Segno 263

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segno Spedizione in abbonamento postale Poste Italiane S.p.A. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 ROC · Registro degli operatori di comunicazione n. 18524 - ISSN 0391-3910 00 in libreria

E 5.

Anno XLII - GIU/LUG 2017

Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea

ADELITA HUSNI-BEY

DAVID MEDALLA

SPECIALE BIENNALE DI VENEZIA



segnogiugno/luglio 2017 E 5.

Anno XLII - GIU/LUG 2017

Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea

sommario

Artisti in copertina Adelita Husni-Bey

ADELITA HUSNI-BEY

Documenta Atene [16]

segno Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea

# 263 - Giugno/Luglio 2017

#263

Spedizione in abbonamento postale Poste Italiane S.p.A. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 ROC · Registro degli operatori di comunicazione n. 18524 - ISSN 0391-3910 00 in libreria

The Reading / La Seduta, 2017 57° Biennale Arte Venezia, Padiglione Italia

(photo by Roberto Sala, courtesy preview stampa)

David Medalla

A Stitch In Time, 1968-2017 DAVID MEDALLA

SPECIALE BIENNALE DI VENEZIA

tessuto in juta, fili di cotone colorati, materiali vari, dimensioni ambientali. 57° Biennale Arte Venezia, Arsenale.

(photo by Michele Sereni, courtesy l’Artista)

Nino Longobardi [52]

4/15 News gallerie e istituzioni

Anticipazioni mostre in Italia ed Estero a cura di M.Letizia Paiato, Paolo Spadano

16/41 Attività espositive/

Speciale Documenta 14 Atene/Kassel 57a Biennale di Venezia

Documenta 14 – Atene (pag. 16-21 Pietro Marino, Maria Letizia Paiato. Foto di Roberto Sala) Intervista a Katerina Koskina (pag. 21 Lucia Spadano) 57a Biennale di Venezia, Viva Arte Viva Prime letture e commenti extra Biennale (pag. 22-37 Paolo Balmas, Pietro Marino, M.Letizia Paiato, Serena Ribaudo, Antonella Marino, Marilena Di Tursi, Lorella Scacco, Zoe Balmas, Milena Becci, Lisa D’Emidio. Foto di Roberto Sala) Artisti in Biennale: Intervista a David Medalla (pag. 38-41 Lorenzo Bruni)

Subodh Gupta [54] Maurizio Nannucci [57]

Nino Longobardi (Castel del Monte Andria) Apparenze (pp. 42/45 Maria Vinella) Piero Gilardi Nature for Ever (MAXXI Roma, pp. 46/47 Paolo Balmas) Francesco Vezzoli (Fondazione Prada, Milano, pag 48 Angela Faravelli) La terra inquieta (Palazzo della Triennale Milano, pp.48/49 Duccio Nobili) Rosa Barba (Hangar Bicocca Milano, pp.48/49 Duccio Nobili) La Forza delle Immagini ( MAST Bologna pag 50 Francesca Cammarata) L’arte del femminile o il femminile dell’arte (Villa Pignatelli, Napoli pag.51 Carla Rossetti) Costruire il Novecento - Collezione Giovanardi (Pal. Fava, Bologna pag.52 F.Cammarata) L’Opera Grafica di Burri in una nuova sezione della Fondazione (Palazzo Albizzini, Città di Castello dal C.S. pag 53) Antony Gormley, Subodh Gupta, Alejandro Campins (Galleria Continua, San Gimignano, pp.54/56 Rita Olivieri) Maurizio Nannucci (Galleria Fumagalli Milano, pag.57 Angela Faravelli) Luca Maria Patella (Laura Bulian Gallery, Milano pag. 58 Alessandro Azzoni) François Morellet (A. Arte Invernizzi, Milano pag.59 Duccio Nobili) Ettore Spalletti (Galleria Vistamare, Pescara pp.60/61 Maria Letizia Paiato) Franco Mello (Fondazione Plart Napoli pp 62/63 Stefano Taccone) Utopia e Progetto –Sguardi sulla scultura del Novecento (Galleria Open Art, Prato, pp.64/67 Maria Letizia Paiato) Pino Pinelli (Galleria Santo Ficara, Firenze, pp.68/69 , a cura di Lucia Spadano) Paola Pezzi (Galleria Il Milione, Milano, pp.70/71 a cura di Lucia Spadano) Vito Bucciarelli (Galleria Uso Magazzino, Pescara, pp.72/73 di Lucia Spadano) Caterina Arcuri (Museo Marca, Catanzaro pp.74/75 di Martina Soricaro) Michele Chiossi (Galleria Paola Verrengia, Salerno pag.76 di Alberto Zanchetta) Thomas Hirschhorn (Galleria Alfonso Artiaco, Napoli pag.77 di T.H.) Iginio Iurilli (Museo Pino Pascali, Polignano, pag.78 di Antonella Marino) Lucia Lamberti (Fabula Fine Art, Ferrara, pag.79 di Serena Ribaudo) Carlo Mattioli (Labirinto della Masone, Fontanellato (Pr), pag. 79) Bertozzi & Casoni (Pinacoteca Civica, Ascoli Piceno, pag.80 di Stefano Verri) Nicola De Maria (Cortesi Gallery, Milano pp.80/81 Angela Faravelli) Annamaria Suppa (Gall BLUorg, Bari pag.81 di Maria Vinella) Pino Pipoli (Spazio Tender, Bari Antonella Marino pag 82) Liuba (Galleria Marconi Cupra Marittima, Dario Ciferri pag 82) Bernard Aubertin (ABC Arte, Genova pag 83 M.Letizia Paiato) Cristiano De Gaetano (Fondazione Pascali, Polignano (Ba), pag. 84 di Maria Vinella) Vittorio Messina (Nicola Pedana, Caserta, pag. 85 di Enzo Battarra) Lucia Rotundo (Museo Mambrini, Galeata, pag. 85 di Alice Ioffrida) RIZOMATA (Studi legali, Palermo, pag. 86 di Dario Orphée La Mendola) L’altra città (Casa Circondariale, Taranto, pag. 88 di Lucia Spadano) Paolo Scirpa (Fabbriche Chiaramontane, Agrigento, pag. 89 di Dario Orphée La Mendola)

Vito Bucciarelli [72]

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news e calendario eventi su

e 42/92 Attività espositive/ Recensioni documentazioni

Hou Hanru [94]

e omaggi 93/97 Arte e Letteratura/ Interviste

Interviste: Lorenzo Balbi (pag. 93, a cura di M.L.Paiato e Serena Ribaudo); Hou Hanru (pag. 94, a cura di Ilaria Piccioni); Adriana Polveroni (pag. 96, a cura di Lucia Spadano); Giuseppe Sylos Labini (pag. 96, a cura di Lucia Spadano) Omaggio a Sauro Bocchi (pag. 96)

segno periodico internazionale di arte contemporanea Direzione e redazione Corso Manthonè, 57 65127 Pescara Telefono 085/61712

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>anteprima< MILANO

PALAZZO REALE

Vincenzo Agnetti o sfaccettato percorso di ricerca di Agnetti (1926-1981) è ripercorso nella mostra A cent’anni da adesso, promossa dal L Comune di Milano, Palazzo Reale, Archivio Agnetti e curata da

Marco Meneguzzo. Troviamo esposte oltre cento opere, realizzate tra il 1967 e il 1981, che restituiscono un’immagine chiara della tensione poetica, concettuale e visionaria dell’artista, lo spiccato interesse per l’analisi dei processi creativi, del suo ruolo di investigatore linguistico e di sovvertitore dei meccanismi del potere. La parola è tradotta in immagini limpide ed evocative, per Agnetti tutto è linguaggio: “Immagini e parole fanno parte di un unico pensiero. A volte la pausa, la punteggiatura è realizzata dalle immagini a volte invece è la scrittura stessa.”. In mostra non mancano i lavori più noti: l’autoritratto Quando mi vidi non c’ero, Ritratti e Paesaggi, le bacheliti nere incise con colore a nitro bianco dal titolo Assiomi, il Libro dimenticato a Memoria, la Macchina Drogata (calcolatrice con i numeri sostituiti da consonanti, fatte seguire da una vocale casuale in modo che le parole ottenute dalle operazioni, anche se prive di senso logico, fossero comunque supporto di intonazione). Spazio anche ai lavori fotografici come l’Autotelefonata, Tutta la Storia dell’Arte in questi tre lavori, l’Età media di A, Architettura tradotta per tutti i popoli e la semisconosciuta Riserva di caccia. Chiudono il cerchio opere come le Photo-graffie, Le stagioni, la poesia I dicitori, l’installazione 4 titoli surplace e, per la prima volta dopo quasi 50 anni dalla prima esposizione, il lavoro a quattro mani con Paolo Scheggi, Trono. “Con questo appuntamento riscopriremo uno dei più grandi artisti concettuali - afferma Marco Meneguzzo - Il suo concettualismo è diverso da quello anglosassone, americano, e anche da quello europeo; quello di Vincenzo Agnetti ha un risvolto metafisico e letterario, pieno della nostra cultura, vorrei dire mediterraneo, se oggi questo aggettivo non apparisse riduttivo.”.

Haim Steinbach in dagli anni Settanta, la ricerca di Steinbach si focalizza sulla selezione e disposizione degli oggetti, in particolare quelli di F uso quotidiano, esplorati negli aspetti psicologici, estetici, cultu-

Vincenzo Agnetti, Auto telefonata yes (dettaglio), 1972 courtesy Collezione Emilio e Luisa Marinoni

Haim Steinbach, Untitled (bonsai, artichoke), 2012, legno laminato e plastica cm.95x89x50, courtesy Galleria Lia Rumma, Napoli/Milano

CUNEO

Giulio Paolini, Senza titolo, 1966, courtesy GAM, Torino

COMPLESSO MONUMENTALE S.FRANCESCO

Ioa Fondazione non amo la natura CRC e la GAM (Torino) con il patrocinio del MiBACT, presentano Io non amo la natura - Pop Art Italiana L dalle collezioni della GAM, a cura di Riccardo Passoni, mostra promossa in occasione dei 25 anni dalla nascita della Fondazione. Il percorso espositivo si snoda attraverso una selezione di cinquanta opere tra dipinti, sculture e video e nasce dalla volontà di riflettere sulla vicenda storica della Pop Art in Italia, alla luce di una rinnovata attenzione critica. Troviamo così testimoniate tutte le differenti declinazioni di stile, che vanno da Schifano, Angeli, Festa, Fioroni, Lombardo, Mauri, Ceroli, attivi sulla scena romana, a personaggi dal retroterra unico come Kounellis e Pascali, mentre in ambito più torinese troviamo opere di Nespolo, Mondino, Pistoletto, Gilardi, Paolini, Carena. A mostrare esiti collaterali, non dichiaratamente Pop ma contestualizzabili in quella temperie di sviluppo e ricerca, esempi delle ricerche pioneristiche di Rotella e Baj. Completano la proposta opere della Fondazione Guido ed Ettore De Fornaris e della Fondazione CRT per l’Arte Moderna e Contemporanea, tutte custodite presso la GAM di Torino. Carolyn Christov-Bakargiev, direttrice della GAM: “Una mostra che siamo orgogliosi di promuovere insieme alla Fondazione CRC e che permette di esporre a Cuneo, in una cornice davvero particolare come il complesso monumentale di San Francesco, opere del prestigioso patrimonio del nostro museo, che possono così riemergere in un nuovo contesto espositivo”. Fino al 22 ottobre. 6 - segno 263 | GIUGNO/LUGLIO 2017

Haim Steinbach, Untitled (Eiffel tower, pepper mill), 2011 plexiglass, bronzo e legno, cm.39.5x36x16, courtesy Galleria Lia Rumma, Napoli/Milano

NAPOLI

GALLERIA LIA RUMMA

rali, portati alla luce grazie a dispositivi espositivi e strutture di presentazione. Con la mostra lemon yellow, l’artista torna nella galleria che per primo lo ospitò in Europa, nel 1987, e focalizza l’attenzione sul dialogo tra oggetto e spazio, sulla mutevolezza dei significati propri di un oggetto relativamente a colore e forma. Attenzione particolare è posta ai modi in cui l’architettura è essa stessa “oggetto”: al di là del suo aspetto o dimensione, essa occupa spazio, che sia l’interno o l’esterno di un volume, da qui l’artista prosegue chiedendo collaborazione ai collezionisti, ai quali è stato chiesto di selezionare un oggetto significativo, capace di evocare un’idea o sensazione di colore, ognuno di questi oggetti (un sigillo notarile, una locomotiva, l’opera di Joseph Beuys Capri Battery e Mickey Mouse) sono presentati accanto a un lavorooggetto scelto dall’artista (un bruco), posti in teche espositive a parete divenendo, nell’insieme, segni ostensivi dei particolari rituali che sono il collezionare e l’esporre.


>news istituzioni e gallerie< ROMA

MACRO TESTACCIO

Milo Manara l padiglione della Pelanda fa da cornice a MacroManara - Tutto ricominciò con un’estate romana, occasione per ripercorrere Il’intera carriera del fumettista veronese. Due le direzioni seguite

per tracciare la parabola artistica di Manara: da una parte la ricchissima proposta antologica, dove troviamo tutte le grandi opere degli anni ’70, ’80 e ’90, dalle straordinarie tavole di Giuseppe Bergman al Tutto ricomincio con un’estate indiana che lo vide lavorare con l’amico Hugo Pratt, ma anche El Gaucho, Lo Scimmiotto, Gulliveriana, le storie del Gioco, di Miele; dall’altra la produzione contemporanea e il rapporto con Roma e il cinema, dalla Cinecittà di Federico Fellini fino ai Borgia e Caravaggio, con una serie di illustrazioni dedicate alle grandi dive cinematografiche qui esposte per la prima volta. La mostra è una coproduzione COMICON e ARF! Festival. Fino al 9 luglio.

MÜNSTER NAPOLI

MUSEO MADRE

Roberto Cuoghi nico appuntamento italiano per Perla polU lina, 1996 - 2016, “retro-

spettiva di metà carriera” per Cuoghi (modenese, classe ‘73), che il MADRE ospita fino al 18 settembre. La mostra è ideata e curata da Andrea Bellini e Andrea Villani, organizzata insieme al Centre d’Art Contemporain di Ginevra (dove ha chiuso i battenti il 30 aprile) e al Roberto Cuoghi, progetto per invito, 2017, Koelnischer Kunstverein courtesy l’artista, foto Alessandra Sofia di Colonia (dove si trasferirà dal 14 ottobre al 17 dicembre). Troviamo interconnessi i principali cicli di opere dell’artista, interpretati come universi indipendenti e autonomi, come una lingua che, paradossalmente, fosse parlata da una sola persona al mondo. Circa 70 i lavori che ripercorrono i venti anni di ricerca artistica, documentandone e analizzandone le dinamiche inventive e produttive, in parte chiare già dalla scelta del titolo nonsense, generato dal caso, per l’azione erronea di un programma di correzione automatica.

TORINO

GALLERIA GIORGIO PERSANO

Per Barclay rutto di una collaborazione lunga 30 anni, la mostra Stanze da Giorgio Persano raccoglie una selezione dei lavori più siF gnificativi dell’artista norvegese. L’allestimento, curato da Bar-

clay stesso, è pensato per creare un percorso visivo e di senso tra gonfiabili (masse di tessuto hi-tech che si riempiono e sgonfiano come polmoni, in un respiro lento e continuo), casette (fredde strutture metalliche richiuse dal vetro, dalle quali riaffiorano ricordi puri e imprevisti, come rifugi mentali) e l’opera Fin de Siècle, riflessione contemporanea sul nostro passaggio nella storia. Fino al 28 luglio.

Per Barclay, Senza titolo, 1992, courtesy Giorgio Persano, Torino, foto N.Morittu

SEDI VARIE

Skulptur Projekte ono 40 le candeline per uno dei progetti più innovativi della seconda metà del secolo scorso, nato dall’idea di Klaus S Bußmann e Kasper König di creare una dimensione pubblica, non solo “grazie” all’arte, ma soprattutto “per” l’arte, differenziandosi da altre iniziative pubbliche coeve per lo più concentrate su problematiche socio-economiche o legate allo sviluppo e al degrado urbano. La città di Münster diventa con cadenza decennale, sempre con la direzione di König, uno dei cuori pulsanti dell’arte contemporanea e registra il clima e lo spirito di ogni singola decade con senso di responsabilità, ma anche con grande libertà. Le riflessioni che hanno portato a stabilire le linee guida per questa V edizione sono state influenzate dall’enorme impatto che la digitalizzazione e la globalizzazione hanno avuto sulle nostre vite; ciò si è riversato nei mesi scorsi in una serie di 3 pubblicazioni intitolata Out of... (fuori da) e dedicata ai 3 concetti ritenuti fondanti per l’esperienza della scultura in spazi pubblici: corpo, tempo e luogo, che a causa dell’accelerazione che la comunicazione ha subito diventano sempre meno distinti, fin quasi a dissolversi l’uno nell’altro. Sul filone tematico del corpo, interessanti i progetti di Alexandra Pirici, Xavier le Roy con Scarlett Yu, o il gruppo Gintersdorfer/Klaßen che coinvolgono una serie di danzatori, performer e anche la cittadinanza. La relazione tra scultura e tempo si evince dalle 35 opere rimaste in questi 40 anni ad abitare la città di Münster, dalle fragili installazioni di Dan Graham (padiglione Oktogon für Münster, 1997) e Rebecca Horn (Das gegenläufige Konzert, 1987-1997) che sono ora riallestite e rese più accessibili; ma c’è anche un discorso sulla longevità, ad esempio con Lara Favaretto e i suoi Momentary Monuments, Justin Matherly e il suo approccio all’aforisma dell’eterno ritorno, il simposio Nothing Permanent: Sculptures and Cities (13-15 settembre). Sulla direttrice tematica legata alla spazialità interviene il Westfälisches Landesmuseum, tradizionale organizzatore della manifestazione, che si presenta quest’anno come un “museo perforato”, aiutato dal design della nuova struttura a cura dello studio Staab Architekten di Berlino: negli spazi dell’atrio del vecchio edificio, del foyer del nuovo e di una porzione del piano superiore si “inscrivono” gli interventi di Gregor Schneider e Nora Schultz, che perforano le prospettive architettoniche. Il tutto accompagnato da una risistemazione degli interventi sitespecific in città (fino a 5 km dal centro) e dal progetto Kur und Kür della poetessa Monika Rinck che vede l’avvicendarsi di dieci autori in residenza. Oltre i già citati, questi gli artisti a vario titolo annunciati per lo Skulptur Projekte: Arakawa, Bartholl, Baghramian, von Bonin, Bunte, Byrne, CAMP, Dean, Deller, Eisenman, Ayse Erkmen, Friðfinnsson, Huyghe, Knight, Sany, Odzuck, Ogboh, Peles Empire, Rottenberg, Schütte, M. Smith, Steyerl, Tanaka, Tuazon, Tuerlinckx, Wyn Evans, Youmbi, Wagner / de Búrca. Dal 10 giugno al 1 ottobre. Claes Oldenburg, Skulptur Giant Pool Balls, 1977, foto imago/Rüdiger Wölk

GIUGNO/LUGLIO 2017 | 263 segno - 7


>news istituzioni e gallerie< el segno della ondata nel 2008 da Paul continuità, Art FKusseneers, il format di the N Basel 2017 torna solo project si basa esclusiva-

dal 15 al 18 giugno per portare al Messe Basel le gallerie più importanti al mondo in rappresentanza di oltre 4000 artisti. Nell’anno in cui vanno a congiungersi Documenta, lo Skulptur Projekte Münster e la Biennale di Venezia, Basilea tiene alta l’asticella e presenta una sezione principale, Galleries, molto selezionata. Dall’Italia partecipano le gallerie Artiaco (Napoli), Continua (San Gimignano), Massimo De Carlo, Invernizzi, kaufmann repetto, Gió Marconi, Christian Stein, Tega, Zero... (Milano), Magazzino, T293 (Roma), Galleria dello Scudo (Verona), Massimo Minini (Brescia), Franco Noero, Tucci Russo (Torino), Tornabuoni (Firenze/Milano). In Feature troviamo progetti speciali di artisti affermati, tra presentazioni personali, accostamenti inaspettati, esposizioni tematiche e incroci di culture, generazioni e approcci differenti. Tra i protagonisti possiamo senz’altro citare: Nam June Paik (James Cohan Gallery, New York), Barbara Bloom, Joan Jonas (Raffaella Cortese, Milano), Arman (Leila Heller Gallery, New York), Piero Manzoni (Mazzoleni Art, Torino), Niele Toroni (Galerie Pietro Spartà, Chagny), Carlo Alfano (Studio Trisorio, Napoli), Bethan Huws (Vistamare, Pescara), Paolo Gioli (Wilkinson Gallery, Londra). Statements è, invece, destinata alle presentazioni di artisti emergenti, eleggibili per il Baloise Art Prize. Tra gli altri, 47 Canal (New York) propone Amy Lien ed Enzo Camacho, Chapter NY il lavoro di Sam Anderson, Gypsum Gallery (Il Cairo) Maha Maamoun, Kate MacGarry (Londra) Samson Kambalu, Galerie Micky Schubert (Berlino) Sung Tieu. Molto ricca si annuncia Unlimited, a cura di Gianni Jetzer, spazio per allestimenti fuori scala, dalle sculture alle installazioni, dalle proiezioni video alle performance che trascendono le dimensioni dello stand fieristico. Da notare i lavori di John Akomfrah per Lisson Gallery; Yuri Ancarani per Galerie Isabella Bortolozzi e ZERO…; Ei Arakawa per Taka Ishii Gallery; Francesco Arena per Raffaella Cortese e Sprovieri; John Baldessari per Marian Goodman Gallery e Sprüth Magers; Massimo Bartolini per Massimo De Carlo, Frith Street Gallery e Magazzino; Chris Burden per Gagosian; Enrico Castellani per Lévy Gorvy e Magazzino; Subodh Gupta per Galleria Continua e Hauser & Wirth; Paolo Icaro per Galleria Massimo Minini; Olaf Metzel per Wentrup; François Morellet per A arte Invernizzi, Annely Juda Fine Art e kamel mennour; Bruce Nauman per Sperone Westwater; Giulio Paolini per Alfonso Artiaco; Pier Paolo Calzolari per Marianne Boesky Gallery; Philippe Parreno per Pilar Corrias; Tony Smith per Pace. La compenetrazione con il tessuto cittadino è affidata a Parcours, sezione con cui la fiera invade 22 spazi pubblici di Basilea e dintorni, a cura di Samuel Leuenberger. Tra gli artisti protagonisti Ai Weiwei, Katinka Bock, Pedro Cabrita Reis, Miriam Cahn, Berlinde de Bruyckere, Nathalie Djurberg and Hans Berg, Latifa Echakhch, GCC, Amanda Ross-Ho, Cally Spooner, Rirkrit Tiravanija e Wu Tsang. Il programma non sarebbe completo senza le sezioni Film, Editions, Magazines e un ricco corollario di eventi collaterali offerti dalle istituzioni culturali della città.

FIERA DI BASILEA - PAD. 3

Swiss Art Awards e mostre degli Swiss Art Awards e Swiss Design Awards, prezioso spacL cato annuale sulla produzione artistica

Daniela Keiser, Senza titolo, courtesy l’artista

mente su personali, dando a collezionisti, curatori o semplici appassionati d’arte un’esperienza immersiva nel lavoro degli artisti. La partecipazione, all’Hirzen Pavillon, è rigidamente su invito, secondo il motto “selected artists by selected galleries”.

orna al Markthalle, per il tredicesimo anno Volta, fiera dedicata a presentazioni di progetti personali o dialoghi tra due T artisti. 19 le gallerie che fanno la loro proposta “singola”, 21 quel-

le che si affidano a un “duetto”. Tra le proposte quella dei lavori in bambù dell’artista cambogiano Sopheap Pich (Tyler Rollins Fine Art, New York); gli inchiostri del cinese Peng Wei (Galerie Ora-Ora, Hong Kong); le tecniche composite di Robert Hodge (Freight + Volume, New York); il dialogo tra le fotografie emotive della russa Anastasia Khoroshilova e i disegni di grande formato della studentessa Erasmus egiziana Assunta Abdel Azim Mohamed (Hilger Brotkunsthalle, Vienna); la presentazione tematica di Galerie Dukan (Parigi/Lipsia); ma anche i progetti di Karine Rougier, Raphael Vella e Bettina Hutschek, Mauricio Esquivel, Lester Rodríguez, Erika Harrsch, Santiago Vélez, Kristin Hjellegjerde, Dawit Abebe, Juliette Mahieux Bartoli, Martine Poppe, Soheila Sokhanvari. er la sua 22a edizione LISTE P propone un par-

terre di 79 gallerie provenienti da 34 paesi, con l’intento dichiarato di sempre: promuovere il lavoro delle giovani gallerie internazionali ritenute più promettenti. Ben 15 degli espositori sono presenti per la prima volta, tra questi Bianca D’Alessandro (Copenhagen), Emalin (London), Jenny’s (Los Angeles), Antoine Levi (Paris), Lomex (New York), MadeIn (Shanghai), Madragoa (Lisbon), Marfa’ (Beirut), Edouard Montassut (Paris), Öktem&Aykut (Istanbul), Société (Berlin), Southard Reid (London), Joseph Tang (Paris), WeissFalk (Basel) e Leo Xu (Shanghai). In Fiera uno spazio speciale per l’esposizione di Andriu Deplazes, vincitore del 2017 Helvetia Art Prize dedicato agli artisti svizzeri emergenti.

FONDATION BEYELER

Tillmans/Sehgal ’esposizione principale è quest’anno dedicata all’artista belga Wolfgang Tillmans, che rappresenta la prima grande L mostra dedicata alla fotografia dalla Fondazione. 200 gli scatti

esposti, entrati recentemente a far parte della Collezione, datati tra il 1989 e il 2017. Fino al 1 ottobre. L’anglo-tedesco Tino Sehgal è, invece, protagonista di sei appuntamenti diluiti nel corso dei prossimi mesi, con sei successivi lavori che andranno a occupare spazi tra i giardini e le gallerie. Punto di partenza del programma è l’opera This You, acquisita dalla fondazione due anni fa. Fino al 12 novembre. Tra giugno e settembre, secondo appuntamento con la ricognizione sullo stato della Collezione, con Beyeler Collection / Remix.

elvetica, si svolgono, in concomitanza con Art Basel nel Padiglione 3 della Fiera di Basilea. Nella stessa occasione viene attribuito il Gran Premio svizzero d’arte / Prix Meret Oppenheim, che quest’anno rende omaggio all’artista Daniela Keiser, all’architetto Peter Märkli e allo storico dell’arte e dell’architettura Philip Ursprung. ell’anno dell’undicesiN ma edizione Scope

torna nella sua location originaria, prima chiamata ClaraHuus, ora ribattezzata SCOPE | Haus, a soli 3 isolati dalla Messeplatz, cuore pulsante del weekend dell’arte di Basilea. 70 gli espositori internazionali (da 27 paesi, 48 città) che danno vita alla kermesse. Dall’Italia registriamo la partecipazione delle gallerie Primo Marella e Bianconi (Milano), Antonella Cattani (Bolzano) e Wunderkammern (Roma/Milano). 8 - segno 263 | GIUGNO/LUGLIO 2017

Wolfgang Tillmans, Night Jam, 2013, courtesy Fondation Beyeles, Basilea

MUSEUM TINGUELY

Wim Delvoye rima grande retrospettiva in Svizzera, dagli anni ‘80, per l’artista belga Wim Delvoye, noto per l’acuta commistione di P sublime e profano, in particolare le macchine che riproducono processi fisiologici (su tutte la celebre Cloaca). Dal 14 giugno al 1 gennaio 2018.


>news istituzioni e gallerie< AMSTERDAM

ANVERSA

Mentre al Museo è in chiusura Transgressions, mostra dell’artista indiana Nalini Malani, ricca di riferimenti alla narrativa classica che inaugura un programma dedicato alla questione dei migranti, sono molteplici le retrospettive che si apprestano all’inaugurazione. A seguito di nuove acquisizioni per la collezione, il Museo dedica ampio spazio ai 70 anni di carriera di Ettore Sottsass, punto di riferimento per intere generazioni di giovani designer. Fino ad aprile 2018. Altra grande ricognizione storica, la prima nei Paesi Bassi, è quella di Edward Krasinski (1925-2004), figura notevole dell’avanguardia polacca, in bilico tra dadaismo e costruttivismo, ma sempre con un personalissimo approccio sperimentale. Dal 24 giugno al 15 ottobre. La fotografa olandese Rineke Dijkstra è protagonista di An Ode, mostra che celebra l’assegnazione del 2017 Hasselblad Foundation International Award in Photography, includendo opere fotografiche iconiche, lavori video giovanili, ma anche gli esiti del ritorno a questo medium negli anni recenti. Fino al 6 agosto. All’artista americano Seth Price è dedicata Social Synthetic, mostra animata da 140 opere che spaziano nei campi più disparati della ricerca artistica, realizzate dal 2000, ma anche una serie di nuovi lavori esposti per la prima volta. Fino al 3 settembre. Prima museale per la fotografa e attivista sudafricana Zanele Muholi, i cui scatti da “posizione privilegiata” della comunità lesbica e transgender del suo paese si confondono con la testimonianza di tappe della propria vicenda personale. In mostra la nuova serie Somnyama Ngonyama e una serie di autoscatti. Dall’8 luglio al 15 ottobre. Jana Euler presenta High in Amsterdam. The sky of Amsterdam, mostra che esalta la pratica della giovane artista tedesca, concentrata sulle interazioni dinamiche tra pittura, scultura e parola.

Il Middelheim Museum propone Some Time, esposizione di Richard Deacon che si compone di 31 opere, suddivise tra sculture monumentali e lavori di scala più contenuta, alcune installate nel parco, altre all’interno delle gallerie museali. Cuore della mostra la ricostruzione di Never Mind, opera acquisita dal Museo nel ‘93 e rifabbricata in acciaio inossidabile. Fino al 24 settembre.

Stedelijk Museum

Richard Deacon

BARCELLONA

Bernstrup / Llaneli Margolles / Merino

Quadrupla esposizione alla Adn Galería, a partire dalle personali Home Swiss Home di Eugenio Merino, e South of Heaven di Tobias Bernstrup. Entrambe le mostre fino all’11 di agosto. Anche lo spazio ADN Platform, nella cittadina di Sant Cugat del Vallès, ospita due personali: la prima è Fuerza Centrífuga di Teresa Margolles, con la curatela di José Luis Corazón Ardura; la seconda è Relationship of Command, di Laura Llaneli, a cura di Jordi Vernis. Fino al termine del mese di ottobre.

Eugenio Merino, Home Swiss Home

Richard Deacon, Never Mind, 1993-2017 acciaio inox, courtesy Middelheim Museum, Anversa

Tobias Bernstrup, South of Heaven courtesy ADN Galería, Barcellona

ATENE

Thread

Alla Kalfayan Galleries la collettiva Thread, con opere di Vartan Avakian, Bill Balaskas, Ioannis Faitakis, Niki Kanagini, Maria Loizidou, Elias MamaMaria Loizidou, liogkas, Sil- Tresses/stress (dettaglio), vina Der Me- 2017, materiali compositi, guerditchian, cm.440x15x4, courtesy Alex Mylona, Kalfayan Galleries, Atene Nina Papakonstantinou, Nausica Pastra, Retrovi, Efi Spyrou, Maria Tsagkari. A cura di Areti Leopoulou. Fino al 16 settembre.

BASILEA

Paul Suter

La Galerie Carzaniga propone Informelle Malerei und Plastiken von Paul Suter, una doppia mostra che affianca opere di artisti della pittura informale, come Mark Tobey, Rolf Iseli, Marcel Schaffner, Lenz Klotz e le sculture di Paul Suter.

BERLINO

Miyajima / Carroll

Buchmann Galerie propone Flower Dance, di Tatsuo Miyajima. Il lavoro dell’artista armonizza tecnologie avanzate e considerazioni esistenziali fondamentali. Nelle opere in mostra, display numerici a led sono inseriti in pannelli riflettenti quadrati montati con diverse angolazioni, il tutto regolato da un algoritmo e ispirato, non si direbbe, dall’osservazione della fioritura dei ciliegi. La galleria propone, nello spazio ad Agra (Lugano), l’opera di Miyajima C.T.C.S. Flower Dance” no. 12. Lo spazio Buchmann Box ospita una personale di Lawrence Carroll. Nelle opere dell’artista, che si divide tra USA e Italia, il tempo gioca un ruolo fondamentale: alcuni lavori in mostra sono stati creati in un arco di tempo molto lungo, nel suo operare non c’è spazio per la fretta. Fino al 24 giugno. L’artista è, al contempo, protagonista della mostra I have longed to move away al Museo Vincenzo Vela a Ligornetto (Svizzera): 60 opere formano una sorta di autobiografia concepita da Carroll apposta per l’occasione. Fino al 15 ottobre.

Paul Suter, courtesy Galerie Carzaniga, Basilea Zanele Muholi, Bester I, Mayotte, 2015 courtesy l’artista Seth Price, Different Kinds of Art (dettaglio), 2004 foto Ron Amstutz

Lawrence Carroll, Untitled (cut painting, white), 2016 materiali compositi, cm.199(h)x153x9,8 courtesy Buchmann Galerie, Berlino/Lugano Tatsuo Miyajima, C.T.C.S. Flower Dance no. 1, 2017 materiali compositi, 12 elementi, cm.105(h)x340x9,5 courtesy Buchmann Galerie, Berlino/Lugano

Art Berlin Contemporary si presenta, tra il 14 e il 17 settembre, in una veste rinnovata grazie alla fusione con Art Cologne. Prevista la partecipazione di 100 espositori. GIUGNO/LUGLIO 2017 | 263 segno - 9


>news istituzioni e gallerie< BILBAO

CLUJ

Due le esposizioni in corso al Museo: Pello Irazu, figura chiave della scena artistica basca contemporanea propone Panorama, che in oltre 100 opere esplora le relazioni tra corpi, oggetti, immagini e spazi. Fino al 25 giugno. La mostra (Untitled) Human Mask di Pierre Huyghe traccia la sottile linea di confine tra realtà e finzione nel mentre costruisce un’esperienza del mondo. Fino al 16 luglio. Due anche le esposizioni prossime all’inaugurazione: A Retrospective di Bill Viola, ricognizione sulla carriera del pioniere della videoarte. Troviamo opere seminali come The Reflecting Pool (1977-79) e recenti installazioni di grandi dimensioni come Birth (2014), a mostrare come l’evoluzione del suo linguaggio si è accompagnata a una crescente complessità tecnica. Dal 30 giugno al 9 novembre. George Baselitz, uno degli artisti più influenti dei nostri giorni, dipinse la serie Hero tra il ‘65 e il ‘66 in un drammatico impeto produttivo che ne ha definito stile e poetica. Il Guggenheim Bilbao, con l’organizzazione dello Städel Museum di Francoforte, rende merito a questa serie e ai New Types, gruppi di opere che nulla hanno perso, nel corso dei decenni, della loro forza evocativa e aggressiva. Dal 14 luglio al 22 ottobre.

IAGA Contemporary Art Gallery presenta la mostra Celebrating Life, a cura di by Georgeta Olimpia Bera, Beatrice Benedetti e Walter Bonomi, retrospettiva videofotografica del Gesamtkunstwerk (opera d’arte totale) a cui si affianca una ricca documentazione dei lavori più emblematici di Hermann Nitsch, a testimonianza del clima del periodo in cui le “azioni” hanno avuto luogo. Fino al 18 luglio.

Guggenheim

Pierre Huyghe, (Untitled) Human Mask, 2014 filmato, 19’, courtesy Hauser & Wirth, Londra Anna Lena Films, Parigi Georg Baselitz, Bonjour Monsieur Courbet, 1965 olio su tela, cm.162x130 courtesy T. Ropac Collection, Parigi/Salisburgo

Hermann Nitsch

Katharina Sieverding Global Desire (dettaglio), 2016, courtesy l’artista

BONN

Sieverding / Comics!

La Bundeskunsthalle presenta Art and Capital from 1967 to 2017, retrospettiva di Katharina Sieverding. Pioniera del lavoro con i led e delle stampe di ampio formato, l’artista raccoglie qui le sue serie fotografiche e le proiezioni dal soffitto al pavimento. Fino al 16 luglio. La mostra Comics! Mangas! Graphic novels!, visitabile fino al 10 settembre, propone 300 lavori di artisti grafici dagli Stati Uniti, dall’Europa e dal Giappone, per una esaustiva ricognizione sull’inarrestabile crescita del fumetto, dalle prime strisce sui quotidiani USA di oltre un secolo fa, al fenomeno globale dei manga e delle graphic novel.

BRUXELLES

Scodro / De Vree

L’Istituto Italiano di Cultura presenta, nell’ambito del ciclo a due, dialogo/confronto tra Italia e Belgio concepito e curato da Laura Viale e Maria Elena Minuto, la mostra Cime et t+erre, i cui protagonisti sono Alberto Scodro e Paul De Vree. Le installazioni e le sculture di Scodro, ermetiche e ricche di tensione, interpretano il lavoro poetico visuale e sonoro, di De Vree.

Disio

L’Ambasciata d’Italia e l’Istituto Italiano di Cultura, promuovono Disio. Nostalgia del futuro, esposizione intergenerazionale e multiculturale a cura di Antonello Tolve. Gli artisti che danno vita a questo gemellaggio costruttivo tra due paesi che presentano confluenze e contaminazioni sono: Adolfo Alayón, Luis Arroyo, Camilo Barboza, Umberto Boccioni, Ángela Bonadies, Hayfer Brea, Zeinab Rebeca Bulhossen, Iván Candeo, Max Coppeta, Fabrizio Cotognini, Antonio Della Guardia, Marcel Duchamp, Magdalena Fernández, Jason Galarraga, Manuel Eduardo González, Kazimir Malevic, Domenico Antonio Mancini, Luis Millé, Antonio Paz, Enrico Pulsoni, Armando Reverón, Giovanni Termini, Eugenio Tibaldi, Eduardo Vargas Rico. Fino al 9 luglio.

CHICAGO

Nel centenario della nascita, Ikon dedica una mostra a uno degli artisti che più hanno segnato la scena australiana. Fino al 3 settembre, in mostra una selezione di spray su tela in cui Nolan, negli anni ‘80, ritrae personaggi identificati come Rimbaud, Bacon, Britten, Whiteley.

The Arts Club presenta Suspended Mies, personale di Bettina Pousttchi. L’artista, che vive e opera a Berlino ed è nota per i suoi interventi fotografici di scala monumentale in spazi pubblici, si confronta qui con le architetture di Mies van der Rohe, progettista della scalinata flottante al The Arts Club. Fino al 5 agosto.

Sidney Nolan, Illuminations,1982 spray su tela, courtesy Sidney Nolan Trust

10 - segno 263 | GIUGNO/LUGLIO 2017

Maria Farrar, David Attenborough, 2017 olio su lino, cm.40x60 courtesy mother’s tankstation limited, Dublino

CARACAS

BIRMINGHAM

Sidney Nolan

Hermann Nitsch, Architectural drawing, 1994, pennarello su carta, cm.70x50, courtesy IAGA, Cluj

Bettina Pousttchi

DUBLINO

Maria Farrar

La galleria mother’s tankstation limited propone straits, esposizione di Maria Farrar i cui dipinti gioiosa e ingegnosi sono fortemente interconnessi con la sua identità e retroterra culturale. Fino al 1 luglio.

DÜSSELDORF

Davide La Rocca

Alla Galerie Voss, l’artista italiano presenta la mostra 13K, incentrata e dedicata al genio creativo di Stanley Kubrick, regista statunitense noto per il suo perfezionismo quasi maniacale, che ancora oggi affascina e influenza le nuove generazioni. La Rocca trasferisce su tela 13 tra le sue inquadrature più espressive, con stile personale: 10 in bianco e nero (dedicate ai primi film), 3 incentrate sull’ultimo periodo creativo, con grafica in stile RGB.

Bettina Pousttchi, Empire, courtesy The Arts Club, Chicago


>news istituzioni e gallerie< LIECHTENSTEIN

LONDRA

Al Kunstmuseum Liechtenstein, esposizione di opere del gruppo Gorgona, nato a Zagabria nel 1959 con il fine dichiarato di stabilire una pratica estetica che differisse da quella imperante nella Jugoslavia socialista creando, nei fatti, un proficuo dialogo con le avanguardie internazionali. Opere di Miljenko Horvat, Marijan Jevšovar, Julije Knifer, Ivan Kožaric, Mangelos, Matko Meštrovic, Radoslav Putar, Đuro Seder, Josip Vaništa. Fino al 3 settembre.

Prosegue alla Tate Modern l’importante restrospettiva dedicata ad Alberto Giacometti, che ricolloca la sua figura accanto a quelle della statura di Matisse, Picasso e Degas. In mostra, ovviamente, le celebri sculture allungate, ma anche, per la prima volta dal 1956 (anno in cui vennero presentate alla Biennale di Venezia), tutte le sei Donne di Venezia, sculture in stucco, e altri lavori nodali come Il naso (1947/’49), Figura media III (1948/’49) o Donna “Leoni” (1947/’58). In collaborazione con la Fondation Alberto et Annette Giacometti, fino al 10 settembre. Per la prima volta, fino al 1 ottobre, l’istituzione britannica dedica una ricognizione completa all’arte “queer”. La mostra Queer British Art 1861-1967 va a celebrare il 50° anniversario della parziale decriminalizzazione dell’omosessualità maschile in Inghilterra, dando voce alle identità LGBTQ (lesbiche, gay, bisex, trans e queer), attraverso opere di artisti come John Singer Sargent, Dora Carrington, Duncan Grant e David Hockney. Getta luce sulle lotte per i propri diritti anche l’altra grande mostra che anima la Tate in questa stagione, Soul of a nation: art in the age of Black Power. L’esposizione è un viaggio visivo vibrante tra dipinti, murales, fotografie, ma anche vivaci scelte di design sartoriale e addirittura sculture create con capelli afro. Non mancano gli omaggi alle figure dei leader politici Martin Luther King, Malcolm X, Angela Davis, musicisti come John Coltrane ed eroi sportivi come Jack Johnson e Muhammad Ali. Oltre 150 le opere in mostra in Gran Bretagna per la prima volta, di artisti tra i quali si segnalano figure influenti come Romare Bearden, Norman Lewis, Lorraine O’Grady, Betye Saar, Wadsworth Jarrell. Dal 12 luglio al 22 ottobre.

Gorgona

Josip Vaništa, 1963-XII Composition, 1963 courtesy MSU Museum of Contemporary Art, Zagreb

LINGEN

Albrecht / Cinéma Hernández

La Kunstverein Lingen Kunsthalle presenta una doppia occasione espositiva: a una personale di Isabel Albrecht, con dipinti e disegni dallo stile molto minimale, si affianca la collettiva Cinéma, con un vastissimo ventaglio di lavori video a opera di Kerstin Cmelka, Tom Dale, Judith Hopf, Peter Fischli / David Weiss, Annika Kahrs, Harry Kramer, Claus Richter, Shimabuku, Corinna Schnitt. Fino al 9 luglio. Segue, dal 22 luglio al 10 settembre, la mostra Sobre las olas/ Über alles Wellen di Diango Hernández. Nelle opere dell’artista cubano (ma tedesco ormai d’adozione) riecheggia la nostalgia per la patria perduta, per la spiaggia, la frutta, la lingua, tutti elementi che hanno influenzato il suo vocabolario estetico.

Tate

Ana Mendieta

Alison Jacques Gallery presenta Metamorphosis, esposizione dedicata all’artista cubana Ana Mendieta (1948-1985) e incentrata sulla persistenza del tema della metamorfosi, dalle prime performance all’Università dell’Iowa, negli anni ‘70, fino alle sculture degli anni ‘80.

Bernar Venet

La galleria Blain|Southern annuncia 2 esposizioni con Venet come protagonista. Prima di tutto Looking Forward: 19611984, prima personale londinese per lo scultore francese dopo 40 anni. La mostra rintraccia le radici del suo vocabolario estetico all’interno della produzione giovanile. Fino al 22 luglio. Le opere di Venet sono allestite all’aperto, nel parco della residenza di Cliveden (nel Buckinghamshire), di proprietà del National Trust britannico. Fino al 15 ottobre.

Alberto Giacometti, Mano, 1947 bronzo, cm.57x72x3,5, courtesy Kunsthaus Zürich Giacometti Stiftung, A. Giacometti Estate Wadsworth Jarrell, Revolutionary, 1972 collezione privata, courtesy l’artista

Walter Leblanc

Cortesi Gallery, con la curatela di Francesca Pola, propone la mostra Geometrie sensoriali di Walter Leblanc (19321986). L’artista belga ha sviluppato la propia esperienza nell’ambito della rete di ZERO tra Germania, Svizzera, Belgio, Italia, nutrendo costantemente la sua curiosità sperimentale per materiali non ortodossi (fili di cotone, lattice, PVC, metalli), e rivelando grande tensione costruttiva e attenzione specifica alle potenzialità dinamiche della luce. Fino al 21 luglio.

Victor Pasmore

Alla galleria Marlborough Fine Art esposizione dedicata alla ricerca di Victor Pasmore (1908-1998), tra gli anni ‘70 e i ‘90. Il periodo segna l’evoluzione verso il lirismo astratto che ne caratterizzerà la fase conclusiva della carriera. Fino al 29 luglio.

Victor Pasmore, Untitled, 1993 olio, vernice spray e matita su tavola, cm.121,9x243,8 courtesy The Pasmore Estate, Marlborough Fine Art

We have the weights, Colour in Contextual we have the measures Play Ana Mendieta, Untitled, c. 1984 inchiostro su foglia, cm.39,4x52,7x5,7 courtesy Alison Jacques Gallery, Londra Marco Godoy, Ornaments, 2017, dalla serie Good fences make good neighbors courtesy Copperfield, Londra

Da Copperfield, la collettiva We have the weights, we have the measures analizza la relazione tra le conquiste culturali (all’apparenza gentili) e le pretese geografiche. Le dispute territoriali hanno accompagnato passo dopo passo l’intera storia dell’umanità e, di certo, in una qualsivolgia dichiarazione di possesso è sempre contenuta un’implicita minaccia, un che di aggressivo, ma sono molteplici e sorprendenti i modi in cui questa è spesso stata velata. Riflettono sul tema gli artisti Ewa Axelrad, Daniel de Paula, Marco Godoy, Ella Littwitz, Oscar Santillan. Fino al 29 luglio.

