Aprile- Maggio n째 34, 2011
Direzione: Elio Matassi - Vannino Chiti - Marco Filippeschi - Carmelo Meazza Coordinamento generale del sito e della web TV: Marco De Pascale
Adesioni Massimo ADINOLFI (Univ. di Cassino), Claudia BARACCHI (The New School for Social Research, New York); Massimo BARALE (Univ. di Pisa), Giuseppe BEDESCHI (Univ. La Sapienza, Roma), Luigi BERLINGUER (Univ. di Siena), Enrico BERTI (Univ. di Padova, Accademia dei Lincei), Franco BIASUTTI (Univ. di Padova), Remo BODEI (University of California (Los Angeles)), Almut Sh. BRUCKSTEIN (Ha’atelier, Berlino/Gerusalemme), Massimo CACCIARI (Sindaco di Venezia, Univ. San Raffaele, Milano), Giuseppe CANTILLO (Univ. di Napoli), Carla CANULLO (Univ. di Macerata), Andrea CAUSIN (Esecutivo PD), Stefano CECCANTI (Univ. La Sapienza, Roma), Mauro CERRUTI (Univ. di Bergamo, Deputato), Pierpaolo CICCARELLI, (Univ. di Cagliari), Umberto CURI (Univ. di Padova), Gianfranco DALMASSO (Univ. di Bergamo), Antonio DA RE (Univ. di Padova), Roberta DE MONTICELLI (Univ. San Raffaele, Milano), Pietro D’ORIANO (Univ. La Sapienza, Roma), Massimo DONA’, (Univ. San Raffaele, Milano), Adriano FABRIS (Univ. di Pisa), Maurizio FERRARIS (Univ. di Torino), Giovanni FERRETTI (Univ. di Macerata), Marco FILIPPESCHI (Dirigente nazionale PD, Sindaco di Pisa), Pierfrancesco FIORATO (Univ. di Sassari), Massimo FIORIO (Univ. di Torino), Vittoria FRANCO (Senatore, Univ. di Pisa), Fabrizia GIULIANI (Univ. di Siena), Sergio GIVONE (Univ. di Firenze), Alfonso M. IACONO (Univ. di Pisa), Giovanni INVITTO, (Univ. di Lecce), Marco IVALDO (Univ. di Napoli), Antonello LA VERGATA (Univ. di Modena), Claudia MANCINA (Univ. La Sapienza, Roma), Sandro MANCINI (Univ. di Palermo), Aldo MASULLO (Univ. di Napoli), Eugenio MAZZARELLA (Univ. di Napoli), Carmelo MEAZZA (Univ di Sassari), Alberto MELLONI (Univ. di Modena), Virgilio MELCHIORRE (Univ. Cattolica, Milano), Gaspare MURA (Pontificia Università Urbaniana), Silvano PETROSINO (Univ. Cattolica, Milano), Andrea POMA, (Univ. di Torino), Mauro PONZI (Univ. Romauno), Alfredo REICHLIN (Presidente del Cespe), Luigi RUSSO (Univ. di Palermo), Leonardo SAMONA’ (Uni. di Palermo), Gennaro SASSO (Univ. La Sapienza, Roma, Accademia dei Lincei), Aldo SCHIAVONE (Univ. di Firenze), Lucinda SPERA (Univ. di Siena), Tamara TAGLIACOZZO (Univ. Roma Tre), Andrea TAGLIAPIETRA (Univ. San Raffaele, Milano), Corrado VIAFORA (Univ. di Padova), Carmelo VIGNA (Univ. di Venezia), Mauro VISENTIN (Univ. di Sassari), Franco VOLPI† (Univ. di Padova).
Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica Http://www.Inschibboleth.org - Mensile on line (con aggiornamenti settimanali), Aprile-Maggio 2011, n° 34. (Numero 35 2 Giugno 2011) - Registrazione presso il Tribunale di Sassari. Redazione principale: via Nazionale 75, 00184 Roma. Redazione virtuale on line su Skype. Ufficio stampa, Marco De Pascale. E-Mail: infotiscali@inschibboleth.org. Direttore responsabile: Aldo Maria Morace
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Crisi dell’istruzione, democrazia, ideologia di Elio Matassi
Incipit de La questione morale, Cortina 2010 di Roberta De Monticelli
Lettera di un’anima bella a Giuliano Ferrara di Giovanni Invitto
L’etica e il futuro della democrazia di Gaspare Mura
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Su una recente sentenza della Corte Europea di Ivana Bartoletti
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Le nuove forze produttive e il PD di Alfredo Reichlin
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Crisi dell’istruzione, democrazia, ideologia di Elio Matassi
Nella contemporaneità, sul piano internazionale ma con virulenza ancora maggiore su quello nazionale, si assiste ad una crisi strisciante, di proporzioni e portata globali, dell’istruzione e del sistema formativo. Basti riflettere a quanto sta avvenendo nel nostro contesto specifico sia per quanto concerne la scuola pubblica sia per il sistema universitario nel suo complesso, investito del compito attuativo della recente riforma universitaria. Una riforma, concepita in modo particolare, per una devastazione sistematica degli studi umanistici, una delle più grandi tradizioni del nostro paese. Lo spostamento delle facoltà ai dipartimenti, di per sé corretta, dati i numeri prefissati, sta comportando come automatismo la scomparsa di dipartimenti e tradizioni di studi e di pensiero determinanti, rappresentato in larga
misura dai dipartimenti di filosofia e da quelli del mondo antico. Contro questo attacco, contro questa cecità priva di qualsiasi forma di lungimiranza, si stanno sollevando le proteste del mondo intellettuale più avvertito, caso esemplare è quello di Martha C. Nussbaum e del suo recente pamphleth, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, in cui si argomenta il rilievo e la centralità delle discipline umanistiche nella presente e futura società della conoscenza. Una società sempre più caratterizzata dalla complessità e, dunque, sul piano delle risposte, da una flessibilità sempre più mirata, che può essere garantita solo da una certa tipologia di studi. Non è certo il caso di riproporre la ormai logora querelle sapere umanistico / sapere scientifico, ma diventa sempre più urgente la necessità di formare degli ‘specialisti – generalisti’ e non semplicemente degli ‘specialisti’ che nulla possono contro le sfide sempre più differenziate del mondo contemporaneo. Diventa veramente assurdo che ad assumere questo trend, fortemente limitativo nei riguardi della tradizione classica, siano l’Europa e, più in particolare, l’Italia. Si può, invece, osservare che argomentazioni e ragioni della classicità, difese in maniera appassionata da Martha Nussbaum, stiano a fondamento dei sistemi educativi di altre parti del mondo, fuori da ciò che viene inteso comunemente come Occidente. Tullio De Mauro, in proposito, ha osservato che le nazioni più dinamiche del mondo, Giappone, Cina, Israele esaltano nei loro rispettivi sistemi educativi proprio le lingue antiche che rappresentano le loro radici classiche. Tanto più sorprendente risulta la perdita di identità (a partire in primo luogo dalle proprie radici linguistiche) dell’Europa e, in modo particolare, dell’Italia. Una crisi che può essere considerata parallela e speculare a quella del nostro sistema democratico. Inizio ad interrogare proprio questo aspetto, la crisi verticale dell’idea di democrazia nel nostro contesto nazionale e per farlo con la dovuta compiutezza utilizzo una formula di Daniel Bensaid, “secolarizzare la democrazia”, che significa laicizzare l’impianto democratico sottoponendolo ad una decostruzione che lo liberi da tutte le ambiguità e da tutti i possibili fraintendimenti. Nella filosofia politica contemporanea viene sottolineato da più parti che oggi l’aggettivo – sostantivo ‘democratico’ è ormai svuotato di un significato autentico. Si può citare il caso di Wendy Brown che in Oggi siamo tutti democratici afferma: “Per quanto oggi goda di una popolarità globale senza precedenti nella storia, la democrazia non è mai stata così concettualmente evanescente e vuota nella sostanza”. Un lavoro di decostruzione sistematica della democrazia è stato compiuto da uno dei nostri intellettuali più noti a livello internazionale, Giorgio Agamben, che nel suo recente Il regno e la gloria ha cercato di mostrare come “il vero problema, l’arcano centrale della politica non è la sovranità, ma il governo, non è Dio, ma l’angelo, non è il re ma il ministro, non è la legge ma la polizia – ovvero più precisamente, la macchina governamentale che essi formano e mantengono in movimento. Il sistema politico dell’occidente risulta dall’articolazione di due elementi eterogenei, che si legittimano e danno consistenza a vicenda: una razionalità politico – giuridica ed una razionalità governamentale, una ‘forma di costituzione’ e una ‘forma di governo’”. Fino a che non sarà compiutamente sciolta quella che Giorgio Agamben definisce una “anfibolia”, non si riuscirà ad uscire dall’empasse democratico,
