segno Spedizione in abbonamento postale Poste Italiane S.p.A. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 00 in libreria ROC · Registro degli operatori di comunicazione n. 18524 - ISSN 0391-3910
E 5.
Anno XLI - DIC 2016/GEN 2017
Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea
PIER PAOLO CALZOLARI
All’interno ANTEPRIMA/NEWS - LE MOSTRE NEI MUSEI, NELLE ISTITUZIONI SPAZI ALTERNATIVI, GALLERIE PRIVATE – SPECIALE GRANDI MOSTRE ARTISTI IN MOSTRA – CRONACHE, RECENSIONI, IMMAGINI – LIBRI E CATALOGHI
accademia nazionale di san luca mostre in corso
Il Grand Tour
a cura di Roberto Cremascoli e Francesco Moschini
álvaro siza in italia 1976 - 2016
la misura dell’occidente Álvaro Siza_Giovanni Chiaramonte
26.10.16_27.02.17 ingresso libero . free admission
accademia nazionale di san luca piazza dell’Accademia di San Luca 77, 00187 Roma www.accademiasanluca.eu
segnodicembre 2016 / gennaio 2017 E 5.
Anno XLI - DIC 2016/GEN 2017
Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea
# 260 - Dicembre 2016/Gennaio 2017
sommario
segno Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea
Artisti in copertina
Pier Paolo Calzolari PIER PAOLO CALZOLARI
All’interno ANTEPRIMA/NEWS - LE MOSTRE NEI MUSEI, NELLE ISTITUZIONI SPAZI ALTERNATIVI, GALLERIE PRIVATE – SPECIALE GRANDI MOSTRE ARTISTI IN MOSTRA – CRONACHE, RECENSIONI, IMMAGINI – LIBRI E CATALOGHI
Robert Indiana [19]
#260
Spedizione in abbonamento postale Poste Italiane S.p.A. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 ROC · Registro degli operatori di comunicazione n. 18524 - ISSN 0391-3910 00 in libreria
Senza titolo, 1990 (particolare) sale bruciato, coloranti, rame, oro, noci, lumelli ad olio, piombo, carta, grafite 194 x 276 x 77 cm Foto Paolo Semprucci Courtesy Archivio Fondazione Calzolari
Michele Zaza [36]
4/17 News gallerie e istituzioni Anticipazioni in breve dall’Italia ed estero a cura di M.Letizia Paiato, Lucia Spadano, Paolo Spadano e collaboratori
Casa Morra [44]
Time is out of joint, Galleria Nazionale Roma (Ilaria Piccioni pag.18) Love, l’arte incontra l’amore (Chiostro del Bramante, Roma (cs.pag.19) 16° Quadriennale, Palazzo Esposizioni Roma (Pietro Marino, Paolo Balmas pag.20-21) Non-Aligned Modernity, FM Frigoriferi Milanesi (Chiara Fusar Bassini pag.22-25) La Tenda Verde, PAV Torino (Gabriele Longega e Ilaria Zanella pag. 26-27) Alfabeti sommersi, Palazzo Vecchio Firenze (Serena Ribaudo pag.28-29) La Torre di Babele, Ex Fabbrica Lucchesi Prato (Serena Ribaudo pag.30-31) Quattro personali alla Galleria Continua (Rita Olivieri pag.32-35) Michele Zaza, FM Frigoriferi Milanesi (Federica Mutti pag. 36-37) Pier Paolo Calzolari, Artista in copertina (Luca Tomio pag.38-43) Cento anni di moltitudine, Casa Morra Napoli (a cura di Lucia Spadano pag.44-45) Kishio Suga (Hangar Bicocca Milano (Gabriele Perretta pag.46) Carl Rama. Gam Torino (Gabriele Perretta pag. 47) Álvaro Siza in Italia, Accademia San Luca Roma (Rossella Martino pag.48-51) Ai Wewei libero, Palazzo Strozzi Firenze (Rita Olivieri pag.52) Bologna dopo Morandi, Palazzo Fava Bologna (Francesca Cammarata pag. 53) Matteo Nasini, Talent price MACRO (Luca Tomio pag.54) Vittorio Messina (Dario Orphée La Mendola pag.55) Stoner, la mostra da sfogliare (M.Letizia Paiato pag.56) Demetz, Grassino, Lucà, Priolo (M.Letizia Paiato pag.57) Stefania Beretta (Viana Conti pag.58) Hotello & Dada Soirèe (Viana Conti pag.58) Rizòmata (Dario Orphée La Mendola pag.59) Filippo di Sambuy (M.Letizia Paiato pag,60) Mariateresa Sartori (Francesca Cammarata pag.60) Luca Sacchetti, Luca Zarattini (Annamaria Restieri) Simone Benedetto (Valentina Falcioni)
Álvaro Siza [48]
www.rivistasegno.eu
news e calendario eventi su
e 18/61 Attività espositive/ Recensioni anticipazioni
mostre 63/69 Documentazione/ altre e collettive Polvere di stelle Wael Shawiky Josh Kline, Harun Farocki Grazia Toderi Roberto Pugliese Rosemarie Trockel Orizzonti, Art Verona Artissima Torino (a cura di M.Letizia Paiato e L.Spadano)
Ai Weiwei [52]
70/74 Osservatorio critico/Letteratura d’arte Incontri di architettura e d’artei (Gloria Valentini pag 70-72) Colori d’Africa, intervista a Margaret Majo (Simona Zamparelli pag 74)
segno periodico internazionale di arte contemporanea
Direzione e redazione Corso Manthonè, 57 65127 Pescara Telefono 085/61712
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Direttore responsabile LUCIA SPADANO (Pescara) Condirettore e consulente scientifico PAOLO BALMAS (Roma) Direzione editoriale UMBERTO SALA Redazione WEB, Roberto Sala, M.Letizia Paiato
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>anteprima<
Roberto Cuoghi
Cecilia Alemani, foto Marco De Scalzi
VENEZIA
57.BIENNALE ARTE
Padiglione Italia ono Giorgio Andreotta Calò, Roberto Cuoghi e Adelita Husni-Bey gli artisti selezionati dalla Curatrice Cecilia AleS mani per rappresentare l’Italia alla 57. Esposizione Internazionale
d’Arte della Biennale di Venezia, in programma dal 13 maggio al 26 novembre 2017. “Con le loro opere, Giorgio Andreotta Calò, Roberto Cuoghi e Adelita Husni-Bey rappresentano modi complementari e distinti di fare arte in Italia oggi – afferma Cecilia Alemani – I tre artisti sono nati in Italia tra la metà degli anni ‘70 e degli anni ’80 e sono emersi sulla scena artistica nazionale e internazionale nello scorcio di questo nuovo secolo, raggiungendo diversi livelli di notorietà: dalla giovane promessa Husni-Bey al lavoro più maturo di Cuoghi. Le loro opere e i loro linguaggi sono globali ma intimamente legati alla cultura del nostro Paese. Ho scelto di invitare un numero ridotto di artisti rispetto al passato per allineare il Padiglione Italia agli altri padiglioni nazionali presenti in Biennale. Per questo il mio progetto non cerca di rappresentare uno sguardo completo su tutta l’arte italiana: piuttosto vuole guardare in profondità al lavoro di tre artisti – voci originali che si sono distinte e imposte negli ultimi anni – dando loro spazio, tempo e risorse per presentare un grande progetto ambizioso che costituisca un’occasione imperdibile nella loro carriera e che possa presentare al pubblico un’opportunità di immergersi nella mente e nel mondo degli artisti. Spero che questo Padiglione possa proporre un’immagine dell’Italia attuale e cosmopolita, non più vista solo attraverso la lente nostalgica delle generazioni precedenti, ma che guardi al futuro con entusiasmo e con la capacità critica di confrontarsi con nuovi linguaggi e con le esperienze di altre nazioni.”. “Cecilia Alemani è persona di grande competenza ed esperienza internazionale e il suo progetto per il Padiglione Italia è ambizioso e molto innovativo”, sottolinea il Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Dario Franceschini. “La scelta di annunciare gli artisti con anticipo rispetto alle precedenti edizioni - dichiara Federica Galloni, Direttore Generale Arte e Architettura contemporanee e Periferie urbane del MiBACT e Commissario del Padiglione Italia - sottolinea e rafforza il nuovo corso intrapreso dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo anche nella gestione delle procedure. Un’altra novità, infatti, riguarda i tempi della nomina del Curatore del Padiglione da parte del Ministro, fortemente voluta dalla Direzione Generale
ROMA MAXXI
Letizia Battaglia er pura passione è l’ampia antologica che il MAXXI dedica alla grande artista siciliana, nota in tutto il mondo principalP mente per le sue foto di mafia, la cui parabola artistica testimonia quaranta anni di vita e società italiana, in particolare quella siciliana. In mostra, a cura di Paolo Falcone, Margherita Guccione e Bartolomeo Pietromarchi, oltre 200 fotografie, provini e vintage print inediti, ma anche riviste, pubblicazioni, film e interviste. Si passa dalle proteste di piazza a Milano negli anni Settanta al volto di Pier Paolo Pasolini, dai morti per mafia alla inconsapevole eleganza delle bambine del quartiere della Cala a Palermo, dalle processioni religiose allo scempio delle coste siciliane, dai volti di Piersanti Mattarella, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino a quello del boss Leoluca Bagarella. Fino al 17 aprile. 4 - segno 260 | DICEMBRE 2016/GENNAIO 2017
Adelita Husni-Bey, foto Andrea Artemisio Giorgio Andreotta Calò, foto Nuvola Ravera
oltre un anno prima rispetto all’inaugurazione della Biennale, al fine di consentire a Curatore e artisti di lavorare con tempi non serrati. Infine, più chiare indicazioni progettuali fin dalla lettera d’invito sulla tematica e sul numero delle presenze, che considerata l’estensione del Padiglione Italia non dovevano superare il numero di tre. Promuovere, valorizzare e sostenere la creatività italiana nel contesto internazionale sono tra i principali obiettivi della Direzione Generale, e la Biennale di Venezia da sempre costituisce un appuntamento di confronto imperdibile per il mondo della cultura globale. Siamo pertanto particolarmente orgogliosi del percorso intrapreso in vista dell’appuntamento del 2017, consapevoli del fatto che organizzare la presenza dell’Italia secondo tempistiche e modalità corrette e rispettose del ruolo e del lavoro di tutti non può che contribuire in modo positivo alla definizione di un’identità nazionale nel contemporaneo.”. Il progetto curatoriale e tutti i relativi dettagli verranno resi noti nel corso di una conferenza stampa dedicata, in programma nei primi mesi del 2017. Letizia Battaglia, Nella spiaggia dell’Arenella la festa è finita Palermo, 1986, courtesy l’artista
>news istituzioni e gallerie<
Reinhard Mucha, Untitled (Entwurf einer Wandmalerei fuer das Arbeitszzimmer von Peter Bagel im Gebaude der Drueckerei und Verlagsanstalt August Bagel Duesseldorf 1978), 1987, legno, alluminio, fotografo, vetro colorato, plastica, cm.120x200x18,5, courtesy Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli
MILANO
LIA RUMMA
NAPOLI MADRE
Reinhard Mucha Fabio Mauri el giugno del 1989, lo spazio espositivo napoletano di Lia rganizzata in stretta collaborazione con lo Studio Fabio Rumma ospitava la mostra Mutterseelenallein (solitudine), OMauri e curata da Laura Cherbini e Andrea Villani, la moN segnata da un grande intervento di Reinhard Mucha che testra Retrospettiva a luce solida è la monografica più completa matizzava il concetto di “mostra d’arte” evocando un senso di vuoto e solitudine. Composta da sedici teche al cui centro si vede la fotografia in bianco e nero di una sedia vuota (sedie usate da custodi o stanchi visitatori durante la mostra Winterausstellung, tenutasi anni prima a Düsseldorf), da allora l’installazione rimase per nove anni al Museum für Modern Kunst di Francoforte per approdare nel 2007 nella collezione permanente del Castello di Rivoli e compiere, ora, con la mostra Schneller werden ohne Zeitverlust (fino al 23 dicembre negli spazi milanesi di Lia Rumma) un suggestivo “ritorno a casa”. L’opera, che simboleggia la poesia dell’attesa e la specificità di ogni persona (come di ogni sedia) è affiancata da una serie di film inediti, alcuni nuovi lavori e una serie di opere a muro realizzate nel corso degli anni.
Reinhard Mucha, Mutterseelenallein, 2016, scultura, work in progress courtesy Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli, VG Bild-Kunst, Bonn foto Reinhard Mucha Reinhard Mucha, Schneller werden ohne Zeitverlust, 2016 courtesy Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli
mai dedicata all’artista dopo quella del 1994, alla GNAM di Roma. Il percorso espositivo, specificamente concepito per gli spazi del Museo, si snoda tra oltre cento opere, installazioni, azioni e documenti, che indagano conflitti e contraddizioni della storia moderna e contemporanea e trovano nel rapporto fra dimensione storica e dimensione etica il fulcro intellettuale ed emotivo. La prima sezione della mostra, su tutto il terzo piano del Museo, raccoglie opere che esplorano, in tangenza con le estetiche pop, la dimensione della comunicazione di massa: dalla serie degli Schermi (anni ‘50/’70), ai “tappeti-zerbini” e la ricerca sui significati e le dinamiche della proiezione, tra cui i principali lavori scultorei e installativi della fine degli anni ‘60. Il percorso culmina in una selezione dei 16mm degli anni ‘70 su corpi ed oggetti, fino alle più recenti proiezioni su supporto digitale e di impianto ambientale. Una seconda sezione, al piano terra e in tre sale del mezzanino, presenta opere, installazioni, azioni e documentazioni afferenti alla matrice performativa e teatrale dell’artista. Una selezione delle azioni più importanti verranno presentate periodicamente attraverso proiezioni e materiale documentario. Spazio di indagine è, inoltre, dedicato alla prima opera teatrale di Mauri, monologo in due tempi e due scene intitolato L’isola (1960). La terza sezione, nella Sala delle Colonne, è dedicata al corpus integrale delle maquette architettoniche che ricostruiscono i percorsi espositivi delle principali mostre dell’artista. Lo spazio museale si fonde con il palcoscenico, dando vita a una esperienza critica in cui il pensiero si fa concreto incorporando il concetto di “luce solida”, che compare in alcuni titoli delle opere dell’artista. Fino al 6 marzo. In contemporanea, la GAMeC di Bergamo ospita una differente retrospettiva dedicata all’artista che, a complemento della mostra partenopea, contribuisce a restituire un profilo esaustivo della sua ricerca. Fino al 15 gennaio. Fabio Mauri, Ricostruzione della memoria a percezione spenta, 1988 conferenza-performance a Villa Pignatelli, Napoli, stampa lambda, dettaglio courtesy Estate Fabio Mauri, Hauser & Wirth, foto Elisabetta Catalano
DICEMBRE 2016/GENNAIO 2017 | 260 segno - 5
UMBRIA
>news istituzioni e gallerie< CITTÀ DI CASTELLO
ALTKIRCH
EX SECCATOI DEL TABACCO
Burri Lo Spazio di Materia Tra Europa e USA Dopo i grandi eventi espositivi al Solomon R.Guggenheim di New York e al Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen di Düsseldorf, le celebrazioni per il centenario della nascita di Alberto Burri si concludono con uno straordinario appuntamento nel suo luogo natale, Città di Castello. La mostra Burri Lo Spazio di Materia / Tra Europa e USA, ospitata fino al 6 gennaio negli Ex Seccatoi del Tabacco, offre una completa ricognizione delle tendenze più significative nella scena artistica internazionale nel secondo dopoguerra, con particolare attenzione ad alcune osservazioni e riflessioni sulla centralità della pittura di Burri, sin dalla fine degli anni ‘40, nel panorama interazionale dell’Arte. “La mostra afferma – secondo Richard Armstrong, Direttore del Guggenheim Museum - la posizione di Burri come uno dei più innovativi artisti del periodo […], ha creato un nuovo tipo di oggetto, simultaneamente pittorico e scultoreo, che ha influenzato successivamente artisti associati col New Dada, Il Noveau Réalisme e il Postminimalism.”, senza dimenticare l’italianissima Arte Povera. Burri è, infatti, l’artista che, avendo ottenuto una spazialità inedita all’insegna di un equilibrio che ne qualifica le forme, ha posto in evidenza la centralità della sua pittura nel panorama internazionale dell’Arte. Le influenze sulla sua ricerca partono dal giovanile contatto con la pittura di Mirò, Fautrier, Dubuffet, per passare dai viaggi negli Stati Uniti dove si confronta con Pollock, Motherwell, De Kooning e altri espressionisti astratti; da questi contatti scaturiscono i Catrami e soprattutto i Sacchi, la cui lezione ritroveremo in numerosi lavori di Rauschenberg, Johns, Twombly, Colla, Nevelson, Marca-Relli e Scarpit-
ta. In Italia, il confronto è con la pittura di personalità come Afro, Capogrossi, Fontana, Matta, Nicholson, Tàpies; i risultati sono tangibili nella matericità dei Gobbi, delle Combustioni, delle Plastiche, dei Ferri, dei Legni, ricerca che assuume un ruolo fondamentale per artisti come Klein, Rotella, Manzoni, Kounellis, Pascali, Pistoletto, Uncini, Arman, Christo. Ultimo terreno di confronto, quello con le ricerche spazialiste e minimaliste di LeWitt e Serra, e col forte ricorso ai materiali di Beauys, Kiefer, Sonnier e Mattiacci. La mostra affianca eccezionalmente alle opere di Burri, numerosi capolavori storici degli artisti a lui affiancati ed è arricchita da una sezione documentaria di apparati biografici e di carattere culturale come riviste, cataloghi, manoscritti, fotografie e monografie di tutte le personalità artistiche necessarie alla ricostruzione del quadro storico del XX Secolo. Nell’arco dell’esposizione sono proiettati, in apposite sale ricavate negli Ex Seccatoi, filmati dei vari artisti presenti nonché, grazie a un prestito del Solomon R. Guggenheim Museum di New York, il film di Petra Noordkamp “Il Grande Cretto di Gibellina”. Eccezionale, inoltre, la possibiltà di assistere all’anteprima del balletto November Steps, ideato da Minsa Craig, moglie di Burri ed eseguito dalla Tom Gold Dance di New York, per il quale sono previste le scenografie originali che l’artista stesso ideò nel 1973. Catalogo con contributi di Bruno Corà, Thierry Dufrêne, Denys Zacharopoulos, Pietro Bellasi, Adachiara Zevi, Luigi Sansone, Aldo Iori, Francesco Tedeschi, Paola Bonani, Italo Tomassoni, Mario Diacono, Petra Richter, Chiara Sarteanesi. Dal C.S.
La liberté sans nom
Il CRAC Alsace ospita La liberté sans nom, mostra che prende in prestito il titolo da un saggio del poeta e pedagogo francese Fernand Deligny, dedicato al rapporto che si instaura tra i bambini autistici e i loro badanti. La collettiva si interroga sulle relazioni che vengono a crearsi tra gli artisti, tra le opere, tra i curatori e tra gli spettatori, con lavori di Sven Augustijnen, Nicolas Clair, Fernand Deligny, Frédéric Dialynas Sanchez e la participazione di Lê Huy Cu’u e Sébastien Leseigneur, Vidya Gastaldon, Beatrice Gibson, Daniel Jacoby, Irene Kopelman, Felipe Mujica, Johanna Unzueta. Miralda, Wheat & Steak, 1981, courtesy l’artista
AMSTERDAM
De Stijl and the Stedeljik
In occasione del centenario della nascita del movimento De Stijl, lo Stedelijk Museum propone una esposizione che giustappone opere storiche della collezione del Museo a lavori contemporanei che paiono da esse direttamente ispirati. Dall’uso del colore alla diagonalità della composizione, dalla costruzione architettonica alla purezza concettuale, troviamo connesse opere di Isa Genzken, Bas Jan Ader, Roy Lichtenstein ai lavori iconici di Theo van Doesburg, Piet Mondrian e Gerrit Rietveld. Fino al 21 maggio.
BARCELLONA
MACBA
Al Museu d’Art Contemporani de Barcelona, Gelatina dura. Històries escamotejades dels 80, mostra a cura di Teresa Grandas focalizzata sul periodo 1977–1992, per riflettere sulla lunga serie di eventi sociopolitico-culturali che hanno portato gli artisti a incarnare simboli e comportamenti che nel decennio precedente, erano trattati con rifiuto e ironia. Fino al 19 marzo. L’esposizione Miralda Madeinusa raccoglie, per la prima volta, tutti i 14 progetti che Miralda ha prodotto negli USA. A cura di Vicent Todolí in collaborazione con l’artista, il percorso espositivo conduce dagli anni ’70 fino alla soglia dei 2000, si anima di sculture, disegni, foto, schizzi e registrazioni, rendendo la complessità della metodologia creativa. Fino al 9 aprile.
BASILEA
Fondation Beyeler Burri Lo Spazio e la Materia / Tra Europa e USA, veduta dell’allestimento Ex Seccatoi del Tabacco, Città di Castello
Una grande retrospettiva ripercorre uno dei capitoli più importanti dell’arte novecentesca, specie per quanto riguarda l’area germanofona, quello del gruppo Der Blaue Reiter, dei suoi “padri fondatori” Wassily Kandinsky e Franz Marc, nonché degli artisti che l’hanno animato rendendolo un movimento di riferimento per Joëlle Tuerlinckx, Nothing For Eternity veduta dell’allestimento, foto Gina Folly
DICEMBRE 2016/GENNAIO 2017 | 260 segno - 7
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>news istituzioni e gallerie< la scena artistica espressionista come Gabriele Münter, Marianne von Werefkin, Alexei von Jawlensky, e August Macke. Fino al 22 gennaio. La Fondation, che nel 2017 raggiunge i venti anni di attività, anticipa che inaugurerà l’anno delle celebrazioni dedicando una mostra alle magiche atmosfere di uno dei massimi artisti presenti in collezione: Claude Monet.
Kunstmuseum
Nothing for Eternity è una personale di Joëlle Tuerlinckx a cura di Søren Grammel. L’artista belga propone una esaminazione del tessuto urbano circostante il museo, esponendo una nuova serie di assemblaggi creati con materiali estremamente eterogenei, dalla carta ai tessuti, dalla plastica al vetro. Fino al 26 gennaio. L’artista Johannes Willi, in quanto insignito del Manor Art Award 2016, presenta Free Willi 2 - Freiheit in Gefahr (Libertà in pericolo), progetto installativo site specific che si interroga sui paradigmi della concezione artistica occidentale. A cura di Eva Falge e Philipp Selzer, fino al 12 marzo. Catharina van Eetvelde, il cui lavoro è imperniato sul disegno, propone la personale ILK, titolo preso da un termine arcaico inglese che significa “tipo, genere”, e analizza la connessione tra la totalità delle cose e quella degli esseri viventi. A cura di Anita Haldemann, fino al 12 marzo.
Johanna von Schönfeld, Superkräfte, 2013 courtesy l’artista, foto Martin Langhorst
mondo. In mostra 200 scatti realizzati tra gli anni ’20 e ’50 da oltre 60 artisti tra i quali troviamo figure seminali come Berenice Abbott, André Kertész, Man Ray, Alexandr Rodchenko ed Edward Steichen. L’esposizione intende a sua volta “fotografare” un momento cruciale, all’alba dell’era dei media, quando gli artisti vedono nell’arte fotografica lo strumento col quale ridefinire e trasformare la visione del mondo moderno. Fino al 7 maggio.
BONN
Touchdown
Alla Bundeskunsthalle, per la prima volta, una esposizione racconta la storia della sindrome di Down, ne traccia la parabola nelle arti e nelle scienze attraverso epoche e paesi diversi, mostrando come le persone Down vivono la nostra società e come vorrebbero il futuro. Una ricerca culturale, storica e sperimentale curata da Katja de Bragança, Heinz Greuling e Rikola-Gunnar Lüttgenau, con opere di Britt Schilling, Daniel Rauers, Samuel Cariaux und Moolinex, Vincent Burmeister, Markus Keuler, Johanna von Schönfeld, Birgit Ziegert. 7 stanze per 7 artisti, astronauti alieni atterrati sul nostro pianeta per verificare che la prima invasione, avvenuta 5000 anni or sono, abbia avuto successo. Fino al 12 marzo.
Man Ray, Glass Tears (Les Larmes), 1932 stampa in gelatina d’argento su carta, cm.22,9x29,8 Collection Elton John, courtesy Man Ray Trust/ADAGP, Parigi e DACS, Londra Philippe Parreno, Anywhen, courtesy Tate Modern, Londra, foto Tate Photography
COLONIA
Wir nennen es Ludwig
Fondation Beyeler, foto Mark Niedermann Albert Oehlen Self-Portrait as Spring (Selbst als Frühling), 2006 foto, olio, acrilico su legno, cm.265x385 (2 parti) collezione privata, courtesy l’artista foto Archive Galerie Max Hetzler, Berlino/Parigi
Il Ludwig Museum raggiunge I 40 anni di attività e si regala una mostra che raccoglie il contributo di 25 artisti e collettivi internazionali, cui è stato chiesto soltanto di riflettere su cosa l’istituzione museale (e in particolare il Ludwig) significhi per loro. Georges Adéagbo, Ai Weiwei, Ei Arakawa & Michel Auder, Minerva Cuevas, Maria Eichhorn, Andrea Fraser, Meschac Gaba, Guerrilla Girls, Hans Haacke, Diango Hernández, Candida Höfer, Bodys Isek Kingelez, Kuehn Malvezzi, Christian Philipp Müller, Marcel Odenbach, Ahmet Ögüt, Claes Oldenburg, Pratchaya Phinthong, Alexandra Pirici & Manuel Pelmuş, Gerhard Richter, Avery Singer, Jürgen Stollhans, Rosemarie Trockel, Villa Design Group, Christopher Williams. Fino all’8 gennaio.
BILBAO
Simon Lee Gallery propone la prima personale di Mai-Thu Perret nei suoi spazi londinesi. Nella mostra Zone, l’artista svizzera espande il progetto narrativo The Crystal Frontier, su cui lavora dal 1999, che segue un gruppo di donne che formano una comune nel deserto del New Mexico, nel tentativo di fuggire le logiche capitalistiche e patriarcali tuttora radicate. Un intenso intreccio di lavori interdisciplinari che combinano i linguaggi del femminismo, della politica, del teatro, della religione e della storia dell’arte. Fino al 4 febbraio. Mai-Thu Perret, Les guérillères XII, 2016 materiali compositi, cm.135x63x75 courtesy Simon Lee Gallery, Londra
Guggenheim
Mentre è in corso From Picasso to Velázquez (fino all’8 gennaio), ricognizione sull’evoluzione figurativa di Francis Bacon, attraverso 50 opere dell’artista irlandese affiancate a 30 tele di maestri storici dai quali ha tratto ispirazione (Velázquez, Ingres, Manet, Degas, Gauguin, Van Gogh, Seurat, Matisse, Picasso), si preparano due inaugurazioni: Behind The Image di Albert Oehlen, mostra in cui tre cicli pittorici, due autoritratti e un dipinto-collage appositamente creato vanno a comporre una vera e propria dichiarazione d’intenti. “È noioso parlare di significati. Non cerco una connessione o la comprensione del pubblico. Ognuno è libero di sentire ciò che sente.”. Fino al 5 febbraio. Di oltre 70 opere si compone l’esposizione The Collection of Hermann and Margrit Rupf, i primi collezionisti elvetici a puntare sull’arte astratta. Tra gli artisti presenti Pablo Picasso, Georges Braque, Juan Gris, Fernand Léger, Paul Klee, Vasily Kandinsky. Fino al 23 aprile.
Mai-Thu Perret
Ahmet Ögüt, Bakunins Barrikade, 2014/’16 courtesy l’artista
LONDRA
Tate Modern
Nell’ambito della serie espositiva Hyundai Commission, la Turbine Hall vede il suo intero spazio trasformato in una esperienza immersiva da Philippe Parreno. L’artista francese ha concepito una installazione site specific dal titolo Anywhen, che muta costantemente nell’arco della giornata ed evolve per tutti i sei mesi di esposizione. Gli elementi in movimento, le luci e i suoni ambientali guidano il pubblico attraverso una proteica narrazione non lineare. Fino al 2 aprile. The Radical Eye: Modernist Photography from the Sir Elton John Collection è la grande esposizione di una delle collezioni private di fotografie più importanti al DICEMBRE 2016/GENNAIO 2017 | 260 segno - 9
>news istituzioni e gallerie< MADRID
NEW YORK
La proposta espositiva si articola in tre mosse: la mostra Ficciones y territorios. Arte para pensar la nueva razón del mundo, presenta opere (in particolare di nuova acquisizione) della collezione del Museo, concentrandosi sul periodo che da dal 1990 al 2007. Circa 50 gli artisti esposti, tra i quali Gitai, Gusmão & Paiva, Farocki & Ehmann, Haacke, Leonard, Dean, Dedobbeleer, Andrade Tudela, Antunes. All’Edificio Sabatini fino al 13 marzo. Il Palacio de Cristal, Parque del Retiro, ospita El barco se hunde, el hielo se resquebraja (La barca affonda, il ghiaccio si spacca) di Lothar Baumgarten. L’artista tedesco confronta e decostruisce i meccanismi culturali con cui ci si rapporta al diverso, sottolinea come sia impossibile disgiungere la storia dell’arte occidentale da quella del colonialismo. Fino al 16 aprile. Anne-Marie Schneider, all’Edificio Sabatini, presenta l’evoluzione del proprio lavoro dagli anni ’90 a oggi. Dalle linee nette dei disegni antipittorici giovanili, lo stile dell’artista francese passa per la scoperta del colore che va a riempire gli spazi tra quelle linee, per assestarsi oggi su uno stile che differenzia nettamente linee e pennellate, policromia e monocromia. Fino al 20 marzo.
João Maria Gusmão e Pedro Paiva, Maça de Darwin, Macaco de Newton, 2012 courtesy gli artisti
Ultime inaugurazioni del 2016 per la grande istituzione museale newyorkese. Nella Joan and Preston Robert Tisch Exhibition Gallery, al sesto piano, prima retrospettiva nordamericana dedicata in oltre 50 anni all’opera di Francis Picabia, dal titolo Our Heads Are Round so Our Thoughts Can Change Direction. Fino al 19 marzo, sono 200 le opere in mostra per cercare di afferrare i segreti della più sfuggente personalità delle avanguardie; Picabia ha, infatti, sempre evitato di legarsi a un singolo stile o media così che, per quanto inquadrabile come membro del movimento Dada, la sua produzione spazi dal paesaggio impressionista all’astrazione, dalla poesia al film. L’evento è organizzato in collaborazione con la Kunsthaus Zürich, dove la mostra è stata allestita tra giugno e settembre. Nella South Gallery, al terzo piano, A Revolutionary Impulse: The Rise of the Russian Avant-Garde, esposizione di 300 lavori della collezione permanente che tracciano il percorso delle avanguardie russe tra il 1912 e il 1934. Pensato per la ricorrenza del centenario della Rivoluzione d’ottobre (1917), l’evento illustra la nascita di Suprematismo e Costruttivismo, ma anche la profonda presenza delle nuove concezioni artistiche in poesia, teatro, fotografia e cinema. Principali protagonisti della mostra figure come Alexandra Exter, Natalia Goncharova, El Lissitzky, Kazimir Malevich, Vladimir Mayakovsky, Lyubov Popova, Alexandr Rodchenko, Olga Rozanova, Vladimir e Georgii Stenberg, Dziga Vertov. Fino al 12 marzo.
MONACO DI BAVIERA
MIAMI
La Galerie Klüser, riflettendo su come negli ultimi anni l’interesse del mercato dell’arte si sia focalizzato sui grandi lavori singoli, propone un’esposizione dedicata alle stampe, dimostrando quanto gli stessi protagonisti del mercato non siano così convinti di questo fenomeno. Tra i 38 artisti in mostra Joseph Beuys, Andy Warhol, Christo, Sean Scully, Tony Cragg, Paladino, Georg Baselitz, Jan Fabre, Keith Haring, Jorinde Voigt.
In mostra al WEAM (World Erotic Art Museum) Protected Beauty, esposizione promossa dal Kinsey Institute che esamina i controversi ideali di bellezza maschile e sensualità artistica. A cura di Rebecca Fasman e Helmut Schuster, in mostra fotografie, stampe, disegni e dipinti datati tra il 1890 e il 1982, a opera di artisti come Robert Mapplethorpe, Paul Cadmus, Andrey Avinoff, Michael Miksche, George Platt Lynes, Wilhelm von Gloeden, Pavel Tchelitchew e Marcel Vertes. Fino al 1 marzo.
Museo Reina Sofía
Prints
Keith Haring, Untitled, 1985, cm.81x100 courtesy Galerie Klüser, Monaco di Baviera
MoMA
Protected Beauty
Aleksandr Rodchenko, Pioneer with a Bugle, 1930 stampa in gelatina d’argento, cm.23,5x18 courtesy MoMA, New York
PARIGI
Centre Pompidou
Nel 2017, il Pompidou compie i suoi primi 40 anni e lo fa coinvolgendo ben 40 città francesi, da Grenoble a Nizza, da Arles a Brest, da Lille a Le Francois in Martinica. Il calendario delle celebrazioni conta ben 50 esposizioni e 15 tra concerti e performance, per andare a sottolineare quanto ricca e articolata sia la collezione del centro. Al programma espositivo annuale vanno ad affiancarsi specifici momenti creativi in forma di Festival: l’Actoral festival, il Latitudes contemporaines festival e il DañsFabrik festival. A condividere la ricorrenza, l’IRCAM (Institut de Recherche et de Coordination Acoustique/Musique) e la BPI (Bibliothèque publique d’information), protagonisti di particolari iniziative. Primo atto ufficiale la retrospettiva dedicata a Cy Twombly, organizzata intorno a tre grandi cicli: Nine Discourses on Commodus (1963), Fifty Days at Iliam (1978) e Coronation of Sesostris (2000). In 140 opere, tra dipinti, sculture, disegni e fotografie, viene coperto l’intera parabola artistica del maestro americano. Fondamentali le collaborazioni della Cy Twombly Foundation, della Fondazione Nicola Del Roscio di Gaeta, e il supporto del figlio dell’artista, Alessandro Twombly. A oggi, però, la chiusura della stagione espositiva 2016 è affidata alla celebre serie Graffiti di Brassaï, cui il fotografo si dedicò per circa 25 anni e che contano oltre 500 pezzi, si dispiega per illustrare quanta influenza abbia avuto su artisti e scrittori coevi (notevoli i disegni di Picasso, i collage di Prévert, le litografie di Dubuffet). Fino al 30 gennaio alla Galerie de Photographies.
Claire Tabouret
La galleria Bugada & Cargnel presenta Battleground, personale di Claire Tabouret. Sulle tele incontriamo figure androgine, novelle Giovanna d’Arco, che sfidano faccia a faccia il visitatore; soldati lancia in resta sui loro cavalli, che solcano i campi di battaglia come usciti da una tela di Paolo Uccello; infine, 23 monotipi i cui motivi, ritmi e codici si dipanano poco alla volta, via via che lo sguardo si fa più attento come in un gioco di associazioni visive e linguistiche. 10 - segno 260 | DICEMBRE 2016/GENNAIO 2017
>news istituzioni e gallerie<
Fatma Bucak, Obligatory togetherness, 2016, still da video, 3’ 27” courtesy David Winton Bell Gallery, Providence (Rhode Island)
PROVIDENCE (USA)
Fatma Bucak
David Winton Bell Gallery presenta And men turned their faces from there, personale di Fatma Bucak incentrata sui temi della censura, della violenza di stato e delle migrazioni di massa. La ricerca dell’artista nata al confine turco-siriano, che si snoda attorno all’analisi delle conseguenze poetiche e pragmatiche del concetto di linea di confine, si arricchisce qui di alcune recenti video performance e lavori fotografici e installativi.
