Le Arti nell'Abitare

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Ica Spanu, Antonio Salis

LE ARTI NELL’ABITARE A C U RA D I VA L E N T I N A S C A N U

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Le Arti nell’Abitare Casa degli artisti Ica Spanu e Antonio Salis

a cura di Valentina Scanu fotografie di Valeria Secchi

Un progetto di Chora Spazio Espositivo


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Volume pubblicato con il Patrocinio del Comune di Sennori

Copyright Opere: © 2017 Ica Spanu e Antonio Salis Via Italia 12, Sennori, SS Fotografie: © 2017 Valeria Secchi Testi: © 2017 Valentina Scanu Impaginazione: Ufficio Grafico di Inschibboleth Proprietari della pubblicazione: Ica Spanu e Antonio Salis Immagine di copertina: Installazione primo piano (dettaglio).


Presentazione

Che cos’è il Contemporaneo? Quando un’operazione artistica può dirsi contemporanea? Si potrebbe, forse, considerare Contemporanea una certa maniera di stare sul tempo, godere dalla soglia del presente di una forma d’ipervisibilità che scandagli il tempo che abitiamo e con sguardo obliquo catturi riflessi del futuro che è già. Un operare artistico che ne sia all’altezza, scuote l’ordine esistente e chiede di ripensarlo. Abitare è un atto che svolgiamo naturalmente, gli oggetti, anche quando decorati esteticamente, sono per noi un mezzo utile alle nostre attività quotidiane. Visitare Casa di Ica e Antonio è un’esperienza suggestiva che ne offre un’idea differente, al punto da suggerire da sé inediti formati di esposizione artistica, nuove regole, nuovi scenari. L’architettura, a differenza delle asettiche pareti delle gallerie, dialoga e influisce sulla natura degli oggetti che ospita. Svestendosi di ogni alterigia, gli artefatti che si incontrano prefe-

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riscono territori di frontiera in cui pittura, scultura, design di interni e artigianato ridefiniscono i propri confini. La costruzione ha dietro di sé un secolare apporto di trasformazioni. Sorta intorno al 1915, in seguito a processi di sviluppo urbano che ne ha inglobato il terreno di edificazione, ha visto una nuova primavera nel secondo dopoguerra. A questo periodo risalgono gli affreschi che i padroni di casa hanno riscoperto nel corso della ristrutturazione e avuto cura di tenere come traccia ornamentale della storia che li ha preceduti. Tra le strade di Sennori si presenta strizzando l’occhio ai passanti col luccichio dei mosaici che incorniciano l’entrata, eppure come accade per molte delle cose preziose, gli interni si rivelano sorprendenti oltre ogni preavviso. Volte a vela ricoprono lo sviluppo degli ambienti in quattro livelli differenti in cui soffitti, affreschi, arredi, mosaici e installazioni interagiscono con una certa facilità, apparentemente semplice, frutto di un lavoro costante e continuo negli anni da parte di chi ha intravisto il potenziale della casa sin dalle macerie cui era ridotta al momento dell’acquisto. Percorrendo gli spazi domestici si rimane catturati da un lavoro di reinvenzione presente ovunque. Con un certo smarrimento ci si ritrova immersi in un cosmo popolato di tessuti, superfici laccate, reti, biciclette, caffettiere. Tutto, compreso il non elencabile, sembra aver vissuto un processo metamorfico in cui insolito e familiare convivono in maniera affascinante. Dal primo all’ultimo degli elementi, dalla porta d’ingresso al comignolo sul tetto, nulla è lasciato al caso. Guardandosi intorno, l’osservatore scorgerà angoli preziosi, indici di cura e attenzione al piccolo, al dettaglio, all’interno di una cornice progettuale complessa e pensata, stratificata in anni di lavoro e sedimentazione senza però cedere a derive statiche e irrevocabili. Così, le


