecnologia che continua a sfidare se stessa alla ricerca di una imitazione del reale il più possibile convincente, ma quella che amplifica il sogno fino a dimostrane l’esistenza concreta.

Stefano Di Stasio, Rituale, 2018. Olio su tela, 95 x 70 cm. courtesy Galleria Alessandro Bagnai, Foiano della Chiana (Ar)

Che cosa è il futuro se non una reiterata proiezione del presente all’infinito? Il futuro è un desiderio che diventa subito storia, così come la musica, tanto cara a Di Stasio, viene evocata dall’amico pianoforte, sormontato dall’amico di sempre, il lupo. Così, natura e spirito si fondono in un’armonia apparente, come se fosse possibile un incontro alla pari. Certamente un ideale al quale l’artista si ispira, non per imitazione, bensì per la proposta di una nuova possibilità di riscatto della pittura. L’arte è una “forza” senza tempo, pare dirci Di Stasio, che si serve della pittura, una bella pittura che non fa sconti alla improvvisazione e che racconta una vitale esperienza di ricerca

Stefano Di Stasio, Periferia dei gesti, 2017. Olio su tela, 200 x 300 cm. courtesy Galleria Alessandro Bagnai, Foiano della Chiana (Ar)

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Stefano Di Stasio, Periferia dei gesti, 2017. Olio su tela, 60 x 80 cm. courtesy Galleria Alessandro Bagnai, Foiano della Chiana (Ar)

che anche oggi appare totalmente libera dalle influenze e dalle mode momentanee. Essa sa guardare oltre il limite della tela e diventa fiaba, racconto, sogno, idealità. Undici opere sono realizzate con grandissima e meticolosa attenzione ai dettagli, in un contrappunto di immagini e colori che dà origine al concerto “silenzioso” e a lungo meditato. Mi torna alla mente uno suo straordinario autoritratto del 1977 nel quale l’artista, vestito di nero come nella migliore tradizione rinascimentale internazionale, stringe nella mano sinistra una sorta di arcobaleno virtuale che appare anche su una parete della galleria nella mostra a Roma dal titolo Illuminazioni. Forse

già in quest’opera era possibile cogliere la sintesi tra narrazione, figurazione ed evocazione. Di Stasio si conferma un moderno viandante senza pregiudizi e senza certezze granitiche, profondamente convinto della onestà intellettuale che la pittura trasmette, a volte con particolare forza, una forza capace di arrivare al centro del problema che da molto tempo nell’arte si dibatte. Pittura sì, pittura no, buona pittura, cattiva pittura, la dialettica ha alimentato in passato l’intero ambiente dell’arte italiana, mentre oltre confine il ventaglio delle possibilità rimaneva ampio. Vittoria Coen

Stefano Di Stasio, La stanza di Diana, 2018. Olio su tela, 100 x 145 cm. courtesy Galleria Alessandro Bagnai, Foiano della Chiana (Ar)

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Conrad Shawcross, Formation II, 2015 / Foresta Urbana, Polo Museale, Palermo 2018

Polo Museale, Palermo

Foresta Urbana

I

l Polo Museale regionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Palermo ospita, nelle prestigiose sedi di Piazza Bologni e di Palazzo Belmonte Riso, Foresta Urbana a cura di Paolo Falcone, che così descrive il progetto: «La foresta vista come illusione. L’entrata in un mondo magico quale metafora alle sfide poste dall’omologazione, mette in mostra le connessioni artificiali, le diversità delle identità individuali e culturali atte a produrre un dialogo visivo e poetico per la realizzazione di un progetto artistico fra esperimento scientifico, poetica della relazione e romanticismo “naturale”». Il curatore invita alcuni

Pascale Marthine Tayiu - Foresta Urbana, Polo Museale, Palermo 2018.

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dei principali protagonisti della scena artistica internazionale ad esporre grandi opere in situ che declinino per l’appunto il concetto di foresta urbana. Una mappa collettiva genera, nella sua duplice polarità di natura e cultura, uno straniante cortocircuito fatto di rivelazioni sorprendenti, mescolanze animiche, concordanze reali, deviazioni inattese. Una selva di volumi, di media, di colori che ben declinano il sentimento di natura, così come oggi inteso, persino nelle sue ibridazioni con l’artificio. Ci sono fioriture che ammaliano per la loro attitudine di brio e di divertissement, prodigi d’aurore che paiono trasfigurare in inaf-


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Francesco De Grandi - Foresta Urbana, Polo Museale, Palermo 2018.

Tomàs Saraceno, Aerosolar Journeys, 2018 / Foresta Urbana, Polo Museale, Palermo 2018.

Nathalie Gjurberg Hans Berg / Foresta Urbana, Polo Museale, Palermo 2018.

ferrabili strati di luce in imperituro mutare, forme archetipiche che sfidano la forza di gravità e si levano con aerea bellezza, tessuti sonori che sono musica di natura e ne restituiscono il palpito e quasi finanche la fragranza, sacrari dove la materia pittorica crepita in turgidi intrichi biomorfi rivelandone le intrinseche energie primordiali. La Direttrice del Polo Museale, Valeria Patrizia Li Vigni, dichiara: «Il Polo del Contemporaneo è fermamente convinto che la ricerca del bello non può prescindere dalle condizioni naturalistiche del luogo. Il bello si interpreta nel migliore dei modi in un rimando costante tra natura e cultura. Questo rapporto parte dalla lontana preistoria, quando l’uomo amava stilizzare nelle pareti delle grotte il mondo che lo circondava. Le prime forme di antropizzazione erano finalizzate a regolare la natura in funzione delle esigenze dell’uomo, da lì le prime stilizzazioni artistiche. Un binomio indissolubile, quello di “natura e cultura”, che oggi dobbiamo tutelare per salvaguardare un patrimonio che sempre più rischia di soffocare. La mostra è un richiamo a focalizzare la nostra attenzione, attraverso le opere di grandi artisti, sul tema della salvaguardia del patrimonio naturalistico>>. Tra i principali artisti selezionati per Foresta Urbana poiché ritenuti coerenti interpreti di natura in linguaggi e ricerche sempre perspicue ed immaginative, citiamo : Ai Weiwei, Doug Aitken, Francesco De Grandi, Nathalie Djurberg & Hans Berg, Jimmie Durham, Olafur Eliasson, Bill Fontana, Goldschmied & Chiari, Carsten Höller, Ann Veronica Janssens, Koo Jeong A, Richard Long, Ernesto Neto, Benedetto Pietromarchi, Tomás Saraceno, Astrid Seme, Conrad Shawcross, Andreas Slominski, Pascale Marthine Tayou, Luca Vitone. Il Prof. Emmanuele F. M. Emanuele, che ha fortemente voluto e sostenuto questo progetto, afferma : «Il rapporto tra uomo e natura, tra natura e cultura, è sempre stato una costante dell’arte, fin dagli albori delle prime manifestazioni espressive dell’essere umano. I primi uomini hanno rappresentato il mondo circostante in ogni modo, utilizzando le più varie forme espressive a loro disposizione, e così è sempre stato nel corso della Storia. L’arte che oggi definiamo “contemporanea” – benché personalmente io ritenga che l’arte sia un fluire incessante e continuo, che sfugge ad ogni catalogazione o settorializzazione – non fa eccezione, caricando questo indissolubile rapporto tra arte e natura di nuovi, urgenti significati: in un mondo in cui l’ambiente è sempre più maltrattato e minacciato, diviene imprescindibile assumere un nuovo impegno morale, attraverso la forza comunicativa dell’arte, che rinnovi e corrobori il rapporto indissolubile tra uomo e natura”. Allo stesso Emanuele preme evidenziare come la mostra fosse stata originariamente concepita con una diversa e maggiore dilatazione spaziale al fine di concertarsi col ductus urbano della Palermo vecchia e nello specifico del caratteristico quartiere del Cassaro. Si è dovuto pertanto rinunciare a molte installazioni esterne, che nel progetto primo avrebbero dovuto costellare tutta Via Vittorio Emanuele fino al mare. Ciò nondimeno Foresta Urbana nella sua definitiva strutturazione in piazza Bologni e Palazzo Belmonte Riso trova un compromesso riuscito e s’invera in un percorso di certo meno copioso ma non di minor pregevolezza. Serena Ribaudo DICEMBRE 2018 / GENNAIO 2019 | 270 segno - 61


