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Novembre-Dicembre n째 38 - 2011


Direzione: Elio Matassi - Vannino Chiti - Marco Filippeschi - Carmelo Meazza Coordinamento generale del sito e della web TV: Marco De Pascale

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Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica Http://www.Inschibboleth.org - Mensile on line (con aggiornamenti settimanali), Novembre-Dicembre 2011, n° 38. (Numero 39, 31 Gennaio 2012) - Registrazione presso il Tribunale di Sassari. Redazione principale: via Nazionale 75, 00184 Roma. Redazione virtuale on line su Skype. Ufficio stampa, Marco De Pascale. E-Mail: infotiscali@inschibboleth.org. Direttore responsabile: Aldo Maria Morace


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Il governo Monti, il Partito Democratico e il gioco delle alleanze di Elio Matassi

La sconfitta dell’antipolitica di Eugenio Mazzarella

Risuonano squilli di tromba... di Giovanni Invitto

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Il pensiero di Pietro Scoppola di Iginio Ariemma

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La libertà esistente, verso una possibile interpretazione dell’originario Intervista a Claudio Ciancio A cura di Bachisio Meloni

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Una conversazione tra Joseph Cohen e Stéphane Habib

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Il governo Monti, il Partito Democratico e il gioco delle alleanze di Elio Matassi

La costituzione del governo Monti, la crisi del blocco neopopulista (la rottura, almeno momentanea, fra PdL e Lega), pongono al Partito Democratico complessi problemi, relativi a una strategia di largo respiro e a una più circoscritta, legata alla gravità della crisi europea ed italiana in particolare. L’insediamento stesso di un governo ‘tecnico’, espressione della vo-


lontà della Presidenza della Repubblica, un governo, ipotesi molto probabile, che consentirà una fine non traumatica della legislatura, pone problemi a entrambi gli schieramenti, centro-destra e centrosinistra. Un primo effetto si è già realizzato con la rottura dell’alleanza, datata ormai da un quindicennio, fra PdL e leghismo, una rottura prevedibile e che non potrà essere ricomposta in maniera indolore. E’ ormai evidente che nel PdL sono presenti per così dire due anime che difficilmente potranno convivere: un’anima che si sente attratta da una ripresa dell’alleanza con la Lega (il neopopulismo nella sua declinazione più aggressiva) e una seconda che guarda sempre con maggiore interesse al Terzo Polo, ossia a un’ipotesi ‘neocentrista’. La sintesi fra queste due anime che finora era stata condotta in prima persona dal carisma dell’ex Presidente del Consiglio non sembra avere più una figura rappresentativa che possa gestirla in sua vece. Non è da considerarsi casuale se i sondaggi stanno registrando sempre più marcatamente una disaffezione crescente dell’elettorato attratto dal neopopulismo e un vistoso calo di consensi concentrato sul PdL, anche se fin’ora non sembra essere stato intercettato dalla Lega, sempre più vistosamente spostatasi verso forme di radicalismo secessionista, che presume quale calcolo politico evidente il default dell’Euro e la caduta del blocco eurocentrico. Più complessa la prospettiva del centrosinistra che, almeno nell’immediato, sembra non risentire sul piano elettorale dei rischi connessi all’appoggio totale fornito al governo Monti. Il PD, che ha investito fortemente su questa ‘tregua’ parlamentare, nonostante la drammaticità del momento economico, è in ascesa elettorale, ma anche l’IdV e SEL stanno tentando una ricollocazione che, senza snaturare la loro vocazione, non faccia fallire la possibile alleanza futura con il PD (il cosiddetto Blocco di Vasto). L’ambizione del PD, che traspare con grande evidenza dalla sua dirigenza è quella di fare del Governo Monti una passaggio necessario per un’alleanza, questa volta strettamente ‘politica’, che vada dal Terzo Polo fino a Di Pietro e SEL e quindi assumere di fatto una posizione ‘centrale’ nel futuro schieramento. E’ un’ipotesi realizzabile e credibile allo stato dei fatti attuale? O piuttosto il PD dovrà necessariamente scegliere fra Terzo Polo e forze collocate alla sua sinistra? Anche questo problema appare ancora molto controverso e di difficile soluzione. Nell’auspicio che il Governo Monti riesca, nell’anno e mezzo che grosso modo rimane per la conclusione della legislatura, ad arrestare la gravissima crisi economica – i primi provvedimenti e la soluzione del caso Termini Imerese sembrano andare nella direzione giusta, nel tentare di coniugare rigore ed equità, esigenze di risanamento e giustizia sociale – si porrà subito dopo il gioco delle alleanza e quello, pregiudiziale, di una riflessione su una crisi che non ha nulla di congiunturale ma che si presenta come radicalmente sistemica. Per superare una crisi di tale portata, dopo questa fase transitoria, diventerà indispensabile una interrogazione a trecentosessanta gradi del modello di sviluppo nel tentativo di ricercare un nuovo compromesso fra capitalismo e democrazia. A quel punto il PD non potrà non porsi il problema che un partito moderno, di ‘sinistra’ deve avere dinanzi a sé. Per ricostruire lo stato nazionale dalla devastazione operata dal neopopulismo è indispen-


