Numero 7 - (Nuova serie) - 2012
Direzione: Elio Matassi - Vannino Chiti - Marco Filippeschi - Carmelo Meazza Coordinamento generale del sito e della web TV: Marco De Pascale
Adesioni Massimo ADINOLFI (Univ. di Cassino), Claudia BARACCHI (The New School for Social Research, New York); Massimo BARALE (Univ. di Pisa), Giuseppe BEDESCHI (Univ. La Sapienza, Roma), Luigi BERLINGUER (Univ. di Siena), Enrico BERTI (Univ. di Padova, Accademia dei Lincei), Franco BIASUTTI (Univ. di Padova), Remo BODEI (University of California (Los Angeles)), Almut Sh. BRUCKSTEIN (Ha’atelier, Berlino/Gerusalemme), Massimo CACCIARI (Sindaco di Venezia, Univ. San Raffaele, Milano), Giuseppe CANTILLO (Univ. di Napoli), Carla CANULLO (Univ. di Macerata), Andrea CAUSIN (Esecutivo PD), Stefano CECCANTI (Univ. La Sapienza, Roma), Mauro CERRUTI (Univ. di Bergamo, Deputato), Pierpaolo CICCARELLI, (Univ. di Cagliari), Umberto CURI (Univ. di Padova), Gianfranco DALMASSO (Univ. di Bergamo), Antonio DA RE (Univ. di Padova), Roberta DE MONTICELLI (Univ. San Raffaele, Milano), Pietro D’ORIANO (Univ. La Sapienza, Roma), Massimo DONA’, (Univ. San Raffaele, Milano), Adriano FABRIS (Univ. di Pisa), Maurizio FERRARIS (Univ. di Torino), Giovanni FERRETTI (Univ. di Macerata), Marco FILIPPESCHI (Dirigente nazionale PD, Sindaco di Pisa), Pierfrancesco FIORATO (Univ. di Sassari), Massimo FIORIO (Univ. di Torino), Vittoria FRANCO (Senatore, Univ. di Pisa), Fabrizia GIULIANI (Univ. di Siena), Sergio GIVONE (Univ. di Firenze), Alfonso M. IACONO (Univ. di Pisa), Giovanni INVITTO, (Univ. di Lecce), Marco IVALDO (Univ. di Napoli), Antonello LA VERGATA (Univ. di Modena), Claudia MANCINA (Univ. La Sapienza, Roma), Sandro MANCINI (Univ. di Palermo), Aldo MASULLO (Univ. di Napoli), Eugenio MAZZARELLA (Univ. di Napoli), Carmelo MEAZZA (Univ di Sassari), Alberto MELLONI (Univ. di Modena), Virgilio MELCHIORRE (Univ. Cattolica, Milano), Gaspare MURA (Pontificia Università Urbaniana), Silvano PETROSINO (Univ. Cattolica, Milano), Andrea POMA, (Univ. di Torino), Mauro PONZI (Univ. Romauno), Alfredo REICHLIN (Presidente del Cespe), Luigi RUSSO (Univ. di Palermo), Leonardo SAMONA’ (Uni. di Palermo), Gennaro SASSO (Univ. La Sapienza, Roma, Accademia dei Lincei), Aldo SCHIAVONE (Univ. di Firenze), Lucinda SPERA (Univ. di Siena), Tamara TAGLIACOZZO (Univ. Roma Tre), Andrea TAGLIAPIETRA (Univ. San Raffaele, Milano), Corrado VIAFORA (Univ. di Padova), Carmelo VIGNA (Univ. di Venezia), Mauro VISENTIN (Univ. di Sassari), Franco VOLPI† (Univ. di Padova).
Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica Appunti sul presente, Mensile culturale on line, redazione: presso associazione culturale Inschibboleth Roma Sassari, redazione on line su skype; editore: associazione Inschibboleth, via A Fusco 21 - Roma, via Carso - Sassari, mail: associazione.inschibboleth@gmail.com. Direttore Responsabile: Aldo Maria Morace. Ufficio stampa, Marco De Pascale.
