Spedizione in abbonamento postale Poste Italiane S.p.A. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n.46) art. 1, comma 1 ROC · Registro degli operatori di comunicazione n. 18524 - ISSN 0391-3910
E 8.00 in libreria
N. 229 Marzo/Aprile 2010
Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea
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APRILE/MAGGIO 2010
APRE IL MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo
MAURO STACCIOLI
Il prossimo 30 maggio aprirà al pubblico il MAXXI di Roma. Anna Mattirolo, direttore del MAXXI arte, ci racconta il museo che verrà.
JAN FABRE
Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea
Anno XXXV
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aprile/maggio 2010 in copertina
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Daniel Buren [32]
MAXXI Roma Intervista ad Anna Mattirolo a cura di Ilaria Piccioni foto di Iwan Baan e Nico Marziali (courtesy Maxxi, Roma)
Vanessa Beecroft [37]
2/19 Anteprima Mostre & Musei - news italia-estero 74/76 news/worldart a cura di Lucia Spadano e Lisa D’Emidio / interviste 26/71 attività espositive / recensioni e documentazioni
Giuseppe Uncini [38]
Rivoli, Bologna, Genova Programmi e interviste ai direttori a cura di Gabriella Serusi, Francesca Nicoli, Marco Poggi
Interviste agli artisti:
Jan Fabre (Francesca Nicoli), Alfredo Pirri (Luciano Marucci) Elena Monzo (Rebecca Delmenico)
Le mostre nei Musei, Istituzioni, Fondazioni e Gallerie
Enzo Cucchi, Daniel Buren (Ilaria Piccioni), Berlinde De Bruyckere, Luca Pancrazzi, Arcangelo Sassolino, Nedko Solakov, Chen Zen (Stefano Taccone), Alberto Di Fabio (Federica Forti), Vanessa Beecroft (Stefano Taccone) Giuseppe Uncini (Ilaria Piccioni), Mario Nigro (Matteo Galbiati) Alan Charlton (Paolo Aita), Masbedo (Luca Morosi), Oleg Kulik (Rebecca Delmenico) Il trucco e le maschere (Veronica Caciolli), Stefano Abbiati (Lucia Spadano) Kazumasa (da un testo di Ivan Quaroni), Davide Bramante (Stefania Russo) Ann Veronica Janssens (Antonello Tolve), Danilo De Mitri (Marina Pizzarelli) Antonio Paradiso (Roberto Borghi), Colazione ad arte (Tiziana Altomare) Antoni Tàpies (Simona Caramia), FRP2 (Gabriele Sassone) Ulrich Erben, Sudarshan Shetty (Lucia Spadano) Fiumara d’Arte: Mauro Staccioli, Mimmo Cuticchio, Antonio Presti (Intervista a cura di Lucia Spadano) Andrea Branzi (Antonella Marino), Carlo Golia (a cura di Lucia Spadano) Arrivi e partenze (L.S.), Gaetano Zampogna (dal testo in catalogo di Gabriele Perretta) Fiere d’Arte (a cura di Lucia Spadano) Marina Abramovic al Moma (Matteo Galbiati) Tesi Europee sperimentali (Valentina Ricciuti), Nuove Chiese italiane (a cura di Eloisa Saldari)
Alan Charlton [40]
news e tematiche espositive anche su www.rivistasegno.eu
Speciale Musei (1a parte)
Album della memoria
35 anni dello Studio Trisorio a Napoli (a cura di Stefano Taccone) Masbedo [42]
72/73 libri e cataloghi a cura di Lucia Spadano, Gabriele Perretta, Antonello Tolve
periodico internazionale di arte contemporanea
Direzione e redazione Corso Manthonè, 57 65127 Pescara Telefono 085/61712 Fax 085/9430467 www.rivistasegno.eu redazione@rivistasegno.eu
Direttore responsabile LUCIA SPADANO (Pescara) Condirettore e consulente scientifico PAOLO BALMAS (Roma) Direzione editoriale UMBERTO SALA
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Collaboratori e corrispondenti: Paolo Aita, Davide Angerame, Marcella Anglani, Paolo E. Antognoli, Veronica Caciolli, Nicola Cecchelli, Daniela Cresti, Paola D’Andrea, Rebecca Delmenico, Lia De Venere, Marilena Di Tursi, Matteo Galbiati, Andrea Mammarella, Antonella Marino, Fuani Marino, Ilaria Piccioni, Enrico Pedrini, Gabriele Perretta, Gabriele Sassone, Gabriella Serusi, Stefano Taccone, Antonello Tolve, Alessandro Trabucco, Paola Ugolini, Stefano Verri, Maria Vinella.
ABBONAMENTO SPECIALE PER SOSTENITORI E SOCI E 500,00 L’importo può essere versato sul c/c postale n. 15521651 Rivista Segno - Pescara
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Anteprima/News ALESSANDRIA E PROVINCIA
ROMA SESSANTA al 20 marzo al 4 luglio è aperta al pubblico la
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mostra Roma Sessanta, un particolare progetto espositivo dedicato all’esplorazione di un decennio passato alla storia come l’epoca d’oro, del boom economico e del benessere di vita degli italiani. La mostra si propone di raccontare questo periodo attraverso i lavori e le storie degli artisti, ma anche dei luoghi, dei paesaggi e dei simboli che lo hanno reso indimenticabile. La retrospettiva, a cura di Luca Beatrice - catalogo Silvana Editoriale -, si articola in otto diverse sedi esspositive, dislocate nei Palazzi storici e luoghi di particolare pregio di Alessandria (Palazzo del Monferrato e Palazzo Cuttica), di Casale Monferrato (Palazzo Sannazzaro), Novi Ligure (Musei dei Campionissimi), Tortona (Palazzo Guidobono), Valenza (Oratorio di San Bartolomeo), Ovada (Loggia di San Sebastiano), Acqui Terme (Villa Ottolenghi) attraverso dipinti, disegni, fotografie, video e sequenze di film. Sono proposte opere storiche di Angeli, Festa, Schifano, Rotella, Pascali, De Chirico, Guttuso. A Ovada, Loggia di San Sebastiano, La terra vista dalla luna. Omaggio a Pier Paolo Pasolini. In mostra interviste inedite di Pier Paolo Pasolini, lavori di Fabio Mauri e Giulio Turcato, fotografie di Sandro Becchetti e scatti stampati per la prima volta di Tazio Secchiaroli realizzati sul set del film L’Accattone. Ad Acqui Terme, Villa Ottolenghi viene proposta la sezione Cinque scultori, dedicata interamente alla scultura nella quale sono presentate le opere di Nicola Carrino, Mario Ceroli, Eliseo Mattiacci, Gino Marotta, Giuseppe Uncini. Particolare la sezione a Novi Ligure dedicata al Piper Club lo storico locale romano, con manifesti, dischi, giornali e video che documentano le performance di Patty Bravo, Renato Zero, Loredana Bertè, Caterina Caselli, i Rokes, L’Equipe 84, Mal e i Primitives e tanti personaggi che animavano le notti romane. Il legame tra il celebre locale di via Tagliamento e la storia dell’arte italiana è profondo: non solo perché il Piper è frequentato dagli animatori culturali del momento ma anche per la presenza di opere esposte al suo interno. Claudio Cintoli ne realizza la scenografia, intitolata Il Giardino di Ursula, con fotografie e sculture. Mentre imperversa il Piper e la Beat Generation, a Roma cresce il movimento pop: Elisabetta Catalano, Mario Ceroli, Giosetta Fioroni, Jannis Kounellis, Sergio Lombardo, Francesco Lo Savio, Renato Mambor, Titina Maselli, Pino Pascali, Luca Patella, Mario Schifano (con il ciclo Tutte Stelle), Cesare Tacchi, Giuseppe Uncini sono tra i protagonisti di questa fantastica vicenda. La Dolce Vita va in scena a Tortona, dove a Palazzo Guidobono, vengono esposti i disegni realizzati da Federico Fellini, le locandine dei suoi film, gli scatti di Tazio Secchiaroli, principe dei “paparazzi”,
ARTE A MILANO
EVENTI NELL’EVENTO
I
n occasione dell’appuntamento di MiArt, che evidenzia la presenza dell’arte contemporanea a Milano sia con le proposte degli espositori nei padiglioni della fiera, sia con le più sperimentali mostre collaterali – ufficiali e non – che stanno acquisendo una connotazione di evento nell’evento, si compie una breve ricognizione delle principali mostre offerte nei maggiori spazi pubblici cittadini per registrare quali siano le proposte concomitanti e successive alla manifestazione fieristica. Nel centralissimo Palazzo Reale, che per la grande disponibilità di ambienti offre sempre una scelta diversificata ed articolata, sono in corso quattro mostre: l’ultima ad avere inaugurato in ordine di tempo è Goya e il mondo moderno (fino al 27 giugno), dedicata al grande maestro spagnolo. Con oltre 180 capolavori la mostra non si limita ad analizzarne la figura, ma getta un ponte tra le visioni dell’artista aragonese e i richiami e le corrispondenza di quegli artisti che, nei due secoli successivi hanno tratto ispirazione da lui. Sono tre i principali filoni tematici, suddivisi in cinque sezioni, che vedono accostate le opere di Goya a quelle di alcuni fra i più influenti artisti dell’età moderna tra i quali troviamo David, Delacroix, Soutine, Daumier, Grosz, Kirchner, Miró, Picasso, Klee, Music, Dalì, Guttuso, Picasso fino ad arrivare a Pollock, Kiefer e Bacon. La sua pittura viene presa in considerazione come punto di riferimento che ha segnato il carattere e la sostanza di molte ricerche nei secoli a lui successivi, lasciando un esempio artistico tuttora fonte di vitale di ispirazione. Fuoco. Da Eraclito a Tiziano, da Previati a Plessi (fino al 6 giugno), attraverso opere che vanno dall’archeologia ai maestri contemporanei, si esplora il mistero del fuoco quale elemento archetipale, divenuto simbolo forte nella cultura mediterranea: la storia, i miti, le leggende, i racconti che lo vedono protagonista si ripercorrono attraverso queste opere seguendo l’ideale filo conduttore che ha accompagnato la crescita e lo sviluppo della nostra cultura e civiltà. Un’epoca intera, quella che si muove tra cambiamenti repentini nella Vienna di fine ‘800 e dei primi del ‘900, centro della storia austriaca recente, è oggetto dell’esposizione Schiele e il suo tempo (fino al 6 giugno) che, con un ragguardevole prestito di capolavori provenienti dalle collezioni del Leopold Museum di Vienna – il museo conserva la collezione maggiore di opere di Egon Schiele – con un percorso articolato, accanto a quelle centrali di Schiele, illustra le opere di Klimt, Kokoschka, Gerstl, Moser ed altri protagonisti della Secessione Viennese e dell’Espressionismo austriaco che hanno evidenziato, coi loro linguaggi, i cambiamenti di quel periodo. Un doveroso omaggio ad una figura di riferimento per la cultura italiana è Gillo Dorfles. L’avanguardia tradita (fino al 23 maggio), una mostra-tributo che, con la ricchezza e la completezza di oltre 200 opere, nell’anno del suo centenario ripercorre la storia creativa di Gillo Dorfles, dagli esordi fino alle 8-
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figure simbolo del momento dei quali il Maestro traccia un indimenticabile ritratto nel suo celebre film, e gli abiti delle sorelle Fontana, simbolo della moda e del gusto del momento.
AOSTA / Centro Saint-Bénin
PROCESSI ED ENERGIE DELLA NATURA al 15 maggio al 26 ottobre Entre glace et neige. Processi ed energie
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della natura. Una mostra, curata da Glorianda Cipolla e Laura Cherubini, nella quale si intende indagare la relazione tra arte e natura, concentrandosi sugli elementi della neve e del ghiaccio, emblemi dei processi naturali di trasformazione della materia. La Valle d’Aosta è infatti il luogo esemplare in cui assistere alla dialettica processuale tra acqua, neve e ghiaccio, da un punto di vista estetico, scientifico ed ecologico. In mostra le opere di 30 artisti italiani e stranieri che, attraverso tecniche e mezzi espressivi diversi, dalla pittura alla fotografia al video e dalla scultura all’installazione, si sono confrontati con quei fenomeni naturali che rappresentano gli stati solidi dell’acqua. Artisti storicizzati come Pierpaolo Calzolari, Anish Kapoor, Hamish Fulton, Andy Goldsworthy, Roni Horn, sono affiancati da artisti più giovani tra i quali Marc Quinn, Walter Niedermayr, Lucy+Jorge Orta, Loris Cecchini, per esplorare le modalità con cui l’arte riflette sulle energie della natura, nel duplice aspetto di universo pericoloso ora in pericolo. L’esposizione è accompagnata da un catalogo bilingue italiano-francese, edito da Musumeci.
Anish Kapoor Mountain with sun and moon, 2003, marmo statuario bianco di Carrara, cm 100x100x100, (courtesy Galleria Continua, photo Ela Bialkowska).
recenti composizioni. Dorfles è un esempio della poliedrica dinamicità di un intellettuale versatile ed eterogeneo: laureato in medicina e psichiatria è artista, filosofo, estetologo, critico d’arte. Dalla mostra emerge il carattere e il temperamento della sua riflessione la cui identità di libero pensatore continua a regalarci infaticabilmente ancora oggi preziosi contributi culturali ed artistici. A Palazzo della Ragione i 200 scatti di Stanley Kubrik. Fotografia 1945/1950 (fino al 27 giugno) mostrano in anteprima mondiale il lavoro fotografico inedito del celebre regista quando, appena diciassettenne, lavorò per la rivista americana Look. Realizzata dal Comune di Milano–Cultura e da Giunti Arte mostre musei in collaborazione con la Library of Congress di Washington e il Museum of the City di New York, in questa mostra si ritrova la capacità starordinaria di Kubrick, sebbene ancora acerba data la giovane età, di saper essere costruttore di immagini attraverso un istinto ed un intuitto che gli permettevano di costruire in rapidità grandi storie. Alla Triennale, accanto alla sempre copiosa e interessante proposta di esposizioni legate al design, all’architettura e alla fotografia, protagonista assoluta torna la Pop Art che, dopo le monografiche dedicate a Warhol, Basquiat e Haring, offre una vasta esposizione dedicata a Roy Lichtenstein in un percorso che suddivide oltre cento opere in diverse sezioni tematiche. Roy Lichtenstein. Meditations on Art (fino al 30 maggio) analizza per la prima volta un aspetto particolare della ricerca dell’artista americano che riguarda quei lavori in cui questi si appropria e rivede immagini prese da opere dell’arte moderna: con lavori che vanno dagli anni ’50 agli anni ’90, molte dei quali inediti, in modo ampio e completo si ripercorre lo sguardo che Lichtestein ha costantemte rivolto alla storia dell’arte e ai suoi contenuti riletti nel contesto pop-consumista cui fa riferimento la sua visione. L’intera mostra, dopo la sede milanese, sarà trasferita al Ludwig Museum di Colonia, dove rimarrà aperta al pubblico fino al 3 ottobre 2010. Una mostra molto articolata è Il grande gioco. Forme d’arte in Italia 1947-1989 (fino al 9 maggio 2010) alla Rotonda di via Besana: si vuole descrivere e interpretare, attraverso l’arte e le sue vicende, il quarantennio decisivo per l’Italia che va dalla fine della Seconda Guerra Mondiale alla caduta del Muro di Berlino, un percorso complesso che non può fare a meno di marcare incidenze e trasversalità, interazioni e influenze nel divenire della storia. La ricchezza di spunti, artisti e materiali ha reso possibile – anche per la collaborazione delle istituzioni coinvolte – articolare in tre spazi, secondo una scansione temporale, il progetto espositivo che al Museo d’Arte Contemporanea di Lissone (MB) raggruppa le opere fino al 1958, alla Rotonda di via Besana di Milano quelle degli anni 1959-1972 e alla GAMeC di Bergamo gli anni più recenti fino al 1989. L’arte contemporanea diventa mezzo per un raffronto e un’analisi puntuale sui rapporti scambievoli che ha avuto – e ha – con l’architettura, il cinema, il design, l’editoria, l’economia, l’industria, il giornalismo, il teatro, la televisione, … ogni aspetto della società italiana, cosa che dimostra quanto, nel ciclo della storia, nulla
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>anteprima e news gallerie e istituzioni su www.rivistasegno.eu< BARI / Castello Svevo /Fossato esterno
DA SOPRA
Dal 15 marzo al 16 maggio, nuova tappa del progetto Puglia – Circuito del Contemporaneo- con la mostra da sopra (giù nel fossato). Per questa occasione 15 noti artisti si confrontano con il monumento simbolo della città di Bari: il Castello Svevo. Il fossato del castello viene occupato da installazioni che lo spettatore può osservare “da sopra” in un rimando tra memoria e presente, attraverso il confronto tra architettura del passato e segni d’arte contemporanea. “L’originalità di da sopra (giù nel fossato) – come anticipa il curatore Achille Bonito Oliva – sta nell’indicare fisicamente una distanza ulteriore, assolutamente particolare per la contemplazione dell’arte contemporanea, aperta a tutti i viandanti della città di Bari e non vietata ai minori”. In occasione dell’inaugurazione il rapporto con “i viandanti della città” è stato ulteriormente accentuato dalla performance a sorpresa di Lara Favaretto e dalle installazioni di Francesco Schiavulli e Allan Kaprow, che invitano ad intergire con le loro opere, andando al di là della “contemplazione”. Gli altri artisti in mostra: Vito Acconci, Maria Theresa Alves, Marco Bagnoli, Jimmie Durham, Subodh Gupta, Jenny Holzer, Maurizio Mochetti, Maurizio Nannucci, Luca Maria Patella, Alfredo Pirri, Kazuo Shiraga, Ben Vautier. L’allestimento della mostra si è avvalsa dell’esperienza del curatore esecutivo Giusy Caroppo e del coordinamento di Paola Marino. Info www. pugliacircuitodelcontemporaneo.it; www.dasopra.it
CATANZARO / MUSEO MARCA
ALESSANDRO MENDINI Dopo la personale dedicata a Antoni Tàpies il museo MARCA di Catanzaro
apre le porte al design e all’architettura proponendo un’ampia retrospettiva dedicata a Alessandro Mendini, architetto e designer tra i più celebri a livello internazionale. Alchimie. Dal Controdesign alle Nuove Utopie è il titolo della rassegna curata da Alberto Fiz, direttore (dal 10 aprile al 25 lupuò essere preso come fenomeno completamente isolato. Al PAC, infine, l’interessante mostra Ibrido (fino al 31 marzo) è stata concepita proprio in occasione di MiArt 2010: la presenza di oltre cinquanta artisti, tra i nomi più noti del panorama artistico contemporaneo internazionale, suddivisi in “cellule espositive”, secondo quasi uno schema di mostre nella mostra, guarda all’arte e al suo sistema: le opere diventano un segno tangibile di una riflessione sulla sua dichiarata duttilità e adattabilità nel contemplare la contaminazione con i diversi aspetti della vita. Un insieme di valutazioni e ragionamenti sull’odierno stato delle cose sono la base critica da cui sono partiti i curatori per comprendere se, e quanto, sia ancora capace tale sistema di intercettare i cambiamenti del proprio tempo o riesca ad anticiparli e prevederli. La lettura di questo meccanismo contemporaneo riguarda non solo gli artisti ma anche la critica, il mercato, le gallerie, … ogni elemento che fa parte di quel meccanismo-organismo che è l’arte. La mostra ha l’intuizione di sovrapporre e incrociare i pensieri e le riflessioni, i fatti e le tematiche, per cercare di capire quanto ancora la voce dell’arte – soprattutto quella contemporanea tanto legata al proprio tempo – sia capace di adattare la sua natura rendendosi sempre più ibrida rispetto alla società e alla vita, e quanto riesca a rinnovare le sue visioni per dare una traccia – e una speranza – proiettate verso il futuro. (a cura di Matteo Galbiati)
Marco Cingolani Comics. Tecnica mista su foto vintage. Jan Fabre Omaggio a Jacques Mesrine, 2008. cera, granito, metallom 50x60x55 courtesy Magazzino, RomaIbrido. Vedovamazzei
glio) con oltre 70 le opere in un percorso che comprende dipinti, sculture, mobili, oggetti, schizzi e progetti con alcune testimonianze inedite o mai viste prima d’ora in Italia. Ne emerge un’indagine esaustiva dell’attività svolta negli ultimi quarant’anni dove, accanto alle opere più famose di Mendini, si evidenzia la componente maggiormente sperimentale e meno conosciuta del suo lavoro. La mostra ha tra le sue peculiarità anche quella di sottolineare le collaborazioni tra Mendini e gli altri protagonisti del mondo dell’arte, in particolare Mimmo Paladino, Francesco Clemente, Bruno Munari, Luigi Veronesi, Bob Wilson e Peter Halley. E’ da ricordare che Mendini ha con il MARCA un rapporto di proficua collaborazione iniziato nel 2009 con la creazione di nuovi ambienti all’interno della struttura museale come lo spazio d’ingresso, il bookshop e la sala lettura. Secondo quanto afferma Alberto Fiz, Mendini sviluppa un’indagine che travalica l’oggetto per sviluppare una nuova relazione con il mondo: “L’architettura e il design non sono un fine ma un mezzo per ritrovare una connessione con l’aspetto più intimo delle cose in un desiderio continuo di metamorfosi e di ricreazione che va oltre la lezione del postmoderno. Qualsiasi creazione realizzi, Mendini parte da un’ipotesi antropomorfa dove l’uomo è sempre al centro della sua ricerca”.
MODENA
PAGINE DA UN BESTIARIO FANTASTICO Disegno italiano nel XX e XXI secolo
Nel microcosmo della mostra Pagine da un bestiario fantastico. Disegno italiano nel XX e XXI secolo (dal 20 marzo al 18 luglio) accanto agli animali - reali o immaginari - non mancano citazioni artistiche che rimandano ai freaks, a ibridi fantastici, e a incroci nati da scappatelle selvatiche. Babbuini, lucertole, orsi e pantere fanno il verso a lupi, rinoceronti, zebre e leopardi sotto gli occhi di draghi, minotauri e angeli ribelli. La mostra, organizzata e coprodotta dalla Galleria Civica di Modena, Raccolta del Disegno Contemporaneo e dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Modena, curata da Silvia Ferrari e Serena Goldoni, in collaborazione con Flaminio Gualdoni, si annuncia già all’esterno delle sale espositive, nel chiostro di Palazzo Santa
Franko B, Waiting for... Cardiaco
Shepard Fairey
MILANO
(con) TemporaryArt Con l’intento di arricchire il panorama artistico e l’offerta culturale nei giorni della Fiera a Miart, viene proposta la terza edizione di un percorso di arte al Superstudio Più, il grande polo espositivo in zona Tortona (via Tortona 27) e in altre location del quartiere. Due le mostre internazionali di questa terza edizione: la personale di Shepard Fairey, famoso per l’iconografia di Obama, a cura di Alberto Mattia Martini, e l’esposizione di Banksy, lo street artist dall’identità nascosta più discusso del momento, a cura di Rosita Legnani e Anna De Gregorio. A queste si aggiungono la resentzione del libro e la mostra di Flavio Lucchini curata da Luca Beatrice; i fiori di Dany Vescovi, Fulvio Di Piazza, felipe Cardena e Corrado Bonomi; il progetto Cross painting di Italian Factory con Cristiano Tassinari, Svitlana Grebenyuk, Daniele Girardi, Luca Conca, Desiderio, Andrea Zucchi e Alessandro Busci; la personale di Stefano Abbiati a cura di Gianluca Marziani. E ancora, nel Basemente, spazio dedicato ai giovani, a cura di Chiara Canali, con J&Peg, Daniela Cavallo, Elena Monzo, e Daniele D’Acquisto, in Art.box l’installazione a cura di Alessandro Trabucco con Franko B, Michelangelo Galliani e Matteo Basilè, mentre in esterno sui muri del Superstudio il progetto di Art Kitchen con NEVE e Ivan e l’escavatrice -opera di Giacomo Cossio. E poi le sorprese delle opere di grandi dimensioni “ExtraExstra Large” a cura di Alberto Zanchetta con Marco Cingolani, Kim Andy, un progetto Fluon Dorland, Giovanni Frangi, Omar Galliani, Enzo Cucchi, Fabio Viale e di piccole dimensioni “ExtraExstraSmall” a cura di Emma Gravagnuolo, la recycle art di Marilina Fortuna, la rassegna di video internazionale curata da Daniele Capra, gli oggetti di Art design di Andy e le installazioni cartoon di Umberto Voxci. Non mancano altri eventi specili come: l’Asta di Christie’s a palazzo Clerici dei Tombini art Metroweb che hanno invaso le strade di zona Tortona, la personale di Alfredo Rapetti ad Anfitreatro Arte, le collettive a Rojo0artspace e nello Spazio Closed e le performances al Teatro Libero. APRILE-MAGGIO 2010 | 229
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Anteprima/News Margherita, con due cavalli in scala reale disegnati a parete dal bolognese Davide Rivalta, un lavoro realizzato in situ che dialoga con l’architettura esistente, ispirato, tra l’altro, dalla presenza - anche olfattiva - dei cavalli delle scuderie dell’Accademia Militare, poco distante dalla galleria. Il percorso espositivo raccoglie circa centocinquanta opere, una ricognizione che interessa quasi un secolo di arte visiva e si sviluppa in un itinerario tematico articolato in due grandi sezioni: una di carattere più prettamente storico ospitata nelle Sale Superiori - con opere e inediti di maestri del disegno italiano provenienti da collezioni pubbliche e private che affianca un nucleo di opere significative della Raccolta del Disegno Contemporaneo della Galleria Civica - e una dedicata agli artisti delle ultime generazioni invitati a misurarsi con il tema animalier, collocata in Sala Grande. Il percorso inizia con alcuni lavori storici di: Giorgio de Chirico, Afro, Lucio Fontana, Gastone Novelli, Mario Merz. Vi sono poi i disegni inediti di Pino Pascali, un disegno a quattro mani di Enzo Cucchi e Sandro Chia. Le creature fantastiche di Osvaldo Licini, Luigi Ontani, Vettor Pisani, Wainer Vaccari, Gino Severini, Roberto Barni, Franco Angeli. La Raccolta del Disegno Contemporaneo della Galleria Civica di Modena presenta, fra le altre, le figure mostruose di Enrico Baj, le balene di Davide Benati, i lupi e gli elefanti di Concetto e Mario Pozzati, il coniglio di Luca Caccioni, gli uccelli simbolici di Bruno Ceccobelli, e le opere di Cesare Peverelli, Alberto Morandi, Omar Galliani e Alberto Zamboni. Esposto qui anche il lavoro di Andrea Chiesi Predatore notturno, nato come opera proveniente dai primi suoi taccuini ispirati a testi letterari. Questa mostra è anche l’occasione per arricchire il patrimonio della Raccolta grazie a diverse nuove acquisizioni, frutto anche di donazioni di artisti chiamati ad intervenire nel progetto scientifico: Margherita Benassi, Alessio Bogani, Andrea Capucci, Pirro Cuniberti, Helga Franza, Luca Lanzi, Giuseppe Maraniello, Mario Raciti.La seconda sezione di mostra, ospitata in Sala Grande, è dedicata al lavoro degli artisti delle ultime generazioni cui è stato chiesto di realizzare opere ad hoc: Alessio Bogani, Simone Pellegrini, Giuliano Guatta, Claudia Collina, Helga Franza, Laura Serri, Ericailcane/Stefano Ricci, Francesco Simeti, Luca Lanzi, Claudia Losi. Alla mostra si accompagna un catalogo con la riproduzione di tutte le opere esposte, testi di Silvia Ferrari e Serena Goldoni e un saggio di Flaminio Gualdoni, prodotto dalla Galleria Civica di Modena, Raccolta del Disegno Contemporaneo.
27 - 30 maggio 2010
ROMA – The Road to Contemporary Art he Road to Contemporary Art apre la
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primavera romana dell’arte contemporanea inaugurando mercoledì 26 maggio nella nuova sede unica dell’ex Mattatoio e presentando 70 gallerie internazionali sino al 30 maggio. Allestita per la prima volta nell’ex Mattatoio del quartiere Testaccio su 8.000 metri quadrati complessivi, questa fiera romana è articolata tra i due padiglioni del MACRO Future e il Padiglione della Pelanda, appena restaurato, che, con le sue vasche e caldaie, offre uno spazio di grande suggestione. Start-up è la sezione della fiera dedicata alle gallerie emergenti selezionate da un ed team di giovani curatori attivi in tutto il mondo. Gli spazi della fiera saranno animati da incontri, visite guidate eventi collaterali sia per gli addetti ai lavori che per il pubblico più giovane. Grande novità è la Festa Internazionale dell’Arte Contemporanea, un progetto realizzato in collaborazione con 12 tra le più Giorgio Galotti importanti Accademie e Istituti di Cultura White Square #02, 2008 stranieri presenti a Roma, che proporranno courtesy CO2 contemporary art nelle loro sedi una selezione di artisti del proprio paese rappresentati da alcune delle migliori gallerie nazionali: un vero e proprio viaggio nella produzione artistica più aggiornata di zone diverse del mondo e selezionata da curatori internazionali. Il fitto programma di mostre realizzate dalle Accademie e dagli Istituti costituirà il nucleo del programma di visite, che integreranno la mattina le attività della fiera, e che sarà dedicato ai collezionisti internazionali ospiti di ROMA e ai molti addetti ai lavori (direttori di musei, curatori, artisti, giornalisti) che parteciperanno alla primavera romana dell’arte.
Padiglione della Pelanda Botto e Bruno, Colours and the kids II, 2009 Alberto Peola Arte Contemporanea, Torino
Richard Long, Galleria Sperone
Vittorio Corsini, Omaggio a Cechov, 2004. Corsoveneziaotto Arte Contemporanea Giuseppe Gonella, Complicated swinging, 2010. courtesy Changing Role, Napoli
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VINCENZO BALSAMO Segni di una luce interna Opere grafiche dal 1990 al 2008
dal 15 aprile al 16 maggio Museo delle Genti dâ&#x20AC;&#x2122;Abruzzo, via delle Caserme, 22 - 65127 Pescara
www.gentidabruzzo.it - info: 085.4511562 - 085.4510026 - fondazione@gentidabruzzo.it
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APRE IL MAXXI
Museo nazionale delle arti del XXI secolo, Roma
Il segno di Zaha Intervista a Anna Mattirolo a cura di Ilaria Piccioni
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Il progetto di Zaha Hadid
Il MAXXI è il primo museo nazionale dedicato esclusivamente all’arte contemporanea in Italia. Era il 1998 quando Zaha Hadid, tra 273 candidati, ha vinto il concorso internazionale per l’ ambiziosa progettazione del MAXXI. La struttura è in cemento armato con le coperture in vetro su di una superficie di 30.000 mq nel quartiere Flaminio, in un sito originariamente occupato da una fabbrica di automobili e successivamente dall’esercito. Zaha Hadid ha spiegato il processo di pensiero che ha portato all’attuale design: “Era importante decidere che avrebbe tenuto alcuni degli edifici preesistenti, ma non tutti. E una volta che è stato deciso abbiamo fatto alcuni studi sulle geometrie, che avrebbero sostituito l’esistente. Ciò che ci è apparso era una confluenza di linee di diverse geometrie operanti sul sito. La fluidità del progetto è così venuta da sola.“ Il modo in cui lo spazio si interseca e si intreccia consentirà ai curatori diverse connessioni tra le mostre e di creare campi di associazione multipla e di giustapposizione. Hadid propone uno spazio quasi urbano, un “mondo” in cui tuffarsi piuttosto che un edificio “firmato”. Lunghe pareti fluide caratterizzano l’impianto. Nelle parole dell’architetto: “ho progettato le pareti curve non solo per le esposizioni all’interno, ma anche all’esterno. In modo da avere murales, proiezioni, installazioni.“ Il progetto del museo e la sua costruzione hanno attraversato la gestione di tre sindaci diversi e ha subito una serie di stop tortuosa a causa di problemi di finanziamento e, nel 2001, l’improvvisa classificazione di Roma come zona sismica ha portato a una notevole quantità di ripianificazioni e la reiscrizione in bilancio. Ma ora ci siamo, il sito, noto come il “cantiere eterno”, è chiuso e il Museo aprirà le sue porte al pubblico il 30 maggio.