SAN GALLO
Unmittelbare Konsequenzen
L’esposizione alla Kunst Halle Sankt Gallen indaga l’aspetto performativo dell’arte, nelle sue manifestazioni più vitali e orientate sui processi produttivi. Prota-
Vinçent Betbèze, Requiem for HC, 2015 dimensioni variabili, courtesy l’artista
gonisti con performance, lavori interattivi e installazioni i giovani artisti Kevin Aeschbacher, Ramon Feller, Nelly Haliti, Sophie Jung e Jan Vorisek con Anina Troesch. Il titolo, che in italiano significa “dirette conseguenze”, allude proprio all’aspetto processuale dell’arte performativa e a come questa agisca nei confronti dello spettatore.
TOLOSA
Prix Mezzanine Sud
In occasione della sua sesta edizione, il premio CIC’Art si evolve e si unisce a Les Abattoirs dando vita al premio Mezzanine Sud. Lo scopo è quello di promuovere e supportare l’arte contemporanea nell’area del Sud Ovest francese. Vincent Betbèze, Julie Chaffort, Rémi Groussin e LouAndréa Lassalle, i 4 artisti che concorrono, sono in mostra a Les Abattoirs fino al 26 febbraio.
Eiserner Vorhang
VIENNA
Georgia O’Keeffe
Cy Twombly, Fifty Days at Iliam Shades of Achilles Patroclus and Hector, Part VI, 1978 olio, matita su tela, cm.299,7x491,5 courtesy Philadelphia Museum of Art, Philadelphia Claire Tabouret, Battlefield, 2016 monotipo su carta, cm.57,5x44,5 courtesy Bugada & Cargnel, Parigi
Georgia O’keeffe, Music - Pink And Blue No. I., 1918, collezione Mr and Mrs Barney A.Ebsworth, courtesy Georgia O’Keeffe Museum, Bildrecht, Vienna
Bank Austria Kunstforum ospita la grande retrospettiva dedicata all’opera dell’iconica pittrice americana Georgia O’Keeffe, di recente tenutasi alla Tate Modern a Londra. In mostra, a sottolineare la problematica fusione tra la sfera personale e la creazione artistica, una selezione di foto del marito Alfred Stieglitz e altri fotografi come Ansel Adams e Paul Strand.
Promossa da Museum In Progress, questa serie di esposizioni offre ogni anno la possibilità a un singolo artista di presentare una grande opera sul sipario del teatro Vienna State Opera. La diciannovesima edizione vede protagonista, fino al 30 giugno, l’artista americana Tauba Auerbach, selezionata da una giuria che annovera nomi come Daniel Birnbaum e Hans-Ulrich Obrist. Sophie Jung, Operation Earnest Voice, 2015 tecnica mista e performance courtesy l’artista e Ballroom Marfa, San Antonio (Texas)
DICEMBRE 2016/GENNAIO 2017 | 260 segno - 11
ARCO madrid
FERIA INTERNACIONAL DE ARTE CONTEMPORÁNEO
INTERNATIONAL CONTEMPORARY ART FAIR 22—26 FEB 2017
• 3+1 ARTE CONTEMPORÂNEA Lisbon • 80M2 LIVIA BENAVIDES Lima • ADN Barcelona • AGUSTINA FERREYRA San • ALARCÓN CRIADO Seville • ALDO DE SOUSA Buenos Aires • ALEJANDRA VON HARTZ Miami • ALEXANDER AND BONIN New York • ALLEN Paris • ÁLVARO ALCÁZAR Madrid • ÀNGELS BARCELONA Barcelona • ANHAVA Helsinki • ANITA BECKERS Frankfurt • ANITA SCHWARTZ Río de Janeiro • ANNEX14 Zurich • ARCADE London • ARREDONDO \ AROZARENA Mexico City • ARRÓNIZ Mexico City • ART BÄRTSCHI & CIE Zurich • AURAL Alicante • BACELOS Vigo • BAGINSKI Lisbon • BARBARA GROSS Munich • BARBARA THUMM Berlin • BARBARA WIEN Berlin • BÄRBEL GRÄSSLIN Frankfurt • BARÓ Sao Paulo • BARRO Buenos Aires • BENDANA I PINEL Paris • BO BJERGGAARD Copenhagen • CARLES TACHÉ Barcelona • CARLIER | GEBAUER Berlin • CARRERAS MUGICA Bilbao • CASA SIN FIN Madrid • CASA TRIÂNGULO Sao Paulo • CASADO SANTAPAU Madrid • CASAS RIEGNER Bogota • CAVALO Rio de Janeiro • CAYÓN Madrid • CHANTAL CROUSEL Paris • CHRISTOPHER GRIMES Santa Monica • CINNNAMON Rotterdam • COSMOCOSA Buenos Aires • CRÈVECOEUR Paris • CRISTINA GUERRA Lisbon • CRONE Berlin • DAN Sao Paulo • DAN GUNN Berlin • DANIEL FARIA Toronto • DEL INFINITO Buenos Aires • DENISE RENÉ Paris • DEWEER Otegem • DIABLO ROSSO Panama City • DOCUMENT ART Buenos Aires • DROP CITY Newcastle • DVIR Tel Aviv • EL APARTAMENTO La Habana • ELBA BENÍTEZ Madrid • ELLEN DE BRUIJNE Amsterdam • ELVIRA GONZÁLEZ Madrid • ENRICO ASTUNI Bologna • ESPACIO MÍNIMO Madrid • ESPACIO VALVERDE Madrid • ESPAI TACTEL Valencia • ESPAIVISOR Valencia • ESTHER SCHIPPER Berlin • ESTRANY–DE LA MOTA Barcelona • ETHALL Barcelona • F2 GALERÍA Madrid • FERNÁNDEZ–BRASO Madrid • FILOMENA SOARES Lisbon • FORMATOCOMODO Madrid • FORSBLOM Helsinki • FORTES VILAÇA Sao Paulo • GALERÍA ALEGRÍA Madrid • GANDY Bratislava • GARCÍA GALERÍA Madrid • GB AGENCY Paris • GIORGIO PERSANO Turin • GRAÇA BRANDÃO Lisbon • GUILLERMO DE OSMA Madrid • HEINRICH EHRHARDT Madrid • HELGA DE ALVEAR Madrid • HENRIQUE FARIA Buenos Aires • HORRACH MOYA Palma de Mallorca • IGNACIO LIPRANDI Buenos Aires • ISABEL ANINAT Santiago de Chile • ISABELLA CZARNOWSKA Berlin • ISLA FLOTANTE Buenos Aires • IVAN Bucharest • JABLONKA MARUANI MERCIER Brussels • JAN MOT Brussels • JAQUELINE MARTINS Sao Paulo • JAVIER LÓPEZ & FER FRANCÉS Madrid • JÉRÔME POGGI Paris • JOAN PRATS Barcelona • JOCELYN WOLFF Paris • JOEY RAMONE Rotterdam • JORGE MARA-LA RUCHE Buenos Aires • JOSÉ DE LA MANO Madrid • JOSÉDELAFUENTE Santander • JUAN SILIÓ Santander • JUANA DE AIZPURU Madrid • KEWENIG Berlin • KLEMM'S Berlin • KOW Berlin • KRINZINGER Vienna • KROBATH WIEN I BERLIN Vienna • KUBIK Oporto • KUCKEI + KUCKEI Berlin • L21 Palma de Mallorca • LA CAJA NEGRA Madrid • LABOR Mexico City • LEANDRO NAVARRO Madrid • LELONG Paris • LEME Sao Paulo • LEON TOVAR New York • LEYENDECKER Santa Cruz de Tenerife • LISSON London • LUCÍA DE LA PUENTE Lima • LUCIANA BRITO Sao Paulo • LUIS ADELANTADO Valencia • LUIS CAMPAÑA Berlin • MADRAGOA Lisbon • MAI36 Zurich • MAISTERRAVALBUENA Madrid • MAMA GALLERY Los Angeles • MARC DOMÈNECH Barcelona • MARC STRAUS New York • MARÍA CALCATERRA Buenos Aires • MARILIA RAZUK Sao Paulo • MARIO SEQUEIRA Braga • MARLBOROUGH Madrid • MARTA CERVERA Madrid • MAX ESTRELLA Madrid • MAYORAL Barcelona • MEESSEN DE CLERCQ Brussels • MENDES WOOD DM Sao Paulo • MICHEL REIN Paris • MICHEL SOSKINE INC Madrid • MIGUEL MARCOS Barcelona • MITE Buenos Aires • MOISÉS PÉREZ DE ALBÉNIZ Madrid • MOR CHARPENTIER Paris • MÚRIAS CENTENO Lisbon • NÄCHST ST. STEPHAN ROSEMARIE SCHWARZWÄLDER Vienna • NADJA VILENNE Liege • NARA ROESLER Sao Paulo • NATHALIE OBADIA Paris • NF/NIEVES FERNÁNDEZ Madrid • NOGUERAS BLANCHARD Madrid • NORA FISCH Buenos Aires • NUEVEOCHENTA Bogota • P420 Bologna • P74 Ljubljana • PARRA & ROMERO Madrid • PEDRO ALFACINHA Lisbon • PEDRO CERA Lisbon • PELAIRES Palma de Mallorca • PETER KILCHMANN Zurich • PILAR SERRA Madrid • PLAN B Cluj • PM8 Vigo • POLÍGRAFA OBRA GRÁFICA Barcelona • PONCE + ROBLES Madrid • PROJECTESD Barcelona • PROMETEOGALLERY DI IDA PISANI Milan • PROYECTOS ULTRAVIOLETA Guatemala City • PSM Berlin • QUADRADO AZUL Oporto • RAFAEL ORTIZ Seville • RAFAEL PÉREZ HERNANDO Madrid • RAQUEL ARNAUD Sao Paulo • REVOLVER Lima • RICHARD SALTOUN London • ROCIOSANTACRUZ Barcelona • ROLF ART Buenos Aires • ROSA SANTOS Valencia • RUTH BENZACAR Buenos Aires • SABOT Cluj • SABRINA AMRANI Madrid • SAMY ABRAHAM Paris • SENDA Barcelona • SLYZMUD Buenos Aires • SPRÜTH MAGERS • STUDIO TRISORIO Naples • SUPPORTICO LOPEZ Berlin • T20 Murcia • TAIK PERSONS Helsinki • TANYA BONAKDAR New York • TATJANA PIETERS Ghent • TEAM New York • THE GOMA Madrid • THOMAS SCHULTE Berlin • TIM VAN LAERE Antwerp • TRAVESÍA CUATRO Madrid • VASARI Buenos Aires • VERA CORTÉS Lisbon • VERMELHO Sao Paulo • ZAK BRANICKA Berlin Juan
• GENERAL PROGRAMME • OPENING
• DIALOGUES
• ArgentinaPlataformaARCO
Updated 14/10/2016
MADRID
>news istituzioni e gallerie< IMOLA
Volti
Il DOC (Centro di Documentazione arti moderne e contemporanee in Romagna) presenta, fino al 5 febbraio negli spazi espositivi della Fondazione Cassa di Risparmio di Imola, la mostra VOLTI. Ritratti in Romagna dal primo novecento ad oggi. 70 le opere scelte, di 54 artisti, per indagare il tema del ritratto in uno spaccato, inedito, degli ultimi cento anni. Dal ritratto di Dino Campana eseguito da Giovanni Costetti, a Michelangelo Antonioni di Miria Malandri, da Vittorio Sgarbi dei gemelli Alfonso e Nicola Vaccari al ritratto del Duce di Guido Dal Monte, ma anche Federico Fellini, Dario Fo, Gabriele D’Annunzio, Barillari, Ravaioli, fino ai contemporanei e al ritratto fotografico.
BOLOGNA
Arte messicana del XX Secolo
Racconto struggente, emozionante quello della mostra La Collezione Gelman: arte messicana del XX secolo, a Palazzo Albergati fino al 26 marzo. L’esposizione narra la “Rinascita messicana” (19201960) e la storia degli artisti che ne sono stati protagonisti, in primis Frida Kahlo e Diego Rivera, ma anche RufinoTamayo, María Izquierdo, David Alfaro Siqueiros, Ángel Zárraga. Il percorso espositivo si compone di dipinti, fotografie, abiti, gioielli, collages, litografie, disegni ai quali si aggiunge, per l’occasione, una chicca assoluta: gli abiti dei più grandi stilisti di fama internazionale che si sono ispirati a Frida Kahlo: Gianfranco Ferrè, Antonio Marras, Valentino.
NAPOLI
Wolfgaing Laib
Achille Calzi, Gabriele D’Annunzio Ilario Fioravanti, Dario Fo, 2002 terracotta policroma, courtesy l’artista
Quarta mostra nella galleria Alfonso Artiaco per Wolfgang Laib. 12 i nuovi lavori presentati, pensati in stretta relazione allo spazio espositivo, caratterizzati dall’impiego di materiali naturali come cera d’api, riso, polline ed elementi organici funzionali per la loro purezza nella combinazione con la fredda opalescenza del marmo e la solidità dell’ottone. Il percorso espositivo si apre su cinque barchette di ottone posate sul pavimento e disposte su cumuli di riso, a simboleggiare un viaggio che è anche nutrimento spirituale; le pareti della seconda sala ospitano tre lavori su carta, mentre a terra giacciono due “case” in marmo bianco circondate da una recinzione di riso. Il percorso prosegue con opere caratterizzate dall’uso del polline (materiale che l’artista raccoglie personalmente), quattro piccole ziggurat di cera e si chiude su un iconico pavimento di riso, che occupa le ultime due stanze della galleria.
Frida Kahlo, L’amoroso abbraccio dell’universo, la terra (Messico), io, Diego e il signor Xolotl, 1949, olio su tavola, cm.70x60,5, The Jacques and Natasha Gelman Collection of 20th Century Mexican Art and The Vergel Foundation, Cuernavaca, courtesy Banco de México, Diego Rivera Frida Kahlo Museums Trust, México, D.F. by SIAE 2016
REGGIO EMILIA
Connection – Discontinuance
La Galleria d’Arte 2000 & NOVECENTO presenta, fino al 26 febbraio, Connection – Discontinuance. Sistemi autopoietici nella ricerca artistica contemporanea, collettiva con opere di Afro, Fausto Melotti, Piero Dorazio e Park Eun-Sun. Il titolo, mutuato da una scultura in marmo realizzata nel 2014 dall’artista coreano Park Eun-Sun, allude a un concetto espositivo che pone in dialogo autori diversi per provenienza, esperienza e linguaggio in un sistema nel quale ogni cambiamento è subordinato al mantenimento della sua stessa identità. La mostra è completata da opere selezionate di Enrico Della Torre, Lucio Fontana, Marco Gastini, Giorgio Griffa, Elio Marchegiani, Carlo Mattioli, Angelo Savelli, Giuseppe Spagnulo. Park Eun-Sun, Connection - Discontinuance Space, 2014, marmi colorati, cm. 64x56x9 courtesy 2000&NOVECENTO, Reggio Emilia
ROMA
Giorgio Ortona
Wolfgang Laib, a destra e sotto: dettagli dell’allestimento, galleria Alfonso Artiaco, Napoli
Grandi vedute urbane, corpi, interni, sacchi di cemento, bassi elettrici, calchi di dentiere sono le eterogenee componenti di Nomi cose e città, esposizione di Giorgio Ortona al Macro, a cura di Gabriele Simongini. Il nucleo centrale della mostra si basa su una serie di grandi vedute urbane dedicate alle palazzine romane e ai cantieri. In una sorta di ideale giro dʼItalia (e poi del mondo), compaiono anche vedute, edifici e cantieri di Napoli, Palermo, Il Cairo, Kiev, Nuova Delhi, tutti simili e anonimi come immagini di un mondo globalizzato e omologato. “Cerco l’assoluto - dice Ortona - attraverso le forme. E quando mi chiedono di dare una definizione a quel che faccio dico solo che sono un pittore. Non voglio illustrare niente né essere connotato”. Fino al 15 gennaio. Giorgio Ortona, Cantiere al Tiburtino, 2012 olio su tavola, cm.30x40, courtesy l’artista
DICEMBRE 2016/GENNAIO 2017 | 260 segno - 13
>news istituzioni e gallerie< ANCONA • Ginomonti Arte Contemporanea presenta una personale del fumettista Fabio Civitelli dal titolo West. BERGAMO • Alla GAMeC, No Where, Now Here, prima personale europea per l’artista canadese Rochelle Goldberg. BOLOGNA • V appuntamento per SetUp Contemporary Art Fair, evento dell’Art Week bolognese, dal 27 al 29 gennaio nella location dell’Autostazione. Tema del 2017 è l’Equilibrio, scelta derivante dal pensiero di Kierkegaard. Confermato il format che fa interagire artisti, curatori-critici e galleristi attraverso progetti espositivi con almeno un artista under 35, presentato da un testo critico di un curatore under 35. BOLZANO • La Galleri Antonella Cattani contemporary art propone Sensazioni di carta, personale di Angela Glajcar. CASSINO • Da un’idea e progetto di Bruno Corà, la mostra Rilevamenti #1 al Camusac raccoglie opere di Ajossa, Ancillai, Bogdanovic, campostabile, Cardillo, Ciribifera, Citterio, Genuardi/Ruta, Giangrande, Guido, Maranto, Miele, Mineo, Novello, Pozzi, Pugliese, Sorgato, Termini, Ulivieri, Zazzera. CATANZARO • Al MARCA, personale di Francesco Antonio Caporale dal titolo Di solo pane, progetto espositivo fortemente simbolico pensato appositamente per gli spazi del Museo. FIRENZE • Per i 60 anni dalla nascita e in ricordo del fondatore, Tornabuoni Arte propone Artisti Italiani dal secondo dopoguerra agli anni Sessanta alla Galleria Tornabuoni, per Piero Fornaciai gallerista fiorentino. In mostra 28 opere di Campigli, Carrà, Magnelli, Severini, Guttuso, Capogrossi, Scanavino, Bertini, Carmassi, e di artisti fiorentini degli anni ‘50 e ‘60. Gli spazi sul Lungarno ospitano, fino al 25 novembre 2017, Arte moderna e contemporanea. Antologia scelta 2017 con opere ARTE FIERA BOLOGNA
41 esima edizione 2017
C
on la nuova direzione affidata ad Angela Vettese, e sotto l’egida del nuovo Presidente di BolognaFiere Franco Boni, Arte Fiera arriva alla sua 41esima edizione in una versione rinnovata. Dal 27 al 30 gennaio 2017, la più longeva kermesse di arte moderna e contemporanea d’Italia porterà nei padiglioni di BolognaFiere numerose novità. Le gallerie espositrici sono 133 ed occupano due grandi padiglioni: uno per la Main Section e e l’altra per una serie di Solo Show., scelte entrambe dal Direttore artistico e dal comitato di selezione composto da Laura Trisorio, Marco Niccoli, Massimo Di Carlo, Alessandra Bonomo, coadiuvate da figure estranee al Mercato dell’Arte: il curatore Roberto Pinto e la docente Maria Grazia Messina. Una piccola sezione curata da Simone Frangi, intitolata “Nueva Vista” è dedicata ad artisti meritevoli di una rilettura critica. Sarà presentata una sezione di Fotografia curata da Angela Vettese ed un nuovo bookshop Printville
selezionate dalla collezione della galleria: da Boldini, Soffici e Morandi, a De Chirico, Fontana e Castellani. • Da Eduardo Secci, Tensioni Strutturali 2, collettiva con opere di D.Dormino, D.Faraldo, A.Nacciarriti, M.C.Rossi, A.Wilder. GENOVA • ABC-Arte propone, a cura di Alberto Fiz, una personale di Matteo Negri dal titolo Piano Piano. MILANO • Omaggio della Fondazione Marconi per i 10 anni dalla scomparsa di Mimmo Rotella. La mostra Mimmo Rotella e Giorgio Marconi. Una storia d’arte e di amicizia ne approfondisce il contributo artistico, l’evoluzione tecnica e la ricchezza di lin-guaggi. • In occasione della prima edizione del Photo Vogue Festival, lo Studio Marconi ’65 presenta, fino al 28 gennaio, una selezione di fotografie di Man Ray. • La Galleria Christian Stein celebra il cinquantenario con una doppia esposizione (in entrambi gli spazi milanesi) dedicata a Giulio Paolini, dal titolo Fine, a cura di Bettina Della Casa. Fino al 29 aprile. • Da Francesca Minini, Flow Structures, personale con gli ultimi lavori scultorei di Elena Damiani. • Primo Marella Gallery presenta Zwitterion, prima grande personale europea di Ruben Pang. • Alla Galleria Riccardo Crespi la collettiva Anthropocene, con opere di R.Bernini, Cagol, Cametti, Ciceri, Krauss, Moscheta, Nava, Pontrelli, Raskin, Recchione Gentzsch, Sedira, Silva, Smirnoff, S.Sofia, Weinstein. • La galleria Lorenzelli Arte ospita una personale di Kengiro Azuma dal titolo Infinito MU. • Brand New Gallery propone due personali: Green River di Raffi Kalenderian e Black Swan di Shinique Smith. Fino al 14 gennaio. • Alla Galleria M77, Chiara Dynys presenta la mostra Look Afar. • Alla Galleria PACK, My Grain, seconda personale dell’artista statunitense Jason Middlebrook. • Amy-d Arte Spazio propone Gray area Tra legale e illegale, esposizione con opere di Renato Calaj, Clément Briend, Francesco Giusti ed Ettore Pinelli. curato da A+Mbookstore che intende mostrare le produzioni contemporanee italiane e straniere più attuali nel mondo dell’arte e della fotografia, produzioni che provengono per la maggior parte da editori indipendenti. E Agenda Indipendents una selezione di gallerie indipendenti di ricerca, italiane e straniere, con un preciso focus sulla fotografia e sulle sue possibili interazioni con altri linguaggi Confermati anche quest’anno i Premi di Arte Fiera: Premio Euromobil under 30, Premio della Fondazione Videoinsight ed infine il Premio Rotary Valle del Samoggia riservato all’installazione più creativa. ART CITY Bologna rinnova la propria formula progettuale con la nuova sezione ART CITY Polis, coordinata dalla Istituzione Bologna Musei, sostenuta e proposta da Arte Fiera con l’intento di promuovere in città rassegne e interventi di artisti contemporanei. Numerose le iniziative proposte dai musei cittadini, dalle gallerie e da soggetti privati quali l’Opificio Golinelli e il MAST.
14 - segno 260 | DICEMBRE 2016/GENNAIO 2017
• Art In Gallery presenta una personale di Max Coppeta dal titolo Suspense, a cura di Antonello Tolve. • Alla Galleria Giuseppe Pero personale di Alessandro Bazan dal titolo Tutto. NAPOLI • Nella sede Fideuram di Piazza dei Martiri, Lucia Gangheri e Ousmane Ndiaye Dago presentano Aesthetic ludum, mostra in cui coesistono fotografia e pittura. • Personale di Tomaso Binga alla Galleria Tiziana Di Caro dal titolo Dai ritratti analogici ai ritratti psico – poetici. PESCARA • La Fondazione Genti d’Abruzzo promuove una ricca mostra con opere, tra gli altri, di Ceccobelli, Cingolani, Diotallevi, Kostabi, Mulas, Nespolo, Shafik, Piero Gilardi Autunno sul fiume. Xerra, Anselmo, Basilé, Berengo Gardin, Dessì, Gastini, Gilardi, Griffa, Guerzoni, Jodice, Mainolfi, Mattiacci, Nagasawa, Paolini, Plessi, Pizzi Cannella, Pozzati, Stefanoni, Varisco. Al termine, 35 lavori saranno messi all’asta e il ricavato devoluto a favore di Amatrice e Arquata del Tronto. ROMA • La Fondazione VOLUME! presenta, Duo, la nuova configurazione dei suoi spazi a opera di Felix Schramm. • La Galleria Alessandra Bonomo propone una personale dell’artista americana Joan Jonas, dal titolo Minds Of Their Own. • Da Marie Laure Fleisch, 12 nuovi lavori di Panos Tsagaris nella personale Let The Sun Protest. • La Galleria Mucciaccia presenta Attraverso l’evento, antologica di Giosetta Fioroni. Oltre 40 opere (carte e tele) dal 1964 ai giorni nostri. Fino al 10 gennaio. • Da z2o Sara Zanin Gallery, Dimensioni Variabili, seconda personale in galleria di Beatrice Pediconi. • Il Ponte Contemporanea propone le personali di Nino Longobardi e di Li Xiangyang.
Li Xiangyang, Il Ponte - Roma Nino Longobardi, Il Ponte - Roma
GIOVANNI LETO
Composizione ,1998. Carta e pigmenti su tela, cm 140x140.
GALLERIA ADALBERTO CATANZARO ARTECONTEMPORANEA Via Roccaforte 38 - BAGHERIA (90011), SICILY Cell / Tel : +39 3271677871 - E-mail : galleriadalbertocatanzaro@gmail.com
Galleria Nazionale, allestimento Time is Out of Joint ph Giorgio Benni.
Galleria Nazionale, Roma
Time is Out of Joint
I
l 10 ottobre scorso Cristiana Collu, la neo direttrice della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, ha tagliato il nastro del nuovo assetto dato a collezione ed edificio, dopo mesi di lavori. L’apertura della rinnovata
Galleria Nazionale allestimento Time is Out of Joint ph Giorgio Benni.
18 - segno 260 | DICEMBRE 2016/GENNAIO 2017
sistemazione dell’impianto originario della struttura museale, progettata da Cesare Bazzani nel 1911, ha messo Roma al passo con altri musei internazionali. Infatti, durante l’inaugurazione de “La Galleria Nazionale” (questo il nuovo nome dato al Museo, riponendo la vecchia sigla GNAM), oltre alla presentazione del riallestimento della collezione con la mostra Time is Out of Joint (visibile fino ad aprile 2018) si è potuto godere di una selezione musicale e del concerto dei jazzisti Paolo Fresu e Gianluca Petrella, che hanno duettato per oltre un’ora sulla scalinata
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
d’ingresso ricolma di gente. Il compito non semplice della Collu, di riadattare spazi ed opere in essi articolate e connesse, ha suscitato perplessità e critiche. L’intenzione: liberare e portare la fruizione “fuori dai cardini” del tempo, che acquisisce una propria “plasticità” data dallo sguardo dello spettatore. Riflessioni e intenti evidenziati per l’appunto dallo stesso titolo della mostra, preso dall’Amleto di Shakespeare. Dalla disposizione delle opere della collezione, e altre prese in prestito da gallerie e collezionisti internazionali, si è ottenuto un allestimento che ha scardinato i precedenti, aprendo diverse questioni. Con la stessa citazione shakespeariana, la dichiarazione di “sfasamento”, si afferma una rimessa a nuovo di un complesso espositivo nazionale tanto articolato (intervenendo anche nella struttura del Museo, con molti materiali originali recuperati fra parquet, mosaici e 20.500 metri quadrati di pareti imbiancate). Attraverso una dichiarata “sorta di anarchia che non ha nulla a che vedere con il disordine” l’allestimento non ha seguito il regolare filo temporale, lasciando il campo al flusso delle emozioni e della libera percezione, spuria dalle rigide strutture cronologiche. L’accostamento di artisti appartenenti ad epoche e movimenti diversi, allocati nello stesso ambiente per genere e tema è forse una scelta che non sottace al primo compito di un museo, quello di informare ed educare. Infatti si è proceduto accostando le opere non per stili o movimenti ma per tema, cromia ed espressione. Certo non è necessaria la pedissequa sequenza storico-temporale ma un criterio ben riconoscibile, comprensibile. Si può pertanto riflettere sulla natura di un luogo museale nazionale che, oltre ad avere le evidenti esigenze conservative, ha una funzione conoscitiva, con possibilità educative oltreché comunicative. Per consentire fruibilità e chiarezza della collezione si deve tenere conto delle diverse tipologie di pubblico, lasciando ovviamente spazio alla sperimentazione. È forte la dimensione estetica che guida il visitatore nella visita e scoperta di una collezione permanente splendida e importante. Nella mostra non ci sono percorsi da seguire o pannelli esplicativi da leggere, le didascalie sono stringate, tutto è lasciato al libero fluire della fruizione delle opere in sé, nel complesso unico di una presentazione della collezione che vede privilegiato il Novecento sull’Ottocento, e in parte le espressioni più contemporanee. Il lungo elenco degli artisti racconta parte della storia della Galleria: Carla Accardi, Afro, Vincenzo Agnetti, Franco Angeli, Aleksandr Archipenko, Stefano Arienti, Hans Arp, Giacomo Balla, Alfonso Balzico, Massimo Bartolini, Marion Baruch, Gianfranco Baruchello, Hans Bellmer, Enrico Benaglia, Luigi Bienaimé, Umberto Boccioni, Alighiero Boetti, Giovanni Boldini, Georges Braque, Émile-Antoine Bourdelle, Daniel Buren, Alberto Burri, Alexander Calder, Antonio Calderara, Marco Calderini, Michele Cammarano, Antonio Canova, Giuseppe Capogrossi, Monica Carocci, Carlo Carrà, Casorati, Felice Castellani, Adriano Cecioni, Mario Ceroli, Paul Cézanne, John Chamberlain, Sandro Chia, Francesco Clemente, Ettore Colla, Gianni Colombo, Giuseppe Cominetti, Pietro Consagra, Angelo Cortese, Gustave Courbet, Enzo Cucchi, Eduardo Dalbono, Ercole Dante, Giorgio De Chirico, Gino De Dominicis, Edgar Degas, Nicola De Maria, Giuseppe De Nittis, Filippo de Pisis, Cagnaccio Di San Pietro, Piero Dorazio, Jean Dubuffet, Marcel Duchamp, Albin Egger-Lienz, Max Ernst, Giovanni Fattori, Giovanni Faure, Jean Fautrier, Tano Festa, Giosetta Fioroni, LucioFontana, Emilio Franceschi, Pietro Galli, Vincenzo Gemito, Alberto Giacometti, Ugo Giannattasio, Virgilio Guidi, Renato Guttuso, Hans Hartung, Francesco Hayez, Hannah Höch, Alain Jacquet, Yves Klein, Gustav Klimt, Jannis Kounellis, Joseph Kosuth, Silvestro Lega, Leoncillo, Osvaldo Licini, Sandro Lodolo, Francesco Lo Savio, Sarah Lucas, Mario Mafai, René Magritte, Piero Manzoni, Arturo Martini, André Masson, Fabio Mauri, Ana Mendieta, Francesco Paolo Michetti, Joan Mirò, László Moholy-Nagy, Amedeo Modigliani, Piet Mondrian, Claude Monet, Henry Moore, Gianni Morandi, Domenico Morelli, Gastone Novelli, Nunzio, Luigi Ontani, Adrian Paci, Domenico Paladino, Filippo Palizzi, Gina Pane, Ivo Pannaggi, Tancredi Parmeggiani, Pino Pascali, Giuseppe Pellizza da Volpedo, Giuseppe Penone, Alessandro Piangiamore, Fausto Pirandello, Michelangelo Pistoletto, Benedetto Pistrucci, Jackson Pollock, Umberto Prencipe, Gaetano Previati, Antonietta Raphaël Mafai, Man Ray, Luca Rento, Sophie Ristelhueber, Alessandro Rinaldi, Davide Rivalta, Auguste Rodin, Ugo Rondinone, Medardo Rosso, Mimmo Rotella, Antonio Rotta, Luigi Russolo, Giulio Aristide Sartorio, Alberto Savinio, Mario Schifano, Thomas Schütte, Kurt Schwitters, Scipione, Giovanni Segantini, Gino Severini, Telemaco Signorini, Filadelfo Simi, Mario Sironi, Mario Siviero, Ardengo Soffici, Antonio Solá, Ettore Spalletti, Antoni Tàpies, Pietro Tenerani, Maria Cristina Terzaghi, Ettore Tito, Angiolo Tommasi, Francesco Trombadori, Paolo Troubetzkoy, Giulio Turcato, Cy Twombly, Kees van Dongen, Vincent van Gogh, Lorenzo Viani, Franz von Stuck, Günther Uecker, Giuseppe Uncini, Emilio Vedova, Jeff Wall, Andy Warhol, Adolfo Wildt, Gilberto Zorio, Ignacio Zuloaga. Ilaria Piccioni
Chiostro del Bramante, Roma
LOVE L’arte contemporanea incontra l’Amore
Robert Indiana, Amor.
“L’
arte è sempre una grande dichiarazione d’amore. Anche nelle tragiche immagini di una crocifissione, nel commovente abbraccio del “Sarcofago degli Sposi” al Museo Etrusco di Villa Giulia nello spettrale biancore del cadavere di Cristo del Mantegna alla Pinacoteca di Brera … “ È questo l’incipit del testo che il curatore, Danilo Eccher, ha scritto per la mostra dedicata al più alto e profondo dei sentimenti umani. S’intitola “Love – L’arte contemporanea incontra l’Amore. ”Attraverso le opere dei più importanti artisti dell’arte contemporanea come – tra gli altri – Robert Indiana, Tom Wesselmann, Andy Warhol, Trcey Moffat, Francesco Clemente, Marc Quinn, Gilbert&George, Francesco Vezzoli, Vanessa Beecroft ed i saggi, che affiancano quello del curatore, di Federico Vercellone, Pierangelo Sequeri, Mattia Fumanti e Woody Allen, - pubblicati nel sontuoso volume edito da Skira ricco di straordinarie immagini – viene affrontato uno dei sentimenti universalmente riconosciuti e da sempre motivo di indagini e rappresentazioni, l’Amore, narrandone le diverse sfaccettature e le infinite declinazioni. Un amore felice, atteso, incompreso, odiato, ambiguo, trasgressivo, infantile, che si snoda lungo un percorso espositivo non convenzionale, caratterizzato da input visivi e percettivi. (redaz)
Joana Vasconcelos, Coração.
Yayoi Kusama, Pumpkins. Francesco Vezzoli, Lover.
