segno Spedizione in abbonamento postale Poste Italiane S.p.A. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 ROC · Registro degli operatori di comunicazione n. 18524 - ISSN 0391-3910 00
€ 6.
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Anno XLIV NOV/DIC 2019
Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea
MOATAZ NASR
SAVE THE PLACE NUOVI PADIGLIONI 15-18 > INGRESSO NORD
AN EVENT BY
Photograph taken at Miami Children’s Museum
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Anno XLIV NOV/DIC 2019
R Ratio 3 Almine Rech Regen Projects Revolver Roberts Projects Nara Roesler Tyler Rollins Thaddaeus Ropac Michael Rosenfeld Lia Rumma
44/47 T Templon Thomas Tilton Tornabuoni Travesía Cuatro
V Van de Weghe Van Doren Waxter Vedovi Vermelho Vielmetter
W Waddington Custot Nicolai Wallner Wentrup Michael Werner White Cube Z Zeno X David Zwirner
S Salon 94 SCAI The Bathhouse Esther Schipper Thomas Schulte Marc Selwyn Jack Shainman Sicardi Ayers Bacino Sies + Höke Sikkema Jenkins Jessica Silverman Simões de Assis Skarstedt
Jérôme Poggi ROH Projects Anita Schwartz Tiwani Contemporary
Nova Antenna Space Barro blank Carlos/Ishikawa Central Fine Chapter NY Company Anat Ebgi Thomas Erben James Fuentes Ghebaly Mariane Ibrahim Isla Flotante JTT David Lewis Josh Lilley Linn Lühn Edouard Malingue moniquemeloche Morán Morán Nanzuka
Positions Sabrina Amrani Christian Andersen Bendana-Pinel Maria Bernheim Callicoon Commonwealth and Council Cooper Cole Document Agustina Ferreyra M+B Madragoa Magician Space Project Native Informant Marilia Razuk Edition Cristea Roberts Crown Point Gemini G.E.L. Carolina Nitsch Pace Prints Paragon Polígrafa Susan Sheehan STPI Two Palms ULAE Survey 10 Chancery Lane acb Almeida Nicelle Beauchene Tibor de Nagy espaivisor Eric Firestone Hackett Mill Hales Pippy Houldsworth Instituto de visión Mitterrand Parker Louis Stern Venus Over Manhattan waldengallery
Artista in copertina
Moataz Nasr
Petro Beads, 2019
MOATAZ NASR
34 contenitori di gas, metallo dimensioni site-specific Courtesy the artist & GALLERIA CONINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana. Photo by Ela Bialkowska, OKNO Studio Paolo Icaro [27]
4/11 Anteprima Mostre & Musei News Italia Istituzioni, Musei e Gallerie d’arte a cura di Umberto Sala e Paolo Spadano
12/19 Speciale Torino 2019 Artissima 2019 Oval, Torino Artissima Projects Torino 20 The Others Ex Ospedale Militare “A. Riberi”, Torino
Letizia Cariello [30]
o 20/75 Attività espositive/ Recensioni documentazioni The Dark Side “Chi ha paura del buoio?” Musja, Roma Italia Moderna 1945-1975 Palazzo Buontalenti, Pistoia Michael Rakowitz Castello di Rivoli, Torino Paolo Icaro GAM Torino Cesare Pietroiusti MAMBO, Bologna Man Ray Camera, Centro Italiano per la Fotografia, Torino Letizia Cariello Galleria Fumagalli, Milano Training Humans Osservatorio Fondazione Prada, Milano Ha Chong Hyun Cardi Gallery, Milano Colloquium / Günther Umberg A Arte Invernizzi, Milano Salvo, ventiquatt’ore di luce Norma Mangione Gallery, Torino Simon Starling, Galleria Franco Noero, Torino Hans Hartung, Mazzoleni Galleria d’arte, Torino Trenta volte settembre, Albereto Peola Artecontemporanea, Torino Iacopo Pinelli, Davide Paludetto, Torino Gotico Industriale Permanente, Castello di Rivara Paolo Cirio Giorgio Persano, Torino Carlo Bernardini, Giulio De Mitri, Paolo Scirpa E-Gate, Torino Nasr, Capote, Surez-Londoño, Smith Continua, San Gimignano Nanni Valentini ABC Arte, Genova Gaia Fugazza e Pauline Batista Galleriapiù, Bologna Fabrizio Bottarelli Galleria l’Ariete, Bologna Mario Airò Galleria De Foscherari, Bologna Carla Accardi, Francesco Impellizzeri Galleria Santo Ficara, Firenze Ian Davenport Luca Tommasi, Milano Salvatore Sava Galleria San Carlo, Milano Who knows one Galleria Vistamare, Pescara Tracey Emin Galleria Lorcan O’Neill, Roma Matteo Fato Monitor, Roma Gea Casolaro The Gallery Apart, Roma Todi Open Doors Todi Festival, Todi Il Parco Beverly Pepper camminare fra arte e natura, Todi Brunella Longo Complesso delle Lucrezie, Todi Sogni di Spettri Berna e Basilea, Svizzera Andrea Lunghi Palazzo Stemberg, Vienna Autostrada Biennale Prizren, Kosovo Polytechne Università Politecnica delle Marche, Ancona Baldo Diodato Galleria Paola Verrengia, Salerno Salvatore Manzi Saaci Gallery, Saviano (Na) Sol Lewitt Galleria Alfonso Artiaco, Napoli Massimo Ruiu, Museo delle Genti d’Abruzzo, Pescara Collettivo toscano, YAG/garage, Pescara Rosario Genovese, il poeta delle stelle
segno
periodico internazionale di arte contemporanea Direzione e redazione Corso Manthonè, 57 65127 Pescara
Telefono 085/8634048
redazione@rivistasegno.eu www.rivistasegno.eu
Direttore responsabile LUCIA SPADANO (Pescara) Condirettore e consulente scientifico PAOLO BALMAS (Roma) Direzione editoriale UMBERTO SALA Caporedattore: Maria Letizia Paiato. Redazione web: Roberto Sala
Gotico Industriale [38]
N nächst St. Stephan Rosemarie Schwarzwälder Nagel Draxler Edward Tyler Nahem
P P.P.O.W Pace Pace/MacGill Parra & Romero Franklin Parrasch Peres Projects Perrotin Petzel Plan B Gregor Podnar Eva Presenhuber Proyectos Monclova
Fredric Snitzer Société Sperone Westwater Sprüth Magers Nils Stærk Christian Stein Stevenson Luisa Strina
Matteo Fato [54]
M Magazzino Mai 36 Maisterravalbuena Jorge Mara - La Ruche Matthew Marks Marlborough Mary-Anne Martin Philip Martin Jaqueline Martins Barbara Mathes Mazzoleni Miles McEnery Greta Meert Anthony Meier Menconi + Schoelkopf Mendes Wood DM kamel mennour Metro Pictures Meyer Riegger Victoria Miro Mitchell-Innes & Nash Mnuchin Modern Art The Modern Institute mor charpentier
O Nathalie Obadia OMR
sommario
Sol LeWitt [65]
L Labor Landau Simon Lee Lehmann Maupin Tanya Leighton Lelong Leme Lévy Gorvy Lisson Luhring Augustine
Helly Nahmad Francis M. Naumann Leandro Navarro neugerriemschneider Franco Noero David Nolan Nordenhake
news e calendario eventi su www.segnonline.it
Sean Kelly Kerlin Anton Kern Kewenig Peter Kilchmann Tina Kim Kohn David Kordansky Andrew Kreps Krinzinger Kukje kurimanzutto
# 275 - Novembre/Dicembre 2019
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segno Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea
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Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea
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segnonovembre/dicembre 2019
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>anteprima< ROMA MAXXI
“della materia spirituale dell’arte” iciannove artisti della scena internazionale interpretano il
D
tema dello spirituale, in dialogo con reperti archeologici della storia arcaica di Roma. A cura di Bartolomeo Pietromarchi proposti i lavori di John Armleder, Matilde Cassani, Francesco Clemente, Enzo Cucchi, Elisabetta Di Maggio, Jimmie Durham, Haris Epaminonda, Hassan Khan, Kimsooja, Abdoulaye Konaté, Victor Man, Shirin Neshat, Yoko Ono, Michal Rovner, Remo Salvadori, Tomás Saraceno, Sean Scully, Jeremy Shaw e Namsal Siedlecki esposti a fianco di diciassette straordinari reperti archeologici etruschi, romani e di produzione laziale, provenienti da quattro tra i principali musei della città: Musei Vaticani, Museo Nazionale Romano, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia e Musei Capitolini. In conferenza stampa, Giovanna Melandri, Presidente della Fondazione MAXXI, ha sottolineato come questo accostamento e confronto artistico immerso nei millenni, rilancia la sensibilità e la spiritualità dei nostri tempi con la mitologia e la sacralità delle origini remote di una civiltà. Ma ha anche inteso precisare come grazie all’impegno curatoriale di Bartolomeo Pietromarchi, questa mostra non sottrae né identità né coerenza al profilo del MAXXI; semmai introduce una traccia di riflessione forse trascurata nel dibattito aperto tra le arti contemporanee e, per ciò stesso, stimolante, insolito e innovativo. Fino a 8 marzo 2020
NAPOLI
PALAZZO ZEVALLOS STIGLIANO
BERLIN 1989 ello spazio museale di Intesa Sanpaolo a Napoli, è
N
allestita la mostra Berlin 1989. La pittura in Germania prima e dopo il Muro, a cura di Luca Beatrice. Dopo Le mille luci di New York nel 2017 e London Shadow nel 2018, Berlin 1989 chiude il trittico di mostre dedicate alle grandi città che, sul finire del ‘900, hanno arricchito e movimentato la storia dell’arte. In un coinvolgente percorso di 21 opere realizzate tra 1972 e 2003, in prestito da gallerie e collezioni private italiane, Berlin 1989 presenta lavori di alcuni importanti pittori tedeschi del dopoguerra, tra cui Georg Baselitz, Sigmar Polke, Gerhard Richter, Anselm Kiefer, Albert Oehlen. Nel testo del curatore leggiamo come Berlino di fine Novecento, si avvale di una pittura che interpreta lo spirito del tempo in un linguaggio libero, irruente e dai toni dissonanti, spingendo all’estremo la creatività e il desiderio di rinnovamento. A trent’anni dalla caduta del Muro, si riscopre una città creativa, vitale, energetica, dominata da una profonda spinta al cambiamento, eppure mantenendo il fascino della vecchia Europa ancora legata al clima della Guerra Fredda. David Bowie vi scrisse tre album e una delle sue canzoni più celebri, Heroes. I Pink Floyd dedicarono al Muro, The Wall, uno straordinario concept album diventato poi un film. Scrittori come Pier Vittorio Tondelli amavano lanciarsi sulle Autobahn gratuite, meta delle loro scorribande giovanili. Nel cinema si imponeva una nuova generazione di cineasti con spiccato taglio autoriale, Wenders e Fassbinder i più celebri, mentre Christiane F., pur definito un prodotto commerciale, riuscì a raccontare il disagio giovanile tra Ovest ed Est. Nel 1982, al Martin-GropiusBau di Berlino si inaugurò Zeitgeist, storica mostra curata da Christos Joachimides e Norman Rosenthal. Al centro l’emergere del neoespressionismo come “spirito del tempo”, cercando gli antecedenti nell’arte degli anni ‘60 e ‘70. In evidenza il lavoro di Georg Baselitz, Anselm Kiefer, Markus Lüpertz, A.R. Penck, Sigmar Polke. In parallelo al successo della Transavanguardia italiana e della nuova figurazione americana, la pittura tedesca si impose in tutto il mondo, assumendo la denominazione di Neoespressionismo, e i suoi esponenti Neue Wilden, i nuovi selvaggi, a sottolineare una certa brutalità di una pittura giocata su gesti enfatici e forte impianto narrativo. Protagonista fu un vero e proprio movimento artistico che si spinse fino al nuovo decennio e oltre. Appena due anni dopo la caduta del Muro e meno di dieci da Zeitgeist, il Martin-Gropius-Bau presentò una nuova rassegna sull’arte nuova nella Berlino non più divisa: un’altra mostra epocale che prendeva il titolo, Metropolis, dal capolavoro cinematografico di Fritz Lang. Andando a ritroso, già 4 - segno 275 | NOVEMBRE/DICEMBRE 2019
EnzoCucchi, Idoli JimmieDurham, FireCup
Shirin Neshat, Offerings
nel 1980 emerge il gruppo di pittori berlinesi Rainer Fetting, Helmut Middendorf, Salomé, Bernd Zimmer che nel 1977 avevano aperto in Kreuzberg la Galerie am Moritzplatz, uno spazio autogestito: pittura ribelle, la loro, che si ispira all’attualità quotidiana dei media, della musica rock, della cultura punk, così come ai temi di carattere politico, artistico o sessuale, mescolando così alto e basso in piena temperie postmoderna. Sullo sfondo c’è sempre una Berlino minacciosa e affascinante, claustrofobica e trasgressiva, cupa e straordinariamente vitalista. Pittura giovane e di culto, che in breve, dagli spazi off conquisterà mercato, gallerie e musei. All’esplosione del fenomeno, inizio anni ’80, alcuni sono già molto famosi: Gerhard Richter, Georg Baselitz e Anselm Kiefer (quest’ultimo esposto più volte a Napoli presso la Galleria Lia Rumma) stanno conquistando un posto importante nella storia dell’arte, attivi fin dalla fine degli anni ’60, vera e propria cerniera tra l’arte concettuale e la nuova pittura. È quindi il turno della generazione più giovane, rappresentata ad
Sigmar-Polke, SH Oder wann zählen die Punkte
>news istituzioni e gallerie<
Claudia Comte
CASTELLO DI RIVOLI
Claudia Comte l Museo d’Arte Contemporanea ospita la prima personale
I
in un museo pubblico italiano dell’artista svizzera Claudia Comte (Grancy, 1983). Sviluppata a stretto contatto con l’artista e curata da Carolyn Christov-Bakargiev e Marianna Vecellio, la mostra propone l’osservazione della natura e dei suoi mutevoli pattern, In tal senso l’artista elabora ampie installazioni ambientali che incorporano il mondo dalla prospettiva dell’esperienza del digitale. Affondando l’interesse in temi di urgente attualità come il cambiamento climatico, l’ecologia e l’inquinamento globale, l’artista racconta anche la memoria dei materiali e la saggezza del lavoro manuale. Il corpo principale delle opere di Comte è rappresentato da queste installazioni, ma il suo lavoro comprende anche la scultura e la pittura, nonché ampie installazioni multimediali. In occasione della mostra al Castello di Rivoli, Comte realizzerà undici monumentali interventi murali appositamente pensati per le sale del terzo piano della residenza reale storica. Ispirato ad alcuni motivi decorativi settecenteschi presenti sui soffitti e sulle pareti dell’edificio principale del Museo, l’opera si sviluppa secondo moduli ripetuti nello spazio attraverso cui costruisce un ambiente ottico avvolgente e vibrante. L’artista trae ispirazione dalle informazioni e dalla specificità geologiche del territorio dove il Museo è collocato, ovvero l’anfiteatro morenico di Rivoli-Avigliana.
Anselm Kiefer, Untitled Albert Oehlen, Dr
esempio da Rainer Fetting, Helmut Middendorf, Bernd Zimmer, Karl Horst Hödicke, Markus Lüpertz, A.R. Penck, Martin Disler, Siegfried Anzinger, Hermann Albert. Pur respirando un clima comune, è evidente in ciascun pittore la propria differenza culturale e stilistica. Il Catalogo è edito da Edizioni Gallerie d’Italia | Skira e contiene contributi di Luca Beatrice, Giulia Beatrice e Davide Ballario. Bernd-Zimmer, Wasserlauf
NOVEMBRE/DICEMBRE 2019 | 275 segno - 5
PAOLO GRASSINO T30
curated by Lรณrรกnd Hegyi
Palazzo Saluzzo Paesana TURIN - ITALY
30.10 - 30.11 2019
www.t30paolograssino.art
>news istituzioni e gallerie< TORINO
MEF - MUSEO ETTORE FICO
Meal comunicato Two stampa leggiamo come il titolo di questa
D
mostra, Me Two, parafrasa per assonanza la famosa frase “me too” che ha segnato una svolta contro lo stolking femminile e venne coniata nel 2017 in forma di hashtag in occasione dello scandalo holliwoodiano che vide come protagonista il produttore Harvey Weinstein incriminato di molestie sessuali alle attrici che lavoravano per lui. Il titolo allude inoltre a una duplicazione della personalità/possibilità collezionistica. La mostra propone un percorso estremamente significativo all’interno della vastissima collezione di Ernesto Esposito: stilista di fama internazionale, che ha collezionato importanti opere dei più grandi artisti contemporanei spaziando dalla fotografia all›installazione, dalla pittura al video fino a opere monumentali, con una grande poliedricità e intuito anticipatore. Noto per le sue collaborazioni nella haute couture (Marc Jacobs, Sergio Rossi, Sonia Rykiel, Louis Vuitton, Fendi, ecc.) Ernesto Esposito è anche un instancabile ricercatore che opera in stretto contatto con le gallerie più influenti del settore. A partire dagli anni Ottanta ha conosciuto e frequentato artisti quali Cy Twombly, Joseph Beuys, Andy Warhol, Helmut Newton, solo per citarne alcuni. Il privilegio dell’amicizia con tutti loro gli ha permesso di realizzare una delle collezioni di arte contemporanea più importanti e poliedriche. da cui sono state selezionate le opere per la mostra ME TWO che, a sua volta, si articola in due sezioni distinte. La prima, Some people, con fotografie da Von Gloeden a Warhol a cura di Andrea Busto, ci conduce in un ampio percorso che rappresenta e analizza la storia della fotografia da Von Gloeden ai giorni nostri, da un punto preciso di rottura degli schemi sociali, sessuali e di identità di genere. La seconda, Brasil!, a cura di Elsa Ravazzolo Botner è un’avvincente ricognizione all’interno dell’arte contemporanee brasi-
Helmut Newton, In my hotel
liana degli ultimi vent’anni e ne documenta il vasto panorama artistico, ricco ed effervescente. Il doppio catalogo, contenuto in un cofanetto, è pubblicato da IEMME Edizioni (Napoli) in coedizione con Il Museo Ettore Fico. Ernesto Esposito ritratto da Andy Warhol nel 1987. courtesy Ernesto-Esposito
Terry Richardson, Batman and Robin, 1998.
AOSTA
CENTRO SAINT-BÉNIN
Olivo Barbieri ersonale dedicata ad uno dei maggiori fotografi aperta fino
P
a domenica 19 aprile 2020. L’esposizione, Mountains and Parks curata da Alberto Fiz, è organizzata dalla struttura Attività espositive dell’Assessorato del Turismo, Sport, Commercio, Agricoltura e Beni culturali della Regione autonoma Valle d’Aosta. Oltre 50 i lavori esposti in un percorso ventennale che comprende, tra le altre, una serie di grandi immagini fotografiche inedite sulle montagne della Valle d’Aosta realizzate per l’occasione. Per la prima volta, poi, viene presentata la produzione scultorea dell’artista attraverso tre imponenti lavori plastici che occupano l’ala centrale del Centro Saint-Bénin. Le opere in mostra ripercorrono la ricerca compiuta da Barbieri dal 2002 al 2019 sottolineando l’attenzione verso le tematiche connesse con il paesaggio e l’ambiente. Non manca un ciclo d’immagini dedicato alla storia dell’arte antica e moderna e la proiezione di un video del 2005 realizzato in Cina. Mountains and Parks propone l’indagine di Olivo Barbieri sui parchi naturali, siano essi le Alpi, le Dolomiti, Capri rivisitata con i colori della memoria o le cascate più importanti del pianeta che, come afferma l’artista, “sopravvivono intatte ad uso del turismo o come luoghi fisici museali dove ammirare come potrebbe essere una natura incontaminata”. Il catalogo della mostra, in italiano e francese, con la pubblicazione di tutte le opere esposte, è edito da Ma-
Olivo Barbieri, Alps Geographies and People, 2012
gonza. Insieme ai saggi di Alberto Fiz e di Daria Jorioz, contiene, un intervento inedito dello scrittore Paolo Cognetti e un testo sull’estetica della montagna dell’alpinista Giovanni Battista Rossi. Non manca, poi, un’intervista con Olivo Barbieri presente nel volume anche con una sua testimonianza. NOVEMBRE/DICEMBRE 2019 | 275 segno - 7
>news istituzioni e gallerie< ROMA
GALLERIA NAZIONALE
Invernomuto l secondo appuntamento di Connection Gallery, progetto della
I
Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea a cura di Massimo Mininni, vede la partecipazione di Invernomuto, duo artistico formato da Simone Bertuzzi e Simone Trabucchi. Dopo il lavoro di Andrea Mastrovito, il ciclo espositivo in tre tappe avviato a giugno prosegue nell’intenzione di dare spazio al lavoro di giovani artisti, selezionati per la loro capacità di accordare la propria espressione creativa al museo e alle sue peculiarità attraverso la creazione di un’opera site-specific. Il Mediterraneo è da tempo il campo d’indagine di Invernomuto e l’intervento alla Galleria dal titolo Prima delle Sabbie ne rappresenta un nuovo punto di arrivo, pienamente contestualizzato all’interno del museo. L’opera restituisce una narrazione del Mediterraneo del tutto inedita, nel momento in cui gli viene assegnata una prospettiva per cui da estesa superficie marina diventa un soggetto “proteiforme”, un fiume a più foci, dove non sono più rintracciabili le coordinate del Nord e del Sud ma il mare è in reciproca comunicazione con il territorio: l’installazione di Invernomuto coinvolge l’opera Fiume con foce tripla (1967) di Pino Pascali, una presenza importante nella collezione della Galleria. L’elemento dell’acqua, che non può non richiamare 32 metri quadrati di mare circa sempre di Pascali, si unisce agli effetti cromatici del lavoro di light design, ad immagini, suoni e dettagli che ricompongono un ambiente geografico apparentemente familiare ma in realtà turbato da dinamiche che aspettano di essere del tutto rivelate nella loro problematicità. Dalla rilettura del Mediterraneo, luogo da sempre connaturato a scambi e incontri, ma ormai sempre più spesso turbato da ten-
sioni e contrasti, il campo di osservazione si allarga a comprendere anche il Deserto, immensità speculare a quella del mare. Proprio il deserto e i fiumi sono i soggetti ricorrenti del corredo di immagini di epoche diverse che si sommano in un lavoro di collage, ad accrescere la rete di significati dell’installazione. Il titolo della mostra è un chiaro riferimento al brano e all’album L’Egitto Prima delle Sabbie composti da Franco Battiato nel 1978, presenti nell’installazione in un originale riadattamento di Invernomuto, ma anche al pensiero di Georges Gourdjieff, mistico, filosofo e scrittore (in particolare, Incontri con uomini straordinari, Adelphi 1977) da cui Battiato è stato sua volta fortemente ispirato. Esiste, per Gourdgieff, l’“Egitto pre-sabbia” come luogo di un’antica civiltà anteriore a quella egizia e depositaria di un’ancestrale ed essenziale sapienza, dove la sabbia è la metafora di un modo di vivere degli uomini in connessione tra loro e con l’universo che è stato sepolto dal tempo ed è - quasi inattingibile nella nostra moderna e tecnologica società.
PESCARA
CATANZARO
MUSEO DELLE GENTI
Invernomuto, study-for-MED-T-800, Sahara, 2019 courtesy artista e Pinksummer Genova
MARCA
Pignotti e Gut Pino Pingitore rosegue la meritoria opera del Museo delle Genti llestita negli spazi espositivi del Museo MARCA di
P
d’Abruzzo nel diffondere la conoscenza della “ Poesia Visiva”. È la volta di due grandi interpreti di una stagione che, iniziata nei primi anni ’60 non accenna ad esaurirsi. Si tratta di Elisabetta Gut e Lamberto Pignotti, di origini svizzere lei, fiorentino di nascita lui, entrambi romani d’adozione. La prima è un’artista-artigiana, ideatrice e costruttrice di mirabili oggetti che rimandano a una realtà leggera e fluttuante. I libri d’artista sono il suo campo d’elezione; la carta, i fili, le foglie i materiali preferiti. Attiva già dagli anni ’50, ha seguito un percorso originale e personale, scandito da una lunga serie di mostre, in Italia, ad esempio la Biennale del’78, e all’estero, spesso in sedi di grande prestigio. Lamberto Pignotti “è” la Poesia Visiva; sicuramente ne è l’anima, il gran teorico, il nome più noto. Per lui ormai innumerevoli sono i riconoscimenti, le mostre, le pubblicazioni. Anche lui esordisce negli anni ’50, frequentando diversi ambiti, la poesia lineare, il giornalismo, l’insegnamento universitario, per poi diventare una sorta di padre nobile di tutte quelle esperienze che, variamente denominate, possono però ricondursi nell’alveo della poesia visiva. Sempre cercando la pietra filosofale, la quadratura del cerchio, ovvero il perfetto equilibrio tra immagini e parole, che è poi l’essenza di questa stagione dell’arte contemporanea. Una stagione che parte da molto lontano, ma che nel Novecento, dagli esperimenti futuristi in poi, ha trovato la sua cifra, nella convinzione che i materiali, gli obiettivi e le finalitàdella tradizione e quelli della contemporaneità possano fondersi per approdare a un nuovo ideale estetico.
A
Catanzaro e dalla Fondazione Rocco Guglielmo, la mostra L’anima e la visione/1969-2019 50 anni tra ricerca artistica e progettazione grafica, a cura di Giorgio Bonomi e Luigi Polillo, avrà un carattere retrospettivo, sarà articolata in due momenti espositivi distinti tra di loro ma integrati e interagenti in un unicum che è costituito dalla storia artistica di Pino Pingitore, composta da due aspetti che potremmo definire le due anime dell’artista, ovvero: la vera e propria attività artistica e la progettazione grafica. Dal 30 novembre 2019 al 31 gennaio 2020. Pino Pingitore, Astratto fluido, 2016 Olio su tela, cm. 100 x 80 courtesy curator Luigi Polillo, Cosenza
Lamberto Pignotti, Quella giusta è… Un’altra musa, 1997; Elisabetta Gut, La Première leçon, 1988
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>news istituzioni e gallerie< BOLOGNA
CENTRO ARTI E SCIENZE GOLINELLI
U.MANO la nuova mostra di Fondazione Golinelli curata da Andrea
È
Zanotti con Silvia Evangelisti, Carlo Fiorini e Stefano Zuffi: il percorso espositivo, aperto al pubblico dal 20 novembre 2019 al 9 aprile 2020, è dedicato alla mano e sviluppato su più piani di lettura, dall’esplorazione dell’interiorità dell’uomo all’aprirsi alla comprensione dell’universo che gli sta intorno, in stretto e inevitabile collegamento con il cervello. La mano è l’elemento di raccordo tra la dimensione del fare e quella del pensare ed è quindi fortemente rappresentativa della prospettiva di azione di Fondazione Golinelli di recuperare il segno di un legame oggi perduto: quello tra arte e scienza, che proprio nella cultura italiana ha raggiunto il suo culmine. «L’antica alleanza che un tempo teneva unite arte e scienza – spiega Andrea Zanotti, Presidente di Fondazione Golinelli – sottintendeva intuizioni della mente e opere delle mani volte alla ricerca di quella discontinuità che nutre il progresso umano. È vero infatti che possiamo indagare il volto del futuro attraverso il calcolo delle probabilità e la capacità computazionale che toccano oggi nei big data il vertice più elevato; ma è vero anche che l’intuizione del futuro sta nelle anticipazioni, solitarie e dolorose, di scienziati e artisti che scrutano orizzonti a noi preclusi. È la solitudine di Leonardo che immagina con quattrocento anni di anticipo la capacità dell’uomo di volare». La mostra U.MANO è allestita nel Centro Arti e Scienze Golinelli, uno spazio progettato da Mario Cucinella Architects, che per l’occasione viene trasformato in un tempio classico. Si parte da due grandi installazioni centrali: le mani chiuse, emblema della riflessione sulla propria origine e interiorità, e quelle aperte, che rappresentano invece l’esplorazione e la conoscenza del mondo circostante. Le mani, come grandi origami specchianti, sono un gioco di simmetria e sono sviluppate a partire dalla digitalizzazione della mano destra del fondatore Marino Golinelli: al termine della mostra, resteranno esposte all’Opificio come simbolo del cammino da lui impresso alla Fondazione, un cammino che, partendo dal passato, possa aprirsi a quel futuro che appartiene alle giovani generazioni. Nello spazio creato dalla scultura “mani chiuse” sarà collocato il De Symmetria partium in rectis formis humanorum corporum libri, di Albrecht Dürer, un trattato sul disegno della figura umana le cui istruzioni sono state interpretate come uno dei primi algoritmi di arte generativa. Questo algoritmo è stato applicato per trasformare le dimensioni della mano in frequenze e in rapporti fra esse, ottenendo così i suoi suoni. Si potranno anche ammirare due atlanti anatomici straordinari: il De humani corporis fabrica di Andrea Vesalio e i Deux Livres de chirurgie di Ambroise Paré. Sarà un percorso che condurrà a conoscere il capolavoro realizzato nel corso del Settecento a Bologna delle cere anatomiche di Anna Morandi Manzolini, strumento di conoscenza e di riproduzione mimetica della realtà, ma anche straordinaria
Anna Morandi Manzolini, Mani sensibili, Museo di Palazzo Poggi Sistema Museale di Ateneo - Alma Mater Studiorum Università di Bologna
opera scultorea. La terza installazione, prodotta da Fondazione Golinelli in occasione di ArteFiera 2019, è quella mano-cervello, una scultura “aumentata” che invita ad osservare come osserviamo, giocando prima con gli inganni della percezione e poi con la manipolazione dei dati di osservazione. Riannodare i fili della memoria passata permette all’uomo di restare legato alla sua origine e, quindi, di procedere verso il futuro con più certezza. Pertanto, nel percorso della mostra sono collocati dipinti realizzati tra Cinquecento e Seicento, particolare momento storico nel quale si è registrato un cambio di passo per alcuni versi simile a quello che stiamo vivendo ora: la Madonna col Bambino attribuita a Caravaggio; Giuditta e Oloferne di Giovan Battista Crespi; Il Cristo della moneta di Mattia Preti; la Madonna col Bambino di Ludovico Carracci e San Giovanni Battista di Guercino (Pinacoteca Capitolina); Ritratto di Francesco Arsilli di Sebastiano del Piombo (Pinacoteca “F. Podesti”). Il Medioevo che lascia definitivamente spazio a nuove e inedite imprese umane coincide con uno spostamento dell’asse antropologico, con l’uomo che diviene progressivamente padrone del proprio destino. Il percorso conduce quindi il visitatore a un indice puntato verso il Cielo, a ricordare il destino di grandezza cui l’uomo è chiamato e che è tutto iscritto nel Giudizio Universale della Cappella Sistina. Quel dito, reinterpretato da Michelangelo Pistoletto nel “quadro specchiante” che ripropone la Creazione di Adamo di Michelangelo nella contemporaneità, indica un’idea della Creazione diversa da quella della tradizione antica, in cui il tocco della mano rappresenta l’elemento di raccordo tra Creatore e creato, tra la pura capacità creativa e il mondo delle cose, avviando l’uomo alla conoscenza, invitandolo a sviluppare le proprie potenzialità. Un nuovo, possibile destino che, ancora una volta, è nelle nostre mani.
Albrecht Dürer, De Symmetria partium in rectis formis Humarorum Corporum © Fondazione G. Sanvenero Rosselli per la Chirurgia Plastica, Milano
NOVEMBRE/DICEMBRE 2019 | 275 segno - 9
>anteprima< AMSTERDAM
BASILEA
M
rima personale istituzionale per Kaari Upson, che in Go Back the Way You Came presenta un nuovo corpus di scultuP re in legno e latex, a prosecuzione dell’esplorazione della figura
STEDELIJK MUSEUM
olto variegata l’offerta dell’istituzione olandese. Principale esposizione autunnale è Chagall, Picasso, Mondrian and Others: Migrant Artists in Paris, racconto di come alcuni già grandi e alcuni ancora sconosciuti artisti si confrontarono con una società nazionalista e xenofoba, e di come questo confronto diede vita a opere immortali. Opere di oltre 50 artisti, tra i quali Appel, Chagall, Delaunay, Freund, Goncharova, Kandinsky, Krull, Lam, Mondriaan, Picasso, Ray, Rivera, Severini, Sluijters, Zadkine. Fino al 2 febbraio. Al lavoro sperimentale di Jeff Preiss, filmaker attivo soprattutto nel campo musicale, è dedicata la mostra Stop And 14 Reels. Il film Stop (1995-2012) è un ritratto intimo di un’epoca segnata dagli albori dell’era digitale e dall’attacco dell’11 settembre. 14 Standard 8mm Reels 1981-1988 (2018) monta insieme filmati in 8mm girati negli anni ‘80, ognuno dedicato a un amico con cui Preiss era in conversazione. Dal 5 ottobre al 5 gennaio 2020. A partire dal 19 ottobre, apre al pubblico l’esposizione degli artisti nominati per il Prix de Rome Visual Arts 2019: Sander Breure & Witte van Hulzen, Esiri Erheriene-Essi, Femke Herregraven, Rory Pilgrim. Proclamazione del vincitore il 31 ottobre. La mostra prosegue fino al 22 marzo 2020. Altre occasioni: gli omaggi a Wim Crouwel (1928), dal titolo Mr. Gridnik, con una selezione del suo lavoro tipografico, nonché al designer grafico Shigeru Watano (1937-2012), Colorful Japan, con 226 poster del maestro e altri importanti grafici giapponesi. Fino al 30 ottobre è, inoltre, visitabile De Best Verzorgde Boeken, dedicata ai migliori esiti annuali nel design librario olandese.
KUNSTHALLE BASEL
materna e del suo sconcertante doppio. Fino al 10 novembre. L’artista e coreografo polacco-britannico Alex Baczynski-Jenkins, che disloca micro-gesti, danza e set minimali per tratteggiare desiderio e alienazione ripropone fino al 13 ottobre le sue più recenti performance in un programma dal titolo Such Feeling. L’esposizione Stable Vices, la prima in una istituzione svizzera per la fotografa Joanna Piotrowska, cattura il dramma quotidiano delle relazioni umane. La nuova serie di scatti in bianco e nero in mostra è affiancata a filmati di recenti creazione. Dal 25 ottobre al 5 gennaio 2020.
BASILEA
FONDATION BEYELER
seguire la mostra dedicata a Rudolf Stingel, il 6 ottobre inaugura Resonating Spaces, esposizione con opere di LeoA nor Antunes, Silvia Bächli, Toba Khedoori, Susan Philipsz
e Rachel Whiteread. Ad accomunare i lavori in mostra, la capacità di esulare dalla rappresentazione del singolo oggetto per andare a creare lo spazio in cui esso esiste. Fino al 26 gennaio 2020.
Rachel Whiteread, Vitrine Objects, collezione privata courtesy l’artista e Mike Bruce Photography, Londra Mario Merz, Rinoceronte, 1979, tecnica mista su tessuto e neon, cm.291x435 collezione privata, Madrid, courtesy Fondazione Merz/SIAE, 2019
Jeff Preiss, STOP, video 16mm transferito in DCP, 2012, 120’, courtesy l’artista
BILBAO
GUGGENHEIM BILBAO
re le offerte espositive. Una ricognizione su 4 decadi di ricerca di Thomas Struth, a oggi la più completa, a cura di T Thomas Weski e Lucía Agirre, con oltre 130 scatti del fotografo tedesco e illustrare gli stadi della sua evoluzione linguistica. Dal 2 ottobre al 19 gennaio. Soto. The Fourth Dimension, retrospettiva di Jesús Rafael Soto (1923-2005), la cui estetica è approfondita in termini di temporalità, intensità e partecipazione. Dal 18 ottobre al 9 febbraio. Masterpieces From The Collection Of The Kunsthalle Bremen: From Delacroix To Beckmann, dal 25 ottobre al 16 febbraio, spazia tra capolavori della collezione tedesca, dal Romanticismo alle avanguardie novecentesche. In mostra, tra gli altri, lavori di Caspar David Friedrich, Eugène Delacroix, Claude Monet, Edgar Degas, Pierre-Auguste Renoir, Max Liebermann, Lovis Corinth, Max Slevogt, Max Beckmann, André Masson, Pablo Picasso.