I
n d i c e
Le primarie saranno la rinascita del centro sinistra? di Elio Matassi
Elogio della malinconia di Alfonso Maurizio Iacono
La filosofia come placebo di Giovanni Invitto
Rinnovamento e attualitĂ della cultura umanistica di Gaspare Mura
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Le primarie saranno la rinascita del centro sinistra? di Elio Matassi
Mentre la situazione del centro destra, del blocco del PDL, appare segnata ogni giorno di più da contraddizioni, confusione, mancanza di una strategia coerente, le primarie, a prescindere dal risultato, hanno segnato un momento di crescita complessiva rilevante per il centro sinistra. La vittoria del segretario del PD, Pierluigi Bersani, è stato più netta del previsto, ma anche il candidato soccombente, Renzi, è uscito molto bene dalla competizione generale. Come altrettanto bene sono usciti anche i tre candidati, Vendola, Puppato e Tabacci. L’impressione che le primarie hanno dato è stata quella della
possibile coesistenza fra le cinque diverse anime e sensibilità della coalizione di centro sinistra. Cinque anime che sono una risorsa, un potenziale moltiplicatore delle energie della nuova coalizione. Non annullandosi reciprocamente, ma fondendosi compiutamente in una sintesi vincente. Il vero problema, anche data l’incertezza che regna sulla legge elettorale, sta nell’eventuale allargamento della coalizione al centro, quell’alleanza tra progressisti e moderati che dovrebbe rappresentare la rinascita del sistema-Italia. Quello che mi chiedo può essere prospettato nella maniera seguente: il centro con Renzi, con Tabacci, non rappresenta già un fattore determinante nella coalizione già prestabilita? Come potrebbe avvenire un ulteriore allargamento, non rischierebbe di far collassare tutto? E soprattutto, possono coesistere le due linee politiche, la presidenza Bersani, con quella del Monti-bis. Nutro molti dubbi in proposito. Del resto lo schieramento attuale della coalizione di centro-sinistra, con Renzi e Tabacci a destra, con al centro Bersani e Vendola e la Puppato a sinistra, non è già fortemente caratterizzato verso il centro, piuttosto che alla sinistra della coalizione. A questo problema si accompagna quello, posto in maniera radicale da Renzi, di un rinnovamento ampio sul piano generazionale, che non può essere ridotto in maniera semplificatoria in uno scontro tra giovani e vecchi. Già da tempo sostengo che il liberismo anagrafico è la forma più demenziale di liberismo che si possa concepire. Quello che, invece, deve essere realizzato è piuttosto quello di un effettivo ricambio della classe dirigente, di una messa in questione irreversibile di oligarchie ormai consolidate, ma anche, purtroppo, datate. Terzo problema: il lavoro, il lemma più usato, ma anche più calpestato del dibattito pubblico contemporaneo. Come attuare uno sviluppo effettivo e ridurre, nel contempo, almeno in maniera tendenziale le grandi diseguaglianze che si sono cristallizzate nell’ultimo ventennio. Il centro sinistra avrà la preparazione culturale sufficiente? Il centro sinistra deve attrezzarsi di fronte di alla nuova svolta-soglia epocale, la crisi e la fine del sistema di potere del berlusconismo e le aspettative del mondo produttivo e di quello del lavoro; e ancora le aspettative, da troppo tempo eluse e frustrate del lavoro dipendente, nel mondo della scuola e dell’università. La ormai definitiva realizzazione della riforma Gelmini e la parallela partenza di quell’autentico monstrum rappresentato dalla carica dei centomila, tanti sono i candidati che si sono candidati alle abilitazioni universitarie nazionali, rischiano di far collassare in maniera definitiva e irreparabile il sistema universitario. Torneremo a proposte demenziali e distruttive, come quelle legate, nel passato, alla shock generazionale per alimentare le aspettative ansiogene delle nuove lobby. Vedo molto nubi, tra le luci che si intravedono all’orizzonte. Il centrosinistra deve risolvere in maniera rigorosa l’equazione merito – innovazione – consolidamento delle strutture pregresse, altrimenti il sistema universitario imploderà. E all’interno del mondo universitario,
vanno difesi in modo particolare i saperi umanistici; oggi la differenza tra destra e sinistra si può misurare anche su queste scelte. Quali risposte fornirà l’attuale aspirante premier, vincitore delle primarie? La sua preparazione culturale sarà sufficiente a mantenere coerente il progetto complessivo della coalizione? Gli intellettuali che si riconoscono in Inschibboleth continueranno ad esercitare questa funzione critica, essendo completamente consapevoli delle disattenzioni, del sostanziale cinismo con cui l’attuale oligarchia burocratica, in particolare del partito democratico, ha accolto le nostre indicazioni e suggestioni. Noi continueremo con la nostra coerenza di sempre, senza abdicare al nostro compito, ben sapendo di rappresentare molto di più di una piccola lobby da sfamare.
