Numero 6 (Nuova serie), Novembre 2012
Direzione: Elio Matassi - Vannino Chiti - Marco Filippeschi - Carmelo Meazza Coordinamento generale del sito e della web TV: Marco De Pascale
Adesioni Massimo ADINOLFI (Univ. di Cassino), Claudia BARACCHI (The New School for Social Research, New York); Massimo BARALE (Univ. di Pisa), Giuseppe BEDESCHI (Univ. La Sapienza, Roma), Luigi BERLINGUER (Univ. di Siena), Enrico BERTI (Univ. di Padova, Accademia dei Lincei), Franco BIASUTTI (Univ. di Padova), Remo BODEI (University of California (Los Angeles)), Almut Sh. BRUCKSTEIN (Ha’atelier, Berlino/Gerusalemme), Massimo CACCIARI (Sindaco di Venezia, Univ. San Raffaele, Milano), Giuseppe CANTILLO (Univ. di Napoli), Carla CANULLO (Univ. di Macerata), Andrea CAUSIN (Esecutivo PD), Stefano CECCANTI (Univ. La Sapienza, Roma), Mauro CERRUTI (Univ. di Bergamo, Deputato), Pierpaolo CICCARELLI, (Univ. di Cagliari), Umberto CURI (Univ. di Padova), Gianfranco DALMASSO (Univ. di Bergamo), Antonio DA RE (Univ. di Padova), Roberta DE MONTICELLI (Univ. San Raffaele, Milano), Pietro D’ORIANO (Univ. La Sapienza, Roma), Massimo DONA’, (Univ. San Raffaele, Milano), Adriano FABRIS (Univ. di Pisa), Maurizio FERRARIS (Univ. di Torino), Giovanni FERRETTI (Univ. di Macerata), Marco FILIPPESCHI (Dirigente nazionale PD, Sindaco di Pisa), Pierfrancesco FIORATO (Univ. di Sassari), Massimo FIORIO (Univ. di Torino), Vittoria FRANCO (Senatore, Univ. di Pisa), Fabrizia GIULIANI (Univ. di Siena), Sergio GIVONE (Univ. di Firenze), Alfonso M. IACONO (Univ. di Pisa), Giovanni INVITTO, (Univ. di Lecce), Marco IVALDO (Univ. di Napoli), Antonello LA VERGATA (Univ. di Modena), Claudia MANCINA (Univ. La Sapienza, Roma), Sandro MANCINI (Univ. di Palermo), Aldo MASULLO (Univ. di Napoli), Eugenio MAZZARELLA (Univ. di Napoli), Carmelo MEAZZA (Univ di Sassari), Alberto MELLONI (Univ. di Modena), Virgilio MELCHIORRE (Univ. Cattolica, Milano), Gaspare MURA (Pontificia Università Urbaniana), Silvano PETROSINO (Univ. Cattolica, Milano), Andrea POMA, (Univ. di Torino), Mauro PONZI (Univ. Romauno), Alfredo REICHLIN (Presidente del Cespe), Luigi RUSSO (Univ. di Palermo), Leonardo SAMONA’ (Uni. di Palermo), Gennaro SASSO (Univ. La Sapienza, Roma, Accademia dei Lincei), Aldo SCHIAVONE (Univ. di Firenze), Lucinda SPERA (Univ. di Siena), Tamara TAGLIACOZZO (Univ. Roma Tre), Andrea TAGLIAPIETRA (Univ. San Raffaele, Milano), Corrado VIAFORA (Univ. di Padova), Carmelo VIGNA (Univ. di Venezia), Mauro VISENTIN (Univ. di Sassari), Franco VOLPI† (Univ. di Padova).
Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica Appunti sul presente, Mensile culturale on line, redazione: presso associazione culturale Inschibboleth Roma-Sassari, redazione on line su skype; editore: associazione Inschibboleth, via A Fusco 21 - Roma, via Carso - Sassari, mail: associazione.inschibboleth@gmail.com. Direttore Responsabile: Aldo Maria Morace. Ufficio stampa, Marco De Pascale. Numero 6, nuova serie. Prossimo numero 15 dicembre 2012.
I
n d i c e
La sinistra e lo spettro della repubblica di Weimar di Elio Matassi
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La questione della fame nel mondo di Umberto Curi
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La politica dell’illimitato di Bruno Moroncini
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Tra liturgia e disincanto: la profanazione del dispositivo democratico di Luciana Cadahia
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Recensione di Alice Pugliese
p. 19
Etica e politica. Modelli a confronto, a cura di G. Cantillo e A. Donise, Guida, Napoli 2011, pp. 225 Questioni di etica contemporanea, a cura di S. Achella, G. Cantillo e A. Donise, Guida, Napoli 2011, pp. 156
InSchibboleth si evolve. Dal nome di un periodico-forum nascono due primi impegni editoriali: una rivista a vocazione internazionale Phasis e Quaderni di InSchibboleth che ospiterà innanzi tutto ricerche e saggi di giovani studiosi. Entrambe le riviste saranno parzialmente consultabili on line e saranno presto pubblicate in supporto cartaceo, ordinabili in siti collegati, opportunamente predisposti. Il forum non sarà più al centro del sito Inschibboleth. Conserverà la periodicità mensile ma si trasforma in Appunti sul presente e sarà consultabile insieme all’archivio in un link dedicato. Conterrà non più di due o tre editoriali a fuoco su temi o questioni al centro del dibattito pubblico. In questa scelta di un maggiore distacco dall’impegno più diretto sui temi della politica pesa un certo giudizio sul presente, la conclusione di una lunga fase costituente che ha visto impegnato il maggiore partito della sinistra italiana ed europea. Quella stagione di innovazione e di coraggiosa apertura verso nuove frontiere corre il serio rischio di esaurirsi e in ogni caso sembra terminata quella fase in cui sono circolate le promesse più convincenti per la riforma della politica e delle istituzioni della Repubblica. Il sito sarà potenziato invece nei suoi contenuti multimediali, nelle sezioni, negli scambi internazionali, e si dedicherà innanzi tutto alla ricerca filosofica. La Redazione di InSchibboleth
La sinistra e lo spettro della repubblica di Weimar di Elio Matassi
Le recenti elezioni regionali siciliane hanno dimostrato ampiamente fino a quale punto il sistema politico italiano sia ormai prossimo, nella frammentazione sempre più accentuata, al collasso definitivo. Anche l’alleanza fra PD e UDC che non offre una convincente maggioranza governativa non è un elemento sufficiente per considerare ormai in via di esaurimento la crisi della rappresentanza politica. Il Movimento Cinque Stelle è diventato, in Sicilia, il primo partito e il PDL è ormai in fase di estinzione. La sinistra, ancora una volta divisa, non riesce a prospettare una alternativa di governo veramente convincente. Dove potrà trovare il nuovo Presidente della Regione siciliana Crocetta i voti decisivi per poter aprire una nuova fase, non certo dalla direzione del movimento populistico e decisamente insulare di Miccichè e Lombardo, quanto piuttosto aprendo un