Il 30 maggio apre al pubblico il MAXXI di Roma. Anna Mattirolo, direttore del MAXXI arte, ci racconta il museo che verrà.
- Con l’apertura del MAXXI Roma ha una grande opportunità nel contemporaneo. Come può cambiare lo scenario romano e italiano sul piano internazionale, in vista anche della coincidente apertura del MACRO? - Sono entrambi eventi molto importanti che concorrono a rendere Roma una città ancora più competitiva nel settore del contemporaneo. Il MAXXI, dopo anni di cantiere, si insedia su una base culturale solida e ben strutturata. Ritengo che sia importante per Roma avere più luoghi dedicati alla contemporaneità perchè più è forte l’offerta e più si è in grado di confrontarsi con la cultura del passato, proiettandosi nel contempo verso la creatività futura. Recentemente si è parlato della composizione di una fondazione che unisca i quattro poli museali romani dedicati all’arte moderna e contemporanea: Gnam, Macro, MAXXI e Palexpo. Cosa ne pensa? In realtà faccio fatica ad immaginare un’unione tra entità di origine così diverse tra loro. Credo comunque che sia necessario mettere a sistema tutte queste istituzioni, penso alla comunicazione o a i servizi di biglietteria comuni, perché così facendo si arricchirebbe il servizio fornito alla città. Come verrà strutturata la programmazione del MAXXI, ci sarà una giusta attenzione alle realtà ed espressioni nazionali per APRILE-MAGGIO 2010 | 229
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Alighiero Boetti, Mappa, 1972-73. Ricamo a mano su lino, cm 163 x 217. Fondazione MAXXI - Museo nazionale delle arti del XXI secolo - Roma Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Photocredit Roberto Galasso
consentire e impostare un nuovo dialogo internazionale? Sarebbe antistorico non muoversi in ambito internazionale. L’attenzione all’Italia sarà comunque molto forte perché ritengo che le sue espressioni (penso sia alle figure storicizzate che alle realtà più attuali) siano tali da rendere molto facile un dialogo internazionale. Il MAXXI potrà diventare un incubatore artistico? Lavoreremo con artisti italiani la cui portata storica internazionale non è ancora sufficientemente conosciuta. Su questa scia ci occuperemo anche di figure più giovani con progetti specifici promossi e prodotti dal MAXXI; il museo intende essere un centro di produzione e un laboratorio per artisti, giovani curatori e studiosi. Il MAXXI avrà una forte attenzione anche alla ricerca scientifica per riportare all’attenzione di studiosi internazionali alcuni temi e aspetti della cultura italiana che riteniamo degni di riflessione. Lavoreremo anche, viste le caratteristiche del museo, sul concetto di interdisciplinarietà per farne una delle peculiarità del MAXXI. Quale museo internazionale considera come fratello maggiore del MAXXI, da cui sarà interessante trarre spunti e stimoli per il nuovo percorso? I punti di riferimento sono tanti, sono quei musei che vengono in mente a noi tutti e che in questi anni di costruzione del MAXXI sono stati utili per capire quale poteva essere l’elemento da inserire in un nuovo contesto sia nazionale che internazionale. Tuttavia la stessa Hadid, con la sua costruzione e il suo segno architettonico, ci costringe con entusiasmo a voltare pagina. Con una tale architettura si ha uno stimolo che non si può non considerare con la giusta attenzione e che noi non intendiamo ignorare.
In alto: Cino Zucchi, Studio per l’installazione per la mostra SPAZIO al MAXXI di Roma, 2010. In basso: Gino De Dominicis, Senza Titolo “Silhouette”, 1988 90. Collezione privata, Italia.
La crisi economica attuale può condizionare l’evoluzione del percorso del MAXXI? Quale sarebbe stata la strada percorsa se non avessimo attraversato un periodo così delicato, nonostante i dati attuali dicano che la cultura in genere non ha risentito profondamente di questa situazione? Paradossalmente la crisi economica può essere uno stimolo per agire in modo diverso. D’altra parte noi viviamo da tempo in una crisi perenne e mai sono stati stanziati fiumi di denaro per il nostro settore. Quindi attualmente non ci sono limitazioni o tagli ai finanziamenti? Ci sono, compatibilmente all’andamento economico del paese. Per quanto riguarda il budget rivolto alla collezione è possibile proseguire con il lavoro svolto finora, avete intenzione di diver22 -
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speciale musei sificare le scelte? Abbiamo intenzione di produrre dei progetti specifici, lavoreremo di più su questo fronte per generare proposte mirate alla valorizzazione della collezione. Quindi anche per la valorizzazione di lavori dei giovani artisti? Sì, certo.
Kutlug Ataman, Strange Spaces, 2009.Courtesy the artist.
L’inaugurazione del MAXXI, prevista per maggio, ha in programma cinque mostre d’apertura, lo conferma? Il MAXXI, la cui apertura al pubblico è prevista alla fine di maggio, ha due musei distinti: MAXXI arte e MAXXI architettura. Tuttavia, il cuore pulsante dell’inaugurazione sarà la mostra Spazio, che interpreta appieno il carattere di interdisciplinarità proprio del museo, Spazio è infatti un unico percorso attraverso le collezioni del MAXXI arte e del MAXXI architettura e la produzione dei più importanti artisti e architetti contemporanei. Sarà una grande mostra che occuperà tutto il primo piano, indistintamente dalla suddivisione spaziale delle due sezioni del museo. Per quanto riguarda in modo più specifico il MAXXI architettura, la mostra principale è dedicata a Luigi Moretti, dato che il museo si occuperà anche del secolo scorso e quindi della progettazione moderna e contemporanea. Ci sarà anche un lavoro site specific di Studio Azzurro che costituirà una sorta di panorama sull’architettura contemporanea in modo meno tradizionale. Per il MAXXI arte, stiamo organizzando una monografica dedicata a Gino De Dominicis, figura imprescindibile per l’arte italiana contemporanea e punto di riferimento per le successive generazioni. La curatela è di Achille Bonito Oliva. Saranno esposte circa 145 opere che andranno a occupare più spazi del museo, per indagare tutti i maggiori nodi tematici e iconografici affrontati dall’artista. La pubblicazione che accompagnerà la retrospettiva non sarà solo il catalogo della mostra, ma una vera e propria monografia di riferimento. Sarà una grande novità perché è la prima retrospettiva scientificamente completa dedicata a uno degli artisti italiani più influenti in Italia tra il 1960 e 1990. La contemporaneità più stringente, sarà rappresentata da Mesopotamian Dramaturgies di Kutlug Ataman. Questo progetto – che verrà esposto nella sua interezza - si articola intorno al rapporto tra Oriente e Occidente, tra modernizzazione e tradizione, globalizzazione e persistenza delle culture locali ed è composto da otto opere video in gran parte girate nei villaggi della Turchia, Il progetto interpreta appieno alcune delle linee guida che il MAXXI intende portare avanti, ovvero l’interdisciplinarità e la confluenza di temi e di culture.
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Ci sarà l’opportunità di dialogare con altri musei, avete avviato un comunicazione diretta per future collaborazioni? Sì sicuramente in una fase successiva realizzeremo i progetti già in cantiere. Pensa che il pubblico romano e italiano sia pronto a recepire la novità? Finora sembra si sia dimostrato interessato e curioso. Sì per ora ha risposto molto positivamente. La qualità è sempre un valore. È facilmente riconoscibile e assimilabile? Sì e in particolare ritengo che quest’edificio possa davvero dialogare con la grande architettura romana anche del passato. Effettivamente dalla risposta che il pubblico ha dato per tutte le attività organizzate dal MAXXI si evince che si sia creata una forte attesa, dettata dal desiderio di novità? Il pubblico è in attesa di qualcosa di nuovo ed è quello che si merita. Stiamo lavorando sulla qualità e finalmente si presenta l’occasione per noi, per la città e per l’Italia di proporsi in ambito internazionale con un nostro punto di vista, con qualcosa che possa essere recepito sia qui che nel resto del mondo. Può darci un giudizio sul lavoro di Zaha Hadid e sulla realizzazione finale della struttura museale? Credo che questo museo sia effettivamente un’eccellenza nell’architettura internazionale. Corrisponderà alle aspettative? Attualmente è sicuramente così, per noi che abbiamo seguito il cantiere dall’inizio e per chi l’ha potuto vedere fino ad ora. Non dimentichiamo che il cantiere è stato oggetto di studio e che in questi anni abbiamo avviato un’attività didattica molto convincente con una forte richiesta internazionale. Non faccio fatica a dire che è un’eccellenza grazie anche a tante capacità italiane che hanno lavorato e tradotto in architettura il progetto di Zaha Hadid. n
Le immagini dell’architettonico di questo servizio sono tutte di Iwan Baan, tranne il ritratto di Anna Mattirolo a pag. 21 che è di Nico Marziali. Courtesy Maxxi, Roma
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IL CATALOGO DELLE COLLEZIONI
Alla vigilia dell’apertura al pubblico del MAXXI, è stato presentato il catalogo (Electa) che riunisce l’intera collezione di opere di arte contemporanea acquisite a diverso titolo dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e dal Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo. La pubblicazione, a cura di Stefania Frezzotti, Carolina Italiano, Angelandreina Rorro, in due volumi, propone 1350 opere ed è stata concepita come un repertorio alfabetico per artista corredato da un indice analitico. Una sezione finale di regesti è dedicata ad opere che per caratteristiche tipologiche specifiche (es.libri d’artista), meritavano una trattazione che tenesse conto di tali differenze. Due saggi introduttivi (rispettivamente di Anna Mattirolo, direttore del MAXXI Arte e di Maria Vittoria Marini Clarelli, soprintendente della GAM) forniscono al lettore i necessari strumenti critici per ricostruire lo scenario storico-artistico in rapporto alla politica di acquisizioni dei due musei in oltre cinquant’anni di esperienze volte alla documentazione dell’arte italiana e internazionale dal 1958 al 2008. In particolare, la giovane collezione del MAXXI, avviata nel 2002, comprende 299 opere frutto di acquisizioni, progetti di committenza, concorsi tematici, premi, donazioni o affidamenti. Tra le opere quelle di Boetti, Clemente, Kapoor, Kentridge, Merz, Penone, Pintaldi, Richter, Warhol-
CINQUE MOSTRE INAUGURALI 27-28-29 maggio
Dopo l’architectural preview dello scorso novembre che ha consentito di scoprire l’edificio in tutta la sua consistenza, il MXXI viene aperto definitivamente al pubblico con cinque mostre inaugurali. - La prima mostra SPAZIO (a cura di un gruppo interdisciplinare composto da Pippo Ciorra, Alessandro D’Onofrio, Bartolomeo Pietromarchi, Gabi Scardi e dai conservatori del MAXXI) è costituita da un percorso di arte e architettura con 80 opere della collazione in dialogo con le installazioni site specific di dieci architetti e studi di architettura internazionali. Catalogo a cura di Stefano Chiodi e Domitilla Dardi. - La seconda mostra è dedicata a Gino De Dominicis: L’immortale. Una esaustiva retrospettiva dell’artista a cura di Achille Bonito Oliva, per rimarcare una figura chiave dell’arte contemporanea italiana e punto di riferimento per le giovani generazioni. La mostra propone un centinaio di opere tra le quali la gigantesca Calamita cosmica lunga oltre 24 metri. - La terza mostra, a cura di Cristiana Perrella, propone un progetto di Kutlug Ataman, uno dei più noti artisti turchi contemporanei, con otto opere video che riflettono sul problematico rapporto tra Oriente e Occidente, tra tradizione e persistenza delle culture locali, tra modernizzazione e globalizzazione. - La quarta mostra viene dedicata a Luigi Moretti. Dal razionalismo all’informale. Figura estroversa di progettista e studioso della cultura architettonica del ‘900, l’esposizione analizza la sua opera progettuale e l’attività teorica, attraverso un percorso a cura di Bruno Reiclin e Maristella Casciato, con la collaborazione dell’Archivio Centrale dello Stato, dell’Accademia di Architettura e l’Archivio del Moderno dell’Università della Svizzera italiana. - La quinta mostra, Geografie italiane, a cura di Maristella Casciato, Pippo Ciorra e Margherita Guccione è una installazione video che occupa una intera parete di 40 metri e che racconta storie e persone dell’architettura italiana dal secondo Novecento ad oggi, attraverso disegni, fotografie, interviste, spezzoni cinematografici, luoghi, autori, concetti, liberamente rielaborati e assemblati in modo spettacolare da Studio Azzurro. APRILE-MAGGIO 2010 | 229
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Museo d’Arte contemporanea, Castello di Rivoli
Cambiare per rimanere fedeli a se stessi di Gabriella Serusi
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adicamento maggiore sul territorio scongiurando lo spauracchio del provincialismo. Con questo viatico, che poi è anche promessa di un rinnovamento metodologico, si è aperta la conferenza stampa di presentazione della nuova stagione espositiva al Castello di Rivoli, tra i musei più prestigiosi d’arte contemporanea. Dopo le polemiche e gli interrogativi che hanno accompagnato la scelta dei due direttori artistici - Beatrice Merz e Andrea Bellini - precedute da quelle che hanno anticipato la nomina del Presidente Giovanni Minoli, un uomo della TV prestato all’arte contemporanea, la vera sfida si gioca adesso sul terreno della riconfigurazione del
Il Museo di Arte Contemporanea di Villa Croce - Genova
Dal classico al contemporaneo
intervista a Sandra Solimano a cura di Marco Poggi
Il Museo di Villa Croce, Genova
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osa è stato determinante nella sua vita nel percorso di avvicinamento all’arte e come è arrivata a questo incarico? Sicuramente l’aver studiato con un maestro come Corrado Maltese che mi ha insegnato molto: egli aveva la capacità di insegnare a noi studenti di guardare alle cose con un occhio non convenzionale, di saper leggere un’opera con gli strumenti dell’arte contemporanea pur se questa non fosse necessariamente un’opera d’arte contemporanea; in seconda battuta anche Guido Tutini, che
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concetto di Museo tout court. Se è vero - come ha sottolineato Andrea Bellini - che a partire dagli anni ‘80, l’istituzione pubblica del museo ha subito notevoli mutamenti in termini di distribuzione fisica degli spazi, allargamento del bacino di utenza, coinvolgimento di professionalità differenti, oggi è necessario più che mai ripensare soprattutto alle funzioni e agli obiettivi del museo, senza trascurare il modo in cui questi ultimi vengono e verranno veicolati nella società del futuro. L’abbraccio pericoloso fra economia, marketing, politica e cultura ha reso necessaria una riflessione profonda e un restyling dei ruoli dei direttori museali - oggi più simili a manager colti con doti di found rising piuttosto che puri e semplici esperti della materia. E anche la coppia Bellini/Minoli conferma la nuova direzione presa in fatto di politica gestionale del Museo di Rivoli, costretto a confrontarsi con il panorama globale internazionale ma anche con le specificità territoriali. Quando Andrea Bellini, citando Pontus Hulten, sostiene che uno degli obiettivi fondamentali della nuova gestione del museo dovrà essere quella di “crearsi un pubblico”, fa riferimento in maniera più o meno velata al problema dell’audience che oggi affligge il mondo della cultura di cui l’arte contemporanea è parte integrante ma traccia anche le direttive strategiche per uscire da questa crisi. la soluzione per disegnare una nuova fisionomia, è quella di ripensare il Museo di Rivoli come centro polifunzionale ovvero come organismo vivo, in grado di recepire le esigenze tanto di un pubblico eterogeneo e vicino e lui quanto di proporre mostre autonome e interessanti per chi viene da fuori. Rivoli non può essere - precisa ancora Bellini – semplicemente una finestra sul mondo (quindi un luogo per aggiornare il pubblico su quanto sta accadendo oggi nell’arte contemporanea) ma deve diventare esso stesso un “mondo” cioè un centro di elaborazione culturale e un luogo dove fare esperienze forti. Per raggiungere questi obiettivi, i due direttori concordano sull’urgenza di fare del museo una struttura elastica ed osmotica, interdisciplinare e aperta alle contaminazioni di genere. Festival specialistici connessi con la cultura visiva contemporanea, teatro, rassegne di documentari, eventi legati all’editoria, collaborazioni dirette con artisti, critici internazionali di nuova formazione, storici dell’arte, letterati: sono questi gli ingredienti dai quali partire per realizzare una concreta trasformazione culturale del museo. Il primo appuntamento sarà l’8 giugno con la mostra Tutto è connesso, un lavoro sulla collezione del castello che - come ha precisato Beatrice Merz - vanta una raccolta di pregio forse fin’ora poco valorizzata per ragioni logistiche. La mostra prevede lo smantellamento del primo e secondo piano del museo e la ripresentazione al pubblico delle opere secondo un ordine cronologico à rebour, dal 2009 al 1999 - una storia all’indietro che per essere riscritta chiamerà in causa i diretti protagonisti. Gli artisti parteciperanno infatti sia alla scelta delle opere esposte che alla loro visione negli spazi espositivi. Nell’ambito del nuovo allestimento della collezione, spicca la personale dedicata a Pippilotti Rist, pioniera della video arte, curata da Beatrice Merz e Marcella Beccaria. poi sarebbe a breve divenuto il primo curatore del Museo di Villa Croce, che ebbi l’occasione di conoscere quando a inizio anni ‘80 curai attraverso la biblioteca Berio per cui lavoravo un mostra sul Bauhaus che era uno dei miei grandi miti; ne apprezzai le competenze e i modi, e così l’anno dopo iniziammo a lavorare insieme, per poi entrare nel suo staff all’apertura del museo nell’84; scoprii cosi un mestiere nuovo, quello del curatore di mostre. In una intervista del 2005 lei parlava dei limiti vostri verso Genova e della città verso di voi: quali, se sono rimasti, i consigli per superarli? Sicuramente Genova ha nelle sue strutture e in Villa Croce dei limiti strutturali che ne limitano la fruizione come i pochi parcheggi intorno e la chiusura dell’area, e di contro i genovesi sono proprio poco inclini ad affacciarsi al contemporaneo come tutti gli italiani per un problema di tradizioni radicate. Diciamo che la città ad oggi dopo diversi anni continua a rimanere alquanto indifferente all’arte contemporanea, anche se recenti iniziative hanno tentano di abbattere il tabù che fino ad oggi ha limitato questa città e impedito la divulgazione del contemporaneo: l’idea cioè che l’arte contemporanea sia difficile e sia per pochi: stiamo lavorando in questo senso e credo che i risultati siano in progresso, se disperassi smetterei il mio mestiere. Sicuramente un domani uscendo dalla crisi sarà fattibile e utile uno spostamento di sede e una migliore pubblicizzazione degli eventi e delle vie di collegamento che porteranno la gente al museo; se ci riferiamo invece alla fruibilità del museo su scala nazionale sicuramente l’Italia necessità interamente di nuovi investimenti nell’ambito museale e una nuova redistribuzione dei fondi, anche perché pur essendoci la crisi, i soldi per fare qualcosa di importante ci sarebbero, andrebbero redistribuiti meglio e potenziare le attività collaterali all’interno della struttura in modo da portare maggiore pubblico ed entrate, cosa che peraltro noi abbiamo fatto ma restiamo penalizzati dalla nostra posizione decentrata e dallo spazio esiguo che ci è concesso usare in questo museo. C’è da dire poi che i limiti non sono solo nostri ma di tutto il paese nei confronti del contemporaneo, in quanto l’Italia non è solo usufruitrice ma anche vittima del proprio passato storico da cui spesso non riesce a staccarsi. Due modelli su tutti da cui trarre esempio sono quello della Germania, che pur avendo una tradizione storica molto forte ha cercato negli ultimi anni di promuovere fortemente l’arte contemporanea, si veda Berlino, e la Francia, che ha tessuto
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speciale musei Fra gli eventi più attesi c’è però Exhibition/Exhibition a cura del giovane critico di area anglosassone Adam Carr, una figura che rappresenta l’apertura del museo alle voci nuove della cultura contemporanea. Carr presenterà una mostra appositamente studiata per l’infelice spazio della Manica Lunga del Castello in cui opere site-specific condurranno gli spettatori in una riflessione sul tema del “rispecchiamento” nell’arte contemporanea. parallelamente prenderanno il via un ciclo di incontri e proiezioni interdisciplinari condotti dal critico torinese Franz Bernardelli. Nell’ottica di concepire il Museo di Rivoli come centro culturale propulsivo, Merz e Bellini, hanno pensato di avviare una serie di incontri e giornate di analisi con figure trasversali e anomale del mondo letterario - pensatori eclettici che con la loro riflessione hanno anticipato o contribuito alla formulazione di un pensiero diverso ed eterodosso sulla società attuale come ad esempio Emilio Villa, poeta, critico e letterato anomalo e sconosciuto alla stragrande maggioranza del pubblico. Altre novità sono però quelle di dar vita a una televisione sul web “Rivoli Channel” e una Radio che trasmetterà dal castello una programmazione tutta plasmata sul mondo giovanile (addirittura è stato coinvolto un noto dj d’oltralpe) che dovrà essere sensibilizzato al mondo dell’arte contemporanea attraverso progetti radiofonici legati alle specificità dei contenuti visivi entro i quali si muove il museo. Quello che si prepara è insomma un centro culturale non soltanto polifunzionale ma anche polisensoriale, un luogo dove fare esperienza e da cui tornare cambiati e più ricchi; una sorta di utopia culturale che dovrà farci dimenticare tante delle esperienze vissute al castello e poi facilmente dimenticate. Buon lavoro quindi ai nuovi direttori e allo staff del sempre più prestigioso museo d’arte contemporanea italiano. n Castello di Rivoli, Atrio juvarriano e Manica Lunga Foto Paolo Pellion, Torino
MAMbo, Bologna
Rinnovi e investimenti Intervista con il direttore scientifico a cura di Francesca Alix Nicòli
GIANFRANCO MARANIELLO
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parte le mostre temporanee, la Collezione Permanente del MAMbo si presenta al pubblico d’oggi con un allestimento completamente rinnovato, con l’intento di dare una lettura della storia dell’arte italiana, dalla metà degli anni Cinquanta a oggi, attraverso l’attività dell’ex Galleria d’Arte Moderna. Focus on Contemporary Italian Art, la sezione dedicata alla promozione dell’arte italiana emergente, è stata riconfigurata e affiancata da nuove aree tematiche che ripercorrono i momenti e i movimenti salienti della produzione artistica del nostro Paese: Arte e ideologia, Arte astratta e informale, Per una storia della GAM (Arte Povera e Concettuale, Corpo e Azione, Scultura e Pittura negli anni ‘80). Uno spazio apposito è dedicato a video e film, con documenti e opere che datano dal Futurismo ai giorni nostri. - Chiediamo al Direttore scientifico del Museo come si sente alla sua giovane età nel ruolo che fu di Weiermair e prima di lui di Danilo Eccher? - Non ci penso mai, a meno che non mi venga fatto notare. E capisco che il mio ruolo e il mio dato anagrafico possono essere sorprendenti solo alla luce della diffusa gerontocrazia vigente nel nostro paese. Quanto ai miei predecessori: sono onorato di tale eredità. - Una domanda sul problema delle risorse: a parte gli introiti di botteghino, gadgets, bookshop e simili, su quali fonti può contare una complessa macchina amministrativa come il Mambo? - Finanziamenti pubblici e privati: Comune di Bologna, Regione EmiliaRomagna, Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna, Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna sono i sostenitori istituzionali. Speciali contributi provengono da Fiera Bologna e UniCredit Group. Poi ci sono gli sponsor legati alle rassegne e speciali progetti costruiti per le aziende nella denominazione del MAMbo Club. Poi la fidelizzazione degli amici del museo che costituiscono la MAMbo Community. Tutto ciò può strutturarsi solo attorno a una chiarezza di progetto e non proponendo attività velleitarie.
negli anni una rete regionale (Frac) che si occupa della gestione e diffusione dell’arte contemporanea nel proprio paese. Che responsabilità e differenze trova oggi un curatore di museo rispetto alla gestione di altre strutture artistiche? La grossa differenza la fa senza dubbio il mercato, laddove una galleria ne determina in misura maggiore o minore a seconda dei casi l’evoluzione, mentre il museo suo malgrado ne è vittima. A livello organizzativo chiaro che di contro il museo a differenza di una galleria ad esempio, piuttosto che una associazione ecc…può come suo vantaggio offrire un’offerta culturale più vasta che va dalla mostra a tema alla mostra storica. E’ vero da un lato come le dicevo che siamo vittime del mercato, per lo meno in Europa, inteso come noi musei, ma è anche vero che non occupandoci del lucro possiamo concentrare il nostro lavoro su delle scelte prettamente culturali e avere una nostra linea organizzativa senza vincoli commerciali, anche se per ogni nostro progetto i costi sono di gran lunga più esosi rispetto ad una galleria e che per ogni percorso occorre superare passaggi quali l’approvazione del comitato scientifico ad esempio che invece altre strutture artistiche non hanno. Chiaramente non tutto ciò che viene spinto dal mercato non è degno di attenzione, quindi così come fanno gli artisti che portano avanti i loro progetti con un occhio diciamo così “fuori dalla finestra”, così facciamo noi. Nuove generazioni: come vede muoversi il mercato italiano per i giovani curatori e cosa fa Villa Croce? Dal 2006 ad oggi Villa Croce si è molto mossa per i giovani, con il progetto arte giovani che porta visibilità ai giovani artisti e ai progetti di giovani curatori d’arte contemporanea. Un lavoro su tutti degno di nota è quello di Francesca Ferrari che tra l’altro collabora con noi del museo, che con il suo progetto Tutti in gioco portò più di 20mila spettatori in pochi giorni nella cornice della Loggia dei mercanti in piazza Banchi. Io mi sono occupata molto di giovani curatori, questo è un mestiere che necessita di grande preparazione e di esperienza sul campo. La Fondazione Ratti, La città dell’arte di Pistoletto, sono realtà che danno possibilità ai giovani curatori di partecipare a incontri con artisti e viaggiare all’estero per incontrare nuove realtà curatoriali, ecco queste sono strade importanti e innovative. Per quel poco che possiamo fare noi come Villa Croce abbiamo avuto molti ragazzi in stage per alcuni mesi dalle università e dal Dams, e per loro è stato importante confrontarsi con gli artisti e accordarsi con loro. Io credo che nulla come la pratica sia interessante per crescere in questo lavoro. n
- E quale parte gioca in questo contesto la didattica, effettivamente così attiva e vivace dato anche l’effetto benefico della vicina Università di Bologna? L’attività didattica è un servizio. Ha dei costi importanti per il museo, ma si tratta di soldi spesi molto bene e che hanno fatto del nostro dipartimento educativo un’eccellenza oggi sostenuta anche dall’Unione Europea. - A parte le contribuzioni statali, quale, secondo lei, la migliore strategia per dare gambe ai finanziamenti privati, ancora purtroppo così sporadici e male organizzati in Italia? E’ ipotizzabile importare qui da noi un sistema di de-fiscalizzazione simile a quello vigente negli Stati Uniti? Lei vede alla base di questa arretratezza italiana solo motivazioni di tipo ideologico o anche vi sarebbero ragioni di opportunità diciamo imputabili alla necessità di preservare di una cultura il più possibile libera da possibili strumentalizzazioni di parte? - L’associazione dei musei ripete queste cose da tempo. Con la sua domanda fa bene a rimarcare il problema e speriamo che anche media generalisti se ne occupino. Se non si interviene in tal senso anche in materia di IVA, diritto di seguito, SIAE e non si comprende la specificità delle nostre attività, si aggraverà la situazione. Pensi al patrimonio di opere da destinare alle collezioni che stiamo invece già perdendo. I privati (e ce ne sono molti interessati) possono donare o comprare a favore anche di musei stranieri dove le agevolazioni fiscali e la continuità di progetto danno maggiori credenziali. Dobbiamo favorire investimenti nel nostro paese. I nostri problemi non sono molto lontani da quelli delle imprese che patiscono la concorrenza di paesi meno burocratizzati, più affidabili e senza quelle ingerenze politiche che risultano destabilizzanti per le istituzioni. - Condivide la scelta del Louvre di prestare il suo marchio alla Abu Dhabi Investment Authority Foundation per un trentennio, andando in deroga al presupposto ideologico della sacralità del patrimonio nazionale e mandando su tutte le furie Jean Clair? Anche lei crede che a un certo punto la necessità di “far ciccia” possa giustificare un atteggiamento se vogliamo più pragmatico e lungimirante? - Io credo nella chiarezza di progetto e nelle strategie per la sua sostenibilità. Se si perde di vista uno dei due poli della questione, si finisce con il tradire la missione di cui si è investiti, ossia la gestione (per un periodo di tempo determinato) di un’istituzione e, quindi, il patto e la responsabilità pubblica con la cultura e la storia di una comunità. n APRILE-MAGGIO 2010 | 229
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Jan FABRE Intervista con Francesca Alix Nicòli bbiamo intervistato Jan Fabre mentre inaugura la sua ultima personale di bronzi e cere alla galleria Guy Pieters, fino al 2 maggio prossimo nelle nuove sedi parigine di Avenue Matignon. Questo incontro ci ha fornito il pretesto per ragionare con lui di alcuni temi e motivi ricorrenti nel suo lavoro, sia di performer che di visual artist.
