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Novembre-Dicembre 2008, n째 13, 2008


Direzione: Elio Matassi - Vannino Chiti Coordinamento: Carmelo Meazza Adesioni Bruno ACCARINO (Univ. di Firenze), Massimo ADINOLFI (Univ. di Cassino), Claudia BARACCHI (The New School for Social Research, New York); Massimo BARALE (Univ. di Pisa), Giuseppe BEDESCHI (Univ. La Sapienza, Roma), Luigi BERLINGUER (Univ. di Siena), Enrico BERTI (Univ. di Padova, Accademia dei Lincei), Franco BIASUTTI (Univ. di Padova), Remo BODEI (University of California (Los Angeles)), Almut Sh. BRUCKSTEIN (Ha’atelier, Berlino/Gerusalemme), Massimo CACCIARI (Sindaco di Venezia, Univ. San Raffaele, Milano), Giuseppe CANTILLO (Univ. di Napoli), Carla CANULLO (Univ. di Macerata), Andrea CAUSIN (Esecutivo PD), Stefano CECCANTI (Univ. La Sapienza, Roma), Mauro CERRUTI (Univ. di Bergamo, Deputato), Pierpaolo CICCARELLI, (Univ. di Cagliari), Umberto CURI (Univ. di Padova), Gianfranco DALMASSO (Univ. di Bergamo), Antonio DA RE (Univ. di Padova), Roberta DE MONTICELLI (Univ. San Raffaele, Milano), Pietro D’ORIANO (Univ. La Sapienza, Roma), Massimo DONA’, (Univ. San Raffaele, Milano), Adriano FABRIS (Univ. di Pisa), Maurizio FERRARIS (Univ. di Torino), Giovanni FERRETTI (Univ. di Macerata), Marco FILIPPESCHI (Dirigente nazionale PD, Sindaco di Pisa), Pierfrancesco FIORATO (Univ. di Sassari), Massimo FIORIO (Univ. di Torino), Vittoria FRANCO (Senatore, Univ. di Pisa), Fabrizia GIULIANI (Univ. di Siena), Sergio GIVONE (Univ. di Firenze), Maurizio IACONO (Univ. di Pisa), Giovanni INVITTO, (Univ. di Lecce), Marco IVALDO (Univ. di Napoli), Antonello LA VERGATA (Univ. di Modena), Claudia MANCINA (Univ. La Sapienza, Roma), Sandro MANCINI (Univ. di Palermo), Aldo MASULLO (Univ. di Napoli), Eugenio MAZZARELLA (Univ. di Napoli), Alberto MELLONI (Univ. di Modena), Virgilio MELCHIORRE (Univ. Cattolica, Milano), Gaspare MURA (Pontificia Università Urbaniana), Alessandro PAGNINI (Univ. di Firenze), Silvano PETROSINO (Univ. Cattolica, Milano), Andrea POMA, (Univ. di Torino), Mauro PONZI (Univ. Romauno), Alfredo REICHLIN (Presidente del Cespe), Luigi RUSSO (Univ. di Palermo), Gennaro SASSO (Univ. La Sapienza, Roma, Accademia dei Lincei), Aldo SCHIAVONE (Univ. di Firenze), Lucinda SPERA (Univ. di Siena), Tamara TAGLIACOZZO (Univ. Roma Tre), Andrea TAGLIAPIETRA (Univ. San Raffaele, Milano), Corrado VIAFORA (Univ. di Padova), Carmelo VIGNA (Univ. di Venezia), Mauro VISENTIN (Univ. di Sassari), Franco VOLPI (Univ. di Padova).

Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica Http://www.Inschibboleth.org - Mensile on line (con aggiornamenti settimanali), Gennaio-Febbraio 2008, n° 14. (Numero 15, 28 Febbraio 2009) - Registrazione presso il Tribunale di Sassari. Redazione principale: via Nazionale 75, 00184 Roma. Redazione virtuale on line su Skype. Ufficio stampa, Enrica Sanna. E-Mail: infotiscali@inschibboleth.org Direttore responsabile: Aldo Maria Morace.


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La questione morale e la “rivoluzione democratica” di ELIO MATASSI

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Barak Obama, oltre l’orizzonte della guerra infinita di UMBERTO CURI

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Religione ed ethos democratico di MARCO IVALDO

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Le difficili vie del progresso nell’Italia odierna di MAURO VISENTIN

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La crisi avanza. Il PD ancora nella nebbia di ANDREA MARGHERI

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Il pensiero di Emmanuel Levinas tra ispirazione profetica e filosofia Intervista a IRENE KAJON a cura di BACHISIO MELONI

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Alcune riflessioni di J. L. Nancy di CARMELO MEAZZA

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Quale Cristianesimo per i liberali? di STEFANO MASCHIETTI

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La questione morale e la “rivoluzione democratica” di Elio Matassi

Nella più immediata contemporaneità sono molti ad osservare che la politica, dopo la sua eclissi nella modernità, dove finisce con l’essere soppiantata dalle leggi economiche e dall’espertocrazia, può tornare ad essere centrale grazie all’ausilio dell’estetica e della poetica. A questo proposito è molto utile riportare alcune considerazioni critiche di Vittorio Foa, mutuate da un suo dialogo radiofonico con Natalia Ginzburg. Foa parte dalla constatazione che in politica vi sono almeno tre diversi livelli: “C’è un livello utilitario, che io non giudico una cosa volgare, che è una cosa necessaria, però se rimane li, l’immaginazione non è servita, l’immaginazione resta spenta. Se resta spenta l’immaginazione, resta spento anche il movimento della vita…; poi c’è la sfera etica, nel senso che le cose che si fanno hanno un senso per la collettività, per gli altri, e in questi altri c’è da scegliere… E c’è un terzo livello, che è il livello…della poesia. Che non è vero che è fuori dalla politica: è il livello


dell’immaginazione…è la capacità di scegliere nella vita delle cose con un certo criterio e non con altri: con il criterio dettato da te stessa, capisci? Cioè tu non segui in quel caso delle regole. Le costruisci tu, come si costruisce una poesia”. Questi tre livelli ed in particolare il terzo, l’immaginario poetico, sembrano quanto mai indispensabili per affrontare l’esplosione della questione morale che ha coinvolto in profondità alcune giunte regionali e comunali dalle maggioranze di centrosinistra e dal Partito Democratico. Bisogna fare uno sforzo supplementare e di largo respiro per discutere l’idea stessa di democrazia (da approfondire e rafforzare), un’idea che non può rimanere ancorata entro un’ottica meramente giuridico-procedurale. Il primo problema che deve essere posto in tutta la sua radicalità è il seguente: la questione morale è un problema che compete ad una sfera diversa da quella meramente politica o è l’espressione di una crisi profonda dell’idea stessa di politica e di democrazia? La democrazia, infatti, deve essere considerata l’unica forma di società in cui la sfera politica viene esplicitamente istituita come attività collettanea e, nel contempo, conflittuale. In questo ambito democrazia, politica e filosofia nascono e vivono insieme in quanto forme di messa in discussione della datità sociale istituita nello spazio pubblico. Se questi sono i limiti entro cui deve essere contestualizzata la questione morale, la prima risposta è in parte già obbligata. La questione morale non è un accidente, un incidente di percorso da espungere e dimenticare rapidamente, ma il segno rivelatore di una crisi di una certa idea della democrazia che il Partito Democratico deve essere in grado di rinnovare. L’esplosione della questione morale non è esterna ma interna alla crisi stessa del tessuto democratico, è l’espressione trasparente della crisi di un modello di democrazia, retto sostanzialmente da una competizione fra oligarchie liberali che il sistema della rappresentanza giuridica dovrebbe essere in grado di garantire. Il Partito Democratico è (o dovrebbe) essere nato non semplicemente per una fusione-integrazione di culture politiche eterogenee ma per rimettere al centro dell’attenzione l’idea stessa di democrazia, di fornire, finalmente, un significato nuovo a quell’aggettivo, ‘democratico’. Per tenere fede a tale progetto è indispensabile partire dall’unica premessa veramente fondante in maniera radicale. Che cos’è la democrazia, come è nata la democrazia? Per chi come me ha una visione non minimalistica della democrazia (la democrazia non è il meno peggio dei sistemi politici ma il migliore in assoluto senza ‘se’ e senza ‘ma’), la democrazia ha un carattere ed una vocazione essenzialmente partecipativa, negati e traditi sia nel mondo occidentale con il progressivo trasformarsi delle democrazie parlamentari in oligarchia liberali e nel mondo orientale, dominato dai paesi usciti dal ‘socialismo reale’, con società intrinsecamente burocratiche. Società burocratiche ed oligarchie liberali sono due facce della stessa medaglia, due aspetti speculari e complementari dello stesso problema, il tradimento dell’idea stessa di democrazia. L’esplosione della questione morale non potrà concernere solo alcuni che hanno sbagliato, ossia un dettaglio marginale. Se la democrazia viene correttamente individuata nella sua dimensione-declinzione associativo-partecipativa, anche la questione morale va riportata dentro alle origini di quest’idea ‘forte’ della democrazia. La corruzione non è solo l’errore di un singolo o di alcuni gruppi, la corruzione è in primo luogo il risultato più tangibile e della degenerazione dell’idea di democrazia in un sistema oligarchico o burocratico, l’uno solo controaltare del secondo. Dopo questa degenerazione e dopo tale corruttela è venuto il


momento di una vera e propria rinascita della democrazia, di una restaurazione del suo significato più profondo ed originario, di quella che può essere definita ‘rivoluzione democratica’, che il Partito Democratico dovrà saper interpretare fino in fondo, in primo luogo, contro il proprio passato (anche recente). Quando parlo di ‘rivoluzione democratica’ non penso affatto ai termini in cui ne parlava Tocqueville, che vi scorgeva un evento storicamente ineluttabile, dal carattere essenzialmente sociologico. Come è noto all’indomani della rivoluzione francese Tocqueville vedeva nell’avvento della democrazia un nuovo regime sociale, nel quale avrebbero fatto la loro comparsa sulla scena della storia le masse, fino ad allora tenuta ai margini. La democrazia non è, invece, purtroppo, nulla di ineluttabile né tanto meno di provvidenziale. L’attuale empasse del movimento democratico, l’attuale crisi dell’attività politica sono dovute in primo luogo alla progressiva eclissi del significato immaginario della modernità, concorrente rispetto al primo costituito dal dominio di una razionalità assoluta, dal predominio dell’economico, del quantificabile come valore esclusivo. Bisogna tornare all’immaginario poetico sollecitato da Vittorio Foa e ben presente nella riflessione di Corlelius Castoriadis, il pensatore greco-francese che ha coniato l’espressione stessa di ‘rivoluzione democratica’: il vero compito di una linea politica autenticamente democratica, e quindi solo in tal senso un compito ‘rivoluzionario’, è quello di considerare gli esseri umani come protagonisti attivi del proprio cambiamento. Non vi è nulla di astratto o di velleitario in tale progetto; l’argomentazione di Castoriadis è più complessa ed anche più aderente alla crisi della democrazia. La passione, infatti, per un’idea forte dell’autonomia e della sua realizzazione deve essere riportata all’interno della dialettica istituente-instituito. Per Castoriadis non vi sono alterità di alcuna tipologia, né ieratica o biologica o puramente razionale che, dall’esterno, possano fondare universalmente il sociale. Lo sdoppiamento di istituente ed istituito è immanente ad ogni società data. Questo è il senso da attribuire all’espressione ‘rivoluzione democratica’: la società democratica in quanto auto- istituzione, equilibrio dinamico, costantemente in fieri tra l’istituente e l’istituito e, dunque, non governata come la natura da leggi universali, non può non avere una dimensione intrinsecamente ed originariamente politica. A risultare determinante nell’equilibrio di una determinata società è la società stessa, un’opera collettanea in cui ogni società è al contempo soggetto ed oggetto. L’unica forma di società che l’assume, la esplicita fino alle estreme conseguenze, proponendosi di coltivarla, è la democrazia. La democrazia non è la norma ma l’eccezione proprio in virtù di tali sue prerogative rivoluzionarie, ossia in quanto implica un capovolgimento prospettico della tendenza spontanea all’eteronomia sociale, cui fa, invece, riferimento Paul Valéry in questa sua lapidaria osservazione: “La politica fu in primo luogo l’arte di impedire alla gente di immischiarsi in ciò che la riguarda”. L’obiettivo rivoluzionario di una politica autenticamente democratica è esattamente il contrario, entrando perciò in rotta di collisione con le tendenze dominanti dell’immaginario contemporaneo, polarizzato dal primato dell’economico e dalla sua presunta razionalità inderogabile. La questione morale non è che la manifestazione estrema della corruzione dell’idea di democrazia. Questo è il vero ed unico problema, culturale e politico, del Partito Democratico, quello della sua compiuta identità democratica. Solo su questo si potrà misurare l’identità del Partito Democratico e, solo in un passaggio successivo, la costruzione delle alleanze politiche. E’


un falso problema, quello della svolta centrista in alternativa ad una linea politica che tenti di recuperare un rapporto con la sinistra estrema. Non si è riflettuto a sufficienza sulle ragioni della parallela e speculare crisi della sinistra riformista e massimalista; in precedenza, la crisi della prima provocava come automatismo naturale la crescita della seconda, oggi, invece, perdono entrambe. Ci si è chiesti fino in fondo il perché di questa duplice sconfitta? Bisogna cambiare rotta, ma cambiare rotta non deve significare per il Partito Democratico la creazione di un nuovo neologismo, ‘dalemiano’, ‘veltroniano’, oppure … Non è questo il percorso da compiere. L’aggettivo giusto il Partito lo ha già trovato, è ‘democratico’, ha tradizioni e radici antiche che non vanno occultate ma semmai riconquistate. Bisogna tornare alla centralità dell’autonomia che non è un dato naturale, sottratto all’intervento della politica; essa è, invece, incessantemente istituzione della libertà, perché non sarà mai tale se non viene tenuta in vita da istituzioni politiche. La forma più conseguente dell’autonomia è la ‘filosofia’ in quanto il suo fine è quello di argomentare e diffondere l’eccellenza e la razionalità dell’autonomia come forma di vita. Autonomia e filosofia sono, in ultima analisi, i momenti costitutivi della rivoluzione democratica.