reti non trattengono ma ospitano tessuti, installazioni si fanno spazio aprendo il soffitto che separa differenti livelli e dai muri sorgono alberi, animali e sfere. Con il loro permesso, poiché ospiti, potremmo utilizzare questo microcosmo da loro progettato e curato come cartina di tornasole della cifra estetica contemporanea, percorrendo le linee che hanno condotto al paradigma artistico dei nostri giorni di cui si dimostrano sensibili testimoni. Il Novecento ha assistito con la nascita dell’Astrattismo alla fine della perfetta corrispondenza tra l’oggetto da riprodurre e le forme utilizzate, salvando dalla mimesi l’opera d’arte condannata dal pregiudizio del Vero al secondario ruolo di copia imperfetta del reale. Con Cézanne, come «ultimo» degli Impressionisti, prende avvio un processo di radicale trasformazione che passando per il cubismo giunge sino all’Espressionismo e segna la crisi del Figurativo. La scissione forma-contenuto di significato suggerisce anche la necessità, che si avvertirà con sempre maggior forza nell’arte contemporanea, di ripensare attraverso la Filosofia dell’arte la direzione dell’Estetica che, per voce del suo fondatore Baumgarten, si propone sin dalla nascita come gnoseologia di grado inferiore. Se le opere non sono da intendere come mere copie di una realtà da rappresentare o raffigurazioni mimetiche degli oggetti da conoscere, occorre rivolgere loro uno sguardo nuovo, differente. La rottura del patto mimetico è il primo segnale di un rinnovamento dell’esperienza estetica. Saranno però necessari altri scenari per giungere alla radicalità dei giorni nostri. Nei primi del Novecento gli espressionisti astratti, seppur fautori di una nuova concezione formale sono immersi in un’atmosfera ide-

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ologica che porta con sé una rinvigorita volontà dell’artista di utilizzare l’opera come fonte (privilegiata)di conoscenza. Il Visibile delle composizioni astratte degli esponenti del Cavaliere Azzurro, è il mezzo col quale mostrare l’Invisibile di cui l’artista-veggente si fa ancora romanticamente portavoce. In questo modo, la copia visibile-invisibile, soggetto-oggetto, ripropone l’aporia metafisica che il lavoro del Decostruzionismo ha irrevocabilmente evidenziato. Ogni manifestazione del visibile che rimandi a uno sfondo invisibile porta con sé una insopprimibile nostalgia dell’origine impresentabile verso cui diviene impossibile cessare di rivolgersi, seppur obliquamente. Di queste opposizioni la filosofia è da sempre esperta, impegnata nel tentativo di afferrare concettualmente la presenzialità piena dell’Essere, come condizione di esistenza dei molti, una presenzialità pura quindi dal valore universale. Ma anche nei momenti di massimo impegno, come nella riduzione husserliana, Jacques Derrida insegna che l’apparire fenomenico non dismette i panni del significante riproponendo una struttura di rinvio. La presenzialità pura è segnata immancabilmente dalla differenza ontologica e quella che appare come assenza diviene una mancanza che non cessa di fare ombra e generare ulteriori inseguimenti. Rispetto a questa vicenda, l’apparire fenomenico porta con sé il peso di una mancanza: qualsiasi identità raggiunta mostra ancora i segni di una differenza ineliminabile che rilancia con ancora maggior forza una «caccia agli spettri». Occorrerebbe allora interrogare il Visibile che l’arte mette in opera da un’altra prospettiva. Si potrebbe forse avanzare l’ipotesi che solo abbandonando le pretese conoscitive del «Che cos’è» di matrice filosofica sia possibile emancipare l’arte dal ruolo ancellare a cui è stata condannata per secoli. È solo ces-


