Segno 257

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segno Spedizione in abbonamento postale Poste Italiane S.p.A. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 ROC · Registro degli operatori di comunicazione n. 18524 - ISSN 0391-3910 00 in libreria

E 5.

Anno XLI - APR/MAG 2016

PINO PINELLI

segno Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea

# 257 - Aprile / Maggio 2016

Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea


ACCADEMIA NAZIONALE DI SAN LUCA

archivio progetti FONDI DEGLI ARCHITETTI DEL XX SECOLO

bruno maria APOLLONJ

GHETTI pietro ASCHIERI carlo AYMONINO armando BRASINI giuseppe CAPPONI carlo CHIARINI mario DE RENZI wolfgang FRANKL ugo GIOVANNOZZI federico GORIO ugo LUCCICHENTI giulio MAGNI franco MARESCOTTI mario RIDOLFI maurizio SACRIPANTI

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accademia nazionale di san luca piazza dell’Accademia di San Luca 77 . 00187 Roma www.accademiasanluca.eu www.fondoridolfi.org www.fondosacripanti.org

ACCADEMIA NAZIONALE DI SAN LUCA

La collezione del disegno contemporaneo NELLA SALA DELLE MERAVIGLIE DELLA GALLERIA ACCADEMICA CON IL SISTEMA VIVO+MUSEUM accademia nazionale di san luca piazza dell’Accademia di San Luca 77 . 00187 Roma www.accademiasanluca.eu


#257 sommario

aprile /maggio 2016

segno Spedizione in abbonamento postale Poste Italiane S.p.A. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 ROC · Registro degli operatori di comunicazione n. 18524 - ISSN 0391-3910 00 in libreria

E 5.

Anno XLI - APR/MAG 2016

Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea

# 257 - Aprile / Maggio 2016

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segno Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea

Artisti in copertina

Segno: un’avventura lunga 40 anni nel cuore dell’arte contemporanea

PINO PINELLI

Pino Pinelli

Pittura R, 2010 b 144 x h. 68 cm courtesy l’artista, Milano

4/25 News gallerie e istituzioni

Biennale Architettura Venezia, Miart Milano, Anticipazioni in breve Mostre in Italia ed estero Fondazione Plart a Ferrara, FM Frigoriferi Milanesi, intervista a Marco Scotini a cura di Lisa D’Emidio, M.Letizia Paiato, Raffaella Barbato, Paolo Spadano, Elvira Vannini

news e tematiche espositive su www.rivistasegno.eu

e 26/73 Attività espositive/ Recensioni anticipazioni

Mario e Marisa Merz (Macro Roma pag.28-30 Paolo Balmas) Botto & Bruno (Fondazione Merz Torino pag. Gabriella Serusi) Costas Varotsos (Università di Salerno pag 32-33 Carla Rossetti) Vincenzo Agnetti: La lettera perduta (Archivio Agnetti pag.34 Gabriele Perretta) L’occhio cinematico (Arte Invernizzi pag.35 Simona Olivieri) Pietro Consagra (Galleria Tega pag.36-37 dal testo di Marco Meneguzzo) Leyra Novo, Juan Araujo, Qiu Zhljie (Galleria Continua pag.38-41 Rita Olivieri) Alfredo Jaar (Lia Rumma pag.42 Stefano Taccone Lawrence Weiner (Alfonso Artiaco pag.43 Stefano Taccone) Marzia Migliora (Lia Rumma pag.44 Gianmarco Corradi) Mimmo Jodice (Vistamare pag.45 dal c.s) Pino Pinelli…il muro diventa opera…((pag.46-51 Simona Olivieri) Brunella Longo (Maon Rende pag.52 Massimo Di Stefano) Magdalo Mussio (Arena, Verona pag.53 Antonello Tolve) Franco Giuli (Arena, Verona pag.54-55 dal testo di C.Cerritelli) Peter Schuyff (Studio Raffaelli Trento, pag.56 M.L.Paiato) Domenico Bianchi (Museo Riso Palermo, pag.57 Valentino Catricalà) Yasuo Sumi (ABC Genova, pag.58-59 M.L.Paiato) Betty Bee, doppio sogno (Eidos Asti pag.60 M.L.Paiato) Collettiva Ailanto (Biblioteca Poletti Modena pag.61 Giada Pellicari Domenico Mennillo (Museo Nitsch Napoli, pag.62 Stefano Taccone( Sean Crossley (AnnaMarra Roma) Hilario Isola (Bonomo Roma) Lisanti/Mochetti (Pio Monti Roma) (pag.63 Paolo Aita) La linea di ZAP (Menesini Genova pag.63 Simona Olivieri) Runo Lagomarsino (Gall.Minini Milano pag.64 dal cs Alberto Salvadori) Giuliana Storino Spazio Vanni Torino pag.64 (ML.Paiato) Making Sense (Palazzo Pretorio Cittadella pag.66 Giada Pellicari) Collettiva “Materiali” (Alliance Francaise Bari pag.66 Antonella Marino) Rita Tondo (Ex Conservatorio Lecce pag.67 Antonella Marino) New year’s brunch (Polo Museale Lanciano pag. 67 a cura di Paolo Spadano) Anelli, Flaccavento, Pingitore (Centro Di Sarro Roma pag.68 Paolo Aita) Collettiva 66/16 (Enrico Astuni Bologna pag.69 ML.Paiato) Davide Stasino (Fideuram Napoli pag.70 Simona Zamparelli) Lucia Gangheri (Museo Archeologico Napoli pag.70 Simona Zamparelli) Giovenale Policlinico Gemelli Roma pag.71 Paolo Balmas) Gino Sabatini Odoardi (Whitelight Art gallery Milano pag.71 ML.Paiato

La rivista Segno, che ha iniziato la pubblicazione nel novembre del 1976, nasce da un’intuizione di Umberto Sala e Lucia Spadano, spinti dal desiderio di svolgere una cronaca e una critica, appassionata e vera, intorno a quei linguaggi espressivi dell’arte contemporanea che, dal concettuale al poverismo, dall’incorporeo al ritorno alla figura, stavano radicalmente modificando la scena dell’arte italiana ed internazionale nel giro strettissimo di pochi anni. Nata contestualmente ad ArteFiera di Bologna, con la quale condivide una storia quarantennale, la rivista vuole riunire in un volume di circa 900 pagine in preparazione (disponibile a novembre 2016 per Artissima Torino) una selezione dei migliori testi pubblicati di 60 critici, storici dell’arte e collaboratori vari, con le opere di 500 artisti e numerosissime citazioni, in migliaia di recensioni e documentazioni per istituzioni museali e gallerie d’arte.

Abbonamento 2016

+ prenotazione Volume

50 euro

72/73 Attività espositive/ Documentazione in breve Denis Riva, Guarnieri, Olivieri, Verna, Viallat, McGinley, R.Johnson, Cartier-Bresson, Bianconi, Negri, Ritszel, Dessì, Zino, Collettive varie.

74/95 Osservatorio critico/Libri e altro ArteFiera Bologtna, Arco Madrid (pag.74-83 Lucia Spadano e M.L. Paiato ) Il centenario di Alberto Burri (pag.84-85 Rita Olivieri) Libertà e rigore nell’architettura del Casale Gomez (pag.86-89 Rossella Martino) Le Corbusier e gli studi per una residenza a Chicago (pag.90-93 Rossella Martino) Segni d’arte, segni d’Eco e segni di editoria (pag.94-95 Gabriele Perretta) Libri e didattica (pag.95 a cura di Antonella Marino e M.L.Paiato)

segno periodico internazionale di arte contemporanea

Direzione e redazione Corso Manthonè, 57 65127 Pescara Telefono 085/61712

redazione@rivistasegno.eu www.rivistasegno.eu

Direttore responsabile LUCIA SPADANO (Pescara) Condirettore e consulente scientifico PAOLO BALMAS (Roma) Direzione editoriale UMBERTO SALA Redazione WEB, Roberto Sala, M.Letizia Paiato

ABBONAMENTI ORDINARI E 25 (Italia) E 50 (in Europa CEE) E 90 (USA & Others)

Collaboratori e Corrispondenti dell’associazione culturale Segno: Paolo Aita, Raffaella Barbato, Giuliana Benassi, Francesca Cammarata, Simona Caramia, Viana Conti, Gianmarco Corradi, Marilena Di Tursi, Antonella Marino, Luciano Marucci, Cristina Olivieri, Rita Olivieri, Simona Olivieri, Maria Letizia Paiato, Ilaria Piccioni, Gabriele Perretta, Carla Rossetti, Gabriella Serusi, Stefano Taccone, Maria Vinella, Micaela Zucconi.

ABBONAMENTO SPECIALE PER SOSTENITORI E SOCI da E 300 a E 500 L’importo può essere versato sul c/c postale n. 1021793144 Rivista Segno - Pescara

Distribuzione e diffusione Spedizione in abbonamento postale Poste Italiane S.p.A. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1, Pescara - ROC · Registro degli operatori di comunicazione n. 18524 Edito dalla Associazione Culturale Segno e da Sala editori s.a.s. associati per gli esecutivi e layout di stampa Registrazione Tribunale di Pescara nº 5 Registro Stampa 1977-1996. Traduzioni Lisa D’Emidio e Paolo Spadano. Art director Roberto Sala - Tel. 085.61438 - grafica@rivistasegno.eu. Redazione web Maria Letizia Paiato - news@rivistasegno.eu Impianti grafici e legatura: Publish e Nuova Legatoria (Cepagatti - Pe). Ai sensi della legge N.675 del 31/12/1996 informiamo che i dati del nostro indirizzario vengono utilizzati per l’invio del periodico come iniziativa culturale di promozione no profit.


>anteprima<

Bruce Chatwin, Maria Reiche studia le linee di Nazca in Cile, 1969

VENEZIA

15. Mostra Internazionale di Architettura arà aperta al pubblico dal 28 maggio al 27 novembre, la

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15. Mostra Internazionale di Architettura dal titolo Reporting From The Front – diretta da Alejandro Aravena e presieduta da Paolo Baratta – che formerà un unico percorso espositivo dal Padiglione Centrale (Giardini) all’Arsenale, includendo 88 partecipanti provenienti da 37 paesi, di cui 50 presenti per la prima volta e 33 architetti under 40: saranno presenti tra gli altri Herzog & de Meuron con Amos Gitai, Kazuyo Sejima, Tadao Ando, Norman Foster, Rem Koolhaas, Richard Rogers, Shigeru Ban, David Chipperfield, Grafton Architects, Eduardo Souto de Moura, Atelier Bow-Wow e tra gli italiani studio TAMassociati, con Simone Sfriso curatori del padiglione nazionale, e il gruppo G124 coordinato da Renzo Piano. La Mostra sarà affiancata da 62 Partecipazioni nazionali negli storici Padiglioni ai Giardini, all’Arsenale e nel centro storico di Venezia. 5 i paesi presenti per la prima volta: Filippine, Kazakistan, Nigeria, Seychelles e Yemen. Il Padiglione Italia alle Tese delle Vergini in Arsenale, sarà curato quest’anno da Simone Sfriso. Saranno tre i Progetti Speciali della 15. Mostra: l’esposizione curata dall’architetto Stefano Recalcati, dal titolo Reporting from Marghera and Other Waterfronts, analizzerà nella sede espositiva di Forte Marghera progetti significativi di rigenerazione urbana di porti industriali, contribuendo a stimolare una riflessione sulla riconversione produttiva di Porto Marghera; l’accordo di collaborazione con il Victoria and Albert Museum di Londra troverà un suo primo passo nel padiglione delle arti applicate alle Sale d’Armi dell’Arsenale, con il titolo A World of Fragile Parts, a cura di Brendan Cormier; infine, in previsione della conferenza mondiale delle Nazioni Unite – Habitat III, che si terrà a Quito in Equador nel mese di ottobre 2016, e nel contesto del programma Urban Age, organizzato congiuntamente dalla London School of Economics e

Alejandro Aravena (Cile, 1967)

Vincitore del premio Pritzker 2016. Alejandro Aravena ha conseguito la laurea in Architettura presso l’Università Cattolica del Cile nel 1992 e ha fondato il suo studio nel 1994, progettando principalmente edifici istituzionali. Dal 2001 è Direttore Esecutivo di ELEMENTAL, un Do Tank che lo vede partner insieme a Gonzalo Artega, Juan Cerda, Vìctor Oddò e Diego Torres. Hanno iniziato lavorando a progetti di edilizia a basso costo che, per la sua natura incrementale, richiedeva processi partecipativi. Successivamente il portfolio dello studio ha annoverato progetti di infrastrutture, spazi ed edifici pubblici. Dopo il terremoto e lo Tzunami che hanno colpito il Cile nel 2010, sono stati chiamati ad occuparsi della ricostruzione della città di Constitución dove hanno canalizzato tutte le esperienze precedenti. L’approccio sviluppato in questa occasione si è dimostrato utile anche in altri casi, dove il progetto urbano è stato usato per risolvere conflitti sociali e politici. Attualmente continuano a sperimentare nuovi campi di azione. ELEMENTAL ha vinto il Leone d’Argento per promettenti giovani architetti alla 11. Mostra Internazionale di Architettura – La Biennale di Venezia. 4 - segno 257 | APRILE/MAGGIO 2016

dalla Alfred Herrhausen Society, la Biennale allestirà, sempre alle Sale d’Armi, un padiglione dedicato ai temi dell’urbanizzazione – Report from Cities: Conflicts of an Urban Age - con particolare attenzione al rapporto tra spazi pubblici e spazi privati, curato da Ricky Burdett. Il direttore Alejandro Aravena – che ha frequentato lo IUAV di Venezia e ha vinto il Leone d’Argento alla 11. Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia – racconta così l’idea che sta dietro alla sua Biennale: “In un viaggio attraverso l’America del Sud, Bruce Chatwin incontrò una signora anziana che attraversava il deserto portando una scala di alluminio in spalla. Era l’archeologa tedesca Maria Reiche che studiava le linee Nazca. Viste in piedi sul terreno, le pietre non avevano alcun senso; sembravano nient’altro che pietrisco. Ma dall’alto della scala, le stesse pietre formavano un uccello, un giaguaro, un albero o un fiore.”. Aravena auspica che la Biennale Architettura 2016 offra ”un nuovo punto di vista come quello di Maria Reiche dalla scala. Di fronte alla complessità e alla varietà delle sfide alle quali l’architettura deve dare risposta, Reporting From The Front si propone di dare ascolto a quelli che hanno potuto acquisire una prospettiva e che sono quindi in grado di condividere sapere ed esperienze con noi che stiamo in piedi sul terreno.”. “Questa immagine in parte si contrappone a quella che fu adottata nell’ultima Biennale Arte. Okwui Enwezor – dichiara il Presidente Paolo Baratta – l’anno scorso scelse come simbolo di riferimento il molto famoso “Angelus Novus” di Paul Klee, come interpretato da Walter Benjamin; l’angelo alato che guarda indietro, spaventato, e vede solo il passato e nel passato, rovine e tragedie ma anche illuminazioni che potranno essergli utili domani, nel futuro verso il quale lo spingono occulte forze provvidenziali, come un vento che soffia sulle sue ali.”. «La signora sulla scala che, salendo sui gradini più alti può scrutare un più vasto orizzonte e, così facendo, conquista un suo “expanded eye”, annuncia la Biennale Architettura 2016 curata da Alejandro Aravena, e un po’ rappresenta la Biennale tutta, le nostre attitudini, le nostre finalità.» “Reporting From The Front - spiega Aravena - propone di condividere con un pubblico più ampio, il lavoro delle persone che scrutano l’orizzonte alla ricerca di nuovi ambiti di azione, affrontando temi quali la segregazione, le disuguaglianze, le periferie, l’accesso a strutture igienico-sanitarie, i disastri naturali, la carenza di alloggi, la migrazione, l’informalità, la criminalità, il traffico, lo spreco, l’inquinamento e la partecipazione delle comunità. Propone altresì di presentare degli esempi di sintesi delle diverse dimensioni, dove il pragmatico si intreccia con l’esistenziale, l’attinenza con l’audacia, la creatività con il buon senso.”. “Non è facile – conclude Aravena - raggiungere un tale livello di espansione e sintesi; sono battaglie tutte da combattere. Il rischio sempre incombente di insufficienza dei mezzi, i vincoli spietati, la mancanza di tempo e le urgenze di ogni sorta rappresentano una costante minaccia e spiegano perché così spesso non riusciamo ad assicurare la qualità. Le forze che contribuiscono a dare forma all’ambiente costruito non sono poi necessariamente amichevoli: l’avidità e l’impazienza del capitale; o l’ottusità e il conservatorismo della burocrazia tendono a produrre ambienti banali, mediocri e monotoni. Sono queste le prime linee dalle quali vorremmo notizie da diversi professionisti, condividendo successi e casi emblematici nei quali l’architettura ha potuto, può e potrà fare la differenza.”. Alejandro Aravena (foto profilo Facebook)


>news istituzioni e gallerie< MILANO

Palazzo Reale

Breve storia del futuro saloni di Palazzo Reale ospitano 2050. Breve storia del fu-

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turo, esposizione in cui 46 artisti con 50 opere interpretano il futuro del nostro pianeta. Il percorso di mostra, diviso in 8 sezioni, è articolato intorno a diversi nuclei, liberamente ispirati agli interrogativi sviluppati nel saggio del 2006 di Jacques Attali Breve storia del futuro. A cura di Pierre-Yves Desaive e Jennifer Beauloye, fino al 29 maggio, questi gli artisti: AES+F, Halim Al-Karim, Francis Alÿs, Alighiero Boetti’ Louise Bourgeois, Jennifer Brial, Chris Burden, Edward Burtynsky, Charles Csuri - James Shaffer, Philip-Lorca diCorcia, Al Farrow, Robbert Flick, Gregory Green, Mona Hatoum, John Isaacs, Jean Katambayi Mukendi, On Kawara, Bodys Isek Kingelez, Masao Kohmura - Kouji Fujino, Panos Kokkinias, David LaChapelle, Little Sun, Mark Lombardi, Gonçalo Mabunda, Eva et Franco Mattes, Eugenio Merino, Wilhelm Mundt, Mark Napier, Hans Op de Beeck, Roman Opalka, Gabriel Orozco, Sara Rahbar, Gustavo Romano, Thomas Ruff, Edward Ruscha, Andres Serrano, Tracey Snelling, Wolfgang Staehle, Stelarc, Hiroshi Sugimoto, Mark Titchner, Gavin Turk, Thu Van Tran, Maarten Vanden Eynde, Michael Wolf, Yang Yongliang.

Fondazione Prada

L’image Volée ’image Volée è la mostra collettiva curata dall’artista

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Thomas Demand, ospitata in un ambiente allestitivo progettato dallo scultore Manfred Pernice nei due livelli della galleria Nord e il Cinema della sede della Fondazione Prada. La mostra include più di 90 lavori realizzati da oltre 60 artisti dal 1820 a oggi. L’intento è di indagare le modalità con cui tutti noi ci richiamiamo a modelli preesistenti e come gli artisti hanno sempre fatto riferimento a un’iconografia precedente per realizzare le proprie opere. Il percorso espositivo presenta tre possibili direzioni: l’appropriazione fisica dell’oggetto o la sua assenza, la sottrazione relativa all’immagine o all’oggetto concreto e, per concludere, l’atto del furto attraverso l’immagine stessa. Nella prima sezione sono raccolte fotografie, dipinti e film in cui l’oggetto rubato o mancante diventa corpo del reato, scena del crimine, o evidenzia esplicitamente la propria alterazione. Vi troviamo opere di Maurizio Cattelan, Richard Artschwager, Gerhard Richter, Martin Kippenberger, Pierre Bismuth, Daniel Buren. Nella seconda parte del percorso espositivo si analizzano le logiche dell’appropriazione all’interno del processo creativo, attraverso lavori di Günter Hopfinger, Sturtevant, Asger Jorn, Wangechi Mutu, Haris Epaminonda, Alice Lex-Nerlinger e John Stezaker, Erin Shirreff e Rudolf Stingel, Thomas Ruff, Anri Sala, Guillaume Paris, Henrik Olesen, Sara Cwynar, Mathew Hale, Oliver Laric e Elad Lassry. La terza parte affronta la questione della produzione di immagini che, per loro stessa natura, rivelano aspetti nascosti sul piano privato o pubblico. Scelte per esemplificare queste prassi opere di John Baldessari, Sophie Calle, Christopher Williams, Trevor Paglen. La sezione si chiude con una mostra nella mostra, che riunisce veri dispositivi di spionaggio usati dalla DDR e dall’Unione Sovietica per controllare i propri cittadini: strumenti tecnologici dal design razionale che anticipa quello dei computer e degli smartphone di oggi. L’image Volée è accompagnata da una pubblicazione edita dalla Fondazione Prada che include racconti inediti di Ian McEwan e Ali Smith, saggi di Russell Ferguson, Christy Lange e Jonathan Griffin e interventi di Rainer Erlinger e Daniel McClean.

Hangar Bicocca

Carsten Höller angarBicocca propone, a cura di Vicente Todolí, Doubt,

Lucio Fontana ritratto da Ugo Mulas

Fondazione Carriero

Fontana / Leoncillo Casa Parravicini, sede della Fondazione Carriero, Fon-

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tana – Leoncillo. Forma della materia, a cura di Francesco Stocchi. La mostra prende come punto di partenza la partecipazione dei due artisti alla XXVII Biennale di Venezia, momento di svolta nella ricerca di entrambi. Il confronto conferma la centralità di Leoncillo Leonardi nella storia della scultura, non solo italiana, in un percorso di ricerca denso e tormentato, mentre Lucio Fontana dimostra una radicale volontà di aprire i volumi, superare la materia, costruire intorno al vuoto e fare spazio. Fino al 9 luglio.

The Mall

MIAon Fair la conferma della location di The Mall, torna dal 28

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aprile al 2 maggio MIA Fair, sesta fiera italiana della fotografia d’arte. Ideata e diretta da Fabio Castelli, la fiera evidenzia il ruolo trasversale che la fotografia e l’immagine in movimento hanno assunto tra i linguaggi espressivi dell’arte e del sistema dell’arte contemporanea. 80 le gallerie internazionali presenti con 230 artisti, più una serie di progetti speciali come quello che Lavazza dedica nello spazio del proprio Caffè Artistico alle opere fotografiche provenienti dall’Archivio Mario De Biasi o il progetto espositivo realizzato da Luca Gilli, vincitore del Premio BNL Gruppo BNP Paribas nel 2014, per ICE Yachts. Prosegue l’esperienza di Codice MIA, opportunità per una selezione di artisti di di discutere il proprio lavoro con un panel di collezionisti, curatori, art advisor italiani e stranieri. Conferme e novità, infine, per i riconoscimenti da assegnare: tornano il Premio BNL Gruppo BNP Paribas, ai fotografi che prendono parte alla fiera esponendo con le proprie gallerie di riferimento, e il Premio Archivi “Tempo ritrovato - fotografie da non perdere”, che promuove la riscoperta e la tutela dei fondi che documentano l’attività dei grandi fotografi italiani, contribuendo a preservarne e diffonderne la memoria. Di nuova istituzione il Premio Massimo Gatti (istituito insieme alla galleria Glauco Cavaciuti Arte, intitolato alla memoria del fotografo scomparso nello scorso mese di novembre), per l’artista che verrà ritenuto più meritevole tra quelli partecipanti alla sezione Proposta MIA.

Carsten Höller, Y, 2003 (dettaglio). courtesy l’artista e Thyssen-Bornemisza Art Contemporary, Vienna, foto Attilio Maranzano

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personale di Carsten Höller che si espande attraverso due percorsi speculari e paralleli, che richiedono la partecipazione sensoriale del pubblico: la scelta va effettuata alla prima opera in mostra, Y (2003), per alternare poi lavori che rimandano a esperimenti ottici (Upside-Down Goggles, 1994-oggi) e a quelli legati a una dimensione ludica (Two Flying Machines, 2015; Double Carousel, 2011). La mostra include anche Two Roaming Beds (Grey) (2015) e Yellow/Orange Double Sphere (2016), installazione che interagisce con l’opera di Philippe Parreno Marquee (2015), parte della mostra Hypothesis, precedentemente ospitata in Pirelli HangarBicocca. Fino al 31 luglio. APRILE/MAGGIO 2016 | 257 segno - 5


8 – 10 April, 2016

miart 2016 - international modern and contemporary art fair

fieramilanocity entrance viale scarampo gate 5 pav. 3 - milan www.miart.it

Under the patronage of

online exclusively at artsy.net

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>news istituzioni e gallerie<

miart 2016 “miart è una fiera in cui moderno e contemporaneo dialogano con continui rimandi o con echi più o meno espliciti: un’occasione per riflettere sulla continuità fra passato e presente. miart vuole sottolineare ancora di più questo aspetto e allo stesso tempo lavorare sulla possibilità di sperimentare Vincenzo de Bellis, ph MarcoDeScalzi strategie istituzionali alternative a quelle consuete. L’obiettivo è quello di iniziare un percorso che porti miart ad essere attiva nella produzione moderna e contemporanea durante tutto l’anno e non solo nei tre giorni dell’evento fieristico. miart diventa un collettore di ambiti, strutture ed esperienze variegate in grado, da una parte, di connettere tra loro le specificità che esistono nel tessuto culturale ed economico di Milano, dall’altro, di incubare importanti realtà internazionali”. on questa dichiarazione d’intenti, forte e ben strutturata, si propone la ventunesima edizione di miart, evento fieristico che, negli ultimi tre anni, sotto la direzione di Vincenzo De Bellis, confermato direttore artistico e affiancato da quest’anno nella vicedirezione da Alessandro Rabottini, è cresciuta notevolmente, aprendosi sin da subito al mercato internazionale, senza trascurare la frenesia artistica che, da sempre, connota Milano come capitale italiana dell’arte. Infatti, le sezioni della fiera e gli eventi in città sono pensati e organizzati secondo il principio di “attraversamento”. Un leitmotiv sostanziale, dove discipline diverse si intrecciano e si incontrano originando situazioni inedite e particolari, sostenute dal forte desiderio di intercettare pubblici provenienti anche da altri ambiti, per definire nuovi campi d’azione dell’arte. miart, pertanto come luogo idoneo alla comunicazione

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Le sezioni di miart

Decades, novità di questa edizione, è una sezione all’interno della quale sono inserite 9 gallerie (Blain Southern -London, Studio Guenzani - Milano, Centro Matteucci - Viareggio, Richard Saltoun - London, Galleria dello Scudo - Verona, Sperone Westwater - New York, Christian Stein - Milano – Pero, Michael Werner - New York – London, Wilkinson - London) che propongono un percorso lungo il XX secolo scandito per decenni, finalizzato a valorizzare, in particolare, l’arte storica di qualità, a cura di Alberto Salvadori, direttore del Museo Marino Marini a Firenze. Established raccoglie 99 espositori suddivisi nelle sottosezioni Master, per le gallerie che propongono artisti storicizzati, e Contemporary, dedicata alle gallerie specializzate nel contemporaneo Emergent, sezione dedicata a 16 gallerie internazionali (Acapella - Napoli, Galerie Bernhard - Zürich; Maria Bernheim - Zürich; Car Drde - Bologna; Cøpperfield - London; Bianca D’Alessandro - Copenhagen; Doppelganger -Bari; Ellis King -Dublin; Emalin - London; Ermes-Ermes Roma; FuoriCampo - Siena; garcía galería - Madrid; Gillmeier Rech - Berlin; Hagiwara Projects - Tokyo; Kinman - London; Room East - New York) chiamate a proporre progetti sulla ricerca delle giovani generazioni, selezionate da Nikola Dietrich, Curatrice Indipendente, Berlino. THENnow, 8 coppie di gallerie nelle quali sono messi in dialogo un artista storico e uno appartenente a una generazione più recente, a cura di Jarrett Gregory (Associate Curator of Contemporary Art, Los Angeles County Museum of Art) e Pavel Pyś (Exhibitions and Displays Curator, Henry Moore Institute, Leeds).

tra saperi, come spazio di “scambi” oltre che esperienza culturale fondata sulla base della teoria de “L’Economia delle Esperienze”, un pensiero dove la produzione di beni e servizi è intesa come non più sufficiente, e dove le “esperienze” sono offerte a costituire il fondamento della creazione di valore. miart, infine, come punto di incontro e relazione tra internazionalità, arte e quel business delicatissimo che trasforma la creatività di oggi in cultura di domani. “miart rappresenta un prodotto peculiare e prezioso per Fiera Milano” – afferma Corrado Peraboni, Amministratore Delegato di Fiera Milano –, una manifestazione dove si fondono aspetti importanti come l’arte, l’amore italiano per la cultura, il legame con il territorio e il rapporto con la città di Milano”. Il tema scelto per la campagna di comunicazione di miart 2016 è l’apicoltura che, prendendo spunto dal rapporto tra l’uomo e il mondo naturale e animale, traccia l’identità visiva della fiera stessa, giocando con ironia, ma anche con sostanza, sulla simbologia che lega il mondo delle api, la loro operosità e i processi di produzione e allevamento, e quello dell’arte. Gli apicoltori, che si prendono cura e diffondono la produzione, sono immaginati come i galleristi, i collezionisti e la fiera stessa. Gli alveari, con le loro strutture modulari, sono simili agli stand-favi di miart; il miele, la propoli e gli altri prodotti dell’alveare, sono accostati ai lavori degli artisti che come le api popolano la fiera, infine i collezionisti e gli operatori che si radunano in fiera sono immaginati come api sul miele; e ancora, l’operosità dell’alveare come lo specchio della milanesità e la impollinazione primaverile come il simbolo del risveglio di primavera – the spring awakening – che ormai da quattro anni caratterizza Milano durante la settimana di miart. Gli scatti della campagna, progettati sia in studio sia in ambientazioni outdoor, sono realizzati dalla fotografa Bea De Giacomo in collaborazione con il collettivo Rio Grande (Lorenzo Cianchi, Natascia Fenoglio, Francesco Valtolina) coadiuvati da Mousse, anche quest’anno responsabile della comunicazione visiva e della immagine di miart sin dal 2013. resenti quest’anno a miart, 154 gallerie internazionali rappresentative di 16 paesi: Austria, Belgio, Corea, Danimarca, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, Irlanda, Italia, Norvegia, Repubblica Slovacca, Spagna, Stati Uniti, Svizzera, Uruguay e suddivise, come di consueto in diverse sezioni tematiche.

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In questa sezione: Giovanni Anselmo (Vistamare, Pescara) e Daniel Steegmann Mangranè (Esther Schipper, Berlin); Irma Blank (P420, Bologna) e Maaike Schoorel (Marc Foxx, Los Angeles); Giuseppe Chiari (Armanda Gori, Prato) e Lawrence Abu Hadman (Laveronica, Modica); Pietro Consagra (Tega, Milano) e Luca Monterastelli (Lia Rumma, Milano – Napoli); Florence Henri (Martini & Ronchetti, Genova) e Haris Epaminonda (Massimo Minini, Brescia); Jiří Kolář (Lelong, Paris - New York) e Ibrahim Mahama (Apalazzogallery, Brescia); Gastone Novelli (Galleria dello Scudo, Verona) e NICK MAUSS, Campoli Presti, London – Paris; RIRKRIT TIRAVANIJA, Gavin Brown’s Enterprise, New York e KORAKRIT ARUNANONDCHAI, Clearing, New York – Brussels. Object, sezione formata da una selezione di 14 gallerie (Camp Design Gallery, Milano; Luciano Colantonio, Brescia, Luisa delle Piane, Milano, Dimore Studio, Milano, Erastudio Apartment-Gallery, Milano, Massimo Lunardon, San Giorgio di Perlena, Machado-Muñoz, Madrid, Nero, Arezzo, Nilufar, Milano, O. Roma, Roma, Secondome, Roma, Subalterno 1, Milano, The Gallery, Brussels, Antonella Villanova, Firenze), attive nella promozione di oggetti di design contemporaneo concepiti in edizione limitata e fruiti come opere d’arte, a cura di Domitilla Dardi, Curatrice per il Design, MAXXI Architettura - Museo nazionale delle arti del XXI secolo, Roma

Miartalks

Per la prima volta miart stabilisce una collaborazione con In Between Art Film – la casa di produzione per film d’artista e video sperimentali fondata da Beatrice Bulgari – che ha ideato e trasformato i miartalks in

una piattaforma tematica di discussione e confronto. Chiamati ai tavoli più di 40 artisti internazionali, curatori, film-maker, direttori di istituzioni, produttori e professionisti attivi nel campo delle arti visive e performative per discutere di come le pratiche artistiche timebased stiano ridefinendo i confini dell’arte contemporanea e dei suoi linguaggi, delle istituzioni e del collezionismo, sia pubblico che privato. La curatela dei miartalks 2016 è affidata a Ben Borthwick, direttore artistico del Plymouth Arts Centre (Plymouth, UK), responsabile di un forum cross-disciplinare atto a esplorare il dialogo in continuo movimento tra i mondi dell’arte visiva, del cinema, della musica, del video, del teatro e della danza.

Progetti speciali

La Fondazione Nicola Trussardi e miart con il FAI e il Comune di Milano presentano Sarah Lucas – Innamemorabiliamumbum a cura di Massimiliano Gioni e Vincenzo De Bellis. Durante la fiera, l’artista inglese è la protagonista di un inedito progetto pensato appositamente per l’Albergo Diurno Venezia progettato all’inizio degli anni Venti dall’architetto Piero Portaluppi, chiuso al pubblico dal 2006 e recentemente riaperto grazie all’impegno del FAI e della Delegazione FAI di Milano. All’interno di questo tempio dedicato alla bellezza e alla cura del sé, sculture, installazioni, interventi sonori e performativi diventano il motore trainante di eventi espositivi, performance e happening live concepiti intorno al tema del corpo e della sua rappresentazione. Fotografie, collage, sculture e disegni di Sarah Lucas si fanno teatro dell’ambiguità in cui materiali apparentemente banali si trasformano in oggetti d’affezione che rivelano desideri e pulsioni represse. APRILE/MAGGIO 2016 | 257 segno - 7


>news istituzioni e gallerie< Lisson Gallery

Richard Deacon Lisson Gallery presenta, fino al 29 aprile, la mostra Flat Earth,

prima occasione di collaborazione con Richard Deacon. L’artista britannico espone una serie di sculture a terra in ceramica e di piccoli lavori in legno, di impatto “totemico”. Straordinaria la diversità di media usati, dai più classici legno, marmo, argilla, acciaio, ferro ondulato, a materiali come policarbonato, vinile, schiuma e pelle. Le sue sculture invitano all’interazione fisica, mentre i loro titoli vernacolari contribuicono a creare tensione tra aspetto visivo e contenuto poetico.

Lari Pittman, Senza Titolo, 2000, olio e smalto su legno, cm.241x325 courtesy Studio Guenzani, Milano

Studio Guenzani

Art From LA Lo Studio Guenzani presenta Art from Los Angeles: 1990 -

2010, mostra collettiva con opere di Ginny Bishton, Jennifer Bornstein, Paul McCarthy, Jason Meadows, Catherine Opie, Laura Owens, Lari Pittman e Allen Ruppersberg. Fino al 20 maggio. Richard Deacon, Flat 14 (dettaglio), 2015, gesso bianco smaltato, cm.8x72x47 courtesy l’artista e Lisson Gallery, Milano Siegfried Anzinger, Panchina verde, 2015, tecnica mista su tela, cm.50x64 courtesy Studio d’Arte Cannaviello, Milano

Galleria Renata Fabbri

Luigi Carboni Alla galleria Renata Fabbri arte contemporanea, Passi perduti

passi ripresi, mostra personale di Luigi Carboni. L’artista ha elaborato, per l’occasione, un racconto espositivo in cui pone in discussione il tradizionale confine tra astrazione lirica e figurazione del quotidiano, tra stile decorativo e risultato intimista, al fine di portare l’oggetto pittorico all’essenza profonda del suo essere. Grandi tele a olio e acrilico si affiancano a dipinti di piccolo formato, il bianco e nero è dominante mentre segni e forme mai totalmente integre occupano lo spazio pittorico. In mostra anche sculture, “oggetti nudi” diretta emanazione del processo pittorico. Fino al 22 aprile.

Galleria Morone

La sfida di Aracne La Nuova Galleria Morone presenta La sfida di Aracne RiflesStudio Cannaviello

Siegfried Anziger Lo Studio d’arte Cannaviello inaugura la sua nuova sede, in Piaz-

zetta Bossi 4, con una personale di Siegfried Anzinger. La nuova produzione dell’artista, totalmente inedita per l’Italia si contraddistingue per la forte presenza del disegno e per le campiture simili ad acquerelli dai colori tenui, in contrasto con la pennellata forte, quasi violenta e materica privilegiata negli anni ‘80.

Wunderkammern

JonOne La nuova sede milanese di Wunderkammern ospita Predictably

irrational, personale dell’artista JonOne, newyorkese di origini dominicane che vive e opera a Parigi, figura chiave nel mondo dei street art. Fino al 21 maggio presentate nuove opere di diversi formati realizzate su tela con acrilico e inchiostro appositamente per la mostra. Lo stile unico, a metà tra graffito ed Espressionismo astratto, che scaturisce dalla combinazione di calligrafia, colore e materia pittorica, ne ha fatto uno degli artisti più celebrati in Francia. Da poco insignito della Legion d’onore, la sua opera Liberté, Égalité, Fraternité inaugurata a Palazzo Borbone, sede dell’Assemblea nazionale transalpina.

Galleria Bianconi

Ugo La Pietra In occasione di Miart 2016, la Galleria Bianconi propone la mo-

stra personale di Ugo La Pietra dal titolo Cinque verdi urbani. Articolata in un ricco repertorio di dipinti, disegni, fotomontaggi e sculture in ceramica, l’esposizione è una sorta di summa summarum sul tema del verde urbano, domestico ed extraurbano che l’autore ha sviluppato dal 1980 al 2016. 8 - segno 257 | APRILE/MAGGIO 2016

sioni sul femminile dagli anni ’70 a oggi, collettiva curata da Angela Madesani che indaga i diversi linguaggi della contemporaneità artistica attraverso il lavoro di 18 artiste e un arco temporale di quarant’anni, riflessione sul lavoro di chi ha indagato approfonditamente l’essenza del Femminile. Opere di Mariella Bettineschi, Louise Bourgeois, Silvia Celeste Calcagno, Daniela Comani, Bruna Esposito, Inés Fontenla, Nan Goldin, Meri Gorni, Rebecca Horn, Julia Krahn, Maria Lai, Chiara Lecca, Annette Messager, Shirin Neshat, Gina Pane, Cindy Sherman, Chiharu Shiota, Fausta Squatriti. Fino al 13 maggio. JonOne (John Andrew Perello), La Vida Dulce, 2016 acrilico e inchiostro su tela, courtesy Wunderkammern, Milano


>news istituzioni e gallerie< AREZZO/FIRENZE

aperto che è Piazza della Signoria, altre sono a Palazzo Vecchio, mentre circa 60 opere in bronzo e cera, e una serie di film incentrati su storiche performance dell’artista animano la fortezza medicea.

Galleria Bagnai/Galleria Secci Trasferimenti

La Galleria Alessandro Bagnai ha annunciato il trasferimento in un’altra sede. Il nuovo spazio espositivo è situato in Via della Repubblica, a Foiano della Chiana (ar). Nei locali fiorentini di Piazza Goldoni si è al contempo trasferita la Galleria Eduardo Secci.

BERGAMO

Castello Silvestri Principi di Aderenza

Promossa dal comune di Calcio (bg) e curata da Lorenzo Madaro, la mostra Principi di Aderenze propone opere installative di otto artisti italiani in stretto dialogo con gli spazi di Castello Silvestri, antica dimora che sorge sulle rovine di una villa romana del II secolo d.C. Gli artisti: Bianco-Valente, Daniele D’Acquisto, Michele Guido, Andrea Magaraggia, Marco Andrea Magni, Antonio Marchetti Lamera, Marco Scifo e Giovanni Termini. Dal 24 aprile al 1 maggio.

Luigi Presicce courtesy Galleria de’ Foscherari, Bologna

BOLOGNA

Michele Guido, Filanda garden project, 2011/’13, howea forsteriana, filo di seta, inchiostro, carta da lucido, gesso, forex, multistrato okumè courtesy Galleria Lia Rumma, Napoli/Milano Galleria Z2o Sara Zanin, Roma

BRESCIA

Museo di Santa Giulia Christo Jeanne-Claude

Il Museo di Santa Giulia ospita, con la curatela di Germano Celant, la mostra Christo and Jeanne-Claude. Water Projects. Allestita in collaborazione con l’artista e il suo studio, la mostra presenta per la prima volta i progetti di Christo e Jeanne-Claude legati all’elemento acqua, nei quali gli artisti hanno lavorato in stretta relazione con paesaggi rurali e urbani caratterizzati dalla presenza di mare o lago, oceano o fiume. Oltre 150 tra studi, disegni e collage originali, più modelli in scala, fotografie e video dei progetti realizzati, tracciano una cronologia dei progetti monumentali fin dai primi anni Sessanta, da Wrapped Coast. One Million Square Feet, Little Bay, Sydney, Australia (1968-1969) a Floating Piers (Project for Lake Iseo, Italy) (2014-16), Lago d’Iseo, Italia. Fino al 18 settembre.

Christo, Floating Piers (Project for Lake Iseo, Italy), 2014, collage, matita, pastello a cera, smalto, fotografia di Wolfgang Volz e campione di tessuto, cm.35,5x55,9, courtesy l’artista, foto André Grossmann

Lucio Perone, intervento per Sculture in città 2016, courtesy l’artista

MONTELUPO F. (FI)

Palazzo Podestarile Materia Prima

Materia Prima, la ceramica dell’arte contemporanea è un progetto a cura di Marco Tonelli, organizzato dalla Fondazione Montelupo onlus e sostenuto del Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci di Prato, nell’ambito di Cantiere Toscana Contemporanea. L’evento espositivo si dipana tra le sale di Palazzo Podestarile, dove troviamo una mostra di carattere storico, che si focalizza sull’eredità lasciata da Leoncillo a una serie di scultori - Giuseppe Spagnulo, Luigi Mainolfi, Giacinto Cerone, Giuseppe Ducrot - che come lui hanno utilizzato la ceramica quale strumento per tornare a una materia originaria; una Project Room a cura di Lorenzo Cianchi, con interventi dei giovani artisti Christian Frosi e Diego Perrone, Nero/ Alessandro Neretti, Morgane Tschiember e Irene Lupi; una esposizione a inviti, Sculture in città, con 7 artisti - Ugo La Pietra, Hidetoshi Nagasawa, Fabrizio Plessi, Gianni Asdrubali, Loris Cecchini, Bertozzi & Casoni e Lucio Perone – che hanno lavorato a stretto contatto con artigiani e maestranze locali per ideare opere site specific in ceramica.

Jan Fabre, Globe, 1997 courtesy Angelos bvba, foto Syb’l. S.

Galleria de’ Foscherari Manai / Presicce

Alla Galleria de’ Foscherari, Piero Manai e Luigi Presicce protagonisti di Autoritratto con maschere 1899, a cura di Antonio Grulli. La mostra mette in dialogo il lavoro d i due artisti di generazioni differenti prendendo come spunto iniziale il dipinto del 1899 di James Ensor Autoritratto con maschere, che entrambi gli artisti hanno utilizzato come riferimento per un loro lavoro.

Sedi varie Cheap Festival

L’edizione 2016 del Cheap Street Poster Art Festival, la quarta, in programma dall’1 all’8 maggio, intende raccontare per immagini il tema del “limite”, inteso non solo come confine geografico, ma anche come livello massimo al di sopra e al di sotto del quale si praticano azioni, si vivono emozioni, si innalzano ostacoli e si costruiscono possibilità di cambiamento. Fondamentale il progetto Cheap on Board, che coincide di fatto con la cornice di ogni singola bacheca su cui viene installato il lavoro di un artista selezionato tramite la Open Call (aperta fino all11 aprile) e con il significato variabile che acquisisce il singolo poster quando è inserito in una cornice comune.

FIRENZE

Carlo Alfano, Senza titolo (figura blu), 1985 Forte Belvedere/Palazzo cm. 200x220, courtesy Studio Trisorio, Napoli Vecchio/Piazza della Signoria NAPOLI Jan Fabre I bastioni di Forte Belvedere (antica fortez- Studio Trisorio za medicea), Palazzo Vecchio e Piazza della Carlo Alfano

Signoria ospitano fino al 2 ottobre, le opere di Jan Fabre in una mostra dal titolo Spiritual Guards. L’artista “totale” Fabre si cimenta contemporaneamente in tre luoghi di eccezionale valore storico e artistico presentando un centinaio di lavori realizzati tra il 1978 e il 2016: bronzi, installazioni di gusci di scarabei, lavori in cera e film che documentano le sue performance. Due sculture, Searching for Utopia e The man who measures the clouds (American version, 18 years older), entrano a far temporaneamente parte di quel museo a cielo

Allo Studio Trisorio, fino al 3 giugno, mostra di Carlo Alfano dal titolo La pienezza dell’assenza, con opere di grandi dimensioni realizzate nel decennio 1980 -1990. Costante una tensione a interrogarsi sul significato della rappresentazione, del dipingere e, in senso più filosofico, dell’esistenza. Nei suoi lavori la “temporalità” è intesa come autoriflessione della durata, come ricerca di uno spazio aperto dell’essere che divida il sé dall’altro. Questo tema è affrontato in particolare nei cicli Eco-Narciso, Eco-Discesa e Figure. APRILE/MAGGIO 2016 | 257 segno - 9


>news istituzioni e gallerie< NOVARA

Studio Copernico Chiara Dynys

Il progetto espositivo ideato da Chiara Dynys per Studio Copernico, dal titolo Please don’t Cry, evoca l’attuale dramma della guerra e del conflitto, caro all’immaginario dell’artista milanese che già anni addietro ha realizzato un ciclo di opere sulle relazioni fra Medio Oriente, Oriente e Occidente e lavori fotografici sui campi profughi libanesi di Sabra e Shatila. L’installazione da cui prende il titolo il progetto consiste in una serie di sfere di cristallo (simili alle classiche boule de neije) che offrono protezione alle sagome dei principali Stati attualmente in guerra.

PADOVA

Centro Altinate/San Gaetano Q\uotidiana16

Arte protagonista al Centro culturale Altinate/San Gaetano, fino al 21 maggio, con Q\uotidiana16, programma di promozione e valorizzazione delle esperienze più innovative di giovani artisti emergenti del panorama italiano, offrendo anche occasioni di incontro e dialogo per gli operatori della cultura. Cuore del progetto Q esposizione, mostra collettiva che vede in rassegna 22 artisti under 35, selezionati con un concorso nazionale, curata da Caterina Benvegnù, Letizia Liguori, Elena Squizzato e Stefania Schiavon. Accanto all’esposizione, il ciclo di incontri e seminari Q a parole. Gli artisti selezionati: Amedeo Abello, Daniele Costa, Francesco Del Conte, Pamela Diamante, Chiara Diluviani, Francesca Ferreri, Valentina Furian, Marco Gobbi, Martina Melilli, Mona Mohagheghi, Caterina Morigi, Stefan Nestoroski, Fabio Roncato, Valentino Russo, Miriam Secco, Davide Sgambaro, Michele Tajariol, Valerio Veneruso, Annalisa Zegna, Daniele Zoico e Antonella Campisi.

zione parmigiana Manifattura Urbana, realizza in Piazza della Pace il simbolo del Terzo Paradiso; al Palazzetto Eucherio Sanvitale, l’instant artist Maurizio Galimberti presenta la serie inedita di lavori AriDadaKali 2012-2015, a cura di Benedetta Donato; a Palazzo Pigorini, schizzi, appunti, fotografie e oggetti d’arredo del designer e architetto Vico Magistretti danno vita alla mostra Archivio in viaggio; nella Chiesa sconsacrata di San Ludovico si trovano la video-installazione Opus dell’artista C999 e le fotografie di Erresullaluna.

Galleria Niccoli Artan (Shalsi)

Morbida 120 è l’installazione site-specific creata da Artan (Shalsi) per la Galleria Niccoli. 3 rulli d’acciaio di srotolano invadendo tutto lo spazio espositivo, mettendone in comunicazione i livelli e creando curve di diverse dimensioni e profondità, a volte come un morbido fiocco, altre denunciando la propria metallica natura e creando effetti di luci e ombre grazie alla rifrazione. L’installazione è accompagnata da opere a muro, sempre in acciaio, a volte piegate, altre smaltate, altre ancora grezze, ognuna con una propria riconoscibile “anima”.

ROMA

Palazzo Braschi Mario Giacomelli

Al Museo di Roma Palazzo Braschi, fino al 29 maggio, La figura nera aspetta il bianco, mostra a cura di Alessandra Mauro dedicata a Mario Giacomelli. La grande antologica, prodotta da Fondazione Forma per la Fotografia, in collaborazione con Archivio Giacomelli di Senigallia, propone per la prima volta a Roma un viaggio appassionante nella fotografia di Giacomelli, nella sua intima e profonda poesia e nel suo furore creativo. Circa 200 le fotografie esposte, tra più importanti della sua carriera, tutte in formato originale e autografate. Accompagna la mostra un volume pubblicato da Contrasto.

Daniele Zoico e Antonella Campisi Il cuore di tutte le cose #1, 2015, video, 4’01’’ courtesy gli artisti

PALERMO

Palazzo Reale/Museo Riso Filippo di Sambuy

Doppia presentazione nel capoluogo siciliano per Filippo di Sambuy: tra Sala Gialla e Cortile Maqueda, a Palazzo Reale, l’installazione L’Origine; nella Cappella dell’Incoronazione, Cripta e Loggia del Museo Riso, proposta invece Stupor Mundi. Installazioni visibili fino al 15 giugno, a cura di Giovanna dalla Chiesa.