Thomas Struth, Kyoko and Tomoharu Murakami, Tokyo, 1991 stampa a getto d’inchiostro. cm.151x187, courtesy l’artista
10 - segno 275 | NOVEMBRE/DICEMBRE 2019
MADRID
MUSEO REINA SOFÍA
’offerta espositiva parte dalla ispano-brasiliana Sara Ramo che presenta, fino al 2 marzo 2020, lindalocaviejabruja, proL getto che ingloba video, installazione, scultura e collage, svilup-
pato appositamente per il programma Fisuras del Museo. La mostra Musas insumisas: Delphine Seyrig y los colectivos de vídeo feminista en Francia en los 70 y 80 esplora l’intersezione tra storia del cinema, video e femminismo in Francia, attraverso la figura dell’attrice e artista Delphine Seyrig (ai più nota per il ruolo in L’anno scorso a Marienbad, Alain Resnais, 1961) e la sua rete di “alleanze creative”. Dal 25 settembre al 23 marzo 2020. El tiempo es mudo è il titolo dell’esposizione che il Museo dedica a Mario Merz, analizzando la sua opera da una prospettiva all’apparenza anacronistica, cioè attraverso un corpus di lavori sospeso in una sorta di era preistorica. L’immaginario pre-moderno di Merz si consolida in motivi dalle reminiscenze mitiche e geologiche, l’igloo, il tavolo, la spirale, il fiume, che vanno ad accostarsi alla figura idealizzata del nomade che rivendica la propria libertà rifuggendo gli schemi del presente capitalista. Dall’11 ottobre al 29 marzo 2020. Il britannico Hassan Khan propone la mostra Las llaves del reino (Le chiavi del regno), in cui scultura, musica, installazione, testo concorrono a decodificare il valore della nostra esperienza nei confronti delle strutture di potere. Dal 17 ottobre al 1 marzo.
>news istituzioni e gallerie< LONDRA TATE MODERN
mpia ricognizione sugli oltre 70 anni di ricerca dell’artista greco Takis (Panayiotis Vassilakis), con oltre 70 opere A rappresentative tra cui spiccano i Signals, lavori con antenne e
magneti che grazie alla partecipazione degli spettatori generano suoni casuali. Fino al 27 ottobre. In Real Life è il titolo della mostra con cui, in collaborazione con il Guggenheim Museum Bilbao, Olafur Eliasson torna alla Tate. L’artista danese introduce nel suo lavoro fenomeni naturali come gli arcobaleni, geometrie complesse e l’interesse per la teoria dei colori. Fino al 5 gennaio 2020. L’artista sudcoreano Nam June Paik è protagonista di una grande esposizione, un ipnotico tumulto di immagini e suoni. Oltre 200 i lavori in mostra, generati nel corso di mezzo secolo, dai robot fatti di vecchie tv ai lavori video più innovativi, allee installazioni immersive e l’abbagliante Sistine Chapel del 1993. Dal 17 ottobre al 9 febbraio 2020.
NEW YORK MOMA
n trittico di esposizioni per la stagione autunnale newyorkese, tutte all’avvio il 21 ottobre: si parte da Betye Saar: The U Legends of Black Girl’s Window, personale che esplora il profon-
do legame tra l’iconico assemblaggio autobiografico Black Girl’s Window (1969) e le sue rare stampe giovanili, risalenti agli anni ‘60. In mostra il corpus di 42 opere di Betye Saar di recente acquisizione da parte del Museo. Fino al 4 gennaio 2020. All’artista americano Pope.L è dedicata member: Pope.L, 1978– 2001, esposizione su 13 fondamentali performance, eclettiche e multidisciplinari. Create tra il 1978 e il 2001, le performance sono rappresentate attraverso una combinazione di video, fotografie, elementi scultorei e live action. Fino al 1 febbraio 2020. La mostra Sur moderno: Journeys of Abstraction-The Patricia Phelps de Cisneros Gift, si compone di dipinti, sculture e lavori su carta donati al Museo dalla Colección Patricia Phelps de Cisneros tra il 1997 e il 2016. Opere di artisti come Lygia Clark, Gego, Raúl Lozza, Hélio Oiticica, Jesús Rafael Soto, Rhod Rothfuss. Fino al 14 marzo 2020. Lo spazio MoMA PS1 ospita Theater of Operations: The Gulf Wars 1991-2011, con oltre 250 opere di 75 artisti internazionali, tra cui Afifa Aleiby, Dia al-Azzawi, Thuraya al-Baqsami, Paul Chan, Harun Farocki, Tarek Al-Ghoussein, Guerrilla Girls, Thomas Hirschhorn, Hiwa K, Hanaa Malallah, Monira Al Qadiri, Nuha al-Radi, Ala Younis. Dal 3 novembre al 1 marzo 2020.
Nam June Paik, TV Garden, 1974-’77 (2002) Kunstsammlung NordrheinWestfalen, Düsseldorf, courtesy Estate of Nam June Paik, foto Roger Sinek
PARIGI
CENTRE POMPIDOU
a mostra Bacon En Toutes Lettres si concentra sulla produzione artistica di Francis Bacon negli ultimi due decenni L di vita (tra il ‘71 e il ‘92). Sei le sale espositive, con particolare
attenzione alle ispirazioni letterarie della sua opera: letture da Eschilo, Nietzsche, Bataille, Leiris, Conrad, Eliot, autori che ne hanno ispirato il lavoro e condiviso il mondo poetico. Fino al 20 gennaio 2020. Lo spazio del cabinet de la photographie ospita Calais - témoigner de la «Jungle», esposizione fotografica con tre prospettive: quella di Bruno Serralongue, artista che imprime su pellicola il dramma dell’esilio e degli accampamenti provvisori di chi da Calais spera di raggiungere l’Inghilterra; quella dell’Agence FrancePresse, puramente mediatica e documentaristica; quella, infine, dei rifugiati e migranti stessi, che con i loro scatti ci mostrano il controcampo alla pura funzione informativa e si affiancano a quelli di Abdulrahman, Ahmad, Diagne, Haider, Haghooi, Inanlou, Niroomand. Dal 16 ottobre al 24 febbraio. La mostra Points de rencontres, nella Galerie d’Art Graphique, illustra gli esiti del primo anno del Fonds de dotation Centre Pompidou Accélérations. 7 artisti in residenza e in collaborazione con 7 imprese, espongono qui i frutti del loro lavoro: Hubert Duprat (Teréga), Lionel Estève (Cdiscount), Alexandre Estrela (Orange), Agnès Geoffray (Neuflize OBC), Jonathan Monk (Axa), Camila Oliveira-Fairclough (Tilder), Bruno Serralongue (SNCF Logistics/Ermewa). Dal 23 ottobre al 27 gennaio. L’esposizione della 19a edizione del Prix Marcel Duchamp ha come protagonisti il filmaker Eric Baudelaire (con un lavoro girato con gli studenti dell’università di Seine-Saint-Denis) le scultrici Katinka Bock e Marguerite Humeau (che evidenziano la differenza nel loro approccio alla materia), l’opera grafica del duo formato da Ida Tursic e Wilfried Mille. Annuncio del vincitore il 14 ottobre, mostra fino al 6 gennaio 2020.
SAN GALLO KUNST HALLE
O Pope.L, How Much is that Nigger in the Window a.k.a Tompkins Square Crawl. New York, NY, 1991, stampa digitale su carta di seta in fibra d’oro, cm.25x38 courtesy l’artista e Mitchell - Innes & Nash, New York
NEW YORK
SOLOMON R. GUGGENHEIM
o spazio del Museo dedicato alla collezione permanente mette in evidenza l’opera di Constantin Brancusi, acquisita alla L metà degli anni ‘50 grazie all’interesse dell’allora direttore James
pportunity Zone è il titolo della mostra di Aaron Flint Jamison alla Kunst Halle di San Gallo in Svizzera. Il titolo prende spunto dall’acronimo OZ che in america identifica il codice fiscale dei cittadini statuinitensi. Jamison, scultore, poeta, tipografo e libraio, affronta questioni strutturali nella sua pratica. Le Opportunity Zone nella Kunst Halle Sankt Gallen sollevano questioni imminentemente rilevanti di responsabilità, quella di individui, istituzioni pubbliche, governi e società. L’interesse di Jamison per la carta stampata, le nuove tecnologie, i materiali specifici del progetto, il ritmo e il modo in cui il flusso di informazioni, e anche i buchi nel sistema artistico, svolgono un ruolo importante in questo OZ. La mostra Opportunity Zones di Aaron Flint Jamison alla Kunst Halle Sankt Gallen è accompagnata dalla nuova edizione della sua pubblicazione in serie ‹Veneer›.
Johnson Sweeney. Analoga genesi per l’esposizione della Thannhauser Collection, nata per la passione di Justin K. Thannhauser, sviluppatasi contemporaneamente a quella di Solomon R. Guggenheim, e unitasi a essa nel 1976, dopo la dipartita di Thannhauser. Le opere spaziano dall’Impressionismo francese al Futurismo italiano, dall’Espressionismo a un ricco corpus di opere di Picasso. Il Museo propone un interessante esperimento, la mostra Artistic License è la prima nei suoi spazi interamente curata da artisti, per celebrare la varietà di voci e interessi della ricchissima collezione. Cai Guo-Qiang, Paul Chan, Jenny Holzer, Julie Mehretu, Richard Prince, Carrie Mae Weems si sono cimentati nell’impresa selezionando circa 300 tra dipinti, sculture, lavori su carta, installazioni, alcuni mai esposti prima, che hanno come filo comune l’essere fortemente connessi al dibattito culturale contemporaneo. Fino al 12 gennaio 2020.
NOVEMBRE/DICEMBRE 2019 | 275 segno - 11
Oval, Torino
ARTISSIMA 2019
V
entiseiesima edizione, diretta per il terzo anno da Ilaria Bonacossa, recentemente riconfermata dal Consiglio Direttivo della Fondazione Torino Musei alla guida della manifestazione per altri due anni (sino al 2021). Nei luminosi spazi dell’Oval, Artissima è per tanti aspetti l’unica fiera italiana dedicata esclusivamente al contemporaneo, con un palinsesto che, mantenendone intatta l’identità di ricerca e di avanguardia, propone idee e lavori per stimoli più interessanti del nostro tempo, per un pubblico di collezionisti, professionisti del settore e appassionati. Ma anche una fiera che si riconferma a ogni edizione come la preferita da curatori, direttori di istituzioni, fondazioni d’arte e patron di musei provenienti da tutto il mondo, coinvolti a vario titolo nel suo programma. Nelle dichiarazioni della curatrice, “Artissima 2019 propone la dialettica desiderio/censura come tema trasversale attorno al quale far convergere le attenzioni. L’obiettivo è stimolare una riflessione aggiornata ed eterogenea sulle ambizioni e sulle utopie contemporanee, sugli impulsi che plasmano i tempi e sulle prospettive e le narrazioni che li attraversano, sul complesso rapporto che esiste nella società contemporanea tra le immagini e il loro controllo. La vitalità di Artissima e la sua forza innovatrice si riverberano ulteriormente su tutta la città, grazie alla collaborazione attiva con numerose istituzioni pubbliche, musei, fondazioni, gallerie, catalizzando i progetti culturali del territorio. Le opere d’arte sono storicamente portatrici di immagini in grado di emancipare ciò che convenzionalmente viene considerato un tabù, grazie al desiderio di sovvertire le regole, rendendo fluidi i confini tra normale ed eccezionale. Il limite tra contenuti permessi e contenuti proibiti è al centro di un dibattito quanto mai attuale che vede l’arte stessa oggetto di censura. Nel mondo digitale e sui principali social network il controllo preventivo, spesso algoritmico, rende di fatto sempre più difficile la diffusione e promozione del nostro patrimonio artisticoculturale. In un tale contesto, il desiderio rimane un momento di rottura, una “ligne de fuite”, come dicono Deleuze e Guattari in Mille Piani: un’energia dirompente che riesce a infiltrarsi nelle crepe del sistema per aprire delle visioni laterali inaspettate capaci di mostrare gli spazi aperti al di là dei limiti delle convenzioni. E l’arte contemporanea rimane uno spazio di incontro vero e fisico tra la persona e le sue aspirazioni”. Ibrahim Mahama, Non orientable Nkansa, 2017 (exchanged shoemaker boxes, construction boards, old train parts, mix media. 475 x 950 x 95 cm.) Courtesy the artist and APALAZZOGALLERY. Photo credit Maxime Dufour [Artissima 2019 Main Section]
Amanda Beech, Convenant Transport Move or Die, 2015 (five channel video installation). Artericambi, Verona [Artissima 2019 Main Section]
12 - segno 275 | NOVEMBRE/DICEMBRE 2019
Perino e Vele, Madeforyou II, 2019. (papier-mâché, fiberglass and acrylic paint - 78(h) x 92(l) x 50(w) cm Alberto Peola Arte Contemporanea, Torino [Artissima 2019 Main Section]
Rezi van Lankveld, Cherry, 2019 (oil con canvas, 58 x 42 cm.) Annet Gelink Gallery, Amsterdam [Artissima 2019 Main Section] Gugliemo Castelli, Discombombulate, 2019 (mixed media on canvas; 140x100 cm.). Courtesy the artist and Francesca Antonini arte contemporanea. [Artissima 2019 Main Section]
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
L
e sezioni di Artissima 2019 sono sette. Quattro sono selezionate dal comitato delle gallerie della fiera: Main Section, raccoglie una selezione delle gallerie più rappresentative del panorama artistico mondiale. Quest’anno ne sono state scelte 97 di cui 50 straniere. New Entries, sezione riservata alle gallerie emergenti sulla scena internazionale, quest’anno avrà 20 gallerie di cui 15 straniere. Dialogue, sezione dedicata a progetti specifici in cui le opere di un massimo di due artisti vengono messe in stretta relazione tra loro, con 30 gallerie di cui 22 straniere. Art Spaces & Editions, ospita gallerie specializzate in edizioni e multipli di artisti, project space e spazi no profit, con 7 espositori. Tre sono le sezioni curate da board internazionali di curatori: Present Future, Back to the Future, Disegni Alcune novità. Tra le novità di Artissima, Hub Middle East, un nuovo progetto in collaborazione con Fondazione Torino Musei e con la consulenza di Sam Bardaouil e Till Fellrath (fondatori della piattaforma curatoriale Art Reoriented) che intende offrire una ricognizione sulle gallerie, le istituzioni e gli artisti attivi in un’area geografica centrale per gli sviluppi della società contemporanea. Abstract Sex: We don’t have any clothes, only equipment è un innovativo progetto espositivo, incentrato sul tema del desiderio, in linea con il fil rouge di questa edizione. Ospitato negli spazi di Jana, storica boutique torinese, questa mostra si interroga sulla rilevanza del desiderio nella ricerca ar-
Linda Fregni Nagler, From the series How to Look at a Camera, Tapada Limeña (010), 2019. (photogravure on Zerkall paper. 112,5x81 cm) Courtesy Monica De Cardenas. Photo: Andrea Rossetti
Paolo Cirio, Meaning (Context), 2019 (acrylic on engraved mirror glass 130x130 cm.) Courtesy Galleria Giorgio Persano- Photo: Nicola Morittu Marie Denis, Black beach, 2018 (large coconut shells (spathes), graphite patina 170x35 cm) . Courtesy Alberta Pane Gallery (Paris, Venezia) and the artist
Lucia Marcucci, Autoritratto, 1967 (collage on hardboard - 40x30 cm) Courtesy the artist and Frittelli arte contemporanea, Firenze Photo: Paolo Mariani [Artissima 2019 Main Section] Vanessa Billy, Refresh, Refresh (full mold), 2017-19 (polished and patinated bronze) Courtesy Galleria Gentili and the artist. Photo: Jacopo Menzani
NOVEMBRE/DICEMBRE 2019 | 275 segno - 13
Abdelkader Benchamma, Chardin, 2019 (ink and felt pen on paper; 66x50 cm) Courtesy Courtesy of the artist and Gallery Isabelle van den Eynde
Joseph Kosuth, Wittgenstein’s color, 1989 (red neon; 16x38 cm - Edition of 50) Courtesy Galleria Lia Rumma Milano – Napoli
Ugo Mulas, Lucio Fontana, Milano, 1964 - Edition of 8 (modern print, gelatin silver print on baritated paper on board - 80x70x4 cm-) Courtesy Galleria Lia Rumma Milano - Napoli
tistica e culturale più recente, attraverso video, sculture, opere su tela o carta e oggetti selezionati dalle gallerie che partecipano ad Artissima 2019. Il progetto, nato da un’idea di Ilaria Bonacossa, è a cura di Lucrezia Calabrò Visconti e Guido Costa In continuità con l’indagine sul suono iniziata lo scorso anno, nel 2019 la fiera lancia Artissima Telephone, un progetto espositivo pensato con e per gli spazi delle OGR – Officine Grandi Riparazioni. Ideata da Ilaria Bonacossa e curata da Vittoria Martini, Artissima Telephone offre una ricognizione sul telefono come mezzo espressivo artistico. Gli artisti e le gallerie selezionati per Artissima Telephone sono: Aaajiao, House of Egorn Berlino Apparatus 22, GALLLERIAPIÙ Bologna Matthew Attard, MICHELA RIZZO Venezia Xiaoyi Chen, MATÈRIA Roma Larisa Crunteanu, ANCA POTERASU Bucharest Roberto Fassone, FANTA-MLN Milano Shadi Habib Allah, RODEO Londra, Pireo Nona Inescu, SPAZIOA Pistoia Antal Lakner, GLASSYARD Budapest Glenda León, SENDA Barcellona Camille Llobet, FLORENCE LOEWY Parigi Anna Maria Maiolino, Raffaella CORTESE Milano Josep Maynou, BOMBON Barcellona Marzia Migliora, LIA RUMMA Milano, Napoli, Francesco Pedraglio, NORMA MANGIONE Torino Michelangelo Pistoletto, Giorgio PERSANO Torino Selma Selman, NOVEMBAR Belgrado Michele Spanghero, Alberta PANE Parigi, Venezia + MAZZOLI Berlino, Modena, Dusseldorf Myles Starr, VIN VIN Vienna Emilio Vavarella, GALLLERIAPIÙ Bologna Cesare Viel, PINKSUMMER Genova ARTISSIMA PROJECTS L’unicità di Artissima nasce dalla sua duplice vocazione che la vede affiancare, a una proposta di mercato di alto livello, una proposta culturale in grado di indagare sempre nuove e diverse modalità di proporre arte, all’interno e in occasione della fiera, al di fuori e durante l’intero anno. Artissima opera come un brand di eccellenza nel mondo dell’arte contemporanea supportando e guidando aziende, attive in settori diversi, nell’ideazione di progetti di investimento in ambito culturale per rafforzarne 14 - segno 275 | NOVEMBRE/DICEMBRE 2019
Alejandra Hernández, Full moon ritual, 2017 Courtesy the artist and Laveronica arte contemporanea
Thomas Braida, Siesta del sol, Siesta per tutti, 2019 (oil on canvas. 280x480x3 cm.) Courtesy The artist and Monitor, Rome/Lisbon Giulio Paolini, Studio per “Sala d’attesa” (St Rémy de Provence), 2011-12. Repetto Gallery
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
He Sen, Not titled yet, 2019 (oil on cavas). Courtesy Primo Marella Gallery
Melissa McGill, Red Regatta Coppa del Presidente della Repubblica, San Giorgio Maggiore (unique archival digital C-print with pigment and matte gel medium 101.6x152.4 cm) Courtesy Mazzoleni Galleria d’Arte, London - Torino
Giulia Cenci, ground-ground #02, 2018 (iron, silicone, foam and rubber scraps - 55x235x95 cm) Courtesy SpazioA, Pistoia - Photo: Camilla Maria Santini
David Rickard, A walk in the Alps (Axis Mundi), 2019 (sculpture, action and film) Courtesy Galleria Michela Rizzo Jimmie Durham, After ‘The Prize of the Silver Golf’, 2010 mixed media (115 x110x10 cm) Courtesy Artist and Sprovieri, London
il posizionamento e i valori identitari. L’edizione 2019 propone: * Jaguar Land Rover nuovo partner automotive di Artissima, presenta JaguArt, un progetto speciale che vede protagonisti i giovani talenti. * Ma l’amor mio non muore, è un progetto nato dall’inedita partnership con il Gruppo UNA. Una grande installazione performativa e scultorea di Marcello Maloberti allestita nel magico Salone delle Feste dell’Hotel 5 stelle Principi di Piemonte. * HEAD HEAD è un progetto che vede promotore e protagonista Franco Curletto, hairstylist di rinomata fama nel mondo della moda, del cinema e dell’arte che con il suo team cura l’hair concept per una performance dell’irriverente artista Tomaso Binga. * Artissima con Giovanni Ozzola è guest curator del quarto episodio di Galleria Cracco, progetto a cura di Sky Arte che invita artisti contemporanei a “invadere” le lunette - vetrine del Ristorante Cracco in Galleria Vittorio Emanuele II a Milano. Giovanni Ozzola è il protagonista della nuova installazione site specific che cattura il passare del tempo. * Art Mapping Piemonte, prodotto da Fondazione Torino Musei, prevede una mappatura delle più significative opere di arte pubblica contemporanea presenti sul territorio piemontese, parallelamente alla realizzazione di tre nuove installazioni site-specific concepite ad hoc da artisti contemporanei internazionali. Gli artisti coinvolti nei nuovi interventi site-specific sono Mario Airò, Olivier Mosset e Zhang Enli * Concrete è un progetto multidisciplinare che dà vita a una speciale capsule collection di occhiali nati dalla collaborazione tra VANNI Occhiali, storico brand Made in Italy e l’artista Cristian Chironi. * Alla Vip Lounge cinque grandi tele site specific di Miltos Manetas. * Artissima Junior, ideato e creato in collaborazione con Juventus, vive la sua seconda edizione scegliendo un giovane duo di artisti a guidare il progetto. Valentina Ornaghi (Milano, 1986) e Claudio Prestinari (Milano, 1984), attraverso un processo di creazione in costante dialogo e scambio osmotico, accompagneranno i giovani visitatori di Artissima in una nuova avventura nel mondo dell’arte contemporanea. * Artissima e Treccani proseguono la speciale collaborazione che dal 2018 li vede in dialogo nel progetto Alfabeto Treccani, una collana di ventuno multipli inediti a tiratura limitata realizzati da altrettanti artisti italiani riconosciuti sulla scena internazionale. La curatela del progetto è di Ilaria Bonacossa che ha invitato Giorgio Andreotta Calò, Giovanni Anselmo, Massimo Bartolini, Paolo Icaro, Marinella Senatore e Gian Maria Tosatti. NOVEMBRE/DICEMBRE 2019 | 275 segno - 15
Paul P, Untitled, 2011 (courtesy galleria Massimo Minini) Chto Delat, ...and millions more who’s names remain unknown #8. POP-UP Monuments, 2018 (mixed media, life sizex cm Courtesy The Gallery Apart Rome - Photo: Giorgio Benni
Tony Cragg,First Person, 2014 (wood; 165x104x165 cm) Courtesy the artist and Tucci Russo Studio per l’Arte Contemporanea, Torre Pellice / Turin. Photo: Archivio fotografico Tucci Russo Studio per l’Arte Contemporanea
Ettore Spalletti, Girandola, verso l’oltremare, 2016 (color impasto on board, gold leaf with tapered frame on four sides 150x150x4 cm) Courtesy Vistamare gallery and the artist, Photo: Azzurra Ricci Marija Avramovic, Pleasant palms pool, 2018 (70x60 cm,) Gallery Novembar, Belgrade [Artissima 2019 New Entries Section]
Mario Cresci, Fuori tempo #03, 2008 (inkjet print on Baryta photo paper - 180x144 cm) Courtesy Materia and the artist [Artissima 2019 New Entries Section] Mickael Marman, no title as yet (painting), 2019 (modeling paste, rock and wood frame - 40 x 40 x 3 cm) courtesy of the artist [Artissima 2019 New Entries Section]
16 - segno 275 | NOVEMBRE/DICEMBRE 2019
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Dealmeida Esilva, Untitled, 2019 (oil on canvas; 220x160 cm) Courtesy Balcony Gallery [Artissima 2019 New Entries Section] KIM1995, Wood chair, Italy ’60s modified by Andrea and Sara, claim stickers, Milan, 2018. 4,36 tons. 2018. (80x41x39 cm). Courtesy Castiglioni and the Artist Photo: Filippo Armellin [Artissima 2019 New Entries Section]
Roy Claire Potter, Shore Road (flag), 2018 (ink on copy paper - 21x30 cm). Courtesy A plus A, Venezia [Artissima 2019 Section Dialogue]
Lenz Geerk, Zircus Familie, 2019. Courtesy the artist and Acappella, Napoli Photo: Lenz Geerk. [Artissima 2019 Section Dialogue]
Guy Yanai, Still Life with Aubergines II (after Matisse), 2019 (oil on canvas; 150x120x5 cm.). Courtesy Courtesy by the artist & PrazDelavallade Paris-Los Angeles. [Artissima 2019 Section Dialogue]
Michael Hilsman, Cut Flower (With Knife), 2018 (oil on linen, 25,5x20,5 cm), [Galerie Sébastien Bertrand Artissima 2019 Section Dialogue]
NOVEMBRE/DICEMBRE 2019 | 275 segno - 17
Emilio Vavarella, Do You Like Cyber? 2017 Sound installation. Dimensions variable. Courtesy the artist and GALLLERIAPIÙ, Bologna Photo Musacchio Ianniello and Fondazione MAXXI [Artissima Telephone]
Anna Maria Maiolino, João & Maria [Hansel and Gretel], 2009/2015 Video, 4’ 08’’ With the participation of: Sandra Lessa e João Araújo Photography by: Anna Maria Maiolino e Marianna Zanotti Editing and sound Anna Maria Maiolino e Mateus Pires. Galleria Raffaella Cortese, Milano. [Artissima Telephone] Matthew Attard, Searching for Climate Change, 2019 (Computer narration audio, search engine software) Courtesy the artist and Galleria Michela Rizzo, Venezia. [Artissima Telephone]
Ex Ospedale Militare A. Riberi, Torino
THE OTHERS 2019
P
er questa nona edizione The Others 2019 (in programma a Torino dal 31 ottobre al 3 novembre), la prima a firma di Lorenzo Bruni, sceglie una nuova location: l’ex Ospedale Militare Alessandro Riberi. “Vogliamo una fiera che superi le aspettative, superi i confini, impressioni, confonda e crei le premesse di nuovi approcci culturali - osserva Roberto Casiraghi, ideatore della fiera torinese - la creatività è l’identità stessa della nostra società, i tanti giovani che saranno presenti, come artisti e pubblico, sono il futuro. Con The Others ho la certezza che osiamo più di chiunque altro.” “La scelta di ospitare nella caserma Riberi The Others - spiega il Generale Salvatore Cuoci - vuole alimentare l’osmosi tra la città di Torino e l’Esercito. La Riberi è una delle ventisei strutture selezionate per lo sviluppo del progetto “Caserme Verdi” dello Stato Maggiore. Tale piano punta all’ottimizzazione del parco infrastrutturale creando spazi più sicuri e funzionali, a basso impatto energetico e ambientale, che garantiscano, attraverso aree dedicate ad asili, impianti sportivi e spazi per il tempo libero aperti alla popolazione, una continua e crescente integrazione con il tessuto sociale e culturale delle città.” Tre edifici gemelli in stile liberty, uno più corto perché segnato da un bombardamento durante la seconda guerra mondiale, con circa 1.000 metri quadrati di superficie espositiva coperta, a cui si
18 - segno 275 | NOVEMBRE/DICEMBRE 2019
Camille Llobet, Graffiti, 2010 (9 recorded readings on listening post, 3’ - 7’ Tolex, etched aluminium, nine phone jacks, headphones, 46 x 34 x 22 cm) View from the exhibition Les Nouvelles Babylones, Parc Saint Leger, 2013 Ph Aurélien Mole. Courtesy Florence Loewy gallery, Paris [Artissima Telephone]
Nona Inescu, ECHO, 2017 (In collaboration with Vlad Nanca and Chlorys) Installation with 40 Albino snail shells, 20 airpods, i-pod, sound (3’ 20’’ loop) Dimensions variable. Courtesy SpazioA, Pistoia [Artissima Telephone]
aggiungono le aree open air con vista sul campanile di Santa Rita. Stimoli culturali e orizzonti ampliati grazie a Lorenzo Bruni, toscano neo direttore artistico di The Others, critico d’arte e docente con una carriera articolata ed eterogenea, ha ricreato il gruppo di lavoro intercettando nuova linfa creativa in figure open minded: Amelie Quillet ex fair manager di Bruxelles, Yulia Belousova curatrice indipendente di Berlino, già nel team della scorsa edizione, Romuald Demidenko polacco con una vocazione per la ricerca sulle prospettive dell’arte digitale e Simone Ciglia, italiano con collaborazioni con il MAXXI di Roma. “La mia idea era creare uno spazio d’incontro in cui le gerarchie – tra autori e spettatori e tra addetti ai lavori e curiosi - fossero stimolate all’interazione e le barriere mentali potessero essere superate a favore di uno scambio diretto di informazioni – spiega Bruni – The Others è sempre stata una fiera aperta e offrirà sempre di più la possibilità di un confronto tra giovani gallerie europee, spazi non profit e artist-run space”. Palazzina ex Ospedale Riberi
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Olivia Bax, No Smoke Without Fire, 2018 (steel, chicken wire, newspaper, glue, paint, plaster. 35x37x31 cm). Ribot, Milano [Artissima 2019 Section Dialogue] Radek Brousil, Standing, Holding a Waterlily, 2019 (installation view), NoD Gallery Prague Courtesy the artist and Glassyard Gallery [Artissima 2019 Section Dialogue]
Michelangelo Pistoletto, Smartphone - uomo appoggiato, 2018 (silkscreen on super mirror stainless steel - 250 x 150 cm). Photo Nicola Morittu. Courtesy Galleria Giorgio Persano. [Artissima Telephone] Stefan Sava, Shadow Variations, 2018 (photograph. 29x39.5 cm) Courtesy The artist and Ivan Gallery Bucharest. Photo: Stefan Sava [Artissima 2019 Section Dialogue]
Tre le sezioni: Main, Expanded Screen e Specific. Per la sezione Main si potranno scoprire le proposte di 3:e Våningen/3:rd Floor – Götenburg, Galleria Daniele Agostini – Lugano, A’NICA art gallery – Milano, Assembled by Root – Rotterdam, Astrid Noack’s Atelier – Copenaghen, BI-BOX Art Space – Biella, Cartavetra – Firenze, Casa8 Art Gallery e Collage Habana – L’Avana a Cuba, CRAG - Chiono Reisova Art Gallery – Torino, D 406-Fedeli alla linea – Modena, Fabbrica Eos – Milano, fābula gallery – Mosca, Febo&Dafne – Torino, O-Art Project – Lima, Galleria Susanna Orlando – Pietrasanta (LU), Peninsula e.V. – Berlino, PrimoPiano – Napoli, Galleria Rankka – Helsinki, RAW Streetphoto Gallery – Rotterdam, paola sosio contemporary art – Milano, Spazio T24 – Roma, Galleria studio legale – Sant’Arpino (CE), SYSTEMA GALLERY – Osaka, Galerie Van Cauwelaert – Berlino, VisionQuesT 4rosso – Genova, X-pinky –Berlino, YORUBA:diffusione arte contemporanea – Ferrara, YIRI ARTS – Taipei, Zeit Gallery – Pietrasanta (LU), MANUEL ZOIA GALLERY – Bernate Ticino (MI). Expanded vedrà la partecipazione di Atletika Gallery – Vilnius, BI-BOX Art Space – Biella, FOKU Estonian Union of Photography Artists – Tallin, MUCHO MAS! Artist Run Space – Torino, RAW Streetphoto Gallery – Rotterdam. I protagonisti di Specific con progetti ad hoc saranno: ADDart – Spoleto, Display – Parma, Opificio PUCA – Sant’Arpino (CE), Studio8 Contemporary Art – Roma e widmertheodoridis – Eschlikon. Parteciperanno come Special Project: 404 Collectif de La Sorbona – Parigi, Associazione OUTSIDER ODV –Torino, CENTRALE
FESTIVAL – Fano (PU), davidepaludetto artecontemporanea – Torino, Post Modern Collection – Amsterdam, Scuola di Alto Perfezionamento Musicale – Saluzzo(CN), Zenato Academy – Peschiera del Garda (VR). Instaurate nuove collaborazioni con quattro accademie d’eccellenza italiane, lo IUAV di Venezia, Brera di Milano, AANT di Roma e lo IED di Torino, le quali si occuperanno di coinvolgere la comunità di appassionati d’arte in modo immediato e attraverso i canali live dei social. Sarà allestita inoltre una web tv con un palinsesto che vedrà coinvolti curatori con ospiti collezionisti e curatori in brevi talk fruibili da remoto, gratuitamente. 5 i temi su cui si discuterà: Futurarte – gli aiuti della tecnologia; Il sapere in scatola – come conservare; Indipendente – da chi e da cosa; Collezionare – Collezioni e Collezionisti e Fiera d’arte e territorio – opportunità in e off. A chiusura dell’edizione 2019 domenica 3 novembre verranno assegnati 2 premi: la Galerie Van Cauwelaert di Berlino premierà un giovane artista under 35 partecipante all’edizione di The Others 2019 a cui verrà assegnato il Roussas, artist residency in the Sud of France, premio di residenza per artisti della durata di un mese e il premio d’acquisto di un’opera fotografica da parte di Zenato Academy Gli orari d’apertura come da consuetudine serali: giovedì, venerdì e sabato dalle ore 16.00 all’una di notte (la biglietteria chiude alle 24.15), domenica 3 novembre, ultimo giorno, dalle ore 11.00 – 21.00 con Closing Party a partire dalle ore 20.00. Mentre il 31 ottobre dalle ore 21.00 previsto un Opening Party. NOVEMBRE/DICEMBRE 2019 | 275 segno - 19
Tony Oursler
Musja, Arte oltre il Museo, Roma
The Dark Side “Chi ha paura del buio?