sando di porre all’opera la domanda «Cosa vuol dire?» che si può accedere alla bellezza che l’arte mette in scena. L’arte contemporanea costringe lo spettatore a revocare questo interrogativo per il quale non ha risposte da offrire. Per questo suscita in chi ci si rapporta incomprensione e disorientamento (nel migliore dei casi), se non indignazione e rifiuto. È importante chiarire: non s’intende in queste righe affermare che l’arte debba cessare di porre domande. Le opere nascono da uno sguardo che pone continuamente in questione l’esistente, nasce da interrogativi e continua a suscitarne in chi si relaziona con essa. Si potrebbe, però, ipotizzare che il «punto di fuoco» di fruizione dell’opera risieda nella sua fenomenalità, nel suo apparire che cessa di rimpiangere un sostrato noumenico. Come se il potenziale risieda nella totale esposizione della superficie emersa intorno alla quale nessuna protensione o ritenzione faccia differenza, ponendo cosi nuove sfide alla decostruzione. Tale superficialità per riscattarsi da una tradizione avversa ha avuto bisogno di nuove terre. Accade che, nel secondo dopoguerra, il centro della cultura artistica si dislochi negli Stati Uniti e si assista, con l’espressionismo di de Kooning e l’Action painting di Pollock, alla radicalizzazione della sua vocazione astratta. Le raffigurazioni abbandonano la densità delle ideologie del vecchio continente e, come liberate dal peso, risalgono in superficie. Non è casuale, forse, che una tale rottura avvenga in una terra, come quella statunitense la cui origine sia disseminata al punto da rendere difficile orientarvisi, la cui potenza insita nel concetto di patria non si sia vincolata a confini o radici che limitino i movimenti. La volontà febbrile che guida l’Action Painting sembra disfarsi di ogni vocazione epistemica concentrando cosi l’attenzione

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sulla attualità del gesto performativo. Le opere espongono il consumarsi dell’aura che le ha avvolte sino ad ora, quella che Benjamin ha felicemente definito «l’apparizione irripetibile della lontananza» 1. Egli intravede nella poesia di Baudelaire la fine di ogni lirismo e l’inizio della contemporaneità. Il poeta matura nei suoi versi l’idea di una bellezza diversa da quella moderna, una bellezza che somiglia più a un fugace bagliore improvviso, uno choc, per utilizzare la sua espressione. Emblematicamente, nella poesia A une passante, per descrivere la bellezza di una donna che gli passa accanto, Baudelaire scrive: Un èclair… puis la nuit! – Fugitive beauté Dont le regard m’a fait soudainement renaitre, Ne te verrai-je plus dans l’eternitè?2

Se l’aura per Benjamin ha sempre uno sfondo da cui attinge luminosità, lo choc del bagliore della bellezza descritta da Baudelaire è nell’attualità immortale di un istante. Eternità, come recita il verso, che la filosofia già da sempre insegue o anticipa. Privilegio questo consentito forse solo alla bellezza di uno sguardo che, come nei ritratti di cui si occupa Jean-Luc Nancy, non ha nulla da esporre. In alcuni passaggi il filosofo francese decostruzionista ricorda come la somiglianza dei ritratti non celebra un modello, ma espone un’assenza. L’immagine dell’intimità di uno sguardo si fa superficie nella tela, cosi l’impresentabile non si ritrae in una cattiva infinità ma si inscena nella messa in opera della esposizione nuda di sé. In questi 1. W. Benjamin, Aura e Choc, a cura di A. Pinotti e A. Somanini, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2012, pag. 258. 2. Ibidem, pag. 237.


