Appunti sul presente

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Numero 10, (Nuova serie) Aprile-Maggio 2013


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Direzione: Elio Matassi - Vannino Chiti - Marco Filippeschi - Carmelo Meazza

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“Avevamo la luna”. Una riflessione sui rapporti tra il centrosinistra e la rete di Elio Matassi

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La musica di Lady Gaga di Enrico Garlaschelli

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Coordinamento generale del sito e della web TV: Marco De Pascale

Adesioni Massimo ADINOLFI (Univ. di Cassino), Claudia BARACCHI (The New School for Social Research, New York); Massimo BARALE (Univ. di Pisa), Giuseppe BEDESCHI (Univ. La Sapienza, Roma), Luigi BERLINGUER (Univ. di Siena), Enrico BERTI (Univ. di Padova, Accademia dei Lincei), Franco BIASUTTI (Univ. di Padova), Remo BODEI (University of California (Los Angeles)), Almut Sh. BRUCKSTEIN (Ha’atelier, Berlino/Gerusalemme), Massimo CACCIARI (Sindaco di Venezia, Univ. San Raffaele, Milano), Giuseppe CANTILLO (Univ. di Napoli), Carla CANULLO (Univ. di Macerata), Andrea CAUSIN (Esecutivo PD), Stefano CECCANTI (Univ. La Sapienza, Roma), Mauro CERRUTI (Univ. di Bergamo, Deputato), Pierpaolo CICCARELLI, (Univ. di Cagliari), Umberto CURI (Univ. di Padova), Gianfranco DALMASSO (Univ. di Bergamo), Antonio DA RE (Univ. di Padova), Roberta DE MONTICELLI (Univ. San Raffaele, Milano), Pietro D’ORIANO (Univ. La Sapienza, Roma), Massimo DONA’, (Univ. San Raffaele, Milano), Adriano FABRIS (Univ. di Pisa), Maurizio FERRARIS (Univ. di Torino), Giovanni FERRETTI (Univ. di Macerata), Marco FILIPPESCHI (Dirigente nazionale PD, Sindaco di Pisa), Pierfrancesco FIORATO (Univ. di Sassari), Massimo FIORIO (Univ. di Torino), Vittoria FRANCO (Senatore, Univ. di Pisa), Fabrizia GIULIANI (Univ. di Siena), Sergio GIVONE (Univ. di Firenze), Alfonso M. IACONO (Univ. di Pisa), Giovanni INVITTO, (Univ. di Lecce), Marco IVALDO (Univ. di Napoli), Antonello LA VERGATA (Univ. di Modena), Claudia MANCINA (Univ. La Sapienza, Roma), Sandro MANCINI (Univ. di Palermo), Aldo MASULLO (Univ. di Napoli), Eugenio MAZZARELLA (Univ. di Napoli), Carmelo MEAZZA (Univ di Sassari), Alberto MELLONI (Univ. di Modena), Virgilio MELCHIORRE (Univ. Cattolica, Milano), Gaspare MURA (Pontificia Università Urbaniana), Silvano PETROSINO (Univ. Cattolica, Milano), Andrea POMA, (Univ. di Torino), Mauro PONZI (Univ. Romauno), Alfredo REICHLIN (Presidente del Cespe), Luigi RUSSO (Univ. di Palermo), Leonardo SAMONA’ (Uni. di Palermo), Gennaro SASSO (Univ. La Sapienza, Roma, Accademia dei Lincei), Aldo SCHIAVONE (Univ. di Firenze), Lucinda SPERA (Univ. di Siena), Tamara TAGLIACOZZO (Univ. Roma Tre), Andrea TAGLIAPIETRA (Univ. San Raffaele, Milano), Corrado VIAFORA (Univ. di Padova), Carmelo VIGNA (Univ. di Venezia), Mauro VISENTIN (Univ. di Sassari), Franco VOLPI† (Univ. di Padova).

Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica Appunti sul presente, Mensile culturale on line, redazione: presso associazione culturale Inschibboleth Roma Sassari, redazione on line su skype; editore: associazione Inschibboleth, via A Fusco 21 - Roma, via Carso - Sassari, mail: associazione.inschibboleth@gmail.com. Direttore Responsabile: Aldo Maria Morace. Ufficio stampa, Marco De Pascale.

Sinistra e larghe intese di Mauro Visentin

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Conversazioni filosofiche Intervista con Alessandro Ghisalberti a cura di Alessandro Carta Percorsi dell’Infinito nella riflessione filosofica e teologica di Duns Scoto

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“Avevamo la luna”. Una riflessione sui rapporti tra il centrosinistra e la rete. di Elio Matassi

“Ritorno alla realtà” è il titolo dell’editoriale di Massimo Franco sul “Corriere della sera” di domenica 28 aprile, per commentare la nascita del governo Letta. L’argomentazione è la seguente: “il governo Letta segna il primo tentativo esplicito di pacificazione dell’Italia”, come se fossimo appena usciti da una guerra civile. La distinzione-contrapposizione parlamentare tra centrodestra e centrosinistra viene di fatto estinta dinanzi alla condizione presuntivamente emergenziale in cui verserebbe la nostra

democrazia. Il maggior partito del centrosinistra, il Partito Democratico, rischia seriamente la dissoluzione, o quantomeno, la scissione, diventando del tutto irrilevante per i futuri scenari della politica. Ancora una pesante sconfitta per la prospettiva del centrosinistra, una sconfitta che ha radici lontane. Proprio nelle ultime settimane Michele Mezza, nel suo libro, Avevamo la luna. L’Italia del miracolo sfiorato vista cinquant’anni dopo, (Donzelli, Roma 2013), si interroga sulle ragioni di tale sconfitta con un’analisi retrospettiva che riguarda, in particolare, i primi anni Sessanta e quella fondamentale innovazione implicita nella esperienza di Adriano Olivetti. Salvatore Settis, proprio nel domenicale del Sole 24ore del 28 aprile, “Democrazia molecolare”, presenta lo scritto di Adriano Olivetti, Il cammino della comunità, uscito la prima volta nel 1959 e ripubblicato da poco. In questo progetto, “la comunità sarà un valore o un nuovo strumento di autogoverno”, esso nascerà come consorzio di comuni. E le comunità federate, daranno luogo esse solo alle regioni e allo Stato”. Una forma di “comunitarismo radicale”, così lo definisce Stefano Rodotà, che mette al primo posto la giustizia e la politica e, solo in subordine, l’economia. Il ritardo del centrosinistra e della sinistra dinanzi a questi problemi viene denunziato nel libro di Michele Mezza a partire dalla mancata messa a fuoco dell’innovazione insita nella rete. I due aspetti, culturalmente eversivi, riguardano, nel primo caso, la prevalenza delle produzioni industriali dei fattori immateriali rispetto a quelli materiali. Il secondo aspetto, ancora più liberatorio del primo, per una sinistra consapevole della rete, concerne il capovolgimento tra oggetto e soggetto nel fattore lavoro, così recita Michele Mezza: “Nella nuova geometria produttiva del social network, il produttore diventa un agente negoziale che contende, in condizioni pressoché paritarie, all’impresa, il primato e la titolarità del prodotto” (p. 127). Questo rovesciamento di piani coinvolge una nuova interpretazione di ciò che è comune, dell’ in-comune su cui la tradizione filosofica da Immanuel Kant a Jean-Luc Nancy si è sempre interrogata, come suggerisce ancora una volta molto bene Michele Mezza: “La rete, il mulino digitale, seleziona il commoner che condivide con il capitale contenitore e contenuto nel processo produttivo” (pp. 127-128). Si tratta di un’indicazione preziosa che deve essere attentamente contestualizzata per quanto concerne i ritardi della sinistra, in particolare italiana, ma che non potrà prescindere dal contributo di coloro, come Evgeny Morozov in L’ingenuità della rete. Il lato oscuro della libertà di internet (Codice Edizioni, Torino 2011), che mettono in guardia contro i rischi insiti in una enfatizzazione eccessiva del ruolo democratico e democratizzante della rete. Quella di Mezza è comunque una riflessione da cui non si potrà prescindere per ristrutturare un centrosinistra e una sinistra finalmente vincenti..


disturbare l’ascolto: non cambiarci note, lascia che continuiamo a correre eternamente questo suono (the heavy heavy monster sound), questo movimento! C’è un commento ricorrente fra i jazzisti riferito agli assoli di Miles Davis: che fa poche note, ma quelle che ci vogliono, e sembra non ne esistano altre possibili. Vorremmo sapere se queste situazioni denotano aspetti complementari della compiuta feticizzazione dell’esistenza, ma ancora di più se questo feticismo – fino all’indiscusso feticismo compiuto di Lady Gaga – ci indichi qualcosa di diverso.