“C
hi ha paura del buio?” è il titolo della mostra con cui il museo Muja, ha aperto, il 9 ottobre, i suoi battenti al pubblico romano. Un titolo che non a caso echeggia quello di un celebre film del 1966: “Chi ha paura di Virginia Woolf?” diretto da Mike Nichols e ispirato all’omonima pièce teatrale di Edward Albee, un sofisticato dramma in cui si narrano le vicende di una coppia di coniugi che litigano ferocemente nell’auto di due amici che li stanno riportando a casa e poi, una volta rientrati, si riaccomodano nella propria routine. Come, infatti, il film aveva tentato un esperimento sconsigliato da tutti gli esperti della Hollywood del tempo, quello di mantenere invariati i dialoghi infarciti di parolacce irripetibili e aggressività fuori controllo, utilizzati da Albee, così anche la mostra in questione si palesa subito intenzionata a tentare un suo esperimento che consiste nel ridare evidenza, attraverso l’arte, a tutte quelle esperienze interiori che, in genere, tendiamo 20 - segno 275 | NOVEMBRE/DICEMBRE 2019
a rimuovere dal novero dei nostri meriti conoscitivi. Vale a dire a tutto ciò che produce in noi indecisione, ansia, angoscia, sconforto o comunque insicurezza in quanto incombente dal punto di vista percettivo ma refrattario rispetto ai sistemi interpretativi più in uso, o anche, volendo usare una terminologia più specifica, a tutta una serie di possibili fonti di elaborazione segnica le quali più che indicarci una strada sembrano ingombrare il nostro percorso verso il linguaggio e dunque dal punto di vista della intelligenza comunicativa ci fanno paura. Quella stessa paura dell’impresentabile che Nichols non ebbe nei confronti della violenza verbale e dell’aggressività narrativa dei suoi protagonisti assicurandosi così un’enorme successo presso un pubblico oramai orientato al rinnovamento delle coscienze. In ogni caso, comunque stiano le cose quanto ai possibili parallelismi, ciò che qui ci interessa maggiormente è l’uso del termine “paura” da parte del curatore della mostra Danilo Eccher, il quale in realtà lo utilizza anche per altre due mostre in
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Gino De Dominicis, Untitled. 1985 (Courtesy Collezione Jacorossi, Roma)
programma presso lo stesso museo nell’arco di tre anni: “Paura della Solitudine” e “Paura del tempo” le quali, insieme alla prima, andranno a formare una trilogia a sua volta intitolata “The Dark Side” (Il Lato Oscuro), come a ribadire un’unica tesi di fondo: se l’ arte sta già riflettendo da tempo sui problemi di intraducibilità del sentire che assillano proprio quel pubblico sempre meno specialistico che tutte le istituzioni museali si sforzano oggi di intercettare, che senso ha non creare sin da subito una sinergia declinata al presente? Non condividere gli sforzi di ciascuna delle due polarità in gioco entro un comune orizzonte di consapevolezza e di crescita? Un orizzonte che veda nel museo non un notificatore a posteriori ma un ulteriore soggetto di quella stessa crescita? Un testimone attivo interessato non solo ai successi ma anche alle difficoltà che artista e fruitore cercano di risolvere entro i loro limiti epocali? Un assunto che si attaglia perfettamente alla formula innovativa dello stesso Musja, che può avvalersi costantemente delle opere presenti
nella collezione in progress del suo fondatore Ovidio Jacorossi oltre che di uno spazio espositivo estremamente duttile pur nella sua irripetibilità e di un’organizzazione agguerrita ed efficiente come quella una vera e propria impresa. Tornando alla mostra vale la pena osservare come le diverse forme di paura del lato oscuro di noi stessi chiamate in causa, assumono per ciascuno dei tredici artisti invitati connotati propri e personali ma sempre facilmente riconducibili ai contesti culturali entro cui essi hanno maturato la loro ricerca e ad una forma di autorialità, lontanissima dall’esaltazione dell’ego, che trova semmai sempre nella persona umana, comunque ferita o umiliata, un indagatore attivo e coraggioso del rapporto tra buio e luce, indifferenziazione e semiosi, formato ed amorfo, un esploratore che non si arrende neppure dinnanzi al rischio della ripetizione ossessiva, della irruzione insidiosa del simbolico o della dispersione delle energie scatenate manipolando la materia dell’arte senza più rassicuranti riferimenti agli orizzonti NOVEMBRE/DICEMBRE 2019 | 275 segno - 21
del già detto e del già fatto. Così per Gregor Schneider che immette in un vero e proprio tunnel privo di luce i suoi reperti di combustioni o consunzioni e ci chiede di non sottovalutare mai tracce e residui di ciò che è stato comunque un opera d’arte. Così per Monster Chetwynd che assembla sulla parete improbabili varchi a mo’ di mostruose fauci carnevalesche le quali invece di rassicurarci tramite la loro scarsa consistenza materiale evocano la violenza da sempre sottesa ad ogni forma di ritualita collettiva per quanto festosa essa voglia appairci, Così ancora per Flavio Favelli che continua ad assemblare ambienti in cui la regolarità del partiti geometrici o decorativi degli oggetti utilizzati fa da controcanto alla mancanza di una qualsiasi verità funzionale anche laddove tutto funziona, i lampadari si accendono e i tubi al neon potrebbero fare lo stesso. Così per Robert Longo la cui croce in fiamme nel parlarci di chissà quali delitti, violenze e in giustizie perpetrate all’ombra della fede ci ricorda anche quanto la nobile pratica del disegno possa far svanire l’autore proprio nell’atto stesso di lodarne la perizia, di mostrarcene la deliziosa e quasi eroica grandezza. E quanto detto vale anche laddove come nel caso di Hermann Nitsch l’artista si eleva a sacerdote di una religione che non conosciamo ma è capace ad evidenza di travasare l’arcaico e l’ancestrale nell’organizzazione, pubblica e plateale, della celebrazione, del rito che si fa altare e reliquiario, ma non ha la stessa credibilità spenta e tuttavia esuberante dell’oggetto conservato. Vale per Gianni Dessì che non ha mai distinto tra reperto e
Monica Bonvicini Robert Longo
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stimolo al dipingere ed ha costruito sin da subito la sua eleganza sull’abolizione del più e del meno, del confine tra pittura e non pittura, fra quadro, artista e ambiente. Sicché se gli si chiedesse a chi appartiene la luce o a chi appartiene il colore., la risposta consisterebbe in un’altra domanda: a chi appartiene l’artista? Allo spazio in cui vive o all’opera per cui vive? Ancora una volta dunque l’ancora è la persona, mentre il buio e la luce coincidono invece solo nel non agire, nel non cercarsi. Mai perdersi di vista, ma fare sempre il punto attraverso la propria operatività, si è detto, ed è questa anche la lezione che ci viene da Christian Boltansky, il più formidabile osservatore e manipolatore di oggetti precostituiti che abbia mai conosciuto l ‘arte Europea. L’esistente per lui non è mai stato impenetrabile e il ready made non è la dimostrazione di un teorema precostituito, per leggere il mondo e vincerne la resistenza si deve solo cambiare l’ordine delle cose, farle parlare sistemandole altrove, facendole interagire ed ascoltandole in modi inusitati, ma mai ad imitazione di qualcos’altro. Dall’oggetto alla naura il metodo resta lo stesso osservare l’esistente e farlo intervenire nello spazio dell’arte secondo le sue misure e i suoi modi, fosse anche il più effimero degli esseri viventi. La natura si fa invece manufatto nel lavoro di Sheela Gowda, che intreccia incredibili corde di capelli raccolti prima del loro smaltimento. La quantità che è possibile raccoglierne è praticamente infinita, ma altrettanto lo è il senso di sgomento che essa genera in quanto il singolo individuo sia pure in parte comincia a dissolversi in ciò che il suo stesso corpo produce con continuità e diviene difficile recuperare il sentimento della sua dignità. L’artista gli oppone il suo lavoro e lo disloca nel mondo sotto forma di una fune che unisce e sostiene, ma che in realtà è fragilissima e prende forza solo dagli ambienti che presiedono al suo circolare nel mondo dell’arte. La dignità dell’uomo insidiata da un’altra forma di invincibile infinità, quella del trascorrere del tempo, è anche ciò su cui ultimamente va riflettendo James Lee Byars, la sua risposta però non sta in un manufatto ma nella creazione di un ambiente in grado di produrre progressivamente i significati necessari a riconfortarci. Nel nostro caso si tratta di un tendaggio di raso aperto su di uno spazio indefinito davanti al quale è posto una sorta di trono in legno del XVII secolo. La presa sulla nostra immaginazione è certa e ben presto il vuoto si trasforma in una sorta di quintessenza della Storia ovvero di un assoluto superindividuale che si nutre dell’assenza stessa di arredi e personaggi. La zona oscura cui oppone la sua e la nostra immaginazione Tony Oursler è invece quella del sogno, del suo disordine che può trasformarsi in incubo. L’artista vi si oppone creando una continua proliferazione di volti narranti deformati ma non del tutto disgustosi che egli è in grado di produrre con la proiezione di immagini su superfici ellissoidali rigonfie cui associa un sonoro parzialmente distorto. Il disordine comincia a cedere le armi al senso, l’orrore a trasformarsi in fastidio, l’arte a rendersi in qualche modo protagonista della dimensione più inquietante tra tutte quelle su cui si affaccia il nostro vivere. Ancora un caso di spazio che potrebbe diventare invivibile è quello di Chiaru Shirota i cui fili di lana possono avvolgere tutto, soffocare tutto, rendere inagibile e persino invisibile qualunque ambiente. Ciò che l’uomo produce per riscaldare e proteggere diviene la metafora di un impulso uguale e contrario che potrebbe sopraffarci anche in virtù di una sorta di perversa estetica dell’individuazione e del controllo. Più difficile è invece ricondurre il lavoro di Gino De Dominicis alla semplice questione del controllo del lato oscuro dell’esperienza visiva , in quanto egli rovescia programmaticamente sin dai suoi esordi molti dei valori comunemente accettati dalla sua generazione relativamente alla progressione e all’arricchimento del conoscere. Resta comunque innegabile il fatto che la sua immagine demoniaca esposta in mostra è un esempio di forma controllatissima ottenuta dominando programmaticamente ciò che potrebbe sembrare un eccesso di rinuncia a tutte le risorse della differenziazione tra i mezzi canonici della pittura. Infine con Monica Bonvicini siamo di nuovo dinnanzi ad un caso di controllo del prelievo oggettuale che non vuole affrontare problemi relativi allo statuto dell’immagine, ma sperimentare e sondare tutti i possibili effetti del ricorso ad una sola categoria di manufatti chiamata non a negare il ruolo della forma nella creazione del significato, ma ad indagare nuove aperture di senso ottenute attraverso un calibratissimo gioco di rinunce ed eccessi. Di forme appunto ricche di assonanze e risonanze. Paolo Balmas
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Gianni Dessì, Camera scura, 2019. Courtesy the artist.
Monster Chetwynd, Bat, 2018 Courtesy Fondazione Sandretto Re Rebaudengo.
Chiharu Shiota, Sleepilng is like Death, 2019. Installation view. courtesy l’artista & Galerie Templon
Sheela Gowda
Gregor Schneider, End of the Museum, 2019. Courtesy the artist.
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Palazzo Buontalenti, Pistoia
Italia moderna 1945-1975
I
n principio fu il Tempo, e il tempo si fece Spazio. La seconda tappa della crono-mostra curata da Marco Meneguzzo filtra proprio dallo squarcio liberatorio teso da Fontana al giro di boa del Secolo Breve, nei primi anni Cinquanta, nocchiero verso una stagione fertilissima e conciata dalla memoria calda del dopoguerra. ITALIA MODERNA 1945-1975 : Dalla Ricostruzione alla Contestazione (fino al 6 gennaio 2020) che la Fondazione Pistoia Musei presenta nella sua sede di Palazzo Buontalenti, è uno spaccato pulito e organico delle evoluzioni artistiche del Belpaese degli anni Sessanta e Settanta incentrate sulle opere della Collezione Intesa Sanpaolo. L’innovamento dello Spazialismo, con Scheggi, Bonalumi e Castellani, denota già quell’aspetto rigoroso che propugna l’intera esposizione, non necessariamente un difetto anche se espone il limite di un’interpretazione monolaterale. Se infatti il processo formale è foriero di quanto accadeva in quei decenni, con l’infatuazione per l’oggetto e la macchina da una parte e l’orecchio teso verso le incursioni americanofile dall’altra, di contro va ricordato l’ostracismo critico verso il figurativo e di come la fotografia pura non avesse ancora ottenuto la corona d’alloro delle arti. Viene bene il passaggio dal post-Fontana alle ricerche di Arte Concreta e Optical, con splendidi lavori di Dadamaino e l’imperdibile installazione di Gianni Colombo, ma non con il solo Sessantotto si può sempre spiegare l’aggressiva ecletticità messa in scena dai protagonisti dell’arte italiana. La parentesi pop è il momento forse più interessante, poichè pone la questione che la Pop italiana sia più profonda di quella americana, troppo amorale, mentre la nostra, non rinnegando, anzi integrando le immagini del nostro passato (si veda Tano Festa con i lavori a pennarello su Michelangelo) la amplifica sincreticamente. Sta di fatto, indubbiamente, una progressiva decostruzione di immagini, gesti, ruoli e materiali pur con la costante affezione territoriale, per quanto la volontà di assoluto portasse a codificare linguaggi sempre più universali: i Poveristi ne sono l’esempio migliore, ricercando a ritroso di cogliere l’essenza stessa dell’arte, servendola sempre più cruda. Gli anni Settanta sposarono questa inclemenza con ascesa parabolica, annullando il dialogo e manifestando cieca passionalità; dalla riflessione dello Schermo di Mauri ai racconti performativi di Penone, si coglie la separazione dal circostante (e punte di autoreferen-
1966, Pier Paolo Pasolini durante le riprese di Uccellacci e uccellini Photo 12/ Alamy Stock Photo
Gianni Colombo Spazio elastico, 1966-67 (progetto 1966, realizzazione 1967) Courtesy Archivio Gianni Colombo, Milano
zialità) giungendo alle ultime due stanze di marcato ascendente concettuale. L’acromaticità della poesia pura annienta ed esalta il percorso della mostra, dando voce ad un senso di malinconica nostalgia che unita al rigore didattico tramuta tutto in ragione e sentimento, equilibrio perfetto. Così è, se vi pare. Luca Sposato
Installation view della mostra ITALIA MODERNA 1945-1975. Dalla Ricostruzione alla Contestazione. SECONDA TAPPA: IL BENESSERE E LA CRISI, 2019. Palazzo Buontalenti, Fondazione Pistoia Musei. Courtesy Fondazione Pistoia Musei
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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Lamberto Pignotti Un ammasso di soluzioni che aspetta, 1967 (collage su cartone, 35 x 50 cm) Collezione Intesa Sanpaolo
Vincenzo Agnetti, Assioma. Nel buio della memoria avremo sempre e comunque il flusso e riflusso del ricordo, 1970 incisione su lastra di bachelite, 70 x 70 cm Collezione Intesa Sanpaolo
Agostino Bonalumi, Rosso, 1972 (tela estroflessa e tempera vinilica; 80 x 69,5 cm) Collezione Intesa Sanpaolo © AGOSTINO BONALUMI, by SIAE 2019
Renato Volpini, Macchia inutile, 1967 (acrilici e collage su tela, 60 x 73 cm) Collezione Intesa Sanpaolo Mimmo Rotella, Mitologia in nero e rosso, 1962 (décollage su tela, 135 x 98 cm )Collezione Intesa Sanpaolo © MIMMO ROTELLA, by SIAE 2019
Renato Mambor, La pistola giocattolo, 1965 (olio su tela, 140 x 170 cm) Collezione Intesa Sanpaolo
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Castello di Rivoli, Museo di Arte Contemporanea
Michael RAKOWITZ
I
nteressante, “estenuante”, toccante e a tratti divertente la mostra che il Castello di Rivoli dedica all’artista statunitense Michael Rakowitz (Great Neck, NY, 1973), aperta fino al 19 gennaio 2020. È la prima retrospettiva europea del quarantaseienne vincitore del Nasher Prize 2020, sui temi della “diaspora ebraica-irachena”, ed è a cura di Carolyn ChristovBakargiev e Iwona Blazwick, insieme a Marianna Vecellio per il Castello di Rivoli e Habda Rashid per la Whitechapel Gallery. Un’ampia ed etoregenea produzione – sculture, disegni, installazioni, video, progetti collaborativi e performativi – per una grandiosa ma al tempo stesso minuziosa indagine “sulla distruzione del patrimonio culturale durante la globalizzazione”. La particolarità del lavoro di Rakowitz è la ricerca di un modo simbolico, ma allo stesso tempo tangibile, di raccontare le dinamiche della marginalizzazione in atto nella storia contemporanea, affinché ne risultino tracce e frammenti indimenticabili di resistenza. Su uno degli innumerevoli manufatti culturali iracheni, distrutti dalla Guerra e riprodotti dall’artista con materiale di scarto (The invisible enemy should not exist), recita una didascalia il cui messaggio, tradotto, è all’incirca questo: l’unica cosa buona della guerra (la seconda Guerra del Golfo, ndR) è che ha posto all’attenzione del mondo la cultura mesopotamica. Ed è davvero un trionfo degli occhi questo reliquiario della regione dei due fiumi, non solo in quanto culla di civiltà del passato, ma come pensiero eterno, linguaggio contemporaneo, promemoria dell’impossibilità di ridurre a zero la meraviglia. Come formicai che rinascono uguali dopo essere stati calpestati e distrutti, questi manufatti riemergono, con tanto di didascalie, e sembrano chiedere in prestito al museo contemporaneo uno spazio per divenire museo archeologico pro tempore, come se entrambi fossero parte di un progetto superiore. Recensendo la mostra su ‘The Guardian’, il critico d’arte Adrian Searle ha commentato: “L’affascinante mostra di Michael Rakowitz alla Whitechapel è piena di sorprese. Ma è anche un’esperienza estenuante. Il lavoro di Rakowitz si nutre di retroscena e spiegazioni. […] Potreste imparare qualcosa e trovarvi commossi, arrabbiati e sopraffatti dai dolori e dalla distruzione del mondo”. Dai rifugi provvisori gonfiabili per i senzatetto delle grandi metropoli americane, progettati ispirandosi alla sapienza del vento dei popoli del deserto, a Dull Roar (Boato sordo, 2005), che prevede la riproduzione di un edificio del complesso abitativo americano Pruitt-Igoe di St. Louis, nel Missouri, la cui distruzione, negli anni settanta, ha rappresentato un “simbolo della fine del Modernismo architettonico e delle utopie sociali nell’architettura”. Si passa poi ad una riproduzione di un modello dell’irrealizzata Torre di Tatlin, fatta con la partecipazione di operatori aborigeni in White man got no dreaming (L’uomo bianco non ha sogni, 2008), fino alla polvere dell’Afghanistan di What dust will rise? (Quale polvere sorgerà?, 2012), dove si ripercorre la distruzione dei due straordinari Buddha risalenti al VI secolo ad opera dei talebani. Poi è la volta, con montaggio curatoriale serrato, della serie di libri scolpiti in pietra, riproducenti antichi volumi appartenenti alle collezioni di Kassel andate distrutte durante la Seconda Guerra Mondiale. Piccola nota di colore, le opere ricordano fortemente alcuni lavori dell’artista italiano Nicus Lucà. Si prosegue con The flesh is yours, the bones are ours (La carne è vostra, le ossa sono nostre, 2015) che è stata acquisita dalla Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT per le Collezioni del Castello di Rivoli ed è un modello di riesumazione letterale e impressionante. Il momento clou è poi, opinione personale, il già citato The invisible enemy should not exist (Il nemico invisibile non dovrebbe esistere, 2007-in corso), per cui l’artista sta ancora oggi ricavando delle riproduzioni a grandezza naturale dei 15000 manufatti rubati, persi o distrutti durante la Guerra in Iraq tra il 2003 e il 2011. L’uso di giornali e di confezioni alimentari mediorientali, luccicanti, pop, seducenti (e testimoni di un’economia fiorentissima nel settore prima della guerra) si fonde perfettamente con un’idea di classicità irriducibile, un DNA platonico che si affaccia solo per chi decida di guardarlo. La mostra si conclude con il video The Ballad of Special Ops Cody (La ballata dell’agente speciale Cody, 2017), realizzato con la tecnica dell’animazione 26 - segno 275 | NOVEMBRE/DICEMBRE 2019
Michael Rakowitz, The flesh is yours, the bones are ours (La carne è vostra, le ossa sono nostre), 2015 veduta dell’installazione/installation view, 14th Istanbul Biennial, 2015 Foto/Photo Sahirugureren Courtesy l’artista/the artist, Istanbul Foundation for Culture and Arts e/and Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino
Michael Rakowitz, The invisible enemy should not exist (Lamassu) (Il nemico invisibile non dovrebbe esistere – Lamassu), 2018 veduta dell’installazione/installation view, Trafalgar Square, London, 2018 Foto/Photo Gautier DeBlonde Courtesy l’artista/the artist, l’Ufficio del Sindaco di Londra/the Mayor of London’s Office e/and Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino
stop-motion. L’opera, anch’essa parte delle collezioni del Castello di Rivoli, racconta la storia di un fraintendimento. John Adam, marine tenuto in ostaggio e fotografato da un gruppo di mujahidin, altri non è che la bambola Cody, un pupazzo in dotazione all’esercito americano. In questo video Cody si mette in dialogo con le statuette votive di un museo orientale, decide di unirsi a loro e simbolicamente porre sulle sue spalle il peso delle scuse dell’Occidente. Il livello di emozione che si raggiunge in questa mostra è potente e arriva a colpire senza giri di parole, in una dimensione oggettuale e partecipativa allo stesso tempo. Come afferma Carolyn Christov-Bakargiev, direttrice del Castello di Rivoli e curatrice della mostra: “Particolarmente sensibile alle sofferenze umane, Rakowitz è conosciuto soprattutto per i suoi progetti relazionali e partecipativi, concepiti anche per esistere fuori dai contesti tradizionali dei musei e delle gallerie”. Gli stessi spazi che, dal canto loro, ospitandolo, possono respirare aria lontana e necessaria. Fabio Vito Lacertosa Michael Rakowitz, The invisible enemy should not exist (Il nemico invisibile non dovrebbe esistere), 2007 Foto/Photo Andy Keate Courtesy l’artista e/Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea, Rivoli-Torino
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
GAM Galleria Civica d’Arte, Moderna e Contemporanea, Torino
Paolo ICARO Antologia 1964-2019
S
i consiglia questa bella mostra antologica dedicata a Pietro Paolo Chissotti (in arte Paolo Icaro) alla GAM di Torino, a cura di Elena Volpato, perché accompagna il visitatore a giocare con un pensiero complesso, che unisce astrazione, ironia, aspirazione alla perfezione e fallimento delle intenzioni. Misurarsi con questa mostra significa dialogare con forme di scultura minimale messe alla prova dalla ferocia dei tempi che cambiano, forme pure che cedono, grandi narrazioni concettuali che lasciano spazio a storie minori, ritmi visivi che analizzano lo spazio geometrico in una dialettica continua tra metafisica desiderata e commedia occorsa. Se il segno di pausa proprio dei dispositivi di riproduzione video si potesse applicare al racconto attraverso i materiali, se il fare e il disfare artistico si potesse cogliere come gioco dell’ammazzare il tempo e renderne visibile la sua modellabilità, è lì che allora, per definizione, troveremmo il lavoro di Paolo Icaro. Poiché secondo l’artista: “La scultura è là dove un momento drammatico / si concentra in materia e il tempo si arresta”. Scrive Donald Judd nel 1967: “Riuscire a creare una forma che non sia né geometrica né organica sarebbe una grande scoperta”. Icaro sembra porsi sulla linea di questa ricerca. Una esemplificazione può essere rappresentata dall’opera Cuborto. Bernard Blistene, in uno dei saggi che accompagnano la mostra, ne parla diffusamente, facendo leva proprio su quella componente unica del lavoro dell’artista torinese che sembra ben adeguarsi allo strano statement di Judd. Come per l’opera in questione, anche Paolo Icaro avrà sempre un ruolo liminale nel mondo dell’Arte. La terminologia, i riferimenti, ad esempio la lezione di Arturo Martini nell’aspirazione all’uso della scultura come estensione e trascendenza, non lo fanno immediatamente popular, benché sia sempre oggetto – riferisce Elena Volpato – di numerose riscoperte da parte di giovani, specie quando riconosciuto come simbolo del fare/disfare e creatore di opere aperte. In una bella intervista rilasciata al critico Michele Bramante, Paolo Icaro afferma: “Ogni volta che lo scultore traduce l’idea nello spazio fisico, fallisce. Così, nella sua impellente necessità di rendere sensibile l’idea, deve tener conto di un fatale margine di tolleranza e di imperfezione. Questo ci consente di fare un po’ di autoironia sulla nostra presunzione – potremmo dire demiurgica – di mettere al mondo la scultura.” Da una parte il prosecutore di una tradizione, dall’altra lo sperimentatore strenuo e alla avanguardia, forse colpevole di essere stato
Paolo Icaro, Cuborto, 1968 (acciaio ossidato, corda) Appunti per forme di spazio, 1966-67 (legno e ferro)
Paolo Icaro, Etcoetera (Square Spirals), 1978 Legno d’abete sbiancato Progressione 1, 3, 9, 1978 (legno sbiancato, chiodi di alluminio, cassa di legno Window show, 1974 (18 misure in gesso su due ripiani in legno sbiancato)
troppo centrifugo rispetto a una certa grandeur di moda. Ecco anche un po’ il motivo per cui pur avendo partecipato alle prime mostre dei poveristi e pur essendo inserito nel famoso manifesto di Boetti – che se non altro gli sarà valsa una certa rendita di posizione – egli rimane storicamente un artista ai margini di quel movimento benché più che mai brillante e con una parabola tutta propria. Con un linguaggio non ascrivibile alle direttive delle linea di militanza, con una innata componente relazionale, con un fare sempre antitetico al senso del Kolossos, Paolo Icaro si ritrova a “rinnovare una grammatica degli elementi minimi”. Dall’Italia all’America, dall’America a Tavullia, dove vive e lavora. Mi si consenta questo gioco di parole che vuole essere un gentile omaggio: nomade in Italy. Fabio Vito Lacertosa
Paolo Icaro, Luogo dei punti eccentrici, 2007 (cemento e grafite); Linea di equilibrio, 2011 (acciaio armonico e granito); Esplosa, 1990 (acciaio, gesso); Lunatici, 1988 (foglio di piombo e gesso); Lunatici, 1976 (secchio di acciaio zincato, gesso); Personae, 1991 (gesso e acciaio). Photo Michele Alberto Sereni
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Cesare Pietroiusti, Performance, Se una sera d’inverno un visitatore / una visitatrice 16a Quadriennale d’Arte, Palazzo delle Esposizioni, Roma 16 dicembre 2016 - Foto / Photo: Ela Bialkovska. Courtesy l’artista
MAMbo, Museo di Arte Moderna di Bologna
Cesare PIETROIUSTI
N
el commentare la mostra allestita al MAMbo di Bologna, aperta al pubblico fino al prossimo inverno, Cesare Pietroiusti dichiara come il privilegio di un artista è la possibilità di creare relazioni tra lassi di tempo tra loro vicini e lontani. In riferimento a quanto detto, e al progetto realizzato in occasione della sua prima antologica in uno spazio museale, dal titolo Un certo numero di cose, a cura di Lorenzo Balbi con l’assistenza curatoriale di Sabrina Samorì, l’autore romano parla proprio della capacità dell’artista di “costruire ponti”. Impegnato da anni in progetti dalla forte connotazione sperimentale nei quali il valore della ricerca artistica è strettamente connessa all’ambiente umano entro il quale si sviluppa, Pietroiusti propone qui una esposizione singolare delle opere in mostra. Per Pietroiusti agire sugli intervalli temporali significa attribuire a questi ultimi dei significati. Intento dell’autore in questa sede è appunto fornire chiavi di lettura per decifrare il senso profondo degli avvenimenti alla luce di ciò che è avvenuto prima e dopo. Il suo obiettivo è quindi offrire la loro comprensione attraverso lo sguardo condizionato dai fatti del presente. Proprio la mutevolezza dell’oggi tuttavia fa interrogare Pietroiusti sul modo più opportuno di realizzare l’antologica di un artista vivente. L’autore romano medita così sul significato stesso di mostra retrospettiva all’interno di uno spazio museale, proponendo come soluzione il racconto di una “storia” aperta. In antitesi al pricipio che vede l’opera d’arte come “forma” chiusa e definitiva, l’autore pone l’accento, in continuità con le istanze che caratterizzano da tempo suo percorso di ricerca, sul tema dell’incontro tra arte e vita. Fedele alla propria poetica, che contempla spesso azioni dove l’aspetto partecipativo e performativo appaiono dominanti, Pietroiusti propone qui la valorizzazione del “non compiuto”, che comporta la costituzione di opere in eterno divenire. L’autore in questa occasione presenta la stessa mostra antologica come una grande opera in itinere che combina le proprie esperienze passate con la ricerca degli anni più recenti. L’artista romano decide quindi di raccontare il “leitmotiv” del proprio percorso attraverso la mostra di oggetti che permettono alla propria vicenda biografica di incrociare quella di autore proponendo al pubblico un certo numero di “oggetti-anno”che coincide con la propria età anagrafica. Le “opere” sono dislocate principalmente nella sala espositiva dove la ricostruzione del suo percorso di artista visivo assume la forma di una vera e propria narrazione. È possibile quindi osservare, tra i numerosi oggetti esposti, le fotografie che ritraggono l’artista bambino tra le braccia della tata. In esposizione anche foto e scacchiera che raccontano una partita giocata dal piccolo Pietroiusti con il proprio padre, rimasta impressa nella sua memoria poiché durata, nella sua coscienza, quanto la vita stessa di quest’ultimo. Visibili, tra gli oggetti esposti, opere e documenti 28 - segno 275 | NOVEMBRE/DICEMBRE 2019
legati alle prime ricerche artistiche, che l’autore sviluppa nella seconda metà degli anni ‘70 durante la collaborazione con il centro Jartrakor. Seguono le esperienze con il gruppo di Piombino e, tra le numerose attività e collaborazioni, quelle con la galleria di Sergio Casoli e con Domenico Nardone, oppure il progetto di arte relazionale pensato in occasione della Quadriennale di Roma del ‘96. Proprio attraverso la storia di Pietroiusti come individuo il pubblico entra a contatto con la sua poetica e le sue opere, osserva la flessibilità da parte dell’artista nel misurarsi con mezzi espressivi consueti e non consueti. A contatto con opere e documentazione rese disponibili dall’autore, il pubblico costruisce allo stesso tempo relazioni tra le ricerche dell’artista e il clima nazionale e internazionale a lui coevi. Esattamente come avviene durante la fruizione di un’opera narrativa, tuttavia, si attiva nel pubblico, il meccanismo di identificazione e catarsi. Se il tema dell’incontro tra arte e vita infatti è ricorrente nelle esperienze che hanno caratterizzato i periodi di più intenso fermento nella storia dello scorso secolo, nella ricerca dell’artista romano questo aspetto assume un tratto caratteristico. Cesare Pietroiusti supera nello svilluppo di questo motivo di indagine la riflessione meramente speculativa per abbracciare un aspetto più emozionale, una dimensione più umana e più marcatamente sociale. Gli “oggetti-anno” esposti da Cesare Pietroiusti al MAMbo hanno lo stesso numero degli anni dell’artista e coprono un arco cronologico che si estende dal 1955, anno della sua nascita al 2019. Emerge come raccontato attraverso la documentazione di numerose opere la componente interattiva, protagnista della ricerca artistica di Pietroiusti. E’ necessario, riguardo a ciò citare come esempi l’opera...... In questo esempio l’autore invita il pubblico intervenuto a prendere possesso di uno dei disegni da lui firmati ed eseguiti assieme allo proprio staff di supporto. L’operazione obbliga il pubbico a un preciso accordo che contempla la distruzione dell’opera da parte del suo possessore affinché questa possa essere considerata tale a tutti gli effetti. Altro esempio di partecipzione del pubblico alla costituzione dell’opera è data dal “ring” posto al centro della sala che ospita un workshop tenuto dall’artista per l’intera durata della mostra. Il lavoro in itinere per tutto il periodo espositivo presenterà al pubblico connotazioni differenti all’inizio, durante lo svolgimento e al termine della mostra. L’intero processo si propone all’osservatore come l’”Oggetto anno” 2019. Un certo numero di cose (La mostra che l’autore realizza al MAMbo ha luogo in seguito alla vincita da parte del progetto, presentato dal museo bolognese, della IV edizione del bando Italian Council (2018). Il concorso è ideato dalla Direzione Generale Arte e Architettura contemporanee e Periferie urbane (DGAAP) del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, per promuovere l’arte contemporanea italiana nel mondo.) La modalità con la quale Pietroiusti sceglie di allestire la propria retrospettiva pone al centro più che mai, come avviene di consueto nei suoi progetti, l’elemento umano e sociale. Cesare Pietroiusti è riconosciuto come anticipatore, alla fine degli anni ‘80, dell’arte relazionale e protagonista di numerose esperienze che mettono al centro l’incontro fra l’intervento dell’artista e il pubblico favorendo l’interazione di quest’ultimo. Francesca Cammarata
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Camera, Centro italiano per la Fotografia, Torino
MAN RAY
L
a figura femminile è al centro della mostra dedicata a Man Ray – al secolo Emmanuel Radnitzky – e alle sue due allieve predilette Berenice Abbott e Lee Miller. Circa duecento fotografie originali presso al Centro Italiano per la Fotografia si stendono davanti agli occhi e aprono finestre precise sulla sofisticata società parigina degli anni ’20 e ’30, intrise di esotismo, sincretismo, liberazione dell’erotismo e dall’erotismo, nonché una ri-definizione costante degli schemi di genere. Attraverso un allestimento razionale, che non eccede mai in protagonismo curatoriale, si offre allo spettatore una specie di elencazione tangibile del sogno più puro del novecento e anche la possibilità di misurare quanto, di quel sogno, si emanasse proprio dal carisma di Man Ray e del suo studio. Introdotto non a caso nella Ville Lumière da Marcel Duchamp, l’artista di Philadelphia si impone come una figura chiave dell’avanguardia tout-court, avendo attraversato da protagonista dadaismo e surrealismo e avendo ottenuto l’opportunità di espandere, sebbene con alterne vicende e fortune, la sua influenza fino al mondo contemporaneo. Le molteplici soluzioni di Man Ray che, nell’era della cultura di massa, tutti abbiamo almeno già visto o intravisto, ci spediscono dritti sui lineamenti di Meret Oppenheim, Dora Maar, Kiki de Montparnasse, Nusch Eluard, Juliet Ray, come fossero da una parte reperti fotografici inattuali di spedizioni lunari, e dall’altra pulsioni indefinite di Afriche da salotto. Sto parlando ovviamente delle solarizzazioni, delle sovrapposizioni, dei rayographs e dei più canonici ritratti di moda, di nudo o di posa. Echi della disgregazione del mondo coloniale filtrati dalla moda, in una Parigi indimenticabile che si fa invadere dalle diaspore del Jazz, da Sidney Bechet, dai suoni ellingtoniani, dai balletti russi e dalle rinascite violente della musica classica. Una città dove l’idea della Sophisticated Jungle sembra qualcosa per cui valga la pena vivere e morire, eludendo le gabbie di ogni morale simil-vittoriana. Interessante in tal proposito è il caso delle allieve Berenice Abbott e Lee Miller, che da modelle diventano operatrici, anzi veri e propri riferimenti fotografici per i ritratti di personaggi del calibro di Jean Cocteau, André Gide, Eugène Atget, James Joyce, etc. Nei dettagli delle loro foto, nelle posture e nelle espressioni vi sono tracce di luce esoterica, ma è nell’apparato paradossalmente modernista del girare intorno al macchinario e nel conseguente incepparsi, che l’universo dell’avanguardia coglie la perfetta sintesi del secolo, illuminando di luce singolare l’osservatore stesso, impallinato com’è dalla compresenza di passato e futuro. Se da una parte dunque “essere fotografati da Man Ray o da Berenice Abbott significava essere qualcuno” (Silvya Beach), la parabola di Lee Miller è legata invece a quel nodo di sperimentazione incredibile rappresentato dal portfolio Èlectricité (1931). Secondo Walter Guadagnini, direttore di Camera e curatore della mostra insieme a Giangavino Pazzola, con questa mostra si è voluto raccontare “un pezzo di storia dell’arte e della fotografia da una prospettiva sorprendente: tutti conoscono Man Ray, i suoi nudi da l’erotismo sensuale, provocatorio e giocoso,ma non altrettanto conosciuta è la storia delle donne che con lui hanno collaborato, vissuto, litigato, cha da lui hanno imparato e a lui hanno insegnato, e che si sono rivelate come altrettante protagoniste dell’arte e della fotografia mondiale. In questa nuova prospettiva, ricreiamo un ambiente, raccontiamo una storia in parte inedita ed esponiamo dei capolavori”. Fabio Vito Lacertosa
Man Ray. ElectriciteÌ??_1.jpg
Man Ray, Glass Tears, 1976 Photo by Renato Ghiazza
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Galleria Fumagalli, Milano
Letizia CARIELLO
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ntrando nella sala espositiva della Galleria Fumagalli lo sguardo viene subito catturato dal colore rosso del filo di lana che va a delineare sulla parete, tramite l’ancoraggio al muro di chiodi da maniscalco, sette tipologie diverse di finestre prelevate direttamente dalla storia dell’architettura e qui riunite in un’unica visione: si tratta della personale Seven Gates di Letizia Cariello (Copparo, 1965), curata da Giorgio Verzotti. L’artista realizza un intervento site-specific partendo dal disegno a mano libera su carta da lucido per poi riportare sulle pareti una sequenza di aperture che vanno dalla bifora gotica alle finestre “michelangiolesche” (una centinata con arco a tutto sesto e una con timpano), dall’oblò alla finestra palladiana e infine un’apertura rettangolare, estremamente semplificata, che si può definire modernista. L’intreccio dei fili di lana rossa viene esteso anche nell’area che solitamente costituisce l’apertura verso l’esterno, andando così a formare delle grate dalle trame irregolari: parti fitte e quasi impenetrabili si alternano ad altre più rade dove si aprono dei varchi. Così Letizia Cariello attiva un gioco di rimandi e riflessioni che si sviluppa attorno a coppie di binomi opposti: interno-esterno, aperto-chiuso, separazione-comunicazione, pubblico-privato, reale-virtuale…tutto avviene nella “camera della mente”. Se da un lato gates in inglese significa “barriera”, “griglia” e dall’altro identifica un “cancello”, un “valico”, Cariello con il suo fare artistico dà una rilettura estremamente positiva di entrambe le accezioni, considerando quindi i suoi interventi come “filtri”, “membrane permeabili” che non solo separano, ma anche mettono in comunicazione. Angela Faravelli
Letizia Cariello, Gate #02 Serliana, 2019 (chiodi con testa quadra, filo di lana vergine rosso, h95x106 cm. edizione unica)
Letizia Cariello, Foto di Andrea Cattaneo fotoswiss
Letizia Cariello, Gate #06 Bifora, 2019 (chiodi con testa quadra, filo di lana vergine rosso, h204x93 cm. edizione unica)
Letizia Cariello, Seven Gates, 2019, Allestimento site-specific Galleria Fumagalli, Milano
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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Osservatorio Fondazione Prada, Milano
Training Humans
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arcando la soglia dell’Osservatorio Fondazione Prada ci si trova di fronte ad un monito: una sagoma rotonda sospesa in aria che da un lato presenta l’immagine di un’impronta digitale e dall’altro l’iride di un occhio. Non si può fare a meno di pensare al romanzo di George Orwell – Grande Fratello (1984) – in cui si delineano i tratti di una società dittatoriale dove ciascun individuo è tenuto costantemente sotto controllo dalle autorità. Allo stesso modo Training Humans, mostra concepita da Kate Crawford e Trevor Paglen, si propone di far emergere i meccanismi che stanno alla base dei programmi di intelligenza artificiale e di come queste ricerche scientifiche siano spaventosamente evolute dagli anni Sessanta ad oggi. Infatti se inizialmente i sistemi di riconoscimento facciale computerizzato – sviluppati principalmente nell’ambito militare ame-
“Training Humans”, Osservatorio Fondazione Prada, Milano foto Marco Cappelletti
ricano – si servivano di immagini di proprietà del governo, con l’avvento di internet e dei social media trovano accesso a milioni di immagini e dati a cui attingere senza la minima tutela della privacy dei soggetti interessati. Così si è passati dalla semplice identificazione dell’individuo alla sua classificazione in base alla razza, al genere, all’età, all’emozione e talvolta ai tratti caratteriali incorrendo in giudizi e rievocazioni dei sistemi post-coloniali e di segmentazione demografica. Con questa mostra Crawford e Paglen vogliono far emergere l’aspetto biologico e umano che sorregge la finta automazione dei sistemi di intelligenza artificiale, sottolineando – anche attraverso il titolo dell’esposizione – come nessuna macchina potrà mai funzionare senza la presenza di individui pensanti e in grado di provare emozioni. Angela Faravelli
Cardi Gallery, Milano
Ha CHONG-HYUN
G
randi tele monocromatiche e materiche lasciano emergere tanto la trama della canapa grezza quanto la forte presenza dell’intervento dell’artista: si tratta della personale di Ha Chong-Hyun che, negli spazi di Cardi Gallery a Milano, presenta una serie di opere eseguite tra il 1972 e il 2019 appartenenti al ciclo “Conjunction”. Proprio questo termine identifica la filosofia che guida il fare artistico del sudcoreano, secondo cui la purezza del mezzo pittorico e la fisicità dell’artista si fondono, o sono congiunti, nell’atto del dipingere. Così le composizioni astratte denotano una gestione sapiente degli spazi pieni e di quelli vuoti in cui ciò che emerge è la dimensione interiore e meditativa che ha guidato il gesto creatore dell’artista, risultato del perfetto coordinamento tra l’azione della mano e quella della mente. La matericità, quasi scultorea, delle opere di Ha Chong-Hyun è data soprattutto da due aspetti: inizialmente l’artista si serve di strumenti per spingere il colore a olio dal retro della tela grezza fino a farlo filtrare ed emergere attraverso la superficie, successivamente stende la vernice sul fronte con il pennello o la spatola, esplorando così il potenziale espressivo della materia pittorica. Dunque un’indagine sulla pittura come mezzo, strumento e linguaggio; un equilibrio armonioso la cui analisi e lettura oscilla tra il razionale e l’emotivo, un’espressione dell’irrinunciabilità inafferrabile e misteriosa del fare pittura. Angela Faravelli NOVEMBRE/DICEMBRE 2019 | 275 segno - 31
A arte Invernizzi, Milano
Colloquium
Günther Umberg e l’arte Italiana
U
na mostra sofisticata; una mostra “per pittori”. È raro infatti che in una galleria privata l’attenzione si concentri non sull’isolamento di un artista da promuovere e valorizzare (le opere del pittore tedesco sono una minima parte di quelle esposte) bensì sui meccanismi e sui misteri della pittura stessa. L’aggettivo rapsodica usato da Paolo Bolpagni per descrivere l’andamento di questa mostra è molto calzante: la narrazione visiva dell’allestimento non si affida infatti alla linearità di un racconto storico, ma segue gli strappi e i salti mortali di una sensibilità interna al mestiere del pittore. Come suggerisce il titolo, Colloquium è concepita come un dialogo tra il pittore tedesco Günter Umberg e la pittura italiana, un dare e avere continuo tra le sofisticate composizioni monocrome da lui realizzate a partire dagli anni settanta e alcuni momenti della pittura italiana del XX secolo. Un primo dato da tenere in considerazione è l’alta qualità delle opere esposte: fin dai primi Günter Umberg, A arte Invernizzi, Milano, 2019
Lucio Fontana, Senza titolo, 1960-1965 (terracotta, 26x39 cm.)
