segno Spedizione in abbonamento postale Poste Italiane S.p.A. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 00 in libreria ROC · Registro degli operatori di comunicazione n. 18524 - ISSN 0391-3910
E 5.
Anno XLII - FEB/MAR 2017
Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea
GIANNI PETTENA
GIULIO PAOLINI
All’interno ANTEPRIMA/NEWS - LE MOSTRE NEI MUSEI, NELLE ISTITUZIONI SPAZI ALTERNATIVI, GALLERIE PRIVATE – SPECIALE GRANDI MOSTRE ARTISTI IN MOSTRA – CRONACHE, RECENSIONI, IMMAGINI – LIBRI E CATALOGHI
accademia nazionale di san luca mostre in corso
roma parigi Accademie a confronto
L’Accademia di San Luca e gli artisti francesi comitato scientifico-organizzativo
Carolina Brook, Elisa Camboni, Gian Paolo Consoli Francesco Moschini, Susanna Pasquali
prorogata fino al 28 febbraio 2017 ingresso libero . admission free
accademia nazionale di san luca piazza dell’Accademia di San Luca 77, 00187 Roma www.accademiasanluca.eu
segnofebbraio/marzo 2017 E 5.
Anno XLII - FEB/MAR 2017
Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea
# 261 - Febbraio/Marzo 2017
sommario
segno Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea
Artisti in copertina Anish Kapoor [24]
GIANNI PETTENA
Gianni Pettena
Ice house I - Minneapolis, 1971 (courtesy Galleria Bonelli Milano)
GIULIO PAOLINI
All’interno ANTEPRIMA/NEWS - LE MOSTRE NEI MUSEI, NELLE ISTITUZIONI SPAZI ALTERNATIVI, GALLERIE PRIVATE – SPECIALE GRANDI MOSTRE ARTISTI IN MOSTRA – CRONACHE, RECENSIONI, IMMAGINI – LIBRI E CATALOGHI
Giulio Paolini Fine, 2016
(courtesy l’artista e Christian Stein, Milano) Paolo Bini [34]
#261
Spedizione in abbonamento postale Poste Italiane S.p.A. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 ROC · Registro degli operatori di comunicazione n. 18524 - ISSN 0391-3910 00 in libreria
4/19 News gallerie e istituzioni
Ennio L.Chiggio / Edoardo Landi [42]
Anticipazioni in breve dall’Italia ed estero a cura di M.Letizia Paiato, Lucia Spadano, Paolo Spadano e collaboratori
Victor Burgin [45]
Roma-Parigi. Accademie a confronto (pag.20-23 Rossella Martino) Anish Kapoor, Macro Roma (pag.24-25 Ilaria Piccioni) Gilberto Zorio, Galleria De Foscherari Bologna (pag.26-29 Francesca Cammarata) Giulio Paolini Galleria C.Stein Milano(pag.30-31 Gabriele Perretta) Fabio Mauri Museo Madre Napoli (pag.32-33 Stefano Taccone Paolo Bini Reggia di Caserta (pag.34-35 M.Letizia Paiato) Domenico Spinosa Musei vari Napoli (pag.35 Carla Rossetti) 30° Anniversario da Artiaco Napoli (pag. 36-37 Stefano Taccone) Gianni Pettena Galleria Bonelli Milano (pag.38-41 Alessandro Azzoni) Marco Pace (Project Room Bonelli Milano (pag. 41 Shuai Yin) Ennio L.Chiggio / Edoardo Landi Galleria Ficara Firenze (pag.42-43 a cura di LS) Bruno Munari Galleria Granelli Castiglioncello (pag.44 Luca Zaffarano) Victor Burgin Galleria Lia Rumma (pag.45 Stefano Taccone) Antonio Pujia Maon Rende (pag.46-47 Tonino Sicoli) Graziano Pompili MAGI 900 (pag.48-49 Valeria Tassinari) Giovanni Leto Chiaramontane Agrigento (pag.50 Dario O.La Mendola) Giovanni Gaggia FabulaFineArt Ferrara (pag.51 Serena Ribaudo) Matteo Negri ABC Arte Genova (pag.52 M.Letizia Paiato) Ruben Pang Primo Marella Milano (pag. 53 M.Letizia Paiato) Ivan Barlafante Michela Rizzo Venezia (pag.54 dal CS) Schermi rubati Galleria Verrengia Salerno (pag.54 Lea Mattarella) Adriano Nardi Galleria Marotta Campobasso (pag.55 Gabriele Perretta) Luciano Ventrone Museo delle Genti d’Abruzzo (pag.56 dal cs) H.H.Lim Museo Messina Milano (pag.56 Teresa Monti) Mariateresa Sartori Palazzo Poggi – G7 Bologna (pag.57 Francesca Cammarata) Onufri Prize Tirana (pag.57 Gaetano Centrone) Arte Italiana nel mondo Mola di Bari (pag.58 Intervista ad Alessandro Demma) Enzo Calibè Galleria E23 Napoli (pag.59 Carla Rossetti)
Ruben Pang [53]
www.rivistasegno.eu
news e calendario eventi su
e 20/59 Attività espositive/ Recensioni documentazioni
e operatori 60/67 Documentazione/ Artisti
Confronti sul restauro – L’Aquila [68]
Marzio Cialdi (pag.60 a cura di Valerio Dehò) Marinella Senatore (pag.61 Marco Teti) Paolo Scirpa (pag.62-63 Marco Meneguzzo) Collezionismo privato. Intervista a M.Dal Rio (pag.64-67 a cura di Lucia Spadano)
68/74 Osservatorio critico/Letteratura d’arte Confronti sul restauro – L’Aquila AAM Roma (pag.68-71 Ester Bonsante) Contro la mortificazione dell’arte (pag.72 Dario O.La Mendola) Arte e territorio al MARCA Catanzaro (pag.72 Simona Caramia) Libri e Produzioni editoriali (pag.73-74 a cura della redazione)
segno periodico internazionale di arte contemporanea
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>anteprima<
Christine Macel, curatrice della 57. Esposizione Internazionale d’Arte
VENEZIA
uno dei principali artisti contemporanei del Brasile, che presentò la sua prima mostra allo Studio Marconi nel 1969. Nato nel Nord est del Brasile, Dias, d’indole ironica e brillante, talvolta pungente e provocatoria, partecipa a diversi gruppi d’avanguardia prima di raggiungere l’Europa. Giunto a Milano entra in contatto con la scena artistica più internazionale e, in particolare con il movimento dell’arte povera, per poi subire l’influenza di diversi movimenti artistici, tra cui la pop art e il minimalismo. Il nucleo di opere della collezione Marconi presenta in questa mostra opere che coprono un arco temporale che va dal 1968 al 1972.
57.BIENNALE ARTE
MILANO TRIENNALE Viva Arte Viva ome preannunciato nello scorso numero, gli artisti selezionaFrancesco Somaini ti da Cecilia Alemani per il Padiglione Italia, dal 13 maggio C al 26 novembre 2017, sono Giorgio Andreotta Calò, Roberto Mario Bellini Cuoghi e Adelita Husni-Bey. Giungono però, importanti novità egli spazi di Viale Alemagna, Francesco Somaini. Uno sculriguardo alla 57. Esposizione Internazionale d’Arte, la curatrice Christine Macel ha infatti annunciato che il tema prescelto è Viva Ntore per la città. New York 1967-1976, curata da Enrico Crispolti e Luisa Somaini, organizzata dall’Archivio Francesco Arte Viva, argomentando così la scelta: “L’arte di oggi, di fronte ai conflitti e ai sussulti del mondo, testimonia la parte più preziosa dell’umano in un momento in cui l’umanesimo è seriamente in pericolo. È il luogo per eccellenza della riflessione, dell’espressione individuale e della libertà, così come dei fondamentali interrogativi. È un “sì” alla vita, a cui certamente spesso segue un “ma”. Più che mai, il ruolo, la voce e la responsabilità dell’artista appaiono dunque cruciali nell’ambito dei dibattiti contemporanei. Viva Arte Viva è quindi un’esclamazione, un’espressione della passione per l’arte e per la figura dell’artista. Viva Arte Viva è una Biennale con gli artisti, degli artisti e per gli artisti, sulle forme che essi propongono, gli interrogativi che pongono, le pratiche che sviluppano, i modi di vivere che scelgono.“. La Mostra si svilupperà secondo una linea organica piuttosto che tematica, in una sequenza di padiglioni che propongono allo spettatore l’esperienza di un viaggio dall’interiorità all’infinito. Questi “Trans-padiglioni” riuniscono artisti di ogni generazione e provenienza e si succedono senza soluzione di continuità, come i capitoli di un libro: dal “Padiglione degli artisti e dei libri” passiamo al “Padiglione del tempo e dell’infinito”, e cos’ via per una dozzina di universi che compongono un racconto, talvolta paradossale, sulla complessità del mondo e la molteplicità di pratiche e posizioni.
Somaini in collaborazione con la Triennale di Milano. Il percorso espositivo analizza attraverso 16 sculture, 15 disegni e 14 fotomontaggi, il tema del rapporto tra arte e architettura in relazione alla metropoli moderna, nel cui ambito Somaini è in Italia e in Europa un pioniere, sia sotto il profilo teorico che da quello progettuale. Fino al 5 febbraio. Italian Beauty è il titolo della eccezionale mostra dedicata all’intera opera dell’architetto milanese, noto in tutto il mondo. Un viaggio trasversale lungo quasi 60 anni tra design, architettura, exibition design e arte. La retrospettiva è un omaggio alla sua opera poliedrica e singolare, quella di un progettista italiano che ha ottenuto successo internazionale, lavorando per Fiere, Musei progettati dal Giappone agli Usa, dalla Germania all’Australia e, nel 2012 per il Dipartimento delle arti islamiche del museo del Louvre di Parigi. Fino al 19 marzo. Mario Bellini, 2012, Department of Islamic Arts of Louvre
FONDAZIONE MARCONI
Antonio Dias lla Fondazione Marconi Aviene proposta la mostra di Antonio Dias, Do it yourself/ desert (stone), 1968, acrilico su tela, cm.100x100 collezione privata, courtesy Fondazione Marconi, Milano
Osservatorio Fondazione Prada, Milano
Give Me Yesterday
allo scorso dicembre Milano ha un nuovo spazio dedicato alla fotografia firmaD to Prada. Una superfice espositiva di 800m2 sviluppata su due livelli. Nella centralissima Galleria Vittorio Emanuele II la Fondazione ha inaugurato, con la mostra Give Me Yesterday - a cura di Francesco Zanot, inserita all’interno di una programmazione intitolata Osservatorio.
Il progetto espositico Give Me Yesterday esplora l’uso della fotografia come diario personale degli ultimi 15 anni. Si va dagli anti-selfie dell’olandese Melanie Bonajo, 60 selfie in lacrime dal titolo Thank you for hurting me I really needed it, alle manipolazioni digitali del giapponese Kenta Cobayashi; dagli autoritratti del portoghese Tomé Duarte che si ritrae in casa vestito con gli abiti dell’ex fidanzata allo struggente tentativo di riavvicinarsi, almeno in foto, alla madre scomparsa della sudafriana Lebohang Kganye che altera al computer le immagini dall’album di famiglia inserendo la propria immagine; lavoro simile a quello operato in
Melanie Bonajo, Thank you for hurting me I really needed it
4 - segno 261 | FEBBRAIO/MARZO 2017
chiave meno drammatica dal ceco Vendula Knopova che invece “ruba” immagini dall’hard-disk della madre per rielaborare le immagini in modo assurdo e stravagante. Sempre la madre protagonista anche negli scatti di Leigh Ledare, l’americano la ritrae in posa in situazioni intime e private finanche in scene di sesso trasgredendo così anche il tabù familiare. Ryan McGinley organizza sessioni fotografiche con amici in situazioni parzialmente controllate che celebrano la nudità dei loro corpi nella bellezza della natura. Attraverso la creazione di uno tra i primi blog fotografici cinesi, Wen Ling documenta quotidianamente le relazioni, i luoghi e le La cupola della Galleria vista dall’Osservatorio.
>news istituzioni e gallerie< MONZA
REGGIO EMILIA
IcoVillaParisi Reale di Monza, la Triennale Design MuA seum, propone la mostra Ri-
Krištof Kintera ostnaturalia è una complessa installazione scultorea appositamente realizzata da Kintera, con la collaborazione di P Richard Wiesner e Rastislav Juhás, per Collezione Maramot-
VILLA REALE
COLLEZIONE MARAMOTTI
trovare Ico Parisi, a cura di Roberta Lietti e Marco Romanelli, realizzata in collaborazione con l’Archivio del Design di Ico Parisi e organizzata in occasione Duplice ritratto di Parisi, Cernobbio, ‘53 dei centenario della nascita del maestro (a Palermo nel 1916). Parisi ha prodotto una mole notevolissima di lavori, operando, secondo la lezione pontiana, in quella dimensione pluridisciplinare, caratteristica della rinascita del progetto italiano dopo il conflitto mondiale. Architetto, dunque, ma anche designer, art director, fotografo, regista cinematografico, pittore e artista puro. I curatori hanno tuttavia privilegiato il periodo “classico”,, dalla fine della guerra agli anni ’50, in una unica tipologia, quella del “tavolo” nelle sue svariate accezioni. “Questa mostra - afferma Silvana Annichiarico - è una prima riflessione di ricerca del Triennale Design Museum dedicata a rivalutare i non allineati, i sommersi, i dimenticati, personaggi che hanno interagito con il territorio allargato di Monza e Brianza, ma fondamentali dal dopoguerra in poi.”.
ti. Il titolo esplica come lo scenario in cui si inscrive la nostra esperienza quotidiana non sia più quello del mondo naturale. Nella cosiddetta “età del rame”, basata sulla trasmissione di energia e informazioni, la natura finisce per somigliare a un enorme sistema nervoso. Accompagna la mostra un libro d’artista, strettamente connesso al progetto, composto da due sezioni: Herbarium e Cuprum Factum. Dal 19 marzo al 30 luglio. Krištof Kintera Postnaturalia dettaglio courtesy l’artista
VENEZIA
FONDAZIONE QUERINI STAMPALIA
Titina Maselli ntologica a cura di Chiara Bertola, in collaborazione con la Galleria Minini di Brescia. La mostra ricostruisce la poA etica dell’artista romana, scomparsa nel 2005, attraverso una trentina di opere di pittura di raffinata eleganza. Fino al 5 marzo.
Francesco del Drago, Luglio Agosto, 1991, trittico, acrilico su tela, cm.200x600 courtesy Museo C.Bilotti, Roma
Titina Maselli, La Ville II, 1971, olio su tela, courtesy Triennale, Milano
ROMA
MUSEO CARLO BILOTTI
Francesco Del Drago arlare con il colore è la prima retrospettiva dedicata all’artista romano dopo la morte, avvenuta nel 2011. Curata da P Pietro Ruffo con la consulenza scientifica di Elena del Drago, la mostra allestita all’Aranciera di Villa Borghese segue un percorso a ritroso, partendo dalle ultime opere realizzate, emozionanti nello sforzo di ampliare ulteriormente la gamma cromatica, per poi concentrarsi sugli imponenti polittici astratti, summa dell’intera ricerca di del Drago. Si risale, così, dai risultati estetici alle premesse teoriche in un processo che consente di approfondire le problematiche dell’arte astratta del Novecento e, segnatamente, quelle riguardanti il colore. Fino al 26 marzo. abitudini di una ristretta comunità di amici e familiari. Joanna Piotrowska applica la filosofia dello psicologo tedesco Bert Hellinger per indagare il tema dei traumi familiari in una serie di ritratti collettivi attentamente calibrati. Il parallello tra prossimità fisica e vicinanza emotiva viene analizzato da Irene Fenara, nelle sue polaroid la distanza tra obiettivo e soggetto fotografato evidenzia il proprio rapporto con l’artista. Surreali, ironici e perturbanti invece i fotomontaggi della giapponese Izumi Miyazaki, che, essendo aggiornati anche durante il periodo della mostra, vengono esibiti in un monitor touch. Divertente il lavoro di Maurice van Es che
fotografa oggetti e vestiti riordinati dalla madre nella propria casa, facendone delle eleganti sculture involontarie. Orizzonte Italia è invece il titolo delle decine di immagini di orizzonti che Antonio Rovaldi ha scattato tra il 2011 e il 2014. Accostate tra loro esprimono una personale visione di paesaggio e tracciano i confini di un ideale viaggio in Italia. Greg Reynolds presenta una documentazione fotografica di campi estivi che, solo oggi a più di trent’anni di distanza realizza, gli permetteva di esprimere una verità impossibile da rivelare pubblicamente, la sua omosessualità. La mostra di Francesco Zanot se da un lato
Ryan McGinley, Gloria, 2003
Da sinistra: Kenta Cobayashi, Greg Reynolds, Antonio Rovaldi e, in primo piano, Ryan McGinley.
Tomé Duarte, Camera Woman, 2015
mantiene la linea narrativa proposta, il diario fotografico contemporaneo, con i lavori di Irene Fenara, Antonio Rovaldi e Izumi Miyazaki, dall’altro non rimane in tema con i deliri porno familiari di Leigh Ledare, o i patetici travestimenti di Tomé Duarte. Rimane comunque una splendida mostra in un nuovo contesto che, nelle ampie vetrate opposte alle pareti espositive, ci porta in una nuova dimensione visiva di un ambiente storico, quale la cupola in vetro e ferro che copre la Galleria, isolandoci dal caos dell’ambiente sottostante. FEBBRAIO/MARZO 2017 | 261 segno - 5
>news istituzioni e gallerie< MILANO
The Great Learning n occasione dei dieci anni di istituzione del Biennio Specialisti-
I
co di Arti Visive e Studi Curatoriali alla NABA - Nuova Accademia di Belle Arti, un grande evento espositivo alla Triennale di Milano The Great Learning, una mostra che conclude un’ideale trilogia, pensata come una ricerca sull’apprendimento, che fa seguito al primo capitolo del 2010, Learning Machine. Art Education and Alternative Production of Knowledge e al secondo del 2015, Theatre of Learning, come riflessione sull’educazione artistica e i processi di conoscenza che tentano di interrogare la produzione intellettuale contemporanea e le pratiche che l’accompagnano: NABA non è pensata solo come il luogo della formazione ma anche come lo spazio stesso dove questa viene messa in discussione. The Great Learning è tratto dall’imponente ciclo di pezzi per orchestra del compositore sperimentale inglese Cornelius Cardew, ideato nel 1969: una sorta di culmine della sua ricerca sul rapporto tra musica e società civile. Il “Grande Studio” o lo “Studio Integrale” (come Ezra Pound lo aveva tradotto) è anche, con i Dialoghi, uno dei libri più noti di Confucio sull’autodisciplina e sul rapporto tra soggettività e collettività, ripreso nei sette paragrafi di un’opera della durata complessiva di 9 ore. The Great Learning si basa così sulla convinzione del potenziale democratico della musica come piattaforma sociale, tanto che le sue partiture sono scritte per qualsiasi gruppo di esecutori e non richiedono musicisti educati, cantanti esperti o professionisti. Come afferma Marco Scotini: “Credo che il potere attuale dell’arte consista nel suo rivendicare un possibile mondo autonomo contro il mondo ordinato delle funzioni, dei ruoli, delle distribuzioni. Un mondo, cioè che assegna ogni cosa al suo uso specifico. Non si tratta più dunque di pensare l’educazione artistica nei termini di una disciplina separata, per esperti e addetti ai lavori. Possiamo immaginare la funzione estetica dentro un proprio recinto? La posta in gioco oggi è, di fatto, quella di pensare l’arte come qualcosa al centro dei processi di formazione e di soggettivazione in senso ampio, che trova nel modello estetico la propria procedura di realizzazione. La soggettivazione è un’operazione artistica che si distingue dal sapere e dal potere, senza trovare una collocazione al loro interno. Con il modello estetico non abbiamo a che fare con le regole codificate del sapere, ne con quelle imperative del potere. Per questo nella nostra scuola pratichiamo ordinariamente tutto ciò che può apparire extra-disciplinare: l’economia, il genere, l’urbano, l’ecologia. In sostanza, l’arte diventa inseparabile dai processi di socializzazione del presente e dai fenomeni di ricomposizione collettiva del futuro”.
Così, le opere di 30 artisti emergenti selezionate per The Great Learning, nell’esercizio delle funzioni creative, assumono il carattere sociale della produzione di soggettività, nei termini in cui l’arte stessa diventa una forma di emancipazione che si pone all’incrocio tra performatività e formazione. Questo, come uno degli elementi della riflessione, avviata da Marco Scotini nella direzione del Dipartimento, sui modelli di costruzione dello spazio della mostra e l’indagine sui processi di produzione artistica e curatoriale, anche dal punto di osservazione del sistema espositivo internazionale, della teoria, del publishing, della storia dell’exhibion-making e in generale dei formati culturali researchbased, forzando i limiti disciplinari ma a partire dalla conoscenza dei suoi stessi confini. Oltre alla mostra negli spazi della Triennale venerdì 20 gennaio si svolgerà To learn without desire is to unlearn how to desire. Soggettività post-identitarie, ecosofie, politiche del comune, un convegno, uno spazio di dibattito seminariale a cura del collettivo CURRENT con la partecipazione di oltre 20 teorici e curatori italiani e internazionali che negli ultimi anni hanno frequentato il Biennio Specialistico in Arti Visive e Studi Curatoriali. A partire dalle singole posizioni di ricerca, l’incontro sarà articolato intorno ad alcune delle linee di indagine portate avanti dal Dipartimento di Arti Visive con progetti come la piattaforma Utopian Display e il magazine No Order. Art in a Post-fordist Society. Cori, performance e visite guidate animeranno The Great Learning nelle due settimane di apertura (dal 17 al 30 gennaio) trasformando gli spazi della Triennale in teatro di gesti risultato delle numerose attività tenute da alcuni tra i maggiori interpreti internazionali (tra cui i curatori Ute Meta Bauer e Jens Hoffmann, gli artisti Joan Jonas e Michelangelo Pistoletto, tra gli altri) che hanno riflettuto con gli studenti sulla performatività della pratica artistica e la teatricalità dell’exhibition-making come social stage. Gli artisti: Federico Arani, Vincenzo Badiglio, Simone Bianchi, Andrea Bocca, Martina Brembati (performance in collaborazione con The Boys and Kifer), Marina Cavadini, Marco Ceroni, Gaetano Cunsolo, Davide Dicorato, Giacomo Feltrinelli, Oliviero Fiorenzi, Mafalda Galessi, Carlo Gambirasio, Miriam Gili, Giulia Maiorano, Edoardo Manzoni, Jacopo Martinotti, Orestis Mavroudis, Federica Mutti, Sarp Renk Özer, Tomas Øvrelid, Lorenzo Perini-Natali, Claudia Ponzi, Chiara Principe, Andrea Alkin Reggioli, Stefano Serretta, SPAZIENNE, Luca Staccioli, Gabriel Stöckli, Kim Yoogin. I curatori: Valentina Angeleri, Luca Bertoldi, Eleonora Castagna, CURRENT, Michele D’Aurizio, Vincenzo Di Marino, Roberta Garieri, Gabriele Longega & Ilaria Zanella, Giulia Mengozzi, Barbara Meneghel, Giulia Polenta, Camilla Pin Montagnana, Giovanna Repetto, Mattia Solari, Chiara Turconi, Nicolas Vamvouklis, Shuai Yin e Francesca Battello.
Prima fila in alto, da sinistra: Orestis Mavroudis, Attempt to fly, 2013; Jacopo Martinotti, gli eroi sono tutti giovani e belli, 2016; SPAZIENNE, 20mqN, 2016. Seconda fila: Andrea Bocca, Scelfer, 2016; Gabriel Stöckli, Trias, 1961; Marco Ceroni, Moonwalk, 2016. Terza fila: Sarp Renk, The Chinese, 2016; Miriam Gili, Diamanti, 2016; Edoardo Manzoni, Settembre, 2016. Quarta fila: Luca Staccioli, map #8, 2016; Chiara Principe, Serie matrici compositive – n.1, 2016; Martina Brembati, Quando non c’è lavoro, 2016.
6 - segno 261 | FEBBRAIO/MARZO 2017
>news istituzioni e gallerie< BOLOGNA
ArteFiera rte è natura. È questo il leitmotiv della 41° edizione A di ARTEFIERA che lega, stand
dopo stand le diverse sezioni, suddivise in Main Section, Solo Show, Nueva Vista, Special Projects e Fotografia. Al timone quest’anno è Angela Vettese, storica dell’arte e curatrice che, pur mantenendo e rispettando l’identità storica della fiera, ha subito fatto sentire il proprio sguardo sul contemporaneo, apportando sostanziali novità alla kermesse più longeva d’Italia. Il tema della natura è sentita nelle sue molteplici forme come una metafora che contraddistingue il fare artistico, cui si lega l’attività umana da sempre in simbiosi a essa o al contrario, interessata a governarla. A questo argomento si sono ispirate la 153 gallerie espositrici nei due grandi padiglioni del Quartiere fieristico di Bologna. «Arte Fiera intende proporsi come un luogo di esposizione e vendita di arte moderna e contemporanea, che si è deciso esplicitamente di presentare mescolate tra loro, e al contempo come sede di proposta e di riflessione su temi e linguaggi di stringente attualità». Sono queste le parole con le quali Vettese introduce la prima edizione a sua cura, dalle quali si evince la vera importante novità e quella che, forse, spiega davvero il tema prescelto. Le gallerie, infatti, si presentano mescolate fra loro senza distinzione fra moderno e contemporaneo. Come la natura appare frammentata, ibrida, varia ma al contempo unitaria e compatta, così forse questa edizione intende raccontare il mondo dell’arte nella sua complessità. Le sezioni in dettaglio. Main Section e Solo Show A queste unità si è dedicato un comitato, equamente bilanciato fra entità dedite al moderno e al contemporaneo, composto da Laura Trisorio, Marco Niccoli, Massimo Di Carlo, Alessandra Bonomo, Roberto Pinto e Maria Grazia Messina. Fra collettive e solo exhibition le due sezioni mantengono continuità con la tradizione. Nueva Vista - novità Questa è la novità più tangibile dell’edizione 2017 di ARTEFIERA. Si tratta di una piccola sezione pilota pensata a cura di Simone Frangi, in termini puramente curatoriali, come uno spaccato finalizzato a riflettere sull’intricata e controversa relazione tra ricerca artistica e mercato, capace al contempo di produrre uno sguardo critico preciso, capace di percorrere trasversalmente provenienze generazionali e geografiche degli artisti e delle gallerie coinvolte. Nueva Vista è pensata, infatti, per mettere a fuoco il punto di equilibrio tra discorsività e vendibilità di ricerche artistiche emergenti, tra processo critico e formalizzazione, tra impegno progettuale nella sfera sociale e politica e sostenibilità. Special Projects - novità Altra nuova sezione curata da Chiara Vecchiarelli. Si tratta di un progetto dedicato alla performance, linguaggio finora trascurato nell’ambiente fieristico bolognese, che porta questa forma espressiva, non solo all’interno dei padiglioni ma anche al MAMbo e nei musei scientifici della città con una serie di artist lectures - opere in forma di conferenza, lezione e visita guidata - articolata in Time Specific Artist Lectures, dove il rapporto tra il contemporaneo e la storia dell’arte è declinato in un dialogo temporale tra le opere. Fotografia Questa sezione, già avviata nelle scorse edizioni, quest’anno è personalmente curata da Angela Vettese. L’intenzione progettuale della neo direttrice, tuttavia, mira ad intraprendere un esperimento finalizzato a mettere in luce il mondo indipendente della fotografia e dell’arte, nel tentativo di non tracciare un confine tra le discipline ma di trovare tra queste uno spazio di condivisione. Sotteso a tale agire è il pensiero che orienta lo sguardo alla fotografia, guidato dall’idea che nella storia più recente buona parte del dibattito provenga dagli spazi indipendenti e underground. Nel tentativo di trasformare questa posizione in un prodotto visibile con il quale il pubblico possa interagire, Arte Fiera ha scelto quattro momenti: Mostra Genda – The Body as Packaging, Genda è un progetto editoriale indipendente e curatoriale, è una rivista con una doppia redazione in Italia e in Cina ed è edito da A+Mbookstore. Raccoglie contributi di artisti cinesi e occidentali nella ricerca di produrre e verificare l’esistenza di un reciproco dialogo. Printville, è il bookshop che mostra le produzioni contemporanee italiane e straniere più attuali nel mondo dell’arte e della fo-
tografia, produzioni che provengono per la maggior parte da editori indipendenti, che, in genere, lavorano in piccoli team e con tirature di stampa che raggiungono al massimo i 500 esemplari. Il bookshop è curato da A+Mbookstore con Humboldt Books. Talks. Autori, curatori, editori, galleristi e collezionisti discutono la questione del progetto contemporaneo, ossia come le collaborazioni, le traduzioni e i linguaggi della produzione indipendente trovano spazio all’interno delle istituzioni e del mercato. Il programma di incontri è a cura di Stefano Graziani. Agenda Independents è una mostra che presenta le opere di Franco Ariaudo, Alessandro Calabrese, Stefano Canto, Feng Chen, Kenta Kobayashi, Giuseppe De Mattia, Pedro Hernandez, Joanna Piotrowska e Alberto Sinigaglia. Ideata e pensata per mappare una serie di esperienze riconosciute come fondamentali all’interno del panorama artistico contemporaneo, Agenda Indipendents nasce dall’incontro tra alcune gallerie italiane ed internazionali, accomunate da una stessa particolare sensibilità ed attenzione nei confronti della fotografia e dei suoi recenti sviluppi. Selezionate sulla base della qualità della loro ricerca, Capsule, Colli Independent, G/P Gallery, Madragoa, Materia, Metronom, Pedro Alfacinha e Viasaterna, da un lato rappresentano una vera e propria ricognizione per indagare le sempre più frequenti contaminazioni tra la fotografia e gli altri linguaggi dell’arte, dall’altro mirano a rendere prova della positiva frammentazione di uno scenario decisamente unico. Art City Bologna diventa Polis Immancabile Art City, il programma di mostre, eventi e iniziative culturali nato dalla collaborazione tra Comune di Bologna e BolognaFiere offre continue nuove opportunità di scoperta e conoscenza del patrimonio artistico diffuso attraverso la contaminazione con il contemporaneo. Tuttavia, anche Art City innova la propria formula per l’edizione 2017, intitolandosi Polis. Mostre ed eventi s’interrogano sui temi della convivenza, della nuova identità delle città italiane, della necessità di concepire, anche attraverso l’arte, una nuova sensibilità civica. Mostre: Genda – esposizione fotografica in collaborazione con il master in fotografia dell’università IUAV di Venezia. Viva l’Italia a cura di Mark Nash - Museo Civico Archeologico – Istituzione Bologna Musei. È una rassegna cinematografica che rivisita l’identità nazionale attraverso una serie di proiezioni di lungometraggi che affrontano i conflitti politici, sociali e personali con un approccio inedito. I film selezionati presentano e criticano in particolare mitologie in cui, in qualche modo, si manifesta l’“Italia”. Non l’Italia da unificare in fretta di Viva L’Italia di Roberto Rossellini (1961), ma l’Italia della fine degli anni ‘60 e dell’inizio degli anni ‘70 di Bertolucci, Pasolini e altri, quando gli eventi di Parigi del 1968 erano ancora molto attuali. Per consolidata tradizione, Bologna ha costruito nell’immaginazione e nelle realizzazioni che vanno verso nuove forme sociali, politiche (comunismo) o individuali (femminismo, psicanalisi, emancipazione di gay e lesbiche), questa selezione di opere cinematografiche, da considerarsi anche come una sorta di immaginario psichico della città. Special Projects: Time Specific Artist Lectures, Site Specific Artist Lectures a cura di Chiara Vecchiarelli, il cui programma si articola nei musei scientifici della città, al museo MAMbo e in fiera. Corpo Sensibile di giovani artisti italiani a cura di Marco Bertozzi. Negli spazi della Collezione Permanente del MAMbo un ciclo di otto presentazioni, declinate nel formato della proiezione accompagnata da talk, indaga le forme al confine fra video arte e cinema documentario. Una frontiera porosa, esplorata da giovani autori italiani nell’idea di film come performance, luogo in cui l’apparenza del reale si carica di lacerazioni e slittamenti autobiografici, sino a produrre sguardi originali, capaci di questionare l’apparenza realistica delle immagini. Gli artisti invitati sono Milo Adami (Roma, 1981), Virginia Eleuteri Serpieri (Roma, 1974), Luca Ferri (Bergamo, 1976), Riccardo Giacconi (Tolentino, 1985), Chiara Malta (Roma, 1977), Caterina Erika Shanta (Landstuhl, 1986), Cosimo Terlizzi (Bitonto, 1973), Danilo Torre (Catania,1978). Numerose altre iniziative saranno proposte dai musei cittadini e da soggetti privati quali l’Opificio Golinelli e il MAST. Art City White Night. La notte bianca dell’arte, come di consueto, con centinaia di iniziative. Il programma completo degli eventi è disponibile sul sito web di Artefiera. FEBBRAIO/MARZO 2017 | 261 segno - 7
ACCARDI ALVIANI ASDRUBALI BANALUMI CACCIOLA CASTELLANI CHIGGIO D'OORA DORAZIO JORI
LANDI MASSIRONI MAINOLFI MONDINO NUNZIO PIETROSANTI PINELLI PEZZI SAITO ZAZZERA
SANTO FICARA
ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA FIRENZE
VIA GHIBELLINA, 164r - 50122 FIRENZE TELEFONO 055.2340239 - FAX 055.2269190 www.santoficara.it e-mail: info@santoficara.it
>news istituzioni e gallerie< BOLOGNA
BOLOGNA
artisti emergenti. Argomento trainante del 2017 è l’equilibrio, erede simbolico del tema dell’edizione passata, ispirato al pensiero di Søren Kierkegaard: «Osare è perdere momentaneamente l’equilibrio, non osare è perdere se stessi», massima che coglie l’essenza del progetto secondo le organizzatrici Simona Gavioli e Alice Zannoni. Fra le novità: una sezione dedicata agli spazi no-profit, S.O.S SetUp Open Space, per progetti sperimentali che recepisce, nell’acronimo di Spazio Aperto, una richiesta di soccorso lanciata ai visionari del mondo dell’arte, pronti a mettersi alla prova con linguaggi ed espressioni rivoluzionari. Altra novità è Handover, piccola sezione sperimentale dedicata all’essenza dell’art-design, funzionalità che va oltre la destinazione d’uso, aprendosi alla polisemia. Di respiro internazionale il neonato progetto P(I)igs Can Fly a cura di Eleonora Battiston, in cui si sono riunite cinque realtà provenienti da Portogallo (Modulo–Centro Difusor de Arte), Grecia (Alma Gallery), Spagna (le gallerie Blanca Soto di Madrid e Artizar di Tenerife) e Irlanda (Imoca-Independent Museum of Contemporary Art). Torna il progetto Drawing the World di Mónica Álvarez Careaga, curatrice e direttrice di Drawing Room Madrid, che presenta quattro gallerie con quattro artisti provenienti da contesti culturali diversi Non mancano, infine i premi: il Premio SetUp, il Premio Tiziano Campolmi per la fotografia, il Premio Residenza Casa Falconieri e, infine, legato al format S.O.S il Premio Alviani ArtSpace.
stallazioni sulle trasformazioni in atto nel mondo del lavoro e della produzione realizzati da 14 artisti di fama internazionale: Yuri Ancarani, Gaëlle Boucand, Chen Chieh-jen, Willie Doherty, Harun Farocki / Antje Ehmann, Pieter Hugo, Ali Kazma, Eva Leitolf, Armin Linke, Gabriela Löffel, Ad Nuis, Julika Rudelius e Thomas Vroege. Il dialogo tra le opere è serrato, la rappresentazione visiva di uno scenario sociale ed economico in perenne fluttuazione è vivida. Lavoro in movimento comprende tutto, dall’attività artigianale del singolo individuo alla produzione di
MAST SetUp uinta edizione per l’indipendente bo- Lavoro in movimento lognese che, da quest’anno, è anche Q a Fondazione MAST presenta un pro- massa, dal lavoro umano a quello robotizFiera Internazionale e che anima gli spazi dell’autostazione, promuovendo il lavoro Lgetto espositivo interamente dedicato zato, dalla produzione di energia a quella di di gallerie giovani, gruppi indipendenti e all’immagine in movimento, con video e in- servizi high-tech, dallo sviluppo del prodotto alla contrattazione commerciale. Il curatore Urs Stahel spiega “Viviamo in tempi in cui la realtà è una dimensione in movimento, la percepiamo come un insieme di piani paralleli che si affiancano, si susseguono, si sovrappongono. La mostra ne traccia un resoconto visivo attraverso una selezione di video che si configurano come piccole galassie [...] L’intensità spesso toccante, la forza e la ricchezza di queste immagini in movimento restituiscono con forme, meccanismi narrativi e linguaggi visivi diversi, l’evoluzione del mondo del lavoro e della nostra vita.”. Fino al 17 aprile.