Elogio della malinconia di Alfonso Maurizio Iacono
Anziani signori che si pensano giovani e onnipotenti, prostitute che si credono veline, ruffiani per vocazione e per professione, donne che amano farsi schiave pur di apparire in tv. I confini si sfumano. Sembra di essere nella descrizione che il grande filosofo illuminista, padre dell’Encyclopédie, Denis Diderot fece di una scena che disse di sognare mentre stava ammirando a Parigi un quadro del pittore Jean-Honoré Fragonard. Sognò di essere nell’antro di Platone e gli spettatori erano come i prigionieri. Ma, a differenza di Platone, Diderot ne fa l’elenco: “re, ministri, preti, dottori, apostoli, profeti, teologi, politici, bricconi, ciarlatani, artisti facitori di stupefacenti illusioni e tutta la genìa dei mercanti di speranze e di paure”. Chi osava dire qualcosa, chi aveva l’ardire di criticare, veniva malvisto e minacciato. Diderot aveva scritto queste cose nel 1765, ma sembrano i nostri giorni. Oggi bisogna essere sempre euforici, gioiosi, perchè, ci dicono, l’infelicità è una malattia che va tenuta lontana. I mezzi ci sono. I soldi, per chi ce li ha, pure. In un’epoca in cui non siamo più in grado di distinguere tra il normale e il patologico, e non sappiamo più bene dove stia la differenza tra una gioia sana e un piacere insano, tra la tristezza e la depressione, tra una sofferenza che ci fa crescere e una dolore che ci opprime,
vorrei tessere l’elogio della malinconia. Quella che ci fa sentire la mancanza, il limite, l’irreversibile, l’irraggiungibilità di una meta, l’invalicabilità di un confine, l’infinito di un orizzonte. Quella che abbatte il delirio di onnipotenza e ci fa capire che il tempo avanza e muta le cose e noi stessi. Quella che ci toglie la facile illusione a buon mercato del gratta e vinci. Quella che ci porta all’ironia, mettendo in dubbio noi stessi ogni qual volta ci prendiamo troppo sul serio. Quella che ci fa volgere lo sguardo al passato con umiltà e commozione. Quella che ci spinge verso un futuro che non c’è e potrebbe non esserci mai. Quella che ci evita l’inganno di una falsa pienezza di vita quando invece cerchiamo soltanto di sfuggire a noi stessi. Quella che deride la furbizia e la mette dove deve stare, negli anfratti dei servi. Quella che ci dà una coscienza e una dignità. La malinconia è l’inevitabile portato della vita umana. Ne abbiamo oggi così tanta paura che la identifichiamo con una malattia, la depressione. Ma la malinconia non lo è. Neppure la tristezza lo è. Perché tendiamo a confonderle con la depressione? Perché attribuiamo a un atteggiamento sano il marchio della malattia? George Steiner ha scritto: “Le interposizioni tra pensiero e atto sono molteplici e varie come la vita. Le ombre che cadono tra il pensare e il fare non possono mai essere inventariate esaustivamente e ancor meno classificate. Le costruzioni ingegneristiche o architettoniche più esigenti ammettono lievi deviazioni dal progetto o dalla calibratura precisa. Nessun pittore, per quanto capace, può trasferire appieno sulla tela la sua visione interna o quel che crede di vedere di fronte a sé. Perfino nella sua forma più rigorosa, la musica incorpora solo parzialmente il complesso di sentimenti, idee, relazioni astratte del suo compositore. La distanza tra ciò che preme sulla sensibilità, tra l’immaginato e la sua enunciazione linguistica, è un melanconico clichè, un luogo comune di una sconfitta perpetua fin dagli inizi non solo della letteratura, ma degli scambi più intimi e urgenti tra gli uomini”. La tristezza è la sofferta consapevolezza dello scarto incolmabile tra il pensare e il fare, è il senso del limite, è la ferita narcisistica. Solo una cultura invasa dall’insano senso di onnipotenza può rifiutare di accettare questo inevitabile scarto che dà il segno inequivocabile della nostra mortalità. Non siamo più in grado di distinguere la malinconia e la tristezza dalla depressione. Non ci riusciamo più. Come ha osservato il biologo Steven Rose: “all’interno della nostra cultura e delle nostre società altamente individualistiche vi è una crescente tendenza a medicalizzare l’angoscia sociale e ad etichettare l’infelicità come uno stato patologico, da correggere mediante intervento medico che sia attraverso l’uso di farmaci o di altre forme di terapia”. Nella nostra epoca, domina la spinta a patologizzare il normale. Un tempo era la condizione patologica a dirci qualcosa della normalità. Una malattia funzionava da lente di ingrandimento per ciò che era sano. Oggi accade il contrario. Una malattia come la depressione, considerata ormai come un’epidemia su scala globale, non riesce più a essere una lente di ingrandimento per la condizione normale, perché tutto sembra mostrarsi con le fattezze del patologico. E’ ormai senso comune chiamare depressione quasi ogni tipo di sofferenza sentimentale. Il dolore dell’abbandono della donna amata o dell’uomo amato diventa
sintomo della depressione e dunque segno di una malattia. Ma la sofferenza non è di per sé una malattia. Se tuttavia la tendenza è verso l’identificazione di ogni sofferenza con la malattia, allora la questione è culturale e riguarda la medicalizzazione sempre più crescente delle relazioni sociali. La ricerca della felicità individuale, prospettata dai paesi occidentali, ha bisogno del supporto medico e psichiatrico? Se è così, fin dove si estende la pratica della diagnosi medica? E quali terapie prescrive per gli individui e per la società? Queste domande non implicano qui l’ovvia e scontata conclusione che gli individui non possono e non devono ridursi a perdere le loro libertà in favore di terapie a base di psicofarmaci né ancor meno che a governare le persone debbano essere medici e sciamani con il camice bianco che si prendono cura di loro. Ma non implicano neanche la conclusione che la ricerca della felicità e, al contempo, della libertà possano e debbano essere necessariamente aiutate dalla farmacopea, nuovo angelo chimico del focolare che sta lì accanto, pronta a sorreggerti quando le forze sembrano affievolirsi e quel senso di sicurezza che si è alimentato di un sottaciuto desiderio di onnipotenza, sembra all’improvviso mancare, creando smarrimento, ansia, panico, depressione. Il fatto è che lo smarrimento non si traduce necessariamente in ansia e in panico, e la sofferenza non è di per sé una malattia. Salute e malattia, però, non sono entità distinte. Ogni malattia può essere una lente d’ingrandimento per capire in cosa consista la stato di salute. Nell’ansia riconosci lo smarrimento, nella depressione la malinconia. Proprio per questo rapporto di parentela così stretto, il normale e il patologico possono confondersi e, nella confusione, può capitare che si attui la colonizzazione della salute da parte della malattia. E’ quel che sta accadendo, mi pare, anche alla politica e alla democrazia.