Galleria Giovanni Bonelli, Milano

Reazione a catena Differenti vie della pittura

Q

uando in fisica o in chimica un centro attivo induce la trasformazione delle molecole del componente iniziale, molte sono le reazioni chimiche che ne risultano, una di esse è la ‘reazione a catena’. Il fenomeno viene per la prima volta applicato, dal curatore Gino Pisapia nella ricerca degli artisti da invitare a una mostra. La reazione non è estranea al mondo dell’arte, ad esempio, nell’immaginario di Pisapia, è ben presente il video Der lauf der dinge di Fischli & Weiss in cui gli artisti programmano una serie di operazioni che si attivano, una di seguito l’altra, per mezzo dell’effetto domino. L’idea nasce dalla necessità di presentare una panoramica sull’attuale stato della pittura in Italia, esulando dalla prassi per la quale il curatore seleziona gli artisti. La volontà di sorprendere il pubblico con un diversificato gruppo di interpreti, porta Pisapia a generare un algoritmo che segue una progressione geometrica. Sostituendo gli elementi con i nomi degli artisti avviene la prima reazione: a Roma nella Galleria 1/9unosunove. Per restituire l’idea della pittura italiana attraverso opere diverse ma legate dalle relazioni tra gli artisti, Pisapia dà avvio all’esperimento invitando Valentina D’Amaro, che a sua volta invita Angelo Mosca e Lorenza Boisi. Invita anche Riccardo Guarnieri che convoca Claudio Olivieri e Mauro Cappelletti. Seguendo lo schema, Angelo Mosca invita Michele Tocca cui il curatore contrappone Francesco Lauretta, mentre Lorenza Boisi opta per Jacopo Casadei ed il curatore inserisce Luigi Presicce. La reazione continua con l’invito di Claudio Oliveri per Roberto Casiraghi cui Pisapia associa Eugenia Vanni, mentre Mauro Cappelletti sceglie Andrea Fontanari e il curatore, ancora, Gabriele Arruzzo. L’algoritmo si sviluppa in direzione Mi-

lano con la seconda mostra: Reazione a Catena. Differenti vie della pittura #2 nella Galleria Giovanni Bonelli. Qui la combinazione numerica suggerisce sedici artisti, di cui quattro su invito diretto di Pisapia. La scelta cade su Alberto di Fabio, pittore che restituisce l’idea di cosmo, di atomi e sinapsi, poi su Giuseppe Gonella che scompone le sue figurazioni destabilizzandoci, su Tiziano Martini interessato al processo creativo piuttosto che al soggetto o alla narrazione e infine invita Davide Rivalta, uno scultore che dipinge scolpendo con grandi masse di colore. Ogni artista si fa interprete di una propria poetica espressa attraverso l’opera, questo il criterio di selezione del curatore. Oltre il numero di artisti invitati direttamente, l’algoritmo suggerisce agli artisti della prima edizione di proporre altri pittori. Così Andrea Fontanari invita Veronica De Giovanelli, Gabriele Arruzzo convoca Lorenzo di Lucido e Andrea Grotto; poi ancora Michele Tocca invita Marta Mancini e Francesco Lauretta chiama Marco Pace e Pietro Manzo. Roberto Casiraghi decide per Iacopo Pesenti, mentre Luca Macauda e Giuliano Vanni sono invitati da Eugenia Vanni. Successivamente, Luigi Presicce invita Andrea Salvino e Vera Portantino, e Jacopo Casadei Marco Salvetti. Il risultato è del tutto inaspettato e non

privo d’imprevisti e complicazioni. Ogni pittore seleziona personalmente l’opera, dunque il curatore ha il compito di creare armonia tra differenti formati e stili all’interno della galleria. Narrazioni figurative e astrazioni geometriche, grande formato e piccolo formato, per la prima volta insieme nello stesso spazio con difficoltose possibilità di comunicazione. Difatti, ancora più importante delle opere presenti, sono le connessioni e i legami che hanno portato gli artisti a selezionare il pittore da invitare, pertanto, fanno parte del progetto una serie di interviste tra curatore ed artisti. Pisapia pone due domande ai pittori: “C’è un’affermazione molto interessante di Jackson Pollock rispetto al fare pittura che recita, «Dipingere è azione di auto-scoperta. Ogni buon artista dipinge ciò che è». Qual è la tua posizione rispetto alla pittura e in che misura è cambiata nel tempo?” è la prima, mentre la seconda è volta a conoscere le motivazioni che hanno portato l’artista, da lui o dallo schema selezionato, a scegliere il secondo. L’algoritmo è strutturato in modo tale da gestire un numero infinito di mostre, un esperimento che certamente definirà lo stato attuale della pittura in Italia, ma che ancora di più chiarirà i legami presenti nella comunità artistica. Adesso non ci resta che aspettare di conoscere la prossima tappa di Reazione a Catena. Differenti vie della pittura. Alice Ioffrida

Vedute generali degli allestimenti (installation view) Reazione a catena. Differenti vie della pittura #2 - Galleria Bonelli, Milano 2018

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attivitĂ espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Vedute generali degli allestimenti (installation view) Reazione a catena. Differenti vie della pittura #2 - Galleria Bonelli, Milano 2018

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Chiesa dell’Annunziata, Teano

Incontri

Q

uesta mostra vede protagonisti un raro gruppo di artisti, giovani e maestri, le cui opere narrano nel loro dialogare, oltre che dei singoli linguaggi dell’arte, di una piccola magia tutta contemporanea. Paolo Bini, Emilio Isgrò, Luigi Mainolfi, Matteo Montani, Nunzio, Vincenzo Rusciano, Alessandro Sciaraffa, Antonio Trimani, Ivano Troisi, cui si aggiunge l’opera di Marco Gastini, quale omaggio al grande artista e amico recentemente scomparso, sono gli interpreti di Incontri, artefici in prima persona di questa esposizione da loro stessi curata, organizzata e allestita secondo un principio che si fonda innanzi tutto sul fatto di essersi scelti per stare insieme, confrontarsi e agire in uno spazio dal forte impatto scenografico, di grande ed eterea bellezza e per questo, forse, più difficile e stimolante. Una breve battuta sulla parola Incontri è quindi doverosa. Essa porta con sé l’idea di casualità, d’imprevisto, d’impensato ma anche d’inevitabile se vogliamo, che può essere gradito come no. All’incontro è sotteso il senso di una conoscenza che può determinare il destino personale di una persona ma anche quello politico di uno Stato o comunità. Non sfuggirà a nessuno, infatti, che proprio Teano è il luogo dove, il 26 ottobre 1860 s’incontrarono Vittorio Emanuele II e Garibaldi (sicché la data inaugurale della mostra, 26 ottobre 2018, scelta per l’occasione assume un carattere tutto celebrativo) alla ricerca di una base d’intesa. L’incontro può essere anche programmato, portando su di sé un forte senso di attesa ma ciò che avverrà dopo non può essere in alcun modo stabilito con precisione. In questo risiede la magia inscenata dagli artisti, nell’avere scelto un luogo e una parola che cela un senso di mistero, un segreto o enigma che l’arte, in generale, porta con sé sempre, nel suo farsi e nel suo dispiegarsi nello spazio e nel tempo e nel connettere, come in questo caso, la Storia al presente. Motore iniziale dell’intera operazione è Matteo Montani, la cui opera, cattura immediatamente lo sguardo solcando l’ingesso dell’Annunziata. Si tratta di una serie di grandi carte dalle dimensioni monumentali che, collocate nella zona absidale della chiesa, funge quasi da quinta scenografica dell’intero spazio, da immaginare nel suo insieme a guisa di un vero e proprio teatro. Sono carte abrasive, peculiari nella ricerca dell’artista, la cui dominante azzurro-blu ricorda l’infinito spazio del cielo. Un cielo che s’incontra con la terra e genera un moto di grande poesia e spiritualità. Nel percorrere la grande navata, tuttavia, troviamo subito all’ingesso il seme di arancio ingrandito migliaia di volte di Emilio Isgrò, metafora della ricerca di fertile terreno che, per diventare pianta o frutto, ha bisogno di un congruo nutrimento. È una scultura, quella di Isgrò, cui fa da sponda quella di Luigi Mainolfi che, intitolata Isola, raffigura concettualmente, nella riduzione degli elementi scultorei, un sole innalzato oltre e stesso. Isola non perché sola e

Matteo Montani, Incontri, Chiesa dell’Annunziata, Teano © Danilo Donzelli Photography

Emilio Isgrò,© Danilo Donzelli Photography

Incontri, Teano © Danilo Donzelli Photography

isolata ma piuttosto oasi o rifugio dove il sole altro non è che un simbolo di vita e splendore. Sul fronte di un’iconografia visiva prodotta dall’uomo (parliamo dell’arte) si muove invece Vincenzo Rusciano la cui opera suggerisce una sorta di spostamento dell’ideale classico, dunque di un’estetica interiorizzata, ma che desidera essere riorganizzata, riportando al centro della contemporaneità una riflessione sul senso generale e culturale delle forme. Sempre lungo la navata, abbiamo poi, L’ombra del mare di Alessandro Sciaraffa, un’opera di sound art che si aziona grazie a un’infiorescenza di sensori, che riproduce propriamente il

fruscio delle onde, nell’interazione con lo spettatore. Qui natura e tecnica, poesia e arte, tecnologia e ambiente si combinano mirabilmente evidenziando il principio del ‘processo’ aldilà e prima della forma, ma anche file rougedell’intera mostra come si può intuire dalle opere esposte. Sicché, spostando lo sguardo sulle nicchie della chiesa, luoghi predisposti nel passato ad accogliere pale d’altare, nel recuperare così tutta una spiritualità presente ma impalpabile, s’incontrano le altre opere. Incontro paesaggi è quella di Paolo Bini che, attraverso la scansione orizzontale di piani a strisce, dunque secondo un processo attuale e tecnologico se vogliamo,

Incontri, Chiesa dell’Annunziata, Teano (installation view) © Danilo Donzelli Photography

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Matteo Montani, Paolo Bini, Luigi Mainolfi -Incontri, Chiesa dell’Annunziata, Teano (installation view) © Danilo Donzelli Photography

origina uno spazio mentale paesaggistico che si riconnette al mediterraneo, oggi al centro di un intenso dibattito politi-

co, quello sull’immigrazione, scenario di incontri casuali e amari al contempo, di destini che si incrociano e che non pos-