Yuri Ancarani, Il Capo, 2010, video, 15’, Collezione MAST, courtesy l’artista e Galleria ZERO, Milano Pieter Hugo, Permanent Error, 2010, Video installation with 10 monitors Collezione MAST, courtesy l’artista e Priska Pasquer Gallery, Colonia
Fruit Exhibition ncora una volta è Palazzo Re Enzo a ospitare la Fiera dedicata all’editoria A indipendente. Numerosi gli espositori e i
talk dedicati, ad esempio, alla funzione del disegno nel percorso dell’animazione, alle piattaforme della cultura visiva contemporanea, all’idea di libro come performance, al publishing stories, alle nuove strategie di produzione e distribuzione per il mercato editoriale e a molto altro ancora. Inoltre sono visitabili le mostre collegate alla fiera/festival. Alla Biblioteca Salaborsa c’è Yes Yes Yes - Alternative Press. European and American underground press from 1966 to 1977 uno spaccato che parte dalla produzione editoriale dei Provo olandesi e spazia sulle tante derivazioni controculturali, alternative, underground. Al Dynamo - Velostazione c’è You say Light, I Think Shadow. 109 prospettive raccolte e visualizzate da Sandra Praun e Aleksandra Stratimirovic, un racconto di luce e d’ombra, studio espressivo realizzato in forma di libro; infine Pssst Pssst di Chiara Camoni, visitabile alla Cappella Tremlett. Arricchiscono il programma: Immorefugee - The House, mostra a cura di Defrost Stu-
Ad Nuis, Oil & Paradise, 2013, video, 30’ circa, courtesy l’artista e Paradox
Chiara Camoni, Pssst Pssst, 2016
dio (Maria Ghetti, Marco Tiberio), l’Unseen Dummy Award Exhibition in collaborazione con Unseen Photo Fair & Festival (NL); Quilìlà, a cura di Pietro Corraini, Jonathan Pierini e Gerhard Glüher con gli studenti della Libera Università di Bolzano racconta come si traduce un luogo in un libro, un libro in un sito e viceversa; Non fate la guer-
ra che poi dobbiamo studiarla, installazione di Mikosoave, a cura di Anna Ferraro in collaborazione con Ilaria Lusetti e Cinzia Ascari, opera che vuol essere un momento dedicato al silenzio e alla riflessione. Fruit in sostanza, allarga il proprio raggio d’azione, intensificando i momenti espositivi e di riflessione critica. FEBBRAIO/MARZO 2017 | 261 segno - 9
Bruno Munari
BOLOGNA 27-30 . 01 2017
Pad. 25 - STAND B 85
Tano Festa | Mario Schifano | Franco Angeli | Pino Pascali | Alighiero Boetti | Bruno Munari | Horacio Garcia Rossi | Julio Le Parc | Alberto Biasi | Franco Costalonga | GianMarco Montesano | Piero Gilardi | Hermann Nitsch| Jiri Kolar | Ben Vautier | Giuseppe Chiari | Lamberto Pignotti |
Tel. 0586 752069
Via Marconi 1d, 57016 Castiglioncello â&#x20AC;&#x201C; Livorno Mob. 348 3337010 info@galleriagranelli.it www.galleriagranelli.it
Galleria Paola Verrengia ARTISTI: Michele Chiossi, Luigi Mainolfi, Kaori Miyayama, Maria Elisabetta Novello, Amparo Sard, Studio Azzurro, Nicholas Woods.
Padiglione 26 Stand B/62
Michele Chiossi, SUPER(GA) MERCURY (GO), 2014. Gesso ceramico, resina, bronzo dorato, marmo, 50x28x28cm
Galleria Paola Verrengia, Via Fieravecchia, 34 - 84121 Salerno tel e fax: 089 241925 | www.galleriaverrengia.it | galleriaverrengia@gmail.com
Pittura BL. G, 1993. Tecnica mista, disseminazione di 16 elementi, 85 x 85 cm (ciascuno).
Pino Pinelli. La pittura disseminata a cura di GIORGIO BONOMI
dal 4 febbraio al 1 aprile 2017
MUSEO MARCA Via Alessandro Turco, 63 88100 Catanzaro | Tel. 0039. 0961. 746797 Orari: 9.30 - 13.00 - 15.30 - 20.00 | www. museomarca.info | email:info@museomarca.com
ARCHIVIO PINO PINELLI Via Adeodato Ressi 7/A | T. 02 9924.3272 | www.pinopinelli.it | info@pinopinelli.it
>news istituzioni e gallerie< BARI
MILANO
PIACENZA
Per Art Open Air Sculture all’aperto, progetto realizzato nell’ambito del SAC (Sistema Ambientale Culturale) Mari tra le Mura, Perino & Vele hanno presentato a Mola di Bari, all’ex Monastero di Santa Chiara (sede dell’Academia di Belle Arti di Bari), un’opera site specific intitolata Màule.
La galleria A arte Invernizzi propone, fino al 6 febbraio, la collettiva Da vicino, a cura di Francesca Pola. In mostra opere di piccolo formato a creare una costellazione di linguaggi e visioni contemporanei. Gli artisti: Rodolfo Aricò, Francesco Candeloro, Nicola Carrino, Alan Charlton, Carlo Ciussi, Dadamaino, Riccardo De Marchi, Lesley Foxcroft, John McCracken, François Morellet, Mario Nigro, Pino Pinelli, Bruno Querci, Ulrich Rückriem, Nelio Sonego, Niele Toroni, Günter Umberg, Grazia Varisco. Fino al 6 febbraio.
Placentia Arte propone un progetto espositivo dal titolo Spero che questo trasloco sia l’ultimo. Fino al 5 marzo.
Perino & Vele
Da vicino
Simone Monsi
Simone Monsi, Spero che questo trasloco sia l’ultimo, courtesy Placentia Arte, Piacenza Giuseppe Penone, Equivalenze - Contatto 12 aprile 2016, 2016, metallo, acido, terracotta, cm.88x140x20, courtesy Archivio Penone
Perino & Vele, Màule, courtesy gli artisti Irma Blank, Trascrizione in Metrò, azione-action, Metropolitana di Milano, 1977, courtesy P420, Bologna
Da vicino, veduta dell’allestimento courtesy A arte Invernizzi, Milano Nicola Gobbetto, Hands up, Hands tied, dettaglio dell’allestimento, courtesy Davide Gallo, Milano
ROMA
Giuseppe Penone
La sede capitolina di Gagosian ospita la mostra Equivalenze di Giuseppe Penone. In mostra i più recenti esiti della ricerca plastica del maestro piemontese. Fino al 15 aprile.
Franco Mulas
BOLOGNA
Irma Blank
La Galleria P420 propone la mostra Life Line di Irma Blank. Fino al 18 marzo.
ICEcubes
Da Tasta-Boutique 10 artisti, 10 intellettuali, 20 polaroid,1 gelateria e 10 domande per l’arte contemporanea. È l’originale progetto a cura di Milena Becci e Ilaria Medda che vede coinvolti 10 artisti intervistati sul tema della consapevolezza del proprio agire e dove lo scatto di due polaroid diventa il segno tangibile del prima e dopo la conversazione. Karin Andersen, Filippo Berta, Paolo Bini, Giovanni Gaggia, Donatella Lombardo,Andrea Nacciarriti, Roberto Paci Dalò, Giuseppe Stampone, The Bounty Killart e Mona Lisa Tina ricevono, inoltre, una domanda a sorpresa da Claudia Attimonelli, Edoardo Bonaspetti, Martina Corniati, Pietro Gaglianò, Alberto Mattia Martini, Maria Letizia Paiato, Davide Quadrio, Stefano Raimondi, Eugenio Viola, Andrea Villani. Pierre-Etienne Morelle, Tenseness, 2016, materiali composity, courtesy Loom Gallery, Milano
Nicola Gobbetto
Alla galleria Davide Gallo, mostra personale dell’artista Nicola Gobbetto, dal titolo Hands up, Hands tied. In questo progetto l’artista ricostruisce, nello spazio della galleria, il cammino iniziatico che porta, o dovrebbe portare l’uomo dall’ignoranza al proprio risveglio spirituale. Fino al 4 marzo.
Italia 1920-1945
La Triennale di Milano e la Collezione Giuseppe Iannaccone presentano Italia 19201945. Una nuova figurazione e il racconto del sé, mostra a cura di Alberto Salvadori e Rischa Paterlini. In mostra opere di Rosai, De Pisis, Mafai, Raphaël, Guttuso, Ziveri, i Sei di Torino, i Chiaristi lombardi e il gruppo Corrente.
Pierre-Etienne Morelle
In una mostra dal titolo Tenseness (letteralmente “tensioni”), le opere di PierreEtienne Morelle si impaginano fra le sale della Loom Gallery per la prima esposizione in Italia del giovane artista francese, attualmente residente a Berlino, Tenseness affronta il tema, in prima istanza, della decostruzione stessa dello spazio che ospita il suo lavoro, ovvero la galleria intesa come contenitore o white cube dove si comprimo e si sprigionano forze fisiche e meccaniche, metaforicamente espressioni di una “conflittualità”. L’opera sitespecific trasmette in chi guarda un senso di equilibrio precario, poi una serie di opere più piccole a parete mettono a nudo due elementi essenziali e imprescindibili dell’opera, perlomeno quegli elementi che tutti diamo per scontati e ritenuti basilari a definire l’opera stessa, ossia la cornice e il vetro. Fino al 31 gennaio.
Bibliothè Contemporary Art presenta, per il 34° appuntamento della rassegna Unum, un’opera unica di Franco Mulas, a cura di Francesco Gallo Mazzeo. Fino al 10 febbraio.
Franco Mulas, Calendario, 2016 courtesy Bibliothè, Roma
Matteo Montani
L’Attico di Fabrio Sargentini propone Racconto Rosso, esosizione degli ultimi lavori di Matteo Montani: uno sposalizio, un incontro riuscito tra la pratica consolidata del suo lavoro pittorico e una nuova decisa gestualità che si esprime sulle sue tele. Matteo Montani, L’incontro, 2016, olio su carta abrasiva montata su tela, courtesy L’Attico di F.Sargentini, Roma
FEBBRAIO/MARZO 2017 | 261 segno - 13
>news istituzioni e gallerie< BASILEA
GINEVRA
La Galleria Henze & Ketterer & Triebold traccia la storia iconografica dello straordinario successo della natura morta nella mostra Flowers and Still Lifes. A sea of colours for the dark winter days. Partendo ovviamente dal primo Barocco (ma rintracciando i prodromi già negli affreschi pompeiani) il percorso espositivo conduce fino ai nostri giorni: da van Eyck, Campin e van der Weyden, passando per l’Ottocento e il primo Novecento di Kirchner, Nolde, Hofer, Monet, Cézanne e Van Gogh, arriviamo alle esperienze di Peter Hofmann, Daniel Spoerri, Dario Basso e Giuseppe Maraniello. Fino al 1 aprile.
Il Musée Barbier-Mueller dedica la mostra Arts of Cote d’Ivoire. Autour des Yohouré alla produzione di maschere del popolo Yaure, che ha incantato il mondo occidentale fin dai primi del ‘900, ma che è stato oggetto di approfondito studio antropologico solo di recente. Fino al 30 aprile.
Flowers and Still Lifes
Arts de la Cote d’Ivoire
HONOLULU
Biennale
BERLINO
Wilson / Lippard / Holder
Il KW Institute for Contemporary Art annuncia l’avvio di una ricca stagione espositiva, caratterizzata da un’estesa riflessione sul lavoro dell’artista sudafricano Ian Wilson. A una mostra direttamente a lui dedicata si affiancano il lavoro Flesh della norvegese Hanne Lippard, ispirato a Statements and Circle Works di Wilson (fino al 9 aprile), e il programma di performance, concerti, incontri e proiezioni dal titolo The Weekends, cui prendono parte Nils Bech, CAConrad, Guy de Cointet, Paul Elliman, Coco Fusco, Will Holder, Germaine Kruip, Hanne Lippard, Adam Pendleton, Michael Portnoy, Trisha Brown Dance Company e Miet Warlop. Fino al 14 maggio. Novità è la serie A Year With…, che in questa stagione inaugurale investiga, per tutto il 2017, l’opera del designer inglese Will Holder.
Dario Basso, Winterreise 10, 2010, acquerello su foto, cm.70x50, courtesy Henze & Ketterer & Triebold, Riehen/Basilea Ian Wilson, Circle on the floor, 1968, allestimento alla Galerie Mot & Van den Boogaard, Bruxelles, 1998, courtesy l’artista Galerie Mot & Van den Boogaard, Bruxelles
KASSEL/ATENE
Documenta 14
BILBAO
Abstract Expressionism
Il Guggenheim propone una ambiziosa selezione di opere di quegli artisti che, nella New York degli anni ’40, diedero all’arte astratta un impulso fenomenale. Abstract Expressionism, a cura di David Anfam ed Edith Devaney, presenta 140 opere di artisit come Jackson Pollock, Mark Rothko, Willem de Kooning, Robert Motherwell, David Smith e Clyfford Still. Fino al 4 giugno.
BONN
Gregor Schneider A brief History of Humankind
La stagione espositiva invernale alla Bundeskunsthalle poggia su due eventi: una personale di Gregor Schneider, dal titolo Wall Before Wall, in cui l’artista Leone d’Oro a Venezia nel 2001 con l’installazione Haus u r ha selezionato dipinti dei primi anni ‘80, una ricca documentazione degli inizi della carriera, l’opera Haus u r e i suoi lavori più recenti. Fino al 19 febbraio. A brief History of Humankind. 100.000 Years of Cultural History è una esposizione promossa dall’Israeli Museum di Gerusalemme per celebrare il cinquantesimo anni di attività. La mostra affianca manufatti archeologici risalenti anche ai Neanderthals e ai primi Homo Sapiens, in particolare 36 statue di divinità delle culture più varie, a creazioni contemporanee che si rifanno all’antichità, di Miroslaw Balka, Bruce Conner, Mark Dion, Douglas Gordon, Aernout Mik, Adrian Paci, Paul Pfeiffer, Charles Ray, Haim Steinbach, Mark Wallinger. Fino al 26 marzo. 14 - segno 261 | FEBBRAIO/MARZO 2017
Prima edizione per la Honolulu Biennale, esperienza che mira a diventare punto di riferimento per tutta l’area pacifica, concentrandosi sulle produzioni artistiche dall’Asia e dalle americhe. La direzione è affidata a Fumio Nanjo, del Mori Art Museum di Tokyo, la curatela a Ngahiraka Mason. Partecipano artisti come Binkley, Broderick, Chang Mi, Connelly, Glow, Graham, Jeong Hwa, Kazem, Kihara, Kusama, Laguenro, Les Filter Feeders, Pardington, Reihana, Ritson, Schwengel-Regala, Vea, Yamamoto, K. and J. Yonetani. Titolo prescelto Middle of Now | Here, dall’8 marzo all’8 maggio.
Abstract Expressionism, locandina
EINDHOVEN
Collettiva
Per i suoi primi sessant’anni Documenta si regala per la prima volta una trasferta, svolgendosi in parte a Kassel, in parte ad Atene. Tra l’8 aprile e il 16 luglio 2017, è infatti nella capitale greca che questa edizione numero 14 prende il via, mentre Kassel subentra (sovrapponendosi parzialmente) tra il 10 giugno e il 17 settembre. Il titolo prescelto dal curatore e direttore artistico Adam Szymczyk è Learning from Athens, mentre il programma di avvicinamento, partito nel settembre scorso, è fittissimo, con appuntamenti a Kassel e Atene quasi quotidiani. Da Parliament of Bodies, animato all’Athens Municipality Arts Center nel Parko Eleftherias inizialmente dai 34 Exercises of Freedom e ora giunto all’appuntamento con Century’s Container, messaggio sul presente del mondo islamico dell’artista Naeem Mohaiemen; al programma di proiezioni Keimena (di cui sono attualmente in programma gli appuntamenti con Verziò di Miklòs Erdély e con Voilà l’Enchainement di Claire Denis); a incontri come The Apatride Society of the Political Others: Piraeus Port as Entry Point of Global Capitalism, con Sandro Mezzadra, Brett Neilson e Pavlos Hatzopoulos. Maryam Jafri, Mouthfeel, 2014, still da video, courtesy l’artista e Laveronica arte contemporanea, Modica (rg)
Al Vanabbe Museum Position #3, dialogo tra i 4 artisti Rossella Biscotti, Duncan Campbell, Maryam Jafri e Natasja Kensmil, sulle differenze di approccio alla narrazione, i cui esiti costituiscono il punto di intersezione tra antropologia culturale e pratica concettuale. Fino al 5 marzo. Documenta, Century’s Container,Cargonauts, Creative Commons Licence 4.0, 2015
>news istituzioni e gallerie< LIGORNETTO
Katja Snozzi
Il Museo Vincenzo Vela presenta l’esposizione La bambinaia di Rita Hayworth, il più recente progetto di Katja Snozzi, fotografa nota soprattutto per i reportage di guerra ed etnografici, dedicato a donne e uomini centenari residenti nelle varie regioni linguistiche della Svizzera, ritratti nelle loro dimore o in case di cura. Gli scatti, resi con accurati giochi di luce, esaltano espressività e vitalità, immergendoci in una realtà emotivamente carica di senso, evocativa di un passato che si palesa ancora in tarda età, nell’intimo dialogo con l’artista e la sua macchina fotografica.
Katja Snozzi, Furceri Lucrezia, 107, Chiasso, courtesy l’artista Éder Oliveira
LINGEN
Éder Oliveira
Il Lingener Kunstpreis 2016, giunto alla sua 22a edizione, è stato assegnato a Éder Oliveira. Il pittore brasiliano succede a nomi del calibro di Karin Kneffel (1994), Antje Majewski (1998), Cornelius Popoli (2004), Julia Oschatz (2008) e Birgit Megerle (2010), Marieta Chirulescu (2014). La mostra delle opere in concorso, dal titolo Malerei - oder die Fotografie als Gewalt (Pittura - o la fotografia come violenza) è visitabile alla Kunsthalle Lingen fino al 26 febbraio.
Kuzma Petrov-Vodkin, Fantasy, 1925, courtesy Museo di Stato russo, San Pietroburgo
Russian Revolution
Nell’anno del centenario della rivoluzione di ottobre, la Royal Academy of Arts presenta Revolution: Russian Art 1917 - 1932. L’esposizione focalizza lo sguardo sul periodo che intercorre tra l’atto rivoluzionario e il 1932, anno in cui Stalin avvia la sua violenta soppressione delle avanguardie in favore del Realismo Socialista. In mostra oltre 200 opere (foto, dipinti, sculture, film, poster e porcellane) di artisti che si sono trovati su entrambi sui fronti contrapposti: da un lato personalità come Chagall, Kandinsky, Malevich e Tatlin, dall’altro Brodsky, Deineka, Mukhina e Samokhvalov. I prestiti più consistenti vengono dalle collezioni del Museo di Stato russo, San Pietroburgo, e dalla Galleria Tret’jakov, Mosca, ma anche numerose collezioni private da tutto il mondo. Dall’11 febbraio al 17 aprile.
Tim Noble/Sue Webster Amy Feldman
Blain|Southern presenta un nuovo corpus di sculture di Tim Noble e Sue Webster. L’esposizione, dal titolo Sticks With Dicks And Slits, basato su coppie di autoritratti creati con bronzo attorcigliato, pratica che evidenzia l’interazione tra le figure e lo sfondo. Fino al 25 marzo. Nei suoi spazi berlinesi, la galleria propone la prima personale tedesca di Amy Feldman. L’artista, che vive e lavora a New York, presenta un gruppo di nuovi dipinti, viva conversazione tra il linguaggio fisico e formale della pittura astratta. Fino all’8 aprile.
LUGANO
Louise Nevelson Gianfranco Pardi
La Cortesi Gallery propone la mostra Louise Nevelson. Assemblages e Collages, selezione di ventinove opere realizzate tra il 1960 e il 1980, organizzata in collaborazione con la Fondazione Marconi e curata da Bruno Corà. In questo frammento della sua ricerca è possibile rintracciare l’interesse per il Cubismo e l’attenzione per i piani prospettici, il cromatismo, la spontaneità di esecuzione e l’equilibrio della composizione. Dal 16 febbraio al 7 aprile. La galleria presenta, nel suo spazio londinese, Gianfranco Pardi. Works 1968 – 1988, selezione di lavori che costituisce la prima personale a lui dedicata nel Regno Unito. L’esposizione spazia da lavori del 1968 a opere degli anni Ottanta e va ad approfondire il discorso sul lavoro dell’artista dopo la mostra Gianfranco Pardi. Opere 1968–1982. Architetture, Poeticamente, curata da Bruno Corà e presentata nella sede di Lugano di Cortesi nel 2016. Fino all’11 marzo.
MONACO DI BAVIERA
Postwar
Allo Stiftung Haus der Kunst GmbH, la mostra Postwar: art Between the Pacific and the Atlantic, 1945-1965 esamina il turbolento ventennio successivo alla fine dell seconda guerra mondiale. I curatori Okwui Enwezor, Ulrich Wilmes e Katy Siegel hanno approntato un percorso suddiviso in 8 capitoli, dal trauma dell’Olocausto alle cicatrici delle atomiche sganciate sul Giappone, dai blocchi della Guerra fredda ai flussi migratori che hanno creato contesti internazionali del tutto nuovi. 350 le opere, 218 artisti da 65 paesi. Fino al 26 maggio.
MOSCA
Russian Art Triennial
LONDRA
Tate Modern
Tre grandi esposizioni in corso alla Tate Modern: nelle Eyal Ofer Galleries la grande retrospettiva dedicata a Robert Rauschenberg, viaggio attraverso sei decenni di pricerca artistica che spazia da dipinti, sculture, stampe, fotografie, design e tecnologia fino alla danza e alla performance. Fino al 2 aprile. The Radical Eye: Modernist Photography from the Sir Elton John Collection, esposizione di una delle collezioni private di fotografie più importanti al mondo. 200 scatti realizzati tra gli anni ’20 e ’50 da oltre 60 artisti tra cui Berenice Abbott, André Kertész, Man Ray, Alexandr Rodchenko ed Edward Steichen. Fino al 7 maggio. Nell’ambito della Hyundai Commission, lo spazio della Turbine Hall è trasformato in una esperienza immersiva da Philippe Parreno, grazie all’installazione site specific Anywhen, che evolve costantemente per tutti i sei mesi di durata dell’esposizione. Fino al 2 aprile.
Gianfranco Pardi, Architettura, 1973, alluminio, acrilico e cavi d’acciaio, cm.110×200×18, courtesy Cortesi Gallery, Lugano/Londra
Tim Noble e Sue Webster, Standing (A Lovely Pair), 2017, bronzo, courtesy gli artisti e Blain|Southern, Londra/Berlino, foto Peter Mallet Kate Fowle, foto Garage Museum, Mosca
Promossa dal Garage Museum e diretta dal suo capocuratore Kate Fowle, nasce la Russian Art Triennial. La concomitanza con il centenario della Rivoluzione d’Ottobre non è casuale, data la volontà di costituire un’esperienza rivoluzionaria per la scena artistica russa. Gli artisti selezionati provengono da tutte le nove regioni del paese e le loro opere sono tutte state prodotte negli ultimi 5 anni, prendendo il 2012 (con le sue contestatissime elezioni presidenziali) come punto nodale per la sotria russa contemporanea. Dal 14 marzo al 10 maggio. Philippe Parreno, Anywhen, courtesy Tate Modern, Londra, foto Tate Photography
FEBBRAIO/MARZO 2017 | 261 segno - 15
Contemporary Art Fair
21 â&#x20AC;&#x201D; 23 April 2017 Tour & Taxis
Main partner
>news istituzioni e gallerie< Whitney Biennial 2017 Wangechi Mutu Alla Gladstone Gallery Ndoro Na Miti, Dreamlands personale di Wangechi Mutu. Il titolo
Una mostra dalla cadenza decennale, nata nel 1977 in seno al Westfälisches Landesmuseum, non può che essere un evento molto atteso. Skulptur Projekte 2017 si avvale (come sempre finora) della curatela di Kasper König e marca un netta svolta verso l’approccio performativo alla scultura, interesse dovuto da un lato alla pratica di molti artisti di oggi, da un altro alla graduale dissoluzione del corpo fisico in un mondo sempre più dominato dalla sfera digitale e virtuale. Tra gli ospiti Ei Arakawa, Ayse Erkmen, Rebecca Horn, Claes Oldenburg, Bruce Nauman, Peles Empire (Barbara Wolff e Katharina Stöver), Alexandra Pirici, Michael Smith, Rosemarie Trockel, Xavier le Roy, Aram Bartholl, Gregor Schneider. Dal 10 giugno al 1 ottobre.
Sono 63 gli artisti selezionati per la Whitney Biennial 2017, edizione che ruota tematicamente intorno alla formazione della coscienza individuale e del come trovare la propria dimensione in una società turbolenta. La kermesse, ideata nel ‘32 da Gertrude Vanderbilt Whitney, apre per la prima volta i battenti nella nuova sede nel Meatpacking District, realizzata da Renzo Piano. Curatela di Christopher Y. Lew e Mia Locks, dal 17 marzo all’11 giugno. Il Whitney Museum ospita inoltre, fino al 5 febbraio, la collettiva Dreamlands: Immersive Cinema and Art 1905-2016, a cura di Chrissie Iles, cui prendono parte gli artisti Trisha Baga, Ivana Bašic, Frances Bodomo, Dora Budor, Ian Cheng, Bruce Conner, Ben Coonley, Joseph Cornell, Andrea Crespo, François Curlet, Alex Da Corte, Oskar Fischinger, Liam Gillick, Dominique Gonzalez-Foerster, Pierre Huyghe, Alex Israel, Mehdi Belhaj Kacem and Pierre Joseph, Aidan Koch, Lynn Hershman Leeson, Anthony McCall, Josiah McElheny, Syd Mead, Lorna Mills, Jayson Musson, Melik Ohanian, Philippe Parreno, Jenny Perlin, Mathias Poledna, Edwin S. Porter, Oskar Schlemmer, Hito Steyerl, Rirkrit Tiravanija, Stan VanDerBeek, Artie Vierkant e Jud Yalkut.
NEW YORK
Magazzino of Italian Art
Peles Empire, Projektskizze für Skulptur Projekte, 2017, modello 3d, courtesy gli artisti
MÜNSTER
Skulptur Projekte
MoMA
Proseguono le importanti mostre inaugurate nella stagione autunnale. Our Heads Are Round so Our Thoughts Can Change Direction è dedicata a Francis Picabia e occupa le gallerie al sesto piano del museo fino al 19 marzo. A Revolutionary Impulse: The Rise of the Russian Avant-Garde, 300 lavori della collezione permanente tracciano il percorso delle avanguardie russe tra il 1912 e il 1934. Opere di Alexandra Exter, Natalia Goncharova, El Lissitzky, Kazimir Malevich, Vladimir Mayakovsky, Lyubov Popova, Alexandr Rodchenko, Olga Rozanova, Vladimir e Georgii Stenberg, Dziga Vertov. Fino al 12 marzo. The Shape of Things: Photographs from Robert B. Menschel, mostra che copre 150 anni di storia della fotografia, dalla veduta di Parigi del 1843, di William Henry Fox Talbot, alle foto dei militari USA in preparazione per le guerre in Iraq e Afghanistan di An-My Lê. Fino al 7 maggio. One and One Is Four, sulla centralità nell’arte del ventesimo secolo di Josef Albers, a cavallo tra la pratica artistica e l’insegnamento al Bauhaus, Black Mountain College, e alla Yale University. Fino al 2 aprile. Agli interni tra gli anni ’20 e ’50 è dedicata How Should We Live? Propositions for the Modern Interior, mostra che include materiali di Lilly Reich, Mies van der Rohe, Grete Lihotzky, Ernst May, Eileen Gray, Jean Badovici, Aino, Alvar Aalto, Charles e Ray Eames, Florence Knoll, Herbert Matter, Charlotte Perriand, Le Corbusier. Fino al 23 aprile. In specifici spazi, interventi di Nan Goldin, Tony Oursler e Teiji Furuhashi, Fino al 16 aprile. Al MoMA PS1, prima ricognizione sull’opera di Mark Leckey negli Stati Uniti, nonché la più grande dedicata finora all’artista britannico, figura di spicco nella generazione che ha vissuto la transizione dalla cultura analogica a quella digitale. Fino al 5 marzo.
Nancy Olnick e Giorgio Spanu annunciano l’apertura di Magazzino of Italian Art, il primo spazio espositivo dedicato all’arte italiana del dopoguerra e contemporanea negli Stati Uniti. Situato a Cold Spring, sulle rive del fiume Hudson, questo spazio di 1850 metri quadrati, la cui direzione è affidata a Vittorio Calabrese, oltre a progetti di ricerca ed eventi culturali, ospitera una selezione di opere appartenenti alla Collezione Olnick Spanu, di artisti come Anselmo, Boetti, Calzolari, Fabro, Kounellis, Mario Merz, Marisa Merz, Paolini, Penone, Pistoletto e Zorio.
richiama in gikuyu (lingua bantu dell’Africa Orientale) le parole terra e albero, materiali d’elezione dell’artista keniana, che anima la galleria con la sua personale cosmogonia, spaziando dal microscopico al trascendente e presentando, eccezionalmente, de fusioni in bronzo che si confrontano direttamente con la dimensione del mitico.
Wangechi Mutu, Ndoro Na Miti, courtesy Gladstone Gallery, New York Magazzino of Italian Art
The Ends Of Collage
Luxembourg & Dayan propone The Ends of Collage, esposizione che impegna entrambi gli spazi espositivi della galleria, quello newyorkese e quello londinese. La mostra copre un arco temporale di oltre un secolo, dai primi esperimenti novecenteschi, fino all’alba del digitale e oltre. Opere di Arp, Baldessari, Breton, Duchamp, Ernst, Flood, Goldstein, Hamilton, Kelly, Krasner, Lawler, Magritte, Picasso, Polke, Price, Prince, Rauschenberg, Schwitters, Stezaker.
MADRID
Arco
Si avvicina l’appuntamento con ARCOmadrid, per una edizione che si annuncia caratterizzata in maniera decisa dai progetti individuali o dai dialoghi tra artisti, ben 20 in totale. Tra i protagonisti di tali esperienze troviamo Anna Oppermann, Edgardo Antonio Vigo, Ignasi Aballí, José María Sicilia, Lia Perjovschi, Philippe Van Snick. Il programma chiave, all’interno di questa cornice, è quello della nuovissima sezione Dialogues, animata da artisti come Analia Saban, Ariel Schlesinger, Diango Hernández, Julio Le Parc, Robert Breer, Tomás Saraceno. La fiera, che si svolge dal 22 al 26 febbraio, rinnova il legame con Solán de Cabras, main sponsor collaudato e lancia la nuova edizione del Solán de Cabras Award, preIl progetto vincitore della sala VIP di ARCO Madrid di Loreto Ramón-Solans, Eugenio Ampudia e José María Civit.
L’opera di Danh Vo, We The People (particolare, 2011-2014) acquisita dalla Fondazione Arco. courtesy Galerie Chantal Crousel.
mio mirato a promuovere l’arte giovane, essendo rivolto ad artisti tra i 18 e i 35 anni, rappresentati da una delle gallerie presenti. Torna inoltre, come parte integrante del programma ufficiale, l’appuntamento con le GalleryWalk, grazie a cui, tra il 2 e il 6 di febbraio, si accompagnano i visitatori ad apprezzare l’alta qualità delle proposte espositive delle gallerie madrilene. Come lo scorso anno, la rivista AD e ARCO hanno convocato un concorso per idee per la realizzazione della sala VIP della fiera. Il progetto vincitore è risultato quello di Loreto Ramón-Solans, Eugenio Ampudia e José María Civit. FEBBRAIO/MARZO 2017 | 261 segno - 17
>news istituzioni e gallerie< NEWARK
William Kentridge
Anticipando la risistemazione della collezione Arts of Global Africa, il Newark Museum presenta l’ultima acquisizione, la video installazione di William Kentridge What Will Come (2007). Il titolo trae origine da un proverbio ghanese che recita “Ciò che verrà, è già stato”, riferimento alla ciclicità della natura e della storia dell’umanità. L’ispirazione nasce ripensando all’invasione italiana dell’Etiopia nel 1935, durante la quale persero la vita circa 275.000 etiopi, molti dei quali (soprattutto civili) per mezzo di gas nervini (fatto negato dai governi italiani per ben 60 anni). Il filmato è prodotto disegnando e cancellando di continuo su un foglio di carta, cucendo poi le immagini dei singoli passaggi; ne risultano figure evanescenti, amorfe, attraverso cui l’artista invita a riflettere sulla relatività della percezione e sulla distorsione delle verità del passato: aerei da combattimento, maschere a gas, luci tremolanti, accompagnate da stridii di bombe, canti militari italiani e voci di bambini che giocano. Fino a maggio.
NUOVA DEHLI
Horizon
L’Instituto Cervantes propone la collettiva Horizon: Against Nature, curata da Vaibhav Raj Shah, Finlay Taylor e Jasone Miranda-Bilbao, con opere di Orlow, Nankervis and Kupferberg, Kulkarni, Sala, Waqif, Evans and Hamilton ‘All Horizons Club’, Aguilar Ruvalcaba, Vernekar, Torres Ayastuy, Deller, Swaroop, Jimenez Santil, Marshall, Sen, Hagen, Nayar, Dutta, Shimabuku, Woolham, Mallik, Superflex, Saraf, Han Chen, Kelton, The Beauty Inspector, Dhanurdharan. Fino al 20 febbraio.
PARIGI
Centre Pompidou
Alighiero Boetti
Tornabuoni Art apre un nuovo spazio nel Marais e si trasferisce al Passage de Retz, 9 rue Charlot. La nuova sede inaugura il 2 febbraio con una retrospettiva dedicata ad Alighiero Boetti.
PRAGA
Spazio di incontri
L’Istituto Italiano di Cultura promuove, su iniziativa di Magdalena Kracík Štorkánová, il progetto dell’associazione Art a craft Mozaika z.s., Spazio di incontri, che documenta nel corso di un anno l’evoluzione dei percorsi di ricerca di diverse personalità artistiche europee: Magdalena Kracík Štorkánová (Repubblica Ceca), mosaico; Orodé Deoro (Italia), scultura e performance; Anita Bartos (Austria), collage; Lea Stefan Ruppert (Austria), improvvisazioni e Stephen Filípek (Repubblica Ceca), musica. Primo incontro il 17 gennaio, nella Galleria dei cristalli cechi di Praga, il secondo è in programma il 3 marzo nei locali del Museo della città di Ústí nad Labem.
Molto variegato il programma espositivo del Pompidou, a partire dalle occasioni già in corso come la monografica di Jean-Luc Moulène, fino al 20 febbraio; la retrospettiva completa dedicata all’opera di Cy Twombly, 140 tra dipinti, sculture, disegni e fotografie, fino al 24 aprile. Tra le novità, la celebrazione del centenario della Fountain di Marcel Duchamp, con l’esposizione The Fountain Archives di Saâdane Afif. Alle innumerevoli riproduzioni editoriali del ready-made duchampiano, tutte incorniciate, si affiancano le fonti (libri, riviste, manuali) da cui quelle immagini sono stratte, in un confronto che arricchisce sia la pagina strappata, sia la rivista “amputata”. Fino al 30 aprile.
Jeu De Paume
Tre esposizioni nell’istituzione parigina. Al fotografo e regista di origine rumene Eli Lotar è dedicata la retrospettiva Eli Lotar (1905-1969), coproduzione con il Centre Pompidou, che copre l’intera carriera di una figura il cui lavoro è testamento all’audacia e all’attivismo socio-politico nel periodo tra le due grandi guerre. Video ergo sum, focus su Peter Campus, pioniere della video arte, che propone accanto a video e installazioni degli anni ‘70, la sua ultima produzione, in cui grazie a una fotocamera digitale ad altissima risoluzione, lavora sull’immagine un pixel alla volta, su scala microscopica. Progetto sviluppato filmando svariate gallerie museali vuote per tutta Parigi, Somninculus di Ali Cherri articola la tensione tra gli oggetti inanimati e la vita che ruota intorno ad essi. Dal 14 febbraio al 28 maggio. 18 - segno 261 | FEBBRAIO/MARZO 2017
Saâdane Afif, The Fountain Archives, dettaglio, courtesy l’artista e Centre Pompidou, Parigi
William Kentridge, What Will Come, 2007, film in 35 mm riversato in DVD, 8’ in loop, courtesy Newark Museum
PUNE
Habit-co-Habit
Il titolo del più recente progetto della Pune Biennale Foundation suggerisce una riflessione sulle pratiche abitative, ma anche più profondamente sulle politiche della coabitazione, dell’occupazione di spazi condivisi in una situazione socio-economica e demografica del tutto peculiare e quindi, per estensione, sui fenomeni migratori e di assimilazione culturale. Moltissimi gli artisti indiani, tra le presenze internazionali: Marco Gualazzini, Marinella Senatore, Adam e Katarzyna Lach, Matic Zorman, Ricardo Fonseca, Minou Tsambika Polleros. A cura di Zasha Colah e Luca Cerizza, fino al 29 gennaio.