momenti troviamo linee di continuità tra il ritratto di Matisse di Auguste Pellerine del 1917 e le tele dell’espressionismo americano: lo sfondo senza-fondo, emergendo, avanza e si fonde con lo sguardo ritratto, dimostrandosi cosi all’altezza di un’assenza che non promuove lutti. Un simile sguardo ci riguarda, come accade a Baudelaire con la passante, il tempo di un Augenblick, secondo la doppia accezione sottolineata da Bloch di attimo e colpo d’occhio. A Baudelaire, testimone acuto della fine di un’epoca, in un attimo è caduta l’aureola, «in un movimento brusco mi è scivolata dal capo» ironizza, cosi come a Pollock doveva risultare scomoda nel gesto innovativo del Dripping. Una volta dismessi i panni di medium veggente si consuma anche la volontà comunicativa della tela, al punto che per i titoli, divenuti significanti superflui, è sufficiente numerare le composizioni come accade alle sinfonie. È curioso e non casuale come nelle conversazioni con Ica e Antonio la definizione «artista» non risuoni nella memoria di chi scrive, sostituita da una costellazione di mestieri affini. Gli arredi, gli oggetti, le architetture sorprendono in maniera molto più simile al bagliore di cui parla Benjamin che all’atmosfera auratica di una galleria d’arte. È probabile che all’aureola i padroni di casa abbiano preferito le maschere per la saldatura. Le premesse poste dall’espressionismo americano trovano compimento ed esaltazione con l’avvento della Pop Art. Il bagliore accecante della Popular Art richiama quello delle luci di un palcoscenico che non si spegne mai, segnali di un mondo che si scopre sempre più spettacolare e seducente. Da qui il ruolo della luce come catalizzatore di attenzione e non mezzo con cui schiarire le ombre. Si pensi per un attimo ai neon

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che da Dan Flavin giungono alle insegne luminose più recenti esposte dall’artista britannica Tracey Emin. L’estetizzazione, lasciate le zavorre e risalita in superficie, ora si espande in tutti gli ambiti del reale. La perdita della centralità auratica dell’opera è direttamente proporzionale alla sua diffusione, iniziano processi di riproduzione seriale e ritroviamo la firma del suo massimo esponente, Andy Warhol, nella copertina di un album musicale come quello dei Velvet Underground & Nico, di cui è anche produttore, cosi come oggi quella di Jeff Koons marca l’ultima produzione di un’icona della musica e della cultura pop come Lady Gaga. Il lavoro di estetizzazione generale in cui la contemporaneità è immersa segna la fine della diretta complicità tra artista-veggente e opera. Con la fine dell’intimità tra mano e capolavoro, prevalgono, con apparente paradosso, le biografie individuali da membri dello star system sulla singola opera. Pensiamo a Maurizio Cattelan che decide di esporre un suo certificato medico e proviamo a non liquidare frettolosamente l’episodio come «l’ennesima buffonata». È utile piuttosto, a tal proposito, interrogarsi sulla relazione tra tecnica ed estetica che ci circonda e ci pervade. Assistiamo al moltiplicarsi di tecnici della grafica, oggi tra i mestieri più diffusi, alla circolazione di opere anonime e alla sempre meno sostenibile accusa di plagio. Ovunque siamo circondati da immagini dall’intento seducente a cui spesso manca la firma, o porta con se il contrassegno di aziende in cui si smarrisce il nome dell’autore. Immaginiamo, come si racconta, la scena in cui nell’aprile del 1964 James Harvey passeggiando per la Stable gallery di New York, la galleria in cui Warhol esponeva i suoi ready-made, alla


vista dei Brillo Box abbia esclamato: «Gesù, ma quella l’ho disegnata io!». In effetti Harvey aveva disegnato Brillo Box. Sarebbe interessante osservare la scena da una posizione più defilata, cercando di non soffermarci sulle conseguenze cui perviene la teoria Istituzionale. In questo modo si riconoscono i dovuti meriti agli artisti della Popular art che hanno avvertito prima di altri le scosse sismiche della rivoluzione in atto. Interessante a tal proposito ricordare come Icons, opere al neon di Flavin che simboleggiano le icone della modernità, pur essendo state esposte in tutto il mondo, vengono nel 2010 considerati dei semplici lampadari dalla Comunità europea e perciò, con buona pace di tutti, costretti a una tassazione a cui vengono sottoposti i comuni lampadari. Osservando gli scenari del quotidiano è evidente come l’elaborazione estetica esca dai binari della pittura-scultura e si ritrovi nei luoghi più disparati sottoforma di loghi, graffiti destinati a scomparire alla prima tinteggiatura della parete, telefoni cellulari divenuti una sorta di protesi umana. Ma, abbandonando per un attimo gli interrogativi diffusi su cosa sia da considerare arte o meno (la fine della mimesi del mondo ci espone chiaramente al rischio dell’immondo o della furbizia, sempre che non sia sempre esistito questo rischio), occorre forse con maggiore urgenza chiedersi se, alla consumazione dell’orizzonte di senso che accompagna la civiltà del nuovo millennio, tale elaborazione rappresenti solamente un rischio di seduzione commerciale o possa offrire una qualche chance. Quale la posta politica per l’arte che non si accontenti di esprimersi come Arte Politica? In occasione della conferenza di Documenta del 1968 a Kassel, Ernst Bloch propone un intervento dedicato alle possibilità dell’Ornamento. In un momento di grandi rivolgimenti storico-