confronto costruttivo sui singoli problemi con il Movimento Cinque Stelle che non può essere demonizzato e ricusato pregiudizialmente. Un’ipotesi politica che gli esponenti più responsabili della “sinistra” (vedi in particolare Nichi Vendola), contestualizzando in maniera corretta la portata del successo dei “grillini”, riescono a cogliere; l’analisi politica, che si tratti in fondo di una costola separata della sinistra da far rientrare necessariamente nell’alveo istituzionale attraverso un serrato confronto su alcuni punti programmatici decisivi, è un’analisi lungimirante. La sinistra, invece, almeno nella sua maggioranza, sta sottovalutando in maniera clamorosa la crisi drammatica che sta esplodendo e coinvolgendo ampi strati sociali. Una crisi pilotata dalla Banca Centrale Europea e dalla speculazione finanziaria internazionale che non sembra avere vie di ritorno. Se la sinistra non sarà in grado di intercettare il disagio sociale aperto da una crisi economica ben più grave di quella del ’29 che aprì la strada ai grandi totalitarismi di estrema destra (nazismo e fascismo), allora vi sarà uno sbandamento generale che potrebbe sfociare in una pericolosa dittatura. Sta già avvenendo in Grecia dove Alba Dorata, il vessillo di un nuovo partito neonazista, è già cresciuto a dismisura, diventando il terzo partito greco. Di fronte ad un simile e possibile scenario, almeno il Movimento Cinque Stelle apre uno spazio politico che altrimenti sarebbe sicuramente riempito da forze ancora più minacciose. Grillo ha avuto un “passato” da uomo di sinistra: se il suo movimento viene considerato come una forma di antipolitica, la ragione è da trovarsi in una politica o, meglio ancora, in una non-politica i cui effetti devastanti si sono riflessi sul tessuto istituzionale e su quello della stessa società civile. Le “primarie”, che sono da ora in avanti il problema delle due forze ancora centrali dello schieramento politico nazionale, stanno producendo ulteriori incertezze. La figura più controversa in gioco è quella del sindaco di Firenze Matteo Renzi, fautore di un rinnovamento giovanilistico fine a se stesso, puramente strumentale e propagandistico. Un rinnovamento di pura facciata che alimenta in maniera frontale lo scontro, il conflitto generazionale da cui non uscirà nulla di buono. Un’altra forma di liberismo e populismo che si presenta come la più demenziale di tutte quelle apparse sullo scenario politico fino ad oggi, il liberismo anagrafico e neppure meritocratico: un’autentica contraddizione politica priva di qualsiasi sbocco politico convincente.
La questione della fame nel mondo di Umberto Curi
Nelle scorse settimane è stato pubblicato un rapporto della FAO, l’organizzazione delle Nazioni Unite che combatte la persistenza della fame nel mondo. I dati sono agghiaccianti. Dei circa 6 miliardi di abitanti del pianeta, 2,8 miliardi dispongono di poco più di 2 dollari al giorno per sopravvivere; di essi, 1,2 miliardi di persone cercano di sopravvivere con meno di un dollaro al giorno. Più di 300.000 decessi alla settimana sono legati alla povertà. Un essere umano su sei non ha accesso all’acqua potabile. Ogni anno muoiono undici milioni di bambini, per la maggior parte di età inferiore a 5 anni, la metà dei quali soccombe a malattie che potrebbero essere curate (ad esempio, la malaria), se le multinazionali del farmaco fossero costrette ad una politica diversa da quella a cui si attengono. I tassi di mortalità più alti si trovano nell’Africa sub-Sahariana, seguita dall’Asia Sud Centrale. La principale responsabile della denutrizione e della fame sul nostro pianeta è la distribuzione ineguale delle ricchezze. Un’ineguaglianza
negativamente dinamica: i ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri. Nel 1960 il 20% degli abitanti più ricchi della terra disponeva di un reddito 31 volte superiore rispetto a quello del 20% degli abitanti più poveri. Nel 1998 il reddito del 20% dei più ricchi era 83 volte superiore a quello del 20% dei più poveri. Le 225 fortune più grandi del mondo rappresentano un totale di oltre mille miliardi di dollari, ossia l’equivalente del reddito annuale del 47% più povero della popolazione mondiale, circa 2,5 miliardi di persone. Negli Stati Uniti il valore totale netto della fortuna di Bill Gates è uguale a quello dei 106 milioni di americani più poveri. E’ stato altresì calcolato che i redditi percepiti da ciascuno dei primi venti contribuenti americani sono superiori al PIL di molti paesi africani messi insieme. I paurosi squilibri dell’attuale sistema di produzione sono confermati dal fatto che milioni di ricchi consumatori dei paesi industrializzati muoiono a causa di malattie legate all’abbondanza di cibo - attacchi di cuore, infarti, cancro, diabete - malattie provocate da un’eccessiva e sregolata assunzione di grassi animali; mentre i poveri del Terzo mondo muoiono di malattie poiché viene loro negato l’accesso alla terra per la coltivazione di grano e cereali destinati all’uomo. Un dato per tutti: un bambino americano consuma come 422 coetanei etiopi. Nel settembre del 2000, i capi di stato e di governo di 189 paesi, in occasione del Vertice del Millennio presso le Nazioni Unite, sottoscrivono la Dichiarazione del Millennio, impegnandosi a raggiungere entro il 2015 otto Obiettivi di Sviluppo, mediante la devoluzione di una percentuale prestabilita del Prodotto Interno Lordo. A dieci anni dal Vertice, non solo il principale obiettivo che il mondo si era dato in quel consesso - dimezzare il numero delle persone sottonutrite entro il 2015 – non è stato avvicinato, ma la situazione è addirittura peggiorata. In particolare, risulta che l’Italia aveva promesso di aumentare lo stanziamento annuo per gli aiuti allo sviluppo, portandolo allo 0,33 del Pil, e non lo ha fatto. Si era impegnata per un finanziamento di 100 milioni di dollari al Global Fund per la lotta contro Aids e malaria, e non lo ha fatto. Aveva raggiunto la possibilità di azzerare il debito con i paesi africani, e non lo ha fatto. A ciò si aggiunga un dato perfino odioso: la quasi totalità – ben il 92% - degli aiuti italiani ai paesi poveri è condizionata all’uso di prodotti e servizi forniti da aziende italiane. Nel complesso, mentre occupa ancora il settimo posto nella graduatoria dei paesi industrializzati, l’Italia è solo ventunesima nel sostegno allo sviluppo del continente africano. Tutto ciò appare ancora più inaccettabile, se si pensa che la produzione agricola mondiale potrebbe fornire un minimo di 2.800 calorie pro capite ogni giorno a 12 miliardi di persone, vale a dire il doppio della popolazione del pianeta.