Riccardo De Marchi, Nessun dove, 2019 (plexiglass e acciaio inox a specchio, 70x96x80 cm.)
Günter Umberg, Ohne Title, 1999 (pigmenti e resina su tavola, 35x38 cm ciascun elemento) Carlo Ciussi,Senza titolo, 1966 (olio e tecnica mista su tela, 90x90 cm)
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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Dadamaino, Volume, 1958 dettaglio (tempera su tela forata, 70x50 cm.)
Salvatore Scarpitta, Senza titolo, 1957 (Tela estroflessa e tecnica mista, 80x64,5 cm)
Günter Umberg, Untitled, 2010 (offset su carta, 27,5x17 cm)
Emilio Vedova, Reticolati, 1946-1951 (olio su tela, 88x58 cm)
passi mossi negli ambienti della galleria, lo spettatore si imbatte in opere di altissimo valore pittorico. Il monumentale Emarginazione di Mario Nigro al primo piano, le sue ipnotiche Vibrazioni e i carnosi Scarpitta del 1957 esposti basterebbero a raccomandare senza esitazione una visita a questa mostra. Tuttavia la bellezza delle opere esposte non è l’unico motivo per cui questa mi sembra un’operazione riuscita. Lo spettatore è infatti libero di scegliere il proprio approccio alla mostra: può lasciarsi attirare dalle singole opere, concentrandosi sulla loro autonomia, oppure può accettare la sfida lanciata da Umberg e cercare di ritessere le relazioni e i cortocircuiti, elettivi e formali, che legano le opere esposte in un ordine molto preciso e meditato. Nell’ammettere la mia incapacità di svelare i segreti racchiusi nello sguardo che un pittore rivolge a un altro quadro, l’unico modo che ho a disposizione per comprendere lo sviluppo di questa mostra è quello di cercare una possibile coerenza nelle scelte del pittore (una coerenza che non va mai richiesta al pittore, bensì allo storico) tentando quindi di enucleare quello che l’arte italiana del novecento possa aver rappresentato per lui. L’aspetto che mi pare essere possa essere un buon fil rouge per questa esposizione è l’esaltazione della continuità che da sempre caratterizza la cultura artistica italiana: il continuo ricalcolo della propria tradizione allo scopo di farne linfa vitale per la contemporaneità. Agli occhi di un pittore astratto come Umberg non c’è da stupirsi che tale continuità vada ricercata nella capacità dimostrata dai più alti momenti dell’astrazione italiana di fare i conti con la tradizione della storia della pittura, mantenendone vivi i più raffinati dati costruttivi e coloristici. In questo senso si ricostruiscono i passaggi dell’arte italiana particolarmente cari al pittore tedesco: la doppia polarità Burri-Fontana, attorno alla quale si articola il problema del quadro-oggetto tra anni Cinquanta e Sessanta; un secondo momento è l’astrazione anni Sessanta e Settanta, rappresentata da Nigro, Dorazio e Aricò (quest’ultimo emblematico della complessa stratificazione di fonti rinascimentali e contemporanee care a Umberg) e infine gli artisti più giovani, Nelio Sonego e Riccardo De Marchi, colleghi e amici del pittore tedesco, ai quali viene riconosciuta la continuità di mestiere della più grande astrazione italiana del XX secolo. Duccio Nobili
Colloquium, Veduta parziale della mostra A arte Invernizzi, Milano, 2019 (da sinistra a destra): Emilio Vedova, Reticolati, 1946-1951 (olio su tela, 88x58 cm.); Salvatore Scarpitta, Senza titolo, 1957 (tela estroflessa e tecnica mista, 80x64,5 cm.); Carlo Ciussi, Senza titolo, 1966 (olio e tecnica mista su tela, 90x90 cm.). Tutte le immagini © A arte Invernizzi, Milano. Foto Bruno Bani, Milano
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Salvo, L’autogrill, 2014 olio su tela140×190 cm
Norma Mangione Gallery, Torino
SALVO Ventiquattr’ore di luce
L
e ventiquattr’ore che scandiscono la durata di un giorno vengono suddivise tra ore di luce ed ore di buio, come se non riuscissimo ad accettare il fatto che anche la notte in realtà è illuminata dalla luna. Se iniziassimo a considerare la questione da questo punto di vista, allora saremmo in grado di cogliere il motivo per il quale la mostra presso la Norma Mangione Gallery (TO) s’intitola “Ventiquattr’ore di luce”. Il fautore di queste diciassette tele ci dimostra come l’impatto della luce sulle cose cambia a seconda del momento della giornata che stiamo vivendo: a partire dal sorgere del sole fino al tramonto e poi la notte. Questo arco temporale immaginario che copre un’intera giornata, in realtà si estende nel corso degli anni a partire dal 1982 fino al 2014 ed è ambientato in luoghi e posti diversi. In questo modo la mostra sembra eliminare qualsiasi riferimento spazio-temporale, annullando la possibilità di ricondurre questo ciclo di dipinti ad un’unica data: come i momenti sono diversi anche le ambientazioni stridono tra loro, accostando realtà naturali – i limoni, il mare Galleria Franco Noero, Torino
Simon STARLING A-A’, B-B’ IMG_1508.jpg
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– ad edifici industriali – fabbriche, autogrill. Fermandosi solamente a queste considerazioni, però, non si riesce a penetrare appieno il lavoro di Salvo, artista attivo a Torino ed esponente dell’Arte Povera sotto la direzione di Gian Enzo Sperone: ciò che importa non è il dove o il quando, bensì il come. Un po’ come gli Impressionisti fecero a fine Ottocento, Salvo continua quella ricerca sulla luce, sul come essa gioca con quello che illumina, uno dei quesiti che ritorna sempre e sempre affascina. Se gli artisti dell’en-plein-air si dedicavano a quest’indagine con lo scopo di restituire l’impressione di com’era la realtà attraverso una pittura costituita da macchie di colore che, una volta osservate da lontano, lasciavano percepire la figura, quasi un secolo dopo Salvo sintetizza la realtà attraverso forme semplici e si concentra maggiormente sull’uso del colore. Sulle tele, infatti, il mondo è quasi geometrizzato e rappresentato con una gamma cromatica squillante e accesa, in grado di ammaliare lo sguardo che è incuriosito nel capire come sia possibile restituire manualmente queste Ventiquattr’ore di luce. Lo strumento primo nell’analisi dell’impatto dei raggi del sole sulle cose è diventato la fotografia, ovvero un procedimento meccanico che simula la retina del nostro occhio. Salvo, dal canto suo, sembra quasi voler tornare alle origini e fidarsi di ciò che egli stesso vede e percepisce, senza alcun tipo di aiuto esterno. Cecilia Paccagnella Salvo, Il villaggio, 2004 olio su tela 50x70
I
n un periodo storico come il nostro, spesso non siamo in grado di renderci conto di ciò che sta effettivamente accadendo attorno a noi, col rischio di non dare la dovuta importanza ad alcuni eventi che magari in futuro verranno invece immortalati nei libri di storia. Uno in particolare siamo sicuri non passerà inosservato e aprirà un nuovo capitolo del libro con il titolo “Brexit” e, per fortuna o purtroppo, noi persone che viviamo questo presente avremo la possibilità di raccontarlo alle generazioni future. Ciononostante c’è già chi, anticipatore del tempo, si preoccupa di fissare questo accadimento, ma, invece di trasporlo sulle pagine da studiare, lo espone sotto il velo di una mostra attraverso una metafora del taglio. Simon Starling, a partire da un incontro con il famoso quadro “tagliato” di Giovanni Battista Tiepolo, decide di cavalcare l’onda avvalendosi di questo “aneddoto” come metafora della cesura che il Regno Unito ha deciso di incidere nei suoi rapporti con il resto dell’Unione Europea. A giustificare questi due sensi di appartenenza collabora la doppia localizzazione dei due pezzi del dipinto: la parte più grande, “Mosè salvato dalle acque”, è custodita nella collezione della Scottish National Gallery di Edimburgo, mentre l’“Alabardiere in un paesaggio” appartiene alla Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli di Torino. Questa duplice ubicazione viene dunque presa come punto di partenza della riflessione e successivamente ampliata attraverso un gioco di rimandi che Simon ha creato dividendo, secondo le proporzioni con cui fu diviso il dipinto, una Fiat blu 125 Special, uno tra i modelli posseduto e utilizzato da Giovanni Agnelli. La mostra “A-A’, B-B’” presso la galleria Franco Noero (TO) è stata allestita contemporaneamente alla sua gemella presso il The Modern Institute di Glasgow, creando così un legame virtuale e di compenetrazione necessaria al fine della riuscita dell’intento dell’artista inglese. Il fil rouge è abbastanza impercettibile, in quanto collega queste due personalità – Tiepolo e Agnelli – indirettamente: la scena biblica del Mosè è una situazione umile attualizzata dal pittore veneziano e resa attraverso una rappresentazione mondana al limite con la teatralità; parallelamente, l’Avvocato Agnelli, nonostante uno standard di vita agiato, ha sempre cercato di mantenere un profi-
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
lo che potesse interagire con la città e i lavoratori della sua fabbrica. Entrambi, dunque, sembrano portare allo stesso livello le due fasce sociali solitamente agli antipodi, eliminando la drastica separazione che solitamente le divide. Questo dialogo assume ulteriori livelli di lettura portati in mostra da Starling attraverso un accento posto sul teatro, rappresentato da tre figure mascherate (create in collaborazione con il maestro mascheraio del teatro di Noh Yasuo Miichi) che ritraggono Giovanni Agnelli – intento a leggere un testo teatrale di Dario Fo “Trumpets and Raspberries” – l’Alabardiere del dipinto di Tiepolo e un altro personaggio intento a pulire un tavolino. Un altro piano di lettura è rappresentato da una serie fotografica che ritrae dei levrieri, razza ripresa dallo stesso che ritroviamo nel
dipinto di Tiepolo, ma trasportati in un contesto industriale, dove solitamente vengono fotografati auto e camion. Infine, la mostra è guidata da delle lettere dell’alfabeto apposte sulle pareti delle varie stanze, la cui peculiarità sta nel font utilizzato per la loro realizzazione, creato e pensato appositamente per questa occasione da Simon in collaborazione con lo studio di Zurigo Norm. L’uno sull’altro, questi livelli – e non sono nemmeno tutti – creano questa macchina articolata di corrispondenze e cortocircuiti che da una piccola scintilla, come potrebbe essere la Brexit o la curiosità dell’artista nei confronti di un’opera tagliata, hanno alimentato una riflessione in cui è facile perdersi, ma non temete che nulla è casuale. Cecilia Paccagnella
Mazzoleni Galleria d’Arte, Torino
d’animo. Oltreoceano nacque ciò che ora ricordiamo con il nome di action painting, definita in questo modo dal critico Harold Rosenberg per identificare coloro che rifiutarono l’uso del cavalletto al fine di favorire il contatto diretto tra artista e tela; parallelamente in Europa iniziò a diffondersi l’arte informale a partire dalla Francia, in cui le figure e le forme definite scomparvero, prediligendo una pittura astratta in grado di tradurre visivamente l’interiorità dell’artista. Questi due lati della medaglia chiamata Espressionismo Astratto rivelano un sentito comune che va oltre i soliti agglomerati di artisti sotto uno stesso nome, abbracciando individui lontani fisicamente, ma vicini nel modo di fare arte. Questa parentesi contestuale è utile ad inquadrare il lavoro di Hartung in un clima in cui il soggettivismo ha il microfono in mano e l’inconscio dell’artista sente il bisogno di fuoriuscire, ma, nonostante le linee guida lo riconducano quasi ad occhi chiusi sulla stessa strada percorsa dai pittori delle sopracitate correnti, il destino del nostro artista si vuole discostare per mantenere la propria individualità salda e autonoma. Egli infatti definisce le sue opere in termini di macchie di colore, scaturite dalla gestualità che incarna la libertà espressiva per eccellenza, accompagnata da un utilizzo, come già accennato, di utensili di vario genere. Nel comunicato stampa della mostra, sono riportate le parole di Hans Hartung: “Scarabocchiare, grattare, agire sulla tela, dipingere infine, mi sembrano delle attività umane così immediate, spontanee e semplici come lo possono essere il canto, la danza o il gioco di un animale che corre, scalpita o si scrolla”, ma quest’apparente casualità e improvvisazione che sembrano definire le macchie, in realtà nascondono uno studio ben orchestrato. E dunque se spesso dimentichiamo i capitoli ormai conclusi dell’arte, almeno in questa doppia sede possiamo ricordare cosa significa avere di fronte i moti dell’animo di un artista tradotti su tela attraverso le taches de couleur. Cecilia Paccagnella
Hans HARTUNG
S
iamo ormai soliti pensare all’arte a noi contemporanea come una modalità espressiva molto spesso enigmatica e incomprensibile, dove l’utilizzo di nuovi materiali e supporti stranisce le vecchie generazioni e affascina i più giovani. L’uso del pennello su tela o dello scalpello su marmo sembrano quasi metodi preistorici, ma è sempre bene tenere a mente il passato per poter cogliere le sfumature più flebili del presente. La galleria Mazzoleni, con un grosso progetto che coinvolge entrambe le sedi di Torino e Londra, celebra il trentesimo anniversario della scomparsa di uno dei pittori europei che ha fatto la differenza e si è riuscito a ritagliare uno spazio nell’Olimpo dell’Arte Informale: Hans Hartung. Nello spazio londinese “Hans Hartung and Art Informel” propone alcune opere dell’artista tedesco assieme ad altri lavori di coloro che erano attivi al suo fianco negli anni ’50 e ’60 a Parigi, come Serge Poliakoff, Jean-Paul Riopelle e Georges Mathieu. Se oltre la Manica si è deciso di creare un’esposizione volta a raccontare non solo la figura di Hartung, ma anche l’ambiente circostante, a Torino i riflettori sono puntati sull’unico protagonista con una mostra antologica che ripercorre le tappe del suo percorso evolutivo artistico, dai primi disegni fino ad arrivare ai lavori più maturi. Le cinquanta opere in mostra svolgono quindi una duplice testimonianza: da un lato offrono una panoramica sugli strumenti e le tecniche utilizzate dall’artista per entrare in contatto con il supporto; dall’altro rendono indubbia l’attenzione e il focus primario attorno al quale ruota la poetica di Hartung – il colore. Proprio verso l’inizio della seconda metà del Novecento, in pieno dopoguerra, molti artisti europei e americani riconobbero nell’astrattismo l’unico mezzo espressivo per dar voce al proprio stato
Hans Hartung, T1975-H46, 1975 Hans Hartung, T1962-L2, 1962 Hans Hartung, T1963-K42, 1963 Hans Hartung, T1975-E47, 1975
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Alberto Peola Artecontemporanea, Torino
Trenta volte settembre
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el mondo dell’arte si ammira chi riesce a sopravvivere e a rimanere a galla a lungo termine e ciò non è da tutti. Negli anni Ottanta nacquero e fiorirono numerose attività, in una bolla temporale in cui si pensava che nulla fosse impossibile e che tutti potessero ritagliarsi il proprio spazio all’interno di una realtà ancora élitaria. Ma così come vennero alla luce, molte gallerie si spensero quasi subito, talvolta precocemente, ad eccezione di alcune che, non solo hanno resistito, ma continuano a farlo. La galleria di arte contemporanea Alberto Peola (TO) è un esempio calzante di quell’ “uno fra tanti” che è riuscito a rimanere in piedi fino a oggi, e per tale motivo questo autunno celebra il trentesimo anno di attività attraverso una narrazione volta a raccontare artisticamente la storia di questi tre decenni e i legami stretti – sia a livello nazionale che internazionale – con artisti che tutt’ora collaborano con la galleria oppure che hanno collaborato in passato, anche solo per brevi periodi. L’esposizione, dunque, non è che una collettiva in cui queste personalità dialogano all’unisono al di là del tempo e dello spazio, lasciando intravedere al contempo quelle che sono state le scelte di Alberto Peola nel proprio percorso di scelte artistiche, “dalla pittura mediale degli inizi alla più recente attenzione alle pratiche research based”. Con “Trenta volte settembre”, a cura di Francesca Comisso, la galleria torinese porta in mostra ventinove artisti – metaforicamente uno per anno – con un trentesimo (Michael Rakowitz) non presente fisicamente perché attualmente in prestito presso il Castello di Rivoli. Le opere esposte fanno parlare: Gabriele Arruzzo, Francesca
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Ferreri, Cosimo Veneziano, Yuko Murata, Gioberto Noro, Thorsten Kirchhoff, Lala Meredith-Vula, Botto&Bruno, Simone Mussat Sartor, Sophy Rickett, Eva Frapiccini, Fatma Bucak, Emily Jacir, Victoria Stoian, Adeela Suleman, Paola de Pietri, Dubravka Vidović, Paolo Bini, Laura Pugno, Martin Creed, Gianfranco Baruchello, Cornelia Badelita, Candida Höfer, Gülsün Karamustafa, Kocheisen Hullman, Hamzehian/Mortarotti, Marguerite Kahrl e ultimi, ma non per importanza Perino & Vele, ai quali sarà dedicata l’inaugurazione successiva a partire da sabato 2 novembre. Da questo elenco, come già accennato, è possibile constatare il multiculturalismo che ha segnato la vita della galleria sin dal 1989, la quale al contempo si è sempre preoccupata di dedicare uno sguardo al contemporaneo più stretto, accogliendo sotto la propria ala anche artisti emergenti e giovani, apportanti novità in un mondo in perenne rinnovamento e innovazione. E, se si vuole sopravvivere, bisogna essere capaci di non aggrapparsi troppo saldamente alle origini e seguire lo sviluppo naturale delle cose, altrimenti si rischia di restare ancorati ad un passato che rischia di farci ammuffire, ma non è questo il caso. Cecilia Paccagnella Trenta volte settembre, particolari della mostra courtesy Alberto Peola Arte Contemporanea Ph Beppe Giardino
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Iacopo Pinelli, Corpi defunzionali (scala), misure variabili, bicomponente poliuretanico e ferro 2019
Iacopo Pinelli, Corpi defunzionali (sedia), 80x60x40cm, bicomponente poliuretanico, 2019
Iacopo Pinelli, Corpi defunzioneli (tavolo), misure variabili,bicomponente poliuretanico, 2019
davidepaludetto | artecontemporanea, Torino
Iacopo PINELLI Project-room #14
C
on il termine funzione s’intende lo scopo intrinseco di una cosa, in quanto “funge al fine di…” e ogni singolo elemento esistente è per un preciso motivo, perché serve per compiere un’azione, per far fronte alle impossibilità fisiche del corpo umano ecc. Così come nella sfera artificiale, in cui l’uomo stesso ha creato e dato forma ad oggetti per se stesso, anche nella sfera naturale esistono organismi, specie animali e vegetali, con una funzione specifica per far lavorare la macchina più grande che ci sia, ovvero la Terra. A differenza del corso naturale delle cose, la nostra smania di auto-soddisfarci e di auto-compiacerci ha fatto sì che la nostra ricerca di nuovi oggetti diventasse una fabbrica seriale che ha inflazionato l’equilibrato rapporto tra bene di consumo e richiesta, ottenendo un risultato definito consumismo. È esattamente in questo tassello che si inserisce il lavoro di Iacopo Pinelli creando “Corpi defunzionali” ed esposti in una mostra personale presso la galleria torinese davidepaludetto | artecontemporanea. Nella denuncia sociale che queste opere portano con sé, l’artista si rivolge a quegli oggetti che diamo per scontato, che non ci soddisfano se non nel momento del bisogno, come una scala, una sedia, dei chiodi, martelli… Per questo motivo essi sono afflosciati, come se fossero privi di forze, ormai troppo antiquati e vecchi. Di conseguenza risultano de-funzionali, ovvero privi di funzione, svuotati della propria semantica intrinseca e riconosciuti solo per il loro guscio esterno. Il consumismo ha creato una società in cui l’acquirente è spinto dalla volontà di perseguire la realizzazione del proprio desiderio, ma si tratta di un desiderio allettante, certo, ma del quale possiamo fare tranquillamente a meno. Eppure lo vogliamo con tutto noi stessi, perché è bello o perché ce l’hanno tutti. Questo nuovo – ormai vecchio – motivo sociale ed economico incarna non solo una crisi della banalità del quotidiano (banalità che ogni tanto dovrebbe cullarci e trasmetterci serenità), ma anche una crisi di valori che ci ha resi incapaci di discernere tra l’utile e il dilettevole.
Iacopo Pinelli, Corpi defunzionali(scala), dimensioni variabili, bicomponente poliuretanico e ferro, 2019
Tutto ciò è racchiuso nelle sculture di Pinelli, le quali in realtà appaiono come oggetti che appagano lo sguardo con le loro superfici lisce e le linee sinuose e morbide. Lo spettatore, infatti, viene attratto da esse, ma in quanto opere d’arte, perché è strano vedere una sedia che si sta sciogliendo, ad esempio. Un inno agli oggetti di uso comune in questa sede appare come insolito, quando in realtà dovrebbe essere normale: apprezzare anche le piccole cose e non dare mai nulla per scontato, perché l’ennesimo paio di scarpe all’ultima moda non ci serve. Cecilia Paccagnella
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Castello di Rivara - Museo di Arte Contemporanea
Gotico Industriale Permanente
Esterno Scuderie e la serie Vertigine (2011) di Paolo Leonardo
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alla scintilla di genio di un ‘irregolare’ par exellence come Franz Paludetto e dal fermento sviluppatosi intorno a Gotico Industriale – la mostra collettiva che abbiamo realizzato insieme nel 2018 al Castello di Rivara – si è fatta strada l’esigenza di costruire (e allargare) intorno al pensiero di quella esposizione un sito permanente, che potesse guardare a Torino con passione ma da qualche chilometro di distanza (critica). Lo sbocco museale è da considerarsi perciò una specie di Calotta, 1984 di Salvatore Astore. Francesco Sena sullo sfondo
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deriva naturale, un luogo comune degli addetti ai lavori che si realizza. Tanti osservatori hanno infatti chiosato in tal senso, e chiesto più ambizione per una struttura che stava rappresentando senza veli e senza ipocrisie un pensiero e un capitolo della storia recente dell’arte italiana difficile da ignorare, da cancellare. I primi artisti presenti, che rappresentano il nucleo - mi si passi il termine - “storico” sono stati Salvatore Astore, Maura Banfo, Domenico Borrelli, Adriano Campisi, Carlo D’O-
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Franz Paludetto circondato da un’opera di Ferdi Giardini
Paolo Leonardo, Enrico Iuliano
ria, Ferdi Giardini, Paolo Grassino, Enrico Iuliano, Paolo Leonardo, Nicus Lucà, Sergio Ragalzi, Francesco Sena, Luigi Stoisa, ma l’intenzione è quella di allargare la rete fino a costruire una mappa che metterà in crisi gli stessi confini del progetto. ln un certo senso lo auspichiamo, mossi dal desiderio di mettere sempre in discussione i dati già acquisiti. Ma mettere in discussione non significa non cercare una quadra e non formulare un modello che sia adeguato e in qualche modo vincente. Nello specifico, il modello del Gotico Industriale Torinese mette in evidenza, in una chiave unitaria, due generazioni di artisti che hanno lavorato dagli anni ‘80 ad oggi, restituendone una lettura e una sintesi politica esemplari. Gotico nel senso di “vertiginoso” e “barbaro”, una sorta di stato di ebbrezza e orrore di essere altro dal progresso, simultaneamente centrifughi e centripeti rispetto al sistema dell’arte. Industriale, invece, da intendersi nel doppio e opposto senso di “nativo industriale” – una vita mediata, se non immersa dai “ritmi” operai -, e di “post” industriale – una percezione di un futuro sempre meno strutturato intorno a questa mediazione. I primi processi di dismissione del modello fordista e la perdita di centralità della catena produttiva, hanno l’effetto di costringere tutti, negli anni ‘80, consciamente o inconsciamente, a prefigurare un domani (che è oggi) senza Fiat. Un mondo governato da presse, tripli turni, ferie obbligate, tramvai che puntano verso
Piazza Caio Mario, si trova a fare improvvisamente e progressivamente i conti con i sintomi e le avvisaglie della caduta di una sorta di paradigma consolidato. Un fade out nostalgico che definiamo, con una punta feticista, “ideologia del baracchino”, dal nome del noto portavivande operaio. Gli artisti del Gotico Industriale, che negli anni ’80 sono egualmente inattuali rispetto alla musealizzazione poverista e al postmodernismo colto, si mettono in gioco attraverso una riappropriazione “crudele” della figurazione e un uso duro dei materiali della grande produzione. E proprio mentre la Torino-metafora del paese praticamente si dissolve, in una metamorfosi che è in corso ancora oggi, essi mettono al centro della loro “ribellione” l’uomo, la figura umana e le sue deviazioni, in una sorta di umanesimo dolente e contrariato. Le opere hanno spesso il colore della ruggine, dei materiali sintetici, del petrolio. L’uso degli spazi tratteggia una denuncia simbolica e geografica di in-appartenenza. La magniloquenza non è sinonimo di monumento, la partecipazione alla vita culturale della città non è sinonimo di integrazione. Anzi, si va sviluppando un’attitudine vagamente nichilista che si contrappone al dominio dell’immagine dell’artista come sciamano, come figura chiave dei mutamenti della società. In un orizzonte lontano da ogni positivismo dunque, i tentativi di raggiungere strade nuove dovevano necessariamente passare per una forca di mostruosità. E nel momento in cui nasce l’istituzione per eccellenza - il museo
Sergio Ragalzi, Virus e Ombre atomiche
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di Rivoli - che investe la scena internazionale con la visione molto particolare di Rudy Fuchs, germinano quasi di nascosto nuove forme di figurazione gotica ed industriale. Forme nate in deserti urbani, nere e solidificanti come la pece, rugginose come l’aria dei battilamiere e filologicamente anarchiche come una serie di rivolte senza apparente organizzazione. Da questo bagno di solitudine e con il carico liberatorio di chi viene finalmente a patti con le immagini del monstrum, il rimosso, si finisce per stabilire la più grande e definitiva cesura dal mondo dell’Arte Povera. Se negli anni ’80 le grida solitarie del nichilismo risentivano ancora del respiro e del volume della piazza, del conflitto, di una misura scomoda del collettivo, negli anni ’90 la dimensione diventa
più piccola. I riferimenti degli artisti, oltre a Post-Human di Jeffrey Deitch, sono convergenti ad un lavorìo mediale che culmina in una serie di processi di contaminazione con il fumetto, la musica e il cinema che potremmo definire cronologicamente pre-olimpici, una sorta di underground in fermento dove però regge ancora in pieno un assioma del decennio precedente: il rapporto di crudeltà con la figurazione. San Bernardo di Chiaravalle si domandava: “A che servono questi fogliami intrecciati con mille mostri, queste figure di satiri e di centauri, e tante modanature con bestie selvagge ed ornamenti che sottraggono alla devozione l’immaginazione del monaco? [...]” A dire “esisto”, probabilmente, senza esserne sicuri del tutto. Fabio Vito Lacertosa
Scorcio sala principale con le opere di Sergio Ragalzi, Ferdi Giardini e Francesco Sena Merenda, 1988 di Luigi Stoisa, sullo sfondo, Paolo Grassino, Deriva 2
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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Giorgio Persano, Torino
Paolo CIRIO Systems of Systems
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egli ultimi anni l’arte si è fusa con le nuove tecnologie, e spesso è difficile orientarsi in questi abissi in cui il limite è molto labile e fragile. Alcuni rifiutano di considerare queste nuove tendenze in senso artistico, ma fin dalla notte dei tempi si sa che ogni cosa può essere portata all’interno di un’istituzione artistica fin quando esiste un discorso estetico capace di giustificare le nuove modalità di espressione. Le novità sono sempre difficili da accettare e da comprendere, ma il far discutere e creare dibattiti ha sempre sottostato gli artisti che oggi consideriamo geniali e che hanno fatto la differenza. Nello spazio della galleria Giorgio Persano (TO), le opere di Paolo Cirio – raccolte sotto il titolo “Systems of Systems” – portano a galla questo cortocircuito e dimostrano in modo molto efficace come un hacker con formazione artistica sia riuscito a creare un discorso sui “lati negativi” della rete e dell’internet. L’obiettivo della poetica di Paolo Cirio è volto alla sensibilizzazione delle persone ai rischi che si corrono frequentando assiduamente la rete e utilizzandola come prolungamento delle proprie capacità cognitive e conoscitive, considerandola come un’enciclopedia portatile e, al contempo, come modalità per essere perennemente in contatto col mondo. L’apparenza ci fa credere di essere preservati e protetti, ma in realtà è come se la distopia di George Orwell si fosse avverata e quel famoso “Big Brother” abbia sempre il suo occhio su ogni nostro movimento. La critica alla società, al sistema politico e a quello economico dell’artista torinese viene esposta in modo brusco e sfacciato sputandoci in faccia la verità e mettendoci di fronte a ciò che non sappiamo o preferiamo ignorare per continuare a vivere tranquillamente. In primo luogo Paolo crea dei diagrammi per una società ipotetica perfetta, “Open Society Structures” (2009), pensando addirittura ad una valuta alternativa – “Gift Finance” (2010). Inoltre egli ha indagato e sfidato colossi come Google, Facebook e Amazon – “Hacking Monopolism Trilogy Flowcharts” (20052011) – portando a galla delle scomode verità che sono anche alla nostra portata, ma non ne siamo consapevoli, individuando
delle falle nei loro sistemi di sicurezza. Su un’altra parete troviamo delle superfici specchianti – “Meaning” (2019) – in cui sono raccolte delle parole chiave, spesso contrarie, che caratterizzano la rete (pubblico-privato, spazio-tempo…), e ci fa vedere come la nostra immagine riflessa corrisponde alla nostra inclusività e appartenenza alla rete, nella quale siamo sia protagonisti sia prigionieri. Al centro della stanza, invece, l’installazione “Foundations” (2019) è composta da pellicole trasparenti sulle quali sono presenti vocaboli ricorrenti in testi di arte concettuale degli anni ’60 – corrente all’interno della quale già fiorivano critiche all’informazione e in questa sede riformulate. Questa dicotomia tra “barriera-pellicola” e trasparenza, però, è una metafora della privacy che noi pensiamo di avere, ma che in realtà è abbastanza instabile, e il fatto di poterci camminare in mezzo esplica questa fragilità, rendendoci consapevoli del fatto che con gli strumenti giusti potremmo navigare tranquillamente anche negli angoli più bui di questo grande enigma che si chiama rete. Infine, la parete di destra è occupata da un’enorme installazione, “Sociality” (2018), in cui alcuni fogli A4 sono disposti come un puzzle, i cui tasselli espongono in modo semplificato il meccanismo dei brand che agiscono ogniqualvolta facciamo una ricerca su internet con lo scopo di controllare i nostri intenti e spingerci a compiere determinate scelte senza che ce ne rendiamo conto. Il lavoro di Paolo Cirio, per quanto innovativo e spiazzante, è dimostrazione di come attraverso il medium artistico sia possibile parlare anche di argomenti politici e sociali, in grado di acquisire un senso estetico e d’impatto e rendendo i classici grafici matematici e statistici degli strumenti al pari delle tele e delle sculture. Cecilia Paccagnella
Paolo Cirio, Systems of Systems, 2019. Installation view - Giorgio Persano Gallery. Photo Nicola Morittu. Courtesy of the Artist and Giorgio Persano Gallery
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Giulio De Mitri, Peras Apeiron, 2012. Installazione ambientale site specific, foto di Carmine Lafratta.