Barak Obama: oltre l’orizzonte della guerra infinita di Umberto Curi

1. “Per quanto riguarda la difesa, respingiamo come falsa la scelta tra la nostra sicurezza e i nostri ideali”. In questi termini, nel discorso di insediamento alla Casa Bianca il nuovo Presidente degli Stati Uniti ha voluto sintetizzare quali dovrebbero essere le nuove linee strategiche, alle quali l’America si atterrà nel prossimo futuro. Pur trattandosi di un semplice accenno, nel contesto di un ragionamento inevitabilmente appena abbozzato, lo spunto ora citato può consentire di individuare la principale discriminante fra l’amministrazione entrante e quella uscente, fra Barack Obama e George W. Bush . Difatti, dopo il giuramento di Obama, il problema principale sarà quello di stabilire quali saranno i temi concreti – al di là della avvincente retorica dei suoi discorsi – sui quali si potrà misurare la discontinuità della nuova amministrazione rispetto a quella precedente. Per lo più, le previsioni formulate da analisti e commentatori in questi giorni si concentrano sui provvedimenti di politica economica e sociale, rivolti soprattutto a fronteggiare la crisi, e sul preannuncio di alcuni cambiamenti relativi alla politica


energetica. Ma il banco di prova di gran lunga più significativo, quello che potrà indicare se è vi è stata realmente una svolta, se davvero è iniziata una nuova epoca per la storia del mondo, è quello costituito dalla politica estera. Dove la verifica dovrà riguardare non solo – si badi bene – aspetti appariscenti, ma anche in fondo limitati, quali sono la promessa chiusura del lager di Guantanamo o il ritiro delle truppe americane dall’Iraq. Ma soprattutto l’impostazione complessiva delle relazioni internazionali, sul piano politicoeconomico, prima ancora che sul piano militare. E, all’interno di questo quadro, la funzione attribuita alla guerra. Come si vedrà, infatti, l’elemento di gran lunga più caratterizzante dell’amministrazione Bush, ciò per cui essa è destinata a restare come una tappa decisiva nella storia del pianeta, oltre che nello sviluppo delle idee, è certamente la nuova concezione della guerra, teorizzata dagli intellettuali di ispirazione neoconservatrice, e concretamente attuata dal Presidente negli otto anni del suo mandato. Una concezione – e una pratica - della guerra, capace di rovesciare i presupposti sui quali, per millenni, essa è stata definita e realizzata. 2. “Che cos’è la guerra, se non quel periodo di tempo in cui la volontà di contrastarsi con la violenza si manifesta sufficientemente con le parole e con i fatti? Il tempo restante si chiama pace” (De cive, I, § 12; tr. it. Torino 1948, pp. 90-91). In questi termini, all’alba della modernità, per definire la guerra, e la sua differenza rispetto alla pace, Thomas Hobbes si serviva essenzialmente della nozione di tempo. La non casualità di questo riferimento è confermata da ciò che lo stesso autore scrive nel Leviathan, contaminando deliberatamente la nozione cronologica con quella meteorologica di tempo. Come la natura di una tempesta “non consiste solo in un rovescio o due di grandine, ma nella disposizione dell’atmosfera ad essere cattiva per molti giorni insieme, così la natura della guerra non consiste in questo o quel combattimento, ma nella disposizione manifestamente ostile, durante la quale non v’è sicurezza per l’avversario. Ogni altro tempo è pace”(tr.it. Bari 1974, I, p. 109). . Non si possono confondere, dunque, le “poche gocce” di alcuni combattimenti isolati con “la tempesta della guerra”. La differenza non sta tanto nella quantità complessiva della pioggia, quanto piuttosto nella durata del fenomeno. Perché si possa parlare di guerra, è necessario che l’ostilità fra i contendenti, le operazioni militari, la “volontà di contrastarsi con la violenza”, abbiano rilevanza in rapporto al tempo. La guerra e pace, si definiscono e si contrappongono insomma come tempi. Più agevolmente riconoscibile la prima, in quanto coincide con una “manifestazione” ben visibile di “parole e fatti”, più indeterminata la seconda, perché caratterizzata solo dalla assenza di quelle parole e di quei fatti, entrambe sono tuttavia accomunate dal non essere episodi isolati, ma tempi aventi una “sufficiente” durata. D’altra parte, in perfetta coerenza, e non in contraddizione, con queste affermazioni lo stesso filosofo sottolinea che una guerra così intesa – come stato, dunque, anziché come evento, come condizione universale di belligeranza permanente, e non solo come sporadico combattimento – è in realtà una pura astrazione, una sorta di idea-limite, che tuttavia non corrisponde ad alcuna realtà storica determinata. Difatti, ove davvero si desse “uno stato continuo di guerra”, esso renderebbe impossibile “la conservazione, così della specie umana, come di ciascun individuo particolare” (De cive I, §13; tr.it. p. 91), sicchè “non può esservi qualcuno che stimi come proprio bene la guerra di tutti contro tutti” (ivi, p. 92), che sarebbe per l’appunto la caratteristica naturale di un tale stato. O meglio. Hobbes accenna a qualche raro


caso storico, nel quale la condizione puramente ipotetica di una belligeranza di tutti contro tutti si è effettivamente realizzata. Nelle epoche passate, ciò è accaduto presso altre razze che erano allora composte relativamente di “pochi uomini feroci, di vita breve, poveri, sporchi”. Quanto all’età presente – vale a dire al secolo XVII, nel quale vive il filosofo britannico – l’unico esempio che in qualche modo possa essere considerato simile ad uno stato continuo di guerra “ ce lo offrono gli Americani” (ivi, p. 91). Ma l’esiguità e la marginalità dei riferimenti storici, e insieme la constatazione dell’evidente contraddizione, nella quale incorrerebbe chiunque scegliesse di rimanere in quello stato, poiché perseguirebbe consapevolmente il proprio autoannientamento, inducono ad affermare che è comunque necessario “uscire da una simile situazione. Se ne può concludere che, “se si deve avere guerra, non sia contro tutti” (ivi, p. 92). Se guerra vi dovrà essere, essa non sarà dunque permanente, ma transitoria. Non sarà un tempo, ma un evento, in qualche modo circoscritto. Non sarà contro tutti, ma limitata ad alcuni. 3. Anche indipendentemente dalle definizioni hobbesiane, dal punto di vista storico e concettuale la guerra è sempre stata concepita non come uno stato, ma come un evento. Per certi aspetti, anzi, essa è stata considerata l’evento per antonomasia, vale a dire la rottura dell’equilibrio nel succedersi “ordinato” degli avvenimenti, l’attivazione o l’accelerazione di processi, in luogo della quiete preesistente. L’abituale scansione delle diverse fasi storiche in periodi distinti, assume spesso quale punto di riferimento una guerra, proprio perché essa si propone come irruzione di una marcata discontinuità, come spartiacque fra un “prima” e un “dopo” caratterizzati precisamente dal precedere o dal seguire l’evento bellico. In termini di teoria delle catastrofi, la guerra si costituisce essenzialmente come fattore morfogenetico, e cioè come quel mutamento di forma che conduce ad una transizione fra due diversi stati di stabilità strutturale. Proprio perché è diretta antitesi di ogni stato, perché sanziona il sopravvento del mutamento rispetto alla continuità, e del processo rispetto alla quiete, la guerra si iscrive in un orizzonte concettuale specificamente segnato dalla sua appartenenza alla sfera dell’evento, e dunque all’ambito del contingente e del particolare. Come espressione di ciò che accade hic et nunc, sua più compiuta manifestazione, per essere descritta la guerra esige un lessico adeguato alla sua morfologia, e dunque implica in particolare l’uso di categorie temporali idonee ad esprimerne le caratteristiche peculiari. Di qui l’impossibilità di riferirsi ad essa, se non con termini che ne sottolineino il carattere in ogni senso extraordinario, la sua irriducibilità a qualunque stato. Di qui anche la necessità di servirsi di connotazioni cronologiche capaci di situare con precisione nel tempo ogni specifico accadimento bellico. Da questo punto di vista, un segno esteriore, ma non per questo meno significativo, della stretta inerenza della guerra all’orizzonte temporale dell’evento può essere ravvisato nella consuetudine linguistica di identificare una guerra attraverso l’indicazione degli anni in cui essa si è svolta. Nessun altro principio di individuazione è richiesto, salvo quello consistente nel segnalare la “data” in cui il conflitto è cominciato e quello nella quale è terminato. Per definizione, dunque, la guerra ha sempre e comunque un inizio, e altrettanto inderogabilmente una conclusione. Una guerra che fosse sottratta a determinazioni cronologiche, o che fosse descritta senza riferimento a categorie temporali, si porrebbe in contraddizione col suo specifico statuto – quello di essere un processo, non uno stato, un evento, non una forma, una emergenza transitoria, non una


condizione permanente. 4. “Per la maggior parte del XX secolo, il mondo è stato diviso da una straordinaria lotta per gli ideali: visioni totalitarie e distruttive contro libertà e uguaglianza. La grande lotta è finita. Le visioni militanti di classe, nazione e razza che promettevano l’utopia, ma davano miseria, sono state sconfitte e screditate”. Con l’affermazione di una netta soluzione di continuità, fra un passato durato quasi un secolo, e la nuova situazione inauguratasi con l’inizio del terzo millennio, si apre il documento sulla National Security Strategy(d’ora innanzi: NSS), reso noto al Congresso il 20 settembre del 2002. Articolato in alcuni densi capitoletti, riguardanti non solo le necessarie trasformazioni nella strategia e nel funzionamento delle istituzioni preposte alla sicurezza nazionale, ma anche le linee di una rinnovata politica economica, e preceduto da una Introduzione dello stesso G.W.Bush, il testo nel suo complesso non dissimula le sue ambizioni. L’obiettivo al quale esso tende è infatti quello di disegnare un nuovo quadro teorico-politico, al cui interno si collocano le opzioni di carattere più strettamente militare, e le stesse linee guida della politica economica statunitense, “per far fronte alle sfide e alle opportunità del XXI secolo”. Atto conclusivo di un processo di elaborazione avviato all’indomani dell’11 settembre, il NSS si propone esplicitamente come documento fondativo di una politica estera totalmente diversa, rispetto a quella a cui gli Stati Uniti si erano attenuti per oltre mezzo secolo, dalla fine della seconda guerra mondiale fino al crollo del muro di Berlino. Le premesse per questo mutamento strategico erano già state poste nel testo intitolato Nuclear Posture Review(d’ora innanzi: NPR), sottoposto al Congresso il 31 dicembre del 2001. In esso, infatti, si offriva una prima dimostrazione concreta di ciò che lo stesso Presidente Bush intendeva, quando aveva affermato (novembre 2001) che “nella politica di sicurezza, gli USA dovevano procedere oltre il paradigma della guerra fredda”. Muovendo dal presupposto (già dichiarato nel rapporto del National Institute for Public Policy di alcuni mesi prima) che “non è possibile prevedere oggi quale sarà lo scenario strategico del 2005, e meno ancora del 2010 o del 2020”, il NPR sostituiva all’idea del graduale smantellamento degli arsenali nucleari, che pure rientrava negli impegni precedentemente assunti dall’Amministrazione, il criterio di una revisione, ispirata ad alcuni fondamentali criteri guida. In sintesi, il documento asseriva la necessità di lasciarsi definitivamente alle spalle i piani strategici assunti durante la guerra fredda, per adottare invece una “nuova triade”, articolata lungo tre direttive: “a) sistemi di attacco (sia nucleari che non nucleari); b) sistemi di difesa (sia attiva che passiva); c) una rivititalizzazione delle infrastrutture di difesa che consenta di acquisire nuove capacità di affrontare situazioni di emergenza con grande tempestività”. Oltre ad un completo ribaltamento, rispetto alla prospettiva più volte annunciata di una progressiva denuclearizzazione degli armamenti (“le armi nucleari giocano un ruolo decisivo nelle capacità di difesa degli Stati Uniti, dei loro alleati e dei loro amici”), il NPR prefigura già in maniera abbastanza esplicita quello che sarà il baricentro concettuale del NSS, vale a dire la nozione di guerra preventiva. Alla base delle “tre gambe” della “nuova triade”, vi è infatti la convinzione più volte ribadita che il compito principale della strategia americana nel XXI secolo dovrà consistere nel prevenire gli attacchi, più ancora che nel rispondere tempestivamente ad essi. Di fronte al presentarsi anche solo di una semplice minaccia – si legge nel NPR – è dovere primario degli USA impedire anticipatamente con tutti i mezzi, ivi inclusi


anche gli armamenti nucleari, la realizzazione di attacchi contro l’America o i suoi alleati. 5. Fra i documenti che preparano la svolta contenuta nel NSS, un’importanza particolare va riconosciuta al Defense Planning Guidance (DPG), scritto per il Pentagono nel 1990 da tre esponenti della destra radicale, Paul Wolfowitz , I. Lewis Libby, e Eric Edelman, destinati poi ad assumere ruoli chiave nell’amministrazione di George W. Bush. Tenuto a lungo segreto, e poi accantonato da Bush senior (perché giudicato troppo radicale), il DPG proponeva una nuova grande strategia americana: “impedire ad ogni potenza ostile di dominare regioni le cui risorse potrebbero consentire agli Stati Uniti di aumentare il loro status di potenza….Scoraggiare i tentativi da parte di nazioni industrializzate di sfidare la leadership americana…Precludere l’emergere di ogni futuro concorrente globale”. Sebbene inizialmente sconfessati dalla stessa maggioranza repubblicana, questi princìpi sarebbero stati rilanciati di lì a poco da Zalmay Khalilzad, attualmente funzionario delegato dal Dipartimento di Stato per l’Afghanistan e l’Iraq, il quale scriveva nel 1995 che “il miglior criterio guida per gli Stati Uniti dovrebbe consistere nel mantenere la leadership globale ed evitare l’emergere di un rivale globale o un ritorno del multilateralismo”. Per quanto indubbiamente significativi, i preannunci contenuti in documenti precedenti non sono tali da cancellare e neppure da ridimensionare le straordinarie novità espresse nel NSS, in maniera particolare relativamente alla concezione della guerra. Queste possono essere compendiate in un mutamento profondo dell’orizzonte concettuale, all’interno del quale si è tradizionalmente “pensata la guerra”, mediante l’eliminazione di categorie temporalmente definite e la loro sostituzione con espressioni che alludono alla permanenza stabile della condizione bellica. Già la nozione stessa di preventive war attribuisce alla guerra una connotazione temporale che rende logicamente insostenibile la formula nel suo complesso. E’ evidente, infatti, che si potrebbe considerare realmente preventiva solo una iniziativa che scongiurasse la possibilità della guerra, mentre ciò a cui si allude con quella espressione è la necessità di anticipare la guerra possibile (quella contro gli USA) con una guerra effettiva (quella intentata dagli USA). In altre parole, il termine “preventivo” risulta palesemente inapplicabile, poiché lo strumento mediante il quale la prevenzione dovrebbe essere attuata coincide con ciò che la prevenzione stessa dovrebbe impedire, sicchè si giungerebbe al paradosso che lo strumento potrebbe funzionare solo a condizione che esso resti disattivato. Ad esiti non meno paradossali, ma non per questo meno significativi, conducono anche le altre locuzioni impiegate nel NSS, oltre che in numerosi altri discorsi pronunciati dal Presidente Bush prima e dopo il 20 settembre 2002. Designare una operazione strategica militare, quale è quella avviata prima contro l’Afghanistan e poi contro l’Iraq, con l’espressione Enduring Freedom, vuol dire ancora una volta adoperare una categoria che implica la permanenza o la perennità per descrivere qualcosa che, viceversa, dovrebbe essere per definizione circoscritto nel tempo, quale è appunto una guerra. Questa diventa dunque non già un evento, ma uno stato, principalmente caratterizzato dalla durata, e comunque tale da sfuggire alle determinazioni temporali con le quali abitualmente si designano le guerre. Osservazioni analoghe potrebbero essere fatte anche a proposito di molte altre espressioni ricorrenti nei documenti e nelle dichiarazioni dell’Amministrazione americana: da Infinite Justice (con la quale era originariamente


designata l’operazione poi definita Enduring Freedom) fino a Infinite War, vero e proprio ossimoro, mediante il quale quella che dovrebbe essere per eccellenza un’occorrenza straordinaria e transitoria, massimamente de-finita, assume le caratteristiche improprie di una condizione in-finita - senza fines, dunque, né in senso spaziale, né in senso temporale. Il tutto, accompagnato dall’esortazione ad accettare (come ha raccomandato Bush all’indomani della strage compiuta a Riad il 13 maggio 2003) un dato di fatto, vale a dire che “non conosceremo la pace nel nostro tempo”. 6. Non dovrebbe essere necessario sottolineare che non si tratta di sottigliezze linguistiche. E’ evidente, piuttosto, che l’insistenza con la quale locuzioni come quelle citate compaiono nei documenti ufficiali e nei discorsi di esponenti autorevoli dell’Amministrazione Bush dimostra che esse identificano l’asse principale della strategia americana fra il 2000 e il 2008: una concezione della guerra come stato, anziché come evento isolato, come prospettiva durevole, anziché circoscritta nel tempo, come modalità permanente di rapporto non solo con gli “Stati canaglia”, ma con chiunque minacci la leadership a stelle e striscie sul mondo intero. Eliminando ogni rapporto della guerra col tempo, cancellandone il carattere intrinsecamente transitorio, quale passaggio fra stati diversi di stabilità strutturale, attribuendo ad essa il connotato della infinità, ciò che viene attuato non è un mero “aggiustamento” della strategia di sicurezza e di difesa, ma un vero e proprio riorientamento complessivo della politica estera americana, nella quale la guerra assume valore sostantivo e non più meramente strumentale. Gli atti, i documenti, le dichiarazioni dell’establishment statunitense confermano che, almeno a partire dall’inizio del 2002, la guerra (inclusa quella con armamenti nucleari) non è più un’opzione estrema, concepita come risposta ad un attacco, e comunque sempre limitata nel tempo e nello spazio, ma è piuttosto una prospettiva stabile, destinata a durare almeno quanto una intera generazione, non già quale supporto di una più ampia iniziativa di politica estera, ma come principio con cui coincide e in cui infine integralmente si risolve la politica estera in quanto tale. 7. “Il tenore di vita dei cittadini americani non è negoziabile” – questo uno dei passaggi salienti di un discorso tenuto da G.W. Bush nel giugno 2002, sovente riproposto, con trascurabili variazioni, nei mesi successivi. Apparentemente classificabile come concessione puramente demagogica, questa affermazione offre in realtà la chiave di volta per comprendere l’orientamento complessivo della politica estera statunitense e, al suo interno, la concezione della guerra come condizione permanente. In uno scenario generale ormai ben conosciuto, quale è quello di un mondo nel quale 1/5 della popolazione (coincidente appunto con i cittadini del mondo occidentale) dispone dei 4/5 delle risorse dell’intero pianeta, la posizione secondo la quale il tenore di vita degli abitanti più privilegiati non è negoziabile, costituisce di per sé la prima e più importante dichiarazione di guerra nei confronti del resto della popolazione mondiale. Se in presenza dei colossali problemi indotti dai macroscopici squilibri esistenti, lo status di alcuni cittadini è posto come variabile indipendente, è evidente che questo elemento di assoluta rigidità implica di per se stesso il ricorso alla guerra, non già come mezzo per affrontare una singola e circoscritta minaccia, ma come tramite per scongiurare ogni e qualunque mutamento, come strumento per imporre la permanenza, rispetto all’ipotesi di una qualsiasi modificazione dello stato esistente. Si comprende allora, da questo punto di vista, la necessità di sostituire alla