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- Anche in Italia abbiamo avuto diverse occasioni per vedere il tuo lavoro nel corso del 2009: come percepisci il pubblico italiano, come reagisce ai tuoi spettacoli, che tipo di sensibilità manifesta? - Penso che lo spettatore italiano sia simile al fiammingo, entrambi amano la bellezza, sono appassionati, sono curiosi, qualcosa lega gli italiani ai fiamminghi nelle loro radici, nei geni, e riguarda la loro comune celebrazione della vita e della bellezza. - Sei stato l’unico artista contemporaneo che ha avuto il privilegio di poter disposizione degli spazi altrimenti inaccessibili del Louvre, nel 2008, per fare una tua mostra personale nelle sale dedicate alla tradizione fiamminga. Come ti relazioni con il medio evo fiammingo, ti senti più vicino a visionari come Bosch o al tipo di descrizione analitica fatta da Dürer? - C’è una grande differenza fra l’olandese e il fiammingo: i fiamminghi sono cattolici, gli olandesi sono calvinisti. Questo diverso background si riflette anche nella pittura: Rembrandt è olandese, ed è molto focalizzato, anche intellettualmente è attento al dettaglio e presenta contorni chiari e netti. Al contrario la pittura fiamminga è una specie di immaginazione che si espande in tutte le direzioni. Gli olandesi in genere hanno un’immaginazione più precisa, una messa a fuoco sui particolari. Riguardo al Louvre, ho lavorato al progetto per tre anni, in più di quaranta spazi, ed ho concepito una specie di drammaturgia attraverso la storia della pittura, fiamminga, olandese e tedesca con il mio lavoro. Ma perché la direttrice Marie Laure Bernadac ha scelto me? Io sono stato molto influenzato dall’opera di Van Eyck, Hieronymous Bosch, Bruegel, antichi maestri che avevano un’immaginazione incredibile, trattavano temi politici, come ad esempio “La Nave dei folli” di Hieronymous Bosch, che riguarda l’ebbrezza del potere, religioso e politico. In questo senso le radici del mio lavoro si trovano in questo terreno. Nel mio studio ho molte riproduzioni di questi capolavori. Spesso anche inavvertitamente, altre volte invece intenzionalmente, catturo molti elementi per le mie sculture e per i miei disegni da quella tradizione. - Riguardo al postmoderno, nutri un’opposizione nei confronti della tradizione “modernista” o semplicemente la ignori. 6Jan Fabre, Chapitres I-XVII cere e bronzi (courtesy Guy Pieters Gallery, Paris)
5Jan Fabre e Francesca Nicoli (foto di Francesco Ricci)
- La mia seconda influenza è scientifica, i miei eroi sono scienziati, ho letto molti libri del biologo e filosofo contemporaneo Edward O. Wilson, mi considero un artista consilience. Consilience è un termine che Eduard O’Wilson ha re-introdotto, ma fu usato la prima volta nel 1800 da William Whewell. Significa che alcuni elementi strutturali saltano fuori dalle discipline specifiche, legami di livello superiore dai quali puoi ridiscendere al particolare dando nuove interpretazioni ai fenomeni. Nello studio dell’entomologia l’oggetto è il comportamento degli insetti, i loro movimenti, le loro articolazioni e strategie. Nell’indagine comparativa si rilevano le connessioni, e attraverso queste ultime puoi ad esempio ridiscendere sulla vita umana associata cogliendo immediatamente come gli uomini si muovono, articolano e fanno strategie. Mi considero un artista consilience perché dagli ambiti delle arti visive a quelli delle arti performative si danno mutui e benefici interscambi, nei miei scritti per il teatro si possono trovare i principi attraverso i quali io do nuove interpretazioni alle mie sculture e alle mie istallazioni, e di nuovo questo si riverbera sui primi, sul modo in cui mi relaziono con i miei attori e ballerini. - Torniamo alle tue prime prove, “a theatre like it was expected to be”: durava 8 ore durante le quali inscenavi la storia di una bomba piazzata sotto il teatro in una scena sadica e lussuriosa che dava sfogo ed un’estrema soddisfazione agli istinti più segreti e pudendi degli spettatori. Puoi dirmi qualcosa del ruolo della crudeltà, e del ruolo del teatro della crudeltà di Artaud nel tuo lavoro? - A dire il vero molto prima della scoperta di Artaud, quando ero un artista giovanissimo, sui16 anni, andai a Bruges a vedere una mostra di maestri anatomisti e di crocifissioni, all’uscita ero molto scosso, praticamente ero scioccato dalla penetrazione del corpo attraverso le stigmate, il sangue etc. Ho scoperto così quella specie di crudeltà personale, guardando quelle pitture. Perciò ho fatto i miei primi disegni non con la sanguigna, ma proprio col sangue, il mio sangue. E ancor prima di conoscere Artaud, fu questa esperienza a darmi il senso del sacrificio che devi comunque compiere per arrivare a qualcosa. Più tardi scoprii Antonin Artaud e feci una solo performance in suo omaggio: lui è l’unico nella storia del teatro, anche attraverso Stanislavskij, Grotowski o Peter Brook –tutti loro hanno inventato dei metodi – lui è l’unico che ha inventato dei principi, una filosofia, ed è ancora estremamente contemporaneo. C’è una bella differenza fra dei semplici metodi e le direttive di fondo, i principi, inoltre Artaud era un visionario. - Il tuo “The fountain of the world”: personalmente l’ho interpretato [Segno n. 226] come un processo fisiologico attraverso il quale si attua una purificazione delle passioni, un processo radicato nella concezione aristotelica della tragedia come katharsis thon pathon, purificazione delle passioni. E’ questa la funzione che accordi al tuo teatro e alla tua performance? - The fountain of the world risale ai miei disegni del 1967-1968 e a quella esposizione di anatomisti fiamminghi e di crocifissioni. Penetrare il corpo, scoprire come è fatto dentro, sono pratiche che intrapresi attraverso piccole azioni sul mio corpo, o con il corpo delle ragazze che frequentavo, indagando nel mio sperma, nelle zone umide delle donne, nelle lacrime, attraverso perforazioni: anche i liquidi corporei hanno un significato filosofico. Facendo un salto nel tempo, quando stavo sviluppando la mia compagnia e le mie personali direttive teoriche, mi sono accorto presto che la matrice del teatro contemporaneo è in Grecia. La stessa idea della purificazione, la katharsis, si può dire che si trovava nel mio lavoro prima che io studiassi i greci. L’attore è un eroe che soffre e attraversa una purificazione, il mio teatro è un farmakon nel senso greco, ti purifica: può avvelenarti ma può anche essere la cura. - Il tuo “Art keeps me out of jail” mi ricorda una frase che Louise Bourgeois ha usato come sottotitolo di una sua istallazione per Kassel 1992: Precious liquids era anche Art is a guarantee of mental sanity, contro la malattia mentale. Nella vita di ogni giorno come può la gente comune dare sfogo alle sue passioni più profonde, cosa suggeriresti alla persona comune per “puri-8
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Alfredo PIRRI Opere a misura ambiente Intervista con Luciano Marucci uciano Marucci: Com’è nato il progetto della grande installazione “Misura Ambiente” di una certa complessità concettuale ed esecutiva? - Alfredo Pirri: “Misura Ambiente” - come sai - è un modo di dire che si usa quando si vuole definire la misura di un lavoro che non ne ha o, meglio, che si adegua all’ambiente che lo ospita. Perciò ho voluto sottolineare la presenza di un’opera a pavimento che ho allestito alla Galleria De’ Foscherari di Bologna dopo averla mostrata, la primavera scorsa, a Vorno (nei pressi di Lucca), nella Cappella della Tenuta dello Scompiglio per l’inaugurazione dell’omonima Accademia. Misura Ambiente è pure il titolo di una sorta di ricerca che sto avviando in questi giorni: una raccolta di fotografie di opere che ho realizzato negli ultimi dieci anni e di testi scritti nello stesso periodo, che dovrebbero sfociare quanto prima in un libro. Così ho voluto inaugurare un ciclo di mostre, conferenze e iniziative diverse che entreranno, appunto, nel volume in cui mi piacerebbe raccogliere riflessioni, mie e di altri, sulla questione dell’arte che non ha misura; che si dilata nello spazio e che, allo stesso tempo, salvaguarda il principio dell’opera e la sua autonomia, senza fondersi completamente con l’ambiente che la mostra.
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5Jan Fabre, Chapitres I-XVII cere e bronzi (courtesy Guy Pieters Gallery, Paris)
7 ficare le sue passioni”, a parte andare a vedere uno spettacolo
di Fabre? - (ride).. Nel 1981 feci una performance a New York in cui alcuni critici dovevano spararmi, si chiamava Art keeps me out of jail. Per la performance che ho fatto al Louvre il titolo doveva essere An homage to Jacques Mesrine. Mesrine fu ucciso nel 1978 da un poliziotto nelle strade di Parigi e decisi di non annunciare il vero titolo della performance in Francia perché Mesrine è ancora considerato un anarchico di sinistra radicale, molto mal visto dai cosiddetti ben pensanti. Perciò ho riutilizzato questo titolo del 1981 Art keeps me out of jail. Mi sento vicino agli anarchici e ai gangsters perché sono nato in un sobborgo povero, e vi sono sopravvissuto, grazie alla forte impressione che ho avuto dalla bellezza: questa è la vera ragione per cui sono sopravvissuto e potei andare via. Sono stato in prigione quando ero solo un ragazzo. Quello che forse ti purifica come essere umano è non finire negli eccessi del terrorismo della crudeltà reale, ma ricercare una specie di terrorismo poetico. Questo terrorismo poetico mi ha dato lo stesso eccesso che provavo da giovane uomo arrestato come un piccolo gangster, e anche un senso di purificazione, ma questo è molto personale … - E alla gente comune... - Credo che il terrorismo poetico sia cugino della bellezza, credo nelle forze della bellezza, ma non in un principio estetico di facciata che puoi ottenere col make-up, forse è un’attitudine verso la vita, come una specie di indulgenza che ti trasforma. I bambini possono farsi male mentre giocano ma tre secondi dopo sono di nuovo amici, come se non fossero stati arrabbiati. Il punto è quella trasparenza che viene prima della civilizzazione o dopo che superi gli 80 anni, chiamo indulgenza quello che non siamo più n 6Jan Fabre, Chapitres I-XVII cere e bronzi (courtesy Guy Pieters Gallery, Paris)
- Nell’intervento alla Cappella dello Scompiglio di Vorno c’era un legame privilegiato con la sacralità del luogo? - Più in generale, con la sacralità che si vive in quella piccola Cappella con un altare addirittura sproporzionato rispetto alla Cappella stessa. Un “oggetto” finalizzato a sottolineare il rapporto stretto fra sacralità e potere della famiglia che lo ha fatto edificare. Il soggetto dell’affresco inserito nell’altare, una Sacra Famiglia, con una presenza così significativa dentro il luogo in cui avrei dovuto esporre, era da tenere sicuramente in considerazione. Allo stesso tempo il mio lavoro, da un punto di vista compositivo, tendeva a sviare l’attenzione dello spettatore dall’altare e dalla rappresentazione sacra. La mia intenzione, semmai, era di stimolare percettivamente, in maniera molto forte, un tentativo di fuga dallo spazio attraverso il disegno a terra di una prospettiva centrale, con un punto di fuga quindi unico ma non situato esattamente ai piedi dell’altare, come sarebbe stato normale. Immaginiamo gli sguardi rivolti all’altare di quanti partecipano a un rito religioso, mentre le linee prospettiche a terra indirizzano l’attenzione alle spalle dell’altare medesimo verso un punto difficile da cogliere. Lo spettatore si sente proiettato verso l’esterno dell’edificio e questo fa sì che, guardando l’opera, sembra che l’altare venga in avanti, si muova verso il centro dello spazio, assumendo una nuova dimensione architettonica in cui la sacralità acquista una forma immobile e dinamica allo stesso tempo definendo una nuova ritualità, che ci proietta fuori dall’edificio in cui si compie. - Anche il nome dell’Accademia ha contribuito all’ideazione? - Un po’. Ho deciso di celebrare il nome dello Scompiglio, visto che, per la prima volta, l’Accademia veniva presentata al pubblico. Ho voluto, appunto, interrogare e celebrare la parola “scompiglio” insieme a quella del titolo del Seminario, “Incontri d’armonia”. Lo scompigliare e il rendere armonico, comunemente sembrano due termini lontani fra di loro; mentre, durante gli incontri, grazie ai diversi contributi, è diventato sempre più chiaro che l’armonia non è la giustapposizione statica di entità opposte, ma la convivenza delle stesse che indicano un modo di stare insieme in maniera reciprocamente utile e dinamico. - Mi pare che la tua realizzazione tenda a dare una lettura sensibile, molteplice e rigorosamente articolata. - La questione dell’armonia, alla base del Seminario e dell’idea dell’opera che ho realizzato, è - come dicevi tu - molteplice e articolata, con molti punti di fuga differenti, intesi come prospettiva, come geometria, raffigurazione, ma anche punti di fuga in termini umani, di esperienza, convivenza di tecniche e di idee tra loro differenti. Dunque, una convivenza senza scontri, rigorosa e sensibile. - In sostanza c’è stata una sorta di interazione con lo spazio fisico interno (architettonico e culturale) e perfino con l’ambiente naturale esterno. - L’ambiente naturale della Tenuta dello Scompiglio, con un parco enorme, una grande villa rinascimentale e altri edifici, evoca una sorta di religione naturale. Per questo - dicevo prima - che i punti di fuga nell’opera tendono a non fermarsi dentro la Cappella, ma raggiungono l’ambiente esterno nel tentativo di ren8 dere unica una ritualità spirituale e naturale. APRILE-MAGGIO 2010 | 229
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- Parliamo della percezione più intima. Dove vorrebbe condurre il percorso delle installazioni di Lucca e di Bologna che geometrizzano l’immaginario e invadono l’intero spazio coinvolgendo in più sensi gli spettatori? - Cerco di perseguire il coinvolgimento degli spettatori in tutte le opere, anche in quelle di dimensioni contenute, le quali, in apparenza, non producono in loro lo stesso effetto. Nel mio lavoro c’è sempre un aspetto, da me più volte chiamato di tipo performativo, che tende cioè a far sì che l’opera esca da se stessa per invadere lo spazio. Quindi lo spettatore viene sì attratto e coinvolto dentro l’opera, però vorrei che questa attrazione fosse leggera, impalpabile; che non ci porti in un luogo reale, fisico, fatto di emozioni e sensazioni sensoriali reali, come accade con l’arte relazionale. Per me l’opera deve chiamare a sé lo spettatore, per poi lasciarlo solo, come aveva iniziato da solo a osservarla. Così essa è una sorta di attivatore di solitudine che aiuta a rimanere con se stessi. - A meditare nel silenzio... - Anche, seppure nelle mie opere ci sia spesso una metafora sonora o, meglio ancora acustica; però è come quella della visione: attrae le persone per portarle in un luogo di solitudine, non per coinvolgerle e farle convivere tutte insieme in una comunità reale e stabilita una volta per tutte. - Con le proiezioni storiche nel presente hai voluto evidenziare l’importanza della dialettica tra valori ideali della classicità e proposte linguistiche della modernità? - I termini “classicità” e “modernità” non possono che convivere. Anzi, la modernità è il classico portato alle estreme conseguenze e, d’altra parte, anche la classicità è una forma permanente di modernità. A questo riflettevo di recente, ritornando dopo anni a Barcellona e rivedendo alcuni edifici importanti per quella città. Mi sono accorto che c’è stato un momento particolare negli anni Ottanta in cui abbiamo avuto la possibilità di riformulare un pensiero critico sul moderno, ripartendo proprio dal modernismo spaziale e architettonico. Ebbene, altrove questa riflessione ha caratterizzato gli spazi urbani ridando vitalità alle città attraverso un’autentica pratica post-moderna, cioè dopo-moderna. In Italia, al contrario, il postmodernismo è stato una cancellazione del moderno e una messa in gioco, tanto ironica quanto stupida e inutile, che ha portato semplicemente a un bric-à-brac, senza capo né coda, del quale tutti noi, sia in termini materiali sia spirituali, stiamo pagando le conseguenze. - Nel rapporto atemporale tra la stabilità della tradizione più attendibile e la precarietà di certa attualità c’è forse l’aspirazione di ritrovare l’armonia perduta e i valori immateriali? - L’armonia non è mai perduta. Se lo fosse, sarebbe qualcosa di invariabile che a un certo punto si spezza lasciando dietro di sé una traccia romantica che non mi interessa. Durante i giorni del Seminario ci siamo accorti - io lo sapevo già, ma le testimo-
Galleria Bonelli, Mantova
Elena MONZO Intervista a cura di Rebecca Delmenico ella personale proposta alla Galleria Bonelli di Mantova, Elena Monzo giovane artista bresciana (Orzinuovi 1981) ci racconta di magiche ed estreme tangibili realtà con un titolo Nidi di nodi di bu pronunciato come una formula magica, ma che confluisce nel concetto di nodo, in quanto legame, in quanto rapporto tra interno ed esterno, in quanto relazione umana. Ci è sembrato interessante ascoltare le sue esperienze in questa breve intervista. - E’ passato molto tempo dai tempi degli studi all’Accademia di Brera. Come potresti raccontare la tua naturale evoluzione artistica? - Dal tempo accademico è passata una eternità..6 anni ormai, ma ricordo che davo molta
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5Alfredo Pirri, Misura Ambiente, 2009,
Cappella dello Scompliglio (Vorno di Lucca), [visione simultanea dell'installazione da punti opposti]
nianze di quanti hanno collaborato mi hanno aiutato a comprenderlo meglio - come l’armonia non sia da recuperare dal passato, ma che va costruita in continuazione, che ci sposta sempre più avanti, dando nuove possibilità di comprensione. Ho capito anche un’altra cosa che avevo solo intuito: un valore fondativo dell’armonia è una strategia di tipo ascensionale come una scala musicale di Arvo Pärt. In tal senso il valore immateriale - come lo chiami tu - è fondamentale nell’armonia stessa, però non bisogna dimenticare che è una conquista non un punto di partenza. Diversamente sarebbe un’armonia morta. Invece il valore immateriale è da conquistare e, una volta acquisito, quando gli dai una forma nuova, bisogna avere la forza di verticalizzarlo maggiormente attraverso una nuova invenzione. - La ri-composizione dell’opera su altra misura alla Galleria De’ Foscherari di Bologna in cosa si differenzia dalla prima realizzazione di Vorno? - Durante l’inaugurazione alla “De’ Foscherari”, con un breve in-8 importanza al segno, nonostante la sperimentazione della materia a degli strati di colore mi mandasse in confusione. Inizialmente tutto era una prova: carte riprese, ritagliate, riciclate, assemblate… era lontano da me l’idea del pezzo finito/definitivo/completo… una sorta di lotta infinita tra segno e colore, dove ovviamente io perdevo sempre..nulla trionfava se non una grande confusione…La “salvezza” o lo spiraglio di luce, forse, e’ arrivato quando ho iniziato a staccarmi dalla pittura, che mi stava appesantendo lo spirito..e una carica di leggerezza mi ha rapito, un ritorno dell’infanzia… una volta consolidata la tecnica della calcografia, o meglio quasi solco, un8 3Elena Monzo,
Investita [courtesy Galleria Bonelli, Mantova]
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Tritadondolo [courtesy Galleria Bonelli, Mantova]
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attività espositive SPECIALE INTERVISTE 7 tervento, ho presentato l’opera come era stata installata a
Vorno e ho ricordato il 27 gennaio, giorno dell’apertura della mia esposizione, ma soprattutto “Giorno della memoria” in cui si ricorda la Shoah. Ho messo insieme le due cose ed ho spiegato la mostra mettendo a confronto alcune fotografie. Sono partito da una famosa immagine, scattata dai soldati russi che arrivavano ad Auschwitz per la prima volta, con la prospettiva, anche quella centrale, di due binari che vanno a finire esattamente dentro il campo di concentramento. Una fotografia molto drammatica, con un punto di fuga centrale, come nel lavoro di Vorno. Mettendo a confronto le due rappresentazioni - quella di Auschwitz e del mio lavoro nella Cappella dello Scompiglio - era evidente come esse in definitiva parlassero del destino, la prospettiva centrale intesa come allusione al destino personale, umano di ognuno di noi orientato verso una fuga più o meno distante. Nella prima immagine era chiaro che il destino si fermasse esattamente un metro al di là del cancello, sovrastato dalla scritta “Arbeit macht frei” (Il lavoro rende liberi); nell’altro il punto focale si percepiva come molto distante, tanto da essere invisibile. Da questo passaggio sono arrivato alla scomposizione prospettica raffigurata nei quattro disegni dei progetti esposti nella vetrina esterna della Galleria, che rappresentano la spazializzazione ulteriore di quest’opera con altri quattro punti di fuga, anch’essi esterni all’edificio della Galleria stessa. Quindi l’opera si scompone acquisendo altri destini rispetto a Vorno. - Nei grandi come nei piccoli lavori, non soltanto recenti, traspare una tensione sperimentale che approda alla costruzione razionale e interiore di opere definite sia in senso estetico che etico. Ricerca e progettualità procedono con continuità, in superficie alla scoperta di nuove tecniche espressive e in profondità relazionando l’Io alla Storia? - Belle le ultime parole che dici, perché, in effetti il mio lavoro ruota sulla relazione tra l’Io e la Storia, cioè sul tentativo di far dialogare qualcosa di estremamente privato, intimo e personale con qualcosa di più generale che può arrivare a definirsi addirittura come storia o come cultura, ambiente, spazio. Al di là delle misure delle opere, che nascono spesso nel mio studio in relazione ad esso e al fatto di poterle costruire direttamente con le mie mani, l’intimità dello studio viene proiettata all’esterno e deve diventare linguaggio. Sostanzialmente desidero contribuire, per quanto mi è possibile, allo spostamento continuo del linguaggio dell’arte senza rinunciare a rimanerci dentro, cioè senza tentare di scardinarne i fondamenti, anzi accettandone in pieno la tradizione fatta di materiali, di modi di rappresentare e - perché no - di classificazioni come scultura, pittura, eccetera. Vorrei riuscire proprio a stare dentro a questo limite, bordo difficilissimo da rendere, da abitare fra un’intimità che viene continuamente ricreata e il linguaggio dell’arte, facendo rimanere l’uno e l’altro dentro i loro abituali confini. - Quindi l’intenzione sperimentale non viene mai meno.
- Assolutamente no. Fra l’altro, tornando all’idea del libro, ne ho già pubblicato uno in cui vengono messe a confronto delle mostre personali e mi auguro che anche l’altro che ho in mente possa essere costruito in questo modo, perché ogni mostra che 5Alfredo Pirri (ph. Mario Di Paolo) faccio ha una tensione di sperimentazione, materiali, linguaggi diversi. E spero che questo mio atteggiamento non venga meno. - Consideri questo composito lavoro un momento particolarmente significativo delle tue investigazioni anche per focalizzare le motivazioni di fondo? - A quanto già detto posso aggiungere che ogni mia personale serve a dire qualcosa sulle mie intenzioni. Nel contempo l’itinerario non è costruito come un’enciclopedia in cui tutto sta ordinatamente al suo posto, ma gli intendimenti mutano ogni volta un poco e mi auguro che vivano fra di loro in armonia. Nel mio lavoro vorrei si percepisse una dimensione atmosferica, qualcosa che si muove come l’aria e la polvere che viene da essa trasportata. Ho inteso in questo modo la mostra alla galleria “De’ Foscherari”: è come se il lavoro grande a pavimento generasse una sorta di movimento aereo che va producendo un pulviscolo visivo simile alla polvere nelle case, che, mossa dall’aria, si concentra negli angoli. Mi piace questa forma di far coagulare le cose a seconda di come l’atmosfera si muove. La stessa atmosfera delle idee di fondo che si muovono nella mia testa. Queste intenzioni generano degli agglomerati di polvere. Ecco, essi sono le mie opere. - Per concludere, la tua produzione sottende l’indicazione di propositive modalità operative e la volontà di partecipare al divenire della cultura artistica? - Questa è una mia scelta, ma anche una sorta di obbligo di qualsiasi essere vivente. A cura di Luciano Marucci 7 segno nero che viagga sul pulito, non scivola, si annoda ma poi
si slega, io sola lo conduco ovunque e me lo gestisco, una grande soddisfazione!! Puntasecca, acquatinta, acquaforte e via dicendo mi hanno aiutata a dare forza alla linea che nella sua semplicità può raccontare molto. - Raccontami della tua recente esperienza a New York e in che modo ti ha dato modo di dare vita a nuove evoluzioni nelle tue opere. - New York è la città che non ti da tempo di pensare, tutto gira velocemente, l’impatto è forte per me, donna di campi di grano, ecco che trovo per un periodo ciò che mi compensa, una folla di etnie, un mix di sapori, odori e colori, gli stimoli arrivano a ondate come una serie di elefanti impazziti che corrono nel centro di Manhattan ( questo e’ un sogno che ho fatto laggiù)! Il silenzio non esiste, neanche le pause, neanche nel sonno! Ho avvertito il bisogno di confrontarmi con altre realtà, di scoprire grandi eventi e mostre, di scoprire tante idee, tanti materiali nuovi, tanta curiosità ..poi si vedrà! Il mio animo al momento è sia libero che prigioniero, come se si trovasse in una bolla...vivo di progetti, di sperimentazioni sempre nuove. Conto di tornare a breve negli States, le esperienze vissute laggiù sono state essenziali.
5Elena Monzo, Famiglia Cristiana [courtesy Galleria Bonelli, Mantova]
- Quali sono gli artisti che ti piacciono di più, e che in qualche modo influenzano il tuo percorso? - Non nego il mio amore per Schiele, Gastone Novelli e per i soggetti di Diane Arbus. Mi piace Kiki Smith, Louise Bourgeois, Terry Richardson, Araky, Rennie Ellis, David Lachapelle, Vincent Gallo, il gruppo AES+F , Matthew Barney, Bill Viola, Pipilotti Rist, Irina Korina, Janieta Eyre, Shepard Fairey, Wim Delvoye, fratelli Chapman,Tim Burton, Teatro Valdoca, Stefano Arienti, i fratelli Calgaro…n APRILE-MAGGIO 2010 | 229
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5Enzo Cucchi, al MACRO, 2010 [foto di Lia Pasqualino]
5Enzo Cucchi all’interno di Costume Interiore,
5Enzo Cucchi, Costume Interiore,
MACRO Museo d’Arte Contemporanea, Roma
na passione per il contemporaneo ha preso Roma in quest’ultimo periodo; per decantare l’attesa delle clamorose aperture dei due nuovi Musei della capitale - MAXXI e MACRO - previste per la fine di maggio, si comincia con la valida offerta del MACRO.