a quella che costituisce la segreta ideologia della democrazia, fino a che non sarà chiarito il nesso, interno alla democrazia, che congiunge strettamente la democrazia come forma di costituzione e la democrazia come tecnica di governo, ogni altra discussione non potrà neppure essere avviata. Si tratta di riflettere con radicalità su quella che Giorgio Agamben definisce la “nota preliminare ad ogni discussione sul concetto di democrazia”. Ulteriori riserve sull’ideale democratico sono state sollevate a partire dal celebre testo Sulla democrazia in America di Alexis de Tocqueville: “Ho una predilezione intellettuale per le istituzioni democratiche, ma per istinto sono aristocratico, cioè disprezzo e temo la folla. Amo profondamente la libertà, il rispetto dei diritti”. Nella contemporaneità anche Pierre Rosanvallon ha diagnosticato un malessere democratico che si manifesterebbe attraverso la “desacralizzazione della funzione elettiva”, “la perdita di centralità del potere amministrativo” e la “svalutazione della figura del funzionario”. Al trionfo della democrazia corrisponderebbe specularmente il preludio alla sua perdita: “le frontiere tra le forme di sviluppo positivo dell’ideale democratico e le condizioni della sua perversione”. Le derive minacciose dell’antipolitica e della depoliticizzazione potranno essere scongiurate solo “se si affermerà la dimensione propriamente politica della democrazia”. Bisogna precisare in primo luogo quale sia questa dimensione propriamente politica della democrazia, precisazione che presume un ulteriore distinzione che concerne il politico, che non può essere riducibile all’organizzazione dei poteri o alla capacità di designare il ‘nemico’, e, ancor meno, ad un semplice sistema di obbedienza e di comando. L’equivoco da cui è necessario liberarsi concerne la confusione tra la dimensione politica e quella statuale. Il vizio d’origine del potere statuale sta, infatti, ne presumere che possa coincidere immediatamente con la società, rappresentandola. Si tratta di un rovesciamento degli effettivi termini in questione: non è il potere a determinare le forme sociali ed i valori culturali, ma, viceversa sarà proprio la codificazione dei valori culturali e delle forme sociali a determinare i sistemi di potere. Questo vizio conduce direttamente alla tirannide ed è uno schema mutuabile dall’assolutismo romano. In Europa la politica è apparsa in Grecia contemporaneamente alla democrazia, o meglio ancora è apparsa in quanto democrazia. Non si tratta di una circostanza casuale. Se si postula che la partecipazione alla vita pubblica è il mezzo migliore per l’uomo di realizzare se stesso e di esercitare la sua libertà, come auspica una tradizione di pensiero che annovera tra i suoi punti di riferimento Aristotele e Hannah Arendt, allora sarà necessario riconoscere che la democrazia non è il meno cattivo dei sistemi politici, ma è proprio il migliore ed anche forse l’unico che possa essere considerato autenticamente politico, risultando anche il solo il cui principio poggia sulla partecipazione del maggior numero di persone agli affari pubblici. In ultima analisi, la democrazia prima di essere rappresentativa, è partecipativa. A minacciare oggi l’ideale democratico è l’ideologia economica, il trionfo delle elites oligarchico – finanziarie, il supercapitalismo, come viene ampiamente dimostrato dall’attuale situazione internazionale e nazionale.
Incipit de La questione morale, Cortina novembre 2010 di Roberta De Monticelli
La profondità di significato della questione morale, che pure in Italia abbiamo quotidianamente sotto gli occhi, ci sfugge ancora. Questo saggio nasce dalla speranza che si possa articolare in pensieri chiari e forse utili a ciascuno, forse anche a chi voglia contribuire al rinnovamento del pensiero politico, questa profondità di significato che ci sfugge. I dati della questione morale rendono ardua e infuocata – rossa di vergogna o di collera - quella che Hegel chiamava la preghiera mattutina del cittadino, la lettura di giornali. Corruzione a tutti i livelli della vita economica, civile e politica. La pratica endemica degli scambi di favori, a tutti i livelli: cariche pubbliche a figli e amanti, lo
scambio di carriere politiche contro favori privati, i concorsi pubblici (quelli universitari, ad esempio) decisi sulla base di accordi fra gruppi di pressione o cordate – quando non addirittura di parentele – e non su quella del merito, lo sfruttamento di risorse pubbliche a vantaggio di interessi privati, il familismo, il clientelismo, le caste, la diffusa mafiosità dei comportamenti, la vera e propria penetrazione delle mafie in tutto il tessuto economico e nelle istituzioni, la perdita stessa del senso delle istituzioni da parte dei governanti. La discesa in campo politico dell’interesse affaristico che si fa partito e prostituisce il nome di “libertà” a indicare il disprezzo di ogni regola che possa frenare o limitare la libido di “un potere enorme”1 – letteralmente e-norme, sottratto a ogni norma di civiltà e diritto; la legislazione ridotta per troppi anni a fabbrica di decreti fatti per favorire interessi particolari, o addirittura a ritagliare la giustizia penale a misura di impunità dei prepotenti. E infine una sorprendente maggioranza degli italiani che approva, sostiene e nutre questa impresa, e collabora passivamente e attivamente a dissipare, insieme, la migliore eredità morale e civile e il patrimonio di bellezza e cultura del nostro Paese. Ciliegina sulla triste torta, l’alleanza delle gerarchie ecclesiastiche romane e di molto associazionismo cattolico con questo programma di disgregazione di ogni minima virtù di cittadinanza, e l’ombra di un attentato alla laicità dello stato che si profila sotto l’ala cupa di una resuscitata Teopolitica, con la minaccia che si protende sulle libertà civili fondamentali, come il diritto di vivere la propria vita e morire la propria morte secondo il proprio ed non l’altrui concetto del bene, del valore o di Dio. Recentemente è stata proposta una formula perfetta per descrivere quei mores così diffusi nell’Italia di oggi da costituire il fondo stesso della “questione morale”: La libertà dei servi, titolo di un piccolo libro prezioso per ricchezza descrittiva e acume diagnostico, da cui abbiamo tratto anche la citazione sull’ “enormità” del potere vigente. Un punto su cui torneremo. Ma sul significato profondo di questi dati, e della questione morale, c’è, dicevamo, ancora molto da meditare. C’è una storia profonda che né le teorie politiche né quelle etiche della modernità hanno saputo decifrare, e che ci conduce alla situazione nella quale ci troviamo oggi. Una ragione per la quale questa storia profonda non è stata forse veramente compresa è che siamo abituati a pensare per comparti separati – etica, diritto, politica e le relative filosofie. Mentre la questione morale li attraversa tutti, proprio perché si genera dalle dipendenze fra mores, politica e diritto, in un circolo vizioso che ci sfida a ripensare invece, al di là di tutte le necessarie distinzioni, l’unità della ragione pratica. E’ questa unità della ragione, o piuttosto questo insieme di dipendenze che legano morale, diritto e politica, ad essere presa di mira dalla nostra domanda, se sia veramente possibile una fondazione razionale del pensiero pratico. C’è a ben vedere un tratto comune a queste tre sfere della nostra vita: nessuna di esse esisterebbe, se non ci fosse il male – il male di cui siamo noi stessi responsabili. E quindi se non ci fossero cose che gridano vendetta al cielo, cose preziose e minacciate, torti, ingiustizie, esigenze….in una parola, disvalori e valori. Chiedersi se è possibile una rifondazione razionale del pensiero pra1
Espressione utilizzata da Maurizio Viroli, La libertà dei servi, Laterza, Bari 2010
tico equivale a chiedersi, infine, se c’è verità e falsità nel giudizio di valore. Se la conoscenza nelle questioni di valore è possibile. Se ci può essere ricerca e scoperta, crescita di coscienza e capacità critica, per tutti. La questione morale è – in estensione – la questione del possibile rinnovamento dei nostri mores, delle nostre abitudini quotidiane. Ma è in profondità la questione di cosa questo rinnovamento significhi, di quali siano le condizioni alle quali esso è possibile. Il rinnovamento è possibile solo se, oltre la superficie mediatica in cui prevalgono (e entro certi limiti è inevitabile sempre) disinformazione e distorsione del vero, la nostra esperienza morale è invece fondamentalmente aperta al vero. Non c’è virtù senza conoscenza, e tutte le categorie della conoscenza – ricerca, scoperta, critica, evidenza, dubbio, e soprattutto verità (questa “idea disposta all’infinito”) vanno ricollocate anche nel cuore della nostra esperienza morale. Questa è la tesi che attraversa l’intero saggio. Se i nostri argomenti sono convincenti, dovremo concluderne non solo che il rinnovamento è possibile, ma anzi che non c’è altra vita morale che nel perpetuo rinnovamento, vale a dire nella sempre rinnovata verifica che la persona è disposta a fare del giudizio di valore attraverso l’esperienza e la critica – come negli altri campi di ricerca di verità. E se la ragione pratica connette le sfere pubbliche dei valori e delle norme – etica, diritto, politica – allora senza perpetuo rinnovamento morale non può stare in piedi una civiltà fondata in ragione, una cultura radicata nella coscienza critica delle persone invece che nella tradizione, nella religione, nell’autorità o nella forza. Forse questo intendeva Musil quando scrisse: “Ciò che chiamiamo cultura non è soggetto a un criterio di verità, ma nessuna grande cultura può reggersi su una mancata relazione alla verita”2.