DICEMBRE 2016/GENNAIO 2017 | 260 segno - 19
Palazzo Esposizioni, Roma
16 Quadriennale d’Arte a
di Pietro Marino
N
on ha risolto i suoi problemi d’identità la Quadriennale di Roma, tornata a vivere dopo otto anni di assenza e parecchi più di tormenti. Secondo missione istituzionale (dal 1927, in tempo fascista) dovrebbe rappresentare lo stato dell’arte in Italia. Ma la formula scelta per la sedicesima edizione si scansa dalla mission impossible, ripiega sul collage o mosaico di alcuni temi di riflessione sotto il generico titolo alla Dorfles “Altri tempi, altri miti”. Li svolgono 11 giovani curatori scelti con metodo di moda, la chiamata e la selezione di progetti, molto contestato. Critici come protagonisti, registi che convocano artisti ad interpretare le loro narrazioni attingendo ad autori emersi dalla seconda metà dei Novanta, col rinforzo di qualche guest star. Sono 99 gli autori presentati in 10 sezioni tematiche che si affollano in ordinate gabbie dentro il Palazzo delle Esposizioni. Difficile, in questa congestione, cogliere fili di senso comune. E’ diffuso un sentimento di precarietà e frammentazione nel quale affiorano lacerti schegge e ombre del passato, ricordi residuali. “Esercizi di sottrazione” addirittura, chiedono Simone Ciglia e Luigia Lonardelli in una compatta sezione con artisti collaudati come Airò, Rosa Barba, Pietroiusti, Vitone , Trevisani e l’evergreen quasi centenario Gianfranco Baruchello. Oppure raffinatezze d’archeologia del contemporaneo da Luca Lo Pinto (con Gamper, Cuoghi, Giorgio Andreotta Calò, Ra Di Martino, anche qui col recupero di un maestro, Emilio Villa). Cristiana Perrella – curatrice di più lungo corso – allinea giochi di scambi visivi con Lara Favaretto, Gamper, Maloberti e l’onnipresente Vezzoli che si autoritrae in scultura come Apollo che uccide Marsia. Invece Denis Viva accoglie apparizioni minimaliste, “periferiche”, in una sezione in cui figura anche la tedesca Christiane Loeher . E Giulia Piscitelli,
unica napoletana che a Napoli ci vive, anche. Stucchevoli le variazioni sul tema del “ritratto” proposte con qualche astuzia da Michele D’Aurizio in un gruppone che elegge Alberto Garutti e Carol Rama a capifila storici. Un’altra linea dichiara inquietudini più rivolte a situazioni politiche e sociali, quasi sempre bisognose di nutrirsi di storie dimenticate o di giustificarsi con affondi in memorie antropologiche. Esemplare l’ampia sezione curata da Matteo Lucchetti con emergenze del paesaggio antropico dell’Italia “post-rurale”. Qui figura la vincitrice del primo premio, Rossella Biscotti con un lavoro post-concettuale che evoca rotte e drammi del Mediterraneo. Nella sezione di Luigi Fassi la partenza sul sociale italiano è data dalle osservazioni di Tocqueville sulla democrazia americana: i fratelli De Serio indagano su una baraccopoli torinese e Nicolò De Giorgis su comunità islamiche a Treviso. Accenti di arte processuale percorrono il progetto “Lo stato delle cose” di Marta Papini, con rotazione nel tempo di 7 artisti (fra cui Yuri Ancarani, Alberto Tadiello) e di 7 eventi. La più affollata sezione è “Cyphoria” dove Domenico Quaranta raccoglie vistose prove di contaminazioni tecno e post-pop (il collettivo Alterazioni Video,Marco Strappato, Quayola). Tutt’al contrario, Simone Frangi svuota il suo spazio per una “Orestiade italiana”: con diagrammi concettuali sul multiculturalismo come contraddittoria forma di colonialismo occidentale, ispirati da una ricerca 1970 di Pasolini in Africa. Da qui la giuria ha estratto il premio Illy under 35 all’invisibile video di Adelita Husny-Bei. Restano sparse tracce dei colpi di teatro delle performances inaugurali. Fra esse l’apollineo ragazzo nudo che ritaglia immagini di arte classica e le getta per terra (Maloberti), le danzatrici acrobatiche su pattini a rotelle (Marinella Senatore) le apparizioni misteriche al tavolino di Chiara Fumai, il coro di hackers di Valentina Vetturi. Si delinea così il paesaggio di un’arte con poche vie di fuga, vagante in un presente d’incertezze vissuto in connessione intelligente agli animal spirits europei, ma con esitante spinta creativa. Senza illusione di futuro. Una generazione (suggerisce un titolo in mostra) che, come lo scrivano Bartleby di Melville, “preferirebbe di no”. Con buona pace di Renzi. n
I vincitori
ssegnati i premi della 16a Quadriennale d’arte, in corso al Palazzo A delle Esposizioni fino all’8 gennaio 2017.
Rossella Biscotti, Il viaggio, 2016, stampa fotografica e testo a parete.
Alek O., È già mattino, 2016, collage di manifesti per affissione.
20 - segno 260 | DICEMBRE 2016/GENNAIO 2017
Il Premio Quadriennale 16 di 20 mila euro è andato a Rossella Biscotti (Molfetta, 1978) per “Il viaggio” (2016), “un’opera che, attraverso diversi livelli di significato, dà visibilità al dramma umano che si consuma ogni giorno nel Mar Mediterraneo. Il lavoro rovescia e ripoliticizza le pratiche artistiche che discendono dal minimalismo e dall’arte concettuale degli anni Sessanta, rivelandone tutto il potenziale e la complessità”. Si aggiudica il Premio illy under 35 di 15 mila euro Adelita Husni-Bey (Milano, 1985) per “AGENCY-Giochi di potere” (2014), un video che propone forme alternative di rappresentazione della vita politica e sottolinea il ruolo fondamentale dell’istruzione come base di fratellanza. Attraverso un intenso lavoro con un gruppo di adolescenti, l’opera propone una simulazione che segue le pieghe della realtà ed esamina come le decisioni sono prese nella società. Il risultato è un lavoro pieno di ottimismo che si giova della complicità dei protagonisti e del pubblico”. Tra gli artisti under 35, due menzioni speciali. La prima è per Alek. O (Buenos Aires, 1981) per l’opera “E già mattino” (2016) un collage di manifesti per affissione stradale, ai quali, attraverso un processo di decostruzione e successiva rimessa in forma, l’artista dà una nuova vita che trattiene la memoria di quella precedente. Sul fondo azzurro, che ricopre l’intera parete di una sala, dato dalla giustapposizione dei vari toni di blueblack del retro dei manifesti, si stagliano forme irregolari dai colori brillanti, che ricordano la felicità dei papiers découpés matissiani. La seconda menzione è per Quayola (Roma, 1982) per l’opera “Lacoon #D20-Q1” (2016). “L’artista parte da un clone 3D della scultura del Laocoonte per sviluppare le conseguenze estetiche della sua digitalizzazione, che da solido artefatto e da capolavoro immutabile, ne fa ne un oggetto liquido che può essere sottoposto alle più audaci variazioni”.
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Quayola, Laocoon, #D20-Q1, 2016 marmo bianco polverizzato.
Palazzo Esposizioni, Roma
16 Quadriennale d’Arte Altri autori, Altre ambizioni… a
di Paolo Balmas
“A
ltri Tempi altri Miti” la mostra su cui s’incentra la 16 edizione della Quadriennale d’arte di Roma è senz’altro una mostra ambiziosa, ma di una ambizione diversa rispetto a quanto accadeva in passato, quando i curatori chiamati a decidere sugli artisti da selezionare cercavano ognuno di proporre, insieme ai nomi per loro più significativi, anche una propria personale scommessa teorica sulla direzione in cui l’arte italiana si stava muovendo, riconducendola ad una formula più o meno serrata, ma comunque esclusiva ed escludente. Ai curatori infatti è stato sì chiesto, ancora una volta, di segnalare gli autori per loro più adatti a capire cosa c’è di più interessante oggi nell’arte del nostro paese, ma non di motivarlo nei termini di una forma di proiezione in avanti ritenuta linguisticamente più avanzata di tutte le altre, bensì entro lo spazio di un progetto tematico parziale da loro ritenuto il più adeguato allo scopo, un progetto assolutamente libero e tuttavia in concorrenza con un numero limitato di altri progetti. Dall’invito inizialmente rivolto a 69 curatori tra i 30 e i 40 anni di età, sono pervenute 38 risposte, dalle quali una giuria di esperti, tra cui anche un architetto e uno scrittore, ne ha selezionate dieci per un totale di 99 artisti. Vediamo così nascere da un primo omaggio alla complessità, consistente nella rottamazione della vecchia idea di critico dal fiuto infallibile e dalla capacità di sintesi miracolosa, un momento di positiva fiducia nella incertezza elevata a metodo, ovvero nell’efficacia del procedimento pluralista e non totalizzante adottato. Di qui a concludere che i dieci progetti adottati siano veramente riusciti a mettere insieme un panorama equilibrato o comunque ben integrato della varietà e validità di interessi della produzione artistica delle nuove generazioni italiane naturalmente ce ne corre, nessuno tuttavia potrà negare, supportato anche dal buon livello degli interventi critici, che al di la della spe-
Adelita Husni-Bey, AGENCY- Giochi di potere, 2014 video HD, 40’.
cificià delle proposte emergono comunque almento alcune macro-aree di interesse attualissime: quella del mutamento dei costumi, quella della trasformazione del territorio, quella delle nuove prospettive della comunicazione virtuale e quella dell’interscambio tra culture diverse a livello planetario. Tutte aree sulle quali gli autori selezionati dimostrano sin dal primo sguardo di saper lavorare con una originalità ed una vivacità che non hanno nulla da invidiare ad altri paesi più ricchi e meglio organizzati. Ne dobbiamo dunque inferire che, stanti gli incoraggiamenti economici e di pubblicizzazione che il nuovo programma della istituzione romana prevede, in accordo anche con un buon numero di prestigiosi sponsor privati, il panorama che possiamo ricavare dall’esposizione somiglia assai da vicino ad una sorta di felice crescita postmoderna le cui sinergie sistemiche vanno nella stessa direzione di una politica del rinnovamento aperta ed ottimisticamente pronta a fronteggiare ogni catastrofismo? Su di un piano più generale, ovviamente, è quasi inutile rispondere, l’arte non è e non sarà mai tanto più valida quanto più si impegna nel sociale e per il progresso, venendo in soccorso a questa o quella idea di governo, essa deve soprattutto sapersi guardare dentro ed intorno nella maniera più penetrante e disinibita possibile. Una propensione che a molti dei partecipanti alla nostra mostra sicuramente non manca, se è vero come sottolineano alcuni dei curatori ad esempio che oramai il suo interesse per il Web si sta spostando dalla sperimentazione di un interscambio risarcitorio e plurale all’apparire di forme di sfruttamento sempre più frequenti di modesti ed ignari lavoratori sottopagati o di forme di razzia e viralizzazione di sottoprodotti d’immagine sempre più inquietanti, ma proprio per questo anche sempre più interessanti. O ancora se è vero che una seria indagine sul territorio sempre più distintamente ci mostra come la sana distribuzione di centri storici portatori di cultura diffusa nel nostro paese si sta trasformando in una sorta di trappola che annulla il passato e non lo sostituisce con nulla di umanamente gratificante. Naturalmente abbiamo fiducia nel fatto che responsabili ed organizzatori sapranno leggere tutti i segnali che stanno provenendo dal loro fin qui saggio riavvio di una manifestazione, che non ha mai brillato né per puntualità né per risolutezza, ma che effettivamente ha delle potenzialità ancora sottovalutate, per dotazioni logistiche e posizionamento, sia sul piano nazionale che su quello internazionale. n DICEMBRE 2016/GENNAIO 2017 | 260 segno - 21
FM Centro per l’Arte Contemporanea, Milano
Non-Aligned Modernity Arte e archivi dell’Est Europa dalla Collezione Marinko Sudac di Chiara Fusar Bassini
La timeline, posta nel lungo corridoio all’ingresso, evidenzia i principali fatti storico-artistici che hanno contrassegnato l’evoluzione dei paesi dell’ex Blocco sovietico presi in esame (Jugoslavia, Croazia, Slovenia, Cecoslovacchia, Polonia, Ungheria) e introduce all’avvicendarsi dell’astrattismo dentro l’estetica del realismo socialista. Il primo artista presentato è Vojin Bakić, scultore croato attivo dagli anni ‘50, ufficialmente riconosciuto dallo Stato socialista e fautore di numerosi monumenti nazionali tra i quali il monumento di Petrova Gora, dedicato alla resistenza antifascista, visibile in mostra grazie a una grande stampa e due maquette preparatorie. Il monumento, simile a uno shuttle, suggerisce la tensione verso il futuro di un intero movimento culturale e, come una sorta di macchina del tempo, introduce alla sala che ospita il lavoro del gruppo EXAT 51. Qui i quadri astratti sono presentati con il format della mostra originale del 1953 alla casa degli architetti di Zagabria, che consisteva in strutture metalliche capaci di sostenere le opere autonomamente rispetto alle pareti. È noto che l’arte astratta non fosse amata da Tito, ma è presumibile che il lavoro del gruppo sia stato tollerato perché, come riportato nel manifesto del 1952, non c’era una distinzione precisa di valore tra le cosiddette “arti pure” e quelle “applicate”: infatti molti artisti si occupavano sia di pittura sia di grafica prestando la loro abilità anche all’editoria popolare. La mostra prosegue con le affascinanti proiezioni delle composizioni polimateriche di Antun Motika, i cui vetrini originali sono visibili in una teca accanto alla macchina da proiezione dell’epoca. Dalla questa sala oscurata si passa allo spazio dedicato al complesso lavoro concettuale di Gorgona, pseudonimo utilizzato dal gruppo di artisti e teorici di Zagabria che annoverava, tra gli
Aleksandar Srnec, Cover Design for „Svijet“ Fashion Magazine, No. 11, 1959, offset, paper, 340 x 240 mm, Marinko Sudac Collection.
D
opo L’inarchiviabile, la prima grande mostra inaugurale dedicata all’arte italiana degli anni Settanta, FM Centro per l’Arte Contemporanea apre la nuova stagione con Non-Aligned Modernity , una rassegna dedicata agli artisti provenienti dall’Est-Europa. Nell’indagare la molteplicità culturale del periodo compreso fra l’inizio degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Ottanta, il curatore della mostra Marco Scotini ha selezionato oltre 700 opere dalla Marinko Sudac Collection, una collezione a sua volta non catalogabile e non allineata.
Installation view, Room 2: EXAT 51, works by Aleksandar Srnec. Photo: Andrej Šaprić
22 - segno 260 | DICEMBRE 2016/GENNAIO 2017
Aleksandar Srnec, Untitled, 1956, oil, canvas, 683 x 741 mm Marinko Sudac Collection.
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Marko Pogačnik, OHO group, Pop object (telephone) 1965, mixed media, 150 x 285 x 550 mm, Marinko Sudac Collection.
Gorgona Group, Members and Friends of Gorgona, 1961 bw photograph, photo by Branko Baliå, 243 x 298 mm, Marinko Sudac Collection.
Julije Knifer, Anti-magazine Gorgona no. 2, 1961 mixed media, print, paper, 195 x 211 mm, Marinko Sudac Collection. Installation view, Room 4: Gorgona, works by Ivo Gattin. Photo: Andrej Šaprić
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Installation view, Room 6: Group of Six Authors – Croatia, works by Vladimir Gudac, Željko Jerman, Boris Demur, Sven Stilinović, Vlado Martek) Photo: Andrej Šaprić
altri, Dimitrije Bašičević Mangelos, Julije Knifer e Ivan Kožarić. In una teca a forma di meandro, figura centrale nella ricerca di Knifer, sono esposte decine di documenti tra cui le lettere che testimoniano la corrispondenza con artisti e intellettuali di altri Paesi, e in particolare con l’Italia (Lucio Fontana, Enzo Mari, Piero Manzoni, Germano Celant, Giulio Carlo Argan). Questi contatti sono evidenti nella realizzazione di alcuni numeri della rivista che il gruppo pubblicava proprio in collaborazione con alcuni guest internazionali. I lavori del gruppo sloveno OHO si basano invece su improvvisazioni, interventi nello spazio pubblico, uso di materiali svariati
e comuni, un’attitudine che ricorda maggiormente Fluxus. Come suggerisce il nome OHO, ottenuto unendo le parole slovene “occhio” e “orecchio”, l’arte è lo strumento per costruire un nuovo approccio sensoriale. L’esposizione passa poi ad analizzare il lavoro del Group of Six Authors di Zagabria e del gruppo serbo BOSCH+BOSCH. Entrambi condividono con Gorgona l’approccio concettuale e si manifestano con interventi nello spazio urbano che diviene il luogo del dissenso artistico. Una Cortina di ferro simbolica, opera scultorea di Stano Filko, ci accompagna nella parte dedicata alla Cecoslovacchia. Filko realizza opere fortemente cri-
Bosch + Bosch Group (Bálint Szombathy), Three modes - Deconstruction of Yugoslavia, 1974, Marinko Sudac Collection. Installation view, Room 7: Bosch+Bosch - Serbia, works by László Szalma, Katalin Ladik, Bálint Szombathy, Attila Csernik and the Rockets by Stano Filko. Photo: Andrej Šaprić
24 - segno 260 | DICEMBRE 2016/GENNAIO 2017
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Natalia LL, Consumer Art, 1972, 6 x bw photograph, collage, cardboard, 330 x 310 mm, Marinko Sudac Collection.
Július Koller, Ping-Pong, J.K., 1970, bw photograph, 178 x 161 mm, photo by Milan Sirkovský, Marinko Sudac Collection.
tiche nei confronti della repressione politica degli anni ‘60 e ‘70, perciò sarà costretto ad emigrare in Germania (esporrà a Documenta nel 1982). Anche Július Koller affronta con ironia il tema del contatto impossibile con i paesi oltre la Cortina di ferro inventando la figura dell’artista “ufo-nauta”, ossia dell’artista in viaggio tra forme sociali e politiche di difficile interpretazione. La mostra approfondisce anche la situazione delle gallerie indipendenti e degli spazi no-profit e si conclude con una sezione dedicata agli artisti ungheresi e polacchi, accomunati dall’uso della performance e dell’intervento pubblico come mezzo di dissenso. Qui è possibile osservare il cambiamento degli interventi
artistici dopo la repressione dei moti di contestazione del ‘68 (su tutti la Primavera di Praga): non più manifestazioni pubbliche bensì pratiche raccolte negli studi e negli appartamenti, lontano dalle piazze e dalle istituzioni. In ultima analisi, Non-Aligned Modernity è un viaggio intenso ed esaustivo all’interno di una produzione artistica poco indagata che, grazie all’attento lavoro di ricerca di Sudac e Scotini, si pone come un punto di riflessione fondamentale su un posizionamento “alieno” – rivolto né a est né a ovest –, uno sguardo autonomo, appunto non allineato, come d’altronde lo sono queste realtà per niente marginali. n NON-ALIGNED MODERNITY / MODERNITÀ NON ALLINEATA Eastern-European Art and Archives from the Marinko Sudac Collection / Arte e Archivi dell’Est Europa dalla Collezione Marinko Sudac Curated by Marco Scotini, in collaboration with Andris Brinkmanis, Lorenzo Paini 26.10.2016 – 23.12.2016 FM Centre for Contemporary Art Milan Tomislav Gotovac, Untitled (Revue), 1965 collage, cardboard, 1253 x 853 mm, Marinko Sudac Collection.
Radomir Damnjanoviå Damnjan, In Honour of Avant-Garde, 1973 bw photograph, 295 x 397 mm, Marinko Sudac Collection. Installation view, Room 11: Hungary. Photo: Andrej Šaprić
DICEMBRE 2016/GENNAIO 2017 | 260 segno - 25
Parco Arte Vivente, La Tenda Verde, l’ingresso alla mostra.
Parco Arte Vivente, Joseph Beuys, La Tenda Verde.
Parco Arte Vivente, Torino
democrazia, l’attività educativa, fino alla sua candidatura alle elezioni per i Verdi. “Ovunque in futuro si dovranno innalzare tende verdi su tutto il pianeta! Dovranno essere le incubatrici di una nuova società” è l’appello dell’artista tedesco, una visione utopica che prenderà invece forma con una delle più grandi – sia per portata che per impatto sociale e urbano – opere del Novecento, le 7’000 Querce (1982-1987), che vedrà il termine solo dopo la sua morte. Per Beuys la crisi della natura non è esterna all’economia, alla società, alla politica anzi “l’aspetto ecologico deve andare di pari passo con una contestazione alla produzione capitalista che viola gli equilibri biologici per un’etica della liberazione” come dice Gorz2, e allora l’uomo, agente capace di “scolpire” dinamiche sociali, si attiva per autodeterminarsi e autoprodurre. Una volontà rappresentata dalle bottiglie di vino e di olio d’oliva che dominano la sala centrale della mostra e fanno parte del progetto In difesa della natura (1973-1986), realizzato in Italia nell’ambito delle attività della F.I.U. (Free International University). Fondata nel 1974, un anno dopo l’espulsione di Beuys dalla Kunstakademie di Düsseldorf (Demokratie ist Lustig, 1973), la F.I.U. costituisce il culmine di un approccio all’insegnamento e alla pratica dell’arte oltre le imposizioni dell’accademismo. Una scuola nomadica dal cui programma sono banditi obbligo di frequenza, esami, numero chiuso e limiti d’età. Apri bene la bocca (1978) e L’udito (1974) sono un’esortazione a riscoprire e riattivare il significato delle più “semplici” azioni dell’esistenza e cioè osservare, ascoltare, parlare, leggere. Ritornare alla lavagna e iniziare a reimparare tutto da capo (Kunst=Kapital, 1980). Una dimensione dialogica, di dibattito,
La Tenda Verde (Das Grüne Zelt) Joseph Beuys e il concetto ampliato di ecologia
“N
on è forse vero che quando l’uomo vuole attuare una rivoluzione, ovvero quando decide di cambiare le condizioni del suo malessere, deve necessariamente dare inizio al cambiamento nella sfera culturale, operando nelle scuole, nelle università, nella cultura e nell’arte e in termini più generali in tutto ciò che attiene alla creatività. Il cambiamento deve iniziare dal modo di pensare e solo da quel momento, da quel momento di libertà, si potrà pensare a cambiare il resto.”1 Attraversando il drappo verde che incornicia l’ingresso del PAV, Parco Arte Vivente di Torino, si entra idealmente all’interno della Grüne Zelt, quella tenda verde allestita da Joseph Beuys e i suoi collaboratori nel 1980 in piazza a Düsseldorf per la nascita del partito politico dei Verdi. La mostra, curata da Marco Scotini, abbandona la figura iconica, sciamanica dell’artista, quella cioè depotenziata della sua presa sul sociale. Attraverso poster, cartoline, fotografie, multipli si delinea invece la sua intensa partecipazione attiva nella politica, l’organizzazione dei sit-in, le conferenze sulla
Parco Arte Vivente, La Tenda Verde, veduta della mostra. Al centro Joseph Beuys, Olkanne F.I.U., 1980 contenitore metallico per olio + scritte, h 53 cm - Ø 30.5 cm, collezione Palli.
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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
di scambio intellettuale che ha fatto della pratica di Beuys una lunghissima conferenza. Se l’artista si chiede come abbattere le gerarchie limitanti e assoggettanti del sistema educativo, si chiede anche Come superare la dittatura dei partiti politici (1972) e invoca una forma di democrazia diretta dove i bisogni delle persone possano avere piena voce e che conosce forse la sua più concreta espressione a Kassel durante i 100 giorni di discussione pubblica di documenta 5. Ciò che oggi ancora può parlarci di Joseph Beuys è quell’espressione di energia creativa che fa dell’azione l’elemento fondativo della libertà. E nell’epoca odierna del capitale cognitivo, che vede la nostra creatività al lavoro, non si può che evocare un agire umano e un piano dell’etica capaci di andare oltre l’esercizio critico. Fare cioè appello a quell’ecologia che intesa in senso politico reclami la messa a valore della dimensione ambientale, di quelle risorse e condizioni che sono per diritto collettive. Fino al 19 marzo 2017. Gabriele Longega e Ilaria Zanella 1 Lucrezia De Domizio Durini, Il Cappello di Feltro. Joseph Beuys. Una vita raccontata, Edizioni Carte Segrete, 1992. 2 Andrè Gorz, Ecologica, Jaca Book, Milano, 2009.
Joseph Beuys, Postkarte- Auf dem Flug nach Amerika, 1974 Cartolina postale, offset a colori cm 14.7x10.5 cm,collezione Palli.
Joseph Beuys, Difesa della Natura (Clavicembalo), 1981 stampa offset 99.5x67.5 cm, Foto Buby Durini Edizioni Lucrezia De Domizio, Pescara e Yvon Lambert, Paris, collezione Palli.
Parco Arte Vivente, La Tenda Verde, veduta della mostra.
Joseph Beuys, Manifesto-Rose for direct democracy, 1972 stampa su carta, 78x56 cm, Collezione Palli.
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Palazzo Vecchio, Firenze
ALFABETI SOMMERSI Emilio Isgrò e Anselm Kiefer
I
n occasione del 50° anniversario dell’alluvione, Firenze ricorda gli sconvolgenti eventi del ’66 attraverso una mostra preziosa e affascinante: Alfabeti Sommersi. Emilio Isgrò e Anselm Kiefer a cura di Marco Bazzini e Sergio Risaliti. Ospitata nella Sala d’Armi a Palazzo Vecchio, la mostra è promossa dal Comune di Firenze e organizzata da Mus.e in prestigiosa collaborazione con Galleria Lia Rumma e Galleria Tornabuoni Arte. Lo straripamento del fiume Arno in quell’ormai lontano 4 Novembre causò vittime e con la sua forza rovinosa travolse opere d’incommensurabile valore artistico: affreschi, dipinti, marmi, arredi lignei, tessuti. E libri. I cento e cento volumi, custoditi nella Biblioteca Nazionale Centrale e nelle altre biblioteche storiche della città, insozzati di limo e destinati a portare le indelebili stigmate del disastro sono stati parzialmente recuperati grazie al generoso e salvifico intervento degli “angeli del fango” tra i quali spicca un ancor giovanissimo Isgrò. Come spiega Risaliti: “Due sono, da quel giorno fatidico, i simboli, o meglio le icone universalmente riconosciute: il Crocifisso di Cimabue –irrimediabilmente sfregiato nella basilica di Santa Croce il 4 Novembre 1966 quando l’Arno invase la chiesa, il cenacolo e sommerse la piazza – e il “libro” , l’altro oggetto del patrimonio artistico, assurto da quel momento a simbolo dell’alluvione fiorentina. Al libro e al dipinto di Cimabue si legano i temi della memoria, quello della sofferenza terrena e della fragilità della bellezza, della distruzione del patrimonio artistico, assieme ai temi della rinascita e della cura, del restauro e della resilienza”. Nessuna meraviglia pertanto che Alfabeti Sommersi presenti la pregevolissima opera di due dei maggiori artisti dei nostri tempi che hanno fatto del libro il topos della propria poetica. In questa significativa celebrazione Emilio Isgrò presenta in anteprima
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il Prologo del Vasari, nuovo ciclo monumentale delle sue ormai iconiche cancellature. Il messinese si è abbeverato sin da giovanissimo alle fonti di Nietzsche, Pirandello, Brecht, Garcia Lorca, Joyce: la parola e il libro sono dunque consustanziali per Isgrò che da sempre affianca la sua attività di poeta cancellatore a quella di poeta lineare. Taches di colore nero e pause verbali si compenetrano in un ductus che possiede la sorprendente forza di una rivelazione gestaltica. Scrive Bazzini: “Sulle pagine del libro si sprigiona una nuova energia e anche il rapporto equivalente tra immagine e parola che fonda le nuove esperienze poetico-visuali non perde forza; è un matrimonio che si rinnova di volta in volta perché a essere investita dalla china, se non sottratta, è anche l’immagine. In questo modo Isgrò arriva ad atmosfere pittoriche, alla piacevolezza delle pennellate su un fondo – siano pagine, illustrazioni o fotografie – senza cedere mai pienamente alla pittura, almeno così come viene comunemente intesa. E il libro si fa quadro, è appeso alla parete; un’opera da ammirare nella sua piena composizione”. Insieme
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
ALFABETI SOMMERSI Emilio Isgrò e Anselm Kiefer Palazzo Vecchio, Firenze 2016. Photo Courtesy Mus.e
a Isgrò, in raffinatissimo dialogo, le opere di Kiefer: cosmogonie che di certo costituiscono uno dei raggiungimenti di maggiore lirismo della contemporaneità. Ancora una volta il libro s’afferma come lievito estetico e noetico e si sublima nell’intuizione di un’arcaica sapientia. Col tedesco, il fare pittorico diviene opus e s’invera nei celebri libri di piombo. Paradigmatiche a tal proposito le parole di Michele Bonuomo: “Lungo questa strada di oscure trasformazioni alchemiche, che mettono in discussione le superbe certezze della scienza, quelli di Kiefer si propongono come libri sapienzali che parlano di una nuova sacralità della pittura; che trattano di un concetto del sacro strutturato attraverso riferimenti storici o letterari e, allo stesso tempo, di mani-
polazione della forma. Libri pesanti e pensanti che usano parole e segni tra di loro intercambiabili perché insieme ridefiniscono il rapporto tra individuo e cosmo, riaffermano la forza della natura, stigmatizza gli errori e gli orrori della storia e riallacciano un dialogo interrotto tra divino e terreno”. Alfabeti Sommersi si pregia altresì di un inedito docufilm di Beppe Fantacci che racconta con capziosità le giornate dell’esondazione dell’Arno. Lo spazio monumentale della Sala d’Arme viene saturato delle drammatiche immagini a colori e della commovente melodia che ad esse si accompagna generando nel fruitore l’ineffabile sensazione di immersione nell’opera d’arte totale. Serena Ribaudo
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Ex Fabbrica Lucchesi - Prato
LA TORRE DI BABELE di Serena Ribaudo
Carlo Colli, galleria Die Mauer. Aron Demetz, galleria Barbara Paci.
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a Torre di Babele curata da Gaglianò, collateral del nuovo Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, è realizzata in collaborazione con più di venti gallerie toscane aderenti all’Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea (ANGAMC). La Toscana del contemporaneo è caratterizzata da un arcipelago di presenze che rinnovano la naturale disposizione all’arte di questa terra e che si compenetrano e si giustappongono, pur nelle specifiche perspicuità, inverando un panorama artistico assai proteiforme. Le singole prospettive delle gallerie d’arte contemporanea in Toscana – ora rivolte ai grandi Maestri del Novecento, ora a ricerche più sperimentali – generano un sempre fecondo dialogo con l’ecosistema culturale regionale. Come evidenzia Pietro Gaglianò, la narrazione veterotestamentaria della Torre di Babele già possiede, insiti in sé, due topoi che ben s’attagliano al parlar d’arte. In primo luogo, in essa è presente la volontà di superamento del limite: archetipo ubiquo e sempiterno delle umane meditazioni. Ma innalzare torri che vogliano giungere a Dio reca necessariamente gli enzimi di una autodistruttiva hybris? Al gesto prometeico segue necessariamente la tragica caduta? A questi interrogativi se ne aggiungono di certo degli altri che sono ancor più specificamente attinenti all’investitura dell’artista. Se l’artista è di fatto deus in terris, come sosteneva il sommo filosofo neoplatonico Marsilio Ficino, può dunque l’uomo grazie ai suoi sigilli di intelletto e di creatività levarsi fino agli iperuranici cieli? Dunque: nel destino dell’uomo c’è l’inquieto vagabondare per oscuri intermondi o la luce salvifica di una faustiana redenzione? Nel racconto di Babele si evince un secondo tema fondante. Un Dio non imperscrutabile dinanzi agli aneliti dell’uomo moltiplica gli idiomi e con fare capriccioso sentenzia: “Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l’uno la lingua dell’altro”. Ma il plurilinguismo così inaspettatamente sopraggiunto sulla terra diviene realmente veto esequiale all’agire umano? O per converso trasfigura in un’iperbole di sorprendente potenza? Una panoplia di lingue non sancisce forse un’immensurabile egemonia del mezzo semiotico (e semantico?) potenzialmente estendibile ad infinitum? I
Arcangelo Sassolino, galleria Continua.
Zoé Gruni, galleria Il Ponte e Matteo Ciardini, Galleria Paola Raffo. A destra, La Torre di Babele, veduta dell’allestimento.
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Luigi Ontani, galleria Santo Ficara.
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Manfredi Beninati, galleria Poggiali.
Michele Guido, galleria Eduardo Secci.
La Torre di Babele, veduta dell’allestimento
Piero Gilardi, Galleria Giraldi.
nostri interrogativi prestano ancora una volta il fianco a un approfondimento sull’ontologia dell’arte. L’affrancamento dalla gabbia incancrenita di un’unica lingua non dona all’artista forse la libertà più alta d’espressione? Scrive Gaglianò: “Le opere de La Torre di Babele esistono tutte in una doppia condizione. Sono state scelte perché interpretano, in modi diversi e originariamente irrelati tra loro, alcuni o tutti i temi che guidano la mostra: il superamento del limite, la contestazione dell’autorità, il rapporto con l’indicibile, l’evocazione dell’invisibile e, sul piano formale, la molteplicità del linguaggio. E tutte insieme compongono un atlante temporaneo in cui le ragioni di ognuna si riverberano nel disegno complessivo. Al tempo stesso ogni opera contiene e raffigura un collasso del tentativo di ridurre l’intelletto e di uniformarlo, ognuna è una rappresentazione aperta, discorde, alla lettera babelica. La varietà degli alfabeti formali con cui questi lavori si presentano al mondo, dai linguaggi storici alle installazioni più irrituali, insiste sulla dichiarazione di quel coraggio visionario che anima la genesi dell’arte, arrivando ogni volta a implicare lo spettatore come interlocutore intelligente, desiderante, potenzialmente abile a riformulare il senso dell’opera e il suo posizionamento rispetto a essa. La Torre di Babele mette in scena una “utopia del disincanto”: gli artisti sono come altrettanti architetti babilonesi, incauti e tenaci, costruttori dell’invisibile attraverso il visibile. Le opere sono la prova di un tentativo di emancipazione. Una professione di fede secolare nell’abilità dell’atto poetico, ripulito da qualsiasi mistificazione, come spazio di incontro immaginifico e morale”. La Torre di Babele vede le opere di: Matteo Basilé, Manfredi Beninati, Renata Boero, Luigi Carboni, Francesco Carone, Bruno Ceccobelli, Giuseppe Chiari, Matteo Ciardini, Carlo Colli, Fabrizio Corneli, Vittorio Corsini, Marta Dell’Angelo, Aron Demetz, Piero Gilardi, Zoè Gruni, Michele Guido, Paolo Icaro Chissotti, Paolo Leonardo, Giuseppe Maraniello, Paolo Masi, Hermann Nitsch, Luigi Ontani, Arcangelo Sassolino. Gli artisti protagonisti sono presentati rispettivamente dalle gallerie: ZetaEffe Galleria, Galleria Poggiali, Galleria Open Art, Tornabuoni Arte, SpazioA, Guastalla Centro Arte, Armanda Gori Arte, Paola Raffo Arte Contemporanea, Die Mauer, Galleria Susanna Orlando, Claudio Poleschi Arte Contemporanea, Passaggi Arte Contemporanea, Galleria d’Arte Barbara Paci, Galleria Giraldi, Galleria Il Ponte,Eduardo Secci Contemporary, Marcorossi artecontemporanea, Galleria Bagnai, Flora Bigai Arte Contemporanea, Galleria Frittelli Arte Contemporanea, Galleria d’Arte Frediano Farsetti, Santo Ficara Arte Moderna e Contemporanea, Galleria Continua. n
Vittorio Corsini, galleria Poleschi. Giuseppe Chiari, Galleria Armanda Gori.