La filosofia come placebo di Giovanni Invitto
Filosofia a colazione, pranzo e cena. Dopo i vari festival filosofici, ora è praticata una nuova moda: quella per la quale la filosofia è un supporto “pubblico” ai problemi del vissuto. Per quanto concerne la mia zona di residenza, un comune del Salento ha attivato, presso il palazzo comunale, uno studio per il “consulente filosofico” che riceve i cittadini su appuntamento. Inoltre, una donna di mezza età, che ha un percorso formativo sempre per la “consulenza filosofica”, si è trasferita da Milano a Lecce, anche perché al Nord non era riuscita mai ad avviare una sia pur minima pratica lavorativa in quel campo. Ora gestisce, in un importante centro della provincia salentina, una specie di studio presso l’università della terza età. Niente di scandaloso né di illegale, sia ben chiaro. Nessuno smentisce il fatto che la prassi dialogica e argomentativa possa aiutare il singolo a fare maggiore chiarezza in se stesso: avviene da anni con la filosofia per ragazzi, importata, naturalmente, dall’America. Il pericolo è costituito dalla possibilità di una duplice illusione: la prima è che ci possa essere una filosofia come professione paraterapeutica, la seconda che, con queste prassi, si risolva il problema della disoccupazione di chi ha fatto certe, apprezzabili, scelte culturali che, oramai, non hanno più sbocco nell’insegnamento.
Rinnovamento e attualità della cultura umanistica di Gaspare Mura
Il Teatro Eliseo di Roma ha ospitato il 15 novembre scorso gli Stati generali della cultura organizzati da Il Sole 24 Ore con l’ Accademia dei Lincei e l’Enciclopedia Italiana. Il Direttore de Il Sole, Roberto Napoletano, ha moderato una tavola rotonda alla quale hanno partecipato Lorenzo Ornaghi, ministro dei Beni culturali, Francesco Profumo, ministro dell’Istruzione, Luciano Barca, ministro per la Coesione territoriale, e l’ archeologo Andrea Carandini, il quale ha denunciato i tagli alla cultura ed ha definito “il ministero ormai un morente ibernato”. Non è mio compito riportare la cronaca di un incontro, che ha visto anche momenti di contestazione da parte del pubblico, bensì mettere in luce gli importanti contenuti che sono
emersi e che hanno trovato nel discorso del Presidente Giorgio Napolitano una sintesi efficace e profonda nonché il pieno e convinto consenso da parte del pubblico. Roberto Napoletano ha inaugurato l’incontro affermando che la cultura “è il vero grande capitale del nostro paese. E la nostra visione è che la cultura non è solo l’arte, la storia, il patrimonio museale, le lettere, la filosofia, ma è anche la scuola, la ricerca, la formazione, l’università”. Purtroppo, ha proseguito, diamo l’immagine “di un Paese mediocre che vive sulle spalle di un grande passato”. Per questo, “quando chiunque governerà questo Paese riuscirà a fare di questo racconto il racconto dell’Italia, quando l’Italia si saprà dare un programma di lungo periodo che metta al centro della politica economica la cultura, farà molto più velocemente strada di quanto possa fare non solo, come è necessario, tagliando ogni giorno, ma anche inseguendo improbabili disegni di sviluppo”. Una delle affermazioni più efficaci e ripetute dai vari interventi è che “la cultura è il vero volano dell’economia di un paese”. Napoletano ha presentato, a riprova di tale asserzione, l’ Indice 24 della Cultura, un nuovo strumento del quotidiano che, unitamente alle indicazioni economiche, vuole offrire le indicazioni relative alla valorizzazione della cultura come motore di sviluppo economico e sociale, e che intende valorizzare “il capitale della cultura” perché “la cultura non è un costo, ma un’opportunità, un investimento”. L’ Indice, basandosi sull’archivio digitalizzato Google-Harvard, che indicizza un termine all’interno di un catalogo di libri digitalizzati, permette di ottenere una serie di nozioni indicative della presenza e del successo del referente simbolico del termine. Ora, dalle prime analisi di ricerca dell’Indice, ha affermato Napoletano, si evince che il peso delle iniziative culturali che creativamente opera il terzo settore in Italia, corrispondono al 15% del pil annuale. Il Presidente Giorgio Napolitano ha avallato in modo autorevole queste considerazioni, in un discorso che dovrebbe essere fatto leggere e meditare dagli studenti delle scuole di ogni ordine e grado. “Esiste da decenni - ha detto Napolitano- una sottovalutazione clamorosa della cultura, della formazione, della ricerca da parte delle istituzioni rappresentative della politica, del governo, dei governi locali, ma anche della società civile....Occorre far emergere una nuova scala di priorità, non credo ci si debba arrendere agli automatismi della spending rewiew...Diviene perciò urgente salvaguardare una quota consistente di risorse per la cultura, la ricerca e la tutela del patrimonio e del paesaggio”. Napolitano ha citato l’ Articolo 9 della Costituzione, che obbliga la Repubblica alla promozione ed allo “sviluppo della cultura e della ricerca scientifica e tecnica ed alla tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico del paese”, includendo pertanto i tutti i settori della cultura, il teatro, il cinema, la musica, il patrimonio artistico, l’ istruzione scolastica e la formazione, anche ad opera del terzo settore; ed ha affermato che “non possiamo giocare con il rischio del fallimento”, perché “ contenimento e riduzione della spesa pubblica non vogliono dire che non ci possa essere una ele-