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Ringrazio Pascal Engel per averla segnalata nella sua relazione al Convegno Internazio��������������������������������������������������������������������������������������� nale della Società Italiana per la Filosofia Analitica, Genova 23 settembre 2004. Non è stato purtroppo possibile ritrovare il contesto della citazione.
Lettera di un’anima bella a Giuliano Ferrara di Giovanni Invitto
Gentile Direttore, La sua invettiva contro le “belle anime azioniste (e la loro miseria)” dovrebbe essere studiata da chi cerca il concetto mancante a catturare il senso o la ragione della spaccatura che divide l’Italia. Che l’ha forse sempre divisa, ma in questi anni e in questi mesi si sta sempre più drammaticamente approfondendo. La prima, ingenua domanda che affiora è: ma che tipo di odio è
questo? Così esplosivo quale un livore raramente è, che per solito sbava o striscia; così gratuito come non è un risentimento generato da una comune invidia, inferiorità, infelicità, frustrazione; così visionario da allucinare addirittura “perfidia” negli occhi miti di Gustavo Zagrebelsky, così accecato da prendere per un senato di “ottimati” e una plutocrazia di “ricchi veri” i dodicimila del Palasharp, nella stragrande maggioranza professori di scuola secondaria, redattori di casa editrice, correttori di bozze, impiegati, blogger, volontari, qualche studente e molti pensionati (questo stupisce particolarmente: almeno l’occhio del giornalista non dovrebbe correggere la fantasia dell’immoralista devoto?). Infine, così lirico da sciogliere un canto emersoniano, sì, su cosa? Sulla trama di lenocinii e ricatti in cui si gonfia e sgonfia l’ossessione senile più tristemente porcina e becca, sera dopo sera. Questa, con figura di amplificazione più ampia ancora dell’ampio suo grembo, lei, l’Elefante la chiama “una grande ricchezza di vita, sebbene intrisa di grossolanità e di peccato”. Una grande ricchezza di vita, i taccuini in cui Emilio Fede annotava le gnocche da reclutare ai concorsi di veline adolescenti, le telefonate e i negoziati con cui Lele Mora le preparava, il posto a spesa pubblica assicurato alla Maitresse dentale, pronta a prestazioni fuoribusta per salvare tutta questa ricchezza di vita dalle confessioni di una puttanella ladra e minorenne? Eccolo, il quesito che fa della sua invettiva un oggetto prezioso di ricerca. Che natura ha la spaccatura che divide oggi l’Italia in due? Io avevo cercato di interpretare questa adorante libertà dei servi, questa appassionata adesione al capo, con la tesi di una modificazione con la quale i servi diventano padroni senza smettere di fare i servi. Una modificazione della sudditanza pura - che usava le arti servili per difendersi dal potere – in una sudditanza che le esercita al contrario per partecipare al beneficio del potere, al privilegio al di sopra della legge - sia pure nella forma divulgativa delle deroghe, dei condoni, delle depenalizzazioni, degli scudi e degli accordi con tutte le mafie, tutte le cricche e perfino tutte le chiese, purché apportino sostegni. Ma ora vedo che questa era una spiegazione insufficiente: troppo materialistica. Qui c’è qualcosa di più - di più gratuito, appunto, e perciò enigmatico. Capirlo sarebbe fare un grande passo avanti nella comprensione del nostro presente e futuro. Si può allargare al massimo l’orizzonte: questa spaccatura c’è sempre stata. Non soltanto in Italia: ma dovunque ci sia una piazza umana. E’ un conflitto a morte, antico. Da una parte c’è la ricerca pensosa, sgomenta di fronte al potere umano di autodistruzione, attenta alle ragioni che abbiamo per limitarlo e capace di suscitare emulazione e altra ricerca, di ciò che è relativamente migliore invece che peggiore, e di un po’ di verità e di giustizia, piuttosto che di menzogna e immondizia. Queste erano le “banalità” di Saviano, nell’invettiva di Ferrara. E dall’altra, c’è il Sofista. Sì, non vorrei nobilitarlo troppo, ma ricordo a chi non lo sa o a chi l’ha dimenticato che il Sofista ha una versione più alta e una più meschina, esattamente come il male può essere luciferino o banale: ma quanto più si avvicina alla pochezza meschina, il Sofista si avvicina alla sua essenza. Perché la sua
essenza è il nulla, il nulla che si dà per qualcosa, ma per ingannare almeno se stesso ricorre, come ben sapeva Gorgia, all’iperbole. E poi si può di nuovo restringere, l’orizzonte dello scontro, riportarlo all’orizzonte nostro. Ma allora, ampio anch’esso, di secoli. Debbo questo suggerimento a un amico, filosofo attento e giornalista impeccabile, il nostro Stefano Cardini. Il suggerimento risale al Prezzolini di Cristo o Machiavelli, e abbraccia una gran parte della nostra storia. E’ quello della soffocante alternativa, che purtroppo quasi tutti, anche le anime più limpide, nel nostro Paese, subiscono o addirittura sostengono. O vuoi il rapporto con la realtà, e dunque la politica, e dunque tutte le arti della menzogna, della sopraffazione, dell’inganno – fino al sacrificio dell’anima propria (versione nobile) o al suicidio di uno straccio di coscienza (versione banale): e il fine, poco importa. Per alcuni, il principe è nobile come tale, portando in terra la Sovranità. Ad altri, non importa nulla che sia ignobile. I machiavellici nostri si concentrano sempre sui mezzi, che son quelli suddetti. Oppure, vuoi l’etica: e allora la mancanza di ogni rapporto con la realtà, e la via del monastero e del cielo. Questa è l’alternativa fallace e soffocante contro la quale da molti anni alcuni di noi combattono – e al Palasharp sabato scorso ce n’erano dodici o quindicimila. Ma non è questo il punto su cui vorrei concludere. E’ il più diabolico paradosso, invece, nel quale si avvita la nostra storia. Che cioè sia stata accreditata come potenza etica, anzi come potenza cui affidare e delegare la morale, lasciando che ci pensino i preti, a cose complicate come la coscienza, in cambio di quattro avemaria, proprio quella potenza che ha, insieme, più praticato e più deprezzato la politica, come cosa necessariamente infine sporca, perché cosa del mondo e del suo principe – insieme satana e imperatore da assoggettare o da servire. Questo è il paradosso atroce – radicato addirittura nel pensiero di Agostino, il teorico della città del diavolo, con cui quella di Dio si confonde in terra. Ma questo benché atroce e fonte di sangue e orrore lungo i millenni, è un paradosso tragico. Non gli si addicono i toni in fondo frivoli – è la sola parola possibile, se sono “perfidi” gli occhi di Zagrebelsky e se è “miserabile” citare la lettura serale di Kant. Non gli si addice la speciale tonalità delle pistolettate, né petrine né cristiane, né machiavelliche né esperte di sofismi, con cui mezza Italia spara contro quello che chiama “moralismo” – vale a dire l’altra mezza Italia che aspirerebbe alla decenza elementare di un governo della legge, sotto la quale, e non al di sopra della quale, a casa propria ciascuno cerchi cielo o inferno come la sua libertà lo richiede. Non si addicono al mio paradosso tragico neppure le pistolettate con cui l’elefantino spara di nuovo sull’”inflessione piccolo-dialettale di Zagrebelsky” per preferirgli “la banda Cavallero”. E dunque la mia lunga meditazione dell’invettiva non ha sortito al-
cun frutto. Ecco, non mi resta che chiederlo a lei, Giuliano Ferrara, all’autore dell’invettiva contro noi anime belle e la nostra “miseria”: di cosa è fatto questo odio contro la legge civile, la legge morale e… il cielo stellato? Che cosa divide l’Italia, infine?