Da Mazzoleni l’installazione Colour in Contextual Play di Joseph Kosuth fa da motore per una collettiva che investiga il tema coloristico. All’opera di partenza, creata per l’occasione, e alla serie del ‘68 di Kosuth dal titolo Art as Idea as Idea, troviamo giustapposti esperimenti monocromi di Enrico Castellani, Lucio Fontana, Yves Klein, Joseph Kosuth, Piero Manzoni. Lo scarto è evidente, il colore si evidenzia ancor più nella sua assenza e da il via a considerazioni che travalicano i confini artistici, per addentrarsi nei territori della fisica, della matematica e della filosofia. A cura di Cornelia Lauf. Fino al 28 luglio. GIUGNO/LUGLIO 2017 | 263 segno - 11


>news istituzioni e gallerie< LOCARNO

NEW YORK

Alla Pinacoteca Casa Rusca, focus dedicato a Robert Indiana, protagonista della Pop Art celebre per la scultura LOVE, che segue le retrospettive al MoMA, al Whitney Museum di New York e al Museo di Stato russo di S. Pietroburgo. In mostra le principali opere dell’artista, realizzate dalla fine degli anni ‘50. Fino al 13 agosto.

Prosegue la ricca stagione espositiva del museo newyorchese: al sesto piano Unfinished Conversations: New Work from the Collection, raccoglie lavori creati nel corso dell’ultimo decennio e recentemente acquisiti di: Akomfrah, de Andrade, Boghiguian, Bowers, Chan, Denny, Fosso, Issa, van Lieshout, Rowland, Tillmans, Villar Rojas, Walker, Yiadom-Boakye. Sullo stesso livello, tra la Joan and Preston Robert Tisch Exhibition Gallery e l’Abby Aldrich Rockefeller Sculpture Garden, Why Pictures Now, prima grande ricognizione su 40 anni di lavoro di Louise Lawler. Entrambe le mostre fino al 30 luglio. Il terzo piano ospita Making Space: Women Artists and Postwar Abstraction, rassegna sulla ricerca artistica femminile tra la fine della II guerra mondiale e la nascita del movimento femminista (circa ‘68). Cento le opere di 50 artiste tra cui Krasner, Frankenthaler, Mitchell, Clark, Pape, Gego, Martin, Truitt, Baer, Abakanowicz, Hicks, Tawney, Bontecou, Bourgeois, Hesse, Ryan, Altschul. Fino al 13 agosto. In collaborazione con la Tate Modern (dove l’artista è stato omaggiato nei mesi scorsi), Among Friends è una grande retrospettiva su Robert Rauschenberg, che spazia attraverso sei decenni di ricerca, tra dipinti, sculture, stampe, fotografie, design e tecnologia, finanche alla danza e alla performance. Il focus è, però, sulle interazioni creative che l’artista ha intrattenuto con numerosi contemporanei, tra cui Trisha Brown, John Cage, Merce Cunningham, Sari Dienes, Morton Feldman, Jasper Johns, Billy Klüver, Paul Taylor, Jean Tinguely, David Tudor, Cy Twombly, Susan Weil. Fino al 17 settembre. Al 150° della nascita di Frank Lloyd Wright è, invece, dedicata Unpacking the Archive, mostra che rende merito all’instancabile opera non solo architettonica di Wright, ma anche del design, nell’entusiasmo per le nuove tecnologie e i sistemi costruttivi fai-da-te, nelle sperimentazioni avanguardistiche e nei contributi teorici riguardo il rapporto con la natura, la pianificazione urbana e le politiche sociali. Circa 450 lavori in mostra, suddivisi in 12 sezioni tematiche, grazie a partnership come la Avery Architectural & Fine Arts Library, Columbia University e alla curatela di Barry Bergdoll e Jennifer Gray. Fino al 1 ottobre. Nello spazio MoMA PS1 prosegue, fino al 25 settembre, la prima museale negli USA di Ian Cheng, con la Emissary trilogy (2015-2017). A questa si affiancano le mostre Clear Day di Maureen Gallace, 70 opere illustrano 25 anni di carriera; New Nationalisms del filmaker slovacco Tomáš Rafa dai metodi che richiamano il cinéma vérité; Past skin, collettiva che riflette sull’ambiente digitale che ci circonda, con opere di Jie, Kasey, Levy, Lucien, Mayer, MSHR, Vriesendorp.

Robert Indiana

Robert Indiana, Amor, 1998, courtesy l’artista

LUGANO

Serena Maisto

La sede svizzera di Cortesi Gallery presenta una personale di Serena Maisto dal titolo Time line. My Walk with Basquiat. Il progetto è nato dall’incontro dell’artista con l’opera di Edo Bertoglio, fotografo svizzero che ha ritratto l’energia della New York degli anni ‘80. Fino al 13 agosto.

Serena Maisto, Thoughts, 2017, acrilico su carta, cm.110×110, foto Serena Maisto Yoan Capote, Island (see-escape), 2010 collezione Pérez Art Museum Miami

MIAMI

On the Horizon

Il Pérez Art Museum propone On the Horizon: Contemporary Cuban Art from the Jorge M. Pérez Collection, esposizione che comprende oltre 170 lavori che descrivono un panorama ricco e sfaccettato, di artisti come Arrechea, Garaicoa, Bas, Capote, T.Fernández, Martínez Celeya, Novoa, Z.Sánchez. Fino al 18 gennaio 2018.

MONACO DI BAVIERA

Frauenzimmer

Galerie Klüser ospita (nei due spazi espositivi) la mostra Frauenzimmer, dedicata allo sviluppo della figurazione femminile lungo il XX e l’inizio del XXI secolo. Opere di Africano, Balkenhol, Baselitz, Beuys, Bohrmann, Boltanski, Cragg, Greenfield-Sanders, Katz, Les Krims, Mendoza, Metzel, Paladino, Salle, Stehli, Warhol, Webb, Brancusi, Giacometti, Grosz, Kirchner, Lehmbruck, Matisse, Picabia, Rodin, Schiele, Van Dongen, De Maria (Benson). Fino al 29 luglio. 12 - segno 263 | GIUGNO/LUGLIO 2017

MoMA

Shirin Neshat

La Gladstone Gallery presenta Dreamers, esposizione dell’artista iraniana (ma di base a New York) che si compone di una proiezione video e una relativa serie fotografica.

Carol Rama

Antibodies, al New Museum, è la più vasta ricognizione museale negli USA sul lavoro di Carol Rama. Helga Christoffersen cura un percorso disseminato di cento opere, tra oggetti, dipinti e lavori su carta, a illustrare una parabola fatta di indipendenza ed eccentricità. Fino al 10 settembre.

Ruscha/Kiefer/Höller

I tre spazi newyorkesi di Gagosian sono impegnati in tre interessanti personali. A Madison Avenue, Custom-Built Intrigue: Drawings 1974-1984 di Ed Ruscha pone l’accento su un passaggio chiave nella pratica dell’artista, il reinserimento dell’elemento spaziale illusorio. Al 522 della 21a Strada, Transition from Cool to Warm, esposizione dei nuovi dipinti, libri d’artista e acquerelli di Anselm Kiefer. Fino al 14 luglio. Al 555 della 24a Strada troviamo, invece, fino all’11 agosto, il recente lavoro di Carsten Höller dal titolo Reason.

Robert Rauschenberg e Susan Weil Untitled (Double Rauschenberg), c.1950 cianografia, cm.209,6×92, courtesy Cy Twombly Foundation, 2017 Robert Rauschenberg Foundation Jordan Kasey. Roller Coaster. 2016 olio su tela, courtesy MoMA, New York

Interstellaris

GR gallery presenta l’esposizione dei lavori di tre artisti le cui ricerche sono accomunate dal discorso sull’energia dinamica dell’umanità e dalla pittura astratta percettiva. Gli artisti sono Alberto Di Fabio, Andrea Bianconi e Felipe Pantone, le opere 15 in totale, tra dipinti su tela, su legno, su carta e alcune sculture. Fino al 15 luglio. Alberto Di Fabio, Realtà parallele n.2, 2011 acrilico e lacche su tela, dittico, ognuno cm.80x80 courtesy GR gallery, New York


>news istituzioni e gallerie< OVIEDO

ROTTERDAM

Periodo molto fecondo per l’artista sudafricano, impegnato su molti fronti, che è stato insignito dalla Fundación Princesa de Asturias del prestigioso Premio Princesa de Asturias de las artes 2017 per aver “espresso emozioni e metafore relative alla storia e alla realtà del suo paese [...] e sollevato fondamentali questioni riguardanti la condizione umana, combinando investigazioni poetiche ed estetiche e tematiche socio-politiche”. Kentridge, che ha curato nell’ultimo mese la regia della Lulu di Alban Berg al Teatro dell’Opera di Roma, è in questo periodo protagonista della personale Thick Time al Louisiana Museum of Modern Art di Humlebæk (Danimarca), mostra in cui indaga come gli esseri umani attraversano il mondo e quanto siamo assoggettati ai concetti di mappatura, tempo e ideologia. Anche negli Stati Uniti l’artista lascia il suo segno, al Cincinnati Art Museum dove propone More Sweetly Play the Dance, installazione video eccezionalmente in mostra grazie a un prestito della LUMA Foundation in cui sette schermi creano una esperienza immersiva evocando una danse macabre, un funerale jazz, un esodo un viaggio. Fino al 28 gennaio 2018.

La Kunsthal di Rotterdam presenta A Perfectionist, retrospettiva di Mapplethorpe (1946-1989), artista e fotografo tra i più celebrati del XX secolo. Le opere spaziano dai lavori giovanili, nei tardi anni ‘60 al successo mondiale negli anni ‘80. Oltre 200 i pezzi esposti, tra ritratti, autoritratti, nudi e nature morte. Fino al 18 settembre.

William Kentridge

Robert Mapplethorpe

William Kentridge, More Sweetly Play the Dance veduta dell’allestimento al Cincinnati Art Museum

Prune Nourry

Il Musée Guimet - Musée national des arts asiatiques, nel novero del progetto espositivo Carte blanche (al 4° appuntamento), presenta Holy, personale dell’artista plastica Prune Nourry in dialogo poetico con le opere della Collezione. Analogie visuali e corrispondenze semantiche invitano lo spettatore a una seria riflessione sul Prune Nourry, Squatting futuro del genere Holy Daughter, 2010 bronzo, vetro, cm.120x70 umano. Fino al 18 settembre. courtesy l’artista

Richard Serra

Il Museum Boijmans Van Beuningen propone Recent drawings di Richard Serra, a cura di Francesco Stocchi. I disegni in mostra sono stati prodotti negli ultimi due anni e alcune opere per l’occasione. L’artista, noto per le sculture, ha sempre praticato il disegno come strumento per la ricerca plastica. Fino al 24 settembre.

PITTSBURGH

Michael Williams

Il Carnegie Museum of Art, nella Forum Gallery propone una esposizione delle più recenti opere di Williams, che si inseriscono nel solco da lui tracciato negli ultimi dieci anni: immagini stratificate, colori aggressivi e tecniche eterogenee che vanno dalla stampa a getto d’inchiostro all’aerografia, su carta o su schermo del pc, per poi riportare il tutto su tele di grandi dimensioni. Fino al 27 agosto.

William Kentridge

VIENNA

Esther Stocker

Il nuovo appuntamento della serie Grenzdialoge (dialoghi di confine), da Mario Mauroner, vede a confronto Esther Stocker con alcuni designer della sua generazione: breadedEscalope, chmara.rosinke, Patrick Rampelotto e Klemens Schillinger. L’interazione esemplifica il mutamento di metodologie e strategie in tutti i campi creativi.

Otto Zitko

PARIGI

Centre Pompidou

Ricca come sempre la proposta espositiva al Pompidou. Nella Galerie 2, al sesto piano, prosegue fino al 14 agosto la prima retrospettiva francese su Walker Evans. I 300 scatti in mostra spaziano dalla crisi degli anni ‘30 allo sforzo bellico e postbellico realizzati per il magazine Fortune, semrpe con grande attenzione ai dettagli della quotidianità urbana. La Galerie 0 (Espace prospectif), quarto piano, ospita Anarchéologies, mostra che trae il titolo da un concetto coniato da Michel Foucault spingendo al limite le sue riflessioni sull’”archeologia del sapere” e “scienza delle origini”, fino a negare l’utilità di un principo di intelligibilità del sapere stesso. Opere di Oliver Laric, Maria Taniguchi, Christodoulos Panayiotou, Jumana Manna, Ali Cherri, Amina Menia, Christoph Keller, il gruppo Umashankar and the Earchaeologists. Dal 15 giugno all’11 settembre. Nella Galerie 1, al sesto piano, in prestigiosissima collaborazione con la Tate Britain e il MoMA, la più esauriente retrospettiva dell’opera di David Hockney, in occasione del suo ottantesimo compleanno. La carriera dell’artista inglese è ripercorsa attraverso dipinti, fotografie, incisioni, videoinstallazioni, disegni e stampe. Non mancano, ovviamente, i dipinti iconici (piscine, doppi ritratti, paesaggi monumentali), ma uno spazio speciale è dedicato alla produzione più recente. Dal 21 giugno al 23 ottobre.

Richard Serra, Ramble 3-54, 2015, pastello litografico e polvere di pastello su carta, cm.50,2x64,1, courtesy l’artista

Michael Williams, Truth About Painting 2 (dettaglio) 2017, getto d’inchiostro su tela, cm.325,2x215,3 courtesy Gladstone Gallery, New York/Bruxelles Galerie Eva Presenhuber, Zurigo/New York

David Hockney, A Bigger Splash, 1967 acrilico su tela, cm.244x244 courtesy David Hockney Collection Tate, Londra Oliver Laric, Sleeping Boy, 2016 courtesy l’artista e Tanya Leighton, Berlino

Alla Galerie Elisabeth & Klaus Thoman, con la mostra Blue Lagoon, Zitko condivide impressioni di un soggiorno in Islanda che lo hanno ispirato profondamente. Non un diario di viaggio, ma una selezione di immagini che da voce Otto Zitko, Senza al misticismo della titolo, 2015, acrilico natura e, in chiave su alluminio, cm.217,3x198,5x4,2, foto metaforica, proseMarkus Wörgötter gue una indagine molto personale sul confronto con il potere. Si tratta di un work in progress da 15 anni, ma ancora lungi dall’essere concluso. Fino al 9 settembre.

ZURIGO

Thomas Ruff

Mai 36 Galerie presenta le più recenti opere della serie press++ di Thomas Ruff. L’artista svizzero (operante in Germania) prosegue l’esplorazione delle regole strutturali del linguaggio fotografico, lo fa stavolta utilizzando scatti realizzati tra gli anni ’30 e ‘70 (acquistati da archivi di quotidiani americani e giapponesi) a coprire un vasto spettro dell’esperienza umana, politica, società, scienza, tecnologia, arte, cultura, moda. La fase successiva è la scansione di entrambe le facce delle foto e la successiva sovrapposizione, cosicché fronte e retro si ritrovino con la stessa “dignità” e si confondano l’uno nell’altro. Fino al 29 luglio. GIUGNO/LUGLIO 2017 | 263 segno - 13


>news istituzioni e gallerie< SEDI VARIE

Arte Tour Italia

K-Gold Temporary Gallery, piattaforma greca per l’arte contemporanea attiva a Lesbo dal 2014, gira lo stivale con Italian Summer Tour 2017 - Contemporary Art from Lesvos to Italy, manifestazione a cura di Nicolas Vamvouklis che fino a settembre tocca le città di Roma, Venezia, Torino e Milano e coinvolge 25 artisti greci e internazionali. Il programma prevede interventi in spazi pubblici e privati con video, installazioni e performance. Già passate in archivio Puth dell’artista e ballerino Gjergj Bodari, video-performance svolta in Piazza Carlo Emanuele II a Torino, e Brave new world, tenutasi al Teatro Studio Uno di Roma con protagonista la videoarte di Virginia Garra, Alexandros Kaklamanos, Matt Lee, Stéphane Broc, Dominic Watson, Cole Lu, Georgia Lale, Shubhangi Singh, Hope Tucker, Elena Bellantoni, Giulia Pellegrini, Orestis Mavroudis, Lucia Schweigert & Lizzie J Klotz, Luca Staccioli, Mirka Morales, Emre Baloglu, Vasiliki Stasinaki, Aurora

14 - segno 263 | GIUGNO/LUGLIO 2017

Kalemi, Cat del Buono, Joas Nebe. Il programma prosegue con gli eventi #Pizza4seasons Vol.4, esposizione online giunta al quarto anno in cui un curatore, Billy Zhao, affida a un artista, Giulio Scalisi (che attraverso video e scultura riflette sulla ridefinizione del nostro rapporto con i diversi ambienti) la gestione dell’account Instagram della galleria (a tal proposito, cercare kgoldtemporarygallery), trasformandola in una piattaforma per condividere la propria ricerca visuale. Fino al 9 luglio. Si conclude con una doppia collaborazione con Il Colorificio, project space di Milano: nella prima parte, dal 23 giugno al 10 settembre, la mostra Exhausted, personale dell’artista greco Vasilis Papageorgiou, la cui recente ricerca si focalizza sul concetto di velocità nelle subculture, in questo caso in relazione al quartiere Giambellino, che ospita la galleria; nella seconda un intervento da parte de Il Colorificio a Lesbo, nella seconda metà del 2017. In programma anche un misterioso Happy glamorous very normal mall feelings, evento annunciato in una “secret location” in Veneto nel mese di giugno.

ANCONA

Mimmo Paladino e i giovani artisti

Alla Mole Vanvitelliana, evento centrale della VII edizione della Biennale Arteinsieme - cultura senza barriere che ha coinvolto circa 1500 studenti e oltre 100 musei italiani, si susseguono i lavori ispirati a Mimmo Paladino e del maestro e musicista Salvatore Accardo. Esposti quattro Testimoni di Paladino e le opere dei finalisti dei tre Concorsi della Biennale: Arti figurative, Musica e Libri speciali.

Mimmo Paladino, Testimoni, 1997, courtesy l’artista


>news istituzioni e gallerie< CATANZARO

MILANO

ROMA

Gli spazi della città, il Parco della Biodiversità Mediterranea al Museo MARCA, il Parco Archeologico di Scolacium al MUSMI - Museo Storico Militare, sono lo scenario della mostra dello scultore Gianfranco Meggiato a cura di Luca Beatrice. Il percorso ruota attorno al Giardino delle Muse silenti, una grande installazione a forma di labirinto allestita al Parco della Biodiversità Mediterranea.

In simultanea nelle due sedi della Galleria Christian Stein, le tappe fondamentali della carriera di Pistoletto sono ripercorse attraverso una selezione di opere storiche affiancate da nuovi lavori. Un primo gruppo di lavori, esposto negli spazi di Pero, è costituito dai Quadri specchianti, opere che hanno determinato il successo internazionale dell’artista all’inizio degli anni Sessanta e costituiscono la base della sua successiva ricerca artistica e parallela riflessione teorica. Troviamo pezzi realizzati con la tecnica della carta velina applicata su lastra di acciaio inox, lucidata a specchio, come Persona di schiena (1962) o Gilardi che trasporta un cubo (1966), ma anche successivi, realizzati a partire dal 1973 con tecnica serigrafica, tra cui Sacra conversazione. Anselmo, Zorio e Sperone (1974) e Il Collezionista (1977), ritratto che contiene anche un quadro di Kounellis; infine la nuovissima serie intitolata Scaffali. Un secondo gruppo di opere storiche è costituito dagli Oggetti in meno, realizzati ed esposti da Pistoletto all’interno del proprio studio tra il 1965 e il 1966. Del terzo gruppo fanno parte opere tra le più significative dell’Arte Povera, come la Venere degli stracci (1967) o l’Orchestra di stracci (1968), assieme a lavori costituiti da materiali effimeri come la luce e i suoi riflessi: Candele (1967), Riflessi (1967) e Tenda di fili elettrici (1967). Altri pezzi storici in mostra sono Labirinto, a cui è dedicato un intero spazio; Le stanze (1975-1976), originariamente realizzate per gli spazi della sede della galleria in Piazza San Carlo a Torino; Mobili capovolti, dalle Cento mostre nel mese di ottobre, libretto realizzato nel 1976 contenente cento idee per altrettante mostre, molte delle quali realizzate nel corso degli anni successivi. Fino al 21 ottobre.

Prima esperienza capitolina per uno degli artisti americani più interessanti degli ultimi decenni. Charles Ray presenta all’American Academy in Rome un’opera inedita, trovando un contesto ideale all’interno del ciclo di incontri American Classics (che per tutto l’anno 2016/2017 ha raccontato i “classici americani” sotto una veste nuova). Il progetto prende il titolo Mountain lion attacking a dog da una delle opere in mostra, rivisitazione del gruppo scultoreo Leone attacca un cavallo (di matrice ellenistica, restaurato a Roma nel 1594, oggi conservato ai Musei Capitolini). L’esposizione evidenzia, interrogandosi sul valore dell’antichità nel mondo contemporaneo, i contorni dell’apparato mitologico americano, in un confronto costante e fruttuoso con quello europeo, nello spirito del libro di Mark Twain The innocents abroad (1869), nel quale il mito della costruzione del sé è messo a confronto diretto con l’Europa. Fino al 2 luglio.

Gianfranco Meggiato

Gianfranco Meggiato Giardino delle Muse silenti, 2017, courtesy l’artista

MILANO

Hsiao Chin

Una ampia retrospettiva, composta dell’intera collezione di opere dell’artista cinese in proprio possesso, anima la stagione espositiva della Fondazione Marconi. Classe ‘35, Hsiao Chin svolge un importante ruolo di collegamento prima di tutto tra generazioni, avendo avuto contatti con maestri come Miró, Tápies, Fontana, Manzoni o i maggiori esponenti della Pop Art, ma soprattutto tra Oriente e Occidente, mondi tra i quali crea una sintesi perfetta: da un lato la spiritualità orientale, dall’altro le sperimentazioni occidentali. Se sono evidenti nella sua produzione i richiami ai principi del taoismo filosofico, resta l’esperienza di una ricerca artistica intesa come viaggio spirituale, attraverso il tempo e lo spazio, che va al di là di qualsiasi limite geografico e culturale. La mostra è composta da oltre 200 lavori, dalle gouaches e inchiostri su carta di riso (ricchi di rimandi alla calligrafia cinese) agli acrilici su tela incentrati sulla ricerca di armonia tra vuoti e pieni, bianco e colore, meditazione e gestualità. Non mancano opere dedicate agli elementi naturali, alla “grande soglia”, al massacro di Tienanmen. Il linguaggio visivo traduce in termini occidentali un messaggio prettamente cinese, ma la percezione di tale messaggio cambia radicalmente a seconda della prospettiva e retroterra culturale di chi osserva. “Un orientale e un occidentale ammirano una sua opera con occhi diversi, se non altro perché un certo grado di dimestichezza, o di mancanza di dimestichezza, con gli ideogrammi e con gli stili calligrafici fa una differenza, però rappresentanti di indirizzi culturali distanti tra di loro si trovano infine coinvolti in una esperienza che permette a tutti di accedervi in autonomia.” (A. Tagliaferri, in Hsiao Chin, ed. Cambi, Milano 2009). “Oggi la questione se la mia arte sia cinese o globale non è più importante per me. Cerco di andare oltre questi confini, con l’intento di creare nuove opere che non siano condizionate da tecniche e idee.” (Hsiao Chin, 2016). Fino al 15 settembre. Hsiao Chin, Ty-88, 1963, olio su tela, cm.70x80 collezione privata, courtesy Fond. Marconi, Milano

Pistoletto

Charles Ray

Charles Ray, Shoe Tie, 2012, courtesy l’artista e Matthew Marks Gallery, New York, foto Josh White

TORRE PELLICE (TO)

Giuseppe Penone

Fabio Donato, Altri enigmi…omaggio a Man Ray 2017, Biblioteca Museo Nitsch, locandina

NAPOLI

Fabio Donato

Altri enigmi…omaggio a Man Ray è la mostra, a cura di Giuseppe Morra, che l’artista ha allestito alla Biblioteca Museo Nitsch, tornando con questo progetto a investigare la trascendenza, alla ricerca di quell’elemento che rende una figura intrisa d’impeto mitologico. Come proiezioni d’immagini mentali, le fotografie di Donato ritraggono la realtà, sondandone il mistero che la sottende, suggerito da forme che inducono all’interrogazione, al ragionamento su un tempo non ancora concluso.

Si sviluppa su tre grandi sale la mostra Images de pierres che Tucci Russo dedica fino al 5 novembre all’artista piemontese. La premessa teorica risiede nello status dell’immagine in quanto oggetto percepito mediante la vista e, per estensione, rappresentazione mentale rievocata dalla memoria o dall’immaginazione. Nella prima sala le opere che danno il titolo alla mostra, cinque elementi in marmo che rimandano a una figura antropomorfa, lavori del 1993, quando sono stati realizzati e presentati per la prima volta al Centre Genevois de Gravure Contemporaine, a pavimento Tre pietre 15/08/2006 in cui la pietra ospita gli elementi nobili della scultura che permettono all’opera la sua durata nel tempo futuro: la pietra stessa, l’acciaio e il bronzo. Nella sala intermedia un frottage a grafite della superficie del muro, da “leggere” con l’aiuto del tatto, e l’opera Corpo di pietra - rami (2016) in cui dalle venature del marmo fuoriescono rami in bronzo che si protendono nello spazio. La terza sala ospita, invece, Mina (1989) in grafite su ardesia, Corpo di pietra – rete (2016), in cui la rete metallica traccia la superficie del marmo, e Ad occhi chiusi (2009), trittico i cui due elementi laterali (spine di acacia su tela) visualizzano due palpebre chiuse e il pannello in marmo centrale diventa una immagine mentale. GIUGNO/LUGLIO 2017 | 263 segno - 15


SANTO FICARA

ARTE MODERNA E CONTEMPORANEA

PINO PINELLI

PITTURA BL. R. G. +B

con un testo di Luca Beatrice

20 maggio - 30 luglio


AGNETTI

A cent’anni da adesso 4 luglio - 24 settembre Palazzo Reale Piazza Duomo 12 Milano

Archivio Vincenzo Agnetti


Sedi varie, Atene

DOCUMENTA 14 Learning from “society” di Maria Letizia Paiato - foto Roberto Sala

A

prire la storica manifestazione tedesca nella capitale greca è un’operazione politica e culturale che, secondo la visione curatoriale del suo direttore artistico Adam Szymczyk, accorcia le distanze fra i diversi e divergenti contesti storici, socio-economici e culturali fra i due paesi, metaforicamente esemplari di tutte le distanze che separano il nord Europa dall’area del Mediterraneo, e che vede e riconosce nella Ελλaδα una “finestra” simultaneamente aperta sull’Africa e sull’Asia. O come spiega Pietro Marino – nel suo intervento su questo stesso numero della rivista – «L’esperimento di gemmazione della grande rassegna internazionale tedesca […] sembra voler estendere e anticipare sul fronte “caldo” mediterraneo, dell’Europa il tentativo di manifestare con Documenta14 un’idea di arte come momento visionario di critica radicale al sistema neocapitalistico globale». Tralasciando qualsiasi polemica di ordine politico sulla bontà o meno dell’operazione culturale che vede la Germania approdare in Grecia, in quel Learning from Atene, titolo dato allo spaccato ateniese, si evidenzia, almeno nelle intenzioni, la volontà di esperire un nuovo e possibile apprendistato artistico. Documenta14, infatti, si propone come una piattaforma sperimentale dove, le tensioni generatesi dalla crisi europea fra i due paesi sono poste a confronto e punto di partenza per strategie artistiche “criticamente” aperte dove, nel periodo antecedente l’inaugurazione, le istituzioni, gli artisti e chiunque coinvolto al progetto, comprese le radio e le TV greche, ha lavorato in tandem con lo staff di Documenta, insistendo su un approccio metodologico finalizzato a far emergere il potenziale trasformativo della realtà quotidiana ateniese. Quel «momento visionario di critica radicale al sistema neocapitalistico globale» cui fa riferimento Marino, è

Khvay Samnang, Preah Kunlong (The way of the spirit), 2017 (undici maschere in vite tessuta) in coproduzione con Sa Sa Bassac, Phnom Penh, Cambogia

Beau Dick, Tsonoqua Mask, 2016 (colori acrilici, cedro rosso, peli di cavallo, grafite)

Piotr Uklanski – McDermott &McGough, The Greek Way (Hitler and the Homosexuals), 2001

Beau Dick, ventidue maschere dalla serie Atlakim (1990-2012) materiali vari inclusi colori acrilici, cedro rosso, corteccia di cedro, gomma, gomma corteccia, stoffa, piume di gallina e peli di cavallo courtesy l’artista eccetto Lalulalal (Gosth Dancer), dalla collezione di Hassan El Sherbini e Crooked Beak Mask (Moogums), dalla collezione di Janice Moss

16 - segno 263 | GIUGNO/LUGLIO 2017


speciale documenta 14 ATENE - KASSEL

Noël Kettly, Zombification, 2017 (performance e installazione con pupazzi, zoccoli in calcestruzzo, bastoni in bambù, corda, registrazione sonora. Scenografia e direzione artistica: Michael Meyer in collaborazione con Kettly Noël Croquesmorts Ibrahima Camara, Léonce Allui Kona

Nevin Aladag (Turkey 1972) Music Room (Athens), 2017 (installazione con mobili, stoviglie, componenti musicali e performance)

la traduzione del leitmotiv dell’intera manifestazione germinato a Kassel: “The Parliament of Bodies”. Un concetto che, ispirato alla metodologia “Open Form” dell’artista e architetto Oskar Hansen e che ripercorre la storia dello sviluppo delle società per la liberazione della tratta dei negri iniziata nel XVIII secolo, applicato al contesto ateniese, ha visto, dallo scorso ottobre 2016, l’auto-organizzazione delle singole mostre che, partendo da Parko Eleftherias, si sono espanse all’interno della città contaminando spazi diversi fra musei, scuole e archivi, fino a caffetterie ed aree inesplorate della città. In sostanza, il “The Parliament of Bodies” pone in essere quesiti quali: cosa significa essere pubblici? Un corpo come diventa pubblico? Quali sono le condizioni politiche di rappresentanza? È questa l’unica forma di azione politica e democratica possibile? Può essere riscritto il contratto sociale? “The Parliament of Bodies” può essere, pertanto, considerata una mostra che agisce sulle relazioni e costruita attraverso la cooperazione? Salviamo, dunque, il senso complessivo del progetto curatoriale che solleva, indubbiamente, domande importanti, ma anche e soprattutto apre una riflessione su cosa intendere per “società” oggi, tema che, in Learning from Atene, si concretizza in tante singole “società”, ossia tutte le mostre fra le principali venue, più una quarantina circa di altri luoghi coinvolti, ciascuna libera di determinare la propria temporalità e la propria forma di azione. Seguendo questa linea, nelle principali sedi espositive, dall’EMST (Museo Nazionale di Arte Contemporanea) al Benaki Museum – Pireos, dall’ASFA – Athens School of Fine Arts all’Athens Conservatoire, tuttavia, si possono leggere, essenzialmente tre macro gruppi di opere incentrate sui temi dei regimi, delle culture tribali e dell’ecologia, che legano, per l’appunto, il filo ateniese di The Parliament of Bodies al generale tema curatoriale sollevato da Szymczyk. Senza critica né protesta, questi nuclei semplicemente sono da intendersi come il risultato dell’organizzazione di una determinata società, in un preciso momento storico del passato e nell’attualità. In sostanza questi argomenti sono la visualizzazione di come l’uomo organizza la sua esistenza in un sistema, crede e si adegua a esso, lo combatte, lo distrugge, lo trasforma. Sul tema dei regimi, partendo dall’EMST, è esemplare il lavoro di Piotr Uklanski – McDermott & McGough, The Greek Way (Hitler and the Homosexuals) del 2001, dove si tocca anche quello dell’omosessualità, vittime dimenticate del regime nazista. Si rimbalza poi al Museo Benaki, dove la maggioranza delle opere sono attraversate da un forte senso di narratività e dove s’incontra il progetto dell’artista israeliano Roee Rosen, Live and Die As

Tshibumba Kanda Matulu (Congo Belga 1947-81) Series “101 Works” (History of Zaire) 1973-74 (acrilico su tela) Roee Rosen (Rehovot, Israel 1963) Live and Die as Eva Braun, 1995/97 (materiali vari su carta). Collezione privata, Doron Sebbag Art Collection, Ors Ltd., Tel-Aviv, Collection of Hagit and Hofer Shapira, Levin Collection, Jerusalem, The Rosenfeld Gallery Collection

Nilima Sheikh (India 1945), Each Night put Kashmir in your dreams, 2003-04 Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Return to Khodorciur, Armenian diary, 1986 (video digitale, colore, suono, durata 74’20”)

GIUGNO/LUGLIO 2017 | 263 segno - 17


Bili Bidjocka (Camerun 1962) The Chess Society, 2017 (tenda da letto, scacchiera, tavoli da scacchi, sedie, pezzi di scacchi e orologi, giochi online). ASFA, Scuola di Belle Arti

Maria Magdalena Campos Pons (Cuba 1959) e Neil Leonard, Matanzas Sound Map, 2017 Suono e installazione in collaborazione con Rafael Navarro (voce), Caridad Diez (musicologo) e Nelvis Gomez-Campos (biologo). ASFA, Scuola di Belle Arti

Eva Braun, del 1995-97 che immagina, scrive e descrive fra testi e disegni, gli ultimi giorni della vita dell’amante di Hitler, fra onirici deliri sessuali e coscienza o auto convinzione di un destino preordinato – e percepito con orgoglio – nell’essere consacrata al dittatore. Straordinaria la quadreria di Tshibumba Kanda Matulu, artista autodidatta che fra il 1973 e il 1974 ha realizzato questo ciclo sulla storia del colonialismo Belga in Congo e che, nonostante i colori accesi e squillanti e un’espressività un po’ naif, trascende un disperato appello che chiede ascolto per la sua versione della storia e quella del suo popolo. Infine il docufilm dei due filmmaker Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, noti per la loro personale rielaborazione d’immagini d’archivio, presenti a Documenta Atene con lo storico video Return to Khodorciur, Armenian diary del 1986, e che proprio attraverso la forma del diario filmato e tramite la voce di Raphael, il padre di Gianikian, profugo dall’Armenia alla Siria per scampare al genocidio, ricostruisce la sua autobiografia e le vicende di un intero popolo sterminato. Sul tema delle culture tribali, di nuovo all’EMST, incontriamo un’intera sala allestita con le maschere rituali e le sculture di legno dell’artista Beau Dick, scomparso purtroppo lo scorso 27 marzo poco prima dell’apertura di Documenta, realizzate fra il 1990 e 2012. Poi quelle di animali in corda e tessuto di Khvay Samnang, Preah Kunlong (The way of the spirit) del 2017, un lavoro complesso sulla concezione che la comunità cambogiana di Chong ha sulla storia della foresta in cui vive, costantemente minacciata da colonizzazioni, e che essi percepiscono come un luogo spirituale. L’idea della maschera/animale diventa una sorta di oggetto che incorpora il dato spirituale prolungandosi attraverso il corpo, un qualcosa che Khvay Samnang ha potuto comprendere solo attraverso un lungo periodo d’integrazione e contatto con quella comunità. Alla scuola di Belle Arti s’incontra l’installazione di Maria Magdalena

Campos-Pons e Neil Leonard Matanzas Sound Map, da anni impegnati sui temi della sessualità e della cultura mista cubana, ma anche sulla presenza del corpo nero nelle narrazioni contemporanee. Al Benaki, il lavoro per la serie Each night put Kashmir in your dreams del 2003-2004 di Nilima Sheikh, racconta, invece, con grande eleganza, le rivendicazioni sulla sovranità di quei territori compressi fra India e Pakistan. Al Conservatorio di Musica, Noël Kettly mostra la recentissima Zombification, una scenografica installazione che si completa a una performance spettacolare e coinvolgente, dove manichini di pezza diventano i protagonisti di una danza sul senso della vita e della morte, mentre Nevin Aladag ha concretamente “attivato” lo spazio espositivo, attraverso la sua Music Room (Athens), un’installazione di estrosi arredamenti musicali, veri e propri strumenti che sono stati suonati/ attivati con improvvise martellate più volte al giorno. Sul tema dell’ecologia o più genericamente della natura o dell’ambiente, sebbene siano presenti in Learning from Atene moltissime opere che potrebbero essere citate, Plastics Progresses: Memento Mori di Bonita Ely è senza dubbio, quella d’impatto più gestaltico. In Memento Mori l’artista australiana combina le conseguenze traumatiche della guerra da un lato a quelle dell’inquinamento ambientale dall’altro, mostrando quanto la vita da una parte del pianeta possa essere profondamente influenzata dai rifiuti degli altri. Mentre in Plastikos Progressus delinea i pericolosi e imminenti scenari per i sistemi ecologici acquatici, dando vita a nuove specie di faune plastiche accompagnate da relative illustrazioni botaniche che le classificano. The Chess Society di Bili Bidjocka è, infine, un lavoro che, nell’attraversare la millenaria storia di questo gioco, racconta metaforicamente l’idea di “strategia” sottesa a ogni epoca politicamente repressiva e per certi versi, può essere considerata come quella che più racconta il senso

Bonita Ely (Australia 1946), Plastikus Progressus: Memento Mori, 2017 (Plastica, cellophane, metallo, fotografie, suono, lavori su carta, touch screen). ASFA, Scuola di Belle Arti

18 - segno 263 | GIUGNO/LUGLIO 2017


speciale documenta 14 ATENE - KASSEL

Rasheed Araeen (Bangladesh 1935) Shamiyaana-Food for Thought: Thought for Change, 2016-17 Gazebo in legno decorato a patchwork, cibo e pietanze; Kotzia Square, Atene.

complessivo dell’idea di “società” sondata in questa Documenta. Infine, un po’ di poesia, sebbene velata da un senso generale di tristezza che accompagna la cronaca dei nostri giorni. Rebecca Belmore colloca sulla collina di Filippou Biinjiya iing Onji (From Inside), una tenda da campeggio da cui si osserva il panorama mozzafiato del Partenone. Una tenda oramai sempre più una casa per i rifugiati, gli immigrati o persone colpite da calamità naturali,

ma che qui la Belmore realizza in marmo, immaginando stabilità per tutti coloro che non la vivono, quella stessa stabilità che trasmette la vista del secolare tempio greco. Biinjiya iing Onji (From Inside) è un monumento dedicato alla transitorietà, come in fondo transitoria e mutevole è la storia dell’umanità nel suo comporsi in “società” e nel suo evolversi biologicamente, culturalmente e socialmente. n

Akinbode Akinbiyi, Passageways, Involuntary Narratives, and the Sound of Crowded Spaces, 2015-17 Quarantotto stampe a getto d’inchiostro in bianco e nero, veduta dell’installazone, Atene Conservatorio Musicale (Odeion) Rebecca Belmore (Canada 1960), Biinjiya iing Onji (From Inside), 2017. Tenda in marmo, scolpita a mano - 140x200x200 cm. Collina di Filopappou.

GIUGNO/LUGLIO 2017 | 263 segno - 19


Marta Minujín, Payment of Greek Debt to Germany with Olives and Art, 2017. Veduta dell’installazione, EMST

Daniel Knorr, Materialization, 2017. Conservatorio.

are Documenta ad Atene è come portare i ricchi americani a fare un tour in un paese povero dell’Africa”. Così due anni fa, l’operazione partita da Kassel era stata bocciata da Yanis Varoufakis, l’ex ministro dell’economia di Tsipras entrato in rotta di collisione col suo stesso premier ai tempi della grande crisi fra Grecia e Unione Europea. Un pre-giudizio ideologico che sembra smentito nei fatti, oltre che nelle intenzioni, da quanto sta avvenendo da aprile ad Atene. L’esperimento di gemmazione della grande rassegna internazionale tedesca avviato dal direttore polacco Adam Szymczyk con un foltissimo team internazionale difficilmente può essere inteso come una operazione coloniale o di risarcimento morale dopo la Merkel. Sembra piuttosto voler estendere e anticipare sul fronte “caldo”, mediterraneo, dell’Europa il tentativo di manifestare con Documenta 14 una idea di arte come momento visionario di critica radicale al sistema neocapitalistico globale. L’arte – ha detto e scritto il curatore - come “opportunità di aprire uno spazio

d’immaginazione, di pensiero, di azione” in un mondo segnato da “relazioni egemoniche che lo rendono un luogo di sofferenza e di miseria per molti”. Forme e figure di spiazzamento linguistico proposte come modi di “resistenza estetica, politica, letteraria, biologica”. Una “resistenza” che ha cercato un punto di concentramento nel “Parlamento dei corpi”: ciclo di conferenze-dibattiti avviato già dal 2016 nel Parco Eleftherias, dentro palazzine che erano caserme di detenzione al tempo dei colonnelli, poi trasformate in ”Museo della Resistenza antidittatoriale e democratica”. Vi hanno partecipato esponenti dell’intellighenzia “alternativa” europea, fra cui Toni Negri e Bifo. Ora prosegue con incontri di diversi collettivi nell’ambito della sezione dei Public Programs curati dal noto studioso trans spagnolo Paul B. Preciado (sino al 2015 si firmava Beatriz Preciado). Sezione di rilevanza strategica, benché immateriale, precaria, “liquida”: con performances sparse in piazze, strade, luoghi aperti e chiusi di Atene, pubblicazione di libri teorici piuttosto che di guide, trasmissioni di radio dedicate, concerti di musica elettronica, installazioni sound, proiezioni di film e di video. È così che si esprime meglio l’ispirazione socio-antropologica di un’arte di taglio neo-concettuale, processuale e partecipativo – un filo

Maria Lai, Lenzuolo, 1981. Filo su tela di cotone. © Fondazione Sardegna, Cagliari Veduta dell’installazione, EMST

Cecilia Vicuña, Quipu Womb (The Story of the Red Thread, Athens), 2017, lana tinta, veduta dell’installazione, EMST

Il fronte caldo di Documenta di Pietro Marino

“F

20 - segno 263 | GIUGNO/LUGLIO 2017


speciale documenta 14 ATENE - KASSEL

già snodato a Kassel dalle edizioni precedenti. Più eclettico, fra diseguali livelli, il panorama offerto dalle “opere” sparse in una quarantina di spazi aperti e chiusi, di circa 160 autori, in massima parte (per nascita più che per residenza) da Europa dell’Est, Asia, Africa, America Latina – ribollenti periferie del mondo (largo spazio anche alle culture tribali e sciamaniche, dall’Africa all’America). Atene insomma come fronte di un’arte “marginale” in più sensi. Perché ai margini sono i linguaggi d’ogni genere adoperati e pochi sono i nomi affermati nel giro internazionale delle biennali. Perché ben una cinquantina sono di autori scomparsi, protagonisti di esperienze di avanguardie del primo e secondo Novecento dimenticate o rimosse (persino il realismo socialista in Albania). In chiave di “archeologia del presente” può essere letta l’ampia sala dedicata giustamente alla scomparsa artista sarda Maria Lai (in pratica l’unica artista italiana presente – condizione sconsolante ma non nuova). Una cultura dell’Archivio, anche, che assume senso identitario quando recupera storie di una Atene oltre l’Acropoli. Come la performance dell’artista greca con un piede in Italia Mary Zygouri: con una performance –installazione, “Kokkinia” che ricorda quella compiuta nel 1979 dall’artista Maria Karavela per evocare lo sterminio nazista di un presidio greco a Cipro. Si può capire così lo sconcerto – la delusione, anche - di chi è venuto ad Atene con lo spirito dei “ricchi americani” stigmatizzati da Varoufakis. Difficile trovare se non isolate emergenze di riconoscibile “qualità” in una rassegna d’ispirazione antiform –

etica più che estetica. Destrutturata anche sul piano organizzativo, poco comunicata in una città alle prese con i suoi problemi di sopravvivenza. Nei gruppi forti di opere presentati nelle principali strutture pubbliche (l’EMST Galleria nazionale di arte Contemporanea, il Benaki Annexe, l’ASFA – Accademia d’Arte, l’Odeion – Conservatorio) conviene badare ai segnali anche contrastanti di dialogo-connessione fra le due sedi di Documenta (a cominciare dagli artisti che sembra siano gli stessi). Per esempio l’argentina Marta Minujín ha collocato all’ingresso dell’EMST una piattaforma di olive come scena di una performance che propone “il pagamento del debito greco alla Germania con Olive e Arte”. La tedesca Maria Eichhorn propone i documenti di acquisto per 170mila euro (con l’appoggio di Documenta) di uno dei tanti edifici di Atene disabitati per la crisi, a condizione che non sia abitato da nessun altro, né demolito né modificato: luogo della memoria o spazio per iniziative culturali autorizzate da lei. Forse emblematica di questo tentativo di tradurre in eterotopia dell’arte l’utopia della politica e la frammentazione della realtà è l’operazione proposta da Daniel Knorr. Ha raccolto dai rifiuti di Atene e ammassato in una corte del Conservatorio frammenti di oggetti d’ogni tipo. Li ha schiacciati sotto pressa, poi li ha racchiusi e impressi su pagine bianche. Ne è nato un libro d’arte con annessa chiavetta per un video che descrive le fasi di una possibile Trasfigurazione. Forse è poco, ma di più non si può chiedere all’Arte. Di questi tempi, poi. n

Andreas Angelidakis, Demos, 2017. Sessantanove blocchi morbidi di finto cemento. The Parliament of Bodies, Parco Eleftherias

Mary Zygouri, The Round-up Project: Kokkinia 1979–Kokkinia 2017 \ M. Z. \ M. K., 2016–17. Photo: Angelos Giotopoulos

Intervista a Katerina Koskina

L’EMST (Museo Nazionale d’Arte Contemporanea), sin dalle prime conversazioni con Documenta 14 si è presentato come una collaborazione con un ricco potenziale da offrire. Dopo aver approfondito la conoscenza e programmati gli obiettivi comuni, si è così deciso di dare a Documenta l’intero edificio del Museo. In cambio, la collezione permanente sarà esposta al Museum Fridericianum di Kassel. Si tratta di un interessante scambio per far decollare il dialogo tra due organizzazioni con obiettivi diversi per amalgamarsi sino a trovare il terreno comune. È anche un modo per dimostrare il ruolo ponte che ha la cultura, laddove altri hanno fallito. L’Emst è stato molto attivo negli ultimi due anni, abbiamo fatto passi da gigante e la collaborazione con Documenta è un punto di arrivo molto importante per il Museo. In Germania verranno portati avanti gli stessi temi o ne sono stati sviluppati altri e diversi? Al Fridericianum l’approccio dell’Emst si concentrerà sulla sua collezione. Esporrà la maggior parte delle opere permanenti e sarà la prima mostra inaugurata. Naturalmente discutiamo e decidiamo tutto con il team di ricerca di Documenta, ma il fatto che noi esporremo parte della nostra collezione sulla base di uno studio museologico renderà l’evento unico e diverso. Adam Szymczyk ha dichiarato che Documenta 14 Atene / Kassel intende accorciare le distanze tra i diversi contesti storici, economici e culturali dei due paesi. In questa proposizione; ci puoi dare un’anteprima sulla presenza di artisti greci a Kassel? La mostra al Friedericianum comprenderà circa 200 opere di oltre 70 artisti, tra cui molte nuove acquisizioni degli ultimi due anni. La visualizzazione delle opere rivelerà le contraddizioni, dicotomie di realtà parallele che il paese e il mondo hanno sperimentato negli ultimi decenni. Essa svilupperà tre tematiche: - La prima sarà spiccatamente politica con opere riguardanti la storia recente o i problemi attuali. - La secondo tematica che caratterizza la collezione sarà l’idea di incrocio di frontiera. - Ultima ma non meno importante sarà quella intitolata “Mythologies of the Intimate” / “Mitologie dell’intimo”, comprendente opere che combinano metafore mitologiche con tematiche narrative personali. n

Direttore dell’EMST Ethniko Mouseio Sygxronis Texnis (Museo Nazionale d’Arte Contemporanea) a cura di Lucia Spadano

L’ingresso dell’EMST Ethniko Mouseio Sygxronis Texnis, il Museo Nazionale d’Arte Contemporanea di Atene diretto da Katerina Koskina.