Marco Gastini, Luigi Mainolfi, Matteo Montani -Incontri, Chiesa dell’Annunziata, Teano (installation view) © Danilo Donzelli Photography ® Danilo Donzelli Photography

sono essere determinati in alcun modo. Si parla di spostamento (persone e merci) dunque di movimento. Un movimento che rimpalla nell’opera di Ivano Troisi dove è la natura, tuttavia, la protagonista assoluta, a sua volta indissolubilmente legata alla storia dell’uomo. Qui vediamo degli alberi che si manifestano con grande delicatezza, fra gli spazi pieni e vuoti delle sue carte, animati dal delicato passaggio dello spettatore. La natura è anche la matrice propulsiva dell’opera di Nunzio, un legno combusto che rappresenta, oltre che la sua cifra distintiva, anche l’incontro con l’elemento fuoco, capace con la propria forza di ridefinire il senso generale del valore plastico. E ancora, la natura torna sorprendendoci nell’opera di Antonio Trimani. Chôra, titolo del suo lavoro, in effetti ci meraviglia perché la potenza del paesaggio, quella malia, quel senso di infinito, di contemplazione che spesso ci lascia attoniti di fronte alla grandezza della natura, si manifesta nel più tecnologico dei mezzi: il video. Tuttavia Trimani riesce nel gioco dell’ipnosi, grazie a questa combinazione fra tecnica e poesia a rivelare l’inesistente scarto fra questi due poli, dunque anche una serie di nuovi valori che accompagnano la nostra epoca, da abbracciare completamente. Chiude la mostra l’opera di Marco Gastini , un vero e proprio omaggio ad un grande maestro, testimonianza viva e concreta di come, in ultima analisi, l’incontro fra spettatore e opera sia un incontro che può modificare miliardi di punti di vista. L’esposizione, volutamente senza curatore è stata presentata da Valentino Catricalà che, in dialogo con gli artisti e gli organizzatori (Incontri è patrocinata dal Comune di Teano e realizzata con il contributo e la collaborazione della Galleria Nicola Pedana Arte Contemporanea di Caserta e Carlo Cinque – Le Stazioni Contemporary Art di Milano) ha suggerito con il proprio supporto una riflessione sul presente e il futuro dell’uomo. Maria Letizia Paiato

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Fondazione Giuliani Villa Rendano, Cosenza

Salvatore ANELLI

È

un fatto singolarissimo che, dell›essere umano, rimangano gli elementi opposti: carcassa e scheletro, in cui e di cui si appagò quaggiù lo spirito, e poi però gli effetti ideali, che nelle parole e negli atti scaturirono da lui (Johann Wolfgang Goethe). Spirito e materia. Libri e teschi, avvolti da parole incise sulla pietra viva del tempo andato, ci suggerisce che nulla si trasforma, nulla muta, nella poesia visiva. Perché tempo e spazio non sempre reggono da soli il peso dell’arte, il suo principio archetipico. Da tempo ormai, la ricerca di Salvatore Anelli indaga questo inesplicabile dilemma. Pittore, scultore, videoartista, con all’attivo svariate partecipazioni alla Biennale di Venezia, Anelli si interessa principalmente agli scambi interlinguistici e alle contaminazioni culturali. In particolare, la sua ricerca più recente nasce dall’accostamento segno/parola, sperimentato in un libro d’artista realizzato a quattro mani col poeta Franco Dionesalvi, Le parole valgono, e in un altro confezionato dal solo Anelli rileggendo Le città invisibili di Italo Calvino, da cui ha tratto un palinsesto visivo di “memorie parallele” nel volume Le città valgono. I Teschi valgono – una mostra antologica, curata abilmente da Andrea Guastella, attraverso cui si ripercorrono gli itinerari di sperimentazione dei suoi ultimi vent’anni – è il naturale prosieguo di queste esperienze, a costituire una fondamentale trilogia, edita da Rubettino e corredata da testi e poesie di diversi protagonisti della critica e della letteratura contemporanea: da Roberto Gramiccia a Ghislain Mayaud, da Claudio Damiani a Franco Dionesalvi, da Gerardo Pedicini a Daniele Pieroni, da Paolo Ruffilli a Evelina Schatz. La mostra di Palazzo Zacco a Ragusa, organizzata dal Comune di Ragusa e dall’Associazione Culturale Aurea Phoenix, riflette compiutamente, con oculata selezione del curatore, il lavoro infati-

cabile e la ricerca poietica che l’artista ha condensato nelle sue creazioni. Altro tema ineludibile è il rapporto tra materia e memoria. La materia organica o inorganica assemblata dal caso o dall’uomo, riflette sempre una memoria collettiva, junghiana, di cui gli artisti spesso detengono i segreti da rivelare. Così che segni tangibili della realtà quotidiana, espressi sotto forma di frammenti visivi diventano le tessere di un mosaico complesso, di un mondo reso invisibile dal caos della natura, dal disordine mentale che è nell’uomo che vive la città, e che riemergono foucaultianamente solo all’occhio riguardante di “pochi felici conoscitori” della materia. Lungi dall’essere un sistema ordinato, la giungla urbana entro cui vive l’animale uomo, consuma e inghiotte tutto ciò che disordinatamente risuona nei clamori della città, per ritrovarsi, per dirla alla Montale, in una sorta di solitudine collettiva, dove l’uomo solo si trova accanto ad altri uomini, accanto ai suoi vicini, come isola di un’arcicipelago frammentario, dispersivo: isola tra isole. In questo senso, la città diviene teatro di solitudine, cumulo di crani senza nome, egemonia di una lingua morta, inespressa. Soltanto l’artista, in uno scenario tale, è in grado di decodificare il linguaggio dei segni lasciati dall’uomo. Ne comprende il dolore, le trame irrisolte, i nodi celati dal tempo, per riconnettere i punti di un

rebus spazio-temporale, e rivelare il senso ultimo delle parole, dei gesti, dell’atto umano divenuto forma. Come soleva dire Alberto Savinio nel suo “Milano ascolto il tuo cuore” (1942) - un libro “per niente muto” ove tentò di tracciare quanto fosse rimasto dell’essenza ultima di una città nel cuore della guerra - bisogna “fare caso al caso”, sapendo interpretare i segni, il solco metafisico che permane dopo la tempesta. Quanti artisti sono riusciti a decodificare certi frammenti, certe pieghe di un luogo, quella che Sciascia chiamava “la coscienza dei luoghi”. Il segno, infine. Scritto o dipinto, o lacerato si fa inevitabilmente parola, verbo. Dall’individuo, dal suo primo esprimersi, passiamo ai rumori della città, alla collettiva torre di babele in cui flotte di gambe attraversano la luce creando ombre roventi e suggestivi bagliori increspati nel cemento. Inesorabile, il discorso non può che chiudersi – o soffermarsi momentaneamente – nelle parole impresse su teschi atavici, “martoriati” da implacabili scorie del tempo, con cui si chiude la trilogia sulla vita. Parole (l’alfabetizzazione), città (la dispersione delle parole), e teschi (il volgere verso una fine silente), uniti da uno stile shakespearianamente suadente, si fondono in una ricerca ricca di spunti per chi intende ancora riflettere sugli archetipi della materia umana. Giuseppe Cipolla

Salvatore Anelli Zoogenesi: l’origine della vita Urli di preda, Diversa/mente 365+1 Veduta generale della mostra, Fondazione Rendano, Villa Giuliani, Cosenza

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Intersezioni digitali, veduta generale della mostra, Chiesa storica di San Martino di Lupari, Padova

Chiesa Storica di San Martino di Lupari, Padova

Intersezioni Digitali

U

n progetto innovativo a San Martino di Lupari, volto alla riqualificazione della città, ha aperto di nuovo le porte della Chiesa Storica al fine di organizzare un ciclo di mostre all’insegna delle contaminazioni artistiche nell’era digitale. Forse non molti sanno che dal 1971 al 1994, questo spazio era utilizzato da alcuni degli esponenti dell’arte concreta, programmata, ottico-cinetica e neo-costruttivista, durante le Biennali d’Arte Contemporanea. Per mantenere quindi un legame col passato, l’associazione Cartavetrata ha ideato e organizzato una serie di appuntamenti raggruppati sotto il nome di “Alta Percezione”. Il primo di questi, curato da Ennio Bianco, ha portato all’interno dell’edificio settecentesco alcune opere di matrice digitale, affiancate da esperienze di altra natura, che comprendevano la danza, la musica e la performance 3D. “Solo for Bio & Digital Form” è una performance che ha avuto luogo sul presbiterio della chiesa ed è stata ripetuta per tre volte durante il periodo della mostra. Essa ha segnato l’apice del percorso, in quanto balletto interattivo, dove si è potuto assistere ad una combinazione e fusione di danza, musica e visual art, facendo dialogare la coreografia di Lucie Guadellyon, interpretata da Rachele Dileone, le note elettroniche di Fausto Crocetta e l’opera di Vincenzo Marsiglia proiettata su tutto l’ambiente semicircolare, ravvivandolo, così, con una estasi di colori e figure geometriche. Oltre a questo appuntamento, alcune giornate sono state segnate da conferenze e altre proiezioni 3D dell’artista Andrea Gregori. Gli artisti esposti dettano il carattere internazionale dell’esposizione, accomunati dall’interesse e la curiosità che li ha spinti a far convergere il mondo dell’arte con l’ambito scientifico e delle nuove tecnologie. A tal fine, le tematiche che sottostanno a ciò che lo spettatore si trova di fronte, riguardano la biologia, la neurobiologia, la robotica, le scienze fisiche e l’intelligenza artificiale. “Dreams of mice” (2015) di boredomresearch rappresenta l’attività che il cervello compie nell’oscura fase del sonno, basandosi sullo studio di topi sognanti; “Folded geometry of the