tradizionale accezione della guerra come evento straordinario e transitorio una concezione in cui la guerra coincide con uno stato durevole, destinato non a sconfiggere un determinato nemico, ma a impedire che possano essere lesi o limitati i diritti considerati acquisiti e intangibili di coloro che vivono nel mondo occidentale. Di qui, in perfetta coerenza, la mobilitazione di locuzioni e metafore accomunate dall’eliminazione di ogni specifico riferimento temporale. Di qui l’evocazione di una prospettiva che abbraccia la vita di un’intera generazione, e in cui l’obiettivo indicato non consiste in una singola “vittoria” militare, ma nel perseguimento di una giustizia infinita o di una libertà duratura. 8. Alla luce del percorso fin qui compiuto, si può dunque motivatamente affermare che la vera scommessa a cui Obama è chiamato può allora essere individuata nella capacità che gli Stati Uniti dovranno dimostrare di assolvere al compito di “tenere in forma” le macroscopiche contraddizioni del pianeta, rinunciando allo strumento della “guerra infinita”. Una sfida estremamente impegnativa, dal momento che, pur trattandosi di una scorciatoia, pagata con un tributo altissimo in termini di vite umane, e più ancora di perpetuazione di iniquità e storture, la linea perseguita dall’Amministrazione Bush ha raggiunto l’obbiettivo di ribadire l’egemonia statunitense nel mondo, senza mettere in discussione il livello di vita del cittadino americano. Certamente, il fatto che la crisi economica abbia così brutalmente obbligato a rivedere quel tenore di vita, che si era dichiarato di principio “non negoziabile”, potrà aprire la strada ad una revisione profonda della politica estera fin qui perseguita. Su questo piano, la nuova Amministrazione americana è chiamata ad una verifica decisiva. Tenere insieme, anziché contrapporre, sicurezza e ideali. Sviluppare la cooperazione internazionale, invece che la diffusione della guerra preventiva. “Tendere la mano” (come ha testualmente affermato Obama) ai popoli del mondo, anziché soffocarne le sacrosante esigenze di sopravvivenza e di sviluppo economico. Se le parole pronunciate nel discorso di insediamento, e nei molti discorsi della lunga campagna elettorale, troveranno una conferma nei fatti, potremo ritenere che sia stata definitivamente chiusa una fase storica drammatica, durante la quale la guerra è stata il soggetto, e non semplicemente un possibile strumento, nelle relazioni fra i popoli della terra.

Nota. Per un approfondimento di alcuni passaggi, solo abbozzati nel presente saggio, mi permetto di rinviare ad alcuni miei lavori: Pensare la guerra. L’Europa e il destino della politica, Dedalo, Bari 1999; Polemos. Filosofia come guerra, Bollati Boringhieri, Torino 2000; Introduzione in R. CAILLOIS, La vertigine della guerra, tr. it. Citta Aperta Edizioni, Troina (Enna.) 2002, pp. 7-53; Perché la guerra, “Filosofia politica”, 2002, n. 3, pp. 423-434; Terrorismo e guerra infinita, Città Aperta, Troina (Enna) 2007.


Religione ed ethos democratico di Marco Ivaldo

Vorrei avanzare una riflessione sulla questione, oggi molto dibattuta, di un possibile contributo delle religioni alla costruzione di un ethos democratico muovendo da due considerazioni. La prima riguarda il ruolo che le religioni, in particolare le tre religioni di origine abramitica, vengono esercitando con crescente incidenza, da alcuni decenni oramai, nella sfera pubblica. Per un verso si è rivelata fattualmente sbagliata la fede ‘positivistica’ che lo sviluppo scientifico, unito ai progressi della tecnologia e della tecnica, avrebbe gradualmente sostituito l’interpretazione religiosa del mondo. Le religioni, come fonti di motivazioni e di scopi del vivere, non sono affatto scomparse dalla vita delle persone; anzi nelle società di massa contemporanee tende a manifestarsi, come reazione ai fenomeni di frammentazione sociale e di anomia, una domanda di senso, che trova nelle religioni uno dei più potenti sistemi di significato in grado di accoglierla e di interpretarla. E’ il fenomeno, suscettibile per altro di ermeneutiche differenziate, del ‘ritorno’, ma forse si dovrebbe dire: della ‘permanenza del religioso’. Per altro verso la riduzione della religiosità a cosa privata – che trova le sue premesse nell’epoca delle guerre di religione, ma che veniva ritenuta da alcuni teorici come una implicazione necessaria dei processi di secolarizzazione - è entrata in crisi nei fatti: l’esperienza


religiosa si propone non soltanto come rilevante sul piano della vita di moltissimi individui, ma elabora esigenze etiche e istanze civili che vuole vedere rispecchiate o corrisposte anche nella vita pubblica e nella sfera politica. Ciò accade non soltanto nell’islam e nell’ebraismo religioso. La chiesa cattolica ad esempio – che pure si ispira alla distinzione evangelica fra ciò che è dovuto a Dio e ciò che è dovuto a Cesare e che ha elaborato un complesso confronto riflessivo con la modernità, sfociato nel Concilio Ecumenico Vaticano II – accentua oggi con particolare enfasi il ruolo storico e pubblico della fede cristiana (da lei per altro sempre rivendicato), e declina questo ruolo volendosi come interprete di alcuni ‘valori non negoziabili’, che le legislazioni civili dovrebbero tutelare o almeno non contraddire. La seconda considerazione mi è sollecitata dalla notissima affermazione del giuspubblicista tedesco Ernst-Wolfgang Böckenförde, secondo cui “lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non è in grado di garantire”1. In tale affermazione si esprime il dubbio che lo Stato democratico costituzionale sia in grado rinnovare in maniera autonoma le condizioni normative della propria esistenza, e si manifesta l’idea che questa forma statuale dipenda in definitiva da specifiche tradizioni metafisiche e religiose oppure da determinate forme dell’ethos vincolanti per la comunità. Habermas - il quale pure manifesta la fiducia che una “ragione non disfattista” possa elaborare una strategia di giustificazione autonoma dei principi costituzionali con la pretesa di riuscire accettabile da tutti i cittadini – ammette in pari tempo che, riguardo alla efficacia di questa strategia argomentativa indipendente da tradizioni metafisiche e religiose, resta “un dubbio di carattere motivazionale”2. In particolare le risorse e le strategie argomentative della ragione pubblica patirebbero un deficit motivazionale quanto alla promozione di quegli atteggiamenti morali che ci si deve attendere da cittadini che devono partecipare in maniera attiva alla res-publica non solo nell’ottica di un illuminato auto-interesse, ma in quella del bene comune. Questo a causa di una “modernizzazione aberrante” della società nel suo complesso, che avrebbe reso storicamente sempre più fragile, nelle attuali società democratiche, il legame sociale e che può esaurire quella forma di solidarietà da cui lo Stato democratico dipende, pur senza poterla imporre per via giuridica. Questa circostanza ha sollecitato Habermas, come è noto, a ripensare le potenzialità contenute nelle tradizioni religiose, in particolare nella tradizione cristiana: “Nella vita delle comunità religiose – egli ha detto - , nella misura in cui evitino dogmatismo e costrizione delle coscienza individuale, può rimanere intatto qualcosa che altrove è andato perduto”, e che nessun sapere empirico e strumentale può riattivare, cioè: “possibilità di espressione sufficientemente differenziate, sensibilità per vite andate male, per le patologie sociali, per l’insuccesso di progetti di vita individuali e per le deformazioni di contesti di vita sfigurati” 3. Anche Böckenförde sottolinea per parte sua l’esigenza di un ruolo non ideologico e politico, ma spirituale delle religioni nella costruzione del legame sociale e della unità politica nelle condizioni di pluralità che sono proprie delle società democratiche, legame e unità che non potrebbero affatto venire prodotti e garantiti su presupposti puramente funzionalistici e eudemonistici. Ora, la permanenza del religioso e il suo proporsi come esigenza etica e istanza civile sul piano pubblico, per un verso, e il riconoscimento delle potenzialità delle tradizioni religiose per alimentare i presupposti etici e gli atteggiamenti morali necessari alla convivenza democratica per l’altro verso, sono due fenomeni che suggeriscono e sollecitano una richiesta complessiva, richiesta la crisi del mondo attuale acutizza. Si tratta di questo: i cittadini


appartenenti a una specifica religione di chiesa e i cittadini non appartenenti a una chiesa o comunità religiosa sono oggi convocati insieme a ripensare il rapporto fra le religioni e lo spazio politico con i suoi presupposti morali secondo forme nuove, che non possono più semplicemente ripetere o reiterare quelle elaborate negli ultimi tre secoli, e ciò anche se la cultura modernoliberale ha messo a tema un complesso di autonomie e di vincoli che non debbono affatto venire cancellati o ignorati. Penso che abbia consumato il suo tempo l’idea di una neutralizzazione politica della religione, che intenda la religione stessa come semplice affare privato, a cui va sottratta ogni incidenza costruttiva nella sfera pubblica. Ma giudico anche non accettabile l’idea, oggi abbastanza in voga, di fare (o di rifare) un uso strumentale della religione, in particolare della religione di chiesa: l’idea ad esempio di fare del cattolicesimo quasi una nuova religione civile che funzioni come fattore di auto-identificazione sociale di fronte all’impatto di altre culture e religioni e fornisca un antidoto conservatore contro derive relativistiche sul piano dei costumi morali (con l’aggiunta, in questa impostazione, di fare del magistero della chiesa in ambito morale – ma si dovrebbe precisare: nell’ambito di ciò che viene designata ‘morale naturale’ - l’interprete ipso facto privilegiato degli atteggiamenti etici necessari a promuovere e garantire la convivenza). Qui deve essere chiaramente affermato: la fede cristiana non è cosa privata, ma – ciò che è assai diverso – è realtà ed esperienza personale, o meglio interpersonale; e ancora: la fede cristiana non è affatto una religione civile, comunque si voglia intendere questa espressione e come già sapevano le prime comunità cristiane che si trovavano messe a confronto con la religio romana, ma è piuttosto – per riprendere una espressione molto bella di Aldo Moro – “principio di non appagamento e di mutamento dell’esistente nel suo significato spirituale e nella sua struttura sociale”4. Ora, quanto alla esigenza di pensare in forme nuove il rapporto fra le religioni e le basi morali della democrazia ancora Habermas elabora, mi sembra, una interessante proposta. Egli invita i “cittadini credenti” (va inteso: credenti nelle religioni fondate su una rivelazione) e i cittadini non appartenenti a chiese (che egli chiama “cittadini secolarizzati”5) a intendere di comune accordo la secolarizzazione “come un processo di apprendimento complementare”, nel quale entrambi possano prendere reciprocamente sul serio, anche per motivi cognitivi, i rispettivi contributi sui temi dibattuti nella sfera pubblica. In questo quadro il filosofo tedesco osserva che i cittadini secolarizzati non hanno in linea di principio la facoltà di negare un potenziale di verità alle immagini religiose del mondo, né di contestare ai cittadini credenti il diritto di contribuire a pubbliche discussioni in linguaggio religioso. Pertanto le rappresentazioni religiose non devono venire squalificate a priori come semplicemente irragionevoli e pubblicamente irrilevanti, anzi rappresentano una sfida cognitiva per tutti. Rispetto a questa interessante posizione di Habermas – che condivido nel suo orientamento di fondo - vorrei però far valere che non solo ai cittadini secolarizzati, ma anche ai cittadini credenti dovrebbe venire riconosciuta la capacità di “traduzione”, ovvero la competenza di trasferire il potenziale di verità delle immagini religiose del mondo dal linguaggio religioso a quella che il filosofo chiama “una lingua accessibile a tutti”6. Penso in altri termini che il cittadino credente debba vedersi riconosciuta, o comunque debba assumersi in prima persona, la responsabilità della ‘mediazione culturale’ (riconoscimento in verità abbastanza inusuale oggi non solo in quella che si chiama ‘cultura laica’, ma anche nella chiesa). La mediazione culturale, come qui la intendo, è precisamente la “traduzione” di una immagine della realtà


da un linguaggio a un altro linguaggio, e - per riferirmi adesso alla tradizione religiosa cristiana - dal linguaggio che manifesta i contenuti immediati della rivelazione, a cui risponde l’atto peculiare della fede, al linguaggio che viene parlato dalla ragione a tutti comune e che articola l’agire della ragione stessa. Si tratta di una prospettiva che non intende affatto la “traduzione” secondo il programma di una ermeneutica demitizzante, ma secondo quello di una interpretazione universalizzante (Pareyson), cioè mirante a mettere in valore l’universale partecipabilità e comunicabilità dei contenuti di una rivelazione, la loro capacità di interessare la persona al di là di una sua appartenenza a una chiesa o gruppo religioso, di appellare la sua libera riflessione La possibilità per cittadino credente di vivere la sua identità cristiana nella sfera pubblica dipende in ampia misura dalla sua capacità di realizzare questo tipo di mediazione culturale, ovvero – per riprendere e riformulare a mio modo una posizione di Habermas, poco prima evocata – dalla sua capacità di contribuire alle pubbliche discussioni non solo in linguaggio religioso (che ha un suo proprio inalienabile diritto nella esplicita testimonianza), ma, muovendo dalla coscienza religiosa e ispirandosi a questa, anche in un linguaggio capace di attirare l’ascolto e l’interesse dei membri della ‘città’ al di là della loro personale appartenenza (o non appartenenza) a una religione di chiesa. E’ la lingua della comune ragionevolezza, a condizione di non ridurre questa ragionevolezza alle sue declinazioni formalistiche oppure empiristiche, e di assumerla invece quale ci viene tramandata dal ‘socratismo perenne’ del logon didonai, la ragionevolezza come pratica di giustificazione dei pensieri e delle azioni.