zione”, ovvero una scelta tra le priorità da perseguire. La cultura è motore e moltiplicatore dello sviluppo e non possiamo permetterci di sottovalutare il Dettato costituzionale dimenticando il rapporto cultura e scienza e incivilimento del paese e sviluppo economico e prestigio dell’ Italia nel mondo. E’ opportuno sottolineare come le parole del Presidente Napolitano abbiano non solo un significato politico, volto a richiamare il governo a declinare la pur necessaria spending rewiew sul dovere costituzionale di sostegno alla cultura, in tutti i suoi aspetti, ma rivestono esse stesse un significato culturale che è opportuno mettere in evidenza. Esso costituiscono un autorevole incoraggiamento per quanti, anche nel mondo della scuola, sono oggi tentati dalla resa e dalla rinuncia, a motivo del fatto che per molti giovani il nostro patrimonio culturale è un “cadavere mummificato”, adatto ad essere relegato in un museo o peggio in un deposito di oggetti smariti, a promuovere invece i valori della nostra tradizione culturale. Proprio in questo momento storico, segnato dalla crisi, come ha sottolineato Giuliano Amato, occorre educare i giovani tentati dall’inseguire un “altrove culturale”, ad essere consapevoli che “nello scrutare le strade per il nostro futuro, dobbiamo certo guardare anche fuori di noi, ma è sbagliato cercare di continuo modelli stranieri da imitare. Badiamo piuttosto ad innestare ciò che cogliamo altrove nella nostra originale capacità di rielaborazione, che è quella a cui dobbiamo, storicamente, la qualità e la bellezza delle nostre creazioni. Abbiamo insomma l’orgoglio di essere ciò che siamo stati nei nostri momenti migliori, l’orgoglio non di imitare gli altri, ma di fare ciò che agli altri possiamo insegnare.” A sua volta Giuliano Amato ha osservato che la cultura umanistica, di cui è intessuta la nostra tradizione di appartenenza, “non è solo Dante. Petrarca e Michelangelo, è anche Galileo, è Evangelista Torricelli, è Alessandro Volta, è Antonio Meucci, è Enrico Fermi, è Leonardo, formidabile sintesi della scienza e dell’arte”. Insomma, i giovani devono essere educati non ad un’istruzione nozionistica e sterile, ma ad una comprensione vitale di una cultura che ha la potenzialità connaturata di operare la sintesi tra i diversi ambiti del sapere, e tra i diversi orizzonti linguistici, quello letterario e quello scientifico, quello filosofico e quello tecnico, quello artistico e quello economico, perché solo la cultura umanistica è capace di rigenerarsi in ogni epoca e di comprendere le novità e le sfide del tempo. Giustamente Francesco Erspamer, responsabile degli Italian Studies alla Harvard University, ha scritto recentemente, che “non possiamo permetterci né di non cambiare né di decretare la fine della cultura umanistica. Problemi globali quali l’esplosione demografica, la crescente diseguaglianza economica, la concentrazione dell’informazione, richiedono capacità di intervento e di riflessione che solo possono nascere da una contaminazione di competenza tecnologica, creatività e acutezza di pensiero”. Solo rinnovandosi nella continuità, ad opera di intelligenti operatori culturali e soprattutto di docenti sensibili, attenti a leggere il nuovo senza dimenticare le radici, può rendere di nuovo feconda la cultura umanistica, perché “umanesimo è partecipazione; è domandarsi
e decidere dove sia bene andare, a qualunque età - verso quali nuovi libri, nuova musica, nuovi paradigmi. E provare ad andarci, giovani e adulti, inevitabilmente insieme” (La Repubblica, 21 novembre). In ordine a queste autorevoli riflessioni, vanno indicati altri importanti significati di attualità connessi al rinnovamento della cultura umanistica.. Si tratta della sua capacità privilegiata di inserirsi con competenza e in modo costruttivo, unito ad autentica razionalità etica, nell’odierno contesto multiculturale e multi religioso. La più avanzata riflessione filosofica, in particolare nella sua espressione ermeneutica, ha da tempo messo in evidenza come l’incontro tra culture e fedi religiose diverse, che qualifica in modo sostanziale il nostro mondo globalizzato, fa prevalentemente riferimento alla loro espressione linguistica ed alle modalità del rapporto che si è capaci di instaurare. E’ il linguaggio, in altri termini, in cui abitiamo come uomini che appartengono a diverse culture e religioni, ad ospitare la nostra primaria capacità di comprensione