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politici, che non risparmia certo la contemporaneità dei nostri giorni, si domanda: «Siamo nel mezzo di un momento politico cosi agitato, e si parla di arte, ornamento e iconoclastia, anche se in connessione con i valori apocalittici dell’arte; un’arte di fuga, un’arte dell’esodo, che è sazia di rappresentare in modo bello e decorativo solo oggetti. Eppure che ci importa di questo?» 3 L’ornamentale ha in comune con l’arte astratta l’assenza di un oggetto definito, caratteristica questa che i passati canoni stilistici hanno considerato indice di una posizione accessoria, assimilandolo erroneamente alla decorazione. Allora, quali possibilità offre ad un pensiero sulla comunità tale inoperosità dell’opera dell’arte? L’elaborazione estetica di cui si è detto raccoglie la sfida dell’ornamentale blochiano. Secondo il pensiero del filosofo di Ludwigshafen, l’ornamento va distinto nettamente dal decorativo, banale abbellimento posticcio dal carattere seduttivo e ideologico. Le architetture blochiane assegnano all’ornamento un ruolo di grande centralità in quanto elaborazione puramente formale. Formatesi storicamente nel confronto con la nascita del Design e delle produzioni industriali di oggetti dei primi decenni del secolo, le riflessioni di Ernst Bloch intravedono nell’assenza di finalità comunicativa dell’ornamentale una speciale resistenza anarchica alla spasmodica ricerca dell’utile e il veicolo perfetto dell’elemento spirituale che il Positivismo e il Funzionalismo hanno inaridito. Si può dire che Bloch abbia, con sensibilità artistica e filosofica, compreso come l’apparenza del Visibile artistico offrisse per il 3. E. Bloch, Ornamenti. Arte, filosofia e letteratura, a cura di Micaela Latini, Armando Ediore, Roma, 2012, pag. 91.


suo carattere messianico una chance del tutto inedita alla filosofia. Egli ha intravisto nella trasformazione formale operata da Cezanne una portata rivoluzionaria ben distante dalla decadenza di cui venne accusata. Eppure, in sintonia con il movimento Astratto di cui si fece deciso sostenitore, le sue considerazioni non hanno raggiunto una radicalità in grado di disinnescare la struttura del rinvio di ascendenza metafisica. Tale radicalità è possibile andarla a cercare interrogando il concetto di parergon kantiano riletto magistralmente da Jacques Derrida. L’elemento parergonale dell’opera dell’arte sta in una posizione subordinata all’ergon, al corpo dell’opera, eppure «non si trova a lato, si riferisce e coopera, da un certo di fuori all’operazione. Non è semplicemente fuori né semplicemente all’interno.» 4 Parerga sono per Kant le cornici, i panneggi delle statue, i fregi delle colonne, ciò che sin dal principio si colloca sull’orlo del corpo dell’opera, un’eccedenza che nulla espone, ma necessaria perché si faccia opera. Si potrebbe dire che la speciale assenza che marca il parergon lavori da sempre, attraverso una pura formalità, l’opera d’arte. Senza nulla da esporre, silenziosamente anche nei momenti in cui ufficialmente il patto mimetico non aveva subito cedimenti alcuni. Il suo bagliore non ha atmosfera che lo preceda né una qualche finalità. Una luce concettuale che continua a discriminare un’opera da una semplice cosa estranea a ogni economia di verità. Come se una linea tracciata discontinuamente mettesse in una strana convergenza il panneggio di una statua, le pieghe de4. J. Derrida, La verità in pittura, trad. it. a cura di Gianni e Daria Pozzi, Newton Compton editori, Roma, 1981, pag. 55.