Il museo civico d’arte contemporanea ospita nel cortile interno il lavoro totemico di Enzo Cucchi, serbato in una torre di metallo scuro, composta da tre cilindri sovrapposti verticalmente. Il grande solido, garante dell’opera stessa, ha subito una trasformazione rispetto al primario assetto orizzontale avuto precedentemente nel cortile della Reggia di Capodimonte a Napoli (mostra promossa da Incontri Internazionali d’Arte). A Roma si offre in una nuova stazione eretta e dominante. L’opera avvolta da scale esterne consente l’ascensione graduale al sommo albero e la ridiscesa al terreno solido, al fermo sostegno. Il Costume Interiore di Cucchi eleva la vista sulla nuova struttura del MACRO di Odile Decq e richiama a uno sguardo verso l’in-
6Enzo Cucchi, Costume Interiore,
6Daniel Buren, Danza tra triangoli e losanghe per tre colori, Lavoro
MACRO, 2010, foto di Lia Pasqualino
Enzo CUCCHI Daniel BUREN
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MACRO, 2010 [foto di Lia Pasqualino]
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MACRO, 2010 [foto di Lia Pasqualino]
in situ 2010 [foto di Matteo Crosera]
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attività espositive RECENSIONI
56Daniel Buren, Danza tra triangoli e losanghe per tre colori, Lavoro in situ 2010 [foto di Matteo Crosera]
7 terno, alla linfa vitale dell’essenza artistica, dell’essere interio-
re. Al chiuso della torre galleggiano elementi feticci, organismi unicellulari, forme dalle specifiche sembianze umane e organiche. Segni oggettivi da monile apotropaico sono qualificati da una grafia grezza e sicura. Frontalmente alla torre di Cucchi è l’intervento site specific di Daniel Buren, di natura permanente (primo a Roma dell’artista francese). Danza tra triangoli e losanghe per tre colori ha trasformato il ballatoio sopra l’attuale ingresso in un richiamo sinottico per la nuova architettura, con l’alternanza delle strisce verticali di specchio e di vernice bianca. In una complessa distesa mimetica, la percezione della superficie effettiva si confonde e avvolge ciò che è nell’atrio stesso. Nella modulazione, ripresa e resa della luce, delle forme e colori riflessi si confonde la percezione di ciò che è oltre, come a intendere una inusuale leggerezza delle mura che sembrano aperte, sfondate verso la via. Della purezza immateriale la distesa di fasce verticale è bloccata dalle tre porte colorate che vistose e presenti si
insediano solidamente nel complesso mare di riflessi. La funzione di richiamare l’attenzione sul reale, su ciò che è presente hic et nunc, viene affrontata con sostanziale nitidezza di visione, chiamando alla partecipazione le realtà presenti e in continuo movimento. La figurazione è in presa diretta sulla realtà che cambia. Sembra che tutto si muova in visione dell’imminente inaugurazione, coordinandosi tematicamente sulle novità volute a sostegno del prossimo futuro. C’è anche spazio per una visione retrospettiva di ciò che ha reso Roma attuale al mondo contemporaneo, in A Roma, la nostra era avanguardia si rivisitano i passaggi essenziali che hanno portato al successo internazionale, negli anni 70, due grandi mostre romane: Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960/1970 e Contemporanea. Ci sono tutti i presupposti per aspettarsi sicure novità di attualità contemporanee. Ilaria Piccioni
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Galleria Continua, San Gimignano
Berlinde DE BRUYCKERE Luca PANCRAZZI Arcangelo SASSOLINO Nedko SOLAKOV CHEN Zhen el corso degli anni la Galleria Continua ci ha abituato ad inaugurazioni congiunte di più personali, ma in quest’occasione, aprendone contemporaneamente ben cinque, benché non tutte del medesimo respiro, alle quali si aggiunge l’incontro col comitato scientifico del catalogo ragionato di Chen Zhen, presso l’attiguo Teatro dei Leggieri, supera probabilmente ogni precedente. È proprio da quest’ultimo, così celebrato a dieci anni dalla sua morte (2000), primo artista cinese contemporaneo ad aprire una breccia in un circuito che ancora solo poco più di vent’anni fa, nella seconda metà degli anni Ottanta, nel momento in cui Zhen si trasferisce a Parigi, appare saldamente imperniato su di un asse euroamericano, conviene iniziare la nostra breve ricognizione. «Piuttosto che scavare alla ricerca del passato come gli archeologi», dichiara Chen Zhen, «il mio lavoro consiste, al contrario, nel mostrare alle persone oggetti di oggi che saranno ritrovati nel futuro… È una sorta di archeologia del futuro…» La terra si configura in quanto sostanza in grado di preservare il mondo come pietrificandolo, come sganciando i suoi oggetti dal flusso ordinario del tempo per immergerli in una dimensione quasi metafisica, ma anche, in quanto elemento naturale primigenio, capace di conferire un afflato catartico agli oggetti umani, onde il titolo Purification Room, che, un po’ come avviene per i credenti nel rito cristiano dell’imposizione delle Ceneri, sono ricondotti alla loro origine, nell’istallazione dell’Arco dei Becci, ove l’immensa varietà morfologica prodotta da una poltrona, un biciclo, una scopa, una scala ed altre numerose suppellettili trova sul piano cromatico, similmente agli assemblaggi di Louise Nevelson, un motivo unificante. A monte vi è naturalmente la sua peculiare concezione, ove discorso esistenziale e spirituale quasi si identificano, che, prendendo le mosse dal taoismo e dal buddismo, si arricchisce progressivamente di
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5Luca Pancrazzi, Temporundum Continuo, 6[veduta della mostra - exhibition view
Galleria Continua San Gimignano, 2010 Progetto audio in collaborazione con | sound project in collaboration with Steve Piccolo] Courtesy Galleria Continua, San Gimignano / Beijing / Le Moulin Photo by Ela Bialkowska
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5Berlinde De Bruyckere, Elie, 2009
[cera, epossidico, cuscino?| wax, epoxy, cushion]
apporti occidentali ma li intende sempre in prospettiva di una sintesi, fedele alla nozione di transexpériences, che, guarda caso, rappresenta qualcosa di assai distante della Rivoluzione Culturale maoista durante la quale Zhen riceve la sua formazione giovanile. Sul tempo indaga anche Luca Pancrazzi, costantemente teso ad analizzare i rapporti tra spazio della realtà e sguardo individuale, attraverso i cinque orologi da parete di cui si compone, insieme a due installazioni audio, realizzate con l’ausilio del musicista Steve Piccolo, derivanti dalle risposte che le persone coinvolte hanno fornito a due sollecitazioni (Immagina lo scorrere del tempo, utilizza il tuo corpo per riprodurre il suono, il rumore. Se tu fossi un orologio quale rumore farebbe il tuo meccanismo?), il progetto Temporundum Continuo. Gli orologi, la cui visione è completamente filtrata dalle schegge di vetro che ne ricoprono la parte davanti, capaci peraltro di generare una gradevole rifrazione luministica, costituiscono l’ultimo tassello di una serie che Pancrazzi intraprende fin dal 1997 con Carborundum, una Fiat Regata Turbodiesel funzionante parimenti rivestita di schegge, cui segue la destinazione al medesimo trattamento di varie altre automobili, nonché di numerosi altri oggetti di uso quotidiano. «Carborundum», spiega l’artista, «è il materiale più abrasivo che si conosca e immaginavo che questa auto potesse camminare in giro per le città abradendo tutto quello che le passava vicino. Inoltre il vetro in quella quantità, attraverso la luce riflessa, spezza completamente la forma dell’oggetto che riveste appena qualche centimetro sotto». Adattare tale modalità agli orologi significa dunque procedere ad una sorta di frammentazione simbolica del tempo, che da uno ed oggettivo diviene così molteplice e singolare. All’elemento temporale si aggiunge invece quello spaziale e gravitazionale nel lavoro di Arcangelo Sassolino, alla sua prima personale, Qui e ora, presso la galleria di San Gimignano, i cui oggetti si configurano come dispositivi tecnologici (si avvale non di rado della collaborazione di ingegneri) che, sfoggiando una sorta di attitudine performativa, assumono connotazioni persino minacciose per il pubblico, provocandogli stati d’ansia ed improvvisi spaventi. Egli sembra portare alla luce quel timore latente, ma in fondo effettivo fin dalle origini della rivoluzione industriale: il timore che la potenza della macchina, e della scienza in genere, di cui l’uomo si avvale per amplificare le sue limitate facoltà fisiche e psichiche, possa improvvisamente risultare non più controllabile, fino a rivoltarsi contro di lui. È il caso di Piccolo animismo, un recipiente di plastica che si gonfia e si sgonfia in maniera assai rumorosa, in virtù di un’aerazione che avviene a periodi alterni, ricordando la respirazione umana o il battito cardiaco e riuscendo maggiormente inquietante proprio a causa di tale reminiscenza, o di Afasia 1, una grande gabbia, simile a quelle per volatili che si trovano negli zoo, che, occupando gran parte della platea, racchiude un marchingegno in grado di sparare con violenza, da un lato all’altro del suo perimetro, delle bottiglie di vetro che si riducono così in mille pezzi. Se il rumore dello schianto fa sobbalzare lo spettatore soprappensiero, il rivestimento in plexiglas della gabbia elimina ogni reale pericolo per la sua incolumità. A Riffraff, la personale di Nedko Solakov, possiede caratteri di una miniantologica: alle opere recenti si arriva infatti solo partendo da altre, risalenti addirittura ad un periodo compreso tra il 1988 ed il 1991, che, malgrado il supporto pittorico (spesso polittici), negli ultimi anni soppiantato dal ricorso precipuo all’oggetto, appaiono assai prossime nello spirito, ma in sostanza anche nei singoli espedienti linguistici, all’odierno universo creativo dell’artista bulgaro. È proprio nel 1988, del resto, che Solakov, come osserva Iara Boubnova, abbandona «la posizione contemplativa per un coinvolgimento attivo, abbracciando tutti gli elementi storici e biografici come parte vitale del presente». È insomma a partire da quel momento che egli prende a sviluppare quella travolgente, densa, oceanica impronta stilistica che, nutrendosi indiscriminatamente di ogni elemento fornitogli dal proprio percorso individuale o dalle vicende collettive ed8
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attività espositive RECENSIONI
5Nedko Solakov, Who’s More Important?, 2010
[legno, metallo, pittura, tessuto sintetico, pennarello indelebile, testo scritto a mano | wood, metal, paint, synthetic tissue, permanent felt-tip pen, handwritten text - 80 x 156 x 155 cm] Courtesy Galleria Continua, San Gimignano / Beijing / Le Moulin Photo by Ela Bialkowska
5Arcangelo Sassolino, Afasia 1, 2008
[acciaio, gas, bottiglie di vetro, computer, Plexiglas e gabbia in acciaio steel, compressed nitrogen, glass bottles, computer, Plexiglas and steel cage - 300 x 5000 x 2200 cm] Courtesy Galleria Continua, San Gimignano / Beijing / Le Moulin Photo by Ela Bialkowska
5Chen Zhen, Purification Room, 2000 6[objets-trouvés, argilla | objets-trouvés, clay]
6Arcangelo Sassolino, Piccolo Animismo, 2009
5Nedko Solakov, A Riffraff
[PVC, sistema pneumatico 95x100x115 - Courtesy Gall. Continua]
[veduta della mostra | exhibition view] Galleria Continua / San Gimignano, 2010 Courtesy Galleria Continua, San Gimignano / Beijing / Le Moulin Photo by Ela Bialkowska
7 adoperando in maniera altrettanto impregiudicata ogni medium
possibile, permane oggi più che mai la sua caratteristica peculiare. Il superamento della dimensione del quadro, già, a ben vedere, ampiamente preannunciato nelle opere di vent’anni fa, nelle quali ancora la Boubnova rileva la comparsa di «armi mai avute prima, come il collage, gli oggetti e un numero crescente di parole scritte», va considerato dunque come un fisiologico esito dell’esuberanza linguistica, costantemente venata di ironia e fondata su metafore e doppi sensi, propria di Solakov. Nella torre attigua alla galleria trova infine spazio la belga Berlinde De Bruyckere, le cui sculture, antropomorfe, zoomorfe o vegetomorfe che siano (le tre categorie, peraltro, spesso e volentieri, si intersecano), sono costantemente improntate ad una notevole icasticità, sconfinante nel macabro, ottenuta in virtù della combinazione tra aderenza pressoché iperreale e sottrazione o alterazione di alcuni tratti. Nella figura accasciata su di un cuscino di Elie, l’unica opera esposta nella personale omonima, l’artista, tramite la cera e la resina epossidica, rende certi dettagli, come il livore della pelle, la stereometria dei muscoli o il reticolo venoso ed arterioso, con un’aderenza tale da produrre un effetto già di per sé profondamente conturbante, ma esso risulta ulteriormente accresciuto dalla frammentarietà in cui il corpo versa. Con piglio non differente l’artista rappresenta altri soggetti, come, ad esempio, i ricorrentissimi cavalli, delineando così una visione del mondo in cui dolore, abbandono, morte sembrano dominare incontrastati. Stefano Taccone APRILE-MAGGIO 2010 | 229
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Galleria Gagosian, New York
Alberto DI FABIO onosciamo il lavoro di Alberto di Fabio fin dalle mostre deC gli anni ’90 ispirate all’impatto sublime delle catene montuose. L’artista si era presto insinuato in quelle rocce per indagarne le composizioni minerali attraverso un viaggio all’interno della Terra che lo aveva portato dallo studio del macrocosmo fino alle particelle molecolari, alla struttura del dna e alle cellule neuronali che troviamo nei suoi quadri più recenti. Nonostante le precedenti personali lo avessero già segnalato tra gli artisti emergenti, il 2007, con le mostre alla galleria Pack di Milano, alla galleria Umberto Di Marino di Napoli e alla galleria Gagosian di Londra, che lo aveva già ospitato nella sede di Los Angeles nel 2004, è stato un anno chiave nella sua affermazione sul panorama contemporaneo. A Roma lo abbiamo visto inaugurare lo spazio Edicola Notte con l’intervento Particella di Dio (2009): un lavoro in cui concettualmente convogliavano questioni sul rapporto tra scienza, filosofia e religione. Questo aspetto denotava che la ricerca dell’artista si era spostata su assunti scientifici da indagare empiricamente attraverso forma e colore. L’immagine è diventata per Alberto di Fabio occasione di comunicare per via empatica ciò che l’induismo chiama Brahma, il Dio Creatore, e che la scienza definisce Bosone di Higgs o Particella di Dio. Le tele di questo artista contengono in nuce la stessa forza vitale che Henri Bergson definì élan vital e che noi comunemente chiamiamo anima. Nello studio romano sono nate quest’anno sperimentazioni ancor più audaci che vengono esposte alla galleria Gagosian in un’importante mostra personale nella sede di Madison Avenue a New York. Si tratta di pochi importanti pezzi emblematici di un’ulteriore evoluzione nel lavoro dell’artista. Sono esposte opere in cui a spazi convessi ed esplosioni stellari fanno eco nuove geometrie che alludono ad universi paralleli ma anche alle strade conoscitive ancora da percorrere. “Il nostro cervello, i nostri neuroni sono sottoposti a continui stimoli sempre più veloci, sempre più in stretta relazione con la tecnologia. Questo ci induce a comportamenti frenetici”, dice l’artista. Ma le sue opere, pur estremamente improntate al dinamismo, sono positive, ottimiste, vitali. Questa frenesia è infatti interpretata come processo evolutivo del cervello: lo stress e l’ansia non sono quindi letti in chiave negativa e degenerativa ma come componente essenziale dello sviluppo conseguente i grandi cambiamenti tecnologici e ambientali del nostro secolo. Le opere di Alberto di Fabio, estremamente improntate al dinamismo, ci conducono fuori e dentro di noi in maniera ottimista e positiva; l’artista proietta chi le guarda in una dimensione ai confini tra scienza e misticismo perché cerca la qualità estetica nelle forme naturali, il perfetto equilibrio tra luci ed ombre. Osservando attentamente la bidimensionalità delle forme stagliate sui fondi monocromi si possono infatti cogliere profondità ipnotiche rese attraverso le velature di colore. Il microcosmo, come una nomade leibniziana, contiene una porzione di infinito ed il macrocosmo di questi universi stellati ricorda a sua volta le complesse strutture invisibili che rendono possibile l’esistenza delle forme viventi. La tecnica pittorica dell’artista si basa su modalità tradizionali di sperimentazione e realizzazione, dalla preparazione delle tele che è seguita con estrema premura alla ricerca della tecnica pittorica che conduce la mano a sperimentazioni sempre nuove. Alberto Di Fabio, Vortices, installation view [Courtesy Gagosian Gallery]
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5Alberto Di Fabio, Untitled, acrylic on canvas [Courtesy Gagosian Gallery]
Le ultime opere di Alberto di Fabio possono leggersi anche secondo parametri schopenhaueriani: guardando le nuove campiture trasversali e parallele, che nascondono parzialmente le forme a cui gli ultimi dieci anni di produzione ci hanno abituati, si può ricordare il “velo di Maya” e la credenza induista secondo cui dietro ciò che definiamo reale potrebbe celarsi uno scollamento tra conoscenza, esperienza e verità. Federica Forti 6Alberto Di Fabio, Untitled, acrylic on canvas [Courtesy Gagosian Gallery]
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attività espositive RECENSIONI
Mercato Ittico, Napoli
Vanessa BEECROFT o spazio architettonico in quanto sede specifica (artisti“L ca, politica, privata…)», sostiene Vanessa Beecroft, «è necessario alla costruzione di una performance. Di solito una performance risponde ad un invito e non si basa su una mia scelta. Alcune volte il luogo è interessante. Lo spazio è anche la nazione in cui il lavoro viene esposto. Se le condizioni lo permettono una performance è concepita in dialettica con lo spazio in cui avviene». È quest’ultimo il caso di VB66, a cura di Lia Rumma, ove uno straniante spettacolo di circa una quarantina di corpi femminili integralmente dipinti di nero, ad un primo sguardo perfettamente confondibili con i frammenti di calchi in gesso derivanti da performance precedenti, in quanto dello stesso identico colore, con i quali condividono la scena, occupa il centro della grande hall dell’edificio progettato da Luigi Cosenza, tra le primissime opere dell’architetto napoletano, nonché tra i primissimi esempi di razionalismo architettonico che la città conosca. Colpita dal nitore delle sue strutture, l’artista lo ha appunto scelto come teatro della sua ultima performance, aprendo finalmente la strada ad una rinnovata destinazione d’uso, quella di centro espositivo per l’arte contemporanea, di cui si parla da anni. Se la distesa di membra, pulsanti o fittizie che siano, di cui si compone VB66 richiama repentinamente, data l’ambientazione campana, alle visioni dei corpi rappresi dei pompeiani sommersi dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. o ai tanti e pregevoli bronzi d’età antica che custodiscono i musei archeologici della regione, i numerosissimi spettatori convenuti, vestiti, esaudendo l’esplicita richiesta dell’artista, di indumenti neri al fine di ottenere una continuità cromatica, in grado di incidere a livello psicologico, tra osservatore ed osservato, si trovano di fronte, per il resto, al consueto effetto Beecroft. Alla consueta resurrezione dell’aura, in quanto capace di generare una percezione di distanza a tratti sacrale, ma anche, smarcandosi dall’accezione benjaminiana, un certo senso di disagio, che i suoi immensi gruppi scultorei viventi, in virtù, peraltro, del loro precipuo recupero della dimensione del qui ed ora, determinano. Un disagio derivante dall’anomalo voyerismo, in quanto scelta non più deliberata, ma obbligata, e pratica non più condotta all’insaputa dell’oggetto del proprio sguardo, ma nella piena consapevolezza di quest’ultimo, che il pubblico, suo malgrado, si trova ad esercitare. Trova conferma insomma la sua identità di “Morandi della performance”, come ella stessa dichiara di intendersi scongiurando il sospetto della ripetitività. Stefano Taccone
Vanessa Beecroft, VB66 performance/sculpture [lunedì 15 febbraio 2010, mercato ittico Napoli, piazza Duca degli Abruzzi] Courtesy Lia Rumma - photo credit Vanessa Beecroft
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OREDARIA arti contemporanee, Roma
Giuseppe UNCINI
Il cemento disegnato l disegno è una condizione originaria di Idiretta espressione, nella percezione fluida e ha una discendenza apparentemente più semplice delle altre tecniche che l’uomo pratica per le arti visive. La sembianza dell’opera grafica guida la comprensione dell’oggetto artistico in una forma visibile chiara e bidimensionale. Giuseppe Uncini (Fabriano, 1929 Trevi 2008) concepisce una solida cornice artistica che traspone anche nei disegni e schizzi, in cui cura l’aspetto più proprio delle sculture-installazioni. Sulla forma piana, dalla superficie cartacea, prospetta un lieve aggetto, uno spessore dato anche dall’apposizione di materia scabra e sabbiosa. Acquarelli, tempere, terre e collage: in alcuni lavori vi è anche un intento progettuale, di definizione di immagini e forme per grandi sculture, per Architetture, Spazi di ferro e per Cementarmato. Il cemento disegnato, progetto espositivo di Oredaria che dedica spazio alle opere su carta (in gemellaggio con la galleria Fumagalli di Bergamo che propone in contemporanea una mostra dell’artista marchigiano), richiama questa azione estetica, di solidificazione materica. Le figure monocrome, di alcuni disegni degli anni 60, sembrano sottoposte a lontane fonti di luce, nonostante parti di queste superfici siano trattate in modo tale da annullare la luminosità e aumentare l’entità dell’ombra. Uncini, nell’arco 6Giuseppe Uncini, Architetture n. 170, 2004
[cemento e ferro dimensioni: 252 x 140 x 42 cm]. Courtesy OREDARIA Arti Contemporanee
5Giuseppe Uncini, Senza titolo, 1993 [acquarello e grafite su carta a mano Fabriano dimensioni: 56,5 x 76,5 cm]. Courtesy OREDARIA Arti Contemporanee
6Giuseppe Uncini, Senza titolo, 1980 [acquarello e grafite su carta a mano Fabriano dimensioni: 56,5 x 76,5 cm]. Courtesy OREDARIA Arti Contemporanee
della sua carriera artistica, pratica un materiale non propriamente estetico, nobilitando l’elemento principe dell’edilizia e superando di questa materia l’estraneità alle tecniche riconosciute. Il segno è lo scheletro portante rintracciabile oltre l’abituale versione grafica, utilizzato abbondantemente da Uncini per affondare la superficie solidificata dei suoi cementi; come sottolineatura manifestante dei ferri da essi protesi e inglobati. In molti lavori la percezione primaria è data dallo spazio, dalla definizione di aree tridimensionali che costrui-
scono frazioni di vuoti e pieni solidificati, fisicamente evidenti. Proiezioni ortogonali gravitanti, figure solide pressate in una nuova sembianza piana. Lo spazio creato da questi lavori è continuo, anche nelle porzioni di superfici compatte e verticali. Il cemento è raffigurato e riproposto anche nei collage con ferri su cartoncino, nella maniera valorizzante e identitaria che Uncini ricalca volontariamente con questa tecnica. La materia grezza è sottratta dal suo destino “naturale”. Ilaria Piccioni
6Giuseppe Uncini, Senza titolo, 1980 [acquarello e grafite su carta a mano Fabriano dimensioni: 56,5 x 76,5 cm]. Courtesy OREDARIA Arti Contemporanee
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attività espositive RECENSIONI
Ritratti, in cui la pittura di Mario Nigro diventa protagonista preponderante nella libertà di esprimere le proprie germinanti e insopprimibili forze e le intime tensioni-passioni, e si conclude infine con alcune tele dei Dipinti satanici in cui l’energia anelante del colore e della materia pittorica si compone-scompone attraverso pennellate veloci ed istintive – quanto ponderate e meditate – impresse con un’intensità segnica forte, quasi violenta, culmine e apoteosi dell’espressività visionaria di Nigro. Il catalogo bilingue pubblicato per l’occasione, completo di un apparato biobibliografico aggiornato, contiene una poesia di Carlo Invernizzi e i saggi critici dei curatori della mostra Serge Lemoine e Francesca Pola. Matteo Galbiati Mario Nigro, Dallo spazio totale 1954: serie di 12 rombi continui a progressioni ritmiche simultanee alternate opposte, 1965. Tempera su tavola 56,5x678 cm (a sinistra) Dallo spazio totale: componibile in 7 pezzi in contrasto simultaneo di progressioni ritmiche, 1965. Tempera su tavola 280x140 cm (al centro) Dal tempo totale: traliccio a rombi progressivi in rosso, 1967. Tempera su legno, 255x27x4 cm (a destra) Veduta parziale dell’esposizione A arte Studio Invernizzi Milano 2010 Foto Bruno Bani Milano
A arte Studio Invernizzi, Milano
Mario NIGRO Dallo Spazio totale ai Dipinti satanici
rotagoniste della nuova mostra P dedicata a Mario Nigro, e presentata dalla galleria A arte Studio Invernizzi, sono sedici opere di grandi dimensioni che appartengono ai cicli Spazio totale, Ritratti e Dipinti satanici: questi lavori, affascinanti e coinvolgenti, permettono una lettura singolare e significativa del percorso dell’artista toscano che copre il ventennio compreso tra la metà degli anni ‘60 e la fine degli ’80. Questa occasione è davvero rilevante se si considera che, oltre ad offrire alla visione del pubblico capolavori importanti e centrali per
Mario Nigro, Da i dipinti satanici: libertà 1989 Olio su tela 205x119 cm (a sinistra) Da i ritratti: Agamennone 1988 Olio su tela 195x205 cm (a destra) Veduta parziale dell’esposizione A arte Studio Invernizzi Milano 2010 Foto Bruno Bani Milano
la ricerca dell’artista, tutte queste opere sono riunite in uno spazio privato per la prima volta. Da anni la galleria milanese è impegnata in un’approfondita analisi dell’opera di Nigro e, attraverso un serio e significativo lavoro di attenta rivalutazione e di lettura critica, ha certamente contribuito a restituire il merito e l’importanza della sua figura – una tra le più talentuose ed innovative del dopoguerra in Italia – e questa esposizione è ulteriore prova e conferma. La mostra si apre con opere – in forma di griglie e totem – strettamente legate allo Spazio totale degli anni ’50 che, ampliate nelle dimensioni, si aprono alla tridimensionalità dialogante con l’ambiente circostante che – accentuata dai considerevoli ambienti della galleria – asseconda una dialettica tra il piano ottico e quello plastico-spaziale. Il percorso espositivo prosegue con il ciclo dei
Mario Nigro, Da i ritratti: ritratto di un dipinto 1988 [olio su tela 218x208 cm (a sinistra) Da i dipinti satanici: rivoluzione 1989 [olio su tela 216x205 cm (al centro) Da i dipinti satanici: lotta 1989 [olio su tela 218x207 cm (a destra) Veduta parziale dell’esposizione A arte Studio Invernizzi Milano 2010 - Foto Bruno Bani Milano
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Studio Casagrande, Roma
Alan CHARLTON isogna ammettere che il percorso di B assolutizzazione dell’arte, il percorso di esclusione progressiva degli oggetti, delle figure e poi delle stesse immagini, desta sempre una certa emozione. E l’emozione è ancor più grande, quando gli allestimenti sono più che curati, come il
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presente, nel white cube di Pino Casagrande. La mostra di Alan Charlton, appena più giovane dei più famosi artisti della sottrazione, porta avanti il linguaggio e le ricerche del Minimalismo, aggiungendo un altro piccolo tassello fatto di eleganza, di misura, di ritmo. Gli ingredienti sono quelli di sempre: il grigio in varie sfumature, poiché il processo di esclusione del colore, con tutto ciò che contiene di naturalistico, è stato del tutto compiuto; ci sono inoltre figure geometriche elementari, che, proprio per la loro essenzialità, diventano arcane ed eleganti. Accuratissimo appare lo studio numerologico della composizione, poiché non è certo un caso che le dimensio-
Alan Charlton, Installation view [Courtesy Studio Casagrande, Roma]
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ni esterne di queste opere siano uguali, e siano nel rapporto di 2X3, il cui prodotto porta il segno di uno dei rapporti numerici privilegiati dall’artista. In conseguenza di ciò si leggono queste opere come delle variazioni sul tema dell’occupazione, dell’ingombro, che è sempre il medesimo, nelle dimensioni esterne dell’opera, ma che cambia ogni volta, poiché i rettangoli che li compongono hanno sempre misure differenti, così segmentano e ritmano in modo sempre differente lo spazio della parete sulla quale sono posti. Questo canovaccio percettivo però può ancora portare grandi sorprese, poiché forse siamo giunti alla condizione di po-
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Alan Charlton, Installation view [Courtesy Studio Casagrande, Roma]
ter guardare queste opere senza più preoccuparci del lavoro di esclusione, di essenzialità, di limatura teorica e linguistica, che ha fatto la gloria e il successo del Minimalismo. Da questo punto di vista vorrei trattenermi finalmente su ciò che affermano queste opere, piuttosto che sul lavoro teorico della sottrazione, che, allontanandosi polemicamente dai messaggi figurali che l’arte tradizionalmente inviava, ci porta a interrogarci sul linguaggio e sullo status dell’opera nello spazio. Alan Charlton lavora esattamente sull’intercapedine che si situa tra opera e linguaggio, e lo occupa con una invidiabile competenza, con una particolare sensibilità, che rigorosamente situa le sue opere tra oggetto e visione. Ci troviamo infatti nel punto il cui la geometria diventa linguaggio, il punto in cui il segno diventa opera, il punto in cui un rettangolo diventa presenza. Da questa condizione ho rinvenuto con piacere il luogo in cui la luce disegnava aloni sublimi su queste superfici, il luogo in cui la luce, incontrando variamente gli spessori di questi rettangoli, disegna ombre molteplici e differenti, per densità, sulle pareti. Una volta che ci siamo muniti di una simile sensibilità, il Minimalismo ha ancora tanto da dire, tanto da insegnare. Il suo rigore non è solo una risposta polemica alle stupide fantasie e ai gratuiti arbitri che tanta falsa arte ha proposto. Potrebbe essere anche il punto di partenza di una più controllata costruzione e percezione dello spazio, che invece di pensare all’opera solo come un fatto linguisticamente compiuto, autonomo e assoluto, la proponga come una sorta di base, su cui lo spettatore interviene, inventando nuovi equilibri con lo spazio che la circonda, con l’ambiente che la contiene. Da questo punto di vista queste opere di Alan Charlton potrebbero essere anche un invito straordinariamente suadente e convincente a riappropriarci del Minimalismo, a vivere in sintonia con esso, a ricostruire l’opera, dopo tanta decostruzione, nei suoi valori umanissimi e universali, come questa di Alan Charlton sicuramente merita. Paolo Aita APRILE-MAGGIO 2010 | 229
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Villa Giulia, Verbania
Lo sguardo analitico dei Masbedo fra crisi, sofferenza e inconciliabilitĂ Tensione emozionale e phatos a Villa Giulia nella prima mostra antologica del duo milanese
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attività espositive RECENSIONI
L
a mostra personale dei Masbedo, organizzata presso il Centro Ricerca Arte Attuale (CRAA) di Villa Giulia a Verbania, propone una serie di lavori fotografici, scultorei, installativi e video scelti in modo tale da offrire una panoramica completa e inedita del ventaglio di tematiche espressive che caratterizza la loro arte, in una sorta di primo resoconto storico dell’attività svolta finora. In un tragitto di corrispondenze ragionate, il curatore Andrea Busto riesamina le tappe fondamentali della produzione del celebre duo milanese (Nicolò Massazza e Jacopo Bedogni), soffermandosi sia sulle potenti e penetranti immagini fotografiche, evocative di atmosfere di inedito lirismo, sia – in modo preponderante – sulle parvenze suggestive e sulla pregnanza comunicativa del mezzo video, vera e propria valvola di sfogo delle loro pulsioni più autentiche. La video-arte, secondo le parole dei due artisti, rappresenta infatti «la massima espressione dell’epoca contemporanea, perché consente di usare e sperimentare svariati linguaggi a partire da quello più contemporaneo del cinema, combinato però con la scrittura e la sceneggiatura: è un terreno franco, una sorta di contenitore dove si ibridano molteplici discipline». Il supporto video si configura così come uno strumento “neobarocco”, intendendo il termine non come semplice rimando a qualcosa di storicamente delimitato – che in ogni caso per loro esiste nei puntuali riferimenti alla pittura tenebrista –, ma come apparato di rappresentazione caratterizzato da giochi retorici e citazioni storiche e mediatiche, dalla visione degli spazi infiniti e dal gusto per l’illusione e le emozioni formali. I Masbedo inquadrano rappresentazioni e sentimenti fondanti dell’esperienza umana come l’amore, la sofferenza, le tensioni contraddittorie delle proprie aspirazioni: gli stati mentali che caratterizzano i personaggi delle complesse opere si esprimono nei termini della solitudine, della mancanza di comunicazione, dell’inconciliabilità fra l’uomo e la donna, del crollo delle percezioni sensoriali e del cinismo come scudo contro la realtà. Con una predilezione per situazioni esasperate e parossistiche, i due artisti dispiegano il loro teatro umano e affrontano in chiave filosofico-ermeneutica una serie di temi di scottante attualità, rivolgendo verso il mondo uno sguardo talvolta profondamente empatico, talvolta invece più seccamente analitico, come testimonia l’attenzione acuta per i dettagli e le mimiche individuali, per la texture della pelle, per le tensioni muscolari. La loro ricerca, dopo aver metabolizzato precedenti importanti, dalle atmosfere inquietanti dei film di David Lynch e Stanley Kubrick ai capolavori video di Bill Viola a Gary Hill, non teme più il confronto con la veridicità delle immagini poiché la frontiera della comparazione è ormai travalicata in favore della visionarietà. Avvalendosi della collaborazione di illustri scrittori (Michel Houellebecq, Aldo Nove), poeti (Giancarlo Majorino), attori (Ernesto Mahieux, Juliette Binoche) e musicisti (Marlene Kuntz, Gianni Maroccolo, Eugenio Finardi, Vittorio Cosma), i Masbedo utilizzano lo strumento video attingendo dalla costruzione cinematografica la maestria dei ritmi sincopati, della diluizione dei tempi lunghi, dei rimandi e della parcellizzazione dei nessi spaziali. Fotografia ipercurata, colori nitidi, musiche inedite e perturbanti sono alcuni degli elementi delle “messinscene”, girate in contesti paesaggistici affascinanti ed estremi: le scenografie naturali
Masbedo, Gelo verticale, 2005 videoinstallazione su tre schermi verticali, RT: 3’ 11’’. Nella pagina a fianco, in alto: Venticinque millilitri, 2007 due sculture in vetro, alluminio e silicone, 135 x 33 cm ciascuna; in basso: Glima, 2008 video monocanale in formato pal 16/9, RT: 17’ 59’’.