La politica dell’illimitato di Bruno Moroncini
Recentemente è stato pubblicato un libro collettaneo dal titolo tanto accattivante quanto potenzialmente ingannevole: Quale filosofia per il partito democratico e la sinistra (Mimesis 2012). Non v’è dubbio che se i quadri del partito democratico leggessero qualcosa che non si riduca soltanto alla mazzetta dei giornali, al romanzo alla moda e al libro del compagno dirigente, sarebbe meglio per noi e per loro: è vero che i tempi di Critica marxista e del Contemporaneo sono tramontati per sempre, ma un po’ di buona filosofia e soprattutto di saggistica gli potrebbe fare solo bene. Senza teoria un partito di sinistra non va da nessuna parte e accontentarsi, come accade, della adorniana Halbbidung (semicultura) con la scusa che tanto l’avversario è ancora più incolto e sboccato di noi vuol dire sottovalutarlo e non prendere sul serio i saperi complessi e articolati che esso usa per continuare a governare. Senza mettere minimamente in dubbio la buona fede e la serietà di chi ha voluto partecipare all’operazione politico-intellettuale, il rischio insito nella stessa formulazione del problema - quale filosofia per il partito democratico e la sinistra - è quello di far del male alla filosofia ridando fiato ad un antico equivoco: che la filosofia in quan-
to scienza dei principi e delle cose ultime si senta investita dell’obbligo di dettare la verità alla politica intesa come una mera arte o tecnica, oltre tutto solo del possibile, mai e poi mai del necessario e/o dell’impossibile. La filosofia in questione non sarebbe altro che filosofia politica, quella branca cioè dell’enciclopedia filosofica che prova ad applicare la verità onto-teo-logica alla regione delle forme del vivere in comune rette dalla contingenza e dalla relatività degli interessi e dei desideri. Il paradosso sta nel fatto che buona parte della filosofia contemporanea debitamente citata d’altro canto in molti dei saggi che formano il libro ha preso posizione (Badiou e Ranciére più di chiunque altro) contro la filosofia politica a favore della tesi che la politica debba essere riconosciuta come una procedura di verità, per dirla con Badiou, in quanto tale, del tutto indipendente dalla verità propria della filosofia. Alla filosofia sono possibili due cose: in quanto “cura del sapere con il pensiero” o decostruisce pretese di verità per mostrarne il carattere infondato o costruisce concetti per restare fedele a quelle verità che si producono nella politica, nell’arte, nelle scienze, nell’amore e nei saperi in generale. La filosofia non è cultura, è la sua critica. Ogni difesa del patrimonio culturale è, come diceva Benjamin, oblio della massa senza nome che ha contribuito controvoglia a edificarlo e difesa del dominio che su quell’edificio poggia la propria legittimità. Forse nella politica italiana più recente si sta facendo strada una verità che la filosofia dovrebbe fare propria: dico ‘forse’ perché in casi come questi il rischio è di essere smentiti alla velocità del fulmine. Ma il filosofo militante, simile al fante prussiano di cui parlava Kant, azzarda, come è suo dovere, il passo, rischiando consapevolmente di cadere come Talete giù nel fosso. La sfida che Matteo Renzi sta portando alla dirigenza del partito democratico e che ha già costretto quest’ultima a modificare addirittura lo statuto per cambiare la norma che prevedeva la coincidenza fra la figura del segretario politico e il candidato premier alle elezioni politiche potrebbe alludere, al di là degli aspetti più meschini e contingenti della lotta politica e anche delle capacità del contendente di essere all’altezza di quanto consapevolmente o meno sta innescando (ho già scritto su Inschibboleth che i riformatori italiani si sono spesso rivelati dei cialtroni), ad un mutamento nell’idea stessa di politica. Quel che colpisce nella reazione rabbiosa da parte della dirigenza democratica e soprattutto dei suoi quadri intermedi di fronte al modo di condursi dello sfidante (uso della parola d’ordine della rottamazione, presenza sul territorio, attacco frontale alla dirigenza, al ‘quartier generale’) è la sorpresa per uno stile di lotta politica del tutto estraneo alle tradizioni comuniste-staliniane che nonostante tutto continuano a informare i comportamenti e le convinzioni più profonde del corpo del partito democratico. Non che fino a adesso lo scontro interno al partito non ci fosse e che, soprattutto a partire dallo scioglimento del partito comunista, non fosse ben visibile; il punto è che esso veniva affrontato e risolto sempre all’interno del partito e soprattutto attraverso una procedura che prevedeva l’elisione della ali estreme e la vittoria del centro, di chi cioè fosse stato in grado di offrire la miglior fomula di compromesso (di questa pratiche ne sanno qualcosa, ad esempio, Pietro Ingraio e Giorgio Napolitano perennemente sconfitti dal cor-
po molle del partito che, in perfetto stile nicciano, compattandosi diventava forte ed esprimeva ogni volta la segreteria; appartiene da questo punto di vista o all’eteregenesi dei fini o alla nemesi storica che solo da una posizione esterna, cioè da quella di Presidente della Repubblica, Napolitano abbia potuto finalmente costringere il suo partito ad adottare la sua linea politica). Renzi non mira, perlomeno fino a quando non avrà vinto perché a quel punto è prassi che si conceda agli sconfitti l’onore della armi, al compromesso, non tenta di occupare il centro (lo farà se sarà il candidato premier, ma quella è un’altra storia). Vuole vincere dalla posizione estrema e infatti fra lui e Bersani non è possibile nessuna terza via, nessun compromesso (Vendola è in realtà una candidatura di appoggio a Bersani, non un terzo nome): non accadrà come spesso è accaduto in tante situazioni che si chieda ai contendenti eccessivamente contrapposti di fare un passo indietro a favore di una candidatura che rappresenti tutti (overossia nessuno). Questa volta le posizioni contrapposte non si elideranno a vicenda e non sbucherà come il coniglio dal cilindro del prestigiatore il nome che metterà d’accordo tutti (e cioè nessuno). Coloro che hanno tentato, fallendo, di riformare la politica italiana hanno dovuto sempre tentare di sparigliare il gioco: secondo lo schema classico degli ‘Homines