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Galleria Continua, San Gimignano
Sislej XHAFA, José Antonio SUÁREZ LONDOÑO Arcangelo SASSOLINO, Zhanna KADYROVA
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uattro le personali allestite a San Gimignano, dedicate ad artisti di diversa provenienza culturale, con alcune opere, come di consueto, situ specific. Sislrj Xhafa, kosovaro, ha ideato Fireworks in my Closet , un ampio progetto che verte sulla complessità delle relazioni nel mondo attuale, sulle contraddizioni insanabili della politica e dei fenomeni sociali odierni. In un lavoro che procede per opposti, ironico e problematico,diretto ed essenziale, l’artista propone situazioni con oggetti dalla diversa valenza semantica, come ad esempio nell’opera installata sul palcoscenico, dove la serie dei bagni chimici, dotati di antenne e satellite, evidenzia la condizione di uomini rinchiusi in spazi angusti, ma connessi al mondo; di rimando nella parete opposta campeggia la grande tela Hello a suggerire una reale possibilità di contatto. La tematica della migrazione e dell’accoglienza accomuna molte delle opere esposte, da Nature and bag evocativa di partenze, a Soft landing primo passo in terra straniera, fino ai grandi teloni dei camion che occultano spostamenti invisibili. L’ Albero sudato, infine, colonna tortile formata da innumerevoli mani, ricorda una faticosa quanto possibile integrazione: opera questa di notevole carica suggestiva. Josè Londoño, colombiano, con A New Larousse mostra quanto la pratica del disegno, erudito ed estemporaneo, sia per lui costante e onnipresente, ispirata a soggetti accademici, al lavoro dei maestri, a echi letterari, musicali o di vita quotidiana. Per l’artista autodidatta disegnare è un’azione da compiere ogni giorno, come dimostrano gli annuari e i taccuini esposti, come se questa pratica costituisse una sorta di meditazione personale e un veicolo di conoscenza della molteplicità circostante; assieme al disegno egli utilizza acquerello, grafite, collage e scrittura fino alla litografia e all’incisione. Arcangelo Sassolino propone opere di grande impatto percettivo e sensoriale, strutture con meccanismi reiterati, per la tensione di forze applicate ai materiali, che producono attriti e suoni. Opere nate industrialmente, dalla sofisticata realizzazione tecnica compiuta per intero dall’artista, metafora di sensi esistenziali. In Canto V, installazione all’arco dei Becci, riecheggia la tempesta dantesca dalla quale sono spinti i lussuriosi, evocata dal movimento sonoro della possente macchina, in un gioco di stasi e dinamismo. Nella dialettica di silenzio e suono, di buio e luce, rinvenibile in tutto il percorso espositivo, emergono lo scorrere del tempo, continuità e precarietà, conoSislej Xhafa, Sweat tree (L’Albero sudato), 2016. Bronzo, fontana, altezza dal pavimento 8 m José Antonio Suárez Londoño, A New Larousse. Vedute della mostra, Galleria Continua / San Gimignano, Settembre 2016
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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Zhanna Kadyrova, Mia casa, mia fortezza. Vedute della mostra, Galleria Continua / San Gimignano, Settembre 2016
Tutte le immagini Courtesy: the artist and GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana Photo by: Ela Bialkowska, OKNOstudio
Arcangelo Sassolino, Piccole Guerre, 2016. Acciaio inox, vetro, azoto, dimensioni variabili
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Zhanna Kadyrova, Mia casa, mia fortezza. Vedute della mostra, Galleria Continua / San Gimignano, Settembre 2016 Zhanna Kadyrova, Yours / Mine, 2016. 93 mattoni di vetro acrilico, stampa UV
Zhanna Kadyrova, Mia casa, mia fortezza. Vedute della mostra, Galleria Continua / San Gimignano, Settembre 2016
Sislej Xhafa, Fireworks in my Closet, 2016. Armadio, lampadine, 230 x 170 x 60 cm, 2016
Sislej Xhafa, Cinema Aperto Palestina, 2016. Metallo, 288 x 320 cm
Sislej Xhafa, Whisper Harmony, 2016. Bagno chimico portatile, antenne e satellite, dimensioni variabili
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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
José Antonio Suárez Londoño, Sellos (detail), 1990-2015. Stampe e timbri di gomma José Antonio Suárez Londoño, A New Larousse. Vedute della mostra, Galleria Continua / San Gimignano, Settembre 2016
José Antonio Suárez Londoño, Cuadernos de año_Paul Klee, 1998. Quaderni e disegni, tecnica mista su carta
sciuto e ignoto, effimero e stabile, pensiero e immaginazione, arte e vita. Zhanna Kadyrova , artista ucraina, con la personale Mia casa, mia fortezza riflette sulla tematica dello spazio urbano e abitativo nonché sui materiali da costruzione, tra cui, oltre al cemento, le piastrelle che decorano l’esterno delle case del suo paese. Edilizia popolare e storia sovietica sono i motivi portanti dei lavori presentati, con la piastrella elemento identitario delle “casette” assemblate scultoreamente. Le sue installazioni nascono da un progetto ampio e partecipato, con il coinvolgimento degli abitanti di Kiev. Con altre opere in mostra l’artista allarga lo sguardo dal suo paese alle tipologie abitative popolari realizzate in Toscana e alla ricaduta sociale e paesaggistica di tali costruzioni, con l’utilizzo di fotografia, gesso e cemento. Rita Olivieri Arcangelo Sassolino, Canto V, 2016. Legno, acciaio, sistema idraulico, 197 x 495 x 53 cm
Arcangelo Sassolino, Canto V. Veduta della mostra, Galleria Continua / San Gimignano, Settembre 2016
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Michele Zaza, Cielo abitato, 1985, 9 fotografie a colori / 9 colour photographs, 60 x 60 cm cad. / each. Courtesy Galleria Giorgio Persano
FM, Milano
Michele ZAZA Opere/Works 1970-2016 di Federica Mutti
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a Galleria Giorgio Persano di Torino, ospite fino al 23 dicembre nel temporary space di FM Centro per l’Arte Contemporanea, presenta MICHELE ZAZA. Opere/Works 1970-2016, una mostra antologica su Michele Zaza (Molfetta, 1948) curata da Elena Re. Un’esposizione ordinata cronologicamente conduce da Simulazione d’incendio (1970) alle opere più recenti dell’artista, per culminare nel video inedito Infinito segreto (2016). In tale apparato inoltre si innestano scritti e disegni progettuali tratti dall’archivio personale dell’artista. Le radici della ricerca di Zaza sono le radici della sua esistenza: Molfetta è scenario silenziosamente onnipresente e i familiari
di Zaza sono i protagonisti di frammenti di vita, senza pretesa di pubblico. Zaza smentisce l’apparente natura performativa delle sue immagini, ne parla nei termini di “anti-teatro”. Eppure comparse tanto intime scandiscono la temporalità della sua ricerca, attraversandola: se le prime opere vedono il confronto dell’artista con le figure genitoriali, quali emblemi delle condizioni di vita che ci sono date in quanto esseri collocati e radicati, nelle operazioni degli anni Ottanta, come Cielo abitato (1985), compare la moglie di Zaza, mentre nelle immagini più recenti si trovano la figlia dell’artista e la nuova compagna. Si intuisce un percorso evolutivo che conduce Zaza, persona e artista, ad uno slancio di auto-determinazione. Ne emerge una peculiare visione del tempo, da ricondursi ad una circolarità in senso nietzschiano: da qui l’iconografia dell’orologio che si oscura, simbolo del superamento del tempo lineare. Analogamente il corpo, in contrapposizione alle tendenze artistiche dominanti, è per Zaza un imprescindibile territorio di trasfigurazione e di auto-progettazione, attraverso il colore – maschera e materia simbolica. Si avverte un bisogno di rovesciamento, fisico e di senso, un istinto a farsi veicolo della relazione tra esistenza terrestre e dimensione cosmica.
Michele Zaza, Paesaggio magico, 2009, 12 fotografie a colori / 12 colour photographs, 80 x 90 cm cad. / each. Courtesy Galleria Giorgio Persano
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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Michele Zaza, Universo segreto, 2004, 2 fotografie a colori / 2 colour photographs, 145 x 100 cm cad. / each. Courtesy Galleria Giorgio Persano
Anche il lessico specifico delle immagini di Zaza resta in bilico tra uno statuto materico/materiale ed uno trascendentale, mitico, che si sottrae all’opacità del quotidiano. Il pane da mezzo di sostentamento diviene materia espressiva. L’ovatta da elemento della medicazione – e quindi del fisico – si fa nuvola, emblema dell’impalpabile, della connessione tra cielo e terra. Qui risiede probabilmente l’animo dissidente di Zaza, nel con-
tinuo tentativo d’essere anello di congiunzione, mantenendosi sempre non-appartenente, non-conforme – alle tendenze artistiche dominanti, alle avanguardie già innescate, al quotidiano. Negli spazi di FM un dialogo per nulla scontato: al ritratto di una modernità non-allineata che dall’Est-Europa ci arriva grazie alla collezione zagabrese di Marinko Sudac, fa eco una personalità a sua volta non-allineabile. n
Michele Zaza, Sotereologico, 1972, 2 fotografie in b/n / 2 b/w photographs, 39.5 x 22.5 cm cad. / each. Courtesy Galleria Giorgio Persano
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Pier Paolo CALZOLARI L’incedere nascosto e la luce che non c’è di Luca Tomio
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artisti in copertina
Pier Paolo Calzolari, Dettaglio dell’opera: Senza titolo, 2008. Feltro combusto, coloranti, cuoio, ferro, struttura metallica 350 x 282 x 102 cm Foto Michele Alberto Sereni. Courtesy Archivio Fondazione Calzolari. Nella pagina a fianco: Pier Paolo Calzolari, Natura Morta, 2008. Tempera grassa al latte, lacca opaca nera, piombo, legno, rame, oro, terracotta, ferro, motore frigorifero 310 x 165 x 100 cm. Foto Michele Alberto Sereni. Courtesy Archivio Fondazione Calzolari
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ulla deve distrarci dall’essere totalmente estranei alla contemporaneità, nemmeno il pensiero, anche perché il massimo che possiamo aspettarci dal pensiero è la folgorazione di un attimo, che in Pier Paolo Calzolari si traduce sempre nella sospensione di uno sguardo in azione, di un attimo agìto all’infinito. Nella vocazione primordiale alla conoscenza le aporie sono confluite tutte nella sfera del sacro. Nella disintegrazione postmoderna si è tentato di riattivarne un senso per via di un’arte come contemplazione attiva dell’esperienza, fondativa di un momento altro rispetto alla dialettica del tempo. La registrazione di quell’esperimento ripassa sotto gli occhi sfogliando l’Arte Povera di Celant, il Teatro delle Mostre di ABO, il catalogo-rubrica di Szemann o i Processi di Amman e da cui si squadernano gli esordi di un Calzolari già lucido e asimmetrico
rispetto ad un contesto germinale ma fondante e dal cui superamento scaturiranno i viatici degli artisti che vi hanno preso parte: Boetti sciamanico nelle felici coincidenze, Paolini vedico che si guarda guardarsi... e tra tutti, Calzolari è quello che meno si è concesso a implicazioni formaliste e tantomeno ideologiche, e in quegli anni non era scontato, visto che proprio suo fratello, inizialmente artista anche lui, fece la scelta politica radicale di diventare metalmeccanico (Omaggio a mio fratello, 1970/94). E non è certo un caso che l’illuminazione di Pier Paolo Calzolari scaturisca da un fatto di natura, da quella galaverna veneziana che tinge d’argento ghiacciato tutte le cose, e tutto riluce sotto la luna di una luce che non c’è, e se anche la luna non c’è, lui la ricrea artificiale che si specchia in una pozzanghera come un lampione (Galleria Lucrezia De Domizio, Pescara, 1975). E’ in questi scarti sottili, minuti, quasi microscopici, che si cela il segreto della sua
Pier Paolo Calzolari, Senza titolo [Progetto per Il mio letto come deve essere], 1968. Sale, piombo, grafite su carta, colori a tempera, olio, pastelli, lettere in bronzo, caolino 140 x 201 x 5 cm. Foto Michele Alberto Sereni. Courtesy Archivio Fondazione Calzolari
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Pier Paolo Calzolari, Dettagli dell’opera: Comodini, 1989. Ferro, legno, piombo, terracotta, rame, struttura ghiacciante, motore frigorifero 130 x 410 x 100 cm Foto Michele Alberto Sereni. Courtesy Archivio Fondazione Calzolari.
opera, la più refrattaria alle riduzioni critiche, anche poveriste (non è tra i guerriglieri degli esordi; si legga con attenzione La casa ideale), anche se non a caso è Celant a collocare la sua opera in una regione dove l’oggetto si purifica e raggiunge una nuova dimensione, la suprema virtù del Sublime. Anche se partecipa al Deposito torinese del ‘68 e fu Sperone ad arruolarlo tra le fila dei poveristi (a seguire verranno le mostre da Sonnabend e Toselli) i suoi primi passi sono nella paludata Bologna del ‘67 trascorsa dai fremiti del Living Theatre e l’anno dopo a Roma, nel Teatro delle Mostre. Il percorso di Calzolari è una sorta di incedere nascosto che si fa però emblematico per comprendere le vere dinamiche dell’avanguardia plurale degli Anni Sessanta e se dall’arte povera si discosta quasi subito per non cadere nella trappola dell’autocompiacimento formale, è nelle collettive allora definite di concettualismo comportamentista che propone la sua particolare
accezione di scultura nel senso più ampio del termine, in cui le linee portanti sono linee di forza, psichiche, energetiche, che lasciano tracce flebili ma vibranti, che l’artista predilige orchestrare non in eventi performativi, ma in situazioni agite e fluenti, ma che prendono anche forma in porzioni più ridotte e concise (non mi riesce chiamare queste opere sculture o quadri o disegni), fraseggi e non frammenti di una visione più ampia, in cui interagiscono, fin dal ’67 e dal ’72 in maniera sistematica, fino ad oggi ininterrotta, materiali pittorici attinti dall’esistente, alcuni d’elezione, come il piombo, il sale, il tabacco, i petali di rosa… La partecipazione alla Prospectretrospect alla Kunsthalle di Dusseldorf del ’76 e la sua prima retrospettiva napoletana a cura di Lucio Amelio nel ’77 rappresentano il coronamento di un percorso di ricerca che proprio in quel momento, come fenomeno collettivo, entrava definitivamente in crisi e se molti autori deviavano sui
Pier Paolo Calzolari, Senza titolo [Lasciare il posto], 1972. Tempera grassa su tela, struttura ghiacciante, rame, vetro, uovo, registratore audio, motore frigorifero, piombo Dimensioni variabili. Foto Michele Alberto Sereni. Courtesy Archivio Fondazione Calzolari
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artisti in copertina
Pier Paolo Calzolari, Dettaglio dell’opera: Gesti [Variazione I], 1968. Struttura ghiacciante, tubi fluorescenti azzurri e rossi, lettere in bronzo, motore frigorifero, trasformatore 270 x 540 x 120 cm. Foto Michele Alberto Sereni. Courtesy Archivio Fondazione Calzolari
crinali aspri della pittura da camera (quale risposta formidabile è il Mangiafuoco del ‘79!), nonostante un recupero dell’uso del colore agli inizi degli anni ’80, Calzolari dimostra di persistere coerentemente nel perseguire il cammino intrapreso, alla ricerca di una luce sempre più fioca (ancora non si ritrova) e che si traduce in una tormentata peregrinazione dell’artista non solo tra Milano, Torino e Venezia ma anche tra Vienna, Creta e il Marocco e finalmente, dal’84, a Fossombrone, nelle Marche, che è rimasto per lungo tempo il suo luogo d’elezione. Partecipa alla Biennale di Venezia nel 1978, ’80 e ’90; nel ’92 è a Documenta a Kassel e del ’94 sono le retrospettive al Fae di Losanna, al Jeu de Paume a Parigi e al Castello di Rivoli… eppure in questo percorso di progressiva consacrazione, anche in gallerie di rango, da Stein a Persano, da De Foscherari a Repetto, da Mazzoli a Barbara Gladstone, quello che convince in ogni
nuovo lavoro è che Calzolari è sempre rimasto, come da prima dichiarazione d’intenti, elementare ed inventivo, nel senso di aver fatto della complessità e dei suoi snodi un esigenza del percorso creativo, magistralmente controllata, e non un presupposto. Ha saputo mantenere un orientamento critico orizzontale, aperto al mondo e alla ricostruzione di un senso. Non si è compiaciuto della verticalità dell’ormai spuntata avanguardia. Ha saputo muoversi sottotraccia e ha conferito al gesto artistico una pregnanza sempre conoscitiva, mai sterilmente tautologica. Aver passato tutta la vita nel punto in cui la forma sta sempre precariamente appesa a un filo, sempre sul punto di farsi secondo dinamiche ancora misteriose, è il viatico che continua a sostenere Calzolari anche ora che la sua barba è diventata argentata come la galaverna veneziana degli esordi. Anche ora che continua con intransigenza ad inseguire la vera luce sul limitare di un nuovo,
Pier Paolo Calzolari, Combustio, 1970. Materasso in mollettone, tubo fluorescente rosso, trasformatore 25 x 180 x 176 cm Foto Michele Alberto Sereni. Courtesy Archivio Fondazione Calzolari
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Pier Paolo Calzolari, Assieme opere: Senza titolo, 1988 - Senza titolo, 2010 - Senza titolo, 2008 - Senza titolo, 1989. Foto Michele Alberto Sereni. Courtesy Archivio Fondazione Calzolari.
Pier Paolo Calzolari, Senza titolo, 2015. Piombo, coloranti, noce combuste, 430 x 412 x 12 cm Foto Michele Alberto Sereni. Courtesy Archivio Fondazione Calzolari.
Pier Paolo Calzolari, Senza titolo, 2006. Grafite su tela, tempera al latte, foglie dâ&#x20AC;&#x2122;oro, garza, rame 305 x 200 x 125 cm. Foto Michele Alberto Sereni. Courtesy Archivio Fondazione Calzolari.
Pier Paolo Calzolari, Senza titolo, 1978-1997. Tempera ad acqua cerosa, cera vergine, legno Dimensioni variabili Foto Michele Alberto Sereni. Courtesy Archivio Fondazione Calzolari.
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artisti in copertina e al tempo stesso antico, finis terrae, ben consapevole che l’oceano è sempre Okeanos e si fa sempre portatore di nuovi sogni e nuove speranze, speriamo almeno di una: che i giovani sappiano guardare all’opera di Calzolari per comprendere come poter uscire dall’attuale impasse (che dura da trent’anni) e che non fa che sballottarli tra il becero narcisismo e il nichilismo più sconsolato, in un frastuono di sirene mortali, da cui se ne esce solo con una nuova rotta, che però è già tracciata e che va presa prima che le acque si richiudano. La strada giusta è davvero tutta un’altra e tra le orme sul sentiero da percorrere ci sono quelle dell’incedere nascosto, ma luminoso, di Pier Paolo Calzolari, il cui vero segreto è di non aver mai accondisceso che la disintegrazione di ogni senso si traducesse nel compiacimento del frammento anche prezioso ma solipsistico, ma che anzi, nel dettaglio, dove lo sguardo s’incontra con l’evento, convergessero le potenzialità ancora del tutto inespresse ed inesplorate di una nuova ricostruzione, fatta di luce e di vento e quindi, in fondo, di poesia: impazza ancora angelo artista! n
Pier Paolo Calzolari 1976, Foto Paolo Mussat Sartor. Courtesy Archivio Fondazione Calzolari
Pier Paolo Calzolari, Studio dell’artista, Parigi 1970. Foto Shunk-kender. Courtesy Archivio Fondazione Calzolari
Pier Paolo Calzolari, nato a Bologna nel 1943, ha trascorso l’infanzia a Venezia. Negli anni ’70 si stabilisce a Milano per otto anni, proponendosi in numerose mostre a Torino, Parigi, Vienna. Dal 2016 vive e lavora a Lisbona (Portogallo). A Fossombrone (PesaroUrbino) ha sede la propria fondazione e l’Archivio storico. Pier Paolo Calzolari. Museo Pignatelli Cortes, Napoli 1977 Foto Mimmo Jodice. Courtesy Archivio Fondazione Calzolari.
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Progetto Casa Morra, Napoli
“Cento anni di moltitudine”
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asa Morra è un nuovo spazio museale creato da Giuseppe Morra nel Palazzo Ayerbo D’Aragona Cassano di Napoli (Salita San Raffaele 20), un complesso di 4.200 mq che sarà gradualmente ristrutturato per accogliere la sua immensa collezione, frutto di oltre quaranta anni di presenza attiva nello scenario internazionale dell’arte. Oltre 2000 opere per una “casa delle idee” in cui il passato si fonde nel presente proiettandosi nel futuro, con percorsi tematici e focus su artisti storici e nuove promesse, sino a sfidare il tempo con una programmazione definita sino al 2116. Morra ha infatti progettato 100 anni di mostre, attraverso il meccanismo del “gioco dell’oca” fatto di rimandi, attraversamenti e ritorni, incrociando passato e futuro, rinnovando e moltiplicando le visioni in un labirinto di apprendimento e di incontri. Cicli espositivi regolati dall’alchimia dei numeri 3 e 7 che coincidono di volta in volta con il numero di artisti proposti o la quantità di opere e sequenze di mostre. La prima mostra si è aperta il 28 ottobre scorso, con tre artisti che della casualità hanno fatto la loro ragion d’essere e una svolta nel modo di vedere e percepire l’arte: John Cage, Marcel Duchamp, Allan Kaprov, riuniti in una mostra che esprime il desiderio di costruire non un ulteriore spazio espositivo, ma un luogo in cui agire, fare esperienza sperimentale. Ma anche un attraversamento della storia dell’arte
Allan Kaprow, Stockroom (1957 – 1964), 2016, Casa Morra – Archivio d’Arte Contemporanea, Napoli, Foto Amedeo Benestante ©Fondazione Morra
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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
contemporanea nei suoi movimenti sostanziali post Duchamp. L’analisi proposta da Morra, ruota attorno alla questione fondamentale del rapporto fra arte e verità, dove l’arte giunge al proprio totale esaurimento per mezzo di una serie di “finali di partita” che riguardano progressivamente la saggezza, la scrittura, il linguaggio e ogni minima forma di espressione. La tesi di fondo di questo lavoro è che, alla base del progetto Casa Morra, questa estetica della dimora come condivisione, risulti essere nient’altro che il soggetto reale stesso, all’interno di un rapporto di sintesi concettuale. Questo processo - secondo il collezionista - avviene in Duchamp attraverso un triplice passaggio (“processo al significato”, “finale di partita dell’arte” e “ritorno all’oggettività”) che, in qualche modo, rappresenta il filo conduttore di tutta l’opera di Duchamp, nonché una triplice “uscita” della sua stessa ricerca: uscita dall’arte espressiva, dalla filosofia e dal linguaggio. La summa della Casa Morra si conclude (riavviandosi) con l’affermazione che il pensiero di Duchamp costituisca una sorta di “discorso sulle uscite” nel quale l’estetica, precisamente nell’atto di esaurire le possibilità dell’arte, rivela il più autentico contenuto di verità dell’arte stessa: vale a dire il ritorno ai materiali ed all’espansione dell’arte stessa al mondo. Il carattere di casualità è il primo tratto distintivo dell’opera “Stockroom” (Deposito) di Kaprow in una versione allestita per i visitatori, che ogni giorno possono dipingerla avendo a disposizione colori e pennelli. L’introduzione alla funzione del caso è richiamata dall’opera di John Cage “Not wanting to say anything about Marcel (1969) pensato in omaggio a Duchamp e costruito sull’uso dello Yin e Yang come mezzo per determinare l’immagine, la composizione e il colore. Evocare l’imprevedibile è l’unico modo per pensare l’arte secondo Marcel Duchamp, di cui Casa Morra propone una ricostruzione filologica alternativa che nasce dalle incisioni dedicate dall’artista ad Arturo Schwarz e contenute nei suoi due volumi intitolati “The Large Glass” e “Related works” del 1968. Il primo volume è tutto incentrato sulla struttura e la scomposizione delle singole sezioni del Grande Vetro (1915-23), mentre il secondo riguarda la serie de “gli amanti” che secondo Schwarz è la naturale prosecuzione del grande vetro stesso, in quanto è qui che finalmente la sposa e lo scapolo si uniscono. L’evento inaugurale di Casa Morra è stato celebrato anche dal progetto di Daniele Lombardi con l’esecuzione di un primo concerto di tredici pieces di John Cage, insieme con Ana Spasic, Jonathan Faralli, l’Ensemble PuntOorg, Luigi Esposito. Un secondo concerto, creato appositamente per questa inaugurazione da Emanuel Dimas De Melo Pimenta, è stato “Decameron” con riferimento all’opera di Boccaccio, ma anche al mondo del surrealismo dei tre artisti in mostra. costituito da musica installazione, film e tre tracce audio come riflessione sulle metamorfosi prodotte oggi dall’universo elettrinico. Palazzo Cassano Ayerbo d’Aragona accoglierà, nel tempo, le molteplici attività del nuovo Museo della Fondazione Morra con spazi espositivi, laboratori, conferenze e seminari, alloggi per studenti ed artisti, sviluppando un progetto di riqualificazione sociale di un’area a ridosso del centro storico di Napoli. www.fondazionemorra.org n (a cura di Lucia Spadano)
John Cage, Not wanting to say anything about Marcel (1969), 2016. Casa Morra – Archivio d’Arte Contemporanea, Napoli. Foto Amedeo Benestante ©Fondazione Morra (dettaglio).
Marcel Duchamp, John Cage – Marcel Duchamp – Allan Kaprow, 2016. Casa Morra – Archivio d’Arte Contemporanea, Napoli. Foto Amedeo Benestante ©Fondazione Morra (dettaglio).
John Cage – Marcel Duchamp – Allan Kaprow, 2016, veduta d’installazione. Casa Morra – Archivio d’Arte Contemporanea, Napoli. Foto Amedeo Benestante ©Fondazione Morra
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HangarBicocca, Milano
Kishio SUGA “Situations”
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ra gli artisti dell’arte contemporanea giapponese, Kishio Suga (Morioka, Giappone, 1944) è figura di rilievo per la coerenza di un cammino artistico il cui linguaggio unisce una relazione profonda con la natura a una ricerca sui materiali e sullo spazio. “Situations” è la prima retrospettiva dedicata da un’istituzione europea a Kishio Suga, (a cura di Yuko Hasegawa e Vicente Todolí), in una mostra che raccoglie nello spazio delle vaste Navate di Pirelli HangarBicocca oltre venti installazioni realizzate da Suga dal 1969 fino a oggi e da lui riadattate per l’occasione in funzione dell’architettura industriale di Pirelli HangarBicocca, “dando vita a un unico percorso dove convivono leggerezza e incombenza, linearità e tensione, solidità e immaterialità”. I lavori di Suga si configurano come interventi temporanei che hanno la durata della mostra, site-specific nello spazio e nel tempo. “Situations”, si presenta come un paesaggio costituito da elementi organici e industriali – come ferro, zinco, legno, pietre e paraffina – spesso ricercati in loco. «Realizzo installazioni all’interno di spazi espositivi – dichiara l’artista - usando una varietà di materiali, accostandoli e creando una struttura che si adatta a tutto lo spazio. Le installazioni non sono mai permanenti e possono essere facilmente rimosse e distrutte. Si potrebbe dire che creo mondi temporanei» Kishio Suga è tra le personalità di spicco di “Mono-ha“ gruppo artistico che si forma e sviluppa in Giappone tra il 1969 e il 1972 tra gli artisti Kōji Enokura, Noriyuki Haraguchi, Shingo Honda, Susumu Koshimizu, Lee Ufan, Katsushiko Narita, Nobuo Sekine, Noburu Takayama e Katsuro Yoshida. “Mono-ha”, che letteralmente significa “scuola delle cose”, si propone quindi come un movimento legato a una dimensione oggettuale e perfomativa dell’opera d’arte. Aspetti tematici e formali che possono creare una vicinanza tra questo gruppo e quello italiano dell’Arte Povera, che negli stessi anni prende vita a Torino. La relazione con l’Italia emerge anche nella storia espositiva di “Mono-ha”. Nel corso degli anni, infatti, opere del movimento sono state presentate in diverse mostre in numerose istituzioni italiane, come: “Mono-ha. La scuola delle cose” presso il Museo Laboratorio di Arte Contemporanea di Roma nel 1988; “Avanguardie Giapponesi degli anni ’70” alla Galleria Comunale d’Arte Moderna di Bologna nel 1992; “ASIANA. Contemporary Art from the Far East” presso il Palazzo Vendramin Calergi di Venezia nel 1995; “Prima Materia” presso Punta della Dogana a Venezia nel 2013 e la più recente alla Fondazione Mudima di Milano, “Mono-ha” del 2015. Quando, una decina d’anni fa, uscì la raccolta monografica di Kim Mi Kyung su Lee Ufan, fu chiaro che anche Kishio Suga voleva consegnarsi tutto intero al giudizio di una critica intenta a tracciare la storia di “Mono-Ha”. Di lì è partito Suga: dalla coscienza di sé e delle sue Situations, dalla sua vicenda personale, cioè dalla memoria e dalla autobiografia della “scuola delle cose”. Situations è, senza dubbio un documento, una rappresentazione reale del limite di “Mono-Ha”; anzi, è una cosmologia di materia-
Kishio Suga, Situations, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, 2016. Courtesy of Pirelli HangarBicocca, Milano. Foto: Agostino Osio
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Kishio Suga, Parallel Strata, 1969/2016. Courtesy of the artist, Pinault Collection e Pirelli HangarBicocca, Milano. Foto: Agostino Osio
li. Ma qui la freddezza della testimonianza e insieme la faziosità di parte sono felicemente superate in nome di un chiaro, generoso concetto installativo, che corrisponde solo ad uno spazio come l’Hangar Bicocca. I post-minimalisti e i post-landartisti non sono simboli passivi, non sono pretesti. La loro sobrietà, la loro spontaneità lì rendono autonomi nella cerchia del post-moderno, li vivificano come personaggi non solo e non tanto di una istallazione, quanto come protagonisti di una genuina storia dell’arte occidentale, della nostra vicenda estetico-politica a cui tutti partecipano col carico di gioia del capitalismo e del liberalismo totale. Ora qualche curatore avverte la confusione che è in giro, parla addirittura di una linea post-naturalistica (quella, oggi, tanto per dare un esempio, di Nobuko Sekine, e, ieri,di Lee Ufan) la quale definirebbe meglio il lavoro attuale che non l’etichetta situazionistica. Notiamo di passaggio che le installazioni (Setsu no rinkai; Critical Sections 1984-2016) servono soprattutto a disordinare le idee interattive: e rabbrividiamo quando sentiamo insistere nel qualificare ed isolare un’arte giapponese come una categoria separata, fornita di suoi strumenti speciali, di una sua poetica, eccetera. Tutte queste distinzioni aggravano la frattura esistente nel corpo dell’arte occidentale, violentemente aperta con le dissociazioni perpetrate nel rapporto tra linguaggio e ispirazione dell’ovest, tra Oriente e Occidente, tra resa d’arte e motivazioni di ordine estetico. Perché rimpicciolire un orizzonte che non era affatto sterminato? Questa localizzazione poteva portare diritto all’inevitabile traguardo dello occidentalismo totalizzante, e annientava proprio la possibilità di quella scoperta di una realtà nazional-popolare che si voleva auspicare, e che può essere conseguita soltanto fondendo i singoli elementi (linguistici, di costume,ecc.) di una cultura che deve rimanere dipendente da un situazionismo antisituazionistico (mi riferisco al situazionismo di G.Debord, che è stato tutt’altra cosa). Gabriele Perretta Il percorso espositivo si apre con Critical Sections, 1984, l’unica opera sospesa della mostra, ricostruita per la prima volta. Tessuti bianchi e neri scendono dal soffitto da più di venti metri di altezza e sono intrecciati dall’artista, intervallati da rami trovati in loco e collegati a terra a lastre di zinco che si dispiegano sul pavimento. Attraverso un processo di tensione e allentamento, l’artista crea quella che definisce una “situazione”, in cui vengono messi in evidenza i legami esistenziali tra i diversi materiali che compongono l’opera e lo spazio circostante. Lungo le navate si alternano invece installazioni, come Continuous Existence—HB, 1977/2016, o Infinite Situation III (door), 1970/2016, con cui Kishio Suga indaga la relazione tra il pavimento e le pareti attraverso l’utilizzo di materiali come legno e rami. Nella pratica dell’artista assume un ruolo centrale il concetto di “interdipendenza” tra oggetti differenti, come modalità per creare un’unica entità, che permette al visitatore da una parte di osservare nella sua interezza l’ambiente circostante, dall’altra di percepire spazi non-visibili, generati dalla presenza delle opere d’arte, o solitamente considerati “invisibili” come gli angoli delle stanze. Altre opere sono concepite come indagini sui materiali utilizzati e sulle loro caratteristiche fisiche, come Parallel Strata, 1969/2016, realizzata interamente con grandi fogli di paraffina sovrapposti, o Soft Concrete, 1970/2016, composta da cemento, ghiaia e lastre di metallo. Lo spazio del Cubo è reso inaccessibile al pubblico con Left-Behind Situation, 1972/2016. L’opera, ricostruita nella versione più grande mai realizzata fino ad ora, è composta da un unico cavo metallico di tipo industriale che è teso nello spazio su due livelli, congiungendo diversi punti delle quattro pareti e creando orizzontalmente intersezioni diagonali su cui sono poggiati in precario equilibrio blocchi di pietra e di legno. All’esterno, invece, il visitatore potrà osservare Unfolding Field, 1972/2016, installazione costituita da pali di bamboo posti su strutture di cemento e cavi leggeri, che si presenta come un intervento dell’artista fuori dal contesto museale e che mette in luce l’importanza degli elementi naturali nel lavoro di Kishio Suga.
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Gam, Torino
Carol RAMA
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ur dopo la sua scomparsa Carol Rama resterà sempre una delle pochissime artiste che in questi ultimi settant’anni abbiano saputo suggestionare l’arte, non solo italiana. Prammatica, ricercatrice piena di curiosità, impegnata su tutti i fronti di una cultura accaparrata per simpatia (cioè per ragioni di affinità privata e non di decoro accademico come sempre avviene negli autodidatti d’animo fervido e di estro autentico), disposta ad esporsi ed a pagare di persona anche nelle attività pubbliche, questa apertissima [e chiusa] artista torinese, è stata ed è un polo d’attrazione. Indipendentemente dalla sua fortuna di pittrice (gli acquerelli degli anni ’30 e ’40, fatti con rudezza e scabrosità; la sua prima mostra che fu chiusa prima ancora di aprire i battenti), ella resta un’individualità simbolica. Attraverso di lei - i suoi errori e le sue perplessità, le sue entrate gioiose e provocanti, il suo strisciare sotto la macina di tutti i problemi sociali delle donne e d’estetica - possiamo intendere bene la nostra storia dell’arte d’uomini e di donne, le ambiguità del tempo, i confini e le incombenze invalicabili che sono assegnate al nostro destino di contemporanei. Tutti coloro che operavano dentro la letteratura, dentro la cultura, gli erano legati: dal poeta Edoardo Sanguineti al musicologo torinese Massimo Mila, dal pittore Albino Galvano all’architetto Carlo Mollino, da Paolo Fossati a Carlo Monzino, da Luciano Berio a Eugenio Montale. Lei, premiata col Leone D’Oro alla Biennale di Venezia (2003), così diversa da tutti gli altri. Leggendo i suoi disegni in pubblico (soprattutto quelli che faceva in giro, nelle case degli amici di Torino) non sembra di ripercorrere tanto la vicenda individuale di un’artista così singolare, quanto di fare un esame di coscienza e di rifare quei segni e quei tratti che ci hanno fatto attraversare, in questi settant’anni di attività (1930-2007), il rogo immenso di tante illusioni e sconfitte, di tante speranze e tensioni. Attraverso Carol Rama ci si riconosce artisti di una crisi che ancora, seppure diversamente, ci brucia l’animo (forse La passione differente); ma ormai esperimentati maturi per non troppo sbagliare. Insomma, questo diario che oggi la Gam presenta in forma di grande retrospettiva (a cura di Teresa Grandas e Paul B. Preciado), per attraversare con passione e vitalità l’intero novecento è, alla fine, positivo. Carol Rama rivelandosi scende forse di un gradino da quel luogo un poco mitico in cui si era posta non certo premeditatamente e per suo snobismo: ma tutto, in questa mostra acquista chiarezza, e persino quelli che potevano essere sembrati giochi intellettuali guadagnano coerenza e si fanno momenti necessari di una totale coerenza. Alla fine la sua coesione, è stata questa: l’anticonformismo, la trasgressio-
ne, il rifiuto della disciplinarietà delle arti visive, il poverismo dei materiali antelitteram (intuito anche prima che Marcel Duchamp arrivasse al Sud e lo dichiarasse esplicitamente negli anni ’50 (in piena epoca informale)), la casa di via Napione (come opera d’arte totale; vedi l’insegnamento di Kurt Schwitters), la scelta dei moduli ora eccellenti ora mimetizzati nel pastiche, erano volti a salvare l’artista dalle sovrastrutture accademiche, dai formalismi e dai contenutismi in voga, dagli antagonismi di maniera e perfino di clan. La sua irriverrenza civile, il suo engagement anarchiste, e poi la disdetta della fazione, il suo rigorismo ed egocentrismo continui, e insieme il suo soggettivismo, la sua diffidenza, erano mezzi di difesa contro il servaggio spirituale. Il suo sperimentalismo spesso infedele, capace di arrivare al paradossso femminista di una smentita delle proprie predilezioni, capace di mangiarsi i suoi stessi contenuti, era un modo di imbrogliare solo in apparenza le carte, ma in definitiva di suscitare nuove curiosità ed energie fuori di qualsiasi monotono e univoco schema, di rompere il giro che già si rifaceva errato in un nuovo formalismo, contenutismo, eticismo e qualunquismo del dopoguerra. Ad avvertire insomma che le ragioni del cuore e della coscienza non bastano, se siano separate dalle giustificazioni propriamente visive, d’arte, di tecnica. Questa retrospettiva attraverso le sezioni che organizza, completando il quadro dell’opera che va dal 1940 al 2007, testimonia che il suo è stato sempre un furioso e suggestivo sperimentalismo. Nella storia minuta della nostra visività odierna, quella di Carol Rama è stato pertanto un’hasard continuo, anche per chi l’ha ignorata. Il nostro destino è infatti nelle capacità di estro, nella sagacia di saper guardare il suo lavoro in una sottile trasformazione dal dato vero a quello immaginario, dall’idea e dalla figura al simbolo. Riferire a lei quanto si è prodotto a Torino dagli anni Cinquanta ad appena ieri (lettristi e situazionismi ‘galliziani’ inclusi), è forse un poco forzare le prospettive. Ma può giovare a indicare la scissione che si è ormai verificata tra chi tiene conto di certi valori (di realtà mediata, di prodigiosa modificazione del dato concreto) e chi va spedito per la strada piana e dritta della documentazione esatta, fedele, per niente rappresentativa: di un exstrastrattismo quasi extrartistico. Gabriele Perretta
Carol Rama nel suo studio. Sopra, foto Roberto Goffi, in basso foto Pino Dell’Aquila.