Ernst-Wolfgang Böckenförde, Diritto e secolarizzazione. Dallo Stato moderno all’Europa unita, a cura di Geminello Preterossi, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 53. 2 In: Jürgen Habermas/Joseph Ratzinger, Ragione e fede in dialogo, a cura di Giancarlo Bosetti, Marsilio Venezia 2005, p. 47. 3 Ibidem, p. 57. 4 Discorso al XII Congresso della Democrazia cristiana, Roma, 9 giugno 1973 5 In: Jürgen Habermas/Joseph Ratzinger, Ragione e fede in dialogo, cit. p. 59. 6 Ibidem, p. 63. 1


Le difficili vie del progresso nell’Italia odierna di Mauro Visentin

In Italia sta per caso accadendo qualcosa di cui preoccuparci? Di fronte ad una serie abbastanza impressionante e considerevole di indizi, siamo forse già in molti a chiedercelo, anche se non tutti coloro che si pongono questo interrogativo hanno, al riguardo, le stesse apprensioni. Naturalmente, formulando una simile domanda, intendo alludere a qualcosa di particolare, di specifico, qualcosa che induca a riflettere e a pensare, qualcosa che denunci rischi e pericoli non generici e abituali (quelli cui ogni società va normalmente o periodicamente soggetta) ma inconsueti e soprattutto, fino a non molto tempo fa, imprevedibili. Per la vita civile, in primo luogo, ma anche per quella politica e culturale. Comunque, un mutamento che, anche senza ricorrere a definizioni rese inutili se non addirittura fastidiose dal loro abuso (“storico”, “epocale”, ecc.), possa essere intravisto come indizio di uno di quei “passaggi” che segnano un nuovo orientamento collettivo (nel quale, magari, non facciano che riemergere flussi profondi – “carsici”, come si usa dire – della vita civile, della cultura e della storia di un Paese). Proviamo a ragionarci sopra, mettendo in fila, intanto, alcuni episodi della cronaca recente, politica e sociale. 1. Il Partito democratico appare sempre più in balia di un “multicultura-


lismo” interno, senza regole e senza minimo comun denominatore. Un multiculturalismo che lo ha portato, di recente, a non avere una voce sola (sia pure contraddistinta da sfumature e tonalità diverse) nella crisi di Gaza. Che ha, ieri o l’altro ieri (rispetto al momento in cui scrivo), imposto un rinvio nella votazione di un documento unitario (viatico ad una posizione parlamentare univoca nella discussione sul relativo progetto di legge) riguardo al tema del “testamento biologico”. Che vede una parte consistente del partito rincorrere, al Nord, le sirene leghiste, agitando il vessillo di un federalismo sgangherato, di fronte al quale i vertici nazionali sembrano non avere altra politica oltre a quella di subirne l’onda senza convinzione, ma anche senza la forza di contrapporsi ad essa con idee chiare ed argomenti persuasivi (e ce ne sarebbero, a cominciare dal tema dei costi). E tutto questo, lasciando da parte il disastro delle amministrazioni locali di centrosinistra, investite, in molti e ragguardevoli casi, da inchieste che mettono una volta per tutte in discussione il vecchio stendardo dell’onestà e della correttezza delle giunte “rosse” (il loro “diverso modo di fare politica”), e molto, troppo timide in altri, non meno ragguardevoli casi (con le dovute e apprezzabili eccezioni di Piemonte, Liguria e, forse, non so bene, anche Emilia Romagna), di fronte all’illegalità di un ministro che emana una circolare intimidatoria, per impedire che le strutture del servizio sanitario nazionale (comprese quelle convenzionate con le regioni), la cui competenza amministrativa è a carico dei poteri locali, si prestino a dare appoggio logistico all’esecuzione di una sentenza emessa in via definitiva dalla Corte di Cassazione. 2. Dalle posizioni irrazionali ed emotive di gran parte dell’opinione pubblica italiana (non solo di sinistra) riguardo all’ennesima crisi isaelopalestinese e dalle posizioni espresse dai vertici della Chiesa in proposito traspare un’inquietante sintonia, che fa riemergere fantasmi del passato, quando il popolo ebraico, considerato come popolo deicida dal cattolicesimo ufficiale, era fatto oggetto delle imputazioni più infami e fantasiose da una porzione cospicua del perbenismo borghese, oggi allargata a settori del proletariato e sottoproletariato urbano e suburbano di destra e sinistra (sia quelli armati di un’ideologia schematica e ottusa, che ha riscontri anche in alcuni esponenti di primo piano della sinistra ufficiale, sia quelli guidati dal semplice istinto della loro sete di rivalsa, che cerca solo un nemico da colpire, indipendentemente dal fatto che questo possa, volta per volta, essere individuato nell’ebreo, nell’omosessuale, nell’opposta tifoseria calcistica o nell’avversario politico). In questo “incontro” funesto non si può non vedere anche un effetto dell’opera indefessa di demolizione del dialogo interreligioso, soprattutto ebraico-cristiano, portata avanti convintamente dall’attuale pontefice, pronto – è notizia di oggi – a revocare la scomunica ai vescovi della comunità cattolica ipertradizionalista creata quasi quarant’anni fa in Svizzera da monsignor Lefebvre, che annovera, tra i suoi prelati numerosi fautori del negazionismo storico (in altre parole, della tesi aberrante di alcuni storici, che la comunità scientifica ha da tempo ostracizzato, secondo la quale lo sterminio degli ebrei da parte della Germania hitleriana nel corso dell’ultimo conflitto non ci sarebbe, in realtà, mai veramente stato o non sarebbe stato delle dimensioni dichiarate, ma incommensurabilmente più esiguo). 3. Con i referendum storici (questi sì) sul divorzio prima e l’aborto dopo, sembrava ai laici italiani che la battaglia per il rinnovamento morale e culturale del Paese fosse stata vinta una volta per tutte. Sono bastati i tre anni dall’elezione dell’ultimo pontefice e il radicalizzarsi della svolta “clericale” del centrodestra per rimettere in discussione questo forse troppo ingenuo con-


vincimento. Oggi appare come sempre più probabile una svolta legislativa che tenda ad imporre a tutti, credenti e non credenti, non certo (perlomeno non ancora) l’obbligo di credere, ma almeno quello di sottostare, anche in questioni che riguardano solo il singolo (e in una democrazia liberale ce ne sono, devono essercene e devono essere riconosciute come tali, pena la sua degradazione ad una forma di sistema politico-istituzionale di tipo olistico), alle disposizioni di una morale religiosa. Spicca tra tutte quella relativa al rifiuto di riconoscere la vita del soggetto individuale come un bene che sia (alla condizione che egli, com’è ovvio, si trovi in uno stato di capacità e autonomia psichica ragionevolmente incontestabili) nella sua disponibilità. Si intuiscono, dietro questa tendenza, le posizioni più diverse, che vanno dalla scelta opportunistica di condividere per pure ragioni di comodo od elettorali gli indirizzi della Chiesa, all’adesione ad un radicalismo tradizionalista di tipo ideologico, tutte però potenzialmente convergenti verso un esito in cui sono riconoscibili i tratti di uno Stato che intende educare (o rieducare) i propri cittadini, inculcando loro i valori della maggioranza (interpretati, in una visione più o meno consapevolmente organicistica della società, come valori che devono essere di tutti). 4. Accanto a questo e in apparente conflitto con questo, il dilagare di un localismo, di un egoismo territoriale e sociale, sempre più accentuati, protervi e rissosi. Perché parlo, in proposito, di “apparente conflitto”? Forse che su tante proposte leghiste degli ultimi mesi (da quella di tassare i permessi di soggiorno a quella di introdurre classi separate per i figli degli immigrati, da quella di imporre vincoli all’esercizio di certi culti religiosi a quella di introdurre il reato di immigrazione clandestina) la Chiesa non ha espresso le censure più severe? Senza dubbio. Ma, per ragioni sulle quali sarà ora il caso di soffermarsi in modo specifico, questo conflitto assomiglia molto ad un involontario (o inconsapevole) gioco delle parti (e proprio in questo senso, appare chiaro che esso sta svolgendo oggi una precisa funzione). L’universalismo della Chiesa cattolica e la piccola patria regionale (o, magari, addirittura comunale) sono davvero necessariamente antitetici? Su alcune singole scelte sì, è evidente. Ma vediamo di scendere un po’ più in profondità nella valutazione di questo confronto. E vediamo, innanzitutto, se c’è qualcosa che, al di là dell’antitesi (e più a monte di questa), non unifichi o avvicini le due prospettive. Un aspetto di questo genere c’è e non è neppure difficile individuarlo, se solo non ci si limita ad una considerazione superficiale e si solleva appena il velo dell’impressione più immediata ed epidermica: è quello rappresentato dall’ostilità nei confronti dell’istituzione statuale. Questa ostilità accomuna la Chiesa e il regionalismo o il localismo più spinto per ragioni diverse ma convergenti: nel caso della prima perché essa pretende di collocarsi al di sopra dello Stato e, in Italia, anche per l’ulteriore e specifica ragione che l’unità nazionale è sta ottenuta a prezzo dell’esautoramento del potere temporale dei papi; nel caso del secondo per motivi che non è necessario illustrare perché coincidono con la stessa ragion d’essere del localismo identitario. Ora, l’identità garantita da quest’ultimo è un’identità culturalmente forte (in senso antropologico), ma povera di valori (e tanto più povera assiologicamente, quanto più ristretto è l’ambito territoriale in cui essa esercita, nei riguardi dei singoli, il proprio ruolo di rassicurazione e conferma delle radici della loro esistenza). Di fronte a ciò, i valori della Chiesa si presentano come forti sul piano assiologico ma oggi sempre più deboli su quello della soddisfazione delle esigenze esistenziali, contrastati come sono, nella pratica delle condotte di vita, dal desiderio di


benessere, dalla scarsa disponibilità al sacrificio, dall’edonismo dilagante e dalla fede nell’efficacia della tecnica (che ha surrogato quella nell’efficacia dei miracoli). Questi valori non appaiono, ad un esame attento, in contrasto con quelli espressi dal particolarismo territoriale, se non per ciò che riguarda la loro applicazione ad alcuni casi specifici, anche in riferimento ai quali, del resto, il contrasto può facilmente mutarsi in convergenza non appena si trascorra dall’apertura e dal soccorso caritativo nei confronti degli immigrati alla denuncia dei rischi insiti nel multiculturalismo religioso e nella crescente penetrazione musulmana conseguente all’intensificarsi dei flussi migratori provenienti dai paesi arabi e dal nord-africa. Considerazione che si applica con particolare aderenza alla presente realtà della Chiesa, i cui orientamenti, sulla spinta dell’impulso anticoncilare ad essa impresso dal pontificato ratzingeriano, sembrano volti più all’imposizione che al dialogo, più al proselitismo concorrenziale che all’evangelizzazione. Guardando allora alle cose sotto la particolare angolatura sotto la quale le abbiamo poste adesso, appare chiaro che, lungi dall’essere incompatibili, queste due realtà possono utilmente fornire l’una all’altra la necessaria integrazione degli aspetti riguardo ai quali ciascuna di esse risulta carente. A legarle è soprattutto il comune attaccamento alla tradizione, una visione culturalmente conservatrice della società e dei ruoli in essa rivestiti dai singoli, un atteggiamento critico e difensivo nei confronti degli aspetti eticamente progressivi (sul terreno della morale e del costume) della modernità, la diffidenza nei confronti delle istituzioni politiche e del potere centrale. Il fatto che queste forze risultino, ad una lettura più attenta, assai meno incompatibili di quanto le apparenze estrinseche non indurrebbero a supporre ed anzi decisamente integrabili, non significa però che la loro sintesi possa avvenire spontaneamente: essa è assicurata dalla compagine politica che rappresenta oggi, in Italia, il partito di maggioranza relativa, ruolo un tempo (e a lungo) assolto dalla Democrazia Cristiana. Al presente, l’elemento di più grossa inquietudine non è costituito dal fatto che abbia preso corpo da noi una destra elettoralmente forte (anche perché capace di parlare all’anima profonda, più antica ed oscura del Paese), connotata da un orientamento culturale decisamente antimoderno, al quale non si oppone il rapporto privilegiato con i ceti imprenditoriali (il cui tratto caratteristico, del resto, in Italia, è sempre stato quello di distinguersi per una prevalenza di imprenditoria piccola e media, con una capacità innovativa fortemente condizionata sia dai limiti di bilancio, che non consentono grandi investimenti in ricerca, sia dalla natura stessa del prodotto, raramente contraddistinto da alti contenuti tecnologici). L’inquietudine maggiore, per un moderno liberalismo laico e progressista è quella che ispira lo stato in cui versa il PD. E questo stato continuerà ad affliggere tale forza politica finché questa non avrà compreso la differenza che corre tra i programmi e l’identità: i primi non servono a definire la seconda. Al contrario, questa può, all’occorrenza, aiutare a definire quelli (che del resto devono essere redatti in primo luogo sulla base delle circostanza specifiche del momento in cui vengono elaborati e delle esigenze sociali e politiche che tali circostanze fanno emergere; cosa per cui, in determinate situazioni, può darsi benissimo – e si è di fatto dato – il caso che i programmi del centrodestra e quelli del centrosinistra presentino aspetti comuni o che, anche, aspetti qualificanti di un programma di centrodestra, divengano, mutando le situazioni, aspetti qualificanti di un programma di centrosinistra, e viceversa). Ma un programma esprime contenuti tecnici, che solo in parte possono registrare


e tradurre istanze valoriali identitarie. Proprio nel momento in cui l’idea di “progresso” ha perso, filosoficamente, tutti i caratteri che ne facevano, nelle pretese dei pensatori illuminati e rivoluzionari che l’Europa ha prodotto tra Sette e Ottocento, la manifestazione di un corso oggettivo della storia del mondo, essa è diventata l’espressione di un valore, di un progetto etico-politico da attuare e rendere operativo con la tenacia, l’iniziativa e la volontà di una forza organizzata a tal fine. Ma, appunto per questo, il progresso non può essere più identificato con i destini storici della classe lavoratrice, i cui interessi devo essere tutelati, alla stregua di ogni altro, nella misura in cui contribuiscono all’avanzamento civile e sociale del Paese. Senza la presunzione di essere gli unici a svolgere questa funzione e nel convincimento che molto è stato realizzato sul terreno della conquista di diritti, tutele e garanzie per il lavoro dipendente. Come pure nella precisa consapevolezza che, per quanto resti ancora da fare, alcuni di quei diritti e di quelle tutele sono oggi a rischio proprio per il fatto che hanno finito, nel tempo, per la forma che hanno progressivamente assunto, con il convertirsi in freni alla loro diffusione e alla loro estensione ad una platea più ampia di soggetti, ossia esattamente a quell’avanzamento e progresso sociale e civile di cui abbiamo appena parlato. A meno di non ritenere ancora che attraverso il riscatto della classe operaia possa costruirsi una società nuova, di uomini antropologicamente diversi dagli attuali e tutti convintamente partecipi di un ideale di uguaglianza, il tema del lavoro non può più rappresentare un motivo unificante e identitario capace di tenere insieme, sotto il vessillo del progresso sociale, valori etici, storici e politici. Ma l’identità di un partito è fatta di questo: è fatta di ideologia, di istanze morali, di posizioni stabili e consapevolmente assunte intorno ai grandi temi dell’esistenza individuale e collettiva. Si guardi, se si vuole averne una prova, al discorso di insediamento del nuovo presidente degli Stati Uniti e alle sue prime mosse di governo. Ebbene, è proprio rispetto a questi grandi temi (e in particolare ad alcuni di essi, oggi molto più significativi e importanti che in passato, non solo perché resi drammaticamente attuali da recenti vicende di cronaca, ma perché, nel crollo di molte convinzioni tradizionalmente indiscusse e nel mutare del costume e dei tempi, è accaduto che intorno ad essi l’individuo abbia iniziato ad interrogarsi con insistenza ed angoscia), è proprio in rapporto a questi problemi di fondo che il PD parla con voce balbuziente o si mostra addirittura afasico: le sue troppe anime non sono riuscite ad amalgamarsi, o hanno dato luogo ad una “fusione fredda” che, ameno per ora, si direbbe fallita. Una grossa responsabilità, in questo, spetta senza dubbio a quella parte più oltranzista della componente cattolica confluita in esso che sembra voler fare, del Partito Democratico, una “cinghia di trasmissione” dei diktat vaticani (ruolo, tra l’altro, già occupato da consistenti settori del centrodestra), mentre non è senza significato che tra questi cattolici radicali spicchi anche qualche “pasionaria” molto esposta sul fronte di un impegno sociale stile “vecchia sinistra”. Prima di tentare di dare corpo alle ambizioni con le quali è nato e per poterlo fare, il nuovo partito deve decidere che cosa è o vuole essere. Senza l’assurda pretesa di rivolgersi a tutti e di poterli attrarre: il bacino elettorale del PD è potenzialmente maggioritario (questa, almeno, deve essere la convinzione e la scommessa politica che sta a monte della decisione di dagli vita), ma non può comprendere chiunque. Può destare l’interesse e la curiosità solo di quelli che desiderano, magari in modo ancora confuso ed informe, un Paese diverso, più rispettoso dei diritti, più imparziale, più tollerante ma anche più inflessibile nella difesa dei principi in cui crede. Ma può farlo solo ad una condizione, che per ora, purtroppo, è assente: quella


di essere esso stesso, in primo luogo, persuaso fino in fondo e concorde sulla direzione da imboccare e sulla via da percorrere. Altre strade non ce ne sono, quelle intraprese sin qui (a parte l’idea con la quale ha esordito di presentarsi responsabilmente da solo di fronte al corpo elettorale, idea che richiedeva, però, quell’armonia e unità di intenti che poi non c’è stata) non conducono, come ormai dovrebbe essere chiaro a tutti, da nessuna parte.