novi’ o dei rivoluzionari si sono chiamati fuori dal gioco delle differenze e delle opposizioni sistematiche, che cioè fanno sistema e ne permettono la riproduzione e la continuità; hanno fatto leva su di un punto che per essere posizionato allo stesso tempo dentre e fuori del sistema da combattere permettesse la sua decostruzione. Hanno dovuto oltrepassare il limite che segna i confini legittimi del sistema perché esso si aprisse e si predisponesse al cambiamento. Nella storia repubblicana due sono stati i tentativi di sparigliare il gioco e aprire la politica italiana, quello di Craxi sul fronte della sinistra e di Berlusconi su quello della destra. Entrambi falliti per la forza della resistenza del sistema e soprattutto per i limiti teorici e umani dei protagonisti. Mai però un simile tentativo si era dato nella vera e unica sinistra italiana, quella erede nel bene e nel male del partito comunista (l’operazione di Veltroni del partito a vocazione maggioritaria non ha mai visto la luce veramente perché il suo protagonista non è mai riuscito a pensarsi come un estremo, voleva avere il partito dietro di sé e alla fine i compromessi lo hanno portato alla sconfitta). Quale verità sembra farsi strada in quelle che possono apparire (e in gran parte sono) come delle mere beghe di partito? Quale verità della politica che la filosofia dovrebbe fare propria e rilanciare? Proverò a dirlo utilizzando le tesi sostenute da Jean- Claude Milner in un libro di qualche anno fa (2003) che gli editori e gli intellettuali italiani si sono ben guardati dal tradurre gli uni e dal discutere gli altri, Les penchants criminels de l’Europe démocratique (Le inclinazioni criminali dell’Europa democratica). La società moderna - questa la tesi fondamentale del libro - è illimitata, è l’illimitato stesso. Tutto ciò che permetteva di trattare la società umana come un tutto chiuso e limitato, composto a propria volta da cerchie più piccole ma altrettanto identificabili perché dotate di confini certi
e stabili, salta nella modernità. La società moderna assomiglia agli insiemi inconsistenti di cantoriana memoria, ad insiemi cioè non unificabili, che non si possono contare per uno. Insiemi illimitati i cui elementi si possono contare singulatim, uno a uno, ma mai come se costituissero una unità finita e circoscritta. In verità gli insiemi illimitati non sono né finiti né infiniti, non formano un tutto limitato, ma nemmeno si confondono con il concetto di infinito attuale, non prendono surrettiziamente il posto di Dio. Si potrebbe definirli, utilizzando, come fa Milner, una terminologia lacaniana, i ‘pastout’, i ‘non tutto/i’, il cui modello è la lista delle conquiste di Don Giovanni che, come è noto, in Spagna ‘son già mille e tre’. Il problema è che questa lettura della società moderna come l’illimitato stesso, coniata in larga parte sulle descrizioni che da Tocqueville in poi sono state date della democrazia americana come di un trionfo dell’immanenza e dell’orizzontalità della società su tutte le vecchie forme di controllo trascendenti e gerarchizzanti, va in rotta di collisione con il concetto di politica elaborato dalla tradizione occidentale: Milner fa i nomi di Tucidide e Aristotele. La teoria politica europea, la teoria della politica elaborata dalla filosofia politica sulla scorta della storiografia, è una teoria dei tutti limitati. Da qui due modi di intendere-praticare la politica: una europea tendente a contrapporre la politica alla società, l’altra americana a farle confluire fino all’indistinzione. Se la soluzione americana rischia di riprodurre il teologico-politico attribuendo alla società, come ha fatto notare Derrida (in Stati canaglia), tutte le caratteristiche del Dio aristotelico - essere causa e fine di tutto, ciò da cui tutto deriva e ciò a cui tutto è ricondotto -, quella sperimentata dall’Europa democratica, dall’Europa uscita dalla rivoluzione francese, è però tale che, impegnata com’è a ridurre la società a un tutto, quando le capiti d’imbattersi nelle concrete manifestazione del pastout, dell’illimitato, non le resti altra via che lo sterminio (è per Milner il caso degli ebrei; ed ecco le inclinazioni criminali dell’Europa democratica: il ricorso inevitabile alle camere a gas e ai forni). Non so se l’opposizione individuata da Milner fra una politica europea centrata sulla regola della maggioranza come luogotenente dei ‘tutti’(Rousseau) e una americana fondata al contrario su quella delle minoranze, dette al plurale come conviene al pastout, sia giusta. Quel che è certo è che la verità della politica moderna è un’oscillazione fra limite e illimitato, fra tutto e pastout, consiste, si potrebbe dire, in una costante illimitazione del limite (vedi il bel libro di Carmelo Colangelo Limite e malinconia). Era forse questa la verità che faceva capolino nelle affermazioni di qualche leader dei DS quando auspicava la trasformazione del vecchio partito comunista in un partito all’americana, in un partito leggero? Certo quelle affermazioni denotavano piuttosto cedimento alla peggior ideologia americana (quella messa in berlina da Alberto Sordi e Renato Carosone) che assunzione cosciente del potere dell’illimitato. Resta vero che la questione è quella: basta d’altronde ascoltare il linguaggio dell’attuale dirigenza del partito democratico, simile in questo a quella che affonda le sue origini nella prassi staliniana dopo la fine della nep, per capire l’urgenza del problema. La politica è katechon, messa a freno, trattenimento delle spinte all’illi-
mitato che provengono dalla società moderna; la politica è fatta per unire, non per dividere, per smussare il conflitto, non per farne la leva delle trasformazioni; se Renzi è colpevole lo è perché semina zizzania, incita all’odio, se la prende coi vecchi, perché lavora per spaccare non per ricomporre. Forse Matteo Renzi non è all’altezza del compito, ma la sua sola presenza pone all’ordine del giorno della sinistra italiana la questione della trasformazione della politica dal primato del limite e dell’unità a quello dell’illimitato e del conflitto. E quindi la domanda è: non ‘quale filosofia per il partito democratico e la sinistra’ ma ‘quale politica per il partito democratico e la sinistra che la filosofia possa fare sua elaborandone il concetto’.