R

itieni che l’allargamento geografico di Documenta 14 possa rappresentare un vero e proprio rilancio della cultura greca in Europa e nel mondo? Senza dubbio la scelta di Atene per l’allargamento del campo d’azione di Documenta 14 ha un impatto positivo per la scena locale e nazionale della Grecia ed è anche una grande opportunità per la città di “esaminare” se stessa e ridefinire, accanto a Kassel, la sua posizione nel mondo dell’arte. Molti artisti, curatori e organizzazioni hanno avviato un dialogo tra loro e l’interesse è soprattutto concentrato su Atene, a causa della crisi, e si tratta di un qualcosa che potrebbe rendere più innovativi produttori e direttori artistici stessi. Documenta 14 viene a colmare questa lacuna e penso che Atene, in un certo senso, non sarà la stessa dopo la chiusura della manifestazione. Dobbiamo mantenere questa dinamica ed essere pronti ad offrire il supporto per farlo. In questo contesto, quale è stato il ruolo svolto dall’Emst?

GIUGNO/LUGLIO 2017 | 263 segno - 21


Anne Imhof, Faust, 2017, performance, Padiglione Germania, La Biennale di Venezia 2017. Leone d’oro 2017

Sedi varie, Venezia

VIVA ARTE VIVA 57. Esposizione Internazionale d’Arte foto di Roberto Sala Sam Gilliam, Yves Klein Blue, 2016 acrilico su nylon Cerex, m. 3 x 18.2.

22 - segno 263 | GIUGNO/LUGLIO 2017

Uno sguardo a 360° di Paolo Balmas

A

l di la del garbo signorile che contraddistingue la scrittura di Chritstine Macel “Viva Arte Viva” vuole essere un sfida senza sconti né concessioni a due fantasmi che da sempre incombono sulle Biennali veneziane e altre manifestazioni della stessa caratura: il grande mercato internazionale e la critica che ad esso si collega. Ridurre il numero degli artisti


speciale

57. BIENNALE DI VENEZIA

Rachel Rose (Usa 1986); Lake valley, 2016 (video HD, colore, suono, 8’25”). Courtesy the Artist; Hauser & Wirth

e dare a ciascuno di loro molto più spazio che in passato non è solo un atto di equità volto a rimetterli al centro dell’esposizione cui patrecipano per favorire la piena estrinsecazione delle loro esigenze e delle loro poetiche, è anche un modo di riaffermare che questa volta nulla potrà intromettersi tra le decisioni del curatore e i diritti del pubblico. E fin qui tutto bene, anche se dietro questa inappuntabile fermezza non è difficile intravedere un certo piglio da funzionario statale più che consapevole della propria inarrivabile preparazione. Dove però l’intera costruzione comincia a scricchiolare è laddove la Macel si dice certa che sbarrando la strada a qualsiasi costruzione teorica precostituita e a qualsivoglia privilegio gerarchico conseguente alla fama già acquisita all’esterno, gli artisti potranno finalmente recuperare ed espandere a pieno quell’afflato umanistico che non può non appartenergli semplicemente in quanto artisti. Anche se lo si intende in senso generico e non strettamente storico, l’umanesimo è pur sempre un dato culturale, un modo di vedere e di sentire che ciascuno vive a modo suo e secondo la cultura e l’ambiente in cui si è formato. Non credevano forse di agire in base a principi umanistici anche i conquistadores spagnoli che distrussero le civiltà precolumbiane? O i clonizzatori Europei che aprirono la strada alla tratta degli schiavi dall’Africa? Certamente oggi anche un ragazzo di liceo saprebbe smontare simili pretese, in poche battute, ma chi ci dice che saprebbe fare lo stesso un giovane intellettuale del terzo mondo o del Medio Oriente alle prese con problemi di emancipazione di cui noi non ci rendiamo minimamente conto? Ma soprattutto chi ci dice che davvero un qualsiasi artista fornito di tutto il credito e la visibilità che vuole trovi sempre e immediatamente la strada per liberarsi di tutti i riferimenti storico critici e di mercato che potrebbero fare aggio su di lui? Non sarà più probabile, magari, che anch’egli sia cresciuto all’ombra di maestri locali che entro quei riferimenti erano cresciuti ed avevano combattuto in assoluta sincerità le loro battaglie? Che credevano di guardare lontano ed invece pur nella loro generosità si portavano Tracey Moffatt, My Horizon 2017, Padiglione Australia, La Biennale 2017

appresso pregiudizi di cui neppure si rendevano conto. Perché immaginare ogni artista , ogni vero artista, ad ogni costo come uno spirito eletto che emerge da una sorta di vuoto pneumatico non appena lo si libera da ogni ingombro arrecatogli dalla cultura che lo ha preceduto? Non è questo un pregiudizio idealistico che con la capacità di valutazione dell’operato reale di chicchessia non ha nulla a che vedere e che avremmo dovuto trovare solamente negli archivi dell’ideologia ottocentesca piuttosto che ai giardini di Castello o alle Corderie dell’Arsenale nell’anno di grazia 2017? Ma tant’è, l’importante non è porsi quesiti di fondo come questi quanto andare a controllare i risultati di un programma espositivo che, pur essendo suddiviso in ambiti, famiglie o comunque criteri di selezione che ricordano, quanto a titoli, altrettanti capitoli di una lettera di Orazio o di Cicerone a qualche nobile pupillo della classe equestre romana, potrebbero benissimo risultare invece, sorpendentemente produttivi e rivelatori. Non c’è che da cominciare a passeggiare nell’ antro un po’ labirintico del Padiglione Centrale e poi proseguire ancora un po’ trasognati tra le mura austere ma rassicuranti degli antichi cantieri in cui i Veneziani erano soliti accompagnare i loro alleati più titubanti per fagli capire contro quale razza di potenza marinaresca stavano per mettersi. Lo abbiamo fatto con tutta la solerzia e perfino l’acribia di cui siamo stati capaci, non ostante le stesse didascalie ad altezza di bambino ci remassero contro, ma, purtroppo, al posto della sorpresa abbiamo trovato esattamente quello che ragionevolmente c’era da aspettarsi, nient’altro che il prodotto del buon gusto di una persona colta ed aggiornata, capace di uno sguardo a 360 gradi sull’intero orbe terracqueo. Molte cose belle, qualche caduta e soprattuto, a causa di un certo eccesso di terzomondismo, tanta, tanta, rabbia di nostri confratelli storicamente meno fortunati i quali ci stanno tutti mandando in qualche modo lo stesso sacrosanto messaggio che potremmo riformulare come segue: “non chiedeteci più armonia o più bellezza di quella che sappiamo scorgere, dobbiamo prima liberarci, metabolizzandole

Cinthia Marcelle, Chão de caça, (veduta installazione) Padiglione Brasile, La Biennale di Venezia 2017

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e digerendole, o anche vomitandole a dovere, tutte le distorsioni, l’infelicità e le mostruosità che la cosiddetta civiltà occidentale ci ha regalato per secoli, e dobbiamo farlo secondo i nostri percorsi e non secondo le facili scorciatoie etnologico-folkloriche che siete sempre stati pronti ad accettare paternalisticamente da noi.” Più agevole e piacevole la passeggiata tra i padiglioni nazionali: bellissimo, anzi straordinario quello italiano, non per malinteso sciovinismo, ma perché è proprio così, Cuoghi, Andreotta Calò e Husni Bey questa volta erano tutti e tre in stato di grazia o forse sono semplicemente dei geni destinati a far parlare di sé ancor più di quanto si è fin qui fatto, o forse tutte e due le cose insieme. Fuori della norma anche il padiglione della Germania soprattutto per l’apparato scenografico che forse avrebbe potuto supportare anche performance più inquietanti e personalizzate. Intelligente, ma poco evidenziato nella sua logica quello del Brasile, Deludenti Gran Bretagna e Stati Uniti. Lodevole per misura e sensibilità l’Australia con Tracey Moffat. Il premio Paolo Balmas va naturalmente ai tre artisti del padiglione Italia, ma anche al cartone animato di Rachel Rose che ho riguardato da capo tre o quattro volte. Un’ultima cosa: Viva Arte Viva è proprio un brutto titolo o almeno in italiano suona male, suona un po’ spaghetti western. Perché nessuno ha avvertito la stimabile dottoressa Macel? n

Olafur Eliasson, Green light – An artistic workshop, 2016 (particolare dell’installazione) @ Olafur Eliasson

Edi Rama, Installation view, 2017 (Sala 23 - padiglione degli artisti e dei libri)

Kiki Smith, Girl with wood, 2009 (inchiostro e glitter su carta nepalese). Courtesy Galleria Lorcan O’Neill

L’eco ovattato del mondo reale

malizza, il Concettuale prende colore, la Performance persegue il coinvolgimento. Proprio l’aspetto performativo/partecipativo vuole caratterizzare l’edizione. Sono iniziati con Kiki Smith i venerdì e sabato in cui si può andare a tavola con un artista e conversare con lui. Il sito web della Biennale rimanda video che mostrano “pratiche d’artista” dei singoli espositori. Nel padiglione Sterling ai Giardini è stata attivata una biblioteca (assai deserta) con libri scelti dagli artisti, a dichiarare i loro gusti e interessi. Momenti quasi ludici sono profusi nella prima parte del percorso in Arsenale. Per esempio si possono infilare mani, piedi o parte del corpo nelle tasche e nelle pieghe di coloratissimi teli geometrici ritagliati da Franz Erhard Walter, il 78enne artista tedesco pioniere di arte da indossare al quale è stato conferito – piuttosto tardi - il Leone d’Oro come migliore artista. Oppure, togliendosi le scarpe, partecipare dentro una tenda tramata in arancione alle sedute vagamente psichedeliche di Ernesto Neto con indios dell’Amazzonia. Nelle prime due sezioni allocate nel Padiglione Centrale ai Giardini è emblematico l’incipit che invita all’otium umanistico, al sonno o sogno riparatore della poesia praticati da artisti come Franz West, Mladen Stilinovic, Franzes Stark. Il punto è che quest’aura di disimpegnato invito a recuperare i piaceri dell’arte è diffusa senza l’intensità di progetto “umanistico” che si vuole richiamare. Con un eclettismo museale ben distante dalle magie del Teatro Enciclopedico di Massimiliano Gioni nel 2015. Una “aurea mediocritas “- per dirla con Orazio – sembra connotare la carica del centinaio di sconosciuti poco noti autori asiatici e africani, la gran parte educati in Occidente. Ma anche degli italiani all’estero Michele Ciacciofera e Salvatore Arancio. Con lampi qua e là di di opposte rivelazioni: per esempio l’espressionismo baconiano del siriano Marwan (scomparso nel 2016) e la trasognata videoanimazione della giovane americana Rachel Rose. Un’appagata maniera connota anche la presenza di poche star. Il riesumato Raymond Hains, grande rivale di Rotella. L’evanescente Philippe Parreno. Orozco in versione buddista. I sempre più raffinati disegni femminili di Kiki Smith. Il vecchio rullo da stampa di carta da parati che diventa un carillon a cilindro di

di Pietro Marino

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on si può dire che non abbia mantenuto le sue promesse Christine Macel, la curatrice francese del Centre Pompidou designata da Paolo Baratta a dirigere l’edizione 2017 della Biennale di Venezia. Intendeva spargere ottimismo sin dal titolo della mostra da lei curata “Viva Arte Viva”. Aveva detto e scritto che le stava a cuore esaltare l’individualità degli artisti come portatori di energia creativa e di espansione vitalistica. L’arte come “un modo di riconciliarsi con se stessi”. E anche col pubblico, che in genere sembra aver gradito nei giorni di preview (divenuti ormai un evento di massa, in cui giornalisti e critici si ritrovano smarriti e sommersi). Così, il salone del Padiglione Centrale ai Giardini che due anni fa era teatro delle declamazioni su Marx volute da Enwezor, ora è occupato dal festoso laboratorio messo su da Olafur Eliasson dove ragazze bianche, giovanotti africani e donne musulmane costruiscono artigianalmente fragili lampade di design ”verde” messe in vendita a 250 euro per finanziare Emergency. È uno dei rari casi in cui si avverte in mostra l’eco, seppure ovattata, di conflitti e di migrazioni, di drammi sociali economici e ambientali che agitano il mondo reale. Già le pareti del salone sono rallegrate da figurine fantasiose di Edi Rama – il sindaco pittore che diede colore agli edifici di Tirana - e di tanto in tanto vi scoppiano jam sessions. Ora, è vero che l’arte ha da gran tempo rinunciato all’illusione di cambiare o salvare il mondo. Ma qui, nelle opere e nelle azioni dei 130 autori da lei convocati, la Macel sembra voler suonare la ritirata totale – quasi un rappel à l’ordre come invocava Jean Cocteau dopo la prima guerra mondiale, o il matissiano sogno di luxe calme et volupté. Nei fatti, nei 9 “transpadiglioni” disposti fra Giardini e Arsenale domina la proposta di volgere i linguaggi del cambiamento e dello spiazzamento emersi nell’ultimo mezzo secolo a strategie di consolazione e rassicurazione. Così l’Avanguardia incorpora la Tradizione, l’Antropologico viene estetizzato, il Dionisiaco si for-

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Ernesto Neto, Un sagrado lugar (“Un luogo sacro”), 2017, cotone lavorato a uncinetto, ovatta, voile, tela, juta, nodi di voile, legno, compensato, filtro d’acqua, terra, sabbia, strumenti, vasi di ceramica, piante, fotografia, disegno “Huni Kuin”, tessuti, canti, libro “Una Isi Kayawa”, libro in tessuto; dimensioni variabili), Padiglione degli Sciamani, Viva Arte Viva, La Biennale di Venezia 2017

Anri Sala. Un campione del nuovo archivismo come Kader Attia si dedica a ricerche sulla musica algerina. Gli storici girotondi di contestazione ambientalista di Anna Halprin assumono sensi di festa agreste. In simile contesto si comprendono la (giusta, come a Documenta Atene) rivalutazione di Maria Lai, il richiamo alla armi di anziani cultori italici della pittura armonica come Guarneri e Griffa. Dal generale effetto placebo sembrano distaccarsi alcuni accenti di “concettualismo poetico” – per dir così – diffusi nell’ultima sezione ai Giardini, non a caso dedicata all’Infinito. Il rettangolo mobile di polvere ritagliato dalla luce per Edith Dekyndt. I labirinti borghesiani fatti percorrere ad una ragazza da

Sebastian Diaz Morales. Le pietre di Kishio Suga galleggianti nel bacino umbratile delle Caggiandre. Nel Giardino delle Vergini l’egiziano-londinese Hassan Khan (giustamente premiato con il Leone d’Argento come migliore artista emergente) diffonde suoni e bisbigli di tenera sound art. Solitario y final, nella torretta che chiude il percorso, lampeggia il video-lampo 1971 di Bas Jan Ader, l’artista concettuale scomparso in Atlantico quattro anni dopo. Si tiene appeso con le braccia ad un esile ramo di albero sporgente su un ruscello, resiste finché può, casca nell’acqua, ma ne riemerge. E ancora oggi appare metafora delle ostinate prove di salvezza e caduta dell’arte moderna. n

Maria Lai, Enciclopedia del Pane, particolare, 2008, 17 libri di pane, carta. Collezione Archivio Maria Lai. Padiglione dello Spazio Comune, Viva Arte Viva, La Biennale di Venezia 2017

Franz Erhard Walther. A sinistra: Wallformation series “Yellow Modelling”, 1985, cotone, legno; a destra: Wallformation series “Memory Base (Three Quotation)”, 1983; a terra: “Eight Stride Pedestrals”, 1975. Padiglione dello Spazio Comune, Viva Arte Viva, La Biennale di Venezia 2017

Anri Sala, All of a Tremble (Encounter I), 2016; Padiglione delle Tradizioni, Viva Arte Viva, La Biennale di Venezia 2017

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Maria Lai, 4 telai bianchi inchiostrati (serie 2000 – 2011), Padiglione dello Spazio Comune, (veduta installazione), Viva Arte Viva, La Biennale di Venezia 2017 Lee Mingwei, The Mending Project, 2009 – 2017, installazione interattiva con tecnica mista, (particolare) Padiglione dello Spazio Comune, Viva Arte Viva, La Biennale di Venezia 2017

Il filo dell’arte di Maria Letizia Paiato

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mata, ammirata, criticata, contestata, vissuta fra divertissement e impegno, la 57 Biennale di Venezia firmata Christine Macel, che piaccia o no, impone necessariamente una, seppure breve, riflessione, quanto meno intorno ai temi proposti, a tratti molto più profondi di quel Viva Arte Viva, forse troppo superficialmente, liquidato dalla stampa come un atto di disimpegno curatoriale. Può darsi pure che l’idea di una «Biennale progettata con gli artisti, dagli artisti e per gli artisti, sulle forme che essi propongono, gli interrogativi che pongono, le pratiche che sviluppano e i modi di vivere che scelgono» - così come scrive la Macel - sia oggettivamente un tema fin troppo vasto da indagare. Tanto è vero che, la sua tenuta spesso s’incrina in più tratti delle mostre generali (meno nelle proposte dei singoli padiglioni nazionali), lasciando nello smarrimento il visitatore, alla ricerca di un filo conduttore generale, o quanto meno di quei 9 famosi episodi (2 al Padiglione Centrale e 7 all’Arsenale) che dovrebbero fluidificare la Biennale come i capitoli di un libro. Tuttavia, quel filo c’è: esiste, ed è soprattutto visibile nello spaccato delle corderie, in particolare nel

Bernardo Oyarzun, Werken, 2017, maschere Mapuche, neon rossi. Padiglione Cile, Viva Arte Viva, La Biennale di Venezia 2017

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57. BIENNALE DI VENEZIA Padiglione di apertura dello Spazio Comune «che riunisce artisti le cui opere si interrogano sul concetto del collettivo, sul modo di costruire una collettività che va oltre all’individualismo e gli interessi specifici». Facendo una piccola digressione, con quest’argomento la Biennale pare affrancarsi a Documenta 14 Atene, entrambe proiettate a sondare il senso di “collettivo” e “sociale” e parimenti interessate a pratiche performative, puntualmente integrate tanto al processo ideativo curatoriale, quanto al contatto quotidiano con il pubblico. E poi Terra, Tradizioni, Sciamani, Dionisiaco, Colori, Tempo e Infinito sono gli altri temi che attraversano le corderie. Apre la Biennale l’opera di Maria Lai (presente e potente anche ad Atene): 4 teli bianchi inchiostrati ondeggianti sulle nostre teste, mettono immediatamente in evidenza la spiritualità e il rapporto della piccola, ma grande, artista di Ulassai con il sapere e la tradizione di una comunità. E poi i libri cuciti fatti di pane e filo! Libri che, in quei fili e in quei nastri, trattengono e custodiscono la trama del presente e della memoria, fragile e potente al contempo, come lo è l’esistenza. Quel gesto: il cucire è un atto formativo alla partecipazione, proprio quello auspicato, almeno nelle intenzioni, proprio dalla stessa Christine Macel. Sull’arte collettiva e partecipativa c’è anche David Medalla che, con A Stitch in Time, la sua opera più famosa, invita gruppi di persone a cucire e ricamare su una lunga striscia di cotone somigliante un’amaca, sospingendo l’idea di un’autoregolamentazione della collettività. Un filo che si allunga e continua nell’installazione dell’artista di Taiwan Lee Mingwei, che rammenda i vestiti del pubblico, e prosegue, diventando un groviglio di filamenti calanti dall’alto nell’opera della portoghese Eleonor Antunes. Cynthia Gutiérrez, invece, mette su un piedistallo i tessuti creati dalle donne messicane, elevati a status di opera d’arte vera e propria da tesorizzare, ma soprattutto da proteggere. All or Nothing at All dell’americana Sheila Hicks, è un’opera composta da giganteschi gomitoli di lana colorata, e si mostra nel suo gestaltico impatto monumentale come un muro di fibra, dove questa è per l’artista la radice antropologica di qualsiasi cultura. Ernesto Neto, noto in tutto il mondo per la realizzazione di filati colorati tramite pigmenti naturali, estratti da semi e piante, porta in Biennale davvero gli sciamani, radunandoli sotto una tenda di rete, Un Sagrado Lugar, mentre recitano reali riti di guarigione. Togliendosi le scarpe, il pubblico su un pavimento di terriccio, può prendere parte al cerimoniale. Poi incontriamo Younes Rahmoun sul tema del Corano ma anche il grande arazzo di Abdoulaye Konate, in sostanza “segni” tangibili dello stare e vivere questo mondo che, se vogliamo, contestualizzano anche lo stare in questa Biennale dei dipinti di Giorgio Griffa, forse, in questa occasione, non giustamente valorizzati per il loro valore anti iconico. La trama, quel filo reale o immaginato, non si esaurisce alle corderie ma continua nei Padiglioni che ritmano l’Arsenale. Valga per tutti quello Cileno, con le 1500 maschere mapuche dell’artista Bernardo Oyarzùn, allocate in un padiglione al buio, dove sono illuminati soltanto i 700 cognomi della sua comunità. L’opera è un atto di resistenza all’estinzione nella custodia della cultura. Questo pezzo di Biennale potrà, forse, sembrare ludico, giocoso, spassoso e divertente, ma in fondo in fondo a seguire quel filo ricamato da Maria Lai, si potrà scoprire una trama dell’esistente ben più complessa e intricata. n

Ernesto Neto, Boa Dance condotta con Huni Kuin (performance)

Claudia Fontes, The Horse Problem, 2017, cavallo monumentale, sassi sospesi, tecnica mista, Padiglione Argentina, La Biennale di Venezia 2017

Younès Rahmoun, Taqiya-Nor, 2016, berretti, resina, struttura metallica, lampadine, cavi elettrici ed elettricità, dimensioni variabili, Padiglione degli Sciamani, Viva Arte Viva, La Biennale di Venezia 2017 Abdoulaye Konaté, Brésil (Guarani), 2015, tessuto, particolare Padiglione dei Colori, Viva Arte Viva, La Biennale di Venezia 2017 courtesy Primo Marella Gallery Sheila Hicks, davanti alla sua opera Scalata al di là dei terreni cromatici / Escalade beyond chromatic lands, 2016/17, tecnica mista, fibre naturali e sintetiche, Padiglione dei colori, Viva Arte Viva, La Biennale di Venezia 2017

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Xavier Veilhan, Studio Venezia, spazio musicale, Padiglione Francia, La Biennale 2017

Arte viva e magmatica nei padiglioni nazionali

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ntrando e uscendo da un padiglione nazionale all’altro, è innegabile la forte connotazione performativa e performante che accomuna molti, aspetto auspicato negli intenti curatoriali di Viva Arte Viva e confermato nel Leone D’Oro assegnato alla Germania. La Francia, ad esempio, con Studio Venezia di Xavier Veilhan, trasforma l’interno del padiglione in una sala da musica e studio di registrazione mettendo in scena una lunga serie di performance musicali senza orario e durata ma liberamente “improvvisate”. Il Padiglione Grecia con Laboratory of Dilemmas di George Drivas invita lo spettatore ad attraversare un ostico labirinto metafora del concetto di dubbio che si ricollega a quello vissuto dal re di Argo dilaniato dal pensiero se salvare o respingere donne egiziane in fuga, traslitterazione moderna della tragedia di Eschilo. Tutt’altro tono, decisamente meno riflessivo ma più ludico, è quello del Padiglione Austria con le sculture “da vivere” di Erwin Wurm che si modulano e cambiano prospettiva proprio attraverso l’interazione con il pubblico. Assolutamente convincente e di grande impatto, è lo stravolgimento attuato da Mark Bradford con Tomorrow Is Another Day del neoclassico Padiglione Stati Uniti. L’artista forza i visitatori a entrare e uscire dalle porte laterali, anziché le principali, costringendoli a vivere lo spazio con quel senso di precarietà che caratterizza il nostro tempo. Dagli spazi occupati da detriti e rifiuti, tuttavia, poi s’incontrano eccellenti opere pittoriche di grandi dimensioni, e infine, il video Niagara del 2005, che nella camminata del protagonista, trasmette un senso di speranza per il futuro. La Spagna porta a Venezia ¡Únete! Join Us! di Jordi Colomer,

Tracey Moffatt, My Horizon 2017, video (veduta dell’esterno del Padiglione con la proiezione), Padiglione Australia, La Biennale 2017

intervento calato sull’esegesi della materia urbana intesa come luogo generatore di situazioni collettive. E sull’idea di trasformazione si muove anche Gal Weinstein al Padiglione Israele con Sun Stand Still, un’installazione organica che rappresenta la valle di Jezreel, suolo agricolo un tempo fertile e oggi sterile e abbandonato. Una riflessione poetica e illuminante sul confine delle nostre aspettative e sui nostri limiti, la propone, invece, lo straordinario Erwin Wurm, sculture sotto forma Padiglione Australia con il di azione, tecnica mista, 2016-2017, solo show di Tracey Moffat Padiglione Austria, La Biennale di Venezia 2017 che, fra due serie fotografiche ineccepibili per bellezza e suggestione visiva e il geniale film My Horizon, ritma con una narrazione incalzante e coinvolgente, tutto lo spazio del padiglione lasciandoci riflettere sul senso di disperazione dei migranti. Sospeso fra fiction e realtà è, infine, anche il film d’animazione digitale della zelandese Lisa Rehiana, che racconta il colonialismo attraverso la trasformazione in live action del dipinto di Jean Gabriel Charvet The Voyages of Captain Cook (Les Sauvages de la mer Pacifique) del 1805. Maria Letizia Paiato

Jordi Colomer, Unete! Join Us!, video (veduta dell’installazione) Padiglione Spagna, La Biennale 2017

Mark Bradford, Tomorrow is another day/Domani è un altro giorno, Padiglione Stati Uniti d’America, La Biennale di Venezia 2017

Lisa Reihana, In Pursuit of Venus [infected] 2015 - 2017, ultra HD, 32 min, Padiglione Nuova Zelanda, La Biennale di Venezia 2017

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l motto di VIVA ARTE VIVA, la 57. Esposizione Internazionale d’Arte restituisce all’artista la centralità del suo ruolo e ne rinnova la responsabilità di ermeneuta dei dibattiti contemporanei. Come sempre location d’eccellenza sono gli storici padiglioni ai Giardini, all’Arsenale, nel centro di Venezia. In una promenade, accattivante ma di certo non totalmente esaustiva, che insista sulle Partecipazioni Nazionali, 85 i Paesi presenti dei quali 3 per la prima volta: Antigua e Barbuda, Kiribati, Nigeria. Il Leone d’oro per la Migliore Partecipazione Nazionale è andato alla Germania della giovane artista Anne Imhof e a cura di Susanne Pfeffer. La giuria attribuisce il massimo riconoscimento al Padiglione tedesco così motivandolo: “un’installazione potente e inquietante che pone domande urgenti sul nostro tempo e spinge lo spettatore ad uno stato d’ansia consapevole”. Presieduto da guardie e da dobermann in gabbia, il Padiglione Germania è un Panopticon di acciaio e vetro: la performance della Imhof genera nel fruitore sensazioni di disagio, di slittamento percettivo, di ossessività perturbante. La Repubblica Ceca e Slovacca, a cura di Lucia Gregorova Stach, presenta Jana Zelibska e la sua Swan Song Now che è un divertissement, un’opera maliosamente immersiva, un incanto vibratile. Mirabile il Padiglione Venezuela: il Venezuela, in uno dei suoi momenti storici e politici più complessi, sceglie l’arte come strumento di guarigione dell’anima. A far da protagoniste le opere dell’artista e poeta visivo Juan Calzadilla, con la curatela di Morella Jurado Capecchi: fregi, spirali, installazioni nastriformi concretano panoplie di segni che ben si giustappongono alle raffinate architetture di Carlo Scarpa. Ecco poi il Theatrum Orbis del Padiglione Russia, a cura di Semyon Mikhailovsky, in cui si dispiegano le opere di Recycle Group, Sasha Pirogova e, in special modo, l’efficacissimo intermezzo di Grisha Bruskin col suo Cambio di Scena in cui il visitatore affonda letteralmente in una dimensione meta-temporale. Phyllida Barlow è stata prescelta a rappresentare la Gran Bretagna: folly a cura di Harriet Cooper è una summa estremamente rappresentativa della produzione della Barlow. Monumentali colonne coclidi, archeologie fittizie, ma anche “palle di Natale giganti” e facciate di stranianti edifici invadono l’interno e l’esterno del Padiglione, destabilizzando ludicamente la percezione degli spazi. Il Padiglione Corea ci accoglie con luci sfavillanti di insegne luminose. All’interno Lee Wan alla domanda “come si rapportano le storie personali e quelle nazionali?” risponde con un’installazione di centinaia di orologi a parete, ognuno con il nome dell’intervistato, che scandiscono il tempo con velocità diverse ovvero la velocità con cui “vive” il suo tempo ogni intervistato. Atmosfere immaginifiche sono quelle del Padiglione Cina, a cura di Qiu Zhijie con il coordinamento artistico di Davide Quadrio. Continuum-Generation by Generation è un vero omaggio alla rigenerazione delle tradizioni che qui fluiscono in una visione assolutamente contemporanea. Skeleton Fantasy Show di Li Song e Dodici immagini dell’acqua che cresce di Ma Yan si connettono tra gli altri con gli spettacoli d’ombre d’altissima poesia di Wang Tianwen. Il Padiglione Irlanda, a cura di Tessa Giblin, presenta l’ultimo lavoro di Jesse Jones, Tremate Tremate, un ritorno tormentoso ed ossessivo all’archetipo del femminino. Alla Giudecca il Padiglione della Repubblica Araba Siriana a cura di Emad Kashout espone, tra le altre, opere di Asma Alfyoumi, Giuseppe Biasio, Anas Al Raddawui, Abdullah Reda, Patrizia Dalla Valle in una riuscita orchestrazione che ancora una volta rinnova la sostanza d’arte nella sua valenza escatologica. Serena Ribaudo

Rete di creazione intertestuale e creativa, Continuum – Generation by Generation, (veduta dell’installazione) 2017, Padiglione Repubblica Popolare Cinese, La Biennale di Venezia 2017

Lee Wan, Counterbalance: the Stone and the Juan Calzadilla, Fragmentos, 1995, Mountain, Padiglione Corea, installazione e carte, Padiglione La Biennale di Venezia 2017 Venezuela, La Biennale di Venezia 2017

Jana Zelibska, Swan Song – Don’t Be Naïve, 2016, installazione multimediale, dim. variabili, Padiglione Rep. Ceca e Slovacchia, La Biennale di Venezia 2017 Jesse Johns, Tremble Tremble/Tremate, tremate, installazione gigantesco corpo simbolico, 2017, Padiglione Irlanda, La Biennale di Venezia 2017

Grisha Bruskin, Scene Change, 2016-2017, installazione, tecnica mista, in Theatrum Orbis Padiglione Russia, La Biennale di Venezia 2017 Phyllida Barlow, untitled: folly; baubles 2016 – 2017, installazione scultorea, Padiglione Gran Bretagna, La Biennale Venezia 2017

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Padiglione Italia

Il mondo magico di Cecilia Alemani, nel Padiglione Italia richiama l’antropologia sociale di Ernesto De Martino, affidandone una rilettura ai tre artisti convocati, Roberto Cuoghi, Giorgio Andreotta Calò e Adelita Husni-Bey, tra i più interessanti dell’ultima

generazione del bel paese. Emblematico e sontuoso il laboratorio installato da Cuoghi per cercare una ‘Imago Christi’ all’altezza del terzo millennio. Di fatto un apparto complesso dove la materia, nei suoi processi di putrefazione e disfacimento, si converte in una forma statuaria, frammentata o mutilata e poi si musealizza

Roberto Cuoghi

Biennale e dintorni

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e opinioni sulla Biennale a firma Macel quest’anno sembrano concordi. Non brutta ma un po’ piatta, formale e didascalica, a tratti decorativa, con poche opere memorabili e pochissimi guizzi. Tuttavia il giudizio cambia se si guardano i Padiglioni nazionali (Germania, ma anche Italia, Egitto, Australia, Svizzera, Brasile, Grecia…). Ed è totalmente contraddetto dalla qualità davvero alta di molte delle tantissime mostre collaterali. Esemplari sono le rassegne dedicate ad artisti “storici”. Alla Fondazione Cini il colosso Alighiero Boetti si para in un confronto tra una ventina di opere micro e macro, a cura di Luca Massimo Barbero. Tra le impegnative conferme, l’esposizione rivela anche qualche chicca: come “Estate ‘70”, un grande rotolo con bollini adesivi colorati e la sezione “xerox” di esperimenti in fotocopia proposta da Hans Ulrich Obrist e Agata Boetti. Ma soprattutto rafforza la consapevolezza dell’attualità di questo genio multiforme, e dei tanti stimoli offerti dalla sua ricerca alle nuove generazioni. Se notevoli (a detta di chi le ha viste: impossibile in pochi giorni visitarle tutte) sono Mark Tobey alla Fondazione Peggy Guggenheim e Anselmo alla Fondazione Querini Stampalia, merita davvero un plauso il focus su Philip Guston alle Gallerie dell’Accademia (“Guston and the poets”, a cura di Kosme de Baranano).

Un momento della performance Mediterraneo del cubano Carlos Martiel a Palazzo Franchetti

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Un percorso intenso e al tempo stesso fresco, poetico excursus sui legami del maestro americano con poeti come Eliot, Montale o Yeats, che rivela fonti importanti dei suoi quadri, l’amore per l’arte classica e l’Italia, i rapporti affettivi con Venezia. Sempre sul fronte istituzionale, è una presenza contenuta ma d’impatto quella di Shirin Neshat al Museo Correr, con “The Home of My Eyes” a cura di Thomas Kellein. Per la celebre artista iraniana rimanda alle foto degli esordi la parata di 26 ritratti in bianco/ nero con scritte di un antico poeta suo connazionale, che occupa due pareti della Sala delle Quattro Porte. I personaggi, frontali e con le mani giunte, vengono dall’Azerbaijan, paese di origine della Neshat popolato da vaie etnie. Nelle intenzioni dell’autrice compongono un’allegoria dei legami identitari e del trauma dell’emigrazione, cui è dedicato anche il video “Roja”, del 2016. Il viaggio - tratto da un’esperienza reale, ossia la partecipazione ad una spedizione in Antartide con scienziati e artisti nel 2005 – è protagonista invece del lungo video documentario del francese Pierre Huyghe nell’Espace Vuitton. Mentre la casuale leggerezza della vita, sintetizzata nel volo casuale di un palloncino, riscatta la pesantezza della morte nel brevissimo filmato girato col cellulare da Douglas Gordon nella Cripta dei Cappuccini di Palermo, ora nelle Prigioni di Palazzo Ducale. Un capitolo a sé, per la quantità e la qualità delle presenze, meriterebbe d’altra parte “Intuition”: ultima puntata, pare, della saga dalle suggestioni filosofiche avviata nel 2007 a Palazzo Fortuny da Daniela Ferretti e Axel Vervoodt. La formula rimane la stessa: un’eccezionale ambientazione lungo quattro piani, tra opere storiche di Mariano Fortuny, oggetti e arredi, che mescola con audacia passato antichissimo e presente. Negli anni l’effetto sorpresa degli inizi è andato scemando. Mentre il tema indagato per questa edizione, l’intuizione appunto, è forse più sfuggevole dei precedenti. Ma resta l’alto profilo di questa impegnativa iniziativa con centinaia di opere, dai reperti prestorici ai maestri del Surrealismo, da grandi nomi contemporanei fino ai più giovani, anche italiani. Una caccia al tesoro da esperire in gran parte quasi al buio. Perché, come recita la frase di un’opera quasi manifesto: “Intuition is conscious reality bumped into the dark”. Da segnalare, infine, l’intrigante proposta di due artisti emergenti, molto diversi. Una è la scozzese Lucy McKenzie alla Fondazione La Masa, invitata da Milovan Farronato col sostegno di Fiorucci Art Trust. In una eclettica ambientazione concettuale, tra finte copie di antichi dipinti, improbabili mappe, monumenti domestici, murales, manichini, arredi e


speciale

57. BIENNALE DI VENEZIA

nella sua fatale incompiutezza. Avvezzo a soluzioni monumentali, Giorgio Andreotta Calò, edifica una cattedrale metallica con tanto di cripta e stupefacente dilatazione della volta in uno specchio d’acqua, insieme ieratico lavacro e omaggio al ‘genius loci’ veneziano. Chiude Adelita Husni-Bey con le sue creazioni collettive dove il farsi comunità si gioca in una videoinstallazione con l’artista che governa un dibattito a più voci su temi etico-sociali, sollecitato dai suoi speciali tarocchi. Marilena Di Tursi Nella pagina a sinista: Roberto Cuoghi, Imitazione di Cristo, (veduta dell’installazione), materiale organico, 2017; a sinistra: Adelita Husni-Bey, The Reading / La Seduta, video installazione a un canale, 4K 14’09, 2017; in basso: Giorgio Andreotta Calò, Senza titolo (La Fine del Mondo), 2017 Photo by Jacopo Salvi: Courtesy La Biennale di Venezia; Padiglione Italia, La Biennale di Venezia 2017

oggetti d’arte applicata, mette in scena un “heroique kermesse” che riflette “sulla relazione tra stile, ideologia e valore”. L’altro è il giovane goriziano Thomas Braida nel cinquecentesco Palazzo Nani Bernardo, scelto per l’occasione dalla galleria Monitor su input critico di Caroline Corbetta. Tra quadri storici e oggetti antichi, divani e tavolini d’epoca, tappezzerie e specchiere, Braida mimetizza i suoi visionari dipinti, le surreali sculturine, pittorici tappi come cammei o manuali carillon, testimonianze spesso realizzate ad hoc di un complesso immaginario figurativo che deborda tra passato e presente, mitologia e riferimenti pop, in un mix iper carico, che sfugge a codificazioni. Antonella Marino

Osservazioni sulla Biennale

U

na Biennale di Venezia che induce a riflettere sugli eventi e i sentimenti attuali nel mondo. Dal Padiglione della Germania, dove il tema del vedere ed essere visti, della “zombizzazione” del corpo capitalistico è stato superbamente affrontato dall’artista Anne Imhof tra performance e scene fisse, a quello degli Stati Uniti, dove la ciclicità delle promesse sociali irrealizzate in America raccontata da Mark Bradford accomuna in realtà molti governi mondiali. Anche Giorgio Andreotta Calò con la sua installazione Senza Titolo (La fine del mondo) mostra un panorama “specchiato” che è molto suggestivo ma riserva poche vie di uscita allo spettatore. Sempre nel Padiglione Italia, Roberto Cuoghi ha disseminato una sorta di necropoli con cadaveri e croci ridondanti, che risulta alla fine di “maniera” e di certo non magico. Felice invece di aver trovato Maria Lai, artista finalmente premiata con questa presenza in Biennale, con la sua Enciclopedia Pane alle Corderie dell’Arsenale. Bello anche l’intervento installativo di Ernesto Neto. Molto interessante anche il Padiglione della Svizzera, che quest’anno è dedicato ad Alberto Giacometti, dove gli artisti Carol Bove e il duo Teresa Hubbard e Alexander Birchier hanno realizzato rispettivamente delle sculture e una video installazione ispirandosi all’artista scomparso. Segnalo infine i Padiglioni dell’Austria con le sculture partecipative dell’artista austriaco Erwin Wurm e quello della Finlandia, dove l’installazione interattiva del duo finlandese/olandese Erkka Nissinen e Nathaniel Mellors verte su tematiche come la moralità, la comunicazione e il potere, in modo ironico e irriverente. Lorella Scacco

G

reen Light – An Artistic Workshop, il laboratorio del danese Olafur Eliasson, realizzato in collaborazione con la ThyssenBornemisza Art Contemporary di Vienna, apre quest’anno l’ingresso del Padiglione Centrale ai Giardini e si configura da subito come un pieno e propositivo atto di benvenuto. La posizione, l’allestimento dello spazio, il ritmo delle azioni che vi si svolgono, generano infatti un clima festoso e una coinvolgente atmosfera che ci introducono al senso complessivo dell’operazione. Green light è di fatto una piattaforma artistica, un luogo del fare, dove vengono assemblati e fabbricati moduli di verdi lampade poliedriche. I protagonisti di questo processo sono giovani rifugiati e migranti di diversi paesi con cui il pubblico è invitato ad interagire in un laboratorio collettivo. L’oggetto diventa così metafora tangibile: una luce verde di ottimismo e di apertura verso il tema dell’immigrazione e della guerra. Allo stesso tempo la costruzione partecipata e collaborativa dell’oggetto si trasforma in un occasione per stimolare lo scambio di conoscenze, di memorie, di appartenenze, di valori. Infine le azioni che avvengono all’interno di questo spazio diventano performance artistica ma anche un atto di impegno sociale. Le lampade prodotte all’interno del workshop verranno infatti vendute e il ricavato devoluto alle due ONG, Emergency e Georg Danzer Haus, che si occupano dell’accoglienza dei rifugiati in ogni parte del mondo. Come di consueto, anche in questa occasione, il lavoro di Olafur Eliasson si inserisce in un discorso, non solo di promozione dell’esteticità diffusa, ma anche di collaborazione diretta, in cui arte, design e architettura valgono a generare ambienti che sono essi stessi un valore, non un invito al cambiamento ma un cambiamento in atto. Zoe Balmas GIUGNO/LUGLIO 2017 | 263 segno - 31


Venezia, Basilica di San Giorgio Isola di San Giorgio Maggiore

Michelangelo PISTOLETTO

N

el contesto degli Eventi Collaterali della 57.Biennale di Venezia, la Galleria Continua propone la mostra di uno degli artisti italiani più rappresentativi a livello internazionale, Michelangelo Pistoletto. Figura chiave nello sviluppo dell’arte concettuale e protagonista del movimento Arte Povera, Michelangelo Pistoletto ha attraversato l’arte della seconda metà del Novecento, scrivendone una pagina storica e riportando l’Italia creativa al centro della scena. Questa mostra, concepita per la Basilica di San Giorgio Maggiore e per gli spazi adiacenti, la sacrestia, il coro maggiore, la Sala del Capitolo e l’Officina dell’Arte Spirituale, s’impone come riflessione che investe direttamente il destino dell’uomo e l’urgente necessità di un cambiamento sociale. Ma soprattutto mette in luce la genesi dell’opera di Pistoletto e dell’immagine come identificazione fenomenologica dello spaziotempo, accompagnandoci fino alle opere più recenti dove, oltre che con l’immagine, l’artista continua a lavorare con l’immaginazione. Attraverso di essa, Pistoletto propone di configurare lo scenario che si apre verso il futuro, lasciando ancora una volta aperto quel flusso “tridinamico” del tempo che include inevitabilmente passato, presente e futuro. Al centro della Basilica di San Giorgio Maggiore Pistoletto presenta “Suspended Perimeter – Love Difference”, una installazione costituita da una serie di specchi “sospesi” che formano uno spazio circolare. L’opera si colloca come una

sorta di controaltare, dove gli specchi fanno da tramite tra il visibile e il non visibile estendendo la vista oltre le sue normali facoltà, espandendo le caratteristiche dell’occhio e la capacità della mente, fino ad offrirci la visione della totalità. Realizzata in uno spazio consacrato, dedito al raccoglimento e alla preghiera, assume una forza rinnovata aprendo a riflessioni sulle questioni più delicate che l’uomo contemporaneo sta affrontando quali il conflitto tra le religioni, l’accettazione delle differenze, la multiculturalità ma anche sul ruolo che l’arte può ancora sostenere per creare un territorio comune su cui confrontarsi. In mostra anche una serie di recenti quadri specchianti che ritraggono Cuba e il suo popolo, per consolidare una piattaforma culturale, artistica e scientifica sulla quale – ha dichiarato Pistoletto - si può generare e far crescere una politica che porti al rinnovamento dell’intera società. L’esposizione offre quindi una sintesi storica del percorso artistico del Maestro, dai suoi esordi fino ai giorni nostri.