La crisi avanza. Il PD ancora nella nebbia di Andrea Margheri

Per chi considera ancora la politica una «scelta di vita» e l’iscrizione al Partito democratico un’adesione pragmatica e razionale a valori civili ed etici di libertà e di giustizia sociale, il panorama italiano di questi giorni provoca un senso penoso di soffocamento. Mentre il confronto politico nazionale sembra fortemente condizionato dalla vicenda torbida e bizantina della Commissione di Vigilanza sulla Rai, il Pd disperde le sue forze in una frammentazione di recriminazioni, polemiche, accuse che riducono fortemente lo spazio e l’efficacia dell’analisi e delle scelte sui grandi temi. Di fronte a una realtà mondiale, europea e nazionale che sta cambiando turbinosamente e ci propone rischi e opportunità inediti, la strategia del Pd resta ancora indefinita. Eppure la crisi globale che dai centri di potere della finanza Usa si è propagata al mondo intero si mostra sempre di più come un passaggio epocale. Essa mette alla prova tutte le nostre scelte. Sempre di più, infatti, essa appare come la conseguenza di un logoramento e di una rottura del modello di sviluppo imposto al mondo come «pensiero unico» dall’egemonia neoliberista e della forza militare, tecnologica ed economica degli Usa. Non già, dunque,


l’esplosione di una ennesima «bolla» speculativa che costringe a un passo indietro momentaneo nello sviluppo e a qualche aggiustamento delle regole: è sempre più evidente nelle parole di Obama come dei dirigenti cinesi, europei, latino-americani che non si tratta solo di questo. Sono in gioco, infatti, l’assetto e la governance del mondo, l’equilibrio geopolitico multilaterale, le regole degli scambi internazionali, il rapporto tra economia e potere politico, i limiti della sostenibilità ambientale e sociale dello sviluppo. Il modello è da ricostruire, come la riunione del G20 e la pratica eutanasia del G8 hanno indicato. È da ricostruire con il concorso di tutti i principali soggetti, di tutti i «poli» che già operano nel mondo e che dovranno necessariamente costruire nuove relazioni tra loro. Potranno essere relazioni cooperative e non conflittuali? Già rileggere queste parole fa tremare le vene ai polsi: sono un richiamo al carattere cruciale, decisivo, del momento storico che abbiamo davanti, del bivio tra i grandi rischi e le grandi opportunità che il processo di civilizzazione ripropone bruscamente. Non potranno essere i singoli Stati europei ad affrontare con efficacia questa fase storica, e di questo l’Europa, per la verità, è apparsa consapevole. Che ci sia bisogno di un salto di qualità nel coordinamento della politica economica contro la crisi e nella costruzione di una nuova governance mondiale, basata su un equilibrio multilaterale, è stata la premessa esplicita dell’attuale Presidenza francese. Riconosciamo a Sarkozy e ai governanti che lo hanno sostenuto, la lucidità dell’analisi. Ma, contemporaneamente, devono spaventare certi rigurgiti che attraversano la destra europea. Innanzitutto riemerge la tesi, di puro stampo neoliberista, che gli Stati debbano solo tirar fuori i soldi per i salvataggi, restare imprigionati in un ruolo meramente emergenziale e del tutto subalterno. Persino un moderato come Samuelson trova «cinica», oltre che sbagliata, questa tesi. Anche in Italia l’abbiamo sentita ripetere. Si è gonfiata con le penne di pavone dei solenni editoriali di Alesina e di Giavazzi. Si affianca a questa una tesi apparentemente opposta, egualmente perniciosa: il localismo populista sventola la bandiera protezionistica come la cura necessaria della crisi. Sembra immune alla considerazione di semplice realismo che chiudersi nella nostra minuscola fortezza sarebbe solo un suicidio e farebbe arretrare in modo irreparabile la stessa idea dell’unità europea. Se vincesse il protezionismo la Ue sparirebbe dal gruppo dei possibili protagonisti, dei soggetti attivi nel processo di riorganizzazione del mondo. Di fronte a queste risposte della destra, ancor più pericolose perché demagogicamente efficaci, appaiono più gravi le divisioni delle forze progressiste, socialiste e liberaldemocratiche. Una parte si trincera in schemi e analisi validi nel passato, ma oggi messi fuori gioco dalle trasformazioni mondiali. Molti restano i sostenitori dell’antica trincea socialdemocratica eretta contro gli assalti di quanti nella storia si sono schierati sotto la bandiera dell’onnipotenza benefica del mercato. A essi sembrerebbe un cedimento la ricerca di fondare un nuovo patto tra le forze sociali sulla prospettiva programmatica del «più Stato e più mercato». Eppure, è proprio questa scelta che appare il necessario fondamento non solo della risposta alla crisi, ma anche della costruzione di un nuovo e più solido modello di sviluppo, sostenibile socialmente e ambientalmente nel futuro. Sono in molti gli esponenti che riprendendo l’ispirazione fondamentale del Piano Delors ripropongono il superamento della vecchia antinomia. Tra questi annovero anche il gruppo


di «Argomenti umani», soprattutto con gli interventi di Ruffolo e Andriani. Ma è noto che lo stesso dibattito si svolge negli Usa (Stiglitz, Krugman ecc.) e domina il confronto tra i governi dell’America latina. Ora, se si passa bruscamente alle cose di casa nostra, si rischia la vertigine. Non perché la crisi italiana appaia come altra cosa rispetto alla crisi mondiale: ogni giorno possiamo constatare che come tutti gli altri Paesi siamo immersi in quella dimensione e in quella problematica. Anche per noi si è aperta una nuova fase storica contrassegnata da maggiore competitività: maggiore perché basata molto più che nel passato su un confronto qualitativo, e non più solo quantitativo, sui diversi terreni (tecnologia, produzione, logistica ecc.). Saranno in gioco l’efficacia e l’efficienza del «sistema Italia» di fronte ai decisivi problemi sociali, ambientali, energetici, alimentari, che impongono la riorganizzazione del mondo su nuove basi e con nuove capacità di scambio. È questa caratteristica sistemica delle nuove esigenze geopolitiche e geoeconomiche che fa risaltare la gravità delle condizioni del Paese su molti terreni: il funzionamento a singhiozzo delle istituzioni democratiche; il rapporto tra Nord e Sud, che si presentano come due realtà nazionali diverse; la permanenza di privilegi corporativi e di rendite di posizione che da anni richiederebbero una ventata di impegno liberale; le disuguaglianze intollerabili, pari a quelle abissali degli Usa, alle quali si aggiunge però anche una intollerabile rigidità sociale; un ritardo irragionevole della ricchezza collettiva e in primo luogo delle infrastrutture. Un ritratto del Paese ben conosciuto, ma che ora dovrà essere confrontato a una nuova qualità dello sviluppo che la crisi imporrà nel mondo e in Europa, dislocando su terreni nuovi la competizione per i sistemi e per le imprese. Da questa breve rassegna dei dati emergenti dalla crisi mondiale si possono trarre interrogativi inquietanti sullo stato dei gruppi dirigenti della politica italiana. Anche del gruppo dirigente del Pd. Per la verità non mancano dichiarazioni, proposte, indicazioni programmatiche su singoli aspetti. Il Pd insiste giustamente sulla necessità di difendere i redditi dei ceti medi e bassi, più esposti al rincaro dei prezzi e delle tariffe, e sulla necessità di proteggere le piccole imprese da una ormai evidente restrizione del credito da parte delle banche. Il vuoto maggiore non è nel confronto parlamentare. La nebbia si addensa là dove è più necessaria la chiarezza: qual è l’analisi generale della crisi e delle sue cause profonde che il Partito fa sua? E quale modello di comportamento e di strategie propone alle forze sociali e alle istituzioni, guardando soprattutto alla dimensione internazionale della nuova fase e respingendo le nostalgie neoliberiste come i trinceramenti corporativi? È in gioco oggi la capacità del Partito di dare una risposta globale autonoma agli interrogativi, ai rischi e alle opportunità che la crisi ha aperto, misurando così la sua cultura riformista e innovatrice in una nuova idea dell’Italia e del suo ruolo in Europa. È proprio da questo punto di vista, che si ripropone il problema tanto assillante della «forma partito». Dal punto di vista, cioè, della cultura politica e del progetto fondamentale. È su questo terreno che sorge un interrogativo di fondo: può essere realmente riformista, ossia capace di promuovere in tutti i campi innovazione, un partito che non garantisca concretamente, nella sua dimensione comunitaria e partecipativa come nei suoi riferimenti sociali, la sua autonomia dal pensiero dominante, dagli indirizzi politici che già si sono radicati nella società? Un partito che si limita a mediare e a rappresentare


l’esistente, che non promuove la sua autonomia nell’elaborazione e nei legami con le diverse forze sociali, si condanna a una condizione subalterna. Altro che vocazione maggioritaria, altro che partito di governo! Il Pd è chiamato non a un astratto rinnovamento anagrafico, ma a un cambiamento di rotta nel modo di organizzare le sue intelligenze, le sue forze intellettuali e operative. E a un cambiamento di rotta, ancora più urgente, nella percezione dei suoi rapporti decisivi tra le persone e i lavori che esse svolgono. Sono questi lavori a definire anche nella società «liquida», anche nella fase postideologica e postfordista, e anzi, ancor più di ieri per il ruolo inedito dei saperi, della creatività, dell’informazione nella produzione e nella società, la funzione che ogni individuo e gruppo sociale può assolvere nelle trasformazioni sociali, sia nella distribuzione del reddito, sia dal punto di vista del suo peso sociale. Si pone ancora, cioè, e ogni giorno ne abbiamo testimonianza, un problema di rappresentanza politica del «lavoro», come elemento determinante della funzione e della libertà degli individui. Così come si pone di conseguenza il problema della partecipazione dei ceti produttivi alla democrazia nell’impresa, nella società, nello Stato. Sottovalutare la naturale vocazione del Pd («prima di tutto il lavoro») può indebolire il suo progetto complessivo: esattamente quello che oggi succede.


Il pensiero di Emmanuel Levinas tra ispirazione profetica e filosofia Intervista a Irene Kajon a cura di Bachisio Meloni In margine al Convegno internazionale di studi dedicato a “Visage et Infini. Analisi fenomenologiche e fonti ebraiche in Emmanuel Levinas” inserito all’interno delle celebrazioni del 2006 per il Centenario della nascita del filosofo e alla relativa pubblicazione degli Atti dal titolo Emmanuel Levinas. Prophetic Inspiration and Philosophy, a cura di I. Kajon, E. Baccarini, F. Brezzi, J. Hansel, Ed. La Giuntina, Firenze 2008.


Jacques Derrida nel suo intervento commemorativo e celebrativo di Adieu à Emmanuel Lévinas dichiara che “il risuonare di questo pensiero ha cambiato il corso della riflessione filosofica del nostro tempo, e della riflessione sulla filosofia”. Le chiedo: dove risiedono, secondo Lei, le ragioni più profonde della grandezza di questo pensiero, e in che cosa consiste il carattere straordinario dell’opera levinasiana? Sono assolutamente d’accordo con il giudizio che Derrida esprime sul pensiero di Levinas. È vero che questo pensiero, seguito dal suo risuonare in varie lingue (in inglese, tedesco, italiano, spagnolo, ebraico, oltre che in francese) e in vari ambienti intellettuali, ha cambiato il corso della riflessione filosofica contemporanea e ha influito sulla riflessione intorno al concetto stesso della filosofia. Mi sembra che la novità del pensiero levinasiano consista nella radicalità con la quale esso pone il tema di un “altrimenti” rispetto all’“essere” come la dimensione nella quale soltanto l’uomo diventa veramente uomo, acquista la sua umanità. “Essere” per Levinas è non soltanto il regno dei fenomeni, siano essi fatti della natura o eventi storici, i quali si manifestano ai sensi e vengono conosciuti dalla ragione rivolta alla determinazione di oggetti, o di contenuti, ma anche la sfera del sovrasensibile, quando questo assume l’aspetto di Dio come Ente sommo o di un al di là delle anime contrapposto al tempo. Levinas è un critico tanto dell’empirismo o materialismo filosofico, poiché esso rende l’uomo dipendente dalle cose, dalla storia, dalla natura, quanto della teologia naturale, poiché essa richiede che l’uomo, comprendendo o intuendo l’Assoluto o l’Incondizionato, si subordini poi a questo. Filosofie dell’“essere” sono per lui sia le filosofie che inchiodano l’uomo alla nascita, al destino, alle inclinazioni naturali, alla situazione storica o esistenziale – da Epicuro a Hume a Sartre – sia le filosofie che lo pongono al servizio di un Dio ben definito o evocato nella mistica o nella poesia – da Tommaso d’Aquino a Heidegger. Per Levinas tutte le filosofie dell’“essere” sono filosofie dell’“identità”: al fondo del soggetto che si radica nella natura o nella storia o che trova la sua quiete in un Dio concepito come fondamento assoluto o avvertito nel sentimento come sacro, vi è a ben vedere il terrore del rischio, dell’avventura, del nomadismo, di tutto ciò che sconvolge il consueto e rassicurante. Quella di Levinas è una filosofia della libertà: ma libertà è per lui non innanzi tutto la capacità di autodeterminarsi, di scegliere, la spontaneità nell’agire, ma la responsabilità che ciascun “io” ha nei confronti dell’“altro uomo”, l’altro uomo che è di fronte a lui, che gli appare, e che tuttavia non è rinchiuso nel mondo fenomenico. L’“altrimenti che essere” è l’etica: qui l’“io” non è il soggetto soddisfatto, dotato di buona coscienza, che rivendica i suoi meriti, o che approfitta degli eventi per affermare ogni volta se stesso, oppure che trova dentro di sé il divino, caro alla tradizione filosofica e teologica, ma il soggetto che ha doveri, prima che diritti, consapevole delle sue colpe, abitato in certo modo dall’“altro”, intimamente animato, non stabile, mai privo di rimorsi. La religione per Levinas si identifica con l’etica: Dio si delinea nell’incontro con l’“altro uomo” come lontana e mai afferrabile origine di comandamenti incondizionati – dal non esercitare violenza al soccorso nel nutrire, ospitare o curare. La sfera dell’“essere” – la quale implica il confronto mediante la ragione, dunque la giustizia, lo Stato, le nazioni, i rapporti tra le nazioni e tra gli Stati, la politica come campo delle mediazioni – si apre solo a partire da quella dell’“altro” da “essere”, la quale riguarda la dimensione “io”-“altro”. La filosofia levinasiana radicalizza l’idea della ragione pratica e il primato della ragione pratica affermati dalla filosofia