Masbedo. Schegge d’incanto a cura di Andrea Busto 14 marzo – 23 maggio 2010 Centro Ricerca Arte Attuale – CRAA – Villa Giulia, Verbania
Masbedo, Togliendo tempesta al mare, 2007, videoinstallazione con mensole e bicchieri, 139,5 x 184 cm
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Masbedo, Schegge d’incanto in fondo al dubbio, 2009, videoinstallazione su due schermi, RT: 15’07’’
che i Masbedo scelgono come set dei loro lavori sono ostili e apocalittiche, fatte di lande incontaminate e tortuose, di acqua, lava, ghiaccio e terra vulcanica. Protagonista delle vicende è un’umanità eroica che nonostante tutto lotta caparbiamente e – contro l’obbedienza e il regime della mediocrità – non si paralizza in una realtà esistenziale drammatica fatta di valori morali spenti, di indebolimento della volontà, del desiderio, della se-
duzione e dell’erotizzazione. Nella maggior parte dei lavori dei Masbedo emerge infatti una componente deliberatamente epica, tanto formale quanto semantica che porta a situare la loro opera ai confini del sentimento romantico del sublime: lavorano consciamente con i miti, ma il mito scaturisce dall’inventario dei differenti atteggiamenti umani in rapporto alle nevrosi della società globalizzata. Nel percorso della mostra, volutamente sobrio e calibrato nella sistemazione museografica, sono presenti le opere che sintetizzano al meglio l’ascesa dei Masbedo nell’ultimo quinquennio, caratterizzato da un’intensa riflessione sulla dimensione più propriamente poetica. Infatti, i recenti lavori ambientati in Islanda, Teorema dell’incompletezza, Glima, Autopsia del tralalà, Person (2008) e Kreppa Babies (2010), rappresentano “il giro di boa” stilistico del duo milanese: durante tre mesi di intenso lavoro sull’isola atlantica, metaforicamente interpretata sulla base della conformazione geologica del territorio – trait d’union fra il vecchio e il nuovo continente – come incarnazione della frattura politico-sociale dell’Occidente dovuta alla crisi economica degli ultimi anni, gli artisti hanno parzialmente accantonato la componente neobarocca in favore di un approccio più sobrio e depurato, attuato attraverso una nuova impostazione cromatica imperniata su una prevalente monocromia esangue bianco-nera. Luca Morosi
Masbedo, Teorema di incompletezza, 2008 video monocanale formato pal 16/9, RT: 5’
Masbedo, Errore bianco, 2010 stampa offset, 50 x 70 cm
Masbedo, Schegge d’incanto in fondo al dubbio, 2009, videoinstallazione su due schermi, RT: 15’07’’
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attività espositive RECENSIONI
Nelle foto, il percorso installativo di Oleg Kulik “Deep into Russia” [Galleria Pack, Milano]
Galleria Pack, Milano
Oleg KULIK ’Urss ci aveva tolto la libertà, ma con L Putin la nostra società è diventata violenta, e io mi adeguo...la società mi ha morso e io mordo la società”(Oleg Kulik). Questa potente affermazione riassume il percorso umano e artistico di Kulik, le cui performance shock hanno scosso tutto il mondo, affondando le proprie radici in un contesto socio-culturale che parte dalla Russia sovietica e post-sovietica, nella quale l’umanità è divenuta più selvaggia, ha subito un barbaro arretramento culturale, “a cui ho reagito trasformandomi a mia volta in un animale”. In un cane più precisamente; l’artista è noto appunto come “l’uomo- cane”da
quando, nel 1994, tenne una performance che lo vedeva legato alla catena a difendere l’entrata della Guelma Gallery di Mosca. Oggi la Galleria Pack propone “Deep into Russia”, una mostra antologica che ripercorre le tappe più importanti della produzione di Kulik. Da subito l’allestimento affonda la spada nello spettatore che, entrando,è costretto dapprima a salire una ripida scala e quindi a entrare in una camera oscura che riproduce quella in cui l’artista elabora le proprie composizioni. Non mancano enormi maxischermi sui quali vengono proiettate le performance più eclatanti e significative di Kulik. Tutto questo laborioso percorso è metafora della complessità, dell’oscurità nonchè dello sforzo che accompagna il sentiero della conoscenza, e l’artista è un novello Dante catapultato nel nucleo della Rus-
sia contemporanea.Kulik si cala nei panni di Dioniso, che durante le feste a lui dedicate, era accompagnato dai satiri, mezzi uomini e mezzi animali, come lo stesso Dio. Da sempre nel mito greco le divinità possedevano caratteristiche umane ed animali, come narra Ovidio nelle Metamorfosi, ed è proprio il lato bestiale che Kulik vuole recuperare, come ritorno alle origini animali dell’uomo. L’uomo fa parte del regno animale, e il forzato, eccessivo, ultrarapido processo di civilizzazione non ha fatto altro che scatenarne il lato più brutale e violento. Emblematica l’immagine che lo vede accucciato accanto a un esemplare di Alano, chi è l’uomo e chi la bestia? fino a dove la cosìddetta civilizzazione ci ha reso presuntuosi al punto da crederci superiori agli altri animali? Rebecca Delmenico
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Byblos Art Gallery, Verona
Il Trucco e le Maschere a mostra, a cura di Danilo Eccher, inL tende mostrare un nuovo sguardo che ruota attorno al tema della messa in scena, tramite la selezione di ottimi artisti di diverse nazionalità e generazioni. Il riferimento non solo letterale al teatro, accomuna questa specifica parte della produzione artistica nel processo mimetico e poi poietico, ossia la necessaria trasfigurazione del reale, che serve a svelarlo. Tra le differenti declinazioni di questi “mascheramenti”, Sissi, come Yasumasa Morimura, utilizza direttamente il proprio corpo. Mediante un minuzioso lavoro manuale di intreccio di fili colorati, crea trame tessili con cui poi interagisce, in cui, per mezzo della performance, sublima la sua identità per mostrare una visione sulle cose. Morimura, altera più evidentemente la propria soggettività,
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non negandola, ma trasformandola. In uno dei suoi più celebri autoritratti fotografici camuffati, nei panni di Che Guevara e dietro al velo dell’ironia, Morimura ci mostra, in carne ed ossa, e warholianamente, il processo di iconizzazione esacerbato sia dai media che dalle masse. Sul senso di mascheramento che arriva a deformare ed occultare l’identità, gioca invece Tony Oursler, con le sue video-installazioni mostruose e deliranti. Nelle sue Cigarettes invece, simula l’incendio di una foresta (le sigarette come tronchi di alberi) e la sua lenta riduzione in cenere, metafora dell’esistenza. Il relativo senso di transitorietà, è accresciuto dalle fotografie in grande formato di Mat Collishaw, che con un altro abile trucco, simulano la morte di una farfalla e la sua tragica disintegrazione, contraddetta sarcasticamente dalla cromia variegata di questi insetti. Non si può fare a meno di notare che anche la mostra nel suo insieme, esce dalle mani di un sapiente regista, capace di aver disposto un intrigante e riuscito allestimento multimediale. Veronica Caciolli
5Sissi, Sciolto dalla mano, 2008
Smartarea & My Own Gallery, Milano
Stefano ABBIATI a galleria d’arte contemporanea L Smartarea presenta, fino al 30 marzo, “Mineralizzazioni”, una personale con oltre cinquanta opere di Stefano Abbiati (Milano, 1979), a cura di Gianluca Marziani. Smartarea è una galleria d’arte contemporanea online nata nel 2008 e produce eventi ad alta densità artistica ma molto leggeri e flessibili nell’organizzazione. La dimensione comunicativa e commerciale della galleria è sul web (www.smartarea.it), mentre le sedi espositive delle mostre sono scelte di volta in volta con lo scopo di coniugare innovazione e visibilità. La collettiva d’esordio si è svolta negli uffici di un’importante società per i servizi per il web, mentre “Mineralizzazioni” è allestita alla MyOwnGallery. “La mineralizzazione, più volte nominata nel mastodontico “Canti del Caos” di Antonio Moresco, - si legge nel testo di presentazione - esprime il vibrare catalizzante delle forme, il dinamismo interno dei microcosmi, la vitalità complessa che scorre sotto la superficie del reale. Assume un valore filosofico che abbraccia la natura naturans ed espande la figura umana oltre il suo status apparente. Stefano Abbiati rende visibile quel mineralizzarsi che da matrice chimica si trasforma in atto morale, quasi a ribadire la complessità metastorica della pittura e della stessa umanità che crea (l’opera) e viene ricreata (come soggetto dell’opera). L’immagine contemporanea, coacervo di memorie e veggenze, trova nella pittura la sua ragione definitiva, il segno metafisico mai inattuale, la capacità elastica di raccontare i lati nascosti dell’umana specie, la visione ulteriore, l’angolo rivoluzionario. Quando poi l’artista ha l’attitudine e la coscienza della pittura come pensiero, il risultato rende l’opera un minerale millenario dalla biologia avventurosa e “violenta”. La scansione espositiva ricalca la struttura della tragedia greca. (L.S.) 46 -
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5Stefano Abbiati, MetaCirkus 1, 2009 [olio su lino - cm 100x140] 6Stefano Abbiati, Fetus 1, 2010 [olio su lino - cm 35x35]
[corde, tela ovale, ramo, 250 x 200 x 100 cm]
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attività espositive RECENSIONI
Galleria Toselli, Milano
KAZUMASA ato ad Arita (Giappone) nel 1958 ed N educato all’arte tradizionale (dunque alla monocromia delle chine), Kazumasa si libera lentamente del proprio background venendo a contatto con culture antitetiche. Dal 1982 al 1987, infatti, risiede in Messico, dove insegna scultura, mentre dal 1988 è stabilmente in Italia, dove, a sua detta, scopre l’energia musicale del colore e viene influenzato da artisti come Salvo e De Maria. Da alcuni anni lavora con la Galleria Toselli di Milano. I fiori, le corolle, i pistilli, i petali e gli stami, che con tanta acribia modella nella terracotta e poi colora in vivaci tinte acriliche su una base di gesso bianco, non trovano alcun riscontro nelle classificazioni botaniche. Un esempio tipico sono le opere del Calendario, un work in progress che consiste nella creazione di un piccolo giardino fiorito per ogni giorno dell’anno. Si tratta di prati del pensiero, di brani di pura astrazione che completano le caselle di un immaginifico scadenzario, di un almanacco dominato da una geometria algoritmica, solo apparentemente caotica. Ogni giardino è il frutto di un’idea oppure di un’impressione, di uno stato d’animo che non rispetta necessariamente la stagionalità floreale. Nell’arte di Kazumasa a febbraio può germogliare un giardino primaverile perché le stagioni sono relative, vincolate come sono alla geografia, mentre nella mente possono sbocciare fiori meravigliosi in qualunque momento. Il pensiero, come luogo topico della creazione e della comprensione, è ossessivamente presente nell’arte di Kazumasa. L’artista vi ritorna in ogni occasione, cercando di penetrare i segreti della natura a partire da un’immagine cerebrale. Nel caso di Volevo esprimere un pensiero. (Pensiero di Nietzsche), la rappresentazione è addirittura tautologica. L’opera è un globo composto di centinaia di fiori blu, una sorta di nucleo di pensiero, un
5Kazumasa, La notte e il giorno 2008 [terracotta dipinta 60x70x05cm] Courtesy Galleria Franco Toselli, Milano
conglomerato fisico d’idee che appartiene a un ciclo di lavori dedicati ai pensatori che con le loro visioni hanno contribuito all’evoluzione dell’umanità. Sono visualizzazioni di pensieri anche opere come Volevo esprimere una passione in cuore (La gelosia) e Volevo esprimere un paesaggio mentale. (La notte che cade dal cielo), dove lo sforzo dell’artista consiste nel tentare di rappresentare l’invisibile, ossia concetti astratti e immagini che difficilmente possono assumere una forma. La ricerca di Kazumasa si configura, quindi, come uno sforzo, una tensione. Un cammino erratico pieno d’insidie, assai diverso da quello di discipline come l’architettura o il design, dove la fedeltà al progetto è di rigore. Per lui la possibilità di fallire è una necessità. Sbagliare è, infatti, l’unico modo per comprendere la natura delle cose ed è, in fondo, ciò che distingue l’arte da tutte le altre attività creative. Nelle opere di Kazumasa si avverte l’imprinting di un approccio originale, inconsueto, che mescola l’incertezza del dubbio con la certezza dell’intuizione. La sua prassi operativa include l’errore e il dubbio, che sono
5Kazumasa, Un pensiero 2009
[terracotta dipinta 58x58x58cm] Courtesy Galleria Franco Toselli, Milano
il portato della cultura occidentale, ma anche la scrupolosità e il sentimento di ordine tipici della cultura orientale. (Da un testo di Ivan Quaroni dal titolo “Volevo esprimere un pensiero”)
6Kazumasa, Uomoblu 2007 [terracotta dipinta 16x18x34cm] Animale che gioca 62009 [terracotta dipinta 26x28x32cm] Courtesy Gall. Toselli, Mi
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Fondazione Morra, Napoli
Davide BRAMANTE napoletani hanno la loro città e non “I hanno bisogno di nient’altro”: così recita la frase di apertura di Roccaforte, personale di Davide Bramante alla Fondazione Morra di Napoli, che ne riassume perfettamente il senso e le intenzioni. Organizzata dall’associazione E-MARTS, ed ospitata all’interno delle sale di Palazzo Ruffo di Bagnara, la mostra fotografica, a cura di Raffaella Morra e Loredana Troise, è un vero e proprio viaggio dentro e fuori i confini cittadini. Roccaforte e punto di partenza è Napoli, la città dai mille volti, che si mescola all’immaginario sfocato e depersonalizzato oggetto degli scatti fotografici che decorano le pareti dello splendido edificio seicentesco. Il prezioso contenitore, che a momenti pare rubare il palcoscenico all’artista siracusano, si fa in quest’occasione caleidoscopio di meraviglie in movimento, finestra su mondi lontani e sovrapposti, differenti eppure confondibili. Napoli come Pechino, Honk Kong come Lisbona. Le metropoli catturate da Davide Bramante, coacervi spontanei e indifferenziati, sono complessi vivaci e multiformi che forse non hanno di reale che l’intestazione. Sono città invisibili, quelle stesse di cui parlava Calvino, ma caratterizzate da un’inconsistenza forse maggiore, addizionate le una alle altre in un insieme di dettagli e visioni, future, irreali, distorte. Davide Bramante sottolinea con i suoi scatti la confusione di caratteri e identità che definisce oggi le moderne metropoli. Un’idea di viaggio catalizzata e cristallizzata all’interno di un limbo imperfetto e surreale che fa di esso nulla più che un’immersione nel virtuale, un ritratto essenziale della moderna etica dello spostamento, che vede individui, luoghi e culture incontrarsi ad un
Davide Bramante, Installation view [courtesy Fondazione Morra, Napoli]
livello tattile, superficiale, epidermico. Null’altro che visioni accumulate ed impressioni accavallate, all’insegna dell’estetica e della spettacolarizzazione più estrema. Questo l’universo in cui ci introduce Bramante, che riesce a sintetizza-
re, racchiudendole in grossi scatti fotografici ed in light box luminosi, la frenesia e l’alienazione di quell’esperienza, un tempo intima e costruttiva, che chiamavamo viaggio. Stefania Russo
Galleria Artiaco, Napoli
Ann Veronica JANSSENS ’arte e la scienza, il calcolo e la creaL zione, le forze percettive che mutano lo sguardo in visione (due falsi sinonimi che indicano, rispettivamente, i luoghi del guardare e dell’immaginare, del razionale e dell’irrazionale). Come un’alchimista che trasforma con cura la pietra in oro, Ann Veronica Janssens (nata a Folkestone – Inghilterra, nel 1956) intreccia materiali – tecniche e generi – diversi per generare una grammatica sensoriale lungo la quale tessere una vivace esperienza che discioglie, destruttura e dematerializza gli oggetti mediante complesse e argute associazioni mentali. Dopo un primo appuntamento del 2007, Janssens torna negli spazi della Galleria Alfonso Artiaco di Napoli, per presentare una camera delle meraviglie e della chirurgia oftalmica in cui è possibile leggere i misteri della trasformazione, della rivelazione e dell’epifania. Il suo procedere tra le maglie della metamorfosi (del divenire costante delle cose, del trasferimento percettivo e dello slittamento sensoriale) segue i tracciati di una immaginazione che, se da una parte defor48 -
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5Ann Veronica Janssens, veduta parziale della mostra [febbraio 2010, Galleria Alfonso Artiaco, Napoli]
ma l’oggetto, dall’altra tende a leggere le forze primordiali del mondo, il loro improvviso e inconsueto ristabilizzarsi per proporre allo spettatore una sensazione di intima gioia. Seguendo l’inclinazione di una certa immaginazione che altera ma non abbandona l’oggetto preso in esame Janssens traccia una strada che genera dialoghi e
interferenze tra la nitidezza del materiale e l’oscurità, la leggerezza e la pesantezza, la durezza e la morbidezza, la semplicità e il machiavellico, la stabilità e il suo contrario. La luminescenza cromatica di Fantaisie Bleu et Rouge (2010), due recipienti in vetro trasparente, a forma cubica, riempiti – a mezza altezza – d’acqua distillata
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attività espositive RECENSIONI
Galleria Lia Rumma, Napoli
Marzia MIGLIORA sempre un filo letterario ad ordire la È trama dei lavori di Marzia Migliora (Alessandria, 1972; vive a Torino), a tessere un racconto che si costruisce di opera in opera e si amalgama nell’insieme. Così fu, nel 2007, quando per la personale nella sede meneghina della galleria, l’artista piemontese trovò le sue suggestioni nei testi del Nobel José de Sousa Saramago e del Pulitzer Philip Roth. Così è, adesso, per l’appuntamento partenopeo. Qui l’ispirazione si rivela fin dal titolo: Forever Overhead. dall’omonimo racconto di David Foster Wallace. La storia narra di un tredicenne e del suo percorso verso la maturità. Trasformazioni, transiti, attraversamenti che la Migliora veicola attraverso l’immagine del tuffo. O meglio, di quel frangente spazio-temporale che si incunea tra l’attimo prima del salto, quando si hanno ancora i piedi piantati per terra, e quello in cui si tocca il pelo dell’acqua. “Blocco di Partenza” dà lo start alla mostra. Ricalcato su quelli utilizzati per le competizioni di nuoto, tra il piombo di cui si sostanzia e la formula dell’assenza di gravità incisa sulla sua superficie, esprime lo stato d’animo dicotomico che caratterizza ogni viaggio in direzione di una nuova meta: la paura di lasciare il noto e l’ebbrezza di scoprire l’ignoto, o viceversa. Una tensione al mutamento di stato, talvolta repentina e istintiva, talaltra lenta e ponderata, emblematica dei continui cambiamenti a cui ci sottopone la vita, magnificamente rappresentata da “Migratori senz’ali”, sei arazzi verticali su cui la sagoma nera di un tuffatore perde le connotazioni antropomorfiche per diventare una goccia. Un balzo nel vuoto che si fa poesia lungo la parete, nei versi d’acciaio e di luce di Erri De Luca: “Alzo l’ultimo passo che depone in cima dove non è più suolo è aria” e ancora “Siamo fatti di
Marzia Migliora, Installation view [courtesy Lia Rumma, Napoli]
questo d’aria e acqua come le comete”. E non è un caso, forse, che l’artista abbia scelto, per le sue riflessioni, le parole di due autori molto vicini al mondo dello sport, visto che Wallace fu discreto giocatore di tennis, mentre lo scrittore napoletano è conosciuto negli ambienti dell’alpinismo. Dunque, uomini che hanno una certa dimestichezza con le sfide. Come Marco Fois, il protagonista del video “Per sempre lassù”, che, lanciandosi in piscina dall’alto trampolino del Foro Italico, interpreta sé stesso ma anche tutti noi, co-
5Ann Veronica Janssens, IPN, 3 m , 2010
[acciaio, olio di paraffina, cm 18 x 300 x 9] Plastilon Verre d’eau
sulla cui superficie galleggiano, rispettivamente, un disco d’olio (di paraffina) rosso e un disco d’olio (di paraffina) blu – quasi ad indicare un piacere per i valori cromatici primari e a intessere un rapporto con le forme di mondrianea memoria. Un favoloso Cielo Blu (2010) che ripercorre lo spesso procedimento delle due Fantaisie per
produrre, tuttavia, un forte senso di sospensione e di unione tra cielo e mare. Un corpo solido in pvc, dal colore verde smeraldo (Plastilon Verre d’eau, del 2009) collocato accanto ad una trave di tre metri, in acciaio smaltato con olio di paraffina (IPN, del 2010). E poi, ancora, un Sans Titre (2008) in vetro fluorescente o un prezioso
stretti a fare scelte che ci renderanno differenti da ciò che eravamo nell’istante precedente. Tant’è che tutti siamo invitati a posizionarci al centro del tappeto circolare posto a chiosa dell’esposizione come impronta concreta di quel solco che il corpo crea impattando con l’acqua, a “Scomparire in un pozzo di tempo”, per poi alzare lo sguardo e ritrovarci riflessi nello specchio sovrastante. Riemersi e ancora a galla, se non più forti almeno più consapevoli. Mara De Falco
lavoro in alluminio ricoperto con foglie d’oro bianco (Tropical moonlight, 2008). E, a chiudere l’escursus tra le opere, due video: Oscar (2009, 12’08’’) che attraversa la figura dell’architetto Oscar Niemeyer – padre, tra l’altro, del recente Auditorium di Ravello – e Le Bouble (2009, 10’25’’). Spazio, luce, colore, movimento immobile (Arnheim), equilibrio, sviluppo sensoriale e tensione nella deformazione. Decodificati per instaurare un nuovo sistema visivo – il sistema dell’artista, appunto –, questi territori si intersecano con un bagaglio esperienziale fino a ribaltare l’innocent eye (Ruskin) della modernità e a formulare, così, esperimenti di tensione guidata: tensione che crea un nuovo stuolo di figure con effetti stroboscopici – a volte – davvero seducenti. Il lavoro di Janssens è volto, dunque, ad indagare il mondo e i suoi interminabili misteri per produrre un delicato alfabeto visivo che fa i conti con l’inaffidabilità della trasparenza, con i bui, le pause e le lacune dell’esperienza sensoriale, con forze che stabiliscono insolite bretelle estetiche. Dal tradizionale all’innovativo, Ann Veronica Janssens lavora per sottrazione e per addensamento di materia, conciliando esattezza e distanza, osservazione e visione per dar luogo, infine, ad un mondo senza rumori in cui tutto s’incontra nella vertigine cristallina e austera della diversità. Antonello Tolve APRILE-MAGGIO 2010 | 229
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Cantieri Teatrali Koreja, Lecce
Danilo DE MITRI
L’
art-box di Rune Ricciarelli – minimale scrigno-contenitore d’arte installato nel foyer dei Cantieri Teatrali Koreja, a Lecce – racchiude e s/vela l’ultimo lavoro di Danilo De Mitri, giovane artista tarantino, in una mostra personale, curata da Marinilde Giannandrea, nell’ambito della rassegna di arte contemporanea “Senso plurimo”. La fotografia, quella in bianco e nero o quella “virata a seppia” delle vecchie immagini del passato, è lo strumento principale di questa ricerca che ricrea in studio atmosfere vintage, da cui emergono volti femminili pesantemente truccati, labbra sensuali, sguardi seducenti, nei quali l’artista sembra voler fare rivivere certe dive maliarde degli anni trenta-quaranta. Talvolta le immagini sono smembrate nei particolari e ricomposte in sequenza, o ingrandite in zoom a distanza ravvicinata. La rinuncia al colore non è totale, ma in parte compensata da
“ritocchi” pittorici dai toni acidi, cui si aggiungono frammenti di frasi in italiano o inglese insieme a sottili interventi calligrafici sulle figure che richiamano certe immagini di Shirin Neshat. Talvolta c’è il ricorso a carte inserite ad integrare l’immagine fotografica, come in un collage. A De Mitri non interessa solo il valore estetico del lavoro (che è comunque raffinato, curatissimo), ma soprattutto il suo carattere evocativo ed emotivo. Ed il fascino del tempo che conferisce all’opera un sottile valore nostalgico. L’effetto complessivo rimanda ad un’esperienza tra il reale e l’onirico, in cui sia stata sottratta la memoria e l’identità del personaggio raffigurato. Lo spettatore, nell’isolamento claustrofobico del bozzolo-cabina, è chiamato a ricostruire i nessi mancanti per una possibile interpretazione della sequenza espositiva che si sviluppa in quel luogo ambiguo dove la realtà si intreccia con la visione interiore e con l’immaginazione. Nella serie di opere, tutte calibrate da un misurato intimismo, si dipanano flashback di possibili memorie. Marina Pizzarelli
Danilo De Mitri, Il tempo dell’attesa, 2009. Fotografia e pittura (tecnica mista su carta telata) cm 60 x 80.
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attività espositive RECENSIONI
Galleria Quintocortile, Milano
Antonio PARADISO Equatore celeste
A
vevamo sempre considerato Antonio Paradiso come l’artista più “terrestre” (cioè impregnato di senso della materia e di attaccamento alle proprie radici) della scena italiana del secondo Novecento. A metterci su questa strada era stato uno scritto dei primi anni Novanta in cui Renato Barilli ripartiva gli scultori in due categorie: “sotto il segno dell’aria”, secondo il critico bolognese,andavano collocati “quelli che usano materiali leggeri, come il neon, le resine sintetiche o gli elementi di scrittura”; sotto “il segno della terra” invece potevano essere raccolti tutti coloro per i quali “il termine tradizionale di scultura risulta ancora pertinente, in quanto essi aggrediscono davvero pietre e marmi con lo scalpello o altri utensili analoghi”. Barilli non aveva dubbi: Paradiso appartiene di diritto al secondo gruppo. “Nelle sue opere la forza di gravità domina sovrana (…): se qualche volta il nostro scultore-sciamano si ispira al profilo di una colomba è quasi per esercitare un sortilegio nei suoi confronti, per impedirle di levarsi in volo …”. A dire il vero “Equatore celeste”, la personale dell’artista pugliese presso la galleria Quintocortile di Milano, qualche dubbio in proposito lo solleva. Fermo restando che Paradiso è uno scultore nel senso pieno del termine (un artista che plasma la materia, che esercita un dominio demiurgico su di essa), a non convincerci più è la tesi della sua estraneità, o addirittura refrattarietà, alla sfera dell’aria. In “Equatore celeste” si è reso evidente che gli uccelli da sempre presenti nelle sue opere si muovevano in una sorta di iperuranio, nella
dimensione più leggera e “ariosa” di cui disponga un artista, cioè l’immaginazione. E che questo ambito, questa dimensione, possa risultare percettibile, o quantomeno intuibile, anche attraverso il semplice impiego della luce, in dialogo con una materia compatta, ma in grado di risultare paradossalmente soffice alla vista, come la ceramica. L’equatore celeste, secondo l’artista pugliese, è “il limite dove il finito tocca l’infinito, è il mistero: noi tutti voliamo nei sogni con la velocità del pensiero”. Ecco: è come se le sculture di Paradiso avessero rivelato un’insospettata (ed elevata) velocità. D’altra parte sappiamo che, per una strana legge di natura, tutto ciò che si muove molto rapidamente può talvolta sembrarci fermo. Roberto Borghi
Antonio Paradiso in nomen omen direbbero i latini per questo creatore di uccelli del paradiso che nascono in una Puglia preistorica per incantarci con il loro volto ininterrotto austeri quadrilateri e sfere platoniche gareggiano per ricercare la magia primaria d’un mondo dimenticato o forse futuro dove i fiori in pietra hanno il profumo dei sogni della terra d’un Icaro redente. Arturo Schwarz APRILE-MAGGIO 2010 | 229
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Stelle d’Italia, Taranto
Colazione ad arte rte & Cibo”, Cola“A zione ad Arte, quattordici sapori d’arti-
sta tra Puglia e Calabria, è una rassegna di mostre, conferenze e workshop, promossa e organizzata da Gigi Scarciglia, “gastronauta” di “Stelle d’Italia”- Store Food, leader nel settore gastronomico sul territorio Jonico -. La rassegna costituisce l’incipit della creazione di nuove opportunità di fruizione dell’arte contemporanea in relazione alla produzione ed al consumo dell’eno - gastronomia locale nel Sud d’Italia anche mediante la creazione di uno spazio deputato per il consumo di Arte e Cibo intitolato “C’ero anch’io”, con la consapevolezza che nell’istituzione di relazioni sociali e culturali l’ospitalità e l’offerta di cibo costituisce uno dei modi autentici di comunicare la cultura di un territorio e della sua gente, anzi la “trasmettono” in tutte le sue sfumature. Come ricorda la curatrice della mostra Simona Caramia gli eventi artistici imperniati sul consumo di cibi, che attraversando le Avanguardie storiche giungono negli anni Sessanta alla “Eat Art” e ad altre esperienze più recenti, si inseriscono in un continuum storico culturale. In questi ultimi cinquant’anni
nella nostra società contemporanea hanno avuto luogo simultaneamente fenomeni culturali, antropologici su scala interplanetaria che hanno determinato l’accelerazione dei processi della comunicazione - trasformatasi dietro la spinta dei mezzi di comunicazione di massa, della televisione, delle radio e del cinema, della pubblicità, ma soprattutto all’avvento, negli ultimi anni, di Internet - nell’ambito della quale la dimensione temporale dei linguaggi si è sensibilmente contratta, dando luogo ad un fenomenico processo di estinzione di “linguaggi pensati”- che presuppongono tempi lunghi - a favore di “linguaggi - fotografia” - più immediati - determinando radicali cambiamenti culturali nelle nostre vite, riformulandone i tempi, i ritmi, le concezioni degli usi e dei costumi e, con essi, le tradizioni ed i valori da essi trasmessi alle nostre coscienze. La nutrizione, intesa sia in senso materiale che spirituale, intellettuale, morale, culturale, è un processo fondamentale per la sopravvivenza e la crescita degli individui e delle comunità cui essi appartengono, intorno alla quale, attraverso il consumo di “cibi”, si sono evoluti nel corso dei millenni innumerevoli comportamenti ritualizzanti di rilevante valenza simbolica legati alla scansione dei ritmi della vita, giunti sino ai nostri giorni e tutt’ora in fase evolutiva. Quattordici giovani artisti, tra Puglia e
Giovanni Duro, Gnammm!, 2009 Acrilici, pennarelli, pastelli ad olio su mdf. cm 50 x 50. In alto, vicino al titolo: Giordano Pariti, Mi fido di te, 2009 Fotografia su mdf. cm 50 x 50. Giuseppe Bellini, Vacum, 2009 Gomma fusa e pigmenti sintetici su mdf. cm 50 x 50.
Maria Elena Diaco Mayer, Zen Enlightenment, 2009 Gesso, colla di coniglio, missione, similoro su mdf. cm 50 x 50.
Danilo De Mitri, Senza titolo, 2009 Fotografia su mdf. cm 50 x 50.