PARMA

Sedi varie Parma 360

Fino al 15 maggio, dislocato in diversi spazi della città, Parma 360 Festival della creatività contemporanea, evento culturale con un ricco cartellone di mostre, installazioni, fotografia, architettura e design, video arte, realtà virtuale, food design, musica. Tra gli appuntamenti di maggior risalto, Michelangelo Pistoletto, con il coordinamento dell’associa10 - segno 257 | APRILE/MAGGIO 2016

Mario Giacomelli, Da Scanno, 1959 courtesy Archivio Mario Giacomelli, Senigallia

NOW, courtesy Zerynthia e RAM, Roma

Zerynthia/RAM NOW

Zerynthia Associazione per l’Arte Contemporanea ha aperto i suoi spazi a NOW - New Operation Wave, rete operativa internazionale che si occupa di formazione per amplificare la comunicazione tra giovani curatori, artisti e studenti. Allo scopo vengono organizzati incontri in tutta Italia definiti “circolari”, atti a creare luoghi/piattaforme in cui i partecipanti confluiscono e innescano nuovi meccanismi. Parte integrante del progetto è NOW Radio, programma trasmesso settimanalmente (il giovedì alle 22:00) da RAM radioartemobile, che mette anche a disposizione il SAM - Sound Art Museum, archivio sonoro permanente di risonanza internazionale. Ogni episodio propone interviste, tour guidati, incontri, tavole rotonde e progetti artistici, il cui materiale è raccolto dai membri in prima persona e ha carattere spontaneo, variando i contenuti a seconda delle situazioni vissute in questo sistema di connessioni.

Galleria Bonomo Francisco Tropa

Alla Galleria Alessandra Bonomo, Francisco Tropa è di scena con la sua prima personale intitolata Ladri. L’artista, per questa occasione, ha realizzato tutti i lavori ispirandosi alla tradizione dell’antica Roma e medioevale. L’opera che da il titolo alla mostra deriva dal gioco romano Latruncoli, le cui misteriose regole sono arrivate a noi solo in parte. Come nel gioco da cui trae spunto, dove i pezzi potevano rimanere fermi o essere attivati un numero illimitato di volte dai giocatori, Tropa evoca la perpetua dualità tra movimento e staticità, interpretando, attraverso il bronzo, una composizione di natura morta come elemento di scultura mobile. Le Lanterne in bronzo, ispirate alle lampade romane, sono appese al soffitto, illuminano la stanza e gli allegorici “ladri” rubano per un attimo l’attenzione dello spettatore. Mario Giacomelli La figura nera aspetta il bianco, Contrasto, Roma


>news istituzioni e gallerie< TORINO

Castello di Rivara Enrico Iuliano

Luigi Mainolfi, Polveri, 2014/2015 polvere di terracotta su tela, cm.215x195 courtesy Galleria Paola Verrengia, Salerno

Enrico Iuliano mette in scena al Castello di Rivara Museo d’Arte Contemporanea, con la mostra Comingoing, l’impercettibile movimento compiuto dalle opere esposte. Una serie di lavori realizzati tra il 2005/08 in cui vespe e apecar diventano il tramite per lo scorrimento di un fluido rosso che prende le forme del metallo e dei vetri che lo contengono, in un gioco di contrasti cromatici e plastici di notevole impatto visivo. Una grande installazione di oltre sedici metri occupa, inoltre, la sala principale delle scuderie del castello. Fino al 20 maggio.

SALERNO

Galleria Verrengia Luigi Mainolfi

Alla Galleria Paola Verrengia, Luigi Mainolfi con Il colore della Scultura la forma della Pittura, a cura di Lea Mattarella. Due grandi installazioni a parete con due distinti gruppi di opere: Polveri (polvere di terracotta su tela) e Opere in terracotta. Nell’antologia critica dell’artista abbiamo incontrato definizioni che ben si attagliano ai lavori eseguiti negli ultimi tre anni e presentati in questa rassegna: Angela Vettese, a proposito dei Muri del pensiero degli anni ’90 scriveva di “Muri segnati di gocciole, crisalidi….vaganti pensieri”; Danilo Eccher di “confine estremo tra pittura e scultura” e di “impianto pittorico (che) si mescola e si diluisce nell’impasto materico”. Fino al 21 maggio.

SAVONA

Palazzo Tagliaferro Nel Flusso Dell’Opera

Il Centro di Cultura Contemporanea di Palazzo Tagliaferro ad Andora (sv) propone la mostra Nel Flusso Dell’Opera - Slittamenti percettivi e cognitivi, a cura di Viana Conti e promossa dall’Associazione Culturale C|EContemporary Milano. 4 i protagonisti accomunati dal tema del “Quadro”. Gianni Caruo con Il Mito presenta un dialogo con Orfeo ed Euridice, con le miniature pittoriche di nudi proto-manieristi e col tema del labirinto. Davide Coltro, con Divenire Immutabile, espone una “coltura” di luminescenti Arborescenze e le installazioni di Nature morte continue attuando una ricerca, in cui metodo, grafi e algoritmi convivono pacificamente. Pierluigi Fresia propone Azzeramento di Assoluti, in cui “sfonda” lo spazio dell’immagine fotografica sovraimprimendo parole che realizzano un cortocircuito del senso. Clandestine Observations di Alexander Hahn, infine, presenta il video sonoro (alla prima proiezione pubblica in Italia) Cao Chang Di Road, il 24 novembre 2009 Stavo lì in attesa, girato in una atmosfera da cinema thriller all’esterno del luogo di confino di Ai Weiwei.

Enrico Iuliano, Comingoing, 2016, courtesy l’artista

TORINO

Reggia di Venaria Giuseppe Penone

Con la curatela di Carolyn Christov-Bakargiev, alla Reggia di Venaria Anafora di Giuseppe Penone. Nell’ambito della continuità di dialogo con le altre sue imponenti installazioni già presenti ne Il Giardino delle Sculture Fluide (allestito nel 2007 quale prima collaborazione tra il Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea e la Reggia di Venaria), l’artista presenta, alle Grotte del muro Castellamontiano (recentemente restaurate), una nuova serie di sette opere più piccole. Queste nuove sculture rappresentano porzioni di alberi sottoposti a interventi umani forti quali tagliare, falciare, o recintare e costituiscono, nel loro insieme, una “anafora”, una ripetizione dell’intervento originario dell’artista in questi luoghi. Penone è, nello stesso periodo, protagonista anche al MART, nella sede di Rovereto, della personale Scultura, in cui presentate, fino al 26 giugno, opere inedite e significative riletture di lavori storici in stretta relazione con gli ambienti del Museo. Sin dall’ingresso, architettura e scultura si intrecciano esaltando l’una le caratteristiche dell’altra, l’espressività dello spazio e quella della materia, l’esperienza della luce e quella del volume.

Giuseppe Penone, Metamorfosi, 2015. Legno fossile, courtesy Archivio Penone e Reggia di Venaria, Torino

Truly Design, Medusa, Torino, 2011 courtesy MEF, Torino

Museo Fico Programmazione

Quattro interessanti eventi espositivi compongono la proposta del MEF – Museo Ettore Fico per la stagione primaverile. Si parte da Paradisi ritrovati di Ettore Fico, a cura di Andrea Busto, in cui boschi incontaminati, paesaggi collinari, vigneti, pergolati e soprattutto giardini fioriti assurgono a sintesi di un ideale “manifesto programmatico” che trasfigura la natura attraverso una sorta di “astrazione irrisolta”. Florence Henri è protagonista della retrospettiva Fotografie e dipinti 19201960, in cui con un centinaio di opere tra disegni, dipinti, fotografie, fotomontaggi e collage, documenti d’epoca provenienti dall’archivio dedicato all’artista, viene presentato in Italia, per la prima volta in modo sistematico a cura di Giovanni Battista Martini, il suo lavoro pittorico in parallelo con le opere fotografiche. La mostra Figure e luoghi 1930-1959 documenta l’intera produzione pittorica di Renato Birolli, con oltre novanta opere dall’Espressionismo lirico alla ricerca sul colore e sulla luce, oltre che due temi fondamentali della sua indagine: la figura e il rapporto con la natura. A cura di Elena Pontiggia e Viviana Birolli. Infine il MEF, nato dalla riqualificazione di un ex complesso industriale, dedica la mostra Truth depends on where you see it from al al percorso del collettivo Truly Design, che colloca i suoi primi graffiti alla fine degli anni ’90, proprio sulle mura dei ruderi dell’architettura industriale torinese e si affaccia adesso sullo scenario dell’arte contemporanea.

VITERBO

Ex Mattatoio Tra forma e segno Contemporanei 2016

I locali dell’ex Mattatoio ospitano due importanti esposizioni. La prima vede convergere in un unico evento la Collezione di Stato della Repubblica di San Marino e la collezione del fondo comune di investimento Scudo Arte Moderna (per un totale di 70 opere storiche), col titolo 1915-2015 Tra forma e segno. Dipinti da due collezioni d’arte e la curatela di Beatrice Buscaroli. La seconda è intitolata Contemporanea-Contemporanei Duemilasedici. Opere di artisti della Tuscia e vede, divise in 5 sezioni tematiche, opere di artisti come Modigliani, Fontana, Carrà, Rosai, Campigli, Gentilini, Baj, Schifano, Music, Mondino, Cassinari, Morlotti, Boetti, Santomaso, Vedova, Busignani-Reffi, Rotella, Birolli, Tancredi, Dorazio, Castellani, Perilli, Accardi, Cucchi, Chia, Pizzi, Cannella. Un grande acrilico di Keith Haring ricorda, inoltre, l’importante presenza del writer newyorkese in Italia. APRILE/MAGGIO 2016 | 257 segno - 11



>news istituzioni e gallerie< Le attività del PLART, da Napoli a Ferrara uò la produzione industriale essere portatrice di valori estetici? Può esP serci un’arte per la società tecnologica

come in passato c’è stata un’arte per la società artigiana? Questi erano alcuni degli interrogativi sui quali si incentrava, nel dopoguerra, parte del dibattito critico dell’arte e del fare artistico, in merito al quale Giulio Carlo Argan, affermava - nel 1953 - che «Uno degli aspetti più gravi della crisi artistica del nostro secolo è la difficoltà di conservare o ritrovare il rapporto tra creazione artistica e produzione economica». Come storico dell’arte Argan osservava l’evolversi delle nuove disposizioni della ricerca artistica entrando in soccorso di quei linguaggi sospesi tra artigianato, industria, serialità ed estetica: il manufatto di design; elaborandone anche un’etica in Progetto ed Oggetto scritti sul design (1953). Superata pienamente la questione del valore etico/funzionale ed il limite delle classificazioni delle arti - in minori e maggiori -, oggi il mondo del design - come ci sottolinea anche dal versante partenopeo Maria Pia Incutti (una delle “signore” della plastica d’autore, imprenditrice, collezionista e napoletana d’adozione) con la dimensione sperimentale del Plartè animato da questioni incentrare sulla conservazione di questi oggetti/traccia del fluire sempre più veloce dell’esistenza, mappature di differenti rotte socioantropologiche. Quale prolungamento naturale e tappa obbligata della decennale fascinazione per gli oggetti déco che l’imprenditrice napoletana ha sempre subito arricchitasi negli anni settanta, grazie all’amicizia con Lucio Amelio, con un’apertura al collezionismo d’avanguardia - nasce il Plart (2008), museo che persegue l’obiettivo di diffondere e promuovere la cultura e la ricerca scientifica legata ai materiali polimerici, puntando con particolare incidenza alla loro conservazione come Beni Culturali. La raccolta – esposta per la prima volta su invito di Nicola Spinosa a Villa Pignatelli nel 1990 e l’anno seguente al Grand Palais di Parigi - si compone sia di oggetti d’uso comune e di produzione industriale, sia di oggetti d’arredo prodotti in serie limitate - come ad esempio i prototipi dei Multipli della Gufram realizzati in poliuretano espanso tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta -, sia di pezzi unici, con opere di artisti e designer come Lucio Fontana, Enrico Baj, Tony Cragg, Haim Steinbach, Verner Panton, Peter Ghyczy, Eero Aarnio, Michele De Lucchi, Gaetano Pesce, Tom Dixon, Amanda Levete, Sonia Biacchi, Formafantasma, Mischer Traxler, Sander Bokkinga,

RiccardoDalisi, Maurizio Montalti, Marco Galofaro. Un luogo delle meraviglie dove vivere la sollecitazioni delle arti plastiche attraverso un percorso multisensoriale dal titolo Plastiche Alchemiche, composto da installazioni interattive, touch screen, catalogo digitale della raccolta e ambientazioni tematiche; un percorso didattico per conoscere la storia e le applicazioni della plastica, rivolto soprattutto al mondo dei più piccoli. Fiore all’occhiello degli ultimi anni è il Dipartimento di Ricerca e Conservazione del Museo Plart, sotto la responsabilità delle restauratrici Alice Hansen e Antonella Russo; sezione che sottolinea la nuova impresa e l’impegno della presidentessa nel porre attenzione alle problematiche ed alle scienze del restauro delle “plastiche”; e, proprio con l’obiettivo di diffondere e promuovere la cultura e la ricerca scientifica legata ai materiali polimerici, Maria Pia Incutti ed il suo Plart sono stati invitata a partecipare alla XXIII edizione di Restauro-Salone dell’Economia, della Conservazione, delle

Tecnologie e della Valorizzazione dei Beni Culturali e Ambientali, rinomato appuntamento internazionale che si terrà dal 6 all’8 aprile a Ferrara. Durante i giorni ferraresi il Plart presenterà una selezione di oggetti di design della collezione permanente e saranno illustrati i risultati raggiunti dal laboratorio di restauro. Un ulteriore prestigioso motivo per la partecipazione della Fondazione è la presentazione degli atti del convegno Il Futuro del Contemporaneo. Conservazione e Restauro del Design (Gangemi Editore) a cura di Giovanna Cassese, considerato uno degli appuntamento più attesi del Salone. Il convegno, tenutosi a maggio 2015 come uno degli eventi principali nella programmazione del ‘Festival internazionale del design - Tradizione, innovazione e sviluppo sostenibile’, ha prodotto importanti risultati testimoniati dalla fitta rete di collaborazioni intessute sia a livello nazionale che internazionale e dai notevoli livelli di partecipazione di pubblico con caratteristiche trasversali. Raffaella Barbato

APRILE/MAGGIO 2016 | 257 segno - 13



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E T S I L


Photo: Ottomura

New location!

From Discovery to Rediscovery

Fri 22 April – Sun 24 April 2016 Vernissage Thu 21 April www.artbrussels.com Follow us Tour & Taxis #artbrussels

Organised by EASYFAIRS

art brussels


>news istituzioni e gallerie< Robert Sturm

AMSTERDAM

Avery Singer

Lo Stedelijk Museum presenta la prima personale in una sede museale europea di Avery Singer. L’esposizione Scenes offre una completa visuale sul lavoro dell’artista americana tra il 2012 e il 2016, comprendendo la grande installazione presentata in Statements ad Art Basel 2015 (ora parte della collezione permanente del Museo), più una serie di lavori realizzati apposta per questa occasione. Le complesse composizioni spaziali corredate di figure e oggetti astratti, in combinazione con gli effetti trompe-l’oeil, rompono lo spazio pittorico invitando al contempo lo spettatore a “entrare”; uno stile che fonde l’estetica dell’astrazione primo novecentesca con l’attuale mondo digitale.

Alla Johnen Galerie, l’arte di Robert Sturm protagonista di Keramische Plastik 1969 – 1993, esposizione di opere ceramiche che include lavori su carta e materiali d’archivio raccolti dagli anni della formazione come pittore e scultore, passando per il rinnovamento portato dai principi del Bauhaus. Fino al 16 aprile. Ben Judd, Concerning the Difference courtesy l’artista

CANTERBURY

Stories In The Dark

Robert Sturm, Plastik, 1972 courtesy The Estate of Robert Sturm e Johnen Galerie, Berlino, foto Andrea Rossetti

BILBAO

Louise Bourgeois Avery Singer, The Studio Visit, 2012, acrilico su tela, Gnyp Collection, courtesy l’artista e Kraupa Tuskany Zeidler, Berlino, foto Roman März Lars Elling, The Student, 2015, olio su tela, cm.100x100, courtesy Michael Janssen, Berlino

BERLINO

Lars Elling

Il pittore norvegese Lars Elling presenta, da Michael Janssen, 12 lavori creati negli ultimi anni, in una mostra dal titolo Lucid Dreaming. Attraverso le tele,Elling dispiega un ricco spettro di sequenze narrative che formano un universo pittorico transitorio e frammentario. I riferimenti visivi sono fotografici, ma la grammatica è letteraria, in un confronto di linguaggi che articolano temi legati ai ricordi di una infanzia traumatica. Fino al 23 aprile.

Il Guggenheim Museum Bilbao propone, fino al 4 settembre, Louise Bourgeois. Structures of Existence: The Cells. È l’occasione per analizzare in maniera completa le serie Cells, dalla prima alla sesta, dell’artista franco-americana Louise Bourgeois e meglio comprendere uno degli aspetti vitali del suo lavoro, quello più esistenziale e inconscio, che ne permea l’opera rimandando all’infanzia e alle relazioni familiari. Nelle Cells, che si situano tra il lavoro museale, il set teatrale e l’installazione paesaggistica, grazie al doppio simbolismo che rievoca un rifugio, ma anche un luogo di reclusione, convergono aspetti spaziali, formali, psicologici e materici, parlando al visitatore di senso di protezione e conforto, ma al contempo di abbandono e perdita. La mostra, che raccoglie 28 di questi “spazi architettonici emozionali”, è organizzata dalla Haus der Kunst di Monaco di Baviera e curata da Julienne Lorz e Petra Joos. Louise Bourgeois, Cell (The last climb), 2008, acciaio, vetro, gomma, filo e legno, National Gallery of Canada, Ottawa, courtesy The Easton Foundation VEGAP, Madrid, foto Christopher Burke

La Beaney House of Art and Knowledge presenta la mostra collettiva Stories in the Dark. Contemporary responses to the magic lantern, a cura di Ben Judd. Gli artisti si confrontano con la lanterna magica, precursore settecentesco del cinematografo, dando vita a “spettacoli” che donano un incanto dimenticato, trasportato per tematiche e modalità, nel nostro secolo. Agli artisti Jordan Baseman, Adam Chodzko, Benedict Drew, Louisa Fairclough, Dryden Goodwin, Haroon Mirza, Lindsay Seers e Guy Sherwin si aggiungono speciali interventi di Barnyard Productions, Jeremy Brooker and Lamplighters, Ben Judd, David Francis e Joss Marsh, Nicole Mollett e Frog Morris.

DOHA (QATAR)

What About the Art?

I Qatar Museums, ospitano nella Gallery Al Riwaq una grande collettiva dal titolo What About the Art? Contemporary Art from China. L’esposizione è il frutto di una commissione speciale all’artista Cai Guo-Qiang, costata tre anni di lavoro curatoriale e di ricerca. Fino al 16 luglio, in mostra opere di 15 tra i più importanti artisti e collettive cinesi, a esaminare il tema della creatività, spesso tralasciato dalla moltitudine di esposizioni della scena artistica cinese contemporanea, tentando una mediazione tra l’estetica tradizionale e il canone artistico occidentale. Jenova Chen, Hu Xiangqian, Hu Zhijun, Huang Yong Ping, Li Liao, Liang Shaoji, Liu Wei, Liu Xiaodong, Jennifer Wen Ma, Sun Yuan & Peng Yu, Wang Jianwei, Xu Bing, Xu Zhen, Yang Fudong e Zhou Chunya.

Albrecht Schnider

La Galerie Thomas Schulte propone una personale di Albrecht Schnider dal titolo Around and very close. I lavori in mostra esemplificano il personalissimo idioma del pittore svizzero, fatto di forme e colori che oscilano tra astrazione e figurazione, vincinanza e distanza, ridondanza e assenza di significati. Fino al 23 aprile. Albrecht Schnider, Untitled (Song), 2015, smalto acrilico su lino grezzo, cm.37x26, courtesy Galerie Thomas Schulte, Berlino

BONN

The Bauhaus

Alla Bundeskunsthalle, fino al 14 agosto, The Bauhaus. It’s All Design, esposizione che per prima getta uno sguardo d’insieme sul concetto di design del Bauhaus, attraverso un ricco corpus di pezzi di design, architettonici, artistici, filmici e fotografici raramente esposti in precedenza. Lavori di personalità come Marianne Brandt, Marcel Breuer, Ronan & Erwan Bouroullec, Lyonel Feininger, Joseph Grima, Walter Gropius, Enzo Mari, Olaf Nicolai, Open Desk, Adrian Sauer, Oskar Schlemmer.

Jean Tinguely, Große Méta-Maxi-Maxi-Utopia, 1987, cm.810x1683x887, tecnica mista, courtesy Museum Tinguely, Basilea, foto Christina Baur

DÜSSELDORF

Jean Tinguely

Nel venticinquesimo anniversario della scomparsa, il Museum Kunstpalast propone Super Meta Maxi, esposizione dedicata all’opera multisfaccettata di Jean Tinguely, co-fondatore del Nouveau Réalisme e voce tra le più originalidel ‘900. Un centinaio le opere in mostra, spaziando dai lavori più sensuali e gioiosi, alle collaborazioni con colleghi come Daniel Spoerri, Eva Aeppli, Yves Klein, Bernhard Luginbühl e Niki de Saint Phalle. APRILE/MAGGIO 2016 | 257 segno - 17


>news istituzioni e gallerie< ESSEN

Thomas Struth

Negli ultimi anni, Thomas Struth ha fotografato una grande varietà di luoghi, fossero essi parchi tematici, spazi sacri, teatri o istituti di ricerca; al di là dell’essere tutti modellati dalla mano umana, questi posti condividono una grande complessità strutturale. Il corpus di scatti è racchiuso nell’esposizione Nature & Politics, fino al 29 maggio al Museum Folkwang. Con colori accesi e grandi formati, gli scatti rendono omaggio alle capacità tecniche e immaginative del genere umano. La mostra si sposterà, a seguire, al Martin-Gropius-Bau di Berlino, all’High Museum of Art di Atlanta e al Saint Louis Art Museum.

Thomas Struth, Aquarium, Atlanta, Georgia, 2013, courtesy l’artista Natalie Häusler, We are getting a little bit too close here (still life), 2012, stampa digitale su seta habotai, metallo, legno, frutta, dimensioni variabili, courtesy Supportico Lopez, Berlino

GRAZ

Sighs Trapped by Liars

percorso le opere di Art & Language, Nanni Balestrini, Natalie Czech, Michael Dean, Heinrich Dunst, Shannon Ebner, Natalie Häusler, David Jourdan, Alison Knowles, Isabella Kohlhuber, Georg Oberhumer, Ewa Partum, Michael Riedel, Sue Tompkins, Cerith Wyn Evans. Fino al 29 maggio.

HANNOVER

Pierre Huyghe

Allo Sprengel Museum Orphan Patterns, personale di Pierre Huyghe. La mostra è organizzata in occasione del conferimento all’artista francese del Kurt Schwitters Prize 2015. Il percorso espositivo si snoda in dieci sale da attraversare tra apparizioni e sparizioni, evocazioni e sedimenti di esposizioni precedenti. Fino al 24 aprile.

LIONE

Alla Künstlerhaus-Halle für Kunst & Medien Sighs Trapped by Liars - Language in Art. Come esplicito nel sottotitolo, la collettiva è dedicata all’intensa relazione tra linguaggio e arte, rapporto tanto più produttivo quanto più ampio è il periodo preso in esame, oltre un secolo in questo caso, a partire dalle avanguardie fino alle sperimentazioni più recenti. Dai futuristi ai dadaisti, surrealisti e letteristi, fino agli artisti concettuali, il ruolo che il linguaggio ha giocato nel mondo dell’arte è stato sempre più influente passando da strumento, a oggetto dell’esplorazione artistica, fino ad acquisire lo status di media puro e semplice. Ci guidano lungo questo

Autoportraits

L’esposizione Autoportraits, de Rembrandt au selfie è il primo frutto della collaborazione del Musée des Beaux-Arts de Lyon con la Staatliche Kunsthalle di Karlsruhe e la National Galleries of Scotland di Edimburgo. Fino al 26 giugno si analizzano i differenti approcci alla pratica dell’autoritratto dal XVI al XXI secolo, epoca (digitale) in cui la pratica del selfie è divenuta vero e proprio fenomeno di costume. 130 opere (dipinti, stampe, foto, sculture e video), organizzate in 7 sezioni tematiche esemplificano le evoluzioni di stili e tecniche nei secoli.

Brunella Longo

Nelle Terre della Percezione e del Pensiero a cura di Massimo Di Stefano dal 18 marzo al 18 maggio 2016

MAON

MUSEO D’ARTE DELL’OTTO E NOVECENTO www.maon.it Palazzo Vitari, Via R. de Bartolo 1, Rende CS tel. 0984 444113

18 - segno 257 | APRILE/MAGGIO 2016


>news istituzioni e gallerie< Keiji Uematsu

LONDRA

Tate

Tate Britain propone, dal 12 aprile al 29 agosto, Conceptual Art in Britain 1964– 1979. La mostra ripercorre l’itinerario di abbandono degli approcci e idee tradizionali da parte di un nutrito gruppo di artisti, che prorpio di questa rinuncia hanno fatto il cuore della loro ricerca. Tra glia ltri, presenti lavori di Keith Arnatt, Art & Language, Conrad Atkinson, Victor Burgin, Michael Craig-Martin, Hamish Fulton, Margaret Harrison, Susan Hiller, John Hilliard, Mary Kelly, John Latham, Richard Long, Roelof Louw, Bruce McLean, David Tremlett e Stephen Willats. Alla Tate Modern, The Eyal Ofer Galleries ospitano Performing for the Camera. Attraverso le opere di 50 fotografi, la mostra riflette sul rapporto tra performance e fotografia, a partire dai ritratti delle star vittoriane, agli happening degli anni ’60, fino alla mania attuale del selfie. Gli scatti in mostra sono opera di artisti a tutto tondo come Yves Klein e Yayoi Kusama, performer che hanno usato l’arte fotografica come palcoscenico per esibirsi come Francesca Woodman o Erwin Wurm, o personalità complesse che l’anno utilizzata per una profonda esplorazione dell’identità come Cindy Sherman, Hannah Wilke, Marcel Duchamp o Samuel Fosso.

Roelof Louw, Soul City (Pyramid of Oranges), 1967, allestimento all’Aspen Art Museum, 2015 foto Sara Fowler​

Undressed

Il Victoria and Albert Museum propone Undressed: A Brief History of Underwear, mostra che analizza il ruolo che l’abbigliamento intimo ha assunto nel contesto dell’odierno guardaroba, mettendo in risalto l’appeal sensuale e sessuale. Il tutto, com’è ovvio, ponendo l’attenzione sugli aspetti del design, del rapporto con la moda e di come un capo d’abbigliamento valorizzi la bellezza del corpo, la sua naturalezza. Dalla sartoria adatta alle lavoratrici dell’Inghilterra del ‘700 alle recentissime creazioni di designer come Stella McCartney, Rigby & Peller e Paul Smith coprendo lungo il percorso nozioni come il corpo ideale, l’arte sartoriale, la decorazione, il sesso e la moralità. Fino al marzo 2017.

Reza Derakshani

La nuova galleria Sophia Contemporary inaugura i propri spazi espositivi con la mostra The Breeze at Dawn di Reza Derakshani. L’artista iraniano presenta per l’occasione, fino al 23 aprile, i suoi nuovi dipinti, da serie già in corso come Hunting, Pomegranate e Garden Party e dalle serie di nuova creazione come Calligraphy e Blue, alla loro prima esposizione.

Simon Lee Gallery presenta la prima personale nel Regno Unito dell’artista giapponese Keiji Uematsu. Invisible Force ripercorre 45 anni di lavoro concettuale sottolineando invisibili relazioni tra gli oggetti e lo spazio visibile che occupano. In mostra Documenta 6 project drawing, creata per l’edizione di Documenta del 1977; le serie fotografiche Board/Man/ Rope, Vertical Position e Tree Man I, create tra il 1973 e il 2016; Degree-light, foto di una performance che Uematsu svolse nel ‘78 al Performance Art Festival a Beursschouwburg (Bruxelles), ma anche nuove sculture e disegni di grandi dimensioni che mostrano come la dialettica tra visibile e invisibile continui a essere al centro della sua ricerca e come ciò influenzi le generazioni più giovani. Fino al 6 maggio.

Agostino Bonalumi

Cortesi Gallery propone, a cura di Marco Meneguzzo, la mostra I Wish to Meet Architects, dedicata per la prima volta a Londra all’opera di Agostino Bonalumi. L’esposizione comprende 12 lavori storici degli anni ’60 e ’70 come il celebre Bianco del 1969. Fino al 21 maggio.

Maria Bartuszová

Alison Jacques Gallery dedica una ricca esposizione alla scultura dell’artista slovacca Maria Bartuszová (1936 – 1996). Le opere, prodotte tra l’inizio degli anni ’60 alla fine degli ’80, sono in gesso, materiale dalla bellezza innata che acquista, attraverso l’ispirazione tratta dal mondo naturale, la capacità di esprimere gli effetti di forze quali gravità, compressione ed espansione, ma anche sensazioni come movimento ed esitazione. Maria Bartuszová, Folded Figure I, 1965-90, bronzo, cm.20x18,5x13 courtesy The Estate of Maria Bartuszová, Košice

Gabriel de la Mora Jennie Baptiste, Brixton Boyz, 2001 courtesy Victoria and Albert_Museum, Londra Keiji Uematsu, Vertical Position, 1973 stampa in gelatina d’argento, cm.45,4x32,5 courtesy Simon Lee Gallery, Londra/Hong Kong

Timothy Taylor presenta per la prima volta in Europa l’opera del messicano Gabriel De La Mora, artista che ha da oltre venti anni abbandonato l’architettura per dedicarsi all’arte tout court. La personale, Serial, rimarca già dal titolo come la serialità sia al contempo logica produttiva e concetto artistico. Tre le serie di lavori esposte: le prime due composte riutilizzando scarti di caucciù e alluminio, esplorano le varie possibilità della pittura, la terza chiamata Crystals of Inevidence si focalizza sui cristalli (in particolare vetrini da microscopio) e sul gesto ripetuto del marchio pittorico.

LIVERPOOL Reza Derakshani, Hunting The Night dalla serie Hunting, olio su tela, cm.198x224 courtesy Sophia Contemporary, Londra

Biennale

La VII edizione di Liverpool Biennial apre al pubblico, dal 9 luglio al 16 ottobre, in diversi posti della città, dalla Tate Liverpool, al FACT, al Bluecoat e all’Open Eye. Il comitato curatoriale, diretto da Sally Tallant e composto da Dominic Willsdon, Francesco Manacorda, Raimundas Malasauskas, Joasia Krysa, Rosie Cooper, Polly Brannan e Francesca Bertolotti-Bailey, ha annunciato la partecipazione di circa 40 artisti internazionali: Lawrence Abu Hamdan, Andreas Angelidakis, Alisa Baremboym, Lucy Beech, Mariana Castillo Deball, Yin-Ju Chen, Ian Cheng, Céline Condorelli, Audrey Cottin, Koenraad e Dedobbeleer, Jason Dodge, Lara Favaretto, Danielle Freakley, Coco Fusco, Marvin Gaye Chetwynd, Fabien Giraud & Raphaël Siboni, Ana Jotta, Samson Kambalu, Oliver Laric, Mark Leckey, Adam Linder, Marcos Lutyens, Jumana Manna, Rita McBride, Dennis McNulty, Elena Narbutaite, Lu Pingyuan, Michael Portnoy, Sahej Rahal, Hesam Rahmanian, Ramin and Rokni Haerizadeh, Koki Tanaka, Villa Design Group (UK/USA), Krzysztof Wodiczko, Betty Woodman, Arseny Zhilyaev. APRILE/MAGGIO 2016 | 257 segno - 19


>news istituzioni e gallerie< NEW YORK

MoMA

Nel sempre fluido e interessante calendario espositivo del MoMA, alcune le novità primaverili da segnalare: innanzi tutto From the Collection: 1960–1969, riallestimento completo delle gallerie al quarto piano del Museo, per meglio riflettere la ricchezza e la profondità della Collezione. La reinstallazione include lavori come una Jaguar E-Type Roadster (1961), una selezione di scatti di Bela Kolárová Radiogram of Circle (1962–63), Zen for TV di Nam June Paik (1963), F-111 di James Rosenquist (1964–65), Primary Light Group: Red, Green, Blue di Jo Baer (1964-65), il disegno A Heap of Language di Robert Smithson (1966), il poster per gli Yardbirds e i Doors di Bonnie Maclean (1967), Repetition Nineteen di Eva Hesse (1968), un gruppo di lavori relativi a The Continuous Monument: New York Extrusion Project, New York, New York del Superstudio (1969), il film Dream Houses di Nalini Malani (1969) e moltissimi altri. L’atrio del secondo piano ospita, fino al 28 agosto, il Mapping Journey Project realizzato da Bouchra Khalili tra il 2008 e il 2011. L’installazione video multi canale documenta la storia di 8 migranti che raccontano in prima persona le vicissitudini del loro viaggio. Dal 12 giugno al 18 settembre, nelle Paul J. Sachs Prints and Illustrated Books Galleries al secondo piano, Dadaglobe Reconstructed, esposizione che riunisce gli oltre 100 lavori che Tristan Tzara raccolse nel 1921 per la sua grande opera irrealizzata Dadaglobe. A questo ambizioso progetto antologico Tzara aveva invitato ad aderire più di 50 artisti internazionali. La Dunn Gallery, nel secondo piano, ospita fino al 5 settembre Perth Amboy, opera delle dimensioni di una intera stanza di Rachel Harrison. 21 fotografie, sculture, assemblaggi e un labirinto di cartone compongono l’allestimento, prova tangibile di un approccio multidisciplinare alla ricerca artistica. MoMA PS1 presenta la prima personale in una sede museale negli USA dell’artista cinese Cao Fei, i cui progetti multimediali esplorano la realtà delle giovani generazioni cinesi e le loro strategie per sopravvivere o fuggire la difficile routine di una società in rapidissima trasformazione. Accostando estetica pop, gusto surrealista, convenzioni documentaristiche e critica sociale, la riflessione sulla caoticità del presente.

Luigi Ghirri

Matthew Marks Gallery propone The Impossible Landscape di Luigi Ghirri. In mostra 30 scatti a colore storici, realizzati

Gérard Fromanger, En Chine, à Hu-Xian, dalla serie Le désir est partout, 1974 olio su tela, cm.200x300, courtesy l’artista e Centre Pompidou, Parigi, foto Philippe Migeat

tra il 1970 e il 1989, che ritraggono paesaggi italiani, ma ne includono anche di austriaci e francesi. Il titolo trae spunto dal celebre concetto di Ghirri del “paesaggio impossibile, senza scala, senza un ordine geografico per orientarci; un groviglio di monumenti, luci, pensieri, oggetti, momenti, analogie formano il nostro paesaggio della mente che andiamo a cercare anche inconsciamente, tutte le volte che guardiamo fuori da una finestra, nell’aperto del mondo esterno, come fossero i punti di un’immaginaria bussola che indica una direzione possibile.”.

PARIGI

Centre Pompidou

Tra le novità della programmazione primaverile del Centre Pompidou, allestita nella Galerie de photographies, la mostra Les années 1980, l’insoutenable légèreté, a cura di Karolina Ziebinska-Lewandowska. Il ritorno agli anni ’80, elusivi, capricciosi, eccessivi, si compie grazie a sessanta opere di venti artisti, da Karen Knorr a Jean-Paul Goude, da Unglee a Présence Panchounette, Pierre et Gilles, Helen Carrey e Martin Parr. All’apogeo del postmodernismo, la fotografia in Francia ha vissuto in quella decade un periodo cruciale sia dal punto di vista artistico/formale, sia da quello istituzionale. Fino al 23 maggio. Al quarto piano, nella Galerie d’art graphique fino al 16 maggio, mostra dedicata alla ricerca artistica di Gérard Fromanger. 50 lavori, alcuni esposti molto raramente, tentano di abbracciare oltre 5 decenni di vita sociale e culturale: dall’amicizia con Jacques Prévert alla

Cao Fei, Haze and Fog, 2013, C-print, cm.70x105 courtesy l’artista e Vitamin Creative Space, Pechino/ Guangzhou

20 - segno 257 | APRILE/MAGGIO 2016

collaborazione per un cortometraggio con Jean-Luc Godard, dalle silhouette rosse, ai pedoni, alla figurazione narrativa, alla pittura e alla politica.

Alfredo Aceto

La Galerie Bugada & Cargnel propone una personale del giovane artista Alfredo Aceto con il titolo Everyone Stands Alone at the Heart of the World, Pierced by a Ray of Sunlight, and Suddenly It’s Evening. Molte le suggestioni e i rimandi alla base delle opere di Aceto, dalle esperienze di vita alla grande storia dell’arte, partendo dai versi di Quasimodo che costituiscono il titolo della mostra, con il loro carico di solitudine e senso di precarietà. Il discorso appare chiaro fin dalla scelta di Prypiat (città fantasma ucraina, a soli 3 km da Cernobyl), per la sua prima serie di dipinti (2005-2007), tema rielaborato negli anni in collage, acrilici su carta, fotoincisioni su zinco, in scultura (Thinker), fino all’orologio crivellato di proiettili che cristallizza l’interrompersi del flusso temporale e la sospensione dell’esistenza.

Alfredo Aceto, Re-Mental landscapes IV, 2016, piastra di zinco, ferro, ferro, cm.40,5x31,4 courtesy Galerie Bugada & Cargnel, Parigi, foto Martin Argyroglo

Luigi Ghirri, Roma dalla serie Diaframma 11, 1125 luce naturale, 1979 cibachrome, cm.10x16, courtesy Matthew Marks Gallery, New York


>news istituzioni e gallerie< PARIGI

Monumenta 2016

Christian Fogarolli, Leaven, 2015, libri psichiatrici e vetro, dimensioni variabili, courtesy Alberta Pane, Parigi

Christian Fogarolli

La galleria Alberta Pane presenta la prima occasione di collaborazione con Christian Fogarolli. Le opere in mostra in Le monde du ticqueur rappresentano il risultato dell’ultimo anno di ricerca, concentrato su due concetti collegati, ma opposti: la perdita e il recupero, la distruzione della memoria e al contempo la sua rigenerazione. Il lavoro dell’artista trentino si distingue anche perché interessato alla natura dell’identità, studiata da molteplici prospettive e quasi comparabile a una ricerca di archivio. Diversi i media utilizzati, dalla fotografia alla scultura al video, sempre in connessione con discipline e teorie che nel passato hanno dovuto far ricorso all’arte per ottenere il giusto riconoscimento scientifico. Fino al 14 maggio.

Fin dal 2007 Monumenta ha invitato un artista di fama internazionale per la decorazione dell’immensa cupola in vetro (13.500 metri quadri di superficie e alta 35 metri) del Grand Palais, sede della manifestazione che si svolgerà dall’8 maggio al 18 giugno. Anselm Kiefer, Richard Serra, Christian Boltanski, Anish Kapoor, Daniel Buren, Ilya and Emilia Kabakov si sono succeduti in questa sfida. Per Monumenta 2016, Huang Yong Ping crerà una immensa installazione immersiva. Lo spettacolare progetto consiste in una colorata architettura di otto isole, su quali incombe una struttura la cui ombra, attraverso la sua direzione e la sua forma, si unisce a quello dello scheletro metallico della cupola di vetro. In piedi indietro nella centralissima Grande Allée, questa prospettiva permette ai visitatori di apprezzare appieno l’intera installazione e la dimensione della navata, che l’artista sta decorando. Huang Yong Ping, nato nel 1954 in Cina, vive dal 1989 in Francia e rappresenta una delle maggiori figure dell’avangiardia cinese degli anni 80.

Alla Kunsthalle Wien, a cura di Luca Lo Pinto, One, No One and One Hundred Thousand, collettiva ispirata dal celebre titolo pirandelliano (Uno, nessuno e centomila), dal movimento letterario OuLiPo (Officina di letteratura potenziale, che ha annoverato nomi come Calvino e Queneau) e dal motto di Marcel Broodthaers “Ogni esposizione è una possibilità circondata da molte altre possibilità che sono meritevoli di essere esplorate”. Fino al 22 maggio, i visitatori sono invitati a organizzare a loro piacimento i lavori di nove artisti per creare la propria versione della mostra; lo spettatore diventa protagonista, l’esposizione uno spazio di possibilità. Gli artisti: Darren Bader, Jason Dodge, Phanos Kyriacou, Adriana Lara, Jonathan Monk, Marlie Mul, Amalia Pica, Martin Soto Climent, Lina Viste Grønli. Fino all’11 maggio, alla Galerie Frey, personale dell’artista umbra Antonella Zazzera dal titolo The rhythm of light.

Marion Peck

Antonella Zazzera, Armonico CXXXI, 2009-2010, filo di rame, cm.76x48x30, courtesy Galerie Frey, Vienna/Salisburgo

L’artista britannico David Nash presenta alla Galerie Lelong i suoi nuovi lavori, in una personale dal titolo Columns, Peaks And Torso. Dal 19 magio al 13 luglio, pastelli e carboncini si affiancano a sculture in legno grezzo di varie dimensioni e a Tall Torso, grande bronzo ispirato da un tronco d’albero bruciato.

La sede viennese della Galerie MAM ospita Simultaneous, personale di Jean Charles Blais. L’artista francese aggiunge, per l’occasione, ai suoi oggetti/scultura anche dipinti di grande formato, poster e gouache. Fino al 14 maggio è possibile scoprire un repertorio figurativo il cui fascino giace tra gli strati di carta, una polisemia in continua metamorfosi, in ambiguo rapporto tra la superficie dell’opera e la sua profondità.

One, No One and One Hundred Thousand

Marion Peck, The Isle of Joy, olio su tela, cm.46x60, courtesy Magda Danysz Gallery, Parigi

David Nash

Jean Charles Blais

VIENNA

Antonella Zazzera

Magda Danysz Gallery presenta una personale di Marion Peck. Le opere, tutte inedite, in mostra, rappresentano un ottimo lasciapassare per il mondo poetico dell’artista statunitense, punto fermo del movimento Low Brow art/Pop surrealism. Chiari in questi oli, attraverso la tavolozza fatta di colori brillanti e una tecnica inappuntabile, i riferimenti all’arte rinascimentale italiana; del tutto personale è invece il mondo onirico in questione, tra paesaggi di sogno, creature circensi, personaggi dolcissimi e nobildonne altere.

Jean Charles Blais, Sans Titre, 2015 decollage e olio su poster, cm.122x99 cm courtesy MAM, Vienna/Salisburgo

Cabaret der Künstler – Zunfthaus Voltaire courtesy Manifesta 11

ZURIGO

Manifesta 11

Dal 1996, la “biennale nomade” Manifesta ha animato Rotterdam, Lussemburgo, Lubiana, Francoforte, Donostia/San Sebastián, Trentino e Sud Tirolo, Murcia, Genk e San Pietroburgo, coinvolgendo nel complesso oltre due milioni e mezzo di persone, tra visitatori e partecipanti ai vari progetti. Per Manifesta 11 è stata scelta la città di Zurigo. Dall’11 giugno al 18 settembre, a cura di Christian Jankowski, nel Migros Museum für Gegenwartskunst, nel LUMA Westbau / POOL etc., nella Kunsthalle Zürich e nell’Helmhaus arte e mondo delle professioni si compenetreranno per investigare il modo in cui la ricezione dell’opera è influenzata dal fatto che il fruitore sia un professionista dell’arte o no. Il titolo What People Do for Money: Some Joint Ventures, in tal senso, chiarisce tutto evocando l’accostamento degli artisti a vari professionisti locali facendo dell’intera manifestazione un evento di analisi e celebrazione di questo mondo. In omaggio alla storia delle corporazioni elvetiche (in particolare quella degli artisti), l’intero edificio del Cabaret Voltaire (un secolo fa luogo di nascita del movimento Dada) nel distretto di Niederdorf, sarà convertito in casa delle corporazioni (chiusa al pubblico, aperta solo ai membri delle corporazioni) per la preparazione delle performance. APRILE/MAGGIO 2016 | 257 segno - 21


ecologEAST

Arte e natura al di là del muro

Peter Bartoš Imre Bukta Stano Filko Ana Lupas Teresa Murak Gruppo OHO Pécsi Muhely Zorka Ságlová Rudolf Sikora Petr Stembera TOK Grupa Jirí Valoch

con il sostegno di

www.parcoartevivente.it

18 Marzo 26 Giugno

curata da Marco Scotini

Ana Lupas, Humid Installation, 1970 courtesy of the artist and P420, Bologna


>news istituzioni e gallerie< FM Centro per l’Arte Contemporanea, Milano

GLI INARCHIVIABILI ANNI 70 Intervista a Marco Scotini di Elvira Vannini

al 7 aprile è aperto un grande centro per l’arte a Milano, sotto la tua direzione artistica, un complesso D assolutamente unico nel contesto italiano, che guarda ad autorevoli istituzioni internazionali e si articola intorno a uno spazio espositivo, ma anche attraverso una serie di attività, che presiedono alle strutture di ricerca, valorizzazione ed esposizione del sistema dell’arte contemporanea e del suo stesso funzionamento. Qual è la mission di FM Centro per l’Arte Contemporanea? - Hai ragione di dire che la formula di FM è unica nel suo genere. È una neo-istituzione nata da un’iniziativa privata che non ha però dietro di sé dei fashion brands (come è tipico di Milano) ma servizi per l’arte. E dunque, il suo carattere peculiare è quello di non dare come separate tutte quelle funzioni che oggi definiscono il sistema dell’arte contemporanea ma di raccoglierle in un solo polo, consentendo una articolazione diretta e di una molteplicità di ambiti. Lo spazio espositivo di FM c’è sembrato che potesse essere allora la chiave di volta di tutto un sistema che vede gli archivi d’artista assieme alle gallerie commerciali, l’art advisory assieme ai servizi per l’arte, i caveau assieme ai laboratori di restauro, un programma di residenze per artisti e curatori – infine - unito a seminari di formazione promossi con NABA. Per questo l’advisory board di FM vede la partecipazione di direttori di musei internazionali come Vasif Kortun, Charles Esche e Hou Hanru, la curatrice Grazia Quaroni in qualità di responsabile di una collezione come quella della Fondation Cartier di Parigi e uno dei più importanti e raffinati collezionisti italiani come Enea Righi. La stessa mostra che apre il Centro la curo con la collaborazione del collezionista Lorenzo Paini. Dato il carattere sperimentale della formula di FM si tratta di una scommessa che potrà però porsi come nuovo polo dell’arte contemporanea a Milano. In fondo anche la nuova NABA è stata una scommessa all’inizio che, in breve, si è rivelata una vittoria sul campo.

- Parliamo della tua mostra inaugurale L’Inarchiviabile/ The Unarchivable. Italia anni 70. Come hai sostenuto - da almeno un decennio attraverso la tua attività curatoriale - lo statuto dell’archivio assume in sé tutti quei tempi molteplici che la storia non garantisce, anche nell’accezione foucaultiana per cui “non ci è possibile descrivere l’archivio, perché parliamo proprio all’interno delle sue regole, perché è lui che conferisce a ciò che possiamo dire - e a se stesso, oggetto del nostro discorso – i suoi modi di apparizione, le sue forme di esistenza e di coesistenza, il suo sistema di cumulo, di storicità e di sparizione”. L’archivio veicola narrative che non sono mai raccontate una volta per tutte e il passato diventa così

continuamente revocabile. Perché l’Italia degli anni 70 sarebbe dunque inarchiviabile? Qual è il passaggio dalla tua mostra Disobedience Archive all’Inarchiviabile? - Diciamo che L’Inarchiviabile finisce dove Disobedience Archive cominciava. E’ un salto indietro per vedere l’origine di questa nascita della moltitudine sociale e della crisi della Storia lineare. L’archivio è il format che unisce entrambe le mostre ma ne L’Inarchiviabile sono le opere stesse del decennio dei ’70 che hanno la forma dell’atlante, del catalogo, dell’inventario, ecc. Prendiamo il lavoro La Doublure di Paolini che raccoglie molte tele bianche e tutte uguali ma che differiscono solo per un nome scritto nel retro, oppure l’Atlante di Ghirri del ’73, oppure l’archivio di Zona di Nannucci o i Leftover di Baruchello oppure all’archivio di Linguaggio è Guerra di Mauri. La mostra è un concentrato di queste esperienze che arrivano fino al Parco Lambro di Grifi del ’77 che non riesce a chiudere in un film compiuto il girato dell’evento del Festival del Proletariato Giovanile al Lambro. Dunque si tratta di un lavoro che non è un film, ma molti film allo stesso tempo. Proprio quest’opera e questa data rappresentano il momento iniziale di Disobedience. Trovo che l’archivio, per statuto, sostituisca il concetto di Storia e che sostituisca all’idea di presente e passato quella di attualità e virtualità. Dunque una piccola mostra , quella ad FM, ma con grandi ambizioni. - Dunque dall’emersione del general intellect e della moltitudine, alle questioni del gender e alle esperienze del movimento femminista, le opere degli artisti ‘mettono in scena’ una tendenza tassonomica di quello che non può essere archiviato ed è sfuggito, in parte, o secondo la tua risemantizzazzione di questo decennio, alle sue discorsività controverse, a partire dalle linee di fuga. Così le possibilità ma anche le impossibilità enunciative

Vettor Pisani, Lo scorrevole, 1972. Stampa fotografica, plexiglass, ferro, 80 x 120 x 6 cm. Collezione Maramotti, Reggio Emilia

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Anselmo Giovanni, Entrare nell’opera, 1971 tela emulsionata, cm.125 x 180, Collezione Consolandi. La Rocca Ketty, Appendice per una supplica, 1971 tela emulsionata, cm 87,5x125. Collezione Carlo Palli.

Gianfranco Baruchello, Leftover (A scatola chiusa), 1975. Oggetti, materiali diversi, scatola di plexiglass, spago, ceralacca, inchiostro, etichetta, 25x16x4,5 cm, Courtesy Archivio Baruchello

che l’archivio stesso predispone per sua natura, sono ripercorse in mostra, attraverso un dialogo serrato tra linguaggi estetici e produzioni editoriali di tutti quei sistemi (artistici, semiotici, estetici) che hanno immaginato nuove ricombinazioni sociali, enunciati collettivi come eventi, e che trovano le loro condizioni di apparizione e di esistenza proprio in questa impossibilità, o tensione, verso ciò che può essere o che non può essere archiviato: intorno a quali lavori o nuclei tematici si sviluppa la mostra? - L’enunciato collettivo è sicuramente il perno attorno a cui ruota l’intera mostra. L’inizio vuole mettere in scena questa emersione a livello sociale e culturale. Per questo ci sono oltre quaranta

tavole del lavoro straordinario di Fotomatic d’Italia di Vaccari e l’inchiesta Il desiderio dell’oggetto di Ugo La Pietra, assieme a una gigantografia della foto di un sit-in di Uliano Lucas. Segue una sala sull’idea di ‘grado zero’ o di potenziale. Tele che simulano altre tele, foto che riflettono sul medium fotografico come le Verifiche di Mulas. Ma, in particolare, all’ingresso dell’esposizione si trova la porta della galleria Toselli che è diventato un lavoro ben noto di Prini. Un lavoro del ’75, dal titolo“Mostro” che affermava di essere una “esposizione di oggetti non fatti non scelti non presentati da Emilio Prini”. Anche le Verifiche di Mulas vogliono essere foto non scattate. Ma poi c’è uno spazio dedicato alla mensa collettiva con Fabro, Merz e Lucas, uno spazio dedicato all’emersione della donna artista con Maria Lai,

Franco Vaccari, Photomatic d’Italia (Milano), 1973-74. Photostrips collage on cardboard, cm.48x68,5 (ph.F.Tais), Courtesy P420, Bologna

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Luciano Fabro, Iconografia (Berenice), 1975, Collezione Viliani.