La musica di Lady Gaga di Enrico Garlaschelli

Ci si chiede che cosa con Lady Gaga sia successo alla musica, che lei ritiene essere la sua prima occupazione, affermando con pervicacia di creare personalmente i motivi e curare minuziosamente gli arrangiamenti. Il termine “creare” che ancora viene usato con un notevole afflato lascia disorientati. Nel 1974 Neil Young registrava con il suo gruppo Tonight’s the Night nel seguente modo. La sera si trovavano in sala d’incisione trasformandolo in un luogo di vita: mangiavano, bevevano, chiacchieravano. A tarda notte cominciavano le registrazioni. Ascoltate il disco e troverete tutto ciò che è avvenuto prima. Nella musica di oggi non accade nulla di tutto questo, accade altro. Per comprendere questo cambiamento passerei da quel particolare fenomeno musicale che con i Madness si è affermato come musica ska. Sembra tutto come prima, ma i Madness ci dicono che sono arrivati dopo: dopo una certa catastrofe che non è mai avvenuta e che noi possiamo solamente testimoniare guardando a quello che non c’è più: one step beyond! Si attua cioè una specie di spersonalizzazione. In altri tempi si sarebbe chiamato manierismo, ma noi azzardiamo la categoria benjaminiana di “riproduzione luttuosa” (trauerspiel). Ciò che riguarda i Madness non è dunque un cambiamento di stile, ma lo stile stesso che si afferma, lo stile che afferma se stesso. Dopo aver annunciato che la loro musica è rockinest ( e the nuttiest sound, the heavy heavy monster sound) nel video musicale non viene detto più niente. Ed anzi, one step beyond assume la figura paradossale di una marcia stilizzata, e chi vuole ballare quella musica può solo correrla. Quando cambiano le note dell’assolo di sax, anche questa piccola modifica sembra “disturbarti” - nel senso “musicale” in cui lo intendeva Adorno -, sembra

Sotto lo spontaneismo, scriveva significativamente Adorno, agisce il più compiuto feticismo delle merci. Lo spontaneismo di chi canticchia il ritornello di una canzone – “mentre gli occhi restano sfatti e desolati”1, ma anche, diremmo noi, instupiditi – è solo un misero paravento. Fa ridere chi pensa ancora nostalgicamente allo spontaneismo degli anni Sessanta. Come se una canzone come Our House di G. Nash potesse nascere dal cuore, mentre invece quello stesso autore commissionava per le sue canzoni delle indagini doxa alle radio locali. Piuttosto dovremmo rivolgerci ai disagi esistenziali di un J. Morrison, quando dice che gli sembra sempre di essere estraneo a se stesso, in un luogo straniero che lo fa sprofondare nella malinconia, che era però anche il luogo della sua arte. Ma quale luogo stiamo cercando? Dove ci porta la corsa dei Madness? Quale gradino dobbiamo oltrepassare, che non si può neppure pronunciare? “Oh che felicità! Che felicità!”, Nancy cita l’ossessione di Flaubert per La tentazione di Sant’Antonio, commentando: “Il senso vuole esperimentarsi, vuole sentirsi: vuole sentire e sentirsi”2. Come dobbiamo trattare questa percezione? Dovremmo dire della sua terribile connivenza con ciò che intende negare? “Ponendo all’ascoltatore la domanda primitiva se un pezzo gli piace o non gli piace – scrive Adorno -, si pensa di rendere trasparente e di eliminare tutto quanto il meccanismo: e invece questo entra attivamente in moto proprio quando si pone questa domanda”3. È il meccanismo della musica feticizzata. Che cosa ci dice questo meccanismo? “Oh che felicità! Che felicità! Ho visto nascere la vita, ho visto cominciare il movimento. Il sangue nelle mie vene batte così forte che si romperanno. Ho voglia di volare, di nuotare, di sbraitare, di gridare, di urlare. Vorrei […] sparpagliarmi ovunque, essere in ogni cosa […] rifugiarmi in tutte le forme, penetrare in ogni atomo, discendere fino in fondo alla materia – essere la materia!”4. E forse per questo desiderio di “essere la materia” che è spiegabile la tendenza alla rappresentazione “cosmica” della musica pop-rock, come accade nelle prime quattro note di Wish you were here, con le quali Gilmour pensava di creare un diapason cosmico. Il “sentirsi cosmico” che forse torna nelle parole iniziali del video di Lady Gaga Born This Way, che parlano di una mitosi cosmica evocando un “momento intimo della vita”: “Una Nascita di magnifiche e magiche proporzioni ebbe luogo. Ma la Nascita non era finita, era infinita. Mentre Lei dava alla luce i suoi figli e la mitosi del futuro aveva inizio, si comprese che questo momento intimo della vita non è temporaneo, ma eterno” Tuttavia tutto ciò ci appare come una reificazione di questo “sentire”, una sua banale rappresentazione che era già stata decostruita in Odissea 2001 nello spazio da Kubrik, il quale riesce a mostrarne l’intima verità attraverso l’effetto di de-centramento provocato dal monolite, presenza di un’assenza 1. T. W. Adorno, Dissonanzen, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, 1958, trad. it. di G. Manzoni, Dissonanze, Feltrinelli, Milano 1959, p. 33. 2. G.-L. Nancy, Le sens du monde, Editions Galilée, Paris, trad. it. a cura di f. Ferrari, Il senso del mondo, Lanfranchi, Milano 1997, p. 198. 3. T. W. Adorno, Dissonanze, cit., p. 31. 4. J. –L. Nancy, Il senso del mondo, cit., p. 198.


che conduce al dis-orientamento dell’uomo, del progresso, della storia. Verità di questo decentramento che, dal canto suo, Perniola descrive come una esteriorizzazione del “sentire”: “Il sentire artificiale non è una replica del sentire naturale, ma l’ingresso in un sentire differente, in una sessualità differente, neutra, non più centrata sull’identità della coscienza, ma debordante ed eccessiva: mi faccio un corpo estraneo, desoggettivizzo l’esperienza, espello da me e localizzo in qualcosa di esterno i miei organi e il mio sentire, divento la differenza”5. L’umano/ non-umano che emerge da questa analisi conduce a legare la mitosi cosmica, nella versione materica che appare nel video di Born This Way alla deumanizzazione in atto in Mary the night: “La psicologica clinica – racconta nel video la voce di Lady Gaga, vestita con un camice e circondata da corpi segnati da bende e celebri marchi, anche questi ultimi con l’effetto di deturpare invece di abbellire il corpo - ci dice che un trauma è l’ultimo assassinio. I ricordi non vengono riciclati come atomi e particelle come succede nella Fisica Quantistica (…)Non è che io sia stata disonesta, è solo che odio la realtà. Per esempio quelle infermiere (…) Ho messo loro i berretti di garza al lato come quelli parigini perché penso sia romantico. E credo anche che il colore menta andrà di moda per la prossima primavera (…) La verità è che alla clinica indossano quei cappelli divertenti solo per tenere lontano il sangue dai loro capelli”. Nel mentre, la serie di immagini che scorre durante il video cerca in tutti i modi di ridurre il corpo ad una cosa: le donne, tutte in camice bianco, non sono “vestite” da K. Klein in modo diverso da come sono fasciate con le bende, tanto che in entrambi i casi qualsiasi tipo di “sguardo” si dissolve nella percezione del sangue e nell’abiezione che esso suscita. Lady Gaga è ritratta in una vasca spoglia mentre si colora i capelli con una pasta che li trasforma in componenti artificiali innestati nel corpo. Così, scrive ancora Perniola, “io percepisco il mio corpo come una cosa, per esempio come un vestito”6. Il celebre vestito di carne indossato da Lady Gaga è l’apice di questo processo? Di quale creazione dunque stiamo parlando?