Veduta della mostra, MICHELANGELO PISTOLETTO, One and One makes Three, Evento collaterale della 57. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, Abbazia di San Giorgio Maggiore e Officina dell’Arte Spirituale, Isola di San Giorgio Maggiore, Venezia, 2017

Michelangelo Pistoletto, Il Tempo del Giudizio
The time of Judgement
2017
specchio, tappeto, scultura di Buddha, inginocchiatoio, dimensioni site specific. Courtesy: the artist and GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana
Photo by: Oak Taylor-Smith

Veduta della mostra, MICHELANGELO PISTOLETTO, One and One makes Three, Evento collaterale della 57. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, Abbazia di San Giorgio Maggiore e Officina dell’Arte Spirituale, Isola di San Giorgio Maggiore, Venezia, 2017

Michelangelo Pistoletto, Suspended Perimeter - Love Difference, 1975-2011 ferro, specchio, Ø 10 m Courtesy: the artist and GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana
Photo by: Oak Taylor-Smith

32 - segno 263 | GIUGNO/LUGLIO 2017


speciale EXTRA BIENNALE

Installation view, Boetti. ph Matteo De Fina.

Fondazione Giorgio Cini

Alighiero BOETTI lla Fondazione Giorgio Cini un percorso di ventidue lavori

A

di grande impatto che racconta un rapporto, unico nel suo genere, fra i “minimi” e i “massimi” di alcune delle serie più significative di Alighiero Boetti, non risulta mai scontato né tedioso. Crea un ritmo e una visione, a tratti estatica, che da subito, sin dal titolo, fa comprendere la selezione portata avanti secondo il criterio del formato; mettendo a confronto i lavori piccoli, Minimum, e quelli grandi, Maximum, ci porta a conoscenza e ci avvicina visivamente al modus operandi dell’artista collegandolo direttamente al concetto di tempo, il tempo che lavora, come lo aveva definito in un’intervista nel 1972. I cicli più noti, quali Mappe, Aerei e Tutto, vengono presentati in mostra e accostati ad opere invece quasi sconosciute al grande pubblico, come Esta-

te 70, un rotolo di venti metri in cui Boetti ha applicato migliaia di bollini autoadesivi colorati su una superficie quadrettata. Favolosi i Ricami ed in particolare Titoli del 1978, appartenente al raro ciclo dei ricami monocromi. I due Lavori postali ci riconducono al tema del viaggio e del nomadismo dell’arte caro all’artista e vediamo accostato il “grande”, di 720 buste timbrate e affrancate seguendo un gioco sulla permutazione matematica, al “piccolo” con sole 6 buste. Alla fine del percorso espositivo il progetto speciale di Hans Ulrich Obrist e Agata Boetti riunisce una serie di opere eseguite con la fotocopiatrice e lascia il visitatore libero di esprimersi; questo stesso, uscendo dalla Fondazione, valica un altro portone, più maestoso per elevazione spirituale, e ritrova il cerchio portandosi dietro le migliaia di bollini colorati da cui si è appena allontanato. Milena Becci

Venezia, Abbazia San Gregorio

Jan FABRE

U

nisce la concreta preziosità del vetro e la simbolica fragilità delle ossa umane ed animali la potente mostra che Jan Fabre dispiega su più livelli dell’Abbazia di San Gregorio. In “Jan Fabre. Glass and Bone Sculptures 1977-2017” - curata da Giacinto di Pietrantonio, Katerina Koskina e Dimitri Ozerkov - l’immaginario mutante dell’artista prende forma in sculture e installazioni realizzate con questi due materiali (anche in omaggio a Venezia) e inchiostro blu, scelte all’interno della sua prolifica e visionaria ricerca che sconfina tra linguaggi

visivi, teatro, filosofia e scienza. Dalla metamorfica tartaruga verde nel cortile del chiostro ai piccioni defecanti sui cornicioni , passando per spettacolari accumuli di ossa vitree sormontate da fallo e vagina ossei. Rutilanti coriandoli che accolgono scheletri di cane morto. Teschi con scheletri di animaletti tra i denti. Evocative asce, croce, canoa. Involucri di frati e spermatici pianeti. Si dispiega una allegoria del ciclo vitale in cui l’ossessiva presenza della morte è sempre trasfigurata in irrinunciabile eleganza estetica. (Antonella Marino)

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Ca’ Faccanon, Venezia

M-O-D-U-S Tecniche poetiche materiali nell’arte contemporanea

A

cura di Martina Cavallarin ed Eleonora Frattarolo la mostra racconta attraverso i lavori degli artisti Francesco Bocchini, Shay Frisch, Omar Galliani, Resi Girardello, Gong Hao, Paolo Grassino, Lemeh42, Victoria Lu, Marotta & Russo, Gianni Moretti, Maria Elisabetta Novello, Antonio Riello, Davide Rivalta, Tang Hui, Wang Zimu, Zhu Hongtu, Zou Cao un versante della pratica dell’arte progressivamente rimosso a partire dalla seconda metà dell’’800 e riformulato in chiave teorica dalle avanguardie storiche: la connessione intima tra tecniche e poetiche, la relazione tra materia dell’opera d’arte e scienza. L’opera ToutVa è un’installazione che prevede l’impiego del neon nella sua natura materiale e “alchemica” di quintessenza che trascende i quattro classici elementi fisici: terra, aria, acqua, fuoco. Duttilità, espressione, profondità concettuale, materialità espansa sono le caratteristiche che descrivono il neon – spiegano Marotta & Russo, – caratteristiche strettamente associabili a quelle della società contemporanea post digitale. Le tecnologie F/ART sono state utilizzate per la realizzazione delle opere di Marcella Barros, i ritratti luminosi di Dusty Sprengnagel, le monumentali spirali di Stephan Huber, quelle delle italiane Federica Marangoni e Laura Ambrosi, il progetto di Maurizio Nannucci All art has been contemporary, 150 metri di tubi al neon che hanno animato la facciata dell’Altes Museum di Berlino, l’opera dell’artista neozelandese Michael Parekowhay The Lighthouse light up a Auckland (2017) e quella di Laddie John Dill. Non solo arte contemporanea: F/ART ha promosso progetti internazionali di illuminazione di interni ed esterni realizzati per enti pubblici: dall’Opera di Lione a diversi Musei di arte contemporanea, da hotel di lusso e grandi marchi come Victoria’s Secret, Ferragamo e Gucci, da eventi temporanei fino alla collaborazione con la Biennale di Venezia. Lisa D’Emidio

Paolo Grassino, in primo piano, Per sedurre gli insetti, 2015. Foto Roberto Sala

Antonio Riello, dalla serie I cannot make heads or tails of it, 2017. Foto Roberto Sala Resi Girardello, GAIA OmniaMundaMundis (tutto è puro per i puri), 2017. Struttura in acciaio, rete di fili di rame tessuti a mano. Foto Roberto Sala

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speciale EXTRA BIENNALE

Palazzo Grassi/Punta della Dogana, Venezia

Damien HIRST

L’

arte può ancora stupire? Sicuramente si per Damien Hirst che con la sua ‘Treasures from the Wreck of the Unbelievable’, distribuita tra Punta della Dogana e Palazzo Grassi, converte il semplice stupore in un sensazionalismo maestoso. I suoi relitti provenienti dal naufragio della nave di un liberto romano, celebrano l’era delle ‘fake news’ partendo dal prodigioso recupero marino dei reperti, passando da un meticoloso restauro e infine offrendosi in un allestimento di filologico rigore archeologico. Il confine tra verità e finzione comincia ad incrinarsi proprio dalla documentazione subacquea, primo inquietante gradino per la costruzione di una realtà taroccata. Tuttavia Hirst gioca a carte scoperte mettendo vistosamente a nudo la sapiente manipolazione postpop dei suoi mimetici frammenti pseudo grecoromani, dei busti egizi, dei calendari aztechi, di un sincretismo archeologico che provvede a corrodere con incrostazioni dai colori improbabili. O a contaminare con dive pop e personaggi disneyani, soggetti allo stesso trattamento di invecchiamento al pari di un fantomatico Pinault, sommerso da conchiglie e formazioni calcaree fluo. Marilena Di Tursi Damien Hirst, The Severed Head of Medusa Image: Photographed by Prudence Cuming Associates © Damien Hirst and Science Ltd. All rights reserved, DACS/SIAE 2017

Damien Hirst, Hydra and Kali Discovered by Four Divers. Image: Photographed by Christoph Gerigk © Damien Hirst and Science Ltd. All rights reserved, DACS/SIAE 2017

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Vedute della mostra “The Boat is Leaking. The Captain Lied”. Foto: Delfino Sisto Legnani e Marco Cappelletti.

Venezia, Fondazione Prada

KLUGE, DEMAND, VIEBROCK

U

n labirinto aperto, un percorso come campo di possibilità, tra porte da aprire e porte cieche, palcoscienici che possono essere anche platee, tribunali in cui si può essere giudicanti o giudicati, situazioni davanti e dietro le quinte... Il piano nobile del settecentesco Palazzo Ca Corner della Regina, sede della fondazione Prada a Venezia, è completamente ridefinito dall’intervento congiunto di Alexander Kluge, Thomas Demand e Anna Viebrock. Un regista, un artista e una scenografa di fama internazionale che si sono messi in gioco, intersecando poetiche e linguaggi in un ambizioso e riuscitissimo progetto polifonico. Una continua catena di rimandi tra vero e falso, sottili citazioni reciproche e autocitazioni, tra proiezioni e ambientazioni, scandiscono un viaggio fisico e mentale che ha il suo punto di partenza in un misunderstanding: un quadro storico di Angelo Morbelli con anziani poveri scambiati dai tre per vecchi marinai. Di qui l’idea metaforica del naufragio che guida la rassegna (“The Boat is Leaking. The Captain Lied”) e che si fa cornice di un’esperienza a destini incrociati in cui l’errore e il fallimento lasciano anche spiragli di salvezza. (Antonella Marino)

Ca’ Sagredo Hotel, Venezia

Lorenzo QUINN

S

cultura monumentale di Lorenzo Quinn, artista tra i più apprezzati a livello internazionale, figlio dell’attore hollywoodiano Anthony Quinn e della seconda moglie, la costumista veneziana Iolanda Addolori, con una imponente installazione che emerge dall’acqua in Canal Grande tra la Ca’ D’Oro e Campo Santa Sofia, L’opera rappresenta due mani che sostengono simbolicamente il Palazzo Ca’ Sagredo di fronte al quale emergono; la scultura segna l’evoluzione artistica di Quinn e la sua sperimentazione con nuovi materiali e nuove prospettive orientate a trasmettere la sua passione per i valori eterni e le emozioni autentiche. Esempio di un’arte armonica ed equilibrata, è stata concepita per rappresentare le più recenti riflessioni dell’artista sulle problematiche ambientali e sulle variazioni del clima che oggi la nostra società si trova ad affrontare. Meditando sull’ambivalenza della natura umana, con le sue potenzialità di creazione e distruzione, e sulla capacità dell’uomo di influenzare con il suo operato il corso degli eventi e l’ambienLorenzo Quinn al lavoro per l’installazione di Ca’ Sagredo a Venezia.

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Alexander Kluge

te, Quinn ci parla dell’opportunità concreta di raggiungere un maggior equilibrio con il nostro Pianeta, in termini sia economici sia ambientali sia sociali. Le mani, strumenti che possono tanto distruggere il mondo quanto salvarlo, trasmettono un istintivo sentimento di nobiltà e grandezza in grado anche di generare inquietudine, poiché il gesto generoso di sostenere l’edificio ne evidenzia la fragilità. L’installazione di Lorenzo Quinn a Ca’ Sagredo a Venezia.


speciale EXTRA BIENNALE

Fondazione Querini Stampalia, Venezia

Giovanni ANSELMO Elisabetta DI MAGGIO

A

cura di Chiara Bertola, negli spazi della Fondazione Querini Stampalia, rispettivamente all’interno dell’Area Scarpa e del Museo, sono state allestite le mostre personali di Giovanni Anselmo e di Elisabetta Di Maggio. Le riflessioni dei due artisti, anche se in modi diversi e quasi opposti nelle materie che utilizzano, si toccano in quel loro soffermarsi su concetti quali la caducità e il trascorrere del tempo: geologico, lentissimo e costante per Anselmo; ritmato, fluido e trasformativo in Di Maggio. Le loro opere – scrive la curatrice - scan-

discono una stessa temporalità ma in modo differente, mettono al centro un confronto con il ritmo del tempo, di forza e fragilità, di tensione e sospensione. Anselmo e Di Maggio si confrontano inevitabilmente con la storia, gli spazi e le collezioni che costituiscono il patrimonio della Fondazione e rientrano in “Conservare il futuro”, un programma di arte contemporanea della Querini Stampalia che ha l’obiettivo di proporre sempre sguardi inediti capaci di scardinare le consuete categorie di conservazione, esposizione e fruizione museale dell’opera d’arte.

Giovanni Anselmo, Dove le stelle.

Elisabetta Di Maggio, Butterfly flight trajectory#04, 2012.

Karen Lamonte, Glasstress

Palazzo Franchetti, Venezia - Vecchia Fornace, Murano

GLASSTRESS

S

ono 40 gli artisti, provenienti da Europa, Stati Uniti, Medio Oriente e Cina, protagonisti della quinta e nuova edizione dell’originale mostra dedicata alle infinite possibilità del vetro, organizzata e sostenuta dalla Fondazione Berengo. Glasstress, curato da Dimitri Ozerkov, rivitalizzata la tradizione del vetro di Murano, attraverso le straordinarie creazioni di artisti d’eccezione, tra i quali: Ai Weiwei, Jan Fabre, Abdulnasser Gharem, Paul McCarthy, Laure Prouvost, Ugo Rondinone, Thomas Schütte e Sarah Sze, sono i creatori di opere, realizzate con i maestri muranesi, che sfidato apertamente la tradizionale idea di artigianato. In particolare si segnala l’irriverente e sarcastica opera di Ai Weiwei Up Yours del 2017, un simpaticissimo dito medio alzato a farsi beffa, come al solito, di tutto il sistema. Su tutt’altro tono, invece, il contributo dell’artista belga Koen Vanmechelen che, con la spettacolare installazione Protected Paradise nel giardino di Palazzo Franchetti, affronta i temi del riciclo e della sostenibilità.

Charles Avery, Untitled (Ninth stand #1), 2017 Ai Wei Wei, Up Yours, 2017

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Biennale di Venezia, interviste

David MEDALLA a cura di Lorenzo Bruni

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na presenza particolarmente incisiva alla Biennale di Venezia 2017 è quella di David Medalla , che ha proposto l’installazione “A Stitch in Time” nello spazio delle Corderie. Mentre ai Giardini ha contribuito in collaborazione dell’artista Adam Nankervis, alla performance e installazione di “Mondrian fan club”. David Medalla, nato a Manila nel 1938, è presente sulla scena dell’Arte dagli anni Sessanta ed ha toccato molte delle ricerche artistiche nate in quel periodo di livello internazionale come Fluxus, Minimal Art, Land Art, Arte Cinetica, Happening, Participation Art, spesso in anticipo sui tempi. Il suo lavoro però non è ascrivibile ad una corrente particolare se non all’idea di essere “time specific” e che riflette sul dialogo tra più culture. Ho avuto la fortuna di studiare il suo percorso attraverso le opere che ha realizzato negli anni Sessanta e di invitarlo, un anno fa, ad una mostra (nella galleria di Enrico Astuni a Bologna) che voleva riflettere proprio sul mettere a confronto un’opera realizzata nel 1966 – l’anno in cui la critica attivista Lucy Lippard conia il termine di “dematerialization” - e una realizzata appositamente cinquanta anni dopo. Le domande che mi hanno spinto a coinvolgerlo nel libro che sto scrivendo sul suo percorso e nella mostra sono quelle che ho affrontato in questa intervista. Nel corso della tua lunga ricerca quello che ha accomunato sempre la tua sperimentazione è stata l’idea di voler stratificare più visioni culturali in una performance che nasce dall’incontro con il luogo e il pubblico. Questo però era gia presente anche nei primi lavori di pittura e scultura realizzati a partire dagli anni Cinquanta, quando eri ancora studente nelle Filippine, in cui erano molto presenti i riferimenti alla poesie di T.S. Eliot, Rimbaud e Dante Alighieri. Il tuo viaggio in Europa era così ovvio e scontato per mettere a frutto i riferimenti legati a questa tradizione? Il motivo per cui il mio lavoro sembra abbia così tanti rimandi alla cultura occidentale è che quelle che sono più documentate sono le opere che ho prodotto in Occidente. Ma ho fatto molte cose anche durante le mie tre visite in Africa. Ho vissuto in India, Nepal, Tahilandia, Sri Lanka, Pakistan e Malesia. Il lavoro in quei luoghi è stato totalmente effimero, ma era prezioso per me allo stesso modo in cui lo era per le persone che ho incontrato lì, perché raccontavano quello che vedevo e con chi le costruivo.

Il tuo obiettivo, quindi, è quello di stabilire un dialogo specifico nell’istante della scoperta e della condivisione con le altre persone presenti in mostra. L’installazione e l’happening “A Stitch in Time” rappresenta molto bene la tua attitudine. Com’è nata? In cosa consiste? Questa performance è stata fatta in paesi con diverse lingue. È un lavoro sul tempo. Il tempo che la persona impiega a cucire sulla stoffa i suoi pensieri e il tempo in cui questi pensieri sono osservati sempre dal pubblico. Parla di collettività ma anche di concentrarsi con se stessi. Anche quando abbiamo realizzato “A Stitch in Time” a Bologna, un anno fa per la mostra dal titolo“66/16”, curata da te, la gente non smetteva più di cucire. Quando si mettevano a sedere tutti erano talmente concentrati che non si accorgevano del tempo e della confusione attorno. La caratteristica di questo lavoro è che è globalizzato e non ha bisogno di una sede. Ogni lavoro è un ritratto di quel contesto David Medalla, Mondrian Fan Club (David Medalla & Adam Nankervis, 2017.
 The Mondrian Pavillion. 57. Biennale Arte Venezia, Giardini, Biblioteca. Courtesy l'artista.

David Medalla, A Stitch In Time, 1968/2017
 Tessuto, fili di cotone colorati, corda, legno e materiali vari, dimensioni ambientali. 57. Biennale Arte Venezia, Arsenale. Courtesy l'artista.

irripetibile sia per il coinvolgimento delle persone che per i materiali impiegati. Ad esempio il colore della stoffa può variare tutte le volte e lo scelgo rispetto al contesto. Per Venezia ho scelto il bianco. L’opera “A Stitch in Time” risiede nelle storie e connessioni innescate dalle tracce che rimangono cucite sulla stoffa. Mi puoi parlare meglio di questo aspetto? Avrò fatto 50 o 60 perfomance di “A Stitch in Time” in vari Paesi: Londra e Edimburgo e tanti altri, ma è sempre come se fosse la prima volta. Ad esempio a San Francisco negli anni 70 la performance ha avuto esiti particolari. I fili che le persone potevano scegliere per cucire erano i colori dell’arcobaleno visto che la città era molto aperta dal punto di vista omosessuale. Le persone però entravano e si spogliavano e rimanevano in mutande a scegliere il colore del filo e cosi sono nate tante polemiche. Nel 1982 ho realizzato quest’opera in occasione dell’apertura della Tate Gallery a St Ives, in Cornovaglia, dove per i cittadini l’entra-

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attivitĂ artisti in espositive biennale RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Alcuni momenti della performance Mondrian Fan Club di David Medalla e Adam Nankervis. Foto Michele Sereni e Galleria Enrico Astuni.

GIUGNO/LUGLIO 2017 | 263 segno - 39


David Medalla, A Stitch In Time (10/12 colori), 2016, Bologna, edizione di 29, autografata, libro 66|16, tulle, ago, filo di cotone, teca in plexiglass, cm 22 x 16 (libro); cm 200 x 100 (tulle); cm 33 x 27 x h 7.5 (teca). Photo by Michele Sereni. Courtesy Galleria Enrico Astuni, Bologna.

Da sinistra a destra: David Medalla, The Sand Machine, 1963, acrilico e inchiostro su carta, cm. 70x50; David Medalla, The Sand Machine, 1964/1998, plexiglas, rame, betulla bianca, sabbia, cm 68 x 60 x 60. Photo by Michele Sereni. Courtesy Galleria Enrico Astuni, Bologna.

ta al museo era gratuita e per questo potevano entrare e uscire quando volevano. Si trattava di una città di pescatori puritani che, contrari all’istituzione della Chiesa Anglicana e Cattolica, leggevano sempre la Bibbia prima di iniziare a lavorare. Tutti i messaggi che hanno cucito erano citazioni da questo libro sacro, che si mescolavano ai messaggi dei turisti che invece si riferivano al viaggio appena fatto. Inoltre vi erano i messaggi di un gruppo di universitari, provenienti da Cardiff e Bristol con dei riferimenti a filosofi come Nietzsche e Marx e quelli di un gruppo di liceali ispirati alla musica e ai cantanti di quel momento. “A Stitch in Time” è un’opera democratica che va oltre le gerarchie e la retorica. Questo concetto è molto interessante

perché ha un aspetto sociologico all’interno di una performance collettiva. Quel pezzo in particolare è stato studiato da alcuni professori di psicologia.

David Medalla, Poetry and Memory, 2016, tecnica mista su carta, cm 56 x 41. Courtesy Galleria Enrico Astuni, Bologna

David Medalla, Poetry and Memory, 2016, tecnica mista su carta, cm 56 x 41. Courtesy Galleria Enrico Astuni, Bologna

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Adesso dove è esposta la stoffa del lavoro dell’82? Si trova all’interno della Biblioteca del Museo. Tutte le opere create durante queste performance sono uniche sia nel movente che nel risultato. Una volta ho realizzato l’opera in un piccolo spazio di una galleria di Londra per poterla donare in beneficenza per raccogliere soldi da destinare alle “Associazioni per non vedenti.” L’azione quindi doveva svolgersi al buio. Le persone per farsi luce dovevano tenere in mano dei braccialetti fluo-


attività artisti in espositive biennale RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

David Medalla, Cloud Canyons (Bubble machines auto-creative sculptures), 2016, cm 125 x 45 x 90. Photo by Michele Sereni. Courtesy Galleria Enrico Astuni, Bologna.

rescenti. La performance durò una settimana. Ne feci un’altra sempre per i non vedenti con il Braille. Per Documenta a Kassel curata da Harald Szeemann nel 1972 proponesti un’installazione importante di “A Stitch in Time” oltre ad uno dei famosi lavori di “Bubble Machine”. Questa consisteva in una piattaforma in cui si svolgevano vari incontri, mentre la schiuma della bubble machine creava dei disegni nell’ambiente. Questa era prodotta dalla sommità di due colonne di legno grezzo, tranne quando le assi si aprivano all’improvviso riversando la schiuma come massa/materia e non solo come disegno. Quando hai incontrato Szeemann? Harald Szeemann l’ho conosciuto molto prima di Documenta 5 del 1972. Quando lui era studente a Parigi e io abitavo in una barca sulla Senna e giravamo la città visitando assieme le gallerie d’arte. Poi, nel 1966, quando lui divenne direttore della

Kunstalle di Berna mi invitò ad una mostra collettiva dal titolo “White on White” che toccava proprio i temi affrontati nelle nostre conversazioni. Quella mostra fu un grande successo e così ebbe l’autorità per realizzare quella ancora più famosa dal titolo ‘When attitudes became form’ dove fui invitato. Io in quel periodo ero in Africa così gli mandai una lettera, che lui inserì all’interno della mostra. Tu, come altri artisti, alla fine degli anni ‘60 eravate mossi dal trovare un’alternativa all’oggettualità dell’opera lavorando su eventi effimeri e privilegiando l’idea. Per trovare un elemento comune alle vostre ricerche molto diverse tra loro viene coniato il termine di smaterializzazione dell’opera. Si. Conosco quel dibattito e ho discusso molto con Lucy Lippard. Però io non smaterializzo l’opera perché mi interessa di più concretizzare l’incontro con l’altro e gli altri. n GIUGNO/LUGLIO 2017 | 263 segno - 41


Nino Longobardi, Castel Del Monte - foto di Fulvio Ambrosio, courtesy Nova Apulia

Castel del Monte, Andria

Nino LONGOBARDI Apparenze

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a mostra “Apparenze”, curata da Achille Bonito Oliva, ospita l’artista napoletano Nino Longobardi nel federiciano Castel Del Monte di Andria. Una meraviglia architettonica che racchiude storia ma anche magia – come riconosce l’artista stesso – una specie di simbolica macchina del tempo, “un catalizzatore di energie, un luogo che vive dell’eco di potenti spessori intellettuali.” Il confronto con un passato così densamente pervasivo induce Longobardi a instaurare con gli ambienti criptici della fortezza un raffinato dialogo percettivo e mentale fatto di riferimenti alla caducità del corpo e della maNino Longobardi, Letto di Federico- foto di Fulvio Ambrosio, courtesy Nova Apulia

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Nino Longobardi, Castel Del Monte foto di Fulvio Ambrosio, courtesy Nova Apulia


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

teria, alla spiritualità della vita e all’immortalità del pensiero umano, alle apparenze della nostra condizione umana sospesa tra desiderio e necessità. L’evento espositivo si articola in un percorso dall’essenza atemporale con oltre venti stazioni; qui, le opere sono collocate tra zone esterne e vani interni nei due livelli del mitico fortilizio medievale voluto da Federico II. Nino Longobardi cresce artisticamente e vive negli anni d’oro dell’arte a Napoli, città generosa e fertile per una rinascita culturale creativa, crocevia di eventi, scambi, incontri artistici: Joseph Beuys, Andy Warhol, Robert Rauschenberg, Francis Bacon, Alberto Burri, Lucio Fontana. Lucio Amelio. E poi arrivano gli anni delle esposizioni in Germania, in Spagna, in Svizzera e in giro per l’Europa. E dopo, ancora, le mostre in America. Al centro di tutta la ricerca di Longobardi c’è il corpo umano maschile, un corpo versatile, disponibile, adattabile, che per l’artista non è mai rappresentativo di potenza, piuttosto, come egli spiega: “richiama il mondo delle idee … i kouros greci o anche i disegni di Leonardo. … qualcosa di molto terreno, saldato all’idea della vita e della morte. Ancora oggi, disegni e sculture sono legati a un concetto di catastrofe in me molto presente. Un distruggere per ricostruire. Gli artisti più rappresentativi sono tutti in qual-

che modo portatori di un sentire tragico. Tutta l’arte è piena di catastrofi.” E difatti, l’artista porta nelle sue opere un significativo rigore segnato dalla problematicità dell’intreccio tra tempo, storia, memoria, materia, spazio. Mediante un linguaggio severo e tecniche molteplici – dal disegno alla pittura alla scultura spesso coniugate in soluzioni ambientali installative – la sua ricerca espressiva lascia emergere figurazioni ambigue e corpi incerti dai confini labili tra Storia e Natura. Una sensibilità barocca assiste l’opera di Longobardi – come scrive nel testo in catalogo Bonito Oliva – che si affida alla stabilità iconografica della figura per “marcare la soglia, il solco che separa l’apparizione dell’arte da altre apparizioni. La qualità specifica, la sua connotazione, risiede nel suo essere esplicitamente apparenza. Un’apparenza che indossa continuamente particolari travestimenti, che inducono lo sguardo a rimanere abbagliato e attraversato da un lampo di nuova conoscenza.” Dunque, nelle opere dell’artista partenopeo, ogni immagine introduce un’attesa, una sorpresa per gli occhi e per il pensiero. Ben lo vediamo nella serie delle “Testa di poeta” e “Testa di attore tragico”, bronzi di teste calve, con gli occhi chiusi e dai

Nino Longobardi, Profeta, courtesy Nova Apulia Nino Longobardi, foto Fulvio Ambrosio, courtesy Nova Apulia

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Nino Longobardi, Testa di Poeta. courtesy Nova Apulia

Nino Longobardi, Castel Del Monte foto di Fulvio Ambrosio, courtesy Nova Apulia

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

tratti somatici semplificati, poste erette o coricate, attraversate da crepe, fratture, gocciolature che deformano i volti. In “Coro” quattro teschi in argilla chiara sono posti su un’unica lastra in ferro con le mandibole deformi. In “Dante e Virgilio” due mani aperte in bronzo reggono altrettanti teschi che sembrano scivolati da una fascina di legna arsa. In “Fibonacci 1” e “Fibonacci 2” su letti di ferro, forme maschili multiple – affiancate o parzialmente coperte dalla serie numerica progressiva del noto matematico pisano – mostrano calchi gessosi frammentati, pezzi di anatomie d’argilla miste a brandelli confusi di scheletri spezzettati. Ancora: in “Senza titolo” il disegno stilizzato di un grande nudo maschile è attraversato da veri chiodi di ferro rugginoso. E se nell’elegante cortile ottagonale, fronteggia il cielo un monumentale “Cristo” nella posizione della crocefissione, in resina

Nino Longobardi, foto Fulvio Ambrosio. courtesy Nova Apulia

Nino Longobardi, Tromba di Eustachio. courtesy Nova Apulia Nino Longobardi, Entrechat B. courtesy Nova Apulia

bianca, mancante dei quattro arti sostituiti da attorcigliati e robusti fili di ferro, tra le numerose installazioni site specific poste nelle sale, l’ultima (forse la sala da letto dell’imperatore svevo?) è un evidente omaggio al sovrano svevo. “Gute Shlafen Federico” (buona notte e sogni d’oro …) presenta un’installazione in argilla, ferro e tessuto dove sotto un letto spartano si affollano teste, piedi, mani, teschi, membra e ossa varie, pezzi di calchi in negativo e positivo, con chiara allusione al potere – sulla Storia e sui Popoli – di Federico di Hohenstaufen imperatore del Sacro Romano impero. La mostra rientra nell’offerta espositiva del Polo Museale della Puglia, diretto dall’architetto Fabrizio Vona, e si avvale del coordinamento di D.A.F.Na. Gallery di Napoli. Maria Vinella Nino Longobardi, Senza Titolo B. courtesy Nova Apulia

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Piero Gilardi, Nature forever, allestimento al MAXXI.

MAXXI, Roma

Piero GILARDI Nature forever

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iscutendo del lavoro di Piero Gilardi il pensiero corre subito ai suoi “tappeti natura” ed è difficile trovare fra amici e conoscenti, appassionati, come noi, d’arte contemporanea, qualcuno che non sia d’accordo sullo straordinario equilibrio tra immagine e contenuto che essi seppero a suo tempo istituire. Quando ci si occupa di questo fortunato ciclo di opere, nato e conclusosi, (o forse sarebbe meglio dire volutamente interrotto, nella seconda metà degli anni ’60), tutti, infatti, sembrano sapere di cosa stanno parlando e tutti sembrano avere davanti agli occhi lo stesso oggetto visivo nitido e piacevole ad un tempo, mentre le cose, quasi sempre, si complicano se ci si prova a spostare in avanti il discorso per accostarsi alle ulteriori tappe della ricerca dell’artista torinese progressivamente sempre più legate

Piero Gilardi nel suo studio, Ritratto di Pino Falanca.

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all’impegno civile e politico e alla relazionalità dell’intervento estetico; e questo anche se andando a verificare i documenti a disposizione ci si accorgerebbe facilmente di come titoli e materiale icongrafico rivelino sempre una stessa felice attitudine alla pregnanza comunicativa e ad una nettezza formale appena ammorbidita da una gradevole, intrinseca, tensione ludica. Nel varcare la soglia delle sale riservate dal MAXXI alla mostra “Nature for ever” dedicata appunto alla produzione di Gilardi dagli esordi ad oggi, tra le mie curiosità non nego ci fosse anche quella di vedere se i curatori (Hou Hanru, Bartolomeo Pietromarchi e Marco Scotini) avessero riscontrato anche sul piano del confronto diretto tra i materiali dei diversi periodi in gioco, un qualche analogo effetto squilibrante ed avessero posto in essere una qualche strategia espositiva ad hoc per esorcizzarlo. Forse mi sbaglierò, ma la mia impressione è che non ci sia stato bisogno di nulla del genere, ovvero che tutte le opere del nostro autore, sia quelle pensate per essere presentate al pubblico e immesse nel grande circuito della comunicazione come oggetti d’arte mercificabili e tesaurizzabili a


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Piero Gilardi, Vestito Natura Sassi, 1967 - cm. 70x180 - poliuretano espanso - collez. Fondaz. Gilardi - photo Peter Cox.

livello collezionistico, sia quelle nate invece esclusivamente per fare da supporto ad azioni creative non più fondate sulla triangolazione opera-pubblico-mercato, abbiano la stessa capacità di imporsi alla nostra attenzione in quanto prodotti di una intenzionalià forte e determinata perfettamente supportata dalle propensioni espressive del proprio autore, che resta la stessa persona anche laddove impara progressivamente a disincagliarsi dalla propria individualità di partenza impostagli, suo mal grado, dai meccanismi del condizionamento sociale consustanziale all’economia capitalistica nel cui alveo si è trovato a nascere. Una impressione la mia che potrebbe avere diverse spiegazioni. La prima è che i “tappeti natura” fossero sì mercificabili, ma proprio con il loro modo intelligente e sottilmente paradossale di porsi all’incrocio fra una Pop Art destinata ad inflazionarsi, un Iperrealismo condannato all’isolamento e una nascente Arte Povera candidata ad incarnare la protesta politica che di li a poco sarebbe esplosa, riuscissero ad avere insieme la capacità di smascherare il passato da archiviare e quella di emblematizzare le direzioni di lotta da imboccare nei tre settori distinti ma non separabili del nostro rapportarci con la natura, con la tecnologia e con l’uomo aperto solo a forme di rinnovamento solidale. Una spiegazione questa alla quale non è necessariamente alternativa quella secondo cui anche se vanno intesi solo come supporti di manifestazioni, cortei o altre azioni di protesta, tutti i materiali creati nella seconda fase del lavoro del nostro artista, proprio perché progressivamente testati su di una strategia basata non sul l’iconizzazione di nuove forme di mitologia partecipativa, ma sulla disponibilità a trasformare sempre se stessi in funzione di ogni nuova forma di autoconsapevolezza conquistata, anch’esse abbiano acquisito una sorta di virtus comunicativa capace di permanere oltre l’azione e crescere su se stessa. Quanto al posibile legante tra le suddette ipotizzate qualità esternate dall’aspetto comunicativo del lavoro di Gilardi, ovviamente, non potrebbe che esserci quella indomita coerenza teorica che lo ha portato ad essere sempre presente in anticipo insieme alle figure più rappresentative della ricerca artistica nei momenti di discussione nodale più stringente dell’ultimo mezzo secolo, distinguendosi ogni volta per la difesa di una serie di principi che, in qualche modo, potrebbero essere fatti convergere tutti in un solo assunto: se accetti che l’attività artistica si riversi, a conti fatti, in una creazione di cui resterà solo la scoria linguistica eternata nella sua superficie, ti sei già arreso, e sei già appeso ad una parete di museo come tante altre opere la cui carica rivoluzionaria ed innovatrice è spenta per sempre. Paolo Balmas

Piero Gilardi, Mare, 1967.

Piero Gilardi, Expo Milano, 2015.

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TV 70-Francesco Vezzoli guarda la Rai, foto Delfino Sisto Legnani e Marco Cappelletti

Fondazione Prada, Milano

Francesco VEZZOLI TV 70: Francesco Vezzoli guarda la Rai

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n percorso profondo alla ricerca del sé, volto alla riscoperta degli archetipi che hanno partecipato a formare l’identità della società postmoderna in cui introspezione e narrazione condivisa si mescolano sullo sfondo dell’immaginario collettivo che la Rai – Radio Televisione Italiana – grazie ai suoi numerosi e diversificati programmi, ha contribuito a forgiare e plasmare. Francesco Vezzoli (Brescia, 1971) mette in scena presso gli spazi milanesi della Fondazione Prada il suo progetto di studio sociologico: una sorta di story-board che si visualizza e prende corpo frame per frame, tramite la continua alternanza e successione fluida di documenti immateriali provenienti dagli archivi delle Teche Rai relativi agli anni ’70 – decennio in cui il flusso televisivo ha segnato l’infanzia e l’adolescenza dell’artista – accostati alla materialità di dipinti, sculture e installazioni provenienti dal mondo delle arti visive. L’artista concentra l’attenzione sul processo relativo al “rito del guardare”, a come l’ingresso dell’apparecchio televisivo all’interno delle nostre case abbia modificato in maniera irreversibile e radicale il nostro modo di pensare e la nostra percezione, rendendoci però non osservatori passivi, bensì voyeur intenti a cogliere lo sviluppo estetico e pedagogico che questo mezzo ha comportato nella crescita civile e culturale del paese. Infatti la mostra sviluppa tre diverse tematiche e si articola in altrettanti spazi della fondazione – occupando interamente la galleria Nord, il Podium e la galleria Sud – ponendo in rapporto e confronto la relazione della televisione pubblica italiana degli anni ’70 con l’arte, la politica e l’intrattenimento, culminando nello spazio del Cinema con l’opera-omaggio di Vezzoli Trilogia della Rai (2017). Tv 70: Francesco Vezzoli guarda la Rai viene percepita come un’installazione a 360°, in cui l’occhio, la mente e il corpo dello spettatore sono continuamente coinvolti e sollecitati in un percorso

sensoriale che innesca nuove chiavi di lettura e apre verso altre prospettive. Così ci si ritrova a passeggiare in un’alternanza di luce e buio tra le opere di Pistoletto, Boetti e De Chirico mentre gli stessi artisti sono protagonisti di programmi televisivi come Vidikon. Settimanale d’arte oppure Come nasce un’opera d’arte, per poi venire catapultati in uno spazio angusto e labirintico dove l’insieme di estratti di telegiornali ci bombardano di notizie che ben illustrano il clima di terrore che vigeva nei cosiddetti “anni di piombo”, anni di agitazioni e proteste sociali in cui la figura della donna ha occupato un ruolo centrale, diventando poi protagonista indiscussa di tutta la sezione “Intrattenimento e televisione” in cui le opere d’arte fanno da sfondo alla proiezione di filmati in cui il corpo femminile diviene immagine idealizzata e mitica ma in maniera attiva e cosciente. Nel suo insieme questo articolato progetto, tanto è denso, quanto allo stesso tempo lascia che una serie di riflessioni possano germinare e concretizzarsi in un’avventura del pensiero che viaggia all’infinito grazie alle libere associazioni di idee, le quali si combinano in una serie sempre differente di possibilità; dunque una mostra con più livelli di lettura che però esige “la vita in diretta” affinché si possa sperimentare e apprezzare la potenza del vivere l’attimo, hic et nunc. Angela Faravelli Palazzo della Triennale, Milano

La Terra Inquieta

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urare una mostra dedicata a un tema così “caldo” come l’immigrazione è un’impresa estremamente complessa, che presta facilmente il fianco a numerose critiche sia di carattere politico che culturale. Massimiliano Gioni riesce tuttavia ad aggirare questo pericolo attraverso l’impostazione enciclopedica, divenuta ormai da anni suo specifico timbro stilistico. L’intento del curatore è infatti quello di affrontare il tema dell’immigrazione attraverso una pluralità di punti di vista e di approcci differenti, allo scopo di rendere al meglio la straordinaria complessità e l’eterogeneità di questo spinoso argomento. Il risultato, come spesso avviene per le creazioni di Gioni, è un caleidoscopio, un’esperienza estremamente ricca e stratificata, dove opere e oggetti provenienti dai più svariati angoli del mondo concorrono alla creazione di un babelico coro di racconti, interpretazioni e grida di denuncia. Sala dopo sala questa complessa creatura prende forma, offrendo allo spettatore le più svariate letture del problema in oggetto. Dalle urlanti fotografie di denuncia vincitrici del premio Pulitzer 2016 si passa alla silenziosa testimonianza di bacheche che ospitano documenti, oggetti e fotografie personali sopravvissute a un naufragio. Allo spettatore viene lasciata la preziosa possibilità di crearsi un proprio percorso e una personale lettura del problema.