Tra liturgia e disincanto: la profanazione del dispositivo democratico di Luciana Cadahia
1. Il presente contributo parte da una certa inquietudine, da cui scaturisce immediatamente una domanda: in che misura la reinterpretazione degli elementi della tradizione teologico-politica ci aiuta a pensare la politica stessa? Questa domanda la formuliamo a partire dal evento democratico stesso, che di solito viene associato all’idea di un proceso di secolarizzazione attraverso il quale gli uomini sono
riusciti a liberarsi da un potere trascendente e dai dogmi religiosi che lo sostenevano. Con il venir meno delle fondamenta religiose la democrazia non sarebbe altro che la possibilità di uno sviluppo di relazioni immanenti di potere. Attraverso questa serie di relazioni gli uomini dovrebbero organizzarsi internamente, dando al governo una precisa legittimità. La democrazia sarebbe, quindi, la forma d’esercitazione del potere politico per eccellenza. Questo determinerebbe che, nei momenti di conflitto popolare, debba inevitabilmente essere presente, garantendo una negoziazione costante. Va però anche tenuto in considerazione il fatto che si possa ottenere l’effetto contrario, ovvero, la possibilità di una depoliticizzazione che, a sua volta, funzioni paradossalmente come una forza politica che pretenda istituire e mantenere un determinato ordine, come se fosse una democrazia liberale. Com’è quindi possibile che una forma di potere che voglia liberarsi dei dogmi della religione sia riuscita a neutralizzare la politica stessa? Credo che la chiave che permette di comprendere pienamente questo processo risieda nell’evitare una scissione troppo netta e radicale tra politica e religione. A questo punto sarebbe il caso di chiederci se l’esperienza della democrazia non dia vita necessariamente ad una nuova teologia politica. Per dare una risposta a questa questione si partirà da alcune riflessioni di Jaques Derrida e Giorgio Agamben, riguardanti il legame tra violenza e diritto, così da comprendere l’origine teologica del pensiero politico contemporaneo. 2. Lo spettro della teología politica non ha smesso di aggirarsi continuamente per tutto il XX secolo. Nel 1922, Carl Schmitt proclama che la teología politica è sopravvissuta al processo di secolarizzazione occidentale, dato che “tutti i concetti decisivi della dottrina moderna dello Stato sono concetti teologici secolarizzati”. Questo si può vedere chiaramente nel suo dibattito con Erik Peterson e Hans Blumenberg. Sebbene sostenessero dottrine opposte, questi due pensatori condividevano la pretesa di interrompere il vincolo tra teologia e politica. Il primo desiderava manenere due sfere indipendenti in modo tale che la politica, separata dalla teologia, conservasse un valore in se stessa. Il secondo, al contrario, cercava di eliminare qualsiasi vestigio di teologia nella politica, per rendere evidente la rottura con il passato religioso e per affermare il trionfo del lessico scientifico della politica. Pur fortemente contrario a queste due posizioni, Schmitt dimostra chiaramente il suo interesse circa lo studio del modo in cui la forma politica e giuridica della Chiesa si è trasferita alla sovranità statale e alla terminologia giuridica. In altre parole, circa il modo in cui lo spazio del sacro si era trasferito dalla religione all’ambito della sovranità secolare. Schmitt non concorda con la diagnosi di questi due pensatri, soprattutto perché aveva intuito che le pretese di porre fine alla teologia politica da parte della teologia non erano che un altro modo di esercitare la politica, un modo che de-legittima lo Stato come istanza centrale, sovrana, totale, e che mette in discussione la società omogenea e il popolo
che la sostiene. A sua volta, la scomparsa della teologia implicava automaticamente la scomparsa della politica. In ultimo termine, la disputa tra questi due pensatori dipendeva dalla loro diversa concezione della politica. Mentre per Schmitt la teologia politica è un “processo di transvalorazione que nella Modernità trasforma alcuni concetti di matrice teologica in categorie giuridico-positive, coincidendo di fatto con il movimiento di secolarizzazione (sebbene non quello di laicizzazione assoluta senza “resti mitico-teologici”)”, per Peterson invece, proseguendo con la lettura di Ambrogio e Agostino, è inerente al monoteismo, ovvero, a una “sorta di cortocircuito logico-storico che inserisce una terminologia politica (il monoteismo) all’interno del lessico religioso, in funzione di una giustificazione dell’ordine esistente o, più semplicemente, la rappresentazione teologica del potere”. Di qui in avanti seguiremo l’interpretazione di Schmitt, dato che ci permette pensare in che modo lo spazio del sacro continua ad essere presente nel discorso politico contemporaneo, ovvero nelle democrazie liberali. 3. Sono stati soprattutto Weber e Foucault ad aprire uno spazio a partire dal quale fosse possibile rendere intelligibile questa problematica. Weber si sforzó di mostrare, da una parte, fino a che punto la nozione di disciplina come forma di esercizio del potere sulla condotta degli uomini fosse strettamente vincolata alla scomparsa del germe religioso dell’ascesi. E dall’altra, in che modo entrambi i fenomeni abbiano posto le basi per lo sviluppo dell’etica capitalistica nei termini di una disgregazione sociale in sfere d’azione autoreferenziali e incapaci di produrre una sintesi che potesse articolare un unico ordine politico stabile. In linea di continuità con questa diagnosi, Foucault mostrò i difetti che la teoria della sovranità mostrava quando cercava di pensare le forme di potere che avevano cominciato a regolare le condotte dell’uomo nella modernità. In questo senso, grazie ai suoi lavori sul problema della governabilità durante il Cristianesimo e la modernità, non solo individuò i presupposti ormai caduchi di tale teoria, ma ristrutturò anche un campo di intellegibilità a partire dal quale si potesse pensare in che modo la gestione della vita dell’individuo e della popolazione si fosse trasformata in oggetto della politica. La nota caratteristica di entrambe le letture risiede nel fatto che, seppure sarebbero disposte ad accettare il presupposto di una progressiva ritirata dell’assolutismo teologico e della forma di un potere centrale che ordini la totalità dello spazio sociale, tuttavia, avrebbero contribuito all’elaborazione di una lettura disincantata di questo processo. Se proseguiamo queste riflessioni, il disincanto del mondo moderno sembrerebbe aver provocato, la ritirata dei concetti e dei problemi religiosi dal pensiero politico –nei termini di una progressiva deteologizzazione della politica- e, dall’altra, l’emergere di una nuova logica di governo immanente segnata dalla retorica dell’economia, nei termini della gestione della vita degli uomini come utili del processo di produzione capitalistica. La conclusione alla quale sembra