universe” (2016) di Matthew Gardiner vuole rappresentare la continua espansione dell’universo attraverso una scultura di filo di nylon piegata come una conchiglia con degli aculei, all’interno dei quali ognuno di noi può riconoscersi in quanto parte di un tutto; “Symmetry” (2016) di Kevin McGloughlin (visual) e Max Cooper (musica) vede la forma circolare come modulo per poter rappresentare graficamente le leggi di conservazione; “D3D4LU5” (2016) di Alessandro Capozzo indaga le potenzialità artistiche dei software, mettendo in relazione il mito di Dedalo, rappresentato attraverso delle linee che sembra stiano creando una forma cubica su sfondo nero e nel mentre scandiscono il ritmo di una melodia, con la frase, emblematica in queste circostanze, “A Software makes no mistakes. Its errors are volitional and are the portals of discovery” di Stephen Dedalus, personaggio di “Mrs. Dalloway” di Virginia Woolf. Questi sono solo alcuni esempi di ciò che il collettivo propone, ma le parole non sono efficaci nella percezione immaginaria della mostra nella mente di chi legge questo articolo, in quanto, l’ingrediente essenziale per la fruizione di queste opere riguarda l’apparato sensoriale del visitatore, chiamato ad interagire con ciò che vede e sente. Il movimento del corpo del fruitore funge da motore che aziona e dà vita ad alcune installazioni video esposte, associate

talvolta ad un sottofondo musicale elettronico. Esplicative in tal senso sono le opere di Vincenzo Marsiglia “Star Interactive” (2008), “Wallpaper Op” (2016) e “Minimal Op App” (2016). Queste opere digitali si animano con la presenza di un corpo in movimento, attraverso una tecnologia pensata appositamente, che permette una esperienza sensoriale unica, combinando una matrice visiva stimolata da tessere di colori forti o in bianco e nero, la sfera sonora attivata anch’essa dai movimenti compiuti da chi interagisce con l’opera, e, infine, il movimento in sé. Senza lo spettatore lo scopo dell’esposizione verrebbe a mancare. Questa considerazione, inoltre, permette di constatare l’ampio range d’età al quale è indirizzata la mostra, dove anche i bambini possono entrare in contatto con l’arte, divertendosi. Il rischio, però, sta nel fraintendere l’esposizione d’arte con un laboratorio volto al mero intrattenimento. La riflessione che alcuni potrebbero fare, infatti, riguarda la legittimità nel dichiarare arte queste nuove sperimentazioni che utilizzano strumenti artificiali digitalizzati – software, computer – per dare vita alle proprie idee. Facendo parte dell’Era Digitale, il dibattito attuale verrà sentenziato dai posteri che avranno il compito di etichettare l’arte del nostro presente; per adesso, tutto è possibile. Cecilia Paccagnella

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Spazio Matta Museo delle Genti d’Abruzzo, Pescara

Nel Visibile e Oltre Arte contemporanea nel paesaggio d’Abruzzo

uasi tutto il paesaggio da noi conosciuto come naturale è un paesaggio Q plasmato, per così dire, dall’uomo: è na-

tura cui la cultura ha impresso le proprie forme, senza però distruggerla in quanto natura; e anzi modellandola per ragioni che, in prima istanza, non erano estetiche, ma in sé implicavano quella che possiamo chiamare una coscienza estetica concomitante; e finivano con l’esaltare, mettendola in evidenza, la vocazione formale [...] di cui la natura, in quanto materia, volta per volta si rivelava dotata». In queste poche frasi di Rosario Assunto, estrapolate dal noto volume Il paesaggio e l’estetica del 1973, dove il filosofo affronta, per la prima volta in Italia, il problema del paesaggio sotto il profilo del suo valore estetico e percettivo, si riconosce uno dei nodi principali sottesi all’evento Arte Contemporanea nel Paesaggio D’Abruzzo attualmente in corso nella città di Pescara. Promosso e finanziato da Fondazione Aria e realizzato in collaborazione con l’Associazione Arte-Natura, il programma di mostre ed eventi curato da Valentina Valentini, si compone di due differenti spaccati espositivi, tuttavia da intendersi come un unico corpo, dove le singole parole del titolo ne rappresentano ciascuna un’estensione. Presso Spazio Matta incontriamo Esplorazioni, ambiente per elementi naturali, suono e immagini in movimento, ossia la straordinaria installazione interattiva del collettivo Studio Azzurro in dialogo con le opere dell’artista Abruzzese recentemente scomparso Sebastiano Antonio De Laurentiis. La cui storia è evocata e continua anche presso il Museo delle Genti D’Abruzzo dove, attraverso il percorso espositivo Documentalia – percorsi, documenti, tracce, testimonianze del progetto Arte e Natura a cura di Stefano Scipioni di Zucreativelab, è testimoniato il lavoro di De Laurentiis, dedito a interventi site specific, condotto dal 1996 al 2006 mentre era alla guida dell’Associazione Arte Natura, cui fa da sfondo la ricostruzione delle omonime Biennali d’arte tra il

fiume Sangro e l’Aventino realizzate fino al 2012. Un percorso che infine si chiude con una selezione di opere di Lucilla Candeloro, la cui ricerca, sin dagli esordi, è interessata all’esplorazione della natura, in particolare della sua stessa terra d’origine, messa in risalto attraverso una pittura dove luce e materia riescono a combinarsi in un silenzioso poetico. ual è esattamente il valore aggiunto e l’importanza di un progetto come Arte QContemporanea nel Paesaggio D’Abruzzo?

innanzi tutto per la Regione Abruzzo ma non solo ovviamente? E in quali termini è affrontato il tema del paesaggio? In parte, una prima traccia interpretativa dell’intera operazione è suggerita nella citazione di Rosario. Traccia, tuttavia, che si pone nel solco delle stesse idee di Sebastiano Antonio De Laurentiis, fino a poco prima della sua improvvisa scomparsa, impegnato con l’amico Alessandro Di Loreto, Presidente della Fondazione Aria, alla messa a sistema di un progetto finalizzato alla valorizzazione degli interventi “artistici” realizzati in natura e in Abruzzo che, non solo ripercorresse le tappe essenziali delle passate Biennali, ma rappresentasse un volano per una nuova e originale esperienza del e con il territorio. Un impegno, quello di De Laurentiis, colmo di attenzione e cura per la collettività e certamente scevro da qualsiasi interesse personale, tanto è vero che, da personaggio schivo e riservato qual era, per tutta la vita ha praticato in totale solitudine la propria arte fuori da qualsiasi circuito commerciale, tanto refrattario all’idea di esposizione al punto di rendere la propria produzione quasi un mistero per l’intera comunità dell’arte. È proprio in questo arcano che la scoperta della sua opera si rivela ancora più straordinaria, così la potenza del suo messaggio, laddove la natura stessa è identità estetica di un luogo e non solo e banalmente spazio ambientale e geografico. Per De Laurentiis quindi il paesaggio è natura e viceversa,

Studio Azzurro, Esplorazioni tra arte e natura, Spazio Matta, Pescara 2018

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Studio Azzurro, Esplorazioni tra arte e natura, Spazio Matta, Pescara 2018

ed è un binomio circolare all’interno del quale gravita la civiltà che si rispecchia in se stessa con tutta la sua storicità. In tal senso, sovvertendo implicitamente l’idea di rappresentazione espressa dalle diverse teorie pittoriche sul paesaggio, e depauperata la soggettività dello sguardo dell’osservatore, insita alle categorie di “panorama” e “bella veduta”, De Laurentiis con le sue opere, difficilmente inquadrabili nelle tradizionali categorie di pittura e scultura, sollecita l’idea di impermanenza sottesa all’esistenza. Qualsiasi parola a raccontare l’arte di questa straordinario artista, appare a questo punto superflua, ma restano particolarmente toccanti quelle da lui stesso pronunciate in una conversazione con Valentina Valentini dello scorso novembre 2017, fermate in un video curato da Domenico Polidoro e Stefano Scipioni. È intenso sentirlo descrivere il fiume Sangro e come gli abitanti del luogo usavano all’epoca segnare gli alberi tracimati dopo una piena per identificarne la proprietà. È colmo di pathos il suo sguardo mentre accarezza un tronco dissotterrato e affermare, con disarmante semplicità, il desiderio di ricollocarlo in un posto per farlo “riposare”. E sono taglienti le parole di Valentina Valentini quando dichiara che: “il rapporto fra Arte e Natura non è pacifico perché la natura è più forte dell’arte”, declinando


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

poi il proprio discorso verso l’inevitabile corruzione dell’opera quando collocata in natura. Preservazione e cura dell’opera per una conservazione? O ineluttabile trasformazione di essa? Sono le domande di Valentini a De Laurentiis, le cui risposte si riassumono nel solo lemma pronunciato dall’artista: “rispetto”. Rispetto dell’uomo, innanzi tutto, verso l’ambiente, soprattutto quando è questo ad accogliere una forma non da esso generata ma attivatrice di nuovi valori legati alla concezione del paesaggio stesso, come simbolo culturale e storico. ell’innato dinamismo di questo territorio, arricchito di straordinari interventi N artistici, parliamo delle opere di: Marisa