WILMINGTON
Due South
The Delaware Contemporary propone, con la curatela di Marianne Bernstein, una collettiva dal titolo Due South, che disegna una mappa della scena artistica siciliana. 30 gli artisti presenti, tra italiani e statunitensi: Gabriele Abbruzzese, Federico Baronello, Letizia Battaglia, Giuseppe Buzzotta, Glauco Canalis, Gabriella Ciancimino, Massimo Cristaldi, Flavio Favelli, Benoit Felici, Alice Guareschi, Carlo & Fabio Ingrassia, Filippo Leonardi, Cristina La Rocca, Loredana Longo, Liliana Moro, Ignazio Mortellaro, Francesco Nonino, Marinella Senatore, Massimo Vitali, Marianne Bernstein, Cindi Ettinger, John Broderick Heron, Andrea Hornick, Jane Irish, Kelsey Halliday Johnson, Isaac Julien, David Scott Kessler, Zya Levy, Matthew Mazzotta & Sujin Lim, Andrea Modica, Petra Noordkamp, Serena Perrone, Alex Tyson, Lisa Wade, Midge Wattles, Steven Earl Weber. Fino al 30 aprile. Ali Cherri, Somniculus, 2017, courtesy l’artista
ARCO madrid
FERIA INTERNACIONAL DE ARTE CONTEMPORÁNEO
INTERNATIONAL CONTEMPORARY ART FAIR 22—26 FEB 2017
• 3+1 ARTE CONTEMPORÂNEA Lisbon • 80M2 LIVIA BENAVIDES Lima • ADN Barcelona • AGUSTINA FERREYRA San • ALARCÓN CRIADO Seville • ALDO DE SOUSA Buenos Aires • ALEJANDRA VON HARTZ Miami • ALEXANDER AND BONIN New York • ALLEN Paris • ÁLVARO ALCÁZAR Madrid • ÀNGELS BARCELONA Barcelona • ANHAVA Helsinki • ANITA BECKERS Frankfurt • ANITA SCHWARTZ Río de Janeiro • ANNEX14 Zurich • ARCADE London • ARREDONDO \ AROZARENA Mexico City • ARRÓNIZ Mexico City • ART BÄRTSCHI & CIE Zurich • AURAL Alicante • BACELOS Vigo • BAGINSKI Lisbon • BARBARA GROSS Munich • BARBARA THUMM Berlin • BARBARA WIEN Berlin • BÄRBEL GRÄSSLIN Frankfurt • BARÓ Sao Paulo • BARRO Buenos Aires • BENDANA I PINEL Paris • BO BJERGGAARD Copenhagen • CARLES TACHÉ Barcelona • CARLIER | GEBAUER Berlin • CARRERAS MUGICA Bilbao • CASA SIN FIN Madrid • CASA TRIÂNGULO Sao Paulo • CASADO SANTAPAU Madrid • CASAS RIEGNER Bogota • CAVALO Rio de Janeiro • CAYÓN Madrid • CHANTAL CROUSEL Paris • CHRISTOPHER GRIMES Santa Monica • CINNNAMON Rotterdam • COSMOCOSA Buenos Aires • CRÈVECOEUR Paris • CRISTINA GUERRA Lisbon • CRONE Berlin • DAN Sao Paulo • DAN GUNN Berlin • DANIEL FARIA Toronto • DEL INFINITO Buenos Aires • DENISE RENÉ Paris • DEWEER Otegem • DIABLO ROSSO Panama City • DOCUMENT ART Buenos Aires • DROP CITY Newcastle • DVIR Tel Aviv • EL APARTAMENTO La Habana • ELBA BENÍTEZ Madrid • ELLEN DE BRUIJNE Amsterdam • ELVIRA GONZÁLEZ Madrid • ENRICO ASTUNI Bologna • ESPACIO MÍNIMO Madrid • ESPACIO VALVERDE Madrid • ESPAI TACTEL Valencia • ESPAIVISOR Valencia • ESTHER SCHIPPER Berlin • ESTRANY–DE LA MOTA Barcelona • ETHALL Barcelona • F2 GALERÍA Madrid • FERNÁNDEZ–BRASO Madrid • FILOMENA SOARES Lisbon • FORMATOCOMODO Madrid • FORSBLOM Helsinki • FORTES VILAÇA Sao Paulo • GALERÍA ALEGRÍA Madrid • GANDY Bratislava • GARCÍA GALERÍA Madrid • GB AGENCY Paris • GIORGIO PERSANO Turin • GRAÇA BRANDÃO Lisbon • GUILLERMO DE OSMA Madrid • HEINRICH EHRHARDT Madrid • HELGA DE ALVEAR Madrid • HENRIQUE FARIA Buenos Aires • HORRACH MOYA Palma de Mallorca • IGNACIO LIPRANDI Buenos Aires • ISABEL ANINAT Santiago de Chile • ISABELLA CZARNOWSKA Berlin • ISLA FLOTANTE Buenos Aires • IVAN Bucharest • JABLONKA MARUANI MERCIER Brussels • JAN MOT Brussels • JAQUELINE MARTINS Sao Paulo • JAVIER LÓPEZ & FER FRANCÉS Madrid • JÉRÔME POGGI Paris • JOAN PRATS Barcelona • JOCELYN WOLFF Paris • JOEY RAMONE Rotterdam • JORGE MARA-LA RUCHE Buenos Aires • JOSÉ DE LA MANO Madrid • JOSÉDELAFUENTE Santander • JUAN SILIÓ Santander • JUANA DE AIZPURU Madrid • KEWENIG Berlin • KLEMM'S Berlin • KOW Berlin • KRINZINGER Vienna • KROBATH WIEN I BERLIN Vienna • KUBIK Oporto • KUCKEI + KUCKEI Berlin • L21 Palma de Mallorca • LA CAJA NEGRA Madrid • LABOR Mexico City • LEANDRO NAVARRO Madrid • LELONG Paris • LEME Sao Paulo • LEON TOVAR New York • LEYENDECKER Santa Cruz de Tenerife • LISSON London • LUCÍA DE LA PUENTE Lima • LUCIANA BRITO Sao Paulo • LUIS ADELANTADO Valencia • LUIS CAMPAÑA Berlin • MADRAGOA Lisbon • MAI36 Zurich • MAISTERRAVALBUENA Madrid • MAMA GALLERY Los Angeles • MARC DOMÈNECH Barcelona • MARC STRAUS New York • MARÍA CALCATERRA Buenos Aires • MARILIA RAZUK Sao Paulo • MARIO SEQUEIRA Braga • MARLBOROUGH Madrid • MARTA CERVERA Madrid • MAX ESTRELLA Madrid • MAYORAL Barcelona • MEESSEN DE CLERCQ Brussels • MENDES WOOD DM Sao Paulo • MICHEL REIN Paris • MICHEL SOSKINE INC Madrid • MIGUEL MARCOS Barcelona • MITE Buenos Aires • MOISÉS PÉREZ DE ALBÉNIZ Madrid • MOR CHARPENTIER Paris • MÚRIAS CENTENO Lisbon • NÄCHST ST. STEPHAN ROSEMARIE SCHWARZWÄLDER Vienna • NADJA VILENNE Liege • NARA ROESLER Sao Paulo • NATHALIE OBADIA Paris • NF/NIEVES FERNÁNDEZ Madrid • NOGUERAS BLANCHARD Madrid • NORA FISCH Buenos Aires • NUEVEOCHENTA Bogota • P420 Bologna • P74 Ljubljana • PARRA & ROMERO Madrid • PEDRO ALFACINHA Lisbon • PEDRO CERA Lisbon • PELAIRES Palma de Mallorca • PETER KILCHMANN Zurich • PILAR SERRA Madrid • PLAN B Cluj • PM8 Vigo • POLÍGRAFA OBRA GRÁFICA Barcelona • PONCE + ROBLES Madrid • PROJECTESD Barcelona • PROMETEOGALLERY DI IDA PISANI Milan • PROYECTOS ULTRAVIOLETA Guatemala City • PSM Berlin • QUADRADO AZUL Oporto • RAFAEL ORTIZ Seville • RAFAEL PÉREZ HERNANDO Madrid • RAQUEL ARNAUD Sao Paulo • REVOLVER Lima • RICHARD SALTOUN London • ROCIOSANTACRUZ Barcelona • ROLF ART Buenos Aires • ROSA SANTOS Valencia • RUTH BENZACAR Buenos Aires • SABOT Cluj • SABRINA AMRANI Madrid • SAMY ABRAHAM Paris • SENDA Barcelona • SLYZMUD Buenos Aires • SPRÜTH MAGERS • STUDIO TRISORIO Naples • SUPPORTICO LOPEZ Berlin • T20 Murcia • TAIK PERSONS Helsinki • TANYA BONAKDAR New York • TATJANA PIETERS Ghent • TEAM New York • THE GOMA Madrid • THOMAS SCHULTE Berlin • TIM VAN LAERE Antwerp • TRAVESÍA CUATRO Madrid • VASARI Buenos Aires • VERA CORTÉS Lisbon • VERMELHO Sao Paulo • ZAK BRANICKA Berlin Juan
• GENERAL PROGRAMME • OPENING
• DIALOGUES
• ArgentinaPlataformaARCO
Updated 14/10/2016
MADRID
Accademia Nazionale di San Luca
ROMA-PARIGI. ACCADEMIE A CONFRONTO L’Accademia di San Luca e gli artisti francesi di Rossella Martino
L’
11 febbraio 1666 Jean-Baptiste Colbert, già fondatore, insieme al pittore Charles Le Brun e altri, della Académie Royale de peinture et de sculpture nel 1648 e vice protecteur della stessa quale carica ereditata con la morte del cardinale Mazzarino nel 1661, firmava gli Statuts e reglements… dando vita alla nuova Académie de France à Rome, “figlia dell’amore e di un sogno di bellezza” che bene andava ad inserirsi in un fertile programma culturale promosso dal re Louis XIV e che vide nella città di Parigi la apertura della Académie française nel 1635, dell’Académie de danse nel 1661, dell’Académie de musique nel 1669 e dell’Académie Royale d’architecture nel 1671, quest’ultima, poi trasformata a partire dal 1816 nella Académie de beaux-arts dell’Institut de France in unione alla Académie Royale de peinture et de sculpture e alla Académie de musique. La Académie de France à Rome, in questa fase sistemata nella modesta abitazione vicino a Sant’Onofrio sul Gianicolo e soltanto dal 1803 nella attuale Villa Medici sul Pincio, si diversificava dalle altre istituzioni parigine per la rigida disciplina interna alla quale sottoponeva i borsisti che vi soggiornavano, scelti tra i vincitori del Prix de Rome – borsa di studio istituita da Louis XIV appena tre anni prima – e giovani artisti protetti dai grandi nobili francesi o nominati direttamente dal re per accrescere la loro formazione. All’origine della Istituzione, gli artisti erano chiamati a riprodurre copie di opere antiche e rinascimentali, prototipi di bellezza di cui dovevano comprenderne intimamente l’estetica e trarne il miglior insegnamento e che dovevano poi essere portati in Francia per arricchire e abbellire i giardini del Castello di Versailles: l’Académie de France à Rome si trasformò allora rapidamente in una vera e propria manifattura E certamente la attenzione all’Antico costituisce in prima analisi un anello di congiunzione che lega l’operare della neonata Académie de France à Rome alla istituzione accademica romana a questa preesistente e che la tradizione vuole ufficialmente fondata da Federico Zuccari nel 1593, quale la Accademia Nazionale di San Luca, come appare evidente osservando a confronto le immagini scelte come simbolicamente rappresentative e del convegno internazionale Accademie artistiche tra eredità e dibattiti contemporanei – particolare della fotografia di Justine Emard della Gipsoteca di Villa Medici – e della mostra ROMA-PARIGI. Accademie a confronto. L’Accademia di San Luca e gli artisti francesi, poi riproposta anche in copertina al catalogo – riproduzione del Galata morente capitolino realizzato dall’artista Filippo Carlini nel 1758. La mostra ROMA-PARIGI. Accademie a confronto. L’Accademia di San Luca e gli artisti francesi, realizzata sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica Italiana, in concomitanza con l’esposizione di Villa Medici “350 ans de création, les artistes de l’Académie de France à Rome de Louis XIV à nos jours” ha dunque idealmente inizio con un disegno di figura di una scultura romana marmorea, – allora come ora
conservata presso i Musei Vaticani che la acquisirono nel 1734 dalla famiglia Ludovisi –, a sua volta copia di una originale scultura greca in bronzo facente parte del donario del re di Pergamo Attalo I attribuito ormai con certezza allo scultore Epigono, capofila della Scuola di Pergamo, nota per la drammatica e realistica rappresentazione della figura umana e delle sue emozioni, che approderà, passando per l’attività di Fidia, alla drammatica teatralità messa in scena da Skopas. E Filippo Carlini ben colse, oltre ai suoi attributi (i baffi, il torques al collo, ma anche la ferita nel petto sanguinante) l’espressione di dolore estremo nell’ultimo istante di resistenza alla morte, come lo ritroviamo a fine mostra rappresentato nella scultura in marmo di Lambert-Sigisbert Adam del 1733, laddove il dolore come “morceau de réception” secondo la definizione di Peter Fusco, è ancora modellato sull’antico, riaffiorante nella rielaborazione del volto del Laocoonte. La Accademia Nazionale di San Luca, nel festeggiare i 350 anni di vita della istituzione accademica francese, ha inoltre colto l’occasione di ripercorrere una pagina importante della sua storia, ponendo l’attenzione sull’anno 1677 quando, grazie all’accordo stabilito al tempo di Innocenzo XI e del re Louis XIV, si tentò il gemellaggio tra l’istituzione romana e quella francese, che poi non ebbe seguito: per l’occasione, appena un anno prima, fu fatto principe dell’Accademia di San Luca il pittore Charles Le Brun, già cofondatore della Académie Royale de peinture et de sculpture poi divenutone il direttore. Così la mostra propone come opera più antica il disegno di figura in carboncino, penna, acquerello e biacca presentato al concorso accademico di prima classe nell’anno 1673, – raffigurante Alessandro Magno nell’atto di donare Campaspe, la più bella tra le sue mantenute, al pittore Apelle che, nel ritrarla nuda su desiderio del sovrano, se ne era innamorato – concentrando l’attenzione del visitatore sull’artista francese Charles-François Poerson, che ritroviamo a conclusione della mostra come autore dell’olio su tela realizzato su commissione della Académie Royale de peinture et de sculpture per sancire l’avvenuto accorpamento tra le due accademie, certamente l’opera più significativa dell’intera mostra, fatta arrivare direttamente dal Musée National du Château de Versailles et de Trianon. Seguendo una elaborazione ideale della iconografia realizzata da Charles Le Brun, Charles-François Poerson rappresenta una allegoria che vede in primo piano la figura di Louis XIV rappresentato nelle sembianze di Apollo, dio del sole e di tutte le arti, colto nell’atto di impartire la benedizione sopra l’unione delle due accademie, simboleggiate da due giovani donne che si tengono per la mano destra, accompagnate da due divinità fluviali da riconoscere come le allegorie della Senna e del Tevere e da numerosi putti. Charles-François Poerson rappresenta una figura chiave per l’Accademia Nazionale di San Luca come viene attentamente ricordato nel catalogo della mostra a cura di Carolina Brook, Elisa Cam-
Copertina del catalogo della mostra “ROMA-PARIGI. Accademie a confronto. L’Accademia di San Luca e gli artisti francesi” inaugurata il 13 ottobre 2016. Courtesy: Accademia Nazionale di San Luca
“ROMA-PARIGI. Accademie a confronto. L’Accademia di San Luca e gli artisti francesi”. Dettaglio della Sala dei Paesaggi. Fotografia di Andrea Veneri_vl9. Courtesy: Accademia Nazionale di San Luca
20 - segno 261 | FEBBRAIO/MARZO 2017
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
“ROMA-PARIGI. Accademie a confronto. L’Accademia di San Luca e gli artisti francesi”. Dettaglio della rampa elicoidale borrominiana di Palazzo Carpegna. Fotografia di Andrea Veneri_vl9. Courtesy: Accademia Nazionale di San Luca
Lambert-Sigisbert Adam, Il dolore, 1733, marmo, cm 71 x 36 x 34. Fotografia di Andrea Veneri_vl9. Courtesy: Accademia Nazionale di San Luca
boni, Gian Paolo Consoli, Francesco Moschini e Susanna Pasquali a p. 144 da Riccardo Gandolfi, dove leggiamo che “la scelta di affidare a Poerson l’incarico di dipingere una simile allegoria si rivelò particolarmente appropriata, dato il profondo legame esistente tra l’artista francese e l’accademia romana, e per la vicenda biografica successiva che lo vide protagonista di un continuo scambio tra Roma e Parigi. Il pittore ventenne aveva infatti ricevuto il secondo premio al concorso bandito dall’Accademia di San Luca nel 1673, era poi stato nominato direttore dell’Accademia di Francia a Roma nel 1704, per ricoprire in seguito il prestigioso ruolo di principe dell’Accademia di San Luca tra il 1714 e il 1718 e ancora nel biennio 1721-1722”. L’attenzione della Accademia Nazionale di San Luca per i suoi allievi francesi e per le strette relazioni che hanno legato le due istituzioni nel corso del XVII secolo erano già state efficacemente tratteggiate da Olivier Michel, benemerito accademico, le cui considerazioni andavano ad inscriversi in una prima fertile stagione pubblicistica avviata con la monografia del 1974 alla quale si affiancarono nello stesso anno i due volumi sui Disegni di Architettura per arrivare ai tre volumi di Disegni di Figura del 1988 che vedono confermati Enrico Valeriani e Angela Cipriani come voci autorevoli in materia, alle quali, nel 2016, si aggiungono quelle di Carolina Brook, Elisa Camboni e Marica Marzinotto. Olivier Michel allora suggeriva la possibilità di riconoscere almeno quattro periodi entro cui scomparti-
re il secolo XVII, distinguendo un primo momento antecedente alla fondazione della Académie de France à Rome; il fortunato decennio 1670-1680 entro cui va ad inserirsi la trattativa di unione delle accademie summenzionata e durante il quale ben diciassette premi vengono vinti da sedici artisti francesi in cinque concorsi; il tempestoso decennio 1680-1690 e una ripresa di fine secolo. Di questi quattro periodi, la mostra ROMA-PARIGI. Accademie a confronto. L’Accademia di San Luca e gli artisti francesi espone opere degli anni 1673-1679, tra disegni di figura e di architettura, ponendo di fronte al visitatore il trionfo degli artisti francesi nel concorso accademico del 1677 che vide il primo, secondo e terzo premio relativi al tema di prima classe Chiesa a pianta centrale ottagonale assegnati a Simon Chupin, Augustin-Charles d’Aviler e Claude Desgots. Con il 1702, malgrado l’ambizioso sogno di unità e di alliance perpétuelle evocata da Guerin si era del tutto arenato, la presenza francese continua ad essere particolarmente significativa, frattanto che il nuovo papa Clemente XI Albani inaugura una nuova stagione di concorsi, noti anche come i Concorsi Clementini, a cadenza annuale fino alla morte di Carlo Maratta, principe della Accademia di San Luca, quindi a cadenza triennale sotto Benedetto XIII e infine quadriennale sotto Benedetto XIV, andando a coprire un arco temporale di ampio respiro che sopravvisse ben oltre la morte del fondatore Clemente XI per concludersi nel 1869. In mostra, ancora distribuiti lungo la rampa
“ROMA-PARIGI. Accademie a confronto. L’Accademia di San Luca e gli artisti francesi”. Dettaglio della Sala della Didattica. Fotografia di Andrea Veneri_vl9. Courtesy: Accademia Nazionale di San Luca.
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“ROMA-PARIGI. Accademie a confronto. L’Accademia di San Luca e gli artisti francesi” . Dettaglio della rampa elicoidale borrominiana di Palazzo Carpegna. Fotografia di Andrea Veneri_vl9. Courtesy: Accademia Nazionale di San Luca
borrominiana, vediamo esposti una selezione degli anni 1708, 1754, 1795 per quanto riguarda i Disegni di Architettura, e che secondo un ordine cronologico si intrecciano alle terracotte disposte nelle nicchie della rampa elicoidale a piani alternati e ai disegni di figura, ulteriormente distinti tra soggetti storici, copie dall’antico e scuola del nudo che traghetta verso l’Ottocento al terzo piano di Palazzo Carpegna, dove ha sede la collezione permanente della Galleria Accademica. Sulla centralità del ripensamento di un percorso espositivo per la mostra ROMA-PARIGI. Accademie a confronto. L’Accademia di San Luca e gli artisti francesi, leggiamo direttamente alcune considerazioni pubblicate sul catalogo della mostra da Francesco Moschini, responsabile scientifico di tutte le attività, nel suo saggio L’Accademia di San Luca: primati e declinazioni delle tre arti, pittura, scultura e architettura: “L’idea di utilizzare la rampa elicoidale di Francesco Borromini, elemento architettonico tra i più emblematici e storicamente rilevanti di Palazzo Carpegna, ha fornito l’occasione per riorganizzare un nuovo spazio espositivo che rispondesse alla duplice esigenza di rendere leggibili le opere d’arte in mostra e, contestualmente, di valorizzare il luogo stesso in cui venivano presentate. Allestire quest’area del palazzo, utilizzando i tratti più rettilinei delle pareti e le nicchie del nucleo centrale, in un gioco ritmato e alternato di luci e di ombre, di spazi pieni e di spazi vuoti, ha significato scandire in ordine temporale il succedersi degli eventi, in progressione fino all’ultimo piano, dove il percorso espositivo si innesta e interagisce come una sorta di controcanto negli ambienti della Galleria accademica, già rigorosamente predeterminati dal punto di vista museografico e museo logico […] La novità rilevante di concepire il percorso espositivo secondo una doppia anima, una derivata dallo sviluppo “ascendente” della rampa elicoidale, l’altra frutto dell’atto di “incastonare”, come vere e proprie pietre
preziose, due nuove “sale”, debitamente “sostituite e rivoluzionate” con le opere della mostra, ma in contiguità e continuità con il preesistente ordinamento della Galleria accademica, ci sembra porsi come punto fermo di chiarezza, rispetto agli attuali azzardi e ai clamori espositivi da parte di numerose istituzioni pubbliche.” Le due nuove sale a cui Francesco Moschini fa riferimento sono, rispettivamente, la Sala della Didattica, ex Sala dei Concorsi Accademici e la Sala delle celebrazioni accademiche, ex Sala delle Meraviglie – come l’abbiamo vista allestita in occasione della mostra “Standard Montaggio Organizzazione. Le Corbusier e gli studi per “Ma maison” e per una residenza presso Chicago” descritta in dettaglio sulla rivista Segno 257 – “rivoluzionata” per rappresentare simbolicamente l’anima della Accademia Nazionale di San Luca, luogo di incontro tra artisti e intenditori e spazio per una nuova sociabilità culturale, che nell’ambito della mostra ROMA-PARIGI. Accademie a confronto. L’Accademia di San Luca e gli artisti francesi si è fatta coincidere, a partire dalla esposizione del manifesto visivo di Charles-François Poerson della comune radice classica alla base delle due istituzioni accademiche, con l’arrivo dei doni accademici che gli artisti francesi erano tenuti a offrire in cambio della autorizzazione a poter riprodurre le statue antiche più famose di Roma, insieme ad alcuni prestiti degni di particolare menzione: l’olio su rame di Nicolas Vleughels del 1728, raffigurante il Sogno di San Giuseppe; l’olio su tela di Pierre Subleyras, forse del 1737, raffigurante lo studio per la Cena in casa di Simone; due progetti per un arco in onore dell’imperatore Napoleone, attribuiti a Giuseppe Camporese e fatti arrivare dal museo napoleonico di Roma; i ritratti di Simon Vouet, CharlesFrançois Poerson, Nicolas Poussin e Elisabeth Vigée-Lebrun che completano la galleria degli accademici ricostruita nella Sala della Didattica. “La storia narrata nella mostra” prosegue Francesco Moschini nel suo saggio “nel suo raffinato dispiegarsi tra le intermittenze chiaroscurali dei muri seicenteschi della rampa di Palazzo Carpegna, alterna, in un dialogo ininterrotto tra le arti, opere straordinarie di pittura, scultura e architettura, secondo il principio dell’Æqua Potestas, che aveva contraddistinto e reso ineguagliabile l’istituzione romana fin dalle sue origini […] Nella profonda diversità e nella stretta relazione tra luoghi, parti e figure, sul filo di una perseguita “vicinanza” di pittura, scultura e architettura, c’è il tentativo di far dialogare culture e sistemi diversi per un messaggio volto alla realizzazione di un’unità reale, esistente e insieme utopica.” Visitando la Galleria Accademica, il visitatore, affascinato da opere minori di artisti molto importanti, come l’architetto Jacques-Germain Soufflot, passato alla storia per la realizzazione del Panthéon di Parigi che all’Accademia di San Luca lascia in dono nel 1750 il progetto di un arco trionfale da dedicare a Papa Benedetto XIV, ha la possibilità di confrontare, costantemente, l’operato francese con quello degli italiani, per restare in tema di architettura, Paolo Bargigli, Pietro Maria Cantoreggi e molti altri, esposti nel rinnovato assetto della Sala dei Disegni, sala già caratterizzata dalla rotazione dei documenti esposti come prescritto dalle indicazioni museografiche di Angela Cipriani, Ma-
“ROMA-PARIGI. Accademie a confronto. L’Accademia di San Luca e gli artisti francesi”. Dettaglio della rampa elicoidale borrominiana di Palazzo Carpegna. Fotografia di Andrea Veneri_vl9. Courtesy: Accademia Nazionale di San Luca
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In questa colonna, alcune immagini della mostra “ROMA-PARIGI. Accademie a confronto. L’Accademia di San Luca e gli artisti francesi”. Dettaglio della rampa elicoidale borrominiana di Palazzo Carpegna. Fotografia di Andrea Veneri_vl9. Courtesy: Accademia Nazionale di San Luca
Francesco Cellini, Schizzo di studio per l’ingresso alla mostra “ROMA-PARIGI. Accademie a confronto. L’Accademia di San Luca e gli artisti francesi” lungo la rampa del Borromini. Courtesy: Francesco Cellini, Accademia Nazionale di San Luca
risa Dalai Emiliani messe a punto tra il 2008 e il 2012 insieme all’architetto autore del progetto di allestimento Francesco Cellini, richiamato nel 2016 ad occuparsi dell’allestimento della mostra ROMA-PARIGI. Accademie a confronto. L’Accademia di San Luca e gli artisti francesi. Restano, invece, immutate nella consistenza e disposizione, le opere distribuite nel Gabinetto riservato – ad eccezione della momentanea assenza della Fortuna con corona di Guido Reni, in prestito alle scuderie del Quirinale per la mostra Il museo universale. Dal sogno di Napoleone a Canova – nella Sala dei Paesaggi e nella Sala della Didattica come li troviamo descritti sul Quaderno della didattica edito nel 2012, Materiali per una storia della Galleria dell’Accademia di San Luca, laddove le opere più strettamente pertinenti al “racconto” sono segnalate con un bollino rosso. Accanto ai Concorsi Clementini, come novità introdotta nella Galleria Accademica troviamo opere presentate e talvolta premiate ai Concorsi Balestra, istituiti nel 1763 per disposizione testamentaria dal cardinale Carlo Pio Balestra,a frequenza variabile attivi fino al 1879 e i Concorsi Canova, istituiti da Antonio Canova nel 1817e attivi fino alla sua morte nel 1822. Le celebrazioni dei 350 anni di vita della Académie de France à Rome, scandite durante tutto il 2016 da numerosi eventi collaterali, si sono concluse con un convegno internazionale dal titolo Accademie artistiche tra eredità e dibattiti contemporanei distribuito nelle tre sedi delle Accademie romane (Villa Medici, Palazzo Carpegna e il “ferro di cavallo”) nei giorni 11, 12 e 13 gennaio 2017 come momento di raccolta intorno alle sfide storiche e attuali circa la funzione delle Accademie d’arte, in particolare nel loro rapporto con la tradizione, in un contesto di trasmissione del sapere e di sostegno alla creazione, indagando il modo attraverso il quale le Accademie si sono nel tempo relazionate tra di loro e hanno sviluppato le loro attività didattiche, in un quadro che dalle prime istituzioni di Accademie del Disegno passa attraverso le grandi riforme istituzionali del diciannovesimo secolo e giunge fino alla contemporaneità. La sessione di Palazzo Carpegna, salutata da Gianni Dessì, Presidente della Accademia Nazionale di San Luca e presieduta da Francesco Moschini, Carolina Brook, Gian Paolo Consoli e Susanna Pasquali è stata l’occasione per presentare al pubblico il bel catalogo della mostra e approfondire, insieme agli interventi di Peter Lukehart, Rachel George, Adriano Aymonino, Pilar Díez del Corral Corredoira, Flaminia Conti, Alain Bonnet, Adrián Fernández Almoguera, Giovanna D’Amia e Dagmar Korbacher preziosi tasselli della straordinaria ricchezza di cui si compongono le collezioni accademiche per riaffermare, dopo oltre quattro secoli di storia, la natura universale dell’istituzione romana e del suo contributo al più ampio registro del complesso Sistema dell’Arte, per dirla alla Francesco Moschini il quale è convinto sostenitore che “L’Accademia di San Luca, realizzando una mostra pienamente rappresentativa dagli scambi culturali tra Roma e Parigi – che nel 2016 hanno festeggiato, inoltre, i sessanta anni di gemellaggio, all’insegna del motto “Solo Parigi è degna di Roma, solo Roma è degna di Parigi” n.d.r. – ha privilegiato la storia nel suo insieme, ascoltando, come un qualsiasi visitatore curioso, il “racconto” che le opere d’arte, sapientemente collocate, hanno ancora una volta, pazientemente, reso noto”. La mostra ROMA-PARIGI. Accademie a confronto. L’Accademia di San Luca e gli artisti francesi registrato un consenso di pubblico clamoroso e inaspettato, eccezionalmente, è prorogata fino al 28 febbraio 2017. n FEBBRAIO/MARZO 2017 | 261 segno - 23
MACRO, Roma
Anish Kapoor Mirror (Black to Red) 2016 Alluminio e pittura
Anish KAPOOR
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alla cera, emblematica materia plasmabile, si può iniziare il racconto del lavoro di Anish Kapoor, come spunto dialettico della sua mostra al MACRO di Roma. La duttilità dell’elemento formale rimanda a una realtà di significato dell’opera che è data dal rapporto con lo spettatore: uno degli elementi primari per Anish Kapoor. Tutto dipende da questa relazione, da ciò che si sente, dal mettersi in gioco e vivere l’opera in parte attiva; l’artista può farci ben poco, il risultato della fruizione è indipendente da lui stesso. Ciò che si aziona nel momento dell’entrata dell’opera nel campo visivo dell’osservatore è imprevedibile, e poco controllabile dall’intenzionalità dell’artista. Quanto dichiara Kapoor a proposito del percorso incerto del fare arte e del rapporto con il significato, indipendente dal suo volere, è dato anche dalla vicinanza a una ricerca psicanalitica che racconta e dichiara come decisiva e fondante e che oggi troviamo echeggiante in questi ultimi lavori; nel pieno della sua evoluzione creativa. Perché è evidente che l’artista anglo-indiano ha trasformato profondamente il suo lavoro e in profondità è andato sondando la materia, il colore, l’essenza dell’individuo nella sua espressione di fisicità materica più indiscutibile, rimandata da cera plasmata, rosso dominante, silicone e tessuto. Nella parte interna non visibile, resa esterna da una esplosione e deflagrazione viscerale, le nuove opere estraggono, strattonandolo e deformandolo, l’incavo, l’interno, la parte oscura. La visione non è mai univoca, l’opera d’arte si offre alla sensibilità e interpretazione in modo democratico, il primo livello riflessivo lo
mette ovviamente l’artista nella sua disposizione fattiva, nella sua ricerca in cui il significato in fondo non è il problema originario. Nella dimensione del presente alberga una molteplicità di visione e considerare quest’aspetto di complessità è sicuramente il ruolo dell’artista oggi. Da quasi dieci anni Kapoor manca da un museo pubblico italiano e la mostra al MACRO, a cura di Mario Codognato patrocinata dall’Ambasciata Britannica e BNL Gruppo BNP Paribas main sponsor, è una ripresa di relazione con un pubblico che aspettava da tempo di riavvicinare le opere monumentali di Kapoor. Nel museo romano la Sala ENEL è aperta nella sua intera complessità fisica, contenendo le molte opere, la maggior parte prodotte negli ultimi cinque anni, come un corpo sezionato alla ricerca di cavità, organi e viscere. Kapoor viene ora dall’esperienza al Rijksmuseum di Amsterdam, nel dialogo con capolavori del passato all’interno di un museo. Internal Object in Three Parts, tre quadri materici e declamanti massa carnosa, è vicino ad opere tarde di Rembrandt van Rijn. L’installazione, allestita ricordando la Cappella Rothko a Houston, fronteggiata alle tele del maestro olandese, ha una deflagrante fisicità come avviene nei suoi lavori più recenti e rimanda a iconografie simili a partire da “Apollo scortica Marzia”(1570) di Tiziano, allo stesso “Bue macellato” (1655) di Rembrandt fino ad arrivare a Chaïm Soutine e Francis Bacon. A Roma la dimensione ancestrale, espressa anche nei lavori fatti di masse plasmanti e pigmenti sanguigni, è fortemente richia-
Anish Kapoor, Corner disappearing into itself, 2015. Vetroresina e oro. Anish Kapoor, Sectional Body preparing for Monadic Singularity, 2015. PVC e acciaio.
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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Anish Kapoor, First covering, 2016. Silicone, pigmento e tessuto; Hunter, 2013. Silicone su pelliccia e juta; Staff, 2015. Silicone, pigmento e acciaio
Anish Kapoor, sulla parete, da sinistra: Internal Object in Three Parts, 2013-2015. Silicone e pigmento. First covering, 2016. Silicone, pigmento e tessuto. Al centro: Negative Box Shadow, 2005. Legno, acciaio, vetroresina e cera.
mata in Apocalypse and Millennium e Gethsemane entrambe le installazioni del 2013. Da una dimensione ipogea della prima, con rimandi a visioni speleologiche della materia scabra e terrosa, si trova l’opposto per colore e materia in quel giardino dei Getsemani di un rosso rubino che è la parte interna della spiritualità occidentale, addensata nei pieni e nei vuoti, nell’incavo e nel concavo. Sectional Body preparing for Monadic Singularity (2015), nella sua monumentale centralità, come è stato nel parco della Reggia di Versailles nel 2015, con tutte le dovute differenze di spazio e contesto, rappresenta la dea madre, la vagina primigenia che dal rosso vitale diffonde un muto rimando a una spinta generatrice, con maggiore forza dominante sulle matericità diffuse che affollano l’universo interno del corpo di tutti i corpi. Ilaria Piccioni Anish Kapoor, Thrown between him and her, 2010. Tecnica mista
Anish Kapoor, da sinistra: Stench, 2012. Silicone, pigmento e tela Dissection, 2012. Silicone, pigmento e tela Curtain, 2013. Silicone, pigmento e tela. Al centro: Robe, 2012. Silicone e tela
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Gilberto Zorio, Canoa aggettante, 2016. Canoa, alambicco di pyrex, acciaio, compressore, sibilo, soffio di aria, alcool, fosforo, temporizzatore cm 323 x355x552 courtesy Galleria de’Foscherari, Bologna. ph: Paolo Panzera
Galleria De Foscherari, Bologna
Gilberto ZORIO
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rocessi chimici e fisici, eventi sonori, oggetti in movimento sono i motivi che più ricorrono nell’opera di Gilberto Zorio, resi ancora una volta protagonisti nella personale che la galleria De Foscherari dedica all’artista. Un rapporto di lunga durata quello tra Zorio e la storica galleria bolognese, sugellato dalla celebre mostra Arte Povera a cura di Germano Celant ospitata nel 1968, che includeva tra i dodici artisti presenti anche l’autore piemontese. Un evento che ha contribuito, dopo la mostra genovese svoltasi l’anno precedente e prima della grande rassegna a cura di Harald Szeemann alla Kunsthalle di Berna l’anno successivo, a presentare l’omonimo movimento al dibattito artistico internazionale di quegli anni . La mostra in corso nello storico spazio di via Castiglione celebra ancora una volta l’artista presentando cinque opere ambientali realizzate dall’autore in momenti diversi della sua carriera, disposte in modo da coinvolgere per intero lo spazio della sala espositiva. Qui lavori del passato come Letto realizzato nel 1966, e Per purificare le parole (1980) tentano di richiamare poeticamente le opere realizzate nell’ultimo anno. ...”Le opere oscillano e fluidificano da un secolo al successivo”... è il titolo che sintetizza gli intenti dell’artista in questa sua ultima personale e allude in parte ai dettami che storicamente ne caratterizzano l’opera. Osservando i lavori in mostra è infatti possibile focalizzare temi ricorrenti come la predilezione per l’oggetto e la materia, dei quali risaltano energia e valore evocativo. Di questi elementi si osserva l’assoggettamento all’imprevisto e al divenire che imprime carattere dinamico all’atto percettivo, quindi al rapporto tra opera e spettatore. Il movimento e lo scambio chimico fisico tra i materiali anche in questa occasione si capovolgono in processi alchemici che anelano a corrispondenze tra il particolare e il “tutto” che ci circonda. Nelle opere attuali come in quelle storiche ricorre il simbolismo riconoscibile nell’uso della “stella” e del “giavellotto”, che si appellano all’immaginario collettivo e alla cultura sedimentata nel tentativo di sintetizzare il cosmo, i processi della natura. Resta centrale tra motivi fondanti dell’opera l’interazione tra spazio e dato temporale. Se infatti la riflessione su vitalismo
Nella pagina a fianco: Gilberto Zorio, Stella calibrata, 2016. Cinque calibri da scultore, tondino filettato, alambicco di pyrex, solfato di rame, fosforo rosso, crogiolo di bronzo, pinza, cm 214 x 226 x 156. Courtesy Galleria de’Foscherari, Bologna. ph: Paolo Panzera. A sinistra: Gilberto Zorio, Marrano con treccia, 2016. Treccia di rame, marrano, acciaio, compressore, sibilo, fosforo, temporizzatore, cm 522x300 (diametro rotazione). Courtesy Galleria de’Foscherari, Bologna. ph: Paolo Panzera.