5. M. Perniola, L’arte e la sua ombra, Einaudi, Torino 2002, p. 30. 6. Ibid., p. 29.

Sinistra e grandi intese di Mauro Visentin

La nascita del nuovo governo di cosiddette “larghe o grandi intese” è stata accompagnata, come era naturale e prevedibile, da commenti disparati e di opposto orientamento. Nel complesso, appare evidente che la sua costituzione susciti disagio e sconcerto soprattutto a sinistra. Anche questo è abbastanza comprensibile: le ragioni contingenti che hanno portato ad un simile esito sono troppo note per doverle ripercorrere, ma rappresentano, per unanime riconoscimento, le tappe successive di una “via dolorosa” che il Partito Democratico, dopo la deludente (tanto più deludente quanto più inattesa) prova elettorale, ha, con cieca e masochistica ostinazione, voluto imboccare, dando vita ad un processo di autodemolizione così imprevedibile e inconsueto per una forza politica del suo peso, da sgomentare molti dei suoi stessi oppositori. Un processo che è comunque servito a mettere in luce, con le mosse irragionevoli che lo hanno contraddistinto, come il trauma dell’ennesima sconfitta politica (in cui si era repentinamente convertita l’attesa di un’affermazione trionfale) avesse lasciato un segno profondo e avesse anche (si spera solo momentaneamente) interdetto alla sua dirigenza politica l’accesso ad ogni possibile, sia pure elementarissima, disposizione alla lucidità mentale. Oggi, dopo le dichiarazioni di intenti davanti alle due Camere del nuovo Presidente del Consiglio (eccellentemente calibrate, a giudizio di chi scrive, nei contenuti e negli argomenti) e la fiducia accordatagli in entrambi i rami del Parlamento, le voci critiche si appuntano soprattutto su due temi: l’irrealizzabilità del programma, il mancato rispetto del patto con gli elettori. La prima questione appartiene all’ambito del conflitto fra ottimisti e pessimisti e resta una discussione puramente teorica fino al momento in cui non si porrà concretamente mano al percorso di realizzazione degli


obiettivi enunciati. La seconda (che è “cavalcata” da coloro che dissentono per ragioni prevalentemente ideologiche – e una buona parte dei quali si appella anche alla prima, iscrivendosi d’ufficio nel partito dei pessimisti, con la speranza, non tanto velata, che il governo fallisca la missione che si è dato) mostra un difetto evidente di coerenza argomentativa nelle opinioni di quel settore della sinistra che non riesce a “vestire” di ragioni plausibili il suo rifiuto di qualsiasi tipo di incontro politico, dettato dalla necessità di una situazione emergenziale, con l’avversario di ieri. E’ infatti evidente che qualunque patto con i propri elettori (in questo caso quello consistente nel non fare accordi con il centrodestra) si fonda sul presupposto che esso sia rispettato da entrambe le parti, ossia, detto esplicitamente, che gli elettori conferiscano al partito che lo contrae – e che si impegna, in cambio del loro voto, a realizzare un determinato progetto – un consenso sufficientemente ampio da consentirgli di dare attuazione alle iniziative promesse e, metaforicamente, pattuite con loro. Venuto meno questo presupposto, il patto non ha più valore e non si può quindi denunciarne la violazione se il partito che non ha ottenuto i suffragi sperati prende atto della realtà e adatta ad essa il proprio programma (cosa che, naturalmente, vale per il centrosinistra, ma varrebbe ugualmente per il centrodestra, nel momento in cui volesse imporre al governo di coalizione – che non può non essere anche un governo di compromesso – la piena attuazione dei punti programmatici qualificanti della propria campagna elettorale). Precisamente la debolezza dell’argomento svela, tuttavia, l’autentica natura del problema, che è, ad un tempo, psicologica, morale, antropologica e ideologica. Non, però, politica. Questo stato di cose, o meglio la disposizione collettiva che lo fa emergere affonda le sue radici in un passato non troppo recente e a proposito del quale si sono intrecciate analisi e valutazioni molteplici, alcune assai persuasive, ma nessuna tale da risultare capace, al di là della diagnosi del male, di indicare una plausibile ed efficace terapia. L’Italia è un Paese diviso, lacerato, che non è mai riuscito a diventare una Nazione. E’ cosa nota e già sottolineata all’indomani della costituzione dello Stato unitario. Ma tra coloro che hanno affrontato il problema con più determinazione si sono distinti quelli che lo hanno fatto nello spirito divisivo di studiare il modo in cui una parte (la migliore) potesse prendere il sopravvento sull’altra (la peggiore). Questa strategia mostra un’evidente insufficienza già solo per il fatto che le due parti vengono, nel suo quadro, considerate come irrimediabilmente contrapposte – perché contrapposte non in virtù di opinioni e ideologie diverse, ma di una diversa e incompatibile qualità antropologica – e quindi tali da non consentire, per definizione, un travaso di consensi dall’una all’altra. Per ovviare a questa difficoltà si è introdotta un’ulteriore distinzione: quella tra paese reale e paese legale, o tra società civile, come si dice oggi, e società politica. In altre parole, per rifarci ad una posizione attualmente molto diffusa a sinistra (ma, con le debite differenze, anche a destra), una cosa sono i partiti, la politica, il “palazzo” la “casta”, una cosa (diversa e antropologicamente migliore) il “popolo”, la “gente”, le “parti sociali”. E’ una distinzione di comodo, nella quale anche coloro che se ne servono credono solo in una certa misura e “a corrente alternata”. Intanto, perché in un paese di così debole cultura liberale come il nostro, il consenso si esprime per lo più affidandosi al criterio dell’identificazione piuttosto che a quello della scelta del “meno peggio” (eccetto che per l’insieme di coloro che sono disposti a prendere in considerazione entrambi gli schieramenti, ossia la pattuglia di elettori – di norma, in particolare da noi, una minoranza – che, normalmente, nei sistemi bipolari, fa, con i suoi spostamenti, la differenza, rendendo così possibile l’alternarsi dei governi). Certo, la tendenza del corpo politico a costituirsi in classe separata e privilegiata, tendenza ineliminabile a