E-Gate, Torino
Carlo BERNARDINI, Giulio DE MITRI, Paolo SCIRPA Light | Space | Concept
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asciare la propria zona di comfort per un osservatore profano di arte contemporanea è il primo passo, e anche quello più complesso, che è necessario fare per arrivare alla fruizione di un’opera. La difficoltà di avvicinarsi a qualcosa che a un primo approccio visivo non si riesce a comprendere crea un ostacolo che deve essere valicato. Nel momento in cui questo non succede nella giusta misura e in maniera adeguata si crea una discrasia, spesso irrecuperabile, tra opera e fruitore. La sensazione di inadeguatezza di fronte a qualcosa che non comprendiamo si attenua, o viene meno, se ci si sente attratti, anche più o meno casualmente, da elementi presenti nell’opera che possono essere ricollegati con immediatezza o istintivamente alla nostra vita. Entità materiali, o immateriali come la luce che della nostra vita sono elementi imprescindibili, eliminano con più facilità questi gap iniziali. L’arte della luce, l’osservazione di oggetti luminosi, oggetti che presentano la luce, attrae le persone e addirittura le consola. La luce è uno degli elementi vitali più importanti dell’esistenza, siamo abituati alla luce naturale ed artificiale che ci circonda, spesso la diamo per scontata e, altrettanto sovente, non ci occupiamo di scoprirne e conoscerne le potenzialità se non quelle legate alla funzione dell’illuminazione. Ed è qui che entra in gioco l’artista. Attraverso la tecnologia l’artista è in grado di rendere la luce un evento capace di assumere ogni volta significati diversi, tanti quanti sono gli occhi che la guardano. Gli artisti che hanno dedicato alla luce la loro intera produzione hanno utilizzato e continuano a utilizzare strumenti noti nel mondo moderno come
il neon, la fibra ottica e la luce di wood allo scopo di presentare la luce nelle sue molteplici forme e interpretazioni. Potremmo in un certo senso dire che lo spettatore è inizialmente ingannato, poiché attratto da qualcosa che conosce, ed è inconsapevolmente coinvolto in un processo che lo rende parte determinante dell’opera. Caratteristica fondamentale di chi fa della luce nell’arte del nuovo millennio è, infatti, l’interazione, intesa sia come partecipazione del fruitore all’opera, sia come relazione dell’uomo con il mondo che lo circonda. Questo significa confrontarsi con una nuova consapevolezza dello spazio, come ci ha insegnato Lucio Fontana alla fine degli anni quaranta del Novecento con Arte spaziale, neon, luce di Wood, televisione, IV dimensione dell’architettura, quindi con una diversa percezione del tempo, come ha più volte sperimentato James Turrell con le diverse elaborazioni di Skyspace. Nelle opere di Scirpa, De Mitri e Bernardini, nella mostra Light |Space|Concept a cura di Sara Liuzzi presso lo spazio e-Gate e in collaborazione con la galleria “Opere scelte”di Torino, la luce è protagonista di un processo di espressione che non termina nel lieto fine dell’illuminazione. Per tutti e tre gli artisti la tecnologia è strumento formale utile per la risposta emotiva, comportamentale e storica dell’osservatore. Oltre alla riflessione sullo spazio troviamo la manipolazione del concetto di tempo che attraverso lo sguardo dello spettatore trova complementarietà e completezza dell’opera stessa. Paolo Scirpa a partire dagli anni Settanta del Novecento dedica il suo lavoro quasi esclusivamente alla presentazione della luce. Lo fa
Giulio De Mitri, AttraversaMenti (particolari), 2016. Installazioni ambientali, foto di Giorgio Ciardo.
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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Carlo Bernardini, Invisible dimensions, 2015-2018. Installazioni ambientali.
servendosi del neon, plasmandolo, se così si può dire, in oggetti geometrici che emanano luce. A differenza dell’arte ottico-cinetica, più incentrata sul processo per cui i cambiamenti del cervello danno vita all’esperienza reale (percezione), Scirpa utilizza la tecnologia per presentare una visione metaforica della luce. Come sostiene Meneguzzo, l’idea della luce è molto più vicina all’idea che di essa si aveva nel medioevo, cioè di luce divina. Spogliando tale intenzione dal carattere religioso, il neon non è altro che il fantasma visibile di un’idea di unità data dalla luce. In particolare con i Ludoscopi, Scirpa punta all’infinito. La riproduzione modulare di forme geometriche di luce attraverso l’utilizzo degli specchi replica all’infinito la visione. La forma pura nella moltiplicazione oggettuale si perde nel tunnel ottico la cui fine non si percepisce, non esiste, sostituita dalla potenzialità immaginativa di chi osserva (Munari). In una sorta di dialogo tra realtà delle cose (oggetto geometrico luminoso) e idea della cosa (percezione dell’infinito), Scirpa, servendosi della ripetizione della luce, trasporta la vista dello spettatore in un luogo non definito, amplifica, utilizzando strumenti riflettenti, lo sguardo di chi osserva verso uno spazio-tempo ulteriore che può essere solo immaginato. Gli ambienti e le opere di Giulio De Mitri si presentano come porte simboliche, valichi tangibili verso una dimensione diversa. Nell’epoca dell’ipervisibilità, le sue opere di luce, che siano installazioni ambientali o techno light box, partono dall’ombra per immergere colui che osserva in uno spazio oscurato, quindi neutro, aperto all’immaginazione. Costante nel suo lavoro sono le gradazioni monocromatiche di blu. Il colore blu nel buio ha il compito di creare un’atmosfera sospesa che sembra catapultarci nelle profondità marine. Partendo da queste premesse narrative e intellettuali, De Mitri crea, in una miscela alchemica di sapiente ingegno, cultura e sofisticata tecnologia, un non luogo originario in cui esplorare di volta in volta le possibilità date dalle narrazioni proposte. “Se si cerca in profondità e in piena libertà, si può trovare qualsiasi cosa,” questo è l’intento dell’artista, aprire un dialogo con il fruitore attraendolo verso la riflessione filosofica che è alla base della sua produzione: l’antico legame tra natura e pensiero, tra reale e plausibile. Un equilibrio tra sé e il mistero del cosmo con cui coniugare e raccogliere l’esistenza in un ecosistema di simboli che sono il cuore pulsante
della vita immaginativa, rivelando i segreti dell’inconscio umano e dell’universo, conducendoci alla soglia delle origini più remote, aprendoci lo spirito all’ignoto. Le sperimentazioni di luce di Carlo Bernardini rinnovano il concetto di forma nello spazio dandogli una nuova identità. Attraverso l’utilizzo della fibra ottica, l’artista disegna lo spazio scuro come farebbe con una matita bianca su un foglio nero, riportando però questo processo legato alla bidimensionalità di una superficie piatta ad ambienti tridimensionali che possono essere vissuti e attraversati fisicamente, così da creare una nuova realtà delle forme che assumono immediatamente una propria autonomia. Se a questa liberazione della luce nell’aria attraverso geometrie e linee che non rispondono necessariamente ad una ratio o ad un percorso prestabilito, uniamo il movimento dello spettatore che osserva e agisce visivamente nell’ambiente, otteniamo un ribaltamento della concezione della realtà. Forma immaginaria e forma reale diventano un’unica cosa. Il processo mentale dell’artista disegnato in questo modo è lasciato al fruitore che vive e, allo stesso tempo, pensa e percepisce le immagini in maniera personale ed emancipata. La luce genera lo spazio e l’artista disegna il tempo che ha un ritmo diverso rispetto alla prospettiva da cui si guarda. Le esperienze estetiche prodotte da Scirpa, De Mitri e Bernardini, hanno dimostrato come questi artisti abbiano privilegiato l’utilizzo dell’elemento luce agendo sulla sua immediatezza, creando un sistema di comunicazione che è proprio nell’opera di ciascuno di loro. Hanno trovato un accordo comune rappresentato dal rapporto con lo spettatore che diventa punto di partenza e di arrivo nella loro produzione. Come sosteneva Marcel Duchamp in una conferenza degli anni Cinquanta del Novecento, l’interattività non è poi un’idea così nuova. La novità sta altrove. La novità risiede nella produzione dello spazio-tempo relazionale tramite esperienze interpersonali che si liberano dalle varie tipologie di costrizioni che il moderno mondo della comunicazione trasforma in sovrastrutture. In qualche modo queste opere producono luoghi in cui si elaborano modelli critici di partecipazione alternativa in cui nuove possibilità di vita si rivelano possibili. Luna Gubinelli
Paolo Scirpa, Ludoscopi (particolari), foto di Orazio Bacci.
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Moataz Nasr, Abeya (The Slave Market), 2019 Stampa fotografica su carta cotone su Dibond, 150 x 210 cm Courtesy: the artist and GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana. Photo by: Ela Bialkowska, OKNO StudioHabana
Galleria Continua, San Gimignano
Moataz NASR Yoan CAPOTE José Antonio SUÁREZ LONDOÑO Kiki SMITH Moataz Nasr, G Tower, 2019. Bombole di gas Courtesy: the artist and GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana Photo by: Ela Bialkowska, OKNO Studio
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ella storica sede della Galleria Continua a San Gimignano è allestita la grande personale “Paradise Lost” di Moataz Nasr, dove con l’opera scultorea “Barzakh” del 2019, collocata all’ingresso dello spazio espositivo e costruita mediante la compenetrazione di due masse volumetriche abbellite nelle estremità finali da una raffinata decorazione di madreperle, l’artista sembra indicare uno spazio di passaggio e di possibile transizione rigenerante; allo stesso modo il percorso della mostra, che con questa installazione si apre, ha le caratteristiche di “ un viaggio di iniziazione. “Un’immersione inquietante in uno spazio che mescola miti e realtà”, secondo quanto scrive il curatore, Simon Njami. Proprio alle tematiche del passaggio, da interno a esterno, da un mondo concreto e tangibile a un altro ineffabile si riferisce la progettazione appositamente elaborata dall’artista egiziano, internazionalmente conosciuto e uno dei più noti nel suo paese, che tra l’altro lo ha rappresentato nella Biennale di Venezia nel 2017 con il video The Mountain, qui riproposto. Il passaggio non significa solo un ipotetico movimento fra un ‘luogo’ e un altro, ma anche la percezione dello stallo possibile fra una condizione e il suo contrario, fra il paradiso e gli inferi, fra la poesia e la denuncia, fra la cultura e l’ignoranza. Il titolo dell’esposizione si riferisce appunto al corposo poema epico di John Milton, in cui il motivo fondamentale è quello biblico della caduta dell’uomo e della sua uscita dal giardino incantato dell’Eden. Esemplificativa in tal senso è la scultura “Apophis” del 2019 in legno dipinto, che richiama l’omonima divinità egizia, regina del male e del caos, e al contempo si sofferma sulla tentazione del serpente, incarnatosi nelle figure umane che lo reggono e sotto il cui corpo sono nascoste. La meditazione sulla realtà attuale, più particolarmente dei paesi arabi, considerata anche in un’ottica globale, connota tutto il lavoro dell’artista, il quale concentra la sua attenzione creativa sia sulla risorsa petrolio e sulla ricchezza derivata da esso, sia sulle guerre e i conflitti che distruggono e spingono intere popolazioni a lasciare le loro terre. Oro nero e migrazioni sono i concetti che sottendono le due installazioni: “Paradise Lost” e “Shelter” del 2019, rispettivamente poste al centro della platea e sul palco dell’ex cinema. Entrambe, di grande forza espressiva, sono idealmente in relazione. Osservando la prima, la sagoma di un’altissima torre di Dubai, segno esplicito del denaro ottenuto con il petrolio, simboleggiato dalle bombolette di gas utilizzate per innalzarla,
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
si ha la sensazione della instabilità insita nella costruzione, in ragione del fatto che la sovrabbondanza economica potrebbe svanire da un momento all’altro con l’esaurimento del prezioso liquido e le superbe strutture ‘crollare’ come nuove torri babeliche. La seconda installazione, costituita da una miriade di grossi remi collegati fra loro in modo da formare un riparo, mette in risalto l’idea del passaggio da un luogo all’altro e contemporaneamente si sofferma sul concetto di stasi, sul riparo possibile nella ‘capanna’ formata dalle lunghe aste di legno, un riparo più immaginario che reale, in rapporto alle condizioni di attraversamento sempre avverse, che i migranti affrontano da una sponda all’altra del Mediterraneo. Moataz Nasr ribadisce con tutta la sua opera che non c’è pace per il Medio Oriente e che da qualunque parte si affronti la problematica il risultato è lo stesso: è sempre un luogo ad alta tensione, come sembra ancora dirci in una delle sue mappe,
dove il territorio è metaforicamente raffigurato con innumerevoli fiammiferi colorati. Il suo video, invece, si sofferma su una tematica di carattere psichico e sociale, a intessere una storia nel contesto comunitario e arcaico di un gruppo di abitanti di un villaggio sperduto fra mare e deserto: è la storia di una sfida per vincere la paura, per comprendere l’inconoscibile, per ritrovare, infine, la libertà negata. La complessità progettuale, l’utilizzo di differenti linguaggi artistici e la capacità di analizzare le maggiori emergenze globali a vari livelli, fra cui quello socio-politico e filosofico, fanno di Moataz Nasr un acuto testimone del nostro tempo, oltre e ben al di là della sua mera appartenenza geografica. Con Yoan Capote, artista cubano, anch’esso in mostra in uno degli altri spazi di Galleria Continua dislocato al di fuori dell’ex cinema, continua la riflessione sulle problematiche inerenti i conflitti, in cui il soggetto singolo perde la sua identità ed è
Kiki Smith, Compass, Galleria Continua, San Gimignano, 2019. Veduta della mostra Courtesy: the artist and GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana Photo by: Ela Bialkowska, OKNO Studio Moataz Nasr, Shelter, 2019. Legno Courtesy: the artist and GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana. Photo by: Ela Bialkowska, OKNO Studio
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Yoan Capote, Speechless - series, 2019 Bronzo e tessuti facciali, volti a grandezza naturale, h 13 x 13 x 22,5 cm Courtesy: the artist and GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana Photo by: Ela Bialkowska, OKNO Studio
Jose Antonio Suarez Londono, Dibujo, 2019 tecnica mista su carta, cornice in legno, 98 x 61 cm Courtesy: the artist and GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana Photo by: Miguel Suárez Londoño
costretto a piegarsi a regole collettive. È in definitiva la storia del paese dell’artista che traspare nella serie di opere dal titolo “Sujeto Omitido”, titolo utilizzato anche per la mostra. Le grandi superfici hanno per soggetto il mare, nella duplice accezione di positività e negativa. Ogni opera di queste se vista da lontano dà l’idea di un dinamico moto ondoso, avvicinandosi ad essa invece, con la moltitudine di ami da pesca inchiodati, con la parte a uncino rivolta all’esterno, si ha la sensazione di un’ enorme pericolosità che sembra travalicare i confini stessi del quadro e respingere lo sguardo del visitatore. Oppressione e libertà interloquiscono in questa serie e nelle varie sculture e installazioni
esposte, al di là degli specifici linguaggi di ognuna. Dell’artista colombiano José Antonio Suárez Londoño, negli spazi del Leon Bianco è presentata la personale New Drawings 2018 – 2019, nella quale la pratica del disegno è onnipresente e caratterizza le innumerevoli sequenze di piccole e più grandi carte in mostra. Per Londoño , autodidatta, disegnare è un’azione da ripetere ogni giorno, una sorta di meditazione da compiere nelle pagine dei taccuini che l’artista porta sempre con sé. Vari sono i soggetti ritratti, di un mondo reale e immaginario, di minuscole entità e più grandi, con i quali l’artista compone delle storie in sequenza, che con cadenza quotidiana si snodano
Yoan Capote, Sujeto Omitido. Vedute generali della mostra, Galleria Continua, San Gimignano Courtesy: the artist and GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana. Photo by: Ela Bialkowska, OKNO Studio
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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Jose Antonio Suarez Londono, Mural, 2019. Disegno a parete site specific Courtesy: the artist and GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana. Photo by: Ela Bialkowska, OKNO Studio
lungo anni interi, in un’immersione totale in un mondo pulsante di segni. Di Kiki Smith è proposta la personale titolata “Compass” in riferimento alle sue ultime creazioni, sviluppatesi mediante un disegno preciso a rendere figure geometrizzanti, che orientano lo sguardo verso un punto centrale, appositamente definito dall’artista. Allestita in uno degli appartamenti del Leon Bianco, l’esposizione presenta opere che provengono dall’ampio repertorio della produzione di Kiki Smith e altre inedite, in un susseguirsi di installazioni e carte nepalesi disegnate a matita e inchiostro che intrattengono rimandi suggestivi con le figura-
zioni delle pareti e dei soffitti. Nel lavoro dell’artista la figura femminile è soggetto ricorrente, rappresentata nelle sue connotazioni fisiche e sempre più integrata in un mondo naturale, popolato di volatili in tutto simili a falchi, civette e da alberi, la cui rugosità diventa “pelle umana”, come nell’installazione delle mani in bronzo. Disegno e scultura sono i linguaggi preferiti da Kiki Smith, con i quali indaga motivazioni intime e magiche, con la donna che funge da intermediaria fra le stelle, la luna e un mondo terrestre ed è protagonista assoluta di un’armonizzazione possibile fra essere umano e universo. Rita Olivieri
Kiki Smith, Compass, Galleria Continua, San Gimignano, 2019. Veduta della mostra Courtesy: the artist and GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana Photo by: Ela Bialkowska, OKNO Studio
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ABC Arte, Genova
Nanni VALENTINI
A
rchetipe forme e scure tonalità caratterizzano le sculture presentate dalla galleria in occasione dell’ampia retrospettiva dedicata all’opera plastica di Nanni Valentini (Sant’Angelo in Vado, 1932 – Vimercate, 1985) il cui titolo “L’interspazio tra il visibile e il tattile” è ripreso da un testo che egli pubblicò nel 1975. Incentrandosi sul decisivo decennio, 1975-1985, la mostra ci fa rivivere il periodo in cui l’artista marchigiano venne riconosciuto come uno dei maggiori esponenti della scultura in ceramica del secondo dopoguerra. La sua carriera inizia con gli studi di ceramica a Pesaro per poi frequentare, prima, l’Istituto d’Arte di Faenza e la bottega di Bruno Baratti, e poi, l’Accademia di Bologna. In seguito entra nella cerchia della Galleria La Salita di Liverani stringendo amicizia con Gastone Novelli, Emilio Villa e Gino Marotta. Sul finire degli anni cinquanta Valentini abbandonò la sua terra d’origine per Milano, città in cui conobbe personaggi di spicco della scena artistica italiana come Giò e Arnaldo Pomodoro, Tancredi e, non da ultimo, Lucio Fontana con cui collaborò in occasione della realizzazione della monumentale Tomba Melandri a Faenza. Molteplici i premi vinti in tale periodo: dal Premio Faenza (1956, 1961, 1977) al premio del Syracuse Museum of Fine Arts (1958). Il 1976 è, invece, l’anno in cui si afferma nella scena meneghina grazie alla memorabile esposizione allestita presso la Galleria Milano di Carla Pellegrini che lo vide come unico protagonista e ove presentò sia lavori pittorici sia scultorei: opere in cui emerse il suo singolare approccio alla materia, al colore e alla figura. Una serie di personali in importanti gallerie internazionali caratterizzarono i primi anni Ottanta (Babel a Heilbronn, Vera Biondi a Firenze e Galerie -e di Monaco) a cui seguirono nel 1982, prima, l’invito ad esporre in una sala personale alla Biennale di Venezia e, successivamente, a “La sovrana inattualità” al Museum des XX Jahrhunderts di Vienna. Successivamente espone una vasta personale al Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano, al Museu de la Ceràmica di Barcellona e, nuovamente, alla Galerie -e di Monaco per poi lasciare improvvisamente un vuoto nel mondo dell’arte contemporanea di fine Novecento. Attualmente, per via di questa vasta rassegna, possiamo ammirare una trentina di opere che documentano la sua intensa stagione matura. La potenza delle sue asciutte visioni plastiche riecheggia in lavori come “Il cerchio”, “La casa dell’angelo” o “Cratere” in cui il naturale colore del materiale impiegato è lasciato a vista trasmettendo ed accrescendo la potenza delle immagini evocate nei titoli. Inoltre, grandi opere inedite su carta s’alternano ad una serie di garze del 1975-76, come “Trasparenza”, frutto della sua indagine pittorica, in cui la leggerezza e la trasparenza del tessuto manifestano ancora una volta la sua sensibilità espressiva e tonale. Maila Buglioni Galleriapiù - Bologna
Gaia FUGAZZA Ostaggi e amici
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ittura, intaglio e incisione su legno, materiali e colori tratti dal mondo della natura, compongono il ciclo più recente delle opere di Gaia Fugazza. L’artista milanese di base a Londra, in accordo con la propria poGaia Fugazza, Ciao Api, dettaglio crediti fotografici Stefano Maniero, courtesy Galleriapiù e l’artista.
Nanni Valentini, Deriva (ansa), 1982-83 (terracotta greificata; 60x80x60 cm,)
Nanni Valentini, Cratere, 1980 (terracotta greificata e ferro; ø 71 cm.) Nanni Valentini, Cerchio, 1982 (terracotta greificata e ferro; ø 150 cm-)
etica, esplora qui gradi e possibilità di contatto tra mondo della natura e percezione soggettiva delle cose. Nei lavori in mostra il vitalismo dei materiali incontra prassi operative legate alla tradizione che consentono di indagare la percezione individuale dello spazio e della profondità. Grande importanza assume, nelle opere in mostra, la forza suggestiva dei soggetti rappresentati, figure antropomorfe, oppure ispirate al mondo animale o vegetale, cariche di surreale fascino, di rimandi simbolici e onirici. Francesca Cammarata Galleriapiù - Bologna
Pauline BATISTA Is your system optimized?
M
otivo di riflessione nel lavoro di Pauline Batista è il rapporto tra lo sviluppo tecnologico e la nostra conoscenza della realtà, dettata anche dal condizionamento che i supporti tecnologici procurano alla nostra percezione visiva e sensoriale. L’artista fa uso di numerosi mezzi espressivi come fotografia, scultura e video, attraverso i quali realizza installazioni transmediali. La molteplicità degli strumenti usati agevolano l’indagine di Pauline Batista sull’iperstimolazione visiva e sull’elevato numero informazioni alle quali quali siamo soggetti quotidianamente. Francesca Cammarata
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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
L’Ariete Artecontemporanea - Bologna
Fabrizio BOTTARELLI Atopie
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uarta esposizione dedicata a Fabrizio Bottarelli dalla storica galleria bolognese. Il progetto espositivo, che l’artista dedica a Fabrizio D’Amico, sarà accompagnato da un volume monografico che racconta l’opera dell’autore emiliano con testi di Ilaria Bignotti e Pasquale Fameli. Atopie segna il ritorno di Fabrizio Bottarelli al tema del paesaggio che a partire dagli anni ‘90 sintetizza l’incontro tra il suo specifico percorso di ricerca, caratterizzato da un astrattismo pittorico di impronta lirica, e i luoghi del mondo da lui visitati. Quest’ultima personale fa seguito ad altri eventi espositivi promossi dalla storica galleria di via D’Azeglio incentrati su un altro tema caro all’autore emiliano, quello dei volti che in vario modo hanno segnato il suo percorso di ricerca. Come per l’intera produzione dell’artista anche in questa occasione protagonisti saranno il colore, il segno e la materia, in grado di cogliere la drammaticità dei soggetti con i quali l’autore via via si confronta attribuendo loro tratti universali. Atopie vedrà l’esposizione al pubblico opere recenti e inedite di Fabrizio Bottarelli realizzate appositamente per questo progetto. Francesca Cammarata
Maurizio Bottarelli, Paesaggio, 2018/19 tecnica mista su carta intelata cm 54x72 Maurizio Bottarelli, Paesaggio, 2018/19 tecnica mista su carta intelata cm 54x72
Galleria De Foscherari - Bologna
Mario AIRÒ Il pipistrello bianco
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o spettro di assorbimento degli elementi chimici, l’alternarsi delle sue bande luminose e il loro interrompersi facendosi ritmo oppure accordo è uno degli elementi che ispirano l’allestimento realizzato da Mario Airò alla galleria De Foscherari. Il progetto espositivo è composto da installazioni create appositamente per questa occasione che coinvolgono l’intero spazio della galleria e proiettano lo spettatore dentro un universo trasfigurato e utopistico. Con questa personale l’artista pavese invita il pubblico a sperimentare una dimensione esistenziale nuova, immaginifica e carica di spirituallità, lontana dai valori della vita moderna e dal modello di vita occidentale. A questo scopo l’artista propone diversi richiami alla cultura Naxi e alla religione dongba, alle quali si lega l’identità della minoranza etnica che abita da secoli il territorio ai piedi dell’Himalaya. A ispirarlo sono ad esempio i pittogrammi Naxi e le immagini del monte Kailash, sacro non solo per i Naxi ma per anche per numerosi popoli dell’asia. Il titolo stesso della mostra fa riferimento al volume di Cristiana Turini, che traduce e studia il modello linguistico di un manoscritto della tradizione Naxi, scritto nell’unica lingua pittografica ancora oggi esistente. Francesca Cammarata
Mario Airò, Il pipistrello bianco, 2019, vedute dell’installazione, galleria De Foscherari, Bologna,
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Francesco Impellizzeri, Caratteri molteplici 2010 (tecnica mista su carta ed. 1/4 104x72,5 cm.) Galleria Santo Ficara, Firenze Francesco Impellizzeri,Ritmo Latino 1987 (acrilico su tela 145x90 cm.) Galleria Santo Ficara, Firenze
Galleria Santo Ficara, Firenze
Carla ACCARDI Francesco IMPELLIZZERI
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on questa mostra Santo Ficara rende omaggio a Carla Accardi con la quale svolse un rapporto trentennale dal 1989, anno in cui si inaugurò la sua prima personale nel suo spazio a Firenze. A metà degli anni Ottanta ha avuto inizio il rapporto fra Carla Accardi e Francesco Impellizzeri, che collaborava alle attività dello Studio Accardi. Sono rare le occasioni nelle quali il lavoro di Carla Accardi è stato accostato a quello di Francesco Impellizzeri anche per una sorta di pudore o ritrosia da parte di entrambi. Di ciascun autore sono presenti in mostra una serie di opere di diversi momenti, formando una piccola antologica per ciascuno. Di Carla Accardi sono esposte alcune opere su carta realizzate nei primi anni Settanta ed altre degli anni relativi al periodo della collaborazione con Impelliz-
zeri. Inevitabile l’accostamento di questi lavori con i dipinti di Impellizzeri degli anni Ottanta e in tale ottica la mostra è stata pensata mettendo in scena una serie di accostamenti azzardati, di colloqui apparentemente impossibili ma efficaci, di chiacchierate fra opere diverse, di autori distinti ma non distanti. Negli spazi della Galleria, dal 19 ottobre al 15 gennaio 2020, sono presentate una quindicina di opere di Carla Accardi e altrettante di Impellizzeri, che il giorno dell’inaugurazione si è esibito con una performance – Ping Pong – incentrata sulla narrazione del suo rapporto con Carla Accardi. La mostra è accompagnata da una pubblicazione a cura della Galleria e realizzata dall’Editore Carlo Cambi, con testi di Marco Meneguzzo e Federico Sardella. (cs)
Carla Accardi, Gialloverderarancio 1966 (tempera alla caseina su carta cm. 34.5x50) Galleria Santo Ficara, Firenze
Carla Accardi, Si smagliarono i punti – 2000 (vinilico su tela 120x160 cm.) Galleria Santo Ficara, Firenze
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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Luca Tommasi arte contemporanea, Milano
Ian DAVENPORT
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an Davenport torna in Italia con la mostra Synesthesia, a cura di Stefano Castelli, negli spazi della Galleria Luca Tommasi Arte Contemporanea di Milano. Dopo il successo riscosso alla 57° Biennale di Venezia con l’installazione dei Giardini Colourfall – realizzati per Swatch – Davenport espone una serie di lavori appartenenti al ciclo degli Splat. Il nome del ciclo fa riferimento alla tecnica adoperata per la stesura del pigmento, che viene scagliato sul supporto posto in verticale, trascinandosi oltre il confine della tela. Il colore esplode assumendo una forma che ricorda vagamente i fuochi d’artificio o, analogamente, le comete le cui sostanze volatili vengono nobilitate in contiguità del sole, originando la formazione di chioma e coda. Le tracce generate dalla sgocciolatura del colore non sono del tutto inattese, ogni lavoro è conseguenza di una lunga progettualità che impegna Ian Davenport da anni nella ricerca di equilibri, armonie ma, soprattutto, paradossi. Questo gioco di contrasti genera un effetto di forte dinamismo in cui l’apparente casualità del getto è controllata dalla premeditazione dell’artista. Così come per i Poured Lines, dipinti in cui riversa dall’alto sottili cascate di colore dando luce a risultati di forte impatto visivo, ugualmente per gli Splat la chiave per la riuscita dei lavori è l’attento studio, anche attraverso supporti digitali, che precede la messa in opera e che comprende: la conoscenza degli elementi, la reazione/interazione che può scaturire tra loro e la padronanza del gesto. Per il white cube di via Cola Montano Ian Davenport realizza un wall painting site-specific, nella parete di fondo della galleria. L’opera si dispone al centro lasciando ampi bordi liberi. Qui è ancora più evidente il controllo che l’artista esercita sul colore che scivola sul muro arrivando al pavimento solo in un punto, formando una sezione che ricorda vagamente quella dell’antica proporzione aurea.