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Gilberto Zorio, Marrano con treccia, 2016. Treccia di rame, marrano, acciaio, compressore, sibilo, fosforo, temporizzatore, cm 522x300 (diametro rotazione). Courtesy Galleria de’Foscherari, Bologna. ph: Paolo Panzera.
e mutabilità delle condizioni, rimangono in generale caratteri propri dell’esperienza poverista si aggiunge negli ultimi allestimenti Zorio un nuovo elemento poetico. Tempo e spazio diventano adesso, in rapporto anche alla cronologia dei lavori prodotti, elementi unificanti, strumenti della memoria capaci di fondere assieme, creare collegamenti. La continuità tra le opere storiche e recenti accennata nel titolo della mostra vuole adesso alludere a una continuità tra presente e passato. Un collegamento permesso certamente dal richiamo di temi e motivi tra le opere, ma soprattutto dallo spazio che ospita i lavori di oggi e 28 - segno 261 | FEBBRAIO/MARZO 2017
di ieri attribuendo a questi ultimi una rinnovata “esistenza”. Un legame determinato anche dall’elemento temporale, utilizzato come strumento grazie al suo potere “fluidificante”che genera vicinanze e lontananze. E’ l’area che ospita le sculture a generare un dialogo tra esse, che sembrano contendersela, è lo spazio a indirizzare lo spettatore verso uno o un’altro percorso per osservarle in diversa successione, oppure per vederne l’insieme in diversi punti della sala. Grazie all’avvicendarsi di attesa e movimento gli oggetti mostra possono esprimersi all’unisono come gli strumenti
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Gilberto Zorio, Marrano con treccia, 2016. Treccia di rame, marrano, acciaio, compressore, sibilo, fosforo, temporizzatore, cm 522x300 (diametro rotazione). Courtesy Galleria de’Foscherari, Bologna. ph: Paolo Panzera.
di un’orchestra generando o accogliendo avvenimenti. Questi ultimi si presentano in tempi alternati con il rigonfiamento sibilante e la rotazione del Marrano con treccia (2016), il rumoroso movimento della Canoa aggettante (2016) nella sua tensione verso l’alto. A questi fenomeni si affiancano lenti processi di trasformazione in uno stato di apparente o stentata immobilità come nella Stella calibrata (2016) che in condizione di precarietà sorregge l’ampolla con liquidi, nei giavellotti sospesi che consentono l’equilibrio del contenitore di pyrex, nella tensione dell’intreccio metallico.
Tutte assieme le opere esposte attendono il buio che si presenta a cadenze temporali precise con lo spegnersi delle luci in galleria. L’oscurità fa brillare il fosforo delle ampolle disegnando il sulle pareti una costellazione luminosa che evoca il cosmo. Il cambiamento avvenuto vivifica l’attesa e invita a una rinnovata coscienza nei confronti dell’ambiente circostante. Il buio nel suo accomunare diventa nuova occasione di vicinanza, una condizione che spinge i presenti alla meditazione su quel che è stato e al ricordo di ciò che è cambiato. Francesca Cammarata FEBBRAIO/MARZO 2017 | 261 segno - 29
Gallerie Christian Stein, Milano
Giulio PAOLINI Fine
S
ono trascorsi più di cinquant’anni esatti da quando Giulio Paolini e la stessa Galleria dove espone (in due sedi) fece ritorno all’oracolo del “Fine”, portando con sé il vento nuovo di una riflessione scaturita da un serrato, complesso, per quanto fruttuoso, confronto con alcune delle più originali personalità della cultura occidentale: da Omero a Empedocle, da Icaro a Lucrezio, da Averroe e Heidegger, da Warburg alla Commedia italiana. L’arte, la poesia, operano ad un fine fondamentale, identificare la realtà nel mito, obbligarla ad una sintesi, cioè – in effetti – a recuperare il paradiso perduto. Ma il mito è un ideale fermo anche se smagliante, mentre la realtà è movimento, un movimento che lascia alle spalle perfino i profeti. A cavallo tra la fine dell’informale e l’inizio dell’esperienza neo-avanguardistica, nessuna vicenda appare più strettamente legata ad un simile destino di quella di Paolini e della sua arte concettuale. L’ultimo Paolini, in particolare - a un cinquantennio del suo inizio – si mostra fissato al dossier del suo tempo. Questa mostra non è e non vuole essere una prova competitiva e neppure una panoramica filmica. L’artista, il filosofo-artista, è qui nei panni anonimi del presentatore di se stesso: uno del pubblico insomma. Con queste parole Paolini sembra aprire il suo scritto di appunti, steso per la presentazione di Fine! Il modo con cui bisogna avvicinarsi all’itinerario paoliniano lo suggerisce lo stesso autore nelle note introduttive alla mostra: è una mostra-compendio, di lavori selezionati per una re-installazione, opere storiche in dialogo con tre interventi inediti. Dialoghi che si articolano in sei capitoli espositivi corrispondenti alle sei sale a disposizione. Degli anni ‘70 i calchi in gesso dal titolo “Mimesi” (1976-88) a proposito dei quali l Paolini scrive “dei due esemplari identici, posti l’uno di fronte all’altro, di una stessa scultura antica, l’intento è di cogliere la distanza che li separa e il vuoto che l’opera crea intorno a sé sottraendoci la facoltà di possedere il suo impenetrabile significato”. Esemplare della ricerca degli anni ’90 è l’opera “Hic et nunc (Le Radeau de la Méduse)” (1991) che evoca in termini metaforici la scena raffigurata ne “La zattera … di Géricault “ e propone con passionalità plateale l’equilibrio instabile che presiede al “fine della visione”. In Corso Monforte, Paolini presenta invece “Fine”, realizzata espressamente per l’occasione: un’opera che tende a ripercorrere l’intera esperienza creativa dell’artista in un allegorico “viaggio di ritorno”. Attraverso un dichiarato riferimento a ”L’embarquement pour Cythère” (Watteau, 1717), Paolini mette in teatro una sorta di grande barcone che ospita una varietà di cose e manufatti, tutti provenienti dallo studio dell’artista. Gran parte delle opere di Paolini proposte in questa doppia personale sono figure del complesso dizionario autoriale dell’arte concettuale. Se l’arte del “Fine”, per essere tale, deve presupporre, seppur spesso ciò accada via negationis, il nesso tra l’arte e la possibilità della sua estrinsecazione – della sua dicibilità – appare, dunque,
Giulio Paolini, “Senza titolo” (1965) su sfondo di rovine classiche, 1972. Tempera e matita su tela, cm 200 x 300; Selinunte (III), 1979-80. Calco di gesso intero, calco di gesso in frantumi, lastra di vetro intera, lastra di vetro in frantumi. Calco intero h 66 cm, lastra di vetro intera cm 140 x 140, misure complessive cm 66 x 290 x 290; Vedo (la decifrazione del mio campo visivo: versione Carta delle stelle), 1984-2016. Collage su parete. Misure complessive variabili.
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Giulio Paolini, Fine, 2016. Bancali in legno, sagome di plexiglas, riproduzione fotografica e cornice dorata applicate su tela preparata, stampa digitale su seta, lastre di plexiglas unite a paravento, calco in gesso, leggio, scala, poltrona, tavolo e altri oggetti. Misure complessive cm 320 x 877 x 325.
Giulio Paolini, Mnemosine (Les Charmes de la Vie/3-6), 1981-87. Tele dipinte ad acrilico, calchi in gesso. Quattro tele cm 160 x 240 ciascuna, quattro calchi h 220 cm ciascuno, misure complessive cm 225 x 280 x 250.
Giulio Paolini, Mimesi, 1976-88. Calchi in gesso, basi bianche opache Due calchi cm 175 x 62 x 50 ciascuno, due basi cm 100 x 50 x 50 ciascuna, misure complessive cm 275 x 120 x 80; Intervallo, 1985. Calchi in gesso, basi bianche opache. Due calchi cm.h. 105 x 83 x 53, cm.h. 94 x 87 x 49, due basi trapezoidali 80 (h) x 98 (lato a parete) x 90 x 90 x 50 cm ciascuna, misure complessive variabili.
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Giulio Paolini, Vedo (la decifrazione del mio campo visivo: versione Carta delle stelle), 1984-2016. Collage su parete. Misure complessive variabili; Scene di conversazione, 1982-83. Fotografie, leggii, sgabello, lastre di vetro intere e in frantumi, fogli di carta, manoscritto. Dieci fotografie cm 30 x 40 ciascuna, nove fogli e manoscritto cm 30 x 40 ciascuno, misure complessive variabili.
Giulio Paolini, Hic et nunc (Le Radeau de la Méduse), 1991. Telaio, tela, cavalletto, proiettore. Telaio cm 490 x 715, misure complessive variabili; Mnemosine (Les Charmes de la Vie/3-6), 1981-87. Tele dipinte ad acrilico, calchi in gesso. Quattro tele cm 160 x 240 ciascuna, quattro calchi h 220 cm ciascuno, misure complessive cm 225 x 280 x 250.
evidente che nell’epoca in cui l’arte giunge nello spazio della sua estinzione è necessario individuare un modo diverso di “comunicare” l’arte stessa. Quando la lingua degli artisti, l’armamentario retorico che ha caratterizzato per più di due millenni la storia dell’occidente, non ha più nulla da dire sul mondo e sulla bellezza, si spalanca lo spazio per una rilocalizzazione del nesso tra l’arte ed il “linguaggio” che se ne fa interprete. In altri termini, lo stile di Fine, e con ciò anche il suo pensiero, condensa la possibilità di considerare il compito epocale dell’arte al di là dell’arte stessa. È proprio per rimanere fedele a se stessa, ossia per nominare quel nesso inestricabile tra l’arte e la sua dicibilità, che l’arte deve tradirsi e “disperdersi” così nei mille rivoli dell’allegoria e della cultura simbolica. In breve: solo una risemantizzazione dell’arte,
al di là dell’arte stessa, offre la chance per la sua salvaguardia. Nello spazio concettuale e politico in cui domina la conciliazione, e la differenza che genera differenza è considerata l’anomalia da riportare all’ordine della medietà, dando origine così al dominio dell’in-differenza, Paolini, l’artista ‘aporetico’ per eccellenza, diventa ingombrante e, dunque, viene alloggiato sulla sua stessa Zattera. Nell’epoca della fine della storia, dell’esaurimento di ogni conflitto, il “Fine della Fine” rimane ancora «un punto interrogativo ambulante» collocato «ai margini della società», che, proprio in virtù dell’ineffabile portata poetica delle sue opere, pone instancabilmente il pensiero di fronte ad una provocazione concettuale continua. Gabriele Perretta
Giulio Paolini, Ni le soleil, ni la mort…, 1989. Telaio, faretti a pinza, matita su tela preparata, matita e pittura a smalto su parete. Telaio cm 400 x 600, tela cm 80 x 120, misure complessive variabili; Oeuvres complètes, 2016. Calco in gesso, litografia (foglio ripiegato e pagine lacerate), lastra e teche di plexiglas, base. Due teche cm 40 x 40 x 40 e cm 30 x 30 x 30, lastra cm 50 x 50, base cm 90 x 50 x 50, misure complessive cm 131 x 71 x 71; La pietra filosofale, 2010. Pedana di plexiglas specchiante, cubo di plexiglas brunito, sedia da regista, frammenti di disegni e scritture su carta nera, foglio da disegno bianco, matita nera, filo di nylon. Quattro elementi di plexiglas specchiante cm 15 x 110 x 110 ciascuno, cubo di plexiglas cm 90 x 90 x 90, foglio cm 70 x 70, ingombro complessivo al suolo 220 x 220 cm, altezza complessiva variabile; A occhio nudo, 1998. Teca di plexiglas con passe-partout bianco, fotografia, matita su parete. Teca cm 80 x 80, misure complessive cm 120 x 120; Collezione privata, 1998. Cornici dorate con plexiglas, matita su parete. Cornici cm 40 x 60 ciascuna, misure complessive variabili. Giulio Paolini, Venere dei Medici, 1982. Fotografia su tela emulsionata, cm 137 x 204 (due elementi cm 137 x 102 ciascuno); Scene di conversazione, 1982-83. Fotografie, leggii, sgabello, lastre di vetro intere e in frantumi, fogli di carta, manoscritto. Dieci fotografie cm 30 x 40 ciascuna, nove fogli e manoscritto cm 30 x 40 ciascuno, misure complessive variabili. Tutte le immagini: Courtesy Artista e Galleria Christian Stein, Milano. Foto Agostino Osio.
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Museo Madre, Napoli
Fabio MAURI
E
sponente di spicco dell’arte italiana della seconda metà del Novecento, ma non ascrivibile ad alcuna tendenza precisa, se non, nei primi anni sessanta a quella via specificamente italiana alla pop art, tanto che il suo lavoro di allora si confronta naturalmente con gli esponenti della scuola di Piazza del Popolo, Fabio Mauri (Roma 1926-2009), qualche anno fa finalmente omaggiato con la partecipazione a DOCUMENTA13 di Kassel (2012), ottiene ora la sua più importante retrospettiva in un museo dopo la morte, giacché questa del Madre, Retrospettiva a luce solida, a cura di Laura Cherubini e Andrea Viliani, pare seconda quanto a completezza solo a quella che gli dedicò ormai oltre venti anni fa (1994) la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. La mostra, scegliendo di sollecitare l’attenzione su di un concetto che compare in alcuni titoli delle sue stesse opere, quella “luce solida” che, richiamandosi alle Lampadine con i raggi solidificati futuriste, allude alla consistenza fisica che in tali opere egli conferisce al raggio che congiunge il proiettore e lo schermo cinematografico, ora attraverso il metallo lucidato a specchio, ora attraverso la plastica – metafora e monito sulla consistenza reale, quasi materiale che anche l’immaginario, l’ideologia stessa, possiede -, comprende più di cento fra opere, azioni e documenti – nonché, novità assoluta di questa retrospettiva, il corpus integrale delle maquette architettoniche che ricostruiscono le principali mostre tenute da Mauri in vita -: le sue summenzionate prove nell’ambito della pop art, le sue molteplici indagini sull’ elemento dello schermo-tela, i video delle grandi azioni teatrali “a base ideologica” come Che cos’è il fascismo? (1971), Gran serata futurista 1909-1930 (1980) e Che cos’è la filosofia. Heidegger e la questione tedesca. Concerto da tavolo (1989), gli agghiaccianti pannelli di Manipolazione di cultura (1971-1976), quell’a dir poco conturbante grande gruppo scultoreo iperrealista che è Sala del Gran Consiglio, parte della più ampia operazione Oscuramento (1975), fino ad opere rimaste assai emblematiche dei decenni più recenti come Muro occidentale o Muro del pianto (1993) o La resa (2002). Un percorso complesso e per certi versi apparentemente eterogeneo, eppure sempre attraversato da un filo rosso, lungo il quale si innestano cambiamenti che corrispondono ad altrettanti traumi e vicissitudini precipui della sua generazione ma anche della propria personale biografia. Quando infatti, nel 1964, la pop art americana sbarca in Europa cade l’illusione di una competizione alla pari con gli Stati Uniti e proprio Mauri pronuncia un commento molto eloquente su quello che deve significare quell’evento nella coscienza dei contemporanei: «Lo sbarco mediterraneo della Pop fu una luminosa esplosione, paragonabile, nelle arti, a una circoscritta ma decisiva Pearl Harbor […]. L’intera e non coordinata flotta locale fu completamente affondata […]. L’adesione americana fu culturalmente vissuta come una seconda “liberazione”. Senz’altro come “emancipazione moderna” dal clima basso, afoso, di un’Italia ideologicamente divaricante, piccolo borghese, passatista, democristiana». Da allora in poi l’artista romano è sempre più convinto che il compito di un artista europeo sia quello di riflettere sul tema dell’ideologia, giacché «Era ciò che si vendeva e comprava in Europa […]. L’equivalente della scatola “Brillo” di Warhol» - «Il tema ideologico come oggetto centrale, e storico, per l’artista (un artista visto come intellettuale), punto di realtà fuori di lui e interno alla cultura del tempo, mi occupa dal 1964, come riflessione. Come lavoro dal 1970», chiarisce Mauri Fabio Mauri, allestimento della mostra al piano terra del Museo Madre di Napoli.
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Fabio Mauri, Senza Titolo, 1992 performance con Mariangela Zugaro De Matteis.
Fabio Mauri, Cinema, 1958-65.
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Fabio Mauri, Intellettuale, 1975.
Fabio Mauri, performance con opera Europa Bombardata, re_enactment dell’azione originale con la stessa performer del 1978, Danka Schröder.
nel 1984. Non si spiegano però i suoi lavori più celebri e maturi senza tenere conto di altri fatti antecedenti almeno di un ventennio, ovvero il forte sconvolgimento prodotto dalla vista delle prime immagini dei campi di sterminio pubblicati su “Le Ore”. Da tale esperienza, racconta Adachiara Zevi, deriva «una lunga e dolorosa crisi psicologica e religiosa. Rifiuta per un anno ogni contatto con il mondo; ricoverato più volte in cliniche psichiatriche, subisce ripetuti elettrochoc. Lo salva la fede religiosa». Indicativo della serietà di questa suo sconvolgente impatto con la realtà più truculenta del secondo conflitto mondiale, nonché dei suoi saldi ed elevati valori - malgrado il costante rifiuto di impegnarsi in ogni avventura di militanza politica, alla quale pure viene più volte invitato; «Mauri non è mai stato un militante politico», osserva Federica Boràgina, «è stato, piuttosto, un “soave uomo settecentesco”, poeta, filosofo e letterato, “sognatore della ragione”, legato con un filo al presente e proiettato verso l’infinito» – il suo ricondurre ricostruzioni come quella dei ludi juvenilis fascisti dell’azione del 1971 a quegli esercizi spirituali tipicamente sei-settecenteschi che consistono nell’immaginarsi fisicamente le pene dell’inferno. Quest’ultima è forse quanto di più emblematico ci possa essere rispetto all’intero lavoro di Mauri. Che cos’è il fascismo? è l’operazione che apre il suo periodo maturo all’insegna dell’ideologia e lo fa già con strumenti impeccabili. Tutto così è minuziosamente replicato nei particolari, da non lasciare quasi alcuno spazio ad espressionismi o surrealismi di sorta. È come se l’artista pensasse cioè che per suscitare quel genere di orrore non occorra che replicare punto per punto quella realtà esattamente come si è
verificata, perché era già orrenda senza alcun bisogno di iperboli e superlativi. Del resto egli ricostruisce a memoria diretta, avendo assistito a suo tempo (1938) in prima persona alla cerimonia per la visita di Hitler a Firenze: si ricorda e ripropone così gli inni, i saggi ginnici, gli sbandieramenti, i sermoni ideologicamente orientati, il pubblico delle tribune, i documentari dell’Istituto Luce… Eppure qualche incongruità rispetto alla mera riproduzione della cerimonia compare: il generale tedesco di cera, la scritta “The End” sullo schermo alle spalle del podio, le tribune contrassegnate dalla Stella di Davide e riservate ad ebrei. Forse meno evidente e più complessa nella lettura del suo senso generale, eppure egualmente straniante è, quasi venti anni dopo, Che cos’è la filosofia. Heidegger e la questione tedesca. Concerto da tavolo, anch’essa configurantesi come ricostruzione a mo’ di articolato dramma teatrale, con il protagonista Martin Heidegger impersonato dal filosofo Giacomo Marramao, il banchetto con tante donne tra gli invitati, l’esecuzione, da parte di un violoncellista, di brani di Mozart, Bach, Berg, Webern, Schönberg, ma anche – e ancora una volta – un elemento dissonante – e fortemente tale! -, una voce che recita un brano tratto dagli atti del processo di Adolf Eichmann relativo al “conteggio economico” sul cadavere di una vittima dei campi di concentramento, durante il quale vengono elencati i valori delle singole parti anatomiche dell’individuo. È lo stesso Mauri a spiegare il senso dell’azione con la sottolineatura innanzi tutto dell’identità tra pensiero tedesco ed europeo nel decennio 1930-1940, nonché con la tacita connivenza tra intellettuali e potere e la sinistra costatazione di quanto «il bene e il male parlano la stessa lingua. Solo il fine li distingue» - si consideri cioè la commistione tra le parole di Eichmann e le piacevoli note della musica classica e dodecafonica. Muro occidentale o Muro del pianto segue di quasi un quindicennio un’altra opera dal titolo Muro d’Europa (1979), ma di soli quattro anni la caduta, nel frattempo, del Muro di Berlino (1989), a ricordare, con la sua catasta di valige di cuoio di varie dimensioni alta quattro metri, tutte chiuse eccetto quella contenente la fotografia di Paola Montenero, la prima performer di un’altra importante azione come Ebrea (1973), che le lacerazioni della storia contemporanea non si sono affatto chiuse in quel novembre del 1989 e neanche con la dissoluzione del blocco sovietico. Sullo sfondo forse nessun dramma più di altri in particolare, eppure è difficile sfuggire alla tentazione di pensare alle frotte di migranti economici di cui, in quegli anni, proprio la fine dell’assetto bipolare ha determinato la comparsa. Sorta di seguito ideale di Muro occidentale, ancora di grande attualità, è infine l’opera che lo spettatore trova campeggiante sul tetto-terrazzo del museo, La resa, una semplice bandiera bianca issata su di un alto pennone che originariamente Mauri realizza per la mostra Arteinmemoria nella sinagoga di Ostia Antica. «La resa di chi? Contro chi?», si chiede la Zevi e commenta: «Mauri accenna a “l’ombelico nudo delle ragazze che si fanno saltare in aria” e al “vecchio con trecce e cappello che prega e dondola nello smarrimento dell’assenza temporanea di Dio”, due antagonisti, cioè, nel conflitto israelo-palestinese. Una realtà drammatica e complessa al cospetto della quale, per la prima volta, l’artista si arrende e sospende il giudizio». Stefano Taccone
Fabio Mauri, allestimento della mostra al Museo Madre di Napoli.
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Paolo Bini, Left Behind, Reggia di Caserta 2016-2017.Photo Carlo Ferrara.
Reggia di Caserta
Paolo BINI Left Behind
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efinito qualche anno fa “brillante e giovane promessa della pittura italiana” Paolo Bini, oggi trova solide conferme, nella vittoria del XVII Premio Cairo e nella mostra alla Reggia di Caserta curata da Luca Beatrice e realizzata in collaborazione con la Galleria Nicola Pedana. Il tratto essenziale che contraddistingue la creatività di Bini, è la scelta non comune, per artisti così giovani, di raccontarsi ed esprimere il mondo attraverso il più tradizionale medium della storia: la “pittura”. Tuttavia, la storia insegna che il passato è segnato da continui “ritorni” che, – si pensi alla Transavanguardia – hanno sempre obbligato la critica a ritrattare tutte le precedenti dichiarazioni di morte della pittura. Sin dagli esordi Paolo Bini è interessato essenzialmente a due cose: studiare il colore e fare in modo che esso sia una scintilla capace di suscitare un’emozione in chi guarda. In questa indagine, consapevole del valore dell’ Espressionismo e della sua evoluzione, degli studi Itteniani sul colore e tutto ciò che è con-
Paolo Bini, Left Behind, Nel bel mezzo (particolare), Reggia di Caserta 2016-2017. Photo Carlo Ferrara. Paolo Bini, Left Behind, Con i piedi per terra e la testa fra le nuvole, Reggia di Caserta 2016-2017. Photo Carlo Ferrara.
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nesso al pensiero astratto, arriva a sintetizzare diverse gradazioni e sfumature di tinte nello spazio di una striscia rettangolare, orizzontale o verticale. In tal senso, il nodo sotteso alla sua ricerca, sotto il profilo della forma e degli elementi costitutivi la pittura stessa, passando per un’astrazione puramente geometrica, informale e analitica al contempo, pare risolversi in uno schematismo compositivo che, tuttavia, da solo non chiarisce il dettato espressivo entro cui si muove il giovane artista di Battipaglia. Dipingere direttamente sulla tela non è più sufficiente. Da qui l’intuizione che quelle forme rettangolari possano essere rintracciate al di fuori dello spazio del quadro. Bini inizia così a dipingere su strisce di carta gommata, immaginando inizialmente che ognuna di esse corrisponda a un’ideale linea dell’orizzonte, lungo la quale scorgere i tenui confini di paesaggi immaginari. Quelle strisce poi, pazientemente applicate una a una, riconquistano la bidimensionalità della superficie e la muovono, spiazzando lo spettatore, non solo per l’abilità tecnica della composizione (praticamente perfetta) ma soprattutto per la sensazione di irraggiamento complessivo che il colore scatena a partire dal piano del quadro, che crea, al contempo, la percezione sbalorditiva di essere realmente di fronte a un panorama, una vista, una veduta, ad un immaginario
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Villa Pignatelli / Museo del 900 - Napoli
Domenico SPINOSA
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Paolo Bini, Left Behind, Costellazione, Reggia di Caserta 2016-2017. Photo Carlo Ferrara.
paesaggio del cuore. In pratica Paolo Bini, in linea con le poetiche di matrice concettuale più di quanto non possa apparire, semplicemente anziché comporre una forma (o un paesaggio) la decostruisce, la decompone, in sostanza l’astrae, lasciando aperta la possibilità di una figurazione di ritorno tutta mentale. Alla Reggia di Caserta, sala dopo sala, i dipinti accompagnano lo spettatore in una immersione totale, inscenando un inatteso, quanto spettacolare, dialogo fra il passato e la contemporaneità. In questa mostra compie un decisivo passo in avanti nella propria ricerca, realizzando veri e propri interventi di pittura installativa, o, come meglio precisa Luca Beatrice nel testo in catalogo, propone una «pittura che esce dalla bidimensione per diventare oggetto». Stiamo parlando dell’opera Paradise Box, una sorta di parete divisoria che, posta al centro della stanza, «sfonda il buio con il colore, ridisegna e reimposta lo spazio con un atto deciso del cancellare il preesistente». A questo punto per il curatore la Reggia svanisce, esce di scena. Essa si fonde invece in un tutt’uno con l’opera che impone, inevitabilmente, il considerare la nostra presenza non più come soggetto che osserva ma come parte integrante all’architettura stessa. Un effetto che Bini riesce a scatenare anche e soprattutto nell’ultima sala, dove realizza un monumentale e coraggiosissimo wall-painting dal titolo Con i piedi per terra e la testa tra le nuvole. Ancora una volta, tutto si risolve nella geometrica potenza dello sviluppo rettilineo e nella forza immaginifica del colore, un verde cangiante interessato da sfumature che variano dal nero, al grigio, al giallo e al bianco. L’artista non è atterrito dalla maestosità della Reggia e non teme sconfinamenti: osa senza timori, mostrando un credibile dialogo fra i settecenteschi affreschi della volta e un’idea di pittura contemporanea. In una sala intermediaria, intitolata della Costellazione, Bini organizza una ventina di quadri di formato diverso, piccoli e medi, una serie di monocromi in acrilico, a formare propriamente una grande costellazione, con evidenti richiami agli allestimenti delle quadrerie borboniche. Chiude la rassegna Nel bel mezzo, un elegantissimo ovale rosa cangiante. È sempre Luca Beatrice a spiegare - «ultimo capolavoro: ritorno alla storia, ai colori rococò settecenteschi che ci ricordano che noi della storia siamo comunque ospiti. Perché l’artista ha una missione: prendere il mondo, rispettarlo e cercare di renderlo migliore per chi verrà dopo». Maria Letizia Paiato
uando nel 1945 Jean Paul Sartre pubblica A porte chiuse, è ormai chiaro che l’orrore di una guerra agli sgoccioli non potrà essere dimenticato: nell’angustia di una stanza, Garcin, Inès ed Estelle attendono di essere torturati, per poi capire che ciascuno sarà vittima e carnefice dell’altro nell’insistere con domande indiscrete lungo le reciproche linee d’ombra dello spirito. La vita vista come mutuo condizionamento a soffrire e farsi del male, che dal fronte rientrava attraverso i ricordi dei sopravvissuti. Lo sapeva bene anche Jean Fautrier, che intrise la pittura di memoria, lavorando sulla materia e trasformando la forma in detrito di realtà; tragica, per ritornare a Sartre. L’Informel usato dai francesi per indicare gli esercizi artistici del dopoguerra rivelò ben presto la sua natura ambigua, capace di accogliere le motivazioni di un ampio arco di esperienze europee e americane, convenzionalmente indicate come tali: informale, allora, come “senza forma” e dunque “proteiforme”, capace, ossia, di contenere le diverse possibilità espressive dei materiali. E tale è stata l’esperienza artistica di Domenico Spinosa, mediante uno studio scrupoloso del colore inteso come luogo di costruzione della pittura e non mero richiamo a una tradizione fatta di gialli barocchi, dei blu del cielo e del mare di Napoli. La racconta una mostra curata da Aurora Spinosa e Valentina Lanzilli, che si profila come una biografia in forma di spazio, perché attraversa i luoghi calcati dal maestro napoletano durante tutta la sua vita: le stanze dell’Accademia di Belle Arti, in cui fu direttore e docente di Pittura dal 1973 al 1986; quelle di Villa Pignatelli, che già nel 1979 ne accolsero un’antologica; infine, il Museo del ‘900, in cui dialoga silenziosamente con colleghi e amici di un tempo. Lungo tutto il percorso espositivo, il cui nucleo principale risiede nelle stanze un tempo abitate dalla principessa Rosina, l’irruenza del colore compie e mette a segno un tentativo di sintetizzazione della struttura compositiva: le figure perdono consistenza volumetrica facendosi simili a fossili, imprigionati in ambre di tenui rosa (Forme ribaltate e sconvolte, 1959), verdi acidi (Interno grigio, 1958), malinconici azzurri (Cinepresa, 1959); registrandone le impronte – ora superficiali come graffi, ora, invece, profonde come tagli –, il fondo cromatico racconta il peso delle loro esistenze, guadagnando una sua particolare qualificazione espressiva. Non più racconto adamantino del reale ma neppure universo di geometrie primigenie: la pittura di Domenico Spinosa ha saputo, negli anni in cui forte era il confronto tra istanze realiste e astrattiste, superare ogni dicotomia, per condurre una ricerca fedele solo alle proprie urgenze d’espressione; sintomo, questo, non già di una chiusura o un ritardo nei riguardi dei revanscismi artistici allora dibattuti, ma, al contrario, proprio della capacità di cogliere gli umori della pittura italiana meno compromessa da logiche di partito. A corroborare questa lettura, il confronto proposto in mostra con gli artisti Pompilio Mandelli (Paesaggio grigio, 1955), Ennio Morlotti (Carciofi, 1955), Mattia Moreni (Sole e Cespuglio, 1956), tre degli Otto venturiani e, insieme, anche Gli ultimi naturalisti arcangeliani: con loro Spinosa condivide l’attenzione per il quotidiano (Macchina per tessitura, 1957), le forme smagliate (Paese, 1965), un impasto cromatico denso, indispensabile per costruire personalissime cattedrali di senso (Figura femminile, 1969). Anche nei disegni, esposti presso le Gallerie dell’Accademia di Belle Arti fino al 14 febbraio, l’attenzione all’elemento materico riesce a farsi centrale: questa volta è la matita, o il carboncino, o ancora l’inchiostro a spogliare le anonimie del quotidiano che popolano il suo universo creativo da consuetudinarie superfetazioni denotative, e a fare dell’immagine un evento nuovo, lasciato alla scoperta di chi guarda. Carla Rossetti Domenico Spinosa, Fisarmonica (1958), olio su tela, cm 100 x 120, collezione privata
Paolo Bini, Left Behind, Paradise Box, Reggia di Caserta 2016-2017. Photo Carlo Ferrara.
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Alfonso Artiaco, Napoli
30° ANNIVERSARIO
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lfonso Artiaco, nel cuore degli anni ottanta, fondatore, ad appena ventidue anni, di una galleria che presto seppe conquistarsi grande attenzione e credibilità nel mondo artistico dell’epoca, esponendo artisti già ampiamente affermati come Giovanni Anselmo, Sol LeWitt, Giuseppe Penone, Gilberto Zorio – ma anche mostrando tempestivamente un certo occhio per i giovani emergenti e per il territorio -, tiene, in occasione del compimento di tre decadi di ininterrotta attività una mostra che, raccogliendo ben quaranta artisti – quelli con cui la galleria ha lavorato ma anche un paio con i quali la galleria lavorerà prossimamente -, restituisce la pluralità, oltre che la qualità, delle sue proposte. Niente installazioni pantagrueliche naturalmente, visto il numero di partecipanti e malgrado i pur amplissimi spazi che ormai possiede, quelli della sede di Piazzetta Nilo, nel cuore del centro storico di Napoli, dove si è trasferito da qualche anno, dopo aver abitato per circa un decennio lo spazio che fu di Lucio Amelio a Piazza dei Martiri, posta nella zona più elegante della
città, alla quale era approdato nel 2002 da Pozzuoli, territorio in cui il suo percorso era iniziato nel 1986. Tuttavia ogni artista riesce a dare pienamente, in conformità con lo spazio disponibile, un saggio della sua poetica. Attraversando così le otto sale della galleria lungo le quali si snoda la mostra, ci imbattiamo in artisti simbolo dell’arte concettuale statunitense, quella legata originariamente a Seth Siegelaub, come Robert Barry, Sol LeWitt o Lawrence Weiner, così come in soluzioni neofigurative, quali quelle di Glen Rubsamen o Ida Tursie & Wilfried Mille; in esponenti storici dell’arte povera, come Giovanni Anselmo, Giulio Paolini e Giuseppe Penone, ma anche nell’esuberanza neoepressionista di Albert Oehlen; nell’infinita ricerca sul principio primo del dipingere di Niele Toroni, ma anche nell’impegno politico di Thomas Hirschhorn; nell minimalismo di Carl Andre, ma anche nei differenti neominimalismi di Alan Charlton e Liam Gillick. Convivono la scabrosità di Andreas Serrano e la vocazione luministica di Ann Veronica Janssens; le inquiete geometrie di David Tremmlett e l’archeologia immaginaria di Anne & Patrick Portier; la visione archeologica in bianco e nero ed in negativo di Vera Lutter e la scultura-design di Rita McBride; l’ironia di
Nelle immagini del servizio: 30°, veduta parziale della mostra. Dicembre 2016. Galleria Alfonso Artiaco, Napoli. Foto: Luciano Romano
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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Adel Abdessemed e la sollecitazione di vecchie glorie del calcio da parte di Jimmy Durham; gli impossibili alfabeti numerici su specchio di Darren Almond e la alienante camera grigia di Gioberto Noro; la scultura organica di Wolfgang Laib e l’opera insolitamente priva dell’autoritratto dei due autori di Gilbert & George; la suggestiva costruzione policroma e proteiforme di Edi Rama e l’Italia che si sdoppia di Arni Sala; il pannello in cartapesta di Perino & Vele e gli scenari periferici di Botto & Bruno; la pittura botanica di Maria Theresa Alves e quella popolata da volti vagamente celestiali di Mathelda Balatresi; il trittico di bandiere nazionali sull’azzurro, nero e bianco di Marco
Neri e le sperimentazioni tra superfice piana e materia plastica di Melissa Kretschmer; le trasposizioni grafiche di installazioni sonore di Max Neuhaus e le emozionali ibridazioni tra astratto e figurativo di Victoria Civera, l’incessante sequenza delle nere pennellate di Juan Uslè, che l’artista riconduce ai battiti del cuore, e la poetica situazione di una mano sulla quale si posa una farfalla di Lello Lopez, il giustapporre surreale e ambiguo del tempo e dello spazio di Laurent Grasso e la vecchia fotografia di famiglia, ove l’artista si aggiunge idealmente attraverso un gioco di ombre cinesi, di Raffaele Luongo. Stefano Taccone FEBBRAIO/MARZO 2017 | 261 segno - 37
Gianni Pettena, About non conscious architecture, Monument Valley 120x90, 1973.