prescindere dal contesto istituzionale in cui si manifesta, può, soprattutto in momenti di crisi economica come quello che stiamo adesso vivendo, determinare una frattura anche profonda o un forte scollamento fra ceto politico e cittadini in condizione di esercitare l’elettorato attivo. Ma questo non implica affatto necessariamente che i secondi, nell’esprimere un rifiuto incondizionato nei confronti del primo, rappresentino o incarnino un interesse generale piuttosto che una somma di interessi di parte, incomponibili in tutto, salvo che nel contrapporsi ai privilegi di coloro che, a torto o a ragione, sono percepiti come gli esponenti di un ordine chiuso e autoprotettivo nei confronti dei suoi membri, indipendentemente dalle loro divisioni e dai diversi schieramenti ai quali aderiscono in Parlamento. Ne sia prova il fatto che, quando un simile orientamento di buona parte del corpo elettorale trova modo di tradursi in proposta politica (cosa accaduta a suo tempo con la Lega e oggi, in un contesto diverso, riproposta dal Movimento 5 stelle) scatta un nuovo meccanismo di identificazione, indice non trascurabile della possibilità che una tendenza come questa esprima piuttosto un desiderio di sostituzione che un’antropologia virtuosa e alternativa. Ma questa separazione tra società civile e società politica è poco plausibile anche perché quegli stessi che operano una tale distinzione non la estendono agli elettori del partito avverso, per i quali, invece, agli occhi dei loro omologhi di diverso orientamento politico, sembra valere il principio contrario, ovvero quello che essi siano esattamente come i loro eletti, o, in qualche caso, addirittura peggio. E’ un errore di supponenza? No, o perlomeno, non del tutto, se non altro, da parte del centrosinistra. La tesi delle due Italie, o delle due nazioni contrapposte non è, infatti, una semplice proiezione. Esiste, indubbiamente, un’Italia priva del senso dell’appartenenza ad una collettività, e, conseguentemente, del bene comune (o di un bene comune la cui idea si spinga al di là dei confini del più bieco e gretto localismo), che vede nello Stato un ostacolo alla realizzazione dei propri interessi personali e in questi l’unico obiettivo che sia doveroso perseguire nell’intraprendere qualsiasi iniziativa. Ma contrapporre un partito degli onesti al partito dei disonesti (che rappresenterebbe quest’Italia piccola, miope e meschina) non esprime o manifesta un conflitto politico dandogli corpo, né, tantomeno, è un progetto politico o un programma. È’ piuttosto il modo di dare vita ad un contrasto pre-politico, dal quale, finché si resta aderenti al suo schema, sollevarsi al piano della politica non può che risultare impossibile. L’ideologia è intransigente e si nutre di indignazione morale. Proprio per questo occorre che la politica (che non può farne a meno, per convogliare il consenso) se ne serva anziché porsi al suo servizio. E’ sconcertante, ma se si guarda alla situazione italiana da questo angolo prospettico, è il centrodestra, dei due poli in cui si divide (o si divideva fino a poco tempo fa) la vita politica della nazione, quello politicamente più attrezzato (e non a caso, forse, appunto in ragione della sua spregiudicatezza, quello vincente), non il centrosinistra. Nel senso che è il centrodestra a sfruttare l’ideologia senza farsene dominare, per fornire al proprio blocco sociale di riferimento (contraddistinto da chiusura, egoismo, grettezza, ostilità pre-ideologica allo Stato) un movente ideale in cui e con cui riconoscersi, senza che i suoi leader ne siano essi stessi profondamente e intimamente partecipi (il che non toglie che una politica debba anche alimentarsi di idee e valori non solo di tattiche, e su questo piano il centrodestra spesso mostra un respiro piuttosto corto). Accade il contrario nel centrosinistra, dove elettori fortemente motivati sotto il profilo ideologico, trascinano la leadership politica sul loro terreno. Passare dal piano dello scontro prepolitico (sul quale la politica è asservita all’ideologia, alla sua intransigenza, al suo bisogno di semplificazione manichea) al piano dello scontro politico (sul cui terreno è la politica che usa strumentalmente l’ideologia) richiede


un’opera lenta e diffusa di sviluppo della cultura liberale che pervada le coscienze e condizioni l’atteggiamento degli elettori. Quest’opera, nei paesi politicamente e costituzionalmente più evoluti dell’Italia, è stata il risultato storico di un quadro istituzionale limpido e solido. Rendere tale il nostro – che con assoluta evidenza è tutto fuorché questo – è la scommessa dell’esecutivo presieduto da Enrico Letta. Che per essere vinta richiede, intanto, che l’accordo politico che lo sostiene regga (e questo dipenderà, tra l’altro, anche dal fatto che l’impegno del centrodestra si dimostri effettivo e non solo di facciata, cosa sulla quale, visti i precedenti, i dubbi sono leciti, senza che però lo sia ugualmente il rifiuto pregiudiziale di verificare in concreto la corrispondenza, in questo caso, tra le parole e le intenzioni reali). Ciò che può indurre ad un cauto ottimismo circa il fatto che la scommessa abbia qualche effettiva e non solo teorica possibilità di essere vinta è la distretta terribile in cui, dopo l’esito inconcludente delle recenti elezioni, la politica si è venuta a trovare. Come sempre, non è la buona volontà (o, peggio, la sua ripetuta, esplicita evocazione, per sincera o anche ipocrita che essa sia) a poter dare garanzie sui risultati: sono, piuttosto, il peso e la costrizione delle circostanze.

Conversazioni filosofiche Percorsi dell’Infinito nella riflessione filosofica e teologica di Duns Scoto Intervista ad Alessandro Ghisalberti a cura di Alessandro Carta


Rivolgiamo alcune domande ad Alessandro Ghisalberti, che ha pubblicato su numerosi autori e temi nell’ambito del pensiero medievale. Tra le molte pubblicazioni: Giovanni Buridano dalla metafisica alla fisica, Milano 1975; Medioevo teologico. Categorie della teologia razionale nel Medioevo, Roma-Bari 2006 (3°); Guglielmo di Ockham. Scritti filosofici, Firenze 1991; Giovanni Duns Scoto: filosofia e teologia (a cura di), Milano 1995; Invito alla lettura di Tommaso d’Aquino, Cinisello Balsamo 1999; Il pensiero filosofico e teologico di Dante Alighieri (a cura di), Milano 2001; La filosofia medievale. Da S. Agostino a S. Tommaso, Firenze 2006; Logos filosofico e logos rivelato, Milano 2004; Dante e il pensiero scolastico medievale, Milano 2008; Mondo, Uomo, Dio. Le ragioni della metafisica nel dibattito filosofico contemporaneo, Milano 2010 (a cura di). tema della presente intervista riguarda “i percorsi dell’infinito” nel pensiero filosofico e teologico di Duns Scoto. Le ricerche più significative svolte negli ultimi decenni sull’opera di Giovanni Duns Scoto riguardano l’analisi della complessa nozione di ens infinitum, in stretta connessione con quella di ens finitum nella sua declinazione di contingente o di possibile. Tale analisi coinvolge varie questioni, tra cui quella dell’oggetto proprio della metafisica, quella dell’univocità dell’ente, quella dei trascendentali disgiuntivi, e riguarda la possibilità di elaborare una teologia razionale che si accordi con le istanze critiche nei confronti dell’aristotelismo sollevate dai teologi e fissate nelle note tesi del Sillabo parigino del 1277. Ci si chiede, anzitutto: che cosa indica per Duns Scoto la nozione di ens infinitum? E come si giunge a configurarla, a partire dalla nozione assolutamente semplice dell’ “ente in quanto ente”? Ricorderei in primo luogo che secondo Duns Scoto le perfezioni del reale possono essere assolutamente semplici (es. “l’essere in quanto essere”), semplici ma non assolutamente (es. “l’essere finito”), oppure complesse (es. “animale razionale”). L’essere in quanto essere, ossia la perfezione assolutamente semplice, non esiste in concreto; l’essere è sempre “modalizzato”, definito da un certo grado di perfezione o modo intrinseco, da cui è indissociabile. L’essere è intelligibile in quanto essere, ma attuale solo se concepito unitamente al proprio modo. Oggetto primo dell’intelletto umano è l’essere in quanto essere, l’essere in senso univoco, che ha dunque un’importanza fondamentale. Infatti, comprendendo tutti gli enti (finiti e infinito), fonda l’oggettività del conoscere, senza configurarsi come un oggetto. L’essere