Albanese, Massimo Barzagli, Tamara Grcic, Nicola Carrino, Giuliano Giuliani, Nunzio, Alfredo Pirri, Costas Varotsos e dello stesso Sebastiano De Laurentiis, per le quali egli immaginava un vero e proprio Museo all’Aperto, s’inserisce e si aggiunge l’installazione interattiva dedicata al progetto Arte-Natura di Studio Azzurro, ideata e diretta da Fabio Cirifino e Laura Marcolini. Il collettivo, considerato dopo oltre trentacinque anni di attività, pioniere della video-arte nel nostro paese, nella scoperta dell’opera di De Laurentiis, delle sue idee e del suo impegno per

Arte-Natura, ha realizzato concretamente “quell’opera artistica sulle opere d’arte”, così come auspicavano insieme l’artista e l’amico Di Loreto. Lavorando, com’è prassi nella loro ricerca, sulle conseguenze che la tecnologia produce sulle persone, hanno proposto un’installazione interattiva straordinariamente coinvolgente ed emotiva dove, quella tendenza al vivere esperienze individuali, si trasforma spontaneamente in una situazione collettiva. Succede allora che: “piccole proiezioni, uno su un frammento di roccia e uno raccolto dalle argille scagliose, che il visitatore è invitato a toccare con la propria mano, originano il racconto video su una grande proiezione frontale”. Succede allora che ci si ritrova magicamente immersi in quel flusso senza soluzione di continuità fra realtà e virtualità, dove il senso dell’interattività diventa l’inatteso legame fra qualcosa di conosciuto e sconosciuto, come quello fra Studio Azzurro e Sebastiano De Laurentiis che inaspettatamente svela un’affinità di pensiero. Diventa, infine, motivo per una riscoperta o di una totale curiosità, invogliando lo spettatore a esplorare luoghi, territori, tracce e segni dell’esistente. In questi inediti itinerari, che si configurano come percorsi aperti tutt’altro che definiti, Studio Azzurro per raggiungere i siti in cui gli artisti di Arte-

Lucilla Candeloro, Scratch n.22, 2018 (olio su carta, cm. 25,5x35,5)

Galleria Spaziosei, Monopoli (Ba)

Lucia ROTUNDO Germinazioni

mo la leggerezza, amo la trasparenza, ogni mio lavoro vola in “A profondità ed è intriso della mia stessa

identità. Segni e simboli s’intrecciano e si stratificano nella storia, nell’antropologia e nella natura… Cerco il filo della continuità tra l’affascinante esplorazione della natura e la forza vitale che muove il cosmo e gli individui. L’apparente contrapposizione tra spirito e materia, le infinite possibilità dell’esistenza umana”. Le parole di Lucia Rotundo costituiscono un utile chiave d’accesso alla sua ricerca, di cui offre un breve ma significativo saggio la mostra “Germinazioni” nella Galleria Spaziosei di Monopoli, curata da Maria Vinella con progetto espositivo di Mina Tarantino. I piccoli riquadri alle pareti, fabrili sintesi di pittura e scultura, ci immergono infatti in una dimensione preziosa, rarefatta, silenziosa, quasi metafisica, affidata al rigore della geometria e all’assolutezza del bianco e della foglia oro. Superfici in legno, talvolta con inserti in tela, accolgono elementi organici e forme geometriche: fessure, sfere, quadratini e rettangoli ma anche foglie in filigrana e fiori a ricamo. Elementi di un sapere archetipo o prelievi di natura definiscono così una dimensione

Studio Azzurro, Esplorazioni tra arte e natura, Spazio Matta, Pescara 2018

Natura hanno depositato le loro opere, ha attraversato, come loro stessi hanno spiegato: “scenari di grande respiro e rari ecosistemi – scoprendo – località inattese” che li hanno condotti ad ampliare e dare vita alla stessa idea di De Laurentiis di Museo all’Aperto. “Valorizzare significa innanzi tutto promuovere la conoscenza”. È Valentina Valentini ad affermarlo rispondendo con questo progetto e nel dialogo con gli artisti coinvolti, a un “oltre” celato nel “visibile”, contemplato in un “patrimonio di valore artistico che, troppo spesso degradato, per ignoranza il più delle volte è completamente sconosciuto”. Maria Letizia Paiato

Sebastiano Antonio De Laurentiis, Giardino degli alberi morti (particolare) foto Studio Azzurro

intima e insieme cosmica, singolare e universale o viceversa. Indicativi sono i titoli scelti dall’ artista calabrese (è nata a Catanzaro nel ‘74) per queste opere, “La Grande Madre”, “Memento”, “Ricordo”, “Infinito”, “Maternità”, “Essenza”… Sta proprio qui il senso specifico di questi meditativi “microcosmi”: in una particolare intersezione tra memoria storica, calata nella cultura mediterranea

che appartiene alla sua terra, e un’esperienza individuale declinata al femminile. Per cui “l’opera, entità complessa, diviene una zona franca dove abitano eterogenei e molteplici frammenti, una soglia vuota che consente il libero scambio tra luogo fragile e discreto del privato e luogo razionale e rigoroso del pubblico”, come scrive la Vinella nel testo in catalogo. Antonella Marino

Lucia Rotundo, Essenza, 2015 Tela, multistrato di pioppo, acrilico, PVC, foglia oro cm 80x80x11.

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Centro Arti Visive la Pescheria, Pesaro

Thomas BRAIDA

L

o splendido spazio della Fondazione Pescheria di Pesaro ospita la mostra personale di Thomas Braida, curata da Marcello Smarrelli e accompagnata da un testo di Davide Ferri, in cui una quindicina di opere raccontano con un allestimento impeccabile gli ultimi anni della ricerca dell’artista goriziano. Una pittura che trasforma la citazione in linguaggio, dove i simboli e le tematiche tipiche della pittura antica si mescolano all’immaginario contemporaneo. Braida ripercorre la

grande tradizione della pittura europea, accostando a superfici patinate pennellate nervose e materiche, a immagini di un classicismo quasi manierista i paesaggi desolati e le “creature” del romanticismo nordico. In queste opere il mito e la storia sconfinano nella contemporaneità, e in un certo senso nell’immaginario contemporaneo della storia come in I clangori della crociata mi tromban ancora in testa, donna amata, vu siete de gran intelletto, indove, non rompere le sante sfere del 2016, dove il titolo sembra competere con il verso di un poema cavalleresco, le lance e i vessilli riecheggiano da una parte la Battaglia di San Romano di Paolo Uccello, e dall’altra l’archetipo di una battaglia di un film contemporaneo in cui ci

Thomas Braida, Non ci si commuove mai, 2015 (olio su tela, 240 x 400 cm) Courtesy the artist and Monitor Rome, Lisbon

Palazzo De Angelis, Roma

Daniel BUREN

O

maggio a Roma è il nuovo progetto di Daniel Buren appositamente concepito per Palazzo De Angelis, un magnifico edificio in stile Art Déco sito in Via delle Muratte a Roma. L’invito della società benefit Leggiero Real Estate, proprietaria dello stabile, al maestro francese – già Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 1986 – nasce dall’obiettivo di realizzare un ideale completamento della facciata cieca dello storico immobile ubicato lungo la strada che collega Via

del Corso alla Fontana di Trevi di Nicola Salvi. L’opera monumentale, che interesserà una superficie di circa 370 metri quadri, sarà conclusa entro il 2019 grazie alla supervisione scientifica di Nomas Foundation, ribadendo il consolidamento del dialogo tra città storica e arte contemporanea che negli ultimi anni sta trasformando il volto della Capitale. L’idea di onorare Roma attraverso tale intervento è dell’appassionato d’arte e del patrimonio culturale italiano nonché imprenditore e fondatore della citata azienda immobiliare, Salvatore Leggiero, distintasi per essere stata tra le prime in Italia ad aderire al progetto B-corporation impegnandosi a perseguire, oltre all’utile sociale, anche un beneficio per la co-