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Álvaro Siza, Quaderno 373, luglio 1994, Venezia.
Accademia Nazionale di San Luca
Álvaro SIZA in Italia Il Grand Tour (1976-2016) di Rossella Martino
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rattanto che la XV Biennale Internazionale di Architettura. Reporting from the front volge a conclusione, laddove Roberto Cremascoli e Nuno Grande hanno allestito la mostra Neighbourhood – Where Álvaro meets Aldo, anche la città di Roma ha reso omaggio ad Álvaro Joaquim de Melo Siza Vieira, festeggiando i suoi quarant’anni di viaggi intrapresi per lavoro di progetto, costruzione, conferenze, laboratori, esposizioni in Italia, attraverso un articolato programma di conferenze, incontri e inaugurazioni di mostre, due delle quali organizzate a Palazzo Carpegna presso l’Accademia Nazionale di San Luca sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica e il patrocinio dell’Ambasciata del Portogallo in Italia, rispettivamente, Álvaro Siza in Italia. Il Grand Tour (1976-2016) e La misura dell’Occidente. Álvaro Siza _ Giovanni Chiaramonte, presentate nel corso di tre giornate consecutive, ribattezzate da Roberto Cremascoli “siziadi”.
Álvaro Siza in cantiere a Gallarate. Fotogra a di Nicolò Galeazzi, 2016.
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Molte le tangenze e i rimandi alla mostra veneziana, alla quale si lega in un discorso continuo e a distanza, volutamente, la mostra romana Álvaro Siza in Italia. Il Grand Tour (1976-2016) a cominciare dalla articolazione complessiva dello spazio espositivo entro tre sezioni distribuite in altrettante sale, delle quali la prima è dedicata interamente a Venezia, città da cui ha inizio il Grand Tour dell’architetto di Porto. E se delle tre sezioni di Neighbourhood – Where Álvaro meets Aldo soltanto la seconda si concentra monograficamente sull’opera di Álvaro Siza Vieira, isolando i quattro progetti di residenza sociale in parte ultimati e in parte in fase di completamento per le città di Porto, Berlino, l’Aja e Campo di Marte a Venezia, a Roma lo sguardo si allarga fino a comprendere una campionatura completa, realizzata per la prima volta e che fa del catalogo della mostra Álvaro Siza in Italia. Il Grand tour (1976-2016), a cura di Roberto Cremascoli e Francesco Moschini, anche una preziosa ed esaustiva antologia sull’opera del grande interprete dell’architettura contemporanea in Italia. Álvaro Siza Vieira arrivava in Italia nel 1976, su invito di Vittorio Gregotti e Peter Eisenman chiamato ad esporre nella mostra di architettura contemporanea allestita presso la Biennale di Venezia Europa/America. Centro storico e suburbio. 25 architetti contemporanei, insieme ai “maggiori architetti internazionali della generazione di mezzo […] caratterizzata da un rinnovato interesse per il sito come geografia e come storia, e da un complesso rapporto con la tradizione del movimento moderno”, scelti tra artisti europei – in mostra, il gruppo Architetti Urbanisti Associati (A.U.A.) e lo studio Taller de Arquitectura insieme a † Émile Aillaud, † Carlo Aymonino, Oriol Bohigas, † Ralph Erskine, Herman Hertzberger, Hans Hollein, Lucien Kroll, † Ludwig Leo, † Aldo Rossi, Álvaro Siza Vieira, † Alison e Peter Smithson, † James Stirling, † Oswald Mathias Ungers, † Jørn Utzon, † Aldo Van Eyck – e artisti americani – in mostra, † Raimund Abraham, Emilio Ambasz, Peter Eisenman, † John Hejduk, Craig Hodgetts, Richard Meier, † Charles Moore, Cesar Pelli, Robert Stern, Stanley Tigerman, Robert Venturi e Denise Scott Brown – leggiamo nel capitolo 2. Europa/America del catalogo/antologia –, una composizione su cartelle a schizzo dei suoi primi progetti di abitazione economica realizzati a Porto e Caxinas; all’interno della medesima mostra, Aldo Rossi, Eraldo Consolascio, Bruno Reichlin e Fabio Reinhart esponevano l’inedito disegno de La città analoga, tappa fondamentale alla quale approdava la Tendenza dopo anni di ragionamenti e sperimentazioni, commistione di forme antiche e modernissime che incarnava il gusto postmoderno per il ripescaggio e il collage e il fotomontaggio, come conseguenza della “perdita della discorsività, della sequenza netta e riconoscibile degli spazi urbani ottocenteschi” scriveva Renato Nicolini nel 2007, definita anche come “città compatta” da Colin Rowe e Fred Koetter nel loro Collage City (MIT Press, 1973) nello stesso anno in cui l’allievo di Aldo Rossi, Arduino Cantafora, innestandosi nelle riflessioni del suo maestro, realizzerà la sua Città analoga per la XV Triennale di Milano. “Mentre Rossi si dedicava agli studi urbani schematizzando un numero definito di (arche)tipi architettonici ritrovandoli nella città storica – leggiamo ancora nel capitolo 2. Europa/America del catalogo/antologia – Siza destinava la sua carriera moltiplicando i suoi (etero)tipi, ritrovandoli in diverse geografie e culture” accompagnando la pratica del progetto all’uso costante del disegno a mano libera, negli anni in cui in Italia si era diffuso il fenomeno della “architettura disegnata” o “architettura di carta” che Franco Purini ha recentemente definito come “modello analogico che si preoccupa di rifondare l’idea
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
di costruzione sia nel suo valore specifico architettonico che nel suo valore più esteso che la fa sintesi ed emblema della edificazione di una cultura dell’abitare dalla sua cornice ambientale fino al più piccolo segno”. Álvaro Siza Vieira, accademico di San Luca dal 2013, era allora appena conosciuto in Italia come un “architetto fuori moda” secondo la definizione che provò ad assegnargli Vittorio Gregotti nel 1972, dopo aver esaminato sulla rivista Controspazio numero 9 le architetture recenti del “talento che emergeva faticosamente da uno dei contesti più provinciali d’Europa, scarso di tradizione architettonica contemporanea e sul piano sociopolitico tanto arretrato e reazionario”: Vittorio Gregotti così descriveva il Portogallo del regime totalitario di Salazar che soltanto due anni dopo, il 25 aprile 1974, avrebbe festeggiato la sua completa emancipazione, ottenuta senza spargimento di sangue con la democratica Rivoluzione dei Garofani, alla quale rapidamente farà seguito la stagione di trasformazione di interi quartieri in luoghi del vivere collettivo, curata dalle brigate Serviço Ambulatório de Apoio Local (S.A.A.L.) e che vedrà in prima linea gli architetti Álvaro Siza Vieira, Nuno Portas, Alexandre Alves Costa, Adalberto Dias, Eduardo Souto de Moura, Domingos Tavares. L’esperienza delle brigate S.A.A.L. fu poi raccontata nelle principali facoltà di architettura italiane, nuovamente in agitazione dopo il 1968, nel corso di un tour organizzato nel 1977 da Emilio Battisti che già nell’agosto del 1976 aveva intrapreso l’avventuroso viaggio a bordo del suo camper Tol Ondulé – disposto in prima di copertina sul catalogo/antologia – per osservare da vicino il cantiere della S.A.A.L. a São Victor, il modo in cui cresceva la progettazione partecipata e condivisa con gli abitanti, oltre che per invitare personalmente Álvaro Siza Vieira nella seconda tappa del Grand Tour, distribuita, questa volta, in maniera diffusa tra le città di Milano, Torino, Venezia, Firenze, Pescara, Roma, Napoli, Cosenza, Reggio Calabria e Palermo. La prima sezione della mostra, sviluppando i contenuti che troviamo ulteriormente approfonditi nei capitoli 1. Architetto fuori moda, 1972; 3. Tourné, 1977; 6. Campo di Marte, Giudecca 1985; 8. La stagione veneta, 1993-1999; 12. Le biennali, 1976-2016 del catalogo/antologia, si completa con gli schizzi e gli elaborati progettuali per Vicenza, Venezia, Caorle e San Donà, e per la zona di Campo di Marte, progetto protagonista della sala, disposto, come gli altri ventitré, su dodici tavoli accostati a gruppi di quattro a formare tre unitari piani di lavoro posti al centro delle tre sale, ricoperti da lastre di vetro che gli conferiscono una dimensione di preziose teche, illuminate ai quattro lati da quattro lampade, a custodia degli ottanta fogli selezionati tra venticinque elaborati progettuali e cinquantacinque schizzi, secondo una scansione ricorsiva dello schema allestitivo, curato dallo Studio COR Arquitectos di Porto, che pone al centro dello spazio espositivo – come già avveniva nella mostra Saverio Dioguardi.
Architetture disegnate, promossa da A.A.M. Architettura Arte Moderna, dal Fondo Francesco Moschini Archivio A.A.M. Architettura Arte Moderna per le Arti, le Scienze e l’Architettura e dalla Fondazione Dioguardi – il tavolo di lavoro dell’architetto, simbolo di un “momento di grande concentrazione teorica”, come ha osservato Francesco Moschini durante la conferenza di presentazione e inaugurazione della mostra. Il progetto per la zona di Campo di Marte del 1985 è il disegno di un tessuto urbano ordinato e ritmato, elaborato prendendo a riferimento la forma dei lotti preesistenti, alcuni archetipi architettonici presenti sull’isola della Giudecca quali porticati, logge, terrazze e l’analisi urbana sviluppata da Egle Trincanato nel suo prolifico libro Venezia Minore (Edizioni del milione, 1948) completato per parti nel 2008 e recentemente visitato dallo stesso Álvaro Siza Vieira in occasione della realizzazione della già citata mostra Neighbourhood – Where Álvaro meets Aldo, di cui vediamo in prima di copertina del catalogo/antologia un ritratto fotografico. La mostra prosegue con la seconda sezione sviluppando i contenuti che troviamo ulteriormente approfonditi nei capitoli 2. Europa/America, 1976; 4. Al PAC di Milano, 1 marzo – 30 aprile 1979; 5. La prima stagione al Sud, 1980-1997; 7. Professione poetica, 1986 del catalogo/antologia, completa dei progetti per Salemi, Caserta, Palermo, Siena, Napoli, concentrando, questa volta, l’attenzione sul progetto della ricostruzione della Chiesa Madre a Salemi degli anni 1984-1998, chiesa già profondamente lesionata e crollata in più parti a seguito del terremoto del Belice nel 1968 e fino al 1980 lasciata in condizione di rudere; il restauro della Chiesa Madre a Salemi, in questi giorni in cui sono ancora vive negli occhi di tutti gli italiani le immagini di distruzione di numerosi edifici di culto ad Amatrice, Norcia, Camerino e altri borghi e città, è in questa sala a ricordare che il processo di ricostruzione di un contesto monumentale storico può essere, in alcuni casi, davvero lento e può radicarsi, secondo una visione quasi ruskiniana, anche nell’accettazione della azione immodificabile e devastante della natura matrigna che in questo caso specifico aveva regalato al piccolo borgo di Salemi ampie porzioni di vuoto urbano, ridisegnate e riorganizzate da Álvaro Siza Vieira e Roberto Collovà affinché non si trasformassero in ambiti privi di qualità, e sventrato la chiesa, della quale rimanevano in piedi il catino absidale, parte dei muri d’ambito e la sequenza delle basi che ospitavano un antico colonnato, non ricostruito, escluse le uniche due colonne rialzate, trasformando uno spazio originariamente interno in un nuovo spazio esterno per la cittadinanza, o piazza, di fatto, ponendo in essere una ricostruzione che non si configura affatto come una ricostruzione propriamente detta. Nella terza sezione, infine, sono raggruppati i restanti capitoli 9. Nuovo Millennio, 1998-1999; 10. La seconda stagione al Sud, 2003-2010; 11. La stagione milanese, 1999-2016 del catalogo/
Immagine relativa alla mostra “Álvaro Siza in Italia. Il Grand Tour (1976-2016)” inaugurata il 26 ottobre 2016. Dettaglio tavolo di lavoro della sala 2. Fotografia di Nicolò Galeazzi. Courtesy: Studio COR Arquitectos, Accademia Nazionale di San Luca.
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Roberto Cremascoli osserva alcune fotografie della mostra “La misura dell’Occidente. Álvaro Siza _ Giovanni Chiaramonte” inaugurata il 26 ottobre 2016. Fotografia di Nicolò Galeazzi. Courtesy: Studio COR Arquitectos, Accademia Nazionale di San Luca
Immagine relativa alla mostra “Álvaro Siza in Italia. Il Grand Tour (1976-2016)” inaugurata il 26 ottobre 2016. Dettaglio sala 1, residenze a Campo Marte. Fotografia di Nicolò Galeazzi. Courtesy: Studio COR Arquitectos, Accademia Nazionale di San Luca. Immagine relativa alla mostra “La misura dell’Occidente. Álvaro Siza - Giovanni Chiaramonte” inaugurata il 26 ottobre 2016. Fotografia di Nicolò Galeazzi. Courtesy: Studio COR Arquitectos, Accademia Nazionale di San Luca
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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Immagine relativa alla mostra “Álvaro Siza in Italia. Il Grand Tour (1976-2016)” inaugurata il 26 ottobre 2016. Dettaglio tavolo di lavoro della sala 1. Fotografia di Nicolò Galeazzi. Courtesy: Studio COR Arquitectos, Accademia Nazionale di San Luca
antologia, e disposti sul tavolo i progetti per Napoli, Lecce, Gallarate, Milano, laddove il progetto principale della sala è la stazione Municipio della metropolitana di Napoli, realizzata da Álvaro Siza Vieira insieme a Eduardo Souto de Moura contemporaneamente alla riqualificazione della piazza soprastante: ritorna nella attività progettuale dell’architetto di Porto, come una costante presenza, la dialettica antico-nuovo – di cui si è già raccontato sulla rivista Segno 259 a proposito del terzo incontro del ciclo internazionale “Valore Restauro Sostenibile. Costellazioni di confronti sul restauro” dedicato al tema “Antico e nuovo: conservazione, interpretazione e completamento negli interventi di restauro”, la cui prossima tappa è in programma il 21 novembre 2016 a l’Aquila – sviluppata anche nel restauro del Palazzo Donnaregina di Napoli, diventato dal 2006 il Museo D’Arte Contemporanea Donnaregina (Madre) e un dialogo costante con il tempo, “il miglior architetto”, suggerisce lo stesso Álvaro Siza Vieira sul risvolto di copertina del catalogo/antologia, quest’ultimo, prezioso strumento che sviluppa prime macro-categorie entro cui distribuire la lunga attività progettuale italiana, inedito anche per la raccolta completa delle lectiones magistrales tenute in occasione delle lauree honoris causa che
le facoltà di Palermo, Napoli, Pavia e Milano gli hanno conferito. Guardando in rapida sequenza le mostre che Francesco Moschini ha realizzato nel corso della trentennale frequentazione con Álvaro Siza Vieira, negli anni in cui andava inaugurando la sua A.A.M. Architettura Arte Moderna di via del Vantaggio a Roma e la rivista Segno muoveva i primi passi nel campo dell’editoria, passando da Scultura. Il piacere del lavoro del 1999, a L’architetto che voleva essere scultore del 2008, antecedenti, insieme alla mostra del 1979 Álvaro Siza architetto 1954-1979 di Vittorio Gregotti e Italo Rota delle successive tappe che scandiscono il Giro d’Italia descritto da Roberto Cremascoli in apertura al catalogo/antologia, cogliamo importanti contributi, sempre diversi, rivolti a descrivere un artista che è anche scultore, designer, maestro di architettura la cui storia è ben lontana dal potersi dire conclusa e compresa in tutte le sue sfaccettature e accezioni e implicazioni. Álvaro Siza Vieira ha lasciato l’Italia per farvi nuovamente ritorno ancora altre volte, lasciandoci con il fiato sospeso a immaginare come potrà mai essere il suo padiglione temporaneo pensato per ospitare la consegna dei premi del Presidente della Repubblica ai Fori Imperiali, nella suggestiva terrazza antistante la chiesa dei SS. Luca e Martina. n
Immagine relativa alla mostra “Álvaro Siza in Italia. Il Grand Tour (1976-2016)” inaugurata il 26 ottobre 2016. Dettaglio tavolo di lavoro della sala 3. Fotografia di Nicolò Galeazzi. Courtesy: Studio COR Arquitectos, Accademia Nazionale di San Luca
DICEMBRE 2016/GENNAIO 2017 | 260 segno - 51
Firenze, Palazzo Strozzi
AI WEIWEI LIBERO er me la libertà di espressione è condizione fondamentale di qua“P lunque espressione artistica. Devo proteg-
gere questo diritto e combattere in nome di questa possibilità”. Queste parole di Ai Weiwei, che potrebbero anche essere considerate una delle sue tante dichiarazioni di poetica, pongono l’accento su aspetti fondamentali della sua poliedrica personalità di uomo e di artista. Architetto, urbanista, fotografo, poeta, blogger e performer, Ai Weiwei è difensore dei diritti umani e della libertà come dato ineludibile della vita e di ogni espressione artistica. Ai Weiwei libero, l’esposizione a Palazzo Strozzi, a cura di Arturo Galansino, evidenzia fin dal titolo la condizione di libertà ritrovata dall’artista, dopo la prigionia e gli arresti domiciliari, subiti prima di lui anche dal padre Ai Qing, noto poeta, oppresso dal regime di Mao Zedong. Grazie alla restituzione nel 2015 del passaporto, egli ha potuto presiedere direttamente alle varie fasi progettuali della mostra ed essere presente all’allestimento, operando dei cambiamenti negli spazi espositivi. Il quattrocentesco palazzo è stato “invaso” da grandi installazioni, da video, fotografie e oggetti di vario tipo, opere onnicomprensive dei vari linguaggi professati dall’artista, in una rivisitazione suggestivamente carica di rimandi fra Oriente e Occidente, fra tradizione e contemporaneità, con lavori recenti e storici, riferibili a oltre trent’anni di attività. Con l’installazione Reframe del 2016 costituita da ventidue gommoni di salvataggio di colore arancione, contornanti le finestre del piano nobile, ancorché molto discussa già prima di essere collocata, l’impatto estetico è forte nel dialogo fra attualità e passato, così come immediata è l’evocazione di senso. Refraction del 2014, fatta di cucine solari tibetane e bollitori assemblati, simula una grande ala impedita al volo e rende angusto lo spazio del cortile dove è installata, alludendo all’oppressione ed alle libertà negate. Le opere di Ai Weiwei indipendentemente dal linguaggio utilizzato, in genere funzionale ai contenuti, pongono l’accento sull’azione culturale e politica come elemento fondante del messaggio artistico. L’arte denuncia, testimonia e recupera culture volutamente annullate dal potere. Ciò è avvenuto dopo il sisma del 2008 nella provincia cinese di Sichuan, che ha
Ai Wei Wei, Grapes (Grappolo), 2013. 34 sgabelli della dinastia Qing (1644- 1911), cm 170 x 208 x 184. Courtesy of Ai Weiwei Studio
provocato innumerevoli vittime, tra cui migliaia di studenti a causa degli edifici scolastici costruiti con materiali scadenti. L’artista attraverso il suo blog e con l’ausilio di volontari ha documentato il nome e le generalità di molte delle vittime, ma l’impresa è stata osteggiata e repressa dal governo di Pechino. Le installazioni Snake Bag, il lungo serpente/drago costituito da trecentosessanta zaini scolastici, Rebar and Case del 2014, contenitori in legno pregiato simili a bare, con la riproduzione marmorea dei tondini, come quelli in ferro rinvenuti fra le macerie, assieme a un video, attualizzano il dramma e indicano le responsabilità. Vasta è la sezione espositiva dedicata agli oggetti ripensati dall’artista in chiave contemporanea e la cui fattura riprende tecniche di altissimo artigianato cinese in via di sparizione. Ne sono esempio sia Grapes del 2013, opera formata da trentaquattro sgabelli della dinastia Qing in legno, materiale centra-
le nell’opera di Ai Weiwei e Blossom del 2015 ampia distesa di fiori in porcellana, metafora di un’altra “fioritura” della storia del suo paese. In omaggio al Rinascimento Ai Weiwei presenta i ritratti dei dissidenti Dante Alighieri, Filippo Strozzi, Girolamo Savonarola e Galileo Galilei, realizzati con mattoncini Lego e propone i poliedri ispirati ai disegni di Leonardo da Vinci per il trattato De Divina Proportione di Luca Pacioli, cui fa da contrappunto Study of Perspective del 1995-2011, la serie di fotografie di luoghi celebri e simbolici di tutto il mondo, di fronte ai quali l’artista con gesto provocatorio e dissacrante alza il dito medio, spingendo a una riflessione sulle icone del potere e della cultura. Visionarietà e poesia si ritrovano nell’opera Feiyu del 2015, figura mitologica in seta e in bambù fluttuante nello spazio, ispirata alle immagini di un antico libro di geografia, vietato quando Ai Weiwei era bambino. Rita Olivieri
Ai Wei Wei, Dante Alighieri in LEGO, 2016. Mattoncini LEGO, cm 152 x 114 x 1,7. Courtesy of Ai Weiwei Studio Si ringraziano gli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Firenze
Ai Wei Wei, Map of China (Mappa della Cina), 2013. Legno tieli da templi distrutti della dinastia Qing (1644-1911), cm 55 x 195 x 195. Courtesy of Ai Weiwei Studio Ai Wei Wei, Snake Bag (Borsa serpente), 2008, 360 zaini, cm 40 x 70 x 1700. Courtesy of Ai Weiwei Studio
52 - segno 260 | DICEMBRE 2016/GENNAIO 2017
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Palazzo Fava, Bologna
BOLOGNA DOPO MORANDI il racconto di quasi un secolo di storia dell’arte la mostra organizzata da È Genius Bononiae a cura di Renato Barilli
allestita fino al prossimo gennaio nelle sale di Palazzo Fava. La grande rassegna, incentrata sullo sviluppo delle arti visive a Bologna a partire dal secondo dopoguerra, comprende un arco cronologico che si estende fino ai giorni nostri. Bologna dopo Morandi 1945- 2015 prende avvio al piano nobile dello storico edificio bolognese dove sono riportate le esperienze legate al movimmento Informale o poco precedenti, per arrivare all’ultimo piano della struttura dove a riproduzione continua sono trasmessi video rapresentativi della decennale rassegna Videoart Yearbook. Ricordati, nell’elaborazione delle aree tematiche ma anche nei testi scritti che accompagnano la mostra, gli storici e critici che hanno contribuito a tracciare l’impronta artistica dell’area bolognese nel corso di questi decenni. Doveroso il riferimento a Francesco Arcangeli alla cui visione sono legati gli artisti che occupano la parte più ampia del piano nobile di Palazzo Fava. Presenze che includono lo stesso Giorgio Morandi per coinvolgere gli esponenti dell’Ultimo Naturalismo e tutti coloro che interpretarono i dettami dell’Informale provenienti dalla Francia e dagli Stati Uniti. Citato inevitabilmente Roberto Longhi, storici non stabilmente presenti a Bologna come Maurizio Calvesi ed Enrico Crispolti in dialogo, tuttavia, con gli artisti e le tendenze che animarono il clima della città felsinea. Ricordati inoltre i giovani teorici legati all’Università di Bologna come la sfortunata Francesca Alinovi, il cui nome emerge nell’area dedicata ai Nuovi Nuovi, e Roberto Daolio promotore assieme a Baccilieri, Castagnoli, Guadagnini e Dario Trento della rassegna Nuova Officina Bolognese svoltasi alla GAM Bologna a inizio anni ‘90. In Bologna dopo Morandi 1945- 2015 il racconto di Renato Barilli si apre riportando la presa di coscienza, da parte di artisti e intellettuali nati nel secondo decennio del Novecento, di ciò che accadeva nel resto d’Europa cadute le barriere imposte dal fascismo. Il loro confronto quindi con le esperienze post-cubiste che a loro volta si sovrapponevano alle ricerche di impronta espressionista svolte nei maggiori centri italiani. L’alternarsi di una rappresentazione di ispirazione naturalista a una più astrattamente inquieta e diversamente ricettiva delle idee di Tapié riguardo a un’Art Autre, sono testimoniate dalle opere di
Piero Manai, I quadri nello studio, 1984-85.
Mandelli, Morlotti, Moreni, Sartelli, Ferrari oltre che dalle poliedriche personalità di Bendini e Vacchi. Un’analisi accurata è rivolta al passaggio tra le ricerche informali e un rinnovato approccio con il reale di ispirazione Newdada e Pop che vede in Concetto Pozzati, alla fine degli anni ‘50, uno degli iniziatori. Tra i continuatori di questa tendenza vi sono le opere dei già citati Bendini e Vacchi che in modo diverso danno voce alle nuove forme espressive. Emergono in mostra i tratti peculiari delle ricerche di impronta “pop” sviluppate nel territorio bolognese, spesso intrise di coscienza sociale e di un vago sentore realista come mostrato nei ritratti di Gajani, oppure di velato surrealismo e divertita ironia, come inVacchi e Pozzati. Tra le opere rappresentative di questa stagione appaiono esposte: Il suicidio di Grosz di Concetto Pozzati, che accoglie lo spettatore nel corridoio di ingresso, le matite e i frigoriferi di Piero Manai poco distanti. Il 1965 è l’anno in cui prende avvio l’esperienza dello Studio Bentivoglio che ha avuto luogo nel celebre palazzo bolognese di via Belle Arti e che ha visto nel capoluogo emiliano esperimenti di tipo concettuale e attività come il video e la performance. La parte della mostra nella quale è raccontata questa avventura illustra molto bene la differenza tra le personalità che maturarono al suo interno nel presentare assieme Pierpaolo Calzolari, considerato uno dei maggiori esponenti dell’Arte Povera e Luigi Ontani, ottimo interprete in un momento successivo del clima post-moderno. La presenza di quest’ultimo è più volte ripetuta nella rassegna e la sua figura, associata al versante pleonastico e citazionista nel panorama italiano degli anni ‘80, viene presentata come giustapposta all’impronta neo-espressionista propria della Transavanguardia, movimento estraneo al contesto bolognese, e all’”elegante” approccio pittorico dei Nuovi Nuovi, che hanno visto
Pirro Cuniberti, Sergente non pestare le margherite, 1966.
Andrea Pazienza, Betta sullo squalo, 1981.
la loro prima mostra proprio alla GAM Bologna nel 1980 con Ontani allora incluso. A chiudere il racconto poco prima della sezione dedicata allo storico osservatorio sulla videoarte italiana sono gli artisti nati a metà anni ‘60, le cui esperienze individuali, portate avanti rielaborando i principi maturati negli anni delle Neoavanguardie, sono confluiti nella sopra citata mostra Nuova Officina Bolognese. Occorre inoltre ricordare lungo il percorso descritto le aree dedicate alle esperienze ritenute particolari nel contesto territoriale durante il periodo preso in esame, come la sala monografica su Nino Migliori, quella che riporta l’esperienza del fumetto e celebra la personalità di Andrea Pazienza, oppure il focus sulle esperienze autonome nella sala del piano nobile. Si trovano in quest’ultima sezione personalità artistiche di età differente, in generale tuttavia si tratta dei nati dopo il secondo dopoguerra che animarono il dibattito bolognese in vari momenti di questo percorso cronologico. Vengono qui riportate riflessioni su altre tendenze provenienti da diverse aree del paese o dal contesto internazionale. Sono racchiusi in quest’area esempi di astrattismo geometrico e razionalità analitica, a con i lavori di Saffaro e Mazzotti, modi differenti di approcciare la realtà con le opere di Mascalchi e Wolfango, ricerche scultoree all’insegna di rigore formale e valore evocativo del materiale con Pinuccia Bernardoni e Mirta Carroli, un astrattismo rigoroso e al contempo lirico con Riccardo Camoni. Francesca Cammarata
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Matteo NASINI Il sogno di un’arte nuova di Luca Tomio el rigoglioso giardino romano dell’arte crescono tante erbacce, fili d’erba, N alberi maestosi e qualche rara pianta eso-
tica. Fatte le debite proporzioni, tutti gli artisti sono della stessa natura di cui sono fatti i sogni e tutti hanno il diritto di esistere, fili d’erba o querce che siano, e anche se in troppi scimmiottano i formalismi dei predecessori senza averne colto la vera sfida, càpita di imbattersi in fiori rari come Matteo Nasini. È un bel segnale che in mezzo alle tante strategie sciocche della palude romana sia riuscito a mettersi in evidenza vincendo l’ultimo Talent Price al Macro con il progetto Sparkling Matter e quello che mi preme segnalare del suo lavoro non è tanto l’ipertecnologia adottata per trasformare in Dream Portrait lo sguardo intimo sull’ignoto, a fare da ponte verso il mondo ctonio senza travestimenti da sciamano da baraccone, quanto invece dare il benvenuto al suo approccio capace di far emergere nella coscienza e nella realtà, con i software più sofisticati o con il punto croce delle nostre nonne non importa, una strategia resistenziale ad una pratica artistica ormai da troppo tempo votata alla consuetudine e alla coazione a ripetere. Se oggi ti azzardi solo a disegnare qualcosa con la Bic sei fregato in partenza. Equivale a fare tagli sulla tela... stessa cosa se ti metti a visualizzare costellazioni o fare disegni geometrici su tavole preparate o se ti metti una maschera e al contempo a ballare sull’onda di qualche litania d’oltremare... il lavoro di artisti come Boetti, De Dominicis, Ontani è una cosa seria, non
Opere di Matteo Nasini, Dream Portrait 2016-11-11. ph Marco Savolio. Courtesy The artist
certo da parodiare come un video scemo su YouTube...e per favore diffidate di patinate gallerie sbarcate da qualche pianeta magari anglosassone che incantano con bollini rossi una platea di compratori votati alla sola speculazione. Va bene che ormai il vero critico d’arte è di fatto solo colui che apre il portafogli però è anche bene ricordare che il vero collezionista non è uno snob che acquista un bene-rifugio ma un co-artefice che sostiene un’idea e l’idea necessaria oggi non può che essere tentare di riattivare il fronte di una nuova guerriglia. La mia sarà magari l’ennesima morte dell’utopia ma non voglio morire
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nella noia di un tempo aspro e cinico senza aver tentato almeno di additare chi sa far germogliare di fiori rari un terreno che più arido di così non si può. Il procedimento creativo di Matteo Nasini non solo è tecnicamente inedito ma anche sbalorditivo per le implicazioni scientifiche che ne stanno a fondamento: dopo aver catturato e trasformate in onde sonore le onde celebrali di un dormiente (e la parte davvero suggestiva di questo processo è ascoltare in presa diretta gli sleep concerts), queste stesse onde vengono a loro volta trasformate da un software di modellazione 3D in misteriosi solidi geometrici, Dream Potraits, che evocano lo stesso profondo fascino delle mitologiche Ceramiche delle Tenebre di Ettore Sottsass. Da musicista raffinato qual’è (è diplomato al Conservatorio di Santa Cecilia a Roma) Matteo Nasini sa bene che il suono trasferisce alla materia energia morfogenetica sottoforma di vibrazioni e il suo speciale mix di misteri ancestrali e tecnologia d’avanguardia segna il passo di una ricerca che sembra allinearsi alla cimatica sviluppata da scienziati del suono come il fisico Ernst Chladni e l’antroposofo Hans Jenny (pioniere di questi esperimenti fu già Galileo Galilei), laddove erano giunti ad interrogarsi sul perché a certi suoni corrisponde una visualizzazione compatibile con le strutture cellulari o perché la pronuncia delle vocali di alcuni lingue sacre comporta la visualizzazione nella materia dei loro simboli grafici corrispondenti, come la vocalizzazione del mantra Om che induce nella polvere di licopodio la forma del cerchio con un punto centrale che ne è la rappresentazione. In principio era il verbo, si legge nell’Antico Testamento, il mondo è suono presuppone il tibetano Nadabrahama, la geometria delle forme è musica solidificata asseriva Pitagora. Ci vorrebbe l’estensione di un trattato per descrivere a parole le implicazioni e le riflessioni che suscita il lavoro di Matteo Nasini e di quanto sia fondamentale il suo racconto sul mondo di cui siamo parte e che altro non è che una meravigliosa sinfonia di frequenze... Ogni vero artista è tale solo se sa trovare la propria strada inedita alla conoscenza. Matteo Nasini c’è riuscito. Non perdetevi il suo prossimo sleep concert. n
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Galleria Adalberto Catanzaro, Bagheria (Pa)
Vittorio MESSINA Impronunciabile modernità cronimo. Il titolo della mostra è una scatolina retroilluminata, difesa A da una gabbia cromata, che sta sospesa in un angolo apparentemente anonimo. Siamo a Bagheria, la città -dal sapore arabo- delle immense ville dei nobili palermitani, nella galleria di Adalberto Catanzaro. La scatolina, cioè il titolo, è lì, in alto; e da quell’angolo governa ciò che gli accade dirimpetto: il resto delle opere che, silenti, partecipano alla messa in scena dell’arte. Vittorio Messina, autore di questa atmosfera, scioglie il primo enigma, dimostrando la possibile pronuncia del termine “ISNTIT”, lui che di “celle”, spazi nascosti che intonano il tempo, di vissuti trasformati in reperti, ne ha fatto il motivo della sua poetica. E la scatolina, cioè ancora il titolo, si apre similmente a un panorama schiarito dalle nubi che l’avevano eclissato. Si intravedono dei puntini, che vanno a inserirsi tra le lettere del titolo, formando un acronimo, provocando questo inevitabile sottotesto. I come ironia. Perché la pronuncia costringe a un’acrobazia della lingua all’interno della bocca, non offrendo nessun significato preciso, anzi spingendoci a una domanda. S come Settecento e Site Specific. Il periodo di edificazione delle ville baariòte, a cui la mostra fa riferimento in galleria non apertamente ed elegantemente, sottolineando però la realizzazione delle opere nel contemporaneo. N come non-linguaggio e non-luogo. I due temi di questa esposizione, che sembrano prima cozzare, poi ritrovarsi insieme in armonia e, infine, offrire entrambi i frammenti dell’altro. Nella probabile traduzione in italiano: “Non è...”. T come totalità. Sia dell’esperienza artistica, trattandosi di una mostra che coinvolge soprattutto la fisicità intera di corpo e spazio, che di organicità del complesso. I come identità. Di essere al mondo, delle lettere precedenti e della successiva. T come teatralità. In cui il tempo gioca a fare l’attore e narra l’inquietudine di cui sono afflitti gli esseri umani. Dettagli. La mostra “ISNTIT”, a cura di Bruno Corà, fa parte di una rassegna impostata dalla galleria con diverse esposizioni, soprattutto personali. Vittorio Messina, artista catanese, reduce dal Museo Riso e dal Regio Albergo delle Povere, alla “Catanzaro” ha voluto mettere in relazione il luogo con il progetto ideale, la storia del paesino della costa palermitana con la sua lettura, rinnovando il concetto di esposizione. Al centro vi è sicuramente la modernità, in conflitto con il linguaggio e con qualsiasi tentativo di reinventarla. E qui, dunque, le ragioni del titolo, emblematico, che fa da spinta ed è volto alla sua risoluzione nel corso della mostra stessa. Dario Orphée La Mendola
Vittorio Messina, ISNTIT, 2016.