kantiana: Levinas esprime in modo più evidente di Kant, il quale specie nella Critica del Giudizio rimane legato alla tradizione metafisica, l’anteriorità dell’etica rispetto alla conoscenza, il “tu devi” come unico modo che l’uomo ha di entrare in contatto con la sfera dell’eterno o intelligibile (il noumenico), la critica del naturalismo e sentimentalismo nella vita morale. Come Kant, Levinas è rigoroso e in modo sobrio – contro ogni romanticismo – si appella alla ragione in etica. La ragione pratica, affermata da Kant, coincide con quella capacità dell’uomo di formare il suo “io” soltanto a contatto con l’“altro uomo” che Levinas accentua, facendo uso di iperboli. Ma egli si richiama, oltre che a Kant, anche ad altri pensatori, in particolare il Platone del bene “al di là dell’essenza” e il Descartes che scopre in Dio ciò che è oltre l’“ego cogito”. Tuttavia, Levinas vede la storia della filosofia – da Parmenide a Hegel alla crisi dello hegelismo, dai primordi in Grecia fino al Novecento – segnata dalla ricerca rivolta all’“essere” più che all’“altrimenti che essere”. Perciò egli indica anche alla filosofia la necessità di pensare di nuovo se stessa, come Derrida dice nella sua commemorazione. Il Convegno di Roma dedicato a Levinas ha inteso soffermarsi sulla modalità di un pensiero in grado di contenere al suo interno, in stretto parallelismo così come in forte tensione dialogica, l’eredità del pensiero ebraico accanto alla più illustre tradizione del pensiero greco e occidentale. Che cosa ritiene sia maggiormente emerso, qual è lo spirito di fondo presente in questi saggi raccolti ora nel volume? Il Convegno romano su Levinas, tenutosi nel 2006 per celebrare il centenario della nascita – parte delle iniziative che si sono tenute in varie parti del mondo, non solo in Europa e negli Stati Uniti, ma anche in America Latina, in Israele, in India – ha inteso innanzi tutto presentare Levinas come un filosofo che risale a una dimensione anteriore alla filosofia stessa, se con la parola filosofia si indica quella disciplina che riflette sull’essere del mondo come serie di eventi naturali o storici o sull’essere di Dio, del mondo come totalità, o dell’anima. Questa dimensione è quella dell’etica. Colui che filosofa presupponendo l’etica è, prima di essere un filosofo, un uomo in contatto con i suoi simili. Ricordo che Levinas – prima di impegnarsi nell’attività accademica nelle Università francesi, dopo la pubblicazione di Totalità e Infinito, avvenuta nel 1961 – fu insegnante, poi direttore in una scuola per maestri facente capo all’“Alliance Israélite Universelle”. Da bambino, in Lituania, egli aveva vissuto i difficili rapporti esistenti tra la comunità ebraica e l’ambiente circostante e poi gli anni della Rivoluzione russa; da giovane a Parigi visse gli anni dell’ascesa del nazismo e da uomo maturo la prigionia in un campo per militari francesi, ma isolato da questi in quanto ebreo. La sua famiglia di origine, che era rimasta in Lituania, fu sterminata dai lituani, alleati dei nazisti in funzione anti-russa. La sua propria famiglia – la moglie Raissa e una figlia – si salvò grazie all’aiuto di conoscenti e amici nella Parigi sotto occupazione tedesca. La filosofia levinasiana ha origine da un’esperienza esistenziale drammatica: essa si presenta come una filosofia universale, ma avente la sua fonte in un’esperienza umana più profonda del sapere. Certo, questa filosofia è anche il frutto di una raffinata elaborazione intellettuale: come filosofia dell’etica, dalla quale prende le mosse, essa rimane segnata – come lo stesso Levinas mette in luce – dalla tensione tra il Dire (l’“io” appartenente all’“altrimenti che essere”) e il Detto (l’“io” che riflette, che articola il suo discorso, che conosce, appartenente all’“essere”), una tensione ineliminabile. L’uomo che vive e pensa, secondo Levinas, si trova necessariamente in tale tensione. Ora, le fonti ebraiche – come Le-


vinas ha spesso affermato – esprimono la dimensione dell’etica con parole più limpide, più incisive, più fresche, perché più originarie, di quanto non sia in grado di fare quella tradizione filosofica che ebbe il suo avvio in Grecia con i presocratici. Chi intenda filosofare risalendo all’etica trova in tali fonti espressioni e termini che è necessario siano introdotti nella filosofia, se questa deve sfuggire al dominio di quell’“essere” che essa prevalentemente ha assunto nel corso della sua storia come suo oggetto principale. Questo particolare lessico, che Levinas utilizza nei suoi scritti particolarmente a partire dalla fine degli anni Sessanta (“eccomi”, “umiltà”, “sostituzione”, “espiazione”, “colpa”, “traccia”, “Nome”…), è anteriore, ma non esclusivo, rispetto a quello prevalentemente utilizzato dalla tradizione filosofica, che egli anche continua a utilizzare (“idea”, “io”, “essere”, “pensiero”…). Ricordo che quando si parla di fonti ebraiche si intende sia il Pentateuco (che gli ebrei chiamano propriamente Torah, ovvero insegnamento, indicazione, istruzione), i Profeti (Neviim) e gli scritti riuniti sotto il nome di Agiografi (Chetuvim), i quali compongono la Bibbia ebraica, sia la lunga tradizione di commenti, discussioni, riflessioni che si è sviluppata a partire dalla Bibbia ebraica (Talmud, liturgia, poesia, Midrash, Kabbalah). Il pensiero ebraico – se con esso si indica il pensiero contenuto nella Bibbia ebraica – prende forma in epoche più antiche rispetto all’età che vede il sorgere della filosofia greca; se con esso si indica invece quel pensiero che ha origine dall’intreccio tra la civiltà greca e la civiltà ebraica, del quale Filone d’Alessandria è il primo esponente, allora esso è naturalmente più recente rispetto alla filosofia greca e meno importante e influente nell’ambito della tradizione che ha origine sia soltanto da tale filosofia, sia da tale filosofia connessa al cristianesimo. Levinas è un filosofo ebreo nel senso che usa per la sua filosofia, rivolta a tutti, un linguaggio tratto dalle fonti ebraiche e dal pensiero ebraico, compreso sia nel primo che nel secondo senso: egli esprime ciò che considera il momento peculiare dell’umano, che è l’etica appunto, attraverso il riferimento alla letteratura religiosa ebraica in senso lato. Ma il suo obiettivo è quello di costruire una filosofia per l’uomo che parta dall’uomo e dal suo vivere sì nel mondo, eppure anteriormente oltre il mondo. Mi sembrano queste le idee principali che emergono dal volume che raccoglie gli Atti del Convegno. Parliamo di “ispirazione profetica”, ispirazione che nutre nel profondo la riflessione filosofica levinasiana, ispirazione – Lei lo ha ricordato – come tensione verso il messaggio implicito nelle Sacre Scritture (la fonte biblica, la lettura della Torah, il riferimento alla letteratura talmudica come risposta all’annuncio per un nuovo ordine di moralità e di Giustizia, come invito al senso della “prossimità”, del “sacrificio” fino alla “sostituzione” per altri …), ispirazione a tale fondamentale messaggio che, come ha tenuto più volte a ribadire Levinas, emerge non a partire dal modello della tradizione teologica o mistica, bensì secondo un punto di vista strettamente ed esclusivamente etico-filosofico (o quanto meno vicino alla tradizione del pensiero teologico negativo, penso ovviamente all’etsi Deus non daretur): un pensiero dunque, è il caso di sottolinearlo, filosoficamente (laicamente) ispirato. In effetti, alla luce di quanto sopra detto, dovrebbe apparire chiara la ragione per la quale Levinas introduce il termine di “ispirazione” o di “profetismo” – dunque un’ispirazione profetica – quando descrive il modo in cui l’“io”, attraverso la vista dell’“altro” che gli permette di elevarsi al noumenico, al puramente pensato sul piano dell’etica, si forma nel senso del


“rispondere” per l’“altro”, rispondere anche delle azioni che quest’ultimo commette liberamente. Ricordo che “profeta” nella tradizione ebraica è non solo Isaia, o Geremia, o Ezechiele, ma anche Adamo, anche i Patriarchi, anche Mosé: “profeta” è chiunque entri in contatto con l’eterno, colui al quale Dio si rivolge attraverso fenomeni o eventi che gli lasciano intravvedere una dimensione altra rispetto a quella dei fatti naturali o storici, pur senza che egli abbandoni la sua propria finitezza, il suo essere nel tempo. Il “profeta” è chi vive nel mondo e opera in esso rivolgendo lo sguardo verso l’eternità dell’etica, che non è un insieme astratto di principi e di regole, ma un punto di riferimento o di orientamento che obbliga ogni volta e sempre di nuovo a una libera scelta entro un contesto determinato. Il linguaggio di cui Levinas si serve per esprimere il momento etico del vivere umano, tratto dalla Bibbia ebraica, non nega affatto la filosofia; anzi, come sopra ho accennato, la conferma, la rende più forte, la rinnova, per il fatto stesso che offre alla filosofia il suo necessario presupposto, senza il quale essa diverrebbe o pensiero dell’evasione dell’“io” nell’al di là di un puro mondo di idee, astratto e rigido, oppure pensiero dell’immersione dell’“io” nell’al di qua, nei suoi continui cambiamenti e trasformazioni. Di qui l’interesse che il pensiero levinasiano suscita tanto presso gli ambienti religiosi quanto presso gli ambienti laici: se chi si richiama a una tradizione religiosa vede in questo pensiero lo strumento per riportare tale tradizione al suo unico significativo momento iniziale – l’“uno-per-l’altro”, il “Dio che viene all’idea” come “an-arché”, l’“io” in quanto privato della sua propria consistenza e divenuto “vicario” o “rappresentante” dell’“altro” – chi si attiene soltanto all’uomo come essere naturale e storico vede in questo pensiero lo strumento per impedire che l’umano si annulli nel tempo, perda il suo senso e il suo valore. Levinas, come già sopra ricordato, non è né un teologo né un filosofo il quale ritiene impossibile per l’uomo raggiungere innanzi tutto sul terreno etico ciò che sfugge a ogni immagine, il puramente intelligibile. Egli non propone dunque nei suoi scritti una teologia negativa, la quale, come giustamente è stato notato, confina con l’ateismo, poiché un Dio di cui si predica solo ciò che non è, è un Dio che rimane in fondo indeterminato, inconoscibile. Egli propone piuttosto un richiamo a un Dio che si configura come il punto, non definibile e non nominabile, di provenienza di ciò che egli chiama “traccia” a partire dal “volto” (visage) dell’“altro”: Dio come non-origine delle indicazioni di una condotta buona, non violenta, accogliente. Mi sembra che su questa nozione di Dio potrebbero convenire sia degli uomini di fede che vedono l’essenziale della loro religione nell’etica, sia dei laici che sottraggono l’etica al soggettivo e arbitrario: l’etica, naturalmente, vista nei suoi elementi principali, quali l’onestà, la mitezza, la difesa del debole, la mancanza di doppiezza e di ipocrisia, non come un insieme di prescrizioni che toccano particolarmente la vita privata, come la sfera della sessualità o della morte e della vita (ricordo, per inciso, che Levinas ha scritto delle belle pagine sul “femminile” e sulla “filialità”, in quanto parte non dell’etico, ma dell’eros). La formula dell’“etsi deus non daretur”, usata da Grozio per caratterizzare la validità del diritto, al di là di ogni riferimento a Dio, sarebbe stata accettata da Levinas, credo, per caratterizzare la validità dell’etica di per sé: purché l’esclusione del Dio della teologia o della mistica non avesse significato anche l’esclusione di un Dio come “an-arché”, non tematizzabile in quanto tale, eppure non indefinibile dal punto di vista del Suo manifestarsi come “traccia”. Ricordo che, secondo Ernst Cassirer (cfr. il suo libro La filosofia dell’illuminismo, apparso in Germania nel 1932), Grozio sostituisce al Dio della tradizione metafisica scolastica il bene di cui parla Platone nella Repubblica, posto oltre le idee ed


entro il cui orizzonte soltanto le idee acquistano significato. Ricordo anche che nella tradizione ebraica, dal libro dell’Esodo al Talmud alla Guida dei perplessi, la “traccia” sta a indicare gli attributi di azione (misericordia e giustizia) che sono i soli che possono essere riferiti a Dio e che fungono da modelli per l’agire umano. Levinas in continuità con il pensiero di Cohen, Rosenzweig, Buber (autori che puntualmente ritroviamo citati fra le pagine dei numerosi interventi) fornisce forse in maniera più esplicita – o a partire da una riflessione più espressamente elaborata ed esaustiva nei suoi molteplici aspetti, specie se considerata alla luce dell’esperienza della Shoah –, l’idea di quanto il riferimento alla centralità o al primato della politica, della filosofia, dell’arte, della religione stessa, non possa in alcun modo prescindere da un altro essenziale primato, quello dell’etica. Levinas dimostra quanto l’etica, profondamente vissuta nei modi di un’autentica “filosofia prima”, apra in modo più radicale, meno equivoco, di quelle discipline un sentiero in direzione dell’umano (ciò che determina per lui una più persuasiva idea di trascendenza). Eppure, la dimensione etica dimostra di trovare di volta in volta sempre meno spazio e maggiori difficoltà nel mondo attuale, tali resistenze non pensa possano in qualche modo influire in senso ancor più negativo nel pensiero filosofico contemporaneo sempre più caratterizzato – come del resto Levinas stesso ha inteso dimostrare – per la sua inadeguatezza e per il suo ritardo? Certamente Levinas – come Lei osserva – ha molto appreso da Franz Rosenzweig e Martin Buber, autori che spesso cita, per quanto abbia elaborato in maniera originale i loro insegnamenti. Dal primo ha ripreso la critica del concetto di “totalità”, cui approda, Levinas ritiene, ogni filosofia dell’“essere” o della “identità”; dal secondo il tema dell’“inter-umano” o del “tra”. Hermann Cohen è citato molto più raramente e solo di sfuggita in alcuni scritti dedicati ad autori ebrei dell’epoca moderna come importante rappresentante del pensiero ebraico in Germania agli inizi del Novecento. Forse Levinas vedeva in Cohen soprattutto il rappresentante di un ebraismo che aspirava a mostrare l’affinità e le somiglianze tra cultura ebraica e cultura tedesca – ciò che dopo l’ascesa di Hitler gli sembrava il segno di un ingenuo ottimismo – oppure soprattutto il fondatore a Marburgo, nell’età di Bismarck, di una scuola neokantiana, destinata a essere presto sostituita dalla più profonda filosofia di Husserl e Heidegger. Eppure il progetto di Cohen di una “religione della ragione”, cioè di un razionalismo etico rinviante al Dio unico in quanto caratterizzato, sulle orme di Maimonide, soltanto da attributi morali, può essere visto – come mostrano alcuni saggi contenuti nel volume degli Atti del Convegno – come un antecedente del progetto levinasiano: il progetto di un pensiero filosofico che vede l’uomo in contatto con un Dio che certo attraverso l’etica si configura come “noncondizione”, “non fondamento”, ma che tuttavia non scompare, non viene del tutto cancellato, persiste anzi nel richiamare in modo esigente l’uomo alla sua responsabilità, ai suoi importanti compiti, in una prospettiva che – per riprendere ancora una volta il linguaggio biblico, ma entro la filosofia – è messianica. In questa prospettiva si inseriscono le riflessioni di Levinas sulla politica, sul diritto, sulla storia, anche sulla scienza e la tecnica, sull’arte: tutte queste sfere richiedono sì una riflessione non solo sull’“inter-umano”, ma sull’“essere”; esse però hanno nell’etica la loro ragion d’essere, il loro senso, la loro giustificazione. Negli ultimi anni la letteratura critica su


Levinas, specialmente in ambiente francese, ha particolarmente indagato il legame tra etica e ontologia in Levinas, proponendo nuove idee alla teoria della politica o del diritto o all’estetica. È vero che l’etica viene oggi contraddetta in molti casi. Ma contraddetta lo fu anche nel passato, anzi da sempre: l’etica – come è stato notato – nasce proprio per impedire ciò che si può fare, ciò che rimane una possibilità sempre aperta, come l’uccidere o il rubare o il dire menzogne. Forse proprio la Shoah, che Levinas ha sempre considerato come lo sfondo storico della sua meditazione, dagli anni in cui essa si preparava fino al tragico epilogo, ha mostrato all’umanità i terribili approdi della negazione dell’etica e dunque la necessità di un’affermazione dell’etica da parte di una filosofia maggiormente attenta alla sua specificità, ai suoi aspetti peculiari, ai suoi presupposti e ai suoi modi di presentarsi. Mi sembra che la lotta contro Machiavelli e il machiavellismo e una forte ispirazione platonica, che invita a riprendere il tema degli ideali di libertà, giustizia e pace nell’antropologia filosofica e nella filosofia politica, siano una caratteristica della seconda metà del Novecento e di questi primi anni del nuovo millennio. Mi sembra che il pensiero di Levinas – contro tutte le filosofie che celebrano la volontà di potenza dell’uomo fine a se stessa, oppure la sua assoluta libertà senza responsabilità, o anche la fine dell’umanesimo in nome del gioco delle apparenze o del determinismo di ferrei meccanismi economici o sociali – si inserisca pienamente entro questo contesto storico. Abbiamo ritenuto perciò importante – noi tutti che abbiamo organizzato e partecipato al Convegno – attrarre oggi l’attenzione su Levinas, introducendo anche il mondo filosofico italiano nell’ambito internazionale del ricordo della sua figura e dell’analisi e valutazione della sua proposta filosofica. * Ordinario all’Università di Roma 1 “La Sapienza”. Insegna Antropologia filosofica come disciplina riguardante i problemi dell’uomo e dell’umanesimo, alla luce di una riflessione sia sulle fonti religiose ebraiche e cristiane sia sulla storia della filosofia.