univoco e le determinazioni ultime sono concetti irriducibili, che stanno tra loro in relazione di potenza ed atto: l’essere univoco sta alle differenze come ciò che è ultimativamente determinabile sta a ciò che è ultimativamente determinante negli esseri. Criticando i predecessori agostiniani, Scoto ritiene incontrovertibile la posizione aristotelica secondo cui la conoscenza umana, almeno pro statu isto, attinge esclusivamente da oggetti materiali. L’unica opzione consentita è che la mente umana possa avviare il processo conoscitivo con una nozione di essere tratta dalla sua conoscenza degli enti del mondo, ma che può essere applicata, in quanto nozione sufficientemente astratta, ad un oggetto sovrasensibile. L’essere infinito, astratto dalla conoscenza delle creature, è idoneo a rappresentare l’essere divino, sia pure in modo imperfetto. Oltre a constatare la non ripugnanza dell’infinità all’ente, Duns Scoto osserva che l’infinito è il concetto più semplice e più perfetto che la mente umana possa forgiare: è il più semplice, in quanto non è attributo dell’essere, ma un suo modo intrinseco; esso è caratterizzabile come “simpliciter simplex”, e si distingue dagli altri concetti predicabili del primum ens ricavati astraendo dalle perfezioni delle creature (Ordinatio, I, d. 2, p. 1, q. 2; ed. Vat. II, p. 142, n. 31) . La nozione di ente infinito è più semplice della nozione di soggetto e di qualche cosa ad esso attribuito, ove ciascun termine è formalmente distinto. Un modo intrinseco, quale l‘infinitas, non è formalmente distinto dal suo soggetto, ma gli appartiene per sé, mentre gli attributi sono aggiuntivi (“sicut additum”). La nozione di ens infinitum è inoltre la più perfetta, perché include virtualmente e in modo semplice tutte le perfezioni pure e ciascuna nel massimo grado possibile “sub ratione infiniti” (Ordinatio, I, d. 3, p. 1, q. 2; ed Vat. III, p. 59, nn. 40-41; Lectura, I, d. 3, p. 1, q. 1-2; ed. Vat. XVI, p. 244, nn. 50-53). L‘ente infinito pertanto è la nozione più perfetta, in quanto include virtualmente la bontà infinita, la verità infinita e tutte le altre perfezioni che sono compatibili con l‘infinitezza. Il contenuto virtuale, in questo caso, dal momento che non è formalmente identico al concetto, non può essere scoperto attraverso l‘analisi della nozione di ente infinito. Scoto dunque, parlando di ens infinitum come del concetto più semplice, cerca di prospettare il caso di un’entità più grande di quella ottenibile con concetti sia semplici, sia complessi che possono essere definiti, ed è convinto che la compatibilità tra “infinito” ed “ente” è qualcosa per cui l’uomo possiede una sorta di evidenza psicologica intuitiva, una congenita aspirazione a un conoscere infinito e a un volere infinito.


Dunque Scoto ritiene che la conoscenza umana, almeno pro statu isto, attinga esclusivamente da oggetti materiali e che la mente possa avviare il processo conoscitivo con una nozione di essere tratta dalla sua conoscenza degli enti del mondo, ma applicabile, in quanto nozione sufficientemente astratta, ad un oggetto sovrasensibile. Ma come si ricava la nozione di essere infinito dalla conoscenza delle creature? E, in secondo luogo, come avviene che questa nozione di essere infinito sia “idonea a rappresentare l’essere divino, sia pure in modo imperfetto”? L’affermazione aliquod ens est infinitum trae la coerenza logica dalla natura della compossibilità dell’ente: se dal punto di vista del soggetto conoscente (“metaphysica nostra”) si possono cogliere le nozioni trascendentali di unum, verum, bonum, “ex ratione entis” è conoscibile l’infinitas, quale trascendentale disgiuntivo. La natura dell’ente è segnata dalla compossibilità rispetto all’infinito. L’infinito è noto a partire dal tutto della compossibilità e dalle parti del tutto che sono anch’esse compossibili. Il concetto di “infinito”, quindi, si ricava innanzitutto per contrasto dalla constatazione dell’esisten­za di realtà “finite”. La nostra conoscenza, anche quella intuitiva, passa attraverso l’esperienza delle realtà che cadono sotto i nostri sensi; quindi il primo concetto che il nostro intelletto si forma è quello di “finito”, dal quale l’uomo ricava il concetto di “infinito” che è, in­nanzitutto, quello quantitativo. È ciò che può essere aumentato, aggiungendo sempre una nuova quantità (infinitamente grande), o ciò che può essere frazionato, suddividendolo in parti sempre più piccole (infinitamente piccolo), come già diceva Aristotele. Da questo concetto, usando l’immaginazione logica (secundum imaginationem), Scoto afferma che possiamo assurgere a un concetto più perfetto di infinito: commutiamo il concetto dell’infinito poten­ziale quantitativo nel concetto di un infinito attuale quantitativo, ammesso che sia possibile (Quaestiones Quodlibetales, V, 6). Tale concetto, diversamente dal primo, è perfetto perché contempla la totalità in un solo istante, e nulla gli manca né può mancargli, nulla può essergli aggiunto perché tutto ciò che è “aggiungibile”, per definizione è già compreso in esso. Da questo “infinito quantitativo in atto”, di nuovo secundum imaginationem, con un procedimento puramente logico, possiamo giungere ad un “infinito intensivo in atto”, non composto di parti finite, ma concepito come un tutto perfetto: un ente infinito così perfetto che né ad esso né ad alcuna sua parte manca qualcosa. Tramite

questo ragionamento, Scoto ricava la nozione di infinito intensivo in atto: si tratta di un concetto che va oltre la semplice idea di qualcosa di illimitato; ce lo possiamo imma­ginare come un concettolimite, come il punto focale di una prospettiva; il concetto di infinito intensi­vo non è nel nostro intelletto se non tramite un certo “perfezionamento” del concetto di infinito estensivo, che desumiamo dalla possibilità di dividere all’infi­nito un ente o di aggiungere all’infinito un dato elemento in una serie. Ora, il fatto stesso che l’intelletto umano riesca a circoscrivere il concetto di “infinito” intensivo, consente di attivare un procedimento argomentativo puramente razionale per provare l’esistenza di un ente infinito in atto. Riprendendo altre sollecitazioni del testo scotiano, aggiungiamo qualche altro elemento circa la natura del concetto in esame. Abbiamo visto che l’infinito è, per l’intelletto umano, un concetto astratto, al quale si arriva dalla nozione di finito; per astrazione, dalla nozione di “sommo” o di “più alto” e da una sorta di intuizione del dominio della potenza come di un tutto, si arriva al concetto di infinito: «coniungere intentionem summitatis intentionis entis vel boni et sic cognoscere summum ens vel bonum, et sic de infinito». Questo tipo di astrazione conduce l’uomo ad una nozione che è massima in comprensione e minima in estensione, così minima da poter essere applicata solo ed esclusivamente a Dio. L’uomo congiunge l’ente e l’infinità ed arriva a pensare un ente infinito in perfezione e potenza, in quanto infinito è ciò che eccede qualsiasi finito, non solo perché eccede qualsiasi tipo di rapporto determinato, ma perché eccede tutti i tipi di rapporto immaginabili. L’infinito eccede pertanto ogni finito anche in relazione a qualsiasi misura o proporzione definita o definibile: nonostante la sua origine astratta, l’infinitas coincide con il costitutivo formale dell’essenza divina, più che con un suo attributo. Per definire l’infinito, come abbiamo già ricordato, Duns Scoto si avvale della categoria della possibilità: l’infinito è caratterizzato come ciò che eccede ogni ente finito attuale o possibile ed in riferimento a qualsiasi misurazione data o che possa darsi. Se l’infinito “è caratterizzato come ciò che eccede ogni ente finito attuale o possibile ed in riferimento a qualsiasi misurazione data o che possa darsi”, allora per definire l’infinito Duns Scoto deve avvalersi della nozione di possibilità. Sembra però declinarla in un’accezione che non coincide con quella aristotelica. Qual è la novità apportata da Scoto al paradigma classico della modalità? E in che modo questa novità interviene nella determinazione dell’essenza divina da parte di Scoto?