Rosa Barba, From Source to Poem to Rhythm to Reader, veduta della mostra, Pirelli HangarBicocca, Milano, 2017. Courtesy dell’artista e Pirelli HangarBicocca, Milano. Foto: Agostino Osio

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Francis Alÿs con Julien Devaux, Felix Blume, Ivan Boccara, Abbas Benheim, Fundaciéon Montenmedio Arte, bambini di Tanger e Tarifa, Don’t Cross the Bridge Before You Get to the River, Stretto di Gibilterra, 2008, courtesy l’artista e David Zwirner, New York/Londra

In una mostra così articolata e poliglotta, sempre in equilibrio sul limite tra installazione e testimonianza documentaria, le voci più interessanti sono tuttavia quelle che accarezzano la sottile poesia nata dai cortocircuiti innescati tra il dramma dell’esperienza del migrante e la sua interpretazione estetica, capaci di amplificare o smorzare il potenziale drammatico delle singole, e spesso tragiche, esperienze, avvicinandole all’occhio altrimenti distaccato dello spettatore. È questo il caso di una delle prime sale che ospita Don’t Cross the Bridge Before You Get to the River (2008), installazione dell’artista belga Francis Alÿs. Su due schermi posti l’uno di fronte all’altro viene proiettato un video che mostra un gruppo di ragazzi in fila indiana nell’atto di attraversare una spiaggia ed entrare in mare impugnando delle piccole barche a vela giocattolo con gli scafi ricavati da semplici scarpe o pantofole. Più la marcia procede in mare più le difficoltà aumentano, a causa del sempre maggiore livello dell’acqua. D’improvviso le voci scherzose e le risate dei ragazzi sono interrotte da brevi stacchi d’immagine, che mostrano delle confuse riprese subacquee della scena,

dominate ora da un lugubre silenzio. Il dramma dell’immigrazione viene trasposto nelle immagini di un gioco infantile, creando una raffinata e suggestiva dialettica tra la spensieratezza di questi ragazzi e il destino, spesso drammatico, verso cui si infrangerà la loro innocenza. Al secondo piano si incontra il momento forse più intenso dell’intera esibizione: dopo una successione di grandi opere di Alighiero Boetti, Andrea Bowers e Liu Xiaodong, si entra in una stanza stretta e lunga in cui, sotto il vigile occhio della Migrant Mother di Dorothea Lange, si dispongono una serie di registri che riportano tutti i nomi dei migranti deceduti in una serie di naufragi. Quelle che nascono come due testimonianze meramente documentarie vengono messe in dialogo diretto, trasformandosi quindi in una toccante sintesi di tutta l’esperienza della migrazione. La tensione nasce tra il tenace istinto materno dello sguardo della donna fotografata e il dramma anonimo a cui è condannata la maggior parte dei nomi trascritti su questi elenchi, quasi sempre segnalati dalla muta sigla: N/N (No Name). Duccio Nobili

Hangar Bicocca, Milano

strazione alla fruizione delle installazioni multimediali. Dalle opere presentate in mostra (a cura di Roberto Tenconi) emerge una tematica fondamentale nella quale l’artista scava in profondità per svilupparne tutte le potenzialità evocative e narrative: la memoria. La memoria non è qui intesa come un semplice bagaglio di esperienze biografiche, ma come una condizione caratteristica e una chiave di lettura per ogni aspetto del reale. É così che dei paesaggi umani (Subconscious Society. a Feature, 2014), quando vengono svuotati o rivelati nella loro fatiscenza, proiettano lo spettatore in una dimensione atemporale in cui passato, presente e futuro si mescolano. Allo stesso modo, anche i depositi di un museo o gli archivi (From Source to Poem, 2016) assumono l’aspetto di particolari paesaggi umani. Entrambe queste situazioni fanno perno sul concetto del manufatto, architettonico, artistico e documentario, come di un archivio della memoria, capace di conservare il ricordo di un passato che continua ad agire sul presente come incessante spunto narrativo per il futuro dell’uomo. Un altro tema fondamentale è la concezione del film come trascrizione di una realtà in divenire, e in questo senso la scrittura assume l’emblematico ruolo di creazione progressiva di immagini, concetti e suoni. Il codice simbolico del linguaggio viene infatti letto contemporaneamente su più livelli, come trasmissione di contenuti, come spartito musicale o come semplice grafia visiva (A Home for a Unique Individual, 2013; Hear. There. Where the Echoes Are, 2016). Rosa Barba lavora prevalentemente con il film, che nelle sue mani diventa una narrazione complessa capace di riflettere al tempo stesso sui significati della testimonianza cinematografica e sulla validità, oltre che sugli statuti stessi, del linguaggio come strumento di memoria e comunicazione. Duccio Nobili

Rosa BARBA

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uella di Rosa Barba all’Hangar Bicocca si presenta come una operazione molto particolare. Una mostra costituita prevalentemente da installazioni audiovisive che riesce tuttavia a nutrirsi e potenziarsi della peculiarità del luogo in cui viene allestita. Gli immensi ambienti dello Shed vengono infatti totalmente oscurati, proiettando lo spettatore in una caverna post-industriale nella quale l’unica luce a guidarlo è quella dei variopinti fasci luminosi che dai proiettori si espandono su appositi supporti messi in dialogo con la specificità dell’ambiente. Un’atmosfera intensamente cinematografica, cara all’artista, nella quale non viene lasciato spazio ad alcun elemento di di-

Rosa Barba, A Shark Well Governed, 2017 (particolare). Courtesy dell’artista; Vistamare di Benedetta Spalletti, Pescara e Pirelli HangarBicocca, Milano. Foto: Agostino Osio

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MAST, Bologna

La Forza delle Immagini Una selezione iconica di fotografie su industria e lavoro

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a Forza delle Immagini, la grande rassegna a cura di Urs Stahel, allestita nelle sale della Fondazone MAST a Bologna, si presenta imponente per il numero di opere esposte, significativa del lavoro svolto fino ad oggi dalla Manifattura di Arti Sperimentazione e Tecnologia nell’indagare il tema dell’industria presentandone le numerose sfaccettature. La riflessione sul significato dell’attività industriale nell’economia, nei modelli di vita e nel paesaggio sia del nostro occidente che del mondo globalizzato, è documentato dai differenti sguardi dei vari autori, tutti attivi tra le prime decadi del Novecento e le quasi due del nostro secolo. Svariati di conseguenza appaiono le grandezze e i metodi realizzativi riguardo alle opere esposte: si osservano stampe cromogeniche o ai sali d’argento alternarsi alle carte baritate o ai getti di inchiostro dei moderni plotter. Allo stesso modo opere piccole per dimensione, prodotte soprattutto nel secolo scorso si dispongono accanto ai grandi formati dell’era digitale. La forza delle immagini si compone interamente di opere appartenenti alla raccolta cominciata dalla Fondazione cinque anni fa, costituita da lavori realizzati tra il 1860 e l’epoca odierna. In collegamento a ciò la mostra nel suo insieme vuol condurre lo spettatore a una più generale riflessione sul valore di un archivio o di una collezione. All’interno di una raccolta, una fotografia documenta fatti, circostanze legati ad un tempo e a un luogo precisi; testimonia inoltre gli ideali e la visione estetica che caratterizzano un momento storico. Il racconto di tutto ciò di fronte a chi la osserva non si esurisce tuttavia in un discorso a senso unico, il rapporto opera-spettatore assume piuttosto la connotazione di un dialogo dove quest’ultimo pone in campo la propria visione delle cose e i valori del suo tempo. Le opere di una collezione raccontano dunque una storia sempre nuova, ci offrono varie e imprevedibili versioni dei fatti legate alla coscienza di chi osserva, alla visione di chi gli elementi li dispone e ordina. Una visione che non ignora però la necessità di meditare sul rapporto tra uomo e macchina, sulle conseguenze del passaggio tra lavoro manuale e automazione, sull’urgenza di trovare una dimensione umana al sistema economico dentro il quale l’industria opera. Luci e ombre relative alle modalità di produzione e distribuzione della ricchezza nel nostro pianeta sono pienamente espresse nelle opere degli autori in mostra, a partire da quelle di Colin Jones, Graham Smith e Rudolf Holtappel disposte all’ingresso della sala. Qui foto di genere documentario eseguite tra gli anni ‘50 e gli anni ‘70 presentano temi e motivi ripresi diversamente nelle opere degli altri fotografi. Ricordiamo quindi la rappresentazione esterna degli stabilimenti, che appaiono spesso isolati, dove è assente persino la figura umana. E’ il caso delle opere di Berenice Abbott, Eduard Steiken, Charles Shleer, Thomas Demand o i coniugi Becher. Con quiesti lavori ci troviamo di fronte a veri e propri “ritratti” di fabbrica, dove sono indagati l’impatto visivo ed emozionale dell’insieme. Vengono qui osservati anche l’aspetto architettonico e le potenzialità estetiche delle strutture nelle quali sono identificate linee di forza e geometrie. Grossi tubi, elementi legati al mondo della produzione, scorci

Edgar Martins

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Thomas Demand

Rudolf Holtappel

industriali suggestivamente ambientati li ritroviamo nelle opere di Nino Migliori, Gabriele Basilico, Shomei Tomatsu, Jakob Tuggener, Masahisa Fukase. Appare manifesta in queste fotografie la volontà di indagare il rapporto tra fabbrica e ambiente circostante ma soprattutto appare più marcata la soggettività dello sguardo di chi opera. Una visione più ampia sul rapporto tra industria e contesti umani con riferimento all’economia del mondo globalizzato appare nell’opera Mezzogiorno di Fuoco di Jim Goldberg che ci mostra, nella discarica di Daka, in Bangladesh, un uomo che si preoccupa di separare i cadaveri di animali dagli altri rifiuti. Jules Spinatsch, Takashi Arai, Edgar Martins, Beate Geissler/Oliver Sann, Henrik Spohler, Thomas Struth ci presentano in vario modo gli interni di questi templi della produzione dove grandi impianti dall’aspetto ostile si accompagnano a rappresentazioni celebrative dei prodotti, dove spazi asettici o atmosfere surreali cedono il passo all’astrazione delle forme. La volontà di soffermarsi sull’aspetto umano riguardo ai temi di lavoro e produzione, proviene dagli sguardi di Richard Avedon, Kiyoshi Niiyama, Margaret Bourke-White, Ferenc Haàr, Sebastião Salgado, Brian Griffin, Anton Stankowski. La figura umana in alcune di queste foto ci appare isolata, lo sguardo di questi individui sembra spesso consapevole della loro condizione nel mondo, altre volte invece sembra interrogativo riguardo al senso del proprio agire. In altre occasioni osserviamo individui intenti nelle loro attività, persone che svolgono lavori di fatica oppure”colletti bianchi” ai vertici delle proprie aziende. Facendo riferimento all’umanità presentata dalle opere in mostra la riflessione sul rapporto tra uomo e lavoro vuole qui giungere a una riflessione più generale sull’esistenza, dove l’attività umana assume una connotazione immensamente positiva. Ricordando il pensiero sartriano connesso all’idea di azione come ineluttabile destino dell’individuo, il curatore della mostra Urs Stahel pone in evidenza l’assoluta libertà alla quale gli esseri umani, quindi gli uomini delle immagini esposte, sono soggetti. Al principio secondo il quale l’agire dona all’esistenza il suo senso più profondo, si agganciano quindi parole del critico, che nel presentare la mostra definisce il lavoro come “una grande fabbrica che produce identità”. Francesca Cammarata


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Julia Margaret Cameron, Julia Jackson (1867), albumina

Florence Henri, Autoportrait (1936), stampa alla gelatina sali d’argento

Villa Pignatelli, Napoli

maginaria, alla quale, volendo, si può ritornare. Inseguendo una suggestione, Giuliano Sergio affronta le artiste sul terreno delle loro stesse fenomenologie, all’interno di quei luoghi in cui insiste lo sguardo sull’oggetto, nel suo tentativo di conoscerlo e, dunque, di possederlo; le insegue nel momento del fare come risposta ai propri bisogni identitari, operando una riflessione sul femminile che diventa, allora, esplorazione di specifiche intimità e, insieme, scoperta di un universo rosa più autentico, dopo lo scorticamento di tutte le sedimentazioni culturali che lo confondono. Della Julia M.Cameron, donna insolita, al limite della stravaganza per l’età vittoriana in cui vive, è esposta anche la produzione più controversa, pensata per accompagnare il ciclo arturiano di Alfred Tennyson. Con l’esibito recupero dell’iconografia legata alle Sacre maternità delle pale antiche e un uso del fuoco incurante della nitidezza, vòlto invece alla ricerca di effetti memori dello sfumato leonardesco, sembra sfidare il pensiero di un’epoca per la quale l’unico valore riconosciuto alla fotografia è di essere specchio fedele della realtà, cercando, invece, di scavare nelle possibilità di manifestazione e costruzione del femminile. Un viaggio artistico ed esistenziale insieme, così simile – assecondando il gioco delle suggestioni al quale il curatore ci invita – a quello che, molto tempo dopo, sarà affrontato da Cindy Sherman. Con Florence Henri, le esplorazioni azzardate dalla Cameron acquistano una dimensione più privata e diventano scavo all’interno di una singola identità. Allieva di Kandinskij in quel suo conoscere il mondo attraverso «[…] elementi astratti: sfere, piani, griglie le cui linee parallele mi offrono grandi risorse […]», forgia una chiave di lettura della realtà che non è più rappresentazione, ma manipolazione intellettuale: la sua. Moltiplicazione di punti di vista e forme, frammentazione delle immagini e degli oggetti, il gioco delle ombre proiettate in modo da condurre chi guarda sulle strade perigliose d’interpretazioni incerte e destabilizzanti, sono gli espedienti linguistici adottati dalla francese. E infine Francesca Woodman, un’equazione ancora da risolvere: durante gli anni Ottanta, il suo corpo nudo, suicida rispondeva bene alle motivazioni femministe dell’arte; ma già nel decennio successivo il suo contributo ha cominciato a rivelare altre possibilità di lettura che, seppur non in grado di esaurire il discorso su questo talento consumatosi troppo precocemente, sicuramente aiutano a scongiurare le insidie del mito. Lo sa bene Giuliano Sergio, che svicola il pericolo di trattare un’artista così complessa esponendo anche la produzione fatta di provini e appunti dell’artista, punteggiatura fondamentale per ricostruire il grande racconto. Utilizzando il corpo in relazione all’ambiente naturale, confondendolo con lo spazio circostante, la Woodman gli affida il compito di essere simbolo di perenne rinascita, quasi a dire che proprio liberandosi della necessità di essere riconoscibile si sperimentano tutte le possibilità dell’esistenza: Madonna come la Cameron, concetto come la Henri. Carla Rossetti

L’arte del femminile o il femminile dell’arte

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e sale al primo piano della Villa Pignatelli di Napoli, da qualche anno divenute Casa della Fotografia, ospitano una mostra dal titolo: L’arte del femminile. Julia Margaret Cameron – Florence Henri – Francesca Woodman. Attraverso i viali del bel giardino all’inglese progettato da Guglielmo Bechi con il timore di trovarmi dinanzi l’ennesima operazione curatoriale che, lavorando sull’identità di genere dell’atto creativo, ricerca un antagonismo tra maschile e femminile, invece di attraversarne le singole specificità. L’iniziale reticenza è però subito scongiurata, già nella prima sala, dove tre donne in bianco e nero siedono l’una accanto all’altra nello spazio grigio e indefinito di una fotografia: eccola l’ideale foto ricordo delle tre matrone di questa mostra, in un dialogo sognato – come spiega il comunicato stampa recuperato a fine percorso – che si beffa delle distanze storiche e biografiche. Un dialogo non ha bisogno di vicinanze fisiche: anche se l’allestimento privilegia, infatti, un’andatura diacronica e biografica, ogni immagine fa cadere la precedente, che però resta fissata nella sua invisibilità come presenza im-

Francesca Woodman, Untitled (1977-1978), stampa alla gelatina sali d’argento

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Massimo Campigli, La tazza di the, 1940.

Palazzo Fava, Bologna

Costruire il Novecento Collezione Giovanardi

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ostruire il Novecento, la mostra allestita nel piano nobile di Palazzo Fava a Bologna in modo da occuparne l’intero spazio, consente lo sguardo sulla storia dell’arte italiana nel periodo compreso tra le due guerre, della quale riporta significativi scorci. La rassegna a cura di Silvia Evangelisti, promossa da Genus Bononiae e Cassa di Risparmio in Bologna, documenta momenti salienti di quanto è accaduto nell’ambiente milanese durante il periodo esaminato, senza tuttavia trascurare la realtà dell’area emiliana, territorio di origine di Francesca e Augusto Giovanardi, gli autori della ricca collezione di cui si compone la mostra. Costruire il Novecento, è infatti dedicata ai due colti e illuminati collezionisti vissuti tra Bologna e Milano le cui opere vengono ospitate in un museo bolognese per la prima volta tutte assieme. L’esposizione vede il percorso diviso in tre sezioni ciascuna corrispondente a una precisa area tematica. Gli artisti in mostra portano i nomi di conosciuti protagonisti del Novecento italiano, testimoni delle avanguardie e del clima che seguì queste ultime. Osserviamo infatti tra una tela e e l’altra pennellate di ricordo espressionista, forme scomposte e composizioni dove agevolmente si leggono influenze legate al surrealismo o all’astrattismo. Ci viene raccontata al contempo la fase del “ritorno all’ordine” che domina il primo dopoguerra per essere guidati infine nella terza sezione della mostra dove scorgiamo il vacillare di stesure e contorni che tra la fine degli anni ‘30 e l’inizio degli anni ‘40 posso essere considerate un preludio all’Informale. L’esposizione si apre presentandoci due differenti personalità attive nel territorio bolognese come Giorgio Morandi e Osvaldo Licini, le cui opere sono disposte all’interno di una sala appositamente dedicata. Qui dominano colori pacati e una resa formale diversificata nelle opere dei due artisti, tutte comprese tra il secondo decennio del Novecento e i primi anni ‘60. Si indovinano gli influssi delle maggiori correnti che attraversarono l’Europa e il nostro paese nella prima metà del secolo, viene percepita la diversità delle scelte stilistiche da parte dei due autori. Una visione differente del fare pittura che include anche l’approccio all’astrazione e dalla quale osserviamo, in generale, Licini poco ancorato all’universo naturalistico, serrato invece appare il legame di Morandi con la realtà. Nella seconda sezione della mostra ci spostiamo nel territorio milanese dove vediamo protagonisti Massimo Campigli assieme a Mario Sironi e Carlo Carrà, entrambi reduci dall’esperienza del Futurismo. Dominano qui i temi dello spazio e del paesaggio che vedono incluso un certo interesse per 52 - segno 263 | GIUGNO/LUGLIO 2017

la realtà sociale. Questa sala della mostra è dedicata all’influenza della pittura murale sui metodi del fare pittura o ai risultati di un confrontarsi della pratica pittorica con l’architettura. Questa tendenza segna la rivisitazione di metodi o forme espressive del passato come l’affresco e vede nascere l’interesse per la pittura dell’antichità. Tale fenomeno risulta dominante negli anni ‘30, incoraggiato dalla politica mussoliniana che promuove la costruzione di numerosi edifici e strutture pubbliche dove i pittori trovano spesso occasione di intervenire. Il confronto con lo spazio e l’universo sociale avviene in modo diverso tra gli artisti presenti in sala: osserviamo il prevalere paesaggi e composizioni dichiaratamente architettoniche, nel caso di Mario Sironi mentre figure umane soprattutto femminili, sono il soggetto prevalemte di Massimo Campigli, nella cui esecuzione si indovina il confronto con la pittura pompeiana, con l’arte etrusca e bizantina. Il paesaggio marino risulta motivo dominante nelle opere di Carlo Carrà che abbandonati i dettami della pittura d’avanguardia torna alla forma solida, alle stesure compatte e alla resa dei volumi mediante il chiaroscuro. Il sogno e la terra è il titolo dell’ultima sezione della mostra che vuol documentare i diversi approdi a una rappresentazione più astratta seppure in generale ancorata alla natura. Si osservano in questa parte della mostra forme vacillanti e stesure meno compatte, superfici dal diverso spessore e qualità. Questi tratti pongono in risalto i due temi associati a quest’ultima sezione che vede i suoi autori divisi in “artisti della terra” e “artisti del sogno”. L’opera dei primi è caratterizzata da stesura dense, spessori materici alternati da pennelate di impronta espressionista, nel secondo caso invece dominano l’evanescenza delle figure, il prevalere del segno sulle campiture e una grande sintesi nella resa formale. I nomi che compogono quest’ultima parte sono quelli di Mafai, Tosi, Rosai, De Pisis, Breveglieri, Semeghini. È Mauro Reggiani a chiudere l’esposizione con superfici astratto geometriche che testimoniano l’accomiatarsi dalla rappresentazione del mondo che ci circonda. Genus Bononiae in occasione della mostra Costruire il Novecento rende omaggio alla Collezione Giovanardi proponendo diverse opere scultoree appartenenti al proprio patrimonio. Queste sculture, che vogliono essere rappresentative dei decenni raccontati dalla rassegna pittorica, sono opere di Arturo Martini, Lucio Fontana, Fausto Melotti, Giacomo Manzù, protagonisti assoluti, al pari dei pittori esposti nelle sale piano nobile, dello sviluppo artistico del nostro paese nel secolo a noi più vicino. Francesca Cammarata

Osvaldo Licini, Amalassunta, anni ‘40-’50 Olio su tela cm 19,5x28. Mario Mafai, Demolizione all’Augusteo, 1936.


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Palazzo Albizzini, Città di Castello

L’Opera Grafica di Burri in una nuova sezione della Fondazione

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on l’apertura del terzo Museo della Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri, dedicato esclusivamente all’intero corpus dell’opera grafica di Alberto Burri, il 12 marzo scorso, in occasione della ricorrenza della sua nascita, si è concluso l’anno “lungo” del Centenario con l’apertura di una nuova fase della vita della Fondazione. L’inedita sezione agli ex Seccatoi occupa infatti oltre quattromila metri quadri, tutti ottenuti da un recente intervento di riqualificazione di parte degli spazi sottostanti in vasti ambienti che accolgono, secondo l’originario allestimento predisposto dallo stesso Burri, i suoi Grandi Cicli d’opera. Con questo ingente nucleo di opere grafiche, la superficie espositiva offerta ai visitatori negli ex Seccatoi raggiunge gli undicimila e cinquecento metri quadri. Con le tre diversificate raccolte, comprensive anche delle sculture all’aperto, complessivamente, il “Polo Burri” a Città di Castello è il più esteso Museo d’Artista al mondo ed è anche uno dei più importanti luoghi del contemporaneo in Europa. La nuova sezione, o Terzo Museo Burri, accoglie e propone l’intero repertorio grafico e di multipli dell’artista, consistente in oltre duecento opere. Si tratta di un importante aspetto della produzione artistica di Burri, che a volte precorre, a volte segue e in altri casi è coeva con le sue opere maggiori e pone in evidenza anche la sua straordinaria manualità e attitudine alla sperimentazione costante. L’esecuzione di queste opere in collaborazione con grandi stampatori ha visto l’artista stesso cimentarsi in differenti cicli produttivi che hanno distinto la sua attitudine alla sperimentazione rispetto a quella di altri artisti della sua generazione, tanto in Italia che all’estero. “Nel caso di Burri, - sottolinea Bruno Corà Presidente della Fondazione - parlare di grafica non significa parlare di una produzione minore rispetto ai dipinti, ma soltanto di una modalità artistica diversa e parallela, nella concezione e nell’esecuzione, tale insomma da potersi annoverare con assoluto rilievo nella produzione del grande pittore, a fianco di tutti gli altri suoi rivoluzionari pronunciamenti innovativi. Anche nella grafica, Burri ha cercato di superare sfide tecniche e di spingere i confini sia degli strumenti che dei materiali utilizzati. Con esiti di interesse straordinario, come le opere esposte confermano”. L’attività grafica di Burri ha inizio nel 1950 e si conclude nel 1994. Com’è noto, Burri ha ricevuto nel 1973 dall’Accademia Nazionale dei Lincei il Premio Feltrinelli per la Grafica con la motivazione che essa “... si integra perfettamente alla pittura dell’artista, di cui costituisce (…) una vivificazione che accompagna il rigore estremo a una purezza espressiva incomparabile”. Il Museo Burri della Grafica si aggiunge, come atto conclusivo, alle numerose iniziative del Centenario che ha avuto molte tappe importanti: dalla nuova edizione del Catalogo Generale al compi-

Una veduta della sala n. 3

Alberto Burri, Mixoblack 6, 1988.

Alberto Burri, Serigrafia 2A, 1973-76.

mento del Grande Cretto di Gibellina, alla ricostruzione del Teatro Continuo a Milano, solo per citare gli eventi più importanti. L’impegno della Fondazione è stato profuso anche in ambito espositivo con mostre dedicate ad approfondire e/o rivedere il ruolo di Burri in vari contesti nazionali e internazionali, nonché riportando la Fondazione Burri al centro dell’attenzione internazionale, con convegni che hanno visto confluire nella sua città natale e proprio negli Ex Seccatoi artisti, studiosi, direttori di musei e critici da tutto il mondo per parlare dello stato dell’arte. Sino alla recente mostra “Burri Lo Spazio di Materia / tra Europa e USA”, nella nuovissima parte degli Ex Seccatoi del Tabacco appena recuperata e destinata alla definitiva collocazione museale dell’opera grafica e multipla di Burri. (da cs)

Alberto Burri, Lettere D, 1969.

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Antony Gormley, Fall, 2009. Barra di acciaio dolce di 6 mm a sezione quadrata, 222 x 167 x 185 cm. © the artist Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana. Photo by Ela Bialkowska

Galleria Continua, San Gimignano

Antony Gormley Subodh Gupta Alejandro Campins

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egli spazi di San Gimignano, come di consueto la Galleria Continua propone tre personali dedicate a Antony Gormley, Subodh Gupta e Alejandro Campins, i primi due internazionalmente noti, memtre il terzo, proveniente da Cuba, è alla sua prima mostra in Italia. “Co-ordinate” di Antony Gormley ribadisce lo storico rapporto dell’artista con Galleria Continua, caratterizzato negli anni da importanti eventi partecipativi e da esposizioni. Anche questa volta il percorso realizzato negli spazi, con opere site specific, ha come dato ineludibile l’interazione con lo spettatore in un progetto che “parla con gli altri”, secondo quanto affermato da José-Manuel Conçalves durante la conversazione con lo scultore, tenutasi nei giorni inaugurali. I corpi silenti e le forme di Gormley, ispirati alla socialità ed integrati nel mondo reale, paesaggistico, architettonico ed urbano, presuppongono sempre la presenza e il coinvolgimento di chi osserva, in una progressiva riduzione di distanza fra arte e vita e in una totale assenza di rappresentazione. Duplice è il processo che ruota attorno a questi lavori: da una parte c’è l’artista che partendo da se stesso indaga il corpo soggettivo e interroga vari “siti” di umanità varia e insieme di ambienti diversi; dall’altra c’è il visitatore che si interroga e riflette, spaesato e incerto di fronte all’opera, divenuta così strumento fondamentale di conoscenza e di esperienza personale. Fra i lavori esposti emblematico è Scaffold IV, che con un’asciutta volumetria mappa la figura umana, elemento centrale di investigazione, inserendola nell’ambiente esterno mediante una fitta rete di relazioni talora impercettibili. In Co-ordinate III l’artista abbatte il limite tra autore e osservatore e fa misurare quest’ultimo con uno spazio dissezionato in orizzontale e in verticale da due essenziali ed “esili” barre metalliche sotto alle quali camminare. L’intensa partecipazione di chi guarda è ampliata nell’installazione Lost Horizon collocata nella grande platea dell’ex cinema, trasformatasi nel luogo per eccellenza di attraversamento, di coordinazione e di moto. Lo spettatore , da protagonista, si immerge nel “mare” di oltre 4000 linee di seta che corrono dal soffitto al pavimento, realizzate con 21 chilometri di fune elastica, di diverso spessore, in un gioco di luci naturali e ombre che evitano la benché minima spettacolarizzazione. La straordinaria coreografia spaziale determina vari piani di visione e, attraversandola, fa esperire un

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magnifico senso di smarrimento, nella infinità delle corde tese, prima resistenti, poi vibranti al passaggio: è un’opera questa in cui il binomio inscindibile, nella progettualità di Gormley, fra creazione e percezione è fortemente messo in risalto. Subodh Gupta titola la sua personale con un versetto tratto da poeta indiano Kabìr del XV secolo, In This Vessel Lies the Philisopher’s Stone, il cui significato costituisce il motivo dominante dell’ intera mostra fra sculture, installazioni e acquerelli, quasi completamente site specific, nonché del suo lavoro recente. La pietra filosofale, ricercata da ogni uomo, ha per l’artista varie valenze, è principalmente il “tutto” nel quale terra, cielo e divino sono riconnessi; in questa consapevolezza Gupta diventa l’artefice di procedimenti alchemici che conducono a quell’unità evocata, diventando egli stesso “pietra filosofale” dei nostri tempi. Emblematica in tal senso è l’installazione Long Now elaborata con materiali semplici, nella quale simbolicamente vi è la presa d’atto di una natura offesa e allo stesso tempo l’implicita spinta ad una possibile via d’uscita. La mutazione di oggetti quotidiani , logorati dal tempo e dall’uso, intriganti ready made, in una nuova qualità fisica e visiva è un’altra delle costanti del lavoro dell’artista, laddove un ampio repertorio di cose dismesse e comuni diventa veicolo di esplorazioni galattiche che riconducono all’universo. Un esempio è costituito dalle nove padelle di Navagraha (Nine Planets) che nella disposizione, nel numero scelto e nelle stratificazioni delle differenti superfici si riferiscono ai pianeti. Nove sono anche gli acquerelli di What’s In A Name? in cui è fissato pittoricamente l’attimo precedente la sfioritura di alcuni fiori di un orto botanico indiano ed è reso visibile il limite sottile, fra il prima e il dopo, che vive in natura nei processi di sviluppo delle specie vegetali. In Only One Gold una patata in oro si staglia sul gruppo di tuberi Antony Gormley, Lost Horizon II, 2017 Corde bungee, dimensioni site specific. © the artist Courtesy GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana Photo by Ela Bialkowska.


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Antony Gormley, Co-ordinate, 2017. Veduta della mostra alla Galleria Continua, San Gimignano. © the artist Courtesy the artist and GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana. Photo by Ela Bialkowska

Subodh Gupta, Long Now, 2017. Acciaio, gesso, utensil in bronzo trovati, legno, olio, 183 (ø) x 164 (h) inches. Courtesy l’artista e GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana. Photo by Ela Bialkowska From The Earth, But Not Of It (V), 2016. Vaso in terracotta trovato, acciaio, malta, vetroresina, 132,08 x 92,71 x 64,77 cm Courtesy l’artista e GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana. Photo by Ela Bialkowska

Subodh Gupta, Unknown Treasure, 2017. Ottone e materiali vari, 427 x 122 x 135 cm. Courtesy l’artista e GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana. Photo by Ela Bialkowska

bronzei racchiusi in una scatola di vetro ed emerge mutata nelle sue apparenze e impreziosita, per un processo di trasformazione che l’artista ha impresso a essa, evidenziando la bellezza che esiste nelle umili cose. Nell’esposizione di Alejandro Campins all’Arco dei Becci, titolata Declaración Pública, sono esposti dipinti i cui soggetti riportano a Cuba. Qui dopo la Rivoluzione furono costruiti degli anfiteatri all’aperto per ospitare manifestazioni politiche, poi nel corso degli anni andati gradualmente in disuso e trasfigurati per l’effetto GIUGNO/LUGLIO 2017 | 263 segno - 55


Subodh Gupta, In this Vessel lies the Philosopher’s Stone, 2017. Veduta della mostra alla Galleria Continua, San Gimignano. Courtesy l’artista e GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana. Photo by Ela Bialkowska

degli agenti atmosferici e dell’abbandono. Ripresi dal pittore in grandi tele ad olio acquistano il carattere di luoghi senza una precisa identità, enigmatici e sospesi nel tempo, di vaga ascendenza metafisica, in atmosfere irreali e in dissolvenza. A questa serie fa da riscontro nella piccola nicchia presente nello spazio espositivo un affresco realizzato dal pittore, in cui immagini dai confini netti e dai cieli luminosi, riferitesi implicitamente al ciclo giottesco di Assisi, visitato dall’artista proprio in occasione della mostra, sono un omaggio alla grande pittura italiana e alla “sacralità” racchiusa nell’arte e nel suo fare. Rita Olivieri

Alejandro Campins, Barranca, De la serie Declaración Pública, 2017. Olio su tela, 257 x 390 cm. Courtesy l’artista e GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana. Photo by Ela Bialkowska

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Alejandro Campins, Florida, De la serie Declaración Pública, 2016. Olio su tela, 178 x 260 cm. Courtesy l’artista e GALLERIA CONTINUA, San Gimignano / Beijing / Les Moulins / Habana. Photo by Ela Bialkowska


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Galleria Fumagalli, Milano

Maurizio NANNUCCI What to see what not to see

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opo la grande antologica tenuta al Maxxi a Roma nel 2015, la Galleria Fumagalli presenta la prima mostra personale di Maurizio Nannucci in Italia. L’intero ambiente della galleria è pervaso da cinque nuovi interventi luminosi i quali restituiscono al visitatore un’esperienza sensoriale completa, che va oltre i limiti del visibile, coinvolgendo il corpo e la mente. Infatti, se da una parte l’interazione delle diverse colorazioni delle scritte al neon colpisce la vista penetrando la geometria dello spazio e modificando la percezione dello stesso, dall’altro lato il significato della reiterazione di frasi affermative e negative attiva l’energia del pensiero, sprigionandone la sua illimitata capacità. La riflessione che Nannucci propone con questo progetto dialettico tra due poli oppositivi è senza dubbio in linea con una lettura critica di quella che è la contemporanea “società dello spettacolo” – per dirla alla Guy Debord – la quale si trova in bilico tra una serie di scelte necessarie; dunque, “Cosa guardare e cosa non guardare”? “Cosa dire e cosa non dire”? Gli statement resi letteralmente visibili dall’artista non sono da interpretare come indicatori di verità e giustizia assoluti, bensì il loro intento è “illuminare” e rendere consapevole ogni singolo individuo del fatto che esistono delle alternative, delle possibilità di aprirsi verso l’altro e il mondo, instaurando nuove relazioni all’insegna della libertà di comprensione e interpretazione. Così si può scegliere “cosa ascoltare e cosa non ascoltare”, “cosa amare e cosa non amare”. Ciò che conta è il coinvolgimento diretto, libero e consapevole che deve caratterizzare questo atto di scelta, affinché si giunga alla conquista di sempre maggiori spazi di libertà. Le opere di Nannucci contengono in nuce sia l’aspetto analitico che quello creativo, i quali coesistendo conferiscono alla parola la forza simbolica di un’immagine, grazie al forte impatto ambientale delle visioni impalpabili ottenute con la luce colorata del neon. Il progetto di allestimento è insieme testo, luce e colore che si articolano e mescolano riconfigurando lo spazio, un mix armonioso di trame invisibili, un vero e proprio intervento sul reale che attraverso l’analisi del contemporaneo fornisce una concreata proposta di un percorso sensoriale nell’arte in grado di muovere coscienze e attivare consapevolezze. “Aliquid stat pro aliquo”. Così lo spazio non è solo quello circoscritto della mostra ma si estende coinvolgendo anche quello che è “lo spazio interiore”, lo “spa-

Maurizio Nannucci, What to Hear What Not to Hear

zio della mente”, generando riflessioni che portano all’indagine profonda del proprio essere, aprendo la mente verso prospettive poetiche e innescando tipologie di comportamento critico. “What to feel what not to feel”. Angela Faravelli

Maurizio Nannucci, What to See What Not to See

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Laura Bulian Gallery, Milano

Luca Maria Patella

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a mostra di Luca Maria Patella, a cura di Marco Scotini, si presenta come un’antologica sul lavoro dell’artista dedicato alla scrittura, primo capitolo di una ricognizione e una valorizzazione del lavoro di uno dei primi maestri dell’arte concettuale in Italia. Luca Maria Patella è stato tra i primi artisti europei ad operare con un approccio interdisciplinare, di riscrittura e messa in discussione dei canoni dei vari media, e ad anticipare molte delle tendenze dell’arte successiva. Fra i primi a lavorare con il film, o con le diapositive, e a far consistere una mostra in una serie di ‘azioni’ o di “dimostrazioni”, per dirla con Patella. Come nel film in mostra Terra Animata del 1967 (da cui vengono poi ricavate anche fotografie come opere singole), dove Patella misura gli andamenti di un terreno arato utilizzando un nastro bianco. Quella che voleva essere la documentazione di una performance diventa un lavoro che anticipa azioni concettuali e poveriste successive quando non operazioni di vera e propria Land art, sviluppatasi solo successivamente. O come in Mare firmato del 1965 dove appunto l’artista appone la sua firma a una fotografia del mare in un puro atto concettuale. Ma il focus della mostra si sviluppa soprattutto sul lavoro di Patella che utilizza come medium in primis la scrittura, la parola il linguaggio verbale sia scritto che parlato, non tanto in un’ottica sempre simile a quella della poesia visiva o fluxus (cut up, neo dada), quanto in sperimentazioni assolutamente originali. Si va infatti dai calembour o giochi di parole, come nella serie Lu’ capa tella, dove giocando sul significato del suo nome, Patella raccoglie conchiglie in riva al mare (patelle o telline) – non senza una dose di ironia e gusto del paradosso duchampiano; a frasi che si scompongono e ricompongono sul terreno immortalate con il medium fotografico. Ma la parola si scompone anche fino a perdere la sua connotazione semantica per essere poi esaminata nei suoi fonemi fondamentali, che poi di nuovo trovano campo in schemi ideografici o in fotografie (come in Rosa dice A). Oppure è l’intervento autografo sull’opera che ne costituisce lo sviluppo semantico-concettuale: testi scritti al contrario da leggere nello specchio che li correda, o testi da leggere tracciati direttamente sugli specchi, testi che si sviluppano a spirale, cartografie, schemi. E l’uso dello specchio, così come il titolo autoEncyclopedie, rimanda all’analisi o auto-analisi psicanalitica. Non a caso una delle scritte che compaiono sul terreno recita “Secondo H. S. Sullivan”, in riferimento al creatore della scuola di psichiatria interpersonale. L’arte di Patella, consapevole della ricerca psicanalitica da Jung a Lacan, intende mettere in discussione le strutture semantiche con cui identifichiamo il mondo e noi stessi. La pretesa di Patella, sempre perseguita ironicamente, è quella di porsi come artista “totale” e come tale abbracciare l’intero sapere enciclopedico, dall’arte alla scienza, fondando un nuovo sistema di cognizioni, a partire appunto dall’autoanalisi. Dalla grafica, alla fotografia, alla diapositiva, al film senza dimenticare l’intensa attività editoriale (diversi gli esempi in mostra) di

Luca Maria Patella, Lu’ capa tella, 1973, b/w print on cotton paper, cm 23,5x28, Courtesy Laura Bulian Gallery Luca Maria Patella, Terra Animata, 1967, print on canvas, Cm 100x150, Courtesy Laura Bulian Gallery

oltre sessanta pubblicazioni monografiche e libri d’artista, Luca Maria Patella si conferma tra i più elusivi e poliedrici artisti italiani, finalmente da riscoprire a partire dal focus sulla scrittura nella sua sconfinata produzione. Alessandro Azzoni

Luca Maria Patella, autoEncyclopédie: “la Scrittura”, installation view, 30.03-23.06.17, Laura Bulian Gallery, Milano, Courtesy Laura Bulian Gallery

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

François Morellet, Vedute parziali dell’esposizione © A arte Invernizzi, Milano, foto Bruno Bani, Milano

A Arte Invernizzi, Milano

Francois MORELLET

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un anno dalla sua scomparsa, la galleria Invernizzi dedica a François Morellet una mostra per-sonale che celebra un rapporto di collaborazione e di amicizia ormai ultraventennale. La mostra presenta una selezione di opere realizzate dal 1987 al 2016 che, con il rigore e l’ironia propri dell’artista francese, affrontano un processo di costante verifica e messa in discussione del mo-mento percettivo, portandone alla luce i punti cie-chi e la natura intrinsecamente aleatoria. Se le creazioni di François Morellet sono sempre tese a fornire allo spettatore degli strumenti per decostruire e analizzare la pura geometria alla base del suo lavoro, allo stesso tempo questi ap-pigli sfuggono tra le mani dello spettatore, tra-sformandosi da sostegni in scivolose trappole del-la percezione, capaci di immergere lo sguardo in un’avvolgente e destabilizzante concerto visivo. Un esempio calzante è costituito dalle opere e-sposte nella prima sala della galleria, provenienti dal ciclo 3D concertant (2016), tre grandi tele bianche di forma quadrata sono coperte da una schematica ripetizione di segni che produce una fitta ragnatela ottica costruendo e contemporane-amente ne-

gando un instabile spazio tridimensio-nale. La leggerezza dello scherzo geometrico di-venta poi il cuore concettuale di tutte le divaga-zioni visive di François Morellet, dalla crisi d’identità dei quadrati di Steel Life (1987) fino al grande Lunatique Neonly 4 quarts n° 11 (2000) una grande forma circolare il cui profilo spezzato ricade sulla superficie bianca in una danzante silhouette di neon. Il percorso della mostra conti-nua al primo piano in un viaggio attraverso il ribal-tamento del rigore della forma verso la sua pro-gressiva liberazione in un puro gioco di linee e luce, messo in scena al piano inferiore, che ospita le grandi installazioni della serie ∏ piquant neonly (2006-2008). Una serie di barre al neon si com-pongono a parete in ritmiche e zigzaganti partitu-re luminose che, amplificate dal candore ottico del white cube, diffondono la loro presenza in tut-to l’ambiente, avvolgendo lo spettatore in una si-tuazione percettiva totale, capace di stimolare con l’eleganza della forma e con l’ironica intelli-genza dei titoli e dei processi creativi tanto l’occhio quanto la mente dello spettatore. Duccio Nobili GIUGNO/LUGLIO 2017 | 263 segno - 59


Ettore Spalletti, Senza Titolo, 2017. Stampa su carta, cm 40 x180

Galleria Vistamare, Pescara

Ettore SPALLETTI

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on una carriera lunga oltre quarant’anni, Ettore Spalletti è senza dubbio fra gli artisti italiani più conosciuti al mondo, con personali nei musei più prestigiosi, dal Guggenheim Museum di New York a quello Nazionale d’Arte di Osaka, dal Musee d’art Moderne di Parigi al M.O.M.A nell’anno 2000, e quella alla Henry Moore Foundation a Leeds nel 2005, senza contare le due partecipazioni a Documenta Kassel e quattro Biennali di Venezia. Nel 2014 l’Italia lo celebra con un triplo appuntamento al MAXXI di Roma, alla GAM di Torino e al MADRE di Napoli. Nel 2017 è la sua città d’origine a officiarlo, insignito dalla Facoltà di Architettura di Pescara, della Laurea Magistralis Honoris Causa in Architettura. La mostra alla galleria Vistamare, semplicemente intitolata con il nome proprio dell’artista, a sottolineare l’unicità della sua opera, offre uno spaccato sulla sua più recente produzione, accompagnata da taluni lavori esemplari della sua ricerca anni ’90, mostrando un Ettore Spalletti rigoroso e severo nei confronti della propria poetica ma anche genero e fecondo nell’ideazione creativa. Fra le opere più recenti, datate 2016, incontriamo Grigio oro, orizzonte; Come l’acqua; Muro, azzurro; Il cobalto, tutt’intorno, l’oro, i cui cromatismi pastello, così riconoscibili del suo “io” – quei toni di azzurro che potrebbero essere definiti propriamente Azzurri Spalletti, parafrasando i noti Blu Klein, non possono essere banalmente descritti come prove superlative di un’arte astratta

Ettore Spalletti, Muro, azzurro, 2016. Impasto di colore su tavola, dipinto sul fronte e retro e montato su staffe di misura diversa, 25 cm e 15 cm, matita bianca, 200 x 200 x 4 cm (particolare). Foto Roberto Sala

Ettore Spalletti, a sinistra, Girandola, azzurro tenue, 2017. Impasto di colore su tavola, foglia oro sul lato superiore, cm 150 x 150 x 4. A destra, Incanto, 2016. Impasto di colore su tavola, foglia oro con cornice rastremata su tre lati, cm 150 x 150 x 4. Foto Roberto Sala

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Ettore Spalletti, Così com’è, mobile, 2006 - 2014 foglia oro su alabastro e impasto di colore su tavola, 2 elementi indivisibili, alabastro cm 19 x 19 x 19, tavola cm 95 x 125 x 20. Foto Roberto Sala

Ettore Spalletti, Scatola di colore, mobile, 1991 - 2014 impasto di colore su alabastro e su tavola, 2 elementi indivisibili, alabastro cm 19 x 19 x 19, tavola cm 95 x 125 x 20. Foto Roberto Sala

spintasi oltre il suo dettato originario. Esse sono molto di più, e con l’astratto hanno poco a che fare. Esse sono più propriamente l’estensione visiva e infinita di un mondo interiore e poetico, un ponte fra l’individuo e l’universo fenomenico che ci circonda, intriso di riferimenti culturali, storici e ideali. Esse sono, paradossalmente delle finestre di realtà. Sono un inno alla bellezza, una richiesta a non dimenticarla, a non perderla e a cercarla. Ciò che sia realmente la “bellezza” è difficile da definire, ma per Ettore Spalletti è certamente la semplicità di una superfice delicata, maniacalmente curata, amata e al contempo familiare. Nei suoi azzurri si legge la sconfinatezza del mare e del cielo, la perfezione delle sue impercettibili ma reali variazioni cromatiche, rasserenanti e suadenti come quelle di una giornata di primavera, i suoi rosa sembrano cipria, le venature dei suoi marmi imitano la natura e la superano. I suoi dipinti, tuttavia, non sono banalmente tali, o meglio, non possono riferirsi al solo ambito della pittura. Oltre ai contenuti e al messaggio poetico, è fondamentale per Spalletti la connessione fra pittura e scultura, di cui ricerca insistentemente una sintesi in connessione all’architettura, un connubio, in sostanza, capace di originare pitture tridimensionali. Nel dialogo con lo spazio, Spalletti considera anche e soprattutto l’elemento della luce, concreto e simbolico al contempo, che interviene sulle superfici a rimodulare ulteriormente la percezione della forma, comunque costantemente movimentata e mai statica, grazie a quelle lievi ma incisive smussature degli angoli. E sono proprio questi leggeri, a volte impercettibili, interventi di modulazione plastica che, in combinazione alla luce, modulano lo spazio in cui l’opera è collocata, intervento segnalato, tuttavia, quasi sempre dal colore

oro: il colore del sole, della luce, della purezza, del calore, del dinamismo e della creatività. Qualsiasi opera di Spalletti osserviamo: dalle Carte Velate Rosa, Azzurro, Grigio che siano (2017) al Sapone, oro (1998) sempre rintracceremo quel senso inspiegabile di appartenenza all’universo. Maria Letizia Paiato

Ettore Spalletti, Grigio rosato, 2016. Impasto di colore su tavola, foglia oro con cornice rastremata su tre lati, cm 100 x 100 x 4. Foto Roberto Sala

Ettore Spalletti, Grigio oro, orizzonte, 2016. Dittico: 2 elementi indivisibili, impasto di colore su tavola, dipinto fronte/retro, montato su staffe, matita bianca, cm 120 x 300 each. Foto Roberto Sala

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Fondazione Plart, Napoli

Provocazioni e corrispondenze Franco MELLO tra arti e design

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a Fondazione Plart in collaborazione con la Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, ospita la mostra Provocazioni e corrispondenze. Franco Mello tra arti e design, a cura di Giovanna Cassese. Franco Mello (Genova,1945) inizia la sua attività di designer negli anni settanta in una Torino ancora fortemente segnata dai fasti dell’arte povera ed in costante dialogo con critici ed artisti d’avanguardia. Egli intrattiene inoltre fin dall’inizio uno stretto rapporto con la produzione industriale, traducendo con ironia e leggerezza le grandi potenzialità insite nella plastica. Esponente di una produzione varia e articolata, che spazia dal design alla fotografia, dalla grafica all’editoria, e che lo vede ricoprire i ruoli e le funzioni di artista, docente, creatore di gioielli e ideatore di installazioni multimateriche, la sua mostra si divide in diverse sezioni. Innanzitutto, su di un supporto espositivo progettato da Felix Policastro, sono esposti i suoi oggetti-scultura in poliuretano espanso prodotti per Gufram e Dog Design. Tra essi il suo tipico Cactus, ove la forma del vegetale è accompagnata ad un colore assolutamente innaturale come il Rosso (2010); il Tavolo Erba (1970), una struttura cilindrica ove tanto le sedute quanto la superficie del tavolo stesso sono ornate da erba sintetica; i Suburbia (2003), finte sezioni semicircolari di copertoni di ruota; Mun e Mun Bis, sedute costituite come di calce e mattoni rossi; La grande zucca (2003), ove il titolo combacia perfettamente con l’opera. Sono raffinati giochi tattili-visivi all’insegna dell’incongruità: la natura richiederebbe un colore freddo e invece ne trova uno caldo o viceversa; la funzionalità richiederebbe una consistenza morbida e invece ne trova una rigida e vice versa; le stesse dimensioni normali sono talvolta alterate. Nell’insieme un mondo fantastico che ci è familiare e straniante allo stesso tempo giacché Mello parte dal consueto per alterarlo attraverso uno o due piccoli particolari che stravolgono completamente l’aspetto normale delle cose. Un’altra sezione è dedicata all’attività grafica, con libri d’artista, cataloghi e riviste d’arte, come i tre numeri della rivista “Materiali per l’Arte” e i libri curati con Giorgio Maffei e pubblicati dalla Galleria Persano di Torino: Sei Illustrazioni per gli 62 - segno 263 | GIUGNO/LUGLIO 2017

scritti sull’arte antica di Johann J. Winckelmann di Giulio Paolini, L’arte è una scienza esatta di Claudio Parmiggiani e Pantomima di Marco Gastini, tre libri del 1977 di grande formato e di eccezionale qualità di stampa.Vi sono inoltre i gioielli di Michelangelo Pistoletto, Emilio Isgrò, Mimmo Paladino, Marco Gastini, Matteo Bonafede, Aldo Spinelli: una selezione tratta della collezione Sfioro, ideata nel 2013 dallo stesso Mello con Mauro Bonafede e Susanna Besio Tosco, in cui ogni artista coinvolto è stato invitato a progettare un gioiello poi realizzato in tiratura limitata con tecniche orafe artigianali quasi dimenticate, mentre completano la mostra due video inediti e un’ampia selezione di foto realizzate dall’artista in piccolo e grande formato.La mostra è accompagnata dalla pubblicazione di un volume sull’attività di Franco Mello edito da Gangemi Editori, con interventi di Giovanna Cassese, Cecilia Cecchini e Alba Cappellieri che inquadrano aspetti specifici della mostra, come quello sulle plastiche e i gioielli, e di Claudio Germak che inquadrerà la produzione di Mello nell’ambito del design e dell’industria in Piemonte. Una seconda parte del catalogo propone documenti su tutta la complessa produzione di Franco Mello, dalle origini ad oggi, con la ripubblicazione di alcuni importanti testi critici che permettono di fare il punto su Mello fotografo, designer, grafico, editore, ideatore di giochi per bambini, creatore di allestimenti e packaging: da Francesco Poli a Edoardo Sanguineti, da Paolo Fossati a Mirella Bandini e Francesco De Bartolomeis. Nell’aprile scorso, nell’ambito della mostra, si è tenuto un workshop sulla conservazione e il restauro del design, a cura di Giovanna Cassese. L’evento ha ripreso il tema del primo convegno Il futuro del contemporaneo Conservazione e Restauro del Design, tenutosi alla Fondazione Plart nel 2015 nell’ambito del Festival Internazionale di Design. Il workshop ha introdotto i partecipanti alle problematiche di conservazione del design focalizzando l’attenzione sull’attività di Mello, per comprendere l’intenzionalità delle sue opere, affrontando, nello specifico, i temi dei materiali e della tecnica, della permanenza e della sostenibilità. Stefano Taccone


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Franco Mello, Particolari dell’allestimento “Libri d’Artista”. Fondazione Plart, Napoli 2017 (foto Fabio Donato)

Franco Mello Allestimenti per Provocazioni e Corrispondenze tra Arti e Design, Fondazione Plart , Napoli 2017 (foto Fabio Donato e A. Russo)

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Galleria Open Art, Prato

UTOPIA E PROGETTO Sguardi sulla scultura del Novecento

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ra il 1959 quando Gillo Dorfles nella prima edizione de Il divenire delle arti, offriva una significativa definizione della scultura contemporanea, incorniciando quel preciso periodo storico come un momento di rottura con la sua secolare funzione di riproduttrice della realtà fenomenica. Un pensiero, quello di Dorfles, che si avvita intorno allo stravolgimento del concetto di “forma” e che, nella storia, si fa corpo dapprima nell’antica nozione greca di Idea, poi in quella latina di exempla, fino a quella rinascimentale di modello dichiarata da Michelangelo nella celebre quartina di un suo sonetto: “Non ha l’ottimo artista alcun concetto - c’un marmo solo in sè non circoscriva - col suo superchio, e solo a quello arriva - la man che ubbidisce all’intelletto.” Versi, questi, in cui l’artista fiorentino condensa le concezioni aristoteliche di potenza e atto, ossia la propria capacità di tradurre un’immagine interiore in una forma artistica persistente in “potenza” nella materia. Per Dorfles, è proprio questo lo scarto fra scultura del passato e del presente, tuttavia, nell’idea di “modulazione spaziale” e nel sostantivo “plastica”, egli rintraccia una connessione temporale senza fine che unisce l’antichità al nostro tempo. Anticipatore di tale pensiero è, tuttavia, Umberto Boccioni, quando nel Manifesto Tecnico della Scultura Futurista, 11 aprile 1912, profetizza l’utilizzo di qualsiasi genere di materiale ma anche l’idea di una scultura ambientale: «La nuova plastica sarà dunque la traduzione nel gesso, nel bronzo, nel vetro, nel legno e in qualsiasi altra materia […]. Questa visione che io ho chiamato trascendentalismo fisico potrà rendere plastiche le simpatie e le affinità misteriose che creano le reciproche influenze formali dei piani degli oggetti […]». Il tema, dunque, della rappresentatività della scultura moderna, per quanto antico, è costantemente vivo e in divenire, ed è proprio questo il nodo affrontato nella mostra curata da Mauro Stefanini Utopia e Progetto. Sguardi sulla scultura del Novecento. Beatrice Buscaroli, autrice del testo in catalogo, non a caso scrive: «Chi pensa che la scultura sia immobile deve ricredersi, perché ogni forma, nella sua apparente staticità, in verità muta continuamente fino a trasfigurarsi, capovolgersi, decomporsi. […] È interessante indagare il materiale con cui l’artista ha deciso di proporre la propria poetica: pietra, metallo, legno,

materiali sintetici» che la critica non esita a definire «il colore delle emozioni». In questa frase, semplice e poetica, si condensa, pertanto, quell’idea di “plastica” germinata nell’antichità, esplosa con veemenza all’inizio del secolo scorso in Boccioni, attraversata e abbracciata da moltissimi artisti che la Buscaroli cita puntualmente, da Medardo Rosso a Costantin Brancusi, da Carlo Carrà ad Arturo Martini, senza dimenticare il costruttivismo plastico di Malevič, ad esempio, o lo scultore britannico Henry Moore. Utopia e Progetto disegna, pertanto, un significativo spaccato sulla scultura italiana del Novecento. La mostra è una sorta di summa, capace di raccontare quella vitalità della materia tenacemente ricercata già nella prima metà del secolo da artisti come Marino Marini, Fausto Melotti, Bruno Innocenti, Emilio Greco, cui si aggiunge l’opera del ceco Jiří Kolář, noto soprattutto per la sua ricerca plastica sul collage, e prosegue con Agenore Fabbri, Dino e Mirko Basaldella, Nino Franchina, Quinto Ghermandi, Francesco Somaini, toccando l’ambito informale, fino a quelle di Giuseppe Spagnuolo e Guido Pinzani, per chiudere con una finestra sugli anni Ottanta con Mauro Staccioli e Luigi Mainolfi. Utopia e Progetto è un titolo volutamente ossimorico, laddove l’ispirazione per un ideale che contraddice la concretezza della sua realizzazione pratica, si lega allo studio delle reali possibilità di attuazione o di esecuzione. In sostanza, i due termini appaiati rendono conto del boccioniano «trascendentalismo fisico [che] potrà rendere plastiche le simpatie e le affinità misteriose che creano le reciproche influenze formali dei piani degli oggetti». Seguendo questa linea interpretativa, pertanto, si può spiegare – così come fa la Buscaroli – il perché non si esauriscono le «potenzialità della ricerca sulle masse e sui volumi proprie della scultura contemporanea», nonostante, ad esempio, la «tensione – generatasi nel secondo dopoguerra con – l’informale». Parliamo di Emilio Greco, Bruno Innocenti o Marino Marini, in particolare quest’ultimo già dagli anni Trenta orientato a quello che Fabio Benzi ha definito un classicismo straniato, modellando figure che «emergono alla coscienza come apparizioni di civiltà estinte, che riconnettono memorie etrusche e medioevali sotto la specie di un pathos espressivo fortissimo ma controllato da uno “stile” che vuole far rivivere l’archetipo culturale mediterraneo in forma di scabra semplici-

Utopia e Progetto - Installation View - Courtesy Galleria Open Art, Prato (veduta di insieme)

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Nino Franchina - Ettore Fieramosca 1960 - ferro - h. cm. 132. Courtesy Galleria Open Art, Prato

Agenore Fabbri - Personaggio Spaziale 1968 - bronzo - 143 x 26 cm. Courtesy Galleria Open Art, Prato

tà» (F.Benzi 2013). A una ricerca formale di matrice arcaizzante, a un primitivismo, a tratti alchemico, condensato nell’uso del ferro, guarda Dino Basaldella e ancora di più il fratello Mirko capace, tuttavia, di uscire dai confini della cultura mediterranea per abbracciare, prima uno stile più europeo (dopo il viaggio a Parigi nel 1937 con il fratello Afro) e in seguito più orientale, facendo propri i tratti di quell’iconografia del Totem narrante culture sia centroasiatiche sia precolombiane. Al ferro è votato anche Giuseppe Spagnuolo che, in tale materiale pone in essere profonde riflessioni sull’attività dell’artista paragonata a quella della vita operaia nelle acciaierie. È un discorso che, come scri-

ve la Buscaroli, narra della «centralità ineluttabile e inesorabile della vita» che trova la sua massima espressione nel trionfo materico, proprio di Pino Spagnuolo. Peregrino alla continuazione della storia dell’arte e incline a metamorfosi naturalistiche è invece l’opera di Agenore Fabbri ma soprattutto quella di Francesco Somaini, interessato, in una prima fase della sua ricerca, alla sperimentazione dei materiali (celebri le fusioni a fiamma ossidrica che accentuano l’espressività delle parti concave dei suoi modellati), e poi nel sondare forme organiche alla connessione con lo spazio architettonico. Il dictum boccioniano: «La scultura deve quindi far vivere gli og-

Utopia e Progetto - Installation View - Courtesy Galleria Open Art, Prato. Da sx verso dx 3 opere di Luigi Mainolfi, una ceramica di Fausto Melotti e una scultura a parete di Guido Pinzani.