Ketty La Rocca, Carla Accardi, Irma Blank e Marisa Merz. Una sala anche dedicata al genere e una al rapporto con il politico. Visto il moltiplicarsi dell’attenzione verso gli anni ’70 italiani, ho voluto fare una mostra diversa, alternativa a tutte le rivisitazioni attuali. Last but not Least, L’Inarchiviabile vuole essere una sorta di risarcimento di tutta quell’esperienza di grande creatività sociale. Per ironia della sorte apriamo il 7 aprile, che è proprio la data dell’inizio dei processi penali con cui venne liquidato tutto quell’incredibile movimento… n

Alighiero Boetti, Insicuro e Noncurante, 1975, artist book, mixed media, 81 pagine, 55x45 cm cad, Collezione E. Righi

Michele Zaza, Dissoluzione e Mimesi, 1974, fotografie, cm. 20x35 cad, Collezione Erminia Di Biase

L’Inarchiviabile/The Unarchivable La mostra include 200 opere di 60 artisti provenienti dalle maggiori collezioni private italiane. Artisti: Carla Accardi, Vincenzo Agnetti, Giovanni Anselmo, Nanni Balestrini, Gianfranco Baruchello, Irma Blank, Alighiero Boetti, Sylvano Bussotti, Marcella Campagnano, Lisetta Carmi, Giuseppe Chiari, Gianni Colombo, Dadamaino, Gino De Domincis, Mario Diacono, Luciano Fabro, Yervant Gianikian & Angela Ricci Lucchi, Luigi Ghirri, Piero Gilardi, Global Tools, Alberto Grifi, Paolo Icaro, Emilio Isgrò, Jannis Kounellis, Ugo La Pietra, Ketty La Rocca, Laboratorio di Comunicazione Militante, Maria Esterno FM Centro per l’arte contemporanea, (Ph. Di Consoli).

Lai, Uliano Lucas, Walter Marchetti, Fabio Mauri, Mario Merz, Marisa Merz, Ugo Mulas, Maurizio Nannucci, Giulio Paolini, Claudio Parmiggiani, Giuseppe Penone, Gianni Pettena, Vettor Pisani, Michelangelo Pistoletto, Emilio Prini, Salvo, Mario Schifano, Aldo Tagliaferro, Franco Vaccari, Franco Vimercati, Michele Zaza, Gilberto Zorio. Collezioni: AGI Verona Collection, Collezione Bianca Attolico, Collezione Barillari, Collezione Guido Bertero, Collezione Sergio Bianchi, Collezione Consolandi, Collezione Carlo Danieli, Collezione Erminia Di Biase, Collezione Koelliker, Collezione La Gaia, Collezione Giorgio Maffei, Collezione Maramotti, Collezione Marinoni, Collezione Carlo Palli, Collezione Giuseppe Pero,

Collezione E. Righi, Collezione Setari, Collezione Gemma Testa, Collezione Viliani. Collaborazione con: Archivio Gianfranco Baruchello, Archivio Gianni Colombo, Archivio Carla e Luciano Fabro, Fondazione Merz, Archivio Ugo Mulas, Archivio Aldo Tagliaferro. Archivi d’artista presenti nel centro: Archivio Dadamaino, Archivio Gianni Colombo, Archivio Ugo Mulas. Gallerie: Laura Bulian Gallery; temporary space: Monitor, P420, SpazioA. FM Centro per l’Arte contemporanea è promosso da Open Care - società del Gruppo Bastogi - unica in Italia ad offrire servizi integrati per l’art advisory, la gestione e la conservazione dell’arte. APRILE/MAGGIO 2016 | 257 segno - 25


MACRO, Roma

Marisa e Mario MERZ di Paolo Balmas

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ntrodurci alla logica segreta che si cela dietro l’impareggiabile scambio creativo prodottosi per più di cinquant’anni fra due protagonisti assoluti dell’arte italiana del 900, questo l’intento principale della mostra che il MACRO di via Nizza ha voluto dedicare, (per la curatela di Claudio Crescentini, Costantino d’Orazio e Federica Pirani), a Marisa e Mario Merz, coniugi nella vita e compagni di strada nello sviluppo di una ricerca che ha avuto sì il suo momento di massima intensità nell’esperienza dell’Arte Povera, ma ha saputo anche evolversi ben al di là dei programmi e dei proclami iniziali. Un’impresa che avrebbe avuto forti probabilità di scadere nel contrario esatto di ciò che la celebre coppia ha sempre inseguito, la vita non evocata ma suscitata dall’opera d’arte, e ci si fosse limitati al mero piano didascalico–documentativo, come pure era lecito fare, tenendo, peraltro, anche conto della scomparsa di Mario avvenuta circa 13 anni fa. Comunque sia il rischio è stato evitato e l’esposizione si snoda nelle sale del museo secondo i modi di un crescendo narrativo e partecipativo che sembra aver trovato il suo volano stabilizzatore nella presenza emblematica di un’opera realizzata proprio per

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Roma nel 2003, in occasione della prima mostra della rassegna “Un Segno nel foro di Cesare” , vale a dire una spirale di luce al neon costruita in base alla serie di Fibonacci che finalmente ha modo di presentarsi in verticale addossata ad una parete, così come era stata concepita inizialmente prima che questioni logistiche e di regolamento convincessero l’autore a preferire una sistemazione a terra. Naturalmente, non essendo mai stati i criteri formali e compositivi della tradizione visibilista il vero principio ordinatore delle opere dei due Merz, la piena e soddisfacente leggibilità dell’attuale esposizione, la sua trasparenza sempre pronta all’affondo conoscitivo, non avrebbe potuto essere soltanto il frutto di una strategia allestitiva particolarmente accorta e sorvegliata, mentre vale semmai il contrario: solo addentrandosi nella effettiva ragion d’essere del loro modo di manipolare il dato concreto e di calcolare la reazione psico-fisica del riguardante diviene possibile rintracciare le possibili modalità di interazione tra i due differenti universi di discorso, i quali va detto subito per evitare aspettative che nulla hanno a che fare con l’ effettivo modus operandi dei due artisti, non sono affatto complementari per vocazione o comunque a priori ma possono diventarlo solo di volta in volta e per consapevole esercizio di mediazione tra autonomie comunque irriducibili. Ma quali sono i principi base cui gli organizzatori della mostra romana sembrano essersi attenuti ? Quali le differenze e quali


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

le compatibilità tra le poetiche di due autori che non hanno mai cessato di vagliare e quasi tastare le loro possibilità di incontro? Per rispondere a questa domanda forse la cosa migliore da fare è proprio ripartire da quella aspirazione comune cui più sopra ci siamo riferiti quasi di sfuggita. Sia l’uno che l’altro sembrano essere interessati più di ogni cosa alla capacità dell’arte di suscitare direttamente una forma di sintonia con l’adesione diretta ed immediata al sentimento della vita che alberga in ognuno di noi, e questo sempre nella maniera meno mediata possibile e più direttamente connessa con l’energia elementare che ci attraversa in quanto esseri viventi e senzienti. Non la contemplazione estetizzante dunque ma la consapevolezza di una sorta di potenzialità originaria da declinare in maniera ogni volta nuova ed ogni volta meglio capace di affermarsi quale attestazione originaria di libertà. Fin qui il dato comune, ma anche a partire da qui le differenze nel demolire le insidie dell’ideologia dominante nascosta anche dietro le più apparentemente innocenti pratiche linguistiche di base. Per Mario Merz queste insidie consistono essenzialmente nell’accettare l’idea che possa esistere uno spazio contenitore neutrale coincidente con la sua pura pensabilità, nel credere che i materiali linguistici già in uso e già conformati ad un codice ampiamente diffuso possano veramente produrre nuove esperienze significative e nel dare per scontato che l’energia trasmessa da un qualsiasi eloborato artistico possa affidarsi alla narrazione visiva intesa come testo che produce insieme sentimento e conoscenza tramite i quali arricchire la propria interazione con il reale. Di qui la sua tendenza a produrre sempre e soltanto spazi agibili dall’uomo in relazione a comportamenti e bisogni primari come abitare, spostarsi in una direzione, proteggersi, prelevare, mostrare, accumulare e via dicendo evitando sempre e comunque di produrre suddivisioni astratte del proprio intorno pronte a conformarsi a strutturazioni gerarchiche e istituzioni discriminatorie variamente giustificate. Di qui anche il suo bisogno di sperimentare il linguaggio visivo a monte del significante, in una zona in cui la materialità e la concretezza dei reperti ambientali hanno ancora delle carte da giocare non per trasformazione degli elaborati già esistenti, ma per puro accostamento delle cose e degli oggetti, delle materie e degli strumenti elementari che in ogni momento è possibile crearsi, fino al limite del puro poggiare, sovrapporre o nascondere. Di qui, infine, la pratica dell’imbrigliamento e della vettorializzazione dell’energia nelle sue manifestazioni palpabili, in una sorta di progressione che va dal rompere, al penetrare, al condensare in un flusso come quello della luce al neon passibile per lui di farsi portatore di valori simbolici elementari ma non riconducibili al principio dell’articolazione puramente differenziale ovvero disponibili alla semiosi arbitraria ed illimitata. Dallo spazio, alla materia all’energia per giungere alla vita comunque sottintesa e rispettata in ogni passaggio. Completamente diverso il percorso seguito da Marisa in quanto per lei il tasto unificante su cui fare pressione sin da subito è sempre stato quello del tempo. E’ il tempo che va preservato dall’aggressione sottile e implacabile dell’ideologia produttivista, che va depurato dall’idea che ne esista un uso necessitato in quanto logico, efficiente, e vincente, al di la delle esigenze, dei bisogni e dei desideri di chi andrà ad abitarlo concretamente, interpretandolo secondo i ritmi di una biologia personale anch’essa non universalizzabile e concettualizzabile nella rigidezza di una prescrizione assoluta.

Se il tempo non è una scansione precostituita di momenti da riempire, ma un succedersi di differenze da osservare, apprezzare e preservare come valori, ecco che l’opera d’arte non avrà più bisogno necessariamente di un palcoscenico su cui apparire, di una serie di repliche da tenere per un pubblico indifferenziato, o di un piedistallo su cui ergersi per simboleggiare un’eternità che tutto è fuorché il contrario della morte. Di qui la sua tendenza a tessere con fili tecnicamente impropri ma simbolicamente persuasivi l’effimero solo apparentemente tale che di volta in volta ha aderito alla nostra persona o rivestito la nostra casa in un succedersi di momenti il cui significato è universalizzabile sì, ma solo in virtù della universalità della dimensione privata, dell’ascolto silenzioso di tutte quelle trasformazioni del sentire che a più riprese ci invitano a indirizzare le nostre energie più profonde verso la rete di affetti, ricordi, sogni e desideri che ci costituisce come individui. Di qui ancora l’attrazione per i materiali che non ci abbandonano mai veramente anche quando l’opera è oramai formata e pronta a distaccarsi dall’artista. Materiali che conservano sempre qualcosa del calore della mano che li ha plasmati, della duttilità con cui ci sono venuti incontro, ma anche della resistenza che ci hanno opposto, il tutto fino al limite della rivalutazione dell’impronta e della traccia non più vissute con angoscia come cancellazione dell’esistenza ma interpretate come primo passo inciso sul terreno da una nuova esistenza. Di qui, infine, la predilezione per una scultura che sembra non essere interessata a produrre volti o corpi ben definiti o portati a compimento ma a cogliere in essi il momento in cui fa la sua prima apparizione un’espressione intensa ma non classificabile tra quelle raccomandate dalla tradizione dell’insegnamento accademico. Volti a cui idealmente vanno ad affiancarsi i più recenti dipinti in cui la superiore bellezza di angeli e di altre figure consimili viene anch’essa privata del suo compimento a favore di una sorta di spacchettamento del segno e del colore che ne ricollega i tratti salienti non più alla sacralità della narrazione religiosa ma alla energia stessa di un cosmo misurato dal gesto di una mano che sembra volersi confrontare con i suoi stessi limiti fisici e dallo stupirsi di un occhio che sogna tra le pieghe di quel territorio indistinto in cui cromatismo della materia e splendore della pittura sembrano essere una cosa sola. n APRILE/MAGGIO 2016 | 257 segno - 27


Fondazione Merz, Torino

BOTTO & BRUNO

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a ricerca artistica di Botto & Bruno è da molti anni un ragionamento espanso sullo stato attuale delle “metropoli globali” e sul rapporto fra individuo e spazio costruito. Il cannibalismo edilizio, l’erosione del paesaggio verde, la proliferazione di archeologie industriali in stato di abbandono, la consacrazione delle periferie urbane a luoghi inospitali e anonimi, sono parte di una riflessione più ampia sulle società ipermoderne e sulle sue rapide e inarrestabili trasformazioni. Pur restando fedele alla sua matrice realista, il lungo flusso di immagini nel quale i due artisti torinesi immettono lo spettatore è, non di rado, una visionaria scenografia abitabile sospesa fra passato e futuro, un resoconto lucido e malinconico di cause e conseguenze che hanno generato la fisionomia del modello attuale di città. La città, anzi le città, che i due artisti torinesi raccontano, sono corpi e luoghi fluidi, privi di centralità e di personalità, teatri abbandonati dalla vita in cui la natura di un verde artificiale rivendica nuovamente il suo spazio. Nella stupefacente installazione site-specific alla Fondazione Merz di Torino, a cura di Beatrice Merz e Maria Centonze, (visitabile fino al 19 giugno prossimo), Botto & Bruno hanno saturato le pareti e il pavimento dello spazio espositivo di affiches fotografiche stampate con inchiostri ecosostenibili che riproducono un immenso paesaggio urbano, una realtà che come ha puntualizzato nel testo in catalogo M. Centonze “si stenta a riconoscere perché sempre diversa e sempre uguale a se stessa”. L’esperienza visiva di questi squarci di degrado diventa interrogazione etica e morale rivolta al nostro presente. Un “grido” di dolore e di speranza rimbalza di frammento in frammento fotografico e chiede attenzione, cura, riflessione. A questo scopo sono adibiti tre luoghi attraversabili dal visitatore: un cilindro gigantesco, posto al centro dello spazio e tappezzato interamente di immagini che mostrano una natura selvatica tornata anarchicamente padrona di porzioni desolate di città. Più in là, aggettante il muro stesso della Fondazione, un muro posticcio dal quale escono parole e frasi che si disperdono sulla parete vera. Infine, una piccola stanza adibita a cinema funziona da luogo di raccoglimento dove è proiettato Botto&Bruno, Society, you’re a crazy breed, 2016. Photo Andrea Guermani

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l’ultimo video realizzato dagli artisti e intitolato Kids world. Questo lungo cut-up muto, unicamente accompagnato dalle musiche composte dagli artisti insieme a Bartolomeo Migliore, ricompone in un corpo unico tre spezzoni tratti da tre diversi film cult della cinematografia contemporanea accomunati da un aspetto, lo sguardo dei bambini sul mondo circostante. È la chiave di lettura dell’intero progetto, la voce più poetica e pura che si solleva dalle rovine del paesaggio, l’unguento che cura le ferite di un tempo privo di memoria. Tre diversi bambini scrutano indifferentemente il mondo naturale e quello costruito delle periferie con occhi stupefatti e inquieti, pieni di speranza e di paura. È un atteggiamento vigile e al tempo stesso un monito che fa da eco alle parole sparpagliate nei diversi punti dell’installazione. La memoria salverà il mondo, poiché la bellezza pare essere stata sfregiata dall’uomo. “Society, you’re a crazy breed” –questo il titolo della mostra – ci appare quindi in ultima analisi come un “dispositivo” di pensiero scandito da interrogativi e parole che appartengono alla biografia privata degli artisti ma anche alla memoria collettiva della comunità globale. È un viaggio fra interno ed esterno, fuori nel mondo e dentro la follia generale del nostro presente. In occasione della mostra a Torino, abbiamo incontrato Botto & Bruno per parlare in modo più approfondito di alcuni aspetti riguardanti il loro ultimo lavoro. D: il vostro immaginario artistico è saldamente ancorato al pensiero della città,delle sue rapide trasformazioni e della sua progressiva disumanizzazione. Quali riflessioni e quali suggestioni entrano in campo nell’elaborazione dei vostri progetti installativi? R: La nostra ossessione sulle città nasce dal fatto che siamo convinti che i luoghi che abitiamo modificano in profondità le nostre vite. Noi ne siamo ben coscienti essendo figli di quei luoghi. Da sempre la nostra lotta è quella nei confronti di una società che vorrebbe farti sentire cittadino di serie b perché sei nato e cresciuto in quei contesti. Non si sceglie il posto dove si nasce e dunque non si ha colpa. Invece di fuggire dalle nostre origini abbiamo deciso di far diventare un punto di forza una cosa che veniva considerata una debolezza. Abbiamo dovuto fare un grande lavoro di ricostruzione della nostra identità e soprattutto dobbiamo lavorarci giornalmente perché quel senso di precarietà non ti faccia scivolare in zone senza via d’uscita.


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Dunque quella forza siamo riusciti a trovarla nel nostro lavoro. D: “Society you’re a crazy breed” è il titolo della stupefacente installazione site specific alla Fondazione Merz, una grande scenografia ambientale in 3D dove lo spettatore/attore può fare esperienza di concetti importanti come disorientamento, assenza di centralità dei luoghi, perdita del senso di radicamento ad un luogo, senso di abbandono. Siamo forse oggi davanti all’atto finale dell’utopia modernista riguardante la costruzione della nuova metropoli? Cosa è andato storto? R: In tutti questi anni di lavoro, durante i nostri viaggi abbiamo avuto la possibilità di registrare i cambiamenti e le trasformazioni sempre più accelerate del paesaggio , quello suburbano in particolare. Quello che secondo noi non ha funzionato è che si è voluto costruire nuove metropoli senza partire dall’identità dei luoghi, azzerandone la memoria. Questo ha provocato una sorta di disorientamento nelle persone che si sono trovate ad abitare luoghi spersonalizzati, con pochissimi servizi ma con la possibilità solamente di consumare oltre il dovuto. L’utopia modernista rifletteva sui pieni e sui vuoti ma in questi territori è stata completamente stravolta in favore della speculazione edilizia che doveva comunque riempire tutti i vuoti lasciati dalle fabbriche dismesse Anche nei progetti più ambiziosi, ad esempio, la percentuale di spazi verdi è risibile in confronto alle muraglie di condomini costruite senza qualità. Eppure tutte quelle zone industriali rase al suolo appartenevano alla collettività ma sono state svendute ugualmente, privatizzate. Ed è per questo che alla Fondazione Merz abbiamo voluto porci e porre questi due quesiti: quello che vediamo alle pareti è quello che rimane di un mondo ormai distrutto e la natura nella cisterna è una visione di un mondo che è stato ed ora non è più? oppure quello sulle pareti è la visione di cosa succederà se non ci si ferma a riflettere sui danni fatti e cercare di cambiare radicalmente l’approccio a quei luoghi e finalmente partire dalla concezione che anche quei territori meritano rispetto e non possono diventare una palestra di continui errori. D: Le periferie sono da sempre al centro della vostra poetica visiva e visionaria. Per voi la periferia corrisponde semplicemente ad un processo di desertificazione architettonica, ad una mancanza di fantasia, a una deriva negativa dello spirito dell’uomo può essere anche una risorsa culturale per il futuro? R: Noi abbiamo sempre pensato che i luoghi periferici sono i primi che registrano i cambiamenti della società, è proprio lì che si capisce cosa ci prospetta il futuro. Siamo convinti che quei luoghi racchiudano in sé delle risorse umane, sociali, creative e culturali come in nessun altro luogo ma purtroppo negli ultimi anni la capacità di far venire fuori questi aspetti è stata soffocata dalla barbarie che il territorio a dovuto subire. In fondo quando Augè dice : La nostra memoria e la nostra identità sono messe in gioco quando la “ forma della città cambia” ha perfettamente ragione. La lenta de-sensibilizzazione delle persone ( di tutta la popolazione) si è venuta a creare perché non si è mai messo in relazione che la distruzione dei luoghi genera una cambiamento virale dell’anima delle persone. Se la periferia viene distrutta e così tutto l’immaginario che essa genera, anche chi vive in luoghi più protetti come

nei centri storici avvertirà dei traumi nei tempo. Se analizziamo bene la parola banlieau letteralmente significa “bandito dal luogo”: dunque è già il linguaggio stesso che crea una divisione e impone una linea di demarcazione netta tra chi è cittadino e chi non lo è in ragione solo del luogo in cui vive. D: Cosa rappresentano nel percorso della mostra ,il grande cilindro aperto e attraversabile, il muro di mattoni aggettante e infine la piccola stanza adibita a cinema? R: Quando ci è stata proposta la mostra abbiamo sentito la necessità di relazionare il nostro progetto alla storia della fondazione ed al quartiere. Nel cortile della ex centrale termica sono visibili a terra le due tracce dei silos di raffreddamento della centrale. Abbiamo immaginato che una di questi riprendesse il suo spazio all’interno della Fondazione e diventasse una sorta di pausa, di luogo meditativo dove la natura si rimpossessa dei luoghi abbandonati dall’uomo. L’architettura presente all’interno del silos

In queste 2 pagine: Botto&Bruno, Society, you’re a crazy breed, 2016

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Botto&Bruno, Society, you’re a crazy breed, 2016. Photo Andrea Guermani

Botto&Bruno, Society, you’re a crazy breed, 2016. Photo Renato Ghiazza

è la fondazione Merz prima della ristrutturazione. Abbiamo voluto creare tre pause, tre elementi tridimensionali che sono i momenti più lirici e poetici della mostra. Il muro di mattoni invece di accogliere macerie accoglie dei fogli stropicciati con dei testi musicali che il vento disperderà in questo paesaggio di macerie. Il cinema Lancia lo abbiamo costruito a memoria ricordandoci il cinema di periferia dove i nostri genitori ci portavano quando eravamo piccoli. Anche in questo caso abbiamo utilizzato la tecnica del collage ma applicata a dei film I 400 colpi (1959) di François Truffaut, Il pane ed il vicolo (1970) di Abbas Kiarostami, Kes (1969)di Ken Loach, in essi abbiamo estrapolato solo le immagini dei bambini ed abbiamo tolto completamente la presenza degli adulti. Sono i bambini che ci guardano, ci offrono il loro sguardo incantato e ci danno la speranza di poter riuscire a cambiare il corso delle cose. D: Tutta la mostra è accompagnata da parole: parole stampate, parole mutuate da brani musicali, da romanzi del nostro tempo, da messaggi di cui siete autori. È forse qui, nella scrittura, che si nasconde una delle possibili chiavi di lettura di questo lavoro alla Fondazione Merz? R: La parola è sempre stata un elemento fondamentale nel nostro lavoro. Non sono mai nostre parole ma è sempre un cut-up di testi musicali o letterari o presi dai giornali. In Society, you’re a crazy breed i testi visibili sulla cisterna che scorrono in verticale sono presi da ‘La mostra delle atrocità’ di James Ballard che già prefigurava uno scenario dove i media avevano mutato la percezione che ognuno di noi ha con l’ambiente circostante. I testi delle

canzoni nei fogli sono presi da gruppi musicali come the Smiths, P.J. Harvey, Nick Cave, Mar Lanegan, Sonic Youth, David Bowie ecc. Ci interessa inserire sguardi e poetiche di altri autori perché ci piace lavorare con un immaginario collettivo, ci interessa creare una narrazione, desideriamo che il pubblico entri dentro l’installazione, che ne faccia parte e che completi l’opera con la sua presenza. D: Colpisce la vs citazione da “rovine e macerie “ di Marc Augè,il cantore dela disarticolazione degli spazi urbani. In quel testo il sociologo francese ricorre al concetto di “memoria” come pratica rigenerativa per l’uomo contemporaneo. C’è una connessione fra i collages esposti nella saletta della fondazione fra ricordo personale, storia generazionale e senso della memoria tout court? R: Si certamente. Volevamo presentare un lavoro pubblico e nello stesso tempo un lavoro più intimo. I nostri libri, le nostre fanzine sono un modo per non dimenticare, un accumulo di memorie che sono per noi fondamentali per riattivare il nostro sguardo sui luoghi. Siamo circondati nel nostro studio da fotografie, riviste, giornali. Abbiamo la necessità di riattivare continuamente la memoria. Ed è per questo motivo che tutta l’installazione è un immenso collage manuale, un tentativo di far dialogare fotografie fatte in tempi e luoghi lontani tra di loro con immagini scattate più recentemente. Il processo di realizzazione è lentissimo, il tempo ci trasforma ed è per questo motivo che la lentezza e la memoria sono due elementi

Botto&Bruno, Society, you’re a crazy breed, 2016

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

inscindibili che diventano le tracce per sviluppare i nostri progetti. D: Come si declina la memoria nel vs lavoro? R: Attraverso un archivio a cui noi attingiamo per ogni nuovo progetto: un archivio fotografico di architetture, cieli, terreni, vegetazioni spontanee, oggetti trovati durante le nostre perlustrazioni fatte camminando. Insieme anche ad un’ archivio di immagini ritagliate da riviste e giornali, a testi musicali, ritagliati, ingranditi e fotocopiati. Per noi è importante che tutte questa raccolta di immagini e testi possano sedimentarsi, è come riaprire certe scatole rimaste chiuse per molto tempo in soffitta, d’improvviso aprendole la memoria si riattiva e riattualizza quello che nel frattempo il tempo ha trasformato. D: Questa mostra segna una maturità linguistica raggiunta in più di vent’anni di lavoro. Fotografia, pittura, installazione, video, musica. Prediligete uno di questi medium o ogni mezzo espressivo è funzionale alla costruzione di un’opera polisensoriale? R: Abbiamo necessità di utilizzare tutti i mezzi che abbiamo a disposizione. Abbiamo solo una linea guida che è quella del collage che può essere applicato alla fotografia, al disegno al video ed alla musica. Abbiamo bisogno di manipolare, decontestualizzare gli elementi che utilizziamo per vederli sotto una luce nuova. In fondo la nostra è una ricerca sulla bellezza nascosta ed è per questo, crediamo, che la realtà per essere compresa debba essere ricostruita, e che questo debba avvenire attraverso un processo lento di allontanamento di tutti i condizionamenti che la nostra visione subisce quotidianamente. n

In queste pagine: Botto&Bruno, Society, you’re a crazy breed, 2016. Photo Andrea Guermani

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Università degli Studi di Salerno, Fisciano (Sa)

Costas Varotsos Spazio, tempo e rito nell’Orizzonte

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fogliando le memorie del mondo, sembra quasi che la radice comune alle civiltà di ogni tempo e luogo sia da rintracciare in quella di un albero: tali erano le sembianze che l’asse di rotazione della Terra vestiva nella mitologia dei popoli d’Oriente, mentre Hindu e Scandinavi credevano che l’Universo somigliasse a un arbusto cresciuto, nello spazio, da un singolo seme; tra i Celti, i Druidi celebravano i loro riti all’interno di querceti, ritenendo tutto ciò che nasce dalle piante emanazione e dono del divino. Ammantato di sacralità, l’albero sopravvive anche nei più prosaici “piantare di maggio”, riti di fecondità legati al risveglio della natura, e durante la Rivoluzione Francese, come vessillo di libertà. Non stupisce, allora, che sia poi diventato suggestione per un complesso progetto espositivo da poco concluso, patrocinato da Expo 2015 – con la collaborazione del Programma Sperimentale per la cultura Sensi Contemporanei dell’Agenzia per la Coesione Territoriale e del MIBACT – e curato da Achille Bonito Oliva: L’albero della cuccagna. Nutrimenti per l’arte è stata molto più di una mostra itinerante; piuttosto il tentativo di aggiornare la cartografia dei luoghi dell’arte italiana, lontano da logiche intrise di vetusti nazionalismi, invitando artisti provenienti da ogni angolo del mondo. L’unica istituzione universitaria a figurare nella mappa è stata Costas Varotsos, Orizzonte Due, 2016. Acciaio e vetro, m 10 x m 34 courtesy: Laboratorio di Storia dell’Arte, Università degli Studi di Salerno.

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quella di Salerno, da sempre attenta e sensibile agli aggiornamenti del linguaggio dell’arte; basti pensare al Chiostro della Pace firmato Cucchi-Sottsass, luogo d’incontri e pause studio, oppure la Furia selvaggia di Umberto Mastroianni, che s’incrocia, insieme alle sculture di altri nomi noti del contemporaneo, tra i pendii del campus. Un unicum, dunque, e tale è anche l’opera che Costas Varotsos ha realizzato per l’occasione e poi donato all’Università, singolare come certi alberi della cuccagna in provincia di Lecco e di Varese, per aver prediletto l’orizzontalità a scapito della consuetudinaria assialità del tema. Orizzonte due – spiega infatti Maria Passaro, ordinario di storia dell’arte contemporanea e responsabile scientifico del progetto – “[…] è orizzontale come sono orizzontali certi alberi della cuccagna di antica tradizione. Quello di Varotsos è un nastro in acciaio ondulato, snello e sinuoso. Strisce di vetro riempiono, come acqua nei vasi, le curve che toccano la terra. L’acqua è un chiaro riferimento alla terra, da cui ogni albero trae alimento. Un’acqua simbolica o nutrimento spirituale, per usare le parole di Varotsos, che raggiunge la stessa altezza nelle due curve, creando, per l’occhio, una linea retta: un orizzonte”. A ben guardare, il progetto dell’artista greco sembra evocare l’albero dei cabalisti medievali: come questo, raffigurato sempre con le radici artigliate al terreno, nasce dalla terra, ricalcando, nell’altalena d’acciaio, la morfologia dei luoghi che l’hanno accolto. Questa prossimità, questa familiarità con lo spazio si ravvisa anche nella stratigrafia vitrea raccolta nelle convessità del nastro, le cui trasparenze riflettono, come rintocchi di un tempo presente, abitudini, umori, piccole ritualità dell’ambiente circostante. E tuttavia, sedimentandosi, la parete liquida arriva


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

a tracciare una linea ideale, un Orizzonte, appunto, che divide e insieme congiunge il mare della storia locale e il cielo delle promesse future. “La dimensione di un lavoro – racconta l’artista in un’intervista con Giorgio Bonomi – dipende sempre dalle relazioni che stabilisce con le altre dimensioni che puntualizzano lo spazio intorno. Non si tratta di dimensioni numeriche ma di dimensioni che nascono dalla stratificazione storica e culturale dello spazio su cui devo intervenire: nella scultura è importante lo spazio intorno e l’energia che riesce a trasmettere, diventando parte della stratificazione storica e culturale del luogo dov’è collocata”. Nella ricerca dell’artista greco, dunque, la crasi tra dimensione spazio-tempo sembra ricomporsi e diventa il timone con cui spingersi oltre le colonne d’Ercole dei generi artistici: Orizzonte due è infatti una scultura, dove però l’idea di unità è completamente rovesciata, in favore di una eterogeneità (di materiale) e frammentarietà (di movimento). È monumento, anche qui nuovo nel suo essere memoria e, insieme, rivelazione del presente e auspicio di futuro; è architettura, in cui, tuttavia, l’elemento strutturale si assottiglia fin quasi perdere la sua tridimensionalità in favore di una costruzione scarnificata, agile, quasi grafica, dove lo spazio da abitare è quello dell’esistenza. Carla Rossetti

Costas Varotsos, Orizzonte Due, 2016. Acciaio e vetro, m 10 x m 34, particolare; courtesy: Laboratorio di Storia dell’Arte, Università degli Studi di Salerno.

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Archivio Agnetti, Milano

Vincenzo Agnetti La Lettera perduta

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on un concorso di attenzione assai notevole, è stata proposta una mostra di Vincenzo Agnetti in concomitanza a quella curata da Bruno Corà, nella nuova sede di Sotheby’s Italia a Palazzo Serbelloni, propiziato anche da un allestimento come sempre impeccabile. Il discorso sulla formazione espressiva di Agnetti, il suo lungo tirocinio, le varie esperienze “esclusive”, dedicate alle analisi del linguaggio, i risultati raggiunti, insomma il giudizio critico è stato impostato da tempo e viene proseguito arricchendosi via via di nuove analisi e nuovi apporti. L’Archivio Agnetti, presentando nello stesso studio dell’artista una serie di lavori prodotti tra il 1976 e il 1980, uniti da un filo conduttore come la performance “La Lettera perduta”, presentata per la prima volta a New York presso la Galleria Feldman e a Palazzo Grassi di Venezia nel 1979, traccia un bilancio di quattro momenti della performance tradotti e resi plasticamente in quattro sculture in ferro, che registrano quattro momenti colti nell’azione dello scatto. Completano l’esposizione alcune opere della serie “Mutamenti”, “Le Stagioni si ripetono” (1976) e i simboli dell “I Ching” (1977). L’allestimento invita ad entrare nell’operare “linguistico” di Agnetti, svelando l’impalcatura concettuale che ne è alla base e lasciando parlare le opere esclusivamente attraverso la loro presenza e il loro organismo. Concetto formale e concetto ambientale si fondono. I colori così grigi e neri si accolgono appieno grazie alla capacità di comunicazione estetica, tra la realtà e il mondo delle cose” affinatosi in lungo volgere di tempo. Ma la memoria non è mai al di sotto del meglio di sé, processo di semplice sedimentazione semiotica. E’ infatti cosa viva, lavorio, attività creatrice. Ed ecco l’incontro con il paesaggio del linguaggio, gli “a-capo della poesia” che identificano immagini, ed ecco il nuovo apprendimento dell’unica cosa, tra parola/immagine e azione che si costituisce come nuovo modo di scandire la sintesi dell’immaginario che si offre. Nei lavori appartenenti al periodo de “La Lettera Perduta” la rappresentazione dello spazio è mediata dai disegni e dalle performance che divengono oggetti geometrici, dal movimento in quiete/del corpo dell’artista, dal campo vuoto lambito nel surplace. Infine il motivo del riflesso palesa, senza apparire (ed è qui la novità), forme di spazio interno, di spazio rovesciato, di anti-spazio solido, la cui conquista non cessa di stimolare la corrispondenza tra reperto fotografico e reperto scultoreo. Diciamo che il viaggio di Agnetti non più attorno ma dentro, quella camera oscura che è il cervello delle forme e delle prospettive – la natura umana, la natura di ogni cosa – di cui le sfaccettature dei protomi dei codici minimi sono l’emblema, procede senza sosta. Ne si deve temere di forzare in senso intellettualistico le ragioni genuine della glossematica visiva agnettiana. Agnetti, si sa, è artista dell’oltre, altamente dotato, che alcuni suoi scritti e dichiarazioni individuano con insolita metaversualità (e aforismicità) i problemi di fondo che il suo tempo, il tempo “dell’arte concettuale malinconica” poneva al farsi della visività. Volendo schematizzare in brevi linee il percorso fin qui compiuto da “La Lettera perduta”, diremo che nell’opera di Agnetti si ritrovano, ora separati, ora in qualche misura fusi, due modi di fare linguaggio. Da un lato l’immagine azzerata, fortemente intrisa di significati eloquenti, suscitatrice di emozioni intense ma piene di “ragion sufficiente”, di stati profondi della coscienza, di idee, di scrittura, di progetti, disposta alla impressività, all’evidenza delle icone, all’analogia degli equilibri compositivi, delle consonanze, dell’unicità stilistica e materica; disposta ai prelievi immediati dagli ambiti dell’intermedialità e delle discipline scientifiche, ivi il confronto con alcune individualità eminenti come Duchamp, Arakawa, Castellani, Manzoni. Dall’altro lato la fotografia performativa, rivolta al mero raccoglimento dell’azione, in uno stato di sospensione dei turbamenti della percezione: impianto equilibrato, armonia del linguaggio, essenzialità estatica della visione; un giudizio, una forma letteraria particolare, sciolto dal banale e dalla mancanza di critica, cui si riconosce la capacità di attingere da solo la ragion d’essere profonda delle cose. Diremmo che il modo suggestivo del “linguaggio sul linguaggio” prevale in diversi lavori e soprattutto in questo ciclo de “La 34 - segno 257 | APRILE/MAGGIO 2016

lettera perduta”, nella quale è frequente l’intrinsecazione diretta di stati di coscienza tipici della scrittura di E. A. Poe in Lacan e di Lacan su commentatori come J. Derrida (atmosfera della perdita, senso di frustrazione del vuoto, mancanza, tensività), frequenza, quindi, di segni e di geometrie simboliche rispondenti (il tema della perdita in atteggiamenti schematici, le azioni scarnite e mutili, l’artista “de-caduto”, i fogli in allerta ad un impossibile ritrovamento, la performance, il teatro dello sparpagliamento, l’intrigo della dispersione, sono alcune delle testimonianze psicofotografiche che si potrebbero citare). Negli altri lavori aggiunti alla mostra prevale, tende a prevalere, rispetto a Kosuth e ad Art & Language, il modo commentativo. Scomparsa quella certa ostentazione della didascalia, l’opera dell’artista iperconcettuale viene ora raccogliendosi in misure più personali e analizzate, in un esigenza di compiutezza, di ordine, di euritmia orientale, di impassibilità zen, a un grado per l’addietro sconosciuto o forse realmente perso. “La lettera rubata” di E. A. Poe, in passato, ha avuto un celebre esegeta: Lacan! Il Seminario del ‘56 apriva la sua raccolta di Ecrits. Attraverso questo racconto, Lacan, ha illustrato come i significati non siano che variazioni individuali in cui il dispositivo è dato dall’ordine del significante: lo spostamento della lettera, determina i soggetti, i loro atti e i loro destini e nessuno è in grado di sottrarsi ad essa. Ebbene, credo che tale interpretazione sia integrativa alla concettualità visiva di Agnetti, rispetto all’intrinseco significato che dalla Galleria Feldman sarà poi ripetuta in altre sedi, una sceneggiatura che porta con se non solo i segni dell’I Ching e le foto di Alberto Izzo, ma la volontà determinante di Agnetti stesso, del suo incedere che procede nello spazio, poi inciampa e cade spargendo tutte le “lettere-letteratura”(le amate lettere) a terra intorno alla sua stessa presenza, intorno al suo stesso profilo. La preoccupazione dell’artista oltre la logica Poe/Lacan sta al di là della definizione dei movimenti umani e dei cambiamenti che questi determinano, si spinge al di là delle azioni, reazioni, impatti e transizioni. Con straordinaria lucidità e un fare che tende a desistere quasi tutto lo scopo della “ragione poetante o dissolvente”, Agnetti si lancia nell’impresa di analizzare la sua condizione di artista, prendendo dall’occasione della “perdita” tutto lo statuto dell’arte analitica stessa, sia nella stagione concettuale che in tutta l’eredità dell’avanguardia nella neo-avanguardia, quella che proclama un ritorno-critico al “vero” Freud. E ben presto si giungerà, seguendo il suo percorso, al punto cruciale: il sovrapporsi del luogo paradigmatico della verità dell’arte o dell’enigma artistico a quello – come noto assai temibile e scivoloso per la critica – dell’identità stessa della “pratica artistica”. L’arte come la pratica analitica è una forma di pensiero che trova nelle divisioni il proprio oggetto e la propria logica minimale. Il soggetto è diviso, la mente è divisa (e non semplicemente frazionata e moltiplicata), l’opera stessa e quindi la sua pratica è separata: quest’idea ha reso possibile la costruzione di uno straordinario insieme di strumenti e di tecniche, ma i suoi effetti estetici non sembrano ancora sufficientemente promossi. Gabriele Perretta

Agnetti, Lettera perduta, 1979


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

A Arte Invernizzi, Milano

L’occhio cinematico Arti visive e cinema - Oltre la soglia del visibile di Simona Olivieri

a mostra alla galleria A Arte Invernizzi, L’occhio cinematico a cura del regiL sta cinematografico e filmmaker Francesco

Castellani indaga - secondo la sua visione sulle possibili affinità concettuali e sui possibili dialoghi tra arti visive e cinema. Come spiega il curatore durante l’inaugurazione, il terreno è vasto e complesso e in questa mostra ha provato a circoscriverlo utilizzando come elementi d’indagine quelli propri del linguaggio cinematografico. Fotogramma, campo e fuoricampo, luce, piano sequenza. La scelta delle opere in mostra si è basata sulla ricerca di queste connessioni, di queste relazioni profonde e, non solo formali, tra questi due linguaggi. Il progetto di Castellani parte dal rapporto tra campo e fuoricampo. Il fuoricampo - nel linguaggio cinematografico - è la dimensione dell’oltre inquadratura, di tutto ciò che non è dato vedere perché non è compreso nei limiti del frame / immagine / fotogramma. Dare forma a ciò che si muove al di là del visibile, oltre il tempo e lo spazio di un singolo frammento di racconto, è dare forma. ai sentimenti, al sentire, all’esserci e molto altro ancora. Anche nel rapporto che si crea tra il quadro come elemento spaziale fisico di limitazione dell’espressione nelle arti visive entra in gioco la relazione con questi due elementi. Artisti e registi - presenti in mostra - partono da qui, dall’inadeguatezza dello spazio a disposizione. Dalla necessità di non poter più raccontare e rap-

presentare solo ciò che si vede ma che bisogna provare a spingere la propria poetica / il proprio guardare oltre la soglia di questo visibile. In questa dialettica tra campo e fuoricampo gli artisti scelti operano convinti di non poter esaurire le risposte nei confini limitati e ingannevoli di ciò che si vede / sente / appare e nella rappresentazione del reale e spingono così lo sguardo oltre il confine, oltre la superficie delle cose. Oltre il tempo e lo spazio tradizionali. Il percorso all’interno della mostra si articola sui due piani della galleria in tre piani sequenza - altro elemento del linguaggio cinematografico - con l’intento di offrire allo spettatore un continuum fluido e lineare nella visione delle opere, proprio come nel cinema dove il piano sequenza identifica una dinamica di continuità narrativa non interrotta da tagli di montaggio. Un movimento naturale dello sguardo che passa da un’opera all’altra e quindi vissute dallo spettatore come un’immersione totale nella poetica di un artista coerente con la poetica successiva che sta per emergere. Nella sala grande, al piano superiore, il primo piano sequenza coinvolge opere che dialogano con il fuoricampo, aperte e sospese sull’invisibile. Al centro della sala si trova l’opera di Nicola Carrino (Costruttivo I/69 C, 1975. Percorso dinamico 4.4, 2016) scultura / architettura in continuo movimento e trasformazione dello spazio che mette in relazione le altre opere di

(da sinistra a destra) François Morellet, Cruibes n°16, 2013. Neon bianco e acrilico su tela su legno, 212x212 cm; Riccardo De Marchi, Senza titolo, 2015. Alluminio, pittura e buchi, 200x200 cm; Gianni Colombo, Strutturazione pulsante, 1959. Polistirolo espanso, gommapiuma, legno, animazione elettromeccanica, 78x140 cm; Niele Toroni, Impronte di pennello n. 50 a intervalli di 30 cm, 2015 Carta; Nicola Carrino, Costruttivo 1/69 C, 1975. Percorso dinamico 4.4, 2016 Ferro, 16 moduli scalari di 30x30x30 cm ciascuno. Veduta parziale dell’esposizione A arte Invernizzi, Milano. Courtesy A arte Invernizzi, Milano Foto Bruno Bani, Milano

questa sequenza. Enrico Castellani (Superficie bianca, 1990), François Morellet (Cruibes n. 16, 2013), Riccardo De Marchi (Senza titolo, 2015), Gianni Colombo (Strutturazione pulsante, 1959) e Dadamaino (Volume a moduli sfasati, 1961) dimostrano come il quadro, limite del supporto sul quale lavorano, sia la soglia da superare verso la rappresentazione del fuoricampo, di ciò che sta oltre la soglia del visibile. Le ripetizioni di moduli, dei pieni e dei vuoti, la luce che incide con vibrazioni tangibili, l’uso di monocromi sono gli elementi per superare la logica della pittura classica. Sguardo e movimento possono prolungarsi nel tempo oltre e le convenzioni per creare nuovi dialoghi. Suggestioni. Sono scritture che si mettono in relazione. Sono architetture / forme che costruiscono e ridefiniscano lo spazio. Nella sala successiva, il secondo piano sequenza, è dedicato all’opera di Niele Toroni (Impronte di pennello n. 50 a intervalli di 30 cm, 2015) che prende forma sulle pareti. Anche in questo caso un modulo, impronte arancioni di pennello che si susseguono, in progressione. Il tempo / ritmo che definisce e scandisce lo spazio. Il gesto dell’artista che scandisce il tempo e il ritmo dello sguardo. L’opera di Michel Verjux (Contre-plangée traversante, à l’escalier (source au sol), 2015) si pone come raccordo tra le tre sequenze, le unisce idealmente in una continuità del sistema di visione. Al piano inferiore, il terzo piano sequenza, dove sono proposte opere che raccontano del tempo e del movimento in una successione che va da Alan Charlton (24 Horizontal parts, 2010) a Pino Pinelli (Pittura G, 2003), da Lesley Foxcroft (Standpoint, 2015) a Carlo Ciussi (Senza titolo, 2006) per finire con Mario Nigro (Dalla metafisica del colore: i concetti strutturali elementari geometrici, Ettore e Andromaca, 1978). Forme visibili dell’invisibile, elaborazioni cromatiche, plastiche, di un universo sempre in movimento, nel quale chi osserva è parte del tempo dell’opera. Rigore, ripetizione, forme geometriche essenziali - linee, rettangoli, croci, quadrati, … - dove il dipingere è l’atto essenziale, la dichiarazione poetica, la scelta espressiva. Sequenze di moduli. Un fotogramma alla volta. Che, lette in maniera progressiva, creano il corpus dell’opera. Moduli danzanti nello spazio della parete, geometrie in movimento. Dove lo spazio espositivo è coinvolto in modo attivo per completare l’opera. n Sopra il titolo: Mario Nigro, Dalla metafisica del colore: i concetti strutturali elementari geometrici, Ettore e Andromaca, 1978. Acrilico su tela, 178x68 cm ognuno. Qui sotto: Michel Verjux, Contreplongée traversante, à l’escalier (source au sol), 2015. Proiettore. Courtesy A arte Invernizzi, Milano Foto Bruno Bani, Milano

(da sinistra a destra) Alan Charlton, 24 Horizontal parts, 2010. Acrilico su tela, 211,5x319,5 cm; Pino Pinelli, Pittura G, 2003. Tecnica mista, 180x700 cm. Veduta parziale dell’esposizione A arte Invernizzi, Milano Courtesy A arte Invernizzi, Milano Foto Bruno Bani, Milano

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Galleria Tega

Pietro CONSAGRA

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a mostra che la Galleria Tega dedica all’opera di Pietro Consagra è l’omaggio ad un artista, la cui figura è considerata centrale nel panorama non solo della scultura italiana, ma internazionale. Nonostante ciò, molti degli aspetti più attuali del suo lavoro sono, ad oggi, ancora da indagare. . Costituiscono il corpus della rassegna circa trenta opere di medie dimensioni che datano dalla seconda metà degli anni Cinquanta fino alla fine degli anni Sessanta: spesso modelli di realizzazioni più imponenti dei Colloqui frontali e dei monocromi Ferri trasparenti o sculture a carattere minimale, come gli Inventari, che transitano sulle pareti come in uno spazio infinito, in un non luogo. L’uso di materiali diversi, le incursioni sempre più frequenti nella progettazione di stampo architettonico – seppur da un punto di vista prettamente scultoreo – fino alla varietà delle composizioni su un impianto formale ben definito, dimostrano come Consagra abbia saputo incidere sul dibattito interdisciplinare in maniera del tutto personale, con risultati e considerazioni teoriche tutt’altro che scontate e, anzi, oggi di piena attualità. L’artista è stato infatti capace di rispondere alle variazioni dello “spirito del tempo” con soluzioni formali sempre coerenti. Se da un lato è infatti rimasto fedele a un proprio assunto iniziale – su tutto la frontalità dell’opera - dall’altro Consagra è stato capace di immergersi nel mutevole dibattito che, in quegli stessi cruciali decenni del XX secolo, ha visto l’arte passare dalla piena Modernità alle inquietudini post-moderne. Tutto questo ed altro ce lo spiega Marco Meneguzzo, che della mostra è il curatore, nel magnifico testo pubblicato nel volume che la accompagna. “Egli - scrive tra l’altro Meneguzzo - percepisce velocemente il nuovo, che avanza sotto forma di superfici estroflesse (cosa Pietro Consagra, Ferro trasparente bianco, 1966 ferro dipinto, 65,4x38,3x3,5 cm

Pietro Consagra, Ferro trasparente verdino, 1966 ferro dipinto, 54,5x44,2x1 cm.