Galleria San Carlo, Milano
Salvatore SAVA
Ian Davenport, Synesthesia (installation view ) Luca Tommasi arte contemporanea, Milano
Schizzi di colore ricoprono, come una sottile pioggia, la cornice che inscatola il muro di fondo, invitando l’osservatore ad entrare nell’opera, in modo da poterla comprendere nella sua totalità. Alice Ioffrida
Salvatore Sava, Aleurotidi alla finestra di Arnesano, 2016 Courtesy galleria San Carlo, Milano
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irompente e rigogliosa, la natura di Salvatore Sava, esplode fra le eleganti stanze della home della galleria San Carlo, storico spazio della città meneghina oggi convogliato nei più intimi ambienti dell’abitazione privata che, per sua stessa definizione si presta ad un discorso più autentico e sincero come lo è l’arte di Sava. Da sempre dedito ad un discorso interessato all’ambiente e all’ecologia dove, la scultura s’impone quale medium privilegiato e unico nel sublimare forme della natura, che si portano dietro, al contempo, il gesto e l’impronta dell’uomo e dell’artista, Salvatore Sava a Milano impagina una mostra che assomiglia ad un vero e proprio giardino domestico. Dominante è il giallo fluo, “il colore del veleno, che dilaga e contagia ogni cosa, fiori e piante, cespugli e scarabei, in una bellezza artificiale e ambigua, segno di una natura avvelenata” scrive la curatrice Rosella Ghezzi, “il colore della pazzia, di quella follia umana che venendo meno all’antico patto tra uomo e natura, distrugge equilibri e devasta ogni cosa, in una cisa assurda verso l’alienazione”. Il giallo fluo diventa, in questo caso, quell’elemento connettore che, ribaltando tale concezione, lega ogni opera all’altra in questo incosueto percorso di mostra. Percorso che parte dall’esterno per entrare delicatamente all’interno dove, opere come Praesepe. Aulerodidi del 2016, che si mostra nella forma di micro giardino, accoglie mosche che poeticamente non infastidiscono affatto per collocarsi sul vetro della finestra simulandone la vita. Ancora, sono tante le opere che si possono citare, tutte con titoli che ricordano la natura che ne simula il senso di organicità. Valgano in tal senso La Pianta Tetragona, quella del Sole, Luna che dorme, Ragnoflora, Fiore del Salento, Fiore dell’Adriatico, Fiori di Mezzanotte, Xiloflora, Arbusto, ma anche Follie Barocche.Scarabei che invitano alla conoscenza di un mondo spesso respinto dall’uomo ma che Sava, attraverso l’esercizio dell’arte e della cultura, invita a riscoprire e rivivere. Maria Letizia Paiato NOVEMBRE/DICEMBRE 2019 | 275 segno - 51
Galleria Vistamare, Pescara
who knows one
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on l’eccezionale curatela di Haim Steinbach, artista legatissimo alla storia della galleria, questa collettiva mette insieme per la prima volta una rosa di personalità, 23 artisti dediti a campi di ricerca etorogenei, rivolgendo loro una semplice quanto iconica domanda, da cui il titolo dell’intera esposizione, e che nella traduzione italiana suona come: chi sa che cosa è il numero 1? Chiamati a rispondere sono gli artisti: Darren Bader, Kenji Fujita, Liam Gillick, Rachel Harrison, Alfredo Jaar, Zerek Kempf, Peter Kogler, Joseph Kosuth, Agnieszka Kurant, Miltos Manetas, Helen Marten, Moshe Ninio, Susan Philipsz, Magali Reus, Mika Rottenberg, Nancy Shaver, Eran Schaerf, Gwen Smith, Steel Stillman, Slavs and Tatars, Noncommittal, Joe Winter e anche e soprattutto Ettore Spalletti, recentemente scomparso, la cui risposta a questa domanda pare oggi essere il quesito stesso, intendendo affermare con ciò che, giacché lo stesso Steinbach suggerisce il coinvolgimento del pubblico chiamato a ricercare la risposta, allora da spettatori pare giusto tolineare quanto lo stesso Spalletti sia da considerarsi attualmente un numero uno del firmamento dell’arte contemporanea. Scioglilingua per bambini tratto da un compendio di omelie ebraiche risalenti al 1500 circa, per la precisione parte dell’omonima poesia allegorica dell’Haggadah dove, filosofia, folklore, temi di carattere storico, etico e anedottico ne ritmano il senso, who knows one ha offerto l’opportunità a ciascun artista di interrogarsi su argomenti esistenziali rispondenti ad ulteriori quesiti quali: che cosa ci faccio qui? chi sono? dove sto andando? modellando il proprio personale discorso artistico a qualcosa di più generale e collettivo. In tal senso ciascuna opera ha originato
Ettore Spalletti, Salute!, 2019 courtesy Vistamare/Vistamarestudio - Pescara/Milano e l’Artista
un percorso dove, le anime individuali di ciascuno, seppure rispettate, si legano l’una all’altra mostrando e domostrando come, la diversità formale e di poetica diventi un ulteriore elemento di interpretazione generale sul più ampio concetto di arte. Allo stesso tempo le aure delle opere rimbalzano negli sguardi degli spettatori che catturando i medesimi interrogativi degli artisti, ne capovolgono il referente sicché le domande si trasformano in: Tu che cosa sai? Io che cosa so? A che serve tutto questo? La risposta?...può essere solo qualcosa che ha a che vedere con lo spirito e con Dio nella misura in cui who knows one ha come prerogativa sottesa il chiedersi dove sia Dio. Maria Letizia Paiato
Susan Philipsz, Lachrimae Antiquae XIII, 2017 courtesy Vistamare/Vistamarestudio - Pescara/Milano e l’Artista
Liam Gillick, WHY IS PRODUCED, 2011 courtesy Vistamare/Vistamarestudio - Pescara/Milano e l’Artista
Eran Schaerf, The Lead #3, 2016 e Eran Schaerf, The Lead #5, 2016 courtesy Vistamare/Vistamarestudio - Pescara/Milano e l’Artista
Mika Rottenberg, Sneeze, 2012 courtesy Vistamare/Vistamarestudio - Pescara/Milano e l’Artista
Peter Kogler, Untitled, 2017 courtesy Vistamare/Vistamarestudio - Pescara/Milano e l’Artista
Joseph Kosuth, Number (E) (+216 Augustine’s Confessions), 1989 courtesy Vistamare/Vistamarestudio - Pescara/Milano e l’Artista
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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Galleria Lorcan O’Neill, Roma
Tracey EMIN
N
ella ricerca di Tracey Emin la dimensione antropocentrica, di carattere fisico, anatomico e fondamentalmente emotivo è trattata per trasferire sensibilità. Il suo lavoro è caratterizzato da una presenza corporea ed espressiva manifesta. I corpi sono nei disegni, nei dipinti, nelle sculture, in ogni mezzo artistico che consente di esprimere una condizione intima, distinta e violenta. Nella mostra personale alla galleria Lorcan O’Neill di Roma il titolo Leaving rimanda a un doppio significato nella traduzione in italiano, come partire e lasciare: la dimensione della perdita, di lasciare un luogo e una persona cara. Come è avvenuto alla Emin perdendo la madre un paio d’anni fa, con cui aveva un forte legame, o lasciando la vita che pesa sulla persona come un macigno. L’alto grado di valore attribuito al corpo e ai corpi all’interno di una tela, di un foglio e alla sua quasi assenza dovuta alle cancellature, rimanda all’emozione, a uno stato d’animo riconoscibile nelle pose e nelle fisionomie dei soggetti. Anche le parole e le scritte che aleggiano sulle superfici hanno per Emin lo stesso ruolo narrativo e di intimità che hanno i titoli, eclatanti ed enigmatici. Le scritte che si distribuiscono sulle superfici rappresentano elementi necessari all’equilibrio del lavoro, per composizione e significato. Il corpo, anatomico ed artistico, è luogo personale ed universale e allo stesso tempo l’emozione, il vissuto, la parte interna
dell’individuo celata alla vista, è espressa nella stessa chiara evidenza. Le trasparenze che fanno riemergere segni cancellati, le velature pittoriche e le linee insistite e marcate sulle superfici chiare e lattiginose, sono il mezzo espressivo dominante in questi nuovi quadri e disegni datati 2019. L’artista inglese rimette lo stato d’animo al centro del lavoro, che diventa racconto della memoria ed elemento che raggiunge una distinta autonomia. Vere affermazioni e confessioni affidate alla dimensione artistica. Molti lavori sono come dichiarazioni di disagio, tratti di riflessioni concesse in pubblico. Il costante riferire della critica di una vicinanza a un linguaggio estetico simile a De Kooning, a Schiele è l’elemento percepibile al primo impatto, ancor di più se si fa riferimento a Cy Twombly, ma superando questo primo livello di lettura si lascia spazio a molte altre espressioni e volontà creative. Il segno da netto si fa trasparente e sbiadito, violenza e ricordo, trauma e sedimentazione, sparizione. L’io più intimo è manifesto e portato in superficie con un alto grado di fiducia dell’artista verso lo spettatore, e allo stesso tempo rimosso attraverso le cancellature. Tracey Emin rimette in visione memorie personali anche quando queste cambiano, nell’atto stesso di esser dipinte e disegnate sulla superficie, lasciando che l’immagine prenda altri significati. Ilaria Piccioni
Tracey Emin, Leaving, Courtesy: Galleria Lorcan O’Neill, Roma
NOVEMBRE/DICEMBRE 2019 | 275 segno - 53
Monitor, Roma
Matteo FATO
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olti di personaggi noti del mondo dell’arte s’alternano a raffigurazioni di illustri uomini del passato. È il nuovo ciclo pittorico realizzato da Matteo Fato (Pescara, 1979) e visibile presso le due sedi italiane della Galleria Monitor: nella whitecube sita nel rione il Ponte a Roma e nell’appena inaugurato Palazzo Maccafani a Pereto (AQ). Come si deduce già dal titolo “Immagine è somiglianza (come il ritratto sia parte della pittura)” l’esposizione, a cura di Simone Ciglia, è incentrata sul ritratto, tema tradizionale della storia dell’arte, riproposto nella pratica di Fato dal 2012. L’artista ritorna ad investigare tale questione concependola come unica modalità che, per eccellenza, consegna un’immagine alla storia decretandola come assoluta. Intento del pittore è cogliere, attraverso i tratti dipinti sulla tela, la contemporaneità del presente di ogni personaggio arrivando a scontrarsi con il paradosso che è alla base di tale concetto. Infatti, afferrare il tempo presente da parte dell’uomo che ne fa parte risulta essere una missione impossibile in quanto egli deve aderire ad esso prendendone, al contempo, le distanze: «Contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascino di tenebra che proviene dal suo tempo»¹ afferma Agamber. Inoltre, l’attenzione verso il ritratto porta Fato a scontrarsi con la nozione di “somiglianza” esplicata attraverso l’assunto di Garrera e proposto in mostra attraverso una riproduzione litografica su carta: rivelazione dell’incipit e dell’epilogo della sua riflessione. Meditazione che si concretizza in forma umana con la scelta dei soggetti raffigurati. Decisione, quest’ultima, nata dall’originale idea di proporre oltre alle sue figure di riferimento – come l’artista Scipione e i filosofi Kierkengaard e Deleuze – persone a lui care nonché rappresentati del sistema dell’arte odierno col fine di conferire valore ai diversi ruoli che essi svolgono attraverso il loro impegno culturale – dalla gallerista al giornalista, dal curatore al collezionista – arrivando, per di più, ad esplorarne differenti soluzioni formali proprie di una ritrattistica di tipo intimista ove il paesaggio natio finisce per incorporarsi ed identificarsi con l’individuo dipinto come in “Noi siamo paesaggio / We are landscape (ritratto di Antonio Michele Coppola, Collezionista”. Il caratteristico segno corposo, pastoso e materico dell’artista pescarese, memore dell’insegnamento della Die Brücke e del remake alla pittura di matrice tedesca degli anni ’80, si esplica nelle opere su muro esposte all’interno di scatole lignee mentre al centro dei due vani sono allestiti un paio di piedistalli custodi di semplici fogli – Posacenere (Florilegio ossia pulizia pennello 1) – su cui ha impresso uno schematico segno multicolore, firma e sintesi della suo essere pittore. Maila Buglioni
Matteo Fato, Mani sinistre sul cuore / Left hands on the heart (ritratto di / portrait of Luca De Angelis, Pittore / Painter, San Benedetto del Tronto), 2019 olio su lino / oil on linen, 39 x 49 cm cassa da trasporto in multistrato / case for transport in plywood Courtesy dell’Artista / the Artist & Monitor, Rome - Lisbon - Pereto (Aq) Ph Giorgio Benni
Matteo Fato, Il piano del cavaliere ossia stare a cavaliere per ritrarre il paesaggio / The plan of the rider that stand knight to portray the landscape (Pereto), 2019 olio su lino / oil on linen, 50 x 60 + 19 x 23 cm cassa da trasporto in multistrato e specchio / case for transport in plywood and mirror Courtesy dell’Artista / the Artist & Monitor, Rome - Lisbon - Pereto (Aq) Ph Giorgio Benni
Matteo Fato, Immagine è somiglianza / Image as resemblance, 2012 / 2019 (matita litografica su carta / lithographic pencil on paper; Assunto di / Hypothesis by Gianni Garrera, 2019, 42 x 29,7 cm, ognuno / each, cornice in multistrato e specchio / frame in plywood and mirror) Courtesy dell’Artista / the Artist & Monitor, Rome - Lisbon - Pereto (Aq) Ph Giorgio Benni
Matteo Fato, Posacenere (Florilegio ossia pulizia pennello 3), 2019 (olio su lino / oil on linen 23x 29 cm. cassa da trasporto in multistrato e specchio / case for transport in plywood and mirror) Courtesy dell’Artista / the Artist & Monitor, Rome - Lisbon - Pereto (Aq) Ph Giorgio Benni
54 - segno 275 | NOVEMBRE/DICEMBRE 2019
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
The Gallery Apart – Roma
Gea CASOLARO
L
o stato di allerta, cui quotidianamente viviamo, scaturita da varie cause – dalla catastrofe ambientale all’immigrazione incontrollata, dall’incertezza sulla tenuta delle istituzioni democratiche alle numerose pulsioni naziste e razziste che negli ultimi tempi si sono riattivate in vari luoghi del globo – ha convogliato Gea Casolaro (Roma, 1965) a riflettere e proporre delle possibili chiavi di lettura da cui ripartire per agire nell’attuale crisi mondiale. Esito della sua meditazione è la personale “Molto visibile, troppo invisibile” realizzata presso The Gallery Apart. Investigando sulle molteplici modalità di visione, tematica a lei cara, Casolaro ha deciso di abbandonare i mezzi solitamente impiegati sperimentando un approccio maggiormente creativo. Appropriandosi di nuove metodologie di produzione e contrapponendosi all’uso compulsivo delle immagini che caratterizza la società odierna, l’artista ha sentito l’esigenza di usufruire della galleria romana come luogo per la creazione collettiva della mostra invitando alcune personalità a partecipare, insieme al filosofo Enrico Castelli Gattinara, ad una serie d’incontri. Obiettivo ultimo di questi appuntamenti è stato discutere, attraverso i vari punti di vista rappresentati dagli invitati, sugli urgenti argomenti sopra citati partendo dalla frase “Molto visibile, troppo invisibile”. Fulcro ed incipit del progetto è la video-installazione che dà il titolo all’esposizione e che offre uno spaccato sulle questioni esaminate nei meeting precedentemente avvenuti e funzionando, inoltre, come una sorta di prologo degli altri lavori. La riflessione è proseguita ospitando un gruppo di giovani stranieri giunti in Italia, senza tener conto delle solite categorizzazioni che li suddivide, per sottolineare come tutti siamo parte di un’unica umanità e che, quindi, a ciascuno devono essere garantiti i diritti fondamentali. Da quest’operazione è emersa la loro volontà di migliorare sé stessi, fermezza che – come
Gea Casolaro, Cosa è invisibile?, 2019, testi e disegni su carta (dettaglio), selezione dei lavori prodotti durante il laboratorio realizzato da Gea Casolaro con gli studenti del corso di italiano per stranieri condotto da Lapo Vannini dell’Associazione Matemù – Cies di Roma, courtesy The Gallery Apart Rome, photo by Giorgio Benni
suggerisce l’artista – dovrebbe spingerci a riflettere sul valore aggiunto e sull’energia che tali individui apporterebbero nelle nostre stanche società. Oltre a queste attività Casolaro ha sentito la necessità di concretizzare alcune immagini astratte attraverso degli oggettiscultura. Se la T-Shirt con la scritta “Torno subito” è un incitamento verso un ritorno all’ordine di tipo intellettuale, la felpa col simbolo tratto dal costume di Ubu-Roi diviene allegoria del triste destino delle nazioni per via della convivenza tra diversi popoli. Mentre poco più in là un telescopio è puntato su un planisfero fisico: mero suggerimento a rivedere il nostro ruolo in un pianeta da preservare in senso ambientale, economico e universale abbandonando restrittive nozioni come “confini” o “razza”. La mostra sui generis ideata da Gea Casolaro invita ognuno di noi a ripensarsi come individuo nel mondo poiché solo attraverso un’azione collettiva è possibile generare un futuro migliore. Maila Buglioni
Gea Casolaro, Molto visibile, troppo invisibile, installation view at The Gallery Apart (ground floor), courtesy The Gallery Apart Rome, photo by Giorgio Benni
Gea Casolaro, Il mondo a rovescio, 2019, stampa su carta martellata e cornice, riproduzione modificata del medaglione della Société des amis des Noirs (1788), 45 x 34 cm, courtesy The Gallery Apart Rome, photo by Giorgio Benni
Gea Casolaro, Per gli Ubu di oggi, 2019 stampa su felpa, taglia XL courtesy The Gallery Apart Rome, photo by Giorgio Benni
Gea Casolaro, Mancanza di riflessione (titolo originale: Non siamo che immagini negli occhi degli altri), 1994, 3 specchi parzialmente abrasi, 40 x 40 cm ognuno, courtesy The Gallery Apart Rome, photo by Giorgio Benni
NOVEMBRE/DICEMBRE 2019 | 275 segno - 55
Todi Festival, Todi (Pg)
Todi Open Doors
T
odi Open Doors, progetto nato contemporaneamente al Todi Festival e fra esso e l’inaugurazione del Parco di Beverly Pepper, come suggerisce il titolo, presuppone un gesto molto preciso: aprire le porte, in questo caso i portoni, offrendo gli androni di antichi palazzi all’arte contemporanea. Descritta così l’iniziativa appare semplice, agevole nella progettazione e nella fruizione, collocandosi nell’orbita di una prassi consolidata che vede in dialogo edifici storici della città e l’arte. Tuttavia, è proprio quando le idee sono semplici, tanto più se esse devono fare i conti, come in questo caso, con una ricca letteratura sul genere di tali pratiche, che misurare le azioni degli artisti diventa più difficile. Per Todi Open Doors sono nove le presenze coinvolte per nove interventi in otto palazzi più una galleria, accompagnati da tre curatori (Andrea Baffoni, Francesca Duranti e Massimo Mattioli), nei cui androni, gentilmente messi a disposizione dai singoli proprietari che hanno accolto l’iniziativa con grande slancio, curiosità e amore per la propria città, hanno preso vita le installazioni di: Mario Santoro (Palazzo Vecchi Ercolano), Flavia Bigi (Palazzo Benedettoni), Laura Patacchia (Palazzo X), Franco Lo Svizzero (Palazzo Valenti Fedri), Marino Ficola (Residenza San Lorenzo), Stefano Bonacci (Palazzo Morgetti), Francesca Romana Pinzari (Palazzo Cesi), Silvia Ranchicchio (Palazzo Angelo Atti) e Michele Ciribifera (Spazio Mater). Da un lato abbiamo certamente la volontà della città e dei suoi abitanti di far conoscere una Todi segreta, non banalmente turistica e più autentica, dall’altro l’idea possa essere l’esercizio del contemporaneo a mostrare il carattere del presente in un luogo che, per certi aspetti, resta sospeso nel tempo della storia immerso in un’aurea contemplativa che la sbalza concettualmente fuori dall’attualità. Per essere più chiari, questo percorso cittadino si sarebbe potuto costruire anche senza avvalersi dell’arte, ma farlo attraverso essa acquisisce un valore diverso. Perché? Perché l’arte contemporanea riesce in qualcosa d’invisibile e impalpabile, riesce, quando l’esercizio del site-specific è condotto con professionalità, a restituire l’anima dei luoghi che l’accoglie. Vediamo, per esempio, l’intervento di Stefano Bonacci trarre ispirazione da quattro grandi orci presenti nell’androne di Palazzo Morgetti, intervento che, nel rifarsi al mito di Pandora, dunque al tema del vaso, rimanda all’anima etrusca della città, cui vi contrappone forme minimaliste suggerendo nell’affinità della “forma” un tempo senza soluzione di continuità. Il tempo è anche il cuore dell’intervento di Francesca Romana Pinzari. Cordis, visivamente straordinaria, si compone di cristalli di colore blu Klein, la cui crescita è bloccata nel loro annodarsi alle corde che scendono dall’alto, dopo lunghe e precedenti immersioni nel solfato di rame. Il cristallo è vivo, fiorisce, esperisce la propria esistenza nel tempo ed è precario (fatto enfatizzato nella gravità e nella tensione delle corde appese al soffitto), così come lo è la vita di tutti gli esseri, compresa quella di un palazzo che nel tempo, ha certamente osservato, quale testimone silente, l’avvicendarsi delle vite di chi lo ha abitato. L’arma bianca (rivisitazione
dell’opera Dall’Albero sibilante della Cuccagna del 2015) di Franco Lo Svizzero, si muove, invece, nell’ambito dell’antropologia. Nel forte contrasto fra le modernissime superfici specchianti in vetro di murano e le forme antropo/zoomorfe delle 11 teste appese al soffitto, l’artista suggerisce un’atmosfera imbevuta di magia che, come già detto, si accompagna a quel senso di invisibile che spesso l’arte contemporanea riesce a suggerire come pulsante presenza della realtà. Un mistero che più in generale interessa l’uomo, tema enfatizzato proprio nel collocamento dell’opera nell’androne che, facendo riferimento all’Antro (cavità scavata nella roccia) accresce ancora di più tale sfaccettatura. Sulla stessa linea concettuale si colloca Corpo di Marino Ficola, opera in ferro e terracotta che, nel proporre una forma somigliante a un fossile primitivo e traslando lo spazio dell’androne in quello di una grotta, ci conduce ad una riflessione fra le frizioni del modernismo, in bilico fra sentimenti arcaici e il riconoscersi civiltà digitale. Sul piano della misura si gioca invece House // An Unexpected Encounter di Flavia Bigi, sublimazione del progetto nato nel 2015 Cento progetti con cinquecento metri –100//500 (Ovvero la Cerchiatura del Quadrato) dove, il vintage metro giallo pieghevole, oggetto acquistato dall’artista in grandi quantità dopo il fallimento dell’azienda produttrice e dopo l’avvento della globalizzazione) diventa l’unità di misura per la costruzione di una casa ideale. Colpisce, innanzi tutto, la perfetta rispondenza dell’opera alle geometrie di Palazzo Benedettoni che, in un assoluto quasi metafisico e pierfrancescano, tradisce il consumarsi di un dramma impercettibile eppure tangibile. Parliamo dell’inaccessibilità alla casa dove, i metri della Bigi diventano metafora di negazione che intensifica il suo stesso valore nell’apertura e nello svelarsi proprio di Palazzo Benedettoni. Affine, ma solo processualmente perché tendente all’astrazione, non nei contenuti, è l’opera Consolatio optica di Mario Santoro, che propone il soggetto del Tempio della Consolazione scomposto in diverse parti e a assemblato, incorporando anche parti di un precedente lavoro, in modo tale da mettere letteralmente a fuoco la struttura del soggetto fotografato. Proseguendo nel percorso, incontriamo l’opera di Silvia Ranchicchio che dedica il proprio intervento allo scomparso maestro Claudio Naranjo attraverso una scultura composta di elementi geometrici tendenti a suggerire un’atmosfera spirituale. Suggestioni magiche di matrice popolare sono, invece, quelle che descrivono l’opera di Laura Patacchia che, ispirata dal rituale delle prefiche, propone una grande tela attraversata da una moltitudine di spilli a simulare una sorta di tappeto lacrimoso. Infine, chiude questo percorso lungo le vie di Todi, l’opera Trancing Vibrations di Michele Ciribifera. Si tratta di una scultura monumentale capace di riprodurre la frequenza 258h, grazie all’oscillazione di nove semicerchi in acciaio corten e due diapason. Detto anche suono del miracolo, esso si produce e si dipana nello spazio nell’interazione con lo spettatore, generando un reale cinetismo fra musica, materia e presenza fisica dell’uomo. Si crea, in tal senso, una sorta di magia, un “miracolo” – quello del suono e non solo – rappresentato, nel contrasto fra natura e artificio – cifra dell’artista – dove, quello che conta, in ultima analisi, è la totalizzante percezione di forza, di potenza e l’energia che l’opera sprigiona generando un’atmosfera di forte impatto emotivo. Oggi questi portoni si sono richiusi. Certi si riapriranno presto, nell’attesa di una nuova edizione di Todi Open Doors ci lasciamo alle spalle la magia dell’arte e la piccola città di Todi, più grande in questo momento di molti altri centri dell’arte, per questo suo sguardo, pacato ma rilevante, teso alla contemporaneità. Maria Letizia Paiato
In alto Massimo Mattioli e Francesca Romana Pinzari con al centro la sua opera Cordis a Palazzo Cesi. In basso, da sinistra: Stefano Bonacci, Pandora, (Palazzo Morgetti), 2019. Franco Lo Svizzero, L’arma bianca (Palazzo Valenti Fedri), 2019. Flavia Bigi, Cento progetti con cinquecento metri –100//500 (Ovvero la Cerchiatura del Quadrato), (Palazzo Benedettoni), 2015
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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Camminare fra arte e natura, Todi (Pg)
Il parco Beverly Pepper
A
rte e natura – lo sappiamo – è un binomio caro alla storia dell’arte, da secoli tema di grande attrazione per gli artisti e fonte d’ispirazione nella progettazione e ridefinizione di spazi ambientali, di luoghi del vivere e del paesaggio. Proprio quest’ultimo – citando Rosario Assunto – definisce i propri contorni in quella che il grande filosofo precisava come “coscienza estetica concomitante”, intendendo con ciò un paesaggio plasmato dall’uomo che, sebbene percepito come naturale, attraverso i segni della cultura esalta la sua stessa vocazione formale. Todi, così come gran parte della regione Umbria, nel conservare un’aurea poetica e spirituale e molto meno assoggettata alla politica della “costituzione cemento” (Settis), mantiene una sorta di ordinamento spaziale che ferma nel tempo la relazione uomo-natura, originando una sorta di struttura che, sempre Rosario Assunto, avrebbe definito con la parola giardino. Siamo certi che oggi il filosofo avrebbe apprezzato con grande piacere Il Parco di Beverly Pepper perché, dovessimo descriverlo tenendo conto dei suoi studi esso apparirebbe come un tangibile esempio di armonico giardino dove, estetica ed etica dialogano con commisurata simmetria. La storia dell’artista originaria di Brooklyn è nota. Del suo approdo in Italia negli anni cinquanta si ricordano le frequentazioni con gli artisti Achille Perilli, Pietro Consagra, Piero Dorazio, Giulio Turcato (Gruppo Forma1), ma soprattutto la partecipazione nel 1962 a Sculture nella città, curata da Giovanni Carandente, che trasforma Spoleto in una “Città Museo”. Per la prima volta qui parliamo di vere e proprie opere d’arte all’aperto e non più di monumenti, inaugurando con tale esperienza un nuovo e inesplorato rapporto dell’opera con la realtà. Questa partecipazione è nodale nella ricerca di Beverly Pepper che da questo momento in poi si vota totalmente all’arte di forgiare e modellare il metallo. Tralasciando le esperienze internazionali – troppo numerose per essere citate tutte – ricordiamo la partecipazione nel 1972 alla 34. Biennale di Venezia, anno in cui si trasferisce definitivamente a Todi per non lasciarla mai più e amarla incommensurabilmente fino ad oggi. I doni dell’artista alla città negli anni sono stati innumerevoli ma probabilmente è proprio il progetto del Parco quello più intenso e pregnante fra tutti e che, in un certo senso, rappresenta – se così vogliamo dire – il completamento armonico del grande “giardino” tuderte. Sono venti le opere collocate in modo permanente e dislocate dal Parco della Rocca lungo il pendio della collina, giungendo fino al rinascimentale Tempio di Santa Maria della Consolazione. Venti opere esemplari dello stile e dei diversi periodi di produzione dell’artista fra le quali spiccano Embrance dei primi anni sessanta, icona degli esordi della carriera di Pepper e affine a quella creata per Sculture nella città a Spoleto l’anno precedente, e La Bestia del 1965 e Ingresso del 1967 che mostrano il suo tendere verso poetiche più astratte e minimaliste. Il Parco si ritma poi con una serie di sculture peculiari il decennio settanta: Camposect, Trevignano, Double Pyramid, Split Pyramid, Exodus, Trinità, Council e Omega. Tutte opere che rappresentano il gusto per materiali industriali, per l’acciaio, per le forme geometriche, triangoli e piramidi in particolare, ma anche il definitivo interesse dell’artista per il paesaggio. Balzando agli anni novanta, in
ingresso al Parco dal Tempio di Santa Maria della Consolazione, s’impone allo sguardo San Martino Altars, una coppia di sculture dalle forme d’ispirazione industriale simultaneamente capaci di riflettere sensazioni ataviche e attuali. Sensazioni che ritornano in Maia Toltec, due monumentali sculture verticali dalle fattezze totemiche che riorganizzano nella forma dell’obelisco e nell’incontro fra il ferro e il legno scolpito, un connubio profondo uomo-natura. Penetrando il nuovo millennio vediamo Activated Presence, esempio dell’interesse della Pepper verso la pietra che, anche in questo caso, grazie al particolare intaglio rimanda a dimensioni di origini arcaiche che si rintracciano, con grande suggestione d’insieme nelle imponenti The Todi Columns collocate al centro del Parco della Rocca, replica dell’originario progetto degli anni settanta, oggi visibile presso lo Spazio Thetys all’Arsenale di Venezia. Mi preme in conclusione sollecitare e indurre il lettore a una meditazione sulla forma tanto quella dell’arte quanto della natura. Riprendendo l’iniziale riflessione di Assunto ecco che l’affermazione: “Nell’arte […] godiamo non la natura, ma la semplice bellezza di cui la natura è bella per la contemplazione, una bellezza astratta da ogni materiale attrattiva della natura; mentre nella natura questa stessa bellezza la godiamo in modo diverso che nell’arte: in un piacere contemplativo che accompagna l’interesse per la realtà, in quanto oggetto di utilitaria fruizione”, (R. Assunto, Il paesaggio e l’estetica, Giannini ed., Napoli, 1973, vol. 2°, p. 316) a distanza di tempo assume un significato altro, nuovo e rinnovato che – se vogliamo – nel Parco di Beverly Pepper finalmente vede e trova una concretezza visibile e tangibile. Non più teoria ma realtà. Camminando, percorrendo il sentiero che conduce dall’alto al basso della città e viceversa, la relazione formale che lega in un abbraccio idilliaco i fusti degli alberi alle Columns, le panchine – sculture in pietra serena (lunette) inglobate negli spiazzi lungo il percorso, rivelano, in un certo senso, proprio quella bellezza che nell’arte “è semplice bellezza di cui la natura è bella per la contemplazione”; quella bellezza che nella natura “accompagna l’interesse per la realtà”. La nostra epoca, più che mai, ha bisogno di vivere questa relazione fra arte e natura. Rinunciare all’una o all’altra significherebbe abdicare definitivamente dalla bellezza e ciò, Beverly Pepper, con questo dono del Parco ci chiede di non farlo, ci chiede di reclamare bellezza. Il Parco ha il patrocinio del Ministero per i beni e le attività culturali, Ambasciata degli Stati Uniti in Italia, Regione Umbria, FAI Umbria, Provincia di Perugia, Camera di Commercio di Perugia, Accademia delle Belle Arti di Perugia, Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, Todi per l’Arte. Il Parco, inaugurato lo scorso 14 settembre è stato realizzato grazie al coinvolgimento della Fondazione Progetti Beverly Pepper, dell’Amministrazione Comunale che ne ha finanziato la realizzazione, della Regione Umbria e della Comunità Europea, grazie ai contributi di Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia e le sponsorizzazioni tecniche di Giulio e Mauro Borgia, Cantina Lugarotti, Cantine Roccafiore, Iron, Luccioli Arch Studio, Tecnogru, Visioni Future, 1000e20 Onethousandevents Production. La guida del Parco è accompagnata da un testo di Joseph Antenucci Becherer – University of Notre Dame. Maria Letizia Paiato Beverly Pepper, in alto, sopra il titolo: The Todi columns, 2018; in basso, a sinistra: Activated Presence, 2001 e Ingresso, 1967; a destra: Maia Toltec, 1993.