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getti rendendo sensibile, sistematico e plastico il loro prolungamento nello spazio» in Somaini, a distanza di sessant’anni, vive nella convinzione della scultura quale agente di riqualificazione essenziale al tessuto architettonico urbano. Prove ne sono le grandi opere monumentali degli anni Settanta, i cui segni intellegibili si percepiscono nella tensione materica delle opere di piccolo formato, realizzate nel decennio precedente e visibili in mostra. A Somaini, la galleria Open Art dedica, fra l’altro, una piccola ma preziosa personale, finalizzata propriamente a far emergere le delicate e intense qualità dell’artista. Nino Franchina con il Gruppo dei Quattro: Renato Guttuso, Giovanni Barbera e Lia Pasqualino Noto, lascia la Sicilia e approda a Milano e conosce Fausto Melotti, per poi spostarsi a Roma e abbracciare una sintesi plastica più europea alla Moore e alla Zadkine, mischiando, come gli altri artisti presenti in Utopia e Progetto, elementi di matrice arcaizzante e d’impronta marcatamente sicula, spostandosi, infine, verso il monumentalismo come già per Somaini. Possiamo parlare, forse, di anti-scultura guardando all’opera di Fausto Melotti, figura riconducibile al cosiddetto Astrattismo lombardo e accostabile, per molti aspetti, allo statunitense Alexander Calder. È un paragone, questo, che pone la ricerca di Melotti nell’ambito del sensoriale e che, senza tradire un repertorio iconografico novecentesco, “apre” letteralmente la scultura in quella dimensione spaziale, profeticamente immaginata da Boccioni. All’idea di una plastica aperta, dagli anni Sessanta in poi, non mancano di allinearsi Guido Pinzani, nei decenni successivi Giuseppe Maraniello e Mauro Staccioli, quest’ultimo pioniere di una forma di scultura in contatto e dialogo allo spazio urbano ma anche alla società che abita e vive il luogo. Negli anni Ottanta è la figura Luigi Mainolfi a imporsi, anche a livello internazionale sul versante della plastica, rappresentante di quella che storiograficamente è definita scultura post-concettuale. Con Mainolfi quella «selva costituita da lamiere contorte, da esili fili metallici, da panciute protuberanze marmoree, da superfici cave e quasi svuotate, o da nastri e filamenti tra loro intrecciati», così come nel 1959 Dorfles la definiva, non è più una selva ma una foresta robusta e florida. Infine, in questa mostra, incontriamo la figura di Quinto Ghermandi, cui la galleria dedica uno spazio particolare riconoscendogli un ruolo importante nella ricerca scultorea del Novecento, finora ingiustamente sottaciuta dalla critica. Noto soprattutto per le geniali, irriverenti e sarcastiche sculture di terracotta e pongo realizzate negli anni Settanta e Ottanta del Novecento (celebri le caricature di Giulio Andreotti, Nilde Jotti, Amintore Fanfani e Giovanni Spadolini – tutti con gli attributi ingigantiti e belli in vista), Quinto Ghermandi è stato in verità un acuto scultore dedito alla sperimentazione di eterogenei materiali. All’inizio degli anni Cinquanta si dedica alla ceramica, nel

Emilio Greco - Figura 1957 - gesso policromo - h. 48 cm. Courtesy Galleria Open Art, Prato

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Mirko Basaldella - Personaggio Trofeo 1954 - bronzo - h. 28 cm. Courtesy Galleria open Art, Prato

1955 inizia a utilizzare il ferro saldato, ma sarà poi il bronzo il materiale con cui riuscirà a esprimere al meglio la sua energia, accostandolo di diritto al gruppo degli Informali. Anche per lui, come per tutti gli artisti presenti in mostra, il ragionamento e la consapevolezza del concetto di “plastica”, segna l’abbandono di un figurativo classico (quello del ritorno all’ordine) proiettandolo, dagli anni Sessanta in poi, in un discorso decisivo di fusione fra scultura e ambiente. Maria Letizia Paiato

Marino Marini - Piccola Figura 1950 - bronzo - h. 18 cm. Courtesy Galleria Open Art, Prato


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Francesco Somaini - Racconto sul Cielo 1961 - ferro grafitato con lucidi parziali - 20.2 x 43.5 x 21. Courtesy Galleria open Art, Prato

Quinto Ghermandi - Senza Titolo 1961 - bronzo - 71 x 54 x 33.5 cm. COURTESY Galleria Open Art, Prato

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Pino Pinelli, Pittura B.R. (10 elementi), 2011. Tecnica Mista, cm 28X8. Allestimenti per Galleria Santo Ficara, Firenze 2017

Galleria Santo Ficara, Firenze

Pino PINELLI

O

gni mostra di Pino Pinelli è una festa per lo sguardo e per la mente. Non è certo la prima mostra quella dal titolo “Pittura BL.R.G.+B”. presentata negli splendidi spazi della galleria di Santo Ficara, ma sicuramente è la più completa perché riunisce una selezione di opere realizzate principalmente con i colori primari, sia di grandi dimensioni (come la disseminazione Pittura BL.R.G. 2010) di 45 elementi, sia di misure più contenute, che delineano in maniera significativa la ri-

cerca dell’artista nell’ultimo decennio. La cura è affidata a Luca Beatrice, che ripercorre il periodo in esame con un testo che evidenzia le tappe salienti dell’iter creativo del nostro autore. “Pinelli, - scrive tra l’altro Luca Beatrice - fin dagli inizi, non intende mai la pittura come fatto resistenziale, nostalgico, sospeso in un quasi non tempo metafisico che sarà il must espressivo negli anni Ottanta. Piuttosto, rimettere sempre in discussione quelle certezze acquisite, capace di estrapolare ogni volta l’essenza, arrivando diritto al punto. Non c’è alcuna possibilità oltre: la pittura è sempre e soltanto un fatto mentale. Lo fu fin dai tempi di Piero della Francesca, non a caso il primo punto di riferimento teorico di Pinelli, poiché è di noi moderni la facoltà di spingerci oltre la lettura iconografica dell’opera e il suo significato simbolico per aggredire, mentalmente, la struttura.

Pino Pinelli, Pittura R. (2 elementi), 2015. Tecnica Mista, cm 34X49. Allestimenti per Galleria Santo Ficara, Firenze 2017

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Pino Pinelli, Pittura R. (4 elementi), 2016. Tecnica Mista, cm 60X94. Allestimenti per Galleria Santo Ficara, Firenze 2017

Etica significa prima di tutto chiedersi il perché delle cose. Non mi attarderei ora a mettere in fila alcuni di quei colleghi inseriti nella corrente della Pittura Analitica, la cui freschezza e attualità davvero colpisce e intriga: se c’è un artista che ha inciso, al pari di Pinelli, così profondamente sulla teoria della pittura, almeno ai suoi inizi, questo è Giulio Paolini. Non solo per la disseminazione del quadro (o del suo residuo) nello spazio, ma anche per l’importanza che ha avuto il suo retro, il B Side, il telaio in luogo della tela, a rovesciare il tradizionale concetto percettivo dello spettatore abituato allo spettacolo del colore e dell’immagine. Pinelli, da par suo, resta ancorato al fronte inseguendoci con le sue note di sensualità cromatica. Molteplici episodi di un percorso segnato dalla coerenza che lo ha reso subito riconoscibile, Pinelli è certo pittore estremamente vario e

curioso; non avrebbe potuto essere diversamente chi ha amato così tanto Fontana, “il mio faro” tale lo definisce spesso al pari di Manzoni.” Le sue opere hanno un fascino particolare, sono corpi inquieti di pittura in continuo movimento nello spazio, fluttuanti, migranti in piccole o grandi formazioni, fatte di materia che reca impressa i segni di un’ansiosa duttilità, che elogiano una fisicità tattile, che seducono gli occhi con colori pulsanti di vibrazioni luminose, con il rimando e il ricordo al fuoco e al vulcano della terra d’origine, la Sicilia, presenza viva sempre. Accompagna la mostra - come di consueto- un ricco catalogo numero 62 della collana “Presenze in Galleria” con testo del curatore Luca Beatrice, edito da Cambi Editore, che si affianca al libro “Pino Pinelli o della disseminazione” di Giorgio Bonomi. (Ed. Rubettino 2016). (a cura di Lucia Spadano)

Pino Pinelli, Pittura R. (2 elementi), 2016. Tecnica Mista, cm 50X36. Allestimenti per Galleria Santo Ficara, Firenze 2017

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Galleria Il Milione, Milano

Paola PEZZI

I

lavori di Paola Pezzi, esposti negli spazi della storica galleria milanese, Il Milione, sono, come recita il titolo della mostra “Strati d’animo”, che segnano un percorso che va dagli anni Ottanta ad oggi. L’artista, nota per le sue sculture gioiose, coloratissime, realizzate con materiali di varia origine e provenienza (matite, gessetti, cannucce, sughero, carta, palline da ping pong, spugne, gomme, filati, corde, fiammiferi …) ha sviluppato un percorso personalissimo, che – come evidenzia nel puntuale e preciso testo in catalogo ( * ) Federico Sardella – “……non hanno nulla di artificiale. Nel dettaglio, a ben guardare i suoi lavori, si ha spesso l’impressione di trovarsi in una realtà altra. L’ordine naturale della sedimentazione, della stratificazione e dell’accumulazione governa l’aggregamento degli elementi costitutivi le opere, nelle quali vi è un’assoluta assenza di rettilineità. Opere senza spigoli, ammorbidite da un sapiente uso della curva, che si insinua senza pudori anche in lavori il cui spirito di geometria è evidente, essendo assemblati a partire da forme quali quadrati o parallelepipedi, che naturalmente vengono azzittiti e contraddetti in favore di altre corrispondenti al sentire dell’artista. Il modo di vedere il mondo di Paola, che di mappe e bandiere si è a lungo occupata, non contempla l’idea di confine... ci basti pensare a una rappresentazione grafica del mondo, dove sono le curve, le

insenature, le infossature, le frastagliature a determinare gli andamenti dominanti e dove, invece, le uniche linee effettivamente rette corrispondono ai confini tracciati dell’uomo, specialmente in territori desertici. Seppur legato alla terra in modo irreversibile, di terra e di sabbia sono fatti i primissimi elaborati, non a caso descritti dall’autore come reperti archeologici provenienti dall’origine, è invece all’acqua che oggi, mi pare possano essere avvicinati molti degli elaborati, quasi si trattasse di figure dal mare e di forme provenienti dagli abissi che, anche se emerse, nella loro immobilità assoluta, conservano quella carezza marina che le rende morbide, fluide e danzanti, in grado di respirare. (……) Come Paola Pezzi ama ripetere, infatti, le sue sculture di ogni foggia, tipologia ed epoca non sono piccole, ma concentratissime. Frammenti di spazio interiore, fatto proprio, assorbito, condensato, in grado di espandersi sulla parete che accoglie le opere, le quali hanno così la possibilità e la potenzialità di estendersi in ogni dove e oltre il proprio orlo. Esse sono proponibili singolarmente o in gruppo, in disseminazioni di elementi simili in dialogo fra loro, così come accostando elaborati disuguali semplicissimi ma ricchi di complessi rimandi che, nel loro insieme, possono dare vita a inedite composizioni dove il muro perde la sua secca funzione e diventa una immensa sala da musica nella quale tante voci si sovrappongono. Forme e colori suonano assieme e dipingono una melodia inesauribile, confermando in via definitiva come tutte le opere di Paola Pezzi siano in continuo divenire, duttili e adattabili ad ogni contesto”. (a cura di Lucia Spadano)

Paola Pezzi, Feltro rosso, 2017. 80x157x5 cm. In alto, Matite, 2017 Paola Pezzi, Parete antologica, 1990-2017.

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attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Paola Pezzi, Cannucce bianche, 1999, cannucce, 33x23x16 cm.

Paola Pezzi, Maquette rami-matite, 2017, rami, pittura acrilica, 60x67x55 cm.

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Un nuovo persorso

Vito BUCCIARELLI Simmetrico Ascendente

V

ito Bucciarelli è un amico che frequento da quando il mio amore per l’arte non aveva ancora trovato uno spazio appropriato per esprimersi. Scrivevo d’arte su giornali locali ed il mio osservatorio era limitato a quello che accadeva intorno a me. Vito, insieme a pochi altri, nell’ambito ancora incerto in cui stavo vivendo questa esperienza, svolse una funzione di cui ancora gli sono grata, quella di aprire gli occhi a me e al gruppo di persone che avevo intorno, sull’effettivo valore conoscitivo di tutte quelle nuove pratiche artistiche che, non essendo più basate su di un risvolto materiale come il dipinto o la scultura, destavano insieme curiosità e diffidenza. All’inizio degli anni ’70 le sue performances e le sue installazioni ci fecero capire come i temi della rarefazione dell’opera e della de-personalizzazione dell’autore non fossero solo il prodotto di una logica di cancellazione del passato attuata all’insegna di una sorta di catena auto-riduttiva inauguratasi con le Avanguardie Storiche, a suo tempo, ansiose di staccarsi in maniera sempre più decisa da ogni riferimento naturalistico e da ogni residuo di estetica della mimesis. Egli, infatti, con le sue azioni in pubblico e la loro componente di teatralità minima ma concreta, non metteva solo in atto una lotta serrata alle ideologie autoritarie che stavano dietro ai concetti guida di un accademismo ancora ben mimetizzato dietro alla classica triangolazione artista-opera-mondo, ma dimostrava di non essere

Vito Bucciarelli, Ascendente (Simmetrico bilaterale), 2017

disposto a dichiarare definitivamente archiviata questa vischiosa equazione senza aver prima liberato e riconquistato alle finalità dell’espressione visiva tutte le energie positive che da secoli erano imbrigliate al suo interno. La soggettività dell’autore, più in particolare, a suo avviso, andava sì depurata dalla sua componente accentratrice e auto-incensatoria, ma non certo soltanto con semplici dichiarazioni di rinuncia alle pretese dell’ego, magari avallate da un certo tipo di look che già si andava diffondendo, ed era semmai necessario esibire in qualche modo tutto il processo di fuoriuscita dalla propria monumentalizzazione strisciante, dall’identificazione, ben dissimulata, tra immagine del sé e immagine dell’opera, esibendo tutte le difficoltà sia percettive che

Vito Bucciarelli, Ascendente (Simmetrico bilaterale), 2017. Veduta dell’installazione, legno dipinto, ceramica e alluminio. cm. 270h x 400 (misure variabili).

Vito Bucciarelli, Ascendente, 2017 (particolare).

72 - segno 263 | GIUGNO/LUGLIO 2017

Vito Bucciarelli, Ascendente (Sagomatore circolare), 2017. Legno dipinto, stucco, ceramica e vetro. cm.100ø x 86h

Vito Bucciarelli, Ascendente (Sagomatore pentagonale), 2017. Tela dipinta, stucco, ceramica e ferro.


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Vito Bucciarelli, Ascendente (Simmetrico bilaterale), 2017. cm. 450x184

auto-percettive, sia emozionali che psicologiche, che non potevano non intervenire nel vissuto di ogni artista seriamente e profondamente impegnato in un compito di revisione e ripensamento in qualche modo epocale, dell’ intero agire artistico. Piuttosto che presentarcisi inguainato in qualche improbabile calzamaglia nera, con la testa rasata e una mobilità del corpo volutamente irrigidita, egli preferiva cioè apparire davanti a noi con le sue sembianze di ogni giorno, vestito e pettinato così come si mostrava ai suoi studenti o ai suoi colleghi di lavoro, né più né meno che un uomo del proprio tempo, con un bel paio di baffi ed i capelli un po’ lunghi, una giacca sportiva e un abbigliamento adeguato al suo ruolo. Ciò a cui assistevamo però, non era né una danza simbolico-rituale, né una sequenza già pronta per ricavarne delle suggestive foto di scena, era un vero e proprio processo di faticosa fuoriuscita da se stesso, dal proprio involucro quotidiano, che finiva così per trasformarsi in una sorta di doppio intorpidito ma anche svuotato e in qualche modo alleggerito e pertanto finalmente passibile di essere ricaricato in positivo in virtù dell’energia recuperata, tolta alla macchina della rappresentazione e restituita al linguaggio dell’arte e al suo continuo confrontarsi con l’ambiente circostante. Ed è proprio da questa nuova condizione, raggiunta e pronta a confrontarsi con un profondo ripensamento degli altri due surrogati della triade di cui sopra, che nasce quello che è stato poi il protagonista e l’emblema di tutto il lavoro successivo di Vito Bucciarelli: l’omino seduto con le sue stesse sembianze, ma ridotto nelle dimensioni, che egli ha, di volta in volta, realizzato in diversi materiali per lo più umili e utilizzato per tutta una serie di operazioni via via più coraggiose e complesse, tutte relative ad una progressiva rifondazione dell’attività artistica non più concepita come allargamento del proprio dominio conoscitivo ma come rilancio all’infinito del proprio mettersi ad un tempo in dubbio ed in gioco. Questa singolare figura che inizialmente lo stesso Bucciarelli aveva chiamato “strumento dello psiconauta” alludendo alla sua funzione di testimone della individuazione di situazioni sempre nuove, e prima impensate, in cui sarebbe stato necessario non solo ritrovare la lucidità delle prime esperienze concettuali ma anche la stessa disponibilità dell’artista (inteso come entità psicofisica) ad assecondarle fino in fondo, negli ultimi tempi sembra essersi approssimata ad una sorta di seconda nascita che in qualche modo ricalca e risostanzia quella incarnata dal momento in cui egli la estroflesse per modellazione a partire da una foto applicata su di una tela. Bucciarelli infatti sempre di più tende non solo a ricavarla dai materiali tradizionali della scultura simulandone abilmente una apparente giustapposizione a blocchi di materia a volte persino grezza, ma si adopera anche a farla interagire con marcatori spaziali del nostro intorno quotidiano anch’essi in materiale solido e trattato con estrema perizia, come nel caso della sua ultima mostra alla quale questo scritto viene ad affiancarsi, dove non solo il nostro personaggio poggia su due piani di marmo che siamo portati a leggere come il riferimento metrico ambientale più elementare possibile e dunque più chiaramente allusivo

Vito Bucciarelli, Ascendente (Simmetrico bilaterale), 2017. Veduta dell’installazione, legno dipinto, ceramica e alluminio.

ad una ripartenza, ma ci appare non più, seduto bensì a gambe distese. La sua posizione ascendente, traccia sulla materia due solchi paralleli, che sottolineano il passaggio del soggetto che come tutte le nature viventi del pianeta, lascia la propria traccia: simmetrica-bilaterale. Dalle due alle tre dimensioni, dunque, e da queste alla concretezza della materia più tradizionale, quella entro cui Michelangelo sosteneva fosse virtualmente già contenuta ogni “figura” possibile. Potrebbe sembrare un movimento all’indietro, una ricerca di nuove e più stabili certezze. Nulla di più fuorviante, il nostro Vito, a suo tempo, è tornato ad essere scultore negando l’assolutezza del volume e la univocità del suo rapporto con lo spazio banalmente riguardato dai più come mero contenitore, ora sta semplicemente aggredendo tutta una serie di altri pregiudizi teorici legati alla sua disciplina di riferimento e al posto che l’ordinamento accademico le riservava nella gerarchia relazionale delle arti. Lo psiconauta, lungi dal dare in escandescenze, veglia e sembra divertirsi più di prima anche se non lo darà mai a vedere. Lucia Spadano GIUGNO/LUGLIO 2017 | 263 segno - 73


Museo Marca, Catanzaro

Caterina ARCURI Transforma

T

ransforma, allestita al MARCA di Catanzaro dal 15 giu¬gno al 30 agosto, propone una selezione delle più re¬centi esperienze creative di Caterina Arcuri. Curata da Massimo Bignardi, la mostra traccia un percorso narrativo che, riprendendo la vitalità di esperienze formali precedenti, trasfor¬ma il corpo plastico della scultura in un organismo che agisce nello spazio come dettato che va oltre il limite della forma. Il filo conduttore tra le opere in mostra è il tempo che si fa ma¬teria concreta negli elementi che, di volta in volta, articolano le installazioni. Affidandosi a strutture geometriche essenziali, dalle quali emerge la sapiente combinazione di piani opachi, lucidispecchianti e bianchi, la Arcuri costruisce il proprio itine¬rario espressivo, realizzato secondo un preciso ordine che po¬tremmo definire “urbanistico”, come a voler creare, servendosi di maquettes, potenziali città. ‘Luoghi’ dell’oltre posti in bilico su blocchi minimali, ove inserisce elementi tratti dal mondo naturale che fatti transitare attraverso la sfera del simbolico, arricchiscono di ulteriori significati l’opera. Ne è esempio FF. (2017), installazione cardine dell’intera mostra: sopra parallelepipedi realizzati in ac-

Caterina Arcuri, Terreno corporeo, sublime infinito, 2016, (particolare)

74 - segno 263 | GIUGNO/LUGLIO 2017

ciaio inox (la cui superficie è a vol¬te bianca, a volte a specchio), l’artista dispone sette foglie ‘adulte’ (più una ‘bambina’), come a farle galleggiare sul letto di un fiume; «fermate, in muta, immobile, fiera orizzontalità – avverte la Arcuri – presenze eleganti tra le quali camminiamo; specchiandoci in alcune delle basi, forse ci interroghiamo sul senso della nostra verticalità». La metafora del fiume trova un ulteriore riscontro in Un mito (2014), installazione nella quale i blocchi plastici disegnano un percorso che è quello dei sassi levigati dall’acqua, dello sciabordio di una materia fluida e tra¬sparente, del silenzio quasi innaturale di un improvviso fermo immagine. Uno scorrere, quello del fiume, identificabile con quello del tempo, che riporta all’unità quelli che Bergson aveva definito come “tempo spazializzato” e “durata reale”, ovvero il tempo che scorre nella nostra coscienza. L’unione di entrambi si realizza nell’esperienza dell’arte: lo spettatore è sollecitato ad attraversare e a confrontarsi con il “luogo” creato dall’artista, «inteso – rileva Bignardi nel testo introduttivo al catalogo pub¬blicato da Silvana Editoriale – non nelle misure fisiche, spaziali, bensì in quella ove la complessità antropologica testimonia il trascorso quindi il “tempo” dell’esperienza umana, nella quale ciascuno ritrova la propria identità». In questa continua altalena tra essenza ed esistenza, nella quale la luce gioca un ruolo fon¬damentale, l’artista inserisce ulteriori elementi che sollecitano la nostra im-


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Caterina Arcuri, FF., 2017, (particolare)

maginazione: è il caso di Terreno corporeo, sublime infinito (2016), dove l’immagine dell’uovo, simbolo della vita, fa il pari con quella della semisfera, in perfetto equilibrio nella propria individualità, eppure richiamati dai riflessi degli specchi disposti in modo calibrato sulle superfici. Ciò è palese anche in Preludi (2017): qui l’opacità gioca un ruolo di primo piano, celando l’immagine di un volto all’oc¬chio dell’osservatore e mettendolo, dunque, nella posizione di interrogarsi nello ‘specchio’ della vita. È un’armonia per¬fetta, una geografia modulare e definita nel suo dispiegarsi nello spazio e nel suo farsi “luogo”. Un luogo che è poten¬ziato espressivamente dall’utiliz-

zo di superfici a specchio, attraverso le quali ci è data, però, la possibilità di indagare il territorio dell’ambiguo, dell’altro e, contestualmente, del proprio io. Le opere in mostra sono il segnale di un amplia¬mento dell’orizzonte immaginativo della Arcuri, la volontà di indagare le relazioni tra gli elementi nel loro aspetto formale e nella loro intima essenzialità, «silenziosamente femminile e coraggiosamente spirituale». Transforma è documentata da un catalogo bilingue edito da Silvana Editoriale con testi di Massimo Bignardi, Renato Barilli, Roberto Lacarbonara e da appunti e riflessioni della artista. Martina Soricaro

Caterina Arcuri, Preludi, 2017, (particolare), foto di Antonio Renda

GIUGNO/LUGLIO 2017 | 263 segno - 75


Michele Chiossi, Senza titolo, 2017, allestimenti site specific. Galleria Paola Verrengia Salerno

Galleria Paola Verrengia, Salerno

Michele CHIOSSI

I

miti sono immortali ma non immutabili: è il primo pensiero che sovviene alla mente guardando il piede del divino Mercurio infilato in una scarpa griffata Superga. Al posto dei leggendari “calzari alati” troviamo dei comodi outfit, adornati (con una sottile perfidia) da delle ali di pollo. Non per nulla, l’ornamento è uno dei temi perenni di Michele Chiossi, artista che riesce a districarsi tra giustapposizioni e contraddizioni, accostando oggetti e materiali con un’inusitata eleganza. Il secondo pensiero che fa capolino nella loro testa è che il Tennis is the only sport where love means nothing!, motto di spirito cui si ispira il titolo di questa mostra, 15-Love, che nel gergo tennistico equivale a 15-0. La mini-antologica ordinata all’interno degli spazi della galleria Paola Verrengia è infatti concepita come un gioco, in parte ago-

Michele Chiossi, Halleluiah! 2017. Galleria Paola Verrengia Salerno

76 - segno 263 | GIUGNO/LUGLIO 2017

nistico, in parte a[ma]bile. Ciò accade perché Chiossi ha deciso di non mettersi soltanto in mostra ma anche alla prova, e l’ha fatto con la sua solita, proverbiale, raffinata sagacia. Gettando uno sguardo sugli ultimi dieci anni della propria produzione artistica, egli ci introduce nel DNA dell’arte per restituirci un’apoteosi di suggestioni, idee, citazioni. Ad esempio, il celebre appendiabiti dei coniugi Eames – autentica icona del design moderno – è stato da lui convertito in una grafia puntiforme; mettendo in atto una conversione della scrittura in scultura, è come se l’artista avesse voluto tradurre le parole in un (fin troppo letterale) “tutto tondo”, passando così dalla bidimensionalità alla stereotomia. Come suo solito, Chiossi non lavora soltanto sul linguaggio della forma, ma agisce pure sul font, sul “carattere” dei materiali. Lo stesso accade nel ciclo Burning Feeling, una serie di fotografie immerse in un fondo tenebroso punteggiato da luci fioche, a scandire delle esortazioni basate su simboli idiomatici. L’interpretazione che l’artista offre al fruitore è sempre ambivalente, e altrettanto funambolico è il suo tentativo di associare l’immateriale (la luce) al tangibile (il marmo). Nel caso specifico: il marmo statuario, solitamente incolore, viene ravvivato da fluorescenze al neon che, retro-illuminandolo, gli conferiscono un’aura da boulevard e un’allure decisamente fashion. Chiossi è consapevole del fatto che la scultura monumentale può avere silhouette semplici e severe, qui accentuate per mezzo di una linea zigzagante – da anni assurta a “tratto distintivo” dell’artista – che si rifà alle texture elettroniche. Coniugando il reale con il virtuale, Chiossi riesce nell’arduo compito di confondere l’araldica con le griffe, trasmutando la natura in un minerale, sulla scorta del giglio fiorentino o della palma dello stilista Tomais Maier. In tutte le opere esposte ritroviamo il gusto per la tradizione come pure per l’innovazione, ma soprattutto un’innata capacità di ibridare soggetti e tecniche in apparenza antitetici. Ce lo dimostrano gli inediti Subabstractions, dove “concreto” e “astratto” bisticciano sulla propria valenza lessicale, trasmutando la scultura in pittura. Sottili e levigatissime lastre marmoree assumono le parvenze di quadri, se non addirittura di morbidi epiteli. Le venature, che normalmente potrebbero essere considerate delle impurità, ci restituiscono una soave pittoricità che, in trasparenza, scopriamo essere imbrigliata in un reticolo desunto dalla cancellata della Fondazione Querini Stampalia progettata da Carlo Scarpa, con cui il Nostro condivide la vocazione al disegno e alla luminosità. Né ortodosso né dissacrante, Michele Chiossi riesce a essere lirico e allo stesso tempo dissonante, ma sempre con un’invidiabile coerenza. Pur compendiando un decennio di opere, omaggi e provocazioni, il tempo trascorso sembra non aver scalfito minimamente la sua ricerca. Il terzo e ultimo pensiero che assilla la nostra testa è che lui sia riuscito a trovare un elisir di lunga vita per la sua arte, eternamente attuale. Alberto Zanchetta


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Galleria Alfonso Artiaco, Napoli

Thomas HIRSCHHORN

P

ersonale dell’artista svizzero Thomas Hirschhorn (Bern 1957) con un’ampia mostra di “Pixel-Collage, che lo stesso artista così ha spiegato nel comunicato stampa alla inaugurazione: In questa mia nuova mostra “Behind facelessness” da Alfonso Artiaco, voglio mostrare la “pixelizzazione” o la sfumatura nella sua estetica astratta e domandare come può essere compresa oggi l’astrazione. Voglio integrare nel mio lavoro il fenomeno in crescita dell’assenza di volto nelle immagini contemporanee. Nello specifico quello che mi interessa di questa estetica senza volto è la materializzazioneformale di questo fenomeno attraverso la “pixelizzazione”(…) E’ interessante osservare che l’utilizzo dei pixel non segue nessuna legge e logica comune, e questo è in parte dato dal fatto che le fotografie pixelate godono a priori di maggiore credibilità sul pubblico. (…) Fare un collage significa incollare insieme elementi separati e a sé stanti della realtà, per creare un nuovo mondo che prima non esisteva. Qualcosa di nuovo quindi, una nuova immagine, una nuova luce viene così concepita. Questo significa dare risposta attraverso una forma che non è solo un’idea, ma l’anima stessa. Così facendo devo vedere quello che c’è da vedere, quello che capisco, quello che mi arriva senza spiegazioni o argomenti. Nulla è irrapresentabile. Quello che non può essere mostrato non ha forma. Qualsiasi cosa che ha una forma in questo mondo incommensurabile rimane tale, senza che ci sia un tentativo di farlo divenire commensurabile così da non essere mostrato e da far tenere gli occhi chiusi. Per potersi confrontare con il mondo, per gestirne il caos, la sua enormità, per poter coesistere e cooperare con questo mondo e con l’altro, devo confrontarmi con la realtà senza distanza. È necessario distinguere la sensibilità, che significa essere vigile e attento, dall’ipersensibilità che invece significa auto chiusura ed esclusione. Oggi, più che mai, ho bisogno di vedere con i miei occhi il nostro mondo, e nessuno può dirmi cosa i miei occhi devono vedere e cosa no. (T.H)

Thomas Hirschhorn Exhibition view and Pixel-collage n.68, 2016 Prints, tape, transparent sheet 445 (H) x 503 cm (L) courtesy Galleria Alfonso Artiaco, Napoli

Thomas Hirschhorn, Pixel-collage n.87, 2017 Prints, tape, transparent sheet, 436 (H) x 284 cm (L) courtesy Galleria Alfonso Artiaco, Napoli

Thomas Hirschhorn, Pixel-collage n.89, 2017 Prints, tape, transparent sheet, 45 (H) x 44 cm (L) courtesy Galleria Alfonso Artiaco, Napoli

GIUGNO/LUGLIO 2017 | 263 segno - 77


Museo Pascali, Polignano

Iginio IURILLI na distesa “salina” in polvere di quarzo da cui affiorano, come senU suali isolotti, cinque morbide stratificazioni

concave, simili a conchiglie fossili o erotiche efflorescenze. Un “mare” solidificato, candido, luminoso. O un “deserto bianco” di sabbia marmorea, pura e finissima… Sono molteplici le suggestioni del “White tale” che Iginio Iurilli ha messo in scena al Museo Pino Pascali di Polignano a Mare, in dialogo con le “siderali” fotografie di Francesco Bosso, nella mostra curata da Antonio Frugis. Il salone centrale del museo riverbera di umori lunari, con tutto il loro portato evocativo. Per terra al centro, con effetto abbagliante, si staglia il visionario paesaggio, trasfigurazione di memorie simboliche che dal mare si collegano ai deserti, a luoghi fisici di un immaginario archetipo. Mentre altre sinuose forme dai richiami mitici rimandano ad un’idea di purezza che si carica di tensioni verso l’infinito o l’assoluto. Rivelazioni di ancoraggio ad un immaginario visivo che trae spunto dall’amore per le coste pugliesi, dal legame profondo con un habitat esplorato sin da giovane anche attraverso immersioni subacquee. Nasce da qui, dalla trasposizione di personali emozioni che incrociano le tematiche di una mediterraneità non retorica, il percorso quasi cinquantennale dell’artista pugliese. Partito da una pittura neofigurativa di denuncia ecologica negli anni Settanta. E approdato alla trasfigurazione plastica di una natura fantastica, mitili e ricci giganti o una sfrangiata flora fuori scala, che riscatta il degrado cui è sottoposta la natura “reale”. È come se Iginio Iurilli, con le sue sinuose sagome

Iginio Iurilli, White Tale.

Iginio Iurilli, White Tale. Iginio Iurilli, White Tale.

in legno dolce o terracotta immerse in polvere di marmo e quarzo in questo caso, e altrove nel sale o nella sabbia, volesse risarcirla dei danni inferti dall’uomo. Proiettandola in una dimensione altra, in uno straniato “paese delle meraviglie”. Certo, come suggeriscono Rosalba Branà e Antonio Frugis, il ricorso al bianco qui ed in altri lavori precedenti, è memore di tutta una moderna tradizione di azzeramento monocromo (da Malevic a Fontana, Manzoni, Reinhardt). E ancora, la tensione mediterranea ad una ricostruzione della natura non può prescindere dalla lezione di Pascali. Ma personalissimo è il sense of wonder che queste opere comunicano (quella meraviglia che per Aristotele era il fine più profondo dell’arte). Un’ambiguità sottesa per cui, come in natura “niente è perfetto, e tutto è perfetto”. (Alice Walker). O viceversa lo spessore estetico, per quanto irrinunciabile, nasconde un sottofondo d’inquietudine, tradito da mari di strapazzate carte e stoffe alle pareti. Antonella Marino 78 - segno 263 | GIUGNO/LUGLIO 2017


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

progressivamente si fa storia dell’Europa, dunque anche delle nostre radici culturali». In mostra le serie Luftschiffe, Koenigsberg, Landascape paintings e Organic landscape, cui si aggiunge l’inedito ciclo sulle Isole Svalbard. È, Sulle arie, sulle acque, sui luoghi, un’archeologia visiva, un intreccio obliquo di passato e presente, una dilatazione animica, un viaggio a rebour. Lamberti, profondamente pittrice, invita il fruitore ad una consapevolezza, per dirla come Foucault, del “legame tra conoscenza, piacere e verità” e nel farlo usufruisce del medium a lei più congeniale e che paLucia Lamberti, Bacino di Carenaggio 1 tecnica mista su tela, 120x180 cm, 2009 droneggia con mirabilissima sapienza. Il dato fenomenico si dissolve in una distanFabula Fine Art, Ferrara è poesia profondamente interiorizzata. za metafisica, affonda in una pittura vibraScrive la curatrice Maria Letizia Paiato: tile, scarnificata, luminosa. Le campiture ci «Il dato figurativo è solo il primo livello paiono come di sostanza liquida mentre la di lettura cui Lamberti ci mette di fronte, tavolozza distilla armonie cromatiche ove o meglio è la traccia visuale che si offre dominano le sublimi nuances dei grigi e allo spettatore quale incipit di un cosmo degli azzurri. Nell’intavolazione dell’immaalentina per nascita e bolognese per romanzesco, articolato e da scoprire. Poco gine, il riflesso, la specularità, il rovesciaadozione, Lucia Lamberti da sempre alla volta, nell’addentrarsi fra le sale della mento divengono topoi di una costruzione rinviene il principio movente del proprio galleria, con un incalzare narrativo, Lam- inventiva che si allontana progressivamenfare artistico in un metodologico e pazien- berti ci conduce in quell’“ambizione pa- te dalla presa del reale per sconfinare in un te esercizio di selezione e catalogazione noramica” (Roger Caillos) dove è implicita silente onirismo. Serena Ribaudo di immagini provenienti da archivi o da l’attività umana e in luoghi dove la storia reportage: riformulate attraverso il raffi- Lucia Lamberti, Luft 05 acquerello su carta, 60x80 cm, 2014 nato diaframma della sua visione, esse divengono protagoniste di opere su carta, su tela, video ed installazioni pittoriche. Il mutare degli stili e delle tecniche risponde in maniera assai precipua delle tematiche trattate in una convergenza efficace di significato e significante. Concepiti come facenti parte di serie, o come capitoli, i dipinti di Lamberti si dispiegano lungo un ben riconoscibile e coltissimo filo rosso, si connettono e si giustappongono, avvicinano realtà lontane e ne restituiscono di smarrite. A Ferrara Lamberti impagina una mostra che è una summa della sua produzione artistica degli ultimi dieci anni. Sulle arie, sulle acque, sui luoghi è una cosmologia visionaria, sospesa, pulviscolare: dirigibili prismatici, navi da guerra, paesaggi portuali, città che si specchiano nell’acqua trasfigurano in una pittura che

Lucia LAMBERTI

S

Labirinto della Masone, Fontanellato (PR)

Carlo MATTIOLI

F

igura nodale del Novecento italiano e legato al territorio parmense, Carlo Mattioli (Modena 1911-1994) omaggiato da Franco Maria Ricci suo concittadino, e ordinata da Sandro Parmiggiani e Anna Zaniboni Mattioli, nipote dell’artista e responsabile dell’Archivio, attraverso questa esposizione, che mette in mostra una sessantina di dipinti (alcuni inediti) esemplificativi della sua produzione dal 1961 al 1993. Le sue, sono pitture dalle atmosfere contemplative e sobrie, quasi sinestetiche, tanto è vero che la sua arte pare catturare profumi e materie aderenti, al contempo, a un contesto dalle forti suggestioni letterarie. I suoi punti di riferimento si rintracciano nella vicinanza a poeti e letterati come Luzi, Bertolucci, Testori e Garboli. In mostra sono visibili le note serie Nudi, Nature morte, i rivisitati Cestini del Caravaggio, Alberi, Ritratti, Paesaggi, Spiagge della Versilia, Aigues Mortes e Campi di grano e papaveri. In particolare, si segnalano i ritratti, peculiari al suo lavoro, in mostra quelli dedicati a De Chirico, Guttuso, Manzù, Carrà, Longhi, Rosai, Giorgio Morandi, per la prima accostati in una sola esposizione. La mostra Catalogo Generale dei dipinti, realizzato da Franco Maria Ricci con la prefazione di Enzo Bianchi, fondatore della Comunità di Bose, i testi critici di Vittorio Sgarbi e Marco Vallora, la biografia aggiornata dell’artista a cura di Marzio Dall’Acqua.