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si aspettano dame, draghi e cavalieri. In Tizio l’imbarazzante gigante molesto del 2017, il protagonista del mito, ritratto un attimo prima di commettere il gesto che lo renderà oggetto della vendetta degli dei, è tatuato ed indossa una mostruosa maschera africana, mentre in Uno serio che cresca i miei figli del 2018 il titolo, quasi un mantra metropolitano, gioca con una reinterpretazione del mito di Leda e il Cigno in cui Zeus si trasforma, però, in una sorta di drago di fuoco che su una riva insidia una donna con le braccia palmate. In questi dipinti il mito e la storia si sovrappongo a quell’immaginario costruito dal fantasy, dall’animazione e dal fumetto in cui passato e contemporaneità arrivano a fondersi. Dai dettagli quasi miniaturistici dei dipinti di piccole dimensioni ai grandi teleri che sembrano rimpiazzare (eventuali) antiche pale della ex-Chiesa del Suffragio il paesaggio gioca, in questi dipinti un ruolo fondamentale: da scenario naturale o skyline urbano in cui vengono ambientati i protagonisti del racconto, a straordinario soggetto della narrazione stessa come in Non ci si commuove mai del 2015, in cui Braida rivista il sublime con un’ombra sinistra che si riflette sui tronchi abbattuti mentre in lontananza divampa un incendio. Ogni dipinto è un universo compiuto in cui i colori lo stile, i simboli e la materia contribuiscono a sviluppare una storia, un racconto, esaltando quello che Ferri giustamente definisce “il potenziale narrativo” di questo artista. Stefano Verri

munità ove la società investe ed opera, giovamento che si estrinseca nel promuovere la creatività, le arti e la cultura. La scelta di affidare il lavoro all’estro di Buren appare quasi scontata in quanto da anni egli è celebrato in tutto il mondo per le sue installazioni architettoniche. Infatti, dagli anni Ottanta il creativo ha deciso di abbandonare la pratica pittorica per dedicarsi a progetti urbani ma sempre perseguendo i principi che fin dal suo esordio hanno caratterizzano il suo idioma espressivo come l’economia dei mezzi e il rapporto tra lo sfondo e le forme primarie. I suoi interventi in situ giocano sui punti di vista, sugli spazi, sui colori, sulla luce, sul movimento, sull’ambiente, sul taglio o sulla proiezione, acquisendo il loro potere decorativo o trasformando radicalmente i luoghi. A fronte della decennale esperienza maturata in tale ambito, l’eclettico artista ha saputo destreggiarsi davanti all’ardua esigenza, vigente a Roma, di creare una sintonia tra contemporaneità e architettura classica, tra vita attuale e passato stratificato nel corso dei secoli. Una necessità già affrontata nel 2016 quando realizzò La scacchiera arcobaleno ondeggiante, installazione site specific temporanea collocata sopra la Domus Severiana, sul Palatino, in occasione della mostra Par tibi, Roma, nihil prodotta da Nomas Foundation. Pensando la città eterna come luogo in cui da sempre convivono arte e collettività sociale e adattandovi la sua affermazione «Per me il colore è pensiero puro», principio sintetizzato in tutti i suoi lavori, Buren


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Elio Marchegiani, Predominanza del verticale, 1978 (oro k24 supporto rosso pergamena - 55x73 cm) Courtesy, Primo Marella, Art Gallery, Lugano

che deve essere proprio del fare dell’Arte. Non per niente nei secoli l’oro è stato tra l’altro simbolo alchemico del Sole, della Saggezza, del Maschile, della Rivelazione, dell’Iniziazione, dello Zolfo, dell’Infedeltà e del Tradimento, mentre l’Argento è stato simbolo della Luna, di Mercurio, della Sposa, della Vergine, dello Spirito, del Femminile, del Mutabile, dell’Essenza della Fioritura, della Trasformazione e della Purificazione. Quindi la Preziosità dell’opera si arricchisce anche di significati reconditi, di pregi intrinseci, come ho già detto, alchemici, che portano anche ad una rarità della stessa opera, che deve essere desiderata, raramente in mostra e pertanto poco disponibile. Elio Marchegiani Primo Marella Art Gallery, Lugano

Elio MARCHEGIANI

I

l mio fare artistico è stato, da oltre sessant’ anni, impostato su una ricerca che partendo dall’intimo si è estesa con grande attenzione all’esterno, nella consapevolezza di poter trovare, anzi far nascere un’Idea dal mondo della Sofisticazione che attraverso un’analisi mi avrebbe portato alla Sintesi: momento di Realizzazione dell’Opera. Quindi Sofisticazione Analisi e Sintesi sono i tre momenti della mia Ricerca che possono aver avuto spesso tempi veloci, ma talvolta anche lunghissimi. Nei tre passaggi

concettuali ho sempre tenuto conto dei materiali che avrei dovuto adoperare al momento dell’esecuzione, caratterizzanti non solo il periodo storico, ma la continuità alchemica della trasformazione significante. Per questo tra i tantissimi materiali usati l’Oro e l’Argento restano ancora, anche nella sintesi della Grammature, un mezzo esecutivo che riconduce ad un mio fare obbligatoriamente raffinato che può talvolta accentuare un compiacimento per ricercatezza, esasperazione, morbosità ed anche perversione,

Elio Marchegiani, 1979 (grammature d’oro K24, supporto pelle, diametro 23 cm.) Courtesy, Primo Marella, Art Gallery, Lugano

ha elaborato per Palazzo De Angelis un lavoro site specific ovvero una griglia quadrata che unirà le diverse parti del prospetto laterale dell’edificio su cui sarà fissato un pannello retroilluminato dove colorate forme curve si alterneranno a

quadrilateri di strisce bianche e nere dando vita a un gioco di tinte e luci che sarà visibile sia giorno sia di notte. Il gioioso ed essenziale rivestimento d’artista adornerà il fabbricato che ben presto diverrà sede del primo prestigioso ed esclusivo

boutique hotel della catena Iberostar: una doppia valorizzazione che apporterà un importante elemento contemporaneo di contrasto nel peculiare contesto del centro storico capitolino. Maila Buglioni

Daniel Buren, Rendering realizzati dallo studio DIM associati di Firenze.

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CRAMUM

Un progetto per l’arte

Un libro, una mostra e un premio

Andreas Senoner, the double (forget me not), 2018.

C

inquant’anni fa, veniva a mancare Lucio Fontana. Per rendergli omaggio e ricordarlo, la Regione Lombardia, il Comune di Varedo, la Fondazione Cure Onlus e la Fondazione “La Versiera 1718” hanno organizzato un importante progetto culturale incentrato sul significato del passare del tempo e dell’essere giovani oggi a cinquant’anni dai moti studenteschi del ‘68 e dalla morte di Lucio Fontana. Per la 6° edizione di CRAMUM, diretta da Sabino Maria Frassà, è stato pensato un volume intitolato Avrò sempre vent’anni 1968 - 2018 pubblicato da Editrice Quinlan, che pone l’attenzione sulla condizione odierna dell’essere eternamente giovane nella nostra società. Da un lato, oggi si fatica ad accettare l’invecchiamento biologico, dall’altro la società invecchia sempre di più e sempre più a lungo. Se è forse dal ‘68 che proviene questa attitudine socio-culturale a ripudiare la vecchiaia intesa come maturità e responsabilità, la vita di Fontana dimostra invece come si possa essere maestri, rivoluzionari, giovani e contemporanei ad ogni età (anagrafica) della vita. I Tagli, spiega Frassà, tra le più note rivoluzioni del Maestro, furono del resto realizzati quando Fontana aveva ormai quasi 60 anni. Cosa significa perciò essere giovani oggi? Avere sempre 20 anni? Interrogarsi al riguardo porta inevitabilmente a ripensare le categorie stesse di tempo, identità, realtà e soprattutto quella di futuro. In sostanza il volume si focalizza sull’odierna smania di presente, chiedendosi, infine, se il persistere nell’essere giovani immobili e immutati non sia in fondo un condannarsi all’oblio? Alla assenza di futuro? Forse, spiega ancora Frassà, vivere l’instabilità determinata dal passare del tempo e il concedersi tempo per nascondersi, pensare, provare e sbagliare in modo autonomo sono la vera perversione rivoluzionaria oggi.

Chiara Saraceno (sociologa e filosofa italiana)aggiunge che: “Ci troviamo oggi di fronte al paradosso per cui i giovani sono considerati un gruppo di età particolarmente svantaggiato, per il quale la giovinezza sembra costituire un handicap, piuttosto che un vantaggio, nel mercato del lavoro, nell’accesso alle posizioni che contano, ed anche rispetto al riconoscimento delle capacità e competenze. Ma, allo stesso tempo, la giovinezza, idealizzata nei suoi aspetti di vigore fisico, corporeità attraente, competenza (e prima ancora abitudine) tecnologica, unite al ridotto peso delle responsabilità, a

livello dell’immaginario è diventata l’età cui si vuole arrivare il prima possibile e rimanere il più a lungo possibile: una sorta di standard – sul piano fisico ma anche comportamentale – da mantenere anche quando si è girata la boa dei quaranta ed oltre”. Il libro, pertanto, sviluppa un’attenta analisi su tale tema attraverso il connubio filosofaarte, affiancando alle riflessioni di noti intellettuali – Eugenio Borgna, Raffaella Ferrari, Stefano Ferrari, Sabino Maria Frassà, Chiara Saraceno, Nicla Vassallo – le oltre 20 opere selezionate per la mostra di Varedo. Infatti, a esso si accompagna la mostra Avevo 20 anni ospitata presso Villa Bagatti Valsecchi nel Comune di Varedo, con opere di artisti internazionali quali: Ivan Barlafante, Alberto di Fabio, Daesung Lee, Giulia Manfredi, Franco Mazzucchelli, Marcello Morandini, Francesca Piovesan, Zheng Rong e Maria Wasilewska. Vi si affiancano quelle dei dieci giovani artisti in concorso e finalisti al Premio CRAMUM, rispondenti ai nomi di: Yuting Cheng, Rob van den Berg, Francesco Fossati, Marta Galbusera, Ryts Monet, Noa Pane, Maria Teresa Ortoleva, Diego Randazzo, Marika Ricchi e Andreas Senoner. La 6° edizione del Premio CRAMUM è stata vinta da Andrea Senoner con l’opera inedita the double (forget me not) che, oltre ad essersi aggiudicato il cubo di marmo simbolo del premio donato dalla veneranda Fabbrica del Duomo di Milano, inizierà un percorso di pubblicazioni e mostre che si concluderà nel 2020 con la personale allo Studio Museo Francesco Messina. Seconda classificata è Maria Teresa Ortoleva cui è andato il premio speciale di Ventura Projects, che la vedrà tra i protagonisti di una prossima edizione del fuorisalone di Milano (2019 o 2020), mentre Ryts Monet ha conquistato il terzo posto. 24 ORE Cultura, Milano