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Complesso delle Lucrezie, Todi
Brunella LONGO CUBA pre mundo
N
ell’assettico spazio bianco del Complesso delle Lucrezie, le immagini fotografiche di Brunella Longo prendono corpo e vivono facendo letteralmente pulsare le pareti. Come suggerisce il titolo della mostra, curata da Massimo Mattioli, l’artista riporta in Italia l’esperienza di un vissuto intenso, particolare, esotico, affascinante ma anche ostico e difficile della terra cubana dove, per un lungo periodo ha abitato esplorando luoghi - come appare evidente negli scatti in mostra - meno contaminati dalla presenza dell’uomo. Luoghi per certi aspetti, intrisi di e in un’atmosfera Pre Mundo, intendo con ciò proprio quel “prima” primordiale dove, la natura è sola e considera l’essere umano pariteticamente a qualsiasi altro elemento vivente sulla terra. Delle sue visioni, delle sue memorie restano e arrivano a noi scatti - qui impaginati in dimensioni monumentali che coprono quasi l’intero spazio espositivo - rigorosamente in bianco e nero che tradiscono propriamente lo spirito di forte
Brunella Longo, Pre Mundo, Le Ossa
Brunella Longo, Pre Mundo, L’Iride
Brunella Longo, Pre Mundo, La Coda
Brunella Longo, Pre Mundo, Le Zampe
Brunella Longo, Pre Mundo, La Gola
contrasto caratterizzante Cuba ma anche, se vogliamo, il sentimento stesso dell’artista verso questa terra, il quale traspare evidente nei particolari da lei stessa selezionati. Il primo impatto con queste fotografie è, infatti, puramente fisico, tanto è vero che, balzano allo sguardo gli ingrandimenti dei tronchi e dei rami delle foreste i quali simulano, in tutto e per tutto, l’intreccio di vene e vasi sangugni del corpo umano. In tal senso la Longo riesce a sovrapporre concettualmente l’aspetto biologico della natura a quello dell’uomo, evocando - se vogliamo - un nesso spirituale obliato dalla civiltà moderna. Ancora: rocce, alberi, radici, foglie diventano, anche in questo caso vene, polmoni, stomaco, budella, orme, ovvero i titoli dei cicli delle foto che, sotto il profilo delle forme appaiono come un tutt’uno che lascia lo spettatore stordito e quasi obbligato ad una riflessione generale sulla natura, sulla sua stessa dimensione nel mondo. Una natura che, se organicamente si mostra più simile di quanto non ci si aspetti, spiritualmente reclama un reincontrasi. In cocnclusione, pertanto, questo lavoro di Brunella Longo, più che un atto documentativo dell’esperienza sull’isola caraibica, tuttavia evidente, si fa traccia per una riorganizzazione della relazione uomo-natura. Cuba Pre Mundo è anche un libro pubblicato da Cangemi Editore Maria Letizia Paiato 58 - segno 275 | NOVEMBRE/DICEMBRE 2019
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Brunella Longo, Pre Mundo, Le Ossa
Brunella Longo, Pre Mundo, La Schiena
Brunella Longo, Pre Mundo, L’Ano
Brunella Longo, Pre Mundo, Le Vene
Brunella Longo, Pre Mundo, La Spina Dorsale
Brunella Longo, Pre Mundo, L’Iride
NOVEMBRE/DICEMBRE 2019 | 275 segno - 59
Giardino della residenza dell’Ambasciata italiana in Svizzera, Berna e Giardino del Consolato italiano, Basilea
Sogni di Spettri
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opo l’appuntamento romano della scorsa primavera, presso lo spazio TraLeVolte nel parco della Scala Santa, le sei sculture in carta, Papier-mâché e fil di Ferro di Enrico Pulsoni, approdano in Svizzera per tornare a “parlare” negli appuntamenti di Berna e Basilea. Artista poliedrico, interessato soprattutto alla pittura all’inizio della carriera – medium mai abbandonato in verità – e aperto a un’infinità di linguaggi che spaziano dal teatro alla poesia dove domina il disegno e la scultura, perfettamente dialoganti all’unisono e dove, complice una formazione nell’ambito dell’architettura, al rigore geometrico di certe forme corrisponde l’uso di materiali rigidi come il metallo, è in opere come Sogni di Spettri che mostra senza veli l’altro lato della propria medaglia artistica. Quella che, da una sorta di schematismo progettuale che tutto gli appartiene, esplode in forme eccessive ed eccedenti, quasi barocche oseremo dire e che, proprio per tale aspetto, tradiscono quella consapevolezza di relazione con lo spazio che in generale definisce il suo intero lavoro. Oltre a una mise-en-éspace del testo Tre Pirati di Gianmaria Nerli (curata dalla regista Giulia Randazzo, con Benedetta Degli Innocenti, Matteo Francomano e Francesco Laruffa), Sogni di Spettri presenta sculture non silenti, non immobili. Sono sculture che hanno delle voci, quelle dei testi di Gianmaria Nerli (Messaggera, Trafitto, Monocolamonogamba, Innesto, Treteste, Trampoliera i titoli) accompagnate dal sound design e dalla sonorizzazione diretta da Stefano Sasso. Sono sculture che vivono in un’originale performance dove ogni singola voce racconta un’ossessione che si attende, si abbandona e si ritrova
Enrico Pulsoni, Gianmaria Nerli, Stefano Sasso, Sogni di Spettri, 2019
nel percorso intorno ad ogni statua, dalle quali è impossibile non farsi coinvolgere trascinati in un turbinio di sentimenti che, come ombre, apparizioni o spiriti, rendono palpabile l’invisibile. Di quale invisibile parliamo? la risposta è nelle voci stesse: “Voci di umani stranieri, voci sintetiche e sintetizzate, voci dalla caverna delle viscere e voci che si sovrappongono fino ad annientarsi, voci disumane che conservano, tuttavia, un esile spiraglio, uno iato in cui la vita può ancora insediarsi. Che fare? […] – è Luigi Nacci nel testo che accompagna Sogni di Spettri a puntualizzare tale nodo – […] Che fare, era la domanda che imperversava agli albori del Novecento, quando uno spettro si aggirava per l’Europa, quando i nodi erano tutti da fare”. Dopo più di un secolo nuovi spettri gravano sull’umanità, solo che, forse oggi, è molto più difficile riconoscerli. Solo che, forse oggi si stenta a volerli riconoscere confondendoli con i Sogni. Maria Letizia Paiato
Prizren – Kosovo
Autostrada Biennale II Edizione a cura di Giacinto Di Pietrantonio
I
stituita con la missione di migliorare e rivitalizzare la comunità del Kosovo, Autostrada Biennale, arrivata alla sua seconda edizione, è l’evento culturale che ha caratterizzato l’estate dei Balcani, regione da noi considerata a lungo sinonimo di guerra e povertà. A cura di Giacinto Di Pietrantonio, la manifestazione è stata immaginata come un’innovativa autostrada che collega Istanbul, Venezia e Prizren Biennales. Ispirata al mondo in evoluzione di oggi, la Biennale è stata avviata grazie all’ampliamento degli scambi culturali recentemente registrati. Caratterizza la rassegna, infatti, uno spirito di cooperazione tra i diversi settori artistici attraverso il quale si è stato possibile risvegliare l’energia creativa di questo territorio e mettere in discussione, tramite l’arte, i problemi e le difficoltà esistenti nel mondo contemporaneo. Autostrada Biennale si presenta quindi come una sorta di ‘fabbrica artistica’, un laboratorio tutto-fare, ideato col fine ultimo di far emergere le condizioni sociali, politiche, economiche ed estetiche che influenzano non solo il mondo dell’arte ma la vita quotidiana in primis, così da rendere la città stessa un museo contemporaneo a cielo aperto. A tale scopo sono stati coinvolti molteplici spazi pubblici – dall’ Archaeological Museum alla Stazione degli Autobus, dal Prizren Castle al Prizren Gymnasium “Gjon Buzuku” fino alla vecchia Prigione – dove sono contenute le opere dei 27 artisti internazionali invitati a partecipare, tra cui alcuni provenienti dall’Italia come Francesco Vezzoli e Giuseppe Stampone. Chiave di lettura dell’evento è il testo critico del curatore, in cui è esplicitato il perno su cui ruota ovvero la ricerca del futuro dell’arte ove l’artista è investito del compito di guardare oltre. Partendo dall’opera di Beuys “La rivoluzione siamo noi” (1971) e passando per Benjamin, Friedrich e Paul Klee, Di Pietrantonio arriva ad affermare questa “ricerca del futuro” come unica esigenza da sempre insita nell’uomo. Gli artisti di Autostrada Biennale sono, appunto, coloro che, cercando questa strada, aprono verso il futuro interrogandosi sulle domande che l’individuo quotidianamente si pone senza avere la pretesa di conoscere risposte certe sul domani. È in questa esplorazione – pensata come un viaggio, un percorso di scoperta verso mete sconosciute – che l’artista si colloca con la sua pratica creativa. La denominazione della manifestazione balcanica, per l’appunto, rispecchia pienamente 60 - segno 275 | NOVEMBRE/DICEMBRE 2019
questa condizione di “artista-itinerante”, già espressa nel 1920 da Paul Klee con L’Angelus Novus e riproposta successivamente da Beuys con “Difesa della Natura (clavicembalo)” (1981). Opere, queste, sentite da Di Pietrantonio come allegorie dell’artista contemporaneo in quanto il proprio corpo è rivolto al passato mentre il suo sguardo volge al futuro. Esemplari di tale propensione sono i lavori degli artisti chiamati ad intervenire come il video The Column (2013) di Adrian Paci – metafora visionaria dell’attuale sistema economico mondiale, ove la perfezione e la bellezza della colonna scolpita contrasta con una logica del profitto basata sullo sfruttamento e l’insicurezza dei lavoratori – o l’installazione sonora SUPRAINFINIT di Apparatus 22, diffusa nella stazione degli autobus, ove una voce inneggia e celebra un mondo futuro, un universo utopico che risulta essere solo una copia distorta e alterata dell’attuale realtà ed in cui la speranza viene usata come strumento critico: un inno o una poesia che proietta l’ascoltatore in un mondo in cui non si distingue più il reale dall’irreale. Mentre la macedone Hristina Ivanoska con Intimate Introspection: artist and/or society (20122013) ci mostra come il ruolo dell’artista nella società contemporanea vacilli di fronte alla violenta occupazione dello spazio pubblico da parte del capitalismo neo-liberale appoggiato dall’élite governativa: le sue scatole non sono altro che rifiuti da lasciare in un angolo della periferia cittadina, ove vivono i più poveri le cui voci restano spesso inascoltate. Al Castello Francesco Vezzoli presenta la trilogia An Embroidered Trilogy (1997-1999): tre videoclip (Ok, the Praz is right; Il sogno di Venere; The End, teleteatro) dedicati a protagonisti della cultura e del cinema, scelti anche perché maniacali ricamatori. Affidandosi a tre grandi registi – nell’ordine John Maybury, Lina Ë ertmuller e Carlo Di Palma – Vezzoli crea una parodia grottesca del mondo patinato del cinema, che diventa un prodotto di consumo, noncuranti del grido di aiuto Help, you knoë I need someone, help, che ci passa di fronte. Nella stessa location Giulio Alvigini, creatore della pagina Instragram del Make Italian Art Great Again, dimostra attraverso il suo intervento tecnologico come l’arte contemporanea sia un immenso bagaglio di immagini che possono essere impiegate dallo stesso sistema dell’arte per la promozione culturale di un evento come Autostrada Biennale. Non a caso l’opera di Alvigini accompagna la campagna promo-
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Palazzo Stemberg, Vienna
Andrea LUNGHI
Da In Absentia, Tempio
si, ambienti metaforici di luoghi che nel tempo non hanno subito trasformazioni, diventando testimonianze e al contempo icone di storie individuali perse nell’oblio del tempo ma reali, ma anche tracce della nascita di opere universali. Per fare degli esempi, i referenti artistici di Lunghi si rintracciano in artisti come Malevič, in particolare in opere come Bianco su bianco, ma anche in Rauschenberg che, ispirato dal compositore Cage, creò dei quadrati totalmente bianchi o totalmente neri. È questa l’estetica ma anche l’atmosfera che Lunghi cerca d’immortale nel ciclo Porta II, non a caso già soggetto (sullo sfondo) sia di uno scatto di Hervé Guibert, sia di Hans Georg Berger, che l’artista considera il suo maestro. In Absentia, invece, propone una riflessione sulla rappresentazione vera e propria del silenzio in fotografia dove, la contemplazione degli spazi architettonici, diventa emblema della loro stessa essenza. Maria Letizia Paiato Andrea Lunghi, Tacet, Tavolo III. Palazzo Stenberg, Vienna
È
un importante riconoscimento quello che arriva da Vienna al fotografo italiano Andrea Lunghi che, chiamato dal direttore dell’istituto Italiano di Cultura a Vienna Fabrizio Iurlano, per l’occasione espone due serie di scatti incentrate su luoghi unici della Toscana, della sua Isola d’Elba, ovvero Forte Falcone a Portoferraio e lo straordinario Eremo di Santa Caterina. La mostra, intitolata Tacet, Per ridare un senso al silenzio si pone come elogio alla quiete, una sorta di ode alla capacità di ascolto che l’uomo moderno sta perdendo progressivamente abbandonandosi a rumori inconcludenti. Si potrebbe affermare che, il monito Tacet, oltre a rappresentare un invito verso la ricerca di qualcosa di diverso e interiore, contrariamente a quanto incalza la modernità, disegna anche, sotto il profilo visivo degli scatti stes-
zionale social della seconda edizione dell’evento col fine di accrescere la sua visibilità mediatica. L’uso delle nuove tecnologie ritorna con il duo The Cool Couple (Nicolò Benetton – Simone Santilli) che impiegano il linguaggio del videogioco per esplorare la storia dell’arte e renderla fruibile anche alle nuove generazioni. Tre le opere di Jan Fabre dislocate nel Archeological Museum: 5 fotografie di Virgin/Warrior (performance contro il sistema dell’arte effettuata con Marina Abramovic); un breve video della performance Homage to Zeno X (performance with my tortoises Janneke & Mieke) della fine degli anni ’70 incentrato sul percorso delle tartarughe dell’artista dalla vecchia alla nuova sede della galleria The Printshop e, infine, Greek Tragedy & Greek Victory Nemanja Cvijanovic
(2010), una coppia di sculture in bronzo e cera che testimonia come, nonostante i loro limiti fisici, le specie si adattino per sopravvivere utilizzando creatività ed intelligenza divenendo sinonimo di saggezza interiore. Segue la serie di 24 disegni Primavera Araba (2014-2017) di Giuseppe Stampone, ispirati da relativi file estrapolati da internet quando gli stessi erano stati censurati dall’Occidente, in cui le stratificate velature a Bic del suo modus operandi artigianale denunciano urgenti problematiche attuali come l’immigrazione. Mentre, dislocati nella città troviamo alcuni lavori degni di nota come la scultura in cemento armato The monument to Red Prizren / The Self-protective Monument di Nemanja Cvijanovic – simbolo dei partigiani e rivoluzionari che hanno sacrificato la propria vita per opporsi al fascismo – o l’installazione dell’organizzazione non governativa Orkide Collective, produttrice di ricami che diventano sinonimo della rinascita del Kosovo e di Prizren dopo un lungo periodo di guerra. Un’azione, questa, che rimanda all’opera di Joseph Beuys iniziata nel 1982 insieme ai cittadini di Kassel ed ancora in atto 7000 Querce, alberi simbolo di un nuovo inizio per la città e i suoi abitanti. Ilija Šoškić pone, invece, l’accento sui bisogni primari dell’uomo come il nutrimento del corpo attraverso il suo progetto partecipativo Il Teatro del Pane, ideato nel 1986, in cui la popolazione locale diventa protagonista insieme all’artista performer. Di genere radicalmente opposto è Can you feel the change?: emblematica performance di Sanja Latinović la cui ricerca artistica s’incentra sulla società odierna, vittima della disintegrazione del sistema socio politico. Frantumata risulta, infatti, la struttura dell’opera di vetro dopo l’azione, materiale che diventa sinonimo delle emozioni umane (fragilità, trasparenza e rigidezza) di fronte ciò che accade nel mondo. Autostrada Biennale – proprio per via della sua definizione di strada che collega le persone site in città diverse indipendentemente dalla loro nazionalità, religione o provenienza – ha istituito ben tre programmi educativi gratuiti tesi a coinvolgere un vasto pubblico col fine di eliminare confini e tabù insiti da sempre nella collettività. La mostra d’arte internazionale si arricchisce, così, di programmi formativi, progetti collaborativi, seminari, conferenze, visite guidate e laboratori coinvolgendo sia gli studenti (delle scuole e delle università) sia i loro genitori. Fin dalla sua prima edizione la biennale ha, infatti, incoraggiato dibattiti e movimenti volti a impiegare l’arte come forma di espressione aumentando l’influenza della manifestazione quale ampio strumento sociale per l’emancipazione e l’educazione. Maila Buglioni NOVEMBRE/DICEMBRE 2019 | 275 segno - 61
Università Politecnica delle Marche, Ancona
Polytechne
A
rte e scienza si incontrano e confrontano in un progetto ambizioso a cura di Valerio Dehò, con la collaborazione di Bruno Mangiaterra, che celebra i cinquanta anni della fondazione dell’Università Politecnica delle Marche, coinvolgendo le facoltà di Medicina, Economia, Agraria, Scienze ed Ingegneria. Pittura e scultura vivono negli spazi universitari solitamente dediti alla ricerca scientifica, a volte ignara di una sua precisa collocazione all’interno del percorso artistico di singole personalità del contemporaneo, che ha radici molto antiche. La bellezza, al giorno d’oggi spesso non diffidente nei confronti delle scienze, ha piuttosto preso in prestito e fatti suoi numerosi concetti e teorie per trasformarli in qualcosa di precedentemente inesistente, senza alcuna elevazione dell’una o dell’altra ma con grande rispetto, nella direzione di un percorso comune. L’incanto si situa nell’opera d’arte così come è insito nella natura e nella manipolazione di essa attraverso le nuove tecnologie, molto presenti nelle ultime ricerche di alcuni artisti. Studenti e docenti son divenuti parte integrante di Polytechne, titolo nel quale risiede una forte volontà di raffronto ed accostamento tra le due discipline, accogliendo le numerose opere, cinque site specific, alcune delle quali resteranno nelle aree scientifiche donate dagli artisti, e partecipando a talk, performance ed incontri organizzati all’interno dell’evento culturale. La visione interdisciplinare del progetto genera forti messaggi che vengono palesati al pubblico, dando vita a riflessioni che senza dubbio si accendono anche nella mente dei numerosi studenti frequentanti i corsi. La Chiocciola gigante del movimento artistico Cracking Art, in plastica riciclata, giunge nel cortile della facoltà di Economia ricordandoci l’impegno ecologista dell’arte e la difesa di una natura spesso violata. La presa di coscienza della situazione ambientale del pianeta conduce alla realizzazione di grandi animali iperrealisti che sembrano lontani da una delle opere di Elio Marchegiani degli anni Settanta, esposta nell’area di Medicina, in cui l’artista, da sempre interessato al legame tra scienza e arte, pesa il colore utilizzato: sono piccole strisce di pigmenti che danno vita a poeticità ed equilibrio senza necessità di spiegazioni scientifiche o filosofiche, bastando a loro stesse. La documentazione da parte del fotografo Gino Di Paolo dell’attività etico-estetica e politico-spirituale di Joseph Beuys in Abruzzo conquista gli spazi della facoltà di Agraria per ricordare il grande percorso intellettuale che ha segnato l’arte
Cracking Art, Chiocciola gigante 2019 (plastica riciclabile) Foto di Michele Alberto Sereni
del Novecento, direzionandosi nella attuazione di azioni ecologiche svincolate dall’oggetto. Molti anni dopo, l’installazione Earth Now di Giorgia Severi ritorna in Abruzzo, traendo ispirazione dalle ricerche del Dipartimento di scienze del suolo nel Parco Nazionale della Majella; un paesaggio, in continua trasformazione a causa di vari agenti, viene archiviato dall’artista estrapolandone una porzione attraverso un rilievo calcografico che viene accostato al video loop. Scienza e musica elettronica si incontrano nell’opera di Roberto Pugliese attraverso una operazione che trasforma in suono i cinquanta geni che sono alla base dell’evoluzione del Latimeria chalumnae. Nella facoltà di Ingegneria il cemento diviene straordinariamente elemento autonomo, svincolato dal bisogno di edificazione, nel lavoro di
Gino Di Paolo, Difesa della Natura, 1974-2019, (fotografia) foto di Michele Alberto Sereni
Roberto Pugliese, Sequenze, 2019 (installazione sonora) foto di Michele Alberto Sereni
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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Elio Marchegiani, Impossibile, 1971 (grammatura con diodo, gesso, pigmento, diodo) foto di Michele Alberto Sereni
Giuseppe Uncini e nelle sue Dimore che sono spazio umano e che suggeriscono una nuova collocazione della materia a chi è abituato ad utilizzarla sicuramente in altro modo. I luoghi riservati alle discipline tecnico-scientifiche son stati arricchiti dall’arte che da essi ha preso spunto per giungere ad un gemellaggio esistente da tempi lontani. Assieme ai già citati artisti, anche Nevio Mengacci, Bruno Marcucci, Rocco Natale, Mario Nalli, Lisa Borgiani, Andrea Marini, Bruno Mangiaterra, Terenzio Eusebi, Ulrich Egger, Marzio Cialdi, Giovanni Termini, Andrei Molodkin, Antonio Ievolella, Antonella Mazzoni, R.E.M.I.D.A., Carlo Cecchi, Franco Cecchini, Antonello Fresu, Luigi Carboni, Arnold Mario Dall’O, Giuliano Giuliani, Roberto Priod e Lorenzo Cicconi Massi hanno svelato il concetto di téchne che è insieme
Andrei Molodkine, Broken capitalism, 2015 (acciaio corten), Courtesy Galleria Pack, Milano)
ideazione e saper fare, dopo il rifiuto seicentesco delle tecniche artistiche e la scomparsa, nei trattati, di descrizioni e procedimenti che oggi ritornano, spesso appena accennati e con modalità naturalmente differenti. Milena Becci
Giorgia Severi, Earth Now, 2019 Giuseppe Uncini, Dimore n.36 (ferro, cemento legno) 1980 - foto di Michele Alberto Sereni
NOVEMBRE/DICEMBRE 2019 | 275 segno - 63
Galleria Paola Verrengia, Salermo
Baldo DIODATO Antonio CAGGIANO
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n occasione della Giornata del Contemporaneo, mostra e performance dell’artista Baldo Diodato (Napoli 1938) accompagnate da un intervento musicale del Maestro Antonio Caggiano. La mostra ha proposto una selezione ragionata di opere, soprattutto di piccolo formato, che dagli anni Settanta hanno contrassegnato un lungo percorso, tra USA e Italia dell’artista napoletano. Nel suo lavoro Diodato, attraverso l’utilizzo di vari materiali, soprattutto metalli, carta e tela, intende cristallizzare, seguendo complessi frottage e pavimentazioni antiche, le tracce inenarrabili della storia dell’uomo. Durante gli anni Duemila l’artista inizia a sviluppare lavori di grande formato che sconfineranno nell’uso dello spazio pubblico. È in
questo periodo che inizia la collaborazione con il percussionista Antonio Caggiano, che compone e sperimenta ritmi sui lavori metallici dell’artista, modulando e riproducendo i suoni delle lamine durante i colpi del martello di Diodato. Da questa intesa sono scaturite diverse occasioni di performance sonore a Napoli e Lucca. Questa riproposta a Salerno con lo storico titolo “Tappeto sonoro”, si è avvalsa di lastre di alluminio posizionate sull’area pedonale prospiciente la Galleria e all’interno della stessa, sulle quali l’artista ha realizzato una particolare scultura in bassorilievo, catturando impronte e segni, evidenziati dai suoni del percussionista, coinvolgendo passanti e visitatori. (LS)
Baldo Diodato, Performance “Tappeto sonoro” 2019 Galleria Paola Verrengia Salerno
Saaci Gallery, Saviano (Na)
Salvatore MANZI
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uarta mostra di Salvatore Manzi, a cura di Luciana Berti. Deuteroluogoè è il titolo della grande installazione di cartapesta che ridefinisce lo spazio della galleria, interrompendo il consueto percorso di visita. Attraverso elementi incorporei - vapore, luce, suono - l’opera acquista consistenza e si propaga nel grande ambiente bianco, ponendo lo spettatore a contato diretto con una conoscenza di matrice spirituale esperita attraverso la materia sensibile. La curatrice spiega letteralmente come luogo secondo il deuteroluogo, ed è quindi una realtà al di là dello sguardo, oltre il ricamo di carta, stucco e pittura, che si rivela attraverso il diffondersi della luce e della traccia sonora composta da Giuseppe Fontanella, chitarrista del gruppo 24 Grana, con cui Salvatore Manzi torna a lavorare in occasione della mostra. Al forte impatto sensoriale della mostra contribuisce il vapore della fog machine che rende lo spazio ovattato e denso. L’indagine sul rapporto di derivazione tra una realtà prima, il corpo sensibile, e un contesto secon64 - segno 275 | NOVEMBRE/DICEMBRE 2019
Salvatore Manzi, Dimora, 2019, video- Saaci Gallery, Saviano (Na)
do, la realtà interiore, muove dalla lettura dei testi del teologo Paolo Ricca, ma è anche una intuizione profondamente umana di alterità e di prossimità, quel concetto di trascendenza che si riscontra in ogni cultura. Il concetto di deuterolugo si ritrova nel video Dimora (2019) nel quale immagine e suono percorrono vie parallele, dall’enormità dell’universo, del quale ascoltiamo le tracce audio raccolte dalla NASA, allo spazio minuto dell’interno di una conchiglia, tra superfici dorate e imperfezioni, polvere e luminescenze di ambra e di alabastro. (da SB)
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Galleria Alfonso Artiaco, Napoli
Sol LEWITT
I
deare opere che dovranno essere realizzate da altri ha, ancora oggi, un tono rivoluzionario. È il caso dei wall drawings di Sol LeWitt, progettati per impadronirsi di superfici murali preesistenti, includendone le caratteristiche nel processo di realizzazione. Per celebrare quarant’anni di lavoro in Italia, il 9 settembre scorso Alfonso Artiaco ha presentato, nel suo spazio a Piazzetta Nilo, a Napoli, la personale Lines, Forms, Volumes 1970s to Present, simbolicamente nel giorno del compleanno dell’artista americano, scomparso nel 2007. La personale raccoglie ben sei wall drawings, realizzati da Nicolai Angelov e Andrew Colbert dello Studio Sol LeWitt, con la collaborazione degli artisti Federico Del Vecchio e Angelo Volpe e di cinque studenti dell’Accademia di Belle Arti di Napoli: Pier Paolo Perrone, Alessia Canelli, Teresa Gargiulo, Pamela Orrico e Mary Baldassarre. Con questo progetto espositivo, curato da Lindsay Aveilhé, Artiaco ha inteso celebrare la salda collaborazione con LeWitt, iniziata nel 1989, anno della prima mostra presentata nella Galleria, allora situata a Pozzuoli. Un modo per celebrare anche il duraturo rapporto tra l’artista e l’Italia, Paese dove ha lavorato e vissuto fin dagli anni Sessanta. Spoleto, infatti, divenne la sua seconda casa, mentre numerose e importanti sono state le gallerie che hanno esposto il suo lavoro - da L’Attico a Roma (1969) alla Galleria Sperone a Torino (1970), fino alla Galleria Toselli a Milano (1971) - e altrettanto prestigiosi sono i musei e le istituzioni nei quali sono presenti le sue opere, dal Museo MADRE di Napoli al Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato. La mostra presenta una selezione di sculture, disegni e collage e opere site-specific che rappresentano le diverse declinazioni del lavoro di LeWitt, in un arco temporale compreso tra gli anni Settanta e i Duemila. Osservando il susseguirsi di line, tratti e colori si accede nel discorso, insieme teorico e pratico, che l’artista concettuale ha dedicato al processo creativo e all’oggetto estetico. Affidando la realizzazione dell’opera ad altre mani, LeWitt è andato oltre il concetto di autorialità, dimostrando quanto l’elemento umano possa rappresentare una variabile decisiva nell’interpretazione del puro dato. Summa e, per certi versi, evasione dallo schema geometrico, è poi l’opera “Scribbles” Wall Drawing #1146B, spheres lit from the left, che si situa in una passaggio nodale della sua ricerca, intorno alla metà del primo decennio degli anni 2000. Come nei wall drawings, nelle gouaches, nei collage e nei disegni cogliamo una geometria vacillante, in procinto di trasformarsi, che tenta, a tratti, di scuotere i nostri schemi logici, sempre orientati a scorgere rette, direttrici e forme. Ne è un esempio (rip) R724, The area of Florence between the Piazza della Unità Italiana la chiesa S. Frediano and il Porticato dell’Ospedale di S. Maria Nuova del 1976, e tutte le altre opere della stessa serie: un rita-
glio di città che contiene le molte vite che vi brulicano ma che è anche dimostrazione dell’ingegno umano e della tecnica, delle conoscenze ingegneristiche, architettoniche e urbanistiche. Una stratificazione di concetti incastonati in una cornice, un frammento di Firenze con i suoi noti e celebrati edifici, le strade, le piazze, ridotti a pure forme disposte nello spazio. Luciana Berti
Sol LeWitt, Lines, Forms, Volumes 1970s to Present installation view Courtesy Galleria Alfonso Artiaco, photo Luciano Romano
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Arte in Sicilia
Rosario GENOVESE Il poeta delle stelle
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e è vero che obbediamo soltanto al nostro universo, qualunque universo esso sia, nell’universo in cui siamo immersi, e nuotiamo, e nuotiamo senza una meta, ma con una fine precisa, tutte quelle sensazioni di vuoto, dolorose, dalle quali si levano le nostre urla e i nostri dubbi... sì, tutte quelle sensazioni di vuoto, insomma, non sono altro che sensazioni di ritorno all’origine. Come liberarsi dal peso della materia, dall’angoscia che essa trasmette ai nostri pensieri, dal quotidiano sempre più complesso da decifrare, poiché frutto di un caos in continua espansione? Rosario Genovese abita su una di quelle sfere celesti mai esplorate, contempla gli infiniti orizzonti dell’universo senza un orologio al polso o una bussola in tasca, al centro di se stesso. È lì, sul bordo dell’esistenza, e sorseggiando un po’ di energia celeste, osserva; osserva come un poeta osserva i monti, il mare, la gente, annotando il respiro di un enorme – e comunque piccolo - cosmo; fatto di leggi votate a ciò che, attimo dopo attimo, si dimostreranno attente alla decorazione della perfezione. Se così vogliamo chiamarle, queste leggi. Il cosmo, tuttavia, appare desideroso, come noi, di sognare. Altrimenti, perché creerebbe incessantemente se stesso? Una risposta è fornita dalle tante opere a metà tra pittura e scultura dello Genovese, i cui titoli raccontano di una realtà a noi distante milioni di chilometri. Egli, infatti, quasi ricavando dati con l’immaginazione, immagazzinandoli durante il processo creativo nella sua memoria, analizza e racconta con il linguaggio a lui più affine il processo di “crescita” dei lati più oscuri del cosmo: dai buchi neri alle stelle binarie a raggi X, e così via. Tutto ciò, a detta di un fedele osservatore della natura come lo scrivente, è soltanto un espediente per entrare in contatto con uno dei momenti più affascinati verso il quale noi esseri umani abbiamo il privilegio di accostare la nostra coscienza: il mistero dell’energia; o, in altre parole, il sogno del cosmo, vivente quanto viventi lo siamo noi. (Una nota: nelle altre opere la poetica di Genovese si è espressa in differente, ed eppure coerente, modalità: voglio ricordare la monumentale cellula sulla Porta della Bellezza di Librino, a Catania, tra tutte.) C’è del fascino riguardo al luogo in cui un artista pensa. Presso lo studio di Rosario Genovese, in via Plebiscito, simile alla bottega di un alchimista, la meditazione è tappa obbligata che precede la creazione dell’opera: quasi una promessa di energia. Questa energia, fissata in un momento determinato attraverso la creazione, diventa il verso duplice del cosmo -anche in senso sonoro e aromatico-, un tassello in grado di colmare i vuoti, con immagini sopra altre
Il Terzo Paradiso
Arte e Pallacanestro
P
ochi secondi alla fine… 3, 2, 1… la sirena suona, le luci intorno ai tabelloni si accendono, una parte del pubblico esplode in un boato di gioia, una squadra in campo festeggia. Non sono mai andato oltre nei miei sogni, non ho mai veramente oltrepassato quel limite in grado di raccontarmi se fossi tra coloro con le braccia al cielo, che tagliano la retina, o tra coloro che si lasciavano cadere a terra, sul parquet, da quel momento medaglia d’argento. Lo sport ti offre occasioni incredibili, possibilità insperate, grandi aspettative, grandi tensioni e grandi emozioni, sempre, assolutamente, da vivere. 15 settembre 2019, Pechino, finale della FIBA Basketball World Cup China 2019, quelle emozioni le hanno vissute Fernandez, Rubio, Gasol, la Spagna vincitrice da una parte; Scola, Campazzo, Laprovittola, l’Argentina dall’altra. Io? La mia abilità cestistica nemmeno mi consentiva di pensarli determinati palcoscenici, ma poi c’è l’arte e un’opera d’arte che quella finale l’ha vista da protagonista, dal bordo del campo: Rebirth in Basketball. Un progetto che prende vita da un’intuizione, dal mettere insieme un Simbolo internazionalmente riconosciuto, il Terzo Paradiso di Michelangelo Pistoletto, con lo sport che per caratteristiche e gioco di squadra, da sempre rappresenta un significato di inclusione sportiva, sociale, culturale. Grazie alla FIBA, International Basketball Federation, alla Molten 66 - segno 275 | NOVEMBRE/DICEMBRE 2019
immagini. Ritengo queste meditazioni creative stratificate delle unità, la cui sostanza generale è sunto della ricerca. Poiché non potendo più meditare, l’atto colma infine il suo desiderio; e l’opera è creata. Altro processo gemellare è quello tra opera e opera, che Genovese intercala con costanza, seguendo un ritmo estetico insito nel cosmo; un ritmo analizzato quando il cosmo è lì, teneramente concentrato a sognare, dicevamo prima. Se credevamo di sognare le stelle, qui, con Genovese, sono le stelle a sognare, dunque. Rosario Genovese ha enormi forbici con le quali ritaglia pezzi di universo, intrisi dal suo sguardo posato, resi concreti da enormi dispositivi circolari dotati di “pelle”, pulsione sonora e aromi. I ritagli vengono cristallizzati da un componimento poetico, il cui ritmo evocativo tende a focalizzare gli elementi figurativi; i versi, che si rincorrono a spirale, sono veloci e accolgono tutta la ricerca creativa dell’artista. Successivamente, dopo il primo abbozzo, con la mano volutamente guidata dalla prigione del caso, ma con l’occhio su un astrolabio mentale, l’opera subisce, in riferimento a un evento astronomico, una duplicazione speculare. In contemporanea, Rosario Genovese lavora le due superfici circolari cavando dagli abissi, mediante pareidolia, esseri sorti dall’incontro dei cromatismi e dal proprio inconscio. Ogni gesto pittorico è interrotto e ampliato da attimi temporali in costante sospensione, i quali, nelle loro perdute ed eterne contrapposizioni, donano una maggiore e una più corretta evoluzione al dipinto. Terminata la danza creativa, giunge come epilogo il secondo componimento poetico, a sigillo della ricerca svolta, in cui le emozioni finalmente sedimentano. Le percezioni delle opere gemelle, che si trasformano cambiando punto di vista e che richiedono attento confronto, costruiscono una trama nella memoria dell’osservatore; essa deve essere sfilacciata affinché tutti gli elementi risultino adeguatamente captati. La “pelle” dell’opera, delicatamente accarezzata, e differente in ogni tratto, dona un suono simile alla melodia silente del nostro cosmo, accertata da indagini scientifiche, e accompagnata da un aroma rilasciato da microcapsule eccitate dal calore della mano umana. Dario Orphée La Mendola Rosario Genovese, Binaria a raggi X
Corporation, a Cittadellarte e a Michelangelo Pistoletto, l’idea che un’opera d’arte a firma di un artista diventi un lavoro a firma di tutti e che questi tutti, a partire da chi ha vinto, fossero i rappresentanti delle proprie nazioni e delle nazioni che non erano riuscite a qualificarsi e, quindi, di ogni singola persona che sui campetti sparsi nel mondo si diverte giocando a pallacanestro, è diventato realtà. Trentadue squadre nazionali, dodici giocatori, un allenatore e due assistenti allenatore per squadra, più Michelangelo, per un totale di 481 firme che hanno suggellato l’edizione 2019 della Coppa del Mondo e che ora ne saranno testimonianza, e diretto contatto con il pubblico, attraverso la superficie specchiante che raccoglie il simbolo del Terzo Paradiso nel Museo della pallacanestro nella sede della FIBA a Mies in Svizzera. Il simbolo del Terzo Paradiso è come un campo di pallacanestro. I due cerchi laterali sono i due canestri, il cerchio centrale è il campo di gioco. I cerchi laterali del simbolo rappresentano alternativamente tutte le differenze e le contrapposizioni esistenti. Il cerchio centrale rappresenta la “creazione” che avviene nell’interazione fra gli opposti: le due squadre “creano” insieme giocando nel campo che le divide. La sfera è di per sé simbolo del caso che una persona o una squadra cerca di condurre verso il proprio obbiettivo, per ottenere la vittoria. Questa è la “competizione”. La parola competere proviene dal latino e significa: andare, dirigersi verso. Nello sport dunque competere non vuole dire farsi la guerra, ma esprimere le massime capacità per raggiungere il successo. La vittoria di una squadra di pallacanestro è il successo della pallacanestro stessa, così come per ogni altro sport. Ogni vittoria è un progresso che
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Museo delle Genti d’Abruzzo, Pescara
Massimo RUIU
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ssimori”. È questo l’emblematico titolo scelto da Massimo Ruiu per la sua nuova personale a Pescara. Non solo un titolo ma una dichiarazione d’intenti, o meglio un modus operandi sintetizzato in una parola atta a riassumere, senza eccessive complicazioni, una pratica artistica affinatasi negli anni, in cui alla solida conoscenza storico-artistica (Ruiu è storico dell’arte per formazione e artista per vocazione) si coniugano ironia e poesia. L’artista, residente a Roma da quasi un trentennio, riassume in sé il territorio pugliese. Nativo di San Severo, ha studi a Monopoli e Galatone, dove alternativamente lavora. Lo scorso luglio si è aggiudicato la quarta edizione del Premio di pittura “Giuseppe Casciaro” a Vignacastrisi e nella prossima primavera, come previsto dal relativo bando, allestirà una mostra nel Salento, in collaborazione
si apporta allo sport e contemporaneamente alla società intera. Michelangelo Pistoletto Rebirth in Basketball è un progetto di Cittadellarte – Fondazione Pistoletto Onlus a cura di Francesco Saverio Teruzzi e Alessandro Lacirasella, con la collaborazione di Simona Mazzitelli. Il progetto è stato realizzato in partnership con FIBA, International Basketball Federation, il FIBA Local Organization Committee e Molten Corporation. Si ringraziano Frank Leenders e Kiyofumi Takiami e tutti coloro che ci hanno offerto il loro tempo e supporto: Bret, Mike, Ping, Nacho, Bret, Ashley, Tao, Liz, Nathalie, Sean, Gustavo, Roxanne, Mathias, Marion, Silvia, Amanda, Ljubomir, Sharpay, Annalisa, Roberto, Paolo, Mila, Iole, Luca e sicuramente avrò scordato qualcuno! Francesco Saverio Teruzzi AeP Rebirth in Basketball. foto Teruzzi-Lacirasella
con la Gigi Rigliaco Gallery di Galatina. I suoi “Mezzi marinai”, sono esposti in permanenza presso la Fondazione Pino Pascali di Polignano a Mare rendendo ancora più suggestiva l’ampia vetrata prospiciente il mare. La grande foto di un marinaio tagliata a metà è trasformata in un duplice pannello, giocando sull’interscambio tra lemma e icona. Un’opera concettuale – per Ruiu il termine è da utilizzarsi per rinviare alla pregnanza del pensiero più che all’ermetismo del messaggio – che, al pari di molte altre dell’artista, è incentrata sul corto circuito determinato dall’incontro tra una precisa sfera semantica, di cui è implicitamente portatore il titolo, e l’immagine concretamente sottoposta alla visione. Non una difformità o un’antitesi ma una disarmante sovrapposizione che pone lo spettatore di fronte all’ambiguità della conoscenza, di quel sapere condiviso trasformatosi da esperienza concreta a consuetudine, e dunque priva di quella costante verifica sul campo. Una concordanza sghemba che, attraverso associazioni imprevedibili e processi onirici, rivela il problematico rapporto tra parola e immagine e, tramite questo, quello tra realtà e apparenza. Nato nel 1973 e poi allocato nell’edificio delle caserme borboniche, il museo ripercorre la storia dell’uomo in Abruzzo, dal suo primo apparire nel paleolitico fino al XX secolo, sottolineando il contributo offerto dalle tribù italiche all’affermazione di Roma e quanto di questo articolato passato si sia tramandato fino ai giorni nostri in termini di costumi, credenze, luoghi di culto, produzioni, oggetti, forme. Ad improntare l’intero percorso museografico è dunque il concetto di persistenza culturale, rintracciabile anche nelle opere di Ruiu che da sempre gioca con simboli e immagini, combinando mito, storia contemporanea e abitudini collettive. Visibile fino al 20 ottobre la mostra traccia in sintesi la multiforme ricerca dell’artista, raffinato e mai seriale, capace di spaziare dalla pittura all’installazione senza mai cedere in termini di poesia ed efficacia comunicativa. Un percorso ben articolato che si snoda negli ambienti museali intrecciando una narrazione complessa, tra ambiguità iconiche e cortocircuiti percettivi. NNel’operare di Ruiu si alternano tecniche e materie assai variegate, dall’acquerello alla fotografia, dall’assemblaggio alla scultura organica realizzata il più delle volte con le chiocciole di terra, scelta ad icona identitaria individuale e collettiva, la stessa utilizzata dall’artista l’anno scorso nell’opera site specific realizzata per la residenza della sesta edizione dell’Apulia Land Art Festival ad Alberobello. Tra le opere in mostra anche “Pietre miliari mobili”, installazione in cui due ceppi lapidei simili a quelli anticamente posizionati lungo le strade romane per indicare le distanze percorse, sono montati su rotelle. Dietro l’immancabile ironia si celano la finzione quotidiana, l’incertezza esistenziale, il dramma della perdita di qualunque punto fermo. Ruiu rifiuta con fermezza l’idea dell’arte come sensazionalismo (sul quale, specialmente nell’ultimo periodo, ironizza apponendo i suoi ormai celebri “veli pietosi”), in favore di una ricerca artistica prossima alla filosofia, fatta di cultura sedimentata, acute riflessioni e, non ultimo, di un sincero spirito di condivisione per le umane vicende. Carmelo Cipriani NOVEMBRE/DICEMBRE 2019 | 275 segno - 67
YAG/garage, Pescara
Collettivo toscano
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ercorsi è il titolo della mostra allestita presso i nuovi spazi espositivi della YAG/garage di Pescara che vede il coinvolgimento di un collettivo toscano composto da Leonardo Moretti, Adriana Amoruso, Gianluca Tramonti e Alice Ferretti, giovani artisti segnalati dallo storico dell’arte Franco Speroni per il progetto YAG/factory, un bando rivolto a curatori operanti sul territorio nazionale a cui si chiede di individuare nuove personalità del mondo dell’arte da coinvolgere in una residenza a Pescara per riattivare la fertilità creativa di un territorio, quello abruzzese, stimolando il contatto e il passaggio di sensazioni tra autori appartenenti a contesti geografici diversi. Gli artisti in residenza sono stati messi in dialogo con due giovani abruzzesi, segnalati da Ivan D’Alberto, direttore della YAG, Lucia Cantò e Francesco Alberico, che si sono trasformati in moderni “ciceroni” accompagnando, in una sorta di “petite tour”, il collettivo toscano in alcuni luoghi caratteristici del capoluogo abruzzese. In base alle sensazioni ricevute dai racconti dei due artisti abruzzesi e ai percorsi intrapresi dagli artisti toscani nei primi giorni di residenza sono emerse delle “visioni” che poi hanno trovato concretezza nell’appuntamento espositivo. Adriana Amoruso è rimasta particolarmente affascinata dal percorso che quotidianamente Lucia Cantò compie con il pullman n. 3 che involontariamente la “costringe” a vivere una passeggiata per la città di Pescara. Un percorso che nel lavoro di Adriana Amoruso diventa un video-itinerario esperienziale ed emozionale. Alice Ferretti sin da subito ha mostrato una fascinazione nei confronti degli ambienti marini pescaresi: la spiaggia, il turismo di massa, il mare con i suoi pescatori e l’idea di alba e di tramonto completamente ribaltato rispetto alla costa tirrenica che frequenta e conosce da sempre. Questa fascinazione ha dato vita ad una serie di lavori fotografici che raccontano la forza della “linea” che tanto caratterizza lo skyline del capoluogo abruzzese. Gianluca Tramonti ha deciso di sperimentare nel nuovo contesto conosciuto le sue pratiche artistiche abituali: tecniche pittoriche e di stampa che conducono ad una ricerca grafico-gestuale che si basa sulla traccia, il colore
YAG/garage, Pescara
Gino MAROTTA
L
a Young Artist Gallery/garage apre la stagione autunnale 2019 con la mostra (S)confini – Gino Marotta e la nuova Scuola Molisana, primo appuntamento espositivo allestito nel nuovo spazio a pian terreno in via Caravaggio n. 125. Coinvolti in questa prima mostra Michele Peri, Antonio Tramontano, Ivana Volpe, Laura Fratangelo, Luciano Sozio e Gianmaria De Lisio, artisti provenienti dalla regione Molise indicati dal critico d’arte Tommaso Evangelista. Questi sei autori hanno prodotto opere che sono state presentate in dialogo con alcuni lavori del maestro Gino Marotta, anch’egli di origini molisane, deceduto a Roma il 16 novembre del 2012. Così come dichiarato da Tommaso Evangelista l’operazione (S)confini si pone «in linea di continuità con due storiche mostre organizzate nel capoluogo molisano negli anni Ottanta, curate da Massimo Bignardi: Il perimetro del vento e I margini del segno, entrambe incentrate sull’idea di una rappresentazione espansa e sulla decostruzione dello spazio. Parliamo di esperienze legate fortemente al contesto molisano
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e la grafite. L’idea è di lasciare tracce per raccoglierne delle altre, intraprendendo inediti “percorsi” in modo da poterne segnarne dei nuovi. Leonardo Moretti, colpito da alcune sensazioni trasmesse da Lucia Cantò e Francesco Alberico, ha scelto di creare un itinerario personale, un piccolo viaggio per la città di Pescara che tocca molteplici punti dove più realtà creative entrano in contatto e si contaminano. Il litorale pescarese, caratterizzato dai suoi palmenti, diventa lo spunto per produrre un percorso immaginifico dove l’elemento vegetale tende a sfaldarsi fino a trasformasi in un semplice segno gestuale. Anche Lucia Cantò e Francesco Alberico si sono confrontati con l’appuntamento espositivo mettendo insieme tutte le esperienze vissute con il collettivo toscano ed elaborando una propria visione di percorsi “alternativi” volti alla scoperta della città di Pescara. Il loro intervento, seppur discreto e quasi impalpabile, si riassume in un montaggio audio che riporta i suoni e i rumori di tutti i luoghi visitati insieme al collettivo. Il risultato è una rappresentazione inedita di Pescara, che diventa estremamente familiare grazie ad una serie di input che sono tipici della città dannunziana. R.S. il quale usciva - una prima volta - fuori dai suoi confini con una proposta criticamente strutturata. (S)confini diventa quindi il tentativo del territorio molisano di ripensare all’idea di gruppo e di ricerca condivisa, ad una proposta coerente capace di dialogare fuori dai limiti regionali». Per l’appuntamento pescarese sono state presentate di Gino Marotta due sculture, una ceramica, sette opere grafiche e due scatole in metacrilato a parete. Le due sculture sono un Albero blu in plexiglass e un Cespuglio realizzato attraverso l’incastro di lamine specchianti. Questi due lavori, insieme ai due box in metacrilato contenenti due incisioni rappresentanti una rosa a gambo lungo e una serigrafia su lamina su cui è incisa l’immagine dell’Albero Artificiale, appartengono alla più nota produzione dell’artista molisano, quella focalizzata sul tema “naturale/ artificiale”, in cui Marotta sottolinea come l’arte possa trasformare e modellare il paesaggio seguendo una modernità in continua metamorfosi. Ma questi lavori rappresentano sinteticamente anche la fase centrale dell’artista molisano, quella a cui la critica si è interessata di più e che, così come scrive in un ricordo il critico d’arte Lorenzo Canova, vuole «anche celebrare industrialmente il sentimento elegiaco della perdita, la nostalgia per un mondo rurale in via di estinzione, come quello del suo Molise». Tra le opere in mostra anche un lavoro molto particolare che Marotta ha prodotto nell’estate del 2002 in occasione della sua personale Rupestre al Museo delle Ceramiche di Castelli, in provincia di Teramo. È una ceramica di grande raffinatezza che dimostra come l’artista molisano riuscisse a lavorare con disinvoltura anche la creta, nonostante la sua predilezione per il mondo della plastica. Infine, sei incisioni degli anni ’80 in cui è perfettamente visibile quella crisi esistenziale che l’artista vive in quel momento e che lo porterà ad abbandonare i materiali plastici e industriali per rivolgersi totalmente a materiali più “tradizionali” quali la matita, la pittura ad olio, il marmo e il bronzo. In questa produzione è come se l’artista riavvolgesse il nastro della sua esperienza professionale per tornare a confrontarsi con i grandi maestri della sua giovinezza: de Chirico, Capogrossi, Guttuso, Turcato e Cagli. Nonostante l’uso di medium più “tradizionali” Marotta non distoglie però la sua ricerca rigorosa nei confronti della luce e della sua incidenza sulle superfici naturali e artificiali particolarmente evidente anche in queste sei incisioni. R.S.