reciproca o di rifiuto. Vivere costruttivamente nel nostro mondo e ancor più nel mondo che si va prospettando nel futuro di tutti noi, significa maturare la capacità di comprendere la diversità dell’altro “traducendola” nella nostra lingua senza indebiti assorbimenti e riduzionismi, salvaguardandone insieme la diversità pur mantenendo una relazione di dialogicità. La cultura umanistica, oggi maturata e rinnovata ad opera dei più eminenti filosofi contemporanei, offre indispensabili contributi per assolvere al compito di operare in modo dialogico in un contesto interculturale ed interreligioso. Paul Ricoeur, riferendosi al corretto modo di comprendere e tradurre nel proprio orizzonte linguistico e culturale la lingua dell’altro, ha parlato di “hospilalité langajère”, ospitalità linguistica, il cui regime “è quello di una corrispondenza senza adeguazione”. L’ “ospitalità linguistica, scrive Ricoeur, ovvero il piacere di abitare la lingua dell’altro, è compensata dal piacere di ricevere presso di sé, nella propria dimora, la parola dello straniero” (P. Ricœur, Sur la traduction, 2004). Ora, il tema della “traduzione” ha costituito da sempre uno dei riferimenti tematici ed uno dei capisaldi teoretici della cultura umanistica, a partire dai grammatici alessandrini fino ai traduttori rinascimentali e poi romantici. Il rinnovamento del tema della traduzione implica, per Ricoeur, che nell’atto di tradurre nella propria lingua la parola dello straniero, si realizzi l’unione emblematica tra ciò che appartiene alla propria identità e ciò che le è estraneo, tra ciò che appartiene al sé e ciò che è proprio dell’altro. L’atto del tradurre, in un contesto interculturale ed inter religioso, se vivificato dall’istanza dell’umanesimo etico, viene gratificato dalla costruzione di un dialogo che non è solo teoretico, ma si apre al rapporto etico, sociale ed infine politico. E questo perché il tradurre può realizzarsi solo se gli interlocutori, pur mantenendo la loro reciproca “estraneità”, cercano tuttavia di comprendersi, di dialogare , di relazionare i propri orizzonti culturali, e l’atto del “tradure” diviene così il paradigma di ogni tipo di dialogo. Un dialogo ispirato a quell’ “etica del riconoscimento” di cui Ricoeur ha ampiamente trattato in Parcours de la reconnaissance (2004), perché è proprio divenendo capaci di riconoscere l’alterità che si testimonia la dimensione etica dei processi linguistici e comunicativi, e si edifica una convivenza
sociale ispirata alla tolleranza ed alla pace. L’ermeneutica si allarga in tal modo nell’orizzonte di una razionalità pratica, capace di vivificare la complessità del nostro mondo culturale e sociale. In sintesi, Ricoeur, evidenziando il significato dell’atto del “tradurre”, ha voluto sottolineare come in ogni rapporto con coloro che hanno convinzioni diverse dalle nostre, sia che appartengano al nostro contesto culturale oppure ad un mondo estraneo, si tratta sempre di mettere in atto un tipo di comprensione reciproca fondata sulla capacità di comprendere realmente la lingua dell’altro: “....non si è mai finito nel compito di spiegarsi reciprocamente , di spiegarsi con parole e frasi, di spiegarsi con l’altro che non vede le cose nel medesimo angolo visuale del nostro” (Ricoeur, Sur la traduction, 2004). Peraltro, il tema del rapporto insieme dialogico ed etico con l’”alterità” è stato centrale nella riflessione filosofica contemporanea, e per questo Ricoeur poteva concludere che l’istanza etica che anima l’intenzionalità dialogica appartiene a quella che Gabriel Marcel chiamava la “fedeltà”, declinata qui in modo linguistico come “la fedeltà come la capacità del linguaggio di custodire il segreto all’incontro, rispetto alla sua propensione a tradirlo” (Ricoeur, Sur la traduction, 2004). Perché nel processo della comunicazione inter-linguistica si palesa la vera sfida etica dell’incontro con l’altro, quella che Ricoeur chiama la “prova dello straniero”, nella quale occorre saper equilibrare la tensione verso la comprensione dell’altro con la fedeltà al proprio orizzonte linguistico e culturale, senza indebiti assorbimenti e riduzionismi, ma anche senza tradimenti. La cultura umanistica, che da sempre è stata pensosa delle modalità teoriche e delle finalità insieme etiche e politiche del dialogo, ha per questi motivi nel nostro contesto multiculturale e multi religioso una preziosa chance di rinnovamento e di fecondità. Perché la società del futuro o sarà la società del dialogo e della comunicazione o semplicemente non avrà futuro. Gadamer a sua volta ha sottolineato a in modo ancora più accentuaato il fatto che dialogo e comunicazione, avendo costitutivamente un referente linguistico, possono ritrovarsi in questa tesi, centrale in Verità e metodo: “l’essere che può essere compreso è linguaggio” (Gadamer, Verità e metodo, 1972), nel senso che il linguaggio costituisce l’orizzonte trascendentale di ogni nostra umana comprensione. Gadamer