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

che non dovrebbe avergli dato troppo fastidio…), di Arte Programmata e Concettuale, ma anche e soprattutto attraverso la Pop Art, che stravolge il mondo dell’arte mostrando il mondo così com’è e non come dovrebbe essere: dopo tutto, Roma – dove vive – è la capitale italiana della Pop e questa presenza non può che ingenerare conflitti e confronti … Consagra si confronta con la Pop, certamente non la adotta, ma comprende che l’orizzonte è cambiato: non è l’orizzonte degli oggetti che gli interessa – come accade per la Pop -, ma una percezione più generale del presente, della realtà, fatta ad esempio di colori e materiali nuovi, che negli anni Sessanta celebrano l’avvento della plastica, e con essa un nuovo paesaggio, fisicamente, visivamente ed emotivamente più “leggero”. E’ una condizione cui Consagra si adegua con un “coup de theatre” che è molto di più di un accorgimento scenografico, e va a toccare lo sviluppo del suo linguaggio, e anche quello della scultura tout court. Quando lo scultore inserisce, attorno al 1965/66, il colore a smalto nelle sue opere, trasforma l’idea di scultura, risponde perfettamente al nuovo paesaggio degli anni Sessanta, ma non abdica a ciò che aveva costruito nel decennio precedente. Questo sviluppo, infatti, fatto di colori acidi, di lamiere ancor più sottili – quasi sempre ferro, ora -, di lucentezze da carrozzeria non è estraneo al linguaggio precedente, anzi, non è estraneo al nucleo del suo linguaggio, che rimane la frontalità, e di cui tutto il resto – materiali, dramma, chiarezza, eccetera – non è che un corollario. Ora, con queste opere straordinariamente nuove e al contempo radicate in un pensiero forte, Consagra inizia il suo viaggio d’esplorazione dei confini del suo linguaggio, arrivando – con le “sottilissime”, dal 1969 – a provare sculture più sottili di una tela, di un foglio di carta, eppure “sculture” a pieno titolo, oppure a indagare quell’altro versante, opposto, dell’architettura, anch’esso insito nelle potenzialità del suo linguaggio originario. A questo proposito, un aggettivo nascosto qualche paragrafo sopra dà il senso a quest’altro polo della sua ricerca: l’aggettivo è “costruttivo”, sia nell’accezione storica delle Avanguardie, sia nel più vasto significato così legato all’idea del “costruire”, e apre al confronto con l’architettura che, per quanto polemico da parte dell’artista (si va da “La città frontale “pubblicata nel 1969, ma presentata nel 1968, a “Architetti mai più” del 1993) è anche straordinariamente fecondo. Di fatto, l’esperienza architettonica di Gibellina, che gli consente di mettere in atto – parzialmente – le sue idee sull’architettura, è racchiusa anch’essa nel concetto di “frontalità”, concetto che tra l’altro permette allo scultore di variare scala dimensionale senza troppi problemi, quasi che le sue sculture fossero nate anche per essere pantografate, ingrandite su scala architettonica, ma ciò che qui interessa è l’attenzione posta da Consagra sia all’”estensione” del campo d’azione del suo linguaggio – dal micron di spessore all’edificio -, sia al rapporto con la città, che è il tema ricorrente di tutta l’arte “engagé” degli anni Sessanta e Settanta. Anche questo è contenuto nell’elaborazione iniziale degli anni Cinquanta, soprattutto se si considera anche l’idea di “spazio ulteriore” più volte richiamato dall’artista, per cui la frontali-

tà è anche un diaframm, una soglia da attraversare per andare “oltre”, appunto sia in chiave simbolica che fisica e, dunque, architettonica, reale.” Così, quel linguaggio nato nella Modernità e per le utopie della Modernità trionfante si dimostra capace di affrontare problemi e sollecitazioni che sono già successive, e in contrasto dichiarato con quelle: prova certa della robustezza concettuale del suo linguaggio, che sarebbe ingiusto e assurdamente limitativo relegare negli anni Cinquanta, per quanto importanti. Per questo motivo una domanda provocatoria come “prima e dopo quando?”, applicata all’idea di scultura di Pietro Consagra, deve rimanere consapevolmente senza risposta. (Dal testo in catalogo di Marco Meneguzzo)

Pietro Consagra, Spessore, 1986 legno Afro Mosia, 152,5x124x28 cm.

Pietro Consagra, Ritratto, 1961 bronzo, 37,5x33,5x3 cm.

Pietro Consagra, Racconto del demonio N° 3, 1962 bronzo, 34,7x25,5x1,8 cm.

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Galleria Continua, San Gimignano

Reynier Leyra Novo Juan Araujo Qiu Zhijie

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egli spazi della Galleria Continua espongono il cubano Reynier Leyra Novo, il venezuelano Juan Araujo e il cinese Qiu Zhijie, della generazione fra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta, con tre personali appositamente progettate e opere inedite. La mostra di spessore internazionale, come generalmente tutte le proposte della galleria, permette di conoscere artisti fra i più significativi nella scena mondiale che operano in luoghi e culture differenti, a varie latitudini del pianeta, ma che hanno come motivo comune la riflessione sull’uomo in rapporto alla storia, al potere e all’ arte. Con l’installazione El peso de la muerte del 2016 di Reynier Leyra Novo il “Secolo breve”, così come lo ha definito lo storico britannico Eric Hobsbawm riferendosi al ventesimo, scorre sulle nude pareti bianche dello spazio dell’Arco dei Becci, dove dodici rettangoli di colore nero e variabili nella grandezza, alcuni minuscoli, si riferiscono ad altrettanti trattati di pace che conclusero i più sanguinosi conflitti del Novecento. Ogni immagine traspone visivamente la quantità d’inchiostro utilizzata per la stesura di ogni trattato, quantità misurata dall’artista attraverso uno specifico software INK 1.0 e corredata dall’indicazione della relativa guerra e del numero dei morti. Il lavoro apparentemente di una semplicità disarmante, in realtà è scaturito da un’ ingente acquisizione ed elaborazione di dati che presuppongono ambiti diversi e da un procedimento artistico non ordinario, espresso in massima sintesi. L’opera di Reynier Leyra Novo non si ferma a valutare e a rendere il “peso del-

la morte”, né a un’implicita denuncia della guerra, di tutte le guerre, ma come testimoniato dalla serie di pesi facenti parte anch’essi della medesima installazione, ipotizza ed auspica la trasformazione della guerra in un mondo di pace, trasferendo la quantità di piombo contenuta in una sola pallottola, e via via a crescere, in oggetti per la vita. La decostruzione della materia bellica riutilizzata per costruire strumenti agricoli è presente anche nell’opera allestita nella torre, dove i rudimentali attrezzi da lavoro evocano il cibo e la vita. L’importanza del cambiamento ma anche la sua insita fragilità traspaiono nell’installazione El beso de Cristal formata da settanta calici di cristallo disposti in due file con inciso in ognuno il volto di un presidente cubano da una parte e statunitense dall’altra, finché le serie si incontrano, a testimoniare il recente corso fra i due Paesi. Juan Araujo nel suo lavoro trae ispirazione da molteplici influenze, intesse una rete forte di relazioni tra architettura e pittura, tra storia e lavoro artistico e riflette sulla percezione di un’opera originale, estrapolandone porzioni di immagini, rivisitate secondo la sua sensibilità e il suo linguaggio per la creazione di opere mai mimetiche ma con connotazioni uniche rispetto al dato di partenza. Con il ciclo di lavori Walled-in Shut, Juan Araujo dialoga con Rotko e la sua opera, riferendosi al viaggio in Italia del 1959 che tanto impressionò il pittore, nelle due tappe fondamentali di Pompei alla Villa dei Misteri e di Firenze alla Biblioteca Laurenziana , da cui trasse ispirazione per la serie di murales per “Seagram Building” a New York. Colpito dalla visione di questi dipinti alla Tate Modern, l’artista venezuelano ha ripercorso il viaggio di Rothko, lasciandosi suggestionare dalle stesse immagini. Così nell’opera realizzata da Araujo sono individuati e riproposti gli elementi fondanti l’enigmatico ciclo parietale pompeiano, i colori, le loro combinazioni e le ombre, altrettanto con il lavoro di Michelangelo alla Laurenziana. Qui nel vestibolo le finestre murate emanano un potente contrasto di forze fra esterno e interno, nel rapporto stringente fra opera e visitatore: a queste Araujo dedica alcune delle sue rivisitazioni pittoriche, ripensando quel senso di totale assorbimento nello spazio dell’opera,

Qiu Zhijie, veduta della mostra Racing against time GALLERIA CONTINUA, San Gimignano, 2016 Courtesy: GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana. Photo by: Ela Bialkowska

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Juan Araujo, veduta della mostra walled-in shut. GALLERIA CONTINUA, San Gimignano, 2016 Courtesy: GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana. Photo by: Ela Bialkowska

come aveva intuito Rothko. Qiu Zhijie, poliedrico artista cinese, fra l’altro pensatore , poeta, curatore e cartografo, ha progettato Racing against Time, la potente installazione collocata nella platea dell’ex cinema e nelle sale adiacenti, la quale presenta un numero consistente di opere elaborate con carta lavorata in rilievo e nella quasi totalità con inchiostro di china. Siti archeologici in nero sembrano

emergere dalle profondità terrestri, al bagliore fioco di luci soffuse, un mondo oscuro intrigante, pieno di figure ancestrali o luminoso, come nella serie di opere di colore bianco allestita nello spazio sul retro del palcoscenico. L’immaginario che le ha create sembra aver scavato entro le viscere della terra per far rifiorire il passato, per interrogarsi sullo scorrere del tempo che tutto dissolve: gli imperi gloriosi, i loro sogni, gli uomini e le forme.

Reynier Leyva Novo, Veduta della mostra El peso de la muerte. GALLERIA CONTINUA, San Gimignano, 2016 Courtesy: GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana. Photo by: Ela Bialkowska

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Qiu Zhijie, veduta della mostra Racing against time. GALLERIA CONTINUA, San Gimignano, 2016 Courtesy: GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana. Photo by: Ela Bialkowska

Sulle forme è incentrata la meditazione dell’artista, sulla loro manifestazione spesso invitta al potere e sul loro declino inevitabile, forme che per la legge dell’evoluzione, dall’origine del mondo ad oggi, si sono trasformate e poche sono sopravvissute. L’artista forgia un linguaggio originale mediante tecniche secolari, ma al di là dei mezzi utilizzati, sono i regni dimenticati che emergono, da quello dei dinosauri, a quello degli uccelli e dei mammiferi, come sequenze di un film fantascientifico. A simboli leggendari è dedicata la serie Evolution che nella rivisitazione di Qiu Zhijie evidenzia la provvisorietà delle antiche forme votate fin dal nascere alla decadenza.

L’arte contemporanea si fa interprete nell’opera dell’artista cinese di nuove possibilità di dialogo fra il passato e il presente, fra spontaneità e razionalità, fra vita quotidiana ed esperienza artistica, con l’attrazione per il fantastico, in una realizzazione caratterizzata da una straordinaria precisione millimetrale che lascia stupefatti. All’arte è affidato il potere di riscatto non solo per chi la pratica ma anche per l’ambiente in cui questa entra in contatto, una sorta di “arte totale” che non può essere avulsa dal contesto che l’ha ispirata e che non può prescindere dall’evolversi temporale della storia umana. Rita Olivieri

Qiu Zhijie, Gates of Empires, 2015. Carta lavorata in rilievo, inchiostro di china 447 x 197 cm (3 pezzi di 149 x 197 cm ciascuno Courtesy: GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana. Photo by: Ela Bialkowska

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Reynier Leyva Novo, El peso de la muerte (serie de pesas de 1 g. a 1 Kg fundidas con latón de balas), 2016 Courtesy: GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana. Photo by: Ela Bialkowska

Reynier Leyva Novo, El beso de Cristal (detail), 2015 70 calici di vetro. Dimensioni variabili Courtesy: GALLERIA CONTINUA San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana

Juan Araujo, Villa de los Misterios I, 2015 Olio su tela, 37 x 50 cm Courtesy: GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana. Photo by: Ela Bialkowska

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Alfredo Jaar, Napoli, Napoli, 2015. Dieci neon, dimensioni variabili, photocredit Giorgio Benni. Courtesy Galleria Lia Rumma Milano/Napoli

Galleria Lia Rumma, Napoli

Alfredo Jaar

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a circa quarant’anni, dagli esordi nel suo paese natale a partire dalla seconda metà degli anni settanta, Alfredo Jaar (Santiago del Cile, 1956; vive e lavora a New York) pare muoversi, almeno nei suoi momenti migliori, in conformità con una definizione da lui stesso enunciata qualche anno fa rispondendo ad una domanda circa il ruolo dell’artista oggi: «Credo che l’artista abbia una grande responsabilità: contribuire a realizzare un mondo migliore, più giusto e più egualitario. È per questa ragione che divido il mio lavoro tra mondo dell’arte, interventi pubblici e attività didattica». Tra queste tre modalità la prima - che è naturalmente anche quella in cui va inclusa l’occasione in esame – sembra essere quella meno favorita dall’artista – o almeno quella da lui ritenuta meno adatta a garantire il ruolo trasformativo dell’arte -, se occorre dare il giusto peso alle seguenti parole: «In questa area (quella dei musei e delle gallerie) sono consapevole di parlare ad un pubblico molto limitato che ha accesso alle istituzioni culturali, e che nel peggiore dei casi si tratta di una situazione diciamo incestuosa». Non di meno la crudezza della realtà sociale, lo stridore delle sue contraddizioni, il grido degli ultimi della terra hanno varcato, grazie a lui, più volte gli spazi deputati all’arte negli ultimi decenni, mettendo in opera momenti controinformativi certo mai chiaramente valutabili nel loro effettivo impatto sulle sorti del mondo, ma non privi di una certa forza di linguaggio. Giunto finalmente alla sua prima personale napoletana – dopo aver collaborato con numerose istituzioni e gallerie italiane, ma rimandando sempre l’appuntamento con Napoli -, Jaar sembra però smarrire proprio tali suoi tipici tratti, presentando un progetto che appare davvero troppo conciliatorio e quasi del tutto depurato del tragico cui ci aveva abituato. È vero: un’opera come “Mare, quanto del tuo sale sono lacrime di Napoli? (2015)”, il cui titolo non è altro che una citazione oppor-

Alfredo Jaar, Mare, quanto del tuo sale sono lacrime di Napoli?, 2015 Plexiglass e contenitore metallico, neon, acqua e sistema LED, 180x280x60 cm photocredit Giorgio Benni. Courtesy Galleria Lia Rumma Milano/Napoli In basso e a destra: Alfredo Jaar, Allestimento di 3 opere. M’Illumino d’Immenso, 2009. Neon 61x127 cm - Editione di 3; La Divina Commedia, 2016. Scultura in bronzo e e palline di plastica, dimensioni variabili; scultura di Dante: 30,5x5x5 cm; Il vecchio mondo sta morendo quello nuovo tarda a comparire, e in questo chiarascuro nascono I mostri, 2015. Neon rosso montato su muro 18x1150 cm - Editione di 3. photocredit Giorgio Benni. Courtesy Galleria Lia Rumma Milano/Napoli

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tunamente emendata di una poesia di Fernando Pessoa, evoca senz’altro la dimensione del dolore e della sofferenza; la stessa scultura in bronzo di Dante Alighieri che pare trascinare un cumulo di palle natalizie vuole essere una metafora di Napoli nel suo concentrare in sé – naturalmente secondo la percezione di Jaar - Inferno, Purgatorio e Paradiso, riecheggiando così la definizione di “paradiso abitato da diavoli” che Goethe coniò una volta giunto in città – non a caso l’opera si intitola La Divina Commedia (2016). Tuttavia l’insieme parla innanzi tutto di una terribile, fatale, quasi incontrollabile fascinazione dell’artista per Napoli, per la sua peculiare, incredibile miscela «di gioia esuberante e caos malsano». Lo stupore e l’estasi per la magia del luogo paiono giunti cioè ad un grado tale da fargli ahimè dimenticare di affondare la sonda più in profondità, fino a tirar fuori motivi più scottanti e meno visibili che invece tante volte, ad altre latitudini, si sono affacciati in passato nei suoi lavori. Anche un’opera come Napoli Napoli (2015) – da cui deriva il titolo dell’intera personale -, malgrado il suo ancoraggio ad una condizione sociale più precisa – la dimensione multiculturale che è ormai propria specie di alcune zone della città, cui si allude attraverso scritte al neon con il nome della città tradotto nelle lingue delle comunità immigrate più rappresentative -, rischia di sovraesporsi sul piano della visione edenica – complice anche la scelta di una soluzione linguistica non propriamente inedita ed a rischio di presentare il volto della globalizzazione in una accezione quanto più aconflittuale possibile. In definitiva non si dubita dell’entusiasmo, della onestà intellettuale e della sincerità dei sentimenti dell’artista cileno. Si teme però che la pur giustificata folgorazione per l’eccezionalità del luogo abbia in questa occasione preso il sopravvento sulla sua proverbiale lucidità e freddezza analitica. Può darsi che talvolta anche tale opzione sia da considerare lecita e foriera di esiti di tutto rispetto, ma – piaccia o meno – così facendo la dimensione “paradisiaca” finisce facilmente per risultare nettamente preponderante – forse fin troppo - su quella “infernale”. Stefano Taccone


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Alfonso Artiaco, Napoli

Lawrence Weiner

C

on “Used as other than itself” Lawrence Weiner (Bronx New York 1942) giunge alla quinta personale presso Alfonso Artiaco, cui va aggiunta, per completare il quadro del rapporto dell’artista statunitense con la città di Napoli, l’opera ceduta in comodato al Madre, “Things thrown onto the bay of Naples”, che - riformulazione di un’altra opera esposta in una precedente personale da Artiaco – cattura l’attenzione per la particolare, insolita connotazione che assume il suo linguaggio nel momento in cui alla sobrietà dell’inglese viene giustapposto il dialetto napoletano - Robba iettata ncopp’ ‘o golfo ‘e Napule -, capace sempre ed inevitabilmente di conferire una certa coloritura barocca, ovvero di evocare dunque una dimensione lontanissima da quella in cui la poetica di Weiner, tra gli esponenti più significativi dell’arte concettuale statunitense emersa a partire dalla seconda metà degli anni sessanta, si inscrive. Una poetica legata cioè a discorsi come la smaterializzazione dell’arte ed il trapasso dell’arte da oggetto a pura idea da non realizzare necessariamente – a tal proposito è celebre il suo statement del 1968: «1. L’artista può costruire l’opera; 2. L’opera può essere costruita; 3. L’opera può non essere costruita. La decisione spetta al fruitore nel momento in cui è informato delle intenzioni dell’artista» – che, come mette in evidenza, tra gli altri, Alexander Alberro, vanno osservati in stretta relazione ad una società in cui il lavoro cognitivo – o, appunto, immateriale, come qualche decennio più tardi lo chiameranno Michael Hardt ed Antonio Negri – è divenuto l’attività cardine. Anche in quest’ultima personale l’artista afferma di aver dedicato le opere alla città di Napoli – e del resto l’attenzione alla specificità del luogo, oltre che al contesto meramente spaziale ed architettonico, è un aspetto che egli considera sempre presente nella sua pratica e la scelta di tradurre le sue scritte nella lingua del territorio in cui interviene starebbe a dimostrarlo -, eppure la sensazione generale che si trae attraversando le sale in cui la mostra si snoda afferisce nuovamente – come del resto assai più di consueto in Weiner – ad un alto tasso di generalità ed astrazione, risultato cui senz’altro giova, d’altra parte, la scelta di tornare all’italiano, piuttosto che continuare col dialetto. La mancanza di ogni riferimento a questo o quel luogo specifico torna nuovamente a valorizzare al massimo grado, in altre parole, quello che è un altro caposaldo della poetica di Weiner – centrale peraltro fin dallo stesso statement del 1968 -, ovvero il ruolo dello spettatore. Egli è così chiamato a rispondere liberamente agli stimoli mentali innescati dai generici enunciati che leggerà sulle pareti, che in questa occasione paiono in buona parte giocati su di una sorta di dialettica tra prossimità e lontananza, identità ed alterità, attrazione e rigetto, studiati per produrre reiterati cortocircuiti cerebrali. Tutto il lavoro maturo di Weiner appare in definitiva come la conseguenza di una irreversibile mutilazione del ruolo che tradizionalmente spetta all’artista, ma quando qualcosa si perde – come è noto – qualche altra cosa si guadagna. Egli individua cioè il suo compito non nel

mero realizzare opere, bensì nel fornire una pletora di istruzioni per tante possibili opere-azioni che poi ognuno può rendere concrete secondo modalità diversissime e raggiungendo degli esiti anche apparentemente antitetici. Questa personale da Artiaco non è appunto che il temporaneamente ultimo capitolo di una saga che procede ininterrotta ormai da quasi mezzo secolo. Stefano Taccone

Lawrence Weiner, 2016. Immagini dell’esposizione da Alfonso Artiaco a Napoli

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Galleria Lia Rumma, Milano

Marzia Migliora Forza Lavoro uando vivi in città impari a non dare nulla per scontato. Chiudi gli occhi per un attimo, ti giri a guardare qual“Q cos’altro e la cosa che era dinanzi a te è sparita all’improvviso. Niente dura, vedi, neppure i pensieri dentro di te. E non devi sprecare tempo a cercarli. Quando una cosa sparisce, finisce.” Queste alcune parole tratte dalla prima pagina di “Nel paese delle ultime cose” di Paul Auster, uno dei riferimenti letterari dell’artista Marzia Migliora per “Forza Lavoro”, alla Galleria Lia Rumma di Milano. A parlare è Anna Blume, la protagonista del libro, che vive in un posto dove tutto sta scomparendo, e vagando raccoglie frammenti. Così fa Marzia Migliora, che vive il Palazzo del Lavoro di Torino per venti giorni, fino al giorno prima dell’inizio dei lavori di ristrutturazione che lo trasformeranno in un centro commerciale di lusso. Per la serie “In The Country of Last Things”, esposta in mostra, l’artista raccoglie immagini da impressionare in cinque fotografie realizzate con dispositivi stenopeici costruiti con materiali, frammenti vari delle vite passate del Palazzo e sempre lì trova pezzi di legno per incorniciarle. I fondi di alcuni cassetti diventano invece la base per “Monocromo #”, una serie di sette monocromi neri ottenuti dalla lavorazio-

Due immagini delle installazioni di Marzia Migliora alla Galleria Lia Rumma di Milano

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ne dei residui di combustione del luogo rimasti dopo un incendio del giugno 2015 e da altre polveri scure ottenute come scarto della lavorazione di metalli. Visti da vicino, questi resti hanno una diversa consistenza e matericità nei vari monocromi, a ricordarci la presenza drammaticamente invadente ma anche impercettibile di queste polveri sottili nell’aria e nell’ambiente. Il colore nero è protagonista anche nella grande installazione al piano terra della Galleria, un’opera interamente realizzata in mattonelle di carbone che riproduce una stilizzazione del modulo in scala 1:1 del solaio a nervature isostatiche del Palazzo. Ciò che ci si trova davanti è dunque una distribuzione di linee di forza nel cemento armato del progetto di Pier Luigi Nervi, l‘ingegnere che realizzò il Palazzo nel 1961 in occasione del primo centenario dell’Unità d’Italia e della relativa esposizione internazionale dedicata al lavoro, a cura di Giò Ponti. Proprio una frase di Nervi dà il titolo all’opera: “L’ideazione di un sistema resistente è atto creativo.” Del Palazzo Marzia Migliora riesce a raccogliere anche i suoni, attraverso “Vita Activa. Pier Luigi Nervi, Palazzo del Lavoro, Torino, 1961-2016”, un poetico video dove l’artista chiede al musicista Francesco Dillon di produrre dei suoni a partire dall’interazione con gli ambienti e i detriti dell’edificio unendoli poi non a caso ad alcuni estratti dal Requiem in Re minore k626 di Mozart, eseguiti a violoncello dal musicista stesso. Grazie a Marzia Migliora la memoria di un luogo diventa sostanza prima di un inesorabile sparizione. Gianmarco Corradi


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Mimmo Jodice, Eden. Opera n. 38 cm.70x70, 1995 Stampa Fine Art su carta Silver Rag Baryta. courtesy Vistamare Pescara

Galleria Vistamare/Pescara

Mimmo JODICE

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orna alla galleria Vistamare, dopo la bellissima mostra del 2011, Mimmo Jodice, uno dei grandi maestri della fotografia italiana, con una rassegna di 25 scatti, selezionati tra quelli che, maggiormente hanno caratterizzato il suo percorso artistico. Si tratta di una serie di immagini raffiguranti le vestali del mondo antico, figure ieratiche, affascinanti nella loro fissità e testimoni di quella sensibilità speciale per l’arche-

Mimmo Jodice, Attesa. Opera n.11 cm.100x100, 1992 Stampa Fine Art su carta Silver Rag Baryta. courtesy Vistamare Pescara

ologia e i popoli che tanto hanno contribuito al mito del mondo Mediterraneo, che da sempre accompagna Jodice. Il percorso procede lungo le sale con l’altra nota serie del maestro, l’Attesa, tema a lui caro sin dalla metà degli anni ‘80, ripreso e approfondito in anni recenti attraverso immagini inedite per la prima volta in mostra. In queste foto, paesaggi urbani e naturali privi della presenza umana, come già avvenuto nelle Vedute napoletane, e di qualsiasi idea di movimento, ricercano l’assenza concretizzando l’idea di vuoto. Le immagini si stagliano misteriose nella loro immutabilità inducendo l’osservatore a chiedersi cosa quei paesaggi interiorizzati stiano aspettando. Sono visioni in cui il tempo sembra come cristallizzarsi e smettere il proprio naturale fluire. In altre sale della galleria si diffondono, come immagini sonore di una unica sinfonia, le opere sulla Natura, sezione in cui è la vegetazione a essere protagonista indiscussa, sia essa coltivata o selvaggia, sempre colta nella sua dimensione straniante, alberi e fronde acquisiscono una dimensione umana, subendo una sorta di personificazione incantata; e la serie delle Città Visibili, in cui lo sguardo lento del fotografo svela la bellezza surreale dei luoghi urbani, alcuni celebri come le piramidi del Louvre o le vedute veneziane, altri anonimi, ma tutti rivelatori dell’interesse di Jodice per l’architettura, strumento di indagine inedita delle città, testimone rivelatore “dell’incapacità di accettare caos e silenzio”. Anche queste datano anni lontani e recenti a rivelare una costante ricerca nel corso degli anni. Tutto è visto e interiorizzato attraverso l’occhio di chi è abituato a indagare storia e bellezza con uno sguardo ricco di curiosità unito a uno stile rigoroso e determinato. L’occhio di Jodice si sofferma sul senso di inquietudine e smarrimento, su quel senso di sospensione che questi spazi senza tempo, così distanti dall’idea comune che tutti noi abbiamo, riescono a darci. L’uso costante del bianco e nero enfatizza la voluta distanza da una realtà empirica a favore di una visione “percettile” ed intimista. Le foto di Mimmo Jodice sono fuori da qualsiasi confine temporale. (C.S.)

Sopra il titolo: Mimmo Jodice, San Paolo. cm.70x100, 2003 Stampa digitale su carta baritata courtesy Vistamare Pescara A sinistra: Mimmo Jodice, Attesa. Opera n.27 cm.100x100, 2000 Stampa Fine Art su carta Silver Rag Baryta courtesy Vistamare Pescara

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Pino Pinelli, Pittura R, 1975. Acrilico su tela 230 x 90 cm (3 elementi). Fotografata alla XLII Biennale di Venezia, Corderie dell’Arsenale, Venezia.

Pino PINELLI … il muro diventa opera di Simona Olivieri

L’

opera di Pino Pinelli può essere compresa secondo un percorso strettamente legato al suo farsi, al fare pittorico, alla possibilità di dare “corpo” alla Pittura. Pinelli non dipinge, ma fa pittura. Come mette in evidenza Matteo Galbiati “Pinelli come tutti quegli artisti che si sono imposti di scandagliare, sezionandola e mettendola a nudo, la radice intima della pittura, parte proprio da questa ed in questa affonda le radici del suo lavoro, senza mai discostarsene” (da: Pino Pinelli: gli anni 80. Comunque Pittura!, catalogo della mostra personale alla Galleria Melesi, Lecco, 2007). In questa sua continua ricerca, l’attenzione Pinelli si è rivolta - in principio - alle superfici, alla vibrazione e allo “stato ansioso” della pittura. Appartengono a questo periodo la serie delle tele di grandi dimensioni, le “Topologie” come Alterazione del rettangolo (1971) e Punti molli (1972). In queste opere gli elementi centrali sono la ripetizione di una forma, la sua alterazione (rettangoli che si presentano due lati curvi) e ancora, all’interno di una stesura di colore nero punti collocati ai lati, sul margine, pochi elementi indicati con un numero. Successivamente, con la serie dei “Monocromi” (1973 – 1975) - titolati Pittura con accanto l’iniziale del colore usato, per esempio BL per blu, R per rosso - l’attenzione si concentra sempre più sul colore, le superfici si stirano, si allungano, sono 46 - segno 257 | APRILE/MAGGIO 2016

rettangoli o quadrati dai margini ondulati. La gamma dei colori si riduce ai rossi, i grigi, i blu, i gialli vibranti. “Pino Pinelli parte dal monocromo, che presto però scompone fino a ridurre la superficie a una “cornice” che inquadra il vuoto, ma gli offre anche varchi per l’“oltre”. Da questa ricerca Pinelli arriva alla “disseminazione” di quelle “parti” nello spazio attraverso un’esplosione che porta sul muro frammenti di materia capaci di dar vita a “geometrie dolci” (i frammenti sono ricoperti di panno) che percorrono il vuoto come un gruppo di energie in fase di espansione” (da: Arte Italiana. Ultimi 40 anni. Pittura Aniconica, catalogo della mostra alla Galleria d’arte Moderna, Bologna, 1998-1999). In questo testo di Marisa Vescovo è spiegato il passaggio successivo della sua opera, la disgregazione dello spazio/quadro, lo sconfinamento dalla tela. L’opera esce dai rassicuranti confini tradizionali della tela. Diventa frammento di colore solidificato - pelle della pittura che si fa solida - sezione geometrica di spazio. Pinelli comincia a creare composizioni modulari e geometriche dove l’effetto della vibrazione è dato dalla superficie porosa e dalla differente capacità di assorbire la materia/colore e rimandare la luce. È il palpitare della pittura. È pittura che respira. È, “fare corpo con la pittura”, come scrive Giorgio Verzotti, “non c’è modo migliore per esprimere con un’immagine tutta la ricerca di Pinelli e il suo


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Pino Pinelli, In fondo: Pittura R, 1975; Al centro: Pittura GR, 1976 (4 elementi); In primo piano: Pittura GR, 1976 (3 elementi) Veduta della mostra Pino Pinelli. Pittura 91. Courtesy Galleria Il Milione, Milano 1991

Pino Pinelli, Pittura GR, 1978. Disseminazione di 12 elementi. Fotografata alla mostra Fracture du Monochrome. Musée d’Arte Moderne, Paris 1978.

coerente sviluppo. Dal rigore monocromatico all’esplosione del colore, dalle forme modulari alla libertà estrema dei formati, fino, si è detto, all’ingresso in scena della manualità, il lavoro ha vissuto più stagioni ma i connotati di base sono rimasti costanti, la concezione dell’espressività pittorica come dimensione totale, in cui la distinzione tra raziocinio e pulsionalità non è, alla lunga, possibile” (da: Flash art”, n.196/1996). C’è la definitiva rottura del quadro, dell‘idea classica di spazio/quadro, il bisogno di andare oltre la cornice, oltre il confine. Di rompere la superficie. Infranto il perimetro della rappresentazione classica si può concentrare sulla dialettica tra opera e ambiente. Così, con la prima Disseminazione il muro entra dentro l’opera diventando non più supporto passivo ma tutt’uno con essa. Giovanni Maria Accame lo spiega bene: “Nel 1975 Pinelli spezza l’unitarietà delle sue tele monocrome e articola la pittura su più elementi. Lo spazio si contrae nelle singole superfici dipinte, ma si estende nella loro ripetizione. La tela si ripete per sfuggire al quadro, al suo concetto. Un desiderio senza ritorno, che trova, nella struttura a frammenti, la propria originalità. La straordinaria possibilità della pittura di affermarsi non solo come superficie ma come corpo. Concentrata in una serie di elementi, la pittura incontra la parete intesa come spazio teoricamente infinito, APRILE/MAGGIO 2016 | 257 segno - 47


Pino Pinelli, Pittura R. G., 1982. Acrilico su flanella disseminazione di 20 elementi. Fotografata alla mostra: La storia il mito la leggenda Anni ‘80. Galleria d’Arte Moderna,Verona.

come non finito è l’attraversamento compiuto dall’opera. Segno in transito, forma che si fa energia, l’opera riafferma sempre la propria origine: essere indissolubilmente un’idea e un’emozione” (da: “Una pittura plastica”, catalogo della mostra personale al Teatro Sociale, Bergamo Città Alta, 1994). È una pittura in continuo movimento. Ridotta a frammenti, si colloca sulla parete in una sintesi tra spazio e pittura per formare un unicum. I frammenti - sempre monocromi - subiscono nel tempo delle variazioni, passando da forme modulari geometriche e rigorose (1976), ad altre che sembrano gonfiarsi per una sorta di dilatazione energetica (1984) fino alle scaglie, caratterizzate dalla leggerezza come fossero pelle della pittura (1986) e alle successive che hanno riacquistato una maggiore consistenza corporea ma con forme sempre meno definite: croci, atomi, scaglie. Il concetto di disseminazione e di frammento che si accostano dove il quadro non esiste e, sul piano del linguaggio pittorico sono gli elementi che caratterizzano la sua opera, il suo personale contributo all’arte. Pinelli realizza sulla parete una continuità percettiva che accompagna lo sguardo nel suo spostarsi da una forma a quella successiva. Le superfici si muovono, non sono dipinte, ma costruite, create con le mani che lasciano un segno, una traccia nella materia pittorica. Lavora negli anfratti e nelle pieghe della pittura/materia. Scopre e nasconde pieni e vuoti. È una pittura che si costruisce nello spazio. Che entra in relazione con esso e lo trasforma. Non è ancora scultura ma è pittura che ha un corpo. In essa c’è musica, tempo e respiro. Le mostre sono pensate come degli spartiti musicali, i frammenti non sono posti casualmente, ma pensati e organizzati in una sinfonia che riporta alla centralità dell’opera. Gli spazi così progettati rimandano alla musica: anche in questi spazi abbiamo pieni e vuoti, suoni e silenzi, ritmi, timbri, toni, i respiri della materia e le armonie che si creano tra le varie opere organizzate secondo la poetica di Pinelli e, se si osserva il suo lavoro, non può non 48 - segno 257 | APRILE/MAGGIO 2016

venire in mente J. S. Bach o alcuni grandi pezzi di jazz. Spazio musicale e corpo tattile della pittura. Superfici materiche dove resta testimonianza del solco delle dita dell’artista, un gesto quasi rituale. Diventa un’epidermide sensuale che rende pulsante la materia/pittura. Le strutture che all’inizio sono rivestite di flanella colorata, diventano successivamente pelle sensualmente tattile, quasi un velluto, materia che attrae lo sguardo. Come scrive Filiberto Menna “La pittura, sui fondamenti approntati da Pinelli, insiste sulla propria concretezza fisica, sulla propria materialità, e nei limiti in cui non può (nonostante tutto) rifiutarsi ad un senso, questo viene cercato in un rapporto di contiguità metonimica: l’opera esercita un continuo, energico richiamo a se stessa, alla propria matericità, ai propri attributi fisici, il suo essere liscia o rugosa, dura o molle, calda o fredda, e così via” (da: “Data” n. 27 / 1976). E ancora, Claudio Cerritelli, “Il valore epidermico del colore si trasforma in gradiente di luce inseparabile dalla totalità percettiva, la fisicità della della pittura estende il suo orizzonte di senso, la seduzione cromatica si solidifica nel far sentire vibrazioni e increspature che coinvolgono l’occhio” (da: Pino Pinelli. Pittura spaziale, catalogo della mostra personale alla Galleria Lara e Rino Costa, Valenza Po (AL), 2008). Una pittura che attrae e seduce, che vuole piacere. È altèra, “ti chiama” ma poi mantiene le distanze. Perché i suoi lavori sembrano - allo sguardo - di morbido velluto, ma toccandoli sono in realtà respingenti, ruvidi, pungenti, è un po’ come toccare roccia vulcanica, è velluto pungente. Si perde la sensualità e morbidezza del velluto e si percepisce la durezza e la ruvidità della materia. Inganno dello sguardo che seduce la mente. “Così simbolicamente” nell’opera di Pinelli, come ci suggerisce Giorgio Bonomi “il colore da concetto “astratto” diviene “concreto”, non già in virtù della luce che permette lo spettro, bensì per la concentrazione del materiale che da materia colorata si trasmuta in massa di colore. In altra


attivitĂ espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Pino Pinelli, Pittura R. BL., 1986. Tecnica mista disseminazione di 17 elementi. Fotografata alla mostra: XI Quadriennale di Roma, EUR Palazzo di Congressi, Roma Pino Pinelli, Pittura R., 2005. Tecnica mista disseminazione di 24 elementi. Fotografata alla mostra: XIV Quadriennale di Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Veduta della mostra Pino Pinelli. Pittura. 2015. Courtesy Pearl Lam Gallery, Hong Kong. Nella pagina a fianco, dall’alto verso il basso: veduta della mostra La Pittura tra framento e tensione unitaria, 2007. Courtesy Galleria A arte Studio Invernizzi, Milano; Veduta della mostra al Museo Archeologico Bernabò Brea, Lipari, 2012. Armonia e disseminazione nella pittura di Pino Pinelli, Courtesy Galleria Claudio Poleschi Arte Contemporanea, Lucca; Veduta della mostra Pino Pinelli. Antologia Rossa, 2015. Courtesy Galleria Dep Art, Milano.

occasione abbiamo parlato di “ontologia del colore”, fondata sull’idea parmenidea dell’Essere, tutto pieno di sé e mancante di nulla. Attrazione e repulsione che ritroviamo anche nelle opere di struttura più semplice, come in quelle composte di due soli elementi. Attrazione e repulsione che possiamo vedere anche nella parte fenomenica dell’opera, cioè sulla superficie esterna del manufatto artistico, sulla sua pelle. Questa si presenta come soffice e sensuale velluto allo sguardo, ma ruvida ed altera al tatto” (da: “Pino Pinelli. Pittura R”, catalogo

della mostra personale alla Galleria Santo Ficara Arte Moderna e Contemporanea, Firenze, 2005). Concludendo, le opere di Pinelli affascinano, sono corpi inquieti di pittura in continuo movimento nello spazio, fluttanti, migranti in piccole o grandi formazioni, fatte di materia che reca impressa i segni di un’ansiosa duttilità, che elogiano una fisicità tattile, che seducono gli occhi con colori pulsanti di vibrazioni luminose, con il rimando e il ricordo al fuoco e al vulcano della terra d’origine, la Sicilia, presenza viva sempre. n

Le FAM - Fabbriche Chiaramontane dedicano, a cura di Marco Meneguzzo, una ricca retrospettiva a Pino Pinelli. La mostra Trademark batte con forza su quelli che sono (come suggerisce il titolo) i marchi di fabbrica di Pinelli: le forme e i singoli colori puri, elementi che ne hanno fatto un assoluto protagonista, negli anni ’70, della stagione della Pittura Analitica. Una pittura “migrante”, che esce dal quadro, va a impregnare il supporto, percorre pareti, scandisce spazi, semina segni e traiettorie cromatiche. Quindici le opere in mostra fino al 22 maggio, selezionate da collezioni private e gallerie, realizzate da Pinelli dal 1975 a oggi. All’esposizione, realizzata dagli Amici della Pittura Siciliana dell’Ottocento in collaborazione con l’Archivio Pino Pinelli, è dedicato un catalogo edito da Digital Project (Milano) con un saggio critico del curatore.

Pino Pinelli, Veduta della mostra Trademark, Fabbriche Chiaramontane, Agrigento, 2015

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Brunella Longo, L’Altra Parte 5.

MAON, Rende (Cs)

Brunella LONGO Nelle terre della percezione e del pensiero

ll’inizio, agli esordi del suo percorso artistico, nei primi anni 90, le immagini fotografiche di Brunella Longo ricercano A l’esattezza, la perfezione classica, il corpo umano, la storia e la

storia dell’arte. Particolari plastici che rilevano con rigorosa puntualità le forme più fuggevoli di ogni volto, di ogni sostanza, di ogni muscolo, come un bisogno di compiutezza che si soddisfi in quell’analisi dei corpi, in quell’anatomia di grandi statue armoniose e sensuali, sotto lo sguardo attento dell’anatomista alla ricerca del particolare. In questo ciclo di lavori, “tra presenza e assenza“ è come se la chiarezza della conoscenza dipendesse dalla precisione dei particolari che racchiude. Il particolare, nella percezione o nella conoscenza, corrisponde all’ultimo elemento analiticamente distinguibile, ricopre il ruolo di particella indivisibile e solida su cui cade e si ferma lo sguardo: è il particolare che, localizzando e improntando su di sé la sensazione, la trasforma in percezione. Consequenzialmente il lavoro di Brunella Longo si sposta su di un “territorio familiare”, analisi di situazioni di scene casalinghe in cui inizia frazionare il vuoto temporale attraverso lo spostamento della sorgente visiva, della luce, suggerendo inoltre la successione di una varietà di punti d’origine e quindi di una ricchezza di direzioni; ne risulta come una acquisizione di volume, di spazialità, di moltiplicazione ritmica, di movimento, di continuo accrescimento, di autosuperamento. Calici, bottiglie, il pane, tazze da caffè, caffettiere, il libro, il telefono, la doccia, oppure oggetti legati al tema del gioco, le carte, i dadi, il biliardo, il domino, la roulette, il backgammon, in cui le dita poste in primo piano, fanno giostrare gli strumenti dello svago attraverso sequenze e piani di ripresa diversi, elementi e punti di vista sempre differenti. L’interesse per il particolare include un’attenzione anche per l’infinitesimale in quanto, di fronte all’immensità del nulla, il minuscolo può servire da indice e da punto di riferimento. Il particolare si posa nello spazio per rivelarcelo, per farlo esistere in rapporto a sé, ma anche per emergere, per esistere esso stesso a partire da quel nulla che avrà rivelato. Si realizza così una relazione di estrema fecondità. Immensità inerte e atomo vivente si fanno valere reciprocamente. Ciascuno di loro riceve dall’altro la sua più specifica virtù, che per l’una e la sorpresa sempre nuova di limitatezza sensibile, per l’altro, l’umana fragilità. Mentre un solo oggetto, o frammento anatomico sperduto in un universo senza dissonanza costituisce un fermento di disgregazione, cento deviazioni concomitanti compongono quasi un nuovo spazio: il montaggio dei dettagli sembra quindi possedere il potere ordinatore di un principio, la forza associativa di una legge. Ma soprattutto questi frammenti erranti di mondo, non sono degli esseri isolati, degli oggetti solitari, rivestono l’aspetto di blocchi sensibili in cui si trovano uniti oggetti o sentimenti analoghi. Sono delle molteplicità senza volto, all’interno delle quali il plurale, nella sua stessa indeterminatezza, suggerisce la nozione di un’omogeneità sensibile, impone il sentimento di una certa saldatura interna. Con lo stesso criterio la Longo si rivolge all’autoperlustrazione del proprio corpo fino alle parti più intime. L’occhio diventa il centro di una serie di figure che si generano geometricamente e dinamicamente, le une dalle altre in un rigoroso procedere. Gli 52 - segno 257 | APRILE/MAGGIO 2016

aspetti successivi, i frammenti del corpo, si incatenano gli uni agli altri grazie al potere coesivo di una continuità di scorrimento. Ma l’identità dell’oggetto designato durante queste evoluzioni e l’immobilità dell’occhio che lo contempla, assicurano d’altra parte a questo scorrimento un rigore matematico, un fascino che dipende dalla successiva moltiplicazione e dalla generazione di tutte le curve sinuose, dal sottile erotismo e dalle figure immaginarie realizzate nello spazio dagli elementi reali del corpo. Moltiplicazione, generazione non sono più sentiti come gli elementi di uno sconvolgimento sensibile, ma come le origini concrete di una euritmia: l’idea poetica che si sprigiona da quest’operazione del movimento delle linee, delle curve, della luce, del contrasto fra bianco e nero, è l’ipotesi di un essere esteso, vasto, complicato, ma euritmico. Costanti del suo operare: lo spazio ed il tempo. Dalla fine degli anni 90 al 2003 Brunella Longo affronta il progetto “Centouno ritratti”, scatti d’autore in bianco e nero di grande formato che, attraverso il mezzo fotografico, cercano di catturare la natura più intima, la realtà invisibile, meno nota di ogni individualità con cui si raffronta. Nei protagonisti, tutti appartenenti al mondo dell’arte, la Longo indaga gli aspetti introspettivi, ne penetra la vera essenza, cerca il dato mentale, coglie l’aspetto psichico, il carattere inespresso, dischiude l’indole più recondita dell’essere. Da Fabro a Kounellis, da Pistoletto a Calzolari, Castellani, Kosuth, Beverly Pepper... Dal 2003 “Imusmis”, viaggio fantastico attraverso mondi sconosciuti, misteriosi, incontaminati, tra storia e memoria, spazi infiniti, evocativi, surreali, percorso verso la conoscenza. Come se Brunella Longo per scendere verso il centro proibito di se stessa non avesse a disposizione altra magia che quella delle immagini, altri mezzi che quelli del sogno e quindi affidare alla sola arte l’esplorazione della sua profondità interiore. Tra sogno e realtà, tra reale e irreale.Il titolo di questo ampio ciclo di lavori è tratto da Giordano Bruno, dalle immagini interiori, dai temi cosmografici che compongono il corpus unico di incisioni realizzate dal filosofo campano intorno al problema delle origini. Imusmis è il titolo di una xilografia illustrativa dell’Esplicatio Triginta Sigillorum del 1583. Il deserto, l’acqua, il ghiacciaio, lo spazio, la profondità, la sensazione di un universo ingrandito. Brunella Longo predilige questo tipo di costruzione spaziale. Il silenzio dei Tuareg, silenzi che si succedono a silenzi, paradisi della solitudine dove il viaggiatore passa da solitudine a solitudine, da deserto a deserto, l’estensione, la misura del non misurabile. Ed effettivamente è proprio in termini di spazio orizzontale che si traducono le immagini della Longo, l’evasione nella vastità degli orizzonti dove l’occhio si incanta in quelle magie delle lontananze. Lontananze magiche, perché la trasparenza dell’atmosfera, avvolgendo i fossili, le pietre, i sassi, le conchiglie o i corpi in un velo d’aria, riesce a liberarli dalla loro realtà vicina con l’immagine lontana. Brunella Longo proietta le sue immagini in un ambito che lo affianca dai suoi limiti e lo libera dalla visione esatta ed immobile. Le immagini sono dissolte in una lontananza semifantastica che un ultimo scrupolo di chiarezza viene curiosamente a delimitare con un’ultima linea, quella dell’orizzonte. E questa prospettiva è sia temporale che spaziale. Sono paesaggi, fotografie realistiche realizzate durante i viaggi in Oman, Turkmenistan, sul Mar Caspio, in Islanda, in cui sono state inserite in un momento successivo, in studio, delle fusioni. Da uno sguardo oggettivo le immagini si convertono in un mondo fantastico, onirico. L’inclusione virtuale equilibra quasi perfettamente immobilità e movimento separandoli nel tempo, vedendo nell’immobilità una promessa dell’atto, ma si tratta di un equilibrio che rimane sempre instabile, un’indeterminatezza dello


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

spazio e del tempo. Appartengono ad un mondo che è frutto di letture ed esperienze, letture fantastiche che alimentano il desiderio di esplorare, di espandersi. Di certo Herman Melville, che persegue il tema del viaggio come ricerca, il mare come regno dei mostri del terrore, delle immense profondità che sfuggono all’intelligenza umana, la balena bianca metafora di realtà trascendenti la comprensione terrena. Di sicuro poi, Edgar Allan Poe che, di racconto in racconto, sviluppa un metodo di pensiero che vuole sondare e forse anche possedere l’abisso, spiegare ciò che è apparentemente inspiegabile, dove il mistero è lentamente e progressivamente vinto dai tentativi, dalle ipotesi, dalle deduzioni, dalle induzioni della ragione più puramente razionale. Si parte dalle origini in questo universo immaginario occupato da temi magici in cui silenzio, espansione concentrazione, vita e morte, bene e male, si concatenano quindi in una specie di ciclo cosmico. La natura primordiale, le prime forme del segno, il tema dell’acqua, l’ossessione dell’acqua come forza di assorbimento. Nell’acqua tutto e copertura e continuità sensibile e misteriosa. I Pesci, Lumacasfera, le tre Sfere che rappresentano le tre forme di intelligenza, Pietre nere, Fossili, Funghi, Sassi, Meduse, Conchiglie, tema ricorrente, immagine schermo che difende la vita, così come le perle, simbolo dell’amore protettivo. Paesaggi dove la presenza di una certa magia divinatrice che tenta di esorcizzare il caso e quindi di collocare il sentimento alle realtà che gli sono apparentemente più estranee. Fede alchemica, astrologica, che ha un potere di comunicazione e di rivelazione. Poi, lentamente, gradualmente, si fa più preminente la presenza umana, il corpo dell’artista s’immedesima nel territorio, si mette in scena, si traveste, si moltiplica. Nel 2009 l’Impiccato, riferimento a Sebastiano Del Piombo, figura che nei Tarocchi è associata all’accettazione, all’armonia e alla capacità di trascendere le convenzioni osservare il mondo da un punto di vista spirituale. L’Uomo-fungo, motivo derivato dalle rappresentazioni medievali in cui una pluralità di culti e tradizioni, sia a scopo religioso che terapeutico, facevano uso di funghi allucinogeni: la moltiplicazione dell’io, l’espansione. L’Acrobata nel 2010, figura in equilibrio tra i ghiacci, il mare e una luce diafana, il tema di Leda, il Velo, figure di donne misteriose che attraversano paesaggi arcaici, immoti. I Tuareg, presenze ieratiche vestite di bianco situate in lontananza tra i ghiacciai in paesaggi notturni, Yin-Yang, fossili maschili e femminili che si compenetrano. Nel 2011 ancora i Tuareg, ma tra sabbia e fiori colorati, del 2013 Sudari, corpi distesi nel deserto avvolti da teli dai colori che si riferiscono alla storia della pittura, ma hanno anche l’aspetto tragico della storia contemporanea del mondo arabo. Il sale inserito nei paesaggi dell’Oman, nel linguaggio dell’alchimia, rappresenta il terzo dei principi originari, la qualità del corporeo, ma è anche simbolo della conservazione, dell’incorruttibilità, della purificazione. Dello stesso anno Metope: figure rovesciate che evocano episodi mitici. Dal 2014 con il ciclo l’Altra parte, compaiono ombre blu e verdi, strisce di colore, presenze inquiete che escono dai muri, dagli spazi dove le simmetrie sono sfalsate, termina la polarità spazio temporale, avviene un passaggio, un cambiamento di esistenza, numeri, quadratini che diventano cubi magici, i simboli, la cabala, l’alchimia, le pratiche magico-religiose, le formule per le trasformazioni curative, l’espansione indefinita. L’espansione indefinita si accompagna normalmente ad una meditazione sull’essenza astratta del numero. L’unità si effonde, si espande fuori di sé, diventa multipla nello spazio, culla dei numeri e ambiente naturale in cui si può concretamente manifestare la fecondità moltiplicatrice. Tutte le azioni, le operazioni o tutte le sostanze che mirano a moltiplicare i poteri dello spirito portano parallelamente ad arricchire lo spazio e il tempo. Con una crescente spontaneità l’io si muove in distese sempre più vaste, vive cent’anni in un minuto, approda ai mondi più lontani. I suoi poteri crescono incessantemente, la personalità estende i suoi confini e sembra che vi conquisti una nuova, una terza dimensione: l’individuo è elevato al cubo e spinto all’estremo. La morte giunge a liberare la forza vitale che fino a quel momento si trovava chiusa in un corpo, sottomessa a una legge di metabolismo. Nell’Altra parte ritrova la piena libertà, lo slancio primario, il desiderio. I lavori più recenti di Brunella Longo sono fotografie realistiche, naturalistiche, paesaggi dedicati a Cipro, alla Scozia, all’Oman, al Brasile, all’Islanda, alla Groenlandia, a Cuba, in cui non vi sono sovrapposizione di immagini possibili, ma riprese oggettive, frutto di una percezione intuitiva sulla natura incontaminata, su di un mondo ancora integro, completo, intatto. “La percezione intuitiva, e in apparenza casuale, che ci fa spesso raggiungere la conoscenza quando perfino la ragione vacilla, e abbandona lo sforzo, sembra simile all’occhiata che si getta d’improvviso a una stella, e che ci permette di vederla con chiarezza maggiore di uno sguardo diretto; o a quando si chiudono gli occhi a mezzo, guardando una distesa d’erba, per valutarne più pienamente l’intensità di verde”, scrive Edgar Allan Poe sul trattato di Filosofia della Composizione, in merito al rapporto tra cognizione e intuizione, tema che Brunella Longo persegue incessantemente nelle terre della percezione e del pensiero. Massimo Di Stefano