New Faustian World 17 pittori per l’arte del XXI secolo

“L

a storia di ognuno di noi oscilla tra il rispetto dei limiti e la volontà di superarli”. Da questo presupposto, che fluttua tra passato e presente ponendo l’accento su uno degli aspetti più peculiari dell’umanità, Raffaele Quattrone ha formulato e costruito un’inedita proposta di pensiero per l’arte del nuovo millennio, o più specificatamente per la pittura del xxi secolo. Questo pensiero, frutto di una ricerca decennale che l’autore, sociologo e curatore d’arte, conduce sul campo, attraverso l’organizzazione di mostre e approfondimenti saggistici, si traduce oggi in un importante progetto editoriale, sostenuto e promosso dal gruppo 24 Ore Cultura. L’essere giunto a decifrare il possibile carattere dominante di un mezzo, qual è la pittura, spesse volte dichiarata defunta o considerata obsoleta nella storia del Novecento, non è per niente un dato scontato e banale. Al contrario, la ricerca di Quattrone

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si dimostra coraggiosa e innovativa nell’avere rintracciato in una selezione di artisti internazionali, specificatamente dediti alla pittura e formalmente molto diversi fra loro, un comune denominatore: il Faustian Factor. Appoggiandosi a una comunicazione orizzontale, ossia prendendo a prestito l’espressione televisiva di un noto talent, l’autore con un’acribia sorprendente, veste il Faust di Goethe di una rinnovata modernità. È in Faust, infatti, nel suo ardere dal desiderio di andare oltre i limiti delle sue umane possibilità senza accontentarsi mai, che Quattrone vede il «simbolo dell’anima moderna tesa al progresso, alla visione scientifica del mondo, alla brama di conoscenza, alla voglia di penetrare la vita nella sua essenza e nelle sue verità più segrete». Sicché, dietro l’esasperato virtuosismo dei 17 artisti coinvolti, ciascuno impegnato a rivaleggiare con le infinite possibilità del computer, con la precisione della resa fotografica, con le reazioni e relazioni del video e della performance, si nasconde «il mondo di chi come il Faust ha una tensione interiore che lo spinge a non accontentarsi dell’ordinario ma a fare della straordinarietà la propria filosofia di vita, ad andare oltre, a raggiungere nuove mete, ad accettare nuove sfide». In tal senso, la pittura del nuovo millennio vive un momento straordinario dove, la continua aspirazione all’infinito persiste oltre la superfice, oltre il tangibile. Toccando, infine, argomenti di estrema attualità e ponendosi domande ataviche: liquidità, nomadismo, terzo paesaggio, glomus, transculturalità, homo copula mundi, finzionalizzazione, memoria, estetizzazione, chi siamo? da dove veniamo? dove andiamo? tracce, violenza, “so” belli i trenini che facciamo alle nostre feste, so’ i più belli di tutta Roma, complessità, spiritualità, oscurità, borghesia, parole e frasi ciascuna associata agli artisti, Quattrone fra difficili e complessi concetti di sociologia e filosofia compie un giro lungo la storia dell’arte, ne annulla il tempo finito giungendo ad una conclusione che tale in verità non è. Il finale, se così vuole dire, conduce, infatti, a ragionare sull’idea di cambiamento e in particolare sulla sua forma, mostrandosi dunque completamente aperto, così come lo è lo stesso NewFaustianWorld, pronto ad aprirsi a nuove presenze. Glenn Brown, Maurizio Cannavacciuolo, Andrea Chiesi, Tiffany Chung, Njideka Akunyili Crosby, Alberto Di Fabio, Kepa Garraza, NS Harsha, Songsong Li, Alessandro Moreschini, Mauro Pipani, Imran Qureshi, Terry Rodgers, Raqib Shaw, Philip Taaffe, Josep Tornero, Jan Worst, sono gli artisti del NewFaustianWorld che, oltre ad essere un libro, oggi è anche un film. A esso si affianca,


arte e letteratura ASPETTI CRITICI, LIBRI E CATALOGHI

infatti, la produzione audio-visivo realizzata da Theater 7/2 Productions e diretta da Piero Passaro, un prodotto ibrido tra il documentario e la finzione cinematografica che, per l’originalità del proprio linguaggio, ha già conquistato lo scorso novembre il prestigioso riconoscimento di migliore documentario al Nebraska International Film Competition di Cape Town (M. L. Paiato) Meltemi, Milano

Italia Evolution Crescere con la cultura

Con quest’ultimo capitolo di una trilogia dedicata alla cultura, Christian Caliandro chiude il proprio pensiero intorno ad uno dei temi più difficili e controversi dell’oggi: immaginare il nostro futuro per una Italia che richiede un’evoluzione. Con un linguaggio più libero e avvincente rispetto ai precedenti volumi (Italia Reloaded e Italia Revolution), uno stile quasi narrativo dove, episodi autobiografici s’intrecciano alla storia dell’arte, della letteratura, del cinema e della politica italiana, l’autore ci conduce alla presa di coscienza di fatti, modi di essere e di vivere, dello stare in società, di ciò che ci circonda (paesaggio, ambiente, architettura) a tratti desolanti e affatto incoraggianti. Dall’idea d’illusione, ereditata dal Barocco e da Borromini in particolare, Caliandro passa alla disamina delle cosiddette “zone interdette” (L’Aquila, Taranto, Lampedusa etc.), mettendo in luce quel senso di “fuori dalla realtà” che le elimina dallo sguardo collettivo, dalla memoria. Per nulla scontato, questo ragionamento prosegue nel chiarire il senso di “interruzione” di non-finito che paradossalmente caratterizza la nostra architettura e di conseguenza il nostro presente. Sicché, passando da Aldo Moro e contestualizzando all’argomento il tema del “sequestro”, spostandosi al concetto duchampiano di ready-made, utilizzando il modello interpretativo delle “due Italie” estrapolato da Pier Paolo Pasolini, e poi ancora, spostandosi da Leopardi, a Matilde Serao, a Montanelli, a Gramsci, a D’Annunzio, a Calvino, a Savinio, a De Chirico, a Fontana e molti altri ancora, approda al perché e come il nostro popolo viva nell’eterna nostalgia degli anni Sessanta e Settanta. L’Italia è «una cartolina con cui non è possibile avere alcuna reciprocità», afferma Caliandro in merito a Roma e alla Grande Bellezza di Sorrentino. Detta così, l’Italia appare irrimediabilmente senza via d’uscita, catastroficamente destinata a non originare più nulla di sensato e peggio ancora di bello. Come uscire allora

da questa crisi culturale e scevra da visioni innovative? Va chiarito innanzi tutto il senso della parola crisi secondo l’autore: se esiste siamo noi a generarla, la crisi esiste se noi pensiamo che esista. In conclusione è nella presunta crisi che può generarsi nuova cultura. È pertanto positivo il suo pensiero, che spinge il lettore a riconsiderare, innanzi tutto, il proprio punto di vista, quelle zone d’ombra apparentemente prive di stimoli, traghettandoci verso un finale incoraggiante e che motiva. «Che cosa è l’evoluzione? L’attitudine, la disposizione d’animo e la prospettiva sono la chiave per immaginare e costruire una nuova realtà, per dare corpo e sostanza al nuovo tempo». Una piccola prova che questa possa essere la strada percorribile per plasmare positivamente il nostro avvenire? Essa è data da quelle realtà artistiche che agiscono proprio nelle periferie. Lì, in quei luoghi, le opere vivono, diventano dei piccoli ‘stati’, originano qualcosa che prima non esisteva, creano relazioni e condividono. Qualche esempio? Opera Viva, prima a Taranto e poi Barriera di Milano di Alessandro Bulgini, Favara con Farm Cultural Park in Sicilia, i Bianco-Valente a Latronico in Basilicata con A Cielo Aperto, sono solo alcune delle situazioni capaci di interpretare la precarietà odierna da intendersi, non come una disgrazia, ma come evoluzione di un presente «irritato, nudo e spettralizzato» ma per questo più «fresco, sconnesso, slegato», cui si aggiunge l’idea di un possibile tutto da costruire. (M.L.Paiato) Phaidon, London

Lucian Freud

M

onografia tra le più complete su uno dei più grandi pittori del XX e degli inizi del XXI secolo: Lucian Freud, nipote del celebre Sigmund. Pubblicazione realizzata e curata da Mark Holborn (editor, designer e scrittore, ha lavorato con molti artisti di punta negli ultimi 30 anni), in collaborazione con l’archivio dell’artista, David Dawson, direttore dello stesso archivio, assistente di Freud dal 1991 fino alla sua morte, e modello frequente per i suoi dipinti. Testo introduttivo di Martin Gayford (scrittore e critico d’arte per la Rivista Spectator. È stato modello per un ritratto di Freud nel 2003-2005, una esperienza che ha raccontato in Man with a Blue Scarf del 2010); l’opera è arricchita da oltre 480 illustrazioni, disposte cronologicamente per rendere evidente il lavoro e il modo di concepire l’idea dell’arte dell’artista. Tra centinaia di dipinti, disegni, schizzi e incisioni, e anche lettere private illustrate dagli anni ‘30 alla morte di Freud (2011) Postmedia Books, Milano