vuole indicarci il fondamento ontologico del linguaggio come luogo dell’incontro con l’altro, del nostro rapporto con il mondo e con gli altri, il luogo insomma di ogni nostra autentica esperienza. Di conseguenza Gadamer vuole ricordarci che “l’intesa tra gli uomini avviene sulla base di un orizzonte comune che vive nella lingua che parliamo, e nei testi eminenti che costituiscono il patrimonio di questa lingua “; e inoltre che “ l’esperienza di verità si dà solo nel dialogo, in quella dialettica di domanda e risposta che alimenta il movimento circolare della comprensione “ (Gadamer, Etica dialettica di Platone, 1931). Per questo, secondo Gadamer, si impara a dialogare oggi, se si è capaci di dialogare con Eraclito e Platone, con Socrate e Aristotele, con Kant ed Hegel, fino ai principali rappresentanti della cultura contemporanea, perché dialogare in senso ermeneutico significa divenire capaci di oltrepassare il proprio orizzonte di comprensione per farsi incontro all’altro, all’estraneo, allo
straniero, riconosciuto e rispettato nella sua “irriducibile alterità”. “Un dialogo - scrive Gadamer- è qualcosa in cui si capita, in cui si viene coinvolti, del quale non si sa mai prima cosa ne ‘salterà fuori’, e che si interrompe non senza violenza, perché c’è sempre ancora d’altro da dire... Ogni parola ne desidera una successiva; anche la cosiddetta ultima parola, che in verità non esiste”. Gadamer estende la riflessione sul significato e il valore del dialogo entro un orizzonte ermeneutico, capace di svilupparne anche le più impensabili componenti. Al termine del suo cammino di ricerca, Gadamer ha scritto per autobiografia culturale dal titolo: Maestri e compagni nel cammino del pensiero. Un sguardo retrospettivo (1980), per comunicarci non solo la sua gratitudine nei confronti di quei maestri che hanno maturato la sua personalità, ma anche per insegnarci che solo imparando - e insegnando ai giovani- a “conversare con i grandi”, secondo l’espressione usata da Nicolò Machiavelli nella sua lettera nel 10 dicembre 1513 a Francesco Vettori, si diviene capaci di dialogare con le più diverse espressioni culturali del proprio tempo. Gadamer rinverdisce in questo modo uno dei grandi insegnamenti della cultura umanistica, avvertendo che “l’intesa tra gli uomini avviene sulla base di un orizzonte comune che vive nella lingua che parliamo, e nei testi eminenti che costituiscono il patrimonio di questa lingua “, precisando inoltre che “ l’esperienza di verità si dà solo nel dialogo, in quella dialettica di domanda e risposta che alimenta il movimento circolare della comprensione “ (Gadamer, Etica dialettica di Platone, 1931). Il modello della dialogica gadameriana è infatti il dialogo socraticoplatonico, in cui l’incontro dialogico con l’altro, per poter costituire un’autentica esperienza ermeneutica, deve poter condurre ad una “fusione di orizzonti”, in cui gli interlocutori, pur non rinunciando alla propria visione, sanno tuttavia arricchirla aprendosi alla visione dell’altro. giacché, scrive Gadamer, “ condurre un dialogo significa mettersi sotto la guida dell’argomento che gli interlocutori hanno di mira “. Il dialogo si fonda infatti sul nostro linguaggio, che secondo la lezione di Heidegger non è qualcosa di cui possiamo disporre ad arbitrio, ma è l’orizzonte in cui ci è dato incontrare l’essere e l’uomo. Per questo Gadamer può affermare che anche la tradizione culturale di appartenenza non è un insieme di testi da relegare in un museo o in un deposito di oggetti perduti, ma è presenza vivente del linguaggio, che ci interpella attraverso le parole degli autori, con i quali è possibile instaurare un rapporto dialogico di domande e di risposte, un rapporto vivente che arricchisce la nostra capacità di comprensione, la nostra umanità, e diviene educatrice della nostra capacità di accoglienza dell’altro, dell’estraneo, dello straniero. Gadamer concepisce pertanto l’originaria appartenenza del linguaggio e dell’essere, come la condizione che sta a fondamento di ogni relazione interpersonale e dialogica, come una sorta di “trascendentale ermeneutico” , nel senso che declina il trascendentale kantiano, inteso come condizione della possibilità dell’esperienza, in senso linguistico, come “condizione di possibilità” di ogni tipo di relazione dialogica, interpersonale e comunicativa. In questo senso K.O. Apel ha potuto denominare questa “svolta linguistica della filosofia”, come “trasformazione semiotica del kantismo”, la quale non