Magdalo Mussio

ARENA studio d’arte/ Verona

Magdalo Mussio Alla ricerca della parola dimenticata di Antonello Tolve

I

n tutte le fasi dell’opera di Magdalo Mussio, il rapporto tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tra visione pratica e attenzione teorica si confonde sulla superficie di un racconto emotivo, sul solco di un infinito intrattenimento metodologico e collaborativo, sulla temperatura rovente di un dispositivo estetico che sorpassa l’esclusivo processo di trasformazione delle cose per disegnare una eterotopia cosmografica e disporre simultaneamente di un patrimonio visivo che contiene e trattiene la presenza del passato, la nostalgia del presente, la sensibilità visionaria del futuro, il freddo sapore dell’ora preumana. Guadando la storia del suo fare è possibile percepire immediatamente un flusso continuo e inarrestabile di sollecitazioni, di ricerche incrociate che oscillano tra gli archetipi dell’immaginario collettivo (tra l’originario e l’originale) e le esigenze transemiotiche di un artista la cui onnivora attività intellettuale è riuscita a costruire negli anni uno spazio espressivo, unico nel suo genere, che assorbe al suo interno la revisione degli stilemi avanguardistici, i lasciti della stagione informale, la parabola dell’atmosfera verbovisiva (e della visione multicodica) degli anni ‘60 e ‘70. Dall’editoria alla grafica creativa (come non ricordare i modelli sperimentali offerti nella redazione del marcatrè, la rivista diretta da Eugenio Battisti, o gli straordinari impaginati della casa editrice La Nuova Foglio), dalla poesia alla prosa, dalla pittura alla scenografia, dal teatro alla videoanimazione, dalla scultura all’insegnamento, per giungere via via, tra il 1975 e il 1995, al felice sodalizio con Alfio Vico e Lucy Passett della Galleria Il Falconiere (dove approdano alcuni dei nomi più interessanti dell’arte – Yarrott Benz, Giosetta Fioroni, Eliseo Mattiacci, Fabio Mauri, Suzanne Santoro, Mario Schifano e Nanda Vigo ne sono esempi evidenti), l’attività interdisciplinare e sentitamente indisciplinata di Mussio, incarna l’esigenza di riflettere sulla storia delle cose, sulla leggerezza e la trasparenza della parola, sulle trame dell’archiviazione, sulla lingua del ricordo scordato, del numero dimenticato, della parola immaginata. Uscite da una lampisteria dei sogni, da un pensiero che si sofferma sulla soglia del pensiero per leggere – del pensiero stesso – i flussi e gli innumerevoli ragionamenti del quotidiano, le immagini prodotte da Magdalo Mussio trattengono e tratteggiano i colpi della cultura di massa, la «memoria di un codice» da decifrare, il silenzio traforato dal buio della mente, il gusto alchemico della sapienza materiale, la parola ricercata e detta per caso, il «terrore della propria immagine», l’attesa atavica dei segni. Come apparizioni su superfici sempre diverse che costituiscono una vera e propria cartografia poligrafica – cartografo amanuense della differenza è l’etichetta applicata all’artista da Alberto Signorini nel ‘91 – le sue opere catturano lo spettatore e, quasi a creare una tattica di accerchiamento laterale della realtà, lo invitano in un territorio magico dove tipografia, macchina da scrivere e scrittura manuale si intersecano ad architetture impossibili, a brani poetici, a preesistenze e assenze necessarie, al sapore tiepido della cancellatura, al capriccio della ragione, allo «speciale rapporto con l’errore» del chiarevalli monodico e al difetto eccezionale. n APRILE/MAGGIO 2016 | 257 segno - 53


Galleria Arena studio d’arte, Verona

Franco Giuli anni settanta

L

a galleria Arena studio d’arte di Verona propone (dal 15 aprile al 26 giugno) una selezione di opere degli anni Settanta di Franco Giuli, artista riconosciuto e segnalato, fin dagli esordi, come “uno tra i più interessanti nel panorama del “Nuovo astrattismo italiano” (Cesare Vivaldi) ed apprezzato da Giulio Carlo Argan perché “serio ed impegnato, mirato ad una rivisitazione nel campo Costruttivista”. La rassegna è a cura di Claudio Cerritelli, che, nel testo che l’accompagna “Franco Giuli. L’immaginazione strutturale attraverso le opere degli anni Settanta”, esamina puntualmente tutto il lavoro dell’artista marchigiano (romano d’adozione). Riportiamo alcuni passaggi significativi. “Le opere esposte in questa mostra ripercorrono le fasi decisive degli anni Settanta attraverso le quali Giuli va precisando i meccanismi compositivi delle sue particolari morfologie, adottando e verificando le regole costruttive dell’astrazione geometrica per modificare gradualmente il rapporto tra superficie e parete, codice pittorico e spazio ambientale. (…….) Un senso di libertà immaginativa scaturisce dalle fantasie strutturali che Giuli inventa nei primi anni Settanta utilizzando figure primarie come strumenti di attivazione spaziale, sistema aperto in cui agiscono metamorfosi plastiche, connessioni e permutazioni cromatiche, valori fondamentali per mantenere sempre alto il vertice delle tensioni percettive. In un ciclo di ricerche parallele alle composizioni su fondo bianco (1973-74) le dinamiche cognitive del colore si amplificano occupando tutto lo spazio della superficie, senza più distanza tra struttura e sfondo. Il campo cromatico diventa totale, non è più organismo delineato e autonomo che occupa il centro dello spazio, ma immagine che coincide integralmente con la superficie, sconfinando oltre i bordi come parte che evoca il tutto. Il maggior numero di queste opere è dedicato ai movimenti della diagonale, scelta che infonde all’immagine una carica emotiva provocata dai rapporti simultanei tra i piani di colore e gli sbalzi virtuali nella terza tridimensione. Sottili spiragli di bianco s’insinuano tra i punti di

Franco Giuli, Prototipo 2, 1972-74. Acrilico, legni, itinerario in acciaio

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congiunzione delle fasce cromatiche alludendo al bagliore del vuoto sottostante, sono traiettorie affilate come tagli di luce che s’innestano nella trama strutturale suscitando un senso di vertigine, fremiti intermittenti nell’articolazione del ritmo totale. In alcuni casi, questi elementi acquistano maggior peso, soprattutto quando diventano segmenti di una modulazione rettilinea che congiunge angoli opposti, progressione spaziale che termina nel punto dove inizia l’infinito. D’altro lato, la mobilità delle linee e dei piani è ottenuta attraverso l’accostamento coordinato dei diversi colori, anche molti colori in una stessa composizione, nelle immagini più sature se ne contano anche fino a otto. Si tratta di valori luminosi disposti secondo precisi controlli simmetrici, ma anche per via di progressivi spostamenti delle parallele trasversali, calcolate frenesie delle fasce policrome, finalizzate alla ricerca di equilibri slittanti. L’orientamento dell’obliquità suscita lo scorrimento dei piani inclinati da un punto all’altro della superficie, lo sguardo è sospinto ad assimilare i contrappunti generati dall’ordine alterno delle relazioni topologiche, trasformando i registri analitici in molteplici fonti d’invenzione dinamica. (…..) Superata la metà del decennio, Giuli si affida unicamente al cartone, esplora le qualità cromatiche e tattili di questo materiale duttile e resistente, capace di comunicare - attraverso la disciplina del metodo progettuale - mutevoli incastri cromoplastici e allusioni tridimensionali oggettivate da una raffinata sapienza manuale. (….) Questo avviene mantenendo sempre fede al sistema di piani e angolazioni, linee e rilievi, accordi cromatici e consonanze formali, ambivalenze dinamiche che costituiscono l’identità del linguaggio di Giuli, il suo sensibile modo di commisurare le ragioni della geometria alle pulsazioni del colore. La compattezza strutturale si accresce quando al cartone si aggiunge l’uso del legno che ancor più solidifica il ritmo costruttivo dell’immagine (1977-79), sdoppiando le direzioni acquisite, intersecando acutamente i perimetri, dialogando con le pacate tonalità dei cartoni, mantenendo sempre vigile e sobria la disciplina delle proporzioni. A differenza dei dittici inquadrati da listelli di legno che conchiudono la composizione entro perimetri ben definiti, nei medi e grandi trittici la relazione tra i piani viene a dilatarsi nell’ambiente con sovrapposizioni di aste che sconfinano verso le estremità della parete. Con queste ricerche l’artista è in sintonia con le declinazioni della pittura-ambiente, questione che - negli


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Franco Giuli, Cartoni, 1977-79. cm. 52x52

Franco Giuli, Angolature su carte varie, 1976. cm. 70x70

stessi anni- impegna gli artisti nel superamento dei formati convenzionali, attraverso la dislocazione dei corpi cromatici che si dispiegano sfidando lo spazio fino all’impossibile. Oltre che astrazioni sperimentate sulla soglia dell’oltre, disseminate nella dimensione stupefatta della memoria, queste opere sembrano creature alate sospinte da magnetismi contrapposti, figure in bilico sul filo del fantastico. Sono immagini poetiche che restituiscono al vigore costruttivo delle forme primarie quella tensione lirica che durante gli anni Settanta la pittura analitica europea ha programmaticamente azzerato, ma

dalla quale Giuli non si è mai separato, anche nei momenti in cui più forte è stata la necessità di una riflessione razionale sulle procedure del dipingere. Non a caso, la componente fantastica accompagna le ricerche dei decenni successivi con rinnovate modulazioni ritmiche, poliedrici incastri e disincastri, risonanze interiori e itinerari cosmici, fino alle più recenti sperimentazioni sui cartoni in cui Giuli continua a esplorare – con il consueto entusiasmo creativo- la possibilità di nuove avventure spaziali. (Dal testo in Catalogo di Claudio Cerritelli)

Franco Giuli, Opere, 1973-74. Acrilici su tela, cm. 150x150

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Luca Tommasi Arte Contemporanea, Milano Studio d’Arte Raffaelli, Trento

Peter SCHUYFF

per così dire “artigianale” ai suoi dipinti, creando contestualmente contrasti fra il tecnologico e l’umano. Tra gli altri spunti forniti dalle opere, spicca il dialogo ancora una volta ironico tra decorazione e “fine art”. Allo Studio d’Arte Raffaelli di Trento, invece, l’esposizione intitolata The S.M.S. Gneisenau drawings suite and new works ci mostra un Peter Schuyff alle prese con una storia navale della Prima Guerra Mondiale. In questo caso, la narrazione cui fa riferimento l’artista, è quella originariamente disegnata da Fritz Ferschl, pittore ospite della corazzata tedesca S.M.S. Gneisenau nel 1909, che Schuyff riprende, riportando in vita, a distanza di oltre cento anni, i marinai e i luoghi che di questa nave sono stati protagonisti. Guidato dal fascino per il passato, dagli incontri fortuiti e impossibili, Schuyff crea curiose contaminazioni pittoriche, intervenendo sui fogli del libro di schizzi di Fritz Ferschl. Realizza così una serie di lavori inediti, dove le vicende dell’incrociatore militare diventano lo scenario di fondo per la riedizione del libro stesso, dove si trovano pubblicate le opere di Schuyff sotto una veste nuova, raccolte in un prezioso volume in 250 esemplari numerati e firmati dall’artista stesso. M.L. Paiato Peter Schuyff, The S.M.S. Gneisenau drawings suite and new works Courtesy Studio D’Arte Raffaelli.

Peter Schuyff, Untitled, 2015, acrilico su tela, 180x120cm.

D

oppio appuntamento in simultanea con l’arte dell’olandese Peter Schuyff, il cui lavoro si snoda fra la Galleria di Luca Tommasi a Milano e Studio d’Arte Raffaelli di Trento. La tappa milanese, intitolata Selected Paintings, a cura di Stefano Castelli, conta una selezione di opere pittoriche parte della sua più recente produzione dalla quale si evincono evoluzioni e sviluppi della sua arte. Noto sin dagli anni Ottanta sulla scena artistica dell’East Village come membro del movimento Neo-Geo, Schuyff continua a cimentarsi nel gioco delle geometrie, in quelle dominanti le diverse epoche, aggiornandole al contempo, all’incalzare dell’estetica digitale. Ne risultano curiose e psicodeliche tele dal gusto astratto di matrice postmodernista, che richiamano alla memoria pattern mossi da deformazioni digitali con effetti optical tipici di ricerche storicizzate. Tuttavia, il dato manuale, volutamente lasciato in evidenza, valorizza e aggiunge un fascino

Peter Schuyff, The S.M.S. Gneisenau drawings suite and new works. Courtesy Studio D’Arte Raffaelli.

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Museo Riso, Palermo

Domenico Bianchi

I

ntegrazioni, trasparenze, intrecci, trapassi. Tutti termini che possono aiutarci a capire opere complesse come quelle presentate da Domenico Bianchi alla Cappella dell’incoronazione del Museo Riso di Palermo, in collaborazione con la Galleria Adalberto Catanzaro di Bagheria. Opere, queste, che in realtà vanno osservate come un’entità unica, un ambiente: un’opera site specific creata appositamente per quel particolare luogo che è la Cappella dell’incoronazione. Un luogo molto suggestivo ed estremamente caratteristico - nel senso di “pieno di carattere” - e intenso, opposto alla superficie piana, primaria, del white cube. Se lo spazio del white cube è uno spazio primario, un “grado zero” disposto ad accogliere qualsiasi possibilità, nel quale tutti i segni e tutte le opere sono possibili, quello della Cappella è invece uno spazio pieno, nel quale tanti, molti, segni sono stati presenti, nella sua storia, nei passaggi temporali umani e corporei che lo hanno determinato. E proprio a questi segni dobbiamo guardare quando ci immergiamo nell’ambiente creato da Bianchi. Un ambiente leggero, puro, instabile nella sua leggerezza. Il bianco, come possibilità del segno, è qui rappresentato non dal luogo ma dai di-segni, meticolosamente riempiti con penna bic, e dalle opere in cera. La leggerezza, emanata anche dall’instabilità delle calamite che reggono i disegni, aiuta il processo di trapasso storico e il rapporto temporale aperto fra il luogo della Cappella dell’incoronazione e l’opera dell’artista. La mostra di Bianchi, dunque, s’inserisce proprio in questo gioco di trapassi: un ambiente che ci avvolge in una stratificazione temporale, nel quale differenti tempi convivono, si integrano, si intrecciano e trapassano. Nel momento in cui si accede nella sala, il bianco dell’opera ci fa entrare immediatamente in contatto con la forte presenza medievale e precedentemente araba della Cappella, ci fa immediatamente percepire l’ambiguità aperta dallo straniamento temporale, dalle sinergie attivate dallo stretto rapporto che si crea fra luogo, opera e spettatore. L’arte di Bianchi, d’altronde, è già un magistrale esempio di stratificazione. Tecnica, dall’uso del computer alla cera; operativa, le modalità differenti con le quali crea le opere; e, se vogliamo, filosofica, il segno che caratterizza le sue opere: possibilità di creazione, musicalità e ritmo dell’azione artistica. Equilibri armonici tra opera e ambiente, dunque, come afferma Demetrio Paparoni nel testo del catalogo di prossima pubblicazione: «Privata di stabilità e armonia l’opera si svuoterebbe di significato, perderebbe la sua ragion d’essere. Senza un’idea guida, del resto, l’arte diviene decorativa, così come l’esistenza diviene vegetativa. Comprendere che il lavoro di Bianchi incarna questi concetti è fondamentale per coglierne la valenza etica». Valentino Catricalà

Domenico Bianchi, Senza Titolo, 2010 Cera e Palladio su fibra di vetro, cm. 204x164 , Collezione privata (PA)

Panoramica della mostra Site Specific di Domenico Bianchi al Museo Riso, Palermo. Credito Fotografico: Luciano Schimmenti

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Galleria ABC - ARTE Contemporary Art gallery, Genova

Yasuo SUMI Nothing but the future di Maria Letizia Paiato

Yasuo Sumi, Senza titolo 06, 1962.

Yasuo Sumi, Untitled, 1958, 35x25 cm, cartafina.

uesta retrospettiva italiana che ABC-ARTE dedica all’artista giapponese Yasuo Sumi, maestro Guati, concepita e realizzata con il supporto dell’archivio Yasuo Sumi di Andrea Mardegan, Ibaraki (Giappone), assume un significato ancora più pregnante, dopo la recentissima scomparsa di Sumi dello scorso 12 ottobre 2015, mentre la mostra era in piena fase preparatoria e non s’immaginava che questo lavoro sarebbe diventato il suo primo testamento artistico in Europa. Una scomparsa che lascia indubbiamente un grande vuoto nel mondo dell’arte, tuttavia colmato dalla ricchezza e dalla bellezza delle sue opere, contraddistinte dalla massima libertà espressiva e creativa – peculiarità di tutto il movimento Gutai – e da una gioiosità nei colori e nelle forme e segni astratti che originano le opere, che ci lasciano immaginare il maestro, prima di tutto, un grande amante della vita. Fondamentale è anche e soprattutto il testo di mano di Sumi sulla sua stessa filosofia artistica, che ABC-ARTE pubblica in catalogo, traducendolo e pubblicandolo per la prima volta in italiano (Prima edizione: 1 Dicembre 2000, pubblicato da Bungeisha). “[…] Yakekuso – fumajime – charamporan. È la mia filosofia di

vita e la mia convinzione riguardo l’arte e le belle arti”. Infatti, per circa 50 anni fino a oggi, ho dipinto quelli che sono chiamati quadri e che hanno partecipato a mostre sia in Giappone che all’estero, ma non ho mai pensato a me stesso come a un pittore o un artista, e lo stesso pure oggi. Io sono stato felice dipingendo, provo gioia nel farlo, amo dipingere e per questa ragione ho continuato […]. Che sia forse questo il vero spirito Guati? La libertà di poter abbracciare una passione, poterla perseguire ed esserne semplicemente felici? Ma cosa sono Yakekuso – fumajime – charamporan? Parole per noi occidentali incomprensibili che, tuttavia, suonano come un mantra e lasciano trasparire e immaginare qualcosa di profondo e intenso, di spirituale, sentimenti che sappiamo, accompagnano la cultura giapponese e che, purtroppo, spesso ci sfuggono. “[…]Yakekuso è per me uno stato di totale distacco spirituale e di libertà. Quando mi trovo in questo stato, posso sentirmi senza limiti e che il mio talento possa manifestarsi senza limiti. Riguardo a fumajime, intendo un completo rigetto del passato. Dal passato sino ad oggi, la società umana ha avuto una mi-

Q

Yasuo Sumi, Untitled, 1963, 37x52 cm, paper, double signed.

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Yasuo Sumi, Untitled, 2011 27x24cm, cardstock, 01 sakuhin 09

Yasuo Sumi, Untitled, 2011 27x24cm, cardstock, 01 05

Yasuo Sumi, Untitled 06, 2006, 55x73 cm, work on paper.

Yasuo Sumi, Work 17, 2006 88x66 cm tecnica mista su carta Yasuo Sumi, 1978-91, Untitled, 147x114cm, mixed media on canvas.

Yasuo Sumi, Untitled, 2011, 27x24cm, cardstock

Yasuo Sumi, Untitled 06, 2006, 55x73 cm, work on paper retro.

riade di regole e regolamenti. Essendo fumajime, li rigetto e li ignoro. Fumajimen significa essere proiettati verso il futuro. Per charamporan equiparo questo termine con un ritorno all’umanità. In altre parole, senza tutte le costrizioni imposte dalla società e dalla famiglia, tutto e tutti possono essere charamporan. Essendo yakekuso, fumajime e charamporan vuol dire essere fedeli ad una forma umana originale. Io credo di avere cercato di esprimerlo a modo mio […]”. Senza limiti, proiettato al futuro e semplicemente umano. Come a dire che siamo esseri imperfetti e questa imperfezione va accettata come una metafora della bellezza che completa la nostra essenza. Così la filosofia di Sumi prende forma nelle sue opere, senza limitare il proprio campo espressivo nemmeno nell’uso dei mezzi per dipingere. Sumi, come altri maestri Gutai, realizza soprattutto carte che gratta, raschia, stropiccia, arrivando persino a perforarle. Usa materiali come il tulle, che restituisce un aleatorio senso di leggerezza in combinazione a reti metalliche, che al contrario esprimono durezza, dando vita a inusuali accostamenti che lasciano aperte svariate possibilità dettate dall’imprevisto. Afferma Flaminio Gualdoni, curatore della mostra e autore del testo in catalogo: “Sumi fa sì che il supporto sia un campo di accadimenti in cui un’energia, quella del suo corpo accecata nei modi, si metamorfizzi in energia visiva pura, in una quantità ansiosa ed altrimenti vitale, in cui il fattore quantitativo conti più di qualsiasi speranza qualitativa”. Ma Gualdoni aggiunge anche che esiste una componente di spettacolarizzazione nel suo agire che, in quanto risultante del coinvolgimento del suo stesso corpo, non può prescindere dalla presenza dello spettatore, chiamato a “mettersi in rapporto con la spazialità e la temporalità proprie dell’azione pittorica”. Questa antologica, il cui percorso documentario si snoda cronologicamente su una selezione di opere dalle prime fino alle più recenti performances, conta una sessantina di lavori, alcuni anche rari e presenti in prestigiosi Musei o collezioni internazionali, che mostrano i diversi momenti estetici abbracciati da Sumi. Sono particolarmente suggestive e ricche di emozione quelle carte e tele dove si vede chiaramente l’uso della bangasa, il tipico ombrellino giapponese e dei vari pettini a maglie larghe generatori di quelle linee irregolari che s’incastrano in modo insolito e spontaneo. Ma ci sono anche quei lavori realizzati con i sandali che ci lasciano immaginare Sumi calpestare e camminare sulle sue stesse opere, come un bambino che corre a piedi nudi su un prato. Una gioia di vivere “matissiana” dove gli schizzi di colore si configurano come forza diretta della natura e dell’uomo, e dove tagli, buchi e lacerazioni diventano una dichiarazione dell’energia e della vitalità che investe l’esistenza. Con la concretezza che caratterizza l’arte Gutai, Sumi è l’ultima testimonianza di un genere artistico che celebra la libertà creativa totale. n APRILE/MAGGIO 2016 | 257 segno - 59


Solo Show - Arte Fiera 2016 Galleria Eidos Immagini Contemporanee - Asti

Betty BEE Doppio Sogno di Maria Letizia Paiato

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on aveva torto Achille Bonito Oliva quando, nel 1999 in Betty Bee. Sopravvivere d’arte - Ciao bucchì, geniale film documentario di Didi Gnocchi, primo premio al Torino Film Festival, paragona l’eclettica artista napoletana a Molly Flanders, protagonista del picaresco romanzo di Daniel Defoe, che, “[…] nata a Newgate, e durante una vita di continui cambiamenti per una sessantina d’anni dopo l’infanzia, fu per dodici anni prostituta, cinque volte moglie (compresa una volta con suo fratello), dodici anni ladra, otto anni delinquente deportata in Virginia; alla fine divenne ricca, visse onestamente e morì pentita. […]“. Betty Bee, Gilda, 2016, cm 120x80, Betty Bee “nacque” a Napoli tecnica mista su tela, courtesy Eidos nel 1962 o nel 1963; un erroImmagini Contemporanee. re di trascrizione di data che rende incerta la sua nascita e che – ironia della sorte – pare sin da subito una dichiarazione d’intenti dell’“incertezza” che descrive la sua vita. Improvvisandosi: modella, cameriera, attrice, parrucchiera, fotomodella, manicurista, indossatrice, pazza, elettricista, artista, assistente sociale, fioraia, dama di compagnia, cantante, barista, madre, moglie e compagna. Morì suicidandosi nel Duemila e…Non sappiamo se come Molly Betty sia diventata ricca e vive onestamente, ma di una cosa siamo certi: la vulcanica artista partenopea di sicuro non è pentita di nulla e per curare il suo male di vivere ripercorrerebbe le vie dell’arte all’infinito, vera terapia del suo animo e intelletto. Quando morirà suicida, ancora non è dato saperlo. Chi conosce il suo lavoro e la sua storia sa che, durante gli anni Novanta e i primi Duemila, la sua figura è stata di disarmante dirompenza nel mondo dell’arte. Le generazioni più giovani che la scoprono ora, difficilmente potranno ignorare quella forza d’urto e artistica che si cela nella sua produzione e in essa stessa – perché anche e soprattutto il suo corpo è materia da plasmare – e che la rende, ancora oggi, icona di un decennio durante il quale le contraddizioni sociali incalzano fortissime. Mentre si vive il boom and bust del mercato della tecnologia, internet entra nelle case, si scrive al PC e si gioca alla playstation, si risponde al cellulare e ci si diverte in discoteca, si ammirano top-model e calciatori, Betty Bee affronta lo spinoso nodo della rappresentazione artistica tra identità e alterità, volgendo lo sguardo al quotidiano, alla propria dimensione privata e domestica. In questo suo agire, anche il suo stesso corpo diventa soggetto e luogo della sua arte, dove prendono forma quelle convenzioni sociali che la circondano e che ribalta di continuo, attingendo, prelevando, rubando, scombinando quella grammatica d’immagini, in bilico fra glamour e squallore, fra copertine patinate di moda e cronaca nera, di cui la sua Napoli è follemente rappresentativa. Come afferma Bonito Oliva: “l’artista è un inviato speciale nella realtà […] frantumate le lenti dell’ideologia, l’unica maniera per documentare è documentarsi […] – e lo si può fare soltanto con – l’ottica dell’artista, la più soggettiva possibile. Quella di uno sguardo parziale che è carnefice e vittima di ogni gesto di quello che in fondo è un viaggiatore senza bagagli […]. Cronista di se stessa e pagina aperta sulla società che evolve rapidamente, Betty Bee balza all’attenzione del pubblico napoletano nel 1991 per una celebre foto di un seno nudo, It’s territorial game sul quale aveva dipinto il Vesuvio con Kajal, metafora della sua città e al contempo del sarcoma che lentamente la uccide. Poi il gioco di scambio di ruoli: per affermare la sua femminilità si traveste da Trans e completamente slegata da qualsiasi canone accademico, in modo frontale, vero e sfacciatamente provocatorio, usa esplicitamente il suo corpo. Si ritrae in pose dure – quasi ai limiti della pornografia – scuotendo il mondo dell’arte nel mostrare esplicitamente i genitali: a gambe aperte sbeffeggia Napoli denunciando l’ennesimo fallimento cittadino per un progetto di cablaggio mai decollato. Poi si fa pedinare ingaggiando un vero investigatore privato, prendendosi gioco sia di lui sia di chi la guarda dall’esterno e snocciola giudizi frettolosi sulla sua condotta di donna e madre. E poi c’è Gilda, il video girato nel 1995: “scoperta confessione di una donna che si offre al desiderio (maschile, femminile?) ma che in una danza sensualissima e quasi tribale usata come schermo riesce a proteggere la propria anima”. Con queste 60 - segno 257 | APRILE/MAGGIO 2016

parole descrivono quest’opera fondamentale nella carriera di Betty, Raffaella A. Caruso e Ciro Delfino, curatori di Doppio Sogno, il progetto solo show presentato all’Arte Fiera 2016 di Bologna con la Galleria Eidos Immagini Contemporanee di Asti. Sollecitati dall’invito stesso della fiera a ideare progetti sull’arte italiana dalle prime avanguardie del Novecento fino ad oggi, Caruso e Delfino propongono intelligentemente il lavoro di Betty Bee, figura chiave e rappresentativa di un intero decennio, ancora poco indagato sotto il profilo storico-artistico, e a oggi simbolo e personificazione di quella frammentazione di ricerche e poetiche che caratterizzano buona parte del contemporaneo. Gilda, che fa il verso al famosissimo film del 1946 con protagonista la sensuale Rita Hayworth, tocca, allo stesso modo, il tema dello sfruttamento della bellezza femminile e il difficile percorso che le donne, spesso, devono compiere per emanciparsi dal potere maschile. Dal video originale, di cui in realtà esiste una ripresa della ripresa, Betty Bee ha tratto e selezionato 24 frame, realizzando un inedito lavoro fotografico e pittorico secondo la sua cifra stilistica, che rappresenta tanto una rilettura del lavoro del ’95, quanto una del suo stesso vissuto. Queste immagini si presentano incastonate in cornici che simulano l’idea dello schermo televisivo, come spesso suole fare l’artista, e al contempo restituiscono l’impressione di piccole teche o simulacri. Così facendo, è come se Betty, in un certo senso, avesse voluto consacrare quel vuoto esistenziale che essa ha vissuto e vive nel donarsi continuamente agli altri senza mai ricevere, e che in questo caso, come in molte altre sue opere, tocca la difficile relazione con il mondo maschile, per lei niente affatto sinonimo di sicurezza e certezza, esemplificata nell’iconica immagine dove appaiono e svaniscono i nomi dei suoi ex compagni etc, etc, etc, etc. Ecco allora, che su quella silhouette di donna che porta in capo una brocca, “simbolo di quella femminilità da cui tutti hanno attinto ma che nessuno è riuscito a colmare”, compaiono interventi pittorici decisivi all’interpretazione stessa dell’immagine e che in altri casi, invece, può diventare un elemento di distrazione e fuorviare da un ipotetico senso preordinato dell’opera stessa. Ancora, gli interventi pittorici, cui si fa riferimento, sono quelli che Betty Bee utilizza come costanti nella sua produzione. Non mancano, infatti, le sue caratteristiche reti a nido d’ape (Bee), i fili spinati e le catene, rappresentativi di quei limiti che essa stessa pone sull’intensità del suo lavoro, e che diventa una sorta di protezione fra il suo essere artista e lo sguardo dello spettatore. Scrivono Raffaella A. Caruso e Ciro Delfino: “[…] Le figure stilizzate, in forme elementari a colori forti e contrastati, in trasparenza, rappresentano quindi i quadri/ racconti della sua storia di violenze e soprusi, che qui l’artista narra, ma al contempo esorcizza definitivamente, nella piena presa di coscienza del proprio io […]. E come Gilda nell’omonimo film del 1946, usata da tutti per la propria bellezza, realizza la fuga finale verso la libertà e la felicità, Betty opera la propria catarsi nell’arte, emancipandosi finalmente dalla sua condizione di vittima […]”. A questo lavoro si affianca Incantesimo lunare, video realizzato nel 2004 in cui l’artista, ancora una volta ritorna sul concetto d’identità femminile, in questo caso vagliando ciò che riguarda l’anima e le sue infinite declinazioni. “Il tema la mutevolezza della donna, il suo essere percepita come umorale, la possibilità di essere sempre diversa, la capacità di interpretare se stessa per difendersi e costruire una vita diversa”, scrive Caruso. “Un lavoro sull’incomunicabilità, girato in bianco e nero e muto, come se l’artista fosse una diva anni 20”. Un video da cui è nato nel 2015 un altrettanto lavoro fotografico, questa volta però contraddistinto dalla presenza del colore, metafora della vitalità stessa dell’artista, cui nonostante la vita difficilissima non ha mai rinunciato. Betty Bee, leggendaria e mitica, cammina sul crinale della vita, quel limen che, come ancora una volta l’ha definita Bonito Oliva, la rende un’artista di frontiera. Pittrice, scultrice, performer, fotografa, incarnazione di moralità e immoralità, madre, sorella, amica, compagna di viggio, Betty Bee è essa stessa opera d’arte e specchio di una società che usa il suo ingegno per vivere e sopravvivere. n Betty Bee, Gilda 23, 2016, stampa fotografica su carta baritata con intervento pittorico, cm 40x50, courtesy Eidos Immagini Contemporanee e dell’Artista.


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

AILANTO (Ailanthus altissima), una delle teche della mostra alla Biblioteca d’Arte Poletti di Modena, 2016.

Biblioteca Poletti Modena

Ailanto Un archivio visivo di segni urbani

E

siste un testo fondamentale per chi si occupa di pratica curatoriale, chiamato The Exhibitionary Complex. Si tratta di un saggio del sociologo Tony Bennet inerente all’evoluzione del museo nella storia contemporanea e alle metodologie espositive per le opere d’arte, messe in relazione sia alle architetture predisposte sia allo spettatore. Nello specifico, i musei vengono visti come istituzioni culturali e agenti di sapere, ma anche come una dimostrazione efficace del controllo statale e del suo potere. Cosa accade, invece, quando un progetto espositivo avviene in una biblioteca? L’arte urbana, definizione solitamente utilizzata per raggruppare le forme culturali attinenti agli ambiti del Writing e della Street Art, è una pratica che si forma e si sviluppa a contatto con la città e le sue arterie, in maniera autonoma e spontanea. Di conseguenza, è sempre difficile occuparsi di queste culture visive dal punto di vista curatoriale, perché si rischia di snaturare la loro vera vocazione, facendole rientrare in quelle dinamiche di mercificazione e di feticcio visivo rappresentate dall’incameramento all’interno di un sistema dell’arte, sia esso statale o privato. Ailanto riesce in maniera intelligente ad evitare tutto questo. Anzi, dà rilievo agli aspetti teorici e culturali che sottendono l’intero fenomeno. Nata da un’idea di Fulvio Chimento, la mostra prende spunto da una pianta infestante, chiamata Ailanthus Altissima, che viene utilizzata come presupposto poetico per la realizzazione del progetto espositivo e come termine di paragone per queste discipline urbane e la loro diffusione. Gli artisti invitati, Cuoghi Corsello e Dado, hanno messo in mostra disegni, bozzetti, quaderni e fotografie come un apparatus teorico, con la volontà di di-mostrare le evoluzioni storiche, sia stilistiche sia installative, avvenute nella loro pratica a partire dagli anni Ottanta, nonché gli scambi culturali che vi sono stati tra di loro. Sembra, infatti, che la biblioteca si sia trasformata in una sorta di teca pubblica dove sono stati messi in mostra gli album privati di famiglia, insieme alla vita personale della coppia di artisti e del writer. D’altra parte non potrebbe essere che così, quando vita, arte e ambiente diventano un complesso insieme estetico e un intreccio indissolubile come in questo caso. E’ importante ricordare che la pratica di Dado, writer appartenente alle storiche crew FCE e SPA, è nata in stretta correlazione con il contesto urbano di Bologna, mentre quella di Cuoghi Corsello si è esplicata anche all’interno delle fabbriche abbandonate dove hanno vissuto nel corso degli anni. Questi capannoni sono divenuti degli effettivi luoghi abitativi ed espositivi, dove, al loro interno, gli artisti erano soliti installare continuamente opere, performando arte e vita, poI quaderni di Villa Genziana di Cuoghi Corsello alla mostra AILANTO. Biblioteca d’Arte Poletti, Modena, 2016.

nendosi anche come punto d’incontro per la loro cerchia di amici, spesso composta da altri artisti. Villa Genziana, Il Giardino dei Bucintori e Cime Tempestose, così sono state chiamate le fabbriche occupate nel corso degli anni da Cuoghi Corsello, dovrebbero essere riconosciute dalla storia dell’arte come centri propulsori per la cultura a Bologna e fucine di talenti artistici. La sala d’entrata della Biblioteca Poletti si costituisce come una piccola personale di Cuoghi Corsello. Sono messi in evidenza dei cartoncini che ritraggono i personaggi tipici della loro pratica artistica, come ad esempio l’ochetta Pea Brain, insieme a delle bellissime carte di tarocchi utilizzate dagli artisti e dipinte da loro stessi. È, inoltre, interessante la scultura che scende dall’alto: un appeso, come nella carta dei tarocchi, o un Peter Pan. Una figura emblematica che ci indica la direzione della mostra e che non è altro che la sagoma di Dado. E’ già così visibile fin dall’inizio il rapporto d’amicizia tra entrambi. All’interno della sala principale della Poletti sono esposti altri album del duo artistico. La maggior parte dei tavoli da lettura, però, sono ricoperti dalle tavole di disegno di Dado. In esse è possibile ricostruire l’evoluzione stilistica del lettering del writer, insieme ad alcune delucidazioni tecniche sui segni rilasciati dalla bomboletta spray, e la nomenclatura attinente. Sono tavole visive e teoriche allo stesso tempo, fondamentali per chi si occupa di questi argomenti per la decifrazione stilistica e la decodificazione delle lettere. Il dispositivo espositivo può essere anch’esso visto come parte integrante di questo continuo parallelo individuato dal titolo della mostra: tutto il materiale, assemblato come un immenso archivio visivo di segni urbani, è disposto al di sotto di vetri trasparenti, proprio come accadeva per gli erbari, o per le wunderkammern costituite da naturalia et mirabilia di settecentesca memoria. Giada Pellicari

Pea Brain alla mostra AILANTO alla biblioteca d’arte Poletti di Modena, 2016.

I disegni di Dado esposti durante la mostra AILANTO, biblioteca d’arte Poletti, Modena, 2016. Foto Cuoghi Corsello. Cuoghi Corsello, Le carte magiche, Bologna, 1980. Foto Cuoghi Corsello.

APRILE/MAGGIO 2016 | 257 segno - 61


Domenico Mennillo, WLK_7. Dispositivo per il funzionamento del rosso nella pellicola super 8

Museo Nitsch, Napoli

Domenico Mennillo

C

on WunderLitteratureKammer, realizzata dalla Fondazione Morra in collaborazione con E-M Arts e curata da Raffaella Morra e Loredana Troise, Domenico Mennillo (Napoli, 1974) - di formazione filosofica, esordiente poi artisticamente attraverso la poesia, quindi approdato naturalmente al teatro ed infine ai linguaggi delle arti visive - presenta l’ultima sezione del progetto Abrègè d’Histoire Figurative, «incentrato sulla individuazione e presentazione di tre figure-concetti centrali del pensiero filosofico occidentale e volto alla creazione di un breve compendio di figurazione visuale e poetica». Se la prima figuraconcetto è stata l’automa spirituale (Pierrot ou d’Automate Spirituel, Napoli, Museo Nitsch, 2011-2013) e la seconda l’atlante (Atlante della Fertilità, Napoli, Palazzo Bagnara-Fondazione Morra, 2011-2012 e Villa Pignatelli, 2014), in questa occasione è la volta di quelle “stanze delle meraviglie” che, affondando le radici nel Medioevo, tanta parte ebbero nella cultura cinque-seicentesca, per passare poi in eredità all’Illuminismo, il quale, se vide in esse potenziali strumenti di soddisfazione della propria curiosità scientifica, presto procedette a smantellarle – su di un piano sia teorico che materiale – in nome di una presunta organizzazione più rigorosa del sapere, in quanto fondata su criteri non soggettivi – quali la meraviglia appunto – ma scientifici, che trova il suo paradigma più compiuto nel museo. Tra le parole tedesche Wunder e Kammer va però a frapporsi, nel titolo, la parola francese litterature – concetto che per Mennillo «ingloba filosofia, letteratura, scrittura lirica, insomma una sorta di expanded litterature». Lungo otto stanze in penombra – un percorso che possiede un che di labirintico – si snoda così un itinerario imprevedibile e multiforme, ove una pluralità di media e, più in generale, di oggetti, spesso salvati dalla pattumiera della storia, sono raccordati con una sapienza che si avvale indubbiamente della pregressa esperienza nel teatro – è nel teatro, lo sappiamo, che si realizza quella che potrebbe essere intesa come un’altra figura-concetto ancora della nostra tradizione culturale, la Gesamtkunstwerk, ovvero la sintesi di tutte le arti che conduce ad un’ “arte totale”. Il tutto è però pervaso da un’atmosfera generale dal forte potere suggestivo, qualcosa che costituisce una sorta di leitmotiv, di marchio costante nel lavoro di Mennillo, eppure ardua da descrivere con uno-due aggettivi. Qualcosa che si nutre senz’altro di suggestioni

Domenico Mennillo, WLK_1. Archive de la Melanconie Italienne.

62 - segno 257 | APRILE/MAGGIO 2016

letterarie, di effusioni tardo-romantiche, della fascinazione per il mondo parigino a cavallo tra Ottocento e Novecento ed in genere per un immaginario di circa un secolo o un secolo e mezzo fa. Qualcosa che sa di nostalgia, di malinconia per il non più, per una dimensione perduta di cui rimangono solo segni-oggetti che hanno smarrito ogni valore d’uso, divenendo supporti per occasioni di astrazione dal tempo e di rimodulazione del tempo. Come infatti questi oggetti sono di altri tempi, così questi oggetti richiedono a noi stessi di concederci altri tempi, enormemente più dilatati e quindi incompatibili con i ritmi consueti della nostra giornata. Ai mirabilia veri e propri non sono però dedicate che due stanze – ove possiamo imbatterci in pietre che somigliano a tuberi o a pani, in un cavallo a dondolo come “automa impagliato”, in antiche foto di bambini che compiono esercizi psicomotori… -, mentre un’altra stanza ospita una sorta di “archivio della melanconia italiana”, costituito da foto d’epoca o da corrispondenze epistolari parimenti risalenti a molti decenni fa che ci raccontano storie d’amore e, per l’appunto, di malinconia; un’altra ancora è improntata all’autobiografia – e conserva dunque beni appartenuti agli stessi familiari dell’artista, come un registro contabile; un’altra ancora accoglie l’intervento sonoro del compositore Nino Bruno, che già in diverse occasioni ha collaborato con Mennillo; in altre due trovano posto rispettivamente un dispositivo per il funzionamento del rosso ed un dispositivo per il funzionamento dell’arancio, ovvero due diaproiettori che, nel loro essere ormai stati soppiantati da supporti economicamente più convenienti, confermano la particolare fascinazione del nostro artista per l’obsoleto. Non vanno dimenticate infine le due performance che, dedotte dai workshop con gli studenti della cattedra di Estetica del prof. Dario Giugliano dell’Accademia di Belle Arti di Napoli e della cattedra di Pedagogia della prof.ssa Maria D’Ambrosio dell’Università Suor Orsola Benincasa, si tengono la sera dell’inaugurazione, né i numerosi eventi collaterali, come la conferenza-dibattito La Révolte contre la Poésie, cui partecipano studiosi quali Iain Chambers e Tiziana Terranova, o le performance di Nino Bruno e di Samon Takahashi con Claudia Squitieri che animano il finissage. Stefano Taccone Domenico Mennillo, WLK_2. Mirabilia-mi(se) rabilia-artificialia.


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

dono orgiastico ed estetico/ estatico, da sempre connesso alla ricerca filosofica. Un ulteriore indizio di un atteggiamento profondamente conoscitivo, che rende questa esposizione tranquillamente, sommessamente, ma efficacemente, inedita. Paolo Aita Hilario Isola, Socrate

Anna Marra Contemporanea. Roma.

Sean Crossley

videntemente la pittura è tornata in grande auge a Roma, se anche una E Galleria, come quella di Anna Marra, si

apre alle sue suggestioni. Si può dire, dunque, che le seduzioni dell’opera fatta manualmente, con pigmenti che raccontano una storia, per quanto tortuosa, ancora convincano. In questo modo la perenne attesa di un’arte di spessore, che non dimentichi i linguaggi del passato, ma non rinneghi i traguardi del contemporaneo, trova una celebrazione, che non deve essere né facile sintesi, né equilibrismo strategico. A percorrere una soluzione di questo tipo, fortemente italiana per l’accoglimento di istanze che vengono da varie età storiche, è invece Sean Crossley, artista australiano residente a Bruxelles, che realizza una pittura di sovrapposizioni. Il ritratto sfocato, come l’emblema etnico, o la nuova selvatichezza urbana, trovano ospitalità in composizioni veramente equilibrate. Ci troviamo di fronte a una serie di quadri realizzati con la tecnica dell’olio su lino, volutamente la più tradizionale, che captano la nostra attenzione con un formato “quadrotto” piuttosto ammiccante, e altrettanto inedito: 170X160 cm. In realtà tutti gli artisti che si rivolgono, o ritornano, alla pittura, hanno ben presente l’obiettivo della simultaneità. Come ben fa riflettere Raffaele Gavarro nel suo scritto, per la pittura innanzi tutto si tratta di vincere la scommessa nei confronti della velocità, terreno sul quale altri mezzi, come il video o l’happening sembravano aver

Galleria Bonomo al Portico d’Ottavia, Roma.

Hilario Isola

arte contemporanea frequenta poco lo stile dell’omaggio. Fino a qualche L’ tempo fa, però, erano frequenti le opere

che si dedicavano a qualche personaggio, scelto per merito o per affinità. Fa eccezione a questo modo di procedere la mostra di Hilario Isola dalla Bonomo a Roma. Il nostro artista fa una galleria di ritratti di filosofi; sfilano, dunque, sulle pareti, i volti di Simone de Beauvoir, Jean-Paul Sartre, Platone, Tommaso Moro, Aristotele, Giordano Bruno e Socrate. Fin qui, mi direte, siamo nella dimensione dell’encomio, che, sebbene oggi poco frequentato, certo non è una novità. La novità, e addirittura la sorpresa, inevitabilmente colpiscono il visitatore, all’osservazione della mostra. Non ho visto l’esposizione all’inaugurazione, così, dopo qualche minuto di orientamento, mi avvicino alla padrona di casa esclamando: “Oddio! La mostra è già terminata!” Un sorriso mi risponde: “Guardi che è ancora installata…” Le sculture di Isola sono grandi un

Sean Crossley, The fertile ground, 2016 olio su tela, 170x160 cm. A sinistra: Sean Crossley, The missing third, 2016 olio su tela, 170x160 cm. In basso: Sean Crossley, The classical, 2016 olio su tela, 170x160 cm.

vinto. In questo caso il mix, invero consueto, di frammenti di vissuto, emblemi citati di differenti culture, trasporti cromatici di grande intensità, è rinnovato con un gusto veramente affinato, che guarda contemporaneamente al frammento e all’insieme, anche dell’esposizione tutta. Una parte dello spessore culturale della mostra è affidato anche al titolo, in cui bleach, forse vale anche nel senso di “cancellare”: tutto questo mondo artistico, direttamente composto con la pittura, o citato attraverso la cultura, vale quanto una cancellazione. Tutto l’universo di segni nel quale ci troviamo vive in una dimensione di compresenza caotica e “liquida”, la cui sommatoria non è altro che il silenzio. Paolo Aita

solo, misero centimetro, per cui i visitatori nella loro visita sono forniti di una lente di ingrandimento, senza la quale non è possibile vedere niente… La dimensione filosofica dell’omaggio è evidente. Partendo dal presupposto che di alcuni filosofi, come Socrate, non si conosce il volto, e che degli altri Isola usa un’immagine piuttosto stereotipata dalla storia, è evidente che il senso dell’evento non deve essere cercato nei ritratti. Si comprende così, che il senso dell’operazione risiede in questo chinarsi verso la parete, per interrogare un muro, la cui risposta deve essere carpita con fatica. Il lavoro di messa a fuoco dell’oggetto, con la lente e l’occhio posti alla giusta distanza, sono una metafora dell’indagine filosofica, fatta di attenzione e captazione di una realtà, di cui innanzi tutto occorre accogliere e decodificare i segreti. Che l’esposizione abbia un senso eminentemente filosofico, sembrano confermarlo anche le due opere ulteriori, due volti, al contrario di dimensioni superiori al vero, realizzati con raspi da grappa. In questo caso credo si alluda alla dimensione dionisiaca dalla ricerca filosofica, all’abban-

Galleria Pio Monti, Roma

Tommaso Lisanti Maurizio Mochetti

tutti i campi del sapere esistono i vecchi”. Sebbene l’espressione Inonn“grandi sia del tutto calzante per Pio Mon-

ti, gioviale e propositivo come sempre, mi sento di affibbiargli questo epiteto, perché le sue innumerevoli proposte artistiche, le sue provocazioni, ormai fanno parte dell’arte italiana, e hanno sempre fanno riflettere in maniera disinvolta ma utilissima il nostro piccolo universo. In questo caso Pio Monti tenta un matrimonio tra Lisanti e Mochetti; sulla carta impossibile, nella realtà invece particolarmente gustoso, come si può dedurre dal testo di Ignazio Licata. Al fondo di questa coppia c’è una indicazione estetica precisa. In certe parti del mondo, per esempio in Russia, ancora persiste in modo comune ed esplicito la fascinazione del cosmo. Capita sovente che monumenti, arredamenti, gadget e suppellettili riflettano il Progressive dei tardi anni ’60, e si conceda spazio a quella estetica fatta di forme filanti, puntuali ed efficienti, futuribili in una parola, atte a contrastare, ma anche a dialogare, con eventuali presenze aliene. La mostra di Pio Monti, con gesto da “grande vecchio” che propone la Tommaso Lisanti, Microplanton, 1993 cm 40x50.