Ten Years 2004- 2014 Arte, educazione, formazione, lavoro, spazio pubblico

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l volume di Dino Ferruzzi documenta dieci anni di ricerca/azione nel campo dell’arte contemporanea e della didattica svolta dal

CRAC Centro Ricerca Arte Contemporanea - associazione non profit - di Cremona, attualmente non più operativa, cui si deve l’ideazione di uno spazio-scuola sperimentale nato con lo scopo di esercitare modelli educativi alternativi. Il libro racconta, infatti, di pratiche attive, del mestiere dell’insegnante e dell’artista, con la consapevolezza che mettere in comune con gli studenti l’esperienza della pratica pedagogica ed estetica, significhi condividere le conoscenze e sperimentare nuove forme di partecipazione, fuori dai contesti abitudinari e strumentalizzati sia dell’educazione che dell’arte. Un racconto che non si ferma alla sua stessa documentazione ma che dall’esperienza sul campo, muove verso una riflessione sulla globalizzazione dell’economia e sui fenomeni di disgregazione sociale e culturale che essa determina, e come il mondo della scuola ne sia pienamente investito. Completa questa esperienza editoriale un ricco apparato fotografico e una serie di testi concepiti come un insieme di pensieri raccolti nel tempo, una narrazione a più mani, un accumulo di letture, suggestioni, incontri, che tentano di rivelare e individuare, in maniera trasversale, i contorni di una dimensione biopolitica dell’arte, dell’educazione, della formazione, del lavoro e dello spazio pubblico. Oltre ai testi di Dino Ferruzzi e Gianna Paola Machiavelli, fondatori del CRAC, il libro è arricchito dalle testimonianze di Marcella Anglani, Katia Baraldi, Fabrizio Basso, Silvia Cini, Maurizio Coccia, Emilio Fantin, Mario Gorni, Pablo Helguera, Giancarlo Norese, OsservatorioinOpera (Piero Almeoni e Paola Sabatti Bassini), Luisa Perlo, Paolo Perticari, Mara Predicatori, Mili Romano, e da un’intervista di Micol Costantini. Questo volume rappresenta indubbiamente l’opera omnia della grande figura di questo artista. Postmedia Books, Milano

Infrasottile

L’arte contemporanea ai limiti

E

lio Grazioli è autore di un volume che racconta come l’arte sta cambiando, anzi, come cambia sempre, senza perdere mai, mentre si rinnova, la propria capacità di «mostrare diversamente la realtà». L’artista coglie ciò che è all’estremo della percezione, una presenza al limite, che c’è, ma sfugge. A questa dimensione Duchamp dava il nome di inframince. Partendo da qui, Grazioli motiva il prendere odierno d’immagini da qualsiasi parte, la presenza di droni e cloni, robot e avatar come una realtà diffusa, di contro la capacità dell’artista di vederla e di mostrarla diversamente. Al centro sta la nozione duchampiana d’infrasottile, che indica innanzitutto ciò è all’estremo della percezione, del discernibile, della differenza, ma senza esse-

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e Roma 1979) e Hans op de Beeck (Turnhout, 1969). All’interno, anche un saggio di Luk Lambrecht (coordinatore artistico Strombeek CC / Museumcultuur Ghent) che snoda una riflessione sulla necessità degli incontri e della reciprocità come essenza culturale. Motto Books, Geneve

A City Curating Reader Pubblic Art Munich 2018

re né l’invisibile, né l’indiscernibile, né il trascendente, ma invece una presenza al limite, un possibile ma reale, o una compresenza di due stati che «si sposano» - dice Duchamp dando vita a un terzo tutto da cogliere. Cos’è dunque infrasottile? È un neologismo che sembra indicare quei fenomeni ai limiti della percezione che mostrano il passaggio da uno stato a un altro, sicché per Elio Grazioli il termine diventa la bussola per orientarsi attraverso alcune delle principali manifestazioni artistiche degli ultimi decenni. Prinp Editore, Torino

“a due“

Arte Contemporanea in Italia e Belgio

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l volume, curato dall’artista Laura Viale con il contributo della storica dell’arte Maria Elena Minuto, include artisti italiani e belgi provenienti da diverse esperienze e generazioni secondo un sistema dialogico: Davide Bertocchi (Modena, 1969) e Joris Van Moortel (Gand,1983), Enrico Gaido (Torino, 1971) e Freek Wambacq (Bruxelles, 1978), Margherita Moscardini (Donoratico, 1981) e Futurefarmers (Belgio-Stati Uniti d’America, fondata collettiva nel 1995), Laura Viale (Torino, 1967) e Stijn Cole (Gand, 1978), Raffaella Crispino ( Napoli, 1979) e Hans Demeulenaere (Ostenda, 1974), Alberto Scodro (Marostica, 1984) e Paul de Vree (Anversa 1909-1982), Alessandro Serena Fineschi-Scarabello (Siena, 1973

C

urato da Giovanna Warsza e Patricia Reed, il volume parte da una serie di semplicissime ma fondamentali domande necessarie a penetrare l’argomento: cosa è pubblico nell’arte pubblica? Quali sono i casi in cui si può e si deve lavorare al di fuori della protezione istituzionale? Cosa rende una città curata? Sicché Monaco di Baviera è diventata lo scenario ideale per questo particolare studio che documenta, per l’appunto, i progetti di Public Art realizzati in città nel 2018, interventi che hanno narrato e si sono occupati di cambiamenti politici, ideologici ed economici, dalla fondazione della Repubblica Bavarese Sovietica nel 1919 per l’arrivo dei rifugiati al Hauptbahnhof nel 2015. Il libro contestualizza, pertanto, l’arte all’interno di questioni pubbliche più ampie, riflettendo contemporaneamente su come a sua volta l’arte modifichi il contesto specifico della città attraverso una serie di azioni legate ad

essa che hanno come prerogativa un dato di imprevedibilità non calcolabile. Sternberg Press, Berlino

Gianni Pettena

Non-Conscious Architecture

M

onografia presentata a FM Centro per l’Arte Contemporanea con una grande conferenza dedicata a Gianni Pettena, fra i maggiori esponenti e interpreti del movimento dell’Architettura Radicale italiano. “Non-Conscious Architecture” (a cura di Marco Scotini in collaborazione con Gabriele Sassone, con testi di Pierre Bal-Blanc, Adam Budak, Luca Cerizza, Émile Ouroumov, Marco Scotini, Elisabetta Trincherini. Design by Dallas), trae ispirazione da una serie di fotografie, scattate da Pettena durante un viaggio del 1972 nel Sud-Ovest degli Stati Uniti, che rivelano la possibilità di un’origine inconscia della architettura, ed è anche il titolo di un’estesa ricerca monografica pubblicata da Sternberg Press nel 2018, a seguito della personale dell’artista presso la galleria Giovanni Bonelli di Milano (cfr.Segno 261). “I paesaggi dello Utah - scrive Scotini, curatore della monografia - innanzitutto rappresentano per Pettena l’oggetto di una riflessione sul tempo, non più dimensione esclusiva della produzione, bensì luogo dove permettere all’accadimento, all’imprevisto generato dallo stato ozioso, di prendere forma”,

Attraverso un percorso narrativo racchiuso in diversi capitoli (il distacco dal padre, il garage, musica e danza, sodalizi onnipotenti, allagamento, cucina futurista, la porta di Duchamp, la riapertura, il teatro, ventiquattr’ore su ventiquattro, cannonata, bilancio) e punteggiati da siparietti visivi, gli anni di attività del gallerista Fabio Sargentini, sono raccontati personalmente e da testimoni dell’epoca, critici, artisti, compagni di strada di alcuni decenni (da Vittorio Rubiu a Joan Jonas, da Hidetoshi Nagasawa a Luigi Ontani, da Piero Pizzi Cannella ad Achille Bonito Oliva, da Anna Paparatti a tanti altri), misti a materiali di repertorio cinematografico e fotografico raramente visti prima. Le riprese e il montaggio del documentario sono di Simone Pierini e Francesco Struffi. Teatro Vascello, Roma

Fiato d’artista

N

ell’ambito della rassegna Fiato d’artista, che ha rievocato il clima e l’atmosfera degli anni Sessanta della Scuola di piazza del Popolo con una serie di eventi e uno spettacolo teatrale, è stata proposta la

proiezione del documentario Tutto su mio padre, di Fabiana Sargentini (del 2003, durata di 41 minuti). Il ritratto di uno straordinario gallerista che è anche il ritratto di un’epoca. L’Attico: una galleria creata nel 1957 da Bruno Sargentini, padre di Fabio, galleristaartista, che l’ha traghettata fino a oggi.

74 - segno 270 | DICEMBRE 2018 / GENNAIO 2019



C A S S I N O M U S E O ARTE CONTEMPORANEA Via Casilina Nord, 1 – 03043 Cassino +39 3351268238 info@camusac.com

Klaus Munch Resine, PVC, (1987 - 2018)

Mario Surbone Inciso R12 1972

Klaus

MUNCH Mario

SURBONE a cura di Bruno Corà 14 DICEMBRE 2018 30 APRILE 2019


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