L’etica e il futuro della democrazia di Gaspare Mura
La crescente specializzazione funzionale del lavoro in generale, e di quello intellettuale in particolare, ha contribuito all’accresciuta complessità che caratterizza oggi i tre ambiti generali della politica, dell’economia e del diritto, sia a livello nazionale che sovra-nazionale. Tale fenomeno che, com’è noto, non riguarda più solamente i paesi occidentali e che rende i fili che legano l’etica alla prassi sempre più difficili da individuare, sta avendo notevoli ripercussioni sia sulla configurazione dei saperi che della cittadinanza così come si è imposta dal dopoguerra ad oggi. Nuove professionalità di tipo tecnocratico si affermano ovunque diventando sempre più il tramite fra centri decisionali di vario genere ed i cittadini. La cruciale importanza di una problematizzazione interdisciplinare della questione tecnocratica viene ormai riconosciuta sia nell’ambito delle democrazie liberali che in quello di regimi politici che,
pur non essendo ancora tali, aspirano a trasformarsi in senso liberaldemocratico. Nella fase storica attuale è diffusa la convinzione secondo la quale le identità, individuali e collettive, siano un qualcosa di eminentemente disponibile, ossia producibile e riproducibile ad libitum, cui deve corrispondere un pronto riconoscimento da parte degli apparati statali e sovra-statali amministrativi e di governo. Esiste, dunque, la forte tendenza a rivestire del linguaggio dei diritti qualunque rivendicazione libertaria. L’etichetta di ‘vera democrazia’ finisce per essere attribuita solo a quei sistemi che riconoscono e proteggono come tale ogni bene ritenuto degno di tutela da parte di chi, gruppi o individui, lo propone in quanto bene. Ripetendo che in democrazia nessuna decisione o deliberazione può avere a che vedere con la ragione o il torto, con la verità o l’errore, si finisce per ridurre quella della liceità delle aspirazioni al pieno riconoscimento delle istanze di libertà e dei comportamenti individuali ad un insieme di questioni risolvibili solo sulla base della mera forza numerica, del mero arbitrio, ossia di ciò contro cui la democrazia moderna si è posta come rimedio. L’esperienza e la comprensione del valore e del significato dell’esercizio responsabile dei diritti e dei doveri di cittadinanza rischiano di mutare a tal punto che, come da più parti viene preconizzato, non si può escludere il rischio che emergano nuove forme di totalitarismo ideologico. Si sta affermando, anche all’interno dei paesi che costituiscono l’Unione Europea, un modello ‘minimo’ di democrazia liberale in cui la partecipazione responsabile e consapevole dei cittadini viene concepita come metodo elettorale di scelta pacifica della leadership politica. Mentre la scienza economica indica che la via del libero sviluppo e della crescita passa per l’abbattimento di tutti quegli ostacoli che rallentano le relazioni di mercato e la mobilità delle cose e delle persone indipendentemente dal senso o dalla ratio dei limiti che s’intende superare, la scienza giuridica mette se stessa al servizio di questa grande opera di erosione di vecchi limiti e barriere. Il diritto positivo si è ripiegato per intero nelle procedure, che, lungi dall’intrattenere un rapporto esistenzialmente significativo con una verità fondante, come recipienti, sono capaci di accogliere qualsiasi contenuto. In un contesto in cui a causa degli effetti della cd. information revolution risulta ormai difficile trovare anche un solo aspetto della nostra vita che non sia pesantemente influenzato dallo scambio rapido e continuo d’informazioni di vario genere, politica, diritto, economia ed il sapere tecnocratico in generale si presentano sempre più come congegni di organizzazione della flessibilità e della contingenza. Tecnocraticizzandosi, ovvero retrocedendo al rango di amministrazione o gestione dell’esistente, la politica sembra abdicare ad una delle sue funzioni storiche più importanti in quanto, anzichè frenare o comunque governare gli sviluppi e le trasformazioni disgreganti rispetto ad una convivenza sociale esistenzialmente significativa, pacifica e rispettosa degli equilibri ambientali, li reputa spesso come fattori di stimolo alla luce di nuovi modelli di bonum commune proclamati dinamici ed innovativi. In questo contesto, si pone in modo pressante il problema della ridefinizione della sostanza etica della teoria e prassi della dignità della persona, della sua libertà e responsabilità e, di conseguenza, la domanda sul bonum commune come finalità primaria della politica. La democrazia dubita di se stessa. È urgente chiedere se siamo di-
nanzi a una sua crisi involutiva o se la democrazia ha un domani di fronte ai problemi che l’angustiano, e che ne rendono insufficiente una determinazione solo desostanzializzata e procedurale. Risuonano le questioni: quale sarà il suo futuro tra crescenti aspettative individuali e scarsa identificazione comunitaria? Su quali basi possiamo ancora credere alla democrazia? Dobbiamo considerarla irrinunciabile e tenercela stretta? Sono domande che tanti concittadini si pongono, e noi con loro. L’attenzione è catturata in particolar modo dai nuovi problemi che assillano la democrazia e che, aggiungendosi ai vecchi non ancora risolti, rischiano di appesantirla oltremisura. E’ doveroso allora chiedersi: quale futuro della democrazia? 1La domanda sul futuro della democrazia è tutt’altro che nuova, ed anche per questo è così importante: è ovvio che si riprendano incessantemente le domande che contano, non quelle superficiali e scontate. Inoltre è questione ardua per la velocità del mutamento sociale e culturale in Occidente, e la conseguente difficoltà cognitiva e predittiva. In ogni caso tale domanda percorre da un capo all’altro il capolavoro di Tocqueville, e si fa più stringente ed ansiosa in specie nel terzo libro di La democrazia in America, composto qualche anno dopo gli altri due. Ascoltiamo un suo brano: Perché vi sia una società e, a più forte ragione, perché questa società prosperi bisogna, dunque, che tutti gli spiriti dei cittadini siano sempre riuniti e tenuti insieme da alcune idee principali, e ciò non potrebbe avvenire se ognuno di essi non venisse ad attingere le sue opinioni alla stessa fonte, e non accettasse di ricevere un certo numero di credenze belle e fatte. Che Tocqueville avesse ragione nel considerare fondamentale la condivisione di ‘alcune idee principali’, lo mostra il fatto che numerosi filosofi pubblici contemporanei hanno fatto ricorso al metodo del consenso pubblico‑pratico in democrazia, e tra questi si annoverano esponenti diversi per formazione e origine come J. Maritain, J. Rawls e M. Nussbaum. La frase tocquevilliana affonda le sue radici in una lunga e grande storia iniziata nel ‘600 e proseguita dall’Illuminismo e poi dal cristianesimo ‘teologico‑politico’ come soluzione al problema di cercare una base comune per il con‑vivere civile, non solo al di là delle contrapposizioni religiose, come spesso e riduttivamente si ricorda, ma come fondamentale garanzia che la vita comune non degeneri in una incomprensione generalizzata e nell’impossibilità del dialogo. Se la democrazia è governo attraverso la discussione e la deliberazione, che favoriscono l’inclusione, non vi è soluzione al problema senza la costruzione di un consenso compartecipato su nuclei centrali, che potremmo chiamare i fondamenti prepolitici della democrazia. Il costituzionalista tedesco Ernst-Wolfang Böckenförde, nel saggio 1 Norberto Bobbio pubblicava nel 1984 presso Einaudi un importante saggio dal
titolo: Il futuro della democrazia . Il titolo dell’Annuario di filosofia 2011 (Mimesis, Milano) riprende in altro contesto e con altri intenti lo stesso tema: Il futuro della democrazia. L’identità del titolo non può celare le grandi differenze di contesto, contenuto e problematiche intervenute da allora. Il libro bobbiano portava un sottotitolo chiaro ed esplicito: Una difesa delle regole del gioco. Questo compito è certo rimasto importante, ma non costituisce forse più il punto apicale in ordine al futuro della democrazia, e in certo modo non lo era neppure per Bobbio che non fece mistero di ritenere essenziale un ‘appello ai valori’. Si tratta dei valori morali di tolleranza, giustizia, libertà, indispensabili per una valida vita democratica.