APRILE/MAGGIO 2016 | 257 segno - 63


sua visione del mondo, mi sembra proprio si soffermi su questa estetica, con un’unione inedita dei due artisti. Visivamente mi sembra che l’unione sia particolarmente felice. Lo spazio della galleria è inseminato e campito dalla scia dell’aeroplano di Mochetti, che troviamo solo alla fine, quando si sia percorso integralmente il cuneo della sua scia, dal pavimento verso il soffitto. Il suo apice rosso risuona nello spazio con una efficacia impeccabile. Al contrario le opere di Lisanti, che sembra fraternizzare con gli alieni, ci trattengono in una dimensione che è doppiamente nostra, perché citazione di tanta produzione cult degli anni ’60 (pensiamo perfino a L’uomo che non c’era dei Fratelli Coen, dove troviamo un ammicco a questa cultura), e assillo sempiterno dei media, che quotidianamente ci informano di contatti con gli extra-terrestri. Nell’insieme avverto un senso di nostalgia, come se con l’idea (e la speranza delusa) degli extra-terrestri, si sia involata la nostra parte ottimista, che non crede più che i nostri problemi possano essere risolti da un’intelligenza aliena. Forse si percepisce così lo spessore della mostra: una tragi-comica riflessione sullo scenario di un nuovo secolo che stenta a decollare. Paolo Aita Galleria Menesini, Genova

Runo Lagomarsino, West is everywhere you look

spaziali, i robot, i manga. In una sua breve intervista Zap racconta che “disegno a matita, poi dipingo con acquerelli; per me è facile. Mi piace il colore degli acquerelli, miscelarli con acqua. I vulcani li ho tutti in testa” (cit.). Ama il bianco - che non è mai quello del foglio - il nero e pochi altri colori, i suoi, ripetuti, pensati e ragionati insieme al disegno, durante il suo realizzarsi. Questo, è il suo raccontare. Simona Olivieri Galleria Francesca Minini, Milano

Runo Lagomarsino

lavoro di Runo Lagomarsino (Lund, La linea di Zap IlSvezia 1977, vive e lavora a San Paolo, e Malmö, Svezia) è una ricerca Un’arte senza ombre Brasile finalizzata a indagare i modelli storiogra-

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ercorrere la mostra La linea di Zap. Un’arte senza ombre allestita alla Galleria Menesini a Genova è entrare direttamente nei mondi di Maurizio Zappon (nome d’arte Zap). Curata da Giorgio Bedoni e Simona Olivieri, e nata all’interno delle attività dell’Atelier Diblu (che non è una scuola d’arte ma un luogo per chi ama la pratica artistica), la mostra è la prima personale di questo artista che appartiene - a buon diritto - all’universo contemporaneo dell’Outsider Art. Ci si perde e ci si immerge in vedute di vulcani, tra lava e zapilli, neve e nebbie, acque calde e montagne emerse. E, in un bestiario, che spazia da animali immaginari ad animali reali. Mondi sospesi, non è il quotidiano ad essere rappresentato o il reale ad influenzare il suo flusso creativo ma il pensiero e la sua personale ricerca su soggetti che lo accompagnano da anni. Sono mondi rappresentati con apparente semplicità. Delimitati da un segno deciso a matita, confini grigi e indicazioni di colore da aggiungere in un secondo momento. Il disegnare - per Zap - è cosa intima da fare tra i muri di casa, nella tranquillità, il colore lo si mette poi, come una sorta di rituale, durante le mattine passate in atelier. Un rito che si ripete ogni giorno. Come scrive Giorgio Bedoni “nulla più della linea disegna la tensione immobile di un vulcano. Tecnica ben nota ai vedutisti della tradizione giapponese, che da altri lidi, e forse da altri mondi, Zap ha fatto sua, ricavandone una propria, originale versione” dice continuando “dei vulcani, in genere, privilegia vedute in serie e una sua esclusiva classifica, nella quale il monte Fuji pare il preferito, come nei grandi pittori del “mondo fluttuante”, Hiroshige e Hokusai, che Zap non conosce ma cui è legato per vie misteriose da una singolare parentela” (da: La linea di Zap. Un’arte senza ombre, catalogo della mostra). Quello di Zap è un archivio enciclopedico. Un catalogo di soggetti che tornano e ritornano nei suoi lavori. È un naturalista che classifica ciò che fa parte dei sui mondi, ciò che ha bisogno di conoscere, ciò che ha bisogno di far conoscere. Realizza serie di disegni nei quali si ritrovano i soggetti a lui più cari, il monte Fuji, i mostri, le cose 64 - segno 257 | APRILE/MAGGIO 2016

fici, geografici e matematici che hanno informato il controllo coloniale del mondo da parte della modernità occidentale. Come si articola il rapporto tra l’invenzione della descrizione storico-geografica del pianeta ad opera della ragione europea e il dominio politico di esso? Le ricerche di Lagomarsino provano a rispondere a tale quesito muovendo da una prospettiva di analisi culturale comparata, suggerendo la possibilità di nuove forme di interpretazione culturale, alternative e oppositive rispetto a quelle sancite e trasmesse dalla ragione moderna europea”. Con queste parole di Luigi Fassi si introduce la figura di Runo Lagomarsino in occasione della la sua prima personale da Francesca Minini. Il progetto dell’artista si apre con un segnale/cartello, Deportation regime che esplicita subito il climax dell’intera mostra. Il riferimento ad Agamben e la sua nozione di sovranità del potere è per l’artista fondamentale, e allo stesso modo come tale potere sia in grado di far ripensare le nostre categorie politiche. Seguendo il filo rosso della storia, percorrendo con Agamben il suo testo Homo Sacer, si possono cercare di decifrare gli enigmi posti dalle opere di Lagomarsino e affrontare i totalitarismi e le nefandezze - prima di tutto il fascismo e il nazismo - che lo scorso secolo ha proposto alla storia. Oggi, senza eccedere, possiamo vederlo in un ambito, non follemente sistematizzato come erano allora i lager ma altrettanto crudele, in ciò che sta accadendo nel Mediterraneo. Le mappe appese, della seconda sala, fluttuanti, sottosopra rispetto alla convenzionale lettura che ne possiamo fare, quasi una meccanica scenografia barocca ribaltata, ci mettono nell’impossibilità di stabilire dei confini, di leggere una carta come convenzione spazio/territoriale e anche spazio/temporale. Il titolo della mostra nasce proprio da questo lavoro. L’Occidente è ovunque guardi, West is everywhere you look. Dai Balcani all’Asia Minore, dalla Penisola Iberica all’Africa del Nord, il mare nostrum costituisce da sempre un confine che allo stesso tempo è ostacolo e legame tra le parti. Clima, natura, cibo, modi

di vivere, religioni cambiano, si mescolano e si ricompongono, a seconda che si trovino a Nord o a Sud del mare. Una vera e propria sintassi mediterranea, articolata grazie ad una grammatica interna, con la quale possiamo vedere, sentire, ascoltare questo mare. Ecco che le ottanta immagini costruite da Lagomarsino vanno a definire un racconto del nostro mare; una sequenza di diapositive ci permette di leggere un’interezza che lentamente si dissolve lasciando spazio ad un buco che risucchia il Mediterraneo facendolo scomparire definitivamente. Con esso scomparirebbe anche la millenaria civiltà che ha definito e costruito il progredire del mondo e della razza umana. (dal cs di Alberto Salvadori) Spazio Vanni, Torino

Giuliana Storino

La 7a edizione di Autofocus, curato da Olga Gambari, ha assegnato a Giuliana Storino il premio “progetto espositivo”. La sua mostra Caduta libera, è stata presentata allo Spazio Vanni di Torino. Inoltre l’artista è stata anche presentata a “The Others” (Torino, 2015). È, invece, Francesca Arri la vincitrice del premio “performance”, che ha debuttato a “The Others|OtherStage” replicata, con una nuova versione site specific, contestualmente al vernissage della mostra di Giuliana Storino. Caduta libera, attiene all’analisi delle dinamiche e degli equilibri comportamentali della materia. La mostra raccoglie diverse opere che, pur nella resa estremamente rigorosa, raffinata e impalpabile, non rinunciano al paradosso e all’ironia; come avviene per Identica visione e Buco d’acqua. La componente del lavoro di Giuliana Storino è sempre un immagine dinamica, costruita su un ritmo e una vibrazione, determinati direttamente dal gesto della mano, che l’artista trasmette al supporto. Il ritmo viene dal corpo, la materia è sottoposta a un campo di forze: centrifuga e centripeta; la contrazione e l’espansione, l’accelerazione gravitazionale producono trame che variano d’intensità segno e grado: l’arabesco, la parte tondeggiante, quasi una scrittura, è una costante. Giuliana Storino, Identica Visione, 2015. Particolare



Palazzo Pretorio, Cittadella (PD)

MAKING SENSE Nuovi immaginari possibili

a mostra Making Sense, curata da Guido Bartorelli, Caterina Benvegnù e L Stefano Volpato, è una collettiva comprendente 5 giovani artisti, già noti a livello nazionale, come: Francesco Bertelé, Kensuke Koike, Roberto Fassone, Laurina Paperina ed Elisa Strinna; e tre realtà maker italiane: Friendsmakebook, Recipient e Lumi Industries. L’esposizione va collocata sulla scia di ricerca che Guido Bartorelli sta portando avanti da diversi anni, inerente al rapporto tra arte contemporanea, nuove tecnologie e amatori. Sono da ricordare, infatti, alcuni esempi precedenti, come: Art//Tube. L’arte alla prova della creatività amatoriale, sulla relazione tra video d’artista e video amatoriale in rete, e Augmented Place. L’arte aumenta la realtà, dove la funzione del wi-fi è stata analizzata come agente di fruizione di lavori d’arte contemporanea scaricabili da una piattaforma online. Making Sense, in questo caso, compie un’ampia ricerca sui nuovi artigiani digitali, ovvero i makers, coloro che tendono ad inventare software, programmi ed oggetti tecnologici spesso avvalendosi di tecnologie open source. L’intento del progetto, arricchito anche da una mini residenza durante la quale sono stati messi in dialogo gli artisti con i makers, è quello di rendere possibile una collaborazione tra due sistemi apparentemente diversi, con il fine di produrre dei lavori ex novo pensati esclusivamente per la mostra. Ma sono poi così differenti queste due realtà? In verità, gli elementi più interessanti di Making Sense risiedono proprio nell’aspetto ludico e nell’aria di libertà che si respira nell’estetica delle opere. L’essere creativi è, di fatto, la caratteristica comune tra questi artisti e i makers. Non risulta, di conseguenza, difficile comprendere perché degli ambiti apparentemente diversi abbiano degli aspetti comuni e possano interagire in maniera fluida. Gli artisti che sono stati invitati, infatti, sono giovani trentenni che appartengono per cultura e affinità di età alla stessa generazione e alle medesime influenze culturali, come la cultura visiva dei videogiochi, il Web 2.0, le nuove tecnologie, i social network, molti elementi che emergono anche nei lavori esposti. Gli strumenti tecnologici messi a disposizione dalle realtà maker sono una stampante 3D, arduino e risograph. Appare, così, chiaro anche il riferimento al mondo hacker, in maniera positiva, e a quello open source, dove questi linguaggi espressivi sono caratterizzati da dinamiche copy-left e dalla volontà di essere resi disponibili alla popolazione. Il percorso mostra si snoda attraverso il piano nobile del palazzo, dove ogni stanza è dedicata

a un artista, come se fosse una piccola personale. L’opera di Francesco Bertelé è completamente incentrata sul volo dei moscerini ed è, forse, la più complessa per i substrati narrativi che la caratterizzano. L’artista ha utilizzato arduino e dei sistemi interattivi, avvalendosi della collaborazione del collettivo Recipient. Questi esserini sono divenuti il presupposto per creare un lavoro strutturato come un archivio visivo di grafici, che non sono altro che le traiettorie di tali insetti. La sala al buio, nella quale l’installazione è accompagnata da un audio di Chopin, è strutturata con la presenza di un’olografia luminosa di particelle in movimento, accompagnata da una meravigliosa scultura rappresentante uno Stregone Danzante, realizzata con materiali naturali raccolti. E’ proprio in questa presenza-assenza che si rende tangibile tutto il percorso artistico di Bertelé, inerente a dinamiche mitologiche e naturalistiche. I disegni di Laurina Paperina di carattere ironico e fumettistico, invece, dialogano con dei piccoli personaggi da lei creati come fossero mini toys realizzati grazie alla stampante 3D, insieme a un libro d’artista stampato con la tecnica risograph. L’opera di Roberto Fassone è un lavoro sonoro, risultato di una performance realizzata durante l’opening, accompagnato dall’esposizione di un libro d’artista composto da 35 copertine diverse. Si pone, così, come un risultato accattivante degli aspetti ironici e giocosi che spesso sottendono il lavoro performativo di Fassone. Il progetto di Kensuke Koike è un’installazione modulare di chiara impronta ludica, che riempie completamente gli spazi di una stanza come se fosse un’opera ambientale, ma al chiuso. Grazie all’utilizzo dell’oro, dialoga in maniera efficace con gli affreschi antichi del palazzo, impostandosi come il risultato di un’operazione sitespecific riuscita magnificamente. Elisa Strinna, d’altra parte, lavora sul concetto di antropologia visiva, mostrando sia una narrazione in situ scritta direttamente sui pannelli espositivi, sia un’installazione basata sulla realizzazione di un catino pieno d’acqua, un’opera nata dopo una visita in Messico a una tomba di un astrologo. Making Sense è arricchita dalla programmazione di una serie di conferenze sotto la direzione artistica di Guido Bartorelli e la Presidenza di Piergiuseppe Baggio. Giada Pellicari

Kensuke Koike, Paper-Scissors Rock, 2015.

Laurina Paperina e Lumi Industries

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Francesco Bertelé, Thermal Beings, 2015

Alliance Française, Bari

Materiali on quale sensibilità bisogna approcciare la condizione materiale “C in un’epoca in cui l’essere senza materia,

il virtuale, sono accellerati dall’inarrestabile proliferare dei mezzi digitali?” Parte da questo interrogativo aperto, che cita come epocale snodo postmoderno e concettuale la celebre mostra “Les Immaterieux” di Lyotard tenuta al Beaubourg nel 1985, lo sfondo critico della collettiva “Materiali” curata da Marilena di Tursi all’Alliance Francaise di Bari. Problematicamente riunisce un duo esordiente e quattro artisti che hanno già collaborato con l’associazione (di cui si celebrano per l’occasione i 66 anni di attività), scelti in base alle rispettive predilezioni linguistiche. I livelli di contaminazione sono però parte integrante del gioco, anche nei casi in cui la fedeltà al medium è dichiarata. Così Pantaleo Avellis scolpisce in marmo con venature rosa, lo stesso preziosissimo dell’Opera parigina, la leggerezza apparente di una cascata di piccole foglie autunnali a parete. Gaetano Fanelli imprime invece all’amata ardesia la sottigliezza evocativa di segni incisi su modulari formelle, che alludono a costellazioni astrali. E Tarshito plasma la ceramica in simbolici vasi con bocche d’oro, sentore di un Oriente in dialogo sincretico con l’Occidente. La connotazione spuria, in una catena di citazioni e collegamenti, è evidente d’altra parte nei teatrino con frammenti di carte mutanti in penna, inchiostro, piuma, uccello, dei giovanissimi Mayra Mastromarino/Davide Partipilo, che incorporando un testo di Zola allestiscono una colta rievocazione dell’idea stessa di scrittura. Ma l’ibridazione multimediale assume un livello di provocatoria eppure intimistica eccedenza soprattutto nell’ esuberante installazione di Daniela Corbascio: dove l’uso del neon diviene il “punctum” psicologico e visivo per un assemblaggio di memoria in cui confluiscono oggetti trovati ed effetti personali di grande impatto. Che, in omaggio alla Francia, sembrano anche rimandare ai tragici memoriali spontaneamente creatisi per le strade di Parigi subito dopo i barbari attentati terroristici recenti... Antonella Marino Gaetano Fanelli, CENT’ONE, 2015 Ardesia, cm 7x7 cadauno di 100 pezzi


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

ex Conservatorio di Sant’Anna, Lecce

Rita Tondo Verso l’alto

ecuperare un punto di vista altro sulle cose, attraverso l’esercizio R dello sguardo che cerca di tornare a ve-

Rita Tondo, Verso l’alto 7, 2015. Foto, dim. variabile. Rita Tondo, Verso l’alto 6, 2015. Foto.

Polo Museale S.Spirito, Lanciano

New Year’s Brunch culpture Network, istituzione no profit con sede in Germania per la S promozione e il supporto della scultura

contemporanea, ha organizzato New Year’s Brunch, festival internazionale giunto quest’anno alla settima edizione con il tema La natura come materiale per la scultura. 58 le location in 18 paesi europei, tra queste il Polo Museale S. Spirito di Lanciano (ch) dove, sotto la guida degli organizzatori Giuseppe Colangelo, Tonino Di Bosica, Elena La Morgia, Antonella Scampoli e Angela Troilo, 63 artisti italiani e stranieri hanno esposto le loro opere: Ettore Altieri, Nicola Antonelli, Alessandro Antonucci, Dario Battistoni, Domenico Bindi, Isabella Buccoliero, Sestilio Burattini, Emanuela Camacci, Lia Cavo, Carla Cerbaso, Franco Chiarello, Cristina Ciaccia, Andrea Ciampini, Giuseppe Colangelo, Miriam Console, Mario Costantini, Benito D’Alessandro, Carmine D’Angelo, Antonio De Marini, Pietro De Scisciolo, Anna Sonia Del Ciotto, Petronio Del Ponte, Antonio Di Campli, Riccardo Di Ienno, Fabio Di Lizio, Carla Di Pardo, Bruno Di Pietro, Marino Di Prospero, Stefano Faccini, Filippo Ferri, Ivo Galassi, Claudio Gaspari, Valentino Giampaoli, Daniela Giglio, Ivan Iannucci, Franca Ietto, Oriana Impei, Edoardo Lalli, Dangyong Liu, Nino Luca, Luciano Lupoletti, Vanni Macchiagodena, Meletios Meletiou, Mauro Antonio Mezzina, Claudio Michetti, Gabi Minedi, Alessandra Minerva, Diego Sandro Mostacci, Matthias Omahen, Francesco Paglialunga, Vito Pancella, Simona Rapino, Maurizio Righetti, Marco Rodomonti, Filippo Scioli, Lo-

dere, rompendo la cortina fumogena del bombardamento iconico cui siamo quotidianamente sottoposti. Sono in parte i moventi della nuova ricerca di Rita Tondo, presentata nell’ex Conservatorio di Sant’Anna a Lecce in una mostra a cura di Renato Barilli. Dall’ancoraggio ad una pittura come strumento conoscitivo e di memoria sulle radici culturali e naturali del Salento, e da precedenti sperimentazioni spaziali, l’artista salentina– per anni docente di Pittura Accademia di Lecce e con una carriera ormai quarantennale- di recente ha sentito il bisogno di passare alla fotografia, un mezzo capace di assecondare in modo più diretto l’ esigenza di un ascolto del sè. Le immagini esposte, circa 35 scatti di diversa dimensione rerenzo Scutti, Antonio Sorace, Felice Tagliaferri, Genti Tavanxhiu, Solmaz Vilikachi, Debora Vinciguerra, Valeria Vitulli, Yongxu Wang, Walter Zuccarini. L’evento, alla cui realizzazione hanno contribuito i Licei artistici di Lanciano, Vasto e Castelli e le prestigiose Accademie di Belle Arti di Roma, Lecce e Bari, ha ricevuto il patrocinio del Museo Tattile Statale Omero (an) e del Comune di Lanciano, Assessorato alla Cultura e alla Pubblica Istruzione. Dal giorno dell’inaugurazione, in collegamento virtuale internazionale con le altre sedi europee, numerosi gli artisti e appassionati di scultura dell’intera costa adriatica e regioni limitrofe intervenuti. Da sottolineare come, per la prima volta in Abruzzo, grazie alla partecipazione dello scultore Felice Tagliaferri e al patrocino del Museo Tattile Statale di Omero, le persone non vedenti e ipovedenti (ospiti, in occasione della giornata inaugurale, i membri dell’Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti di Chieti) abbiano avuto la possibilità di fruire delle opere d’arte toccando le sculture. Numerose le iniziative dedicate ai ragazzi, realizzate dalla cooperativa il Pensiero (che gestisce il Polo Museale Santo Spirito) durante tutta la durata dell’esposizione: un appuntamento è stato dedicato ai bambini delle Scuole dell’Infanzia, altri ai licei artistici e a scolaresche da tutto il comprensorio, con dimostrazioni e laboratori. La notevole affluenza di pubblico ha consigliato agli organizzatori il prolungamento del Festival dal 7 al 21 febbraio. La Tavola Rotonda La Scultura oggi, svoltasi in occasione del finissage, alla quale hanno preso parte artisti, rappresentanti delle Accademie di Belle Arti e critici, ha sancito la necessità e la voglia di proseguire una sorta di cammino insieme, dando vita a una newsletter e una serie di incontri, il prossimo previsto a maggio.

alizzati dal 2015 ad oggi, costruiscono un percorso autobiografico attraverso “luoghi, particolare visivi, segni e impronte” della periferia salentina, osservati guardando “Verso l’alto”, come segnala il titolo di questa personale. Da sotto in su si stagliano così porzioni di edifici, frammenti di cieli tersi e, ricorrenti, dettagli di antenne che sembrano fondersi con la natura: tanto che Barilli li paragona a fiori, perché “molto spesso i gambi , i fusti, gli steli si ingrossano, buttano come deIle gemme, appunto quando sostengono degli specchi parabolici, o dei congegni di avvistamento e di registrazione”. Al tempo stesso quello di Rita Tondo si potrebbe definire uno “sguardo- corpo”. Uno sguardo cioè che parte da se stessa, dalla parzialità necessaria e dall’intensità del suo sentire, ma si pone il problema di “vedere oltre”. Oltre gli stereotipi, oltre il suo stesso passato e la sua storia, pur sempre preziosa e sedimentata, per proiettarsi verso un altrove che trascende il dato visivo ed assume valenze anche simboliche e spirituali. Antonella Marino

Carla Cerbaso, la madre-3.

Giuseppe Colangelo seme con germogli alla deriva.

Sestilio Burattini, Levante.

cocoon - lia cavo (argilla refrattaria nera).

APRILE/MAGGIO 2016 | 257 segno - 67


Salvatore Anelli, Urli di preda, 2016 ferro,teschio, oro, foglie e vetro

Centro Di Sarro a Roma

Anelli, Flaccavento e Pingitore cco una ghiotta occasione per conoscere tre infaticabili della ricerca E dell’area meridionale. Il trio di artisti

calabresi che coordina tante attività pubbliche e il Centro Vertigo, giunge alla capitale con un notevole curriculum di manifestazioni, anche importate, che negli anni ha posto Cosenza frequentemente all’attenzione dei più sensibili. Tutte le loro attività sono volte a diffondere un’idea di arte di ricerca che sia al di sopra delle prevenzioni, un protendersi verso la dimensione di un inedito, che ha incontrato nel tempo tutti i linguaggi dell’arte. Per le opere presentate in questa occasione, fondamentalmente due sono gli ingredienti della ricerca: la materia e l’idea di assoluto. Come avviene in tanta arte del Sud, secondo i nostri artisti la ricerca degli anni ‘70 ha ancora un senso. Ecco che sfilano davanti i nostri occhi materie fin troppo sapide, dense di umori che rimandano a un barocco trans-temporale che si nutre di materie bruciate o decomposte in Anelli, gomme abissalmente nere, per mimesi di orizzonti stratificati, ma anche per l’evocazione di un limite che

Giovanni Leto, Carta e pigmenti su tela, 140x140 cm, 1999. Collezione A. Catanzaro.

Galleria Adalberto Catanzaro, Bagheria (Pa)

Giovanni Leto Il senso del dis-velare

viaggio di un’artista è contrassegnato continua ricerca di dare alla proIprialdalla creatività un’espressione capace di

mostrare una realtà nascosta, dapprima colta attraverso l’intuito e in seguito analizzata, per poi diventare materia su una tela, presenza attiva e vitale nel tempo. Lo scorrere dell’esistenza ne asseconda, quasi, l’ineluttabilità, o la fugacità di momenti resi immortali dall’Arte, ma al contempo afferma la concretezza di 68 - segno 257 | APRILE/MAGGIO 2016

morbidamente respinge in Flaccavento, fino al bianco ossessionato di Pingitore, che rifiuta perfino la soddisfazione della perfezione, essendo sempre sospesa tra umano e assoluto. La sensazione che si ha è di un’arte senza tempo, che conosce e condivide tutti gli stimoli e le seduzioni della migliore ricerca, al contempo, con dinamiche ben lontane dalla frenesia metropolitana. Siamo di fronte a distillati di materia tanto agìta quanto contemplata, con un compiacimento che vuole superare ogni dimensione del messaggio, e attingere un assoluto vissuto come parola conclusiva, ultimo passo di un percorso. Salvatore Anelli, dunque, indaga sulla forma e sul volume del teschio, con una ricerca pluriennale, che lo ha portato ad

usare anche la scultura e il video, ben presentati in questa tripla personale romana. Franco Flaccavento rintraccia residui di esistenze tra la memoria e il blocco, tra l’attimo di una tecnica acquerellata e l’eterno sbarramento di un limite nero evidentemente, tangibilmente, gommoso. Tarcisio Pingitore si dà un tempo per una contemplazione di sudari bianchi, che sono tanto evocazione del corpo un tempo da loro coperto, quanto esibizione di una possibilità di essere forma, forma dell’assente. L’interesse della mostra è aumentato da un pregevole catalogo che porta una bella riflessione di Luigi Paolo Finizio, da sempre attento a questa ricerca. Paolo Aita

Franco Flaccavento, come è profondo il mare, 2016 Gomma a strisce su telaio di legno

Tarcisio Pingitore, Empatie, 2015 installazione ambiente

Giovanni Leto, Orizzonte Om, carta e pigmenti su tela 120x100 cm, 1996. Collezione privata Palermo.

un presente in perenne divenire. In tale sospensione si narrano, a Bagheria, alla galleria Adalberto Catanzaro , i “Racconti di carte”, la retrospettiva, in corso, di Giovanni Leto. Un allestimento sobrio ma essenziale, in cui si coglie con estrema visione d’insieme, l’evoluzione stilistica, del maestro siciliano, dalla metà degli anni ‘80 sino alle ultime opere del 2015. Un percorso artistico basato su una profonda indagine nella composizione, accompagnata da un rigore mentale che si espleta nel “fare” dell’arte, nel senso della manualità e del movimento degli elementi, e nel loro distinguersi danno corpo all’opera, evidenziandone influenze e rimandi all’Arte del secondo Novecento. La carta, il giornale assunto a dato tecnico ed estetico di un linguaggio che costitui-

sce il mezzo per rivelare la propria visione del mondo e dell’uomo. Infatti, “le opere di Leto, sono determinate - come scrive, nel testo in catalogo, Valentino Catricalà - in primis dall’attorcigliamento: dall’atto, dall’azione ripetuta dell’attorcigliare. “Leto attorciglia continuamente fogli, la sua è una performance quotidiana ripetutamente vissuta nel suo studio”. E l’azione determina la potenza comunicativa, ed è nel gesto dell’arrotolare il materiale cartaceo, che si cela quella realtà in attesa di essere dis-velata dall’osservatore. Se, per un attimo, provassimo ad aprire i salsicciotti di carta, cosa scopriremmo? Se, ancora, provassimo a scomporre l’intera struttura del quadro, cosa rimarrebbe se ne sconvolgessimo l’equilibrio? Ci ritroveremmo una superficie nuda, interamente spogliata dei suoi abiti, ma ne troveremmo, forse l’essenza, l’anima dell’opera, ossia il colore. Nello specifico, la pennellata o la spatolata, la quale racchiude ed esprime l’atto della creazione in sé. Un passato da pittore che ritorna per dare stabilità e funge da contrappeso per equilibrare l’opera. Quindi, l’elemento informale con il suo carico di energia, lascia anche spazio a quelle schegge dai toni policromi, rinviando a sollecitazioni mentali o psicologiche orientate ad aprire nuovi circuiti nell’arte di Giovanni Leto. Una mostra personale ove si palesa la capacità critica e le scelte culturali dell’artista, fatte in piena aderenza col proprio bagaglio esperenziale, in connubio con un sentire pacato e sensibile, volto a rappresentare orizzonti “altri” ed esterni di una coscienza, rivolta a scrutarne limiti e confini. Giovanna Cavarretta


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Maurizio Mochetti, Calotte (Oggetto Polimerico), 1966, Fiberglass, elastic, dimensioni variabili.

Galleria Enrico Astuni, Bologna

66|16

nrico Astuni propone un interessantissimo focus sue due date precise E rappresentative di un ciclo artistico du-

rato mezzo secolo. Il progetto, a cura di Lorenzo Bruni, vede coinvolti artisti di diverse generazioni e distanti fra loro per riferimenti culturali e ricerche: Marinus Boezem, Simone Forti, David Medalla, Maurizio Mochetti, Maurizio Nannucci, Malick Sidibé e Michael Snow, accomunati, tuttavia, da riflessioni simili sul concetto di “smaterializzazione dell’opera d’arte”. È un tema, questo, che vive un’onda lunga sino ai giorni nostri, accostabile al mondo smaterializzato dei social network e della comunicazione globalizzata – come sottolinea Lorenzo Bruni – con cui molte opere di recente realizzazione attivano una riflessione di tipo processuale attorno alla “presenza” dell’immagine in senso lato. Entrando nel dettaglio, 66|16 si compone di fatti in due mostre collettive a confronto fra loro, dove gli stessi artisti si confondo e

sovrappongono in un gioco contiguo di scambi e rimandi visivi. La prima pone in evidenza opere realizzate nel 1966, l’altra quelle create a partire dai primissimi giorni del 2016, cui se ne aggiungeranno altre, realizzate nel ‘tempo presente’ della mostra stessa. Una sorta di work in progress che a sua volta ne enfatizza il concept, questa volta al contrario, materializzando pensieri e progetti e quindi nuovi lavori. È l’idea di laboratorio, di officina instancabile d’idee quella che viene messa in campo da Astuni, o meglio ancora è quella di tavola rotonda aperta alla discussione collettiva, di piattaforma, di network, di rete. Ogni artista che andrà a integrarsi nel corso del tempo al progetto originario dovrà essere interpretato come un nodo fondamentale della grande maglia del processo artistico, per definizione soggetto al cambiamento continuo e al ribaltamento di status e forma. In realtà, quello che può sembrare un gioco dagli intenti storicistici, è invece una riflessione profonda sulla “Storia, sulle storie, sull’attualità del passato e sulla necessità di pensare al ruolo della cultura e della politica affinché si possa rie-

Visione della mostra, Galleria Enrico Astuni, 2016 David Medalla e Enrico Astuni davanti a A Stitch In Time

David Medalla, A Stitch In Time, inaugurazione Galleria Enrico Astuni, 29 gennaio 2016

laborare il concetto di futuro collettivo”. 66|16, non è pertanto la celebrazione di un periodo storico-artistico, ma la sua analisi in termini di attivismo proiettato al futuro. Riflettere, rileggere, rimescolare, rimettere in moto potrebbero essere le parole per un ipotetico motto atto a mettere in dialogo le opere di Marinus Boezem, Simone Forti e David Medalla, quest’ultimo noto per ricerche minimaliste e di stampo processuale di matrice fluxus e l’installazione Oggetto Polimerico di Maurizio Mochetti che, per certi versi, anticipa in territorio americano le ricerche sullo spazio e sulla luce, sviluppate in seguito da Lucio Fontana. Ancora, c’è il multiplo Rosso, Poema Idroitinerante di Maurizio Nannucci, dove è evidente la sua ricerca sulla dimensione relazionale/oggettuale del linguaggio e della sua manifestazione, la serie Mariage del fotografo Malick Sidibé, una commistione fra immagine fotografica e pittura e infine, c’è il film Wavelength di Michael Snow, documento determinante nello sviluppo della video arte. In tutto questo c’è anche il progetto speciale di Jonathan Monk intitolato Ieri, oggi, domani, ecccetera…che si snoda in tre interventi realizzati appositamente dall’artista inglese, che enfatizzano ulteriormente l’idea di contenitore concettuale/sensibile sotteso all’intero progetto di mostra. Correlati a 66|16, infine, una serie di appuntamenti con cadenza settimanale il giovedì. Il primo ad avviare questo percorso è Simone Forti con l’azione Censor che l’artista realizzò per la prima volta nel 1961 nello studio/loft di Yoko Ono a New York come parte del progetto Five Dance Constructions & Some Other Things. Un documento che arrivato a Bologna è stato rimaneggiato a nuova vita, originando una sequenza di fotografie delle differenti azioni diventate un inedito e originale manifesto per il suo genere. Maria Letizia Paiato Marinus Boezem, Untitled, 1966 Metallo, telaio di legno, 240 x 180 x 140 cm.

APRILE/MAGGIO 2016 | 257 segno - 69


Fideuram Private Banker, Napoli

Davide STASINO

hi dice che la Banca è solo economia e mercato privato? La Fideuram priC vate Banker ha reso i propri spazi luoghi

di cultura dedicata all’arte contemporanea. Dal 25 Febbraio al 26 Aprile 2016 è in corso la personale di Davide Stasino, Essentia, curata da Franco Riccardo e presentata dal prof. Mario Franco. La ricerca di Davide Stasino si sviluppa nell’indagine della condizione umana e lo fa attraverso un linguaggio visivo che investe la forma (disegno) per arrivare all’essenza (essere). L’area espositiva si presenta come un percorso attraverso la poesia pittorica di figure anonime (28 lavori) che si caricano di energia nel presente e nel futuro mostrandoci la sensibilità dell’artista: Stasino dipinge i corpi dell’animale sociale uomo-donna e li definisce semplici involucri, gabbie dell’essere, ritratti simili nella loro cromatura grigia. Le sue figure polisemiche sono i Fantasmi dell’oggi e Forme amorfe del domani impresse sulle tele o su carta; è un’ontologia in termini filosofici o un dipingere il visibile per afferrare l’invisibile. L’arte di Stasino si veste di un Estetica dello spirito che si materializza nelle paste cromatiche, uniche nello stile: le linee che danno forma ai corpi dipinti diventano traduzione del vuoto contemporaneo caratterizzato dalla perdita del “sé”. Fredrich Nietzsche nella sua Genealogia della morale ci parla della “cattiva coscienza” dell’uomo culturale che si forma nel tempo restando estraneo a se stesso. Davide Stasino, con coraggio e con sguardo consapevole, testimonia l’illusione sociale di essere formati e seguiti dalla scienza, dalla tecnologia o sempli-

Lucia Gangheri, Artemis 030

Museo Archeologico Nazionale, Napoli

Lucia GANGHERI

a Femminilità mitologica si mette in mostra con il nome Artemis’-Border, L personale dell’artista Lucia Gangheri, a cura di Marco De Gemmis, inauguratasi in gennaio al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. In occasione della mostra, il 18 febbraio si è potuto assistere alla presentazione del catalogo, una piccola antologia dell’artista, presso lo Spazio Nea, Galleria contemporanea di Via Costantinopoli, che ha dedicato i suoi spazi ai lavori esemplari della Gangheri. Il progetto è stato promosso in collaborazione con Galleria Franco Riccardo artivisive ed organizzata dal Servizio Educativo del museo. Lo spazio museale fa da sfondo al corpus di opere, intento 70 - segno 257 | APRILE/MAGGIO 2016

Davide Stasino, Essentia, cm. 100x150

Davide Stasino, Essentia, cm. 80x80

cemente dalla cultura. Abitualmente riteniamo che la nostra identità sia scontata, non ci si chiede più chi siamo e abbiamo una visione distorta di cosa possa essere una sana identità: ci riconosciamo per immagini e non più per “sentimenti”. I volti cancellati dell’artista sono simbolo del sacrificio dell’uomo, che per sentirsi parte integrante di questo mondo ipertecnologico rinuncia al proprio “io”. L’artista guarda i social: Facebook; instagram; twitter definendoli collezionisti di figure umane, teatro di maschere o forse sono la nuova religione del secolo. Per gioco o per fede si paga la pena della perdita dell’identità o semplicemente dell’Essentia. L’artista medita sui sensi, sulle capacità percettive dell’individuo, evidenziando con gli smalti rossi le aree cognitive, portatrici di informazioni ed elaborazione della realtà, e lo fa per riflettere sul passaggio metaforico dall’unione corpo-anima al corpo-softwa-

re, che sarà la chiave di lettura delle opere. Davide Stasino invita i suoi fruitori alla presa di coscienza dell’uomo attuale, privo di libertà espressiva e carico di informazioni mediatiche che annichiliscono l’essere per un omogeneizzazione sociale. Simona Zamparelli

dell’artista nel ricercare un filo conduttore tra passato e futuro proponendo una installazione visiva e sonora dedicata alla dea classica Artemide Efesia, presente al MANN e trasformata dall’artista in Grande Madre e Regina delle api. Il fruitore si ritrova in uno spazio contemporaneofuturistico: una grande tela evocativa della Dea, ed un insieme di opere che formano un grande apiario, non mancano le offerte della Dea Madre: altare di plexiglas su cui sono adagiate ciotole di miele e di microchip. I linguaggi espressivi adoperati da Lucia Gangheri si fanno carico di un estetica celebrativa, in cui gli opposti, natura-uomo, eros-thanatos, determinano la chiave di lettura delle opere. Sembrerebbe rifarsi al poeta Friedrich Hölderlin: l’uomo deve ritrovare l’armonia in questa vita, perduta per concentrarsi su se stesso, dimenticando che è egli stesso naturalità. L’artista dice: “La Grande Madre” discende dallo spazio per esortare gli uomini a non oltrepassare il confine. Quali sono i confini? Tracciare borders non è determinare gli opposti? Tutte le cose sono il cavo di una stessa onda, una singola vibrazione:

la Natura, che è messa in crisi dalla manipolazione dell’uomo di cultura. L’armonia greca cede il posto al caos sociale di uomini che vivono di angoscia e nel dubbio del domani. La cromia delle opere quasi poppeggiante tende a sottolineare il senso della rinascita con il colore giallo; rinascere per ritrovare se stessi nel presente e nel futuro, aggrappandosi ad un tempo sfuggente. Il binomio uomo biologico e uomo culturale devono fondersi nell’equilibrio rappresentato dalla Dea Artemide che invita alla congiunzione pacifica tra elemento naturale e elemento tecnologico. I microchip disegnati dall’artista rappresentano i cavi energetici che uniscono passato biologico e futuro tecnologico. La società della cultura deve riemergere traendo ispirazione dalla collettività filantropa delle api ritratte blu melanconico dall’artista, per sottolineare la crisi ambientale, ma forse anche interiore dell’individuo che abita a limite tra io e natura. L’Artemide di Ghangheri vuole mostrarci il confine non per immunizzarci ma per rinascere. Simona Zamparelli

Lucia Gangheri, Artemis 029


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Policlinico Gemelli, Roma

GIOVENALE on la mostra “Il Cammino” nei locali aperti al pubblico del PolicliC nico Gemelli a Roma, Giovenale Tresca,

medico ginecologo oltre che pittore ben noto agli addetti ai lavori dell’ambiente artistico italiano, ha finalmente realizzato un sogno coltivato a lungo, quello di dare avvio ad un progetto di incontro tra utenti e i lavoratori di un grande ospedale e la ricerca pittorica di chi ben conosce le problematiche della medicina in quanto anch’egli operante quotidianamente nel settore. L’esposizione resa possibile grazie al contributo di entusiasmo e allo spirito organizzativo del professor Giovanni Scambia luminare della Ginecologia in servizio presso il nosocomio romano consta di 45 dipinti e tre sculture dedicati al tema della fede cattolica vissuta non come dottrina distante dal quotidiano ed ermeticamente chiusa nei suoi dogmi, ma come percorso di vita aperto a tutti coloro che sentono il bisogno di avvicinarsi ad una possibile risposta non solo alle proprie ansie ed inquietudini ma anche al desiderio di esternare e condividere la forza che nasce nell’animo umano dalla sopportazione del dolore e dalla lotta in positivo posta in essere per il suo superamento. Un percorso di confronto con l’altro e ad un tempo con le figure più care della storia sacra cui ben si adatta la scelta di Giovenale di esporre soprattutto quei suoi raggiungimenti recenti in cui all’iniziale linguaggio fortemente intriso di riferimenti alla terra e al lavoro dei campi si è sostituita una ricerca di icone elementari immediatamente comunicative ma non immemori non solo della lezione dello Chagall degli esordi a Vitebsk e del Matisse della Cappella di Vnce, ma a guardar bene anche del materismo di un Burri e della gestualità forte e tuttavia ben calibrata di un Fontana. (Paolo Balmas)

Gino Sabatini Odoardi, Senza titolo, 2016, installazione, Whitelight Art Gallery, Milano.

Whitelight Art Gallery – Milano

capoluogo lombardo dell’abruzzese Gino Sabatini Odoardi che, con Decentrato, punta dritto al cuore di una città che vive costantemente forti contrasti: economici, culturali e sociali, insinuandosi nel suo tessuto con – come spiega Martina Cavallarin, curatrice della mostra – la sua “arte intesa come territorio esistenziale costruito tra pieghe e interstizi”. E sui concetti di piegatura e fessura, Sabatini Odoardi ha costruito la sua cifra stilistica, tanto da diventare paventi centrali soprattutto nella produzione degli ultimi anni. Tra le pieghe e Cortocircuiti sono, infatti, le due principali ricerche che distinguono il suo lavoro. Solo in apparenza lontani, essi sono accomunati dalla trattazione dei temi del sacro e del profano, impegnato e ludico che, sin dagli esordi, tornano di continuo e presenti anche in questa esposizione, enfatizzati, per l’appunto, dall’idea della piega e della sua sublimazione. Pieghe fra le quali guardare e intravedere quello che è celato dal bianco assoluto della termoformatura in polistirene (tecnica a lui cara e distintiva del suo lavoro); fessure attraverso le quali scorgere un dubbio e rimettere in discussione certezze e costrutti della nostra identità culturale. La sua stessa poetica, pertanto, origina una liaison perfetta con il tema stesso della mostra annunciato nel

titolo Decentrato, a sua volta in perfetta assonanza con la città che la ospita. Decentrare, nel senso di “piccoli spostamenti parziali che implicano una progressione per derive orizzontali”. In esposizione troviamo, pertanto, Senza titolo in wireless del 2012, la nota installazione composta d’inginocchiatoi sui quali al posto del libro delle preghiere troviamo un joypad della Playstation ad aspettarci, ironica metafora del game-life quotidiano e della distorsione/decentramento della percezione stessa dell’esistenza, elemento collegato alle figure di santi già nel 2010 e qui riproposto in chiave più intimista. Poi ancora c’è Senza titolo 2013, serie di termoformature su tela fra le quali campeggia un elemento rosso fuoco, colore – elemento, anche questo peculiare del suo operare, che ci riporta alla memoria una serie di lavori del 2008 in termoformatura e smalto, ma soprattutto il lontano Progetto per impossibilità espressa del 1982, opera concettuale, dove una serie di bicchieri di vino diventano oggetto d’ironia sul sacro e al contempo toccano il tema della trasformazione. Non manca in mostra, ovviamente, la serie di pieghe Senza titolo 2013 di termoformature in polistirene con grafite, e neanche recentissimi lavori del 2016. Tuttavia, è soprattutto l’installazione composta di sedie nere impagliate, emozionante nell’ambientazione del sotterraneo, sui cui schienali poggiano delicati teli in termoformatura, a catturare l’attenzione maggiore. Esse si presentano in equilibrio su due gambe anziché quattro e rendendo impossibile allo spettatore comprendere il modo con cui si reggono. Il tutto Decentrato quel poco che basta a creare quel dubbio, spesso ignorato, sotteso alla vita stessa. Maria Letizia Paiato

Gino Sabatini Odoardi, Senza titolo, 2013, termoformatura in polistirene con grafite, cm 25x25x30 cad. (5 elementi).

Gino Sabatini Odoardi, Senza titolo in wireless, 2012, termoformatura in polistirene, legno, smalto, cm 50x50x85 cad. (12 elementi).

Gino SABATINI ODOARDI Decentrato

inaugurare la nuova sede di Whitlight Art Gallery all’interno di Copernico A Milano Centrale è la prima personale nel

Giovenale, Il cammino, 2016 Giovenale con il Ministro Lorenzin all’inaugurazione della mostra Il cammino al Policlinico Gemelli di Roma

APRILE/MAGGIO 2016 | 257 segno - 71


Atipografia, Arzignano (Vi)

GAMeC, Bergamo

Palazzo Gromo Losa, Biella

Ryan Denis Riva Henri e Carte Sospese di Denis Riva da McGinley Cartier-Bresson L Atipografia creano un’inconsueta scePalazzo Gromo Losa, dimora storica nel nografia dello spazio. Il suo mondo, fatto di Rashid centro storico della città, ospita Henri carta e pittura, gioca per quest’esposizione Johnson Cartier-Bresson. Collezione Sam, Lilette e sul concetto di Sospensione, proponendo oppia occasione espositiva alla GAPaesaggi di carta, opere sulla sintesi del paesaggio che illudono lo spettatore, indeciso se trovarsi di fronte ad un dipinto oppure no. Sono, invece, carte colorate dal tempo: lettere notarili dei primi ‘900, pagine di vecchi manuali scolastici o carte vergini cui il tempo ha conferito tonalità singolari che, sovrapposte, danno vita a orizzonti che fanno immaginare paesaggi, frutto dello studio sul paesaggio del territorio. Insieme a queste, c’è anche l’installazione L’è: una giungla cartacea che lo spettatore è invitato ad attraversare e l’opera Voler diventare o sostituire qualcos’altro in sospensione dopo un salto, una grande carta di cinque metri che racchiude la sintesi del paesaggio alla deriva, dove carta, disegno e pittura si fondono. Altre carte e disegni arricchiscono questa mostra che si conclude con una grande tela intitolata Cadono dal cielo come divinità, caratterizzata dall’uso di toni azzurri che evocano nuvole da cui scendono cani che, una volta toccato il suolo, iniziano a correre; come ultimo elogio alla magnificenza della natura.

D MeC: The Four Seasons, ampia mostra del newyorkese Ryan McGinley, alla

prima personale in un’istituzione italiana (nonché la prima che il museo dedica a un giovane fotografo del panorama internazionale). Gli scatti digitali di McGinley ruotano attorno a tematiche come giovinezza, libertà, edonismo, eccessi, vitalità e rapporto tra uomo e natura. Lo Spazio Zero ospita Reasons dell’artista afro-americano Rashid Johnson, anche in questo caso un esordio in una istituzione italiana. Le opere in mostra sono centrali nel dibattito attorno alle tematiche dell’identità, dell’integrazione, della memoria e offrono, attraverso una serie di lavori storici, una lettura profonda e più universale della pratica artistica di Johnson. Entrambe le mostre sono a cura di Stefano Raimondi e proseguono fino al 15 maggio.

Casa Testori, Novate Milanese (MI)

Andrea Bianconi / Matteo Negri doppio senso di Casa Testori vede

A protagonisti Andrea Bianconi e Matteo Negri con due progetti espositivi

Denis Riva Dreams of donkeys, 2016

Galleria Progettoarte elm, Milano

Guarneri Olivieri Verna a Galleria Progettoarte elm propone,

L fino al 29 aprile, Guarneri, Olivieri, Verna. Gli anni Settanta, a cura di Ivan

Quaroni. Sono esposte circa venti opere degli anni Settanta di Riccardo Guarneri, Claudio Olivieri e Claudio Verna, periodo in cui le intuizioni dei tre artisti giungono a quella nuova maturazione espressiva, poi variamente denominata dalla critica con i termini di Pittura Analitica, Pittura-Pittura o Nuova Pittura, una tendenza che trova riscontro nelle parallele e coeve indagini dei pittori francesi (Support/Surface) e tedeschi (Analytische Maleri o Geplante Malerei).

Sébastien Szafran. La Fondazione Pierre Gianadda a Biella, mostra organizzata dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Biella e dalla Fondazione Pierre Gianadda. La collezione consiste in 226 stampe ai sali d’argento donate nel corso degli anni da Henri Cartier-Bresson all’artista suo amico Sam Szafran, insieme eccezionale di fotografie che costituisce una raccolta ricca e complessa, la più consistente di opere di Cartier-Bresson in mani private. 150 le stampe originali presenti a Biella di questa incredibile raccolta di immagini in bianco e nero, con la curatela di JeanHenry Papilloud e Sophia Cantinotti.

Ryan McGinley, Redweed, 2015 courtesy GAMeC, Bergamo Rashid Johnson, Them, 2014 courtesy GAMeC, Bergamo

di grande originalità. I loro linguaggi sono molto diversi, ma ciò che li caratterizza è la capacità di gestire gli spazi articolati della casa e del giardino in modo inaspettato. Bianconi presenta You and Myself: Performance 2006-2016, ciclo di azioni che hanno caratterizzato la sua attività degli ultimi 10 anni, realizzate in vari luoghi del mondo, da Mosca a Pechino e New York, più due perfomance inedite pensate ad hoc. Negri propone, invece, Splendida villa con giardino, viste incantevoli, titolo con cui lo scultore milanese prende possesso delle quattro stanze che si affacciano sul giardino creando un sorprendente e inedito punto di vista. Le stanze, trasformate in spazi sfuggenti e duplici con installazioni di grande suggestione, si chiudono con la grande scultura di una Vespa danzante in bronzo, posta su un piedistallo rotante. Casa Testori è presieduta da Carlo Maria Pinardi e diretta da Davide Dall’Ombra; la mostra, è realizzata in collaborazione con la galleria ABC-ARTE di Genova. Matteo Negri, courtesy Casa Testori, Novate Milanese (Mi)

Claudio Verna, Pittura, 1974, olio su tela, cm.90x130, courtesy Galleria progettoarte elm, Milano

Studio Tommaseo, Trieste Claude Viallat, 2013, acrilico su stoffa, cm.135x164 courtesy Antonella Cattani, Bolzano

Dominik Ritszel llo Studio Tommaseo Training, pro-

A getto espositivo di opere video Claude dell’artista polacco Dominik Ritszel, di fresco insignito del Premio Giovane EmerViallat ccasione di incontro con l’opera di gente Europeo Trieste Contemporanea

Antonella Cattani, Bolzano

O Claude Viallat è l’esposizione L’eloquenza del colore, fino al 20 aprile alla galleria Antonella Cattani contemporary art. In presentazione le opere del biennio 2013 / 14 che, allestite direttamente a parete, sembrano ricordarci di essere un frammento, parte di un tessuto idealmente infinito.