Galleria Bonelli, Milano
Gianni PETTENA About Non Conscious Architecture
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ntologica dedicata al lavoro di Gianni Pettena dal ’68 alla fine degli anni ’70, a cura di Marco Scotini. L’esterno della Galleria Bonelli diventa un spazio ulterio, individuato con il remake di una installazione storica di Pettena, Paper/Midwestern Ocean, una foresta di strisce plastiche appese, che nella sua prima versione, nel 1971 al Minneapolis College of Art and Design, veniva progressivamente tagliata dai partecipanti alla conferenza che “costruivano” così il loro proprio spazio all’interno dell’installazione. Al centro dello spazio espositivo è stata invece riallestita la grande scritta Carabinieri, che Pettena
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aveva posizionato nel Palazzo Comunale di Novara del 1968, intervento semiotico ma allo stesso spaziale, in cui il linguaggio è rappresentazione di una realtà fatta di scontri di piazza e lotta sociale contro una società sempre più caratterizzata dall’esproprio dei diritti. Installazione destinata a deteriorarsi molto presto, un ingigantimento ironico in risposta alla retorica vuota del termine, similmente alle altre installazioni di quegli anni “Milite Ignoto” e “Grazia e Giustizia”. Le foto-documentazioni vintage, i progetti e le maquette d’epoca restituiscono il contesto di queste operazioni urbane, in cui l’operatore d’architettura, che presto si identificherà come Anarchitetto, prende posizione politica. Gli interventi di Pettena nello spazio urbano assumono forme inedite e sperimentali, come l’intervento sul palazzo di Arnolfo di Cambio a San Giovanni Valdarno nel 1968. O l’evento Campo Urbano nel centro storico di Como, una giornata di “Interventi estetici nella dimensione collettiva urbana”, che vede la partecipazione di Giuseppe Chiari, Enrico Baj, Bruno Munari, e le contaminazioni fra arti visive, performance musicale e l’installazione Laundry, che è anche una dichiarazione di intenti come si legge nel manifesto: “Implicazioni politiche in un intervento estetico, implicazioni estetiche in un intervento politico”. Ma il fulcro concettuale della mostra è Intens, film super8 del 1971, un “ritratto dell’artista da giovane architetto” in cui Pettena è seduto al tavolo da lavoro, e invece di progettare al tecnigrafo indugia in attività oziose: non è tuttavia un “perdere tempo”, ma un “prendersi tempo”, alla base del processo di liberazione dall’architettura poi messo nero su bianco nel volume L’Anarchitetto del 1973. Come scrive Marco Scotini nel testo introduttivo: “L’azione oziosa non è semplicemente una non azione o un minimo di azione, è anzitutto una presa di posizione rispetto alle condizioni di esistenza nella società capitalistica. Si può diventare oziosi ma al costo di un lavoro su di sé, di un cambiamento radicale di prospettiva su di sé, sugli altri e sul mondo.” Pettena allora come “architetto senza progetto” (come lo definisce Andrea Branzi) realizza diverse proposte visionarie per Trigon a Graz del 1971, alcune insieme a Giuseppe Chiari, nelle quali l’intervento avviene direttamente sul paesaggio, sull’ambiente naturale, con il sollevamento del suolo o il disegno creato dalle scie degli ae-
attivitĂ espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Gianni Pettena, Marea -Thames Tide - Londra, 1974-120x90cm.
Gianni Pettena, About non conscious architecture, 1972, composizone di 8 foto stampate su carta, 40 x 28 cm (9.2 x 13 cm cad). Nella pagina a fianco: Gianni Pettena, Nature vs. Architecture, 2012-13
Gianni Pettena, Ice House II - Minneapolis, 1971 foto 42x36 cornice 64,5 x 54,5 tagliato.
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Gianni Pettena, Paper-Midwestern Ocean, Galleria Giovanni Bonelli, 2017.
rei. Si arriva dunque all’esperienza dei viaggi di Pettena nel Sud Ovest degli Stati Uniti, a cui rimanda il titolo della mostra (già titolo dell’articolo di Pettena su Casabella nel 1974, resoconto dei viaggi americani), in cerca delle “not made by architects architectures”, le miniere e le dighe dello Utah, fino ad arrivare alle architetture del vento della Mountain Valley di origine naturale documentate nelle serie fotografiche. Pettena concepisce quindi gli interventi di contaminazione architettura-natura, gesti “anarchitettonici” in cui l’architettura pre-esistente (spesso abbando-
nata o in attesa di demolizione) viene ricoperta di materiale naturale – il ghiaccio, nel caso della Ice House di Minneapolis, o la creta che ricopre invece la Clay House di Salt Lake City, realizzata insieme agli studenti della University of Utah, che riscatta l’architettura monotona, middle-class dalla sua condizione di clone dei caseggiati adiacenti. Tumbleweed Catcher (anche questo, come Clay House, recentemente esposto a L’Inarchiviabile. Italia anni ‘70, FM Centro per l’Arte Contemporanea, 2016) in cui la forma di un rudimentale grattacielo è invece consegnata direttamente
Galleria Bonelli, Milano
Marco PACE Non finirò stanziale
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l 12 Gennaio 2017 presso la Galleria Giovanni Bonelli, si è aperta la prima personale milanese di Marco Pace (classe 1977), Non finirò stanziale, che propone sculture, disegni, fotografie e opere pittoriche. La mostra, curata da Marco Scotini, tiene a battesimo la nuova Project Room della Galleria Bonelli e instaura un sottile dialogo con la retrospettiva di Gianni Pettena. Shuai Yin: Nella mostra hai presentato alcune sculture architettoniche in ceramica che potrebbero sembrare maquettes di opere note del modernismo, come Blob, la Kunsthaus di Graz a firma di Peter Cook, o altri edifici organici alla maniera della casa senza fine di Frederick Kiesler. Non solo. Queste stesse sculture le hai utilizzate
Un’immagine dell’allestimento di Marco Pace alla Galleria Bonelli di Milano.
come maschere primordiali nei tuoi ritratti fotografici. A cosa ti sei ispirato? Mi viene in mente un vecchio lavoro di Monica Bonvicini ma qui è diverso. Marco Pace: Questa mia mostra nasce in dialogo con Gianni Pettena, che presenta il suo lavoro degli anni ‘60/’70 nello spazio principale della galleria. Un’idea che mi accomuna con il maestro dell’an-architettura è il concetto di architettura nomadica, non costruita. Con fondamenta e piano regolatore l’architettura deve seguire le leggi della natura. Quando I popoli erano nomadi, seguivano le stagioni e non creavano traumi al luogo. Le case (teepee, grotte) erano costruite con materiali che trovavano lì attorno, site specific. L’uso di materiali naturali (come il fango, la creta, il legno) è ciò che mi ispira e affascina. Penso alle architetture organiche di Cook, o a quelle di Giorgini che non urtano la lettura del paesaggio in cui sono immerse. I modelli di creta che presento nella mostra da Bonelli sono sculture ma hanno anche una seconda natura: diventano maschere sul mio volto. I ritratti, realizzati dal mio amico Andrea Buccella, fungono anche da “piantina” del modello in terracotta. Per me le maschere sono un oggetto ricorrente, le ho sempre inserite nei miei lavori pittorici, ed hanno un valore di totem che annulla o inganna le leggi dello spazio-tempo. SY: Passiamo ora ai disegni. Hai presentato dei disegni di grande formato in cui queste maquette architettoniche sono riprodotte all’interno di diversi contesti come fabbri-
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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Gianni Pettena, Carabinieri, Novara, Palazzo Comunale 1968.
alla natura, a cui viene ridata la libertà di agire in un contesto urbanizzato. Sabotaggio e performatività dell’urbano e idea dell’architettura come evento avvicinano Pettena a Gordon Matta-Clark, che agisce negli stessi anni, pur con le evidenti differenze nelle diverse pratiche. Eppure una lettura della città come spazio di azione estetica ma allo stesso tempo politica che ne legga le contraddizioni si ritrova sia in Reality Properties: Fake Estates (1973) di Matta-Clark, che – con un diverso approccio pratico – nella Red Line con cui Pettena circonda Salt Lake City (1972), dove l’indivi-
duazione dei confini si allarga all’intera città. Una mostra dunque che traccia il percorso di Pettena negli anni cruciali per la sperimentazione artistica in Italia, in cui la progettualità architettonica, sottratta ai limiti della realizzazione, diventa “arte concettuale, comportamento, situazione”; e ne delinea la figura di artista a fianco dell’architetto, interprete e critico dell’Architettura radicale. Alessandro Azzoni
che dismesse e luoghi svuotati. Questa gestione scenografica e forte cambia il sentimento degli spazi come in un gioco di scatole cinesi in cui una casa sembra contenerne un’altra e così via. Queste architetture organiche si mostrano attraenti (invitano ad entrare) e inospitali (mostruose). È una condizione dell’abitare in generale o della contemporaneità? MP: Le maquettes che nei disegni acquisiscono la loro dimensione in scala 1:1, sono frutto di una riflessione sull’abbandono, inteso come rinuncia alle regole imposte dalla stanzialità. Quelle “tane” sono architetture non finite costruite in luoghi non finiti o abbandonati. Nella società attuale siamo costretti alla perfezione, all’ottima performance e dunque I miei oggetti e le mie maschere rappresentano la mostruosità di queste imposizioni.
con le architetture. Un cane randagio dentro un museo di arte contemporanea come Museion o il Macba, un clochard sdraiato sotto una scultura di Richard Serra, per quale motivo hai scelto queste citazioni apparentemente inappropriate? MP: I cani randagi, ma gli animali in generale, e, tra gli uomini, i clochard non vivono la città e gli ambienti istituzionali come noi “bravi cittadini” e questo loro atteggiamento mi affascina. Trovo interessante la loro libertà che, come ben sappiamo, è però soltanto apparente.
SY: È stato detto che gli abitanti dei tuoi quadri sono sempre figure della non-appartenenza, della dislocazione, dell’esclusione. Hai creato scene teatrali e interrogative
SY: L’ultima domanda, visto che il tuo percorso artistico, come affermi nel titolo della mostra Non finirò stanziale, presuppone un rifiuto a rimanere stabilmente in un luogo, dove ti muoverai con il prossimo passo della tua ricerca? MP: Nel 2017 finirò sicuramente alcune opere pittoriche, che ho già iniziato. Avrei nel cassetto un sogno con una grande installazione ma sai...le idee prendono forma anche in base alle occasioni, vedremo. n Un’immagine dell’allestimento di Marco Pace alla Galleria Bonelli di Milano.
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Galleria Santo Ficara, Firenze
Ennio Ludovico CHIGGIO Edoardo LANDI Oscillazioni percettive
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nnio Ludovico Chiggio ed Edoardo Landi sono due artisti componenti dello storico Gruppo Enne, (nato a Padova nel 1959 e scioltosi alla fine del 1964), che hanno portato avanti in modo indipendente le loro ricerche ed il proprio lavoro, senza rinunciare al confronto e allo scambio, tanto che oggi, a distanza di oltre cinquanta anni dalla loro prima mostra a due, le loro opere sono state proposte nuovamente in dialogo negli spazi della Galleria Santo Ficara a Firenze. La mostra, intitolata “Oscillazioni percettive” è stata possibile grazie alla collaborazione degli stessi artisti, che hanno curato ogni aspetto della rassegna, comprensiva di una selezione di oltre trenta opere realizzate a partire dalla metà degli anni Sessanta ad oggi, prestando particolare attenzione alle esperienze che rivelano, da parte di entrambi, come scrive Silvia Pegoraro nel suo saggio: “una profonda indagine sulla psicologia della forma, sui sistemi e sui principi scientifici della percezione e sulle reazioni ottenute attraverso determinati stimoli ottici. Altrettanto centrale, nel loro lavoro, è il concetto di “struttura”, indispensabile a un’arte fondata su principi tecnici e scientifici e su un metodo squisitamente progettuale, qual è sta42 - segno 261 | FEBBRAIO/MARZO 2017
ta l’Arte Programmata e Cinetica.” A tal proposito si è così espresso, a suo tempo, Giulio Carlo Argan: “Le ricerche visive programmate muovono dal postulato che il fatto estetico non esiste in sé, come valore stabilmente connesso con determinati oggetti, gli ‘oggetti d’arte’, ma comincia ad esistere con l’immagine che si forma nel soggetto che riceve attraverso la percezione certi stimoli visivi e psicologici. La differenza rispetto al rapporto tradizionale tra opera d’arte e soggetto fruitore concerne anzitutto la sorgente degli stimoli che non è più un oggetto avente, per sé, valore estetico (…) L’eliminazione dell’oggetto d’arte come sede e veicolo del valore estetico ha come conseguenza anche l’abbandono delle tecniche artistiche tradizionali”. I due artisti, come molti altri che si distinsero a partire dagli anni Sessanta in questo tipo di ricerca e sperimentazione, continuano a lavorare in questa direzione con risultati stimolanti e particolarmente interessanti per il senso di destabilizzazione e la vertigine ottica che provocano nello spettatore. “Ogni sapere è sapere sperimentale, risolvendosi nell’esperienza, o presenza. In ogni atto di pensiero, noi cogliamo sempre qualcosa come dato alla
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Ennio Ludovico Chiggio, Bispazio Instabile, 1962-2015. Ennio Ludovico Chiggio, Ronda sonora, 1988.
coscienza, e ci rendiamo certi della nostra esistenza in quanto lo siamo del nostro pensiero. Questo pensiero non è soltanto il pensiero razionale, ma anche il dubitare, l’affermare, il credere, il volere, l’immaginare, è cioè, l’avvertire, l’avere coscienza in generale di un aspetto qualsiasi. Certamente ogni conoscere è di per se stesso anche fare, come ogni fare è conoscere. Noi siamo un’identità di organismo e spirito, la cui unità è vita psicofisica. (...) L’essenza dello spirito sta nella sua libertà obiettiva e nel-
la sua autocoscienza, ma soprattutto nell’essere atto”, scrivono Ennio Ludovico Chiggio e Edoardo Landi nel Documento teorico redatto in occasione della doppia personale presso lo Studio Enne di Padova nel 1961.” In occasione della mostra è stato edito da Cambi Editore il catalogo numero 61 della collana “Presenza in Galleria” contenente le immagini di tutte le opere esposte, un testo di Silvia Pegoraro e un’intervista a Edoardo Landi di Federico Sardella. (a cura di L.S.)
Edoardo Landi, Ipercubo virtuale 73, 1973 Acrilico su legno, cm 49,6x49x,6x49,6
Ennio Ludovico Chiggio ed Edoardo Landi nello Studio Chiggio, Padova, 2012.
Ennio Ludovico Chiggio, Alternanza instabile progressiva 03, 2014.
FEBBRAIO/MARZO 2017 | 261 segno - 43
Galleria Granelli, Castiglioncello (LI)
Bruno MUNARI
B
runo Munari è un artista sperimentale che ha attraversato con leggerezza e distacco tutte le vicende dell’arte, e non solo, del novecento. Ma cosa ha fatto e perché è un artista ancora attuale? Bruno Munari esordisce giovanissimo, verso la fine degli anni ’20, all’interno del movimento futurista. Sostenuto da Marinetti e Prampolini diventa presto noto per la creazione delle Macchine Inutili, ovvero di mobiles, di poco precedenti a quelli di Calder, che richiamano le realizzazioni aeree del costruttivismo russo di Rodchenko e Ioganson. Milano in quegli anni è un crocevia di idee importanti oltre che di iniziative futuriste. Arriva Kandinsky, con una personale alla galleria del Milione, arriva Albers in dialogo con Veronesi, arrivano i libri della Bauhaus. Munari negli anni trenta lavora principalmente come grafico, spesso eludendo, con una quasi impercettibile dose di humor, la censura fascista. Nel primo dopoguerra inizia la sua fase più creativa. Fonda il Movimento Arte Concreta, in opposizione alle istanze figurative e informali, considerate prive di progettualità. Nel 1948, alla sua prima importante personale crea un environment incentrato su una forma fluida e naturale appesa al soffitto che prende il nome di Concavo-Convesso. Nel 1950 proietta le sue composizioni polimateriche smaterializzando la pittura e, sempre negli stessi anni, risponde alla sfida delle ortogonali di Mondrian con la serie dei Negativi-positivi, composizioni astratte in cui le forme si incastrano, rendendo ambigua e superata la contrapposizione tra sfondo e figure. Nel 1962 organizza, sponsorizzata dalla Olivetti, la famosa mostra di Arte Programmata che sarà veicolata negli USA e poi in Europa. Dirige brevi film di ricerca e progetta opere che si sviluppano per aggregazione modulari nello spazio (Strutture Continue, AconaBiconbi) o grazie a modificazioni interattive (Flexy, Tetracono, Polariscop). Nel 1976 dirige i primi laboratori per bambini e pubblica, nel corso della sua carriera, più di un centinaio di libri. La sua arte è una sfida creativa ancora valida che ci spinge, in un mondo sempre più complesso e, in quanto tale, non più governabile dalle singole entità, verso l’apertura e la condivisione di stimoli creativi e poetici. Per Munari l’artista svolge anche una funzione sociale e l’estetica è una pre-condizione per comprendere meglio il nostro rapporto con la natura e con il mondo in cui viviamo. Luca Zaffarano
In alto: Bruno Munari 1956. ph. AldoBallo. A sinistra: Bruno Munari, Negativo Positivo,1995. Acrilico su tela, cm 50x50. In basso: Bruno Munari, P4 8 (Curva di Peano), 1975. Acrilico su tela, cm. 100 x 100
A partire dalla mostra retrospettiva del 2015 “Bruno Munari – la genialità tra regola e caso”, la Galleria Granelli segue con grande interesse l’artista, le cui opere vengono presentate ad ArteFiera di Bologna 2017 nello stand della galleria, che, altresì “valuta acquisto di opere da Collezionisti” www.galleriagranelli info@galleriagranelli.it per informazioni su Bruno Munari è online il sito documentale http://www.munart.org 44 - segno 261 | FEBBRAIO/MARZO 2017
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Victor Burgin, Dear Urania. Galleria Lia Rumma, Napoli 16.10.2016 - 14.01.2016 Installation view Terza stanza/Third room © Victor Burgin Photocredit Giorgio Benni. Courtesy Lia Rumma Gallery Milan/Naples
Lia Rumma, Napoli
Victor BURGIN
L
egato alla galleria da un antichissimo, più che quarantennale, rapporto, dal momento che tiene la sua prima personale presso Lia Rumma addirittura nel 1972, pioniere di un’arte concettuale che rifiuta precocemente il paradigma tautologico, ma che, attraverso le giustapposizioni tra immagini e testo, pronuncia osservazioni sulla società - «la funzione ottimale dell’arte è di modificare le interpretazioni istituzionalizzate del mondo e di fungere quindi da fattore socializzante», scrive in quello stesso 1972 sulla rivista “Art-Language” rintuzzando le posizioni di altri esponenti del concettuale britannico come Terry Atkinson e Michael Baldwin –, traendo alimento da discipline come il marxismo, la, semiotica e, in un secondo momento, la psicoanalisi, Victor Burgin (Sheffield, England, 1941), come già altri artisti internazionali passati negli ultimi anni da questa galleria – si veda il recente caso di Alfredo Jaar -, lavora, per esplicito desiderio della sua direttrice, su tematiche tratte dal contesto napoletano. Punto di partenza è Relazione del primo viaggio alla Luna fatto da una donna nell’anno di grazia 2057, opera scritta dallo scienziato Ernesto Capocci di Belmonte - dal 1833 direttore dell’appena sorto Osservatorio Astronomico di Capodimonte - a metà dell’Ottocento, dopo la sua rimozione dall’incarico all’Osservatorio (1850) per aver preso parte ai moti del 1848 e durante gli anni del conseguente decennale esilio, cui mette fine solo l’entrata di Garibaldi a Napoli (1960), in virtù del quale è anche rintegrato nel suo ufficio, che mantiene fino alla morte, avvenuta nel 1864. Ma che cos’è questo libricino edito effettivamente a nel 1857, eppure riemerso – e ripubblicato - solo assai di recente, nel 2015 da LB Edizioni? Una sorta di immaginaria lettera che la protagonista, Urania, invia dalla Luna all’amica Ernestina, rimasta sulla Terra, «espediente che» insomma, nota lo stesso Burgin, «permette a Capocci, sotto una copertura finzionale, di dare libero sfogo alle sue più fantasiose speculazioni scientifiche». Piuttosto che concentrarsi sul contenuto stesso della lettera di Urania, l’artista inglese sceglie di stare al gioco dello scienziato napoletano diventando Ernestina, scrivendo cioè una lettera di risposta. Essa diviene materia prima per una videoproiezione, Dear Urania – da cui trae il titolo l’intera personale - che, realizzata in 3D - utilizzando un “game engine”, software progettato per la creazione di videogiochi - ed ambientato «in un loft poco arredato di un’indeterminata città americana» - ove le bianche lenzuola del letto disfatto evocano il suolo lunare -, come a suggerire «che Ernestina avrebbe potuto essere un’artista, pensiero che ha motivato le sei immagini incorniciate - Pages from the sketchbook of Ernestina Capocci che accompagnano le immagini proiettate nella galleria», alterna alle vedute del loft brani della lettera di Ernestina
contenente speculazioni letterarie sulla Luna assai più antiche, riferendosi a Ludovico Ariosto e al suo Orlando Furioso (1532), a Savinien de Cyrano de Bergerac e alla sua Histoire Comique par Monsieur de Cyrano Bergerac, Contenant les Estats & Empires de la Lune (1657) e al Bernard le Bovier di Fontenelle nei suoi Entretiens sur la pluralité des mondes (1686). Completamente assenti nel video rappresentazioni delle due protagoniste epistolari, mentre l’unica presenza vagamente animata che compare è l’avatar alquanto incorporeo Friede tratto dal film Una donna nella Luna di Fritz Lang. Completano l’esposizione un altra videoproiezione che illustra le fasi lunari, nonché due serie fotografiche, Basilica I e Basilica II, che suggeriscono un’analogia tra il territorio lunare e quello di Pompei, suggestione supportata anche dalle summenzionate pagine dell’album di schizzi di Ernestina, ove – è lo stesso Burgin a lasciarlo notare - «Un rapido schizzo della Basilica, disegni di frammenti di colonne crollate, la cima del Vesuvio e l’interno di un loft, corrispondono sia a ciò che è mostrato e a cui si fa riferimento nella proiezione, sia alla scena rappresentata negli altri due gruppi di immagini incorniciate in mostra». Inizialmente create per accompagnare un’altra sua videoproiezione Voyage to Italy (2006), queste due serie trovano un’ origine comune in una foto ottocentesca del fotografo napoletano Carlo Fratacci che ritrae una donna in piedi tra le rovine della Basilica di Pompei. La prima consiste in 24 fotografie disposte su due linee di dodici ed un pannello di testo alla sinistra e sono ottenute come se ogni immagine fosse estrapolata da una singola carrellata cinematografica che procede in parallelo alla fila delle colonne, mentre il testo «descrive la fotografia di Fratacci: in primo luogo definendo il setting nei termini che potrebbe utilizzare uno storico dell’architettura; poi il discorso evoca un romanzo giallo che colloca la figura della donna in questo scenario». La seconda consiste di 17 fotografie disposte su due file, una sopra l’altra: le fotografie della fila superiore sono state scattate a intervalli regolari considerando un panorama di 360 gradi della Basilica, così come appare dal punto nello spazio che occupa la donna nella fotografia di Fratacci; la fila inferiore rappresenta invece un panorama della Basilica inquadrato dalla posizione del fotografo, mentre il pannello di testo assume la posizione di una delle immagini – quella che avrebbe mostrato il punto nello spazio in cui si trova la donna della fotografia -, come a sostituirla. Stefano Taccone Victor Burgin, Dear Urania Galleria Lia Rumma, Napoli 16.10.2016 - 14.01.2016 Installation view Seconda stanza/Second room © Victor Burgin Photocredit Giorgio Benni. Courtesy Lia Rumma Gallery Milan/Naples
Victor Burgin, Dear Urania Galleria Lia Rumma, Napoli 16.10.2016 - 14.01.2016 Installation view Prima stanza/First room © Victor Burgin Photocredit Giorgio Benni. Courtesy Lia Rumma Gallery Milan/Naples
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MAON – Museo d’Arte dell’Otto e Novecento, Rende (CS)
Antonio PUJIA VENEZIANO Purezza dei segni
Antonio Pujia Veneziano, Parola, 2015 ceramica smaltata, cotta “a gran fuoco”, cm 42 x 42 ca.
I
l MAON, Museo d’arte dell’Otto e Novecento, e il Centro “A. Capizzano” di Rende, che celebra nel 2017 il suo ventennale, avvia con la personale di Antonio Pujia Veneziano una serie di mostre ed eventi sull’arte italiana ed europea degli ultimi due secoli. I segni sono sogni linguistici, tracciati esistenziali, gesti ambigui di una creatività, che si libera senza alfabeti né realtà da rappresentare. Leggeri, immateriali, totalizzanti. Antonio Pujia Veneziano è un passeggero di un viaggio nei territori nebbiosi del pre-logico e del pre-testo, in quell’area al margine, fra i generi espressivi e i linguaggi visivi, là dove la forma non è né scrittura né immagine preordinata. Siamo nell’ambito di una pittura pura, che si struttura su componenti primordiali, autoreferenti, minimali. Grafemi, pattern, impronte di colori vengono organizzate su superfici senza riferimenti spaziali bensì assolute. Si generano, così, effetti di un pittoricismo minuto, delicato, modulato secondo un andamento in successione, sobriamente composto. La posizione assunta dagli elementi è organica, allusiva di una morfologia liquida e magmatica come quella della natura naturans, in formazione e in via di sviluppo verso identità parageometriche, simili a strutture di cristalli o a tessuti biologici. Pujia fa della terra il suo segno e la sua materia originari, il principio della sua arte, una frontiera fra ceramica e pittura, pur mantenendo una debole consistenza, diafana, al limite del monocromo. Iniziato negli anni Ottanta, il percorso artistico di Pujia si dispiega con tappe di intrecciati interessi per generi contigui, che gli hanno sempre fatto mantenere un garbato equilibrio fra radicalità del minimalismo linguistico ed efficacia degli effetti percettivi. Il campo è un luogo senza profondità o, al contrario, con un senso di sfondamento tipico di una spazialità senza orizzonti e confini. In psicologia della forma e negli studi sulla percezione visiva si parla del ganzfeld, un esperimento che si conduce ponendo due mezze palline di ping pong sugli occhi, in modo da vedere uno spazio senza perimetro. Ebbene l’inserimento di una luce colorata non solo non si vede ma addirittura non colora lo spazio, che nella sua indefinitezza annulla ogni percetto. La “pienezza del vuoto” è un ossimoro reale nel senso che il vuoto è tutto e non lascia percepire più niente, radicalizza la spazialità, senza un dentro e senza un fuori. È tutto lì, in una sospensione spaziale, che rende vago ogni punto di fuga come è vago ogni punto di vista. 46 - segno 261 | FEBBRAIO/MARZO 2017
Antonio Pujia Veneziano, Disvelatura, 2008. Pigmento blu e vernice argento su tela, cm 97 x 131 x 7. In basso, Veratatis Splendor, 2014. Aerografia con vernice oro su tela, cm 90 ø. Collezione Limen Arte
Le linee appaiono simili a tracce occasionali, transitorie, non sono altro che traiettorie, come se indicassero l’apparizione per un istante, alla pari di una particella subatomica, che “si vede” solo indirettamente, attraverso la sua scia. Ma in questo contesto percettivamente omogeneo, in questo campo vuoto, in cui la vista si perde e si confonde nel nulla ipnotico (tanto che i parapsicologi usano questa deprivazione sensoriale per indurre la telepatia), la perdita totale di profondità fa galleggiare segni e disegni in una disorientante nebbia sensoriale. Si disperdono e si compongono lievi residui di un passaggio di tratti e di morfemi, di lettere alfabetiche senza significato letterale ma con un senso d’insieme in una gestalt, che si configura e si azzera per ricomporsi ancora, fino ad un’essenzialità sempiterna. Pitture come icone bianche, sollevate su un piano silenzioso e tenue, con fragili appunti di una memoria visuale, che scarica ogni tensione per rifugiarsi in una trama di minuziose smagliature di superficie, piccole “ferite” su una pellicola esile e opalescente. Anche le forme di ceramica dai bordi sfrangiati assumono sembianze di aperture verso l’infinito, appena abbozzate con moduli e sottili rilievi in campo bianco. Sugli smalti s’alzano lucentezze e semplici configurazioni, quadrangoli, triangoli, cerchi, spirali. Sequenze di filamenti e caratteri cuneiformi, spruzzi di colore e schegge pigmentate irrorano aree monocromatiche, superfici quiete dagli accenni di linguaggi primordiali. Striature e fasci di righe, come scrosci di pioggia, tratteggi dai toni grigi e di cobalto. Pujia è un pittore di lungo corso con una storia, che per oltre un trentennio si è sviluppata sull’asse di un informale segnico, divisa fra azzeramento di ogni forma e gestualità contenuta. Scrive Andrea Romoli Barberini: “E’ nella pittura, infatti, che, concluse le esperienze degli esordi, riconducibili alla natura e al paesaggio, a partire dagli anni Ottanta, Pujia ha rivoluzionato il proprio orientamento espressivo a vantaggio di un linguaggio segnico gestuale che continuava a suscitare, in quel torno di tempo, non soltanto in Italia, l’attrazione di numerosi giovani artisti che intendevano sviluppare il discorso avviato dai maestri dell’Informale eroico. Un’attrazione spontanea e autentica che, nel caso dell’artista calabrese, era stata alimentata anche da soggiorni a New York, nel corso dei quali era venuto a contatto con la pittura d’avanguardia statunitense.
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Tuttavia questa sua prima gestualità, che in qualche misura sottintende la natura e quasi sembrerebbe cercare con essa un segreto vincolo, più che accostarsi a certe esperienze d’oltreoceano, mostra maggiori prossimità con le indagini dei maestri dell’informale padano che indussero Francesco Arcangeli a coniare la definizione di ultimo naturalismo”. Contiguo ad un filone di ricerca, che da Wols e Fautrier arriva fino all’americano Cy Twombly e agli italiani Toti Scialoja e, maggiormente, Gastone Novelli, Pujia fiancheggia anche la pittura scritto-visiva di Sanfilippo, azzerandone però gli intrecci calligrafici in favore di una purezza cromaticoformale sempre più incorporea. Scie e sprazzi danno luogo più che ad un espressionismo ad un impressionismo astratto, leggero e indefinito. Pittura intima, interiorizzata, vibratile, fusa in acquose atmosfere segnate da grafie e tocchi apparentemente ingenui ma pensati. Ultima frontiera dello spazialismo supremo e dell’informale lirico, ai confini ideali fra la fisicità della pittura e l’immateriale poesia. Tonino Sicoli
Antonio Pujia Veneziano, Teoria delle Catastrofi, Terracotta in cottura riducente cm. 90 ø, spessore cm 3
Antonio Pujia Veneziano, Il grande rotolo, 1994 Tecnica mista e foglia argento su tela, cm 156 x 130.
Antonio Pujia Veneziano, Sinapsi cromatiche, 2014 Tecnica mista su tela, cm 50 x cm 70. Collezione Marte
Antonio Pujia Veneziano, Grande Tempo Grave,1994. Tecnica mista e foglia argento su tela, cm 160 x 200. Collezione MAON
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Museo MAGI’900 – Pieve di Cento, Bologna
Graziano POMPILI Omnia di Valeria Tassinari
Graziano Pompili I guardiani del Mistral, 1982. cm 115.
U
no dei fenomeni più significativi dell’età contemporanea è certamente la lucida consapevolezza raggiunta dagli artisti nell’analisi e nella lettura critica del proprio lavoro. Effetto di una sempre più diffusa attitudine al dialogo con curatori e pubblico, e spesso riverbero di riflessioni esercitate nell’ambito di esperienze di docenza nelle accademie e nelle università, le mostre che gli autori decidono di costruire sulla propria storia sono occasioni importanti di riscoperta di percorsi individuali che, in questa forma, acquisiscono una nuova leggibilità, rivelando inaspettati rispecchiamenti e una stringente coerenza. Nell’auto-narrazione, infatti, l’autore punta su scelte strategiche, individuando opere particolarmente riuscite, ma spesso anche imprevedibili, per segnalarci la centralità di immagini delle quali lui solo conosce il valore di svolta nella sua ricerca. Esattamente in quest’ottica è strutturata la mostra di Gra-
Graziano Pompili, ORT, 2010. Nero del Belgio, cm.20x23x34
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ziano Pompili al museo MAGI’900, un’ampia personale (dal 25 febbraio al 30 aprile) nella quale lo scultore propone una sintesi dei momenti salienti della propria produzione artistica, offrendo al pubblico un percorso cronologico che, dalle opere più recenti, risale a ritroso sino agli esordi negli anni Settanta, attraverso un’ attenta selezione di sculture in marmo, bronzo e terracotta, affiancate da disegni e opere su lamiera. Con il titolo Omnia, emblematico della volontà di costruire un racconto visivo capace di cogliere l’essenza e la varietà di un iter creativo articolato in oltre cinque decenni di lavoro ininterrotto, lo scultore mette infatti in scena la sua storia di artista impegnato, con la mente e con le mani, nel costante confronto con la materia e il tempo. In un allestimento intenso e suggestivo, che guida lo spettatore alla comprensione profonda delle declinazioni della sua poetica senza mai diventare didascalico, Pompili dispone in sequenza “sentimentale” le
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Graziano Pompili, ORT, 2003. Granito nero zimbawe.
Graziano Pompili, ORT, 2004. Marmo greco di paros, cm 55x50x40.
sue principali ispirazioni, esplora i passaggi tra i vari materiali d’elezione e la morbida flessione tra figura e astrazione, rimarca la forza evocativa della memoria archeologica, descrive la sua sensibilissima interpretazione del paesaggio come luogo dell’esistenza umana. I principali temi, estetici e iconici, che negli anni sono apparsi quasi per affioramento nel suo lavoro, sono così visualizzati da opere particolarmente care all’autore stesso che, in sottile dialogo con la curatrice, le indica come momenti di svolta, passaggio o apice delle diverse stagioni della ricerca. Per questo, la mostra si propone non solo come la perfetta occasione per ricostruire il profilo globale di una delle personalità più attive della scultura italiana degli ultimi decenni, ma anche come un invito quasi intimo ad ascoltare un racconto autobiografico e autocritico, il cui protagonista, con lo sguardo tenero e tagliente della maturità, si concentra sulla rilettura del proprio percorso e ne favorisce l’interpretazione, riportandoci fino alla sua prima stagione di ventenne, ceramista alle prese con la seduzione del marmo. Tra le opere, tutte significative, figurano
dunque le sculture più recenti, dominate dalla rappresentazione essenziale e poeticamente distillata di paesaggi di pietra abitati dai passi e dalle dimore dell’uomo; i giochi d’ombra solidificata degli anni ’90; le fragili ri-archeologie degli anni ‘80, con le terrecotte e refrattarie rese friabili dall’evocazione frammentata di corpi titanici e classicheggianti; fino alle forme nitidamente plastiche, organiche e levigate, che dichiarano a gran voce gli amori giovanili per i grandi dell’astrattismo - da Viani, Moore, Arp, Brancusi a Quinto Ghermandi (suo professore a Bologna) - ai quali l’autore si ispirava negli anni degli esordi. L’iniziativa si colloca nell’ambito di un progetto curatoriale che intende valorizzare gli autori presenti nella collezione permanente del MAGI’900, proponendo occasioni di approfondimento monografico e critico sulle personalità più interessanti dell’arte italiana degli ultimi decenni. Per questo, intorno alla mostra sarà possibile ampliare ulteriormente il percorso, visitando le altre opere dell’artista esposte nelle varie sale e le opere monumentali collocate nel giardino del museo. n
Graziano Pompili, Tenero incontro, 1978. Marmo statuario cm 28x18x57.