La nascita dello Stato come processo di secolarizzazione (1967), propone una tesi su cui possono consentire quanti sono preoccupati per la democrazia, indipendentemente dalle ideologie o fedi di riferimento: “Lo stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non è in grado di garantire. Questo è il grande rischio ch’esso si è assunto per amore della libertà”. È questa tesi che ha permesso di instaurare un nuovo dialogo, positivo per entrambe le parti, tra il cristianesimo e la cultura postmoderna, di cui è testimonianza il noto confronto tra J. Habermas e J.Ratzinger, pubblicato con il titolo: Ragione e fede in dialogo (Marsilio, Venezia 2005). Secondo Habermas le stesse religioni, e in particolare il cristianesimo, risultano preziose e indispensabili alla società postsecolare affinché essa non ricada in una aberrante modernizzazione, in cui dominano i mercati, si esaurisca il senso della solidarietà, si esalti il privato sul pubblico, e si trasformino i cittadini in monadi isolate, affievolendo la speranza nella comunità internazionale, e si assista impotenti alla depoliticizzazione dei cittadini nel contesto di un’ economia e di una politica globalizzate; l’afflato messianico e la forte istanza etica della tradizione biblico-cristiana devono allora poter costituire, nell’ambito delle società postsecolari, non solo termini di un dialogo fondato sul “riconoscimento” (Ricoeur), ma una vera “sfida cognitiva”, capace di mettere in discussione i limiti della stessa ragione postsecolare: “Per questo- scrive Habermas- vorrei far entrare nella discussione il fenomeno della persistenza della religione in un ambiente sempre più secolare, assumendolo, però, non in qualità di semplice dato di fatto sociale. La filosofia deve prendere sul serio questo fenomeno, per così dire, dall’ interno, assumendolo come una sfida cognitiva”. In base a queste considerazioni, occorre interrogarsi allora sui fondamenti della democrazia e sulla ‘costituzione’ come insieme di valori‑guida. Alcuni grandi temi staranno alla base della democrazia domani: l’idea di persona, le questioni eticamente sensibili, il compito del diritto, il nesso religione-politica. I primi due nuclei si richiamano a vicenda e sono fortemente intrecciati, dipendendo da loro la possibilità di trovare un consenso (morale e antropologico) compartecipato, che risulta previo per procedere verso ideali di giustizia e di fioritura umana. Tra i temi principali un discorso prolungato meriterebbe il nesso tra democrazia e dottrine sulla giustizia su cui si è ripreso a discutere enormemente da decenni, coinvolgendo il ruolo delle preferenze, desideri e diritti in democrazia, la domanda su quale pacchetto di beni questa deve offrire ai cittadini, e più generalmente il ruolo e l’efficacia del canone contrattualistico di vario genere. Ci si può persino domandare se l’impostazione del tema della giustizia non vada ripreso da capo, riportando in servizio il tema del bene comune, in genere ostico al liberalismo politico. Molti problemi politici e sociali non possono essere affrontati con la teoria della scelta razionale, quale metodo per l’allocazione di un certo tipo di risorse. La razionalità pratica necessaria in democrazia va assai oltre l’astratta teoria della scelta razionale. Nel campo della vita, della famiglia, dei diritti umani sorgono da
tempo molti problemi, spesso denominati ‘eticamente sensibili’, e una notevole varietà di risposte, che richiedono un lungo dialogo e consigliano di evitare la mera ricerca di soluzioni imperative ed esclusivamente affidate al criterio di maggioranza. L’esistenza di diverse visioni e comunità morali non suggerisce un ‘rompete le righe’ in cui ciascuno si regola in base alla sua visione, ma un dialogo teso alla comprensione reciproca, oggi così impegnativo per la persistente difficoltà di valutare le innovazioni scientifiche e tecnologiche, in specie quelle che incidono sul modo in cui si nasce e si muore, sulla gestione del corpo nell’era della potenza tecnica, sulla possibilità stessa di trasformare la persona. In certo modo le difficoltà vertono sui nuovi modi con cui può essere interpretata la frase di Pascal secondo cui “l’uomo supera infinitamente l’uomo”. Quest’ultimo punto, che rivela la indubbia centralità della questione antropologica, sta diventando sempre più decisivo, e tale da mettere a dura prova il criterio di Tocqueville di rimanere riuniti intorno ad alcune idee principali. In altri termini, il suggerimento benvenuto di attingere alla stessa fonte, o almeno di ricercarla, manifesta serie difficoltà quando i fondamentali criteri che innervano la democrazia ‑ ci si può riferire in specie alla versione che ne dà il ‘liberalismo politico’ anglosassone e continentale ‑ non sembrano in grado di gestire la centrale questione dell’identità: chi è persona e chi no? Sembra arduo se non impossibile risolvere questioni di identità ponendosi soltanto sul piano dell’etica, perché i problemi di identità si avviano a soluzione sul piano speculativo, ricorrendo alla sinergia di esperienza, scienza e ontologia. In tale sinergia si verifica un uso pubblico della ragione, auspicato da tanti ma in modi spesso riduttivi, poiché tale uso pubblico non è affatto limitato alla scienza ‑ come perlopiù si pretende ‑ ma include la conoscenza e l’argomentazione ontologica. Forse tra i fondamenti prepolitici della democrazia occorre annoverare una ragione che non sia mutilata dallo scientismo. Mentre nel diritto contemporaneo si compie il transito dal soggetto (giuridico) astratto alla persona (S. Rodotà ed altri), diventa sempre più estesa, forte e minuta la presa del diritto positivo sulla vita delle attuali società complesse. La sua pervasività crescente nelle democrazie conduce a un’ampia giuridificazione dei rapporti umani, compresi quelli primari ed esistenziali, una volta lasciati all’ambito privato. Inoltre il pluralismo culturale delle società occidentali pone sulle spalle del diritto nuovi compiti di bonifica sociale, e lo rilancia come indispensabile fattore coesivo della convivenza, altrimenti lasciata allo sparpagliamento centrifugo di singoli e gruppi. Ciò accade quando il filosofo e il giurista intravedono il grande rischio del nichilismo giuridico col suo concetto arbitrario di legge e di rifiuto di ogni forma di diritto naturale. Nel nichilismo giuridico il conflitto tra Legge e Ragione raggiunge l’acme: la prima è un prodotto del solo volere (del più forte, di una qualsiasi maggioranza) e la ragione non vi ha parte alcuna. Tale nichilismo è una possibilità sempre incombente, non una tigre di carta che si congeda con uno schiocco. Lo abbiamo sperimentato dolorosamente in passato, e non vi sono motivi per escluderlo ottimisticamente in futuro: i germi della disgregazione sono sempre all’opera e nessuna valida conquista è mai acquisita per sempre. Il nichilismo giuridico eleva un grave rischio per la democrazia, il costituzionalismo e quella base di valori comuni auspicata da molti. Il
nichilismo ha ben poco a che fare con l’alternativa meramente logica tra essere e nulla, ma concerne la domanda sulla verità e quella sul valore dell’essere umano. In prima battuta vi è nichilismo quando si ritengono da abbandonare i concetti di verità e bene, e la persona umana è ridotta a qualcosa di insignificante. Il nichilismo giuridico influisce, getta la sua ombra sui diritti umani e sul costituzionalismo, avvertendoci che i guadagni costituiti dalle Carte dei diritti e dalle Costituzioni moderne vanno salvaguardati proprio in ordine all’avvenire democratico. Tuttavia il valore giuridico delle Costituzioni quali espressioni supreme del diritto positivo non rende superfluo il livello del diritto naturale. Alla domanda se non vi sia più bisogno del diritto naturale, essendo i valori fondamentali divenuti positivi con le moderne costituzioni, occorrerebbe dare risposta negativa. Forse gli autori che sostengono forme di ‘neocostituzionalismo’ come sostituto funzionale del diritto naturale, sarebbero in difficoltà ad animare una solida giustificazione soltanto empirica delle prospettive centrali del neocostituizionalismo. Ascoltiamo una seconda volta Tocqueville: Non vi è quasi azione umana, per quanto particolare, che non nasca da un’idea generale che gli uomini hanno concepito di Dio, dei suoi rapporti con l’umanità, della natura dell’anima e dei doveri verso i loro simili. Non si può negare che queste non siano la fonte da cui deriva tutto il resto. Gli uomini hanno, dunque, un immenso interesse a farsi idee ben salde su Dio, l’anima i doveri generali verso il Creatore e verso i propri simili, poiché il dubbio su questi ultimi punti abbandonerebbe tutte le loro azioni al caso e li condannerebbe, in un certo senso, al disordine e all’impotenza. Questa è, dunque, la materia su cui è necessario che ognuno abbia idee ferme, e disgraziatamente è anche quella in cui è più difficile fermare le proprie idee con il solo sforzo della ragione’. Così scrivendo, Tocqueville sosteneva il ruolo centrale del vero in politica e democrazia, ed apriva uno spazio per il compito della fede religiosa entro la sfera pubblica, poiché nelle questioni centrali da lui enunciate il solo ricorso alla ragione non è ultimamente risolutivo. Egli si muoveva dunque anche oltre la questione che da circa centocinquantanni anni prende il nome di ‘laicità’. Indubbiamente essa resta al centro, come mostra da decenni l’animato dibattito che le è dedicato, ma si è fortemente trasformata ed ampliata includendo temi che in passato avevano una trattazione separata, e tra questi quello del significato della verità nelle democrazie: possono le democrazie fare a meno della verità? Possiamo procedere solo in nome del rispetto e della caritas, separando verità e carità? Se l’apostolo Paolo invita a fare la verità nell’amore di dilezione (Veritatem facientes in caritate), non sarà altrettanto necessario rispettare ed amare nella verità (Caritatem facientes in veritate)? Verità e carità di per sé fomentano il dialogo, uniscono, non separano, né conducono necessariamente all’intolleranza. Si può efficacemente cooperare con chi difende posizioni diverse e una concezione diversa della verità, dunque entro una società pluralistica culturalmente e religiosamente, purché si cerchi un accordo pratico alto: non vi sono motivi necessari per cui la diversità di posizioni sul vero debba condurre ad impugnare la spada ed intendere l’altro come un nemico da emarginare. La costante tensione alla verità è costitutiva dell’essere umano, e non è una buona partenza metterla da parte, neppure in politica. Quello
stesso Giovanni in cui leggiamo ‘In principio era il Logos’ (che è identicamente Verbum e Ratio, Parola e Ragione), scrive parimenti: ‘Deus caritas est’, Dio è amore di dilezione. Dio‑Logos è identicamente Amore. L’uomo non separi ciò che in Dio è unito e identico, né separi nel suo pensare ed agire veritas e caritas. Se c’è una filosofia politica come trattazione filosofica della politica e della democrazia, non sarà solo un’introduzione al passaggio dalla vita politica alla vita filosofica (come sembra intendere L. Strauss), ma suo compito sarà di cercare il vero, il vero pratico almeno, e di saper dire una parola di verità che allontani la menzogna. E ognuno sa quanta parte abbiano la menzogna e l’inganno nella strategia politica vissuta.