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gli abiti rosso vivo dei capolavori caravaggeschi, le Campbell’s Soup Cans di Warhol, la stilizzata immagine di una mela, la tazzina di caffè con la quale aprire una cassettiera. L’ipotesi che si cerca di sostenere è che il lavoro in-utile del parergon non sia la novità dei nostri tempi, ma abbia in fondo sempre concorso in maniera fondamentale all’esposizione artistica. La rottura del patto mimetico e la «consumazione del senso» ha reso solamente più evidente il carattere vestigiale dell’arte, etimologicamente connesso all’orma che segnala un percorso senza rivelarci chi lo compie. Non la sua fine, ma la necessità che «il senso non si posi più di quanto faccia il piede di un viandante»5. Meglio se a passo di danza, come insegnano le performance di Tino Seghal o le coreografie di Pina Bausch. Scivolando con la medesima leggerezza da una stanza all’altra, a Casa di Ica e Antonio, gli oggetti che si incontrano appaiono animati da un elemento che non inerisce direttamente alla loro destinazione d’uso. Qualcosa dell’ornamento della cassettiera cessa di essere la tazzina di caffè dalla quale si è soliti bere ma, allo stesso modo, non si può dire si accontenti di essere considerata un semplice pomello prodotto in serie. Accade, come nella viva metafora di Ricœur, che le forme acquistino lo statuto di apolidi e la loro leggiadra indifferenza verso il proprio significato comune d’esistenza rappresenti emblematicamente ciò che la Casa custodisce: una cifra indomesticabile del domestico. Antonio e Ica si accostano alle cose con la medesima seria giocosità. La loro ipervisibilità coglie le possibilità generative della materia, sempre alternative agli schemi usuali che smontano e rimontano con la libertà di chi è affine alla trasformazione. An5. J.-L. Nancy, Le muse, Edizioni Diabasis, Reggio Emilia, 2006, pag. 132.


che nelle istallazioni guidate dalla serialità il segno di un anarchico clinamen trova la sua via di fuga preservando immancabilmente l’imprevedibile che abita il vitale. In queste linea di convergenza ritroviamo, allora, i segni coi quali il lavoro parergonale ha dismesso i panni del significante per scoprirsi poi da una posizione di confine, come ciò che discrimina un oggetto d’uso da un’opera di interior design, con una necessità ancora tutta da indagare in uno stato di cieca accelerazione tecnologica altrimenti disorientante e insostenibile. Ogni oggetto incontrato sembra aver ricevuto una speciale cura, cosi da farne rivivere in forme nuove la storia, quella dei materiali che lo costituiscono come di chi se ne è servito quando ancora era altro. Così nella casa il passato non scivola verso il perduto: stoffe e metalli accatastati prendono vita e contorni nella mente dei due artisti che, con la mano eclettica di un fabbro, architetto, sarto, visionario, disegnano configurazioni inaspettate che scavalcano quello che chiameremmo ready-made. Il loro lavoro sembra guidato dalla volontà febbrile con cui ci si riferiva alle esperienze del primo espressionismo astratto, visibile nelle sorprendenti elaborazioni ornamentali delle pareti interne dei cortili, delle terrazze, così come nella cura maniacale dedicata ai rivestimenti interni dei comò, alla sistemazione per toni delle stoffe. In questo modo perde di centralità la definizione del proprio ruolo, sostituita dalla volontà di creare sempre nuove configurazioni che solo il pensiero laterale dell’immaginazione può intravedere nell’esperienza comune del nostro abitare gli oggetti, con gli oggetti. Ovunque in casa è in opera contaminazione, come il procedere a quattro mani dei padroni di casa che diviene sinergia,