portare questa diagnosi è che i nuovi gestori della retorica economicista avrebbero firmato il certificato di defunzione della teologia politica e sepolto per sempre lo stigma della religione entro il conflitto tra gli uomini. Adesso si tratterebbe di pensare l’intrallacciamento del tessuto sociale in un altro modo, per cui il pensiero politico adotterebbe un atteggiamento che, o possa accompagnare tale processo –attraverso la confezione di modelli risolutivi- oppure cerchi di sviscerare i dispositivi che mantengono salda e unita questa logica. La novità che studiarono pensatori come Weber o Foucault risiede quindi nel fatto che la prassi economica è stata incorporata al terreno della politica nei termini di un dispositivo disciplinare destinato a formare, regolare e orientare la vita degli uomini sia nella sua dimensione collettiva sia in quella individuale. In questo modo, i rapporti economici si sarebbero estesi all’azione degli uomini come oggetti da gestire, in altre parole, utili disponibili.
4. Se si accettano queste affermazioni diventa plausibile l’idea che sia stato il dispositivo politico ad estendersi nell’economia; tuttavia ci resta ancora da pensare, da una parte, in che modo questo processo si articola con la teologia del laicismo, cioè con un processo di secolarizzazione a partire dal quale certi aspetti religiosi vengono traslati al terreno della democrazia. E, da un’altra parte, se è conveniente o meno concepire questo fenomeno come un processo di neutralizzazione della politica, cioè un processo di de-politicizzazione che ha reso possibile l’emergere dell’ambito economico come quella logica a partire dalla quale la condotta umana viene guidata. Per delucidare questo problema è necessario fare innanzitutto un chiarimento. Da una parte, troviamo la tradizione della filosofia politica e della teoria moderna della sovranità, il cui oggetto di studio è stato sempre lo Stato inteso come un potere trascendente che ordina la totalità del sociale. E, da un’altra parte, la biopolitica moderna, a partire dalla quale si è studiato in che modo i poteri immanenti regolano la vita degli uomini. Si potrebbe dire che mentre Schmitt si colloca in questa prima linea, i lavori di Weber e di Foucault apparterrebbero alla seconda. In un certo senso la differenza tra uno e l’altro paradigma si fonda sul diverso modo in cui comprendono il processo di secolarizzazione. Giorgio Agamben è uno dei pensatori attuali che ha cercato di conciliare entrambe le questioni, riportando il problema teologico della sovranità sotto la luce della logica biopolitica. Nel testo Il regno e la gloria, Il procedimento argomentativo centrale che gli permette di sostenere questa tesi si basa sull’affermazione secondo cui il successo dell’economia –in quanto dispositivo che ordina la vita degli uomini-, non affonda le sue radici nel processo di secolarizzazione, bensì nelle stesse origini del Cristianesimo. In questo modo, l’origine teologica dello Stato sovrano moderno non sarebbe che l’incorporazione di una oikonomía già presente nel Cristianesimo, cioè una forma di potere intesa come gestione della vita degli uomini.
Dato che rimane esclusa da questo schema la possibilità dell’azione politica, la vita degli uomini si sarebbe ridotta a una nuda vita sottomessa alla logica di un Leviatano. In questo modo, Agamben giunge alla conclusione che l’origine teologica dello Stato sovrano moderno non sarebbe se non l’incorporazione di una oikonomía già presente nel Cristianezimo, ovvero una forma di potere biologizzante che avrebbe gestito la vita degli uomini come una nuda vita, incapace di portare a compimento un’azione politica. Il difetto che troviamo in questa prospettiva, non risiede solamente nella problematica accettazione della tesi che l’oikonomía della quale parlava Aristotele si troverebbe in una linea di continuità con l’esperienza economica attuale. Oltre a questo, esiste senza dubbio una visione essenzialista-degenerativa della politica, nel senso che in un determinato momento la politica esce fuori di sé, tradisce la sua stessa essenza e cade vittima dell’oikonomía. Questa idea ripete i difetti della teoria del contratto sociale, nel senso che ha bisogno di ricorrere a un’origine che la fondamenti. Mentre in questa teoria era necessaria la credenza in uno stato di natura precedente il contratto sociale come ricorso esplicativo che la dotasse di un senso, nel caso della visione essenzialista-degenerativa è necessaria la credenza che sia esistita una polis ideale posteriormente contaminata. Se l’origine possiede una priorità segreta che determina il presente, ogni azione politica che ignori il lavoro genealogico realizzato da Agamben è condannata al fallimento. Non sarebbe che una nuda vita che si oppone chisciottescamente a uno Stato che l’ha modellata e definita come tale. In buona misura, i difetti che troviamo nella lettura realizzata da Agamben risiedono nel presupposto che la logica politica moderna sia stata segnata dal trionfo di un’economia che si sarebbe servita esternamente della politica per conservare le sue possibilità di espansione. Perciò diventa necessario pensare che accade se si accetta che il valore attribuito all’economica funziona come una teologia politica all’interno stesso di un determinato dispositivo politicodemocratico. 5. Orbene, se si stabilisce una connessione tra i due paradigmi di analisi indicati in precedenza, cioè tra l’origine teologica dei concetti politici e l’estensione dell’economia come la logica di mercato che tenta di regolare le forme di vita nella cultura occidentale, è possibile pensare un certo carattere teologico nell’esperienza dell’economica, nel senso seguente. Se si parte dalle riflessioni di Walter Benjamin, nelle quali afferma che il capitalismo non rappresenta solamente, come un Weber, una secolarizzazione della fede protestante, bensì un fenomeno religioso, è possibile definire la religione come quell’istanza di potere che sostrae cose, luoghi, animali o persona dall’uso comune e li trasferisce a una sfera separata dalla quale si presuppone che emana la forza della coesione sociale. In questo modo, non solo non vi è religione senza separazione, ma ogni separazione mirata a una riunificazione più alta e completa contiene o conserva in sé un nucleo autenticamente religioso. Questa separazione divide il sacro dal profano, ovvero ciò che è inaccessibile