2015. La mostra si articola in cinque video che testimoniano l’interesse dell’artista per lo studio delle inibizioni del comportamento e delle strutture di potere, mentre la camera è un dispositivo che si addentra nell’intimità dei soggetti per rivelarne i conflitti emotivi.


attività espositive DOCUMENTAZIONI IN BREVE

Gianni Dessì, In chiaro 2014 olio su vetroresina e tempera su muro 270x220 cm.

Galleria Nicola Pedana, Caserta

Gianni Dessì In chiaro n chiaro”. Nel titolo della mostra voglia di essere espliciti. Ciò di cui “I si parla, infattti, è la pittura, la pittura che

cerca la sua evidenza, il suo fare ampio e figurato, che dispiegandosi incontra l’immagine, vocazione, tra luci e ombre, alla vita e all’arte”. Con queste parole l’artista Gianni Dessì, descrive il contenuto poetico della sua personale alla Galleria Nicola Pedana di Caserta. Curata da Ivan Qua-

roni, la mostra presenta una quindicina di lavori tra tele e sculture appartenenti alla sua recente produzione, fra i quali alcuni caratterizzati dalla particolarità di colori chiari e scuri, bianchi e neri che s’intrecciano e si accavallano generando fantasiose immagini e visioni idilliache. Sua peculiarità è l’apparente sconfinamento della pittura oltre il perimetro del supporto, il cui senso si rintraccia in un ancestrale ritorno all’origine del fare pittura. Il suo agire va, pertanto, interpretato non come una fuoriuscita della pittura (expandend painting), ma come un campo proprio del suo stesso essere artista, dove il muro o la parete sono i luoghi originari in cui la pittura genera una spazialità nuova e con essa nuovi significati. Questo senso di lirismo che attraversa tutto il suo lavoro, Dessì lo sottolinea anche nella comunicazione stessa della mostra, In chiaro, titolo dell’esposizione diventa quello di una vera e propria poesia, i cui versi sono composti anche graficamente come un’ode: L’un l’altro Terra mia Detto fatto A&e Nel due l’uno Stanza In margine Historia Nero Itinere In fede Tuttalavita Riflesso Canto Oggi e domani

Abbazia di S.Spirito al Morrone, Sulmona

Piero Pizzicannella, Mappe del Mondo o Cattedrale, 2015, tecnica mista su tela, cm.65x105 courtesy Archivio Pizzi Cannella, Roma

ni dei capolavori di Botticelli, Giorgione, Giotto, Leonardo da Vinci, con opere di artisti contemporanei quali Alberto Biasi, Gregorio Botta, Bruno Ceccobelli, Giorgio de Chirico, Piero Guccione, Giacomo Manzù, Piero Pizzi Cannella e Oliviero Rainaldi.

Zino a Galleria 1 Opera propone la mostra

L Sacroprofano di Zino, che prende spunto da un passaggio di Zygmunt BauMatematica e bellezza

l Polo Museale della Puglia ospita in Castel del Monte, fino al 15 novembre, la Imostra Matematica e bellezza. Fibonacci e

il Numero Aureo, dedicata al connubio tra due discipline, Arte e Matemetica, strettamente connesse tra loro. L’armonia sottesa all’idea stessa di arte trae la sua ragion d’essere dal rigore delle proporzioni e dall’esatta applicazione dei rapporti numerici. L’esposizione, curata dal prof. Antonino Zichichi, pone in relazione le riproduzio-

ma anche di autori internazionali centrali nell’arte europea degli anni tra il 1970 e il 1980, realizzata con opere su carta provenienti da collezioni toscane. L’evento è, al contempo, un doveroso omaggio al lavoro del gallerista pistoiese Tonino Nespoli, protagonista di quel fecondo periodo con il suo Studio La Torre. Opere di Alighiero e Boetti, Joseph Beuys, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Fernando Melani, Aldo Mondino, Hermann Nitsch, Giulio Paolini, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Gianni Ruffi e Gilberto Zorio. Fino al 23 aprile. Gianni Ruffi, Autoritratto, 1993 vinilici e collage su carta gialla, cm.98x81x6 courtesy Galleria Peccolo, Livorno

D Carossa, Giuseppe Di Guida, Diego Dutto, Beppe Ferraro, Federica Ferzoco,

Galleria 1 Opera, Napoli

Castel del Monte, Andria

L stra Carte Povere, una panoramica di artisti, protagonisti dell’Arte Povera,

Cartabianca ario Agrimi, Lucia Cannone, Arianna

V è Arte, mostra vincitrice del Bando “Beni Invisibili – Luoghi e Maestrie delle

Tessere è Arte, particolare dell’allestimento

Carte Povere a Galleria Peccolo offre, con la mo-

Montesarchio (Bn)

Tessere è Arte isitabile fino al 14 aprile, Tessere

Tradizioni Artigianali”, realizzata nell’ambito del progetto TessArt’e, presentata dalla Fondazione Genti d’Abruzzo insieme alla Fondazione Arte della Seta Lisio. L’allestimento è progettato per lasciare ampio spazio al racconto per immagini del Progetto TessArt’è cui si affianca una ricca sezione dedicata alla tessitura artistica in Abruzzo, oggetto di ricerca, innovazione e studio di nuove possibilita tecniche e creative.

Galleria Peccolo, Livorno

Raffaele Fiorella, Jernei Forbici, Christian Ghibellini, Laloba, Pietro Maietta, Andrea Martinucci, Sabrina Milazzo, Viola Pantano, Valentina Perazzini, Serena Piccinini, Patrizia Polese, Giuseppe Piscopo, Ciro Scarpetta, Antonello Tagliaferro, Marika Vicari, Saav Zacchino, Alice Zanin, sono gli artisti della collettiva da Nuvole arte Contemporanea, a cura di Domenico Maria Papa, cui è stata data carta bianca, ossia piena libertà nel rendere conto della propria ricerca recente. È stato dato anche un limite: un foglio di carta bianca, una superficie con una dimensione finita. Tra libertà e vincolo si gioca la partita della creazione, in questo caso originando una molteplicità d’immagini che ben rappresentano l’arte del nostro tempo. Zino, Laicafede, 2016 courtesy l’artista e Galleria 1 Opera, Napoli

man: “I confini dividono lo spazio; ma non sono pure e semplici barriere. Sono anche interfacce tra i luoghi che separano. In quanto tali, sono soggetti a pressioni contrapposte e sono perciò fonti potenziali di conflitti e tensioni.”. L’idea di base è quella di analizzare le tensioni menzionate dal sociologo polacco, che provocano un cortocircuito nell’elaborazione degli accostamenti delle immagini proposte. Il tema è quello antico della contrapposizione tra la sfera sacra e quella profana, giocando con la confusione dei ruoli che la società contemporanea ha messo in atto: laddove nuovi santi laici si sovrappongono ai tradizionali e l’immagine religiosa diventa merce, devozioni centenarie si tramutano in riti civili dal sapore teatrale, lo sport si erge a confessione mondiale. GENNAIO/MARZO 2016 | 256 segno - 73


Arte Fiera Bologna 2016

40 ANNI di Maria Letizia Paiato foto Roberto Sala

A

distanza di pochi mesi, proponiamo un breve resoconto su ArteFiera 2016. La kermesse fieristica più longeva d’Italia, curata da Giorgio Verzotti e Claudio Spadoni, ha innanzi tutto festeggiato i suoi 40 anni di attività, compleanno condiviso anche con Segno, che per l’occasione ha riunito la Direttrice Lucia Spadano, Paolo Balmas, Giorgio Verzotti, Claudio Spadoni, Mario Bertoni, Laura Cherubini e Marco Meneguzzo, storiche penne della rivista, in un incontro fra testimonianze e ricordi. Un’edizione che si è caratterizzata sul filo dell’italianità, proponendo innanzi tutto una serie di eventi collaterali incentrati sulla promozione dell’arte italiana, fra i quali la mostra ARTEFIERA 40 spalmata fra le sedi del MamBo e della Pinacoteca Nazionale. E sull’italianità si è giocato anche l’intero programma della fiera: una scelta precisa e mirata, intorno alla quale si sono accese diverse discussioni che, da un lato hanno sollevato il tema innegabile dell’urgenza di sostegno all’arte italiana, sempre poco presente sul mercato internazionale, dall’altro sobillato il rischio per Bologna di un confinamento ai margini in un ideale dibattito cosmopolita. Bisogna, infatti, registrare che, fra ritorni e conferme delle migliori gallerie italiane, fra le quali: Galleria Lia Rumma Napoli – Milano, Umberto Di Marino – Napoli, Studio Trisorio – Napoli, Galleria Continua – San Gimignano, Santo Ficara – Firenze, A – Arte Invernizzi – Milano, Giovanni Bonelli – Milano, Primo Marella – Milano, Pack – Milano, PrometeoGallery – Milano, Tega – Milano, Luca Tommasi – Milano, Enrico Astuni – Bologna, Spazio Testoni – Bologna, L’Ariete – Bologna, P420 – Bologna, Alessandra Bonomo e Valentina Bonomo – Roma, Pio Monti –Roma, Galleria Bonioni – Reggio Emilia, Antonella Cattani – Bolzano, Claudio Poleschi – Lucca, Studio d’Arte Raffaelli, Trento, Paola Verrengia – Salerno, Vistamare – Pescara, Open Art – Prato, In Arco – Torino, Studio La Città – Verona, Guidi&Schoen - Genova, si alternano pochissime presenze straniere, fra cui la Galleria Jerome Zodo di Londra, Repetto – Londra, Hollenbach di Stuttgart, Arte Centro – Lattuada Studio NY, Horrach Moya – Palma De Mallorca. Un’italianità giocata dai galleristi soprattutto su scelte “storicizzate” e con un mercato già consolidato. Basti pensare, ad esempio, ai sempreverdi Fontana, Burri, Manzoni e Castellani, in generale alla forte presenza di opere di maestri degli anni ’50, di arte cinetica, pittura Analitica e Arte Concettuale, presenti e disponibili Sandy Skoglund, Revenge of the Goldfish, 1981 Courtesy Galleria Paci Contemporary.

74 - segno 257 | APRILE/MAGGIO 2016

in più stand. Ma anche ad artisti come Gianni Colombo, Giorgio Griffa, Gianni Piacentino, Ettore Spalletti, figure che proprio negli ultimi anni sono state protagoniste di mostre personali in Italia e all’estero, quest’ultimo presente, insieme a Mario Airò, Getulio Alviani, Tano Festa, Mimmo Jodice, Joseph Kosuth, Armin Linke e Andrea Romano alla Galleria Vistamare di Pescara. Più rare proposte audaci che lascino intuire l’esistenza o meno di un possibile fermento o rinnovamento artistico in corso, difficilmente rintracciabili anche nella sorella minore SetUp, dove giovanissimi alle prime prove con il mercato dell’arte, si mantengono su un ordinato status quo. Tuttavia, situazioni accattivanti, capaci di generare forti emozioni e far riflette, ci sono e non sono poche. La Galleria Primo Marella si distingue fra tutte per la spettacolare installazione di Ronald Ventura intitolata Zoo Keeper (Il Guardiano dello Zoo). Qui, l’artista filippino mette a banchetto il corpo nudo di una donna giapponese, dove strani e raccapriccianti animali le corrono sopra, scatenando al contempo bizzarre reazioni di curiosità e attrazione per l’orrido. È una scena dove elementi della cultura occidentale e orientale si mischiano, com’è solito nella poetica di Ventura, e che obbligano lo spettatore a un continuo interrogarsi sulla realtà globalizzata in cui viviamo. Sulla stessa scia si muovono le opere di Skoglund Sandy presentate da Paci Contemporary di Brescia, artista che già dagli anni ’80 creava opere che facevano proprie le forme più immediate della comunicazione e si proponevano di coinvolgere un pubblico più vasto rispetto a quello ristretto del sistema dell’arte. Ancora, la Galleria di Maurizio Caldirola di Monza propone l’opera di Joys, artista padovano, la cui ricerca, in bilico tra undeground e istituzionale, si configura fra le più interessanti sulla scena dell’arte urbana italiana. Da Pack di Milano è particolarmente suggestiva l’installazione dell’artista Robert Gligorov (artista macedone che vive e lavora a Milano), intitolata Il mattino ha l’oro in bocca, dove l’artista – come tipico nella sua poetica – crea un forte contrasto fra forma estetica e contenuto, imponendo all’osservatore una riflessione sull’esiRonald Ventura, Zoo Keeper, installazione 2016, Galleria Primo Marella


attività espositive FIERE D’ARTE

stenza dell’uomo, le sue abitudini, il suo agire quotidiano, mentre Paola Verrengia di Salerno propone etere immagini fotografiche del gruppo Studio Azzurro. Spazio Testoni di Bologna ha proposto, invece, una collettiva con opere di Joseph Beuys, Julien Friedlr, Maria Rebecca Balestra, Caroline Le Mehaute, Andrea Francolino e L’orMA (vincitore tra gli artisti Under 30 del Premio Euromobil) per la Main Section e come Solo Show l’opera dell’artista Alberto Zilocchi, che, nel 1957 insieme a Piero Manzoni, firmò il Manifesto dei Ragazzi del Bar Giamaica, il cui lavoro, dopo la scomparsa nel 1991 si appresa solo ora ad uno studio storico – artistico approfondito. Nel caso di Testoni, ha giocato favorevolmente la scelta di operare con più stand, potendo gestire al meglio la traccia dell’”italianità” fra revisioni storiche, progetti curatoriali e artisti emergenti. In particolare Caroline Le Mehaute, si è presentata a Bologna con un’installazione ideata sul concetto di tempo e realizzata secondo un processo performativo, dove la polvere di noci di cocco nel cadere sul pavimento, ha creato un tappeto marrone metafora di un’anima “eco” moderna. A interpretare con intelligenza il tema dato dalla fiera è anche il progetto proposto dal gallerista Enrico Astuni di Bologna che ha voluto riflettere sulla natura dell’oggetto scultoreo, pittorico e installativo attraverso le opere di 4 artisti italiani noti al panorama internazionale: Pier Paolo Calzolari, Maurizio Mochetti, Aldo Mondino, Maurizio Nannucci, cui si affiancano i lavori di Luca Pozzi, Cuoghi Corsello e Christian Jankowski improntate ad aprire una riflessione sui concetti di medium e messaggio. A Arte Invernizzi di Milano, propone anch’egli una selezione di artisti italiani fra storicizzati e nuove proposte: Rodolfo Aricò, Francesco Candeloro, Nicola Carrino, Carlo Ciussi, Dadamaino, Riccardo De Marchi, François Morellet, Mario Nigro, Bruno Querci, Nelio Sonego e Grazia Varisco, presentando uno spaccato sulle ricerche di avanguardia in campo cinetico e programmato, geometrico – percettive, fino alle più innovative soluzioni adottate da Candeloro, dove il colore e la geometria, dialogano con le esperienze dei grandi maestri dell’arte astratta. Claudio Poleschi di Lucca, in risposta alla sollecitazione data dalla fiera propone nomi del calibro di Adami, Agnetti, Chia, De Maria, De Dominicis, Kounellis, Ontani, Uncini e molti altri, fra i quali spicca il nome di Gian Marco Montesano e un suo bellissimo olio del 1998 Paris au Temps Des amour Fanés, testimonianza dell’intensità della ricerca pittorica italiana degli anni Novanta, oggi in fase di rivalutazione. Le gallerie Continua, Galleria Milano, Lia Rumma, Studio La Città e Tega, hanno, infine, contribuito alla realizzazione di una speciale area curatoriale allestita all’interno della Main Section e denominata i “I protagonisti”, al contempo, proponendo ai rispettivi stand il meglio della più recente produzione degli artisti da loro rappresentati, fra i quali Jannis Kounellis esposto da Continua, Gilberto Zorio da Lia Rumma, Hema Upadhyay da Studio La Città, mentre Tega riaccende i riflettori sull’opera di Fernando Botero. Infine, citiamo Studio Trisorio che propone, fra i tanti, un lavoro del 1978 di Bill Beckley, pioniere della Narrative Art, dove si evince la sua ricerca atta a combinare immagini e testi scritti che influenzano e/o scombinano il senso di entrambi i medium. Anco-

Nicola Bolla. Galerie Italienne, Parigi

Alessandro Lupi, Lum-aca, 2016. Guidi&Schoen, Genova

Roberto Pugliese, Quintetto, 2016. Studio La Città, Verona

Paolo Grassino, Maurizio Caldirola arte contemporanea, Monza

Antonella Zazzera. Santo Ficara, Firenze Robert Gligorov, Il mattino ha l’oro in bocca, 2016. Galleria PACK.

APRILE/MAGGIO 2016 | 257 segno - 75


Fabio Viale, Kouros, 2016. Poggiali e Forconi, Firenze

Eduardo Secci Contemporary, Firenze

Aldo Mondino, Jugend Stilo, 1992 e Tappeti di marmo, 2001

ra, Umberto Di Marino espone un bellissimo lavoro di Francesco Jodice, Open Art di Prato gli acrilici su tela di Paul Kenkins, Ficara di Firenze, fra i tanti artisti affini all’arte processuale e cinetica si distingue per gli eccellenti lavori degli anni Settanta di Edoardo Landi, mentre Giovanni Bonelli propone i recenti lavori pseudo pop di Davide Nido e Antonella Cattani di Bolzano gli elegantissimi lavori di Antonella Zazzera ma soprattutto quelli in gomma e acciaio di Julia Bornefeld. Fra i più giovani si distinguono Eva Frapiccini da Alberto Peola di Torino, Roberto Pugliese con un’installazione sonora da Studio La Città di Verona, mentre sul piano della pittura emergono in fiera i lavori di Paolo Bini presentati da Nicola Pedana insieme a quelli nuovissimi di Vanni Cuoghi cui si affiancano grandi maestri dell’arte italiana come Carla Accardi, Pino Pinelli, Marco Gastini. Studio d’Arte Raffaelli di Trento non si smentisce con le opere

sempre originali e neo Pop di Federico Lanaro e Laurina Paperina, figure già consolidate sul mercato, mentre è la Galleria Marcolini di Forlì con un originale progetto intitolato Elementi naturali, ovvero un’esposizione sulla natura e le convenzioni sociali con gli artisti Adriano Valeri, Giorgia Severi, Romina Basso e la giovanissima Elena Hamerski. Da segnalare è anche la proposta della Galleria Alessandra Bonomo di Roma per quel che riguarda l’opera di José Angelino fra i vincitori Under 40 perché – secondo la giuria - “percorrendo la tradizione sperimentale dello spazialismo italiano e internazionale, ha saputo con un segno essere al tempo stesso contemporaneo, sintetico e classico”. Infine, per quel che riguarda il moderno, si segnala il progetto della Galleria Russo, con sede a Roma e Istanbul, che ha proposto un’interessantissima retrospettiva su Mario Sironi, incentrata sulle illustrazioni realizzate per il “Popolo d’Italia”. Uno spaccato

Daniele Papuli, Intondo giallo 1cv, 2015. Colossi, Brescia

Mona Hatoum, C+N Canepaneri Gallery, Milano-Genova

Aron Demtz, Gruppo senza titolo Barbara Paci, Pietrasanta

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Jiri David, Under the Surface, 2015 Zahorian & Van Espen, Bratislava

Jáchym Fleig. Rizzuto Gallery, Palermo


attività espositive FIERE D’ARTE

Maurizio Mochetti, Camouflage en rouge, 1987. Galleria Astuni

Claudio Poleschi arte contemporanea, Lucca

rivolto ai collezionisti che si pone in continuità con la mostra dello scorso autunno curata da Fabio Benzi nei Musei di Villa Torlonia e che sdogana definitivamente anche sul mercato, una delle figure più controverse dell’arte prodotta in Italia fra le due guerre. Fra i solo show è da menzionare, invece, la proposta di Eidos Immagini Contemporanee di Asti per aver riacceso i riflettori sull’opera dell’artista Betty Bee, figura controversa dell’arte e protagonista fra gli anni Novanta e Duemila, che spinge il pubblico ad interrogarsi sui linguaggi estetici emersi in quel periodo storico, oggi tutti da rivalutare. In sostanza, ArteFiera si configura come un appuntamento culturale importante e imprescindibile sul territorio Italiano, dove, tuttavia, sono sembrati più interessanti e coinvolgenti le proposte di quelle gallerie che hanno sviluppato un vero e proprio progetto curatoriale. Ciò vale anche per la collaterale SetUp. Si segnala lo

Alighiero Boetti, Copertine (anno 1984), 1984 Tornabuoni Arte, Firenze

spazio di Sponge Arte Contemporanea di Pergola con le opere di Leonardo Aquilino e Sacha Turchi, incentrato sulla possibilità di raccontare una diversa percezione e osservazione da e di una forma, attraverso nuovi “modelli di orientamento”. Sponge è anche organizzatore della rassegna performativa IN CORPO IV, vera perla della manifestazione, che ha visto protagonista l’irriverente Gianni Colosimo, letteralmente a “nudo” e in atteggiamento di scherno per quel che riguarda il denaro, cosciente che l’arte segue determinati flussi di potere. Infine, si segnala il progetto di Gigi Piana proposto da Riccardo Costantini Contemporary, galleria presente anche in ArteFiera, che spicca su tutti per la raffinatezza formale delle opere che si scontra con il contenuto/ messaggio delle stesse. Una serie di planisferi e mappe pongono una riflessione molto seria sul disorientamento e la propria identità rispetto al mondo. n

Jacob Hashimoto, More about perception and consciounsness, 2015 Studio La Città, Verona

Dario Goldaniga, Mondo, 2011. Fabbrica EOS, Milano

Bizhan Bassiri, Claudio Poleschi arte contemporanea, Lucca

Nadir Valente, Io che prendo il sole a Torino il 19 gennaio 2011 Maurizio Caldirola arte contemporanea, Monza Gianni Colosimo, The motherfucker, performance, SetUp 2016.

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Arco Madrid 2016

UN ARCO DI TRIONFO di Lucia Spadano foto Roberto Sala

U

n “ARCO di Trionfo” o, meglio il Trionfo di ARCO! Come l’Araba Fenice la Fiera d’Arte madrilena è risorta dalle sue ceneri. “Quando nacque, negli anni Ottanta – dice Juana de Aizpuru, che l’ha ideata e fondata - arrivavano soprattutto finanzieri e banchieri, che ricavavano ottimi guadagni fino a quando vollero dare un’aura alla loro immagine convertendosi tutti in collezionisti. Quando è arrivata la crisi, molte imprese, che avevano iniziato a collezionare cominciarono a vendere: l’offerta era enorme, ma mancavano i compratori e l’arte subì una svalutazione notevole. Nel momento in cui l’economia si è stabilizzata abbiamo dovuto ricominciare da zero.” Per il trentacinquesimo anniversario a Juana è stato chiesto di riprendere il timone della Fiera, che ha rivoluzionato l’interesse per l’arte contemporanea in Spagna, conservando, nel tempo, le sue caratteristiche iniziali con un pubblico numerosissimo, che non arriva solo per comprare, ma per partecipare ad una festa e conoscere altri amanti dell’arte. Per chi, come me, non veniva da qualche anno, questa edizione ha superato ogni aspettativa. Le domande di partecipazione sono aumentate quasi del 50% rispetto agli ultimi anni: sono tornati i “leoni d’un tempo”, quelli che hanno segnato la storia di ARCO dandole un’impronta internazionale di tutto rispetto. Proprio per questo motivo è stato pensato il progetto “Imaginando otros futuros” (allestito negli spazi riservati alle gallerie del Paese ospite d’onore), la cui selezione è stata fatta da un comitato formato da Maria e Lorena de Corral assieme a Catalina Lozano e Aaron Moulton, che hanno chiesto alle gallerie di presentare due artisti appartenenti a generazioni diverse. Hanno accettato l’invito: Luciana Brito, Martin Janda, Chantal Crousel, Air de Paris, Victoria Miro, Stephen Friedman, Nact Sant Stefan, Team Gallery, Ruth Bencazar. Cristina Guerra, Alexander and Bonin, Luisa Strina, Frith Street, Jan Mot, Lelong, Sprut Magers, Franco Noero, Nordenhake, Annet Gelink, Thomas Schulte, Casa Triangulo, Mai 36, Barbel Grasslin, Marian Goodman, Zeno X, Fortes Villaca, OMR, Lisson, Christofer Grimes, Kurimanzutto, Krinzinger. La sola galleria spagnola inclusa è stata quella di Juana de Aizpuru, cui spettava il posto d’onore. Comprese queste 33 gallerie il numero degli espositori è di 271: un panorama straordinario! Il direttore Carlos Urroz ha sottolineato il fatto che “quest’anno la selezione è stata particolarmente difficile perché la richiesta è aumentata tantissimo e la qualità dell’offerta ha attratto i collezionisti che hanno partecipato alla crescita di questa fiera e che, negli ultimi tempi sono stati assenti.” E’ stato un piacere vedere gallerie come Marian Goodman di Londra con proposte molto interessanti come quella di Baldessari o Tino Seghal (che ha spiazzato i visitatori con una performance “The Kiss” ispirata ai celebri baci della storia dell’arte: da Rodin a Brancusi, Kandinsky, Klimt, Jeff Koons); o come la galleria Lelong che

Jannis Kounellis, Galleria Giorgio Persano, Torino

Casa Triângulo, San Paolo Martin Asbaek Gallery, Copenhagen

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attività espositive FIERE D’ARTE

ha proposto l’artista indù Nalini Malani e la libanese Etel Adnan. Ed ancora Christopher Grimes, che ha puntato su due artisti che lavorano con la fotografia: Kota Ezawa e Allan Sekula, mentre la galleria messicana OMR ha proposto Gabriel de la Mora e Artur Lescher. La brasiliana Fortes Vilaca Cass e Jac Leirner. Juana de Aizpuru ha messo a confronto Eric Baudelaire con Rogelio Lopez, Krinzinger Gunter Brus, Angela de Lacruz. La galleria italiana Franco Noero Lara Favaretto e Simon Starling. Da anni non si vedevano opere così importanti come le due bellissime di Anish Kapoor alla Lisson: Random Triangle e Mirror (venduta per 800.000 dollari), due Baselitz (olio e bronzo di grande formato) da Thaddaeus Ropac (del valore di 520.000 euro) ed un’impattante opera di Munoz. Moltissime le vendite dichiarate: alla Marlboroug, ove campeggiavano delle deliziose tele di Pablo Gènoves e, tra i pezzi più quotati, un dipinto “Donna in vasca da bagno” (stimato 2,5 milioni di Euro), sono state acquistate opere di Fontela, Manuel Franquelo e Pelayo Ortega. Da Juana de Aizpuru due belle opere: una di Wolfagang Tillmans ed “Erbarium n.3”

Erwin Wurm, Gulp with pullover (from the series The hilisopher), 2009. Cristina Guerra Contemporary Art

di Pedro Cabrita Reis. Da Espacio Minimo sono state scelte dai collezionisti lavori di Erwin Olaf, Ana Vidigal e Manu Muniategi. Da Formatocomodo hanno avuto successo l’artista brasiliano Daniel Boccardo e Christian Garcia Bello. Angels Barcelona con opere di Ester Ferrer e Pep Agut. La galleria parigina Denise René (famosa per l’Arte Cinetica e Programmata) ha venduto un Vasarely e un Santiago Torres. Cristina Guerra di Lisbona Joao Louro, Fortes Vilaca di San Paolo due opere di Erika Verzutti. Abbiamo notato da Guillermo de Osma interessanti lavori di Torres Garcia, (artista al quale il MoMa ha dedicato un’antologica e che sarà, in seguito, visibile a Madrid e Malaga). Da Luis Adelantado opere di Ruben Guerrero, Luis Gordillo e Priscilla Monge. Alla galleria Pelaires abbiamo apprezzato l’omaggio al grande artista italiano Alighiero e Boetti e ci hanno colpito tre interessantissimi lavori dell’artista spagnola Amparo Sard. Anche le gallerie italiane hanno avuto un buon successo, molto apprezzato il ritorno di Giorgio Persano (presente alle prime edizioni) che ha proposto bellissime opere di artisti straordinari: Lida Abdul, Juliao Sarmento, Michael Biberstein, Mi-

Reynier Leyva Novo, El peso de la muerte, 2016. Galleria Continua, San Gimignano

JUANA DE AIZPURU intervistata da Lucia Spadano

ARCO è la Fiera d’Arte Contemporanea più importante in Spagna. A volerla e realizzarla, 35 anni fa, è stata la gallerista Juana De Aizpuru; un’impresa non da poco se si pensa che la Spagna sino alla fine degli anni Settanta era sotto la dittatura del Generale Franco. Ripercorriamo insieme a Juana, alla quale si sta rendendo onore in occasione del trentacinquesimo anniversario. L.S. – Come nasce ARCO? J.DeA. – Dopo la morte del Generale Franco in Spagna si verificò un’apertura culturale prima impensabile. I galleristi e gli artisti poterono finalmente salire in Europa e conoscere le tendenze artistiche in auge in quel momento. Io avevo già da tempo in mente il progetto di una Fiera d’Arte spagnola e quindi, dopo vari incontri con l’allora sindaco di Madrid Tierno Galvan e con Adrian Piera, direttore di IFEMA, riuscii a convincerli e, finalmente, nel 1982, ARCO divenne una realtà. L.S. – Perché l’hai chiamata ARCO? J.DeA. – Perché assomiglia ad una freccia e l’arte deve mirare sempre lontano, avanti. Questa Fiera ha rivoluzionato fin dall’inizio l’interesse per l’Arte Contemporanea in Spagna ed ancor oggi ha conservato le caratteristiche iniziali. La cosa straordinaria è che ha avuto ed ha ancora oggi un pubblico molto vasto, Si tratta di gente che non viene solo per comprare, ma per assistere ad un evento, che assume le caratteristiche di una vera e propria festa dell’arte. L’arte è sempre una bella avventura. Con la mia esperienza di gallerista (che porto avanti da 46 anni) credo che i collezionisti non vengano solo per fare buoni affari, ma anche per il piacere di incontrarsi e scambiare le loro opinioni.

Jaime Vallaure, Enciclopedia Contemporánea del Azar, 2015. Galeria La Caja Negra Ediciones

rono moltissimo. In seguito si trasformarono tutti in “persone mediatiche: vollero “indorare” la loro immagine e convertirsi in collezionisti. Quando arrivò la crisi molte imprese, che avevano iniziato a collezionare, cominciarono a vendere: c’era un’offerta enorme, ma mancavano i compratori e l’arte subì una forte svalutazione. Quando finalmente l’economia si stabilizzò abbiamo dovuto ricominciare da zero! L.S. – Che cosa è cambiato in questi 35 anni di Fiera? J.DeA. – Il pubblico, sempre numerosissimo, una volta era soprattutto spagnolo oggi è molto internazionale e non ha nulla da invidiare a Basilea o Londra o Parigi. Qui vi sono moltissime gallerie latinoamericane che vogliono presentare un artista nuovo e tante gallerie internazionali che propongono il meglio della produzione dei loro Paesi e del mondo! L.S. – Tra i Direttori di Arco che si sono avvicendati qual è quello che è stato più vicino al tuo modo di gestire questa manifestazione? J.DeA. – Ognuno ha lasciato la sua impronta ed il suo modo di vedere l’arte, ma io credo che Carlos Hurroz, Direttore attuale, sia quello più vicino. Egli ha fatto sì che la Fiera sia un luogo accogliente e che i galleristi si sentano a loro agio, sicuri di occupare un luogo importante nel circuito dell’Arte. n

L.S. – Con la crisi a livello internazionale il mercato si è affievolito un po’ dappertutto. J.DeA. – In Spagna il collezionismo è diminuito molto soprattutto perché si è creata un’inversione per cui i Musei non comprano come una volta. In compenso abbiamo il “mercato iberoamericano che ha subito meno la crisi. Negli anni Ottanta arrivavano soprattutto finanzieri e banchieri e tutti guadagnaAPRILE/MAGGIO 2016 | 257 segno - 79


Alicia Martin, Vortice I, 2016. Galeria Adora Calvo

Barò Galeria, San Paolo

Marcos Ávila Forero. Dohyang Lee Gallery, Parigi

Álvaro Barrios, La multiplicación de los cuadros, 2013. Galería El Museo Bogotà

Alfonso Artiaco, Napoli

Josédelafuente, Santander

Polígrafa Obra Gráfica, Barcellona Krobath Wien, Vienna

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Barò Galeria, San Paolo Emilio Rojas, José de la Fuente, Santander

José Pedro Croft, Untitled, 2016. Galería Filomena Soares, Lisbona


attività espositive FIERE D’ARTE

chele Zaza, Per Barclay Jannis, Kounellis, Pedro Cabrita Reis, Susy Gomez, di Alfonso Artiaco con uno stand molto elegante con tantissime opere: da Botto e Bruno, Gilbert & George, Perino e Vele, Annri Sala ed altri. Continua ha puntato soprattutto sull’artista José Yaque, Raffaella Cortese ha esposto Roni Horn, Annamaria Maiolino, Silvia Bachli, Karla Blank, Studio Trisorio (fedele ad ARCO dalla prima edizione) ha mostrato opere di bell’impatto come quelle di Rebecca Horn, Marisa Albanese, Eulalia Valldosera, Bill Beckley, Lawrence Carroll. Enrico Astuni con una buona

rapresentanza di Pier Paolo Calzolari, Maurizio Mochetti, Maurizio Nannucci. La bolognese P420 esponeva, tra l’altro Irma Blank, Franco Vaccari e Rodrigo Hernandez. Paolo Maria Deanesi di Trento con una personale di Tonel. Bellissimo lo spazio riservato ai Vip, concepito dall’architetto spagnolo Izaskun Chichilla Moreno, entro il quale era situata un’enorme scultura in ferro intrecciato di Cristina Iglesias, la cui forma ricorda quella di un’enorme nave sospesa, che accompagna i visitatori – dice l’artista - “in un viaggio che potrebbe essere spaziale: Una nave scaturita dalla lettura del-

Galerie Crone, Vienna Berlino

Galerie Crone, Vienna Berlino

Erika Osdosgoitti. Abra, Caracas

Pedro Cera, Lisbona

Anish Kapoor, Random Triangle Mirror, 2013. Lisson Gallery, Londra Stefan Brüggemann, Conceptual Decoration, 2011. Parra & Romero, Madrid

Jason Martin, Sempre e sempre, para sempre e sempre, 2015. Galerie Forsblom, Helsinki Spencer Finch, Florian Slotawa. Nordenhake, Carlos Ginzburg. Henrique Faria Fine Art New York Berlino Stoccolma

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Graca Brandao, Lisbona Bendana I Pinel Art Contemporaine, Parigi

Runo Lagomarsino, Rio de la plata, 2014 Lea Porsager, Kundabuffer, 2013. Nils Staerk, Copenhagen Erika Verzutti, Jac Leirner. Fortes Vilaça, San Paolo

Marisa Albanese, 2010. Studio Trisorio Napoli

ARCOLisboa

L’edizione inaugurale di ARCOlisboa è in programma dal 26 al 29

maggio alla Fábrica Nacional da Cordoaria. La nuova esperienza fieristica nasce grazie all’organizzazione di Ifema e si pone come mission l’estrema attenzione alla qualità dei contenuti espositivi. Sono 44 i galleristi selezionati dal comitato per analizzare e innalzare la visibilità della scena artistica portoghese in un contesto internazionale: 3+1 Arte Contemporânea; Ángeles Baños; Anne Barrault; Baginski; Baró Galeria; Belo-Galsterer; Carlos Carvalho Arte Contemporanea; Caroline Pagès; Christopher Grimes; Cristina Guerra Contemporary Art; Espacio Minimo; F2 Galeria; Fernando Santos; Filomena Soares; Fonseca Macedo; Giorgio Persano; Graça Brandao; Horrach Moya; Jaqueline Martins; Joâo Esteves De Oliveira; José De La Mano; Juana De Aizpuru; Knoerle & Baettig; Leandro Navarrro; Leyendecker; Leon Tovar; Luciana Brito; Luis Adelantado; Maisterravalbuena; Mario Sequeira; Miguel Nabinho; Murias Centeno; NF; Nueveochenta; Parra & Romero; Pedro Cera; Pedro Oliveira; Pietro Sparta; Presença; Quadrado Azul; Umberto Di Marino; Vera Cortes Art Agency; Vermelho. Tra gli artisti presenti troviamo: Joaquin Torres Garcia; Mario Merz; Dan Graham; Robert Barry; Julian Opie; Julião Sarmento; Joana Vasconcelos; Pedro Cabrita Reis; Juan Luis Moraza; Ignasi Aballí; Maria Loboda; Felipe Arturo o João Maria Gusmão + Pedro Paiva. Il programma vede, inoltre, il coinvolgimento, lungo la durata dell’evento, di collezioni private (António Cachola; Leal Rios Foundation), pubbliche (Fundación Coca Cola, Coleção de Fotografia Contemporanea) e grandi mostre (Enigma | Portuguese art alla Berardo collection, la collettiva Matter Fictions al Museu Coleção Berardo; Depois, di André Cepeda, al Museu Nacional de Arte Contermporanea do Chiado; Echolalia, di Ana Torfs; The Kumkapi carpets, alla Fundação Calouste Gulbenkian; O Tesoro de Isabel – Rainha e Santa; O museu que não se vê – Obras em Reserva al Museu Nacional de Arte Antiga).

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Erwin Wurm. Cristina Guerra Contemporary Art, Allan McCollum, The Dog From Pompei, 1991 Thomas Schulte, Berlino


attività espositive FIERE D’ARTE

la novella “Solaris” di Stanislaw Lem”. La coppia reale (il re Filippo VI e la regina Dona Letizia) ha visitato la Fiera il giorno dell’inaugurazione (un rito che si ripete ogni anno dalla prima edizione) e si è soffermata a lungo davanti e “dentro” quest’opera apprezzandola enormemente. Molte le novità in questa edizione e, su tutte voglio segnalare ARCO Kids, uno “spazio creativo”, in cui 300 bambini (dai 4 ai 14 anni), con l’aiuto di numerosi artisti hanno dato sfogo alla propria creatività elaborando “piccoli capolavori” e partecipando ad un’opera congiunta intitolata “El mundo de los deseos”,

Juan Genovés, 2015. Marlborough New York, Madrid

Zak I Branicka, Berlino

che la Fondazione “Pequeno Deseo” ha venduto e donato il ricavato alla Fondazione che aiuta i bambini malati. Un’altra novità è quella di Arts Libris: uno spazio riservato ad edizioni speciali, tirature limitate, Libri d’Artista. Altra novità è la Fiera “gemella” di ARCO a Lisbona. Il Paese invitato il prossimo anno, (dicono voci di corridoio), sarà l’Argentina. Come tutte le Fiere d’Arte che si rispettano, anche ARCO ha le “piccole” Fiere collaterali come Just Mad, Art Madrid e Room Art Fair con Jäälphoto allestite entrambe nelle stanze di un Hotel. n

Juan Muñoz. Galeria Elvira Gonzalez, Madrid

Iñigo Manglano-Ovalle, Black Jack, 2006. Galerie Thomas Schulte

Mai 36 Galerie Zurigo

Cristina Iglesias, Gran nave de hierro, 2016. Installazione quotidiano El Pais Miquel Navarro, Poder y deseo, 2016. Installazione quotidiano El Mundo Tre immagini della VIP lounge realizzata da Izaskun Chichilla Moreno vincitore del concorso indetto dall’Ifema

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Il Centenario di Alberto Burri

P

rofetiche furono le parole che Giorgio Morandi rivolse nei confronti di Alberto Burri davanti al Sacco del 1954 esposto alla Fondazione Magnani Rocca di Mamiano di Traversetolo, nel ricordo di Luigi Magnani: “questo è un vero autentico artista, il migliore dei moderni”. I cinquant’anni di attività del pittore di Città di Castello hanno testimoniato l’assoluta grandezza della sua Arte, la forza dirompente e la lucidità con le quali egli ha innovato radicalmente il linguaggio artistico, influenzando in modo determinante i contemporanei e gli artisti delle generazioni successive. Con la mostra Rivisitazione: Burri incontra Piero, tenutasi a Sansepolcro al Museo Civico alla fine del 2014, è iniziato l’anno del Centenario della nascita del maestro a vent’anni dalla sua scomparsa, con celebrazioni ancora in corso in Italia e nel mondo, a ricordare uno dei geni universalmente riconosciuti della Storia dell’Arte del secondo Novecento. Il 12 marzo 2015, giorno del compleanno di Burri, le Poste italiane hanno emesso un francobollo con l’opera SZ1 del 1949 ed è stato presentato nella sala consiliare del Comune di Città di Castello l’anno speciale dell’artista (cfr. il n. 252 di Segno, marzomaggio 2015). Molteplici da allora sono stati gli eventi realizzati in successione ravvicinata, relativi ad esposizioni, convegni e pubblicazioni scientifiche inerenti talora anche aspetti meno noti dell’opera del maestro. Ruolo fondamentale è stato svolto dalla Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri di Città di Castello, voluta dal pittore che la istituì nel 1978, e dal suo presidente Bruno Corà, sotto la cui regia e sapiente cura hanno preso vita le varie manifestazioni, in collaborazione con prestigiose istituzioni museali e non, italiane ed estere. La ricostruzione del Teatro Continuo a Parco Sempione a Milano, inaugurato a maggio 2015, è stato un evento del Centenario doppiamente significativo, sia perché l’opera, dopo che era stata abbattuta nel 1989, è stata ricollocata nel luogo originario, nella perfetta prospettiva del Castello Sforzesco e dell’Arco della Pace, sia perché è stata restituita alla città di Milano una struttura polivalente per danza, musica, teatro, fruibile dai cittadini. Progettato per la XV Triennale del 1973, nella sezione Contatto, Arte-Città a cura di Giulio Macchi, riedificato secondo i disegni dell’artista, caratterizzato da una piattaforma in cemento e da sei quinte laterali, tre per lato, ruotanti, bianche e nere , senza copertura, è stato voluto dalla Triennale, dal Comune di Milano e dalla Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri ed è stato realizzato per il contributo dello studio NCTM della città ambrosiana. La messa in opera della struttura si è avvalsa di varie collaborazioni, da quella del presidente Bruno Corà a Gabi Scardi, mentre la direzione dei lavori è stata affidata all’architetto Tiziano Sarteanesi che ha seguito anche quelli per il completamento del Grande Cretto Gibellina da qualche mese ultimati. Quasi in contemporanea all’inaugurazione del Teatro Continuo si è tenuta una giornata di studi dedicata agli affreschi di Luca

Signorelli nell’Oratorio di San Crescentino di Morra, frazione nei pressi di Città di Castello, nella strada che conduce a Case Nove dove l’artista aveva lo studio. Organizzato dall’Associazione per la Tutela e Conservazione dei Monumenti dell’Alta Valle del Tevere di Città di Castello e dalla Fondazione Burri, il convegno sull’opera del grande pittore cortonese, con la partecipazione di illustri studiosi e con una mostra documentaria, è stato realizzato in onore di Alberto Burri e della generosa donazione che egli fece, devolvendo il contributo del premio Feltrinelli per l’opera grafica, assegnatogli dall’Accademia dei Lincei nel 1973, per il recupero del ciclo di Signorelli, allora in evidente stato di degrado. Il restauro fu affidato dall’artista ai suoi amici pittori Nemo e Alvaro Sarteanesi, che lo condussero con tecniche e criteri avanzatissimi per il periodo: entrambi avevano operato dal 1961 per la salvaguardia, la conservazione e il restauro di monumenti ed opere d’arte localizzati nel territorio di Città di Castello. Au Rendez-vous des amis , il convegno e la mostra ideati e curati da Bruno Corà, in un crescendo di eventi, è stato uno dei momenti centrali e indimenticabili delle celebrazioni. Durante la kermesse in due giorni, che ha preso il titolo dal dipinto omonimo di Marx Ernst, tenutasi a Città di Castello negli spazi degli Ex Seccatoi con la partecipazione di nove direttori di musei naziona-

Vista dell’installazione The Trauma of Painting al Solomon R. Guggenheim Museum di New York

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osservatorio critico LIBRI E CATALOGHI

li ed esteri che hanno coordinato altrettanti tavoli di discussione, con la presenza di sessantasei artisti di provenienza italiana e internazionale, di fronte ad un folto pubblico di uditori, è stato analizzato lo stato dell’arte oggi e sono stati trattati temi importanti, quali, fra gli altri, il sacro, l’etica, la scienza, la comunicazione e il mercato, in un dialogo vivace e costruttivo. A esemplificare quanto l’opera di Burri abbia segnato il lavoro delle generazioni successive, della sua vitalità ancora in atto, è stata inaugurata in contemporanea una corposa mostra nelle suggestive e affrescate sale di Palazzo Vitelli a Sant’Egidio a Città di Castello, nella quale gli artisti invitati hanno esposto una loro opera, in un percorso di grande fascino e interesse sia per la varietà dei linguaggi, sia per la significatività dei lavori presentati: freschi di stampa sono il catalogo dell’esposizione e gli atti del convegno, entrambi raccolti in un consistente e documentato volume. The Trauma of Painting, la corposa retrospettiva dell’opera di Burri, a cura di Emily Braun, organizzata dal Solomon R. Guggenheim Museum, in collaborazione con la Fondazione Palazzo Albizzini e con il contributo di Lavazza, è stato l’evento epocale del Centenario, il trionfo del maestro umbro nel tempio mondiale dell’arte contemporanea. Cento opere provenienti in massima parte dalla Collezione Burri di Città di Castello, da prestigiose istituzioni museali e da collezionisti americani ed europei, sono state allestite in modo impeccabile e con ampio respiro lungo le sei rampe della spirale di Frank Lloyd Wright, trentacinque anni dopo l’ultima antologica del pittore nel medesimo luogo. Con la mostra è stato ripensato il rapporto di Burri con l’America, dalla prigionia nel campo di Hereford dal 1943 al 1945 quando abbandonò la professione medica per la pittura, alla prima monografia del 1955 per i tipi della Galleria L’Obelisco di Roma a cura James Johnson Sweeney, fino alle varie mostre personali e collettive negli States, alcune in itineranza in musei prestigiosi o in importanti gallerie. Con questa straordinaria esposizione è stata inoltre affermata e proposta al pubblico americano e internazionale l’assoluta grandezza del maestro umbro e ribadita l’influenza profonda e determinante della sua arte nel lavoro di individualità e di movimenti statunitensi ed europei successivi a lui, che, secondo le parole della curatrice, ha “riconfigurato l’arte occidentale”. Sono stati esposti Catrami, Gobbi, Sacchi, Combustioni, Legni, Plastiche, Cretti e Cellotex e disegni in una proposta comprensiva di capolavori, come ad esempio Martedì Grasso del 1956 del Carnegie Museum of Art di Pittsburgh e le opere acquisite dal Solomon R. Guggenheim stesso, fra cui Composizione del 1953; sono state presentate anche le stupende opere “miniatura” relative ad ogni stagione pittorica dell’artista, donate da Burri a Sweeney come augurio natalizio dal 1953 al 1980 e fatte poi omaggio dal critico stesso alla Fondazione Burri nel 1981. Oggi la mostra The Trauma of Painting è esposta a Düsseldorf al Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen. Il Grande Cretto Gibellina, iniziato nel 1985 ma rimasto incompiuto, è stato completato nella parte mancante secondo il progetto dell’artista e inaugurato in concomitanza alla chiusura della mostra Burri I Cretti allestita al Museo Riso di Palermo, a cura di Bruno Corà, anch’essa tappa del Centenario. A Gibellina l’ampia

colata di cemento bianco è un sublime monumento all’eternità, paragonato da Corà nella prolusione inaugurale a Guernica di Picasso. I recentissimi blocchi edificati, vicino ai massi ingrigiti di più lontana costruzione ed in prossima fase di restauro, nei novantamila metri quadrati di superficie, evocano il manto pietoso di Mnemosine sulla vecchia città travolta e distrutta dal sisma del 1968, ma sono anche espressione dell’inarrestabile fluire del tempo sulle cose. Il Convegno internazionale di studi tenutosi nel capoluogo umbro, dal titolo Burri Materia Forma Spazio, organizzato dall’Università degli Studi di Perugia e dalla Fondazione Burri ha visto succedersi interventi di emeriti studiosi e di testimoni dell’opera del maestro che hanno trattato, tra l’altro, gli aspetti connotanti l’opera burriana: la materia-colore, la forma presente nei quadri dell’artista, i rapporti spaziali di equilibrio e composizione. Contemporaneamente è stata inaugurata la mostra I Mixoblack di Alberto Burri nella Galleria Tesori d’Arte del complesso benedettino di S. Pietro a Perugia e presentata al pubblico l’opera Burri Catalogo generale delle opere 1945-1994, in italiano e in inglese, edito dalla Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, in sei volumi caratterizzati da uno straordinario repertorio fotografico che presenta in successione le opere pittoriche (voll. I-III) , scultoree, scenografiche, teatrali nonché le tempere (vol. IV), le opere grafiche (vol. V) fino al volume VI comprensivo degli apparati: un immane lavoro che fa luce su tutta la produzione artistica del maestro, sull’ interezza delle esposizioni e sulle innumerevoli voci bibliografiche di autori che hanno analizzato il lavoro dell’artista. Questa fondamentale impresa editoriale, dopo l’edizione del 1990 Burri Contributi al catalogo sistematico realizzata sotto la diretta supervisione del maestro, rappresenta uno strumento prezioso e ineludibile per lo studio e l’ analisi dell’intero corpus burriano. A questa opera a cura di Bruno Corà hanno dato il loro significativo contributo: Chiara Sarteanesi, Giuliano Serafini, Italo Tomassoni, Carlo Bertelli, Rita Olivieri, Carlo Pirovano, Tiziano Sarteanesi e un nutrito staff di collaboratori. Altre mostre importanti in varie città italiane hanno celebrato l’opera del pittore umbro, da quella a Pistoia a Palazzo Sozzifanti, dal titolo Burri e Pistoia, con opere provenienti dalla Collezione Gori della Fattoria di Celle e con le fotografie di Aurelio Amendola, che ha immortalato il maestro nei celebri scatti della realizzazione delle Plastiche, oltreché in momenti di vita artistica e privata. Rilevante per l’analisi di una tematica meno conosciuta dell’arte del maestro è stata la mostra al MAON Museo d’Arte dell’Otto e Novecento di Rende, titolata Alberto Burri e i poeti, Materia e Suono della parola, a cura di Bruno Corà e Tonino Sicoli, dedicata a creazioni scaturite dal rapporto dell’artista con i poeti, tra cui Emilio Villa e Giuseppe Ungaretti. Altre esposizioni ed eventi seguiranno come la mostra: Burri tra Europa e Usa: lo spazio di materia che si terrà entro l’anno a Città di Castello organizzata dalla Fondazione Burri, attraverso la quale verranno messi in luce i rapporti dell’opera del pittore con gli artisti dei movimenti della seconda metà del secolo scorso; ma l’intensità propulsiva di quanto già avvenuto ha lanciato sempre più in alto l’astro di Burri. Rita Olivieri

Il Grande Cretto di Gibellina completato secondo il progetto originale di Alberto Burri.