PROVINCIA DI
CATANZARO
PINO PINGITORE
Lâ&#x20AC;&#x2122;anima e la visione/1969-2019
50 anni tra ricerca artistica e progettazione grafica A cura di Giorgio Bonomi e Luigi Polillo
Patrocinio
in collaborazione con
30 NOVEMBRE 2019 31 GENNAIO 2020 MARCA Museo delle Arti Catanzaro Via Alessandro Turco, 63 www.museomarca.info
Cooperativa Culturale
CATANZARO
Fiere d’arte
L’autunno caldo delle Fiere
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narrestabile, il mercato dell’arte non si ferma mai. Prova ne è il consistente numero di fiere dedicate al settore che, come di consueto, dopo la pausa estiva, ricominciano a scandire il calendario autunnale di addetti ai lavori, amatori e collezionisti. Diversificatesi negli anni, alcune consolidatesi quali appuntamenti imprescindibili, in molti casi sempre più tendenti a sembrare delle mostre che dei mercati, sia per questioni estetiche sia di gusto, ma forsanche per arginare la scomparsa di una fascia media di acquisto, sempre più progettuali, impegnate a ricercare i grandi collezionisti ma anche strutturare un sistema più accessibile per tutte le tasche, il mondo delle fiere italiane ed europee in apparenza sembra non subire alcune una frenata. Eppure, alcuni dati statistici di questo periodo, stilati dall’autorevole «Il Sole 24ore» raccontano qualcosa di diverso. Se parliamo di aste, le vendite di opere superiori ai 10 milioni di dollari, dati che arrivano dal mercato americano e londinese, non superano il 35%. Si tratta probabilmente del possibile effetto di una recessione globalizzata che interessa, nello specifico, queste due realtà e che, naturalmente, tocca anche il mercato cinese. Eppure, tralasciando New York, la Cina e tornando alle fiere europee, i risultati di Frieze Londra sembrano confortanti, nonostante la Brexit e quel senso bislacco di europeo e non che confonde le acque. Senza guardare così lontano o ragionare così in grande, per quel che riguarda la vecchia Europa, tale dato, che si conferma come una concretezza (ma parliamo
di aste per l’appunto) può perfettamente soprapporsi ai nostri mercati, compresi e soprattutto quelli fieristici. Si aggiunge a ciò, anche un altro fatto. Se da un lato, il comparto moderno è il business più consistente delle fiere – si pensi ad Art Verona per intenderci, senza il quale, probabilmente in questi quindici anni avrebbe faticato a sostenersi e che, allo stesso tempo ha certamente permesso di guardare a un contemporaneo più giovane, o immaginiamo a quel moderno più recente che riguarda artisti storicizzati delle generazioni settanta e ottanta cui fiere come Artissima, da tempo, dedicano sezioni specifiche – dall’altro è evidente che a farsi strada – ed è in crescita – è un contemporaneo più attento agli emergenti che risolve, senza dubbi, problematiche economiche. Tuttavia, costruire solidi nomi che possano reggere un confronto internazionale, non è facile e una spia, in tal senso, è rappresentata dalla creazione di premi emessi da istituzioni pubbliche e private che, “musealizzando” l’opera di giovani artisti contribuiscono a costruirne i curricula. Oppure, c’è anche la strada della specializzazione, come nel caso della svizzera WopArt che risolve il problema con la proposta di lavori su carta sperando di generare accessibilità per tutte le tasche. Dalla Svizzera all’Italia, da Londra a Parigi pertanto, nei successivi commenti, le opere e le gallerie a nostro parere più interessanti di queste piazze, perché, aldilà del mercato, conta anche il valore culturale che mai può essere subordinato all’economia. Maria Letizia Paiato
Fiera, Lugano
Wopart
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ata come fiera dedicata ai lavori su carta (Works On Paper da qui l’acronimo), in questa nuova edizione Wopart ha mostrato la volontà di avvicinarsi al circuito delle grandi fiere europee. Forse questo segna però un passo indietro rispetto all’originalita mostrata nelle prime edizioni, più vicine ad altre fiere incentrate sui lavori su carta come ad esempio Art on Paper. Stefano Mario Zatti, Atipografia, Arzignano
Max Marra, ARC Gallery, Monza
Verona Fiere
Artverona 2019
quindicesima edizione
I
l traguardo dei quindici anni è già di per sé una prova di maturità per la fiera scaligera ArtVerona, in scena dal 11 al 13 ottobre 2019, per il terzo anno di seguito diretta abilmente da Adriana Polveroni, confermando il coinvolgimento cittadino per il primo ambizioso Artweek stagionale. Non è mai facile temperare il giusto grado di valutazione di una simile kermesse, sia dal punto di vista curatoriale-contenutistico sia per la logica di mercato che quantifica e permette la longevità di una fiera. Senza entrare nel merito della questione monetaria fidando, appunto, nella costanza dell’evento e nella presenza attiva dei collezionisti (ospiti anche nelle talks), vien da sé la buona riuscita di un esposizione meritevole di non aver mai ceduto alla tentazione di affollare gli spazi e mantenuto equilibrio tra il settore moderno e il contemporaneo, per quanto quest’ultimo risulti educato manieristicamente. Sobrietà efficace con un mirato ritorno alla pittura, largamente proposta nei vari stands, persino con armonia orchestrale a guisa di fruizione libera e accogliente. Passeggiando per il padiglione più classicheggiante, accanto agli immancabili specchi di Pistoletto e i policromi Boetti, si nota un’innegabile diffusione di pittura segnica, con familiari Michaux, Hartung e Accardi, e interessanti grafismi tra un De Dominicis e recenti Kounellis. La parte più innovativa riprende la stessa dialettica cromatica e spaziale, offre una visione pudica ma tutto sommato di una cer-
Manuel Felisi, Fabrizia, 2019. Galleria Russo
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Vincenzo Marsiglia, Maurizio Caldirola Arte Contamporanea
ta freschezza avendo a concentrare nello stesso settore diversi progetti narrativi: appaiono sacrificati, quest’anno, gli spazi indipendenti (decisamente fuori forma) mentre una certa curiosità la suscita la selezione speciale ceco-slovacca, una nota vibrante fuori dal coro senza ostinazione, in particolare il lavoro dilettevole di Kristof Kintera (proposto da Nevan Contempo Gallery). Altri nomi? Buone conferme si riscontrano da Luca Lupi (Cardelli & Fontana arte Contemporanea), Giuseppe Buzzotta (Prometeo Gallery) e la cinematografica Anna Di Prospero (MLB Maria Livia Brunelli Home Gallery) tutti con una ricerca matura capace di mantenersi costante nel sintetizzare la melanconia del tempo corrente, nonostante siano artisti under40. Giovani ma ben avviate proposte vengono invece da Matilde Sambo (aA29 Project Room), Pietro Desirò (Cartavetra) e Chiara Pagano (Freestage), indagini concettuali ma dense di un oscillatorio grafismo, sia esso marcato (stampe incisorie su tela) o installativo o reiterato nel gesto di strappare e abbandonare scontrini dalla macchinetta del macellaio. Luca Sposato
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
iunta ormai alla diciassettesima edizione, Frieze London conferma il suo ruolo centrale in Europa, con le sue 160 gallerie provenienti da 45 paesi, un successo per un Paese diviso dalla Brexit. I consensi sono arrivati fin dalla preview, con numerose vendite e presenze, come attestano Hauser & Wirth, Galleria Continua e Pace Gallery di New York, con grande successo degli artisti italiani. Tra gli stand più interessanti quelli di Spruth Magers con la foresta di tronchi sospesi di Kaari Upson, Lia Rumma con i neon di Kosuth, Galerie Peter Kilchmann con il vestito-mappa di Sarajevo di Maja Bajevic. Jeppe Hein dona messaggi mindfulness attraverso i suoi specchi (This moment is your life, 2019) nello stand di Galleri Nicolai Wallner, mentre Yuri Pattison usa il live rendering per un’opera che interagisce con l’atmosfera nello stand di Mother’s Tankstation. Galeria Nara Roesler presenta le sculture mobili di Raul Mourao mentre Gallery Baton propone i poemi trascritti con le perle da Koh San Keum. Si compie su instagram la performance di Cory Arcangel da Greene Naftali, si concentra invece sull’effetto placebo di una parete di pillole colorate General Idea da Maureen Paley. Amalia Pica e Rafael Ortega reinterpretano i gesti dei primati nei monitor di Herald St, teamLab dipinge con la luce nello stand di Pace, si illumina di stelle a led il cielo digitale di Angela Bulloch per Esther Schipper. Nuova la sezione speciale Woven, con artisti tessili provenienti da tutto il mondo, a cura di
Cosmin Costinas, in cui rientrano anche i delicatissimi ricami di capelli su tessuto di Angela Su per Blindspot Gallery. Rientra nella sezione Live, a cura di Diana Campbell Betancourt, la performance di Yasmin Jahan Nupur, che coinvolge lo spettatore in un’intima cerimonia del tè. Si segnala anche la sezione Focus, per i progetti di gallerie di età inferiore ai 15 anni e Frieze Talks, che quest’anno ha esaminato il ruolo del Bauhaus nell’arte contemporanea. Meno caotica e più concentrata Frieze Masters, alla sua ottava edizione. Fa parlare di sé l’ultimo Botticelli in mano privata al di fuori dell’Italia, offerto dalla galleria Trinity Fine Arts di Londra a 30 milioni di dollari, con un allestimento da museo che custodisce il ritratto del poeta umanista Michele Marrullo. Imponente lo stand di Hauser & Wirth, con le opere di Mauri, Schifano, Burri e Angeli; da Gagosian troviamo le grandi tele di Cy Twombly, da Robilant + Voena le ceramiche di Fontana e i cavalli di Marino Marini. Boetti è nello stand di Ben Brown e Paolini da Artiaco. Dickinson dedica il suo stand all’Astrazione lirica mentre Kamel Mennour alle opere di Gina Pane, tra cui il poetico Ricordo avvolto di un mattino blu (1969). La Galerie Thomas propone le opere del gruppo Cercle et Carré; Martyn Chalk ricostruisce i Painting Relief di Tatlin per la galleria Annely Juda; la Gallery Hyundai riempie lo spazio con le sculture video di Nam June Paik e le fotografie delle performance di Charlotte Moorman. Immancabili Basquiat e Bacon da Acquavella, gli specchi di Pistoletto da Tornabuoni, un bellissimo Novelli da Tega, i contrappunti di Melotti da Mazzoleni, Kosuth da Castelli Gallery. Si prosegue con le sculture di gomma di Whiteread da Luhring Augustine e gli artisti di Fluxus da Cardy. Un’edizione che conferma l’importanza imprescindibile dell’arte italiana ma anche il desiderio di mantenere alto il ruolo della fiera inglese in un’epoca di incertezze politiche e sociali. Importante è anche il ruolo di investimento assunto dalla Tate, con il supporto dell’organizzazione Endeavor, che ha fatto diverse acquisizioni, insieme alla Contemporary Art Society, per il Museo del Castello di Nottingham. Si conferma anche il Premio artista emergente Camden Arts Center, andato a Julien Creuzet, che avrà la sua prima mostra istituzionale a Londra. Anche BMW ha dato il suo contributo, commissionando un’opera all’artista francese Camille Blatrix, e Ruinart, soprannominato “lo champagne dell’arte”, che ha invitato nella tenuta a Reims il brasiliano Vik Muniz, per lavorare sulla tematica ambientale (stranamente poco presente in questa edizione di Frieze). Il premio Frieze Stand è stato assegnato alla Stephen Friedman Gallery di Londra, per la presentazione di due progetti della svedese Mamma Andersson e del brasiliano Tonico Lemos Auad, mentre il premio Focus Stand è andato a Proyectos Ultravioleta di Città del Guatemala per la presentazione dell’opera di Hellen Ascoli. Sibilla Panerai
Ben Brown Fine Arts / Colnaghi, Frieze Masters 2019. Photo by Mark Blower. Courtesy of Mark Blower / Frieze
Seventeen, Frieze London 2019. Photo by Linda Nylind. Courtesy Linda Nylind / Frieze
Yasmin Jahan Nupur, LIVE, Frieze London 2019. Photo by Linda Nylind. Courtesy Linda Nylind / Frieze
Gavin Brown’s Enterprise, Frieze London 2019. Photo by Linda Nylind. Courtesy Linda Nylind / Frieze
Trinity Fine Art, Frieze Masters 2019. Photo by Mark Blower. Courtesy of Mark Blower / Frieze
Regent’s Park, Londra
Frieze London
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Grand Palais, Parigi
Fiac 2019
È
stata una FIAC più sommessa quella di quest’edizione 2019 che, a differenza della precedente, ha visto l’insieme delle gallerie unanimemente orientante alla proposta di stand meno spettacolari e scenografici – salvo eccezioni s’intende – tendenti a privilegiare un discorso sulla pittura, un discorso che, a voler ben guardare, va Betty Tompkins, Women Words (Raphael #5), 2018 evidentemente incontro ad un Courtesy the artist and collezionismo più tradizionale. rodolphe janssen, Brussels Se tale orientamento da un lato risponde al mercato – negli ultimi anni sempre più alla ricerca di sicurezze e meno dedito alla sperimentazione -, un mercato che conferma i trend internazionali che vedono il contemporaneo in salita, dall’altro mostra un’adagiarsi generale su formule testate e funzionanti. Molte, infatti, le gallerie presenti con gli stessi lavori dello scorso anno, se non proprio gli stessi, molto simili e difformi soltanto nel formato e, in taluni casi, fra l’altro, di qualità discutibile. Una FIAC un po’ fiacca – volendo giocare con l’assonanza fonetica fra le parole francesi e italiane – che non ha offerto grandi spunti di novità. Tuttavia, se non un commento unitario alla fiera risulta difficile da formulare, lo si può svolgere sulla specificità di alcuni lavori. È il caso, ad esempio dell’opera di Jean-Michel Alberola (Templon Gallery) che con La Vision d’Artur Rimbaud à Harrar, 2019, propone un’immagine iconica e poetica della contemporaneità che, vista attraverso la reinterpretazione letteraria e decadente del poeta francese, fluttua nell’oggi come fosse un “battello ebbro”. Interessante ed esteticamente bello è il dialogo fra i busti di Barry X Ball e la pittura acquerellata su carta di Marta Jungwirth (Ferguson McCaffrey gallery) che inscena un discorso fra antico, presente e futuro; presenze, assenze e apparizioni conducendoci simultaneamente ad una riflessione sul tempo e sulla forma e che, sincronicamente, ci dimostra come le opere, tendenti a sviscerare queste relazioni, siano quelle di maggiore impatto nel contesto fieristico. Sulla stessa scia, infatti, si colloca l’elegante e semplice lavoro di Betty Tompkins (Rodolphe Jansen gallery) che, inscenando un discorso fra immagini del rinascimento italiano e lettering rompe le barriere del tempo rimescolandone significati e significanti. Ciò vale anche, giusto per fare un altro e un’ultima esempio, per l’arazzo di Laurie Prouvost (Galerie Nathalie Obadia) attuale rappresentante del padiglione francese in Biennale dove, la sensualità del nudo femminile si fa ironica nella scritta che l’accompagna, più cinica – se vogliamo – dal momento che il rapporto uomo-donna viene esplicitato più nell’orbita del desidero che della realtà. Spiazza, come sempre Gagosian che, cogliendo
Fiac Projects
F
iac Projects 2019 rende omaggio all’infinito… all’infinito sentimento dell’arte che cerca, vuole e reclama bellezza. Le Petit Palais, architettura di inizio ‘900, è proprio questo, un simbolo di eclettismo che, con le opere dei grandi maestri dell’Ottocento francese: Courbet, Renoir, Delacroix in dialogo con la pittura rinascimentale italiana e olandese cerca da sempre nella storia la sua forma. Una forma che non può escludere la contemporaneità, per. ciò il Projects, ogni anno, si mostra come l’estensione naturale di quell’infinito immaginato dal Petit Palais sin dall’origine della sua collezione. Le sculture e le installazioni, proposte dalle gallerie presenti in fiera, selezionate e ordinate da Rebecca Lamarche-Vadel, si mostrano nell’allestimento come una sorta di lieve conversazione con le opere del Petit Palais. Jan Vercruysse, L’estate Paroles (Letto) VII, 1996 (Vistamare/Vistamarestudio, Pescara,
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Mimmo Rotella alla Cardi Gallery Lo stand della Galleria Alfonso Artiaco
queste atmosfere, a sorpresa propone uno stand completamente dedicato al novecento e agli agli artisti della Costa Azzurra dove, i segni e le figure di Picasso, ma anche quelle di Matisse, irrompono fra i box inglobando lo spettatore in una magia unica e irripetibile. Chiudendo, un breve commento alle gallerie italiane è doveroso. Fra gli stand più belli ci sono con certezza quelli di Tucci Russi che porta, come sempre, l’amato Penone ma con dei pezzi meno scontati, Alfonso Artiaco che propone Giuseppe Penone, Galleria Tucci Russo un’allestimento rigoroso, pulito e allo stesso tempo dinamico e soprattutto Cardi Gallery che, a mio parere, risulta il più convincente fra tutti. L’ariosità dello spazio permette di godere le opere di Mimmo Rotella come fossimo in un museo e la scelta di affrancare due tipologie di lavori differenti permette finalmente di cogliere la diversità e la complessità dell’opera dell’artista calabrese. Maria Letizia Paiato In particolare di Nicolàs Lamas con Planned obsolescence, 2019 (Messen De Clercq, Brussels) e Jan Vercruysse, L’estate Paroles (Letto) VII, 1999 (Vistamare/Vistamarestudio, Pescara, Milano), disposte lungo la galerie nord, appaiono come quelle più coinvolgenti e visivamente accattivanti, tanto per per le originali visioni che si creano fra le statue del Palais e quelle degli artisti. Se Lamas con le sue obsoleti fotocopiatrici e copie si statue antiche racconta il paradosso della nostra epoca ricca di informazioni che restano attuali per poco tempo, Vercuysse in termini più filosofici racconta allo stesso modo i rapidi cambiamenti del mondo. Maria Letizia Paiato Présence Panchounette, Coups bas libres, 1986 (Semiose, Paris)
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Nuova Fiera di Roma
Maker Faire
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lla Nuova Fiera di Roma si è svolta,in ottobre, la Maker Faire Rome – The European Edition 2019, manifestazione promossa e organizzata dalla Camera di Commercio di Roma attraverso l’Azienda Speciale Innova Camera, per congiungere scienza, fantascienza, tecnologia, divertimento, invenzioni e business, dando vita a qualcosa di completamente nuovo con numerose sfaccettature che vanno dalla robotica, all’intelligenza artificiale, alla sostenibilità ambientale e alla tecnologica. Novità di quest’anno è stata l’introduzione dell’arte che ha potuto far parte di tale rassegna dedicata alla relazione tra arte contemporanea e nuove tecnologie, aprendo così alla creazione di percorsi sinergici e integrati tra maker e artisti internazionali selezionati dal curatore Valentino Catricalà. Tale sezione risulta essere un trampolino di lancio in previsione di futuri progetti in quanto la tecnologia è diventata fondamentale anche in ambito artistico sia nella creazione di opere d’arte sia nella loro messa in mostra. Negli ultimi anni, infatti, l’interesse nei confronti del rapporto tra arte e innovazione è aumentato sia nel settore curatoriale, sia in quello creativo e, nonché, imprenditoriale. Proprio le aziende risultano le maggiormente attratte a sviluppare rapporti con gli artisti, creare nuove sinergie tra questi ed i loro ingegneri e/o tecnici per ideare nuove forme di produzione e tutto ciò rappresenta un grande potenziale per entrambi. Tuttavia, non occorre dimenticare che la tecnologia è entrata da anni in ambito artistico ad esempio con la fotografia, la video arte o la scultura in 3D. Ma oggi si sta creando un vero e proprio trend, sia culturale che di mercato, generato da una serie di iniziative – come il Microsoft Research 99 o le residenze d’artista di Google, Adobe, ecc – e la Maker Faire è il luogo adatto per questa sperimentazione, essendo il regno dell’innovazione. Anche se ci preme sottolineare che l’arte deve assumere un ruolo guida all’interno di tale contesto poiché sì l’artista inventa nuove tecnologie sperimentando ma il suo fine non è mai l’invenzione in sé, bensì la possibilità che dà il medium per la sua ricerca poetica. Per quest’occasione Catricalà ha scelto di non esporre le opere all’interno di un Padiglione bensì di diffonderle in tutta la fiera creando un percorso espositivo ad hoc in modo da creare un dialogo tra i vari interventi artistici ed il contesto circostante. Numerosi gli artisti scelti: sia internazionali – come Bill Vorn, Joaquin Fargas, Cod.Act, Patrick Tresset – che nazionali e di varie generazioni come Aura Satz, Donato Piccolo, Richard Garet, Fedrico Solmi, Chiara Passa e molti altri. Inoltre, il curatore ha preferito focalizzare l’attenzione dello spettatore su
Joaquiìn Fargas, Rabdomante, 2019
Bill Vorn, Hysterical Machine, 2010
Chiara Passa, Compressions Houses, 2015
alcune tematiche tra cui l’intelligenza artificiale, la sostenibilità ambientale, la robotica, e l’universo sonoro. Grazie alla sua inclusione nella Maker Faire di quest’anno ci auguriamo che tale esperienza apporti qualcosa di nuovo nel campo arte contemporanea arrivando, chissà, a creare una reciproca interdipendenza tra questa e l’innovazione. Maila Buglioni
Giang Hoang Nguyen, The Fall, 2018 Foto di Giorgio Benni. Courtesy Alan Advantage
NOVEMBRE/DICEMBRE 2019 | 275 segno - 73
GALLERIA ARTIVISIVE Associazione Culturale Internazionale
1969-2019
Eugenio Miccini, poetry gets into life - 1976
Innocenzo Carbone, India - 2014
Luciano Ori, Driin - 1975
50
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anniversario Lamberto Pignotti, Suonala ancora, Sam - 1970
Eugenia Beck Lefebvre, Maria Teresa - 1968
Alessandro Rivola, senza titolo - 2013
Inaugurazione della sede di via Sistina a Roma, 1990
Renata Prunas, Cassetta Coca Cola - 1977
Salvatore Emblema, Trasparenza - 1970
Mulieres in Ecclesiis Taceant - 2018
Camillo Maniscalco, Struttura fantastica - 1993
Art director: Sylvia Franchi - artivisivesylvia@libero.it - www.associazioneartivisive.com
Photograph taken at Miami Children’s Museum
Participating Galleries Galleries # 303 Gallery 47 Canal A A Gentil Carioca Miguel Abreu Acquavella Altman Siegel Applicat-Prazan Alfonso Artiaco B Guido W. Baudach elba benítez Ruth Benzacar Bergamin & Gomide Berggruen Fondation Beyeler Blum & Poe Peter Blum Boers-Li Marianne Boesky Tanya Bonakdar Bortolami Luciana Brito Gavin Brown Buchholz C Canada Cardi Casa Triângulo David Castillo Ceysson & Bénétière Cheim & Read Clearing James Cohan Sadie Coles HQ Continua Paula Cooper Corbett vs. Dempsey Pilar Corrias Chantal Crousel D DAN DC Moore Massimo De Carlo Di Donna E Andrew Edlin frank elbaz Essex Street
F Konrad Fischer Foksal Fortes D‘Aloia & Gabriel Peter Freeman Stephen Friedman G Gaga Gagosian Galerie 1900-2000 Gladstone Gmurzynska Elvira González Goodman Gallery Marian Goodman Bärbel Grässlin Richard Gray Garth Greenan Greene Naftali Karsten Greve Cristina Guerra Kavi Gupta H Hammer Hanart TZ Hauser & Wirth Max Hetzler High Art Hirschl & Adler Rhona Hoffman Edwynn Houk Xavier Hufkens hunt kastner I Ingleby Taka Ishii J Alison Jacques rodolphe janssen Catriona Jeffries Annely Juda K Kalfayan Casey Kaplan Karma Kasmin kaufmann repetto Kayne Griffin Corcoran
Sean Kelly Kerlin Anton Kern Kewenig Peter Kilchmann Tina Kim Kohn David Kordansky Andrew Kreps Krinzinger Kukje kurimanzutto L Labor Landau Simon Lee Lehmann Maupin Tanya Leighton Lelong Leme Lévy Gorvy Lisson Luhring Augustine M Magazzino Mai 36 Maisterravalbuena Jorge Mara - La Ruche Matthew Marks Marlborough Mary-Anne Martin Philip Martin Jaqueline Martins Barbara Mathes Mazzoleni Miles McEnery Greta Meert Anthony Meier Menconi + Schoelkopf Mendes Wood DM kamel mennour Metro Pictures Meyer Riegger Victoria Miro Mitchell-Innes & Nash Mnuchin Modern Art The Modern Institute mor charpentier N nächst St. Stephan Rosemarie Schwarzwälder Nagel Draxler Edward Tyler Nahem
Helly Nahmad Francis M. Naumann Leandro Navarro neugerriemschneider Franco Noero David Nolan Nordenhake O Nathalie Obadia OMR P P.P.O.W Pace Pace/MacGill Parra & Romero Franklin Parrasch Peres Projects Perrotin Petzel Plan B Gregor Podnar Eva Presenhuber Proyectos Monclova R Ratio 3 Almine Rech Regen Projects Revolver Roberts Projects Nara Roesler Tyler Rollins Thaddaeus Ropac Michael Rosenfeld Lia Rumma S Salon 94 SCAI The Bathhouse Esther Schipper Thomas Schulte Marc Selwyn Jack Shainman Sicardi Ayers Bacino Sies + Höke Sikkema Jenkins Jessica Silverman Simões de Assis Skarstedt
Fredric Snitzer Société Sperone Westwater Sprüth Magers Nils Stærk Christian Stein Stevenson Luisa Strina T Templon Thomas Tilton Tornabuoni Travesía Cuatro V Van de Weghe Van Doren Waxter Vedovi Vermelho Vielmetter W Waddington Custot Nicolai Wallner Wentrup Michael Werner White Cube Z Zeno X David Zwirner Nova Antenna Space Barro blank Carlos/Ishikawa Central Fine Chapter NY Company Anat Ebgi Thomas Erben James Fuentes Ghebaly Mariane Ibrahim Isla Flotante JTT David Lewis Josh Lilley Linn Lühn Edouard Malingue moniquemeloche Morán Morán Nanzuka
Jérôme Poggi ROH Projects Anita Schwartz Tiwani Contemporary Positions Sabrina Amrani Christian Andersen Bendana-Pinel Maria Bernheim Callicoon Commonwealth and Council Cooper Cole Document Agustina Ferreyra M+B Madragoa Magician Space Project Native Informant Marilia Razuk Edition Cristea Roberts Crown Point Gemini G.E.L. Carolina Nitsch Pace Prints Paragon Polígrafa Susan Sheehan STPI Two Palms ULAE Survey 10 Chancery Lane acb Almeida Nicelle Beauchene Tibor de Nagy espaivisor Eric Firestone Hackett Mill Hales Pippy Houldsworth Instituto de visión Mitterrand Parker Louis Stern Venus Over Manhattan waldengallery