da ciò che è di uso comune, facendo del dispositivo politico una sorgente occulta del potere. In questo senso, sembrerebbe che il mercato si presenti come quell’istanza del sacro che riunisce in una totalità di senso gli uomini e la merce, collocando gli uni e gli altri come utensili disponibili per il consumo della vita. Detto in altre parole: il dispositivo politico si cela nell’economia e come economia, estendendo il suo potere alle forme di vita contemporanea. Il mercato si istaura come qull’ambito di rapporti inaccessibile e trascendente, che attraverso la coesione totalizza i vincoli tra gli uomini e fa del consumo l’unica esperienza del sacro. Se profanare significa riportare all’uso comune ciò che era stato separato nella sfera del sacro, è necessario, paradossalmente, dissacrare la lettura monodimensionale che afferma la democrazia liberale di mercato come l’unica esperienza possibile. Analizzare il discorso che si articola all’interno delle democrazie liberali, che otorga loro un senso e un fondamento, permette di costatare che questa determinata esperienza non è per nulla libera dalla storica lotta simbolica per vertebrare discorsivamente un ordine politico. Per questa ragione, invece di inquadrare questo processo come il risultato necessario di un esito naturale, come se il modello delle democrazie liberali fosse l’unico terreno semantico a partire dal quale fosse possibile trattare i problemi, sembra invece conveniente avvicinarsi a esso nei termini di una strategia discorsiva che cerchi di delimitare in che modo si articola il sociale. Da qui deriva la necessità di mantenere una certa distanza rispetto all’idea di un “modello originale” di democrazie, chiaramente formulato, al quale dovremmo adattarci, oppure precisarlo meglio. Invece di considerare le democrazie liberali come un insieme di idee o concetti chiari e precisi, il cui senso può essere perfettamente determinato per esprimere l’organizzazione di una comunità politica data, è conveniente avvicinarci a questo discorso nei termini di un dispositivo, ovvero considerarlo come un insieme di attività e meccanismi che hanno la finalità di provocare un determinato effetto sulla condotta di chi è assoggettato da questo discorso. Non consideriamo che il discorso in generale, e quello delle democrazie liberali in particolare, sia lo specchio fedele di una realtà data. Al contrario, concepiamo il discorso come un modo caratteristico di produzione di significato. Di quello che si tratta, allora, è di studiare come ciò che sembra necessario all’interno di un determinato discorso (dispositivo) democratico è in realtà il risultato di un’assenza di problematizzazione. Detto in altro modo, profanare la teologia inerente alle democrazie liberali potrebbe consistere precisamente nel farle dire un’altra cosa rispetto alla parola democrazia.
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Recensione Etica e politica. Modelli a confronto, a cura di G. Cantillo e A. Donise, Guida, Napoli 2011, pp. 225 Questioni di etica contemporanea, a cura di S. Achella, G. Cantillo e A. Donise, Guida, Napoli 2011, pp. 156 L’interrogazione filosofica sull’intreccio tra etica e politica si confronta con una doppia sfida. Da una parte deve sottrarsi all’urgenza del quotidiano, alla ristrettezza della cronaca; dall’altra deve mantenere l’aderenza al piano dell’esperienza vissuta, della storia, della prassi, cercando nuove vie per attraversare tutte queste dimensioni senza distorcerle. I due volumi a cura di Giuseppe Cantillo, Anna Donise e Stefania Achella rispondono a tale doppia esigenza dando vita ad uno spazio di dibattito ampio e approfondito e al contempo sensibile alla plurivocità dell’esperienza morale. Il primo volume è il frutto di un progetto di ricerca coordinato da Giuseppe Cantillo dal titolo Etica e politica: modelli a confronto. La tradizione del diritto naturale e il pensiero contemporaneo. La scelta di mettere a confronto “modelli” etici testimonia della necessità di individuare strutture teoriche riconoscibili, coerenti, che tuttavia rilancino il dibattito piuttosto che arrestarlo su una soluzione unica. I saggi attingono alle tradizioni filosofiche del giusnaturalismo, dello storicismo, del kantismo e neo-kantismo per illuminare la questione dell’etica e della sua responsabilità politica da prospettive non esclusive, senza richiudersi su una risposta definitiva. Etica e politica si delineano in questo caleidoscopio di posizioni come poli capaci di generare una tensione sempre rinnovata a partire dalla «spesso tragica opposizione tra ethos e kratos, tra morale naturale e potere/forza» evocata da Cantillo (G. Cantillo, La politica tra ethos e kratos, p. 12). La loro disgiunzione, che implica una separazione tra «etica dei principi ed etica dei risultati conduce [...] a una visione dicotomica dell’azione» (F. Totaro, Condizioni per la ricchezza etica della politica, p. 143), ovvero a una scissione che penetra sin nell’essere stesso dell’uomo. La domanda che incrocia i vari mo-