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Accademia Nazionale di San Luca

Libertà versus rigore Appunti sull’architettura del Casale Gomez di Federico Gorio (1954-1958) di Rossella Martino

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a giornata di studi “Libertà e rigore” che l’Accademia Nazionale di San Luca ha dedicato a Federico Gorio, ingegnere, urbanista e docente universitario, tra i protagonisti della storia e della cultura architettonica italiana nel secondo dopoguerra, è seguita a cento anni esatti dalla sua nascita e a dieci anni di distanza dalla mostra antologica che la stessa Accademia aveva realizzato il 19 gennaio 2006 in collaborazione con il Dipartimento di Architettura e Urbanistica della Facoltà di Ingegneria della Università di Roma “La Sapienza”, per testimoniare il percorso di un professionista rettilineo, dotato di una coerenza intellettuale e artistica che ha sempre manifestato nella triplice dimensione urbanistica, architettonica e tecnologica, tanto nella progettazione quanto nell’attività accademica e nelle cariche ricoperte presso Enti ed Istituti di ricerca. La mostra antologica del 2006 costituiva, di fatto, l’antecedente che ha visto il fondo Gorio spostarsi, lentamente, dagli originari Archivi di Architettura Cesarch- in/arch di via Crescenzio, dove era stato in parte versato da Fiorenza Gorio – figlia di Federico Gorio – a partire dal 9 ottobre 1995, anno in cui la Soprintendenza Archivistica per il Lazio – Direzione Generale per gli Archivi, dichiarava lo stesso di notevole interesse storico, verso l’Accademia Nazionale di San Luca; sono gli anni in cui andava incrementando e sistematizzandosi l’Archivio contemporaneo, che nella configurazione attuale raccoglie al suo interno, oltre ai fogli scelti esposti nella mostra “Per una collezione del Disegno Contemporaneo” del 2009 e alle opere esposte nella mostra “La collezione dei Maestri Accademici Contemporanei” del 2010, disegni di artisti e architetti accademici del Novecento e di contemporanei che hanno voluto affidare all’istituzione quanto elaborato nell’intero percorso della loro esperienza di lavoro, a costituire, parti di essi, il Fondo architetti XX secolo che, attualizzato al biennio 2015-2016, riunisce i lavori di: Bruno Maria Apollonj Ghetti, Carlo Aymonino, Pietro Aschieri, Giuseppe Capponi, Carlo Chiarini, Mario De Renzi, Wolfgang Frankl, Ugo Luccichenti, Mario Ridolfi, Maurizio Sacripanti, e per ultimo di recente acquisizione, Franco Marescotti. Intorno al 2000, in seguito a una prima generale attività di inventariazione e archiviazione ad opera dell’Istituto di conservazione – Centro di Documentazione sulla Storia della cultura architettonica dell’Istituto Nazionale di Architettura in/arch di Roma, si arrivava all’elaborazione di un regesto cronologico, allora comprendente oltre duemilacinquecento disegni relativi a ottantatre progetti, e relativa documentazione

allegata, frattanto che la consultazione era impedita al pubblico a causa della inidoneità degli spazi poco capienti e non del tutto salubri; appreso questo stato di fatto, Fiorenza Gorio, grazie anche alla sollecitudine e all’intervento dell’allora Presidente dell’Accademia, Guido Strazza, e dell’allora Segretario Generale, Francesco Moschini, acconsente allo spostamento definitivo del Fondo, ufficializzato nel luglio del 2012. Ormai terminata la fase di acquisizione del vasto e articolato materiale, prosegue a oggi, secondo un doppio registro serrato, la inventariazione e acquisizione digitale di schizzi di studio, progetti esecutivi, memorie scritte, documenti contabili, fotografie di cantiere, lastre fotografiche, nel rispetto di una serie di categorie utili per la consultazione dei documenti, già individuata da Federico Gorio, e riguardante: esperienze e ricerche; specializzazioni; concorsi e premi; attività di studio e consulenze; attività culturali ed accademiche; attività didattiche; pubblicazioni. Per ogni categoria l’autore aveva, inoltre, indicato le opere con il luogo e la data di riferimento e un codice caratterizzato dal numero di riferimento della categoria alla quale apparteneva, seguito da un numero progressivo, che rispettava nella maggior parte dei casi un ordine cronologico, metodologia attenta che ci restituisce conferma ulteriore circa il suo caratteristico rigore e ordine mentale, prima ancora che materiale e tecnico. Numerosi, dunque, i rimandi tra la mostra “Federico Gorio architetto” del 2006, allora culminata nella pubblicazione del numero monografico 118/119 della storica rivista Rassegna di architettura e urbanistica, diretta dal 1977 dallo stesso Federico Gorio, al quale avevano contribuito, tra gli altri, architetti come Fiorenza Gorio, Alessandra Muntoni, Elio Piroddi, Vieri Quilici, poi richiamati anche nel 2015 insieme a Maria Argenti, Corrado Beguinot, Laura Bertolaccini, Alessandro Bianchi, Luciano Cupelloni, Giuseppe Imbesi, Massimo Locci, Laura Olivetti, Francesco Orofino, Sergio Poretti, Franco Purini e Luca Zevi, ciascuno invitato a riflettere sulla possibile attualità del pensiero di Federico Gorio, guidati da una comune chiave di lettura interpretativa che si è fatta coincidere con la messa in tensione del rigore e della libertà, resa esemplificativa in una architettura domestica, nota come la “Casa del maresciallo”, ancora oggi ammirabile in via dei Monti Parioli, a pochi passi dalla Facoltà di Architettura di Roma Valle Giulia, esposta in mostra sotto forma di disegni riguardanti la sola soluzione definitiva realizzata tra il 1954 e il 1958, fogli dattiloscritti recanti in intestazione la

Immagini relative alla Inaugurazione della mostra “La libertà e il rigore: Federico Gorio e il progetto per la Casa del Maresciallo” del 17 dicembre 2015. Fotografie di Fabrizio Ronconi. Courtesy: Laura Bertolaccini, Accademia Nazionale di San Luca

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dicitura Appunti sull’architettura del Casale Gomez e fotografie d’epoca. Così, la “libertà compositiva che rende possibile evitare ogni errore stilistico”, per dirla alla Bruno Zevi si esplica nella futura “Casa del maresciallo” in maniera emblematica come “libertà spaziale degli interni” e “possibilità di dislocazione delle aperture nei punti necessari”, scrive Federico Gorio nei suoi Appunti sull’architettura del Casale Gomez, laddove la libertà è conseguenza della ricostituita unità e chiarezza strutturale e in aperto contrasto con il vincolo urbanistico imposto dal piano particolareggiato del quartiere, con la “stereometrica saldezza dell’insieme” annotata da Sergio Rotondi nel suo saggio per la rivista Rassegna di architettura e urbanistica e con la disciplina di una costruzione ragionata e sapiente, concentrata nello “studio estremamente accurato dei particolari”, che si ritrova, in tutta la sua evidenza, anche nell’opera di un altro architetto, Mario Fiorentino, celebrato, per quanto concerne gli anni 1946-1981, da una memorabile monografia intitolata “Mario Fiorentino: la casa. Progetti 1946-1981” pubblicata da A.A.M. Architettura Arte Moderna per la collana di architettura diretta da Francesco Moschini “Quaderni di Teoria e progetto”, coordinatore generale, insieme all’amico Federico Gorio a partire dal 1973 del grande insediamento iacp a Corviale e, qualche anno prima, nel complesso abitativo per il quartiere San Basilio di Roma. La “Casa del maresciallo”, già Casale Gomez adibito a maniscalcheria (dal francese, maréchalferrant, ovvero maniscalco, da cui l’italianizzazione in maresciallo) della vicina Villa Balestra, era un fabbricato da sottoporre, su richiesta del committente, a “intervento di riattamento – oggi diremmo, ri-funzionalizzazione, n.d.r. – restauro e rielaborazione”: è il 1950, e Federico Gorio ha appena concluso le proficue esperienze del quartiere Tiburtino di Roma e del borgo materano La Martella; rigide regole urbanistiche – ricorda Paolo Cavallari nel saggio scritto per il già citato numero monografico della rivista Rassegna… – imponevano un vincolo di conservazione delle volumetrie dell’intero fabbricato, fatta eccezione per un lato, il cui fronte doveva arretrarsi diagonalmente per allinearsi al filo del marciapiede della nuova via Bartolomeo Ammannati. Nel “labirinto di questi ostacoli”, scrive ancora Federico Gorio nei suoi Appunti…, “il progettista – dopo aver esaminato vantaggi e svantaggi per il committente e per se stesso –, si è mosso secondo […] tre linee di condotta”, riguardanti, rispettivamente, il “riordinamento della struttura – oggi diremmo, ri-strutturazione, n.d.r. –” nel suo complesso, intesa quest’ultima, come ossatura portante e la sistemazione della parte esterna e interna; le condizioni “malsicure e deteriorate” della muratura periferica preesistente da conservare portò, in prima analisi, ad un preliminare intervento di restauro e rinforzo della stessa, resa portante di tutti i carichi del lembo esterno, mentre internamente si predisponeva “una struttura a pilastri e solai in profilati di

Immagini relative alla giornata di studi “Federico Gorio 1915-2007. Libertà e rigore” tenutasi a Roma, presso Palazzo Carpegna, giovedì 17 dicembre 2015 alla presenza di Maria Argenti, Corrado Beguinot, Laura Bertolaccini, Alessandro Bianchi, Luciano Cupelloni, Fiorenza Gorio, Giuseppe Imbesi, Massimo Locci, Francesco Moschini, Alessandra Muntoni, Laura Olivetti, Francesco Orofino, Elio Piroddi, Sergio Poretti, Franco Purini, Vieri Quilici e Luca Zevi. Fotografie di Fabrizio Ronconi. Courtesy: Laura Bertolaccini, Accademia Nazionale di San Luca. Dall’alto verso il basso: Francesco Moschini, Alessandra Muntoni e Franco Purini

Immagini relative alla Inaugurazione della mostra “La libertà e il rigore: Federico Gorio e il progetto per la Casa del Maresciallo” del 17 dicembre 2015. Fotografie di Fabrizio Ronconi. Courtesy: Laura Bertolaccini, Accademia Nazionale di San Luca

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acciaio e cordoli perimetrali in trave di ferro […] solidamente applicati in traccia alla muratura e a questa inchiavardati per punti senza […] operare profondi pericolosi […] tagli orizzontali nello spessore del muro”. Nella parte esterna, i criteri architettonici seguiti hanno invece riguardato “il disegno, in facciata, affidato alle finestrature, ai marcapiani, alle zoccolature e alle cornici delle finestre, che fasciano il fabbricato e ricompongono l’unità delle facciate determinando all’esterno la struttura dei piani” accompagnato ad un uso di “lievi giochi di bassorilievi” prodotti dalle finestre speciali in ferro leggermente aggettanti, dalla profilatura dei tubi pluviali e dalla incorniciatura delle finestre e dall’uso delle fioriere formate a grappolo di vasi conici, e contemporaneamente a un controllo del “chiaroscuro” affinché questo non risultasse “fuori scala”, grazie all’applicazione della profilatura in lastra di travertino. La campionatura esatta delle

Copertina del volume: Mario Fiorentino. La casa. Progetti 1946-1981. Courtesy: Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva A.A.M. Architettura Arte Moderna

Spaccato assonometrico di studio degli spazi interni. Roma, Accademia Nazionale di San Luca, Archivio del Moderno e del Contemporaneo, Fondo Federico Gorio Sezione trasversale di studio per la definizione delle quote dei piani sfalsati. Roma, Accademia Nazionale di San Luca, Archivio del Moderno e del Contemporaneo, Fondo Federico Gorio

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finestre, diverse le une dalle altre, per un totale di ventitre elementi descritti all’interno di abachi tecnici, il casellario delle rifiniture murarie e ulteriori tabelle e annotazioni sui materiali della costruzione, visibili in mostra, restituiscono la dimensione di una progettazione dell’esecutivo attenta e rigorosa, che muove dalla comprensione del fabbricato che “pur modesto, aveva una personalità e una fisionomia e una tradizione propria” per pervenire ad una progettazione integrale, interessata tanto alla definizione degli spazi interni nelle nuove intonacature e rivestimenti, quanto al mobilio, fino a comprendere uno studio sulle specchiature delle porte, secondo un procedere già sperimentato nelle case di edilizia popolare del quartiere Tiburtino e San Basilio di Roma. Colpisce, inoltre, il fatto che, anche se i più, compreso il già citato Bruno Zevi, hanno lodato il susseguirsi degli spazi interni alla casa, disposti secondo una passeggiata architettonica/promenade architectural continua, e le “insolite tangenze con la poetica spaziale del raumplan”, – smentite queste ultime, tra l’altro, dallo stesso Federico Gorio –, che indubbiamente impegnarono lo stesso nell’approfondimento tecnologico degli elementi costruttivi a questi connessi, quali le scale, viceversa, troppo poco ci si sia concentrati nel dare risalto alla soluzione di coronamento e chiusura del fabbricato in cui si rintraccia un carattere di indiscutibile originalità progettuale per Casale Gomez, e che ne ha fatto una “architettura senza tempo” – e quindi ancora oggi definibile: moderna – che si staglia, eccitante e gioiosa e singolare, tra il grigiore borghese e tra gli edifici “anonimi e bolsi” circostanti, estroversa e urbana oltre che ripiegata su se stessa. Di fatto, la messa a punto della copertura impegnò non poco Federico Gorio, e ciò è testimoniato dai numerosi disegni di studio realizzati, esposti in mostra a Palazzo Carpegna, riguardanti prime ipotesi scartate a favore della soluzione finale, consistente nella disposizione di sei falde distribuite sui quattro prospetti, sfalsate e dissimetriche, che rievocano solo in parte il coronamento come lo potevamo vedere sulla sommità del vecchio Casale Gomez, rimodellate nelle proporzioni e nelle sporgenze e nelle inclinazioni, alleggerite nella portanza a partire dalla sostituzione dei coppi e delle tegole tradizionali in terracotta rossa con lastre piane di travertino sospese su profilati metallici, separate dagli ambienti interni sottostanti da una intercapedine ventilata, e che si fa caratteristico bovindo vetrato sul fronte dei Monte Parioli, appena risvoltante sul fronte di via Ammanati. La Casa del maresciallo è, insieme, “linguaggio architettonico scarno da ogni frase retorica, da ogni arbitrio o preconcetto convenzionale […] ambiente pulito da assurdi belletti intellettuali od effimere verniciature[…] opera strutturata in facciata con regole compositive squisitamente musicali, che esalta, alla Schönberg, più le pause e i silenzi che le note – ha osservato Massimo Locci nel suo intervento –, in


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Veduta da via dei Monti Parioli di Casale Gomez ristrutturato. Roma, Accademia Nazionale di San Luca, Archivio del Moderno e del Contemporaneo, Fondo Federico Gorio. Sotto: Veduta da via dei Monti Parioli di Casale Gomez prima dell’intervento. Roma, Accademia Nazionale di San Luca, Archivio del Moderno e del Contemporaneo, Fondo Federico Gorio

Schizzo di studio per lo spazio del soggiorno. Roma, Accademia Nazionale di San Luca, Archivio del Moderno e del Contemporaneo, Fondo Federico Gorio

netto contrasto con il contesto edilizio circostante fatto di edifici molto grandi e chiassosi […] paradigma della essenzialità nella complessità”; ha poi proseguito Alessandra Muntoni: “La Casa del maresciallo, rifuggendo, nel contempo, e dalla “opulenza artigianale” ridolfiana e dai “raffinati giocattoli” corbusiani, e dalla “cervellosità razionalista”, sembra, piuttosto, concentrarsi nella pratica del neoempirismo scandinavo e del metamorfismo” e nella opposizione oggetto-processo, richiamata da Franco Purini nel suo intervento, principi secondo i quali l’oggetto architettonico non può identificarsi con un corpo completo e definitivo, raccolto attorno al proprio principio costitutivo, ma con un corpo che prolifera e si proscioglie nel suo intorno. La Casa del maresciallo inoltre, nel suo oltrepassare la “temperie oscillante tra razionalità, organicismo e vernacolo, in atto negli anni Cinquanta del Novecento”, ha il merito di accettare solo in parte la “contrattazione tra modernità e tradizione” che, a detta di Franco Purini, impedì a molti architetti italiani di potersi dedicare completamente all’esercizio della composizione architettonica, funzionando da straordinario esempio, insieme all’edificio polifunzionale in via Campania dello studio Passarelli di Roma realizzato qualche anno più tardi, per i giovani architetti degli anni Sessanta (Alessandro Anselmi, Massimiliano Fuksas, Roberto Perris et al.), travolti da un fiume in piena e traghettati verso un’altra modernità che il contesto urbano circostante invitava a scoprire e ad emulare. n

Locandina della giornata di studi “Federico Gorio 1915-2007. Libertà e rigore” tenutasi a Roma, presso Palazzo Carpegna, giovedì 17 dicembre 2015. Fotografie di Fabrizio Ronconi. Courtesy: Laura Bertolaccini, Accademia Nazionale di San Luca.

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Standard Montaggio Organizzazione Le Corbusier e gli studi per “Ma maison” e per una residenza presso Chicago di Rossella Martino La mostra “Standard Montaggio Organizzazione. Le Corbusier e gli studi per “Ma maison” e per una residenza presso Chicago” si aggiunge alla ricca programmazione che la città di Roma ha promosso a partire dal 2015, anno in cui si sono festeggiati i primi cinquant’anni dalla scomparsa dell’architetto svizzero, naturalizzato francese Charles-Edouard Jeanneret-Gris, al secolo, Le Corbusier, attraverso mostre, giornate di studi, conferenze, seminari, nonché presentazioni di pubblicazioni, ricerche e ristampe, assecondando un effluvio inarrestabile che, coraggiosamente, dopo la mostra al maxxi di Roma, L’Italia di Le Corbusier del 2012 e dopo la recente mostra al Centre Pompidou di Parigi, Le Corbusier. Mesures de l’homme del 2015, continua a dibattere intorno al tema. Tra queste recenti iniziative, emblematica già nel titolo, “LC 1965-2015 Quel che resta | Que reste-t-il?”, giornate di studio tenutesi il 22 e il 23 ottobre 2015 presso il dipartimento pdta di Roma “La Sapienza” per presentare la ristampa dell’antologia, da tempo introvabile, di Giancarlo De Carlo, Le Corbusier e interrogarsi su quel che resta, oggi, della lezione dell’architetto, come anche “Metamorfosi americane. Destruction by neglect. Villa Savoye tra mito e patrimonio”, lectio magistralis di Carlo Olmo e Susanna Caccia Gherardini tenutasi l’11 novembre 2015 presso l’Aula Magna della Facoltà di Architettura di Roma Valle Giulia nell’ambito dell’iniziativa “Corbu dopo Corbu 1965-2015” che è tornata a ragionare su una architettura, Ville Savoye, forse tra le più analizzate e approfondite del secolo Ventesimo. Invece, l’affondo e lo scavo su un piccolo tema di apparente e sublime inutilità e la microstoria incentrata su un piccolo nodo problematico architetturale hanno costituito i fili conduttori della giornata trascorsa a Palazzo Carpegna, nel tentativo di sollecitare gli studiosi a tornare a occuparsi di piccole cose concrete anziché perdersi nei meandri della mito-biografia, seguendo l’esempio di Francesco Moschini che aveva cominciato a interessarsi alla complessa figura di LC nel 1978, quando pubblicò per la collana di architettura da lui stesso diretta, “Città e progetto” – già descritta in dettaglio su Segno numero 252, a proposito della produzione editoriale di A.A.M. Architettura Arte Moderna dal 1976 ad oggi – il settimo volume dal titolo “35 rue de Sévres. Disegni inediti di Le Corbusier”: il piccolo volume era allora pensato come prima rapida selezione di parte degli oltre duemila appunti manoscritti e grafici conservati da Guillermo Jullian de la Fuente, già messi a disposizione per la mostra del 1975 alla Lexington Gallery of Arts nel Kentucky dove nel frattempo era diventato professore di architettura, già chef dell’Atelier Le Corbusier, ricevuti dall’architetto a partire dal 1958 per mezzo di lettere espresso,

Locandina della mostra “Standard Montaggio Organizzazione. Le Corbusier e gli studi per “Ma maison” e per una residenza presso Chicago” tenutasi a Roma, presso Palazzo Carpegna, giovedì 28 gennaio 2016. Fotografie di Luigi Traini. Courtesy: Laura Bertolaccini, Accademia Nazionale di San Luca

Immagini relative alla presentazione della mostra “Standard Montaggio Organizzazione. Le Corbusier e gli studi per “Ma maison” e per una residenza presso Chicago” tenutasi a Roma, presso Palazzo Carpegna, giovedì 28 gennaio 2016 alla presenza di Francesco Moschini, Marida Talamona e Francesco Taormina. Fotografie di Luigi Traini. Courtesy: Laura Bertolaccini, Accademia Nazionale di San Luca

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Immagini relative alla mostra “Standard Montaggio Organizzazione. Le Corbusier e gli studi per “Ma maison” e per una residenza presso Chicago” tenutasi a Roma, presso Palazzo Carpegna, giovedì 28 gennaio 2016. Fotografie di Luigi Traini. Courtesy: Laura Bertolaccini, Accademia Nazionale di San Luca

che alimentarono un dialogo a distanza silenzioso e serrato, interrotto solo dalla morte di quest’ultimo, avvenuta improvvisamente nel 1965 a Roquebrun-Cap-Martin; nel 1975 si pensava di riuscire a occuparsi di una più organica sistematizzazione a fini di pubblicazione che, purtroppo, a oggi, non è ancora avvenuta – e ciò ha assegnato, inaspettatamente, a questo piccolo volume un carattere di prezioso inedito. Qualche anno più tardi, Francesco Moschini organizzò in via del Vantaggio a Roma, sede storica della A.A.M. Architettura Arte Moderna una piccola mostra privata, dedicata questa volta al fotografo Fernand Léger, che ebbe occasione di immortalare gli oggetti, la natura e le immagini nelle domeniche trascorse insieme a Charlotte Perriand e Charles-Edouard Jeanneret-Gris: era il 1983 e Francesco Moschini affinava ulteriormente i suoi interessi per LC secondo traiettorie personali multidisciplinari che lo porteranno a collidere con la personale linea di ricerca di Francesco Taormina, architetto siciliano, romano di adozione, impegnato nello stesso anno nella traduzione dall’originale francese dell’Entretien avec les étudiants des écoles d’architecture, raccolta negli Scritti di LC editi da Einaudi nel 2004, e che è poi diventato: Conversazione con gli studenti delle scuole di architettura. L’occasione perfetta per un incontro tra Francesco Moschini e Francesco Taormina si viene così a creare nel 2016, quando la Fondation Le Corbusier annuncia pubblicamente di aver accettato in donazione i cinque plastici realizzati nell’ambito del Laboratorio di Composizione architettonica 3 dell’a.a. 2014-2015 dagli studenti laureandi Alessandro Gramiccia, Enrico Martini e Alessandro Masi, consistenti, rispettivamente, nel progetto della residenza presso Chicago/Résidence du prèsident d’un collége près Chicago del 1935, nelle due varianti chiusa e scoperchiata e nella casa che LC progettò per se stesso nel 1929, nota anche come Ma maison, in due varianti volumetriche distinte e completata da tre studi differenziati di scale interne di collegamento; si tratta, in tutti e due i casi, di architetture non realizzate, che però LC tiene a pubblicare nel terzo volume della Œuvre complète degli anni 1934-1938 – è importante qui ricordare che, a dispetto del suo titolo, la Œuvre complète non comprende la intera produzione di LC, il quale procedeva a personali tagli e omissioni, come nel caso della attività giovanile realizzata a la Chaux-de-Fonds, e ciò ha portato Francesco Taormina a credere, in prima analisi, che le due piccole architetture non realizzate siano portatrici, in nuce, di insegnamenti altrettanto importanti di quelli rintracciabili nelle architetture realizzate. L’operazione di Francesco Taormina, richiama, certamente, quella dell’architetto Tadao Ando, che nel 2011 dona alla Fondation Le Corbusier centotre plastici realizzati sotto la sua stretta direzione in scala 1:200 dal Dipartimento di Architettura dell’Università di Tokyo, esposti per la prima volta al pubblico nel 2001 alla Galleria MA di Tokyo. Come Tadao Ando, anche Francesco Taormina si è servito degli schizzi della Œuvre complète per ricavare tutte le informazioni necessarie a riprodurre, alla medesima scala di riduzione 1:200, due architetture altrimenti irrappresentabili in quanto non realizzate, costringendo tuttavia i giovani studenti a compiere un notevole sforzo di traduzione di disegni non quotati e soltanto potenzialmente “esecutivi” in realtà quasi costruita, dotata di misure, di forme e di proporzioni ed è in questo che certamente risiede un primo atteggiamento originale; agli studenti, cioè, è stato richiesto di “mettere in bella” e riflettere attentamente, ogni volta, se e dove collocare finestre a nastro o pilotis, pure elementi linguistici di matrice corbusiana, immaginando di ricevere da LC in persona, redivivo, il medesimo compito che nel 1958 era stato del giovane Guillermo Jullian de la Fuente, alle prese con le Note all’attenzione, fra tante, sul Visual Art Center di Boston, inviate all’Atelier di rue de Sévres dal Grand Hôtel di Stoccolma. Punto di partenza dell’operazione è stato, anzitutto, la comprensione dei caratteri generali che Ma maison del 1929 e la Résidence du prèsident d’un collége près Chicago del 1935 sembrano suggerire: così distanti negli anni, eppure accomuna-

te dall’essere, entrambe, radicate in quei principi architettonici che LC aveva sintetizzato ne Les quatre compositions, schizzo che riunisce quattro piccole case a sistema intelaiato, emblemi di una precisione e esattezza costruttiva e sincerità formale. La vicinanza con le realizzate Maison de week-end e Maison aux Mathes ha, poi, suggerito un richiamo allo standard che si ritrova esplicitato nella descrizione della stessa Ma maison dove si legge: “l’architettura domestica, grazie all’impiego di elementi standard (vedere qui accanto anche la Maison de week-end) può ritrovare il cammino degli atteggiamenti essenziali che sono sempre esistiti nelle epoche equilibrate.” E qui lo standard “non sembra essere riconducibile solo all’uso di elementi ripetibili, possibilmente derivati dalla produzione industriale – ha spiegato Francesco Taormina durante la presentazione dei suoi lavori – ma anche allusione al fatto che le parti della costruzione possono mantenere una loro autonomia laddove la gerarchia dei rapporti sarà dettata invece dalle esigenze d’uso dello spazio. E in “Vers une architecture” LC chiarisce ulteriormente che secondo la sua visione, realizzare uno standard significa esprimere tutte le possibilità pratiche e razionali, dedurre un tipo riconosciuto con forma e funzioni, rispettando il principio del massimo rendimento con l’impiego minimo di mezzi, manodopera, materiali, parole, forme, colori, suoni, che sono tutte realtà oggettive e che costituiscono un risultato da raggiungere e da ricercare con insistenza e da realizzare.” Lo standard dunque si realizza, non è un apriori o un dato meccanico da applicare come dettato manualistico, ma obiettivo e attitudine procedurale per il progetto di architettura, insieme, intelligenza organizzativa e morfologica, che porta il progettista all’individuazione di un tipo architettonico, per sua natura instabile come lo è qualsiasi tipo di esperienza umana, assemblabile secondo operazioni di montaggio. In Ma maison, forse da costruirsi nei dintorni di Parigi, come sembra suggerire uno schizzo che però LC non pubblica nella Œuvre complète,

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si assiste alla configurazione spaziale di un ambiente di lavoro/ atelier d’artista e annessa casa d’abitazione, che ruota tutt’attorno all’elemento standard non modificabile, qui fatto coincidere con il dispositivo di copertura a volta brevettato in quegli stessi anni dall’ingegnere Eugène Freyssinet, spinta della composizione architettonica, che si fa montaggio compositivo: ne risulta una giustapposizione di ambienti, dei quali, il primo, più simile a un neutro padiglione industriale, con un solo pilastro centrale e chiuso sui fianchi e illuminato dall’alto da una luce fredda che si addice a un ambiente artistico; il secondo, caldo e accogliente, come li ritroveremo realizzati nella casa-studio di Porte Molitor nel 1934. Fissato l’elemento generatore di spazio, LC si concentra, infine, sullo studio delle proporzioni, ipotizzando una prima soluzione con abitazione disposta su un unico livello, protesa all’intorno al quale guarda per mezzo di una finestra a nastro continua sulla facciata e una seconda soluzione con abitazione disposta su due livelli fuori terra sospesa su pilotis e atelier d’artista ancora a un piano, rialzato da un terrapieno. Nella Résidence du prèsident d’un collége près Chicago del 1935 il procedimento del montaggio figurativo si fa ancora più evidente: qui si assiste alla sovrapposizione ortogonale di due lunghi parallelepipedi, di cui il superiore è a doppia altezza, che assecondano un’organizzazione basata su un raffinato sistema di percorrenze esterne e interne, autentiche promenades architecturales generate dalla opposta disposizione sui fronti longitudinali dell’ingresso principale, volto all’arrivo carrabile, e di una rampa inclinata che conclude un camminamento esistente, riconducendolo alla terrazza della residenza. Nella Résidence du prèsident d’un collége près Chicago, diversamente che in Ville Savoye – e ciò già rappresenta un superamento di una tipologia de Les quatre compositions secondo la già richiamata interpretazione aperta del tipo architettonico – la continuità spaziale non è mai visivamente diretta, viceversa, scale e rampa inclinata attribuiscono unitarietà d’uso all’aspetto eterogeneo dell’edificio, che vede nella varietà delle bucature, nell’isolata astrattezza delle pareti rialzate delle terrazze, nell’eccezionalità

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del muro in pietra che ne conclude un lato, la perdita di nitidezza dei due volumi principali, per altro poco percepibili come tali anche all’interno; allora, il modo in cui appaiono organizzate le forme, le tecniche, i materiali diventa un imprescindibile e definitivo motivo di montaggio compositivo che presiede l’intera figurazione della Résidence du prèsident e ne spiega il ruolo anticipatore della Maison aux Mathes laddove ricomparirà il muro in pietra, e diventeranno centrali, ancora una volta, i concetti di standard e di montaggio, quest’ultimo, demandato completamente alla operatività delle maestranze locali, messe in condizione dall’architetto di poter operare in perfetta autonomia e efficienza. Sicché standard, montaggio e organizzazione, parole chiave che hanno guidato l’operare di Francesco Taormina e dei suoi studenti laureandi, non sono altro che un modo di intendere la costruzione dell’architettura, dalla quale non sembrano, tra l’altro, essere in alcun modo scindibili. L’unità tra standard, inteso come motivo di indipendenza di elementi e parti; montaggio, inteso come mezzo della composizione di elementi e parti; e organizzazione, intesa come motore della costruzione, è per LC la condizione per uniformare il senso degli obiettivi dell’architettura alle condizioni di vita nel suo spazio, secondo una poetica in cui la specializzazione delle tecniche del progetto non produce ancora conflitto come quello a cui assistiamo oggi, in cui la separazione tra architettura e mondo della vita si rende sempre più pericolosamente evidente. La mostra “Standard Montaggio Organizzazione. Le Corbusier e gli studi per “Ma maison” e per una residenza presso Chicago” è inoltre completata dalle restanti nove serigrafie fornite dalla Fondation Le Corbusier in occasione della mostra di Palazzo Braschi a Roma “La casa di Le Corbusier” del 3 aprile 1987, alla quale fece seguito anche un convegno, oggi conservate presso il dicii – Dipartimento di Ingegneria Civile e Ingegneria Informatica della Università di Roma Tor Vergata dove Francesco Taormina insegna: la loro presenza è stata voluta per indicare ai visitatori l’importanza della qualità grafica dello schizzo quale espressione del pensiero architettonico. n


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Immagini relative alla mostra “Standard Montaggio Organizzazione. Le Corbusier e gli studi per “Ma maison” e per una residenza presso Chicago” tenutasi a Roma, presso Palazzo Carpegna, giovedì 28 gennaio 2016. Fotografie di Luigi Traini. Courtesy: Laura Bertolaccini, Accademia Nazionale di San Luca. A sinistra: Copertina del volume: 35 rue de Sévres. Disegni inediti di Le Corbusier. Courtesy: Collezione Francesco Moschini e Gabriel Vaduva A.A.M. Architettura Arte Moderna

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Segni d’arte, segni d’Eco e segni di editoria di Gabriele Perretta

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l calcolo delle derive è sempre più immisurabile nella critica che fornisce continuamente una serie di reinterpretazioni, di slittamenti, di riconoscenze anomale intorno al farsi (e al disfarsi) delle lingue; afasie, stilemi, “approdi del destinatario”. I troppi modi di scrivere o di tracciare un segno, di inventare la sua ambiguità, la scelta della rappresentazione di segnale, la possibile risoluzione, l’inquadramento e la trasmissibilità di ciò che ognuno di noi pensa sia la costituzione del segno, può darsi abbia creato codesta deviazione (o ambiguità), e le relazioni sulle possibilità (e le impossibilità) dell’arte operano discrasie insistenti e forse irrisolvibili. Sono trascorse poche settimane dalla scomparsa di Umberto Eco: in verità, non molte ma già ragionevolmente sufficienti per tentare di darne una seria valutazione in sede critica, dopo i tanti pareri o esaltazioni della prima ora, che si sono davvero sprecati. Se la memoria che si ha da serbare di uno scrittore dovesse affidarsi alla chiarezza del suo linguaggio, davvero lontano andrà allora il ricordo che Eco lascerà di sé fra quanti, studiando letteratura e saggistica scientifica italiana, s’imbatteranno in futuro nei suoi saggi critici e storici sul Medioevo. Per il sapiente equilibrio fra l’addottrinata ricerca e la sensibilità di partecipazione, i libri che ci lascia questo studioso possono ascriversi, infatti con pieno diritto, nel numero non cospicuo delle opere di indiscutibile esemplarità d’interpretazione. A leggerli o – come più spesso accade – a rileggerli, si resta sempre colpiti dal respiro enciclopedico che vi circola: non soltanto per ovvie ragioni ed esigenze di comparativismo, bensì, più assai, per una naturale disposizione a cogliere, così dei semiologi e dei mediavalisti come delle correnti di pensiero e di linguaggio, quella matrice di civiltà umanistica ed occidentale che dir si voglia, fino a ieri sciovinisticamente costretta entro arbitrari spazi nazionali che ne angustiano o (peggio) deformavano i contorni delle sue fondamentali caratteristiche. Si può dire che non vi sia opera di Eco in cui questa dilatazione universale della materia trattata non costituisca l’aspetto felicemente innovatore dell’analisi critica ch’egli conduce. Basti ricordare, ad esempio, il volume del 1973, per Isedi, sul “Segno”, che, pur nella sua scarsa consistenza di pagine (poco più di duecento), investe un’area e una questione culturale che, dalle origini ad oggi, dalla Grecia Antica, dalla Scolastica alla semiologia post-saussuriana e post-peirciana, chiarifica nei due sensi, diacronico e sincronico, i nodi fondamentali della questione attraverso una disamina decisamente esemplare della letteratura sull’argomento. Questo libro ha riempito uno spazio vuoto nella storiografia della semiotica delle origini fino ai giorni nostri: la parte relativa alla definizione del segno connesso a problemi e a temi culturali e artistici. La distinzione tra i concetti di semaionon, semainomenon e pragma è appunto fondamentale alla comprensione dell’intera opera di Eco e di riviste come questa di Pescara dove scriviamo, fondata nel 1976 dall’editore Sala: mentre infatti il segno è sempre qualcosa che indica un rapporto tra le scoperte della linguistica e gli atti di fondazione di nuovi spazi editoriali, l’arte, invece (che lo assume e lo mutua dal contributo di Eco), non si sottrae al rapporto con la stessa lingua e la storia della cultura, a sua volta, aggiunge la storicamente certa e, oggi, teleologicamente necessaria mediazione dell’estetica.

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l segno è in più punti (e tessuti artistici) riporto di immagini memoriali, il pragmatismo e il semiologismo è in agguato e non pochi sono disponibili a codesta amplitudine derivata dagli influssi analitici e continentali; le connessioni sperimentali sottolineano la sua continuità, quasi sempre con elementi diversi, sebbene usati in modo eterogeneo; le speranze e il gioco si addensano nel clima stesso dell’avvolgente riqualificazione culturale, o padroneggiando l’imitabilità dei nuovi classici, e ogni tipo di accettabilità del derivato. Secondo Eco (che dagli anni Sessanta in poi apre il discorso semiologico con “La struttura assente”), la cultura in atto non contempla, quanto esso possa essere una “festa dell’intelletto”, e quanto una società segnica abbia bisogno di ristrutturare le avversioni del sordido e lo stesso concetto di semiotica, e altro. Non è possibile alcuna predisposta archetipia nel presupporre che la parola o l’immagine sia o diventi segno a tutti i costi, e il segno artistico nasce appunto dalla discontinuità che la parola ha con la particolare preventivabilità critica. A codesta logica di orientamento (e di esperienza interpretativa) si affida il cosiddetto campo semio94 - segno 257 | APRILE/MAGGIO 2016

tico, inaugurato nel 1968, in cui Eco tratta il problema di una teoria semiologica unificata e prova a formulare un modello partendo dalle idee sviluppate da Peirce e De Saussure. Nel 1971 Eco fonda e diventa direttore responsabile del periodico “Versus”, il quale sarà una delle riviste italiane più importanti di semiotica e pubblica due testi: Segno e Le forme del contenuto. Il significato di Segno è dato quindi dalla cooperazione di tre soggetti: il simbolo (o segno), l’idea (cioè il concetto) e il referente (cioè la realtà rappresentata del segno). Dunque il segno non ha alcun rapporto diretto con l’oggetto concreto, ma con l’immagine mentale. Se c’è accordo nella tripartizione, però, non sempre c’è accordo sul nome da dare ai poli del triangolo semiotico. Il segno è pertanto un complesso processo di interpretazione: “qualcosa è segno solo perché viene interpretato come segno di qualcosa da qualche interprete”. Condizione di un segno, infatti, non è soltanto lo stare al posto di “qualc’altro”, indicandolo, ma anche l’offrire una o più possibili interpretazioni di ciò al posto del quale il segno sta.

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lcuni anni fa, critici e curatori provenienti da campi e discipline di lavoro diverse ma unite da una comune vocazione, iniziarono a incontrarsi periodicamente per scambiarsi le proprie idee e confrontarsi su quello che era il loro interesse: l’arte e il suo “segno” attuale. Tutti amanti di questa sublime scienza e, cosa da non sottovalutare, critici d’arte. Critici nel senso più genuino del termine: interessati alla letteratura artistica ed all’espressione critica per passione. Ovvero per il piacere di occuparsene con la semplice finalità di conoscere quello che accade sopra le nostre teste, di cercare di spiegarlo, analizzarlo e, se compreso, divulgarlo agli altri. Tutto ciò affrontato sempre per criticità e in modo serio e onesto. Si potrebbe raccontare della nascita della rivista Segno (di Pescara) cominciando da varie considerazioni – tutte valide -, ma si rischierebbe di nascondere tra le righe il primo postulato imprescindibile: l’editoria d’arte è stata un fenomeno necessario. Questo perché le arti visive dei secondi anni Settanta non erano riusciti ad offrire niente di meglio delle accorate rappresentazioni narcisistiche di alcuni osannati Dinosauri: c’erano stati inizialmente alcuni fermenti paralleli certo non ignorabili, ma l’arte e l’editoria, consumata e talora prodotta dal mondo giovanile di allora era in una fase di modificazione repentina – affollamento di progetti e ansie corporative saranno i suoi aneliti, in seguito diagnosticati. Dunque “il” Segno di Pescara nacque come una risposta dovuta, spesso “alternativa”, allo status consolidatosi da anni all’interno del “art press business” e come omaggio al Segno del ’73, di echiana memoria. Un’opposizione ancor più intrigante perché pretestuosamente estetica e sociale, in grado soprattutto di coinvolgere arte, pubblico, critica e gallerie come nuovo sistema non era mai riuscito a farsi. Segno, insomma, tramite l’incipit echiano, fu in grado di sollecitare la situazione, fino a diventarne parte, con slancio letterario, a tratti relazionale.

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on c’è dubbio che una tendenza della semiotica contemporanea sia quella di diventare sempre di più una fenomenologia. Con questo non si vuole esprimere una valutazione pro o contro una determinata opzione. Il problema è che Eco vide la semiotica nettamente in alternativa alle idee portanti della fenomenologia degli stili. Rimane quindi da spiegare come mai questo viraggio non venga maggiormente sottolineato, non ci si chieda cosa significhi per il destino della critica, e soprattutto perché non si debbano chiamare le cose col loro nome. Ma vediamo meglio in che senso si può affermare che la semiotica del Segno di Eco si sia trasformata nella critica del Segno dell’editore Sala. Il segno è probabilmente il linguaggio che meglio sa raccontare la complessità del reale in presa diretta, come dimostrano i quarant’anni di storia di questa stessa rivista (realizzati tra il 1976 e il 2016; una delle più stimolanti stagioni creative dell’arte contemporanea occidentale e non solo), introvabili da qualche tempo e spesso profetici rispetto agli anni in cui si sono auto-legittimati. Se è vero che una porzione della storia della critica d’arte di sempre maggiore ampiezza, man mano che si è accostata alla contemporaneità, va scritta a partire dal contributo fornito a questa disciplina da parte della letteratura redatta da Lionello Venturi, Giulio Carlo Argan, Filiberto Menna (che Eco prende a pretesto nell’Opera


osservatorio critico LIBRI

Aperta del ’62) etc… e , in generale, della stampa periodica, a proposito della contemporaneità questa affermazione trova non solo puntuale verifica, ma evidente banco di prova. Al punto che, se una teoria e una pratica della critica d’arte hanno avuto agio di svilupparsi nella nostra penisola nel corso del Novecento e del Duemila (beninteso a determinare peculiari condizioni), ciò è stato possibile soprattutto grazie al ruolo fondativo di un semiologismo più o meno specialistico e tecnicamente mediale – oltre che culturalmente – attrezzato, che va oltre l’iconologia! Laddove, per lungo tempo, di fatto fino allo scadere del secondo ’68, mancarono testate specificamente (o meglio esclusivamente) dedicate alle arti, la vocazione multidisciplinare di gran parte delle riviste europee del periodo sopperì a questo deficit, talora dedicando una larga sezione degli articoli proprio a problemi di critica, informazione culturale e storiografia artistica. Spesso peraltro il titolo di Segno, che accompagna l’intestazione del periodico, fin qui pubblicato, esplicita la funzione enciclopedica e insieme pedagogica – assegnatagli da Eco. – questi nuovi strumenti, in nome di una completa formazione del pubblico della seconda metà degli anni ’70.

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egno è più di un segno. È un progetto di una rivista e di un mondo dell’arte, basato su dialogo, estetica, sensibilità; sulla convergenza nelle diversità, senza la certezza di possedere la verità assoluta. Lo dice, parlando di Eco e della sua improvvisa morte, il fondatore della rivista abruzzese Umberto Sala: ”Pensammo di chiamare Segno la rivista Segno, grazie all’uscita del libro di Eco per Isedi”. A volte, i nostalgici e gli appassionati tornano, riprendono la parola e si rivelano per quel che erano quando hanno subito il fascino dell’influenza echiana: pionieri di messaggi mediali di stringente attualità. E’ il caso, probabilmente, di Sala appunto, uno dei principali gruppi editoriali dell’arte contemporanea italia, il gruppo o la coppia che pensano di unire il verbum del signum col progetto delle neo-avanguerdie. L’occasione per questa “fisionomia” in cui Sala-Spadano rivendicano una continuità tra la semiologia della cultura artistica e la fortuna dell’arte contemporanea, dopo il ’76, appare come quello che Eco, due anni dopo, nel Convegno di Montecatini di “Critica O” definì critica di riconoscimento di immagini da parte di macchine e laboratori intelligenti”. Cosa anticipava Eco in quel libro pubblicato a Torino, presso l’Istituto Editoriale Internazionale, nel lontano 1973? Un segno è qualcosa – qualunque cosa (anche un laboratorio di scrittura visiva al servizio dell’informazione artistica, come il Segno di Pescara) – che sta al posto di qualcos’altro. Eco esprime con chiarezza questa sua natura macro-semiotica. Tutto è quindi segno, o tutto può diventarlo se viene interpretato da qualcuno come un indicatore di qualcosa. Secondo Eco ha quindi ragione la filosofia del linguaggio, al di là di quella testuale, che ritiene che la semiotica non ha a che fare con lo studio di oggetti particolari, ma con gli oggetti tutti (compresi quegli artistici e dei loro Segni e Di-Segni) in quanto (e solo in quanto) partecipano al processo di semiosi.

Maria Vinella

Educare all’arte Pedagogia dello sguardo e didattica visiva Pensa MultiMedia Editore, Lecce 2015

a ricerca di Maria Vinella si L interroga da anni sul pensiero visuale, sui legami tra perce-

zione visiva e neurostetica, sulle scienze dell’immagine. I suoi studi sulle teorie della creatività hanno portato alla nascita di numerosi laboratori sull’arte contemporanea sperimentati nelle scuole, nelle Accademie di Belle Arti e nelle Università. Questo volume, dedicato alla pedagogia e alla didattica dell’arte, prova ad interrogarsi sullo stato attuale delle ricerche in un campo – quello della visione – destinato a sempre nuove scoperte scientifiche. L’autrice si interroga sui cambiamenti culturali che investono la nostra società, sui bisogni emergenti dei contesti formativi, sullo stato del patrimonio artistico italiano. Oggi, questa l’analisi, le giovani generazioni sembrano disabituate a contemplare le qualità del patrimonio che ci circonda, hanno dimenticato cos’è la storia dell’arte del nostro paese, conoscono superficialmente l’arte prodotta nel mondo. Invece è importante comprendere quali sono le nuove iconografie della modernità, quali le immagini della transitoria e contingente cultura urbana, quali le incessanti metamorfosi dei paesaggi artificiali e simulati degli immaginari multimediali. Nelle visioni del nomadismo adottate dalla cultura globalizzata e onnivora, proiettate verso scenari inaspettati alimentati dal cinema, dalla moda, dalla pubblicità, dal design, da internet ecc. i nostri giovani studenti possono scoprire nuove occasioni di educazione visiva? Oggi la contemporaneità offre differenti dinamiche comunicative, dove i circuiti dei computer costituiscono i nuovi labirinti del sapere. Qui, le ultime generazioni di “creativi” interrogano il futuro. Come scrive l’autrice: “Nella città del domani, lo sviluppo delle tecnologie elettroniche della comunicazione renderà possibile la compresenza di modelli di vita diversi; agevolmente alterità e differenze potranno convivere nella coesistenza multietnica e multiculturale, senza ricadere nel collassa mento delle integrazioni forzate. Le tecnologie di rappresentazione e di

comunicazione, nelle loro articolazioni di video, informatica, telematica, realtà virtuale ecc. muteranno l’operatività estetica. Tecnoscienza, interattività, multimedialità, ipermedialità: la simulazione sarà una strategia indispensabile nell’habitat pervaso da artefatti tecnologici.” Dunque, immersi in un “sistema nervoso globale”, come direbbe McLuhan, vivremo in simbiosi con l’ambiente intelligente? L’arte tecnologica, arte senza luogo, entrerà dappertutto? I limiti del reale diverranno labili; spariranno le differenze? L’opera, fatta di immagini sintetiche, sarà collettivizzata, diverrà contestuale e interattiva con l’ambiente? Forse, allora, finalmente, assumerà centralità la vocazione sociale e comunicativa dell’arte, con nuove configurazioni della figura dell’artista. Nasceranno nuovi archivi della conoscenza e nuovi saperi. Antonella Marino

Simone Pellegrini Alessandra Angelucci Prefazione di Luca Arnaudo.

Guadi Conversazioni sull’arte, l’uomo e la parola l libro è un coinvolgente e apIforma passionante volume steso in d’intervista, in cui l’artista

Simone Pellegrini si racconta attraverso le domande di Alessandra Angelucci, giornalista e direttrice della collana Fili d’erba per dare voce agli artisti, di cui questo piccolo volume fa parte, pubblicato dalla Di Felice Edizioni. Si tratta di una conversazione intima e sincera sull’arte, sull’uomo e la parola, che – come confessa Pellegrini – apre un dialogo intenso e serrato «più vasto, onnicomprensivo, di cui l’uomo è il carattere più esemplare ma anche vessillifero involontario». È un libro che sottolinea, attraverso la voce dell’artista, l’importanza della parola, arrivando al cuore del lettore attraverso il suo modo di vedere e sentire l’arte: «Nella lingua l’uomo cerca domicilio, il mondo, se stesso. Ma quel che non trova - questo – lo definirei arte» afferma Pellegrini. Come ogni volume della collana, anche Guadi pone particolare attenzione a quell’aspetto che spesso, nel mondo dell’arte, passa in secondo piano rispetto all’opera d’arte stessa: la voce di chi crea, di chi in un gesto ha immortalato un’esistenza.

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PARCO SCULTURA LA PALOMBA - MATERA antonioparadiso1@gmail.com tel. 3289716135 Direzione - Tina 3398663196

Progetto mostre e performance per la stagione 2016 Sabato 28 maggio 2016

VOLO LUMINOSO

di Antonio Paradiso, ore 18

Le CATILINARIE

di Cicerone interpretate dall’attore di teatro Enrico Greco, ore 21

Sabato 18 giugno 2016 Mostra di pittura di artisti lucani, ore18

Sabato 25 giugno 2016

IL RITRATTO

di Gianni Perillo, ore18

UNA CANZONE

del millecinquecento cantata da Milena Orlandi, ore 21

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Gioia del colle - Bari

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Michele Cossyro

Buco Nero "Collasso Celeste" - 2015 Courtesy Adalberto Catanzaro

Galleria Adalberto Catanzaro artecontemporanea Villa Casaurro - via Casaurro 78 Bagheria, Sicilia 90011 Tel . 3271677871 www.galleriadalbertocatanzaro.it



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