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immune ormai da qualsiasi premura purista, libertà propria di chi non deve reclamare alcuna paternità. Cosi, in un’atmosfera surreale è possibile incontrare il Mantegna che siede allo stesso tavolo di Bialetti, Gaetano Pesce discutere di tessuti e colorazioni con Burri, Pistoletto e Kounellis che passeggiano per il cortile in compagnia di Ai Weiwei mentre Dalí e Gaudí osservano l’orizzonte dalla terrazza interna. Esperienza, questa, che ricorda le premesse di cui era carico un movimento come quello del Radical Design per la sua portata anarchica e immaginativa, non a caso figlio di tempi in cui si era alla ricerca di nuove configurazioni politiche. Sì, perché se cambiano le regole del nostro abitare, forse è utile rivolgerci alla posizione di confine del parergonale di cui questo esperimento è carico e coglierne tutta la portata etica. Non sia mai che sull’orlo in cui viene collocata l’estetica sin dalla sua nascita non possa scoprirsi una posizione privilegiata, come aveva ipotizzato Bloch. Il confine, come sappiamo, ha da sempre un ruolo complesso: si divide in due bordi e segna un luogo di non-appartenenza. A chi appartiene il confine? È possibile uno spazio che non sia marcato da una qualche proprietà? Appaiono questi quesiti di una certa urgenza tra cortine di ferro, espulsioni, esclusioni, allarme-invasioni. Se quel che resta dopo la sentenza della morte di Dio, seguendo Nancy, non è altro che l’esposizione reciproca delle pluralità d’essere, in quest’esposizione il tempo diviene spazio-immagine e la sfida posta all’arte è tutt’altro che esaurita. Nei momenti più complessi della sfida etico-politica il filosofo francese è alla ricerca di una «comunità inoperosa» che non produca nemici con l’ombra della propria origine mitica ma, al-


lo stesso tempo, non sfumi nella dispersione della propria pluralità, come i fallimenti del multiculturalismo hanno insegnato. In alcuni momenti del suo lavoro, l’immagine sembra rappresentare per Nancy il luogo in una presenzialità speciale, fuori dal comune dell’esperienza di cui, anzi, scardina la presunta opaca compattezza. «L’immagine – scrive – ha un’essenza mostrativa, mostrum è un segno prodigioso che avvisa […] essa è fuori dal comune della presenza, perché ne è l’ostensione, la manifestazione, non l’apparenza, ma l’esibizione, la messa-in-luce e la messa-in-avanti»6. E proseguendo: «L’immagine pura è, nell’essere, il terremoto che apre la falla della presenza […] “l’immagine di” non significa che l’immagine venga dopo ciò di cui è immagine: ma l’immagine di ciò in cui, innanzitutto, ciò che si presenta – e niente si presenta altrimenti. […] L’essere si strappa all’essere, e l’immagine è ciò che si strappa. Porta in sé il segno di questo strappo: il suo fondo mostruosamente aperto sul suo fondo, sul rovescio senza fondo della sua presentazione»7. In questi complessi passaggi, l’ontologia del senza-fondo trova nell’immagine, la presenzialità pura, l’esposizione che non rimanda ad altro che a se stessa. Nessuna idealità a cui rimandare, nessuna origine a fare da sfondo. Nella circolazione caotica dell’essere singolare-plurale, nella vertigine tecnica priva di senso, nel capitale guidato dalla sola volontà di potenza, l’immagine offre una visuale privilegiata sul mondo che si è fatto spettacolare, coi rischi di un male radicale, sradicato da propulsioni ideologiche. Probabilmente solo un’attenzione specia-

6. J. L. Nancy, Tre saggi sull’immagine, trad. it. a cura di A. Moscati, Edizioni Cronopio, Napoli, 2007, pag. 20. 7. Ibidem, pag. 24.