delli è infatti una domanda antropologica. Quale soggetto è in gioco nell’agire politico e nelle scelte etiche? Quali forme di razionalità gli sono adeguate? Di quali modi della libertà è portatore? L’acuta analisi del paradossale «fatto della libertà» come tratto identificativo dell’esperienza morale umana sulla scorta del pensiero kantiano e della sua eredità (A. Donise, Kant e l’origine del dovere; S. Wagner, Etica e politica in Friedrich Adolf Trendelenburg; M. Anzalone, Libertà, coscienza e legge morale in Karl Heinrich Heydenreich) mostra efficacemente come il dovere etico e i conflitti che da esso derivano forniscano lo spazio necessario ad integrare la doppia appartenenza dell’uomo al regno del sensibile e dell’incondizionato. Su questa scorta anche la normatività della politica smette di essere un elemento estrinseco e si pone come esperienza cruciale dell’umano, nelle sue forme negative (M. Manfredi, Il disconoscimento pubblico tra etica e diritto; R. Diana, In difesa (parziale) dell’ipocrisia) e nella positiva costruzione di un’identità pratica (S. Achella, Identità pratica e integrità umana). In particolare, il riferimento all’integrità della persona e all’obbligazione verso la propria norma interna offre una chiave per leggere insieme l’istanza di universalizzabilità dell’etica e l’aderenza politica alle strutture storiche. In tal modo il dibattito sull’identità nazionale e sovranazionale e sulla Costituzione Europea (R. Peters, La Costituzione Europea tra passato e futuro) trova la sua giusta collocazione come prolungamento del problema dell’identità individuale, trasformandosi in un dibattito sulle fonti di legittimazione delle strutture politiche. Il guadagno teorico del mutuo rispondersi delle analisi critiche raccolte nel volume consiste in un ampliamento della prospettiva che sottrae il nesso etica-politica alle urgenze del dibattito quotidiano e apre a una riflessione lucida, capace di farsi carico delle esigenze del presente insieme alla ricca eredità teorica delle diverse tradizioni storiografiche. In Questioni di etica contemporanea la questione della fondazione dell’etica viene ulteriormente rilanciata. Il movente unitario della riflessione può essere rintracciato nell’analisi della «crisi dell’umano» indicata da Miano come crisi della speranza (F. Miano, Domande sull’uomo e responsabilità umana, p. 90) e nella connessa proposta di un «nuovo umanesimo» imperniato sulle nozioni di responsabilità e comunità (R. Bonito Oliva, Per un’etica allargata). Obiettivo della ricerca non è un nuovo soggetto, ma l’apertura di uno spazio in cui il soggetto umano riattinga a se stesso in nuove forme, attraverso filtri ideali e universalizzabili. Una possibile risposta a questa esigenza viene proposta da Cantillo sulle tracce di Hartmann attraverso il «recupero dell’oggettivismo assiologico» (G. Cantillo, Per un recupero dell’ontologia, p. 14) che esige una comprensione a priori del valore stesso. D’altra parte si delinea la risposta correlativa di un’etica materiale dei valori di matrice scheleriana (M. Lenoci, Il materiale e il formale nell’etica) che cerca di sviluppare una fenomenologia dell’esperienza morale. In realtà, il saggio di Cantillo aiuta a conciliare apriori e storia . È la persona concreta a doversi far carico della mediazione tra l’ideale e il materiale, tra le condizioni storiche della scelta etica e l’assolutezza dei valori che la ispirano. È la persona a farsi portatrice di quella razionalità non «autosufficiente,
autoreferenziale, astratta e purificata, ma al contrario [...] rimessa all’“essere” e alla “vita”» invocata da Crispini (I. Crispini, La “fragilità della morale”, p. 44) come la sola che può rendere conto dell’interazione umana, della crescita di una comunità, del vincolo della responsabilità reciproca. Il percorso dell’analisi si riavvia così attraverso le tappe successive di definizione delle prerogative e capacità della persona attraverso le figure del perdono (P. Colonnello, Alcune osservazioni su oblio e perdono nell’ermeneutica contemporanea) e della spiazzante nozione di akrasia (A. Donise, Brevi note sulla debolezza della volontà). Questa nozione viene utilizzata per mettere efficacemente a tema la pluralità di voci che costituiscono la vita etica e influenzano l’agire del soggetto. L’akrasia emerge così non come mera debolezza, ma come segno ineludibile dell’asimmetria interna tra ragione, sentimento e volontà con cui ciascuno di noi è alle prese e che costituisce la necessaria sfida per definire se stessi, per sviluppare – fenomenologicamente – il proprio “stile”. Lo sviluppo della persona come soggetto morale avviene dunque attraverso un costante dialogo interno dai risultati non scontati e allo stesso tempo attraverso l’interazione con altri. Il «terreno di interferenza» evocato da Bonito Oliva contro l’appiattimento della semplice «pubblicità» (R. Bonito Oliva, Per un’etica allargata, p. 31) non è tuttavia solo armonica vita di comunità. Il saggio di Achella sul modello proposto dalla teoria dei giochi mostra piuttosto la centralità delle situazioni di conflitto e indaga la possibilità di «presupporre un sottofondo di interessi convergenti» (S. Achella, Ragione economica e ragione etica, p. 101) che ultimamente implica l’allargamento del concetto di ragione. In essa convergono elementi della tradizione, dell’istinto, dei simboli, che influiscono in maniera decisiva sul processo decisionale, pluralizzando l’idea stessa della razionalità. Come mostra Anzalone ripercorrendo la proposta apeliana, è possibile ed auspicabile differenziare il concetto di ragione per far spazio a una fondazione non deduttiva dell’etica. Pluralità della ragione significa in un certo senso pluralità delle possibilità fondative. La ricchezza del volume risiede appunto nel non delineare un modello unico, una proposta teoretica assolutizzante, ma nell’individuare i necessari interlocutori dell’etica. La riflessione morale emerge così non come la formulazione più o meno dogmatica di risposte efficaci a circoscritti quesiti umani, quanto come la costruzione di uno spazio teorico in cui possa prendere vita un dibattito stratificato, in costante interazione non solo con le istanze politiche, ma anche con quelle dell’economia, della storia, del diritto. Il volume affronta in pieno e dà risalto a tale pluralità di voci contribuendo così a rivivificare la vocazione primaria della filosofia stessa: individuare strutture e modelli teorici non come cristallizzazioni dell’opinione, ma come tracce per lo scambio sempre aperto tra soggetti, tra comunità, tra discipline. Alice Pugliese