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attività espositive RECENSIONI
Calabria, figli delle tendenze dell’Arte contemporanea prodotta internazionalmente negli ultimi decenni, interpretano il rapporto tra Arte e Cibo secondo l’appartenenza alla propria generazione. Ezia Mitolo,Giordano Pariti, Maria Elena Diaco Mayer appartenenti alla seconda metà degli anni Sessanta - tendono ad un genere di rappresentazione del rapporto Arte & Cibo teso a mettere in luce la metafisicità dell’Arte rispetto al Reale Fenomenico, attribuendo alle immagini rappresentate una forte componente simbolica e spirituale, mentre Stefania Pellegrini, Giovanni Felle, Monica Lisi - generazione dei primi anni Settanta - tendono ad una rappresentazione oggettuale surrealistica, con chiari riferimenti iconografici alla Pop art. Giovanni Duro, Claudia Venuto, Giuseppe Bellini, Valentina Chiffi, - generazione della seconda metà degli anni Settanta - tendono a rappresentare il concetto di bisogno di cibo inteso sia in senso materiale che concettuale, dando peso alla manualità nel proprio fare artistico attraverso l’uso di oggetti o di materiali pittorici, mentre Danilo De Mitri, Maria Luisa Marchio, Luana Vadalà, ne lasciano trapelare voluttuosamente la grande fascinazione assorbita dal proprio operare artistico del linguaggio pubblicitario. Le opere presentate dagli artisti in mostra suggeriscono che una delle possibili chiavi per interpretare l’immagine della nostra società attuale attraverso lo specchio al contempo veritiero e deformante dell’Arte contemporanea è la contemplazione del nostro “agire quotidiano”. Attraverso la ”contemplazione” la nostra vita si trasmuta da “tempo cronologico” a “coscienza di un sempre” che apparentemente si modifica, mentre in realtà “registra, ingloba e metabolizza“ continuamente i “micro” e “macro” eventi della coscienza del nostro “agire” quotidiano che, tautologicamente, produce e consuma. L’esposizione avrà carattere itinerante: dal 21 aprile al 10 maggio 2010 presso “Open Space” di Catanzaro, dal 5 luglio al 25 luglio 2010 presso la Galleria BLUorG di Bari. Tiziana Altomare
Luana Vadalà OGM, 2009 Olio su mdf cm 50x50 Stefania Pellegrini Meret’s cup is my cap, 2009 Acrilico su mdf cm 50x50
MARCA - Museo delle Arti di Catanzaro
Antoni TÀPIES Materia e Tempo
’idea essenziale che mi viene in mente è trovare un’arte «L che stimoli una visione in profondità, che ci avvicini alla realtà autentica, alla vera natura dell’uomo. Con un approccio
il più intenso possibile, si può entrare nel centro dell’universo» afferma in merito alla sua ricerca artistica, Antoni Tàpies, lo spagnolo che ha segnato la storia dell’arte dagli anni dell’Informale. Si può dire infatti che egli lavori in profondità, sulla superficie dei muri che elegge come suoi supporti ideali a partire dagli anni Ottanta. È proprio questa la principale attrazione
Antoni Tàpies, Negre amb linia vermella, 1963. Tecnica mista su tela 195x170 cm.
di Materia e Tempo, la personale di Tàpies al Museo delle Arti di Catanzaro, mostra visitabile sino al 14 marzo, che propone oltre cinquanta opere tra i già citati muri, disegni, dipinti, grafiche, sculture e libri d’artista, molti dei quali inediti. Tuttavia, la mostra dal MARCA non è solo l’iter artistico ed esistenziale di Tàpies, ma un percorso nel passato e nel presente dell’arte (dagli anni Cinquanta ai nostri giorni), con immediati raffronti tra il maestro spagnolo e altri grandi artisti come Burri (vicino per la scelta dei materiali, ma molto distante nella valenza gnoseologica del suo gesto creatore), Rothko (con cui condivide la medesima ricerca archetipale nella realtà) o addirittura Magritte e Duchamp dai quali prende le distanze – pur approfondendone lo studio. Tàpies dichiara che i suoi muri e le sue porte conservano la loro realtà senza perdere la carica archetipica e simbolica, anzi essi sono pezzi della realtà stessa. Il “quadro” è l’oggetto stesso della rappresentazione grazie a quell’equilibrio perfetto che l’artista ha ottenuto, manipolando sapientemente forme e materiali. L’artista vive inequivocabilmente in un mondo materico: i suoi muri sono anche lastre di lava smaltata, dove la terra intesa come materia prima è luogo di riflessione originaria e al contempo materiale che si lascia manipolare. Su questi muri, architetture ambientali, prende vita una grafia mimetica: oggetti quotidiani, segni, parole vengono incisi, come visibile traccia dell’infinito sul finito. Ma la Materia non è il solo elemento con cui Tàpies è abituato a confrontarsi, egli sa che il Tempo è parte integrante del processo creativo e scandisce il il ritmo dell’opera d’arte. Uno spazio è dedicato anche ad alcune sculture in terracotta e alle opere grafiche più significative, meno note al pubblico, ma che permettono di rintracciare dei tratti distintivi nel lavoro di un artista (come la presenza segnica molto forte, il rimando alle forme archetipiche o la accentuata drammaticità) che per tutta la vita si è invischiato con il gorgo materico, si è spinto in un vortice emozionale e creativo dal quale si è prodotta una turbinosa rigenerazione sempre attuale e sempre coerente. L’esposizione è curata da Alberto Fiz, direttore artistico del MARCA, ed è promossa dalla Provincia di Catanzaro Assessorato alla Cultura con il patrocinio della Regione Calabria, del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e della Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Calabria e dell’ambasciata di Spagna in Italia. Simona Caramia APRILE-MAGGIO 2010 | 229
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Corsoveneziaotto, Milano
FRP2 vete esordito nel 2008 con Slam ad A ArtVerona e con una menzione speciale al Premio Arte Laguna. Nel 2009 la vostra prima personale, curata da me, a Corsoveneziaotto; poi siete stati vincitori del PremioFotografico dell'Associazione Nazionale Fotografi, finalisti al Premio Cairo, presenti a "Spazio, Tempo, Immagine" del CIAC di Foligno, una personale a Primo Spazio (sempre a Foligno) e di nuovo una personale da Corsoveneziaotto in cui ci siamo ritrovati. Cosa è cambiato in poco più di un anno? Filippo: Niente. Roberto: Durante questo lasso di tempo abbiamo cercato di rendere più maturo il nostro lavoro, evolvendolo con consapevolezza e senso critico.
5FRP2, Atto puro, 2009, stampa lambda su alluminio, cm 100x150, Ed 3+2ap
- Torniamo alla collettiva di Foligno curata da Italo Tommasoni. Cosa significa, per un giovane artista, esporre al fianco di Bonalumi, Burri, Colombo, De Dominicis, Fontana, Kounellis, Pistoletto (solo per citarne alcuni)? F: Una forte scarica di adrenalina. Vedere opere internazionali, studiate sui libri di storia dell'arte, al fianco del proprio lavoro è una sensazione indescrivibile. R: Una grandissima soddisfazione che incute anche un pò di paura. È un'iniezione di fiducia che dà l'energia giusta per continuare il proprio lavoro, aumentando le aspettative per il futuro. - Dai vostri scatti fotografici emerge una cura maniacale per il dettaglio. Costruire i set manualmente, ragionando sulla disposizione degli oggetti, sul loro bilanciamento cromatico, sulle forme, richiede tempo ed esperienza. Quanto peso ha la vostra formazione accademica? F: Il nostro lavoro non risente molto degli studi universitari, ma si lega piuttosto al bisogno di un linguaggio proprio. La simmetria e i soggetti bastano a trasmettere l'emozione voluta. La perfezione è spiazzante perché è più facile digerire il caos. R: Il pubblico spesso chiede se gli scenari siano veri o meno anche se sono molto noti, come la Scala di Milano. La gente non è abituata a percepire la simmetria di un luogo perché guarda gli spazi diagonalmente. - FRP2 è la sigla che lega le vostre iniziali. Quanto è importante lavorare in due e perché? F: Perché nasce con l'obiettivo comune di rappresentare il mondo da un punto di vista simile. Questo mi permette di avere un confronto costante con una persona che sa cosa penso. R: In due c'è sicuramente un confronto migliore e un aiuto vicendevole. - La struttura delle prime fotografie prevedeva un soggetto, posto in modo rigi6FRP2, Atto violento, 2009
5FRP2, Privacy_01, 2009, stampa lambda su alluminio, cm 80x120, Ed.5+2ap
do e frontale, inserito in un ambiente simmetrico e carico di particolari. Negli ultimi lavori invece compaiono elementi spiazzanti come i giocattoli, movimenti e disposizioni articolate dei soggetti. Come siete giunti a queste formule? A quali modelli vi ispirate? F: Inizialmente il fulcro delle fotografie era la staticità che, in qualche modo, rafforzava la simmetria. Sarebbe stato impossibile partire costruendo un'immagine bilanciata con dei personaggi in movimento. L'evoluzione della composizione ha portato a distruggere in parte la figura del bambino allineato all'asse centrale; così anche lo spazio ha dovuto modificarsi di conseguenza. L'azione è stato il passaggio successivo perché cambiava completamente la lettura dello spazio retrostante che, pur sembrando identico, non lo era. Ora stiamo approfondendo il concetto di "azione sospesa", una sorta di movimento non compiuto. Questo introduce un aspetto molto importante, ossia il fattore "tempo". R: Per quanto riguarda i modelli non ce ne sono alcuni in particolare. Posso dirti che lavoriamo in questo modo: prima ci prefiggiamo un obiettivo e in seguito cer-
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chiamo l'esempio che possa essere più funzionale per raggiungerlo. È un rapporto inverso. Non prendiamo modelli iconografici precisi, ma preferiamo approfondire i temi. Siamo molto affascinati dalla grande tradizione pittorica. Quando arriveremo alla sintesi di quelle opere allora vorrà dire che il lavoro funzionerà come vogliamo. - Abbiamo iniziato parlando dell'anno appena trascorso. Dove vi immaginate alla fine del prossimo? F: Non ne ho idea. Spero solo di potermi alzare al mattino e dedicarmi totalmente alla ricerca. Vorrebbe dire che quello che facciamo sta avendo senso. R: Io non do previsioni. Posso dire che immagino il nostro lavoro più maturo, anche se la strada è ancora lunga. L'obiettivo è quello di riuscire a internazionalizzarlo per poterci confrontare con realtà diverse. FRP2 è un progetto nato nel 2007 dalla collaborazione tra Filippo Piantanida (Varese, 1979) e Roberto Prosdocimo (Pordenone, 1979). Gabriele Francesco Sassone
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attività espositive RECENSIONI
Studio G7, Bologna
Ulrich ERBEN a terza personale presso lo Studio G7 L dell'artista tedesco Ulrich Erben s'intitola Coincidenze. Si tratta di un intervento fatto direttamente sulle pareti della galleria come mai accaduto in Italia sino ad ora. Il lavoro di Erben si fonda interamente sulla ricerca pittorica dove il colore, variamente trattato, è sempre protagonista nella sua dirompente presenza, ma anche, talvolta, nel-
le ragioni della sua mancanza. La semplicità delle forme rimanda a un'immediatezza esecutiva ma tradisce anche lucida meditazione. Si può riscontrare una corrispondenza tra la realtà e queste tele dal ricercato geometrismo. Come affermato in passato dallo stesso artista infatti, forme e colori sono gli stessi del paesaggio: il cielo, le case, le nuvole. Spiega molto bene la connessione tra questa pittura astratta e il reale il critico Giovanni Accame (autore, insieme a Peter Friese dei testi in Catalogo, edizioni Damiani) quando, riferendosi d Erben, parl del paesaggio non come soggetto
dell'opera ma come metodo: "Quando diviene un metodo, quando cioè le concezioni di vicinanza e lontananza, di orizzontalità e verticalità, di espansione e contenimento, di mobilità cromatica e stabilità monocromatica, agiscono direttamente nella pittura". Il lavoro di Erben, dunque, pur non identificandosi nella semplice registrazione di ciò che è nel mondo fa di quest'ultimo il punto di partenza di un percorso più complesso, incentrato sulla ricerca spaziale, teso a risolvere problemi di organizzazione formale dove la riflessione diventa componente primaria. (LS)
6Ulrich Erben, Installation view [courtesy Galleria G7 Bologna]
Ierimonti Gallery, Milano
Sudarshan SHETTY ssenza come presenza esistenziale, A creazione artistica con i suoi limiti, artificio, investigazione profonda del mondo oggettuale, memoria condivisa e divisa fra diverse sfere culturali, studio del corpo umano nelle sue relazioni: sono queste le tematiche che caratterizzano la ricerca artistica di Sudarshan Shetty, in mostra alla Ierimonti Gallery di Milano con “From here to there and back again” dal 14 gennaio all’11 aprile 2010. Conosciuto per le sue installazioni enigmatiche, Sudarshan Shetty viene oggi considerato l’artista concettuale indiano più innovativo della sua generazione grazie alla sua continua volontà di sondare la realtà degli oggetti quotidiani in cui l’uomo è immerso. E’ una “memoria allargata” che mescola le sensazioni e l’esperienza degli spettatori al mondo quotidiano della città, creando situazioni inaspettate ed imprevedibili. Entrare nel mondo di Sudarshan Shetty è un viaggio nella nostra contemporaneità, nell’anima di diverse culture dove territori impensati si aprono davanti ai nostri occhi n 4
Sudarshan Shetty, From here to there and back again (installation view) Courtesy Ierimonti Gallery, Milano
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Fiumara d’Arte, Messina
Mauro STACCIOLI
La Piramide - 38° parallelo Intervista ad Antonio Presti a cura di Lucia Spadano u una leggera altura del territorio di S Motta d’Affermo, dove il paesaggio si impone per la sua bellezza universale, incastonata a strapiombo sulla cristallina insenatura di Castel di Tusa sorge La Piramide. È la nuova opera – realizzata dallo scultore Mauro Staccioli - del parco di scultura all’aperto Fiumara d’Arte, ideato dal mecenate Antonio Presti nel 1986 lungo il greto del torrente Tusa, alle pendici dei Nebrodi in Sicilia. Sullo sfondo il mare e le isole Eolie; in basso, sulla costa, gli scavi archeologici dell’antica città di Halaesa, costruita intorno al 405 a.c. Dall’autostrada Messina-Palermo la Piramide di Mauro Staccioli - cima di una cima in cima all’altura - svetta tra una curva e l’altra come la guglia di una cattedrale: si nasconde, riaffiora al silenzio del tramonto esaltando il mistero e l’energia morale che la sua presenza sprigiona. Nasce il 21 marzo 2010, equinozio di primavera, e si manifesta come perfetta sintesi dell’universale, di coesistenza degli opposti: cielo e terra, buio e luce, maschile e femminile. Per la sua collocazione si chiama 38° Parallelo: quello stesso parallelo sul quale, nell’altro emisfero, passa il confine tra Corea del Nord e Corea del Sud, quasi a voler riequilibrare la tensione conflittuale di un luogo con la sacralità dell’Arte. - Della storia della Fiumara ci siamo occupati in diverse occasioni e non sempre abbiamo tenuto conto del tempo trascorso dall’ultima opera ad oggi. - “Non pensavo - dice Antonio Presti – che dall’ultima opera della Fiumara sarebbero passati 19 anni prima di fare rinascere una nuova storia. In questi anni il mio è stato un percorso di resistenza, di valore di differenza e di impegno civile per un territorio che ho molto amato. Adesso le istituzioni devono assumere impegni e responsabilità, in nome dello sviluppo e della valorizzazione di territo56 -
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ri, che in questo momento hanno gravi problemi economici, culturali, progettuali: sono grandi periferie abbandonate ed emarginate. Mi rattrista un po’ l’idea di un corto circuito lungo 19 anni, con il luogo, anche se il ciclo della Fiumara non si è mai interrotto e si è nutrito di altri progetti culturali, come Librino”. - Questa volta il territorio ha sostenuto La Piramide? - “Dopo la vittoria politica della resistenza, che è stata sigillata dalla chiusura nel 2007 della Finestra sul Mare di Tano Festa e il rispetto per il Parco con la legge sulla Fiumara, una legge regionale che va rivisitata sia sui contenuti che sull’impegno economico, questo nuovo progetto della Piramide nasce dall’impegno finanziario della Fondazione Fiumara d’Arte con il contributo economico del comune di Motta d’Affermo, attraverso un finanziamento Por”.
- Perché una Piramide? 8 -“Volevo affidare alla nuova opera un pensiero di rinascita e di sacralità. Mi sono preoccupato di affrontare l’interazione con il luogo e il paesaggio non solo dal punto di vista estetico, ma anche simbolico. Così è nata l’idea di realizzare una piramide, in un luogo magico che avevo scoperto vent’anni fa. Avevo scelto quest’altura per realizzare un tempio di poesia, un tempio di colonne. Poi a causa dei tanti processi giudiziari, subiti per la Fiumara, mi sono dovuto fermare. Questo luogo ha atteso anche lui 20 anni. Oggi l’accadimento universale ha voluto che lì non sorgesse il tempio di poesia, ma la Piramide, che è tempio che rimanda a un archetipo universale”. - Cosa racconta “38° Parallelo “ all’uomo contemporaneo? - “La Piramide non è autoreferenziale rispetto al potere temporale, ma vuole affermare il potere della spiritualità. Con l’artista abbiamo concepito una piramide che è emergente. E qui il termine emergenza ha un doppio valore simbolico. Emergenza in quanto necessità di restituire bellezza, ed emergenza, come me-
6Mauro Staccioli con Antonio Presti [courtesy Fiumara d’Arte]
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75Mauro Staccioli, Piramide (struttra interna) Motta d’Affermo, Messina [photo Luca Guarnieri - courtesy Fiumara d’Arte]
5Mauro Staccioli, Piramide, Motta d’Affermo, Messina [photo Luca Guarnieri - courtesy Fiumara d’Arte] 7 tafora del nascere. Così la Piramide, in
quanto cima di una cima, si eleva dalla montagna. E’ in ferro, perché figlia delle pietre ferrose di cui si nutre e ammonisce il potere che si è dato come livello la mediocrità, un potere che non progetta più futuro. Infine è autorevole perché parla agli uomini contemporanei, risvegliando le coscienze implose in stati emozionali”. - Come mai ha voluto Mauro Staccioli per realizzare la nuova opera del Parco? - “Con Mauro Staccioli c’è un rapporto di profonda stima e di amicizia, un rapporto già sigillato nel ’93 con la sua prima opera all’Art Hotel, la stanza d’arte Trinacria. Ho voluto donare a Staccioli la possibilità di esprimere il suo genio, attraverso la Piramide, un tema vicino all’arte che
lui predilige ”. - Perché la data del 21 marzo? - “Ho scelto il 21 marzo per il battesimo dell’opera, che è il giorno dell’equinozio di primavera e ci parla dunque di risveglio e di rinascita. Poi per ritualizzare la Piramide abbiamo pensato al 21 giugno, affidando al solstizio d’estate il momento in cui ogni anno si riaprirà. L’opera al battesimo parla di risveglio, all’apertura parla di illuminazione di coscienza, essendo il 21 giugno il giorno in cui le ore di luce superano quelle di buio. Spero che le riaperture annuali siano accompagnate da iniziative culturali che possano concorrere alla sacralità del luogo e dell’opera. Penso che si possa costruire con la Regione un progetto culturale, con diversi linguaggi artistici, che sacralizzino
la data del 21 giugno, e che rendano la fruizione della Piramide un momento di condivisione”. - Il 21 marzo si inaugura anche la “Stanza dell’Opra” all’Art Hotel di Tusa, firmata dal maestro Mimmo Cuticchio. - “Si è un omaggio a quel grande artista che è Mimmo. Ho voluto la sua Bellezza dentro il museo albergo, perché ritengo che un luogo della contemporaneità debba affermare il rispetto per la storia e per l’impegno di uomini, che hanno scelto come disciplina dell’esistenza, la possibilità di consegnare memoria. Per questo la vicenda umana e artistica di Mimmo Cuticchio e della sua famiglia entrano all’Art Hotel”. - L’altra camera che si presenta il 21 mar-8 APRILE-MAGGIO 2010 | 229
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Art Hotel, Castel di Tusa (Me)
Mimmo CUTICCHIO
“Paladino errante” stata la curiosità reciproca a spingere l'uno verso l'altro Mimmo CuticÈ chio, maestro dell'Opra dei pupi siciliani e Antonio Presti, ideatore e regista dell'Art Hotel Atelier sul mare, un museo emozionale in cui il visitatore diventa parte integrante della stanza d'arte. Due mondi opposti, solo in apparenza. Da una parte il grande custode di una tradizione popolare, che adesso l'Unesco ha elevato a patrimonio dell'Umanità, dall'altro un mecenate che ha chiamato intorno alcuni famosi artisti contemporanei per trasformare l'hotel di Castel di Tusa in opera d'arte. Da quest'incontro di vita e da una lunga gestazione è nata la Stanza dell'Opra, che vuole raccontare una storia, il percorso di una vita: l'avventura di una famiglia di teatranti partita subito dopo le bombe del '43 da un piccolo teatrino di Brancaccio e che ha girovagato in lungo e largo, raccontando ogni sera le appassionate vicende dei paladini di Francia. Dopo 10 anni di incubazione l'opera dei Pupi entra in una stanza e diventa un libro da sfogliare.… “Ho voluto raccontare la mia infanzia piena di avventura e poesia. La difficoltà iniziale è stata come trasferire questa suggestione, questi ricordi in un manufatto. Nella mia testa ci sono centinaia di piazze e teatrini, che ho elaborato come in un computer. Non mi interessava ricostruire un teatrino antico. Non è un museo, né il simulacro della mia storia, ma voglio fare immaginare a chi vuole ascoltare, come viveva una famiglia di pupari, che pur essendo artisti e oggi anche patrimonio dell'umanità, vivevamo da nomadi. La mamma dice noi ci salvammo perché avevo tutti questi bambini e quindi nel paese, dal maresciallo dei carabinieri che doveva dare l'autorizzazione, al prete che metteva la firma finale ci aiutavano. Mio padre, Giacomo, mostrava il libretto Agis dello spettacolo viaggiante, poi andava dal prete per l'ultima parola e mia madre diceva “Giacomè vegnu puru iu”. Si prendeva due, tre, quattro figli (poi siamo diventati sette) e si presenta58 -
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Nelle immagini, La Stanza dell’opra di Mimmo Cuticchio, all’Art Hotel, Castel di Tusa (Me)
va come mamma con questi bambini da sfamare”. - Un'infanzia difficile, di grandi sacrifici? “Si, ma anche di grande felicità. C'è chi racconta la guerra, il viaggio con la valigia di cartone. Quando tutti partivano per il Nord in cerca di fortuna la mia famiglia se ne andava in giro per l'entroterra siciliano con il suo teatrino viaggiante. Nei paesi ci fermavamo per tre, quattro mesi. Quando il prete ci dava l'autorizzazione, assicurandosi che negli spettacoli non c'erano né scandali, né bestemmie, ci accampavamo in un grande magazzino, molti erano abbandonati negli anni '50/'60, per via dell'emigrazione o in una semplice abitazione. E ogni volta i miei genitori ricavavano dietro il palco lo spa-
zio in cui dormire. Diventava una casa teatro”. - E adesso questo percorso rivive nella stanza-teatro? “Esattamente. Voglio raccontare al visitatore la mia storia poetica, ma anche disastrosa, fatta di pulci e fame ma anche di splendide vedute di mare e di antichi paesi. La felicità di noi bambini che quando salivamo sul palco dimenticavamo la fame e il freddo. L'ospite della stanza può salire sul palco e giocare con i pupi, come accadeva a noi bambini. Può anche immaginare di avere un pubblico e se apre la tenda sul corridoio lo spettacolo può avere inizio”. - Un sipario che è confine tra la realtà e 8 la finzione?
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attività espositive RECENSIONI 7 zo è “La Stanza del signor Presti”, che la
vede nei panni non nuovi di artista. - “Avevo già firmato “La stanza del Profeta”, omaggio a Pier Paolo Pasolini e poi strada facendo “La stanza dei portatori d’acqua” con la signora Danielle Mitterand, insieme a Cristina Bertelli e Agnese Purgatorio. Stanza che riafferma il principio inviolabile dell’acqua come diritto universale, non come merce venduta. Vorrei ribadirlo con forza: acqua e aria non si toccano. In una società così asservita alla dittatura del consumismo rischiamo di trovarci anche l’aria in vendita”. - Che altri progetti ci riserva in futuro? - “Spero che la potenza di un atto creativo e spirituale come la Piramide possa sancire un nuovo rapporto di collaborazione con il territorio. In questo momento sento il dovere di avviare un percorso educativo nelle scuole dei Nebrodi, sperando che i figli di coloro i quali non hanno compreso la mia storia, provocando 19 anni di black-out, possano diventare
7 “Dove c'è la finzione scenica c'era anche
la vita vera e questo può sembrare un po' anomalo. In realtà quando dico che noi dormivamo anche aldilà, anche dal lato della finzione, significa che la nostra vita umana si mischiava con la finzione. La mattina quando ci alzavamo che succedeva? Mio padre Giacomo dava gli ordini per tutti: Mimmo va stuia i pupi, Teresa pigghia sta armatura di Astolfu e va stricala, Anna tu pulizia a Oliviero. Pina si sfardò u vistiteddu di Angelica. La mattina la casa teatro diventava laboratorio, poi cucina, avevamo la cassa con le pentole e il primus. E mentre si lavo-
rava i fasola cuocevano nella pentola”. - Nella stanza ci sono gli affreschi realizzati da sua madre Pina Patti, l'omaggio doveroso di un figlio? “Mia madre è stata la mia pittrice di cartelloni favorita per tutta la mia attività, sia per il suo rispetto della tradizione, ma anche per gli elementi innovativi. Mi piaceva perché usava i colori vivi delle terre nostre con i pigmenti naturali, con le polveri che si impastavano ancora con la colla di pesce. Per questo ho scelto che nella stanza dell'Art hotel entrassero due pittori: Nicolò Rinaldi, detto il Faraone, il più antico e famoso nella prima metà
almeno amici. Da parte degli amministratori e della politica mi aspetto una forte presa di coscienza, poiché il Parco Fiumara d’arte è un valore aggiunto, una risorsa che può offrire un futuro di dignità civile n
dell'Ottocento, il maestro più bravo nel decoro di scene e cartelli degli opranti e mia madre che arreda l'interno. Voglio anche ringraziare Sara Garofalo, la ceramista che con grande maestria e sensibilità ha riprodotto su mattoni i cartelloni per arredare il bagno, dove acqua e umidità avrebbero danneggiato le tele”. - E' vero che sua madre è diventata decoratrice per necessità? “Lei, a parte la mamma, la moglie, la cassiera, la sarta, con gli anni si trovò un suo ruolo nato dalla disperazione di mio padre, perché morivano i vecchi maestri pittori dei cartelloni e quelli nuovi non erano capaci. Un giorno mia madre di nascosto copiò un cartellone antico e lo propose a mio padre come opera di uno sconosciuto e misterioso artista. Una bugia innocente, poi svelata. Da quel giorno mio padre le fece dipingere centinaia di fondali. La sua fu un'esigenza nata dal bisogno, ma anche un atto di coraggio. Come disse lei stessa 'mi tuffavu” … mi sono buttata' “. - I visitatori giocheranno e dormiranno nella Stanza dell'Opra. Ma Mimmo Cuticchio che rapporto ha con il sonno? “Molto bello. Ho dormito dappertutto da bambino. Sopra le panche, sul tavolaccio del palcoscenico, tra le quinte. E quando mi svegliavo vedevo teloni, teste appese di angeli, diavoli e mostri appesi ai muri. E vivendo a contatto con i pupi, nei miei sogni e un po' anche nella vita, anch'io sono diventato una sorta di paladino errante” n APRILE-MAGGIO 2010 | 229
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Fondazione Plart, Napoli
Andrea BRANZI ettini/piuma e pettini/pesce, pettiP ni/foglia e pettini/ruota, pettini/libro e pettini/molla… Con la consueta visionarietà progettuale, con quel realismo fantastico e ludico che lo contraddistingue, Andrea Branzi ha realizzato dodici prototipi di pettini in plastica, esposti in mostra al Museo Plart di Napoli. Protagonista di una microstoria quotidiana in cui i rimandi d’uso all’idea della bellezza e del decoro s’intrecciano a risvolti magici e simbolici ( nella cultura popolare era considerato mezzo di trasmissione di malocchio ma anche espressione di spiritualità), il pettine si era finora sottratto all’attenzione che nella contemporaneità il design ha rivolto ad una società “oggettuale” in cui la “strategia architettonica è sostituita dalla totalità del progetto domestico”, per dirla con le parole dello stesso Branzi, fine teorico oltre che progettista a tutto campo. “Dal pettine alla città”, si potrebbe affermare dunque, parafrasando Gropius. Coerentemente con un’ idea di design capace di connettere grandi problemi urbani con il sistema ordinario degli oggetti - coniugando tecnologia e ricerca estetica, arte ed industria, in nome di un nuovo artigianato come laboratorio sperimentale di ricerca - il celebre designer fiorentino ha così accettato di confrontarsi con questo tema, partendo da una collezione specifica: centocinquanta pettini della prima metà del ‘900, appartenenti alla raccolta di Gabriella Antonini. Nelle sale del Plart, questo singolare museo della plastica fondato con caparbia passione da Maria Pia Incutti, diverse epoche sono dunque messe a confronto. Da un lato si snodano i piccoli esemplari d’epoca, acquisiti nell’arco di vent’ anni. Frammenti di un racconto senza nomi, affascinanti per la varietà di forme e di colori capaci a volte di simu-
Andrea Branzi, Dal pettine alla città, veduta parziale delle installazioni / Installation view [Courtesy Fondazione Plart, Napoli]
lare materie più preziose come l’avorio o l’osso. La sezione, curata da Patrizia Ranzo, offre un piccolo spaccato di cultura materiale e psicologica in cui si intrecciano echi di intimità private e riflessi stilistici della storia dell’arte. Dall’altra, colorati e giocosi, si parano gli inediti “artefatti denticolari” di Andrea Branzi, a metà tra “sculture portatili e
6Andrea Branzi, Dal pettine alla città, [Courtesy Fondazione Plart, Napoli]
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pezzi di arredi in miniatura” come suggerisce la curatrice Cecilia Cecchini. Modellini che non sfigurerebbero anche se riprodotti in grande scala e che, in ogni caso, confermano una concezione del design quale produzione non solo di semplici oggetti, ma anche di immaginario e stati d’animo. Antonella Marino
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attività espositive RECENSIONI
Galleria Toselli, Milano
Carlo GOLIA e fiabe del parco Sempione sono racL contate nelle fotografie di Carlo Golia, con uno scatto in più. Dietro la galleria, ai margini del bosco, sotto la torre di Gio Ponti, lungo la ferrovia, vive una comunità di piccoli senza tetto: una banda di puffi, Biancaneve, i settenani, papere e paperi, Cappuccetto e il lupo … dell’epoca di Ludovico il Moro. Soggetti devastati dall’incuria e dal tempo, che non hanno perso la voglia di giocare. Nella devastazione, Carlo Golia scopre le ragioni del contemporaneo. Il sogno dell’infanzia con il lupo cattivo si ricompone in una ritrovata fotografia della poesia.