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le alla paregonalità senza referenza che incontriamo ovunque ci permette una vigilanza critica, mentre i vecchi paradigmi ci lascerebbero indifesi e del tutto impreparati. La sfida diventa, dunque, pensare un luogo di giustizia includente, ma non esclusivo. Per immaginare nuove configurazioni che siano all’altezza della consumazione del senso, di ogni teleologia orientante è necessario, allora, ipotizzare una forma separabile dalla finalità. Quando Kant intende sanzionare l’indipendenza della sfera estetica da quella del conoscere e del desiderare, evoca il nome della Bellezza. Bello è ciò che piace senza interesse, universalmente senza concetto e senza scopo, ma necessariamente. Il sentimento che provoca tale forma priva di finalità non ha natura empirica, né intento conoscitivo, non è neanche nell’ordine del buono. Il piacere, infatti, a differenza del piacevole, necessita per Kant che l’oggetto rappresentato non sia nel raggio d’azione del nostro interesse perché il giudizio di gusto possa ritenersi valido. Solo in tale movimento disinteressato del soggetto è possibile un con-sentire universale senza il rischio di un qualche tentativo di appropriazione ermeneutica. La Bellezza, come la Parergonalità, appare cosi per Kant segnata da una mancanza, una cesura si potrebbe dire, che riguarda la finalità. È importante chiedersi se questa assenza rilanci l’interrogazione metafisica o se, invece, come quella dello sguardo di Auguste Pellerine, non sia la condizione essenziale per la disposizione degli uomini alla socialità, alla comunicazione e al sentire comune. Il luogo del Cum. Non a caso, probabilmente, uno stile comune caratterizza gruppi sociali omogenei o diventa un importante strumento politico di aggregazione, un comune taglio di capelli alla stregua di una divisa.


Con-fidando in questa mancanza senza subire gli effetti di una perdita, potremmo considerare, con qualche suggestione, la meraviglia che si prova davanti all’opera dell’arte di natura differente da quella menzionata da Aristotele, qualcosa che abbia più a che vedere con il sentimento dell’ammirazione. L’arte non è un pasto, suggeriva Bloch, infatti il mio sentire non- patico non impedisce il sentire altrui, bensì promuove una comune abitabilità. A casa di Ica e Antonio, dove sono all’opera nuove regole dell’abitare, mutano anche le regole della territorialità. Dove non si sta nell’ordine della verità, ma in quello del piacere svaniscono anche i patriottismi artistici e trova spazio una certa libertà: ogni oggetto sembra aver trovato il proprio posto, perché il più delle volte pensato a partire da esso. Eppure, nonostante questa preziosa inversione all’origine, non ha messo radici. Si respira continuamente energia in atto e in questa attualità performativa non trovano spazio appropriazioni ma solo, eventualmente, possibilità di deviazioni, evoluzioni, perdite, aggiunte o traslochi, guidati da un solo in-utile criterio: la ricerca della bellezza. Valentina Scanu

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Immagini


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Installazione Piano terra


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Particolare affresco Piano terra


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Veduta Piano terra


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Installazione Primo piano


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Veduta Primo piano


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Senza titolo, particolare Primo piano


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Senza titolo, particolare Primo piano


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Veduta salone Primo piano


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Installazione Primo piano, salone


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Installazione Primo piano, salone


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Installazione Primo piano, salone


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Installazione Primo piano, salone


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Installazione Primo piano, salone


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Dettaglio Primo piano, salone


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Dettaglio Primo piano, salone


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Veduta dal basso Cortile


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Scorcio Cortile


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Tavolo, veduta dall’alto Secondo piano


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Installazione Secondo piano, bagno


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Dettaglio Secondo piano, bagno


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Veduta Terzo piano, camera da letto


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Veduta sul tetto Terrazza


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Elementi decorativi Terrazzo


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Elementi decorativi Terrazzo


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Finito di stampare nel mese di Marzo 2017 presso Mediagraf SpA - Noventa Padovana -UN printbee.it PROGETTO DI CHORA SPAZIO ESPOSITIVO by

INSCHIBBOLETH


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