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Fabbriche Chiaramontane, Agrigento
Giovanni LETO La stratificazione del tempo di Dario Orphée La Mendola
S
econdo le teorie della geologia, che in fatto di credibilità valgono quanto le intuizioni artistiche (dacché a entrambe le discipline il corso esistenziale è oscuro), mediante la stratificazione è possibile stabilire una ricostruzione della storia della Terra. Si badi bene: è una stima la cui costruzione viene fuori dopo un’attenta analisi degli strati rocciosi. Tuttavia, mediante tali strati, traiamo delle informazioni in merito a come era disegnato il nostro pianeta, quali climi soffiavano su di esso e, con i fossili, chi lo abitava. Per il naturalista danese Niels Stensen, tra i primi studiosi di stratigrafia, il procedimento di lettura temporale della terra, in forma cronologica, avverrebbe seguendo le deposizioni a partire dagli strati più profondi (antichi) a quelli più superficiali (recenti). Da ciò, le nostre conseguenze: il tempo, che consideriamo un costante e innocuo ticchettio nel quadrante dell’orologio, in realtà è la veste simbolica di una effettiva stratificazione di attimi senza sosta, i quali si sommano l’un l’altro come spesse pareti orizzontali in cui, i “pezzi” di noi stessi, rimangono incastonati tra un frammento di abisso e l’ermetica sovrapposizione di una sedimentazione rocciosa. La retrospettiva di Giovanni Leto intitolata Orizzonte in orizzonte, che raccoglie le opere dell’artista di Monreale dal 1985 a oggi, curata da Lorenzo Bruni e organizzata dall’”Associazione Amici della Pittura Siciliana dell’Ottocento”, presso le Fabbriche Chiaramontane di Agrigento, segue le concettualizzazioni espresse sopra. Il percorso della mostra propone, fin dall’inizio, una chiave di lettura chiara, evidenziata con eleganza. Il primo orizzonte, cromaticamente bianco, che dà avvio al resto, ci lascia immaginare il complesso espositivo da intendersi quale sezione temporale, la cui superficie sta di fronte agli occhi, mentre il nostro attraversamento verticale, alla ricerca del nucleo, seguendo i principi geologici, s’immerge in una storia lunga trent’anni. Che, attorno all’installazione site specific Spazio (Orizzonti), composta da volumi di carta a mo’ di corde libere nello spazio fisico, reinterpretando l’idea di monumento e di disegno astratto, con interventi multimediali, ruota circolarmente prima di qualsiasi epilogo. La presenza fisica dell’installazione è una buona sottolineatura, che si allega al volere poetico di Leto, ovvero della scelta (artistica) di aver coscienza di sé con le opere e con l’intervento materiale: sì, nello spazio, eppure sostanzialmente nel tempo, impossibile da leggere attraverso le righe stampate (annotate?) sulle pagine dei quotidiani accartocciati. «La funzione dell’arte - afferma infatti Giovanni Leto - deve essere espressiva. Altrimenti è un mero fatto estetico. Inoltre, si deve dare corpo a tale espressione pittorica, a partire dalla materia primordiale. La stratificazione delle pagine dei quotidiani, che avviene sempre dal basso verso l’alto, accumulandosi lentamente, ricoprendo la pittura sottostante, la quale appare quasi come paesaggio indicibile, è un dato: prendere la loro funzione e tradurla in altro. In me c’è il bisogno intimo, anzi un dovere sociale, di intervenire nella realtà, ricoprendo un ruolo attivo. E un modo per farlo è intervenendo con la materia. Il risultato della trasformazione di ciò che era supporto informativo mi porta all’essenza delle cose. Lì intravedo l’azzeramento di uniformità tra le parti, con il colore che trasuda, con i territori feriti, con la scomparsa dell’uomo. Un’illuminazione. Anche se, probabilmente, la luce non è di facile rintracciamento». E il tempo? «Il tempo scompare, sospeso, perduto tra l’orizzonte bianco. Perché è così: quando si arriva all’essenza delle cose, il tempo non ha più consistenza – risponde -. Ritengo maggiormente importante, oltre al contenuto narrativo della figura, trovare
Giovanni Leto, Orizzonte bianco, 2016. Carta, pigmenti, pellicola fotografica e frammenti di diapositiva su tela, cm. 90x60.
Giovanni Leto, Composizione, 1998, carta e pigmenti su tela, cm. 140x140.
Giovanni Leto, veduta d’insieme della mostra.
Giovanni Leto, Rossori, 1995. Carta e pigmenti su tela, cm. 140x140.
un linguaggio alternativo per parlare di noi. Un modo potrebbe essere quello di manipolare e, come dicevo prima, azzerare. Per un rapporto dialettico della realtà. Che è rischioso, lo so. Ma è questo il bisogno». La mostra prosegue con la rassegna delle opere più rappresentative: le pitture monocrome su carta dei primi anni del Terzo Millennio, i cui quotidiani arrotolati si sollevano sulla superficie della tela quasi come “mondi” mai conosciuti; i quali si legano, stilisticamente, ai bassorilievi degli anni Novanta, saturi di carta manipolata, dal monocromo che rinvia a terre coltivate viste dall’alto; e le prime sperimentazioni degli anni Ottanta, la cui produzione è legata alla rimodulazione della materia, insomma oltre la pittura. O, per essere più precisi, da Orizzonte in orizzonte. n 50 - segno 261 | FEBBRAIO/MARZO 2017
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Galleria FabulaFineArt, Ferrara
Giovanni GAGGIA Sequens Lineam
L
a Galleria FabulaFineArt ospita Sequens Lineam, mostra personale di Giovanni Gaggia a cura di Maria Letizia Paiato. Gaggia, la cui poetica si muove in una ricerca di equilibrio tra disegno, azione performativa e recente dedizione al ricamo, impagina una mostra narrante il proprio “io” creativo e si compenetra coi raffinati spazi della galleria ferrarese. Ben si sposa l’intervento di Giovanni Gaggia con l’intendimento più volte espresso dal direttore artistico della galleria, Giorgio Cattani, di trarre continua e feconda ispirazione dal concetto di “origine”. Un’esigenza profondamente sentita altresì riferimento originario e costitutivo per un imprimatur che ritrova nella sensibilità e nella bellezza dell’arte i suoi valori fondanti. “Origine” come ancestrale cavità del tempo: è questo il topos in cui si rinserra l’opera omnia di Giovanni Gaggia, sempre amorosamente versato a penetrare le pieghe dell’anima. Disegni, piccole sculture, opere fotografiche, interventi audio e video, installativi e performativi, grandi arazzi, delicati ricami, poesie; Gaggia dispiega tutte le eterogenee forme della sua creatività esercitando un piglio trasversale e sempre lucidissimo. Ci suggerisce, questa polifonica architettura così sapientemente orchestrata, un mistico slancio verso l’Iperuranio: il ductus originariamente ardente diviene via via immateriale, si semplifica, si sfolgora nella luce. Scrive la curatrice Maria Letizia Paiato: “In questa mostra alla Galleria FabulaFineArt emerge con chiarezza dapprima il tema del corpo, metaforicamente materiale da plasmare per Gaggia e poi ponte verso la propria consapevolezza del fluire e confluire nell’universo dell’arte. Un mondo fatto di passione (fisica-spirituale-affettiva) in seguito sintetizzato nella forma di un cuore, che è al contempo spirito ed esempio iconico di deposito immaginale, capace di far affiorare con delicatezza ma serietà, uno status di ‘coscienza’. È un cuore rosso che lentamente svanisce, per palesarsi poi nella sola riduzione del colore, sintetizzato in una macchia, che a sua volta si fa impronta di un ‘sentire’ e ‘indizio’ di un ‘pulsare vitale’, particolarmente emozionante, quando incontra i delicati ed eterei segni a matita di questo giovane e profondo artista. Infine, attraverso l’atto del cucire, la forma-cuore si astrae ulteriormente: il disegno si fa ricamo e il filo, a sua volta, si fa espressione di carattere”. Sequens Lineam condensa i passaggi nodali del divenire artista di Giovanni Gaggia e lo fa immergendo lo spettatore nell’attraversamento religioso, lento e scandito di movimenti d’intensa poesia e di drammatica bellezza. Intrinsecamente compiuti in sé, pur tuttavia questi frammenti di vita e d’arte sussumono in una vera fenomenologia delle attività dello spirito. Corporeo e spirituale, individuale e universale si commettono in una sublime palingenesi. L’incidenza dell’elemento sociale e politico metamorfizza in un dramma intimamente sentito e lo smarrimento dell’uomo cede il passo all’incrollabile fede nell’artista come ermeneuta. Sequens Lineam è, letteralmente, inseguendo la linea: una linea che è febbrile e saettante nella prima pittura di Gaggia, che si addolcisce e s’intinge nell’effusa eleganza della gouache nelle tavole, per poi ritornare sinuoso intarsio nel ricamo. Dunque una mitopoiesi del segno: segno come principio e fulgor, tormentoso esercizio e ardimentosa rivelazione. In questa occasione Giovanni Gaggia ha realizzato alcune opere inedite liberamente ispirate alle poesie di Davide Quadrio pubblicate nel libro Inventarium, sottolineando ancora una volta la collaborazione con il critico e poeta ma anche il senso di coope-
Giovanni Gaggia, Sanguinis Suavitas, 2010, sangue e matita su carta cotone, 56x76 cm, serie. Photo Credits Matteo Cattabriga. Giovanni Gaggia, In corpo, liberamente tratto da Intexĕre Tempus, 2016, ricamo su stoffa, 400x140 cm. Photo Credits Matteo Cattabriga.
Giovanni Gaggia, Unus Papilio erat, 2008-2013 (collezione privata). Photo Credits Matteo Cattabriga.
razione e di compenetrazione con l’altro da sé che è fondamentale nel suo lavoro. Per questa stessa motivazione l’artista ha scelto di comunicare la mostra attraverso le immagini fotografiche create dagli obiettivi di Cristina Nùnez e Gianluca Panareo. Serena Ribaudo
Giovanni Gaggia, Il rocciatore, Nessun tempo, Boom, Il Suicidio di Domenico, Body, Inferno, 2001, tecnica mista, 75x55 cm, Photo Credits, Matteo Cattabriga.
FEBBRAIO/MARZO 2017 | 261 segno - 51
ABC-ARTE, Genova
Matteo NEGRI
L
a ricerca di Matteo Negri si concentra perlopiù sulla realizzazione di opere plastiche caratterizzate da superfici traslucide, capaci di creare una sorta di spaesamento percettivo e visivo in chi si accosta al suo lavoro. La sua è, sostanzialmente, una sorta di rielaborazione contemporanea dei codici strutturali dell’astrattismo, capace di generare una particolare elaborazione della forma. Per questa mostra, però, Negri realizza soprattutto opere specifiche in dialogo con gli spazi della galleria. Piano Piano, titolo dell’opera principale in mostra e dell’esposizione stessa, sono parole che suonano come un sussurro e che sommessamente raccontano l’interesse dell’artista rivolto alle relazioni fra l’individuo, lo spazio e lo sguardo dell’osservatore. Piano Piano, sostanzialmente in antitesi con la quotidiana e incessante trasmissione continua d’immagini che caratterizza la nostra epoca, mette in scena un processo di decodificazione della contemplazione, che avviene in modo lento: Piano Piano per l’appunto. È lo stesso Matteo Negri a spiegare il senso profondo della propria azione creativa: “In una società che smaterializza tutto, l’opera riesce a catalizzare e trasformare l’esperienza quotidiana in qualcosa d’innovativo”. Lo sguardo, nell’attraversare la mostra, si posa innanzi tutto su un elemento in acciaio lucido (l’opera Piano Piano), posto al centro della sala centrale, una sorta di prisma o caleidoscopio, da cui l’artista fa partire propriamente il senso di spaesamento voluto e ricercato. La scultura, infatti, si presenta come un elemento che rompe l’apparente armonia della mostra, assolvendo, al contempo, il ruolo di punto centrale d’osservazione della stessa. Da qui parte un’immaginaria diramazione di sguardi che si posano progressivamente su ogni singola opera. Gli occhi sono catturati dai Kamigami (in giapponese “spirito” quale pluralità, ripetizione e infinitezza) ovvero piani forati in lamiera dai colori cangianti, differenti per dimensione e forma geometrica sul
Matteo Negri, Piano Piano, ABC-ARTE Genova, installation view. Matteo Negri, Kamigami, Piano Piano, ABC-ARTE Genova, installation view.
52 - segno 261 | FEBBRAIO/MARZO 2017
Matteo Negri, Piano Piano, ABC-ARTE Genova, installation view.
cui bordo si riflettono infinite prospettive e immagini; e dai PSA (lacronimo di “pittura su alluminio”) stickers e serigrafie trasposte su una lamina in alluminio, rappresentativi per l’artista di un concettuale collegamento tra pittura, scultura e fotografia. Ma in tutto questo c’è anche un elemento figurativo dominante. C’è l’immagine di una scimmia continuamente ripetuta – spiega l’artista – : “fantomatico spettatore privilegiato ma anche lo specchio di ciò che noi, senza la nostra coscienza possiamo vedere”. Infine, il percorso visivo inscenato da Negri si snoda in un progressivo crescendo dove sono analizzate le architetture e i contesti urbanizzati che originano suggestive immagini condivise del vissuto collettivo, un processo dove al ricercato effetto di spaesamento si sovrappone l’intenzione di espansione oggettuale che si snoda secondo un ritmo fluttuante che va dall’interno all’esterno dell’opera e della galleria stessa. Piano Piano di Matteo Negri è curata da Alberto Fiz e accompagnato da un catalogo comprensivo di un testo di Lorenzo Bruni. Maria Letizia Paiato
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Matteo Negri, Wall, Piano Piano, ABC-ARTE Genova, installation view.
rima personale italiana per il giovanissimo artista Ruben Pang, originario di Singapore, che ha soli 26 anni, con la sua opera, ha già fatto il giro del mondo, presente in numerose esposizioni fra Asia e Europa e segnalato fra gli emergenti più promettenti del momento sulla scena internazionale. Alla galleria Primo Marella presenta il proprio lavoro, fra dipinti e sculture in ceramica, sotto il curiosissimo titolo Zwitterion, termine deliberatamente declinato da Zwitterione, particella che in chimica identifica una molecola elettricamente neutra, tuttavia qualificata al contempo da cariche positive e negative localizzate. Una parola, non scelta casualmente, che in tedesco significa letteralmente ione ibrido, concettualmente utilizzata in questo contesto per narrare la medesima natura eterogenea sottesa alla sua opera. Eterogenea non tanto sotto il profilo formale che invece si presenta molto coerente, quanto invece sotto quello espressivo – comunicativo. L’intero lavoro di Pang sviluppa, infatti, una ricerca indiriz-
zata a sondare le differenti pulsioni emotive umane, sia positive sia negative, annidate nel profondo dell’inconscio che, secondo la sua visione, sono corrugate nel flusso della banalità quotidiana, celate da una sottile coltre di ristrettezze comportamentali e sociali dettate da schematismi culturali. In parte debitore e affine a una poetica che affonda le sue radici in un surrealismo di matrice freudiana, Pang spinge l’osservatore a oltrepassare quella linea di sospensione fra figurazione e astrazione che le sue composizioni suggeriscono, andando dritto al cuore di quell’“umanità” celata nelle liquide figure che dipinge. Da una parte Pang attrae lo spettatore attraverso la forza espressiva dei colori vivaci, quasi metallici, delle vernici che utilizza, dall’altra, una volta catturato lo sguardo, impone una riflessione che si tramuta progressivamente in una lenta ma sorprendente scoperta continua di dettagli. Si tratta di particolari che svelano, in una certa misura, l’attenzione che Pang pone alla Storia, alla sua conoscenza e consapevolezza. Più in generale il suo sguardo è indirizzato allo studio della classicità – misura fondante nella civiltà occidentale – che rappresenta per l’artista, non solo un termine di paragone e contrasto con la propria cultura di origine ma anche il terreno entro cui convogliare e al contempo liberare, un pensiero più trasversale. Punto di partenza della sua ricerca è stata – come spesso egli stesso ha dichiarato - l´opera De Providenzia di Seneca. In questo primo libro dei Dialoghi, sostanzialmente lo stoicista romano, stabilito che l’ordine del tutto non può essere casuale ma disciplinato da una ragione divina, inserisce qualsiasi fenomeno in grado di mettere in discussione quest’ordine. E Seneca in questo colloquio fa proprio l’esempio dell’artista e la sua opera, affermando che, come l’artifex sa trarre una perfetta opera d’arte da una determinata materia imperfetta, così il divino compone la perfezione dell’universo dalla materia. In pratica Pang, nel riferirsi a Seneca, trova una motivazione filosofica nel trattare quell’insieme di sentimenti, sensazioni, turbamenti e psicologie che racchiudono tutta l’imperfezione umana, spingendole verso il terreno di una perfezione che altro non è, che quella rappresentata dall’arte. In sintesi, le innumerevoli sperimentazioni sul versante tecnico, di una contemporaneità disarmante per quel che attiene i materiali, si traduce in bellissime composizioni e ritratti dai contorni sfumati, che per certi aspetti ricordano le distorsioni di Fancis Bacon, e kafkiane ceramiche, quest’ultime in particolare, nella ripresa del mezzo busto, mostrano l’artista dedito anche alla riattualizzazione della più classica fra le forme scultoree dell’antichità. Maria Letizia Paiato
Ruben Pang, Mother Superior, 2015. Olio e acrilico su tela, cm46x77.
Ruben Pang, The Light of Adoration is Torture. Olio, acrilico e vernici su alluminio, cm 60x75.
Galleria Primo Marella, Milano
Ruben PANG
Ruben Pang, Our Greatest Weapon is Ruben Pang, Poker Face, 2016. Mongoloid Cobra, 2016. Olio, acrilico e Ceramica cm43x28x31. vernici su alluminio, cm267x150.
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FEBBRAIO/MARZO 2017 | 261 segno - 53
Galleria Paola Verrengia
SCHERMI RUBATI
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chermi rubati: il titolo è un furto. O meglio un regalo. Ce lo ha fatto uno dei più grandi registi di sempre: François Truffaut. Io sono cresciuta guardando le avventure di Antoine Doinel. Baci rubati, con la struggente canzone di Charles Trenet Que reste t’il de nos amours, lo so a memoria da tantissimi anni. E quando, con Paola Verrengia, abbiamo deciso di fare una mostra che mettesse insieme arte e cinema, eccolo riemergere come se fosse stato (e forse è davvero così) sempre con me. Anche perché due delle artiste che abbiamo invitato era proprio lì che ci stavano accompagnando: tra le pieghe di Fahrenheit 451 e agli albori dei racconti di Doinel. Clelia di Sara Rossi, realizzata nella Biblioteca storica Angelo Mai di Bergamo, cita gli ‘uomini libro’ del finale del film diretto nel 1966 da Truffaut. Lì tra i roghi di volumi decisi dal potere, la resistenza possibile era una sola: imparare a memoria Don Chisciotte o David Copperfield, per salvarli dalla distruzione. La foto di Sara Rossi, tra ombre e luci quasi caravaggesche, è un inno silenzioso a chi i libri li custodisce e li protegge. Gea Casolaro, per afferrare Parigi si è nutrita di cinema. Ha cercato in ogni angolo della città tracce di ciò che aveva visto sullo schermo e ha sovrapposto i due punti di vista. Lei, maestra del doppio sguardo, ha elargito alle rues, ai boulevards, alle piazze, ai ponti la loro seconda volta. Sulle scale della basilica del Sacro Cuore a Montmartre si è imbattuta nei Quattrocento colpi con Jean Pierre Léaud/Antoine Doinel, alter ego di Truffaut, ancora ragazzino. E non solo. Gea è capace di condurci tra visioni romantiche, misteriose, vitali, notturne, piovose, colorate. Da attraversare con l’occhio dei registi amati, con il suo, e infine con il nostro. Siamo
Ivan Barlafante, Cuore Bianco, 2016.
Galleria Michela Rizzo, Venezia
Ivan BARLAFANTE
L’
Orizzonte rovesciato è il titolo di una mostra di Ivan Barlafante che ne contiene tre, come tre tempi di un film che si svolge in altrettanti luoghi diversi. Le tre sale della galleria che la ospitano sono improntate ognuna ad una diversa situazione spaziale e a un differente elemento. Ce lo spiega molto bene la curatrice Laura Cherubini, che ravvisa nel lavoro di Ivan “un labile liminare tra la dimensione naturale e quella spirituale”. La prima sala è dedicata alla terra con una scultura formata da due parti della radice di un olmo portato via dalla piena, arrivato al mare e spiaggiato. La superficie è stata privata della corteccia e poi sabbiata, levigando una a una, fino a rimuoverle, le sue tragicità. L’albero si spoglia del suo vissuto, offrendosi in una dimensione in cui ogni giudizio è assente. E’ come essere davanti a un Haiku, poesia giapponese di soli tre versi, costruita da re- gole precise, una poesia di concentrazione. Le altre opere corrispondono all’idea di poter fruire un’opera senza parafrasarla. Non sono definizione di qualcosa che chiede di essere tradotto. Ivan Barlafante, La bellezza dell’inutile, 2016.
54 - segno 261 | FEBBRAIO/MARZO 2017
Martin y Sicilia, Conexion en directo, 2013. 148x90cm
almeno in tre. La coppia spagnola Martin y Sicilia ha scelto per un incontro clandestino (e surreale) un garage, luogo amatissimo dal cinema. Segretamente i protagonisti della storia si scambiano ‘iconos policos’. Ma che oggetti sono? Un’aquila, una strana statua. Stai lì a guardare tutta questa serissima messa in scena, gli sguardi consapevoli dei due uomini che analizzano le icone oggetto di questo incomprensibile baratto e non puoi fare altro che sorridere di cuore. Infine ecco Abbas Kiarostami con i suoi silenzi, i suoi muri dietro i quali, magari si nasconde proprio la casa dell’amico, luogo dello spirito e dell’anima. Il regista, in fondo, l’ha cercata per 30 anni. In tutti i suoi film, nelle sue toccanti e poetiche fotografie. Tocca a noi, oggi, riconoscerla. Lea Mattarella Al contrario, chiedono la sospensione del giudizio in favore di ciò che esse esprimono. Sono fatte di corteccia, tocchi di tronco, vetro, taffetà di seta... hanno forme quadrate o rettangolari. Non sono da com- prendere analogicamente, la comunicazione, svincolata dalla parola, passa attraverso lo stupore. La seconda sala è dedicata all’acqua. In un fusto di plasti- ca blu è immerso un altoparlante. La possibilità di ascolto è dunque sommersa. Il suono è al limite dell’essere udi- bile. Questo genera una leggera increspatura a onde della superficie acquea. Si tratta di un processo di visualizza- zione del suono. Qualcosa che non può essere percepito si manifesta. Una trascendente esperienza dell’essere è messa in scena. Per terra c’è una piccola opera con luce implosiva. Le due sale sono unite nel muro divisorio da una lastra di vetro di cui vediamo solo il bordo sfrangia- to. Al piano di sopra la terza sala è quella della pietra. C’è un cerchio di sassi di marmo che poggiano uno sull’altro su un filo di luce che sottrae gravità. Nell’ordine inferiore abbiamo il regno dell’Alterità e dell’Empatia, di sopra la dimensione dell’Oltre. Come di- ceva Fabio Mauri l’arte è sempre “oltre”... E ora Fiat Lux. La luce del pensiero incarnata negli elementi naturali. (dal C.S.) Ivan Barlafante, L’orizzonte rovesciato, 2016.
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Adriano Nardi, veduta della mostra Suicide Painting - Suicide Wall, 2013-14. Olio su tela e frammenti di stoffe, legno - cm 877 x 255 (part).
Galleria Gino Marotta, Campobasso
Adriano NARDI Suicide Painting
N
el mondo d’oggi ci sono sempre meno artisticità dominanti e culture dell’arte. Le immagini e i principi generali d’ordine seduttivo marciano più celermente di quelli politici. Gli scambi sul piano mediale si servono di strumenti di comunicazione estremamente agili, per i quali le barriere della distanza sono irrilevanti. Molte sono state – dagli inizi degli anni Ottanta del XX sec. – le suggestioni che in qualche modo hanno toccato l’arte italiana: basti ricordare l’influenza esercitata, fino all’ultima generazione della pittura e dell’immagine mediale, dai fotografi e dai rotocalchi. Oggi (e non da oggi soltanto) questo prestigioso mito si è centuplicato. Esso era in un certo modo legato ad un culto un poco astratto, ad una nozione accentuata e quasi esclusiva dell’idea di digitale. Il suo successo non ha coinciso soltanto con la scomparsa dei grandi protagonisti del pop dei primi anni ’60 d’oltralpe ma con quella ripresa della coscienza mediatica che ha saputo animare i pittori e gli illustratori, soprattutto a cominciare dagli anni ’90. Con quella data comincia il vero viaggio oltre i confini della pittura d’immagine e del nostro schieramento mediale, un po’ onnicomprensivo fino ad allora, a varcare perfino la dogana della contaminazione totale. Tra i maggiori istigatori di questo ampliamento di orizzonte va ricordato soprattutto Adriano Nardi. Tuttavia, ora che la situazione appare più navigata, che cosa persiste di quei motivi mediali sui quali Nardi ed altri fecero leva per rompere il provincialismo e l’estetismo che riducevano se non mortificavano la dimensione popolare (che oggi forse viene
scambiata per populista! sic!) delle nostre immagini internaute? In un’ampia ed acuta mostra personale all’Aratro Nardi sottolinea i due moventi principali che fece scattare all’inizio l’azione della sua pittura e della sua poetica. Per la mediamorfosi del Suicide Painting, il mito donna e il mito immagine ebbe ed ha un significato provocatorio. La pittura da Nardi proposta a modello d’ordine interiore era ed è l’icona del flusso mediatico assecondata dal Sunset Strip del sex appeal dell’iniorganico (come direbbe Walter Benjamin). In questa grande tessitura cromatica, lunga più di otto metri ed esposta all’Aratro, Nardi conferma l’unione tra l’assemblaggio in patchwork di frammenti di stoffa con una sorta di mosaico o di ricamo, che raccoglie, come in un palinsesto, suggestioni e riferimenti tratti da luoghi, framing e slade diversi. L’immediatezza delle icone sessuate, la particolare cura nel gioco della pittura digitale, la pennellata rapida e discontinua – a sottolineare la necessità di rendere la rappresentazione il più pubblicitaria possibile, e, se vogliamo videografica possibile - sono, in sintesi, i punti principali del gioco di Nardi. Le opere in mostra all’Aratro, ed in particolare nella large installation, bene illustrano i nuovi approdi dell’autore, che pur essendo coetaneo dei pittori mediali, come molti della sua generazione, ricomincia dai rotocalchi, ed è attratto dal flusso, dalla frammentazione, dal movimento, dall’oltraggio montante e tissurale di icone rubate all’auto-annientamento mediatico: queste ed altre immagini l’hanno portato ad una sorta di mediamorfosi visiva e immaginaria e, allo stesso tempo, di straordinaria attualità, un’attualità da suicidio! Egli costruisce collage di reticoli montati con immagini rubate all’illusione di realtà, creando simulacri onirici in bilico tra reportage e castrazione. In effetti non c’è sentimento nell’immagine mediale, non ci sono scene drammatiche. Ma proprio lasciando fuori tutto ciò, la simulazione della pittura dà vita ad un altro tipo di strategia scettica: è come creare il silenzio all’interno di un’immagine assurda; producendo un senso di straniamento. Così si impone allo sguardo il suicide painting, figura metaforica che in the great tapestry trasmuta; seguendo un montaggio di tappeti-memoria, qui Nardi prosegue la sua ricerca sull’immagine femminile legata ai mass media e ai social network, unendo le figure di modelle celebri, come Kate Moss, a quelle delle Suicide Girls a cui è legato il nome dell’intero lavoro, ragazze che (come scrive lo stesso artista) “non mirano alla morte, ma ad una bellezza self-made, antivelina, che nega il silicone e il ritocco”. Il tatuaggio rappresenta in questo nuovo sentire, il traslato concreto che passa dall’analisi mediale della luce dell’immagine digitale – l’RGB della micropittura - alla concretizzazione della linea come taglio e sutura critica. Gabriele Perretta
Adriano Nardi, Primark, 2014. Olio su tela e frammenti di stoffe, cm 130 x 170.
Adriano Nardi, veduta della mostra Suicide Painting - Suicide Wall, 2013-14. Olio su tela e frammenti di stoffe, legno - cm 877 x 255.
FEBBRAIO/MARZO 2017 | 261 segno - 55
Museo delle Genti d’Abruzzo, Pescara
Luciano VENTRONE Punti di vista
er la prima volta tutte le tredici sale espositive del Museo delle Genti d’AP bruzzo sono state messe a disposizione di
un solo artista. Nell’intento di creare un movimento sinergico tra i reperti presenti nella collezione permanente e l’incontro con i lavori di Ventrone, la mostra traccia un percorso espositivo particolarmente strutturato, una nuova concezione d’iter all’insegna della contemporaneità. Tutto mirato a riattualizzare le letture storico - antropologiche del complesso espositivo passando attraverso una narrazione “atemporale, ammaliatrice e ingannevole” che Ventrone fa della realtà. Attualizzazione ardita e intelligente, voluta sia dal direttore della struttura museale, Ermanno De Pompeis, quanto dal suo presidente Roberto Marzetti. Punti di Vista non si presenta solo come una rilettura filologica delle nature morte del maestro, ma è protesa a riconsiderare e rivedere alcuni aspetti fondamentali che fanno di Luciano Ventrone un artista delle avanguardie. I lavori dell’ultimo ventennio sono messi in relazione con le sperimentazioni che l’hanno formato, dai primi anni Sessanta, per circa un quindicennio, sotto la guida iniziale di G. Capogrossi. Il curatore, Mariano Cipollini, ne fa una lettura attenta e puntuale, sottolineando le molteplici sfaccettature che ci svelano un artista maturo e complesso. “ Oggetto centrale del suo pensiero, la “natura morta”, – scrive Cipollini – ossessivamente ridisegnata e costruita cromaticamente in tutta la sua veridicità, ci appare libera e autonoma. Frutti come corpi celesti che vivono di luce propria, si espandono nel campo visivo senza limiti di percezione, senza un secondo piano di osservazione. La totale leggibilità delle loro superfici chiama a rapporto i nostri sensi che si lasciano coinvolgere senza impedimenti e tutti concorrono a trasmettere al nostro cervello i segnali per i quali sono preposti: una miriade di sensazioni concomitanti che rende il lavoro di Ventrone unico nel suo genere. Non è facile sollecitarli simultaneamente alla vista di un dipinto, ma quando ciò accade ci sono tutti i presupposti per ulteriori e approfondite considerazioni. L’equilibrio tra quello che rappresenta e quello che ci vuole far percepire passa attraverso la nostra recettività senza circoscrizioni di forma o limiti imprigionabili in schemi temporali. Nel far ciò va a soddisfare l’esigenza d’introiettarvi il suo vissuto,
Luciano Ventrone, Cellule, 1960. Olio su masonite 42x55.
Luciano Ventrone, L’enigma del tempo, 2009-10. cm 50x70
considerando la tela unico interlocutore: compartecipe di introspezioni tanto private quanto stratificate. Specchio di una personalità dai non facili contorni, l’astrazione che ne consegue, ci circuisce disseppellendo le libertà visive in esse contenute, aprendo nuovi dibattiti sul cosa possa rappresentare in più un’opera che riparte da una forma oggettiva conclamata e affonda le sue radici nella storia plurisecolare della natura morta. (….)Il suo reale, così pienamente espresso, porta il nostro occhio a percepire la totalità volumetrica dei frutti ri- tratti. Ci costringe a navigare, quindi, anche nel non dipinto, rilevando una fisicità ovviamente nascosta per mancanza d’inquadratura e perciò inesistente, ma esageratamente percepibile. Fisicità che attinge la sua ra- gione nel rivelarsi, dopo essere stata sapientemente evocata, direttamente dal personale bagaglio conoscitivo che ciascuno di noi ha immagazzinato più o
meno inconsciamente. Una tridimensionalità visivamente astratta, richiamata dai nostri sensi, stimolati da composizioni iconiche consolidate, frutto di esperienze personali quanto d’immagini storicizzate. Potremmo in definitiva affermare che l’incontro con il lavoro di Luciano Ventrone è un viaggio sensoriale a tutto tondo e, di conseguenza, prendere atto che il tutto nasce da intelligenti equilibri tra immagine fotografi- ca, visione iperreale - tridimensionale e rilettura di archetipi storicizzati. Tutto supportato da una tecnica pittorica a dir poco strabiliante.” L’esposizione, promossa dall’Associazione Archivi Ventrone, è costituita da un nutrito e importante numero di opere provenienti sia dalla raccolta del maestro sia da collezioni private e pubbliche e si avvale del patrocinio della Regione Abruzzo, la quale è presente con una tela tra le più rappresentative del pittore. Dal 21 gennaio al 26 marzo 2017
Museo Francesco Messina, Milano
H.H. Lim Aspettando l’ispirazione
spettando l’ispirazione è la nuova mostra che l’artista sino-malese H.H. Lim A ha inaugurato il 15 novembre scorso nelle Luciano Ventrone, S T, 1965 . Olio su masonite, cm. 45x70.
Luciano Ventrone, Mosaico, 2011. Cm 300x300.