Su una recente sentenza della Corte Europea di Ivana Bartoletti
La recente sentenza della Grande Camera della Corte Europea dei Diritti Dell’Uomo in merito al famoso caso del Crocifisso in aula merita un’attenzione particolare, e certamente una riflessione più attenta per le sue conseguenze di quella scaturita nei giorni scorsi. Due elementi vanno presi in considerazione: il primo riguarda l’inversione di rotta rispetto alla precedente sentenza, contro la quale era stato presentato ricorso alla Grande Camera. Il secondo riguarda le conseguenze del pronunciamento, sia per l’Europa che per l’Italia. Come è noto, il 3 marzo 2009 la Corte si era espressa a favore della Signora Soile Lautsi e dei suoi due figli, Dataico and Sami Albertin, che allora frequentavano le scuole pubbliche ad Abano Terme. La signora si era rivolta prima ai Tribunali Italiani e poi alla Corte Europea poiché, a suo parere, la presenza del crocifisso nelle aule della scuola statale frequentata dai suoi figli costituiva un’interferenza incompatibile con la libertà di/dalla religione e di pensiero e con il diritto dei bambini ad un insegnamento in conformità con le con-
vinzioni religiose e filosofiche dei genitori. La Corte in prima istanza le aveva dato ragione, riconoscendo una violazione dell’articolo 2 del primo protocollo della Convenzione, preso insieme all’articolo 9 (non discriminazione) della medesima. In particolare, l’articolo 2 del Primo Protollo sancisce il diritto all’istruzione, specificando che “lo Stato, nell’esercizio delle funzioni che assume nel campo dell’educazione e dell’insegnamento, deve rispettare il diritto dei genitori di assicurare tale educazione e tale insegnamento secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche”. Nel 2009 la Corte Europea aveva affermato che la scuola pubblica deve necessariamente avere un carattere di neutralità e che, essendo il crocifisso un simbolo religioso, la sua presenza visibile poteva avere un carattere discriminatorio (qui il collegamento con l’articolo 9) nei confronti di bambini di altre religioni. Al di là del merito, è interessante notare il capovolgimento avvenuto con la sentenza del 2011. Infatti, la Grande Camera ha rifiutato l’argomento chiave presente nella sentenza del 2009, in base al quale il crocifisso andava ritenuto un “potente simbolo esterno” secondo la definizione usata nel caso Dahlab. La Signora Dahlab era un insegnante del Cantone svizzero di Ginevra che, a seguito della sua conversione all’Islam, iniziò ad indossare il velo anche nelle ore di lavoro. Il caso, approdato alla Corte Europea, fece discutere. La decisione della Corte fu tranchant: il velo indossato dalla maestra è un simbolo esterno potente, visibile e dunque non ignorabile dai bambini, può avere un effetto di proselitismo e, dunque, il suo divieto in aula è in linea con la declinazione di laicità/neutralità adottata dalla Svizzera che, tra l’altro, vieta anche l’affissione del crocifisso nelle aule. La Corte Europea aveva nel 2009 utilizzato la stessa terminologia di “potente simbolo esterno”, riproponendo un’analoga argomentazione: essendo affisso all’aula il crocifisso non può essere ignorato dai bambini, a detrimento del carattere di neutralità delle istituzioni scolastiche pubbliche. Nel 2011, invece, la Grande Camera ha rifiutato completamente l’analogia con il caso Dahlab, limitandosi ad affermare, in maniera molto superficiale, che le situazioni sono completemente diverse, poiché il caso Dahlab riguardava un’insegnante nel suo ruolo e si inseriva in un contesto nazionale, la Svizzera, che applica il concetto di neutralità in ambito religioso. Le corti svizzere, pertanto, si erano mosse secondo la Corte, nel solco della discrezionalità garantita ad ogni paese nel gestire il pluralismo religioso. In completo disaccordo con la sentenza del 2009, la Grande Camera definisce il Crocifisso un simbolo “passivo” la cui presenza, sempre a differenza del caso menzionato prima, si inserisce nella storia e tradizione italiana e nel carattere predominante assunto dal Cattolicesimo. Appoggiandosi a sentenze precedenti, la Grande Camera asserisce che il dare predominanza e spazio ad una religione non costituisce necessariamente una violazione dei diritti di libertà religiosa o una discriminazione. Nel caso Folgerø, infatti, la Corte, chiamata a esaminare il contenuto delle lezioni scolastiche “Cristianesimo, religione e filosofia”, asserì che il dare spazio agli insegnamenti di religione cristiana non significasse per la Norvegia violare il principio del pluralismo, considerando la rilevanza del Cristianesimo nella
storia e tradizione del paese. La Corte concluse che la questione andava lasciata alla discrezionalità della Norvegia nel definire e attuare i curricula scolastici. Ora, è evidente che un’inversione di rotta così radicale, frutto della mobilitazione di venti paesi europei a tradizione cattolica, deve fare riflettere. Infatti, la portata straordinaria di questa sentenza non sta nel contenuto, ma nel fatto che si è così affermato il diritto delle Nazioni Europee di preservare le loro identità religiose. Non solo: per la prima volta il potere decisionale si sposta dalla Corte ai Paesi membri affermando il precedente che ogni qual volta la corte discute di questioni complesse e controverse i paesi membri possono unirsi e intervenire, obbligando la Corte al rispetto del principio di sussidiarietà. Oltre al merito della sentenza, quelle sopra citate sono conseguenze serie, soprattutto per chi vede nella Corte, nonostante i suoi tempi lunghi e timidezze, un luogo di ispirazione per la costruzione di un’etica condivisa fondante dell’Europa. E in particolare, su come si costruisce una società democratica in cui secolarizzazione e libertà coesistono e si armonizzano e non diventano, invece, principi usati l’uno per delegittimare l’altro. È la ragione per cui, ad esempio, mi oppongo fermamente al divieto di indossare il velo, entrato definitivamente in vigore in questi giorni in Francia. Per l’Italia il pronunciamento della Grande Camera non è scevro di effetti collaterali. Infatti, se viene riconosciuto che (1) la laicità può essere declinata come non neutralità, in accordo con la tradizione nazionale, a differenza di come avviene per esempio in Svizzera; (2) non c’è conflitto tra spazio-valore pubblico e confessione religiosa; (3) il pluralismo può coesistere con dare predominanza a una religione, ne segue che, per evitare che tutto cio` si traduca in discriminazione, la laicità diventa un requisito, non per lo stato, ma per gli individui, che devono sentirsi liberi di vivere le proprie fedi, e di esprimerle attraverso i propri simboli e luoghi.
Le nuove forze produttive e il PD di Alfredo Reichlin*
I temi sono tanti. Io avrei scelto di proporre qualche riflessione non solo e non tanto sul fatto che – come sappiamo – cambiamenti epocali sono in atto, quanto sul quesito se stiamo assistendo in conseguenza di essi alla nascita di nuovi soggetti. Parlo di nuove soggettività politiche e culturali sulle quali possa far leva un riformismo che voglia porsi all’altezza delle cose. Dopotutto è una nuova umanità che si sta formando. E i cambiamenti (anche in Italia) sono tali da spingerci a tentare di gettare lo sguardo al di là della contingenza. Almeno tentare. Personalmente sento molto questa esigenza anche perché non credo che basterà una manovra dall’alto per porre fine agli effetti più profondi del ventennio berlusconiano. E se guardo all’afasia della sinistra continuo a pensare che un grande partito si afferma e occupa la scena se interpreta la novità del conflitto dominante e rappresenta i suoi attori. Insomma se è chiaro dove si colloca. Con chi e contro chi.