Si deve a Simo Knuuttila l’avere evidenziato l’importanza e la forza innovativa della posizione di Duns Scoto circa la teoria della modalità. Il paradigma della modalità prevalente nel mondo antico è quello statistico o della frequenza temporale della modalità, che si applica a enunciati temporalmente indefiniti. Secondo Aristotele l’affermazione “A siede” è vera, ma sarà falsa dopo che A si sarà alzato. I valori di verità riferiti alla modalità sono soggetti alla frequenza temporale, per cui si può dire che se un enunciato vero ora, è vero tutte le volte che è proferito, esso è necessariamente vero. Se il suo valore di verità cambia nel tempo, esso è possibile. E se un enunciato è falso tutte le volte che è proferito, esso è impossibile. Questa concezione della modalità è legata al principio di pienezza, in base al quale ogni possibilità genuina, per essere vera possibilità, deve verificarsi in un determinato momento del tempo. Duns Scoto si distacca da questo modello diacronico, secondo cui nessuna autentica possibilità può rimanere non realizzata nella successione temporale, ed istituisce un modello sincronico, in base al quale si ammette che qualcosa, che esiste o accade, possa essere o accadere in modo diverso nello stesso istante di tempo. Perciò la contingenza esprime la “possibilità” che si diano simul degli opposti. Questa possibilità è stabilita in rapporto ad un’azione causale che proceda attraverso intelligenza e volontà. La stessa volontà umana è libera di fronte ad atti opposti, così come di fronte ad oggetti opposti. In riferimento agli oggetti opposti che mediante gli atti opposti essa può volere, la libertà umana esprime perfezione perché risulta detentrice di una duplice possibilità e contingenza: quella di volere successivamente degli oggetti opposti, e quella di volere contemporaneamente degli oggetti opposti, che però non possono essere in realtà scelti, perché la volontà opera in modo successivo. Resta la perfezione della volontà che può volere (potenza logica, ma non per questo irreale) simultaneamente tutto ciò che non è logicamente incompossibile. Ciò che determina l’impossibilità di qualcosa non è dunque la non-realizzazione nel mondo fattuale, bensì l’incompossibilità concettuale, la quale configura una contraddizione tra una possibilità pensata e la compossibilità di qualche cosa d’altro, parimenti pensato. Se rileggiamo ora la nozione di infinità come ciò che eccede ogni ente finito, attuale o possibile, vediamo che con essa Scoto viene a dire che l’ente infinito eccede non solo ogni ente che in qualche momento di tempo si è realizzato, o si realizzerà, o si potrà realizzare,

ma eccede anche ogni possibilità che non implichi incompossibilità, lasciando così spazio alla sola essenza divina. In questo modo è fugato ogni vincolo ex parte rei alla potenza di Dio, che E. Tempier aveva ravvisato nei continui legami della teologia aristotelica con la fisica e con l’unico mondo per Aristotele “realmente” possibile. Riguardo alla nozione di “eccedenza”, come si è spiegato, essa è propria dell’infinito rispetto ad ogni ente dato o possibile e “ad ogni possibilità che non implichi incompossibilità”. Questi tratti indicano che la strutturale ulteriorità dell’infinito oltrepassa ogni livello o ordine di datità reale o possibile, e pertanto l’infinito non si lascia determinare positivamente dal pensiero. Ma in questo caso, come è possibile conoscere Dio, se vi è totale alterità rispetto alle creature? E se invece è possibile conoscerlo, in che cosa consiste la differenza per cui Dio è irriducibile, nella sua eccedenza, ad ogni ente reale o possibile? Si tratta di precisare la nozione di “eccedenza”, che Duns Scoto annette alla definizione di infinito come eccedente ogni ente dato o possibile, secondo ogni misurazione (proportio) fissata o fissabile, eccedente cioè ogni livello di perfezione finita (quella dell’ente reale o possibile) e ogni commensurabilità nella realtà o nell’ordine della possibilità. Questi tratti assumibili per caratterizzare la totale eccedenza dell’infinito in positivo indicano il livello o ordine di datità reale o possibile che è oltrepassato dalla strutturale ulteriorità dell’infinito, la quale pertanto non si lascia determinare positivamente con un livello o ordine fissabile dal pensiero. Per fare un passo avanti, dobbiamo cioè riportarci alla metafisica scotiana dell’univocità, che include il confronto proprio con questa problematica: come possiamo conoscere realtà differenti? Nel mondo dell’esperienza questa domanda non pone particolari difficoltà, perché è facile riconoscere la diversità dei singoli uomini che convengono nell’essenza comune di ‘animale razionale’. Nei confronti dell’essere infinito si impongono con forza due domande: come possiamo conoscere Dio, se questi è totalmente altro dalle creature? E posto che riusciamo a conoscerlo, dove collochiamo la differenza che lo fa essere irriducibile per la sua inviolabile eccedenza? Se la tradizione analogica colloca la differenza in una reale diversità degli esseri, e il suo riconoscimento nel darsi di precise relazioni di proporzionalità (che rappresentano l’elemento analogico) tra di essi, la risposta di Duns Scoto sostiene che la conoscibilità di queste


realtà e la riconoscibilità della loro differenza sono garantite al contempo dall’univocità dell’essere. Tradizionalmente si è sempre considerata l’univocità scotista come univocità esclusivamente logica, limitata cioè alla dimensione dei concetti. Non si deve dimenticare però che i concetti sono ricavati per astrazione dalla realtà, e quindi devono avere un preciso ancoraggio nella realtà stessa: «occorre che l’oggetto conosciuto sia presente affinché se ne produca il concetto e la conoscenza» (Lectura, I, 3, § 26), dice Duns Scoto, e questo vale tanto per un oggetto sensibile quanto per una realtà metafisica come l’essere. “L’immagine e l’intelletto agente hanno il ruolo di primi oggetti che muovono alla conoscenza“, ma “l’intelletto può astrarre ogni oggetto incluso in quell’oggetto primo, e considerarlo così astratto senza considerare ciò da cui si astrae”( Ordinatio, I, Distinctio 3, § 63). Anche l’univocità, dunque, avrà tutta un’altra portata rispetto a quella meramente concettuale, come ha recentemente individuato un saggio di Andrea Nannini. L’univocità di cui stiamo parlando non potrà essere certamente univocità fisica, perché altrimenti l’essere di Dio e quello delle creature converrebbero in qualche misura nella realtà (in re), rendendo inevitabile una deriva panteistica. Dovrà invece essere un’univocità pienamente metafisica, in un senso che dobbiamo però precisare con attenzione, perché parlare di univocità metafisica dell’essere significa ammettere immediatamente che esiste un solo ed unico essere, che deve nondimeno: concedere al suo interno lo strutturarsi della differenza; dare spazio ad una reale pluralità di enti, distinti ed autonomi. La reale pluralità degli enti viene garantita dall’operazione con la quale Duns Scoto mantiene l’essere in una condizione di indifferenza verso i suoi significati. Dire che l’essere è indifferente a tutte le sue possibili modulazioni significa evitare di costringerlo all’interno di un possibile significato, come può essere quello aristotelico di ‘sostanza’, che ne rappresenterebbe una costrizione e si ripercuoterebbe immediatamente su tutte le realtà che ‘sono’: dal momento che l’essere è univoco, se venisse identificato con il significato di ‘sostanza’, finiremmo immediatamente nel panteismo, perché tutte le cose diventano univocamente delle semplici espressioni dell’essere-sostanza unica. Questa sarà la posizione di Spinoza, che accetterà esplicitamente di identificare l’essere univoco e la sostanza unica, mentre per Duns Scoto «l’essere si divide dapprima in infinito e finito piuttosto che nelle dieci categorie» (Ordinatio, I, Distinctio 8, § 113).