Carlo Mattioli

GIUGNO/LUGLIO 2017 | 263 segno - 79


Pinacoteca Civica, Ascoli Piceno

BERTOZZI & CASONI

na delle più belle pinacoteche civiche delle Marche ospita fino a U settembre Minimi Avanzi, un allestimen-

to site specific di Bertozzi&Casoni, in un progetto curato da Stefano Papetti, direttore dei Musei Civici di Ascoli Piceno, Elisa Mori, Giorgia Berardinelli e Silvia Bartolini. Un dialogo serrato tra antico e moderno in cui le splendide collezioni, i mobili d’epoca, i preziosi tendaggi ed i soffitti creano un ambientazione raffinata e surreale, un riflessione contemporanea su temi antichi. Ventisei opere creano uno scenario di raro equilibrio in cui spiccano le due stagioni, La primavera e L’ estate che aprono e chiudono la sala Ceci, una citazione diretta dalle omonime opere di Arcimboldi di cui diventano una versione tridimensionale già esposta a Expo2015. Ma la convivenza con l’antico non si risolve e non si limita nella citazione, così queste due opere rappresentano in un certo senso un delicato passaggio temporale, un traghetto verso la contemporaneità. Se osserviamo attentamente L’estate, infatti, vediamo che tra i fiori che ne caratterizzano la foggia spuntano un pacchetto di sigarette ed una bomba a mano simboli inequivocabili del nostro tempo. Il concetto di vanitas, di caducità della vita, di scorrere inesorabile del tempo, un tema predominante nell’arte del Seicento, ritorna in queste opere di Bertozzi&Casoni insinuandosi nella nostra quotidianità: ecco che la citazione lascia spazio ad una totale e originale attualizzazione del tema, una rielaborazione in cui gli elementi classici lasciano spazio agli oggetti di uso comune, o meglio, agli avanzi, minimi, del passaggio dell’uomo. Ed è proprio l’uomo ad essere il fulcro dell’intera installazione, il vero protagonista, muto e assente di una sorta di sceneggiatura ideale che i due ceramisti hanno creato nei saloni del museo. Vasi di fiori invasi da insetti appoggiati sulle consolle, vassoi pieni di tazzine da caffè, pacchetti di sigarette aperti e semivuoti, pillole, avanzi di cibo che grondano da piatti accatastati, una borsetta che sembra dimenticata, creano veramente la splendida illusione di un disordine alla fine di una grande e sfarzosa festa. Sono poi i singoli elementi, con i loro accostamenti bizzarri -una rivista e un deodorante per ambienti in un vassoio con delle Cortesi Gallery, Milano

Nicola DE MARIA

ortesi Gallery dopo aver aperto due C sedi – una a Lugano nel 2013 e l’altra a Londra nel 2015 – fa capolino sulla scena

dell’arte contemporanea italiana con una nuova vetrina nella città di Milano. Per l’inaugurazione del nuovo spazio espositivo è stato scelto il periodo che vede in concomitanza l’apertura della 57a Esposizione d’Arte Internazionale – La Biennale di Venezia e non a caso a fare gli onori di casa è la grande installazione ambientale di Nicola De Maria composta da una serie di cinque tele (con dimensioni che vanno dai tre metri di altezza a più di cinque di lunghezza l’una) realizzate e presentate in occasione della Biennale di Venezia del 1990. Le Teste Orfiche, così intitolate dall’artista e numerate da I a V, emanano nell’intero 80 - segno 263 | GIUGNO/LUGLIO 2017

Bertozzi & Casoni, Vassoio, 2012 (ceramica policroma, cm. h. 18 x 60 x 35)

Bertozzi & Casoni, Primavera, 2015 ceramica policroma, cm. h. 78 x 67 x 42 (collezione privata)

Bertozzi & Casoni, Resistenza 2, 2017, ceramica policroma, cm 300 x 124

uova rotte e dell’altro cibo, la testa recisa di un pesce spada invaso dalle farfalle e adagiato nella custodia di un violino, libri denaro e palle di natale in un altro vassoio, per fare solo alcuni esempi- a creare questo effetto di tempo che passa seppur immobile e cristallizzato nella ceramica. Il dialogo di contemporaneità e antico che pervade l’intera galleria si sviluppa sin dalle singole opere in cui accanto al rimasuglio della nostra vita di uomini moderni e frettolosi che bruciano il tempo in un soffio, compaiono i simboli eterni, quelli cari alle iconografie classiche. Ecco che sulle torte di compleanno compaio i teschi, la vanitas per eccellenza e qua e là sono sparse ciliegie, chicchi di melograno, ossa, uova. Ma ciò che si ha l’impressione di scorgere è anche l’impressione

del movimento dell’azione, che crea uno straordinario ossimoro con il tempo bloccato nella ceramica. Nella serie dei Cestini, ad esempio, dove sembra veramente di udire il tonfo di una torta gettata con violenza si crea uno strano cortocircuito percettivo con le lente lumache che la sormontano. Un’attenzione particolare merita sicuramente la tavola imbandita nel grande salone in cui si ha l impressione che i commensali siano appena alzati. Avanzi di cibo, pillole sigarette, dentiere realizzati in maniera magistrale riempono in maniera confusa i piatti e sulla tovaglia macchiata, un omaggio ad Ascoli: i cartocci di olive fritte e l’immancabile Anisetta Meletti. Stefano Verri

ambiente circostante energia e luminosità proprie, le quali si diffondono a partire dalla superficie della tela e irradiano di un’aurea mitica lo spettatore che si accosta ad esse, costituendo una sorta di soglia tra il sogno e la realtà, tra il mondo reale e un mondo immaginario meraviglioso. La totale libertà espressiva delle opere mette in scena un campo visivo in cui le composizioni vibrano di sensazioni ed emozioni, le quali prendono corpo nello spazio, andando a formare una sorta di metafisica architettura interiore. Infatti le grandi tele raffigurano cieli stellati e paesaggi fantasiosi in cui primeggiano vaste campiture di colori primari che restituiscono calore e pathos grazie alla loro intensità e vitalità, effetti conferiti tramite l’utilizzo di pigmenti naturali. De Maria, protagonista della Transavanguardia italiana, sperimenta l’attività artistica come un fare che affida al segno e alla materia la propria forza espressiva, in cui l’istante diventa un tunnel temporale

capace di far comunicare l’oggi con il passato e con il domani. Ciò che egli genera è un “ponte” verso il mondo dell’immaginazione creativa che trasporta in un’altra dimensione, dove apollineo e dionisiaco convivono in perfetto equilibrio e, dove l’immagine è imbevuta di elementi surreali raffiguranti composizioni desunte dalla realtà del mondo esterno rielaborate in forme astratte, in cui si sottolinea il piacere della pura forma pittorica ponendo in secondo piano il loro valore intrinseco. Ad avvalorare questa visione fluttuante e onirica della proiezione del sé in una dimensione altra vi sono alcune opere storiche di minori dimensioni che accompagnano la grande installazione ambientale, tra cui una valigia dipinta, la quale allude in maniera esplicita ad un viaggio essenzialmente interiore, vedendo la vita come un luogo di emozioni, in cui si è proiettati in costante tensione verso la ricerca dell’anelato “senso di meraviglia e stupore”. Angela Faravelli


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Annamaria Suppa, Puzzle, n.6 cubi cm.9x9x9 intercambiabili.

Galleria BLUorG, Bari

Annamaria SUPPA ’arte come gioco e il gioco come mezzo per conoscere l’arte. Si affida a questa L tautologia l’ultima mostra di Annamaria Suppa, che si mette “in gioco” rinunciando anche all’autorialità per coinvolgere gli spett-attori e le osserv-attrici in un agire ludico dell’opera, a dimensioni ambientali. Le relazioni tra gioco e arte hanno evidenziato intrecci fruttuosi soprattutto nel periodo delle prime Avanguardie Storiche del Novecento e successivamente in quello delle Seconde Avanguardie. Connotate da caratteristiche di ironia, casualità, fantasia, queste relazioni consentirono a movimenti come il Futurismo, il Dada, il Surrealismo di forzare le regole dell’estetica tradizionale per sconvolgere il sistema della comunicazione visiva. Hanno messo in gioco i canoni comuni innumerevoli opere contemporanee di grande leggerezza poetica, dove immaginari irrazionali si con-

Annamaria Suppa, Omaggio all’Arte Contemporanea - gioco dell’oca. Installazione.

taminano e si materializzano nell’estrose sperimentazioni di artisti geniali che hanno creato oggetti ludici e invenzioni stravaganti. Nel testo critico che accompagna la mostra dalla BLUorG, la curatrice Antonella Marino spiega l’approccio intrigante della Suppa svelando le regole di un canzonatorio Gioco dell’Oca, che grandeggia a pavimento nella prima sala della galleria; qui maxi-caselle accolgono alcuni protagonisti dell’arte contemporanea (Mondrian, Burri, Fontana, Pascali, Kounellis, Cucchi, Paladino, Cattelan …) con poche righe che ne descrivono il lavoro. Richiama invece la pittura industriale di Pinot Gallizio il grande foglio estraibile disponibile per i disegni dei visitatori, sia grandi sia piccini. Mentre gli incastri modulari di un puzzle gigante diventano simbolica opera aperta alla creatività diffusa collettiva. Maria Vinella

Installation view, “Nicola De Maria. From the Venice Biennale 1990”, Cortesi Gallery, Milano, photo by Lorenzo Croce, courtesy Cortesi Gallery London – Milano – Lugano.

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Spazio Tender, Bari

Pino PIPOLI

na “camera della memoria” personale. Una minimale “stanza delle U meraviglie” scandita da oggetti, reperti,

foto, dipinti, disposti con nitore mentale e sintesi emozionale in tutte le direzioni, per terra, sulle pareti o dall’alto soffitto verso il basso. E’ una “capsula” psico - temporale quella ambientata da Pino Pipoli nello spazio Tender, sede distaccata della Galleria Doppelgaenger di Bari. Per l’artista - nato a Molfetta (nel’62), cresciuto nel capoluogo pugliese e poi trasferitosi prima a Colonia e da diversi anni a Milano – è il risultato di un “ritorno a casa”. Come un etnografo (Hal Foster insegna), Pipoli ritrova tracce della propria storia svuotando scatole e cassetti abbandonati nella vecchia abitazione di famiglia. Le testimonianze del passato - una foto di quando era bambino, il disegno di un clown donato dalla zia, un piccolo gioco, uno specchio, delle lastre in vetro - si trasformano in nuovi manufatti artistici con pochi interventi: sovrapposizioni pittoriche, accostamenti inediti, asPino Pipoli

semblaggi che attualizzano sensazioni e ricordi. Fulcro di questo “viaggio” virtuale è l’installazione al centro dell’ambiente: un grande cappello nero con occhietti a taglio (della collezione ad edizione limitata che ha realizzato l’anno scorso per Marselleria) funziona come suo alter ego. Si riflette su una lastra specchiante posta sul pavimento, e si collega ad un rotolo di feltro bianco come simbolico tappeto volante. Altrove troviamo un cassettino aperto con una costruzione con cui giocava da piccolo. Oppure una barra d’ottone che sembra citare De Dominicis, ma reca impresso il segno della sua altezza. E ancora, “cellule” di calza nera che evocano la maternità. Un mazzo di carte legato con un laccio di scarpa. Un quadretto con la tautologica figurazione di un “Pino”. Un altro cappello con cosmologie di pianeti e sfere. E poi, sparse in più punti, delle pepite dorate che rimarcano l’eleganza formale dell’insieme. Ricorrente, in questi lavori come in tutta la sua produzione, è l’insistenza sullo sguardo: inquietante nell’ immagine manipolata del clown; come esigenza di concentrazione nel tondo lasciato libero al centro di uno specchio circolare oscurato con la pittura, che suggerisce una visione monoculare. Il campionario di tecniche e di materiali è anche il riflesso di una formazione eclettica, che vede Pino Pipoli impegnato in parallelo come scenografo, grafico, art director, product designer, illustratore, sound designer… Difficile dunque ingabbiare in schemi una ricerca che si dà per frammenti, associazioni concettuali, catene di senso spesso stranianti. Una chiave ce la offre però lui stesso. “Latitante interprete della realtà” ama infatti definirsi. Rivelando così che anche quando, come in questo caso, il punto di partenza è evidentemente autobiografico, la sua attitudine “etnografica” ha in realtà un raggio più ampio. Recupera cioè lacerti del passato, suo ma anche di un’intera generazione, e ne connette spunti per capire il nostro presente e magari proiettarsi progettualmente nel futuro. Antonella Marino Galleria Marconi, Cupra Marittima

LIUBA Guardando Oltre

pesso ci troviamo a prendere delle posizioni assolute senza offrirci la possiS bilità di riflettere sul merito. Osserviamo,

parliamo, discutiamo come se fossimo in possesso di una verità che nessuno può scalfire, perché certa e inattaccabile. In fondo quella che manifestiamo è una forma di cecità mentale perché non riusciamo a cogliere il senso delle cose che ci circondano e a vedere le opportunità e le sfumature che emergono. Eppure sarebbe sufficiente cambiare prospettiva per vedere

Liuba, Guardando Oltre, Installazione - photo Catia Panciera

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che le cose sono più articolate e complesse di come le andiamo a considerare. Tutto questo per dire che riuscire ad andare oltre alle proprie certezze è un buon modo per vivere e convivere con i nostri simili. LIUBA, con la personale Guardando Oltre, presentata alla Galleria Marconi di Cupra Marittima compie esattamente questa operazione e lo fa costruendo due percorsi differenti e complementari. Cosa vuol dire essere ciechi in fondo? Significa non vedere, la risposta rasenta l’ovvio. Ma ci sono molti modi di non vedere, sia perché non si può fisicamente, sia perché non si vuole moralmente o idealmente. LIUBA cerca di aprirci gli occhi su questo: un cieco come vede una mostra di arte contemporanea? Come percepisce le immagini? Il cieco di Gerico ci fa riflettere su questo, con la provocazione di (non) vedere le opere d’arte e di compiere nel contempo un’operazione artistica. Il discorso della cecità si sposta poi sulla questione dei migranti e di un mondo che non riesce o non vuole mai veramente osservare la realtà in tutte le sue sfaccettature. “Le persone che salgono sulle note carrette del mare sono duplicemente cieche. La guerra e gli strateghi che la fomentano distruggono intenzionalmente ogni traccia materiale della loro identità perché un uomo senza storia non esiste e quando le bombe negano pure il presente, si è incapaci di intravedere il futuro. Nel momento in cui si decide di fuggire da fame, abusi e persecuzioni è un po’ come strizzare gli occhi, aggrapparsi alla fede e saltare in un oscuro burrone con la speranza di trovarvi una sotterranea via di fuga.”, scrive Valentina Falcioni nel testo critico che accompagna la personale. La mostra si articola attraverso foto, video ed installazione facendo toccare gli occhiali che Liuba ha trasformato appositamente per farli diventare da strumenti di vista a oggetti utili per riuscire a guardare oltre, dopo averli verniciati di bianco. La mostra si è aperta poi con Tiresia Marittima, una performance collettiva in cui le persone che erano intervenute per il vernissage hanno indossato gli occhiali per fare, attraverso le vie di Cupra Marittima, una lunga passeggiata che è stata documentata fotograficamente da Catia Panciera. A tutti i partecipanti LIUBA ha rilasciato un attestato firmato da lei. Nel mondo antico ai ciechi erano riconosciuti poteri divinatori, Tiresia, l’indovino più celebre della mitologia greca, era appunto cieco, e questa situazione gli offriva la possibilità di guardare oltre fino alla volontà degli dei. Liuba ha offerto la possibilità, a chi ha partecipato alla performance, di percepire la realtà circostante in maniera diversa, affidandosi ad altri sensi, per potersi orientare, e di “guardare” con un altro senso il mondo intorno. Dario Ciferri

Liuba, Guardando Oltre, Tiresia Marittima- photo Catia Panciera


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Bernard Aubertin, Allumettes brulées,1974 Fiammiferi bruciati su cartoncino, 104x70cm.

ABC Arte, Genova

Bernard AUBERTIN i sono mostre che offrono l’opportunità di scoprire o riscoprire il lavoro C di artisti che, per innumerevoli ragioni,

logo, una valida e convincente alternativa alle coeve ricerche dell’ objecthood del Nouveau Réalisme. Bernard Aubertin si muove nella stessa direzione di Klein, suo unico e autentico seguace in Francia, pariteticamente ossessionato da un solo colore: il rosso. Aubertin, tuttavia, propone soluzioni più radicali, dove le pulsioni del gesto si combinano alla materia e dove questa, attraverso la sensibilità del colore, diventa il mezzo per liberare energia vitale. Animatore negli anni Cinquanta del “Gruppo Zero” di Düsseldorf, nel 1962 è presente alla fondamentale collettiva Tentoonstelling Nul dello Stedelijk Museum di Amsterdam, esponendo a fianco di Armando, Bury, Castellani, Dadamaino, De Vries, Dorazio, Fontana, Goepfert, Haacke, Henderikse, Holweck, Kusama, Lo Savio, Mack, Manzoni, Mavignier, Megert, Peeters, Piene, Pohl, Schoonhoven, Uecker e Verheyen, che rappresenta un chiaro e immediato segnale di dove concettualmente la sua opera andava collocandosi sin dagli esordi. E, infatti, è sempre Gualdoni a spiegare: «la “situazione pittorica del rosso” evocata dal titolo – della mostra richiama a – “un concetto spaziale”, […] – che – indica Bernard Aubertin, Dessin de feu, 1974. Acrilico e fiammiferi bruciati, 100x74cm.

il pubblico – e il mercato – ha a lungo trascurato. È questo il caso di Situazione pittorica del rosso, esposizione dedicata al francese Bernard Aubertin, la cui opera, da circa un decennio, è nuovamente oggetto d’interesse sia storiografico sia divulgativo. In questa elegante retrospettiva, incentrata sulla nodale produzione degli anni Sessanta e Settanta, si fa il punto della situazione sul suo importantissimo contributo dato alla storia dell’arte nell’ambito delle ricerche riduttive e analitiche europee, tendenti, in quel momento, e per ciò che attiene alla pittura, all’indagine monocromatica. Si pensi alla dirompente figura di Yves Klein e ai suoi studi, avviati nel 1957, proprio sulla monocromia che offrono, come spiega dettagliatamente Flaminio Gualdoni, curatore della mostra e autore del testo in cata-

Bernard Aubertin, Dessin de Feu circulaire, 1973. Fiammiferi bruciati su alluminio, 90x90cm.

la chiarezza della posizione di Aubertin». Per la critica Dominique Stella, anch’essa autrice di un testo sul monocromo, i quadri di Aubertin, diversamente da quelli dei colleghi tedeschi e italiani, più dediti a fredde prove di serialità e ripetizione, sebbene mai prive di una soggettivazione dell’artista, esprimono un senso di spiritualità, un ascetismo che le eleva a un grado di diversità e unicità in quello stesso panorama creativo. Per Stella, l’arte di Aubertin è una preghiera, nelle sue tele si legge il cuore della sua anima e del suo spirito, dove il rosso, intorno al quale insiste ostinatamente per una vita intera, è la sua stessa energia vitale. Così per Gualdoni l’automatismo psichico del gesto di dipingere di Aubertin è come: «una corrente permanente di vitalità pura, un’estasi dinamica essenzialmente euforica, in sintesi una realtà interna assoluta». La ricerca del maestro francese va oltre, sin dal principio, la mera sintesi color field, riuscendo a sviscerare l’essenza stessa del rosso, in un approccio alchemico alla tela attraverso combustioni, bruciature, come quelle di fiammiferi e l’uso vivo della fiamma, le cui tracce restano in caramellizzazioni o cremazioni della pittura stessa. Così: «Piantare 3.000 o 5.000 chiodi in un tableau-clous, bruciare 8.468 fori per un tableau-pyropoème, sovrapporre 100 strati di pittura rossa su una tela, testimonia la volontà – di Aubertin – di giungere al limite dell’impegno».

Bernard Aubertin, Situazione pittorica del rosso - allestimenti.

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Fondazione Pascali, Poilignano a Mare

Cristiano DE GAETANO

’intera opera di Cristiano De Gaetano è fatta di tempo, un tempo la cui naL tura mutevole, precaria, transitoria, fluida

le opere analizzano, indagano, scavano … Esordisce così il curatore della mostra “Speed of life”, Christian Caliandro, presentando la mostra antologica dedicata all’artista nato a Taranto nel 1975 e scomparso nel 2013 a soli trentasette anni. L’esposizione, con grande suggestione, ripercorre le tappe essenziali della ricerca dell’artista pugliese, dagli esordi destinati alla sperimentazione di materiali e tecniche, all’evoluzione della pittura in cera pongo su sagome di legno fino all’ultimo periodo di attività segnato dall’intrigante sequenza di opere in ceramica. Grazie all’itinerario attraverso i lavori in mostra – dagli Autoritratto del 2000, alle serie fotografiche Size S size L (2004), Nurse (2005), Uncle (2006), da Red Man del 2007 a Family in the Old City (2007), a Woman in Flowers #2 (2007), al bellissimo Ice Age (2007), ai deliziosi Brothers (Frida e Giordano) e Grand Mother del 2009, e tante altre opere ancora, e sino all’autoritratto in ceramica del 2011 e alle ultime sculture in ceramica e terracotta (e stoffa) del 2012 – diventa chiara e ben comprensibile una ricerca accurata che si sviluppa mediante alcuni nuclei tematici precisi: l’identità personale in sussultoria mutazione; l’identità collettiva espansa in un’atmosfera tutta familiare che ingloba parenti, antenati, amici; una narrazione per figure fatta dalla stratificazione di ricordi e memorie, che assumono i contorni di un intero universo simbolico. “Un mondo di frammenti, di scaglie, scorie del tempo passato, che si dispone e si ricompone sotto i nostri occhi; che sta passando e continua a passare, in perenne transizione. Un mondo convincente e persuasivo, anche a tratti malinconicamente apocalittico” (Caliandro). Dunque, all’insegna dell’eclettismo, il talento visionario di Cristiano De Gaetano esprime tutte le urgenze della congiunzione dell’essenza percettiva con quella materica, della figurazione con il concettuale, del mentale con il corporeo, della razionalità con l’emozione. Dimensioni, queste, compresenti nell’esperienza del e nel reale che l’artista ha condotto, portando a compimento le proprie indagini visive. In un’avventurosa analisi delle possibilità espressive contemporanee, l’artista tarantino procedeva affidando il proprio vasto patrimonio mnemonico a sperimentazioni differenti, condotte utilizzando come campi d’azione la fotografia e il video, la pittura e l’installazione, la scultura e l’environment. In tal modo, fondendo e intrecciando modi, strumenti, materiali, egli produceva situazioni visive disponibili ad aprire con l’osservatore un dialogo affidato alla curiosità e alla sorpresa. In mostra, molti lavori delegati alla tecnica della cera-pongo su legno, tra ambiguità e ironia, raffigurano l’apparente normalità di una quotidianità fuori dal tempo e svelano un micromondo autobiografico definito in maniera iperrealistica. L’effetto finale, virtuosisticamente malioso, è di un aggetto reale ma ancor più percettivo, che riempie di colore lo sguardo dell’osservatore. Mediante la texture fittissima che accosta i toni e li sovrappone con maniacalità puntinista, l’artista otteneva un risultato visivo che elideva i confini tra fiction e realtà per divenire pura evocazione (ma anche impura provocazione), in grado di sollecitare l’attenzione percettiva in base

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alla distanza focale tra noi e l’opera. Lo sguardo distanziato, infatti, può cogliere la dimensione intima di sguardi sgranati e timidi sorrisi; lo sguardo ravvicinato, invece, può cogliere un tripudio di piccolissimi, festosi pallini di materia/colore raccolti in una serrata e fitta trama astratta capace di catturare la luce nella superficie oleosa della cera. Quasi identica cosa è evidente nelle ultime opere in ceramica, dove la luce si lascia questa volta catturare dalle

superfici resinose e dal lustro-oro o argenteo. Sicuramente, la potente forza creativa di De Gaetano avrebbe condotto il giovane artista verso ancor più grandi conquiste, sostenute da quelli che Antonella Marino nel saggio in catalogo definisce gli ingredienti eccellenti della sua troppo breve carriera: creatività irrequieta, ansia fabrile, energica fragilità, poetica versatilità, “destini di vita consumata in fuoco rapido”. Maria Vinella

Rizzuto Gallery, Palermo

indicare una trasformazione, grande o piccola, che avviene in noi, nei nostri pensieri o nelle nostre azioni. A partire dagli anni ‘70 l’idea di salto quantico viene accostato ad un cambiamento della coscienza, un salto di consapevolezza, una crescita della conoscenza, un risveglio interiore, un passaggio evolutivo per accedere ad una nuova dimensione esistenziale, dove si aprono quelle stesse infinite e misteriose possibilità della materia». Tutto ciò accade all’interno di una concatenazione di traguardi importanti per la città di Palermo: l’entrata nel “Patrimonio dell’Umanità Unesco” con il suo percorso arabo-normanno del 2015, l’elezione di quest’anno a “Capitale italiana dei Giovani” e quella del 2018 a “Capitale italiana della Cultura”, nonché sede della dodicesima edizione di “Manifesta”, la biennale itineraria di arte contemporanea. «Questo cambiamento -dichiarano Eva Oliveri e Giovanni Rizzuto- ha una grande importanza per noi, per il nostro lavoro e per il rapporto con la nostra amata città. Il trasferimento nel centro storico nasce dal desiderio di continuare la nostra attività in un contesto capace di testimoniare la bellezza e il valore storico, culturale e artistico di Palermo, e dalla volontà di innescare quello che ci piace definire uno “scambio energetico” tra noi e la nostra città, fatta di luoghi, ma anche di persone. Crediamo nella cultura come motore economico e sociale, e siamo assolutamente convinti che il respiro internazionale dell’arte contemporanea sia un magnifico strumento per contribuire al rinnovamento e alla promozione di una grande città quale è Palermo, un territorio di ricerca complesso e affascinante, con una stratificazione culturale che da sempre è capace di creare integrazione; una città che brilla di luci speciali e che possiede tutte le caratteristiche per essere una grande capitale in Italia e in Europa». Dario Orphée La Mendola

Quantum Leap in dal 2013, anno di nascita della “RizzutoGallery”, ideata da Giovanni F Rizzuto ed Eva Oliveri, il messaggio è sta-

to chiaro: arte contemporanea e linguaggi sperimentali. Nonostante la breve vita, l’ampia “squadra” di artisti e le costanti partecipazioni alle fiere le hanno reso una storia professionale eccezionalmente consistente. Da “Corpi sociali” di Turi Rapisarda, al progetto “Le stanze d’Aragona”, diviso in tre capitoli e contenitore di trentasei artisti, fino a Stefano Cumia, Giuseppe Adamo, Francesco Surdi e Francesco De Grandi, citandone soltanto alcuni, leggiamo un itinerario artistico che, nel panorama nazionale, ha inciso sul piano della ricerca. Oggi, con l’apertura della nuova sede alla Kalsa, delizioso quartiere arabo-normanno di Palermo, composto da viuzze e profumi, contraddizioni edilizie e coerenze multiculturali, la “RizzutoGallery” sottolinea maggiormente il messaggio di cui è stata promotrice a partire dalla sua fondazione. Una collettiva, “Quantum leap”, narra le caratteristiche di questo “mutamento”. Otto gli artisti in mostra: Adamo, Catelani, Cumia, De Grandi, Fleig, Maderthaner, Rapisarda, Splitt; accompagnati dal testo critico di Tiziana Pantaleo che focalizza, all’interno della trasformazione (innanzitutto fisica) dello spazio espositivo, una sorta di “risveglio” verso una consapevolezza esistenziale in grado di determinare nuove direzioni, sia energetiche che materiali: «Nella traduzione letterale dall’inglese -scrive PantaleoQuantum leap significa “enorme cambiamento”, mentre in fisica quantistica è il termine usato per definire un passaggio dimensionale di energia, composta da quanti appunto. Il “salto quantico” è poi entrato nel linguaggio comune proprio per

Vedute dell’allestimento Quantum Leap, alla Rizzuto Gallery di Palermo


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Nicola Pedana, Caserta

Vittorio MESSINA “Io ho trovato casa qui, in questo spazio. Per due mesi vi ho trasferito le mie opere e in qualche modo anche me stesso”. A dirlo è Vittorio Messina. La galleria di Nicola Pedana a Caserta è diventata un’unica grande “cella”, l’unità abitativa primaria che è tanto cara all’artista. Tre le grandi opere site-specific esposte. Sono tre installazioni ambientate proprio in galleria. Nel catalogo l’ampio e analitico saggio introduttivo di Marco Tonelli che parte proprio dal titolo, un’intuizione congiunta dell’artista e del curatore: “In un certo senso infinito”. Ma di infinito non c’è il silenzio. La mostra è una sinfonia e i tre imponenti lavori proposti sono partiture razionalmente ed emotivamente legate tra loro, con una corrispondenza di amorosi sensi. Ecco, nella parola “senso” forse la chiave di lettura dell’intera mostra. La sala espositiva è un festival di sensi, è una cella che si apre all’infinito dei pensieri, dei ricordi, delle speculazioni riflessive. Si apre a quell’infinito che non potrà mai essere silenzioso, ma vivrà di un concerto visivo e dei segnali sonori che sono dentro e fuori lo spazio, partendo dal suono del respiro di ogni singolo visitatore per arrivare alla città che avvolge la galleria con le sue voci e i suoi rumori. Ed è questa polifonia umana a dare un senso certo all’infinito immaginifico. È

la dimostrazione che l’opera d’arte vive in simbiosi con chi la osserva, la scruta, la esplora. L’opera d’arte è viva e si trasforma attimo dopo attimo a seconda di chi la guarda, la immagina, la ricorda. Una cella, sempre nel linguaggio preso a prestito da Vittorio Messina, è «Chamber Piece», la partitura “da camera” che si propone come parte integrante della sinfonia installativa. Non è uno spazio chiuso, ma è piuttosto l’abbozzo di una costruzione, con blocchi di calcestruzzo cellulare gasbeton, con capitelli, con colonne, e poi le sedie sovrappposte. Per copertura due ombrelli vezzosi, dai colori tenui, futili perché non utili come tetto, legati alla struttura metallica con morsetti. “Attica”, l’opera a parete in nove “quadri”, tre volte il numero perfetto, è una scala cromatica e musicale. Il cotone cade giù dai sostegni metallici come un perfetto drappeggio statuario. La prova del nove è nella creazione di sculture «morbide» e al tempo stesso capaci di simulare la rigidità. Ma l’opera, si sa, è un artificio. Ogni «attica» è una colonna tra/vestita. Il terzo movimento di questa sinfonia tripartita è la “Turris alba”, con il candore del gasbeton che ascende verso il cielo in una stanza. È il sogno della scala di Giacobbe, il tentativo di salire verso una spiritualità che dà un altro senso all’infinito. Con la connotazione di eternità si passa dallo spazio senza limiti al tempo senza fine. «In un certo senso infinito – sottolinea Marco Tonelli – vuole essere un titolo di una mostra, ma anche una provocazione intellettuale, un modello visivo, una co-

municazione estetica, un’affermazione che sollecita domande”. Ed è bello lasciarsi con una domanda, perché ci sono domande che non hanno bisogno di risposte, soprattutto perché non amano repliche. L’arte ha un senso, o ne ha molteplici? Oltre i cinque, oltre il sesto? L’arte ha un senso infinito, fuori dallo spazio e dal tempo? La verità è che l’arte trova casa, o meglio cella, ogni volta che pone domande a chi interagisce. Il suo compito non è dare risposte, non è assicurare il certo, ma generare richieste, inquietudini, dubbi. L’arte determina rivoluzioni nell’infinito dell’animo umano. Enzo Battarra Vittorio Messina, Senza Titolo, 2017. courtesy Nicola Pedana, Caserta

Museo Mambrini, Galeata

Lucia ROTUNDO a traccia seguita da Lucia Rotundo nella sua carriera artistica è un’eterea L atmosfera surreale, sospesa tra il mondo

sensibile e un eden ovattato dalla purezza del bianco e dalla trasparenza del cristallo. All’interno del Museo Civico Mons. “Domenico Mambrini” l’aura dell’oro si somma all’acromia dei materiali, fermando il tempo, «il più grande e il più antico di tutti i tessitori. – scriveva Charles Dickens - ma la sua fabbrica è un luogo segreto, il suo lavoro silenzioso, le sue mani mute». Mute come le sale allestite dalla Rotundo, nelle quali il visitatore resta incantato, in contemplazione di fronte alla ricchezza delle opere esposte. Altorilievi, bassorilievi, tuttotondo, un’accurata selezione di ‘frammenti’, frutto di attente e studiate riflessioni dell’artista. Niente è lasciato al caso, accogliendo l’idea di leggerezza di Italo Calvino, essa: «si associa con la precisione e con la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso». La levitas deriva dagli astratti assemblaggi, apparentemente senza peso, benché composti di materie gravi, dove i solidi geometrici diventano pareti di luce pura che proteggono ed incorporano elementi organici e inorganici. La luce naturale o artificiale, fredda o calda, risulta fondamentale nelle opere della Rotundo, abilmente guidata in modo da conferire ad ogni soggetto scultoreo molteplici possibilità di ombre e rifrazioni. Per questo motivo il materiale preponderante all’interno della sua produzione è il cristallo, la cui struttura organica permette l’assorbimento e la riflessione della luce, sospendendo la naturale percezione della materia. Non sempre, però, il cristallo è protagonista. In mostra il ventaglio di materiali selezionati dall’artista si esaurisce in una scelta minimale - peculiarità della sua po-

Particolare dell’allestimento della mostra personale di Lucia Rotundo ‘’Frammenti di una storia‘’ Museo Civico Mons. Domenico Mambrini, Galeata (FC).

etica - ma questi sono coniugati in forme e combinazioni molteplici, mai ripetitive e banali. Ogni opera racconta una storia attraverso la sapiente citazione di feticci che fanno riferimento ora al suo retaggio culturale e penso a Passaggio 2016 dove l’inserimento di una bianca rete rimanda alla tradizione dei pescatori calabresi, ora all’universo femminile come in Offertorium 2016 in cui pizzi, merletti, ricami, portano alla mente delicatezza, purezza, ma anche il folclore delle usanze vive ancora oggi nel Sud Italia. Ogni soggetto richiama la memoria di un inconscio collettivo e, anche se povero o grezzo, viene elevato a nuovo significato, posto su un elegante “altare” bronzeo, bianco, o dorato. L’insieme delle opere esposte richiama il Mediterraneo nel suo valore primordiale e originario, il mondo archetipico di Jung si fa evidente senza troppi sotterfugi. «Il suo riferimento alla Mediterraneità si sforza di risalire idealmente ad una sorta di stato di grazia tra l’arcano e l’arcaico – sostiene il curatore Paolo Balmas all’interno del ca-

talogo - o se si vuole, tra il primitivo e il primigenio che avrebbe garantito alle arti della Grecia Antica e delle sue Colonie il loro straordinario successo, ma non lo fa cercando di enucleare da prodotto finito e già celebre, la sua formula nascosta, il suo segreto da tradurre in regola, bensì cercando di ricostruire idealmente un avvio». Sempre nel catalogo commenta così la giovane curatrice Martina Soricaro: «Ed è nella serie Graecia (2014) che questi simboli archetipici si impongono allo sguardo come protagonisti indiscussi, sotto forma di sottili fili metallici, isolati nella trasparenza del cristallo». A coronamento della mostra l’installazione site specific Viaggio a Galeata, tra corrispondenze e analogie, attraverso la quale l’artista delinea un percorso personale del Museo, ascrivendo all’interno di acrome cornici reperti preistorici e medievali in corrispondenza semantica con la semplice eleganza delle sue composizioni scultoree: inni alla forza generatrice della natura, sottolineandone la sua superiorità sull’arte. Alice Iorfrida GIUGNO/LUGLIO 2017 | 263 segno - 85


Stefania Galegati

Studi legali, Palermo

RIZOMATA erché cadere? Cadere nasce ai margini dell’equilibrio. Diventa il confine P oltrepassato della finzione di starsene in

piedi. Che era faticoso: un obiettivo per apparire vivi. Eppure non c’è abisso nel cadere, perché non sarebbe caduta. La chiameremmo “presenza”, altrimenti, quella che mai si nota, che sempre sfugge, che non cade insomma. Invece, nel cadere, qualcosa risuona: sarà il tonfo del corpo e dell’imbarazzo. Poi il vuoto, e un pianto. C’è chi accorre (gli uomini sono così: si odiano, e si aiutano), chi prova orrore. Il caduto -ecco un paradosso- certamente si accorgerà di trascendere, non del monumento, il quale è per coloro che non sono caduti ancora. Ma potrebbero. E se tutti cadono, nulla è stabile: è vulnerabile. Non eravamo legati? Non avevamo legami? La digressione nella caduta è una piazza

Raffaele Guida, Senza titolo, 2017. Pietra e ferro.

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di Palermo, ai piedi del palazzo di governo (nessuna metafora e assonanza...), a metà tra il centro storico e lo scempio urbano. Ogni cosa è in ordine e segue il rituale da cerimonia: il silenzio che precede il senso, l’attesa dei testimoni istituzionali, il nastro da tagliare, la targa commemorativa coperta, l’averne cura. Il soggetto, cioè il caduto, è un pino marittimo abbattuto da cause naturali: le sue radici per aria, fuori contesto, lo rendono una manifesta immagine di sofferenza; più di un semplice albero, dunque. A guidare il memoriale, che rientra nel ciclo di mostre “Rizòmata” curate da Antonella Marino, in collaborazione con la galleria “Cosessantuno Arte contemporanea” di Taranto, è Stefania Galegati, autrice di un testo che amalgama tale performance, la cui figura retorica della ripetizione accentua la drammaticità dell’evento. Al chiuso, presso gli studi legali “Malinconico_Lenoci_Cassa, Catalano & Pastoressa_LegalResearch-Gentile & Partners_La Pesa”, il discorso concettuale della Galegati continua con i dipinti a parete, disseminati per le stanze (compresi i bagni), dalle tematiche e dalle tecniche che intendono sottolineare le zone “geografiche” più umili dell’esistenza, con una sorta di, scrive Antonella Marino, «attrazione per il “dietro e il sotto” delle cose», tipica inclinazione dell’artista che avvia la ricerca «dalla quotidianità e dalle sue tante storie» per giungere, nell’esecuzione pittorica, a variabili infinite. In rassegna le serie degli ultimi anni: i “Bunker” del 2004 e 2005 che illustrano i rifugi della prima guerra mondiale, resi quasi “materiale” archeologico, oggi contenitori di vuoto e di un’umanità ambigua; gli “Illuminati” del 2013, olii su cartone che ospitano donne e uomini colti nel sonno in ambienti pubblici, trafitti sulla fronte da cristalli luminosi, che proiettano la trasparenza di un’entità onirica impalpabile; e gli “Zoo”, masse architettoniche che parlano della garanzia delle distanze di sicurezza. Rialzandosi dopo la “caduta”, viene in mente che per «[...] cogliere l’effetto rassenerante della pagina del poeta dobbiamo leggerla lentamente», scriveva Bachelard. «Se la nostra comprensione è troppo immediata, dimentichiamo di sognarla come è stata sognata. Soltanto

grazie a una lenta lettura riusciamo ad approfittarne come di un dono di giovinezza, perché anche noi un tempo abbiamo creduto di vivere ciò che sognavamo...». E di questa lentezza ne è convinto Raffaele Quida che, sempre agli Studi legali, ha inaugurato la quarta puntata di “Rizòmata” insieme a Luca Vitone. Nel progetto di Quida vi sono due inedite serie di opere, che riflettono sulla sempiterna -forse inconciliabile, forse inscindibile- dicotomia spazio temporale, in un dialogo «non omologato con il territorio». Con “Ritagliare gli spazi” ci troviamo di fronte a distese di carte bianche, fluidamente monocrome soltanto all’apparenza: poiché, all’interno, sono incastonati geometrismi appena percettibili. Si tratta, infatti, delle ombre proiettate su fogli fotosensibili di strutture architettoniche non ancora terminate o definitivamente abbandonate; un’abile cattura di “anime” dai luoghi che, per un occhio asettico, sembrerebbero sprovviste, ma la cui luce, simile a una mano umana dotata di grafite, traccia i chiaroscuri. In “Black noise”, invece, sono l’olio combusto, il succo esausto delle macchine industriali, insieme a un’installazione sonora che riproduce suoni di cantiere, i medium della ricerca, inseriti su superfici che tengono in comune toni scuri con gradienti differenti. A far compagnia a essi due microinstallazioni “urbane”, composte da colate di gesso con tondini delle fondamenta e ferro zincato con saldature a vista; e le “Superfici”, cioè due vecchi fogli di archivio utilizzati per la classificazione di terreni agricoli da cui emergono fotografie. La cura di Antonella Marino e la collaborazione della galleria “Cosessantuno Arte contemporanea” di Taranto per la rassegna “Rizòmata”, pregne di una filosofia dal sapore empedocleo, sono state questa volta integrate dal supporto critico di Paolo Falcone, e da un confronto artistico -si accennava-, con Luca Vitone. Le affinità tra quest’ultimo è Quida sono evidenti: le atmosfere dei luoghi raccontate attraverso processi atmosferici, mantenendone le identità e le caratteristiche “intime”. Tre le opere di Vitone: “Finestra III” del 2004, un acquerello su carta con polvere raccolta alla Stecca degli Artigiani di Milano; “Io, Roma (via del Porto Fluviale)” del 2005, una tela di lino “dipinta” da agenti atmosferici; e “Il Piffero delle Quattro province”, una scultura in ceramica sulla città di Genova. Dario Orphée La Mendola

Luca Vitone, Finestra 111, 2004.


PAOLO SCIRPA

LA FORMA DELLA LUCE, LA LUCE DELLA FORMA A CURA DI MARCO MENEGUZZO

FINO AL 25 GIUGNO 2017

Paolo Scirpa, Ludoscopi nn. 154, 155, 146, 163. Profondità virtuali, 1989 e 1995. Legno, neon azzurro, verde, bianco, specchi, cm. 50x50x75, cm. 50x50x85, cm. 50x50x53, cm. 40x40x70. Installazione, 2017. Foto di Daniele Fregonese

FAM FABBRICHE CHIARAMONTANE Piazza San Francesco 1, Agrigento

www.fabbrichechiaramontane.com www.paoloscirpa.it


Casa Circondariale, Taranto

L’altra città un’emozione viverla, è un’emozione È raccontarla” afferma Achille Bonito Oliva, curatore generale del progetto ar-

tistico “L’altra città”, aperto nella Casa Circondariale “C. Magli” di Taranto, fortemente voluto dall’Amministrazione penitenziaria di Puglia e Basilicata, coordinato da Giovanni Lamarca, commissario capo del reparto di polizia della Casa Circondariale, con la collaborazione dell’Associazione “Noi e Voi” e con il patrocinio del Ministero della Giustizia e di numerosi enti istituzionali. L’idea progettuale de “L’altra città” è quella di ridurre le distanze tra società civile e carcere, creando con il linguaggio dell’arte un collegamento, un ponte di grande e nuova solidarietà sociale. Un percorso culturale e sociale permeato dal linguaggio dell’arte che presenta l’esperienza detentiva come una reale opportunità di crescita interiore e di apertura ad ulteriori e possibili cambiamenti, un salto di qualità alle iniziative di rieducazione del recluso. Su questo idea sono stati coinvolti detenuti, personale dell’Istituto, esperti del mondo dell’arte: da Achille Bonito Oliva a Giulio De Mitri, a Roberto Lacarbonara. A Giulio De Mitri, artista da sempre impegnato nel sociale, sono state affidate un gruppo di detenute, eterogenee per provenienza geografica, età e formazione, prive di qualsiasi conoscenza artistica. L’artista le ha accompagnate e guidate in uno straordinario laboratorio di creatività artistica che ha privilegiato l’alternanza tra attività operativo-cognitive e fruitivo-critiche, una palestra estetica, un momento educativo finalizzato a stimolare i sensi e propedeutico alla conoscenza dei processi creativi. Il laboratorio ha stimolato i reclusi a significativi momenti relazionali e socializzanti, privilegiando, anche, alcune pratiche dell’arte moderna e facendo apprezzare i diversi artisti: da Picasso a Max Ernst, da Matisse a Duchamp. Entusiasmo e creatività hanno così sublimato e trasformato in

positivo anche la tensione detentiva che ognuno di loro vive quotidianamente, come afferma la sociologa Anna Paola Lacatena. Essi hanno contribuito con il laboratorio ad elaborare un proprio e insolito immaginario che ha mutato completamente la natura di quella che, precedentemente, era un’ordinaria sezione detentiva. Un progetto innovativo che non si è limitato a portare l’arte dentro gli spazi di reclusione ma a trasformare il carcere in un’opera d’arte partecipata e relazionale come osserva il critico Roberto Lacarbonara, che ha contribuito alla realizzazione del progetto. “L’altra città” offre al potenziale fruitore l’opportunità di compiere all’interno del carcere un’esperienza interattiva e polisensoriale di inclusione, attraversando, come se fosse un vero recluso, tutti gli spazi riservati ai detenuti (sala d’attesa, lungo corridoio, cella nuovi giunti, residenziale o ordinaria, di isolamento, sino a raggiungere quella della pre-libertà ovvero dei dimittenti), modificati dagli stessi con il linguaggio dell’arte. Con tale fruizione l’istituzione penitenziaria si apre al mondo esterno. “Ecco fondata l’altra città - scrive Achille Bonito

Un momento performativo, il potenziale fruitore visita la cella di prelibertà (foto di G. Ciardo).