Alcune riflessioni di J-L. Nancy di Carmelo Meazza

In un libro che ha come titolo La dischiusura, Jean-Luc Nancy precisa meglio, forse con più cura rispetto ad altri suoi contributi, la sua posizione nei confronti del nichilismo. Il nichilismo qui appare non solo l’epoca della fine del senso o della morte di Dio ma anche il tempo lungo nel quale il Verstand prende il sopravvento. Il Verstand secondo la celebre definizione hegeliana indica il dominio dell’intelletto astratto. Esso è il semplice pensiero raziocinante del calcolo che sovrasta la sfera della comunità imponendo la medesima logica che le burocrazie esercitano nei confronti del principio della statualità quando esso ha perso la sua forza iniziale. Il Verstand come la burocrazie sono in Hegel il sintomo più evidente del venire meno dalla forza del Vernunft e si affermano sempre come effetto e causa insieme in un’epoca di declino. Nel momento in cui Nancy chiama in causa questa coppia speculativa della filosofia hegeliana invita a guardare all’epoca del nichilismo con un doppio sguardo: il finire del senso porta con sè un doppio movimento: l’uno va verso la razionalizzazione astratta e al contempo, l’altro, come per contraccolpo della medesima economia, porta in dote un’attesa che “si dirige verso la possibilità di infiammarsi”. Sulla natura di quest’attesa o meglio sul pensiero di quest’attesa si potreb-


bero enumerare, egli ritiene, le più gravi sconfitte della filosofia. Non che non vi siano straordinarie disamine e diagnosi su di essa, ma per varie ragioni, su cui sarebbe urgentissimo riflettere, l’intera epoca dell’umanesimo o l’eredità dell’illuminismo o del post illuminismo resterebbero su questo senza le parole appropriate. Sembra di capire, sviluppando queste coerenze, che l’esperienza della morte di Dio, limitata ad esaltare l’effetto liberante del declino del senso, non saprebbe cogliere la natura di quest’attesa e alla fine non saprebbe difenderla dal ritorno sempre in agguato delle religioni o dei fondamentalismi di varia natura, pronti a diventare l’incendio di questa disponibilità ad infiammarsi. In qualche modo, nel tempo del nichilismo per evitare che una spada tagli in due il mondo distribuendo razionalità astratta da un lato e ritorni fondamentalisti dall’altro occorrerebbe riprendere in modo completamente nuovo un’eredità appena accennata e del tutto incompiuta lasciata in dote proprio da Kant. Quest’eredità consiste per Jean-Luc Nancy nell’orientamento di una fede della ragione. Le filosofie di Hegel, di Schelling e di Hoelderlin avrebbero raccolto quest’eredità nella ricerca di un assoluto della ragione o di un pensiero più alto nella ragione assoluta. L’esito speculativo e pratico avrebbe però dilapidato l’eredità contenuta in quell’urgenza diventando il compimento di un intero ciclo del pensiero moderno piuttosto che l’inizio di un nuovo avvenire del pensiero. Per Nancy questo compito resta ancora davanti a noi e non è un caso che proprio la politica sia il terreno in cui questo vuoto si avverte in modo speciale. “(...)Non è un caso che la politica manchi di ciò che l’espressione “religione civile” significa in Rousseau, manchi cioè, di quell’elemento nel quale dovrebbe potersi esercitare non solo la razionalità del governare, ma quella, infinitamente più alta e più ampia, di un sentimento o addirittura di una passione dell’essere-insieme(...)” . Naturalmente nessuna religione civile si può oggi riabilitare e nessun ritorno del religioso in quanto tale può colmare quel vuoto. Anzi entrambe quando si presentano sulla scena con una certa volontà di affermazione contribuiscono ad alimentarlo e amplificarlo. Evidentemente per Nancy una fede della ragione è tutt’altro che un richiamo alla religione in quanto tale né a quella naturale né a quella civile. E tuttavia, ripetiamo, egli ritiene che senza fede una ragione finisce nella fredda razionalizzazione dell’esistente e perde quanto la apre ogni volta nella passione dello stare insieme. Questa passione implica per il pensiero avventurarsi in una dimensione che lo oltrepassa in una condizione tuttavia in cui si deve prendere definitivamente atto che si sono asciugati tutti i retromondi e tutti i cieli si sono svuotati. L’oltre non è quindi né più in fondo né al di là. Il senso, che Nancy invoca contro la logica dei meri significati o dei meri valori, incomincia a nascere solo quando si riesce a far meno sia del troppo profondo sia del troppo alto. Sia del sacro che del santo. La fede della ragione di cui qui si parla evidentemente non si fa avanti se non si abbandonano del tutto le altezze e le profondità. Per questo Nancy propone una mutua dischiusura dell’eredità della religione e della filosofia. Come se entrambi potessero trovare il loro oltre in una reciproca dischiusura e qui verificarlo come un senso che evita al religioso di sollevare gli occhi verso il cielo e alla ragione di racchiudersi in un fondo rassicurante, anche quando è dichiarato infondato o abissale. Nancy tuttavia non parla in questo saggio della religione o del fenomeno religioso in quanto tale. L’invito che egli rivolge alla filosofia è piuttosto di guardare verso il cristianesimo con la convinzione che esso abbia in sè, nel


suo dinamismo più segreto, qualcosa che lo sottrae permanentemente alla dimensione del religioso in quanto tale. “La sempre rinnovata condanna del cristianesimo da parte dei filosofi – e particolarmente da parte di quelli dell’Illuminismo – non può che lasciare perplessi, scrive Nancy, una volta che ne siano stati compresi e riconosciuti senza riserve tutti i buoni motivi” . L’Illuminismo ha prodotto dunque dei buoni motivi per sospettare e diffidare del cristianesimo e tuttavia quando si conclude con un suo ripudio o una condanna solenne rinuncia a qualcosa di cui proprio la ragione ha bisogno nel momento in cui si riconosce come passione di una certa convivenza. La filosofia è quindi invitata da Nancy a compiere, nei confronti dell’esperienza cristiana in Occidente, il medesimo ripensamento che l’etnologia, da molto tempo, ha compiuto nei confronti dei popoli primitivi superando la presunzione etnocentrica. La presunzione che la Riforma e l’Illuminismo (malgrado tutta la loro nobiltà e vigore) hanno sedimentato nei confronti del passato premoderno dell’Europa è un ostacolo formidabile per il compito di quella fede della ragione lasciato in eredità dalla filosofia kantiana. Questa presunzione in vario modo continua ancora oggi e impedisce alla ragione di cogliere una certa forza decostruttiva presente nell’evento cristiano. Decostruttiva verso se stesso innanzi tutto, poiché esso è sempre anche caduta nel semplice legame religioso, e decostruttiva verso le pretese totalizzanti di una ragione incapace di dischiusura verso le sue stesse esigenze più radicali. A partire da quelle oggi giustamente più praticate: dare vita a un pensiero senza fini, ateo o forse si potrebbe anche dire teoanarchico. Tra le coerenze interne di quest’attenzione di Nancy all’evento cristiano c’è questo esito: poiché il cristianesimo va pensato come la radice che spinge il monoteismo verso un certo ateismo (proprio nel momento in cui ne decostruisce la dimensione semplicemente religiosa) coloro i quali avvertissero nel mondo moderno e nel suo spettacolo un elemento solo ed esclusivamente estraneo e nemico e fossero impegnati a guardare indietro con nostalgia verso un passato di fede e di valori, sarebbero estranei e lontani proprio da questa radice cristiana. Almeno nel senso che l’assenza di Dio di cui sa vivere il mondo moderno è un esito cristiano molto di più di quanto lo sia della ragione moderna.


Quale Cristianesimo per i liberali?

Discussione del libro di M. Pera, Perché dobbiamo dirci cristiani, Milano, 2008. di Stefano Maschietti

Con questo intervento mi propongo, da liberale perplesso, di evidenziare la contraddizione di fondo intorno alla quale ruota l’ultimo libro di M. Pera, Perché dobbiamo dirci cristiani. Si tratta di un libro polemico, nel quale un liberale rinato critica il tradimento che, dell’autentico credo liberale (quello dei Padri Locke, Jefferson e Kant), avrebbero operato, tanto la curvatura immanentista impressa alla dottrina liberale da filosofie trascendentali come quella di Croce e di Habermas, quanto il relativismo culturale oggi imperante, che Pera sembra giudicare come la conseguenza dell’inesorabile autodissoluzione dello stesso liberalismo immanentista. Il punto su cui farò leva è quello relativo al Dio personale cristiano, da Pera richiamato per temperare i rischi intrinseci alla principale vocazione liberale, la vocazione per l’autonomia e per l’autodeterminazione culturale e politica. Pera infatti non inscrive la propria idea del Dio Persona in alcuna corrente teologica. Semplicemente l’assume come un’evidenza univoca e as-


siomatica, e dopo averla posta sotto l’egida della Chiesa cattolica (p. 37), ne fa l’argomento per sostenere la tesi, cara all’attuale Pontefice, del carattere razionale e veritativo, epistemico, della rivelazione cristiana, tale da legittimarne la supremazia ideale e morale rispetto ad altre rivelazioni monoteiste, in particolar modo quella maomettana. Qual è quindi il punto? Il punto è che Pera, facendo della persona in quanto creata ad immagine e somiglianza di Dio il fondamento dell’etica cristiano-liberale, e prescindendo da qualsiasi altro elemento dell’esperienza cristiana del mondo e della storia (in primis la tensione escatologica-oltramondana), finisce per subordinare il cristianesimo alle esigenze strategiche del liberalismo, finisce quindi per immanentizzare il cristianesimo e dissolverne l’autentica vocazione profetica. Vorrebbe quindi aprire il liberalismo alle ragioni di una verità trascendente l’orizzonte di comprensione umana delle vicende politiche, finisce invece per razionalizzare l’umanesimo cristiano, farne un principio di stabilizzazione etica e ridurlo nello spazio mondano in cui si sviluppa e si esaurisce la missione liberale come di qualsiasi altra dottrina politica e storica. Il Dio di Pera, che non a caso si richiama in primo luogo a Kant e alla sua fondazione morale della speranza, si rivelerà essere come il Dio di Fichte, il Governo morale del mondo, e in certa misura il Dio di Feuerbach, concepito ad immagine e somiglianza dell’uomo, espressione ideale della sua possibile perfezione pratica e teorica. Il suo è un Dio dei rivoluzionari, ed infatti la sua proposta provocatoria è, e non può che essere, quella di una nuova rivoluzione liberale, ecumenica e mondiale. «La società liberale non è un aggregato qualsiasi […] È un’unità morale e spirituale […] Senza l’idea cristiana che noi siamo un popolo di Dio», che «non ha confini storici» per compiere la propria missione, «la dottrina liberale sarebbe nient’altro che un’aspirazione senza speranza» (p. 46). In conclusione di saggio, con riferimento alle prime comunità cristiane, Pera parlerà persino di «liberalismo cristiano delle origini» (p. 152), mentre, con riferimento all’attuale crisi della dottrina liberale, parlerà di un’Europa dimentica di sé ed incapace di capire che il motivo per cui essa tanto amerebbe l’Islam, l’aver cioè elaborato un relativismo culturale, è lo stesso motivo per il quale l’Islam la odia e ne disprezza l’indifferenza valoriale (p. 134). E non è un caso che, rispetto a tale paradossale situazione, non prenderà in considerazione il dato storico che uno dei pilastri del relativismo culturale europeo è proprio quel cristianesimo che, in nome di un’altra e più autentica giustizia, insegna a non appagarsi delle forme umane di giustizia, che hanno sempre il segno del potere e dell’imposizione (si pensi al giansenismo di Pascal), ed insegna quindi ad amare il proprio nemico (Mt. 5, 44), ovvero a compiere un gesto di così radicale relativizzazione dei valori, da rendere la tensione cristiana inconciliabile con le logiche di questo mondo. Affinché questo schema interpretativo trovi riscontro nelle pieghe del testo, è opportuno individuare i momenti essenziali della sua argomentazione critica. Pera assume che il limite esiziale dell’odierna autocomprensione del liberalismo quale dottrina filosofico-politica sia nel suo fondarsi sulla doppia equazione per la quale liberale è solo il laico, e laico è quel soggetto che si autodetermina prescindendo da presupposti di tipo pre-politico e pre-filosofico, ovvero di tipo religioso e/o metafisico (p. 25 e sgg.). Ammesso e non concesso che le cose, nell’autocomprensione liberale, debbano star così, vediamo quali conseguenze ne trae Pera. Egli denuncia che la comunità liberale, intendendosi senza limitazioni di carattere giusnaturalistico e senza, ancor più specificatamente, delimitazioni di carattere cristiano dello spazio giuridico delle libertà individuali (che per Pera, sulla scorta di Locke e di Jefferson, devono essere intese come «dono» inviolabile


di Dio e non come elaborazione storica degli uomini associati), senza questi limiti la comunità liberale è esposta al rischio dell’anomia, e dell’autodissoluzione anarchica di ogni principio di coesistenza e di rispetto della dignità altrui e della vita umana. Ciò sarebbe stato colto già nella critica di Platone alla democrazia, e oggi troverebbe un riscontro sintomatico nell’assenza di inibizioni che caratterizza la promozione dei diritti di diversità (sessuale ad es.), nell’approccio senza prevenzioni etiche del problema dei limiti biologici della vita (aborto, clonazione, eutanasia), nell’accoglienza sempre meno filtrata da richieste di reciproco riconoscimento, di immigrati non disponibili a lasciarsi integrare nel nostro tessuto di valori e solidarietà. Il suggello politico di questa spirale autodissolutoria, fondata su un pubblico atto di apostasia della nostra identità cristiana, è per Pera rappresentato dal processo di integrazione europea, dalla sua neutralità assiologica, dall’ipertrofia burocratica, dalla paralisi decisionale che ha messo capo solo ad un astratto e autoreferenziale processo di elaborazione costituzionale, incapace di dare identità morale e dignità nazionale alla comunità europea. Ecco il risultato dell’ideologia oggi dominante, un misto di liberalismo apostata e di conseguente, misero e sterile relativismo culturale, alieno dall’assumere una «decisione religiosa di fondo» (p. 2, l’espressione è di Benedetto XVI). Questa ideologia è il risultato culturale della filosofia oggi dominante, quel patriottismo costituzionale che trova in Habermas il suo pontefice laico e principale ispiratore. Qual è il difetto intrinseco al patriottismo costituzionale? Di negare preventivamente, pur in modo implicito, qualsiasi valore patrio in grado di dare fondazione pre-politica a quel metodo repubblicano basato sul solo principio della pretesa argomentabilità e condivisibilità di qualsiasi ragione portata a sostegno del processo di costruzione di un’identità politica europea immune da impronte di natura etniconazionale, storico-religioso, epistemico-metafisica (pp. 79-80). In Habermas questo difetto costitutivo si darebbe a vedere nel momento in cui il filosofo francofortese indica negli attori linguistico-pragmatici i protagonisti della costruzione repubblicana, e non già nelle persone, in quei compiuti e presupposti soggetti, il cui valore si rivela per Pera solo nell’accezione offerta dal cristianesimo alla dignità umana, l’essere cioè la persona creata ad immagine e somiglianza di Dio, come del resto assunto nel giusnaturalismo, sia esso deista o teista, dei Padri liberali (pp. 88-9 e n.75). Habermas avrebbe quindi rimosso il passaggio decisivo della filosofia che è sottesa nella propria teoria dell’agire comunicativo, ovvero il Kant religioso, quel Kant che, sulle basi delle acquisizioni cognitive desunte in sede di legittimazione della ragion pratica, postula l’esistenza di Dio, garante della fede razionale e della speranza di intendere il fine ultimo dell’agire intersoggettivo, ovvero la promozione di una repubblica universale, unica garanzia della piena e compiuta espressione del suo fondamento, la persona intesa come fine in sé (p. 42). Ciò che è interessante notare, in questa serie di passaggi argomentativi di cui Pera esplicita non molte stazioni (la filosofia pratica di Kant è infatti assunta come universalmente vera, dallo studioso di Hume e dell’empirismo anglosassone, indipendentemente da qualsiasi sua analisi sistematica), è che al liberale rinato è sufficiente una correzione di principio, la rilettura in termini religiosi della filosofia pratica kantiana e, di conseguenza, della teoria comunicativa di Habermas, per assumere che su queste basi l’Europa potrebbe divenire una nazione caratterizzata da un’identità non solo storicopolitica, bensì morale e perciò stesso metastorica, veicolo quindi della stessa rivalazione cristiana e del suo carattere inverante la contingenza storica. Questo è infatti il punto decisivo dell’intero libro, ed è il punto che permette