Infinito e finito sono i due modi intrinseci dell’essere, ossia le modalità al di fuori delle quali nulla può darsi, ma hanno anche una funzione metafisica ben precisa, che segna la linea di demarcazione tra Dio e le creature. Non soltanto, come in gran parte della tradizione filosofica, l’infinito può appartenere soltanto a Dio, ma per Duns Scoto «tutto ciò che conviene all’essere in quanto indifferente al finito e all’infinito, o in quanto è proprio dell’essere infinito, gli conviene non in quanto determinato in un genere, ma come ad esso anteriore, e conseguentemente in quanto trascendente e al di fuori di ogni genere» (Ordinatio, I, Distinctio 8, § 113). Proprio il fatto che la sostanza, che dal punto di vista metafisico è la categoria per eccellenza, cui per Aristotele si riconducono tutti gli altri significati, si trovi in una posizione subordinata rispetto all’essere, ottiene il duplice vantaggio di evitare il panteismo perché l’essere infinito sarà al di fuori della categoria di sostanza (“epekeina tes ousias”) e di concedere una reale pluralità di enti ciascuno dei quali potrà essere una sostanza a sé stante, ma non un essere analogo ad altri. Dunque Scoto si discosta dalla tradizione analogica e ritiene di poter garantire la differenza a partire dalla stessa nozione di ens univoce conceptum. Questo pone il problema dell’haecceitas, ovvero del principio di individuazione, che è il problema della differenza ultima, o meglio dell’identità e della differenza all’interno dell‘essere univoco: dell’identità dell’essere in ogni ente (univocità) e della differenza in ciascuno di essi (individuazione). Il problema è insomma come trovare l’elemento differenziante che provvede ad individuare tra loro realtà univoche. Quale è la soluzione di Scoto a questo problema? Procedendo nelle implicazioni dell’univocità metafisica Duns Scoto deve guadagnare la differenza all’interno dell’essere univoco, e questo tema ci permette di toccare il cuore e l’originalità della riflessione scotista. In una metafisica dell’univocità, infatti, la differenza tra le realtà non può essere collocata in una diversità degli esseri, perché non vi è che un solo essere univoco, e nemmeno nella diversità delle sostanze, perché, essendo svincolate almeno direttamente dal piano dell’essere, nulla vieta che vi possano essere due sostanze identiche. Occorrerà quindi che la differenza sia una modulazione precisa dello stesso essere univoco, capace di realizzarsi in gradi di intensità differenti. L’intensità è naturalmente quella di una potenza, intesa filosoficamente come capacità di generare degli effetti proporzionati a questa stessa intensità, perché se è vero che il nulla


è privo di potenza, mentre l’essere infinito è infinita potenza, è vero anche che ad ogni essere finito corrisponderà una precisa intensità di potenza: l’unico principio di differenza in un essere univoco può essere soltanto una precisa intensità in cui l’essere stesso si realizza e che si distingue da tutte le altre intensità compossibili e parallele. È questo il motivo per il quale Duns Scoto ha teorizzato la ben nota haecceitas. L’haecceitas, ossia il principio di individuazione, non è altro che il grado intrinseco di perfezione che caratterizza ogni singolo ente, e che provvede ad individuarlo e differenziarlo da ogni altra realtà rendendolo unico. Si tratta di una differenza ultima, detta da Scoto “ultima solitudo”, che contraddistingue ciascuna realtà, individuandola. È la differenza ultima (haecceitas) che provvede ad individuare ciascuna realtà esistente; per questo motivo dobbiamo riconoscere che “il modo intrinseco non è una differenza specifica, in qualunque grado della forma”, ma una differenza ultima, ossia la differenza individuante. E se il modo intrinseco ‘infinito’ può essere soltanto unico, cosicché Dio sarà individuato proprio dalla sua intensità infinita, di modi intrinseci finiti se ne possono immaginare invece indefiniti, in modo tale che per ciascuno di essi vale il discorso secondo cui esiste sempre un grado intrinseco di intensità, inferiore alle differenze specifiche, che provvede ad individuarlo. L’individuazione di ciascun uomo, per esempio, deve avvenire per qualcosa di inferiore alla differenza specifica ‘razionale’, perché altrimenti tutti gli uomini sarebbero semplicemente identici all’essenza ‘animale razionale’. L’individuazione non può essere fornita dal , né dalla sola forma, né dal loro composto, in quanto ciascuno di essi è una ‘natura’, ma è costituita dall’ultima realtà dell’ente, che è data dall’intensione della materia, della forma, o del loro composto. L’essere univoco si struttura così, senza cadere nel panteismo, in una serie di gradi intrinseci di perfezione e potenza, che ne rappresentano l’elemento differenziante. La riflessione di Duns Scoto ha il vantaggio di distinguere l’univocità dell’ens dall’indifferenza dell’essenza avicenniana (indifferenza al particolare e all’universale), per incastonarla in una indifferenza ancora più radicale e dalle forti implicazioni metafisiche, con cui viene ridimensionato qualsiasi tentativo di considerare l’ens sia al modo di un’essenza, sia al modo di un universale. Ancora riguardo all’infinito e alla sua eccedenza rispetto ad ogni ente finito, si è detto che l’infinità dell’essere, più che un presupposto,

è per Duns Scoto il risultato o la tappa conclusiva di una complessa argomentazione intorno all’esistenza di Dio. Inoltre, questa stessa argomentazione ripropone per certi versi l’intuizione anselmiana di Dio come “id quo maius cogitari nequit”. Si possono ripercorrere le principali argomentazioni con cui Duns Scoto sostiene l’infinità di Dio, e spiegare il significato del suo richiamo ad Anselmo? Un percorso determinante circa l’infinito, è offerto dalla connessione tra sommo bene ed essere infinito. Nel De primo principio, argomentando l’infinità di Dio, il Dottore Sottile scrive che una via per giungere alla conclusione dell’infinità può essere desunta dal fine. La nostra volontà può desiderare o amare qualcosa di più grande di qualsiasi fine limitato, come l’intelletto può, dal canto suo, conoscerlo. Sembra anzi che la volontà possieda un’inclinazione ad amare sommamente il Bene infinito, e che la volontà libera, come ci sembra di percepirla attraverso l’amore del Bene infinito, non riposi perfettamente che nel Bene sommo. La stessa considerazione è sviluppata nel’Ordinatio, dove è costruita come terza via per dimostrare l’infinità di Dio. L’esperienza interna dell’uomo, a parere di Duns Scoto, suffraga queste due constatazioni: la volontà umana, il cui oggetto è il bene, non si appaga mai nel possesso di un bene finito; il desiderio dell’uomo è sempre pronto ad «appetere et amare» qualcosa di maggiore, un bene più grande di qualsiasi bene finito dato. Inoltre, la volontà mostra la propria naturale inclinazione ad amare al massimo un bene infinito: l’inclinazione naturale della volontà verso qualche cosa è infatti evidenziata dal fatto che di sua iniziativa, senza un previo abito, vuole quella cosa «prompte et delectabiliter», ossia immediatamente e con appagamento del desiderio, e tale è l’inclinazione della volontà umana verso il bene infinito. Questi dati consentono di concludere non solo che l’uomo esperisce attualmente in sé il desiderio di amare un bene infinito, ma altresì che la volontà umana non sembra acquietarsi in modo perfetto in nessun altro bene. La conferma è data dal fatto che l’uomo odia il non‑essere, ossia la natura razionale rifugge da tutto ciò che si configura come distruttivo dell’ordine ontologico: se il bene infinito risultasse qualcosa di impossibile e di assurdo, qualcosa di contrario all’oggetto del volere umano, la volontà lo odierebbe, ossia lo rifuggirebbe istintivamente (Ordinatio, I, dist. 2, p. 1, q. 1-2; n°. 130, ed. Vat. II, 205-206). Questa argomentazione di Duns Scoto volta a stabilire l’infinità come caratteristica di Dio, si connette con le altre tre dimostrazioni dell’infinità di quell’essere trascendente, detentore di tre primalità