56 - segno 261 | FEBBRAIO/MARZO 2017
sale del Museo Francesco Messina di Milano, la chiesa sconsacrata che lo scultore utilizzò come studio durante la sua attività. La mostra, curata da Sabino Maria Frassà in collaborazione con la Fondazione Giorgio Pardi, è stata concepita come un monumento all’attesa di quell’ispirazione di cui l’artista sente quotidianamente la necessità. Così Lim ha deciso di affrontare la sfida con uno spazio estremamente complesso, non soltanto simbolicamente, ed ha effettivamente trasportato parte del suo studio romano negli spazi che il museo ha dedicato alle sculture di Messina, cercando di stabilire una relazione rispettosa con la collezione museale ma tentando al contempo di focalizzare l’attenzione degli spettatori non solo su ciò che resta dell’attività di un artista ma anche su quel processo, spesso faticoso, che precede la presentazione pubblica di un lavoro. Ciò che viene impresso è una vera e propria istantanea del momento solitario in cui l’artista affronta i propri dubbi
e le incertezze, e che Lim ha inciso in bassorilievo su quattro grandi dittici – trasposizione murale di uno studio in un altro – attraverso pensieri e riflessioni riguardo questioni prettamente tecniche, come colori o materiali così come sull’atteggiamento mentale che si configura in un luogo speciale come lo studio dell’artista, in cui attesa e pazienza diventano necessarie quanto tele o pennelli. Dietro due dei quattro dittici Lim ha nascosto una parete di circa cinque metri “affrescata” con oggetti comunemente rintracciabili in uno studio, con schizzi o idee abbandonate che si integrano alle opere compiute adagiate sul pavimento. Tutto intorno le sedie realizzate in fusione di alluminio, elemento costante nelle ricerche dell’artista che arredano il suo studio, offrono uno specifico e propositivo punto di vista verso le sculture-reliquie del museo. Tra riflessioni e perplessità, la struttura espositiva costruita da Lim ci parla di attesa riflessiva come di pazienza operativa e racconta, da una prospettiva privilegiata, quelle che sono le intime dinamiche del lavoro di un artista. Teresa Monti
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Museo di Palazzo Poggi, Bologna
Mariateresa SARTORI
er caso e per necessità è il titolo della personale che Mariateresa Sartori alleP stisce negli spazi del Museo di Palazzo Poggi
a Bologna e che vede la sua apertura al pubblico tra gennaio e febbraio 2017. La mostra realizzata su invito di Angela Vettese, direttore artistico di Artefiera, è a cura di Lucia Corrain e si inserisce nel percorso di Artcity, il programma di mostre ed eventi promosso dalle istituzioni bolognesi in collaborazione con BolognaFiere. La mostra Per caso e per necessità all’interno di Palazzo Poggi trova riscontri tematici nel lavoro scientifico di Luigi Ferdinando Marsili, scienziato e militare bolognese autore della raccolta di reperti naturalistici custodita nel museo di via Zamboni. Ispirandosi al materiale presente in collezione composto soprattutto da fossili, piante e minerali, Mariateresa Sartori presenta cicli di opere recenti dove si concentra proprio sulla catalogazione e sullo studio delle pietre o delle piante . Di tali elementi vengono osservati categoria, eventuale composizione chimica e storia morfologica. I mezzi utilizzati dall’artista sono finalizzati all’elaborazione di una resa visiva dei dati osservati, che consegue attraverso la tecnica del frottage, del calco, della fotografia stenopeica, della fotografia al microscopio. Completa la mostra un video realizzao da Mariateresa Sartori nel 2001 dal titolo Le ragioni della scienza. In accordo con l’idea fondante di quella che oggi conosciamo come la raccolta museale, quello cioé di supportare la conoscenza mo-
Tirana
ONUFRI PRIZE 22esima edizione
ottobre del 2013 è stato un mese molto importante per l’arte in Albania, uno dei L’ Paesi emergenti nel panorama globale delle
arti visive. È stato infatti nominato direttore della Galleria Nazionale d’arte di Tirana (Galeria Kombetare e Arteve) Artan Shabani, artista, già gallerista, globetrotter della cultura. Una personalità ormai riconosciuta, con un forte legame anche con il nostro Paese, che ha battuto da sud a nord, dalla Puglia a Torino, e che è stato decisivo per la sua formazione. Shabani, seguendo e rilanciando gli auspici del premier – e artista anch’egli – Edi Rama, ha non solo svecchiato e rinfrancato la Galleria, attraverso il ripensamento allestitivo degli spazi e una programmazione espositiva fittissima, ma ha anche portato l’Albania sulle rotte del contemporaneo internazionale, supportando gli artisti albanesi e invitando quelli stranieri. Uno degli appuntamenti fissi, cresciuto anche questo in tale ottica di lancio globale, è l’Onufri Prize, manifestazione internazionale giunta alla ventiduesima edizione. Un premio dedicato alla memoria di Onofrio di Neokastro, la moderna città albanese di Elbasan, attivo nel XVI secolo in Albania e Macedonia, e autore di icone dalle influenze postbizantine e veneziane. Una suggestione antica per un concorso divenuto attualissimo, che ha visto quest’anno la partecipazione di quarantadue artisti, con inaugurazione il 15 dicembre scorso e visitabile fino al 1° febbraio. Il curatore in questa occasione è Fani Zguro (Tirana, 1977), artista che si divide tra la natale Albania e Berlino, dopo essersi formato all’Accademia di Belle Arti di Brera. Nel 2007 era stato proprio Zguro il vincitore del medesimo premio. Il titolo di quest’anno è Stranger than kindness – Mitrush Kuteli, laddove la prima parte del titolo è la citazione di un brano di Nick Cave and the Bad Seeds, mentre il secondo è il nome dello scrittore albanese (1907-1967) cui è dedicata questa edizione. Con il video Further inside si è aggiudicato il premio Ilir Lluka (Tirana, 1984), figura di
strando nel modo migliore possibile l’organizzazione e il funzionamento della natura alla luce dell’osservazione empirica, la ricerca di Mariateresa Sartori appare incentrata su un tema da molti anni al centro del suo lavoro, quello del legame tra arte e scienza. L’intento dell’artista è quello di offrire una dimostrazione di esistenza tangibile e quanto più è possibile oggettiva riguardo all’universo che ci circonda, soffermandosi sugli avvenimenti del passato lontano e recente per trovare le prove che i fatti si sono svolti nel modo in cui li conosciamo. La poetica dell’artista richiama un principio che vede complementari arte e scienza in quanto tese nel loro fine ultimo all’osservazione e all’elaborazione del dato reale. Per comprendere l’opera di Mariateresa Sartori tuttavia occorre allo stesso tempo prendere atto della diversità di approccio e principi fondanti delle due discipline che spingono la cultura odierna a collocarle su percorsi paralleli. Mariateresa Sartori si appella all’idea che la realtà dei fenomeni è conoscibile dall’uomo, e che gli avvenimenti sono regolati da leggi precise, soggette al principio di causa ed effetto. Di questa visione tuttavia l’opera dell’artista, anche se in modo non espressamente dichiarato, mostra parziali limiti. Ciò avviene in modo paradossale, attraverso cioé quel rigore scientifico al quale Mariateresa Sartori ricorre nel suo modo di operare. Al tentativo di imbrigliare il flusso degli eventi in una rete di leggi stabilite che lasciano poco o nulla al caso, occorre infatti prendere atto che la realtà è eleborata dalla nostra limitata percezione di individui, il principio fisico di azione e reazione applicato ai comportamenti umani è spesso avviato dal gesti originati dall’universo emotivo, l’eterna doartista eclettico, intermediale, impegnato com’è nelle ricerche sul suono e sulla musica elettronica. Il suo lavoro si incentra sulle associazioni di memoria e le emozioni in una atmosfera onirica che è il ribaltamento della dimensione del quotidiano. Notevole la sua preparazione tecnica, che gli permette di manipolare il suono attraverso sofware, insieme alla combinazione di suoni elettronici e strumenti acustici come violoncello, basso, pianoforte – anche in distorsione – e poesia. Ha vinto con queste motivazioni: «per aver raggiunto l’armonia tra realtà materiale e creazione spirituale, attraverso un linguaggio tecnologico sofisticato; per il video, proposto in tre panelli, che si sfogliano con una visione contemporanea, illuminando il conflitto spirituale tra realtà quotidiana e interiore; per aver proposto, con audio originale, una poesia visiva come visione surreale dai risvolti psicologici. Nella valutazione della giuria l’opera proposta è in linea con l’idea curatoriale. Pertanto l’opera dell’artista Ilir lluka può promuoverla ed evidenziarla, considerato il suo notevole valore estetico e artistico». Tra i partecipanti illustri l’immancabile Anri Sala, l’artista albanese di maggior spicco dell’ultimo decennio, Pipilotti Rist, con il suo video When My Mother’s Brother Was Born It Smelled Like Wild Pear Blossom in Front of the Brown-burnt Sill, Regina José Galindo e Tomas Saraceno. Da segnalare tra i giovani l’albanese, ma re-
Mariateresa Sartori
manda che riguarda il significato della vita dell’uomo e la ragione delle cose rimane priva di risposte univoche. Scorgiamo quindi nella catalogazione dei minerali e delle piante da parte dell’artista, nel loro sezionamento, nella sistematicità del rendere forme, composizioni e texture, il procedere senza scopo della vita e degli eventi della natura, oppure, sospettiamo la presenza un senso o di uno scopo che tuttavia non riguarda l’uomo. In quest’ultimo caso però il superamento della visione egocentrica del mondo costituisce ancora l’occasione per tentare di comprendere l’universo tramite uno sguardo obiettivo. Il tratto che sembra caratterizzare l’opera dell’artista è quindi il continuo ruotare di consapevolezza dei dati oggettivi e percezione intima, necessità e caso, in un vicendevole rincorrersi finalizzato alla conoscenza del quale non è dato scorgere il momento iniziale. Francesca Cammarata
Arjan Shehaj
sidente in Italia, Arjan Shehaj (Patos, 1989), formatosi a Brera e tuttora residente a Milano. Giovane, ma protagonista già dell’edizione 2012 dell’Onufri, è autore di una raffinata astrazione, quanto mai attuale in Albania per la sua funzione di rottura con il realismo socialista, e presente qui con quattro lavori di medio formato, tutti giocati sul nero, sulla luce, sull’energia che ne scaturisce. Energia indispensabile per affrontare le sfide di un futuro che si delinea sempre più scivoloso, sfumate ormai le retoriche del sol dell’avvenire. Gaetano Centrone
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Ex Monastero di Santa Chiara, Mola di Bari
L’ARTE ITALIANA NEL MONDO Intervista ad Alessandro Demma*
D
a più di un decennio l’IGAV – Istituto Garuzzo per le Arti Visive, con sede a Torino, è impegnato nella valorizzazione dell’arte contemporanea italiana sul territorio nazionale ma soprattutto all’estero, attraverso l’ideazione di mostre e progetti finalizzati a promuovere l’opera di artisti emergenti, senza trascurare, al contempo, quella degli storicizzati. In questo arco di tempo Giorgio e Rosalba Garuzzo si sono costantemente impegnati in tale direzione, tuttavia, intensificando le relazioni fra l’Italia e i paesi stranieri in particolare negli ultimi tre anni, con l’apporto della curatela di Alessandro Demma. Allievo di Angelo Trimarco, affine alla critica di Filiberto Menna, ma anche a quella più militante di Achille Bonito Oliva, Alessandro Demma, con una linea di pensiero sull’arte indirizzata a sviscerare i mutamenti e le trasformazioni che interessano il nostro tempo, è fra i critici e curatori italiani più apprezzati e operativi del momento. A sua firma per l’IGAV è il progetto triennale, avviato nel 2014, Visioni Contemporanee che, partito da Capri e passato per Milano fino ad approdare a Shangai, ha fatto conoscere più di 100 artisti italiani sulla scena internazionale. Vicino alla politica dei fondatori dell’IGAV, Demma progetta, infatti, queste mostre come fossero tappe ideali di un percorso più lungo e in continuo divenire. In questa breve intervista il critico spiega il suo pensiero lasciando trasparire un solido e convincente agire nell’arte. Gli chiediamo: Come nasce il tuo rapporto e il tuo lavoro all’interno di IGAV? - A Torino, terminata la mia esperienza al Castello di Rivoli, fra il 2010 e il 2012 sono stato direttore artistico del Castello di Rivalta. In quell’occasione ho conosciuto Giorgio e Rosalba Garuzzo che, grandi amatori dell’arte, hanno apprezzato il mio lavoro invitandomi a progettare e curare mostre per l’IGAV, con l’obiettivo preciso di lavorare soprattutto, ma non solo, sul fronte internazionale. Infatti, altrettanto importante è l’attenzione posta all’Esposizione e Collezione permanente che ha sede alla Castiglia nella Città di Saluzzo, per la quale, lo scorso 2016, ho curato un nuovo allestimento ispirandomi alla passata funzione carceraria dell’edificio. Pensando al modello del “panopticon”, ogni cella è stata utilizzata dagli artisti come fosse un ideale luogo performativo che, visibili attraverso un sistema di camere, ha ridisegnato percettivamente l’intero spazio. Ma prima di questa esperienza c’è stato anche “NA.TO L’arte del presente”, il presente dell’arte ad esempio, dove artisti e curatori hanno dialogato a partire dalle suggestioni poste in essere dai luoghi: due aree metropolitane cruciali del nostro paese, e altri progetti, prima ancora, come “Visioni Contemporanee” tutt’ora in corso. - Raccontaci di “Visioni Contemporanee”. Perché sei partito proprio da Capri? Poi Milano, poi la Cina? Qual è la tua idea d’indagine sul presente? Quali sono le ricerche artistiche più credibili di oggi? - “Visioni Contemporanee” comincia a Capri perché è un’isola internazionale. Intendo dire che è possibile mostrare l’arte Italiana al mondo, passando per quei luoghi notoriamente frequentati da un pubblico cosmopolita. Milano allo stesso modo è per definizione una città dalla vocazione europea, dove ha senso essere presenti se s’intende dialogare con le grandi istituzioni di tutto il mondo. La relazione con la Cina, infine, nasce da un rapporto avviato da IGAV già nel 2005. I Garuzzo all’epoca, con grande lungimiranza, forse avevano intuito che, in tempi di globalizzazione, questa nazione sarebbe emersa anche nell’ambito delle arti visive a livello internazionale. Resta inoltre il fatto che l’Istituto torinese è il solo in Italia a realizzare progetti con il Ministero della Cultura Cinese. Questo dato mi pare essenziale a definire la
credibilità con la quale IGAV si muove. - Cosa cambia in “Visioni Contemporanee” con “Dipingere il Presente”? Che idea hai della Pittura? E perché lavorare su un raggio generazionale ampio che va dai 25 ai 50 anni? - L’Iperconcettualismo degli ultimi decenni ha creato – a mio avviso – una sorta di bilico nell’arte, tale da aver reso difficile stabilire cosa sia artisticamente di qualità e cosa no. Tuttavia, a fare la differenza è la leggibilità della ricerca portata avanti dagli artisti, indipendentemente dal mezzo espressivo, e in Italia esistono moltissime realtà forti che, con sguardi diversi, raccontano la contemporaneità. Questo è il senso di “Visioni Contemporanee”, un progetto di mostra che non si esaurisce in un solo momento, ma porta avanti uno sguardo allargato dove, i luoghi, le persone, i segni degli artisti, sono elementi che cambiano e si rinnovano di continuo, osservatori e attivatori, al contempo, delle trasformazioni che interessano la nostra epoca. Si tratta di un
Visioni contemporanee, Shanghai, 2015.
Visioni contemporanee, Shanghai, 2015.
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Tao Na, Great Diamonds, Dipingere il Presente, 2015. Alexis Minkiewicz, Pensiero e Materia, Paralelos, 2015.
attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE
Giuseppe Stampone, Pensiero e Materia, P&W, 2014.
Pierluigi Pusole, SP_15, Dipingere il Presente, 2015.
percorso che, nel tempo, ha naturalmente virato sulla “pittura”. Il più tradizionale dei mezzi che, per lungo tempo si è identificato con la rappresentazione dello spazio, vive nell’oggi e più che mai sente la necessità di essere linguaggio fondante nell’arte. La pittura è un codice autentico, non si nasconde mai, essa è ciò che vedi, è un dato puro che si offre allo sguardo ed è, allo stesso tempo, un ponte fra un lavoro concettuale e l’altro. La pittura è anche un terreno entro il quale il confronto fra l’Italia e la Cina (ma anche con gli altri paesi stranieri) si fa più vero e intenso, proprio perché privo di filtri e in un mondo globalizzato ciò diventa, inevitabilmente, espressione di genuina veridicità. Dopo gli anni ’80, dopo Lyotard e il collasso di tutte le critiche, c’è necessità, in questo momento più che mai, di essere critici e curatori militanti a fianco degli artisti. C’è bisogno che le loro opere siano lette, codificate e sostenute da una concreta riflessione teorica. C’è bisogno, in sostanza, di scrivere collettivamente le mostre e
questo è il senso ultimo del mio lavoro in IGAV. Le generazioni che coinvolgo, non sono rappresentative soltanto di diverse anagrafiche, ma sono espressione di un tempo che scorre e fluisce nel futuro, abbracciando i diversi stati della nostra condizione esistenziale. Per questo motivo io amo vivere a stretto contatto con gli artisti. Sembrerà forse una contraddizione, ma pensare progetti a lungo termine, muovendosi nel mondo, sradica nel profondo l’idea di un’arte globalizzata. “Pensiero e Materie – Visioni Contemporanee” alla Certosa di San Giacomo a Capri, è la tappa più recente di questo progetto triennale, dove , lo scorso autunno, 14 artisti argentini e 14 artisti italiani hanno testimoniato le forme in divenire delle ricerche artistiche di entrambi i paesi. Il progetto approderà in primavera a Buenos Aires, ma anche in quel caso la mostra va immaginata non come un punto di arrivo ma come una nuova ripartenza. (a cura di Maria Letizia Paiato)
Galleria E 23 Napoli
ENZO CALIBÉ
N
essun lavoro si lascia ridurre alla verità assoluta, eppure, come la vita, l’opera di un artista costituisce la propria, più o meno valida, verità. Pretese demagogiche Enzo Calibé non ne ha; sicuramente, però l’arte è per lui il naturale sbocco di tutta una condotta esistenziale improntata a riflettere sugli accadimenti storici, a ricercare le trame dei cambiamenti culturali e sociali, abituandoci alla riflessione su quella che è la nostra distanza o vicinanza alle cose. Nella sua ultima mostra alla galleria E23 della città natale e ancora sotto l’egida del confronto con il critico d’arte e curatore Stefano Taccone, si ritorna a parlare di paesaggio, incuneandosi in una tradizione
che da Grandville arriva ad Haacke. Fin dal titolo (Un paesaggio in immagini), l’artista prova a rinverdire l’essenza del concetto di paesaggio quale particolare fisionomia di un territorio, determinata dalle sue caratteristiche biologiche e antropiche; nel suo ripetersi come un mantra (Landscape is a landscape is a landscape), esso conserva, così, una visione sacra della natura, i cui elementi entrano nell’immaginario dell’uomo come messaggeri o come promesse. Nella serie di disegni a china e acquerelli, c’è una riflessione sull’atto del quotidiano fotografare: i dispositivi usati per fermare un momento, un viso, un istante della nostra vita concorrono a produrre non più un ricordo ma una immagine, lontana ed estranea al momento vissuto. La riflessione prosegue in Inventario della scomparsa, che, con la diaspora dei frutti dalle tavole ricamate delle nostre nonne ai desktop dei personal computer, è un monumento
all’impossibilità di questi incontri. Da cosa deriva l’abitudine – individuale e condivisa – all’eccessiva, esasperata antropizzazione del paesaggio? Una risposta efficace arriva da Scomposizione di un miraggio, dove la quadricromia che frammenta l’immagine una e univoca di una montagna sembra quasi alludere alla possibilità, per esso, di sopravvivere solo come réclame di feticismi à la page. Un possibile riscatto sembra offrirsi invece in Senza Titolo (Eco Business): un grande arazzo fatto di fotomontaggi pubblicitari, su cui l’artista è intervenuto tagliando – letteralmente – fuori l’elemento umano. Un taglio, quello di Calibé, che somiglia allo squarcio del cielo di carta copernicano, perché mentre consente di rivelare la porno-grafizzazione del paesaggio, lo rende nuovamente protagonista agli occhi miopi di noi assuefatti consumatori. Il make off è servito. Carla Rossetti
Enzo Calibé, Senza Titolo (Ecobusiness Landscape), 2016. Foto Danilo Donzelli, courtesy E23 Napoli.
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I
Marzio Cialdi, Il vincitore, corten h cm 76 (3).
Marzio CIALDI Tensioni Marzio Cialdi, Guerriero, ceramica e corten h cm 45, 2016.
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l lavoro attuale di Marzio Cialdi ha preso una fisionomia ben definita che consiste nel cercare sempre il contatto con la forma umana, ma nello stesso tempo di renderlo qualcosa di molto più astratto e rarefatto. Certamente non va nella direzione di un’astrazione pura, cioè di un forma che sta per se stessa senza avere dei collegamenti con figure del reale. Però è evidente che vi è stata una crescita del lavoro sempre di più in una prospettiva personale. Del resto la poetica di Marzio Cialdi si è costruita su di un bisogno di sperimentalità ampia di tipo figurale e di “interrogazione” dei materiali. E’ bene ricordare che la sua attività che si concentra negli ultimi 15 anni si è articolata in opere realizzate in schiuma poliuretanica come anche al bronzo patinato con tecniche innovative, ma ha anche usato, e continua a usare con qualità, la ceramica. Probabilmente, anche alla luce di quanto vediamo oggi, è stato il corten il materiale che ha maggiormente catalizzato la sua attenzione. Marzio Cialdi dai materiali cerca qualcosa che lo porti in una direzione nuova, li segue con estrema sensibilità, ne utilizza le loro qualità precipue e i loro limiti per sviluppare con essi il proprio percorso creativo. Sicuramente agli inizi ha seguito le suggestioni della figurazione e in particolare della figura umana, che resta anche nei lavori recenti ma in modo estremamente più decantato. Possiamo dire che l’artista che lo ha influenzato maggiormente è Alberto Giacometti, il suo “uomo che cammina” è stato un punto di riferimento per Cialdi che ha saputo creare un proprio universo in movimento. I suoi personaggi non sono mai statici, sono in perenne ricerca di qualcosa. Attraversano lo spazio del reale sempre più connesso dalla rete tecnologica della comunicazione, come vagatores filosofici alla ricerca del proprio Graal o di qualcosa che hanno in se stessi e di cui cercano conferme nel mondo. E artisticamente a parte il faro giacomettiano, ha guardato alla scultura figurativa degli anni ottanta, ha costruito come altri artisti tra cui Roberto Barni, un personaggio che ha viaggiato nel tempo e nello spazio, e che diventato l’interprete della sua sensibilità, della sua visione. Del resto lui stesso prova e ha provato continuamente a cercare nuovi approdi alla sua creatività spesso ossessiva e sempre alimentata dal desiderio di dare compimento alle idee. In fondo il suo personaggio è il riflesso della sua personalità e della sua esistenza. Un vero artista sa raccontare solo se stesso, deve farlo, perché è lui il parametro di ogni cosa, il riflesso di una realtà che è proiezione della propria mente. Nei lavori recenti non solo prevale l’uso del corten che da il valore di un forte vissuto alle opere, la prevalenza del color ruggine che implica un’azione del tempo ma anche esprime dei valori tattili importanti. In alcuni casi usa il taglio laser su lastre come in “La fuga” o “In città”, la novità invece consiste nella striscia di acciaio corten piegata a mano che da diventare le figure come Il vincitore o L’inchino delle forme enigmatiche, da decifrare, da cercare nelle pieghe della memoria dell’uomo. Forse si tratta di una vera e propria svolta verso gli archetipi, non solo tematicamente ma anche per una tipologia di scultura che continua a voler rappresentare, mentre nello stesso tempo mette indietro l’orologio della storia. La tensione della materia diventa evidente, le strisce piegate sono compressa dalla forza dell’artista, dalla sua necessità di dare attuazione a un progetto. E costituiscono un’energia potenziale pronta a sprigionarsi. Con la stessa tecnica ha realizzato anche con il rame una scultura significativamente chiamata Futurismo, quasi a siglare il suo rapporto con il Novecento. L’opera diventa una sfinge, una forma umana già pronta a trasformarsi come una remora di un passato mai completamente attuato e un sguardo verso un futuro che non potrà mai nascondere la continuità con gli archetipi che l’hanno generato. Valerio Dehò
Marzio Cialdi, Futurismo, rame e corten h cm 97, 2016. Marzio Cialdi, L’inchino, corten h cm 88, 2016.
documentazioni ARTISTI E OPERATORI
Prassi video artistica e aspetti sociali dell’opera di Marinella SENATORE di Marco Teti
Marinella Senatore, The School of Narrative Dance Little Chaos, 2013.
L
a produzione firmata da Marinella Senatore si segnala come chiara espressione delle principali linee di tendenza seguite in questo momento nell’ambito della videoarte o più in generale dell’audiovisivo sperimentale. Tuttavia, per comprendere l’ampio e articolato contesto mediale nel quale l’artista si muove, è necessario adottare un deciso allargamento del campo d’indagine, tanto è vero che, un’analisi davvero esauriente sul suo lavoro, non può prescindere dai fenomeni tecnologici, estetici e antropologici che ne condizionano la poetica, e l’odierno video, spesso ragiona proprio intorno a tali fenomeni. Marinella Senatore sembra assimilare le lezioni fornite (soprattutto negli anni ‘90) dagli artisti visuali e dai cineasti di maggiore rilievo. L’esemplarità delle sue opere emerge allora innanzitutto dall’estrema cura riservata all’immagine sotto il profilo della composizione. L’illuminazione nonché il taglio dell’inquadratura sono il risultato di scelte accurate e ricoprono un ruolo fondamentale a livello “drammaturgico”, espressivo. Un ruolo altrettanto importante viene rivestito dalla colonna sonora, in particolare dalle parole pronunciate (o sovente cantate) dai protagonisti e dall’accompagnamento musicale. Ciò dipende dalla formazione di Marinella Senatore, la quale frequenta i corsi del Centro Sperimentale di Cinematografia (oggi anche Scuola Nazionale di Cinema) a Roma, iniziando a lavorare poco dopo nell’industria del cinema commerciale. Proprio tale percorso formativo, pare determinare l’assunzione di un impianto d’ordine grossomodo narrativo. Anche da una simile prospettiva l’artista campana dimostra una notevole capacità nel cogliere i suggerimenti provenienti dal coevo universo video artistico per non dire mediale e dalla società contemporanea occidentale. Noi facciamo a riguardo notare soltanto la capillare diffusione di un’autentica cultura del “frammento”, agevolata negli anni Ottanta in primo luogo dal computer e alimentata a cominciare dagli anni Novanta da Internet. Le produzioni di Marinella Senatore non a caso rientrano, perlomeno nella prima parte della carriera, in un genere che potremmo chiamare “micro racconto” e possiedono un carattere spiccatamente autobiografico. I titoli delle opere video più significative sono I’ll Never Die (2003) e I Take You Back to the Star (2003). Questi, come spiega Daniela Bigi in Marinella Senatore. All the Things I Need del 2006: «raccontano delle storie, fanno parte di quel clima di micro narrazione che informa buona parte della produzione artistica internazionale dell’ultima generazione. Marinella Senatore usa la sintassi cinematografica con perizia […] e […] anche la struttura musicale appare impeccabile. […] Infine arriva la sua ironia […], una sorta di impercettibile distacco che l’artista stessa sembra prendere da quanto narrato, o evocato, consegnandolo all’altro con un piccolo punto interrogativo. Partendo, quasi sempre, da suggestioni autobiografiche (luci, odori, paure, personaggi, gesti, scene, sonorità) e parlando intenzionalmente dello scorrere dell’esistenza nel suo tessuto connettivo minimo, quel distacco, quel piccolo punto interrogativo penso possano leggersi non solo rispetto all’opera ma come sintetica visione del mondo». Al pari di quelli concepiti da altri colleghi i video di Marinella Senatore appaiono emblematici, per il fatto di indirizzarsi a uno spazio espositivo quale la sala cinematografica, seppure idealmente, non potendo contare su una effettiva distribuzione. Agli spettatori, diciamo di riferimento, vengono richiesti interesse e attenzione. L’esperienza da loro vissuta, estetica o meglio “sensibile”, prima ancora che cognitiva, poggia di conseguenza sul coinvolgimento emotivo, simile a quella provata dalla platea cinematografica. A onor del vero i circuiti di fruizione privilegiati da Marinella Senatore corrispondono alla ben più tradizionale galleria d’arte e al festival specializzato. Infatti, l’artista negli ultimi anni ha raggiunto una considerevole notorietà aggiudicandosi premi importanti e partecipazioni a prestigiose rassegne festivaliere dedicate alle arti visive, prima fra tutte la Biennale di Venezia nel 2010 e oggi la Quadriennale a Roma. D’altronde le sue opere sono non di rado integrate da varie attività di tipo
performativo e presentano componenti specifiche, oltre che del video, del teatro musicale e della danza. Esse manifestano in modo evidente la tendenza all’ibridazione linguistica peculiare nel dominio dell’audiovisivo soprattutto in seguito all’avvento dei nuovi media e delle apparecchiature digitali. La tendenza in questione deriva ovviamente dal radicale cambiamento avvenuto nell’odierna civiltà occidentale, tardo capitalistica e postmoderna, di cui costituisce una sorta di indice o un riflesso. La vocazione combinatoria di Marinella Senatore (e dell’intero o quasi video d’autore) trova conferma nella rilettura dei codici di popolari generi cinematografici, attraverso i quali l’industria hollywoodiana ha nel Novecento influenzato l’immaginario collettivo. All the Things I need (2006) e Speak Easy (2009) rielaborano per l’appunto la commedia e il musical tipici degli anni Quaranta e Cinquanta. Gli intenti sono allo stesso tempo ludici e polemici. L’artista contesta in maniera implicita l’ideologia (capitalisticoindividualistica) sottesa al sistema della comunicazione mediale di massa, troppo condizionato dall’aspetto economico. Lei avanza così una proposta alternativa che consiste nell’autofinanziamento. Speak Easy ha avuto il sostegno di 1200 abitanti di Madrid, ognuno dei quali ha donato 1 euro. All the Things I need equivale a un assoluto punto di svolta, sul piano pratico e concettuale, nella carriera di Marinella Senatore. Sin dalla sua uscita assistiamo a un totale mutamento del rapporto riscontrabile tra l’artista, i propri assistenti e alcuni dei propri spettatori potenziali. La figura dell’attore e quella del consumatore anzi del destinatario vengono poi ridelineate e fatte addirittura coincidere. La regista svolge infine la funzione di semplice “attivatrice” (o “facilitatrice”) del processo creativo. È la stessa Marinella Senatore ad affermare in proposito: «Negli ultimi anni, la dimensione sociopolitica sostanzia fortemente i miei lavori, soprattutto in termini di prassi; mi interessa il ruolo dell’artista come “attivatore” di alcuni processi, senza imposizioni di alcun genere, morali o falsamente educative. […] È un dovere politico per me che l’opera venga realizzata e i dati estetici, che sono iscritti nel film, sono la testimonianza che c’è un modo in cui il film (o l’installazione, la fotografia, o qualunque altro lavoro finale) può raccontare le relazioni umane che lo hanno prodotto» (Senatore M., in Del Vecchio G., Marinella Senatore. Tagli di luce ed esperienza collettiva, 2006). L’estratto citato attesta la centralità della componente battezzabile con l’appellativo di “relazionale”. Ci troviamo di fronte a un altro contrassegno, a un’altra qualità precipua dell’attuale video sperimentale. Marinella Senatore e un discreto numero di registi desiderano insomma esplorare il rapporto stabilitosi tra gli individui invitati a organizzare, a condurre una iniziativa di natura artistica. Speak Easy, Nui Simu (2010) e Rosas (2012), opere che denotano una assoluta compiutezza, illustrano le vicende descritte dagli abitanti dei luoghi in cui vengono effettuate le riprese. Alla loro creazione i cittadini contribuiscono in maniera diretta dopo avere seguito appositi laboratori o workshop. Il carattere sociale e quello pedagogico (la cui unione sembra molto stretta), sostiene Daniela Bigi: «sostanzia[no], oggi più che agli inizi, il […] lavoro [di Marinella Senatore]». L’artista mediante gli avvenimenti rappresentati intende conservare la memoria di intere comunità e rafforzare il sentimento d’appartenenza di coloro che ne fanno parte. Ciò favorisce con ogni probabilità l’efficacia di Nui Simu e Rosas a livello affettivo. I significati scaturiscono dal legame istituitosi tra i suddetti testi audiovisivi e il loro contesto (storico, geografico, antropologico) di ricezione. I postulati teorici cui siamo fedeli maturano negli ambiti disciplinari della pragmatica, degli studi culturali e dell’interdiscorsività. Il “senso” è dunque costruito sulla base della mediazione tra le aspettative spettatoriali previste da Nui Simu o da Rosas, o dalla maggioranza dei testi oggi ascrivibili al dominio del video sperimentale, e le concrete istanze psicologiche inoltrate dai fruitori. A configurarsi come un consapevole atto “politico” è inoltre il rifiuto della finzione, considerata non tanto nell’accezione di principio strutturale quanto nell’accezione di artificio retorico. La talentuosa artista salernitana mostra, esibisce il dispositivo linguistico-spettacolare adoperato, del quale rivela il funzionamento, e denuncia con costanza la fitta rete di prestiti, rimandi, suggestioni e scambi da cui traggono origine il suo stile, la sua concezione del video e la sua visione dell’esistenza oppure della realtà, che non ci pare affatto corretto giudicare come dei fenomeni a sé stanti. n Marinella Senatore al lavoro.
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PAOLO SCIRPA MUSEO DEL NOVECENTO - MILANO
Paolo Scirpa, Ludoscopio. Pozzo-espansione, 1979. Museo del Novecento, Milano.
Sin dai primi “ludoscopi” l’artista ha ridotto sostanzialmente a tre forme geometriche – il quadrato, il cerchio e il triangolo – tutto il suo alfabeto, e fa muovere queste forme, ripetendole all’infinito nello specchio, nello spazio: è uno spazio reale, perché l’opera è tridimensionale, la luce è generata da uno strumento luminoso, ma continua ad essere, anche, uno spazio mimetico, rappresentato, quasi bidimensionale. E, sostanzialmente, illusorio. Proprio Scirpa mi ha fatto notare recentemente, stupendosi di questo riconoscimento (conoscere di nuovo, vedere ciò che si era già visto) come nei cerchi concentrici di neon si ritrovi la forma della scalea, della gradinata del teatro antico, del teatro greco, quel teatro che lui stesso aveva visto, anzi vissuto, nella natia Siracusa, quasi fosse un imprinting indelebile, una cultura trasformata in biologia, in DNA….La forma prescelta si moltiplica in una serie di traslazioni e di incroci che suggeriscono un proseguimento potenzialmente infinito nello spazio, ben oltre la reale dimensione fisica dell’opera. Marco Meneguzzo, 2009 www.paoloscirpa.it 62 - segno 261 | FEBBRAIO/MARZO 2017
documentazione documentazioni ARTISTI E OPERATORI
25° Festival di Milano Musica Percorsi di musica d’oggi
Paolo SCIRPA Gérard Grisey: intonare la luce “Ho accettato la proposta di abbinare le immagini dei miei Ludoscopi, simulazioni di iperspazi-luce, alla straordinaria musica spettrale di Gérard Grisey per il suo slancio totale verso la necessità di esprimersi con gli strumenti non tradizionali, seguendo una tensione alla sperimentazione tecnologica, dove l’arte e la memoria diventano realtà e proiezione nel futuro. La luce autogena del neon emette flussi luminosi in tempi programmati che agiscono psicologicamente come ipotesi per-
cettive della profondità e creano vortici dinamici virtualmente espansivi. Il neon è usato in varie forme e colori. Lo spazio-luce, proiettato da superfici speculari simula se stesso prolungandosi in una auto-immagine infinita e creando così un vuoto, pozzo senza fine o abisso. Grazie ad un’illusione ottica, la luce si converte in oscurità: luce e buio diventano così complementari e comunicanti.” Paolo Scirpa, 2016
Paolo Scirpa, Convergenza e divergenza cromospaziali, 1982.
Paolo Scirpa, Pozzo espansione+traslazione, 2006.
Paolo Scirpa, Pozzo a luci intermittenti. Esansione+traslazione, 1981.
Paolo Scirpa, Progetto archetipo del Teatro Greco di Siracusa con luci al neon, 1988/2006.
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Interviste
La collezione di M.E. DAL RIO a cura di Lucia Spadano
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assione, curiosità e ingegno sono i tre sostantivi – i soli a mio parere – che dovrebbero far muovere gli intenti di ogni collezionista che desidera diventare tale. C’è un mondo, infatti, che sa guardare oltre i meccanismi del mercato, che non si fa ingannare da un nome conosciuto o dall’idea di un sicuro investimento. C’è un universo di amatori che non insegue le mode, ma che si lascia guidare dall’istinto mosso da una pulsione generatrice di emozioni. E queste persone sono nella Storia, coloro i quali hanno sostenuto nei secoli gli artisti e le loro opere, hanno protetto, in una qualche misura, la storia stessa e contribuito alla formazione di grandi raccolte museali, rendendo fruibile al pubblico ciò che prima era appannaggio del singolo. Le Fiere d’Arte non sono solo occasioni d’incontri finalizzati alla compravendita, ma anche un importante sostegno delle “azioni” e delle “scelte” degli artisti nel flusso del tempo. Il ruolo principale (tra le categorie del Sistema dell’Arte – artista, gallerista, curatore, critico – in quella che ABO ha definito la Catena di San’Antonio) è quello sostenuto proprio dai “Collezionisti”, che a loro volta possono essere suddivisi in: “Consumatori d’Arte” (quelli, cioè, che non giudicano le opere per il loro valore, ma unicamente per la capacità che esse hanno di produrre “plusvalore”, ossia guadagno) ed “Amatori d’Arte”, che comprano con l’intenzione di soddisfare una propria profonda esigenza spirituale ed etica. Quest’ultima categoria è quella più rispondente al senso che la Storia ha assegnato loro, alla quale appartiene M.E. Dal Rio, vero amante dell’Arte, sincero ed appassionato. E forse, questo atteggiamento è – a mio avviso – l’unico veramente vincente e quello che, sostenuto da un’intuizione, riesce a tramutarsi per
Luigi Ontani, Colombo, cm.91x37x27 – 1998
osmosi anche in un investimento economico concreto. Prova ne è, la ricca collezione di opere di maestri del secondo Novecento che la Storia ha già consacrato, e rispondenti ai nomi di: L. Ontani, Salvo, M. Rotella, P.Dorazio, A. Bonalumi, G. Uncini, A. Boetti, E. Castellani, V. Adami, A. Perilli, T. Simeti, A. Pomodoro, T. Stefanoni, P.Pinelli, G. Alviani, P. Gilardi, G. Griffa e F. Fontana. Con un parterre di opere che coprono un arco cronologico dagli anni Sessanta al secondo decennio del nuovo Millennio, la raccolta di M.E. Dal Rio rappresenta l’alto profilo della ricerca italiana di oltre mezzo secolo, e testimonia al contempo la vivacità e l’attualità creativa che contraddistingue questi stessi artisti, già riconosciuti a livello internazionale o in fase di riscoperta proprio in questo preciso momento storico. Getulio Alviani, strut.testura vibrabile, cm.42,5x72,5 – 1972/74
Mimmo Rotella, Avviso, cm.67x100 – 1961
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documentazione
Enrico Castellani, Superficie bianca, cm. 70x70 – 1995
Aldo Mondino, Torso torsolo, cm.56x40x38 – 2001
Piero Gilardi, Greto di torrente, cm.100x100x20 – 1989 Gian Marco Montesano, Neve e silenzio – cm.150x130 – 2004
Ho conosciuto M.E. Dal Rio proprio in una Fiera. Si è avvicinato attratto dalla copertina di “Segno” dedicata a un’artista che ama e di cui possiede un’opera. Nella brevità di quella conversazione si è subito palesato il suo amore per l’Arte, sebbene i pochi minuti trascorsi insieme, non hanno lasciato spazio ad una comprensione immediata circa il suo stringente rapporto con la disciplina. La sua semplicità e modestia celavano una passione e una voglia di raccontarsi che si rivelarono, dopo qualche mese, in un incontro sorprendente a Pescara proprio nella Redazione della rivista. Arrivato da Modena, sua città d’origine, nel mostrarmi le foto delle “Opere” (scelte e acquistate nel corso del tempo, con attenzione e amore) si snoda il racconto di una famiglia straordinaria, di un gruppo di persone che ha scelto di stringersi intorno all’arte e circondarsi di bellezza. Se la famiglia da un lato ha rappresentato e rappresenta per M.E. Dal Rio un punto di riferimento solido e inconfutabile, dall’altro l’Arte, è per il collezionista emiliano, una componente tanto forte da cui trarre appagamento. Tuttavia, tale soddisfazione si amplifica oggi nell’opportunità di far conoscere a un pubblico più vasto la passione di una vita e di condividere – qui con il lettore e nell’intervista che segue – un pensiero che corrisponde a una visione estetica ben precisa. E ancora: se da un lato, i nomi che compongono la sua collezione sono più che ampiamente conosciuti, dall’altro è la particolarità dei pezzi scelti a qualificare questa raccolta come particolare e non scontata.