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Stoner, Landing Pages. Mauro Fiorese, Gordon Finch, 2016. Foto di Roberto Sala
Alviani Art Space, Verona
STONER La mostra da sfogliare di Maria Letizia Paiato TONER – Landing Pages è la mostra presentata in anteprima nazionale S nell’ambito del #FLA Pescara Festival, ispi-
rata all’omonimo romanzo scritto nel 1965 dallo statunitense John Edward Williams, recentemente riscoperto nel 2013 e diventato un caso letterario. La storia dell’anonimo professore universitario di letteratura, vissuto fra le due guerre mondiali, e che narra la “banalità” con cui scorre la sua vita, prende forma nelle opere degli artisti Mauro Fiorese, Roberta Montaruli, Stefano Lanzardo, Eleonora Roaro, Jacopo Simoncini, Giuliano Tomaino e Zino, chiamati da Cinzia Compalati e Andrea Zanetti, ideatori e curatori del progetto, ad interpretare ciascuno un personaggio del libro, traslando lo scorrere delle parole di Williams al piano del visibile. Stoner, il protagonista, è interpretato da Stefano Lanzardo, attraverso 4 scatti fotografici emblematici e rappresentativi dei luoghi e delle relazioni della sua vita. Mauro Fiorese interpreta Gordon Finch, il migliore amico del protagonista, sviscerando il sentimento dell’amicizia fra i due, attraverso i propri scatti – tratti dal suo blog www. libraincancer.it – aperto per raccontare pubblicamente la propria personale battaglia contro il cancro. A Roberta Montaruli è affidato il racconto del personaggio di Katherine, l’amante di Stoner, e della loro storia, attraverso un’animazione video, dove a essere visibili (a parlare) sono gli oggetti e non le persone. Con una video-installazione Eleonora Roaro mette in luce le fobie e le depressioni di Edith, ovvero della moglie di Stoner, mentre Jacopo Simoncini, ispirato dal passo : “Le dita si allentarono e il libro che tenevano si mosse piano e poi rapidamente lungo il corpo immobile,
Stoner, Landing Pages. Zino, Lomax, 2016. Foto di Roberto Sala
Stoner, Landing Pages. Giuliano Tomaino, Il padre di Stoner, 2016. Foto di Roberto Sala
Stoner, Landing Pages. A sinistra: Stefano Lanzardo, Stoner, 2016; A destra: Roberta Montaruli, Katherine, 2016. Foto di Roberto Sala
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cedendo infine nel silenzio della stanza”, ha composto un pezzo inedito per viola (eseguito da Ignazio Alayna) da ascoltare in cuffia. Giuliano Tomanino ha interpretato il padre di Stoner, scegliendo di dare peso al momento più importante dell’esistenza: la morte, letteralmente esplicitata nell’installazione di una finta bara. Infine, Zino immortala il volto di Lomax, antagonista di Stoner in un ritratto realizzato con la tecnica ASCII art, attraverso cui ha riportato sulla tela l’intero passo della presentazione di Lomax nel libro, fra le cui frasi si legge una declinazione metalinguistica che l’artista pescarese rivolge al suo pubblico: “Stoner è un libro del cazzo”, ironicamente quello che sarebbe stato il pensiero di Lomax nel giudicare il romanzo oggi. Particolarità della mostra, non è solo l’aspetto didascalico del libro, ma anche il suggestivo allestimento che richiama le atmosfere narrate da Williams, e che spinge il visitatore a immergersi nella storia di Stoner e vivere un’inedita esperienza fra letteratura e arti visive. n
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Davide Paludetto Arte Contemporanea, Torino
DEMETZ, GRASSINO, LUCÀ Noemi PRIOLO I sentieri d’autunno di Alessandro Demma
ron Demetz, Paolo Grassino e Nicus Lucà hanno inaugurato l’autunno A dell’arte contemporanea torinese nel-
la nuova sede di Davide Paludetto Arte Contemporanea in via degli Artisti 10. Il progetto, presentato nello spazio del vivace quartiere di Vanchiglia di Torino, segna la volontà di Paludetto di lavorare su una progettualità che mira ad approfondire un dibattito generazionale forte ed essenziale, e ad aprire dei focus su figure dell’arte che, attraverso l’utilizzo di differenti linguaggi, continuano a rendere vivace il dibattito culturale contemporaneo. Opening Contemporary. Demetz – Grassino - Lucà è un vero e proprio manifesto d’intenti, un segnale esplicito della direzione che il gallerista torinese vuole seguire nei tortuosi sentieri dell’arte, il desiderio di lavorare sulle possibilità che l’arte ha di instaurare connessioni e cortocircuiti tra esistenza e illusione, tra presenza e simulazione. La mostra è, così, un viaggio fra labirinti d’immagini, figure, corpi, che animano l’universo della vita, la messa in scena di tre mondi in cui, passo dopo passo, in un esercizio sempre in bilico fra realtà e finzione, viene rappresentata, usando un’espressione cara a Baudrillard, la verità alterata. Tre opere essenziali, visivamente imponenti, abitano lo spazio della galleria dando vita ad un intreccio di forme, segni e simboli che rimandano ad uno dei dibattiti più consumati sull’essere uomo: l’esistenza. Tragedia dell’univocità e Senza titolo di Aron Demetz, composizione in due parti, apre questo dibattito sulla condizione umana, la casa e la figura umana combuste, rappresentano lo stato d’incertezza, d’inquietudine e d’impossibilità dell’essere nella società attuale, lo “sradicamento” dal concetto di heimat, di appartenenza, d’identità, la complessa ricerca del proprio genius loci nell’attuale società globalizzata. Il viaggio continua con Suicide in cui Lucà attua una meta-iconizzazione, con l’utilizzo di spilli, di una delle immagini più famose della scena elettro-rock americana. La copertina dell’album dei Suicide (Alan Vega e Martin Rev) del 1980, gruppo fortemente
Noemi Priolo
caratterizzato da messaggi esistenziali per le generazioni che si affacciavano al postmoderno, viene ricostruita da Lucà, su uno sfondo “rosa acido”, con la forza e la tensione degli spilli che attraggono e al contempo respingono lo spettatore. Maree di Paolo Grassino conclude questo percorso con un groviglio di cani, intrecciati, accatastati, privati dei loro organi sensoriali, una convulsione di corpi che rappresenta il logos della condizione esistenziale dell’essere umano, le superfici narrative di una complessa riflessione sulle condizioni sociali, politiche e culturali, “gusci” di vita, di storie e di memorie, che diventano metafora rappresentativa dell’uomo, dell’esistenza confusa, precaria e instabile. La mostra si muove, così, tra queste trame d’immagini, segni e simboli per aprire un dibattito, una riflessione sul concetto d’identità, sulla complessa riflessione del sé e l’altro da sé, sul “momento semiotico” e sul “momento ermeneutico” dell’opera d’arte. In questa direzione Davide Paludetto ha fortemente voluto la mostra di Demetz, Grassino e Lucà ma ha anche sentito la necessità di inaugurare, in occasione della Notte delle Arti Contemporanee, la Project Room, un luogo di riflessione per continuare il percorso della galleria nella costellazione della giovane arte, un territorio teorico-espositivo dedicato alle sperimentazioni più attuali che segnano le nuove prospettive e le nuove frontiere del sistema dell’arte. Ad esordire in questo spazio di sperimentazione Noemi Priolo, palermitana classe 1990, da poco stabilitasi a Londra per approfondire le sue ricerche, che ha presentato un progetto dedicato ai concetti di mutamento e identità, assolutamente in linea con la mostra Demetz-Grassino-Lucà, con una decisa direzione iconico-ironica sulle deviazioni simboliche dell’esistenza attuale. Nello scenario immaginifico della Priolo i corpi umani vengono ricodificati con sembianze animali in un “teatro metamorfico” ovidiano decisamente contemporaneo. Così, i “sentieri d’autunno” tracciati da Davide Paludetto preludono ad un lungo viaggio, intenso e vivace, nell’arte del presente. n
Aron Demetz, Senza titolo. In primo piano, Aron Demetz, Tragedia dell’univocità; sulla parete, Lucà, Suicide, 2008.
Paolo Grassino, Maree.
DICEMBRE 2016/GENNAIO 2017 | 260 segno - 57
Stefania Beretta, Indian walls #076, 2013.
Museo d’Arte Moderna di Ascona (Ticino)
Stefania BERETTA
n linguaggio fotografico che dà voce al silenzio, che dà forma all’istante U colto da un osservatorio privato, che non
pratica le strade di un iconismo di massa, ma gli interstizi della ritualità quotidiana quello dell’artista svizzera Stefania Beretta nella sua resa di un’India, praticata per trent’anni, nella mostra personale “Una Segnaletica dell’Essere. 1986-2016”. Niente esotismi, niente reportage, nelle opere fotografiche di questa artista ticinese in questa mostra del tutto priva di stereotipi, che riverbera, nella sua coloritura antiretorica, antiborghese, una luce intensa, proveniente da un mondo interiore, non intaccato dai feticci del consumismo occidentale. Un’India, quella di Stefania Beretta, che ne restituisce un ritratto da cui sottrae se stessa, come identità, come ego, per far spazio all’altro, a un’umanità che dalle prime luci del mattino a notte fonda si sposta, come in un moto browniano, dalla casa alla strada, alla scuola, al lavoro, alla preghiera o allo svago: un flusso di creature che si muove, agisce e reagisce, colto in un ininterrotto rituale di esistenza che assume, nel suo ripetersi, un’aura di luce e di sacralità. Se la formazione culturale dell’artista resta, ineludibilmente, occidentale, attraversando ampi periodi di ricerca, che spaziano dai sali d’argento dell’analogico all’era del digitale, tuttavia la sua visione creativa del mondo non cessa di aprirsi, progressivamente, di viaggio
in viaggio, di sentiero in sentiero, ai ritmi, al respiro, ai tempi, alle fonti di energia, agli esercizi yoga, all’astrazione mentale, della profonda meditazione d’Oriente, nel suo Ashram indiano di riferimento. La mostra, a cura di Mara Folini, Ellen Maurer Zilioli e la scrivente, si avvale della lettura delle diverse angolazioni stilistiche, tecniche, comunicazionali, dell’artista, focalizzandone, via via, le qualità segniche, antropologiche, sacrali, rilevabili anche a partire dallo specifico allestimento e dal tessuto narrativo, strutturato su segni, segnali, tracce, simboli, che qualificano le quattro sezioni significativamente contrassegnate dai titoli: Indiarasoterra (polaroid in bianco e nero e stampa ai sali d’argento), in cui lo sguardo dell’artista si posa sul ritmo della vita quotidiana a partire dai passi della folla e dai suoi riti esistenziali; Paesaggi improbabili (fotografie a colori) su cui l’impuntura dell’ago della macchina da cucire tesse una fioritura di ninfee su uno specchio d’acqua, riattiva il sistema linfatico di rami secchi e alberi spogli con lucenti fili argentati, ricongiunge uno spiazzo di terra battuta con il cielo azzurro, tramite tracce aeree giallo oro; Indian Walls (fotografie digitali, a colori) in cui lo sguardo di Stefania Beretta si alza dal suolo di 90° per restituire all’osservatore quella pagina urbana, rappresentata dai muri cittadini, su cui, di giorno in giorno, l’umanità marginale delle minoranze imprime tracce, impronte, segni di una esistenza non sempre condivisa; Rooms (scatti analogici, ai sali d’argento, con una camera di piccolo o medio formato, in bianco e nero, su carta baritata) che ricostruiscono l’intimità di una presenza umana in transito, durante il suo lungo cammino fisico e spirituale, nel momento di sosta in modeste stanze d’albergo, fissate al momento, com’è consuetudine dell’artista. Domina lo scenario della mostra la grande icona simbolica, in bianco e nero, del Banyan, l’albero sacro della illuminazione e della immortalità, oggetto di offerte e preghiere delle spose indiane, le cui interminabili radici, nell’irripetibile, straordinaria ripresa di Stefania Beretta, si allungano sul terreno, liquide come cera fusa, le cui foglie, in un mirabile effetto di fluido mosso, si arrotolano nel vento intonando il loro sommesso mantra. Viana Conti
Stefania Beretta, Paesaggi improbabili #28, 2014.
58 - segno 260 | DICEMBRE 2016/GENNAIO 2017
Konzepthalle6 - Thun Cabaret Voltaire - Zurigo
HOTELLO & DADA SOIRÉE e provocazioni Dada, in quest’anno celebrativo del centenario daL da100zürich2016, a cura di Juri Steiner e
Stefan Zweifel, sono tornate, legittimamente, sulla scena artistica svizzera, e non solo, ora con ineccepibile rigore, ora con irrisione spregiudicata, sovente con autoironica veemenza, altrove con rievocazioni rammemoranti, in sedi istituzionali o private. Con il patrocinio e sostegno dell’Ufficio Culturale della città di Thun, il 21 ottobre il dispositivo mobile e mutante, Hotello, ideato da Roberto De Luca e Antonio Scarponi e gestito da Sandra Marti/Art-House nel contesto di Konzept/Halle6, è teatro di azioni multiple, alla luce della sua connotazione polisemica, funzionale all’azione come alla stasi, alla messa in opera di un concerto come di una mostra, un video, un’installazione, una performance. Dopo un intervento, nella forma della narrazione storico-aneddotica, in francese, della scrivente, inizia il concerto di 37 duetti, composti da Massimo Pastorelli, dal titolo mirlitonnades (vers de mirliton, traducibile con versi da poco) sulle omonime poesie di Samuel Beckett, per flauto (mirliton, per i francesi, è un flauto povero, uno zufolo), Fabio De Rosa, e voce ritmica, lo stesso Massimo Pastorelli. Sono - annuncia il compositore - folgoranti epifanie “nere”, ironiche, enigmatiche, persino commosse alla cui esecuzione vocale ritmica ho associato un flauto che imita la voce umana con schiocchi di lingua, soffi, sospiri, fischiettii, sciabolate, note inghiottite, allo scopo di arrivare a disegnare un paesaggio timbrico frusciante, ansimante, afasico e ticchettante, ispirato non solo al Beckett poeta, ma anche a quello teatrale e romanzesco. Legittimamente scambiabile per una performance, il lavoro è in realtà una composizione musicale in senso vero e proprio, rigorosamente scritta su pentagramma. Viene replicato il 14 dicembre al Cabaret Voltaire di Zurigo. Ermanno Cristini presenta con l’attrice Jutta Trautmann un Testo polifonico viaggiante per una voce, tre movimenti e tre leggii concepito come lettura improduttiva, in forma di viaggio, di un cut up di testi, in diverse lingue, volto a formalizzare percezioni concettual/sinestetico/antropologico/asemantiche di ritardo/perdita/respiro. Con esplicito riferimento alla dimensione Dada/Concettuale di Marcel Duchamp e Dada/Fluxus di John Cage, la serata rende omaggio all’artista/performer, nato in Germania, ma residente a Berna, Norbert Klassen, scomparso nel 2011, la cui opera è ascrivibile ad un linguaggio slittante tra Dada, Fluxus e Living Theater. L’omaggio consiste in un’installazione, attuata nel modulo abitativo Hotello, posto giusto di fronte al palcoscenico come un détournement teatrico/spaziale, in cui il fotografo Martin Rindlisbacher ricrea un collage/ assemblage di momenti di vita quotidiana e di ripresa delle performance di omaggio Für die Vögel und Duchamp, da parte di Norbert Klassen, a John Cage e Marcel Duchamp, nel contesto della rassegna itinerante Fama-Fame realizzata, nel 2008, nella stazione ferroviaria di Solothurn, in cui l’artista si sottopone al rituale del tatuaggio sulla nuca di una stella nera. Nel doppio di Hotello, si realizza, in tal modo, una seducente azione di meta-teatro e, al contempo, di meta-omaggio. Nel segno di un’Ossessione Dada rientra il concerto/ performance, di ascendenza bruitiste, con
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Studi legali, Palermo Testo polifonico viaggiante per una voce, tre movimenti e tre leggii di Ermanno Cristini presentato dall’attrice Jutta Trautmann, foto di Martin Rindlisbacher.
Installazione, con retroproiezione, di omaggio all’artista/performer Norbert Klassen, costituita da un collage di fotografie di Martin Rindlisbacher.
Concerto mirlitonnades, 37 duetti per flauto (Fabio De Rosa) e voce ritmica (Massimo Pastorelli, compositore) sulle omonime poesie di Samuel Beckett. Foto di Martin Rindlisbacher. Stefano Benini concerto/performance con Akkördörgöng, intitolato AKARUS MILBUS VONDUVALL Ich bin der Sohn von meiner Mutter, foto di Martin Rindlisbacher.
Akkördörgöng, intitolato AKARUS MILBUS VONDUVALL Ich bin der Sohn von meiner Mutter di Stefano Benini, video-bodyartista, film-maker, dall’ironica presenza mistico-magico-sciamanica, che ripete, come un mantra, con spirito oracolare, la banalità fatta linguaggio di frasi come appunto Sono il figlio di mia madre o come Evitare il contatto con gli occhi. Di fronte al palcoscenico e alle spalle del pubblico campeggia, su una parete, la video proiezione, ideata da Giuliano Galletta, del mitico incontro del 1975, a Kinshasa, tra Muhammad Alì e George Foreman, ritmato dal famoso tango Anni Venti Caminito, musicato da Juan de Dios Filiberto su testo di Gabino Coria Peñaloza. Accanto allo schermo, su una poltrona, una copia della Fenomenologia dello Spirito non cessa di far ripetere ad Hegel che “L’Africa non ha storia!”. Mentre sul ring due figure in lotta, eleganti e molleggiate nel ralenti dei primi piani, incarnano “la metafora del signore e del servo”, lo Spirito, Der Geist, si riduce, sconfitto dalla potenza dell’immagine dei corpi danzanti, a un aleggiante Spettro. La mostra a ready-made no more? di Thérèse Pfeifer dialoga virtualmente con quella estetico-destabilizzante intitolata Coupe DADA 2016 di Fiorenza Bassetti e con In Hotello Twitter di Alain Poussot. Altre opere video di Ermanno Cristini, Roberto De Luca, Giancarlo Norese, Antoni Pinent, alzano la temperatura concettual-dadaista della rassegna. Inibisce fisicamente e psicologicamente i visitatori, all’ingresso, la video-installazione Tu sì, tu no, in cui l’artista Silvano Repetto, con gesto autoritario, seleziona chi entra. Viana Conti
RIZÒMATA Le radici dell’arte e del diritto
iamo al “secondo piano” di un immenso stabile, in una Palermo peS rennemente caotica, assolata a ottobre,
misteriosamente mai toccata dal vento. Il rumore dell’organismo urbano supera di gran lunga quello della vita, condensato similmente a nuvoloni ingombranti, tra i viali di asfalto. Il profumo della carta che riposa nei faldoni, e del lavoro di ogni giorno, si avverte negli Studi, o «boutique del diritto», “Malinconico Lenoci Cassa, Catalano & Pastoressa Legal Research - Gentile & Partners La Pesa” di via Sciuti, alla periferia chic della città, per l’occasione divenuti spazi espositivi. La disposizione delle luci e una certa solennità intorno, isolano il tutto, in un’atmosfera elegantemente asettica. L’avvocato Carlo Malinconico, che nel testo in catalogo ragiona sulla sequenza tra le intuizioni artistiche e il diritto, scrive di quest’ultimo in quanto fenomeno di regolamento dei rapporti sociali, che: «[...] tiene conto della dimensione complessiva dell’uomo e della relazione con l’ambiente che lo circonda e che incide in modo primordiale sul suo modo di essere». La mostra, patrocinata dal Mibact, riporta un titolo ellenizzante, strappato dai poemi di Empedocle, il cui disegno etimologico, che nella nostra mente balza, costruisce da stanza a stanza parte della scenografia ideata dai legali e dal gallerista Gianmichele Arrivo, direttore di “Cosessantuno Artecontemporanea” di Taranto. «Con Rizòmata – dichiara Arrivo – si propone un concetto intrapreso alcuni anni fa, e cioè la volontà di uscire dalla struttura fisica della galleria ed entrare in spazi di consuetudine, permettendo sia un utile lavoro di ricerca che di prossimità all’arte in favore dei fruitori; aspetti, entrambi, da non trascurare». Il reticolato delle radici, di norma nascoste e deputate al nutrimento della “pianta” affacciata all’esistenza, in questa mostra rappresenta la forma di una modalità di pensiero ben precisa, atta a reinventare, con presa tentacolare, le complesse dinamiche del nostro tempo, spesso incastrato in gabbie di ossimori i cui nodi stringono difficoltà indistricabili. Il piano delle esposizioni, curate da Antonella Marino, si articola in un ciclo di eventi che “saldano” l’apertura di ogni mostra
con un appuntamento tecnico-legale, il quale anticipa, senza svelare troppo, i contenuti delle opere installate, facendo quasi da cornice. I cinque artisti in rassegna, volti noti dell’arte contemporanea degli ultimi venti anni, affronteranno singolarmente, fino al 16 giugno 2017, data fissata per la collettiva, questo dialogo (un po’ critico, un po’ visionario) che cucirà le posizioni scientifiche intorno all’ecologia, interpretate attraverso la lente delle regole del foro, con le letture artistiche. «Le opere – afferma Antonella Marino – sono state selezionate tra passate produzioni e lavori inediti, appositamente realizzati, al fine di rispettare fedelmente il completo arco di studio e di produzione dell’artista, fornendo un racconto complessivo, con dei rimandi puntuali al tema del progetto e riflettenti le scelte stilistiche degli autori». L’apertura è stata affidata alla ricercatrice tarantina Sarah Ciracì, i cui macro e microcosmi, declinati in mandala di vetronite e rame, o in frammenti fotografici, sono l’illustrazione di mondi solo all’apparenza fantascientifici, poiché teorizzati dal fisico americano David Bohm. I «[...] lavori di Sarah si offrono al tempo stesso in un’autonomia estetica capace di attrarre lo spettatore, di sedurlo e insieme seminare dubbi, minare certezze omologate», scrive nel testo critico Antonella Marino. E difatti le opere della Ciracì si pongono come un’indagine sull’ordine delle cose, o forse anche sul loro oscuro senso, analizzando il legame sussistente tra noi stessi, la nostra interiorità psichica e fisica, e l’universo, ma esponendolo con l’eleganza di una pittrice e la tangibilità dei risultati da laboratorio. Seguirà Federico Pietrella con un’indagine iperrealistica sullo scorrere del tempo, il quale, mediante la sovrapposizione di timbri datari, affiora nelle tele in paesaggi solitari velati da fragili nebbie esistenziali. Stefania Galegati, invece, analizzerà sociologicamente, e con sguardo limpido, la contemporaneità, con tutte le sue contraddizioni, vissuta da attori eccessivamente omologati al raggiungimento di un unico obiettivo. Con Raffaele Quida ci si avvicinerà al rapporto tra materia e spazio, ovvero al tentativo di interrogare le possibilità e i confini di entrambi, con elementi tratti dalla natura o da cantieri edili. Carlo Bernardini, infine, disegnerà con le luci, coadiuvato da edifici architettonici, ambienti geometrici per innovative percezioni mentali degli spazi. Dario Orphée La Mendola
Sarah Ciracì
DICEMBRE 2016/GENNAIO 2017 | 260 segno - 59
Pinacoteca Albertina, Torino
Filippo di SAMBUY Alleretour inzione e realtà nell’arte s’incontrano e si confondono attraverso «F un’accelerazione del Reale fornendo all’os-
servatore una via d’accesso all’infinito che lo abita». Tale affermazione, una dichiarazione d’intenti dal sapore poetico, accompagna lo spettatore a immergersi nell’arte di Filippo di Sambuy e a penetrare, con sguardo intriso di mistero e stupore, questa esposizione che, sala dopo sala all’Accademia Albertina, narra la creatività, fra memorie storiche e personali, di un artista che nell’attraversamento del tempo ha costruito le ragioni di un’esistenza profonda. Francesco Poli, curatore della mostra, non a caso lo paragona a un veliero, tracciando nell’elegiaca metafora marinara, la sintesi di uno spirito che vaga continuamente «sempre alla ricerca di un vento propizio», ma anche e soprattutto di «valori culturali, simbolici, araldici, in sintonia con la sua utopica e nostalgica visione del mondo». I luoghi, dove la sensibilità di Filippo di Sambuy nel corso del tempo si è posata, e dove ha realizzato le sue esposizioni, sono immaginati, in questa mostra, come dei porti, visivamente ripercorsi qui in una selezione di opere che raccontano simultaneamente il suo cammino e quello di una storia culturale – la nostra – spesso persa nell’oblio di una contemporaneità senza lirismo. Con Alleretour è messo in scena un particolare
Studio G7, Bologna
Mariateresa SARTORI lberi Casa Mamma, la personale di Mariateresa Sartori che Studio G7 A ospita nel proprio spazio fino al prossimo
gennaio, è stata realizzata con opere eseguite nei mesi precedenti alla mostra appositamente per l’allestimento in galleria. L’esposizione è stata concepita all’insegna del tema che riguarda il dialogo tra arte e scienza, filo rosso che collega la produzione dell’artista veneziana dagli anni vicini agli esordi fino ad oggi. Mariateresa Sartori adotta di consueto mezzi espressivi diversi per l’esecuzione dei suoi lavori come la fotografia, il video, il disegno e l’installazione. I suoi metodi di ricerca tuttavia appaiono spesso estranei alla pratica artistica per avvicinarsi a discipline che hanno come fine ultimo il conseguimento della conoscenza nell’ambito del mondo fisico, della psiche umana o delle scienze sociali. In Alberi Casa Mamma, il messaggio poetico si aggancia a vicende biografiche dell’artista e l’operare di quest’ultima è sviluppato sulla linea di equilibrio tra ricerca di oggettività, in linea con l’approccio scientifico, e la riflessione intimista. La personale in galleria è costituita da dieci composizioni di immagini realizzate con il metodo della fotografia stenopeica, la tradizionale tecnica di riproduzione che si serve di una semplice scatola di cartone con un foro e della carta fotosensibile. A ciò si aggiungono due tracce audio in riproduzione continua udibili da postazioni diverse all’interno della sala. In questa occasione il rigore scientifico è reso concreto dall’artista attraverso l’uso della fotografia, in quanto strumento meccanico di restituzione della realtà, e dall’approccio analitico che ispira la realizzazione delle due tracce sonore.Il passato
Filippo di Sambuy, Rosa Bianca - Rosa Nera, serie, 2010.
percorso: quello dell’artista e del suo “io” creativo proteso al futuro, cui si accompagna simultaneamente un procedere a ritroso nella storia. E più si penetra l’arte di Sambuy, più si riscoprono i luoghi parte del nostro patrimonio culturale. Incontriamo la settecentesca Palazzina di Caccia di Stupinigi, simbolo della regione Piemonte ma anche di un passato regale, quello dei Savoia ed emblema per lo stesso di Sambuy, originario di Torino. S’incontrano poi le residenze appartenute a Federico II: Castel del Monte in Puglia e Palazzo Reale di Palermo, infine il Vittoriale sul lago di Garda che D’Annunzio scelse come sua ultima dimora. In ciascuno di questi luoghi Filippo di Sambuy è intervenuto realizzando pavimenti a mosaico, sculture, dipinti e affreschi, ossia servendosi di antiche tecniche rivisitate in chiave contemporanea, mostrando come nella potenza del gesto
creativo risieda il superamento del tempo, e dove l’annullarsi di un prima e un dopo, trova ragione in una continuità celata ma presente. Così all’Albertina, queste tappe essenziali del suo andare s’intrecciano alla storia stessa della Pinacoteca, direttamente legato ad essa, perché discendente del nobile Ernesto Balbo Bertone di Sambuy, presidente dell’Albertina dal 1887 al 1894, di cui si ammirano due ritratti, a conclusione del percorso di mostra, di mano di Giacomo Grosso. Infine, particolarmente suggestiva è la serie Rosa Bianca, Rosa Nera del 2010, pitture che sembrano esplodere in superfice e ispirate all’energia vitalicaspirale di talune opere di Mario Merz, e 2 metà in 1, che ancora una volta nel doppio autoritratto a 30 anni di distanza, parla dello spazio e del tempo partendo da un’analisi che è sia fisica sia spirituale. M.Letizia Paiato
e la memoria in questa mostra sono i temi posti al centro della riflessione di Mariateresa Sartori che prende avvio da un dolore privato, dalla mutata condizione di un ambiente a lei familiare dove una figura amatissima, quella materna, a causa di una malattia grave non è più in grado di stabilire un rapporto con i propri cari. In riferimento a ciò gli alberi visibili dal balcone della casa dove l’artista è vissuta da bambina, più volte fotografati nel corso degli anni, i disegni e gli appunti, gli oggetti che testimoniano l’esistenza di chi le è stato caro e della sua relazione con lei, si tramutano in documenti, in prove che testimoniano lo svolgimento dei fatti per proporne via via una narrazione.La ricerca di oggettività e la volontà di scomparire in quanto autrice grazie al rigore della prassi sono tratti caratteristici che si estendono anche tracce sonore. Ciò è evidente nella prima di esse, che consiste nell’interpretazione di un testo poetico emotivamente insostenibile da parte di una lettrice che ignora la lingua
italiana e separa le parole inserendo tra queste una lunga pausa. Questo lavoro ha luogo per la volontà dell’artista di annullare qualsiasi connotazione soggettiva nella trasmissione del significato della poesia. In un testo non ideato lei, ma in grado di richiamare per corrispondenza descrittiva la sua vicenda, l’intervento interpretativo si configura come il tentativo fallito di spegnere la tensione emotiva dei versi. La seconda traccia audio riunisce le frasi interrogative pronunciate da Lydia Simoneschi, doppiatrice di Ingrid Bergman, il cui timbro vocale richiama all’artista la figura materna. I brandelli di dialogo riportati vogliono essere qui il tentativo di restituire al reale ciò che nella sua percezione si mostra assente. Queste interrogazioni, riunite grazie un lavoro di indagine rigorosa che ha per oggetto l’intera carriera filmica dell’attrice svedese, per volontà dell’artista restituiscono la voce agli sguardi muti e interrogativi della propria madre. Francesca Cammarata
Mariateresa Sartori, Alberi Casa Mamma (variazione), 2016, fotografie stenopeiche
60 - segno 260 | DICEMBRE 2016/GENNAIO 2017
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Galleria FabulaFineArt, Ferrara
Luca SACCHETTI Luca ZARATTINI Un ritrovarsi nella differenza
Luca Zarattini, Interno 4, 2015. Tecnica mista su tavola, 125x90.
lalom: Luca Sacchetti – Luca Zarattini è la doppia che ha inaugurato la prima S stagione espositiva della galleria diretta
da Giorgio Cattani. Nata dall’esigenza di facilitare la circolazione e lo scambio d’idee e creatività, FabulaFineArt si pone come spazio di ricognizione tra linguaggi, territori, visioni del mondo e sensibilità
Luca Sacchetti, Il Danno, 2016 olio su tela, 60x30 cad.
creative diverse, in cui maestri e nuovi talenti si alternano in uno scambio continuo fra esperienze e stili. Ed è proprio dall’idea di multidisciplinarietà e trasversalità dei linguaggi artistici che parte il progetto espositivo: «È uno slalom emozionale – afferma Giorgio Cattani- che si svolge oltre il rapporto tra materia e colore, oltre il mate-
riale e il poetico. Sono visioni intime che i due artisti riescono a coniugare tra le loro rendendo emotivo il guardare di ‘altri’». Si tratta di un percorso ondulato, dove le opere di Luca Sacchetti e Luca Zarattini, intersecandosi tra loro, portano a rapidi mutamenti di direzione, per poi ritrovarsi in una differenza dal potente valore materico, plastico e comunicativo. Formatosi come art-director e designer per importanti aziende della moda e successivamente alla guida della propria agenzia di comunicazione “Star Factory”, Luca Sacchetti attualmente lavora prevalentemente come artista realizzando dipinti monocromatici cementati dal colore, e sculture in ferro che esprimono, per l’imponenza plastica, l’influenza del design e la volontà di un’arte mai sganciata dal reale. Con un attento sguardo indagatore sui rapporti tra uomo e società, tra comunicazione e percezione, l’artista si muove nei luoghi del disagio e dell’emarginazione realizzando ambigue trame figurative: una sorta di microsocietà, dove i suoi soggetti diventano referenti privilegiati del messaggio artistico. «Il mio intento – spiega Sacchetti – è quello di scrivere un manifesto dell’esistenzialismo nel quale si restituisce la realtà senza alcun pregiudizio morale o sociale, ma con grande libertà di pensiero, lontano da ogni tipo di conformismo». Le pitto-sculture Studi per un ritratto, sono colorate «scatole» sceniche che ospitano volti di donne e uomini che, illuminati da una luce led, si elevano a metafore, allegorie di una condizione individuale e collettiva, sempre meno connotata da contatti sociali, e improntata all’apparire a scapito dell’essere. L’oggetto finestra diviene ponte tra due realtà, quella interna, nascosta, che spia, e che osserva i risultati altrui e in cui l’artista non si riconosce, e quella esterna dello spettatore, che guarda senza toccare, dentro quella feritoia, verso un altro luogo, un altro tempo, individuando in quello sguardo, elementi di una verità, di un’identità che non sente di accettare. D’altro canto, l’impossibilità di fuggire da un ricordo doloroso genera un “danno”, una ferita netta che seppur nascosta, invisibile, condiziona l’esistenza e le relazioni. Ben diversa è la ricerca artistica di Luca Zarattini, tesa a reificare, attraverso la complessità dell’impasto pittorico, ricordi di spazi quotidiani, di architettura metafisiche che appartengono al suo immaginario. Sono frammenti di vita vissuta che si coagulano negli oggetti pregni di memorie immoti, tracce che emergono nei suoi Interni crepati, matericamente interrotti, disabitati, e che si dipanano sulle grandi tavole di legno trattate con colla da pavimento e stucco. Quella di Zarattini è un’esperienza tattile oltre che visiva, seguita da raffreddamento del “magma” pittorico. Le atmosfere terrose, le tinte tenui e le tonalità delicate cedono il passo agli inediti bianchi e neri di Esterno 1 e Paesaggio Bonificato, tavole su scala di grigio caratterizzate da molteplici strati di cemento, che sigillano stratificazioni pittoriche inferiori, e sui quali l’artista interviene sottraendo materia attraverso il delinearsi di segni e tracce, in un dialogo serrato con l’opera stessa. Il risultato è una superficie segnata da lievi screziature e percettibili asperità che muovono ritmicamente la superficie. «In questo modo mi sono ritrovato – sottolinea Zarattini - ad omaggiare il mio territorio di provenienza: le valli del Delta. Architetture vallive, scorci architettonici resi attraverso l’utilizzo di materiali rubati all’edilizia, materiali poveri sui quali ho cercato di fare affiorare una grazia e un’eleganza che quegli stessi materiali sembravano avere smarrito, sublimandoli”. Annamaria Restieri
DICEMBRE 2016/GENNAIO 2017 | 260 segno - 61
Galleria Marconi, Cupra Marittima (AP)
Simone BENEDETTO
l periodo storico che stiamo vivendo è sillabato da ritmi convulsi, incalzanti, Iterribilmente esasperanti. Le giornate si
rincorrono febbrili in una spirale composta da consumismo, approssimazione, bulimia comunicativa, superficialità sentimentale e per assurdo da una profonda solitudine sociale. Frastornati dall’elevata esposizione agli stimoli multimediali, siamo sempre più inclini a prediligere un approccio sbrigativo. Ormai siamo del tutto incapaci di grattare l’epidermide della realtà individuale e collettiva. Ciò non inorridisce ma accontenta. Il dinamico rincorrersi d’interferenze ipertecnologiche non permette all’essere umano di concentrarsi sugli impulsi emotivi e nemmeno sulle proprie funzioni cerebrali. Tutta questa subitaneità persuade ognuno a frammentare la propria attenzione, a rincorrere obiettivi sempre diversi, a fagocitare un’esperienza con la medesima voracità con cui si consuma un pasto in un fast food o la stessa alacrità con la quale si pigia sullo schermo di uno smartphone. Il tempo, tuttavia, ci ha insegnato che questa non è comunicazione, ma una frigida interconnessione, una voliera in grado di creare dipendenza e isolamento intellettuale. Tutto questo guazzabuglio affiora dalle opere di Simone Benedetto, artista torinese che di recente ha esposto presso le pregevoli sale espositive della Galleria Marconi a Cupra Marittima. Appena varcata la soglia d’ingresso, lo sguardo rimaneva impigliato a quello esacerbato dei giovani della serie Coltan escape, i quali con un grido silenzioso e disperato emergevano dallo schermo liquido di un cellulare. Come ha spiegato lo stesso Simone, sono vittime di una tacita guerra, quella occidentale in cui vi è una sorta di asservimento alla sinergia multimediale e quella dei paesi sottosviluppati, dove le multinazionali s’impongono per il controllo di risorse come la “sabbia nera”, necessaria per la realizzazione di telefonini e computer. Con un inconsolabile senso di angoscia, subordinazione e consapevole incapacità
di sbrogliarsi da certi vincoli si accedeva alla sala principale, dove i protagonisti non avevano più di dieci anni. In un primo momento si aveva quasi l’impressione di poter confidare in quella tenera generazione, ma poi sopraggiungeva come una repentina stilettata un sottile malessere che subito si evolveva in una capillare e sconfortante inquietudine. Davanti alla schietta riproduzione del male che noi adulti trasferiamo e lasciamo in eredità ai bambini, alle anime pure e spugnose, si veniva ingoiati da imbarazzo e colpevolezza. Camminando fra le sculture in resina di Benedetto, trapelavano le parole di Publilio Siro: “La confessione dei nostri peccati è il primo passo verso l’innocenza”,
eppure l’osservazione del drammaturgo romano non era in grado di rassicurare. Gli stimoli controversi cui abbandoniamo i minori, la violenza umana e mediatica alla quale li sottoponiamo, l’indifferenza con cui approfittiamo della loro ingenuità, l’incuria espressiva e i pessimi modelli di comportamento che trapiantiamo nei loro animi immacolati, risuonavano come lo strillo acuto di una sirena. Grazie al circuito intelligente segnato e magistralmente raccontato dal curatore Dario Ciferri, spiccava in quel Black mirror of society il disagio di una generazione derelitta, il cui legame più saldo è stretto con gli artefatti personaggi di un videogioco. Valentina Falcioni
Nelle foto di Catia Panciera l’installazione di Simone Benedetto alla Galleria Marconi di Cupra Marittima
62 - segno 260 | DICEMBRE 2016/GENNAIO 2017
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Carla Accardi, Coni, 2003. Courtesy Galleria Enrico Astuni Hilario Isola, I Chiodi, l’Ombra e l’Aruspice, 16 Marzo 2016. Courtesy Valentina Bonomo, Roma
Elisabetta Di Maggio, Unitled, 2016. White porcelain, photographs by Agostino Osio.