Mi chiedo prima di tutto in quale quadro tendenziale ci muoviamo. La tendenza di fondo. Parto dal recente giudizio del «Financial Times». Dice Martin Wolf: Dopo tre anni dall’inizio della crisi ci rendiamo conto che dopotutto essa non è stata l’avvio di un crollo mondiale. Dopo tre decenni di deregolazione la tendenza è per un maggiore intervento dei poteri pubblici ma pur sempre nel quadro intellettuale e istituzionale precedente. Un giudizio che Salvatore Biasco rende più esplicito quando sottolinea che gran parte degli effetti portati nel tempo (30 anni) dall’indirizzo neoliberista della mondializzazione persistono: frammentazione della società, rovesciamento dei rapporti di forza sul mercato lavoro, svuotamento della democrazia, allargamento delle disuguaglianze. In più le banche sono diventate più grandi di prima e più potenti di prima e per ciò il cuore del potere, almeno in Occidente, resta nelle mani di una ristretta oligarchia. Non basta quindi constatare che il modello liberista ha fatto fallimento. Pesa il vuoto di un nuovo pensiero capace di misurarsi con una domanda cruciale: il mondo può essere governato sulla base di un così grande squilibrio tra la potenza dell’economia globalizzata e il potere della politica intesa come libertà delle comunità di decidere del proprio destino? Per molti segni questa contraddizione sta cominciando a manifestarsi. Guardiamo al sommovimento che sta scuotendo il mondo arabo con effetti geopolitici e geoeconomici che certamente saranno molto profondi e su cui non entro. Però non penso che si tratti solo di rivolte del pane o di fanatismi religiosi. Credo che – tra molte altre cose – stia diventando esplosiva la contraddizione tra l’avvento di nuove generazioni acculturate e la condanna di larga parte di esse alla disoccupazione, al precariato e all’emarginazione politica e culturale. Il «grande spreco» di cui ha parlato anche per l’Italia il governatore Draghi (30% di giovani disoccupati), ma che tanto più esplosivo diventa in presenza di regimi autoritari e corrotti. È l’esempio di nuove soggettività su cui far leva. Aggiungo che è molto importante il venir meno della classica tesi americana (Huntington) secondo la quale tra l’Occidente e il mondo musulmano sarebbe inevitabile una guerra di religione e che, quindi, non ci sono spazi per un dialogo. Potrebbe invece risultare vero il contrario. Potremmo assistere a un nuovo ruolo del Mediterraneo come centro di nuovi incontri politici e culturali. Sottolineo questa speranza, ma non sottovaluto le enormi difficoltà. Diventa obbligata la domanda: dove va l’Europa. L’Europa è più che mai il luogo che definisco il nostro modo di essere. Quanto alla Cina, l’interrogativo che pongo qui, per valutare il suo ruolo cruciale, è: come questo enorme Paese farà fronte all’avvento anche là di nuove generazioni. Il capo degli industriali siciliani, Ivan Lo Bello, si interrogava, di recente, sul fatto che (cito) si affaccia a livello internazionale un inedito capitalismo di Stato che cerca di coniugare mercato e compressione dei diritti politici e sociali. Un nuovo patto sociale sembra emergere (la Cina ne è l’epicentro): è un patto sociale che postula uno scambio tra crescente prosperità collettiva, benessere individuale, efficienza e capacità decisionale dello Stato da un lato e la rinuncia a rivendicare diritti politici e civili dall’altro. «Questo» egli diceva «è il nostro concorrente più temibile, che ha l’ambizione di scrivere una nuova storia radicalmente diversa da quella che ha accompagnato la vicenda economica e civile dei paesi occi-
dentali». Non so quanto un simile giudizio sia fondato. Lo smentirebbero i nuovi problemi che si sta ponendo la dirigenza cinese la quale appare decisa ad affrontare i troppi grandi squilibri dello sviluppo, spostando risorse verso la produzione di beni pubblici e servizi. Ma quali beni pubblici e quali servizi? Difficilmente potrà replicare il modello dell’Occidente. Dovrà inventare un nuovo rapporto tra produzione e consumo, quindi un diverso modo di vivere. Nasceranno nuovi protagonismi, bisogni nuovi di cittadinanza. In ogni caso la crisi della democrazia è il problema centrale del mondo attuale. Ed è l’esito non della mondializzazione in sé, ma del modo nel quale essa sta procedendo, cioè come causa ed effetto di uno squilibrio crescente tra la potenza di una economia mondializzata e il potere della politica privata dei suoi strumenti fondamentali (il vecchio Stato nazionale come decisore ultimo a fronte di una economia nel passato largamente domestica). Arrivo così al punto che mi preme. Come pensiamo di affrontare questo problema? Solo ipotizzando nuove istituzioni sovrannazionali (certo, anche) oppure affrontando, finalmente, il modo nel quale cambia il ruolo della politica in società che la rete della comunicazione unisce, pone a confronto ma che, proprio per ciò, ne mette a nudo le grandi differenze. E questo rende difficile il loro stare insieme. È una questione molto nuova rispetto a tutta la nostra esperienza storica. Si tratta essenzialmente del problema di come rappresentare e dare potere a una umanità che si deve confrontare con una molteplicità di opportunità e di rischi, di bisogni e di domande che si producono su una scala molto vasta, che scavalca i vecchi confini. Le risposte sono difficili ma una cosa mi sembra chiara: non basterà affidarsi al mercato che si autoregola né alla tradizione socialdemocratica. Bisognerà andare più nel profondo dei problemi sociali e culturali. Muovere da essi in nome di una visione più alta dell’interesse generale e, quindi, di una nuova idea del progresso umano. Dopo mezzo secolo – piaccia o no a qualcuno – torna in campo questo grande tema. Pensiamo a che cosa hanno rivelato quelle duecento piazze italiane occupate dal movimento delle donne. Lì c’era non solo una nuova idea di sé delle donne, ma una visione più ampia della realtà. Si esprimeva una nuova idea della politica. Si andava ben al di là di una rivendicazione di autonomia. Era l’idea di cambiare non solo il proprio posto nell’ordine esistente ma il vecchio ordine nel suo insieme. A me è sembrata una nuova soggettività che occupa la scena. Un movimento che sposta l’accento dalla rivendicazione dei propri diritti a una reinterpretazione del mondo, a una rilettura complessiva del sapere. C’è quindi molto da riflettere. Si avvertono anche segni di risveglio della sinistra in Europa, a cominciare dalla Germania. Ma è una sinistra diversa che si forma su nuove tematiche, come l’ambientalismo. Ecco il senso di queste mie sommarie riflessioni. Spingere il riformismo a uscire dal pensiero debole di questi anni. Ma, attenzione, non per nostalgia di ‘sinistrismo’ oppure in nome di non so quale nuova ‘narrazione’, ma come risposta al modo in cui nel tessuto democratico occidentale ha fatto irruzione questa forma nuova di economia a dominanza finanziaria che obbedisce non solo a logiche di profitto (non ci sarebbe in ciò nulla di strano) ma tali da distruggere il legame sociale, a rompere quei compromessi e quei valori che sono il
necessario presupposto dei regimi democratici. So che questo tema è molto ostico al pensiero liberal di questi anni. Tuttavia è un fatto che gli effetti sono stati catastrofici. E non solo quelli economici (la bolla speculativa), ma quelli morali e perfino antropologici: un sistema economico basato sull’azzardo morale, sul debito che genera debito e sul denaro che produce denaro, non può che condurre alla devastazione delle risorse naturali e all’impoverimento dei ceti laboriosi. Ecco la grande questione con la quale dobbiamo tornare a misurarci. Il destino e il ruolo del lavoro. È vero che nella società moderna il lavoro non è tutto, ma ciò che sembra venire meno è il grande edificio storico della modernità. Quell’edificio nel quale (a differenza del passato in cui le figure rappresentative erano figure del non lavoro: nobili, soldati, sacerdoti, avventurieri, mentre il lavoro era il sottosuolo della società, il servo) sono protagoniste le nuove grandi forze produttive. La borghesia e il proletariato. E, attraverso il loro conflitto, il mondo occidentale converge verso la costruzione di un nuovo ordine: i diritti e i doveri, la libertà e la democrazia. Ricordo a me stesso che quello che viene chiamato capitalismo (questa parola indefinibile usata pochissimo perfino da Marx) è una vicenda storica peculiare non di tanti secoli fa e non è solo un fenomeno economico. È stato ed è una civiltà, ed è stato anche, sia pure nelle forme più crudeli e tormentate, un processo di emancipazione dell’uomo da vecchi vincoli. La mia domanda quindi è: quella di oggi è solo una sua variante o una rottura che ci pone di fronte a problemi veramente nuovi di convivenze e di sostenibilità? Non mi voglio infilare in una disputa storiografica. Voglio solo ricordare che, se la cosiddetta economia di mercato è cresciuta in simbiosi con la civiltà europea, ciò è avvenuto non perché aveva scoperto il mercato (il quale esisteva sotto i regimi più vari da millenni), ma per il fatto che il potere politico dettava al mercato quelle regole che lo rendevano, non certo il luogo dell’uguaglianza ma nemmeno quello della lotta tra belve. È ciò che un economista e uno storico come Paolo Prodi chiama il «dualismo», un dualismo inteso come non coincidenza del potere politico con quello economico e come compresenza e concorrenza di norme etiche e di diritto positivo con l’avidità dell’uomo economico. Il che ha rappresentato quel fattore che ha via via portato allo sviluppo dell’uomo moderno, e quindi alla creazione della democrazia e dello Stato sociale. C’è qualcosa che non regge in una situazione che è tornata a considerare il lavoro un residuo. È una grande questione politica, non sindacale. La quale si intreccia con l’altra grande questione di cui parliamo poco e cioè con l’evoluzione in atto dell’idea di impresa (strumento per creare «valore» agli azionisti attraverso il gioco di borsa oppure luogo dove con la collaborazione di forze diverse si fa l’innovazione e si crea l’economia reale?). A chi considera questi temi troppo radicali e poco riformisti vorrei ricordare che ciò che è in gioco è il fondamento della democrazia. Perché su che cosa si regge una democrazia e su che cosa si basa la vitalità delle istituzioni se (dico la cosa più semplice) un giovane sa in partenza che la sua vita e il suo destino saranno solo una successione di lavori precari? D’accordo, il lavoro non è tutto. Ma come quel giovane, precario a vita, potrà costruire la sua persona e farsi carico di un’etica pubblica? Cosa diventa una comunità? Io non sfuggo alla impressione che qui si