Alighiero e Boetti, Languidi sguardi assassini, cm.28x31 – 1990
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Pino Pinelli, BL/G, cm. 63x35 – 2005 Turi Simeti, 3 Ovali Blu, , cm.76x100 – 2010
Lucia Spadano: Quale è stato lo stimolo che ti ha portato ad interessarti all’arte ed iniziare una raccolta ed in quale anno hai cominciato? M.E. Dal Rio: Nei primi anni ’70 visitando la mostra di un pittore locale mi attrasse una sua opera figurativa ad olio che fu il mio primo acquisto d’arte. Iniziai poi a frequentare qualche mostra, ad informarmi e leggere qualche rivista del settore; la vera svolta avvenne quando mio cognato Giorgio mi presentò Emilio Mazzoli. Ci fu una passione immediata per la Pop Art americana e cominciai ad acquistare qualche grafica. L.S: Che ricordo hai dei primi passi nelle gallerie d’arte e negli studi degli artisti ? M.E.D.R: Negli anni poi il mio orientamento ha via via attraversato altri movimenti artistici, passando dalla Scuola Romana, allo Spazialismo, alla Transavanguardia, entrando così nel corso degli anni in contatto con molte note ed importanti gallerie e avendo anche il piacere di conoscere alcuni artisti. L.S: Con quali gallerie hai instaurato un rapporto? M.E.D.R: Ci sono ricordi particolari ed importanti, come il rapporto avuto con il gallerista Stefano Fumagalli che mi supportò in un momento difficile nell’acquisto di un Bonalumi o i piacevoli incontri alla Gall. Extramoenia a Todi con la Sig.a Soprani Dorazio assieme al Sig. Sardella. Uno degli ultimi galleristi di riferimento con cui ho avuto una piacevole intesa è il Sig. Addamiano della DeepArt Milano. L.S: Quali Fiere d’Arte frequenti di più?
M.E.D.R: Frequento regolarmente le Fiere di Bologna, Verona, Milano…occasionalmente altre in Italia e solamente due visite a Basilea. L.S: Gli artisti come li scegli? M.E.D.R: L’approccio ad un opera è sempre emozionale, l’acquisto parte da ciò che essa mi trasmette e per puro piacere; non potrei acquistare un artista solo in base ad una possibile finalità economica; solo in secondo luogo segue naturalmente nella scelta anche il condizionamento dei consigli dei galleristi. L.S: Ti piace la grafica? Quale tipo di arte o di tecnica compare maggiormente nella tua raccolta? M.E.D.R: I nomi degli artisti della mia raccolta sono variati nel corso degli anni , la collezione attuale si compone di oli sculture tele estroflesse dècollage (una parte di essa rappresentata dalle foto); è presente anche qualche bel multiplo ( Fontana, Pistoletto, Ceroli). L’unica fotografia della collezione è un ‘Paesaggio Puglia’ di Franco Fontana L.S: So che sei un appassionato di Cinema e nella tua raccolta ci sono dei lavori di un artista che ben lo rappresenta con i suoi manifesti strappati: Mimmo Rotella. Me li puoi descrivere? M.E.D.R: La mia passione per il cinema è convogliata nell’arte con la raccolta di “30 multipli décollages di Rotella (prov.Spirale), tutte locandine 100x70 di film noti come La Ciociara, Casablanca, Vacanze Romane, La dolce Vita, Via col vento, ecc. tutte in egual modo incorniciate dalla Saletta Galaverni di Reggio Emilia.
Francesco Fontana, Paesaggio Puglia, cm30x45, 1978 Piero Dorazio, Message, cm.40x60 – 1985
Giorgio Griffa, sezione aurea 043, cm.85x121 – 2009
Tino Stefanoni, senza titolo, cm. 80x180 – 2013
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documentazione
Giuseppe Uncini, Architettura N 186, cm.76x54,5x12 – 2005
Achille Perilli, Intenso amore, cm.50x50 – 2005
Agostino Bonalumi, Rosso, cm.100x81 – 2004 Salvo, Tre Colonne, cm.150x100 – 1989
Claudio Adami, Aereo club, cm.96x73 – 2001 Giò Pomodoro, Foglio IV, cm.29x14,5 x10 – 1986
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A.A.M. Architettura Arte Moderna Extramoenia
COSTELLAZIONI DI CONFRONTI SUL RESTAURO L’Aquila, la restituzione del contesto di Ester Bonsante
… la pénombre que nous avons traversée (Marcel Proust, Le temps retrouvé)
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rosegue a L’Aquila il ciclo di incontri internazionali diretto da Francesco Moschini e Francesco Maggiore, intitolato “Costellazione di Confronti sul Restauro” e siglato dal marchio VRS, Valore Restauro Sostenibile. L’iniziativa, promossa dal Gruppo Fratelli Navarra e Italiana Costruzioni, con il coordinamento artistico e culturale di A.A.M. Architettura Arte Moderna, si compone di una serie biennale di eventi volti a stimolare una articolata riflessione sulle tematiche relative al restauro, istituendo una coralità di apporti, in cui si incrocino fruttuosamente sapere e saper fare, teoria e storia, progetto e costruzione. L’incontro aquilano, quarto dopo gli appuntamenti di Matera, Venaria Reale e Venezia, si è caratterizzato, oltre che per la già ricca e articolata proposta dei precedenti appuntamenti, per la particolarità del momento storico, poiché si è svolto a ridosso del recente terremoto che ha colpito le regioni del centro Italia, e del luogo, l’unicum costituito dal caso aquilano, contesto in corso di restituzione: un cantiere senza soluzione di continuità, una paracittà “in cui si ha la sensazione di camminare nelle corsie di un ospedale tra degenti urbani”, come ha notato Maggiore nell’introdurre i lavori. Una occasione per considerare e riflettere su quello che si sta facendo e per sviluppare concretamente il sempre più impellente e necessario dibattito sui temi della ricostruzione, che possa condurre –questo l’anelito dell’iniziativa VRS- alla definizione di un modus operandi specificatamente italiano. Il mondo dell’impresa, dell’Amministrazione e dell’Accademia si è riunito in un luogo simbolo della ricostruzione, l’auditorium di L’Auditorium del Parco progettato da Renzo Piano.
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Renzo Piano, col commento magistrale di una delle voci più autorevoli del panorama architettonico italiano, quella di Francesco Venezia. Dopo le precedenti tappe in cui sono stati affrontati i temi del restauro come bene comune, della convergenza multidisciplinare nel restauro e del rapporto tra antico e nuovo, a L’Aquila la giornata dedicata ad Antonino Giuffrè, è stata incentrata sulla problematica della restituzione del contesto, e su quella del restauro come progetto. Un progetto da intendersi a largo spettro – in questo senso Massimo Cialente, sindaco dell’Aquila, ha ricordato la necessità di considerare oltre ai monumenti cittadini, anche i borghi dell’Appennino- e a lungo termine, valutando anche il problema della gestione del bene nel tempo, che impone la necessità di interrogarsi fin da subito su cosa sarà l’Aquila alla consegna dell’ultimo cantiere, come ha suggerito Luca Navarra di Italiana Costruzioni. L’ottica corretta è perciò quella di non intendere il lavoro di restauro come un semplice appalto, ma di determinare precocemente un piano di gestione frutto di sinergie tra pubblico e privato: l’Italiana Costruzioni ha favorito fin da subito l’acquisizione di una consapevolezza partecipata del bene, in occasione della iniziativa, promossa dell’associazione Officina L’Aquila, di aprire i cantieri alla cittadinanza, rivelando il work in progress che c’è dietro i teleri, per “comunicare il restauro”, come rimarcato da Fabio Liberati, coordinatore dell’associazione. Il tempo è oggetto imprescindibile del progetto di restauro, più in generale del progetto di architettura: la declinazione nel futuro di
arte e letteratura RESTAURO
La chiesa delle Anime Sante dell’Aquila durante i lavori di restauro ad opera di Italiana Costruzioni.
Un tratto dei portici del corso dell’Aquila transennato.
una rielaborata azione su un manufatto o su un luogo consegnato dal passato. Ma il tempo va considerato preventivamente come materiale contingente di ogni intervento che sappia tener conto dell’intero ciclo di vita del fabbricato, per far fronte all’accrescimento insostenibile di spesa per la manutenzione futura degli edifici, specie quelli di nuova generazione, come ha sottolineato Francesco Scoppola, direttore generale per l’educazione e ricerca del Mibact. Imparare nuovamente dalle maestranze le regole del costruire a regola d’arte, è l’invito di Simonetta Ciranna, Presidente del Corso di studi di Ingegneria Edile-Architettura, cui fa eco il richiamo a l’obbligo alla SOA per le imprese che devono ricostruire -fatto da Ettore Barattelli, Presidente Ance della provincia dell’Aquila- per dar luogo ad operazioni qualificate che consentano la durata nel tempo degli edifici.
Il restauro come progetto deve presupporre una visione globale degli interventi rispetto al tempo ma anche al contesto: Scoppola ha tratto dalla settecentesca pianta di Roma del Nolli -nella quale in bianco erano rappresentati gli spazi pubblici, comprendendo anche i luoghi aperti, e in nero gli spazi privati- la lezione per cui è necessario considerare anche i luoghi pubblici come architetture a cielo aperto, luoghi che comprendano i bisogni della città (similmente don Bruno Tarantino, responsabile della edilizia di culto dell’Aquila). In sostanza integrare, o meglio reintegrare, il contesto di intervento, non solo rendendolo completo dal punto di vista quantitativo, ma anche e soprattutto qualitativo per ricostruire, con una idea unitaria, le comunità oltre che i singoli fabbricati. Come sempre, historia magistra vitae, e l’intreccio con la storia auspicato dalla proposta VRS è una operazione doverosa per fon-
Momenti della Tavola rotonda.
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Il tamburo della chiesa delle Anime Sante dell’Aquila durante i lavori di restauro ad opera di Italiana Costruzioni.
Il Palazzo del Governo a L’Aquila transennato.
dare efficacemente un confronto sulla restituzione del contesto oggi: in una breve, ma intensa, carrellata Francesco Moschini ha ripercorso la vicenda dei modelli storici dei rifacimenti urbani, e dei loro principi ispiratori, per considerare come ogni volta il grado zero imposto da un evento imprevedibile che sottrae le città alla ordinaria pianificazione, imponga una scelta, in bilico tra una vocazione alla dimensione ideale e una idea razionale urbana. Non solo il rapporto con la storia, ma l’incontro poliedrico tra apporti diversificati, costantemente incoraggiato dalle operazioni coordinate da Francesco Moschini e dalla A.A.M. Architettura Arte Moderna, favorisce la proficua risoluzione delle sempre più serrate e semplicistiche contrapposizioni strumentali: oltre a quella deprecabile tra sicurezza e restauro, una pratica esclusivamente emergenziale utilizzata come paradigma per i miglioramenti sismici, segnalata dalla sovrintendente Maria Alessandra Vittorini, anche quella fra restauro e consolidamento, che non dovrebbero rappresentare due momenti scissi, risulta essere altamente fuorviante. Come ha ricordato Stefano Gizzi, segretario regionale Mibact, il restauro infatti comprende il consolidamento e, come ha sottolineato sagacemente Francesco Venezia, il consolidamento non dovrebbe costituire argomento di convegno, ma essere prassi di ordinaria amministrazione. L’accento va posto sul come restaurare, per sciogliere un’altra deviante contrapposizione: quella tra restauro e architettura. Elio Masciovecchio, Presidente dell’Ordine degli Ingegneri dell’Aquila, ha ricordato un intervento di Hans Kollhoff il quale, in occasione di una visita a L’Aquila, ha rimarcato la necessità di imparare a riconnettere l’architettura con il restauro. In questo senso la tappa aquilana incentrata sul restauro come progetto, costituisce una importante occasione per ricucire il senso del restauro, sfilacciato dai troppi specialismi contemporanei. Avere il coraggio della ricostruzione in una visione progettuale deve essere il grande impegno moderno, intervenendo in maniera diversificata a partire da una anamnesi dell’esistente, come ha suggerito Angela Marino, docente dell’Università degli Studi dell’Aquila. Le risposte parziali che non considerano la complessità delle problematiche progettuali sono quanto mai distorte e pericolose. Anche gli adeguamenti normativi sull’esistente dovrebbero costituire un momento di elaborazione progettuale se si vogliono evitare forzature che finiscono per snaturare i principi compositivi di un manufatto architettonico. A tal proposito l’intervento di Rosalia Vittorini di Docomomo Italia, con il supporto di un’ampia casistica di interventi più o meno virtuosi, ha portato l’attenzione sul tema del restauro del patrimonio moderno, territorio ancor più scivoloso in quanto prodotto di un passato troppo recente e per ciò, paradossalmente, più a rischio rispetto all’antico. Il moderno ha perso il paradigma dell’immunitas e risulta esposto alla contingenza rispetto all’opera classica. Partendo da questa constatazione, Massimo Carboni, docente di estetica, ha incentrato il suo magistrale intervento sul concetto di oblio, che va intrecciato a quello di memoria, per ricalibrare l’imperativo categorico alla tutela e valutare di volta in volta l’opportunità della
La chiesa delle Anime Sante dell’Aquila durante i lavori di restauro ad opera di Italiana Costruzioni. Attilio Navarra.
Massimo Cialente Sindaco dell’Aquila.
Simonetta Ciranna.
Luca Navarra.
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arte e letteratura RESTAURO
conservazione: “se le arti vadano tutelate non col restauro ma dal restauro”, considerato che talvolta il cosiddetto restauro potrebbe essere la peggiore delle distruzioni, parafrasando il noto aforisma 31 di John Ruskin. Esercitare l’arte della dimenticanza, con l’auspicio che la memoria anziché incarnarsi in cose concrete si faccia coscienza, vuol dire ammettere una sorta di diritto alla scomparsa dell’opera. Il bene monumentale deve rimanere in noi, più che a noi, come “qualcosa di dimenticato a memoria, e proprio per questo indimenticabile”. A questo concetto hanno fatto eco le parole di Francesco Venezia nell’introdurre la sua lezione magistrale: la città è un palinsesto di tante storie e ogni luogo è il risultato di precedenti demolizioni, come insegna l’emblematico caso del Colosseo risultato di due distruzioni, quella della Domus Aurea, a sua volta costruita sulle rovine della Roma incendiata da Nerone. La colpevolezza della recente storia italiana sta semmai nel non aver rinnovato il patrimonio, abdicando al ruolo memorabile e significativo dei monumenti, dell’architettura tout court, colpevolmente sparita dal novero dei valori civili, considerata un fastidio anziché un obbligo. L’intreccio tra memoria e oblio trova la sua conciliazione nelle architetture di spolio, trasposizioni poetiche “in cui l’ordine delle cose naturali è già trasformato in quello dell’architettura- e in qualche misura alla natura è ritornato” (Francesco Venezia, Lotus International 33, 1981). Il Maestro partenopeo, poeta del frammento inteso come occasione non come esito, ha ripercorso parte della sua produzione partendo dall’esercizio di ammirazione nei confronti di un altro grande architetto, Rudolf Schwarz, che nella chiesa di S. Anna a Duren ha trasformato un mare di macerie in un bellissimo edificio. Quelle dell’architettura di spolio rappresentano per Francesco Venezia “le più felici occasioni”: paradigmatico il caso del museo di Gibellina, in cui le vestigia del Palazzo Di Lorenzo, il più nobile palazzo della vecchia Gibellina, sono state incastonate nel cortile infossato di un nuovo edificio per ritrovare una misura a esse consona, stabilendo una tensione vivissima tra la rovina e il paesaggio per mezzo di una finestra passatoia. Nella stessa Gibellina il piccolo giardino murato (“la migliore opera della mia vita”) è un’opera raffinatissima, in cui Venezia ha saputo fare di tre archi di recupero un mondo concluso. La materia di spolio è di nuovo accolta e assimilata nel corpo disteso di Salaparuta, e nel ventre del teatro-conca di Salemi. “Indecifrabilità da un lato, strutturazione dall’altro – il materiale di spolio resterà sempre in un nuovo edificio come una cifra misteriosa a lato dentro il corpo di versi scritti in una lingua familiare”. La ciclicità delle cose, degli edifici che tornano alla terra o che riaffiorano da essa, informa i progetti caratterizzati dalla idea del deposito, vere e proprie memorie dal sottosuolo: tra questi il Museo della Stratigrafia Storica a Toledo, il progetto per un centro multireligioso a Berlino e gli ipogei della cattedrale neoclassica di Caserta. Sul tema della ricostruzione a scala urbana, tanto la sistemazione
del vecchio casale di San Pietro a Patierno, risolto in una nuova unità che concilia le contraddizioni latenti tra interventi di restauro, rinnovo urbano e nuovo intervento, quanto il polo giuridico ed economico ad Amiens, in cui il rispetto del tracciato storico consente all’intervento di aderire al tessuto esistente divenendone parte integrante, dimostrano una volta di più la maestria di Venezia nel saper riconnettere, ad ogni scala dimensionale, i nuovi interventi con il luogo e con la storia partendo da una assimilazione del contesto mai subìto asfitticamente, ma sempre rielaborato in chiave progettuale. L’adesione al limite, al senso del tempo, alla regola –del buon costruire innanzitutto-, e alla misura, fa della Architettua di Francesco Venezia un luogo poetico contenente l’anelito al memorabile, in cui la resistenza opposta al divenire si declina in una permanenza perpetuata della memoria: una grande lezione per ogni considerazione attuale sul restauro. n
Angela Marino.
Massimo Carboni.
Francesco Moschini e Francesco Scoppola
Francesco Moschini e Francesco Scoppola.
L’Aquila, La Fontana Vecchia a Piazza del Duomo con la Chiesa dei Santi Giorgio e Massimo.
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Contro la mortificazione dell’arte ono convinto che l’arte sia una cosa seria. Sono convinto che non sopporti S definizioni ammuffite. Che, infine, sia inti-
per nulla fertile, il quadro che viene offerto è tragico, da utopia lacerata. A detta dell’autore l’arte è stata politica, o meglio serva del potere, addirittura ancor prima di nascere, ancor prima di una qualsiasi definizione linguistica. Coloro che in essa sentono, o la sentano, se stessa senza altro, o una forma estetica di sopravvivenza al mondo, per Firpo sono soltanto “anime belle” innamorate della bellezza. La stessa Venere di Willendorf, secondo lo storico non esattamente dotata di fascino, ha avuto uno scopo politico. Mi dispiace: non è così. C’è un errore, che commettono tutti, e non per loro diretta colpa, bensì a causa di ragioni occulte, su cui è stata fondata l’umanità nata a partire dalla cosiddetta storia moderna; questo errore consiste nell’inserire in un unica pentola le attività umane, nel tentare con sforzo di mescolarle, e nell’affermare che il cocktail provenga necessariamente dalla politica. La realtà, invece, è diversa; ed è possibile dimostrarlo, anche. La politica è ciò che ha dimenticato di essere stato infante, è ciò che ha dimenticato ogni moralità ludica (essa è originata, infatti, proprio dalla dimenticanza del fondo dell’umanità), la quale, sapendo della sua patologica improduttività (non è capace di fornire una posizione organica se non attraverso divisioni e odio), ha desiderato nei secoli tutto quello che era diverso da sé (per esempio l’arte, il sentimento, ecc.), minacciando costantemente gli uomini che il mondo, privo della sua presenza, sarebbe stato vuoto; e, per giustificare la sua funzione, ha adottato (più correttamente “ha rubato”) ciò che non le apparteneva. E mediante il denaro, unico suo germoglio artificiale, che è
difatti foggiato da materia fredda e morta, ha lasciato scadere l’esistenza in ciò che non sarebbe dovuta diventare: cioè un rapporto di dipendenza. Basti pensare che oggi nulla si può dire o fare se priva dell’avallo della politica, rendendo l’uomo un essere inutile. Firpo, nell’articolo, espone una sintetica storia dell’arte, puntuale nella sua brevità, togliendo libertà concettuale anche alla sacralità, dimenticando però il restante cinquanta per cento della storia delle religioni e delle scienze umane, che la politica l’hanno messa sotto le scarpe (ma nessuno mai ne parla... chissà perché). Il sacro e l’arte non sono “politica”. Sono linguaggi (forse linguaggi) diversi che, fuggendo alla politica e a qualsiasi logica -perché provviste di un’altra logica-, intimoriscono il senso inesistente e costruito. Ecco perché si fa di tutto per renderle piccole piccole e inserirle in qualcosa di baggiano, di “puro”, di maschilista direi, donandogli un colore, una posizione, un’arma. Il problema è che quando l’arte e il sacro fuggono, la politica, puntuale, giunge per distruggere il percorso di tale fuga, traducendo i frammenti in un destino da accettare senza insurrezioni. La libido della politica è il controllo. Condivisibile, in parte, sono le ultime righe dell’articolo. In parte, perché artisticamente, e non politicamente, forse un po’ di autonomia di pensiero ancora esiste ed è possibile manifestarla. In parte, perché artisticamente, e non politicamente, non tutto è perduto. E se questi sembrano dei giochi di prestigio grammaticali, beh... forse l’arte è magica. Non politica. Dario Orphée La Mendola
Museo MARCA, Catanzaro
ancora non sai come potrai trovare lungo i muri un’esperienza; sapere E vorrai, ma ti troverai due anni dopo al
l’alfa e l’omega, l’elemento imprescindibile, materiale e spirituale, che racconta una storia trasversale che coinvolge ogni essere umano con il proprio vissuto esperienziale. Mentre le sfaccettate opere di Longo rivelano un pensiero «sulle possibilità d’azione offerte dalle varie gradazioni di linguaggio dell’arte d’oggi» (come afferma il curatore Marco Meneguzzo nel testo in catalogo), per osservare il mondo esterno (Middle Time, Unemployement in Euro-Mediterranean countries) ed al contempo tracciare la soglia della propria intimità (Italian dream). La soglia diventa apertura autentica all’altro con Negro, che crea un luogo in cui sia possibile l’incontro, duplicemente con se stesso e con il fruitore; in cui oggetto di scambio - o da scambiare - siano i suoi ricordi più preziosi: un reliquiario, un letto, un lampadario, i paesaggi familiari sono offerti al pubblico, quali metafore del proprio mondo interiore, in cui niente è prettamente reale. La Calabria, con i suoi paesaggi e le sue tradizioni culturali, rivive nelle speculazioni di questi artisti, che saldano universale e particolare, istanze globali a identità radicate. Sebbene non esista un’arte espressamente calabrese - sarebbe anacronistico parlarne -, questi artisti mostrano di esser tutti figli di una terra protesa verso il domani, ognuno detentore di un personale scenario futuribile, in cui la propria eredità, artistica ed identitaria, collima con il processo di globalizzazione e con la relativa diffusione dei linguaggi visivi. E il futuro prossimo è già presente per il Museo MARCA, che vede delinearsi all’orizzonte i nomi di Sebastiano Dammone Sessa e Caterina Arcuri. Simona Caramia
ma (e qui si spiega il pronome personale, errore da pennarello blu, che fa da chiave di violino a questo scritto). Non è piacevole, per nulla piacevole, leggere ciò che essa non dovrebbe essere; o eliminare la sua possibile indipendenza per “pubblicizzare” un’idea eccessivamente calata nel particolare. Il prestigioso “Giornale dell’arte”, al numero 371 di gennaio, apre con un confronto visivo tra due opere distanti un secolo: il celebre “Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo e i “100 Cinesi” di Paola Pivi. Malgrado appaia faticoso rintracciare le effettive affinità tematiche tra le due opere, anche se gli elementi più superficiali sono chiari, ciò che maggiormente colpisce è l’articolo di apertura, firmato da Massimo Firpo (tratto da un volume edito da Laterza), il quale reputa “un’idiozia”, “un pregiudizio” e “una baggianata” l’autonomia dell’arte rispetto alla politica. L’analisi di Firpo è perfetta, non sbava; e ogni proposizione ha l’autorità e il peso di una sentenza giudiziaria. Ma non convince. Perché risente tantissimo – fortunatamente - delle emozioni di una determinata generazione che ha reso questa contemporaneità “accartocciata” ai suoi nipoti (in altre parole, spero che la tesi non venga adottata dalla generazione a me coetanea). Nonostante il bassocontinuo del testo segua la lotta habermasiana - elevata al quadrato - tra la prigione del sistema sociale e la Lebenswelt, con una freddezza di sguardo che, rigo dopo rigo, perde oggettività in favore di un pessimismo
Arte e Territorio
ovanni Longo, visione dell’allestimento al MARCA.
useppe Negro, Architettura (particolare), 2016.
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punto di partenza, cantava Guccini. Contrariamente a questo pronostico, in - quasi - due anni di nuova direzione, il MARCA di Catanzaro ha cambiato volto, diventando un museo vivace, un luogo di aggregazione, aperto al territorio ed a commistioni eterogenee. Sono sempre stati questi gli intenti del direttore artistico Rocco Guglielmo, che in una vecchia intervista per Segno dichiarava la propria “vocazione al territorio” e l’impegno nella promozione di eventi periodici, per far vivere il Museo con costanza, coinvolgendo tutte le arti (letteratura, design, musica, teatro, cucina) per incitare all’aggregazione, per far sistema anche con l’impresa locale, per promuovere la cultura. Seguendo questa linea d’azione – o di programmazione – il Museo ha visto il susseguirsi di innumerevoli progetti, rassegne, iniziative, ma sprattutto mostre, volte a scardinarne l’austerità, per lasciar spazio all’innovazione, al farsi della ricerca artistica, alla vita organica ed al suo imprevedibile divenire (come ha ricordato il Parterre di Veronica Montanino). Tra le novità uno spazio dedicato all’arte calabrese: dopo una pioneristica esposizione di un gruppo di allievi dell’Accademia di Belle Arti (novembre 2015 - gennaio 2016), dal titolo MotorHead Art 2519, il MARCA ha visto sussegursi nello stesso anno i Fragile Skeletons di Giovanni Longo, esili sculture in legno assemblate con paziente cura; La camera anecoica di Giuseppe Negro, onirica atmosfera che lascia spazio al silenzio e al mistero; il solo pane di Francesco Antonio Caporale, che fanno del pane
arte e letteratura ASPETTI CRITICI, LIBRI E CATALOGHI
Postmedia Books
A cielo aperto ieci anni di idee ed emozioni, progetti e messe in opera, raccontati attraverso D una “raccolta di esseri viventi”, del loro ope-
rato, cristallizzati in ricordi, affrontati scientificamente, con taglio critico, in scambi e dialoghi; sono i dieci anni di vita dell’Associazione culturale Vincenzo De Luca ripercorsi attraverso le parole e le opere di artisti e critici, raccolti nel volume A Cielo Aperto (edito da Postmedia Books, agosto 2016). Arte pubblica, ma non solo. Arte relazionale o partecipata, anche. Arte tout court, mista a profonda passione e grande professionalità. Tutto questo ed altro ancora, confluiscono nel progetto avviato dall’Associazione lucana che ha tra i suoi maggiori sostenitori e promotori il duo Bianco-Valente e Pasquale Campanella. A Cielo Aperto si figura come un museo diffuso all’aperto, che ha visto nel corso degli anni alcuni artisti italiani (come Stefano Boccalini, Fabrizio Bellomo, Francesco Bertelé, Eugenio Tibaldi, Virginia Zanetti, Antonio Ottomanelli, Elisa Fontana, Andrea Gabriele e Andrea Di Cesare, Wurkmos, per citarne alcuni) confrontarsi con lo spazio pubblico del paesino potentino, vivere il territorio durante un periodo di residenza, per realizzare un lavoro site specific, successivamente installato in uno spazio di condivisione pubblica. Il libro offre molteplici spunti di riflessione sul rapporto tra arte e spazio, tra ambiente naturale e contesto urbano. Ad analizzare il progetto nella sua interezza è lo stesso Campanella, a cui si affiancano i contributi di Maria Teresa Annarumma, che esalta il valore del locale, attraverso le sperimentazioni artistiche e la funzione sociale dell’arte che permette il progressivo avvicinamento del pubblico; di Elio Grazioli con la sua disamina sui limiti e sugli equilibri del fare arte; di Marco Petroni con la sua “politica del sottile”, ovvero l’intricato tessuto di relazioni; di Alessandra Pioselli, che – dopo un puntuale excursus sull’arte pubblica, attraverso le direttrici dello spazio-forma e del tempo-relazione – non manca di ricordare che il “sociale siamo noi”, e che dunque è fondamentale la soggettività particolare che ogni attore in campo porta con sé in quel “fuori” che è lo spazio pubblico. L’interessante saggio di Pietro Gaglianò analizza i processi verbali alla base della vita dei paesi del sud, cosicché il vociferare collettivo assuma una vera e propria funzione mitopoietica. Ne fornisce esempio Richard Parker è a Latronico, l’ironico progetto di Giuseppe Teofilo, in cui la narrazione, trascende la verbalità e si sviluppa su un piano di cultura sociale e condivisa (Gaglianò). Ma ancora, Leandro Pisano, Pietro Rigolo, Aste&Nodi, Simona Bordone, Giusy Checola, Thomas Gilardi, Gabi Scardi, Elvira Vannini, con i loro scritti, tracciano le fila di un’estetica plurale, quella riscontrabile attraverso le diverse edizioni del progetto
A Cielo Aperto, che ha modificato di anno in anno la morfologia di Latronico ed il senso di appartenenza – all’arte – dei suoi abitanti. Non mancano interviste agli artisti, che ne chiariscono gli intenti ed i progetti, come i dieci temi discussi tra Angelo Bianco ed Elisa Laraia o i dialoghi tra Tommaso Evangelista e Michele Giangrande ed Elena Giulia Rossi e Bianco-Valente. Tale andamento dialogico permette di fissare punti fermi sulla contemporaneità nella ricerca diun dialogo con il proprio tempo e con la propria interiorità (Laraia); nell’ironia come metodologia (o strategia) di indagine per fare arte, che permette di esorcizzare il malessere che “ci circonda e divora” (Giangrande); nella pratica della relazione come scelta volontaria per affermare l’altro e invischiarlo nel reale attraverso l’arte, o viceversa nel fare arte attraverso il reale. E difatti Ogni dove, l’opera di Bianco-Valente per Latronico rimarca che l’uomo è fatto di relazioni fluide, che si innescano anche quando è condotto altrove dagli eventi e che la complessità dell’esistenza umana si costituisce, attraverso sedimentazioni e spostamenti; proprio come quelli messi in moto dalla Associazione De Luca e testimoniati negli anni dal progetto A Cielo Aperto. Simona Caramia
multipli di Maurizio Nannucci e un vasto apparato iconografico dei suoi lavori in ordine cronologico. Molti spunti critici sono dati dalla antologia di testi e interviste (illuminante quella di Hans Ulrich Obrist Freedom from the fear of self-contradiction) e nel testo del 1969 di Carlo Belloli dove si nota la vicinanza alla poesia visuale, dal credito che questa ha avuto nel lavoro dell’artista e come la visualità poetica sia stata base di lavori, anche multipli, decisamente charificatori. Nei primi “Dattilogrammi” a partire dal 1964 o nei “Poemi cromatici” è espressa l’importanza del colore alleato visivo e semantico di un lavoro legato alla parola, essa stessa struttura oggettiva e visiva di ricerca. Questo volume chiarisce bene come il complesso processo di lavoro di Nannucci, nella sua visione artistica fatta di relazioni e collaborazioni che portano a un lavoro collettivo, si rimette a una dimensione sociale di coinvolgimento di persone, artisti e professionisti, di ambiti, luoghi e spazi museali internazionali. I multipli e le edizioni agevolano il passaggio del significato del suo “fare” arte Always endeavor to find some interesting variation, proprio come declama la frase in copertina (multiplo da Exempla Edizioni, 1975).
Collana Arti Visive & Beni Culturali
Visionari del tempo presente aggio della storica e critica d’arte Sara Liuzzi per la casa editrice Open Space, S nella collana Arti Visive & Beni Culturali,
ED / MN Edited by Maurizio Nannucci Editions and Multiples 1967/2016 occasione della mostra di Maurizio alla Colli Indipendent Art GalleIrynNannucci di Roma, presentato un suo nuovo libro illustrato a colori, in lingua inglese, con 408 pagine, stampato in 1000 copie. La pubblicazione costituisce una ulteriore esperienza dell’artista che ha sempre intrapreso un complesso percorso di ricerca nell’ambito editoriale, realizzando più di 400 edizioni, multipli e pubblicazioni. Questo prodotto fornisce un’ampia panoramica di quello che Nannucci considera il lavoro d’artista, che implica anche la pratica dell’editore e produttore oltreché di edizioni e multipli, di libri d’artista, cataloghi, stampe, poster, dischi e molto altro. Un libro che ben esprime il suo interesse nel tenere insieme discipline distinte, nella convinzione che queste formino un flusso unico di spunti nell’ampio campo di ricerca; lavorando nel dialogo fra arte e musica, arte e letteratura, arte e linguaggio, con una chiara disposizione alla poesia. I saggi raccolti nel libro, sono a cura di importanti critici d’arte (Carlo Belloli, Stefano Chiodi, Anne Moeglin-Delcroix, Gabriele Detterer, Mario Diacono, Pier Luigi Tazzi, Tommaso Trini, Hans Ulrich Obrist), con incluso un catalogo ragionato delle edizioni e
diretta da Luna Gubinelli. Un saggio che ci conduce nel fertile territorio artistico tarantino e che costituisce il trait-d’union di cinque affermati artisti con le loro origini: Giuseppe Spagnulo, Nicola Carrino, Antonio Michelangelo Faggiano, Giulio De Mitri e Sarah Ciracì. In ogni territorio – scrive Sara Liuzzi - si evince il genius loci, lo spirito del luogo, un concetto molto antico, che racchiude la complessità e l’importanza dell’identificazione del luogo stesso, la sua anima, l’essenza primordiale. Il saggio si completa con un prezioso colloquio con lo storico e critico d’arte Luigi Paolo Finizio, il quale ha ben sottolineato, nei diversi dialoghi, che “l’arte insieme ad ogni attività di cultura costituiscono motori di crescita e affinamenti nella vita sociale. Viviamo una sorta di situazionismo ubiquo e perenne in cui ogni realtà, ogni suo margine può essere rappresentato. Dentro l’arte ci siamo come dentro la vita e troppe volte si fa confusione”. In appendice apparato iconografico con alcune significative opere degli artisti.
FEBBRAIO/MARZO 2017 | 261 segno - 73
GiovedĂŹ 9 febbraio 2017 ore 17.30 Presentazione del volume
Giorgio Cattani
Di lĂ da dove per andare dove Opere dal 1986 al 2016
a cura di Andrea Del Guercio Skira editore
Intervengono
Lola Bonora | Andrea Del Guercio | Franco Farina | Maria Letizia Paiato | Lucia Spadano
Libreria Ibs+Libraccio Piazza Trento Trieste Palazzo San Crispino - Ferrara
www.fabulafineart.com
accademia nazionale di san luca mostre in corso
Il Grand Tour
a cura di Roberto Cremascoli e Francesco Moschini
álvaro siza in italia 1976 - 2016
la misura dell’occidente Álvaro Siza_Giovanni Chiaramonte
26.10.16_27.02.17 ingresso libero . free admission
accademia nazionale di san luca piazza dell’Accademia di San Luca 77, 00187 Roma www.accademiasanluca.eu