Museo della Ceramica di Mondovì
POLVERE DI STELLE
econda edizione di una rassegna biennale a cura di Chiara BertoS la con Christiana Fissore dedicata allo
sguardo degli artisti contemporanei sulla ceramica. Opere di Carla Accardi, Franco Vimercati, Ai Weiwei e installazioni sitespecific di Elisabetta Di Maggio e Hilario Isola. Il titolo – Polvere di Stelle – allude alla materia più basilare di cui è costituita la ceramica: tocchiamo e pensiamo la sua fragile superficie e ci ritroviamo a percorrere una storia di argille, sabbia, quarzo e pigmenti. Tutta polvere, fuoco e acqua. Ma la visione degli artisti riesce a trasformare e portare la polvere in un cammino vicino alle stelle, a fargli fare un volo visionario mai immaginato prima, come una mongolfiera o la traiettoria di una stella. Questa seconda edizione di Polvere di stelle prende la forma di una mostra collettiva di artisti italiani e internazionali che si muovono all’interno del vasto territorio della ceramica utilizzando i diversi linguaggi contemporanei: nelle sale del Museo della Ceramica di Mondovì, tra le vetrine in cui è esposta la collezione storica, sono inserite le nuove porcellane di Elisabetta Di Maggio, e quelle dell’artista cinese Ai Weiwei relazionate con il tragico terremoto del 2008 in Cina. La mostra si estende anche nelle vicinissime sale del Palazzo del Governatore, sede del Circolo Sociale di Lettura di Mondovì Piazza: qui sono esposte alcune delle più importanti opere di ceramica della grande artista italiana Carla Accardi, una serie di fotografie dal “ciclo della zuppiera” di Franco Vimercati e l’installazione- proiezione interattiva I Mani di Hilario Isola riformulata in ceramica appositamente per questo progetto. Le opere che formano il percorso espositivo riflettono sulla transitorietà delle cose, mettendone in luce la fragilità e la vulnerabilità, ma anche, soprattutto, la loro bellezza e la “persistenza” di una possibilità di senso che attraversa il tempo. Nell’opera dell’artista cinese Ai Weiwei la porcellana viene affrontata non solo come materia ma anche come condizione di fragilità, dispositivo concettuale, eredità culturale da ripercorrere e aprire all’interno di un’esperienza più ampia: la tradizione, il paesaggio, la decorazione e la produzione. Mischiata insieme alle altre ceramiche storiche in una teca del Museo, l’opera di Ai Weiwei, Porcelain Rebar, quasi mimetizzata, cela la tragica ragione della sua origine. Si tratta di una riproduzione in porcellana dei tondini di ferro estratti dalle macerie di una delle venti scuole rase al suolo dal terremoto
del maggio 2008, che ha colpito la provincia cinese del Sichuan. L’origine di quest’opera è un’immensa installazione composta da duecento tonnellate di tondini di ferro raccolti, raddrizzati a mano uno per uno e ammassati con pazienza dall’artista e i suoi assistenti. Straight (2008-2012) è un omaggio alle oltre cinquemila vittime, perlopiù bambini, di quella tragedia causata dal crollo di edifici scolastici costruiti al risparmio da una classe politica corrotta. Le sale del Circolo Sociale di Lettura di Mondovì Piazza, infine, ospitano I Mani di Hilario Isola, un’opera fatta di ceramica luce e ombra, di materia e di vuoto. Lo spettatore è invitato a interagire con l’opera e a diventarne parte: nel momento in cui la sua mano impugna una piccola scultura di ceramica raffigurante un grappolo d’uva, l’ombra della scultura stessa proiettata sul muro si completa assumendo le sembianze di un profilo umano. L’ombra e l’espressione del profilo cambierà a seconda della forma della mano di chi tocca: ogni mano è unica, plasmata dai geni dei nostri antenati, i “Mani”. Spremere un grappolo d’uva, toccare una scultura, giocare con l’ombra sono azioni primordiali e antiche che possono riportare a una dimensione più vera di contatto con la materia antica e ancestrale della natura. La mostra si è avvalsa dei prestiti di Galleria Continua, Galleria Enrico Astuni, Galleria Raffaella Cortese, Guido Costa Projects e Laura Bulian Gallery. Torino, Fondazione Merz
Wael SHAWKY incitore della prima edizione del Mario Merz Prize è Wael Shawky con il V progetto Al Araba Al Madfuna, intervento
site- specific che ruota intorno alla trilogia dei film Al Araba Al Madfuna, presentata per la prima volta nella sua interezza a Torino. Wael Shawky (Alessandria d’Egitto, 1971) invita ad attraversare gli elementi fisici che costituiscono il film: architetture di scena e sculture, allestiti in un paesaggio artificiale di sabbia.
Josh Kline. Fondazione Sandretto, Torino
Fondazione Sandretto, Torino
Josh KLINE Harun FAROCKI
lla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, è proposta Unemployment, A la prima mostra personale in Italia dell’artista americano Josh Kline, che porta a Torino sculture, video e installazioni che esplorano le trasformazioni politiche e sociali del nostro tempo. E poi c’è anche l’opera Parallel I-IV di Harun Farocki, artista tedesco di origine cecoslovacca, nato nel 1944 e scomparso nel 2014. Realizzata tra il 2012 e il 2014, Parallel I-IV è la sua ultima opera ed è una delle acquisizioni più recenti della Collezione Sandretto Re Rebaudengo. Parallel I-IV è una videoinstallazione a 4 canali che riflette sull’influenza che i videogame hanno avuto sul cinema, attraverso un’indagine focalizzata sulle metodologie che stanno alla base della loro realizzazione e sulle regole che determinano le animazioni computerizzate.
Harun Farocki, Parallel I-IV, 2012-14 Fondazione Sandretto, Torino
Wael Shawky, Al Araba al Madfuna III, 2015- 2016. 4k video, 25’ Commissioned by Mathaf: Arab Museum of Modern Art in Doha Courtesy the artist & Mathaf: Arab Museum of Modern Art in Doha
DICEMBRE 2016/GENNAIO 2017 | 260 segno - 63
Palazzo Madama, Torino
Grazia TODERI Orhan PAMUK
inedito progetto che vede la collaborazione fra Grazia Toderi e Orhan L’ Pamuk, un’artista e uno scrittore, muove
le mosse, oltre che dalla comune passione per le stelle, da alcune fondamentali domande che interessano l’esistenza. Entrambi si chiedono: «Possono i nostri pensieri essere confrontati a lontane stelle in movi- mento? Esiste un collegamento visivo tra i passaggi della nostra mente e il cielo sopra le città?». Il progetto risale al 2013, sull’impulso di Pamuk, quando invita la Toderi a ideare con lui un’opera per il Museo dell’Innocenza di Istanbul, a partire dal suo omonimo romanzo che narra di un amore tormentato. Un lavoro fatto di dialoghi e vicendevoli scambi creativi, che oggi approda a Palazzo Madama, originaria sede dell’osservatorio Astronomico di Torino, trasferito all’inizio del secolo scorso a Pino Torinese. Non è dunque un caso che sia proprio Palazzo Madama il
teatro scelto per la proiezione di Words and Stars, una trilogia composta di 8 proiezioni e frutto del lungo lavoro di tre anni, che ha visto i due artisti tessere una fitta corrispondenza, per poi realizzare un monologo, un dialogo e una conversazione. Sono questi i tre momenti della trilogia che narrano in senso cosmico dell’universo e in quello umano dell’esistenza. Una trilogia collegata visivamente da paesaggi ideali, frutto dell’intelletto e da altri attinenti la realtà del cielo stellato, tuttavia, anch’esso espressione di mistero del- la vita. Nelle giornate del 5 e 6 novembre scorso, la cupola del Planetario di Pino Torinese è stata oggetto di un intervento site-specific, ossia una proiezione video a 360 sullo schermo emisferico. In quell’occasione il pubblico ha potuto esperire la sensazione di trovarsi all’interno di un globo, al contempo celeste e terrestre, senza avere la netta percezione dei confini. Sullo sfondo la scrittura di Pamuk fra apparizioni e sparizioni della città di Istanbul, le cui immagini si sono confuse e sovrapposte a quelle create da Grazia Toderi. Words and Stars sarà ospitato la prossima primavera al Mart di Rovereto.
Grazia Toderi
Chiesa di San Francesco al Corso Museo degli Affreschi “Cavalcaselle”, Vr
Roberto PUGLIESE La finta semplice
intervento di Pugliese trae ispirazione dalla vita e dall’opera di Wolfgang L’ Amadeus Mozart: La Finta Semplice vuole
dunque essere un hommage all’altissimo genio del salisburghese ma soprattutto una meditazione sulla vocazione dell’artista-innovatore e maieuta, sempre prodigiosamente – ed arditamente – in anticipo sul sentire dei coevi. Nel dipanarsi degli ultimi anni Pugliese ha fatto fibrillare delle proprie sonorità ipnotiche e disambiguanti speaker audio e strumenti ad arco, tronchi di castagno cavi ed ampolle ricolme di alchemici fluidi, sempre teso ad un’assoluta libertà di ricerca di media e di invenzioni. La poetica di Roberto Pugliese si è nutrita dei lieviti della Sound Art e dell’Arte Cinetica e Programmata: tali moventi si evolvono altresì in un’innegabile necessità di superamento delle coercitive gabbie di generi artistici tradizionalmente intesi, sortendo esiti nuovissimi e meta-linguistici. Materia e suono si connettono; spazio e tempo acquisiscono la medesima sostanza d’arte e si evolvono nell’intuizione di una personalissima gesamtkunstwerk. Per il complesso museale “G. B. Cavalcaselle” alla Tomba di Giulietta Roberto Pugliese realizza due installazioni. La prima, Unità Minime di Sensibilità, è una cascata di speaker audio: essa si colloca nel chiostro
dell’ex-monastero francescano intessendo un ductus continuo e sorprendentemente armonico con la fitta vegetazione che invade i capitelli e gli archi a tutto sesto. Pertanto non un’irruzione, bensì una presenza vitale ed eterodossa che si compagina sapientemente e satura lo spazio. La leggiadria dinamica di Unità Minime di Sensibilità s’addensa con superbo senso plastico nel secondo intervento di Pugliese, ubicato nella Chiesa di San Francesco al Corso: La Finta Semplice, K51, ove il richiamo mozartiano s’afferma esplicitamente. Quattro violoncelli, quattro violini, quattro viole, quattro contrabbassi tesi su cavi d’acciaio (che ci appaiono saettanti come lame sottili) generano un’architettura installativa ammirabile per perfezione formale ed eurythmia. Raffinatissimo il dialogo con le sontuose tele vibranti di colore e di luce che costituiscono alcuni dei raggiungimenti più insigni della pittura scaligera. Il preziosissimo scrigno di San Francesco al Corso si trasforma in un golfo mistico ove l’orchestra virtuale di Pugliese riproduce una partitura composta ad hoc dall’artista, che ancora una volta imprime nello spettatore un corto-circuito-sinestetico. Roberto Pugliese. La Finta Semplice è stata presentata da ASLC progetti per l’arte, in occasione della dodicesima edizione di ArtVerona: la mostra, realizzata in collaborazione con i Musei d’Arte e Monumenti del Comune di Verona, diretti da Margherita Bolla, Veronafiere e Studio la città, si è inserita tra i collateral che ogni anno la fiera promuove in città in concomitanza con la manifestazione. Serena Ribaudo
64 - segno 260 | DICEMBRE 2016/GENNAIO 2017
Rosemarie Trockel, Pinacoteca Agnelli, Torino
Pinacoteca Agnelli, Torino
Rosemarie TROCKEL e le collezioni torinesi a Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli prosegue il progetto di ricerca L sul tema del collezionismo e presenta Riflessioni. Rosemarie Trockel e le collezioni torinesi, una raccolta ideale che mette in relazione una selezione di opere custodite nei musei di Torino con il lavoro dell’artista. Le opere sono state individuate da Rosemarie Trockel insieme al curatore della mostra Paolo Colombo e articolano un percorso del tutto inedito, sviluppato a partire dal tema del ritratto e del significato iconologico delle superfici specchianti nel lavoro dell’artista tedesca. Con allusioni alla cultura “alta” e a quella “popolare”, Trockel si interroga sulla condizione umana, sul ruolo dell’artista, sulla traccia lasciata da un’anima dietro di sé, in una complessa e stratificata rappre- sentazione sociale dell’individuo. La mostra è scandita intorno a due grandi temi cari all’artista tedesca. Nella prima sezione dedicata al ritratto, trovano spazio quadri e disegni appartenenti alle collezioni pubbliche di Torino. Queste opere sono messe in relazione con la vasta produzione di Trockel, in particolare con i lavori più recenti e ancora inediti dedicati ai ritratti maschili e femminili. La seconda parte della mostra è dedicata al tema della superficie specchiante e allude a elementi portanti della nostra esistenza in rapporto agli aspetti affrontati nella sezione precedente: dall’attrazione al riconoscimento della bellezza, dal senso del tempo che passa alla transizione della vita verso la morte. Le opere custodite dai musei torinesi che raffigurano specchi e vanitas, diventeranno il contraltare storico per le sculture in ceramica di Rosemarie Trockel: sia astratte sia figurative, queste sculture sono caratterizzate da una superficie specchiante, ottenuta con polveri di platino e argento, mischiate con l’invetriatura della ceramica. L’effetto è quello di un’opera ricca, densa di con- sistenza, e nel contempo dotata di una particolare leggerezza. L’allestimento della mostra è stato curato da Marco Palmieri, catalogo edito da Corraini. Roberto Pugliese, La Finta Semplice, Verona 2016. Photo by Michele Alberto Serra, Courtesy Studio La Città Verona
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Galleria Vistamare, Pescara
“ORIZZONTI”
na mostra collettiva di opere, tutte fotografiche, che mettono a confronto U tra loro artisti dal percorso creativo assai
diverso, che in quest’occasione dialogano sul tema comune dell’orizzonte, nel tentativo di esplicitare ognuno la sua personalissima visione. Ai nomi storici della galleria come Mimmo Jodice e Armin Linke, Mario Airò e Bethan Huws, si affiancano per la prima volta le opere dell’artista britannico Darren Almond assieme a quelle di Man Ray e di storici fotografi del panorama italiano come Luigi Ghirri e Mario Giacomelli, assieme alla giovane Linda Fregni Nagler. Tutte le opere in mostra rivelano un comune punto di vista, nelle diverse sensibilità, rivolto a quella linea da sempre identificata come “l’apparente congiunzione tra cielo e terra”. L’orizzonte è tema di largo fascino, su cui i grandi pensatori hanno storicamente dibattuto. La sottile linea visiva che separa e ricongiunge la terra e il mare al cielo, riunendo così gli elementi sostanziali della nostra vita sulla Terra, è
Armin Linke, Restaurant view, Cairo Egypt, 2006. Stampa fotografica su alluminio con cornice in legno, cm. 150x300
stata oggetto di riflessioni per astronomi, filosofi, matematici, poeti e marinai. Anche gli artisti in mostra volgono lo sguardo a questa linea, curva nella sua realtà fisica, nel tentativo di descrivere e svelare agli occhi degli astanti il collegamento enorme tra finito e infinito, il desiderio tutto umano di riconnessione all’assoluto, che si traduce visivamente in un semplice bordo. Le opere in mostra di Mimmo Jodice appartengono ad alcune delle serie che Linda Fregni Nagler, Fujiyama from Hanoke Lake, 2016. Stampa fotografica ai sali d’argento dipinta a mano.
Mario Giacomelli, Le mie Marche, anni ‘70-’80. Stampa fotografica ai sali d’argento., cm. 30x40 Darren, Almond, Fullmoon@Oregon-Coast, 2008 Stampa fotografica montata su alluminio, cornice in legno, cm. 180x180
maggiormente ne hanno contraddistinto la lunga carriera: Marelux e le Attese. In entrambe, attraverso un bianco e nero realizzato grazie a una molteplicità di grigi, il maestro partenopeo indaga la linea orizzontale volgendo lo sguardo alternativamente al mare e a immagini che, nella loro staticità, richiamano i paesaggi vuoti e come congelati delle opere metafisiche di De Chirico. Le due grandi opere di Armin Linke scrutano l’orizzonte per sottolinearne non solo la prestanza fisica, come nella distesa di ghiaccio e neve di Ice pack, ma anche la presenza umana e la controversa relazione che essa stabilisce con i luoghi abitati, andandone a modificare in maniera definitiva il profilo iniziale. Nelle foto di Darren Almond la poesia incontra il concettuale. I suoi paesaggi, ravvivati da scie luminose, possiedono una qualità spettrale, rivelando un sentimento di malessere, assai contemporaneo, che ricorda nel suo valore arcano lo stesso svelato da Leopardi nelle liriche de “L’infinito”. Gli orizzonti presentati da Mario Airò e Bethan Huws. sintetizzano appieno i percorsi di entrambi: in Airò attraverso l’immagine dei fili luminosi che riannodano i vecchi legami spezzati con la natura e nell’artista gallese nello studio continuo delle proprie origini rurali e in immagini che mostrano il gioco costante del nonsense. Le opere di Man Ray, con la loro tipica e sferzante provocazione dadaista, svelano un orizzonte diverso, lontano da quello geografico, realizzato attraverso silhoutte femminili, profili umani che ricordano dolci pendii collinari, in un gioco di rimandi a tratti spiazzante. Delle foto in mostra di Luigi Ghirri, Versailles richiama l’immagine da cartolina, con quelle tipiche sfumature pastellate in auge alcuni decenni fa; qui la linea di confine si incastra anche coi giochi prospettici delle linee di forza date dalle sfarzose architetture francesi. Mario Giacomelli, trasmette anch’esso nel contrasto netto e accecante del suo bianco e nero, l’anelare costante dell’artista all’infinito, rincorso anche in versi, attraverso paesaggi che da luogo si fanno immagini poetiche e astratte. Le foto di Linda Fregni Nagler rivelano, nella volontà di collezionare e intervenire su vecchie immagini anonime, il desiderio di stabilire nuovi rapporti col passato in una lettura originale ed energizzante. DICEMBRE 2016/GENNAIO 2017 | 260 segno - 65
Bertozzi&Casoni, Galleria Giovanni Bonelli, Milano, Mantova, Pietrasanta
ARTVERONA 2016 a cura di Maria Letizia Paiato
edizione 2016 di ARTVERONA sembra aver trovato, dopo un lungo pereL’ grinare, una propria identità, tracciando in
modo chiaro e trasparente una linea imprenditoriale credibile. Negli anni – sotto la direzione di Andrea Bruciati – curatore giovane, fresco, con uno sguardo indirizzato soprattutto all’arte emergente italiana – punto di forza del suo lavoro che ha legato all’ambito della kermesse mercato veneta – la fiera è progressivamente cresciuta. A parlare sono i numeri: 22mila visitatori, più 12% rispetto all’edizione 2015, 250mila euro fra premi e fondi acquisizioni, 120 gallerie espositrici, 16 spazi indipendenti e 12 eventi off ad animare la città. Di questi numeri, bisogna isolare e analizzare innanzi tutto, quello che interessa le gallerie. Il livello medio-alto della selezione, molte giovani, fa indubbiamente la differenza, specialmente se si pensa che la fiera abbia come prerogativa rivolgersi a un pubblico di collezionisti emergenti. E ciò è sinonimo di buona salute delle stesse gallerie italiane. Soprattutto di quelle che sostengono con autorevolezza il lavoro di maestri e di artisti a metà carriera e al contempo guardano alle giovani proposte – non entrano qui, infatti, situazioni borderline con il “mercanteggiare” – e questo è un bene. Ben calibrata anche la selezione fra gallerie dedite al moderno e ricerche più contemporanee, che mostrano un’Italia, nonostante la crisi e le difficoltà fiscali con cui si scontra il nostro sistema dell’arte, leader nella ricerca e punto di riferimento di qualità indiscussa. Una selezione che premia la serietà. Prova ne è la presenza di opere storicizzate non banali e non ripetitive, cui eccellono le proposte di gallerie storiche ed emergenti con proposte che si muovono sul doppio filo maestri e giovani artisti. Se l’obiettivo, dunque, delle ultime edizioni di ARTVERONA, è stato ed è riportare l’arte italiana all’attenzione del pubblico e dei collezionisti, questo pare essere stato perseguito con forza, tuttavia, bisogna anche ammette che, l’insufficiente presenza di gallerie straniere, non incoraggi il confronto fra le espressioni creative di diversi paesi. Di fatto, gli stranieri sono assenti. ARTVERONA, tuttavia, è allo stato attuale una fiera che promette bene e mostra le proposte di buone gallerie italiane, ma ci si attende per il futuro l’incremento di quelle straniere, se s’intende sviluppare l’area del Triveneto e renderla attrattiva anche Ale Guzzetti
Julia Bornefeld, Alba, 2015 Antonella Cattani contemporary art, Bolzano
per un pubblico internazionale. Un’area, questa, storicamente ricca, che dal dopoguerra a oggi ha vissuto un notevole sviluppo industriale. Era ed è ragionevole, pertanto, immaginare questa zona come forza motore per una ripresa culturale, cui si devono necessariamente legare investimenti che vengono dai privati, chiamati a essere parte attiva di un nuovo processo di visione dell’arte. Fra questi privati ci sono anche e soprattutto i collezionisti. I veri protagonisti insieme alle opere, e la fiera, per recuperare questo gap, da questa edizione si è inventata qualcosa di veramente innovativo. Nello staff da quest’anno c’è anche Antonio Grulli, critico d’arte cui è stato affidato il delicato compito di intessere, per l’appunto, le relazioni con i collezionisti, che a tale scopo ha studiato e proposto un inedito progetto denominato Critical Collecting. Un progetto che vede protagonisti 10 collezionisti italiani raccontati da 10 giovani critici d’arte indipendenti. Perché questo? Se l’obiettivo è rimettere al centro la figura del collezionista, è necessario e indispensabile che tale attività sia studiata, codificata e narrata. Tuttavia, prerogativa del progetto di Grulli non è banalmente stabilire un contatto fra collezionista e critico chiamato ad una lettura delle raccolte e degli artisti, ma superare questa visione proponendo il testo critico stesso come possibile oggetto acquisibile in collezione. In sostanza Grulli, non so se volutamente o meno, ma rimette al centro del sistema anche l’opportunità (o l’esigenza) di una critica autentica. Con questo progetto conosciamo inoltre e finalmente molti collezionisti, forse alcuni anche fuori dai canoni che s’immaginano, essendo anche galleristi o gestori di spazi alternativi. Anna e Francesco Tampieri, che nel 2006 acquisiscono la storica galleria G7 di Bologna sono raccontati da Gabriele Tosi, Fabio Farnè fondatore del Farnespazio/Localedue sempre a Bologna, da Giulia Brivio, la collezione di Mauro De Iorio, radiologo veronese e membro del comitato d’indirizzo di ARTVERONA è descritta dalla giovanissima Sofia Silva, quella di Diego Bergamaschi, vicepresidente del consiglio amaci Gamec di Bergamo da Ginevra Bria, Marco Martini, Seven Gravity Collection da Davide Daninos, Allegra Giudici e Gherardo Biagioni da Marco Scotti, Cristian Berselli da Caterina Molteni, Salvatore Mirabile da Daniela Zangrado, Luigi Cerutti da Clara Madaro, infine Giuseppe Casarotto da Domenico De Chirico. Conoscere queste collezioni e queste figure è importantissimo e sarà altrettanto interessante scoprire per la prossima edizione quali testi critici, queste stesse persone, avranno acquisito per le proprie raccolte. Continuando su questo tema, non è casuale la mostra Il Flauto Magico, 16 collezionisti per un’istituzione, curata da Andrea Bruciati in collaborazione con Ketty Bertolaso, Margherita Bolla, Alba Di Lieto, al Museo di Castelvecchio di Verona. Anche in questa occasione l’omaggio è rivolto al museo stesso, alle sue raccolte cui si affiancano alcuni fra i più rappresentativi collezionisti italiani, che con orgoglio rendono visibile fruibile la passione di una vita: Valentino Barbierato (Padova),
66 - segno 260 | DICEMBRE 2016/GENNAIO 2017
Giammarino Battistella (Monteforte D’Alpone, VR), Diego Bergamaschi (Bergamo), Giuseppe Casarotto (Bergamo), Antonio Coppola (Vicenza), Roberto Cortellazzo (Treviso), Giancarlo Danieli (Vicenza), Mauro De Iorio (Trento), Giorgio Fasol (Verona), Michele Furlanetto (Treviso), Dionisio Gavagnin (Roncade, TV), Marco Ghigi (Bologna), Stefano Isoli (Legnago, VR), Lorenzo Lomonaco (Verona), Giovanni Milesi (Bergamo), Vincenzo Penta (Milano). Tornando, invece, al format di ARTVERONA merita, in particolare, una nota positiva KING KONG. Si tratta di uno spaccato dedicato a innovative idee per monumenti e opere installative, da cui il nome della sezione che rimanda al concetto di “gigante”, appellativo dell’immaginario mostro/gorilla cinematografico, considerato l’ottava meraviglia del mondo. Sono 20 i progetti selezionati tra gli artisti rappresentati in fiera, e collocati all’ingresso dei 2 padiglioni a formare una sorta di area introduttiva alla fiera vera e propria. Si tratta di opere che hanno o scatenano percezioni sinestetiche, che presuppongono una relazione con il luogo o con i luoghi, laddove ideate come monumenti collocabili in spazi pubblici e all’aperto, un legame con spazi diversi, dalla galleria al museo, dalla casa al palazzo, interpretabili attraverso il loro contaminarsi, l’essere oggetti idealmente attivi o passivi per se stessi o nel rapporto con l’attività umana. Si tratta in sostanza, di una rivisitazione critica in chiave ultra-contemporanea del classico concetto di scultura e delle sue implicazioni sia a livello estetico sia psicopercettivo. Il format, rinnovato dalla scorsa stagione di prova, sebbene non sia una novità, ma un programma consolidato nelle esperienze fieristiche all’estero, è l’unico in Italia ad affrontare tale tema, portando ARTVERONA su un terreno di sperimentazione tale da qualificare KING KONG e la fiera stessa, forza propulsiva nell’ambito della ricerca della costruzione fattiva dell’opera. Fra maestri ed emergenti, sono questi i nomi degli artisti e delle opere di KING KONG: Nanni Balestrini, Colonne Verbali 2016, Giorgio Bevignani, I’m ready to live, 2015, Eracle Dartizio Pozzanghere, 2016, Mario Fallini, La promessa Sposa, 1997-1998, Piero Gilardi, Mango, 1992, Alessandro Mendini, Colonne, 2008, Giulio Turcato, La porta, 1973, Ronald Ventura, Shadow blades, 2015, Paolo Bini, Paradise box, 2016, Julia Bornefeld, Alba, 2015, Paolo Brambilla, Doodling Column (Boredom Sipario), 2016, Martina Brugnara, Prima azione, 2016, Gabriella Ciancimino, Liberty Flowers, 2016, Daniele d’Acquisto, Strings, 2011-2013 (in progress), Nero / Alessandro Neretti, Queueing at the cash machine or table for ladies, 2015, Marco Gobbi , Meridians, 2016. Completa la selezione, una sezione off negli spazi esterni alla fiera, con le opere di: Gianfranco Meggiato, Stefano Scheda, Baby wall, 2016, Mauro Staccioli, Seogwipo 14, 2015, Vinci/Galesi, Cosa Vedi? 2013-2016. Galleria Enrico Astuni, Bologna
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Mario Fallini, La promessa sposa, 1997-1998 Galleria Lara e Rino Costa, Valenza (AI)
Sezione King Kong, padiglione 11
I premi di Artverona
I premi per l’edizione 2016 di ARTVERONA sono stati sensibilmente incrementati. Un segnale di volontà, non solo di sostegno, ma anche di credibilità nei confronti del mondo dell’arte contemporanea, quale motore per una ripresa culturale “vera”. Nuovi Premi Ottella for GAM – Premio Arte Contemporanea per la Galleria d’Arte Moderna A. Forti di Verona. Sono state scelte le opere di: Mauro Fiorese, Treasure Rooms (Galleria Boxart, Verona), Gohar Dashti, Iran, Untitled (Officine dell’immagine, Milano) e Giuseppe Teofilo, Floating works (Galleria Niccoli, Parma). Premio Rotary Club Asolo, “per diffondere la conoscenza dell’arte contemporanea e sostenere giovani talenti nel loro percorso artistico”, è vinto da Nebojša Despotović, con l’opera Senza titolo, 2015 (courtesy Boccanera, Trento). Fondo acquisizioni Domus del valore di 100.000 euro La Commissione selezionatrice, presieduta da Luca Massimo Barbero, ha selezionato le 14 opere che arricchiranno le collezioni museali scaligere: Umberto Bignardi, Allergeni, 1962, Courtesy Galleria Bianconi - Milano, Paolo Masi, Senza titolo, 1962, Courtesy Frittelli Arte Contemporary - Firenze Gianni Bertini, Grip, 1965, Courtesy Labs Gallery - Bologna, Aldo Grazzi, I colori degli alieni, 1993, Courtesy Marignana Arte - Venezia, Ute Müller, Untitled, 2012, Courtesy Collicaligreggi - Catania, Giovanni Sartori Braido, Strutture in uno spazio danneggiato, 2013, Courtesy Massimodeluca - Mestre (VE), Pamela Diamante, Armonia in una crisi di west, 2015, Courtesy Rossmut - Roma, Andrea Senoner, Selfportrait, 2015, Courtesy Doppelganger - Bari, Antonio Catelani, Assenze blu di Prussia, 2016, Courtesy Rizzutogallery - Palermo, Vanni Cuoghi, Saluti da Pietrasanta, Courtesy Giuseppe Pero, Gioberto Noro, Whitehead, 2016, Courtesy Alberto Peola Arte Contemporanea - Torino, Nazzarena Poli Maramotti, Unterwasser III, 2016, Courtesy AplusB - Brescia, Patrizia Emma Scialpi, Love and Loss, 2016, Courtesy Villa Contemporanea - Monza, Wolfgang Voegele, Untitled (zonk), 2016, Courtesy Annarumma - Napoli. Fondo Privato Acquisizioni per l’arte contemporanea di ARTVERONA. Nel piano quinquennale dell’inedito Fondo Privato Acquisizioni per l’arte contemporanea di ArtVerona|Art Project Fair, nato nel 2015 da un’idea del Comitato d’Indirizzo della manifestazione, il premio è istituito a sostegno del sistema dell’arte italiana tramite il coinvolgimento di collezionisti e imprenditori, con un investimento di partenza di 50.000 euro, implementabile di anno in anno in base a nuovi ingressi. Le opere scelte: Davide Allieri, Weronika, 2014, Courtesy Placentia Arte - Piacenza, Apparatus 22, Infinite contradiction, 2016, Courtesy l’artista e GALLLERIAPIÙ - Bologna, Paolo Brambilla, PUA, 2016, Courtesy Massimodeluca - Mestre (VE), Silvia Camporesi, #107 Veduta (Curon Venosta), 2015, Courtesy l’artista e Z20 Sara Zanin Gallery - Roma, Drifters (Valentina Miorandi + Sandrine Nicoletta), Eros epidermico, 2016, Courtesy Boccanera Gallery - Trento, Regina José Galindo, Exhalacion, 2014, Courtesy Prometeogallery di Ida Pisani - Milano, Nicola Pecoraro, Senza titolo, 2015, Courtesy Collicaligreggi - Catania, Davide Raimondo, cromo-morfo-fonetica, 2016, Courtesy l’artista e Galleria Bianconi - Milano, Alessandro Sambini, People at an exhibition, 2016, Courtesy l’artista e Galleria Michela Rizzo - Venezia, Tamás St.Turba, Surviving Kit, 1975 – 2016, Courtesy AMT Project - Bratislava, Federico Tosi, Rotten Bullshit 2, 2015/16, Courtesy Galleria Arrivada - Milano, Eugenia Vanni, Ammannitura (Composizione), 2016, Courtesy Galleria FuoriCampo - Siena, Wolfgang Voegele, Untitled (On a Hill), 2006, Courtesy Annarumma Gallery - Napoli. The Blank Contemporary Art di Bergamo vince il Concorso di ArtVerona | Art Project Fair dedicato agli spazi indipendenti, i7 per il “migliore progetto declinato sul tema indicato quest’anno, la sharing art/sharing economy”. 11ª edizione del Concorso Icona. È il premio che seleziona il miglior lavoro tra le 185 opere candidate, che diventerà l’immagine della campagna comunicazione di ArtVerona 2017, quest’anno vinto da Francesco Jodice con Capri, The Diefenbach Chronicles 013. L’opera entrerà anche nella collezione d’arte contemporanea italiana dello stesso polo museale tridentino, che già annovera diversi Premi Icona in esposizione. Premio Display – seconda edizione – vincitori: le Officine Saffi di Milano e ArteA Gallery di Milano Luca Freschi, Man Eaton Paolo Bini, Paradise Box, 2016. Galleria Nicola Pedana, Caserta
by colorer crows, Bonioni Arte, Reggio Emilia
Aidan, Eidos immagini contemporanee, Asti
Gabriella Ciancimino, Liberty Flowers, 2016 Prometeogallery by Ida Pisani, Lucca/Milano
Marco Gobbi, Meridians, 2016 A+B Contemporary Art, Brescia ArtVerona 2016
Peter Vogel, Steccato legato, 1997
Galleria Santo Ficara, Firenze
DICEMBRE 2016/GENNAIO 2017 | 260 segno - 67
Qui Zhije, Map of busy Gods, 2013. Galleria Continua, San Giminiano/Beijing/Les Moulins/ Habana
ARTISSIMA 2016 a cura di Maria Letizia Paiato