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Oliva - che include sia i “reclusi”, che sono esclusi dalla società, e sia gli “inclusi”, ossia le persone libere e conferma le parole di Baudelaire: l’arte, la sua bellezza, è una promessa di felicità. Così “L’altra città” parla alla mente attraverso il lessico del cuore”. “Un’operazione - dichiara Achille Bonito Oliva - unica in Italia. Entra in una diversa lettura del tempo e dello spazio: inedita, minuziosa, capillare, attenta al dettaglio. Da qui, credo, può venir fuori una nuova regola dello sguardo ed una nuova percezione.” Il catalogo de “L’altra città” (Gangemi, 2017), curato da Achille Bonito Oliva e Giovanni Lamarca è disponibile in libreria. Alla prefazione di Carmelo Cantone, seguono testi di Achille Bonito Oliva, Giulio De Mitri, Roberto Lacarbonara, Anna Paola Lacatena, Giovanni Lamarca, apparato iconografico (crediti fotografici di Giorgio Ciardo e Roberto Pedron) e note biografiche sugli autori. I proventi delle vendite saranno interamente destinati alla casa circondariale e all’associazione “Noi e voi” di Taranto che ha sostenuto il progetto. Lucia Spadano

Giulio De Mitri, Cella di prelibertà, interventi a parete, a soffitto, ecc. dei detenuti (foto di G. Ciardo).


attività espositive RECENSIONI E DOCUMENTAZIONE

Fam Fabbriche Chiaramontane, Agrigento

Paolo SCIRPA

onsiderando la luce, la storia dell’arte ha praticamente formato C se stessa al suo interno. Nulla sarebbe

stato senza di essa, e tutto (o quasi tutto, almeno per le arti più diffuse; o, più correttamente, accettate) è stato prodotto a motivo della sua funzionalità. Le ragioni, se è possibile andare per ragioni che sono apparentemente ovvie, ma centrali, si rincorrono in una stessa medaglia che rotola sul suo asse centrale, non riuscendo mai a fermarsi, perché alla ricerca di quella concezione - strutturata, certa - della bellezza di cui, per secoli, si è discusso (e, a osservare tanto contemporaneo, vien da dire “vanamente”). Da una parte, classicamente, abbiamo le forme ordinate secondo rapporti numerici; momento in cui si innalzano muri di validità per qualsiasi “attacco” da parte dei giudizi del tempo o degli uomini, spesso cattivi, e che tuttavia sono stati sconfitti dal meglio di quanto, nell’arte, è stato intuito, con innumerevoli tentativi di emulazione. Dall’altra, invece, la necessità “fotosintetica” delle opere artistiche, che dalla luce hanno il profitto del loro nutrimento, manifestazione di un’esistenza impalpabile (o addirittura buia), e il vanitoso atteggiamento di divenire concreta “opera” per la sensualità degli sguardi; sguardi, a loro volta, provenienti da luci. Ritorniamo indietro, bensì con una penna di oggi: «La scelta dei Greci è stata quella di tentare di circoscrivere e di inquadrare (incastonare) la presenza, di volerla affrancare dalla sua opacità portandola alla sua essenza, mirare a purgarla dal cedimento supposto nell’Essere con lo sdoppiamento esibito dall’apparenza, producendo - promuovendo - quest’ultima in un artefatto». E sì; le parole di François Jullien sembrano lì per lì, nei secondi esatti dei bagliori, utili a definire lo Scirpa de “Opere recenti”, la mostra inaugurata presso le Fabbriche Chiaramontane di Agrigento, a cura di

Paolo Scirpa, Ludo E1 bis, Espansione + traslazione, 2007 Legno, neon porpora e bianco, specchi, cm. 44x44x44 + base. Foto Angelo Pitrone

Marco Meneguzzo, che nel saggio critico introduttivo del catalogo edito da “Medusa” disegna una parabola “fluorescente” ponendo nel 1972, con i “Ludoscopi”, la fonte che irrorerà, in avanti, quei neon immersi nella forma, dai quali affiorerà, in fondo, molto in fondo (ed è emozione del sottoscritto), il nulla simile a vortice che inghiotte: quello del nostro tempo? Si azzarda questa domanda al lettore. In Scirpa, il frequentatore di arte attento lo comprenderà immediatamente, il nonbuio fuggevole è inserito nella volontà dei rapporti numerici (geometrici) e nel desiderio di essere qualcosa: una risposta al crepuscolo, una chiarificazione all’enigma

Paolo Scirpa, Veduta dell’installazione alle Fam Fabbriche Chiaramontane, Agrigento, 2017. Foto Angelo Pitrone

e, perché no, anche una danza dai passi ben misurati. Per utilizzare parole meglio dosate di queste, che esprimano il c’è e il non c’è di un medium come la luce, o i principi di una qualsiasi determinazione, ancora Jullien... che osserva l’operare di un pittore cinese. Esso, dice Qian Wenshi, «dipinge le forme che entrano nella penombra, di sera o a causa della nebbia, e disfa le limitazioni per mezzo delle quali le forme si impongono, facendo perder loro consistenza». Anche le proposizioni sembrano brillare, comunque; e di una luce strana, con cui il pensiero si specchia. Dario Orphée La Mendola

Paolo Scirpa, Cubo multispaziale n. 152, 1989/2007 Legno, neon ciclamino, specchi, cm. 50x50x50 + base 14 cm. Foto Angelo Pitrone

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>news istituzioni e gallerie< Oscar Giaconia

ALESSANDRIA

Opere in Nero

Lo Studio Vigato propone una collettiva sul colore con opere di Claudio Olivieri, Vettor Pisani, Gino De Dominicis, Simone Ferrarini, Omar Galliani, F.Bertasa, D. Borrelli, L. Carboni, P. Castels III, M. Cosua, V. D’Augusta, S. D’Ambrosio, G. Dessì, S. Di Stasio, S. Ferrarini P. Fiorentino, G. Fracanzano, A. Maltoni, P. Mignard, G. Notargiacomo, C. Olivieri, V. Pisani, P. Ruggeri, Serse, B. Strozzi, G. Zucchini.

Da Thomas Brambilla per il ciclo Wunderkammer c’è Overman, un’installazione di Oscar Giaconia. La messa in scena di un “tempo morto” attraverso il piccolo ritratto di un vecchio fisherman e di un guardiano di porci.

BOLOGNA Opere in Nero, 2017, Studio Vigato, Alessandria veduta dell’allestimento Massimo Barzagli, Fiorile, 2016, acrilico su tela courtesy Galleria Alessandro Bagnai, Arezzo

ANCONA

Evaristo Petrocchi

La Galleria Ginomonti arte contemporanea presenta una personale di Petrocchi, dal titolo Inside the isles - salpando dal Porto di Ancona. Con la mostra, a cura di Gabriele Perretta, l’artista romano lancia un messaggio culturale internazionale attraverso grandi collages nei quali si uniscono elementi fotografici e naturalistici delle nostre terre, di forte e romantico impatto emotivo.

Gorgona

Alla Galleria P420, la mostra Postgorgona, presenta un percorso che espone una documentazione fotografica delle “azioni” del gruppo, la produzione delle riviste a edizione limitata (Gorgona, Postgorgona e Post Scriptum) e una selezione delle creazioni individuali degli artisti coinvolti: i pittori Julije Knifer, Marijan Jevšovar, Đuro Seder e Josip Vaništa, lo scultore Ivan Kožaric, l’architetto Miljenko Horvat. A cura di Danka Sosic e Zarko Vijatovic.

AREZZO

Massimo Barzagli

La Galleria Alessandro Bagnai propone Ciao che presenta il lavoro degli ultimi tre anni dell’artista. In mostra sono visibili tre grandi installazioni, quattro video proiezioni e un testo trasmesso da una fonte audio. Ciao è anche un’accumulazione d’impronte di fiori fuse in lastre di gesso dal colore naturale cui sono legati fiori di plastica. Alberto Boatto concludeva in un bellissimo testo del 1994 su Barzagli con queste parole: “Gettare i fiori su questi volti assume il senso di un gesto di addio.”.

Ivan Kozaric, courtesy P420, Bologna, foto C.Favero Membri del gruppo Gorgona alla prima personale di Julije Knifer, Zagrabia, 1966, courtesy P420, Bologna

Bill Viola Evaristo Petrocchi, Vortice di baccelli di albero di Giuda, 2013, tecnica mista, cm.175x250 courtesy Galleria Gino Monti, Ancona Bill Viola, Tristan’s Ascension, 2005 courtesy Galleria Ivan Bruschi, Arezzo

La mostra Tristan’s Ascension, di scena alla Galleria Ivan Bruschi, spazio espositivo della Fondazione Bruschi, è parte del “Fuorimostra” di Bill Viola, Rinascimento elettronico, nell’ambito della grande mostra dedicata al maestro a Palazzo Strozzi a Firenze. L’opera, qui presentata in prima nazionale, è stata scelta con l’intenzione di creare suggestive analogie con gli affreschi del ciclo della Leggenda della Vera Croce di Piero della Francesca, della vicina Basilica di San Francesco. Fino al 23 luglio.

Contemporary Locus 12 è all’ex Albergo Diurno con una mostra a cura di Paola Tognon. Per Kader Attia tutto è incentrato sul concetto di “repair” che significa coinvolgere la memoria, la sua capacità di “riparare le fratture della storia”. D’altro canto Alvin Curran, pioniere della musica elettronica, si distingue per la sua capacità di comporre frammenti sonori e azioni che si tramutano in trasgressivi ed empatici paesaggi sonori.

Le sale di Palazzo d’Accursio ospitano Un decennio di ritardo, prima personale di Nocera nella sua città natale. La mostra nasce dalla stretta collaborazione fra la curatrice, Elisa Del Prete, e l’autore Mario Giorgi, con l’intento di restituire alla storia dell’arte e alla città (alcune opere saranno acquisite in collezione al MAMbo) l’eredità di una figura che rischiava di finire dimenticata. Ripercorrendo 40 anni di carriera, attraverso una cinquantina di tele, molti disegni, una singolare scultura e alcuni degli ultimi diari, scopriamo un personaggio schivo, pittore autodidatta che guarda al Rinascimento italiano come ai contemporanei informali facendo propria anche la lezione di Cézanne, la cui pittura rispecchia una condizione di precario equilibrio tra due realtà: una rassicurante classicità e il rifiuto della figurazione, la contaminazione dei materiali, il passaggio al concettuale.

Kader Attia e Alvin Curran, Contemporary Locus 2017, foto Mario Albergati

Salvatore Nocera, Villa sull’Adriatico, 1960 olio su tela, cm.120x83

BERGAMO

Attia / Curran

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Salvatore Nocera


>news istituzioni e gallerie< FIRENZE

Lorenzo Perrone

La Galleria Frascione Arte presenta i LibriBianchi dell’artista che contamino la preziosa collezione di Arte Antica della Galleria. Le opere sono il frutto delle sue riflessioni sulla cultura come nutrimento dell’anima e della mente.

mosfera, tuttavia, che con il suo ritmo – da qui il titolo della mostra Aritmosferico – cadenza anche l’ambito dei sentimenti. In questa mostra, a cura di Elena Giulia Rossi e Antonello Tolve, oltre ai lavori realizzati nell’arco di un decennio, sono esposti una serie di progetti tutt’altro che compendiari alle sculture, ma assolutamente autonomi e chiarificatori del rapporto che Piccolo intrattiene con il disegno e l’idea. MLP

MILANO

Miroslaw Balka

Lorenzo Perrone, Libri, cibo per l’anima courtesy Frascione Arte, Firenze Miroslaw Balka, In Bezug auf die Zeit, courtesy Galleria Raffaella Cortese, Milano

La Galleria Raffaella Cortese approfondisce l’opera dell’artista polacco con la mostra intitolata In Bezug auf die Zeit, che prende vita dalla definizione fisica dell’accelerazione, ossia l’aumento di velocità avvenuta in un determinato intervallo di tempo. L’artista estrapola solo la seconda parte della definizione che può essere dunque traducibile come “in relazione al tempo”.

Natalino Tondo

Alla Galleria Davide Gallo, in collaborazione con Noon, inaugura Spazio n-dimensionale prima mostra retrospettiva dell’artista salentino, a cura di Lorenzo Madaro. Con questo progetto, si attenzione su un artista, recentemente scomparso, che pur rimanendo fedele alla Puglia, ha saputo interpretare i linguaggi della sua contemporaneità in modo consapevole ed estremamente originale.

Marzio Cialdi, Futurismo courtesy Galleria Stefano Forni, Bologna Terenzio Eusebi courtesy Galleria Stefano Forni, Bologna

Natalino Tondo, Spazio n-dimensionale XIV, 1988 courtesy Galleria Davide Gallo, Milano

Cialdi / Eusebi

Alla Galleria Stefano Forni, a cura di Valerio Dehò, è impaginata la mostra L’enigma della forma, una doppia personale e anche un confronto tra due modi diversi di intendere la scultura, anche se con delle similitudini. La mostra mette a fuoco anche il rapporto tra forme e materiali, tra l’idea e la sua realizzazione pratica, la sua attualizzazione.

Perfect Day

Daniela Comani e Fabio Torre sono protagonisti alla Galleria G7. I due artisti, scrive Marra, sono “come il recto e il verso di uno stesso foglio nel quale le due facciate paiono l’una estranea all’altra, pur finendo, nello stesso tempo, per sostenersi a vicenda, apparentemente diverse pur partecipando della stessa natura, perché alla fine sono la stessa cosa, pur rimanendo due”. Daniela Comani e Fabio Torre, Perfect Day, 2017, courtesy Studio G7, Bologna

MACERATA

Donato Piccolo

Dall’antichità ai nostri giorni, i commenti intorno al concetto di natura e alla sua relazione con l’artificio e l’uomo, non hanno mai cessato di essere al centro di dibattiti filosofici. Per Plinio il Vecchio, la natura era qualcosa di sacro che non poteva assolutamente essere trasformato o alterato. Per Lucrezio “niente è natura, tutto è artificio”. Per D’Alembert nel Settecento, la natura era l’insieme delle cose create da Dio ma anche dall’uomo, nell’Ottocento e nel contesto della tradizione morfologica ispirata al pensiero di Goethe, la natura, intesa come “vivente”, si affranca all’idea di impulso artistico. Infine, ma non ultimo, nel Novecento per Freud la natura è soltanto una vuota astrazione. Quel dilemma natura-artificio, che ha assillato costantemente il pensiero umano per secoli, lo ritroviamo rinnovato nell’opera di Donato Piccolo, dedito con la sua ricerca a sondare il concetto di reversibilità dei fenomeni atmosferici. O meglio: Piccolo forza l’idea stessa di azione umana che, in quanto compiuta temporalmente, risulta invertibile, ideando sculture che, proprio attraverso il suo gesto, possono azionare o fermare fenomeni controvertibili in natura. Uragani, nuvole, vortici d’acqua, vaporizzazioni, e stati elettrici, sono letteralmente scolpiti nel momento in cui mostrano la propria potenza naturale e creatrice, fintanto che, tramite lo spegnimento del circuito che le mette in moto, non ritornano al proprio stato fisico iniziale. L’atmosfera è, dunque, al centro della manipolazione scultorea di Piccolo, da intendersi quale declinazione contemporanea dell’Ottocentesca riflessione sulla morfologia, un’at-

Carmengloria Morales

La galleria Luca Tommasi propone la personale di Carmengloria Morales, Done by Fire, a cura di Angela Madesani. Cilena, cresciuta in Italia, cosmopolita per vocazione, ha costituito a New York il gruppo della Radical Painting insieme a Raimund Girke, Marcia Hafif, Anders Knutsson, Joseph Marioni, Olivier Mosset, Phil Sims, Howard Smith, Frederic Thursz, Gunter Umberg, Jerry Zeniuk. In mostra, in particolare, i dittici della serie storica Down by Fire, dapprima sottoposti al fuoco, poi all’azione di spegnimento dell’acqua così da modificarne la struttura stessa, ma anche lavori più recenti e la serie Risorti dalla cenere.

Carmengloria Morales, Dittico 86NY12 cm.38x2x46, courtesy Luca Tommasi, Milano Elisa Leonini, Mathematical aesthetics courtesy l’artista

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>news istituzioni e gallerie< MONZA

NAPOLI

Elisa Cella, Elisa Leonini, Monica Mazzone e David Reimondo sono i protagonisti della nuova mostra a Villa Contemporanea incentrata sul connubio tra arte e matematica, attraverso lo sguardo, un equilibrio consequenziale, un’armonia compositiva. Gli artisti presentati sono , infatti, accomunati da una pratica artistica che, seppur nella varietà delle differenze stilistiche, utilizza sequenze armoniche. Reimondo lavora su cromatismo e suono; per Mazzone la geometria è principio regolatore dell’atto creativo; Cella fonde la biologia con la sua personale ricerca pittorica; Leonini si dedica alla volontà di rendere tridimensionale il suono. Curatela e testo critico di Leda Lunghi.

La Galleria Fonti presenta un Selected Works 1973 - 1979 dell’artista. In mostra Structura 1974: un’istallazione ambientale costituita da 5 elementi autoportanti liberamente modulabili nello spazio. C’è anche il ciclo delle Diagonali datate tra il 1975 e il 1978 che segnano già una prima digressione dal rigido pattern delle successive ortogonali. La mostra fa da ideale apripista all’esposizione dedicata a Emblema nel mese di luglio, a Palazzo Belmonte Riso, a Palermo.

Estetica Matematica

Salvatore Emblema, Selected Works 1973-1979 veduta dell’allestimento, Galleria Fonti, Napoli

Elisabetta Benassi, It starts with the firing courtesy Collezione Maramotti, Reggio Emilia

ROMA

Michele Cossyro

Bibliothè Contemporary Art presenta l’ultimo (finora) atto della rassegna Unum, giunta al quarantunesimo appuntamento, l’esposizione dell’opera Altrove, di Michele Cossyro. A cura di Francesco Gallo Mazzeo, testo di Bruno Conte.

TORINO-RIVARA

Julien Friedler

Al Castello di Rivara, con un percorso di oltre 50 opere, la mostra Boz Legend ci conduce nel mondo pittorico e installativo dell’artista, tra il 2010 e il 2017. cura di Dominique Stella.

REGGIO EMILIA

Elisabetta Benassi

PALERMO-BAGHERIA

Hidetoshi Nagasawa

Salvatore Emblema

presenta un’opera sopravvissuta alla sparizione del contesto che inizialmente la ospitava. Che le nostre certezze sulla maggiore lungimiranza e sensibilità del nostro tempo siano solo illusioni?

Con la curatela di Bruno Corà, la Galleria Adalberto Catanzaro presenta Galleggiamento, personale di Nagasawa incentrata su lavori in rame e marmo. Queste ultime, in particolare, hanno spinto l’artista giapponese a scegliere la Sicilia per questa tappa della sua ricerca: la volontà di utilizzare in particolare le varietà Libeccio Antico, Perlato di Sicilia e Nerello di Custonaci. Cuore tematico dell’esposizione, centrale per tutta la ricerca di Nagasawa, è l’idea della sospensione, del galleggiamento, attraverso una estrema ricerca di equilibrio, che da fatto tecnico si eleva a ideale di armonia e proporzione.

Concepita specificamente per la Collezione e presentata in occasione del festival di Fotografia Europea, l’esposizione It starts with the firing di Elisabetta Benassi, nasce tematicamente dalla polemica nata intorno a un’opera di Carl Andre, intitolata Equivalent VIII, lavoro composto da 120 mattoni e acquistato dalla Tate Gallery di Londra nel 1972 per diverse migliaia di sterline, causando un duro attacco della stampa inglese. L’artista ha recuperato questi materiali dagli archivi della Tate, per riaprire e rimettere in movimento quella polemica. 5 manifesti animano il centro e la periferia di reggio, mentre nella sede della Collezione Maramotti ogni stanza

Julien Friedler, La grotte aux résurections courtesy l’artista Michele Cossyro, Altrove, courtesy Bibliothè, Roma

I Giardini d’Arte di via Caravaggio/2017 dal 20 maggio 2017 Via Caravaggio 125 - Pescara Bluserena SpA - info@bluserena.it - bluserena.it 92 - segno 263 | GIUGNO/LUGLIO 2017


attività espositive INTERVISTE

Istituzione Bologna Musei

Intervista a Lorenzo Balbi Neo Direttore Area Arte moderna e contemporanea

a cura di M.L.Paiato e Serena Ribaudo l profilo professionale di Lorenzo Balbi, classe 1982 - spiega la commissione esaminatrice - è emerso come «altamente qualiIficato». La sua esperienza decennale di curatore e coordinatore dei progetti espositivi alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, ne fa una figura dal potenziale approccio innovativo, qualità attesa e auspicata dal sistema cultura di Bologna. La sua nomina coincide anche con la mostra dedicata alla figura di Ginevra Grigolo, storica fondatrice e direttrice della galleria G7, dal 1973 nodo nevralgico per la sperimentazione artistica italiana.

Come vivi questo incarico così prestigioso a soli 34 anni? Sono onorato di avere la possibilità di lavorare in un contesto così prestigioso dando avvio ad un incarico così importante oer la mia carriera. Vivo l’inizio di questa nuova attività in bilico tra l’entusiasmo e la responsabilità per il lavoro che mi aspetta e le alte aspettative di cui è caricato. L’età anagrafica non deve essere un limite: la giuria che mi ha selezionato, compiendo una scelta coraggiosa, ha dato una chiara indicazione. Ha puntato sulla ricerca nell’ambito delle giovani generazioni artistiche, in particolare italiane, sul mio interesse nel lavorare con gli artisti alla progettazione e produzione di nuove mostre e opere. Cosa porterai a Bologna dell’esperienza alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo? Sono entrato a far parte dell’organico della Fondazione oltre dieci anni fa come mediatore culturale. In seguito ho lavorato come allestitore, come registra, come assistente curatore, come docente di metodologia della curatela per Campo (il corso per curatori italiani) e, infine, come curatore, coordinando il progetto di residenze per curatori stranieri e seguendo le mostre della Collezione Sandretto Re Rebaudengo in Italia e all’estero. Le competenze e la rete di contatti maturati grazie a questo percorso formativo e professionale sono il bagaglio di esperienza su cui costruire la mia proposta per Bologna. Come intendi relazionarti col territorio? In occasione delle mie frequentazioni, ho potuto constatare personalmente il sistema culturale di Bologna, come uno dei più vivaci e interessanti a livello nazionale. Misurarmi con questo contesto è uno dei motivi che mi ha spinto a candidarmi per queMichelangelo Pistoletto, Una proposta per un cinema povero, 1973 mostra inaugurale per Ginevra Grigolo Galleria Studio G7, Bologna

sta posizione e sono convinto che il ruolo di un museo pubblico sia soprattutto quello di catalizzare tali energie. La prima cosa che desidero fare a Bologna è incontrare tutti questi attori per condividere le loro esperienze, magari per pensare insieme a uno spazio trasformabile in kunstverein in cui la comunità artistica locale possa avere un punto di riferimento e un luogo di aggregazione ed espressione. La tua nomina ha coinciso con l’apertura al MAMbo di My way, A modo mio. Ginevra Grigolo e lo Studio G7, 44 anni tra attualità e ricerca. Ci puoi parlare di questa mostra che celebra l’importante figura di Ginevra Grigolo? La serata d’inaugurazione della mostra di Ginevra Grigolo è stata la mia “prima volta” dopo la nomina come responsabile al MAMbo e devo dire che non poteva esserci circostanza migliore: una mostra bellissima che celebra una dei protagonisti della scena artistica e culturale di Bologna con opere eccezionali, alcune delle quali mostrate per la prima volta al pubblico. Arrivando da una realtà in cui sfera pubblica e privata si fondono in uno sforzo comune a vantaggio della ricerca e della produzione artistica non posso che lodare questa iniziativa che concede il giusto spazio a una gallerista che con il suo lavoro, e il richiamo in città di molti eccellenti artisti, ha contribuito a rendere Bologna uno dei centri di qualità e produzione tra i più interessanti ed effervescenti del panorama artistico italiano e internazionale. Qualche anticipazione relativa alla programmazione incipiente? La programmazione del 2017 è stata varata prima della mia nomina e prevede, per il MAMbo, la personale di Christian Boltanski a cura di Danilo Eccher che inaugura il 25 giugno e la mostra Revolutija, in collaborazione con il Museo di Stato Russo di San Pietroburgo che porterà a Bologna, nel centenario della Rivoluzione d’Ottobre, oltre 70 capolavori dei maestri dell’avanguardia russa tra cui Malevi, Tatlin, Chagall e Kandinskij. Fermo restando che intendo valutare la possibilità di accompagnare questi grandi eventi espositivi con progetti sperimentali, magari nelle altre sedi dell’Area, la mia prima mostra sarà a giugno 2018 e quest’anno di tempo mi permetterà di ambientarmi nella nuova realtà, conoscendo tutti i colleghi e i collaboratori, in modo da avere un quadro completo prima di proporre progetti che soddisfino le aspettative e le richieste di tutti.

In occasione della mostra My way, A modo mio. Ginevra Grigolo e lo Studio G7, 44 anni tra attualità e ricerca.la Vice Sindaco Marilena Pillati ha consegnato a Ginevra Grigolo la “Turrita d’oro”, onorificenza conferita dal Comune di Bologna come segno di gratitudine per l’importante contributo dato alla vita artistica e culturale della città.

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MAXXI, Roma

Intervista a Hou Hanru a cura di Ilaria Piccioni

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rrivato a Roma nel 2013, per occuparsi della direzione artistica del MAXXI Museo delle Arti del XXI secolo, Hou Hanru è la figura internazionale che ha contribuito a portare nella capitale artisti e progetti espositivi in un rimando attivo tra espressioni culturali e complessità sociali. Curriculum articolato da collaborazioni con istituzioni artistiche e culturali di tutto il mondo, Hanru è un curatore dalla visione aperta verso la relazione delle arti in una società globale ed estesa a una ricerca internazionale. Dopo la chiusura in positivo della stagione espositiva scorsa, con un incremento di pubblico e la recente MAXXI Re – Evolution che ha portato alla rimodulazione di spazi e servizi e un nuovo allestimento della collezione permanente - The Place to be - a ingresso gratuito, parliamo con lui per confrontarci sul presente contemporaneo, sulle trasformazioni in atto anche attraverso le operazioni trascorse. - Dalla sua esperienza di curatore internazionale e di direttore artistico del MAXXI quale pensa debba essere il ruolo dell’arte nella società attuale, parlando in primis dell’Italia: come contribuisce e dovrebbe inserirsi nel sistema sociale ed economico? - Parlando del ruolo dell’arte nella società contemporanea – e in particolare anche in Italia - penso che sia davvero importante tenere presente la tensione tra la creatività individuale e il cambiamento degli spazi pubblici, specialmente oggi che l’arte e le istituzioni si interfacciano con la tendenza alla privatizzazione anche di spazi pubblici e il potere sempre più preponderante del mercato. In questo contesto diventa sempre più importante che l’arte continui a sopravvivere e a occuparsi di questioni umanistiche, di valori comuni. Credo che questa linea vada sempre più enfatizzata, che l’arte sia sempre più la testimonianza di un pensiero critico su come la società stia cambiando. Inoltre è fondamentale anche resistere alla tendenza alla strumentalizzazione dell’arte, alla trasformazione dell’arte in una risposta facile a questioni complicate, in una sorta di propaganda commerciale; l’Arte deve restare indipendente, un modo per manifestare la complessità delle cose, per dare visibilità a questioni sociali, economiche ma anche esistenziali. Da un lato quindi deve con-

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tinuare a occuparsi di valori sociali dall’altro deve continuare a produrre un linguaggio complesso e indipendente. - Come reagisce il pubblico a Roma e come si può sostenere il suo coinvolgimento? L’apertura gratuita della collezione permanente al piano terra del museo, con la MAXXI Re -Evolution, può portare a una reale fruibilità dell’arte contemporanea? - Certamente è stato importante fare lo sforzo di dare maggiore accessibilità alla collezione, di allargare il nostro pubblico. E come misurare i risultati di questa operazione è una questione molto interessante: si tratta di criteri. Con quali criteri possiamo giudicare? Attraverso la qualità dell’offerta. Penso che il modo in cui abbiamo organizzato la collezione, e la struttura stessa del museo, sarà fruttuosa, non ci sono dubbi, ma questo ci deve portare ad avere una comunicazione più ricca con il pubblico, a migliorarla; dobbiamo fornire maggiori contenuti, programmi educativi, diversità in termini di accessibilità e comprensione dei lavori da parte dei visitatori. Rispetto a quello che avevamo prima ora le possibilità sono molte di più. - All’inizio del suo mandato romano, con Open museum, open city, svuotando gli ambienti del museo, aveva dimostrato l’intenzione di smentire l’idea di Guy Debord per la quale “l’arte contemporanea è condannata a essere merce”; oggi come e con quale mezzo si può superare tale asserzione o sfruttarla per cambiare la traiettoria? - Di certo l’arte contemporanea come tutta la produzione culturale deve convivere con una contraddizione di fondo ossia con il fatto di esistere in quella società dello spettacolo che Debord criticava. Quello che cerchiamo di fare qui con mostre come OMOC, che non è stata solo una mostra ma uno sforzo di definire cosa fosse un museo, è rendere il museo non solo un luogo di spettacolo, ma uno spettacolo di vita, che il pubblico può abbracciare oppure, se vuole, “smontare”. Qui stiamo sperimentando una nuova forma curatoriale che definisce un nuovo tipo di museo, non solo spazio di rappresentazione, ma luogo di produzione, incontro e cambiamento. Come inserire questa percezione di continuo cambiamento sociale, politico, culturale,


attività espositive INTERVISTE

all’interno del museo è essenziale per noi. Un museo può essere reinventato in questo processo continuo, circolare, di costruzione e decostruzione, continuamente presentando contenuto e creando contenuto. - Quindi come dovrebbe essere idealmente un museo nazionale del XXI secolo? - Credo di aver risposto già nella domanda precedente. In fondo non c’è un’idea definita di cosa debba essere un museo. La cosa più importante è che resti il più possibile un luogo di sperimentazione. - A quasi quattro anni dalla sua nomina a direttore artistico del MAXXI che analisi fa del lavoro e dei risultati raggiunti? Progetti futuri e impegni romani? - Quello che ho imparato più di ogni altra cosa è a inventare qualcosa di molto significativo al di fuori della crisi che mi circondava, a portare nuova vita a un posto che continua a crescere non sempre secondo una linea chiara e convenzionale, ma restando sempre aperto a nuove possibilità, anche sconosciute. I miei progetti per il futuro non sono semplicemente fare mostre interessanti, in questi anni abbiamo sviluppato le prime linee di un programma che enfatizza la funzione pubblica del museo, che lo apre come un foro pubblico, ma anche che lo ha reso luogo di osservazione sull’Europa, sull’interazione tra culture nel Mediterraneo, su come arte e architettura possano sviluppare un nuovo sistema di produzione culturale. Quello che resta per il futuro del museo sono queste linee guida ma anche l’apertura a ciò che non conosciamo. n

MAXXI, Roma

Re-Evolution

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l museo progettato da Zaha Hadid si trasforma e ricrea i suoi spazi, a partire dalla collezione permmanente, aprendosi ancora di più alla città con tante novità nella sua offerta culturale e nei servizi. Il nuovo allestimento della collezione, i cui spazi si triplicano, si intitola The Place To Be e inizia dalla Piazza Alighiero Boetti, animata da tre nuove grandi installazioni: Mareo Merz di Elisabetta Benassi, Anima di Mircea Cantor e Winter Moon di Ugo Rondinone, e prosegue nelle gallerie 1 e 2. La piazza diventa così tutt’uno con gli ambienti interni, a partire dalla lobby dove una reading room introduce alla collezione e ospita gli incontri con gli artisti, mentre uno spazio dedicatao all’Archivio degli Incontri Internazionali d’Arte rende più accessibile il patrimonio documentario del museo. Inoltre una video gallery presenterà in modo permanente monografie, retrospettive e rassegne. La rivoluzione del MAXXI passa anche attraverso il ripensamento degli spazi interni di accoglienza, a partire da Typo, la nuova caffetteria bookshop, che si sponta in quella sale delle ex caserme conservata dal progetto di Zaha Hadid che, con i suoi accessi su via Guido Reni, crea un nuovo ingresso alla hall del museo e consente il recupero della facciata della palazzina preesistente alla costruzione del museo.

Ugo Rondinone, Winter Moon, 2012 alluminio e smalto bianco, cm 486x490x470, courtesy l’artista e Gladstone Gallery, New York / Brussels.

Elisabetta Benassi, MareoMerz, 2013 peschereccio, automobile, rete, m9x12x3, courtesy Fondazione Merz, foto Andrea Rossetti

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ArtVerona

Intervista ad Adriana POLVERONI Nuovo direttore artistico di ArtVerona a cura di Lucia Spadano

- Hai diretto per cinque anni Exibart, testata di settore con uno staff giovane e preparato, e ora sei direttrice artistica di una fiera che negli ultimi anni sta consolidando la propria identità, ma che tuttavia si muove in uno scenario competitivo e abbastanza affollato. Cosa ti ha spinto ad accettare questo incarico? - La voglia di cambiare. Non sono una “giovane leva”, ma per fortuna ho ancora voglia di sfide, di misurarmi con realtà nuove. Exibart è stata - ed è, sebbene da lontano – una strana storia d’amore, qualcosa che comunque mi appartiene profondamente: l’editoria, il giornalismo culturale. Una fiera, invece, per me significa qualcosa di radicalmente nuovo: il confronto con il mercato, il rapporto con il collezionismo da un nuovo punto di vista, lo sguardo verso l’arte orientato in modo diverso. Tutto questo per ora è in salita, ma è molto attraente. Detesto un lavoro che rischia di diventare abitudinario. - I segni tangibili della tua presenza ad ArtVerona si sono visti fin dai giorni successivi la tua nomina e durante l’ultima edizione di Vinitaly, con il Consorzio Collezionisti delle Pianure. Quali forme di nuovi collezionismi raccoglie il Consorzio e quali sono i progetti che ArtVerona ha in serbo per questo target? - Il Consorzio Collezionisti delle Pianure è davvero una bella iniziativa e una novità rilevante. Il fatto che i collezionisti facciano squadra, addirittura sistema, acquisendo opere non singolarmente e mettendole a disposizione per altri attori del sistema dell’arte, come critici e curatori, fa ben sperare sul futuro del collezionismo, specie nell’ordine di un suo ricambio, di nuove prospettive che si possono aprire. ArtVerona intende collaborare attivamente con il Consorzio proprio in questa direzione, facendo leva su di esso anche per allargare la platea dei collezionisti e per formarne di nuovi. Ma anche per articolare il progetto che vede insieme l’arte e l’impresa, uno dei segmenti su cui la fiera intende investire al di là dei tre giorni della kermesse. - Riprendo alcune tue parole: “Una fiera oggi non è solo un appuntamento di mercato, deve produrre cultura, anche per orientare meglio il mercato stesso”. Cosa significa produzione culturale per una fiera d’arte moderna e contemporanea? - Il mercato dell’arte oggi presenta delle indubbie storture, non mi riferisco tanto all’Italia, ma a livello globale, specie laddove muove molti soldi. Penso che una fiera seria, che intende salvaguardare la parte buona del mercato - mi riferisco anzitutto

Accademia di Belle Arti di Bari

Intervista al Direttore Giuseppe SYLOS LABINI - In questi ultimi anni assistiamo in Puglia a una rinascita creativa. Un fermento di eventi sembra coinvolgere anche l’Accademia di Bari. Si prospetta una nuova mission per queste istituzioni? - In un certo senso. Oggi la nostra progettualità didattica ha una nuova visione, i Laboratori delle Belle Arti che promuovono spazi reali e spazi concettuali dedicati alla creazione in senso ampio e alla produzione multiforme. Puntiamo alla pratica del progetto e del fare. Vogliamo garantire l’eccellenza e la qualità riconosciuta all’Università dell’Arte. I nostri spazi creativi sono i Laboratori Attivi, modelli di ricerca visiva teorica e pratica per una creatività a larga diffusione. - Quest’anno avete promosso il progetto “La Pittura Ovunque”. - Sì è stato un progetto a cura della Scuola di Pittura, e realizzato  nella nostra sede distaccata dell’ex Monastero di Santa Chiara di Mola. Ha evidenziato proprio la centralità della didattica laboratoriale per lo sviluppo delle botteghe dell’arte. Il mio impegno in questi anni ha dato continuità alla tradizione delle accademie italiane, anche se coniugata all’innovazione di teorie, pratiche, linguaggi, tecniche e tecnologie. Difatti, in questa sede distaccata è prevista la nascita di una Galleria dell’Ac96 - segno 263 | GIUGNO/LUGLIO 2017

alle gallerie, senza le quali non conosceremmo tanti artisti, ai collezionisti, senza i quali questi artisti non andrebbero avanti – abbia il dovere di proporre una visione alternativa alla finanziarizzazione dell’arte, a un’idea prevalentemente speculativa dell’arte. Puntando quindi sulla ricerca, dando visibilità a ciò che si muove ai margini del mercato, proponendo insomma un mondo diverso da quello spettacolare e inquinato di cui parlano i giornali generalisti quando finalmente si occupano di arte contemporanea. Contribuendo, peraltro in questo modo, a diffondendo l’idea che l’arte, specie quella contemporanea, e il mercato siano mondi marci. - Viaggio in Italia #BacktoItaly è il titolo della 13^ edizione di ArtVerona, in programma dal 13 al 16 ottobre prossimi. Quale tipo di mercato sostiene ArtVerona e quali sono le novità che definiscono la cifra della nuova direzione artistica? - Il tipo di mercato che ArtVerona intende sostenere penso di averlo già detto, senza con ciò nascondersi dietro una foglia di fico, perché tutti sappiamo che il mercato dell’arte, a parte qualche rara eccezione e qualche rara e super qualificata fiera, è sostenuto molto dall’interesse per il moderno e dal secondo mercato. Le novità che sto cercando di portare nei pochi mesi che vanno dalla mia nomina di aprile all’appuntamento di ottobre, riguardano una maggiore presenza di gallerie di ricerca e qualificate in fiera, un’offerta quindi più attraente per un collezionismo giovane e che guarda in avanti, e una razionalizzazione del cartellone fuori fiera, che mira a ridurre le proposte alzandone però la qualità. Dopodiché gli auguri sono la prima a farmeli.

cademia, con atelier, residenze per artisti, spazi espositivi e di incontro con il territorio. - E la mostra “Fabbriche creative. Le Arti a confronto” della Sala Murat di Bari? Come si sviluppa? “Fabbriche creative” rientra nel macroprogetto svolto in collaborazione con la Fondazione NiKolaos e le nostre Scuole di Decorazione, Scultura, Scenografia. Vuole promuovere nuove geografie artistiche destinate a immettere la creazione in un sistema virtuoso e specializzato di ricerca, ideazione, progettazione, produzione aperto ai nostri migliori talenti. Sostenuto da me e dal vicedirettore prof. Antonio Cicchelli, è un luogo Studenti Accademia Belle Arti Bari, Unnamed, sotto la supervisione del prof. Antonio De Carlo


attività espositive INTERVISTE

a

13 EDIZIONE ART PROJECT FAIR

13 - 16 OTTOBRE 2017 VIAGGIO IN ITALIA ArtVerona. Nasce un Consorzio dei Collezionisti

afforzato dalla nuova direzione artistica di Adriana Polveroni, prosegue il percorso di ArtVerona per dare corpo al R binomio collezionismo d’arte-impresa. ICONA 2016 FRANCESCO JODICE CAPRI, THE DIEFENBACH CHRONICLES 013 progetto Consorzio Collezionisti

Nasce così il delle Pianure, un gruppo di 30 selezionati collezionisti, con punti di vista e sguardi differenti, ma condivisi, sul mondo dell’arte. Il Consorzio è l’evoluzione di un progetto sulla figura del collezionista che la manifestazione ha messo al centro della propria attività e programmazione, facendola diventare protagonista attiva del sistema dell’arte italiano: un prezioso e originale strumento di sostegno ad ArtVerona nella valorizzazione degli investimenti culturali d’impresa. Nel panorama fieristico italiano ArtVerona vuole sottolineare la propria identità di manifestazione ‘espansa e taylorizzata’ che si protrae nel tempo e nello spazio, attraverso iniziative mirate che la vedono coinvolta per tutto l’anno, quale reale volano per la promozione della cultura contemporanea. Tale obiettivo poggia su un retroterra concreto: ArtVerona ha avviato il proprio focus di avvicinamento tra arte e impresa con Open Source, iniziativa che ha messo a fuoco le virtuose contaminazioni tra il mondo dell’imprenditoria e quello

dell’arte, presentando la best practice della famiglia Marchesi Antinori; con Alchimie Culturali, progetto di collaborazione tra artisti e imprese curato da Stefano Coletto che ha creato un’importante sinergia tra la Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia, Regione del Veneto e Confindustria Veneto; con Collectors Studio e Critical Collecting, due progetti curati da Antonio Grulli, volti ad approfondire i cambiamenti nel mondo del collezionismo, alla luce delle recenti trasformazioni economiche e le figure dei moderni mecenati. Recente è stato un primo appuntamento per una nuova tappa di un percorso intrapreso da Veronafiere, volto a mettere a sistema le principali manifestazioni del proprio portfolio, quali ArtVerona, Vinitaly, Marmomac e Fieracavalli, trasversalmente collegate dalla valorizzazione del Made in Italy di eccellenza come reale opportunità di crescita del Paese. Un altro momento importante è stata la partecipazione di ArtVerona alla presentazione della Short list del Premio Gavi La buona Italia e di alcune anticipazioni del Rapporto (Wine+Food+Arts) x Tourism = La Buona Italia, promosso dal Consorzio Tutela del Gavi in collaborazione con il Dipartimento di Economia dell’Università dell’Insubria.

d’incontro fisico e mentale dove i nostri Dipartimenti Educativi si configurano come terreno fertile per la creatività giovanile legata al design, alla decorazione, alla plastica ornamentale, alla scenografia, alla regia, alla fotografia, sempre nell’ottica di un made in Italy che produca opere, oggetti, artefatti, ambientazioni ecc. e che alimenti mercato, turismo, botteghe, fabbri-

che, aziende. Proprio in questa direzione abbiamo partecipato al progetto di collaborazione con Bjcem-“Mediterranea 18: Home/ Casa”, ospitata quest’anno in Albania, per la realizzazione di un’opera site specific a cura di Michelangelo Pistoletto, dal titolo “MEZZOTERRA MEZZOMARE - I Mediterranei - Sedie Love Difference”.

Omaggio a Sauro BOCCHI ORGANIZED BY

Presso l’Accademia Nazionale di San Luca in Roma incontro Omaggio a Sauro Bocchi per ricordare la figura del gallerista, amante dell’arte e degli artisti, recentemente scomparso. Introdotti da Francesco Moschini, gli interventi di omaggio sono stati proposti da Achille Bonito Oliva, Laura Cherubini, Maria Piera Leonetti, Stefania Miscetti e Rosa Sandretto. Come gallerista Sauro Bocchi aveva cercato di fare un discorso più culturale che commerciale proponendo artisti in cui rintracciava una qualità, ma che forse non erano abbastanza riconosciuti. Non voleva seguire le mode e aveva dato molto spazio ad alcune brave artiste come Cloti Ricciardi e Lisa Montessori. Legato al grande Luciano Pistoi aveva partecipato con l’amica Stefania Miscetti all’avventura di “Bellissima”, la fiera fondata da Luciano a Firenze. Aveva cercato anche di lavorare all’organizzazione di progetti e mostre. Dopo la scomparsa di Gino De Dominicis organizzò un omaggio all’Istituto Italiano di Cultura a Londra. Laura Cherubini ricorda la mostra di opere fatte di stoffe e tessuti nelle ex carceri di Spoleto e soprattutto “Tra-

sparenze”, il progetto sulle energie alternative (prodotto da Fabula in arte) al Macro Mattatoio di Roma e al Madre di Napoli ARTVERONA.IT con lavori appositamente realizzati di Nari Ward, Ackroyd and Harvey, Georges Adéagbo, Liliana Moro, Bruna Esposito e il grande capolavoro di Tony Cragg. Pur venendo da una famiglia di imprenditori non aveva un piglio manageriale, pur facendo il mercante non aveva forse il bernoccolo degli affari (e tanto meno il pelo sullo stomaco da affarista). Aveva però la fiducia, la stima e l’affetto di attenti e raffinati collezionisti come Rosa e Gilberto Sandretto, Nancy e Giorgio Spanu. Ciao Sauro, da tutti noi. GIUGNO/LUGLIO 2017 | 263 segno - 97


Ex Convento dei Padri Olivetani (sec. XIII), Centro Storico di Taranto

Il CRAC Puglia a Taranto, un nuovo spazio per l’Arte di Lucia Spadano

CRAC Puglia- Centro di Ricerca Arte Contemporanea, interno dell’ex Convento dei Padri Olivetani (sec. XIII), Taranto.

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Taranto nasce il CRAC Puglia- Centro di Ricerca Arte Contemporanea, un nuovo spazio espositivo dedicato alla ricerca e progettazione dei linguaggi del contemporaneo, nonché sede del “PIANO EFFE” (Archivio Storico Nazionale del Progetto d’Artista). Il nuovo spazio viene istituito, per iniziativa della storica Fondazione Rocco Spani onlus, ente giuridico riconosciuto, operante da oltre trent’anni nel campo della ricerca e della didattica artistica a favore dei minori a rischio di devianza. La sede del CRAC, ubicata nel centro storico di Taranto, nell’ex Convento dei Padri Olivetani (sec. XIII), ospita già la collezione dell’Archivio Storico Nazionale del Progetto d’Artista (disegni, studi preparatori e progetti di autori storicizzati, da Alviani a Beuys, da Carrino a Spagnulo, da Mainolfi a Munari, da Pascali a Sordini, ecc.), avviata nel 2015 grazie al patrocinio e al sostegno dell’Assessorato Industria Turistica e Culturale della Regione Puglia, e rappresenta l’avvio di un piano di documentazione sull’arte, focalizzato soprattutto sugli strumenti metodologici del disegno, dello studio preparatorio e della pianificazione di teorie e prassi del linguaggio artistico. Una ricerca che si apre sia al progetto e al processo, che al prodotto finito. Negli spazi del CRAC saranno, inoltre, ospitate mostre temporanee, convegni, workshop, videoproiezioni, azioni performative e laboratori di didattica artistica. Il CRAC, presieduto da Giulio De Mitri, artista rigoroso e raffinato intellettuale, si avvale della direzione artistica del curatore e critico d’arte Roberto Lacarbonara.

Pubblicazioni realizzate per gli eventi del CRAC Puglia.

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Due importanti mostre sono in corso per la sua apertura. La prima, dedicata a Giuseppe Spagnulo a un anno dall’improvvisa scomparsa, è un doveroso omaggio all’artista tarantino, imperniato su un significativo reportage fotografico realizzato da Danilo De Mitri, undici anni fa, in occasione di un workshop che Spagnulo tenne nell’Istituto d’Arte di Grottaglie (a venti studenti frequentanti le Accademie di Bari, Foggia, Lecce e Catanzaro), e da cinque disegni progettuali – tra cui quello realizzato in occasione del workshop – che evidenziano la natura programmatica e al contempo antropica del “mestiere” d’artista. Il catalogo, edito da Gangemi, ospita oltre cinquanta immagini dell’artista al lavoro e i contributi critici di Bruno Corà, Aldo Iori e Roberto Lacarbonara. La seconda mostra: “Lungo le acque del Bidente, Progetti e installazioni nel Parco Sculture di Santa Sofia”, è dedicata, invece, alla relazione tra opera e spazio di esistenza (urbano e non, pubblico e privato) e presenta undici progetti d’artista (Nicola Carrino, Cuoghi Corsello, Giulio De Mitri, Luigi Mainolfi, Giuseppe Maraniello, Eliseo Mattiacci, Hidetoshi Nagasawa, Chiara Pergola, Anne e Patrick Poirier, Francesco Somaini, Mauro Staccioli), riferiti alle opere installate nel Parco Sculture di Santa Sofia (FC). La mostra è curata dallo storico dell’arte Renato Barilli, con il contributo di Caterina Mambrini e Roberto Lacarbonara (catalogo Gangemi, 2017). Con la mostra dei progetti, il nuovo “spazio” si avvia ad indagare i numerosi percorsi e interventi di arte ambientale realizzati sul territorio nazionale e internazionale.



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