5Carlo Golia, Cappuccetto Rosso 2008
[cm 50 x 70 - stampa fotografica ink jet su forex bianco spessore mm 5 - tiratura 3 esemplari] Courtesy Galleria Toselli, Milano
5Carlo Golia, Calimero 2008 [cm 50 x 70 - stampa fotografica ink jet
5Carlo Golia, Aspettando il treno 2008 [cm 50 x 70
5Carlo Golia, Le forze dell’ordine 2008 [cm 50 x 70
5Carlo Golia, La gallina 2008 [cm 20 x 30
su forex bianco spessore mm 5 - tiratura 3 esemplari] Courtesy Galleria Toselli, Milano
stampa fotografica ink jet su forex bianco spessore mm 5 tiratura 3 esemplari] - Courtesy Galleria Toselli, Milano
stampa fotografica ink jet su forex bianco spessore mm 5 tiratura 3 esemplari] - Courtesy Galleria Toselli, Milano
stampa fotografica ink jet su alluminio tiratura 3 esemplari] - Courtesy Galleria Toselli, Milano
3Carlo Golia, Dotto 2008 [cm 20 x 20
stampa fotografica ink jet su alluminio tiratura 3 esemplari] - Courtesy Galleria Toselli, Milano
6Carlo Golia, Paternità 2008 [cm 50 x 70
stampa fotografica ink jet su forex bianco spessore mm 5 tiratura 3 esemplari] - Courtesy Galleria Toselli, Milano
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3Petra Feriancova, STADION / PIRAMIDE (dalla serie fotografata da mio padre nel 1969 / from the series photographed by my father in 1969), 2009, bianco e nero stampa dalla diapositiva, 110 x 165 cm / black and white print from a slide, 43” x 65”] Courtesy of the artist, Jiri Svestka Gallery, Prague – Berlin & Valentina Moncada, Roma
5Etienne Chambaud, Atlas, 2008
[atlante geografico del 1947, 53 x 35 cm / international standard Atlas of the World, 1947, 21” x 13”] - Courtesy of the artist
Mole Vanvitelliana, Ancona
Arrivi e Partenze Europa Arrivals & Departures Europe a mostra, “Arrivi e Partenze Europa”, stratificazione di storie e culture, divenuL si rivolge alle comunità che si affacti stati mentali e di coscienza. Le 150 ciano sul Mediterraneo, cioè agli Stati opere proposte alla Mole Vanvitelliana, dell'area Euro, considerandone necessaria ed utilissima una sorta di mappatura artistica che sia anche una ridefinizione epistemologica delle norme geografiche. I luoghi sono sempre il risultato della 6Sara Ramo, Hansel and Gretel’s House,
2009, [veduta dell’installazione presso la 53. Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale, Venezia / Installation view, 53rd Venice Biennal, Venice] Courtesy of the artist & Galería Fortes Vilaça, Sao Paulo
Biblioteca Vallicelliana, Roma
Gaetano ZAMPOGNA occasione della mostra di Gaetano IdinZampogna alla Biblioteca Vallicelliana Roma allestita nelle suggestive sale borrominiane dell’Istituto Periferico del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, ove i nuovi segni della medialità si confrontano con antiche tracce, è stato editato il libro-catalogo Gaetano Zampogna “Realtà Reale & Realtà Mediale con scritti di Gabriele Perretta. In realtà una nota iniziale ci avverte che il testo, che ripercorre puntualmente tutte le tappe dell’iter creativo di Zampogna è stato redatto nel 2007, ma per ragioni tecniche 62 -
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consegnano una visione nitida e tangibile del vecchio continente dove il dialogo personale degli artisti con l'elemento geografico, l'attenzione all'identità e alla quotidianità, indicano un nitido e concreto tracciato della contemporaneità. Andrea Bruciati, che con Walter Gasperoni ha curato la rassegna, indica nel suo saggio in catalogo (Silvana Editoriale), come “… Gli artisti di questa generazione possono tornare senza preoccupazione alcuna ad utilizzare la veromiglianza della figurazione poiché oramai certi che non è il contenuto referenziale ad essere oggetto dell'opera poiché, nel decennio segnato dalla postproduzione, è ovvio che la rappresentazione sta per altro.(...)". Gli artisti in mostra. Dall'Austria: Christian Eisenberger, Andreas Fogarasi, Constann Luser, Christoph Weber; dal Belgio: Michaël Aerts, Vaast Colson, Pieterjan Ginckels, Jürgen Ots, Dennis Tyfus; da Cipro, Haris Epaminonda, Christodoulos Panayiotou; dalla Finlandia: Liisa Lounila, Aurora Reinhard, Jani Ruscica, Jari Silomäki; dalla Francia: Benoit Brosat, Etienne Chambaud, Cyprien Gaillard, Loris Greaud, Benoit Maire, Pablo Pijnappel, Raphaël Siboni, Alexander Singh, Fabien Verschaere; dalla Germania: Michael Beutler, Ulla von Brandenburg, Björn Dahlem, Leopold Kessler, Kitty Krauss, Michael Sailstor-
fer, Johannes Vogl, Clemens von Wedemeyer, Alexander Wolff; dalla Grecia: Athanasios Argianas, Yorgos Sapountzis, Diamantis Sotiropoulos, Alexandros Tzannis; dall'Italia: Aleana Egan, Matteo Bergamasco, Anna Galtarossa, Ljudmilla Socci, Alberto Tadiello, Luca Trevisani, Nico Vascellari; dal Lussemburgo: Gerson Bettencourt Ferreira; da Malta: Mark Mangion; dall'Olanda: Jan De Cock, Amie Dicke, Guido van der Werve, Iris van Dongen, Marijn Van Kreij; dal Portogallo: Sonia Almeida, Vasco Aráujo, Pedro Barateiro Joao Pedro Vale, João Onofre; dalla Slovacchia: Erik Binder, Petra Feriancova, Magda Tóthová; dalla Slovenia Primo_ Bizja; dalla Spagna: Juliá Adriá, David Bestué, Miki Leal, Rubén Ramos Balsa, Sara Ramo. (LS) 6Kitty Krauss, Untitled (Spiegellampe),
2006, [specchi, lampadina da 100 W, 17 x 22 x 30 cm / mirrors, 100 W Lightbulb, 6” x 8” x 11”] Courtesy of the artist & Galerie Neu, Berlin
8Gaetano Zampogna, ed editoriali non ebbe mai la possibilità Evolution, 1998 di essere editato in maniera integrale. © Gaetano Zampogna Ad esso è stato aggiunto lo scritto sui ritratti per la mostra “15 ritratti 15 poeti”. 6Gaetano Zampogna, Gaetano Zampogna proviene - scrive GaQuando il diavolo ti accarezza vuole briele Perretta - dall’area post-appropriapassione, 2009 zionista, da quei movimenti internazionali che negli anni Sessanta e Settanta hanno ispirato il lavoro di gruppi che si sono rifatti in maniera critica alle metodologie appropriazionistiche come il Lettrismo, il situazionismo, il nouveau réalisme”. “Egli è stato, nel 1989, uno dei fondatori del gruppo Artmedia, le cui direttive teoriche sono basate su una concezione dell’arte intesa come “appropriazione e saccheggio” nell’intento di “poter rimettere in gioco i momenti emblematici dell’arte contemporanea per usarli come campo d’azione e di dialogo, come notizia oggettiva da manipolare”.8
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attività espositive RECENSIONI
Galleria Tannaz, Firenze
Incipit ncipit è il titolo intrigante ed evocativo Inuovo di questa mostra collettiva che apre un spazio per l’arte contemporanea a Firenze. Tannaz è il nome della galleria, istituita da una giovane operatrice culturale iraniana che vuole proporre un particolare percorso di ricerca nell’attualità dell’arte contemporanea con eventi, mostre, seminari, workshop, editoria, attraverso l’incontro di esperienze di personalità - artisti e critici - operanti in un'ottica di relazione tra arte e vita, tra multiculturalismo e identità geo-politiche. Una prima, significativa espressione di questo intento culturale è la mostra inaugurale, Incipit, che annovera la presenza di otto validi artisti: Caterina Arcuri, Fabio Cresci, Giulio De Mitri, Massimo Innocenti, Francesco Landucci, Mauro Manetti, Walter Puppo, Addo L. Trinci, appartenenti a formazioni, aree geografiche e linguaggi visivi diversi, accomunati – come afferma la curatrice della mostra Angela Sanna – da diverse visioni del mondo dove l'incipit coincide con <<memoria, natura, figure archetipe, spiritualità>>. Il quotidiano nel mito e viceversa è la cifra di Caterina Arcuri, che con nude mani rivela le forze nascoste e immanenti. Valenze semantiche e simboliche della materia si fondono nel lavoro di Fabio Cresci, evidenziando pensiero ed emotività. Essenza poetica e concettuale si ritrovano nell’opera di Giulio De Mitri, che rigenera tra archetipi e tecnologia profondità esistenziali. Riscoprendo il disegno e la pittura Massimo Innocenti
5Caterina Arcuri Nec plus ultra, 2008 [acciaio inox, ottone inciso - diam. cm 22]
traccia un paesaggio ideale dai confini impenetrabili. La simbologia primordiale è quanto emerge dall’opera di Francesco Landucci, che evoca un mondo sensibile e spirituale. Uomo-natura è il binomio essenziale del lavoro di Mauro Manetti che stratifica frammenti di storia classica e arcaicità. Metamorfosi formali e cromatiche cristallizzano l’invisibile spirituale di Walter Puppo. Un percorso esistenziale tra viaggio mentale e fisico so-
no le duplici componenti del lavoro di Addo L. Trinci. In questo microcosmo confluiscono e si riverberano le energie che contraddistinguono le diverse individualità e che insieme intessono l’incipit di realtà visibili e invisibili in un percorso storico nel quale l’uomo contemporaneo si rimette in gioco, riscoprendo e rispettando, insieme al proprio ruolo, l’altro da sé. Antonio Basile
6Giulio De Mitri, Identità II, 2009 [tecno-light-box / cm 80 x 80 x 13]
6Massimo Innocenti, Senza titolo, 2009
[foglia d’argento, bitume e olio su legno cm 160 x 140 x 12]
7 Da qui si è mosso in territori attigui a
quelle ricerche confluite in ciò che Gabriele Perretta definì area mediale. Dopo il 1994 l’artista sposta il suo lavoro verso il recupero di una pittura di tessuto figurativo contaminata dalle mitologie mediatiche del nostro tempo; in un primo momento evidenziando la debolezza della realtà percepita come produzione pubblicitaria: all’imponenza monocromatica e lunare di grandi volti anonimi sovrappone elemento di disturbo e di disequilibrio policromatici e minimali gli avvenimenti del mondo come finestre mediali prese dalle copertine delle più importanti riviste internazionali. El mundo vaquero, Les insolences di Naomi. Nella fase successiva (…) le finestre pubblicitarie diventano equivalenti ai ritratti, fino a rendere la Realtà reale e la Realtà mediale intercambiabili. Ne risulta un’im-
magine pittorica smemorizzata in cui due avvenimenti dialogano con straniante naturalezza, Evolution. (…) Le ultime opere rappresentano un passo ulteriore e logico verso questa analisi ironica e tragica del reale: i personaggi vivono bizzarramente all’interno delle figurazioni stilizzate del “gratta e vinci”. L’Isola del Tesoro, Animali portafortuna sono icone di una contemporaneità svalorizzata che rappresentano, per l’uomo occidentale, l’attesa di una mediocre catarsi: la speranza della personale ricchezza, una chimera mediatica come antidoto al vuoto crudele e globale di questi giorni di storia”. (Dal Libro-Catalogo Gaetano Zampogna “Realtà Reale & Realtà Mediale con scritti di Gabriele Perretta. Lithos Editrice, Roma 2010) . APRILE-MAGGIO 2010 | 229
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attività espositive FIERE D’ARTE
FIERE D’ARTE
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DA BOLOGNA A NEW YORK a stagione fieristica internazionale, L aperta come sempre, a fine gennaio dall’ammiraglia italiana ArteFiera di Bo-
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logna è stata una boccata d’aria buona in un momento in cui anche respirare è difficile. Sfoltita al punto giusto da permettere una fruizione agevole e piacevole. Opere sempre di grande qualità ed allestimenti fatti con gusto e buon senso. A giudizio di molti è stata l’edizione più bella degli ultimi anni. A livello di mercato, visti i tempi che corrono, la tenuta è stata positiva. Anche gli eventi collaterali, svoltisi in diversi punti della città sono stati frequentatissimi, nonostante la neve ed il freddo. Lode a Silvia Evangelisti, la direttrice che non si è mai data un attimo di tregua per fare di questa fiera un evento che sa rinnovarsi ogni anno e mantenere la leadership tra le fiere italia-
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ne. ArcoMadrid (dal 17 al 21 febbraio) ha registrato, come di consuetudine, un enorme numero di visitatori, un aspetto questo, che la caratterizza da sempre, ma che non ne sancisce sempre il successo. Si respirava aria di crisi come in tutte le fiere ormai e la stampa locale ci aveva messo sull’avviso di alcuni problemi ormai sedati. Non davano altre spiegazioni. La prima impressione registrava spazi più ordinati, corridoi sgombri da tutto il ciarpame che nelle passate edizioni addobbava le aree di “discanso”, gallerie di buona qualità, belle opere allestite con gusto. Ma dov’era il problema? Non certo nelle vendite poco entusiasmanti, che, come dicevamo, caratterizzano ormai molte fiere, ma nelle presenze internazionali di prestigio molto ridotte e nel malcontento delle gallerie locali. Abbiamo appreso i
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Arte Fiera Bologna 2010: 5
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1. Glaser / Kunz, Gagliardi Art System, Torino; 2. Bernard Roig, Gall. Cardi, Milano; 3. Michael Johansson, Massimo Carasi The Flat, Milano; 4. Marina Abramovic, La cucina V Omaggio a Santa Teresa, 2009, Lia Rumma, Milano; 5. Amparo Sard, Galleria Paola Verrengia, Salerno; 6. Kevin Francis Grey, Changing Role Move Over Gallery, Napoli; 7. Jerome De Noirmont, / Voss, Düsseldorf; 8. Flavio Favelli, Nicoletta Rusconi, Milano;
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9. Marck, Peithner-Lichtenfels, Vienna; 10. Gordijn & Nauta, Carpenters Workshop Gallery, Londra; 11. Joseph Kosuth, Vistamare, Pescara; 12. Yinka MBE Shonibare, James Kohan Gallery, NY; 13. Giuseppe Penone, Claudio Poleschi, Lucca; 14. Ralph Nauta e Lonneke Gordijn, Fragile Future, Carpenters Workshop Gallery. Galleria Tucci Russo, Torre Pellice.
particolari dall’articolo pubblicato su Il Pais a firma di Roberta Bosco che in particolare ha riferito su i “contrastanti pareri dei galleristi: hanno venduto più di quanto previsto, ma vi è un sentimento unanime sul fatto che la fiera non può continuare ad operare nello stesso modo. Oltre ad avere a che fare con le avverse condizioni economiche, Arco ha registrato una limitata presenza di gallerie di prestigio internazionale. Perché una fiera funzioni devono esserci buone gallerie che portano i collezionisti”, lamenta il gallerista di Bilbao Pedro Carreras.Tradizionalmente, Arco è in gran parte aiutata dagli acquisti delle grandi istituzioni, ma la base del collezionismo spagnolo è ancora piuttosto fragile. “Non è così radicata come in altri paesi. Si tratta di una questione di educazione e di sostegno per l’arte spagnola. Si presta maggiore attenzione al cinema e alla moda. Inoltre, dobbiamo internazionalizzare la creazione. C’è molta qualità plastica tra gli artisti spagnoli, ma è necessario che essa venga conosciuta all’estero e questo richiede una maggiore collaborazione tra gallerie e istituzioni”, dice la gallerista Nerea Fernandez. La mancanza di definizione della strategia di Arco, che negli ultimi anni ha visto nuove fiere, Art Basel Miami e Frieze, sottrarle terreno, è stata accentuata dalla mancanza di armonia tra la gestione di IFEMA, in particolare del presidente del suo comitato esecutivo, Eduardo Luis Cortes, e le gallerie, che hanno minacciato di non partecipare. In mezzo al fuoco incrociato, la direttrice dell’evento, Lourdes Fernández: “Non penso dimettermi. Non l’ho pensato nè mi è stato chiesto. Inizio già a lavorare per la prossima edizione”, ribadendo che Ifema apre con le gallerie un processo di riflessione per decidere cosa fare in futuro e quali aspetti come America Latina o arte emergente “sono sul tavolo”. Un altro punto dolente è la dimensione della fiera che molti considerano eccessiva. Cortes è pronto a discutere di questo aspetto, ma ha osservato che “Ifema è un’istituzione che non riceve sovvenzioni e funziona con le risorse che genera.” “Se riduciamo le entrate si dovranno ridurre i vantaggi dalla fiera e questo avrebbe un impatto sulla loro qualità “, ha detto. In mancanza di dati economici (mai disponibili) Cortés ha definito “positivo” il bilancio commerciale. “Ha superato le aspettative dei galleristi”, ha detto, sottolineando la” fedeltà “dei collezionisti nazionali.” Dal 4 al 7 marzo Armory Show a New York ha ospitato galleristi, critici e collezionisti di tutto il mondo radunatisi per
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MARINA ABRAMOVIC The artist is present MoMA, New York Il MoMA, in occasione della settimana dell’arte newyorkese, ha inaugurato una mostra antologica, la più grande, completa e significativa che sia stata fino ad ora presentata negli Stati Uniti, dedicata all’artista Marina Abramovic. L’esposizione costituisce una preziosa occasione per poter vedere documentata e rappresentata, con un’ottima scelta espositiva, l’intero suo percorso artistico: attraverso foto, video, documenti, installazioni, registrazioni e la riproposta – con attori-figuranti che ne sono interpreti – delle sue performance più conosciute, il pubblico ha modo di leggere il senso della sua ricerca e confrontarsi – anche con una partecipazione e un coinvolgimento attivo – con la continuità di un lavoro coerentemente condotto negli ultimi 40 anni di intesa attività. Vincitrice del Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 1997, indiscutibilmente riconosciuta come uno dei pionieri del linguaggio gestuale e dell’esplorazione delle potenzialità comunicative offerte dal corpo, Marina Abramovic indaga, nella relazione mai banale né scontata tra performer-performance e pubblico, i confini delle possibilità di un corpo che si apre alle infinite capacità della mente. La sua ricerca si svolge sempre con un vivo e stretto legame con la storia vissuta, quella reale del proprio tempo, che rende le azioni mai avulse dal momento e dall’attimo in cui si compiono, anzi per certi versi – soprattutto in quelle che riguardano la sua terra – si fanno metafora emblematica che stigmatizza vicende e fatti con un’emozionante e sincera drammaticità. L’agire dell’Abramovic fa sempre leva su un coinvolgimento emotivo molto forte, sollecita senza sconti la visione del pubblico, costringendolo, in qualche modo, ad approfondire, per capirlo, il senso di immagini spesso crude e dirette, ma che non scadono mai in una morbosità ossessiva. In occasione di questa mostra viene presentata anche la performance The artist is present, 2010 che vedrà impegnata l’artista, fin dal giorno dell’inaugurazione, in un’azione che durerà – in totale saranno oltre 700 ore – tutto il tempo della mostra: seduta silenziosa ad un tavolo nel Museum’s Donald B. and Catherine C. Marron Atrium del MoMa, Marina Abramovic incontrerà, nel silenzio e nella fissità dei soli sguardi, tutti quei visitatori che, per il tempo che vorranno, si siederanno di fronte a lei in un insolito dialogo e un’inusuale partecipazione con l’artista, la sua azione e la sua poetica. Matteo Galbiati 66 -
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attività espositive FIERE D’ARTE
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Arco Madrid 2010: 1. I Principi delle
Asturie con il Presidente del Comitato Esecutivo di Ifema, Luis Eduardo Cortés, durante la visita ad ARCOmadrid; 2. Camilo Ontiveros, vincitore del premio Illy Café con l’opera I want your washing machine; 3. Susy Oliveira, Peak Gallery, Toronto; 4. Galleria Javier López, Madrid; 5. Alvar Gonzalez, Galleria Carles Taché, Barcellona; 6. Santiago Serra; 7. Stuart Haygrant, Galleria Hauch of Venison, Londra;
l’undicesima edizione dell’Armory Show, la fiera newyorkese, che si arricchisce di anno in anno di “Fiere satellite”: Scope, Volta, Bridge e, quest’anno, la nuova arrivata Indipendent ospitata nell’ex sede della Dia Foundation ed ideata dai galleristi Elizabeth Dee e Darren Flook con “l’obiettivo di riesaminare il modello della manifestazione fieristica e creare una piattaforma ibrida a metà tra la mostra collettiva ed il forum”, ma, nonostante il nome, una fiera come tale è sempre legata a leggi di mercato. Un mercato un po’ risicato a detta di molti galleristi. Ma più che di arte, sulla stampa si parlato molto del favoloso party inaugurale del Moma Museum con un parterre eccezionale. Tante le mostre e gli eventi collaterali, da Soho a Brooklyn, da Long Island al Lover East Side e, l’evento più ambito: la visita su appuntamento alle grandi collezioni private. Merita infine un accenno particolare Bolzano Kunstart (da 5 al 7 marzo) conclusa con un bilancio un po’ meno disastroso degli anni precedenti. L’idea di farla coincidere
con la fiera di Interior Design “Arredo” ha fatto aumentare notevolmente il numero di visitatori e la capacità di interesse intorno all’arte contemporanea. Tra le settanta gallerie espositrici, alcune presenze prestigiose (come quelle delle gallerie Il Ponte Contemporanea di Roma, Franco Toselli di Milano, Antonella Cattani di Bolzano, Campaiola di Roma) hanno proposto opere ben quotate sul mercato internazionale. Tra le iniziative collaterali: The Glocal Rookie of the Year (il Premio della Fondazione Cassa di Risparmio di Bolzano) vinto da Marco Querin (che diventerà il logo della prossima edizione. Intersections un progetto che, su segnalazione di 16 gallerie, ha proposto alcune mostre personali di artisti affermati che dialogavano con artisti esordienti); Focus Japan ha riunito diverse gallerie che, congiuntamente con altre, hanno offerto un panorama di artisti giapponesi. Una notizia dell’ultima ora ci avverte che gli organizzatori di KunstArt hanno deciso di riprogrammare la fiera a cadenza biennale, ripartendo dal 2012. n
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Kunstart 2010: 1. Hermann Nitsch, Schüttbild; 2. Marco Querin, Studio’ di Giovanna Simonetta; (Primo Premio The Glocal Rookie of the year, Kunstart 12); 3. Federico Lanaro, Galleria Raffaelli; 4. Leonard “Lonaa” Ngure, Kenia; 5. Antonio Riello; 6. Antonella Zazzera, Antonella Cattani Contemporary Art.
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T.E.S.I.
Tesi Europee Sperimentali Interuniversitarie Un progetto scientifico e culturale di Francesco Moschini
Galleria AAM, Roma a recente pubblicazione del volume L “Il palazzo delle biblioteche: teoria, storia e progetto. Ipotesi per il Campus Universitario di Bari” rende omaggio all’accurato lavoro di ricerca e progetto condotto da Vincenzo D’Alba e Francesco Maggiore nell’ambito del Progetto T.E.S.I. – Tesi Europee Sperimentali Interuniversitarie. Ideato da Francesco Moschini e avviato dalla Cattedra di storia dell’architettura della Facoltà di architettura del Politecnico di Bari, T.E.S.I. è un programma di studio e ricerca che intende promuovere occasioni di confronto disciplinare tra atenei differenti con l’obiettivo di instaurare un sistema di relazioni e corrispondenze tra studenti e università di diversi paesi, sostenendo e favorendo la cooperazione. Con l’acronimo che definisce l’iniziativa, si vuole porre l’accento sulla necessità di individuare un possibile territorio di dialogo tra università finora ignorato o trascurato. A partire da un sostanziale ripensamento dell’esperienza formativa della tesi di laurea, che estende la sua definizione accademica convenzionale di prodotto di un approfondimento individuale all’idea di riflessione collettiva, si offre ai laureandi la possibilità di condividere i presupposti e gli esiti del proprio percorso di studio con studenti di altre facoltà italiane ed europee, sulla base di un coinvolgimento trasversale dei differenti ambiti disciplinari. A questo scopo è previsto che un collegio di docenti e studenti, istituito per ogni setto5Iconografia del Progetto T.E.S.I.,
“Protolettore” 2008 disegno di Vincenzo D’Alba (Courtesy Francesco Moschini, Gabriel Vaduva A.A.M. Architettura Arte Moderna)
5Logotipo del Progetto T.E.S.I. Disegnato da Ivan Abbattista
re, stabilisca con cadenza annuale un tema di progetto e ricerca quale vincolo programmatico di confronto e, contestualmente, abbia il compito di redigere un apposito dossier che presenti e specifichi le linee guida da seguire nell’elaborazione del tema in esame. A vantaggio di una maggiore scientificità e completezza dell’oggetto di studio, gli atenei coinvolti sono anche invitati a promuovere dibattiti, lezioni e seminari, i cui contenuti possano confluire, al termine di ogni anno accademico, in conferenze, mostre e pubblicazioni che documentino il lavoro svolto e i risultati ottenuti. La T.E.S.I. con cui Vincenzo D’Alba e Francesco Maggiore hanno dato l’avvio al primo ciclo dell’iniziativa riguarda il completamento e l’ampliamento del Campus Universitario di Bari e prevede, tra l’altro, il progetto di un Palazzo delle Biblioteche. Se la biblioteca è, ricordando Étienne Louis Boullée, «la sede fisica in cui si conserva l’eredità spirituale del passato», l’idea di un Palazzo inteso come sistema unitario di spazi per la consultazione e lo studio fa riferimento alla necessità di centralizzazione e riorganizzazione delle risorse culturali materiali e immateriali presenti sul territorio, allo scopo di evitare che la dispersione contenutistica prodotta dalla distanza fisica tra i luoghi accresca quella disciplinare, accentuando una sempre più preoccupante parzialità dell’esperienza formativa. A partire da questo presupposto il lavoro di D’Alba e Maggiore si snoda all’insegna di un doppio ordine di intenti. Da un lato ricostruire la genesi e il progressivo consolidamento dell’attuale immagine del Campus nella città di Bari attraverso la sue ragioni storiche. Testimone di questa volontà è la pregevole raccolta di documenti, dati, saggi, contribu-
ti critici e riletture fotografiche autoriali, che dà vita ad una sorta di intensa narrazione in cui gli autori alternano sapientemente rappresentazioni analitiche e conseguenti di impostazione storicista a vere e proprie visioni accidentali segnate dalla specificità stilistica o disciplinare della singola “citazione” d’autore. Oggettività storica e concessione poetica sono presentate come forme d’espressione autonome ma intersecantisi. Dall’altro esibire, nella faticosamente ricostruita identità culturale del contesto, una personale e originale idea di architettura e di città. Le 21 schede tematiche di cui si compone il dossier di D’Alba e Maggiore comprendono, oltre ai già citati contributi autoriali, disegni e progetti per il Campus di Bari, tra cui andrebbero ricordati, per la raffinatezza e la qualità delle soluzioni architettoniche e tecnologiche adottate, la sede della Facoltà di Ingegneria del 1963-1972, ad opera di Carbonara, Di Salvo, Ghera, Lugli, Randi, e la Sala “Alta tensione” del 1972, di Renzulli e Crisari. Ma anche le numerose
5Iconografia del Palazzo delle Biblioteche,
“La caduta degli architetti” 2008 disegno di Vincenzo D’Alba (Courtesy Francesco Moschini, Gabriel Vaduva A.A.M. Architettura Arte Moderna)
e importanti preesistenze storiche interne o prossime all’area del Campus, tra le quali il labirintico ipogeo medievale di cui l’ottocentesca Villa Giustiniani custodisce la presenza, oltre ad alcune, inattese “apparizioni” di architettura rurale. L’attenta ricognizione documentaristica di Vincenzo D’Alba e Francesco Maggiore pone l’accento sulla straordinaria ricchezza di risorse, di cui la città appare costellata, finora poco valorizzate a causa della loro dissoluzione nel tessuto urbano. L’occasione di rivendicare la propria consistenza che si vuole offrire a una configurazione episodica e puntiforme è efficacemente rappresentata dall’ipotesi progettuale dei due autori che, già8
6Locandine inaugurali del Progetto T.E.S.I. e locandine relative alle prime cinque lezioni magistrali tenute al Politecnico di Bari da: Luciano Canfora, Franco Purini, Gianfranco Dioguardi, Ruggero Pierantoni, Antonella Agnoli e Marco Muscogiuri.