o perfezioni nel sommo grado: le tre argomentazioni passano rispettivamente dalla via primae efficientiae, in quanto causa efficiente prima (effectivum primum), che si espande nella via dell’intelligentia omnium factibilium, ossia dalla eminenza delle perfezioni che connotano l’intelletto del primum efficiens, il quale, in quanto primo, è infinito nell’ordine delle sue potenze, ossia intende simultaneamente in atto omnia, e pertanto è infinito. Anche dalla seconda primalità, data dall’essere causa finale ultima (ex parte finis), e dalla terza primalità, data dalla natura eminentissima in ogni ordine e grado di perfezioni (per viam eminentiae) si giunge ad argomentare l’infinità di Dio. Senza entrare nei dettagli, evidenziamo il termine centrale delle riflessioni, che è costituito dalla coppia: - eminentissimum. Se già la nozione di primalità o primo assoluto ci porta a mettere a fuoco l’eccedenza dell’infinito, nel senso che esclude l’esistenza di una realtà che lo superi da qualsiasi punto di vista, la nozione di massimamente eminente esclude anche l’esistenza di qualsiasi realtà che lo eguagli nella perfezione. Il richiamo all’id quo maius cogitari nequit di Anselmo è subito inserito da Scoto nella sua rielaborazione o coloratio Anselmi: si parte dalla preliminare asserzione dell’incompossibilità di qualcosa di più perfetto dell’eminentissimo, e la si connette con l’osservazione della possibilità per il finito di essere superato nella perfezione. Se l’eminentissimo (il perfettissimo) non è infinito intensivamente, non è sommamente perfetto, e dunque può essere superato o ecceduto, stante che l’infinità non ripugna all’ente, e l’infinito è maggiore di ogni finito. L’eccedenza dell’infinito è connessa con il suo essere il sommo pensabile segnato dalla triplice primalità; se fosse un sommo pensabile esistente solo nel pensiero, in ultima analisi sarebbe di fatto un “pensato”, sarebbe costretto a stare nell’ordine della pensabilità, mentre anche rispetto a questo deve essere eccedente: proprio come per Anselmo l’insipiens è tale allorché pensa di costringere l’id quo maius cogitari nequit ad assestarsi nell’ordine della pensabilità (e non della realtà), lo intende cioè alla stregua di qualsiasi altra entità pensata, rendendolo ipso facto ciò che non è id quo maius cogitari nequit. Ossia contraddicendosi, o, meglio, annullando il significato delle sue affermazioni. Un’ultima domanda, sul rapporto tra filosofia e rivelazione in Duns Scoto. La nozione di ente infinito è la più elevata a cui possa giungere l’intelletto umano e la volontà umana tende naturalmente al bene infinito, ma quale comprensione è possibile avere del contenuto di

questo infinito, almeno per l’uomo nella presente condizione ovvero “pro statu isto”? Qual è, in altri termini, il significato della fondamentale distinzione che Duns Scoto introduce tra la “theologia nostra” e la “theologia in se”? La qualifica dell’infinità esprime per il Dottor Sottile il vertice della perfezione formale di Dio; sappiamo che, per l’uomo, l’infinità è il concetto più elevato che possa avere di Dio in questa vita, e perciò il nostro maestro si è premurato di mostrare preliminarmente la non ripugnanza dell’infinità all’ente: «enti non repugnat infinitas». Non c’è contraddizione tra il concetto di ente e il concetto di infinito, perché l’intelletto non prova alcuna ripugnanza nel pensare qualcosa di infinito, lo vede anzi come l’intelligibile più perfetto. Del tutto analogamente l’aspirazione della volontà dell’uomo a un bene infinito non si presenta come la passione inutile o irrazionale di un soggetto inappagato dai risultati delle proprie azioni; essa è calata in un fondo di razionalità. Tuttavia, tanto l’intuizione come la fruizione diretta di un ente‑bene caratterizzato dall’infinità non sono garantite all’intelletto finito e alla volontà finita dell’uomo viatore: l’infinito è ovviamente obiectum naturale di un intelletto e di una volontà naturalmente infiniti. Da ciò si ricava una prima considerazione: affermando l’esistenza di un essere infinito nell’ordine delle conoscenze, si afferma contemporaneamente l’esistenza di un ambito di conoscenze eccedente l’orizzonte delle conoscenze intellettive dell’uomo; è l’ambito dell’intelletto infinito di Dio, che istituisce un sapere transmetafisico, ossia si deve ammettere che all’affermazione dell’esistenza dell’infinito consegue l’affermazione dell’ordine delle conoscenze proprio dell’essere infinito, ulteriore a ogni sapere metafisico dell’intelletto umano, e che nel linguaggio di Duns Scoto è definito la theologia in se, naturalmente intenzionata dall’intelletto divino e alla quale l’uomo ha accesso solo se una rivelazione positiva gliene offre dei contenuti articolati e resi comprensibili dalle forme del linguaggio umano. La rivelazione appare così in una prospettiva che dice la compatibilità e l’intrinseca coerenza tra l’ordine delle conoscenze dell’intelletto umano e l’ordine delle verità rivelate, proprio perché la dimostrazione dell’esistenza dell’infinito comporta l’ammissione dell’esistenza di un sapere infinito, eccedente la conoscibilità finita e del finito, ed è per sua natura sottratto all’intelletto del metafisico. La rivelazione di alcuni contenuti di questo sapere infinito assume perciò i connotati di coerente supporto alla natura dell’intelletto umano, che non dispone in proprio di possibilità alcuna di vincere


l’eccedenza che contrassegna in ogni ordine, della realtà e della possibilità, l’essere infinito. L’analisi dell’infinito nella sua declinazione di totale eccedenza sul finito ci riporta all’insistenza su di un aspetto della rivelazione, per cui essa risulta perfezionamento delle potenze naturali, conoscitive e volitive dell’uomo, pur senza derogare in nulla al primato dell’iniziativa divina nel rivelare e alla sua gratuità. Una seconda e ultima considerazione emerge dalla connessione esplicita operata da Duns Scoto parlando dell’infinitas Dei, tra la natura dell’intelletto divino che deve avere simultaneamente presente un’infinità di oggetti, dall’eternità, distintamente e indipendentemente dalla loro esistenza, e la volontà onnipotente o potenza effettiva infinita, atta a creare una indefinita molteplicità di cose, ossia la perfezione dell’efficienza propria della causa prima di tutto l’essere attuale e possibile. L’aspirazione umana ad un bene infinito è risultata non velleitaria e non contraddittoria proprio perché l’infinità non ripugna all’intelletto e al volere; non siamo dunque in una prospettiva di «volontarismo», non siamo di fronte a una prevaricazione che attribuisce alla volontà totale autonomia rispetto all’intelletto, come spesso la storiografia della prima metà del Novecento ha sostenuto in riferimento a Duns Scoto. Il percorso, che ha condotto all’affermazione dell’ens infinitum e al riconoscimento della intrinseca validità dell’aspirazione dell’uomo all’infinito, mette in risalto lo stretto rapporto tra essere e bene, tra intelligenza e volontà, che la libertà della volontà non potrà mai alterare o sopprimere, perché non potrà mai decidere di annullare la propria natura più intima e costituiva, ossia la strutturale capacità della volontà di amare l’oggetto più amabile, di volere il bene più sommo, di desiderare cioè la fruizione di un bene infinito.


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