di comprendere perché il cristianesimo di Pera sia concepito ad immagine e somiglianza di un liberalismo inteso come dottrina politica ideale e monolitica, tale da richiedere, per la propria piena realizzazione, l’intesa con una Chiesa organizzata in forma altrettanto monarchica ed ecumenica. Poiché infatti per Pera il Cristianesimo esprime un’esigenza di verità univoca e integrale, e poiché la filosofia critico-liberale (di Kant) è univocamente definibile in termini di verità morale cristiana, ecco che qualsiasi forma di autentico cristianesimo non potrà che incarnare la realizzazione storica del nesso essenziale di verità e libertà, guadagnarsi quindi il titolo di faro morale dell’intera umanità. Per Pera infatti – e qui proviamo a cogliere l’aspetto positivo di certo carattere alquanto semplificatorio (e talvolta imbarazzante) delle sue analisi storiche - non sembra darsi soluzione di continuità tra l’attuale pontificato e la filosofia della religione di Kant. Poniamo a Pera una semplice domanda: veramente il vertice della componente maggioritaria della cristianità storica accetterebbe di porre a fondamento del proprio magistero e della connessa organizzazione gerarchica, nel nome di una Verità univocamente intesa e della Renovatio Europae, la filosofia del più implacabile teorico della chiesa invisibile e dell’impossibilità di subordinare la legittimità della morale alla volontà di Dio o di una qualsiasi dottrina religiosa (valida per Kant solo soggettivamente) fondata sul primato e sull’autorità del sacerdozio? Certo, noi laici perplessi non vedremmo l’ora che la si smettesse con quella caricatura dell’azione parallela immaginata dal genio di Musil nella sua letteraria Cacania, vale a dire la montata di schiuma burocratica dell’integrazione europea, e che si passasse velocemente alla provvidenziale convocazione, non, diciamo, dell’Heptaplomeres di Bodin (che ancora si illudeva di poter far sedere al tavolo del giusnaturalismo anche pagani e musulmani), ma di un più sobrio convegno di teologi cristiani. A loro lasceremmo carta bianca, affinché si provino a scrivere, sulla base però del liberalismo religioso di Kant, il preambolo della Costituzione spirituale europea. Veramente Pera crede che questo testo uscirebbe vergato nel cristallo della chiarezza? Veramente non sarebbe presentato alcun emendamento, non si ricorrerebbe ad alcuna formula dilatoria e ipocrita? Veramente non si parlerebbe solo di radici, ma si indicherebbe la via, il metodo per salvare l’Europa dal paralizzante ciclo di convulsioni in cui la storia, e in primo luogo quella post-carolingia dell’Impero e delle chiese cristiane, l’hanno spietatamente precipitato? Veramente il suo popolo l’approverebbe a grande maggioranza, o addirittura all’unanimità, in un eventuale referendum? Non si tratta solo di domande retoriche o di considerazioni ironiche. È interessante invece notare come la ricerca di un senso trascendente della verità, che ne tenga fermo ed esalti il carattere di univocità e assolutezza, porti Pera ad individuare nel modello della Chiesa cattolica il criterio per saldare la contingenza errante della storia, il crisma essenziale della stessa verità ed il suo fondante nesso con la libertà morale kantiana. Per Pera, che sembra cedere all’idea che il cristianesimo legittimo sia uno ed uno solo, la Chiesa cattolica «non è solo un’istituzione» storica, perché le istituzioni, siano esse partiti, sistemi economici o filosofici, quando sbagliano, «cedono e scompaiono». Quando invece è la Chiesa cattolica ad errare, lo sbaglio esalta «la grandezza del suo messaggio e il valore non contingente della sua parola» (p. 37). In sintesi, alla storia immanente i piccoli errori che conducono alla perdizione, alla Chiesa cattolica i grandi errori che aprono però il cammino dialettico della verità. Per cogliere questo punto ed il suo carico di conseguenze ideologiche, è però necessario esaminare la critica cui Pera sottopone la posizione di Croce (l’altro maestro venerabile dell’autodissolutorio immanentismo liberale), rispetto al cristianesimo (p. 50 sgg.). Pera non entra nel merito del sistema


crociano e della dialettica dei distinti che ne costituisce il criterio. Ma ciò è coerente con il suo punto di vista, quello di una verità necessariamente trascendente e non trascendentale, il che lo fa sentire legittimato ad operare con il martello dell’astrazione rispetto alle filosofie dell’immanenza. Non sente quindi il bisogno di rilevare come, rispetto alla struttura logico dei distinti e, quindi, dell’intero sistema crociano, tanto il cristianesimo quanto, si badi, il liberalismo come dottrina politica, rappresentino un riflesso culturale, non un fondamento del sistema stesso, nei cui momenti essenziali, cioè nei distinti, non vi è menzione né del liberalismo, né, tantomeno, del cristianesimo. A Pera basta rilevare i rischi cui va incontro una determinazione così radicale dell’orizzonte filosofico, ovvero il rischio del panteismo da una parte, e quello della giustificazione dell’esistente dall’altra. La prima critica che dovrebbe essere sollevata contro questo tipo di analisi non riguarda però la qualità degli argomenti. Il principio cui Pera non resta fedele, infatti, non è tanto quello della coerenza filosofica, cui egli rinuncia perché ne ha denunciato la naturale inclinazione autodissolutoria, quanto il principio della carità ermeneutica cristiana, il quale lo obbligherebbe a considerare una posizione interpretativa nella sua dignità testuale individuale, quindi meritevole di analisi nel suo principio di interna costituzione. Perché Pera non compie questa operazione? Non lo fa né nei confronti di Habermas, né in quelli di Croce, né in quelli di Kant. E non lo fa perché, pur non volendolo, il suo finisce per essere un liberalismo cristiano che rinasce all’insegna di un implicito bisogno di spirito dogmatico fondato su argomentazioni tecnicamente metastoriche. Vediamo perché. A Croce egli imputa di aver considerato il cristianesimo, rispetto al liberalismo, semplicemente un «fratello minore» (p. 53), quindi un antecedente storico dell’altrettanto storico liberalismo politico. Cosa quindi manca al filosofo napoletano, affinché la sua posizione possa uscire dallo stato di minorità filosofica in cui si è cacciata ed entrare nella sfera dell’autentico spirito liberale? Gli manca di rinunciare alla «negazione del trascendente», propria di ogni prospettiva trascendentale, e quindi di «riconoscere la specificità della rivoluzione cristiana, perché una rivoluzione significa rottura storica, inizio primo» (p. 52). La richiesta non è di poco conto, visto che quello dell’«inizio» si presenta, nel quadro di un sistema coerente di pensiero, come un problema aporetico e di aspra soluzione. Pera sembra rammentarlo nel momento in cui sottolinea che la filosofia dello spirito non può in effetti costituirsi a partire da un fondamento trascendente il proprio orizzonte di comprensione, specie se esso presenta poi i caratteri della contingenza storico-fattuale. Ma questo, il carattere metastorico della rivelazione cristiana, è proprio il punto che Pera non considera solo oggetto di fede, bensì come una verità naturale, risplendente di tale evidenza che, il negarla comporta l’inevitabile dissoluzione della propria posizione di pensiero. Quando quindi Pera rimprovera ai liberali laici di non saper aprire il loro pensiero ai fondamenti prepolitici di un processo costituzionale, non indica il «prepolitico» come una serie di eventi storici e di valori tradizionali, fondati sull’ambiguo principio della lunga durata dei poteri tradizionali. Consapevole che una durata, per quanto lunga, è comunque una durata variabile e soggetta agli imprevisti e alle imperfezioni del tempo storico, Pera indica nel «prepolitico» l’evento di una verità trascedente e delegittimante qualsiasi sua possibile messa in discussione. Per comprendere questo punto cruciale è opportuno da ultimo osservare come Pera faccia culminare nel razionalismo morale di Kant il proprio percorso di ricerca di un nesso metastorico tra il senso della verità e il principio della libertà. La premessa del ragionamento è sempre da ricercare nei Padri, in particolare Locke, il quale, rispetto ai principi inviolabili della persona e rispetto al metodo liberale di loro tutela, afferma che questo metodo «è stato


“impiantato” da Dio nella mente degli uomini» (p. 110). L’evidenza di ciò sarebbe riflessa nel modo in cui Jefferson riprende tale assunto nel testo della Dichiarazione d’indipendenza americana, e dal modo in cui Kant ne farebbe il principio di un possibile «Stato etico [sic!]» e il criterio di «valutazione delle massime morali personali e delle istituzioni politiche». Cosa ha quindi messo in crisi il valore di questa evidenza ed inaugarato la lunga e dissolutiva stagione di pensiero, passata per l’immanentismo e culminata nel relativismo culturale? Il peccato originale è da individuare nella «reazione romantica e idealistica alla tesi di Kant», ovvero nell’affermazione del carattere solo storico del linguaggio, delle culture e dei relativi valori. Non entriamo ora nel merito della sorprendente e discutibile visione della storia della filosofia che emerge in questa pagina del libro. Notiamo solo, ed è il punto principale, che l’attacco dissolutorio del pensiero di Kant si darebbe a vedere in forma compiuta, per Pera, nella critica formulata da Hegel alla morale kantiana, la critica relativa al carattere astratto del suo principio intenzionale e alla sua incapacità costitutiva di darsi un contenuto determinante. Perché è soprendente tutto ciò? Perché, a ben vedere, quale che sia la pertinenza o la legittimità del rilievo di Hegel, la sua matrice è analoga, anzi identica, a quella sottesa nel rilievo sollevato da Pera al metodo liberale, vale a dire al suo supposto prescindere da contenuti prepolitici e dal suo conseguente non poter non risultare in astrattezze autoreferenziali. E perché, ci chiediamo, ciò che è valido contro il metodo liberale laico non sarebbe valido contro il metodo liberale di uno dei suoi Padri? Perché per Pera, lo voglia o meno il suo argomentare, la ragione kantiana non è solo «universale», ma rappresenta un inconfutabile riflesso della volontà di «Dio nella mente degli uomini». Pera gioca sull’ambiguità per cui il Dio persona non sarebbe che l’altro volto della ragione universale, quindi richiama la ragione per immanentizzare il messaggio cristiano, e richiama il Dio cristiano per dare un contenuto personalistico all’etica della ragion pura pratica, non tenendo più conto che per Kant, come ricordato in altro luogo del testo, solo dal punto di vista soggettivo i nostri obblighi morali possono essere intesi quali comandamenti di Dio. Questo è allora il punto: come dare oggettività alle massime del nostro agire morale (pp.41-2). Rispetto ad esso, Pera salta dal problema a soluzioni fondate sul principio di autorità, incompatibile però con il metodo kantiano da lui stesso richiamato. Pera non discute il problema della fondazione, ritiene immediatamente legittimo il catalogo di divieti che Kant deduce in sede di «metafisica dei costumi», insistendo sul loro valore metastorico e rinunciando a porre il problema della loro traducibilità in norme giuridiche. Kant, ad esempio, dalla sua morale finalizzata alla promozione della personalità libera, ricava il divieto dell’infanticidio (p. 143). E Pera richiama tale punto per riproporre, implicitamente, la tesi della natura moralmente deplorevole della pratica oggi diffusa dell’aborto. Egli sembra addirittura mettere in dubbio che su questioni così cruciali e delicate possano essere i parlamenti ed il criterio della maggioranza a doversi pronunciare. E denuncia che, il primato indiscusso del principio della maggioranza, finisce per costringere ai margini del discorso pubblico l’opinione delle autorità morali e religiose come la Chiesa cattolica (pp. 29-31 e pp. 134-38). Su questo piano è veramente difficile seguire il suo discorso: chi impedisce a chi, in una società liberale che garantisca accesso ai mass media, di formulare la propria opinione ed indirizzarla a tutti i soggetti interessati? E chi impedisce ad alcuno di questi soggetti, se ritiene in coscienza di doverlo fare, di pronunciarsi di conseguenza e di esercitare il proprio diritto di voto


in un libero parlamento? L’alternativa a tali massime di senso comune sarebbe quella di imporre, a chi non si senta di riconoscerne il vincolo morale e la verità metastorica, il primato di una volontà conforme ad una ragione universale ed intesa come il comando stesso di Dio, e dichiarare che su questioni di principio non è possibile il dissenso, perché il dissenso introduce il primato dell’anarchia e dissolve sani e naturali costumi. E a chi affidare il compito di interpretare tale volontà universale? A chi assegnare la pesante responsabilità di censurare gli apostati e di costringerli a consentire con le universali evidenze del Dio persona? Non crede piuttosto Pera che l’autenticità morale di un liberalismo cristiano dovrebbe potersi rivelare nel comportamento di chi, proprio vigendo una legge per la regolamentazione dell’aborto (dura realtà sociale), decide personalmente di non avvalersene e di seguire una regola di coscienza intimamante vissuta e pubblicamente professata? E che ne sarebbe invece di questa libertà di coscienza in un regime in cui ad un’autorità non politicamente legittimata, sia essa un concistoro o una commissione episcopale, fosse dato di definire le linee guida della moralità comune prescindendo dal problema di tradurre in norme positive e di garanzia tali indirizzi? La storia è piena degli episodi di violenza che si sono più o meno sordidamente consumati quando alle società borghesi si è cercato di imporre forme di organizzazione etica vincolante, e non è qui il caso di ripercorrerli, anche per evitare di incorrere nel facile gioco di questo pur interessante libro, definire cioè le proprie tesi per contrapposizione polemica, cedendo troppo spesso alla tentazione del corrivo soccorso delle pretese vittime dell’imperante conformismo. A Pera ci permettiamo di suggerire un’ipotesi che oggi è poco di moda formulare, e cioè che se un nuovo liberalismo cristiano fatica a levarsi in volo, il problema non è tanto nel relativismo in cui si sta avvitando l’imperfetto metodo liberale, bensì nella quasi completa assenza, nel dibattito pubblico, di un autentico spirito cristiano, che abbia il coraggio di rompere la logica di ipocrita opportunismo che paralizza tante autorità morali, a partire da quella Chiesa cattolica cui Pera sembra voler affidare il ruole di guida del processo di rinascita europea. Una Chiesa che oggi saluta il carattere liberale e cristallino della sua decifrazione della crisi morale, ma che difficilmente domani accetterebbe di condividere un percorso di fuoriuscita da essa prendendo come unico testo guida quello del principale autore dell’illuminismo europeo. Perché ne uscirebbe non rafforzata, bensì spiritualmente demolita.


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