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attività espositive L’ARTE E LE SUE ESTENSIONI
5”Planivolumetrico del Palazzo delle Biblioteche” 7 a partire dall’impostazione planimetrica,
sembra richiamarsi al più profondo senso di integrità della forma e della struttura urbana, ricercata attraverso la segnatura del perimetro d’intervento e la predisposizione di una serrata logica gerarchica nell’accostamento e nel posizionamento dei volumi. Tali intenzioni appaiono chiare fin dalle prime soluzioni progettuali, illustrate con calligrafica complessità dagli straordinari taccuini di D’Alba. All’idea simmeliana della cornice, del bordo che trascina e trattiene lo sguardo al suo interno, si affianca il misurato rigore della composizione quaroniana nella definizione dell’impianto. Dichiarando orgogliosamente il debito con la tradizione architettonica italiana Vincenzo D’Alba e Francesco Maggiore esprimono la propria idea di spazio adottando un linguaggio che non concede eccezioni ad un modus operandi assertivo e irremovibile. Come icone disposte a perseguire una metafisicità dechirichiana, i loro quattro edifici simbolo concorrono alla costruzione di una nuova apparenza figurativa del frammento urbano. La torre, il palazzo, il teatro, il muro, sono disposti sull’area, come in un elenco, con
grande chiarezza geometrica, definendo, nel disegno delle piante e delle sezioni, uno spazio incline all’ordine più assoluto dei contenuti, come se le citazioni, le velate allusioni che il progetto subliminalmente sottende, fossero alla costante ricerca del momento più appropriato per fare la loro comparsa tra le maglie di una compagine stilistica unitaria e coerente in ogni suo punto. Consapevoli del fatto che affrontare un problema d’architettura implica il superamento dell’accezione di progetto in quanto circostanza problematica conclusa, con un principio e una fine, a favore di una visione programmatica attraversata dal presentimento che il pensiero architettonico vada costantemente cambiando attributi in ragione delle sue nuove articolazioni contenutistiche, Vincenzo D’Alba e Francesco Maggiore fanno dell’idea di identità, di mobilità e di finalità, la loro triade tematica fondante. Alla prima - che non coin-
5Uliano Lucas, ”Via Postiglione”
Bari 2008 (Courtesy Uliano Lucas)
5Gabriele Basilico, ”Bari0607” (Courtesy Gabriele Basilico)
cide con quell’affannosa e anacronistica ricerca di coerenza, di attrito nei confronti di una realtà ormai disorganica e frammentata propria di chi non può fare a meno di immobilizzare propri riferimenti, ma in questo caso corrisponde più semplicemente alla necessità di preservare, attraverso il progetto, la dimensione della memoria, di rintracciare nei propri gesti un senso di appartenenza e di continuità rispetto a ciò che si è interiorizzato - si deve il senso dell’eredità culturale vissuto come esperienza, come forma di immaginario acquisito. Malgrado troppo spesso si tenda a identificare la buona architettura con il grado di novità o di spettacolarità che dà prova di apportare, questa resta e rimarrà sempre l’espressione di una personale coscienza, incorporata nel progetto non come presenza nostalgica ma in qualità di vincolo genetico cui si deve l’originalità del
proprio operare. Accettando il carattere mobile dei contenuti con cui si confronta, manifestando l’incertezza e il dubbio come condizioni inevitabili cui non è possibile sottrarsi, D’Alba e Maggiore dimostrano infine di aver appreso che l’attributo della finalità, peraltro comprendente quello dell’etica, consiste nel considerare quanto il carattere intrinsecamente solido, fisso, stabile dell’opera architettonica, poco si addica alla condizione di mobilità, a quello stato di liquidità baumaniana cui la modernità pare essere naturalmente soggetta e che ha progressivamente trasformato le finalità sociali dell’architettura in piccole, ingenue utopie, in goffe ambizioni di natura contingente e individualistica. Accettare questa irreversibile condizione di mutabilità della società non implica una rinuncia alla propria vocazione espressiva, ma introduce una possibilità di ridefinizione dello statuto disciplinare e invita a considerare l’opera non come risultato ma come parte di un processo di incessante modificazione fisica e sociale del mondo, ricordandoci che non dovrebbe esistere la possibilità di scegliere tra due modi di fare architettura, uno “impegnato”, l’altro “neutrale”, e che gli architetti non dovrebbero sottovalutare gli effetti del proprio lavoro, l’impatto della propria visione sulla città, sul territorio e sulla vita delle persone. Valentina Ricciuti
5Dattiloscritto del testo “Un’idea di Bari” con disegni e annotazioni di Franco Purini “Fatica di scrivere. Dedicato a Francesco Moschini” 2009 Tecnica mista su carta 41,7x29,7 cm (Courtesy Francesco Moschini, Gabriel Vaduva A.A.M. Architettura Arte Moderna)
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Intervista a Lucia Trisorio
35 anni di attività dello Studio Trisorio o Studio Trisorio nasce a Napoli nel L 1974 affiancandosi a quel piccolo gruppo di gallerie (Lucio Amelio, Il Centro, Studio Morra e Lia Rumma) che in quegli anni, sia pure con modalità ed orientamenti differenti, si impegnano a sviluppare un pionieristico discorso sulle tendenze contemporanee internazionali. Un’operazione tanto complessa quanto importante per una città ove il collezionismo è ancora assai attratto dall’arte dell’Ottocento e non esistono, e non esisteranno ancora per molti anni, istituzioni specificamente dedicate all’arte del presente. Vogliamo provare a rievocare gli esordi ed i primi anni della galleria mettendo in evidenza le specificità che distinguevano, pur nel solco di un percorso comune, le scelte dello Studio Trisorio da quelle delle altre gallerie di cui sopra? - Nel 1970, passando un giorno per una via del centro di Napoli, Pasquale ed io fummo attratti da una piccola opera in legno di Mario Ceroli, esposta in una vetrina di un negozio di arredamento: era una cassettina con all’interno tre profili di un volto. Decidemmo di acquistarla e ci fu detto che si trattava del ritratto di Lucio Amelio. Fu così che facemmo la sua conoscenza e un giorno Lucio chiese a Pasquale se voleva aprire e gestire la sezione di grafica della Modern Art Agency, come allora si chiamava la sua galleria. Pasquale accettò con entusiasmo e fu un periodo molto bello e intenso in cui organizzammo insieme delle bellissime mostre. Pasquale e Lucio avevano però due personalità troppo forti per poter convivere a lungo, per cui questa collaborazione durò poco più di un anno, poi ci fu una inevitabile rottura. Così nel 1974, per l’entusiasmo e la grande forza di volontà che hanno sempre contraddistinto Pasquale Trisorio spingendolo a guardare sempre in avanti, con una mostra di Dan Flavin venne inaugurato lo Studio Trisorio.Già qualche anno prima, però, Pasquale era venuto a conoscenza che la Fondazione Cerio cercava una destinazione da dare alla Villa Orlandi, una bellissima costruzione di fine settecento al centro di Anacapri, da diversi anni in stato di completo abbandono. Subito, come usava dire quando gli veniva una particolare intuizione, sentì “suonare i campanelli” e prima ancora di avere bene in mente un progetto definito, stabilì che questa cosa “s’aveva da fare” e Villa Orlandi entrò a far parte della nostra vita. 6 Piero Manzoni, 1975
5 Vincent D’Arista, Don’t step on me, 1975
foto di Mimmo Jodice (Pasquale Trisorio legato a terra), courtesy Studio Trisorio
I più noti esponenti dell’arte contemporanea sono passati dalla villa. Il primo fu Twombly, poi vennero Beuys, - l’immagine con la scritta La rivoluzione siamo noi, che lo ritrae nel viale d’ingresso, è conosciuta in tutto il mondo - poi Merz, Kounellis, Calzolari, Carlo Alfano, Cindy Sherman, Luigi Ontani, Giuseppe Chiari, Ettore Spalletti, Marco Bagnoli, Lucia Romualdi, Kenny Scharf, per citarne solo alcuni, poi direttori di musei, galleristi critici, attori, registi e tanti tanti amici. Le porte erano sempre aperte. Molti artisti le dedicavano un’opera, come Merz che fece installare sulle colonne del terrazzo i famosi numeri al neon della serie di Fibonacci - scambiati da qualche benpensante dell’isola per segnali ai contrabbandieri - o Kounellis, che realizzò un’opera sul fuoco per la finestrella dello studiolo, o Calzolari che ricoprì le vecchie panchine con cuscinetti di muschio, che andava scovando in ogni angolo del giardino, e che poi noi dovevamo innaffiare perché attecchisse. Kounellis in particolare passò molto tempo a Villa Orlandi e in più riprese. Lavorava nel salone a piano terra, trasformato per l’occasione in un grande studio, con tele di tutte le dimensioni, colori, pennelli e attrezzi sparsi un po’ dappertutto. Lavorava assiduamente e ogni tanto saliva la scala che porta nella grande cucina, si stava un po’ insieme e si chiacchierava. Una mattina andò via, dicendo che sarebbe stato fuori soltanto un paio di giorni, e invece… scomparve. Lasciò vestiti, lavori, carte e solo dopo molti mesi si rifece vivo. Nel frattempo, durante l’inverno, alcuni ragazzini anacapresi rompendo un vetro riuscirono ad entrare nello studio dandosi alla pazza gioia con
[Foto di Mimmo Jodice, courtesy Studio Trisorio]
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colori e pennelli. Conservo ancora per ricordo una tela dipinta di grigio da Kounellis, con sopra le casette bianche dipinte dai bambini. Un altro artista che soggiornò a lungo ad Anacapri fu Kenny Scharf, che divenne in seguito uno dei maggiori esponenti del graffitismo americano. La prima volta venne all’inizio degli anni ottanta quando da noi ancora non si parlava di graffitismo e confesso che dopo il rigore di Kounellis, i pupazzetti e i paperini che Kenny Scharf dipingeva a getto continuo, sembravano quasi un gioco. Invece quei “quadretti”, in pochissimo tempo, negli Stati Uniti prima, e poi anche da noi, raggiunsero quotazioni notevoli. Luigi Ontani venne d’estate, con tutto il suo bagaglio di abiti esotici, veli, piume e cappelli. E in occasione della festa patronale Pasquale dovette faticare non poco per dissuaderlo perché assolutamente voleva presentarsi in chiesa e partecipare alla processione travestito da Sant’Antonio. Ettore Spalletti dopo un soggiorno ad Anacapri ci mandò un bellissimo cuscino in polvere di cemento, chiedendo a Pasquale, nella lettera che lo accompagnava, di poggiarlo in giardino sulla panchina di pietra a semicerchio, e, dopo, di toccarlo un po’. Provo ancora quella sensazione magica di quando, sotto una pioggerellina autunnale, aprimmo la cassettina di legno e depositammo l’opera dove Spalletti aveva chiesto. Tutti, dopo, “lo toccammo un po’ ”. Peccato che il tempo, poi, un pezzettino alla volta, si sia portato via quel bel cuscino. Operare a Napoli non è mai stato facile, eppure ricordo gli anni Settanta come gli anni dei grandi entusiasmi, degli ideali,8 6 La serie di Fibonacci di Mario Merz
sulle colonne di Villa Orlandi, 1971
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attività espositive L’ARTE E LE SUE ESTENSIONI
5Beuys dà a Pasquale Trisorio la sua prima “scultura invisibile”, 1972 [foto di Elisabetta Catalano, courtesy Studio Trisorio]
7 della grande partecipazione che si crea-
va attorno alla galleria. Lo Studio Trisorio rappresentava un punto di riferimento, di incontro, di verifica, di scambio di idee. La nostra galleria sin dall’inizio è stata aperta a tutte le espressioni dell’arte, anche a quelle più innovative. É stata, ad esempio, una delle prime gallerie in Italia ad organizzare una rassegna di video d’artista che si intitolava Differenza Video. Con proiezioni simultanee su una decina di monitor venivano proiettati video di oltre trenta artisti, tra cui Nam June Paik, Bill Viola, Bruce Nauman, Joan Jonas, Christian Boltanski, Daniel Buren, ecc. Era il 1981. É stata anche una delle prime gallerie a inserire regolarmente la fotografia nei propri programmi e ancora adesso la mostra fotografica rappresenta un appuntamento fisso di ogni stagione espositiva. Abbiamo presentato i maggiori esponenti della fotografia contemporanea da Newton a Ghirri, da Basilico a Salgado, da Giacomelli a Scianna, a Martin Parr. Mimmo Jodice ha esposto nel 1978, quando era molto giovane e ancora non era il fotografo famoso di oggi. - La scomparsa di Pasquale Trisorio, verificatasi nel 1992, non provoca alcuna battuta d’arresto nell’attività della galleria, ma la nuova fase aperta da tale avvenimento è improntata anche a discontinuità o non si determina alcun mutamento di rilievo negli orientamenti della galleria? - La scomparsa di Pasquale non ha rappresentato alcuna battuta d’arresto nell’attività della galleria e da subito ho voluto proseguire con determinazione il percorso che avevamo intrapreso insieme. In seguito, dopo un periodo di tirocinio all’estero in due importanti gallerie di New York e di Düsseldorf, è subentrata anche Laura, apportando nuova linfa e contribuendo a far avvicinare all’arte
[courtesy Studio Trisorio]
molti giovani che oggi frequentano regolarmente la galleria. Naturalmente il numero dei nostri artisti si è allargato e tra questi oggi contiamo Rebecca Horn, Daniel Buren, Lawrence Carroll, Ettore Spalletti, Eulalia Valldosera e molti altri, ma la linea della galleria è rimasta essenzialmente la stessa, improntata soprattutto sul rigore. Nel 1996, per merito e determinazione di Laura, ad affiancare l’attività della galleria è nato ARTECINEMA, un Festival di film documentari sull’arte contemporanea, riconosciuto ormai a livello internazionale e giunto alla sua quindicesima edizione. - Perché dal 2003 lo Studio Trisorio sceglie di aprire una nuova sede a Roma piuttosto che in altre città italiane o estere? In quali tratti si differenzia la programmazione di Roma rispetto a quella di Napoli? - In realtà non abbiamo saputo dire di no quando ci è stato proposto lo spazio in Piazza del Fico. Uno spazio piccolo ma affascinante aperto sulla piazzetta. La programmazione è spesso la stessa di Napoli, si differenzia però per un maggior numero di mostre sperimentali di giovani artisti. - Gli inizi degli anni ’90 coincidono anche con il manifestarsi di quel nuovo clima che ha fatto parlare di “rinascimento napoletano” e che, al di là del dibattito più che mai acceso, e che peraltro trascende lo specifico delle arti visive e della cultura, sull’effettiva positività di questo quasi ventennio, si è indiscutibilmente concretizzato in una progressiva crescita dell’intervento pubblico nelle arti visive contemporanee, culminata con l’istituzione del PAN e del MADRE. Ritiene che tali novità abbiano sostanzialmente colmato quel “vuoto da vertigine” di cui parlava a suo tempo Angelo Trimarco o vi è
6Lucia Trisorio, Mel Ramos, Pasquale Trisorio, 1987 [courtesy Studio Trisorio]
5 Ettore Spalletti, A casa di, 2001, Foto di Attilio Maranzano
5Joseph Beuys e Pasquale Trisorio Villa Orlandi, 1971 [courtesy St. Trisorio]
ancora molto da lavorare? Qual è in definitiva il suo giudizio sulla politica culturale degli enti locali in quest’ultimo quasi ventennio e, in particolare, in questi ultimissimi anni? - La politica culturale degli enti locali negli ultimi anni è stata indubbiamente molto attiva e aperta all’arte contemporanea ed ha il merito di essere riuscita a dotare la nostra città di un proprio museo. - La vicenda non propriamente felice dell’intervento di Carsten Nicolai a Piazza Plebiscito rischia di apparire l’ultimo atto della crisi del “rinascimento” di cui sopra. Ritiene che quel ciclo cruciale per l’arte a Napoli si sia chiuso o si stia per chiudere? - Si chiude il ciclo delle installazioni in Piazza Plebiscito ma se ne aprirà un altro. A Napoli la creatività non manca e verranno certamente fuori delle nuove idee. Stefano Taccone
6Inaugurazione dello Studio Trisorio, personale di Dan Flavin 1974, foto di Mimmo Jodice, courtesy Studio Trisorio
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3Arch. R.Rigamonti, artista Luisa Valentini Liturgista don Antonio Giannotti Complesso parrocchiale Gesù Maestro, Racalmuto (Ag)
Sala 1 - Centro d’arte Contemporanea, Roma
borazione con l’artista Nino Longobardi; dall’architetto Corrado Scagliarini e dall’artista Paolo Orlando; da Riccarda Rigamonti in collaborazione con l’artista Luisa Valentini. Determinante è stato il ruolo svolto dagli artisti impegnati nella progettazione delle decorazioni e degli arredi sacri. Tra le numerose presenze sono da menzionare: Giosetta Fioroni, Gregorio Botta, Ettore Spalletti, Valerio Berruti, Chiara Dynys, Paolo Chiasera, Gino Marotta, Alessandro Pessoli, Achille Perilli, Ettore Consolazione.
Nuove chiese italiane decorazioni e arredi iunta alla V edizione Nuove Chiese G Italiane conferma l’impegno della Conferenza Episcopale Italiana nel promuovere la realizzazione di complessi parrocchiali di elevato valore qualitativo. Architetti distintisi per spiccate abilità progettuali sono stati invitati a prendere parte al concorso al fianco di liturgisti ed artisti, rispettando così il modello sperimentato nelle precedenti edizioni. Il lavoro delle équipes di progettazione, ha dato vita a ventuno progetti pilota. Apposite giurie composte da rappresentanti del Servizio Nazionale per l’Edilizia di Culto, da membri del Consiglio Nazionale degli Architetti, da esponenti dell’Ufficio Nazionale Liturgico e da esperti di arte sacra, hanno valutato le proposte progettuali sulla base di specifici requisiti: “riconoscibilità, qualità formale e qualità dell’impianto liturgico”. I progetti vincitori che verranno concretamente realizzati nelle diocesi di Lodi (nuovo complesso parrocchiale Madonne delle Grazie), di Macerata-Tolentino-Recanati-CingoliTreia (nuovo complesso parrocchiale Stella Maris) e di Agrigento (nuovo complesso parrocchiale Gesù Maestro) sono stati rispettivamente elaborati da Vincenzo Corvino e Gianni Multari in colla-
6Paolo Radi, Crocifisso risorto
5Arch. C. & F. Scagliarini, artista Paolo Orlando, Complesso parrocchiale Stella Maris, Porto Recanati (Mc)
5Ettore Spalletti, Altare maggiore
(progetto per diocesi di Agrigento)
Nuove chiese italiane 5 ribadisce la volontà della Chiesa di stabilire un contatto con la cultura, ed in particolar modo con l’arte. Un connubio portato avanti coraggiosamente e che affonda le sue radici nei secoli riconoscendo nell’arte e nei suoi linguaggi un mezzo attraverso il quale stabilire un contatto e tracciare un ponte tra gli uomini e la fede. (a cura di Eloisa Saldari)
(progetto per diocesi di Agrigento, 2° classificato)
Gregorio Botta, Porta 6 (prog per diocesi di Ag - 3° classificato)
6Arch. V.Corvino & G .
Multari, artista Nino Longobardi, Complesso parrocchiale Madonna delle Grazie, Dresano (Mi)
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LIBRI & CATALOGHI Achille Bonito Oliva, Il territorio magico. Comportamenti alternativi nell’arte, Le Lettere 2009 Scritto nel 1969, in quattro giorni e in quattro notti (senza mai andare a capo), ma pubblicato da «Ferruccio Marchi del Centro Di» soltanto nel 1971, Il territorio magico. Comportamenti alternativi nell’arte, primo libro teorico di Achille Bonito Oliva, è ancora un volume denso, robusto, scattante e significativo, teso non solo ad evidenziare esperienze artistiche che fanno i conti con l’attualità ma anche a dispiegare un paese – fatto, appunto di comportamenti alternativi – che dall’arte muove e si lascia sfuggire nei territori del vissuto quotidiano. Riedito, ora, dalla casa editrice Le Lettere di Firenze, per celebrare i settant’anni del maestro (compiuti lo scorso 4 novembre), Il territorio magico – la cui nuova edizione è curata da Stefano Chiodi – presenta tuttora, dopo circa quarant’anni dalla sua prima pubblicazione, una potente e massiccia modernità per analizzare le linee più recenti del sistema dell’arte contemporanea, le sue sfumature e i suoi cortocircuiti. Nato «nell’atmosfera post-68, in un periodo in cui intellettuali e artisti erano sottomessi alla parola forte della politica – erano diventati gli angeli custodi del ciclostile – e in nome della politica finivano per mettere in dubbio l’arte, l’identità dell’artista, la sua funzione», Il territorio magico sottolinea la ginnastica attiva di un pensiero che ha saputo (e sa ancora) svolgere, stravolgere e capovolgere gli statuti della critica contemporanea con una forza creativo-oppositiva che prende il toro per le corna – per dirla con Michel Leiris – e fronteggia gli scenari dell’arte legati, questi, al biologico e al primitivo, all’istintuale, al rituale e al processuale. Puntando sull’atteggiamento estetico – di apertura alla plurisensorialità e di immissione, nell’arte, d’un tempo in quanto durata reale – Achille Bonito Oliva, «potenza che si afferma e non si sofferma» (M. Fimiani), disegna uno senario dell’arte che cavalca la contestazione e soverchia l’arcaico per proiettarsi tra le maglie incandescenti dell’attualità. «Il territorio magico», suggerisce l’Autore, «voleva essere (…) la dimostrazione di come si potesse fare un libro di antropologia politica sull’arte a prescindere da considerazioni sociologiche o militanti, dalle piccole effrazioni del quotidiano. L’idea casomai era mostrare la funzione liberatoria dell’arte usando e liberando al tempo stesso la funzione della critica». Di una critica che si fa arma perfetta per nuocere gravemente alla realtà e innescare una irreversibile azione di liberazione dell’arte con una vigorosa ginnastica attiva e attrattiva. La ginnastica di un pensiero – quello, appunto, di Achille Bonito Oliva – che ha saputo svolgere, stravolgere e capovolgere gli statuti della critica con un atteggiamento eterosterotipistico ad ampio raggio con il quale «ABO» ha siglato, acronimizzato e spettacolarizzato, con efficacia e creatività, i cardini stessi della nostra critica d’arte. (Antonello Tolve) Stefania Zuliani, Effetto museo. Arte, Critica, Educazione, Bruno Mondadori Ricerca 2009 Lo spazio della Museofilia, la «museificazione del mondo» e l’«impossibile museo del presente», «la serenità artificiale del “white cube”» e «le avventure, azzardate e compromesse, del “site specific”», che si presenta, quest’ultimo, come «un sistema aperto di pratiche, artistiche critiche e museologiche, in cui l’accento è posto sulla specificità di un contesto, non soltanto spaziale ma anche, e talvolta essenzialmente, sociale e antropologico». E poi, ancora, Le stanze della critica e i lineamenti del nuovo artista che si fa curatore, o le dinamiche che vanno dall’esposizione all’educazione. Seguendo queste e altre8
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attività espositive LIBRI & CATALOGHI 7 situazioni attuali del museo (spazio che nasce «assieme alla ghigliottina»), i suoi risvolti interni e le sue trasformazioni radicali, Stefania Zuliani – tra gli studiosi più attenti in Italia, della riflessione museale in età contemporanea – sviluppa un discorso teso a rivelare, con agilità ed intelligenza, i più recenti dibattiti e le più innovative forme espositive che dall’«effect Beaubourg» messo in campo da Jean Baudrillard «nel 1977, all’indomani dell’inaugurazione a Parigi del Centre Georges Pompidou», arrivano ai nostri giorni. Con Effetto Museo. Arte, Critica, Educazione (Bruno Mondadori 2009), Stafania Zuliani propone, ora, un tavoliere riflessivo, raccontando con precisione – la precisione del teorico e del critico impegnato a scansire le regioni instabili dell’attualità – un territorio in cui «affrontare attraverso il confronto tra voci e posizioni differenti, nella convinzione che il museo dell’arte presente, nella sua radicale “impossibilità”, sia crocevia irrinunciabile di tradizioni e culture, un dispositivo aperto e “discorsivo” (Belting), in cui artisti, storici dell’arte, museologi, critici, curatori, educatori hanno l’opportunità di immaginare e di costruire assieme al pubblico inedite esperienze di conoscenza». «Muovendo dal riconoscimento delle radicali trasformazioni che nel corso del Novecento hanno segnato il museo e le sue sempre più complesse funzioni e, allo stesso tempo, dall’analisi dei processi che, nella tarda modernità, hanno condotto all’attuale, per molti versi inquietante, museofilia», suggerisce l’Autrice, «ho dunque provato a mettere in luce alcune delle questioni che definiscono la scena espositiva contemporanea e, in particolare, il ruolo che il museo, soggetto e oggetto di conoscenza e di creazione, ha nel pensiero e nelle pratiche dell’arte e della critica». Aperto alle intemperie del mondo dell’arte, plurivoco e polivalente, il museo contemporaneo si presenta così come spazio dinamico e, nel contempo, come opera d’arte (totale a volte); come spazio architettonico in grado di raccogliere ed accogliere nei propri ambienti non solo opere di differente natura o generazione artistica ma anche, e soprattutto, dibattiti, incontri, problematiche rivolte al presente dell’arte e a specifiche azioni socio-antropologiche ed economiche (naturalmente), a dinamiche e assetti che fanno del museo, appunto, un luogo sempre più legato all’industria culturale del sistema globale e glocale. Antonello Tolve) Angelo Trimarco, Ornamento. Il sistema dell’arte nell’epoca della megalopoli, Mimesis 2009 Contenitore di argomenti e problemi dell’ultimo ventennio che vanno dall’arte pubblica (ma soltanto quale forma e «figura dell’abitare»), al post-human, dai temi del virtuale e «dell’antropologia del cyberspazio», ai segni e segnali della rimaterializzazione dell’arte – dettati, questi, dalle nuove manovre dell’Art Biotech –, senza dimenticare, poi, l’«architettura dei musei di terza generazione», Ornamento. Il sistema dell’arte nell’epoca della megalopoli (Mimesis, 2009), messo in campo da Angelo Trimarco, accompagna il fruitore all’interno di una riflessione sull’«intreccio di postmodernità e globalizzazione» che «hanno segnato», queste, «con intensità i percorsi dell’arte e della teoria dell’arte». Seguendo regioni e ragionamenti memorabili in cui la parabola dell’ornamento ha segnato il proprio solco spaziografico, Angelo Trimarco (critico dell’attualità e teorico del presente dell’arte) scansiona, così, il mondo della vita contemporanea
per «mostrare come la megalopoli, al giorno d’oggi» sia «anche un teatro di processi virtuosi, mobili e incandescenti», in grado di configurare o, quantomeno, delineare, «una nuova figura di città». L’aspra critica mossa da Adolf Loss alle posizioni di Henry Van de Velde in cui, nota l’Autore, «sfilano due differenti e inconciliabili concezioni dell’ornamento e della bellezza». Le teorie di Hermann Broch, Siegfried Kracauer e Walter Benjamin che «ha segnato la messa in questione radicale dell’essenza dell’opera d’arte». La «via obbligata di Warhol». I discorsi, «diversamente orientati», di Lyotard, di Jameson, di Bauman, di Virilio e di Danto, ancora. Sono soltanto alcuni dei nomi che compongono la fitta trama composta da Trimarco per evidenziare, di volta in volta – e a partire dai primi sintomi e dai primi trasalimenti di temperatura –, l’ornamento non solo come orpello e addobbo, decorazione e guarnizione, ma anche come condizione di una contemporaneità sfrangiata in cui il possesso lascia il posto all’accesso (J. Rifkin) e il mondo dell’arte – e della vita, appunto – si proietta, con fiducia, apostrofa infine l’Autore, in un territorio «articolato e discontinuo, in profonda e continua trasformazione», dove «Post-Human e arte pubblica, intrecciandosi, aprono uno spazio di relazione nel segno dell’ethos». (Antonello Tolve) Roberto Pasini, Warhol e Romiti. Un confronto assurdo, Pendragon, Bologna, 2008, Roberto Pasini, L'ultimo degli informali, LEU, Verona, 2007; Che cos'è l'arte, LEU, Verona, 2007. Più volte abbiamo avuto modo di occuparci del lavoro di Roberto Pasini, storico dell'arte noto per i suoi studi sull'informale e in particolare per la sua attenta monografia su Giorgio Morandi. Ebbene, Pasini come insegnante di storia dell'arte moderna e contemporanea è impegnato anche sul fronte accademico e su quello della ricerca scientifica, curando collane di libri per case editrici e per edizioni di cataloghi d'arte. Una di queste è quella di Le Sfere (per Pendragon), dove Pasini esamina due artisti apparentemente molto diversi e distanti, come Warhol e Romiti, e l'altra è quella de Gli Spicchi dove si parla di Cavalli e della domanda fondamentale sull'arte, ovvero che cos'è il modus operandi artistico alla luce della sua investigazione e della sua effettività! Andy Warhol, nome d'arte di Andrew Warhola (Philadelphia o Forest City, Pennsylvania 1928 - New York 1987), pittore e regista statunitense di origine cecoslovacca, esponente di rilievo della Pop Art e Sergio Romiti, artista chiuso e solitario, designato erede di Morandi che ha avuto il rarissimo merito di esporre ininterrottamente in cinque Biennali di Venezia (dal 1952 al 1960). A partire dall'analisi di due modelli diversi, tra differenze di forme e di sostanza, Pasini cerca di trovare lontane e inconsuete relazioni. Con un linguaggio analitico diretto, il critico bolognese, sfodera il registro memorabile e interpretativo, sviluppando un puncutum che egli stesso definisce “biosocioculturale”. Usando poi gli stessi metodi, si avvicina all'artista svizzero Massimo Cavalli, nato a Locarno nel 1935 e considerato uno degli ultimi esponenti dell'Informale. Il percorso di pittore e di incisore di Cavalli, nella ricerca del suo isolamento e della sua solitudine, è considerato una peculiarità “che vibra di un suono lento e sibilante, come sistri nel chiarore dell'alba”. Alla fine del suo percorso concettuale, Pasini non avversando la considerazione teoretica ed estetica ci offre un saggio che pone ad oggetto d'esame quella che da sempre viene considerata la domanda delle domande: “che cos'è l'arte”? In Italia, nello studio della fenomenologia artistica, il libretto storico che ha segnato le sorti di questa stessa invocazione critico-letteraria e filosofica è il celebre taccuino di Dino Formaggio del 1977. Infatti, Pasini - rivolgendosi ad autori che spesso non vengono più citati, come A. Hauser, Formaggio, G. Kubler, Kern e forse lo stesso E. Panofsky del 1927- ribadisce che la prosperità di ogni inquiry sta nell'abbinare l'urgenza della domanda con la prudenza della risposta e, quindi, aiutandosi con Kant, riferisce che “l'arte è come il flusso degli elementi forniti dall'esperienza”. L'arte si dà nella sua tautologia operativa, fenomenologica e valutativa, nelle applicazioni della sua temporalità, nella
sua difficile relazione con la nozione stessa di comunicazione e nelle sue forme di specchiabilità storiografica, perché essa incide sulla “vista” allenando il nostro senso di “immediatezza” e di “distanza”. (Gabriele Perretta) Giovanna Corrias Lucente (a cura di) La tutela dell'opera d'arte contemporanea. Casa Editrice Gangemi Il libro analizza l'evoluzione dei linguaggi e delle forme dell'arte contemporanea e l'innegabile rilevanza economica assunta dalla stessa sul mercato; ricerca, a fronte di leggi lacunose e inadatte, le forme di tutela più adeguate per ileciti come il reato di contraffazione, di falso in scrittura privata, di truffa e di violazione del diritto d'autore. L'opera è suddivisa in tre parti ognuna delle quali sviluppa un particolare aspetto del tema. Nel primo saggio l'avvocato Giovanna C o r r i a s L u c e n t e affronta la problematica della tutela dei nuovi stilemi dell'arte contemporanea. Nel secondo, l'avvocato Barra tratta la protezione da parte civile degli illeciti in cui potrebbe incorrere l'acquirente in buona fede. Nell'ultima sezione la storica dell'arte Chiara Compostella esamina la strumentazione e le modalità di indagine che gli esperti usano per individuare l'autenticità dell'opera e per svelare eventuali contraffazioni o alterazioni. In copertina l'opera di Felice Levini Meglio una fine spaventosa che uno spavento senza fine, 1997 Peter Carravetta, Del postmoderno. Edizioni Bompiani Peter Carravetta propone in questo libro una riflessione storico-critica sul postmoderno, una categoria che non pertiene solo all'ambito della critica letteraria ma anche, sempre più, all'ambito filosofico, sociale, dei costumi e delle istituzioni. Secondo l'autore, il postmoderno è la chiave di lettura per comprendere l'America della seconda metà del '900, in particolare dagli anni '70 al 2001, e proprio per questa sua centralità è necessario capirne meglio le definizioni e le conseguenze sul nostro presente. Riannodando studi e interventi che coprono l'arco di un quindicennio, Carravetta ripercorre in modo sistematico e metacritico le tante definizioni che di postmoderno sono state date da molte figure di rilievo, e alcuni movimenti teorici che l'hanno alimentato: la complessa eredità delle avanguardie, il femminismo, i Cultural Studies, il decostruzionismo, il neostoricismo, la globalizzazione, l'ermeneutica (a ciascuno dei quali è dedicato un capitolo). Una verifica, dunque, di cosa ha significato il postmoderno in maniera pluriprospettica, comparativa e interdisciplinare, con in aggiunta una sezione dedicata all'America “vista dall'interno”, in una serrata esposizione, descrittiva e insieme spassionata, in cui vediamo un paese che cerca di capire se stesso, in particolare nel modo di ripensare il proprio passato, le sue istituzioni educative e religiose, il rapporto con le culture altre, il ruolo che vorrebbe svolgere sullo scacchiere mondiale, l'impasse che segue la fine della guerra fredda, fino all'anno e all'evento che - almeno per l'America mette tutte le discussioni a tacere, soprattutto quelle moderniste e segnate dall'ironia. All'alba del nuovo secolo, ci troviamo ad affrontare la possibilità che si stia entrando nell'epoca della distopia generalizzata, della distorsione perenne. Il libro è stato presentato, in gennaio nella galeria Arte Studio Invernizzi di Milano in collaborazione con Bompiani n APRILE-MAGGIO 2010 | 229
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N. 229 Marzo/Aprile 2010
Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea
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APRILE/MAGGIO 2010
APRE IL MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo
MAURO STACCIOLI
Il prossimo 30 maggio aprirà al pubblico il MAXXI di Roma. Anna Mattirolo, direttore del MAXXI arte, ci racconta il museo che verrà.
JAN FABRE
Attualità Internazionali d’Arte Contemporanea
Anno XXXV
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