RTISSIMA è senza dubbio la sola fiera A italiana realmente e concretamente internazionale. Va da sé che la città di Torino, ricca di musei, fondazioni e gallerie private importanti, credibili e riconosciute oltre i confini nazionali, dedite al contemporaneo, quali ad esempio: Castello di Rivoli, Museo Ettore Fico, PAV, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Fondazione Merz, organizzate ed efficacemente in rete fra loro, è già un terreno predisposto a uno sguardo allargato sull’arte dell’oggi. Da 23 anni la proposta culturale cittadina va di pari passo alle dinamiche del mercato, le insegue, le indirizza, le sostiene, convogliando nella capitale Sabauda il lavoro di gallerie provenienti da tutto il mondo, accrescendo contestualmente l’economia della città. Si parla, per quest’edizione, di una circolazione di circa 4 milioni di euro durante l’Art Week torinese, secondo quanto affermato da Vincenzo Ilotte – Presidente della Camera di Commercio di Torino – una somma davvero elevata se paragonata a quella di un evento che è stato altrettanto importante per Torino, ossia il concerto degli U2 dello scorso settembre che ha prodotto una ricaduta di 6 milioni. Si può immaginare, pertanto, cosa significa ARTISSIMA in termini finanziari e cosa vorrebbe dire – l’eventualità – d’interrompere questo meccanismo, vitale per l’economia dell’arte e non solo. La Kermesse torinese, che si conferma motore determinante in questo settore, con anche un incremento dell’80% in più di collezionisti, rispetto alle edizioni precedenti, apre e chiude le porte dell’Oval senza schiarite sensibili sul proprio futuro. La neo amministrazione penta stellata, nelle persone di Antonella Parigi – nuovo assessore alla cultura della regione Piemonte – e Francesca Leon – assessore alla cultura del comune di Torino, non ha dissipato dubbi e polemiche sorti intorno alla famigerata vicenda del bando emesso dalla Fondazione Torino Musei per la futura direzione di ARTISSIMA, al quale Sarah Cosulich – al timone da 5 anni - dopo numerose controversie, ha deciso di partecipare. Vaghi i tempi di svolgimento e quelli di conclusione del procedimento, se la Cosulich porterà avanti il proprio lavoro – ha parlato della proposta di un nuovo modello – si scoprirà nei mesi venturi. Innegabile è, intanto, che anche quest’edizione di ARTISSIMA, imprescindibile da tutto quello che ruota intorno alla rete culturale torinese nel suo complesso, è stata una conferma sotto vari aspetti. Il primo: i diversi board di curatori internazionali e le loro conseguenti scelte, hanno sicuramente incentivato la curiosità di curatori, critici e collezionisti di tutto il mondo. Secondo: è innegabile la vocazione alla ricerca e alla sperimentazione che contraddistingue questa fiera, che senza timori mostra l’avanguardia contemporanea e rifiuta – se così si può dire - l’opera da “mercato sicuro”. Un aspetto questo, non secondario, se paragonato ad altre fiere di settore italiane, e possibile – a nostro avviso – perché il confronto con artisti e galleristi stranieri, sollecita a sua volta il mercato italiano. Terzo: la rete cittadina fra musei e fondazioni, non soltanto crea respiro alla città, ma è il primo bacino economico per la fiera stessa, che può contare su un sistema di acquisizioni e premi prestigiosissimi senza eguali. Quarto: la selezione delle gallerie è
realmente di altissimo livello. Nessuna fiera italiana può competere con ARTISSIMA sotto questo profilo. Citiamo, fra le italiane, le gallerie che a nostro giudizio hanno proposto i lavori migliori. In ingresso alla fiera spicca su tutte la Galleria Lia Rumma di Napoli con i lavori di William Kentridge e di Simon Fujiwara, oltre ad alcuni splendidi dipinti di Ettore Spalletti, stretti e verticali, dai classici colori pastello, finora poco visti. Colpisce sempre il lavoro di David Medalla sostenuto dalla Galleria Enrico Astuni di Bologna, mentre concettualmente forte è l’opera di Luca Bertolo, La Colonna Infame, presentato dalla galleria SpazioA di Pistoia. Piacciono anche, il lavoro di Lina Fucà, unopertreugualesette, e quello di Alessandro Sciarada alla Galleria Giorgio Persano di Torino, presente anche con il solo dedicato a Michela Zaza, e quello di Abdoulaye Konaté, Couronne bleu, presentato da Primo Marella Gallery di Milano, un favoloso arazzo i cui colori rimandano all’immaginario malese, terra d’origine dell’artista, celando, al contempo, questioni socio – politiche e ambientali, temi prediletti da Konaté. Intrigante il lavoro di Eugeny Antufiev della Galleria Z2O Sara Zanin di Roma. Spettacolari, infine, le opere di Qui Zhije, Marcelo Cidade, Zanna Kadyrova e Angelo Sassolino, artisti di Galleria Continua. Altro linguaggio, invece, per Pat O’Neill presentato dalla Galleria Monitor di Roma, che cattura l’occhio dello spettatore fra pop, ironico e onirico. Immancabilmente attrattivo è il lavoro di Prometegallery Milano/Lucca, in particolare nella proposta di Santiago Sierra, presente con una potente fotografia, dove dei topolini rosicchiano la svastica, ma anche quello di Guido Costa Project di Torino che mostra le marionette di Peter Friedl, The dramatist, lasciando tutti un poco smarriti. Ma ancora meritano di essere citate per le ottime proposte le gallerie: Galleria Alfonso Artiaco di Napoli, Galleria Umberto Di Marino di Napoli, Raffaella Cortese di Milano, Artericambi di Varese, Galleria Massimo Minini di Brescia, Studio Sales di Roma, MLF Marie-Laure Flesh Gallery di Roma/Brussels, Michela Rizzo di Venezia, Car Drde di Bologna, Vistamare di Pescara, Galleria Laveronica di Modica, Collicalligreggi di Catania. Infine, la Galleria Thomas Brambilla di Bergamo, spicca con l’opera Pulpit di Edoardo Piermattei, 2016, come la più fresca fra le proposte in ARTISSIMA. Fra le straniere si distinguono: Sprovieri di Londra con un classico e intramontabile Kounellis del 2008, e un’opera di Francesco Arena, Eleni Koroneou Gallery di Atene che propone l’opera di Helmut Middendorf, P.M (Shot of Primer), anche questa del 2008, la Galerie Jocelyn Wolff di Parigi che tocca l’intramontabile tema del connubio parola/immagine con l’affascinante installazione di Zbynek Baladran, Dead Reckoning. Ma ancora, sul filone installativo si muove la Galleria Eva Meyer di Parigi con l’opera di Nicolas Boulard, mentre la Galleria Richard Saltoun di Londra propone il lavoro della storicizzata e iconica artista della parola Greta Schodl. Sempre in area britannica, non lascia indifferenti la Galleria londinese White Rainbow con le armi di Chu Enoki, mentre affascina il grande arazzo della Blank Gallery di Cape Town, opera di Igshaan Adams. Ma ancora, meritano di essere menzionati gli stand di: SMAC Gallery di Cape Town, Stellenbosch, Johannes-
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Hugo McCloud, Untitled, 2015 Luce Gallery, Torino
Gian Maria Tosatti, 2_ Alessandro Sciarada, Estate, archeologia, 2014. Granular deep, 2016. Lia Rumma, Mi/Na Galleria Persano, Torino
Francisco Tropa, Galleria Tognon, Venezia Babak Golkar, The Fox, The Nut and The Banker’s Hand, 2016-2116. Galleria Amrani, Madrid
Nicolas Boulard, Galleria Eva Meyer, Paris
David Medalla, Cloud Canyons, 1976-2016, Galleria Astuni, Bologna
Nazgol Ansarinia, Article 55, Pillars 2016, Galleria Monitor, Roma
Théo Mercier, Galerie Bugada & Carc, Paris Davide Monaldi, Trucioli, 2016. Studio Sales, Roma
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
burg, della galleria Martin van Zomeren di Amsterdam, della Galerie Bugada & Carc di Parigi, della galleria 401Contemporary di Berlino, la Galleria Nathalie Halgand di Vienna, la Galleria BWA Warszawa di Warsavia e la Galleria Waldburger Wouters di Brussels. Molto interessanti e nuove anche come gusto, sono, infine, le proposte di molte gallerie sudamericane, fra le quali citiamo la Galleria Curro di Guadalajara in Mexico con l’opera di Alejandro Almanza Pereda, A glass of fruit del 2016; e in generale lo spazio familiare e accogliente ricreato nello stand, strutturato come una casa e con bellissime opere al limite fra l’oggetto decorativo e il kitsch, della Galleria Mendes Woo DM di Sao Paulo. Infine, di alto profilo tutte le gallerie new-entries fra le quali, tuttavia, Loom Gallery di Milano si distingue. In generale, si è potuto notare che, come già detto, ARTISSIMA fa particolarmente largo alla sperimentazione, tralasciando quasi in toto opere di artisti “italiani storicizzati”, tranne qualche eccezione come nei casi di Zorio, Nunzio o Spalletti, apprezzatissimi anche e soprattutto da un pubblico internazionale. Sicuramente l’opera installativa sembra attestarsi come “prassi” nella pratica artistica, così tanto che, non appare più strano pensare di acquistare qualcosa che non sia il canonico quadro o la scultura. È evidente che, siamo di fronte ad un genere di opere non più solo appetibili per chi possiede grandi spazi abitativi ma potenzialmente immaginabili come espressione contemporanea di un sentire e vedere comune. Tuttavia, impressioni a parte, il mercato è mercato, ed era naturale chiedere ai diretti interessati, ossia i galleristi, le loro opinioni sull’economia dell’arte ma anche sull’andamento della fiera. Cos’è il Mercato dell’Arte? Ce lo spiega Michela Rizzo, Enrico Astuni, il giovanissimo Thomas Brambilla, Alfonso Artiaco, Umberto Di Marino, Davide Rosi Degli Espositi, Benedetta Spalletti, Richard Saltoun, Marelize Van Zyl e Claudio Poleschi. Michela Rizzo (Galleria Michela Rizzo – Venezia) mi spiega che il mercato dell’arte italiano è difficile per diversi motivi. Il primo: lavorando con i maestri si combatte continuamente con i risultati delle aste. Molti collezionisti, collegandosi ai diversi siti disponibili, possiedono dati e dettagli, che riutilizzano poi in fase si contrattazione di un’opera. Spesso, la maggioranza degli artisti, ottiene in asta risultati inferiori a quelli del primo mercato, rendendo difficile difenderne la storia, il lavoro e la poetica. Sui giovani, sembra, invece, esserci più possibilità, perché a stabilire i prezzi di mercato è il gallerista stesso. I meed carrer sono, invece, a giudizio di Michela Rizzo, una categoria un po’ difficile. Il mercato – spiega – risponde a questa se sono artisti che hanno già fatto Documenta, Biennale e manifestazioni importanti. Il fenomeno è nuovo e la causa è internet. Velocemente sei in contatto con tutto il mondo. ARTISSIMA? Per Michela Rizzo è la più bella e i collezionisti stranieri ci sono. Dello stesso avviso è anche Enrico Astuni (Galleria Enrico Astuni – Bologna). Per il gallerista bolognese, il problema è complicato e semplice al contempo. La tassazione in Italia è altissima. Rispetto agli altri paesi, l’IVA è più alta, esiste il diritto di seguito e la tassazione sulla vendita pesa di circa il 57%. C’è poi il problema delle aste. Quando un artista è stato, sfortunatamente e per tanti motivi, battuto a una quotazione bassa, in molti si fanno avanti e difenderne tutto il lavoro costruito diventa snervante. Thomas Brambil-
la (Thomas Brambilla – Bergamo) ci spiega come e perché, secondo lui, negli ultimi tempi è cambiato il modo di lavorare in questo settore. Un cambiamento dovuto, anche per lui, alla comparsa esponenziale di aste. Per Thomas Brambilla a cambiare non è solo il mercato ma anche la tipologia di collezionista. In giro ci sono troppi speculatori. Per lui continuare a sostenere il pensiero che comprare opere d’arte significa arricchirsi è sbagliato ed è questo che sballa il mercato. L’arte – forse è brutale da dire – ma è un bene di lusso e tale deve restare, perché questa è la sola cosa che la difende. Tutti, invece, possiamo essere amatori, ma è una cosa molto diversa. Per quel che riguarda la linea della galleria: investire, dunque, sui giovani artisti, seguendoli dall’accademia ai primi rapporti professionali, sostenerne la produzione, comprarne i lavori, significa tentare di riequilibrare l’economia dell’arte, così anche recuperare figure di maestri che ancora non sono stati “celebrati” nel mondo dell’arte è una strada percorribile. Come si scelgono gli artisti? Ce lo racconta Alfonso Artiaco (Galleria Alfonso Artiaco – Napoli). Per lui la scelta di un artista nasce esclusivamente dall’interesse per il suo lavoro. Ma conta anche il rapporto umano, la relazione che s’instaura con lui affinché diventi un compagno di strada affidabile. Poi a volte – sottolinea – sono amori duraturi nel tempo, in altre occasioni possono avvenire cose che interrompono la collaborazione. Il mercato? Per Artiaco è una conseguenza della propria scelta, della propria visione. A volte è un trionfo, a volte non lo è. Tuttavia, rispetto a 30 anni fa, secondo Artiaco, il mercato si è molto allargato, c’è un pubblico molto più vasto, più preparato, talvolta anche solo di amatori, ma che purtroppo non compra. ARTISSIMA? Per il gallerista napoletano, la Fiera migliore del mondo è Basilea ma Torino la supporta volentieri, nonostante non sia completamente entusiasta di tutto. Per Artiaco, in Italia bisognerebbe avere meno fiere e alzare la qualità. Per Umberto Di Marino (Galleria Umberto Di Marino – Napoli) ARTISSIMA è l’unica fiera veramente internazionale che esiste in Italia e la sola occasione per le gallerie di casa nostra di confrontarsi con un pubblico estero. A detta di Di Marino, i collezionisti stranieri ci sono, a volte di più, a volte di meno. Lo scorso anno – dice – sono stati venduti 5 lavori a 5 nuovi collezionisti, di cui 1 italiano ma che si muove a livello internazionale. Qui il lavoro di ricerca trova un suo sviluppo perché c’è un confronto reale con le esperienze straniere. Per Davide Rosi Degli Espositi (Galleria Car Drde – Bologna) ciò che conta è promuovere gli artisti italiani verso l’estero ma anche acquisire presenze straniere da proporre ai collezionisti italiani. Pertanto le Fiere – a suo avviso – sono sempre più fondamentali, anche se – confessa – gli dispiace che il luogo “galleria” non sia più così ricercato, come spazio dove conoscere realmente il lavoro degli artisti, dove visionare un proget-
to, come era stato in passato. Per questo motivo Davide Rosi Degli Espositi insiste sull’importanza del gestire lo stand fieristico come fosse lo spazio della galleria. Richard Saltoun (Richard Saltoun – Londra) semplicemente spiega che il mercato dell’arte, per lui è un mercato. Ed è un mercato globale. Tuttavia in Italia – racconta - c’è, a suo avviso, un mercato dell’arte più ampio, perché c’è una cultura all’arte che rende le persone più predisposte a comprarla. E gli italiani, rispetto agli inglesi sono, dunque, più abituati a comprare arte. In Inghilterra i collezionisti sono perlopiù stranieri e soprattutto italiani che risiedono all’estero. La differenza – a suo giudizio – fra i due paesi, risiede nel fatto che in Italia è penetrato un pensiero di negatività continuo, tale da far percepire ai più, l’idea che nel Bel Paese non si faccia abbastanza per il contemporaneo. Non solo in Italia per Richard Saltoun, si fa tantissimo – basta pensare a quante fondazioni ci sono nella sola Torino – ma qui ci sono anche le persone più ricche del mondo. E questo spiega perché per lui è importante essere presente ad ARTISSIMA. Benedetta Spalletti (Vistamare – Pescara) ha sempre visto ARTISSIMA come una fiera interessante che offre concretamente l’opportunità di venire a contatto con un collezionismo internazionale. A suo avviso, puntare non esclusivamente sul mercato italiano significa nutrirlo, tanto è vero che, sottolinea come il suo lavoro sia sempre stato seguito da molti collezionisti italiani, proprio perché la linea della galleria ha sempre puntato ad un respiro internazionale. Anche per lei, tuttavia, spesso è concreto il problema della difesa delle quotazioni degli artisti della sua scuderia. Per la gallerista pescarese, è però questo che fa la differenza fra una galleria e casa d’asta, ed è questo che si può e di deve offrire per proteggere non solo l’artista ma anche il collezionista. Marelize Van Zyl (Smac Gallery – Cape Town, Stellenbosch, Johannesburg) spiega come il collezionismo sudafricano non sia poi così diverso da quello italiano. In sostanza, tutti cercano un certo tipo di estetica ma anche l’affare. L’idea di arte come investimento è ancora un caposaldo ed è difficile spostare questo pensiero. I collezionisti sudafricani, tuttavia tendono a comprare quasi esclusivamente artisti del luogo, quasi a voler proteggere o difendere la propria identità artistica-culturale, mentre il collezionista italiano è più proiettato all’acquisto dello straniero, per questo per Marelize Van Zyl essere presente ad ARTISSIMA è fondamentale. Per Claudio Poleschi, infine, con l’avvento di internet è cambiato il mondo e anche il mercato. Sono aumentate le speculazioni, le manipolazioni e ci sono falsificazioni molto forti. Ad esempio – sottolinea – nell’attuale sistema dell’arte contemporanea sono presenti artisti che non sono in grado di lasciare un segno concreto e che costano quanto un Morandi. Questo è, a suo avviso, un non senso e tracciare una direttiva per il futuro non è possibile. n
I PREMI DI ARTISSIMA Premio illy Present Future 12° edizione: Cécile B. Evans – Galerie Barbara Seiler, Zurigo. La giuria ha inoltre assegnato due menzioni speciali a Renato Leotta – Gallerie Fonti (Napoli) e Madragoa (Lisbona), e al duo Body by Body – Galleria Chateau Shatto. Premio Reda: Joanna Piotrowska – Galleria Madragoa (Lisbona) sezione New Entries. Premio Fondazione Ettore Fico: Gian Maria Tosatti (Roma, 1980) Galleria Lia Rumma, Main Section. Premio Sardi per l’Arte Back to the Future: Gallerie in situ – Fabienne Leclerc di Parigi con un progetto su Lars Fredrikson. La commissione ha assegnato due menzioni speciali: una all’opera di Klaus Lutz – Galleria Rotwand di Zurigo, e una a Pat O’Neill – Galleria Monitor di Roma. Prima edizione del Mutina “This is not a Prize”: Giorgio Andreotta Calò – Galleria Sprovieri, Londra Prima edizione del Premio Owenscorp: Galleria Cavalo (Rio de Janeiro), sezione New Entries. Terza edizione del Prix K-Way® Per4m: Juliette Blightman – Galerie Isabella Bortolozzi, Berlino. DICEMBRE 2016/GENNAIO 2017 | 260 segno - 69
Veduta dal Belvedere del Palazzo della Consulta, foto Carla Morselli.
Accademia Nazionale di San Luca
Incontri di architettura e d’arte: l’Accademia Nazionale di San Luca al Palazzo della Consulta di Gloria Valentini
P
er celebrare il sessantesimo anno di insediamento della Corte Costituzionale nel Palazzo della Consulta, nel settembre 2016 l’Accademia Nazionale di San Luca è stata invitata ad organizzare con la Corte un ciclo di incontri aperti al
Francesco Moschini e Carlo Visconti, foto Carla Morselli.
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pubblico, affidando a noti storici dell’arte e dell’architettura il compito di illustrare in conferenze le vicende che hanno portato alla realizzazione del palazzo, ponendo particolare attenzione all’attività del suo progettista, Ferdinando Fuga (1699-1782). Il programma prevedeva tre incontri, aperti da una serata inaugurale nella quale, dopo la presentazione generale affidata a Paolo Portoghesi, Francesco Moschini e Tommaso Manfredi, introdotti dal Presidente della Corte, Paolo Grossi, si è tenuto un concerto di musiche settecentesche eseguito da giovani musicisti del Dipartimento di Musica Antica del Conservatorio di Santa Cecilia cui ha fatto seguito un concerto con composizioni musicali contemporanee impostate anch’esse su spartiti del Settecento. Ha avviato il ciclo di conferenze Paolo Portoghesi, storico dell’architettura e Presidente Emerito dell’Accademia Nazionale di San Luca, con una lectio magistralis dedicata al Palazzo della Consulta, straordinario esempio di edificio informato ai dettami della funzione che avrebbe ospitato progettato da Fuga negli anni Trenta del Settecento. Partendo dall’inquadramento dell’area interessata, il colle del Quirinale, territorio da sempre prediletto e ricercato fin dall’imperatore Costantino che lo aveva scelto per farvi costruire il suo complesso termale (l’ultimo del suo genere), Portoghesi ha riproposto l’evoluzione costruttiva dell’intera piazza, distinta in nove fasi storiche, dalle origini ad oggi. Al tempo della progettazione del palazzo, Fuga dovette inserire il suo intervento cercando di amalgamarsi al contesto “teatrale” della piazza, riprendendo i modelli seicenteschi, ma cercando al contempo di inserire elementi di innovazione e di progresso. Nella prima soluzione progettuale la facciata del palazzo era caratterizzata da una notevole presenza di finiture a bugnato lungo tutto il piano terreno, richiamando in questo il carattere architettonico spesso adottato da Michelangelo. Nell’accentuata sporgenza delle campate centrali della facciata principale e nelle piccole vibrazioni chiaroscurali generate da quest’ultime, il riferimento era allo stile borrominiano e ai giochi di superfici concave e convesse caratterizzanti le sue opere. Nel progetto Fuga dovette soddisfare le richieste della committenza, realizzando una struttura adatta ad ospitare, contemporaneamente, diverse funzioni: il Tribunale della Consulta, la Segreteria dei Brevi, oltre alle sedi dei due corpi militari, i Cavalleggeri e le Corazze. Impresa non semplice, ma abilmente soddisfatta. A questo punto come definire la figura di Ferdinando Fuga? Classicista, ma anche manierista, barocco, eclettico o “poliglotta”? Portoghesi ha lasciato aperto al pubblico il quesito, chiudendo il suo intervento con una frase di Louis Khan: “Le istituzioni sono ispirazioni”. Altrettanto interessante il secondo incontro che ha visto come protagonisti Claudio Strinati, Tom-
osservatorio critico INTERVISTE
maso Manfredi e Francesco Moschini. È stato quest’ultimo a introdurre i relatori e a supportarne i temi. Claudio Strinati, noto storico dell’arte, ha posto la sua attenzione sulle opere presenti nel Palazzo della Consulta, affreschi, arazzi, dipinti, sculture, di provenienze e epoche diverse (nei primi anni del Novecento il Palazzo ha ospitato anche il Ministero delle Colonie). Tra gli autori più importanti vi sono Bernardino Nocchi e Antonio Bicchierai per gli affreschi; Annibale Brugnoli e Domenico Bruschi per le decorazioni di volte e soffitti; e per le pitture Carmine Bertella, Bartolomeo Cavarozzi, ma anche Giacomo Balla per le opere più recenti. Strinati non si è limitato a esporre le ricchezze interne del Palazzo, ma ha analizzato anche l’apparato decorativo del fronte principale dell’edificio dove troneggia al centro il grande gruppo scultoreo con le allegorie della Fama, e quello con la Giustizia e la Religione sul timpano dell’entrata principale, a richiamare le funzioni per le quali il palazzo venne progettato. Evidente e ben riconoscibile è lo stemma papale di Clemente XII posto al centro della balaustra del Belvedere. Lo storico ha evidenziato come la facciata della Consulta sia nata come una sorta di “specchio” del fronte su cui poggia Fontana di Trevi, non molto distante dalla Consulta a cui è idealmente collegata. In queste due opere, realizzate dallo stesso gruppo di maestranze e volute dallo stesso committente, è possibile rintracciare molti elementi comuni, quali le somiglianze tre decorazioni statuarie, tutte realizzate da Paolo Benaglia. Strinati ha concluso il suo intervento con una singolare curiosità che riguarda proprio la lapide presente nell’attico della Fontana di Trevi. Questa, infatti, venne posta in opera molto prima del completamento dell’opera, avvenuto circa trenta anni dopo, poiché lo scopo principale di Clemente XII era quello di “lasciare un segno” come committente di opere nella città. Tommaso Manfredi, storico dell’architettura moderna, ha analizzato invece la figura di Ferdinando Fuga architetto, e ha tracciato una nuova sequenza cronologica delle principali fasi costruttive di alcune sue opere, quali ad esempio il ponte sul fiume Milicia a Palermo, opera grazie alla quale, con molta probabilità, ottenne la nomina di “Architetto dei Sacri Palazzi” a Roma. Francesco Moschini, storico dell’arte e dell’architettura contemporanea, Segretario Generale dell’Accademia Nazionale di San Luca, a chiusura della serata ha ripreso il tema del disegno, puntualizzando sulla “essenza” stessa del Disegno di Architettura visto in “dimensione critica, come mezzo per trasmettere dei concetti”, frutto del “rapporto tra storia, progetto e storia progettuale”. Con riferimento al Palazzo della Consulta, Moschini ha sottolineato come esso rappresenti una delle prime opere che rispondono alle necessità di uno spazio urbano che negli anni ’30 del XVIII secolo stava radicalmente cambiando. Nel terzo ed ultimo incontro Jörg Garms, storico dell’architettura del Settecento, ha fornito con il suo intervento uno spunto riflessivo sulla magnifica realtà artistico-architettonica, oltre che storico-urbanistica, della piazza del Quirinale vista attraverso vedute, incisioni e dipinti. Di notevole importanza politica fin dalle sue origini, tale piazza non era inizialmente fornita delle strutture adeguate per assolvere particolari funzioni di rappresentanza. Del 1733 è forse una delle prime viste della piazza con il Palazzo della Consulta, ultimato solo poco tempo prima. Completamente diverse sono le rappresentazioni del tardo Settecento, quando, pittori, disegnatori, ispirandosi ai modelli antichi, cercano di pervenire ad una “assoluta perfezione formale”
La facciata del Palazzo della Consulta, Roma, 2006.
Paolo Portoghesi e Francesco Moschini, foto Carla Morselli.
Il cortile “La serliana”. Immagine tratta dal libro Il Palazzo della Consulta a cura di A. Pampalone.
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Salone Belvedere, Veduta d’insieme. Immagine tratta dal libro Il Palazzo della Consulta a cura di A. Pampalone.
Lo scalone monumentale Immagine tratta dal libro Il Palazzo della Consulta a cura di A. Pampalone.
al “bello ideale”. Questo è il contesto culturale in cui opera ad esempio Gaspar van Wittel, il quale restituisce una vista della piazza con alle spalle uno scorcio di Roma, quasi a voler racchiudere in un’unica immagine l’intera grandezza della città, ponendo in primo piano la magnificenza del Quirinale. Ulteriore approfondimento è stato dedicato all’analisi dei cinque disegni di Ferdinando Fuga per il Palazzo della Consulta, attualmente conservati presso l’Istituto Centrale per la Grafica, raffiguranti il primo progetto della facciata del palazzo e il progetto definitivo, estremamente semplificato nell’apparato decorativo rispetto alla soluzione iniziale. Ha chiuso il ciclo di conferenze la lecture di Elisabeth Kieven, studiosa del’arte, già direttrice della Biblioteca Hertziana, che ha dedicato buona parte dei suoi studi all’area del Quirinale, luogo “particolare” poiché centro del potere
pubblico e religioso incarnati nella figura del papa. Tra il 1730 e il 1740, per volere di Clemente XII tutta l’area del Quirinale viene modificata: in quegli anni, oltre alla costruzione della Consulta, saranno completate le Scuderie, la cosiddetta “Manica Lunga” e la Palazzina del Segretario della Cifra, mentre nel resto della città erano parallelamente attivi i cantieri per la realizzazione di San Giovanni in Laterano, Fontana di Trevi, Santa Maria Maggiore e piazza Montecitorio. Tutti questi interventi avevano lo scopo di “rimodernare la città”. In questo ciclo di incontri è emerso così, attraverso le parole di ogni relatore pronunciate nei suggestivi, quanto rigorosi, spazi del Palazzo della Consulta, l’approccio, razionale e matematico, delle composizioni di Ferdinando Fuga, uno tra i principali protagonisti della cultura architettonica italiana del Settecento. n
Strinati, Moschini e Manfredi ricevono la medaglia commemorativa dal preside Grossi, foto Carla Morselli.
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accademia nazionale di san luca mostre in corso
roma parigi Accademie a confronto
Lâ&#x20AC;&#x2122;Accademia di San Luca e gli artisti francesi comitato scientifico-organizzativo
Carolina Brook, Elisa Camboni, Gian Paolo Consoli Francesco Moschini, Susanna Pasquali
13 ottobre 2016 - 13 gennaio 2017 ingresso libero . admission free
accademia nazionale di san luca piazza dellâ&#x20AC;&#x2122;Accademia di San Luca 77, 00187 Roma www.accademiasanluca.eu
Fideuram Private Banker,Napoli
“Colori d’Africa” Intervista a Margaret Majo a cura di Simona Zamparelli
I
n concomitanza con la prima conferenza Italia-Africa, tesa a consolidare antichi quanto storici rapporti, il gallerista napoletano Franco Riccardo ha proposto alcune storie di cinque paesi subsahariani con un gruppo di artisti internazionali, le cui opere hanno invaso uno spazio insolito, quello della finanza, con l’intento di rieducare al visibile e cooperare in campo politico ed economico. Operazione che può sostenere l’arte capace di relazionare luoghi e cultura dei vari popoli. Uno degli artisti della collettiva in mostra “Colori d’Africa” a Napoli presso la Fideuram Private Banker è stata ospite d’onore all’inaugurazione: Margaret Majo ha accolto il pubblico da regina d’Africa portando la cultura dell’arte visibile tra numeri e mercato finanziario, quasi annullando le dicotomie pensierofinanza, pubblico-privato, rispondendo con entusiasmo alle nostre domande. - La società occidentale è dominata dalla metafisica di oggetti e dalla spettacolarizzazione dei bei corpi o delle cose appetibili, il pensiero intellettuale fa la differenza per una cultura che diviene sempre più confusa.L’arte dona (non vende) pensiero! Quali sono le tue aspettative? - Essere Zimbabwana è la presa di coscienza di appartenere alla terra, e ai frutti che ha partorito la natura, non ci nascondiamo in false illusioni, esiste un potere politico, esiste l’ingiustizia, esistono anche le cose belle! La bellezza delle cose sta nell’amarle e conoscere la loro appartenenza, per questo motivo la conoscenza è l’inizio di tutte le relazioni. Le mie aspettative? L’arte è per me l’unica possibilità di superare i confini della conoscenza già data, quella prestabilita da chi sta al potere. - La Repubblica dello Zimbabwe non è in un periodo felice, tra crisi politica economica e sociale, dai tuoi lavori non emerge
uno schieramento politico, né un disagio sociale ma solo il segreto di essere felici senza esibizionismi. Lo sveli? - Non ho segreti, ho una famiglia, una casa e il mio Dio! Ci sono persone che pensano di fare politica senza sapere chi sono e da dove vengono credendo di soddisfare le loro appetizioni di supremazia di pensiero. Il potere non salva dalla caducità, la felicità è una dimensione che non rientra nell’economia del paese, ma è la propria! Lo Zimbabwe ma come tanti altri paesi affronta ogni giorno i propri problemi per mantenere una situazione economica stabile, certo non è semplice per il popolo combattere la disillusione che non tutto ciò che si ascolta è parola di Dio! Il mio lavoro si discosta da tutto questo, io dono le piccole cose che ho ereditato dalla vita, dipingo per raccontare l’origine sulla base di un futuro. - Gli oggetti portano un valore temporaneo, si usano per poi essere materiale di scarto. Tu ridoni valore alle cose, perché lo fai? - Non uso parola riciclo, ma ri-dono! I tappi sono oggetti che trattengono, una volta stappata la bottiglia tutto scorre… io, per gioco trattengo le storie su tele create per divertire… poi il tempo e la mia storia è stata letta e mi ha portato lontano in molte capitali occidentali ed ecco che continuo a raccontare fin che posso. - Le miniature sono racconti brevi di famiglia, lavoro, giochi di vita quotidiana, ami la vita, si legge dalla tua scrittura simbolica, nelle tue cromie. In cosa credi? - Credo che sognare è la medicina che cura il dolore delle difficoltà, bisogna ascoltare, essere pieni di gratitudine, la vita non è solo lavorare, mangiare e dormire; siamo anime libere ed educate, chi sceglie di amare ha già scel-
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to di vivere! La narrazione pittorica dei miei lavori sono scene di vita sociale, rurale e non condizionata dalle grandi cose, azioni che appartengono allo standard del quotidiano di ieri in cui uomini e donne cooperavano nel bene e nella speranza di vedere la fine della straziante lotta politica per l’indipendenza. L’originalità di un lavoro forse è nell’origine e nella storia di tutte le cose. - Le cose materiali, capaci di esprimere immaterialità come sentimenti del divenire sociale posseggono l’aura dell’unicità, ma il tuo non è un tappo, ma una molteplicità quasi maniacale, una costellazione di tappi volti ad incantare chiunque li osservi. Quanto tempo impieghi per completare un lavoro? - Ore, giorni. L’importante è realizzare un bon lavoro! Il valore si nasconde dietro ogni cosa fatta con passione. - Ancora oggi si parla del desiderio di africanità da parte degli occidentali, come ricerca di condizioni mitologiche primitive, e quando si parla di arte africana ancora si è ancorati al tribale, dunque all’arte classica. Sei un’artista contemporaneo, i linguaggi lo confermano. Puoi spiegarci la differenza? - Credo che tutti subiamo la presenza di un passato, e se questo è chiamato classicismo o tribalismo non ha importanza. Il mito, la religione o la redenzione sono la cultura di ogni etnia che ha fatto la storia del suo popolo, il potere di alcuni forse ha reso possibile la credenza nel misticismo dei nostri oggetti. La magia è in quello che sentiamo, l’immaginazione ci porta verso altri confini e per fortuna esiste! Essere contemporanei è vivere oggi raccontando ieri. - Chiunque mette piede in Africa resta nell’ineffabilità, nel linguaggio descrittivo insufficiente. Moravia scriveva… la bellezza dell’Africa non è solo forma e natura, c’è un mistero extraumano, tutti i paesi del mondo hanno una storia e l’Africa ha un anima che tiene il luogo della storia e quando tutto si racconta non sarà altro che la storia dell’anima dell’Africa. La curiosità ora sta nel sapere le impressioni di una Regina d’Africa che incontra la Nazione Italia e la città partenopea Napoli. - È l’Italia che mi ha regalato un ruolo importante, quello di rappresentare il mio mondo. Napoli è calda come i nostri tramonti e la bellezza di questa città è nei volti di chi mi ha ospitata. L’emozione è la sensazione più sana per sentirsi gratificate in un mondo che appartiene a me e a voi, tutti i luoghi del mondo hanno un’anima e la Napoli che ho conosciuto nei giorni della mostra “Colori D’Africa” è quel luogo magico in cui coesistono realtà e immaginazione. I love Napoli! I love Italia! I love Simo Simo!
MARGARET MAJO
Colori dâ&#x20AC;&#x2122;Africa