definisce il terreno del conflitto etico-politico oltre che sociale. Ma è proprio qui, è su questo terreno, che io penso si possa formare quella nuova sintesi tra la tradizione democratica del socialismo e l’umanesimo cristiano, l’idea sulla quale alcuni di noi lavorano da anni ma finora con scarsi risultati. Siamo di fronte a qualcosa di paradossale. Governi e banche centrali si sono indebitati per migliaia di miliardi di dollari per salvare le banche. Con l’effetto che il debito privato si è trasformato in debito pubblico. E, quindi, il paradosso: mancano le risorse per gli investimenti produttivi, per lo Stato sociale, l’occupazione e lo sviluppo. La classica situazione in cui la ricchezza privata si nutre della miseria pubblica. Ho sotto gli occhi la bozza di programma che tra pochi giorni presenterà il Pd. Ma non è di questo che voglio parlare. Sollevo un problema politico. E cioè che affrontare un tema di questa natura impone di porre mano a una profonda riforma del sistema politico che da vent’anni condiziona pesantemente la situazione italiana. Il populismo. L’uomo solo al comando. Ciò che vediamo. Dico solo a questo proposito che una alternativa vincente dovrebbe fare meglio i conti con il fatto che Berlusconi non viene dal nulla ma dal vuoto creato dalla fine dei grandi partiti della Prima Repubblica. I quali però, a loro volta, erano stati minati non dai giudici, ma da qualcosa che riguardava il grande mutamento in atto della società occidentale. Non il «bunga, bunga», ma l’individuo definito dal consumo al posto del cittadino e della persona. Il consumismo al posto dei diritti uguali. Non parlo solo dell’Italia evidentemente. Noto solo che questa sorta di supercapitalismo finanziario è stato dopotutto la risposta al venir meno di quel grande edificio della modernità di cui ho parlato e che fondava sulla libera impresa e sul lavoro la fonte del diritto e il bisogno di cittadinanza. Su questa base si sono fatti i partiti. La democrazia dei partiti. Cioè lo strumento attraverso il quale i cittadini possono non solo votare ma misurarsi con lo Stato e con i grandi poteri reali attraverso identità collettive. Questo è il punto. Altro che partitocrazia. È con le identità collettive che si era creata la possibilità di passare dalla semplice alternanza tra ceti politici a reali mutamenti dei rapporti di potere tra dirigenti e diretti. Non dimentichiamo che questo fu anche il vero motore del «miracolo» economico. Se guardiamo all’Italia di oggi il dato di sintesi più significativo è che lo sviluppo del Paese si è fermato. È come l’inizio del Seicento, ci dice De Cecco citando Carlo Cipolla, quando come oggi il Paese reagisce poco al suo declino perché ne è poco consapevole e lo è perché vive consumando la ricchezza accumulata. È un giudizio discutibile se teniamo conto della vitalità perdurante dell’Italia. È un fatto però che un processo di declino è cominciato ed evitare di renderlo inarrestabile è in fondo il problema dei problemi. Personalmente penso che per affrontarlo bisognerebbe guardare oltre le ragioni economiche e porsi domande più di fondo, che riguardano gli assetti sociali. Che idea abbiamo di questi assetti? Che cosa c’è dietro il degrado crescente del Mezzogiorno e problemi irrisolti di natura dello Stato come la corruzione e l’enorme evasione fiscale? È colpa dei cattivi governi? Certamente. È colpa degli sbagli nella gestione del debito pubblico? Certamente. Ma gli storici di domani, dovendo spiegare questa cosa incredibile e vergognosa che un grande Paese si è fatto dirigere per vent’anni da Berlusconi, penso che non si accontenteranno di queste analisi. Valuteranno anche altre cose come – per esempio – il peso,
l’estensione, e i legami internazionali della criminalità organizzata italiana. Secondo stime sono 20 milioni gli italiani che di fatto non sono più protetti dallo Stato e dalla legge. E adesso questo cancro si estende anche nel Nord. Diventa difficile parlare di mercato quando l’economia è sempre più governata da cricche, clan, consorterie. Quindi, la domanda che a questo punto porrei a me stesso, oltre che agli economisti, è: se insieme a tutte quelle giuste misure che riguardano la riforma dei mercati, la produttività delle imprese e la lotta agli sprechi e alle rendite non bisognerebbe anche tornare a pensare gli strumenti e i soggetti capaci di canalizzare il risparmio verso beni pubblici, servizi, conoscenze, capitale sociale e capitale umano. Certo, non possiamo riprodurre il vecchio capitalismo di Stato. E so bene che siamo totalmente integrati dentro un meccanismo di sviluppo che solo a livello europeo può essere combattuto. E tuttavia, qualunque sistema economico è, alla fin fine, un rapporto tra persone non tra cose. E io penso che i programmi contano e incidono se sono animati da una idea adeguata ai caratteri di questa crisi. Bisognerebbe quindi pensare a definire un nuovo patto di cittadinanza. Un patto politico che sia una cosa diversa e molto più larga dei vecchi patti tra produttori del passato. C’è un problema di risorse? C’è, ma ricordiamoci che l’Italietta miserabile dell’Ottocento fece le ferrovie, il decennio giolittiano usò la banca mista per creare il triangolo industriale, De Gasperi nell’Italia dell’immediato dopoguerra fece la Cassa per il Mezzogiorno: un investimento gigantesco nelle condizioni economiche di allora. Quali enormi possibilità ha l’Europa della moneta unica? Nella proposta di emettere eurobond c’è un possibile rilancio del riformismo europeo. Servono nuove idee. Noi da anni non inventiamo niente. Ci flagelliamo con la crisi della sinistra ma forse non ci rendiamo conto che pur in presenza di società parcellizzate si è aperta anche una nuova esigenza che è costitutiva del genere umano in formazione, l’esigenza cioè di un nuovo «noi». Un «noi» che guardi oltre i singoli territori (basterebbero le sfide ormai ineludibili dei diritti umani e della protezione dell’ambiente per rendercene conto). E questa sorta di nuovo «noi» è resa possibile anche dal modo nuovo con cui già oggi si mobilitano le masse e si organizza la partecipazione popolare. È il messaggio interattivo che ha organizzato le grandi manifestazioni di queste settimane in Italia e in Nord Africa. Qualcuno dice che siamo già entrati nell’era post televisiva (cioè oltre l’era della comunicazione passiva, unidirezionale, affidata al piccolo schermo) per passare a quella del social network interattivo, in cui è sufficiente un passaparola per veicolare un messaggio politico. Dunque, concludendo: pensare una forma nuova della politica come il luogo delle grandi scelte collettive. Necessariamente i partiti, che però a differenza del passato dovrebbero poggiare su una pluralità di organismi intermedi, il cui tratto comune è una idea di progresso ispirata dalla consapevolezza che il mondo è a rischio e che governarlo è una impresa comune. Insomma un orizzonte di valori neoumanistici all’interno dei quali ogni formazione politica e culturale si colloca a suo modo. Penso, perciò, che sia tempo di dare molta più attenzione a nuovi organismi intermedi, anche autogestionali, a cominciare dall’impresa cooperativa, il Terzo settore, il federalismo. Bisogna far leva su ciò che sta già emergendo: una economia sociale che fa leva
sulle enormi risorse che la grande economia non vede e che affida la gestione delle risorse alle comunità locali, anche tra unioni e accordi tra persone. La questione sociale non è più riducibile alla contesa tra l’impresa e gli operai. È l’insieme del mondo dei produttori, cioè delle persone che creano, pensano, lavorano e fanno impresa che subisce una forma nuova di dominio e di sfruttamento. Ma se è così ci sono le condizioni per alleanze più larghe. Sia il modello socialdemocratico come il paradigma neoliberista sono obsoleti. La politica deve saper riconoscere la ricchezza della vita sociale. Deve offrire soluzioni ai problemi collettivi che sfuggono alle vecchie identità. Torno così all’Italia. È perfino ovvio che il complesso di ristrutturazioni che ormai attendono improrogabilmente il nostro Paese, sicuramente non potranno essere portate avanti in un clima di guerra di tutti contro tutti. Ed è qui che si ritrova la ragione fondante del Partito democratico. * In collaborazione con Argometi Umani, diretta da Andrea Margheri