ha solo “decretato il trionfo dell’opinione sulla verità, della storia sulla logica, del contingente e mutevole, del relativo sull’assoluto, una parola della doxa sull’episteme” (Vitiello, Dall’ermeneutica alla topologia, 2000), ma anche un rinnovamento della questione della verità, nell’orizzonte di una importante ripresa dell’etica dialogica della tradizione umanistica. Come scrive Carla Danani, “Gadamer osserva che è nel linguaggio che Platone trova quell’essere dell’ente che è la stabilità dell’apparenza, l’eidos, ciò che costituisce sempre la cosa, la sua essenza” (Danani, L’amicizia degli antichi.Gadamer in dialogo con Platone e Aristotele, 2003). Ed è nell’orizzonte di questo “trascendentale linguistico” che l’ermeneutica filosofica ha rivalutato l’importante nozione della phrónesis. “Da Heidegger scrive Gadamer- ho appreso il significato della phrónesis, di quel sapere pratico che ci è necessario per agire e per prendere decisioni nelle varie situazioni della vita: non possiamo infatti interrogare gli esperti quando dobbiamo prendere una decisione in una situazione concreta. Possiamo però prendere tali decisioni nella misura in cui la situazione lo permette...” (Intervista Il metodo dell’ermeneutica, 1991). “E in effetti Gadamer... partendo dalle lezioni di Heidegger sull’ Etica Nicomachea di Aristotele, giunge alla consapevolezza che il puro sapere teoretico, sia di stampo razionalistico e idealistico moderno, sia metafisico in senso classico, non può essere utilizzato qua talis nell’ambito delle concrete situazioni esistenziali e vitali, e soprattutto in quelle della vita etico-politica. .... Seguendo le lezioni di Heidegger sulla phronesis, Gadamer sarebbe giunto a ritenere il sapere teoretico e tecnico come un sapere oggettivante, che può essere insegnato ed appreso, laddove il sapere della phronesis non si può insegnare ed apprendere , perché esso attiene non alla teoria, ma alla prassi, ovvero alla comprensione di ciò che ciascuno ritiene utile per la “buona vita”, lo eu bios che costituiva il fine dell’etica aristotelica. Gadamer considera in effetti la phronesis come il modello della razionalità pratica, e quindi della vita etica e politica, e nella sua Introduzione al VI libro dell’Etica Nicomachea di Aristotele egli traduce il termine greco phronesis con Vernünftigkeit (ragionevolezza), facendone il modello della comprensione ermeneutica della realtà (Mura, La phronesis nell’interpretazione aristotelica di Gadamer, 2011). Due importanti lezioni etiche scaturiscono per Gadamer dalla nozione aristotelica di phronesis. Innanzi tutto la nozione di “Bildung”, corrispondente ai termini della cultura umanistica di “Paideia” o “Humanitas”, e indicante quella “formazione” integrale dell’uomo trasmessa dalle humanae litterae, che non si limita alle competenze tecnico-scientifiche, ma ritiene che l’autentico sapere sia classicamente una “cultura dell’anima”, al cui centro stanno i valori estetici, etico-politici e religiosi. Non era forse in relazione alla Bildung che Gadamer, in Verità e metodo, aveva visto nella phronesis, rivalutata dall’ Etica aristotelica e riformulata in prospettiva ermeneutica, l’essenza stessa della filosofia ermeneutica?. E in secondo luogo la rivalutazione della nozione classica di ‘”amicizia”, come il valore supremo della formazione non solo etica ma anche politica dell’uomo e dei giovani. “Affermo questo - scrive Gadamer- richiamandomi non solo al mondo antico e ad Aristotele, che ha scritto un volume
sull’etica in dieci libri, tre dei quali dedicati all’amicizia...” (Intervista Il metodo dell’ermeneutica, 1991). Sono Socrate, Platone, oltre ad Aristotele, i veri maestri di questo valore dell’amicizia; e poi Cicerone, Seneca, Marco Aurelio;. e i loro eredi cristiani: Boezio, S. Agostino fino a quelli a noi più vicini, Rosmini e Manzoni. Ricoeur ha saputo ulteriormente estendere la categoria classica dell’amicizia alla dimensione sociale, facendone il cardine di una società e di una politica in cui non prevalgano le coppie amiconemico, alleato-avversario, ma si sia capaci di maturare l ‘arte del dialogo i grado di alimentare la speranza per il futuro dell’Europa e del mondo. In un’intervista su L’etica secondo Aristotele (1989), Ricoeur afferma:”In primo luogo mi permetta di dire che la parola ha per noi un senso assai più ristretto di quello che aveva per i Greci. Per noi l’amicizia è un rapporto di intimità che ci lega a pochissime persone, a pochi amici; Aristotele, invece, non dice che si debbano avere molti amici, ma dice che l’opposto dell’amico è il nemico. Quando si tiene presente questa opposizione, si vede che si tratta di qualcosa di assai più largo di un rapporto preferenziale con una cerchia di amici eletti: si tratta invece dello stesso rapporto sociale. È l’amicizia, potremmo dire, che permette di vivere insieme nella città. Perciò credo che non si debba opporre l’amicizia alla politica, perché il rapporto sociale è una specie di estensione a tutta la città di quel nucleo di amicizia che sperimentiamo effettivamente verso coloro che abbiamo scelto come amici”. Capacità di dialogo con l’altro e tra i diversi ambiti del sapere, educazione come paideia, etica del “riconoscimento” e della phronesis, rivalutazione del senso autentico dell’ amicizia, sono questi i temi ed i valori che rendono necessario il rinnovamento della cultura umanistica e ne ripropongono l’attualità.