sabile, come suggerisce qualcuno, una sinistra libera da un vacuo progressismo senza però cadere nella regressività, in grado di restituire spessore e profondità al tempo che viviamo:”Una sinistra che concilii l’io e il noi, che non si affidi semplicemente all’individualismo radicale e alla rivendicazione compulsiva dei diritti. Una sinistra libertaria ma non liberale, che non sposi il primato assoluto del mercato e dell’economia, ma sappia creare e reinventare lo spazio della politica e della socialità, favorendo anche altri ambiti in cui, al posto delle merci, ci siano in primo luogo gli uomini e la natura… Una sinistra libera dal demone contemporaneo della ‘facilità’, che sappia pensare la complessità e rinunciare alla reductio ad unum delle differenze. Una sinistra in grado di capire che liberare la società da pastoie burocratiche, posizioni dominanti e oligopoli, restituendole trasparenza e vivibilità democratica, non è ‘mestiere’ dei liberali, perché è proprio il liberalismo che, alla fin fine, per risolvere il problema di coloro che lascia inevitabilmente indietro, produce paradossalmente più Stato, più lobby e più gruppi di interesse. Una sinistra senza più propositi palingenetici, ma in possesso di una forte carica simbolica” (Bruno Arpaia, Per una sinistra reazionaria, pp. 172-73). Raccolgo la provocazione, nel testo appena citato, per affermare che non si tratta tanto di una questione ‘nominalistica’, puramente definitoria, quanto dei contenuti che una sinistra moderna deve necessariamente porsi a partire dalla difesa del proprio patrimonio e della propria tradizione-identità (il sapere umanistico), non a caso devastata dalla presunta Riforma-Gelmini e che si auspica il Governo Monti possa ampiamente rivedere.


La sconfitta dell’antipolitica di Eugenio Mazzarella

Con le dimissioni di Berlusconi e la nascita del governo Monti, siamo in presenza – da molti anni a questa parte – della prima sconfitta dell’antipolitica in Italia, e della prima vera vittoria della politica. Come? Un governo Monti, un tecnico spinto dai mercati, che sostituisce il premier eletto dagli italiani, rappresenterebbe la sconfitta dell’antipolitica e la vittoria della politica? L’affermazione è meno paradossale di quel che sembra. Per due motivi. Perché il governo Monti è il governo del Presidente Napolitano. Cioè di una politica altamente professionale, nel senso più nobile del termine, da sempre; guarda caso l’unica, nella sua persona, stimata con consensi unanimi dagli italiani; e che dimostra in un momento di estrema difficoltà – ne è l’ultima evidenza la telefonata di Obama – di saper prendere in mano il Paese agli occhi del mondo, proponendo, e portando in porto, l’unica soluzione possibile alle condizioni date. E che cos’è la politica se non l’arte del possibile come la soluzione migliore, per gli interessi generali, alle condizioni date? E questa è la vittoria della politica, finalmente. La sconfitta dell’antipolitica è, invece, proprio nelle dimissioni di Berlusconi, che per oltre tre


lustri ha interpretato, con obiettivo successo elettorale, e pochi esiti di governo, gli umori antipolitici del Paese nati con la crisi della partitocrazia e consolidati da Tangentopoli. In tutti questi anni, Berlusconi è stato il campione dell’antipolitica, proponendosi fino all’ultimo come un “non politico” sceso in campo per salvare con i suoi interessi di non politico gli interessi di un Paese fatto di “non politici” come lui, chiamato a battersi contro i “comunisti” – il primato della politica per eccellenza, che volevano “rivoluzionare” la “società conosciuta” ! – e la “casta” che ci mangia sopra. Il condimento più propriamente politico, uno specchietto per le allodole, sono state le promesse liberali, tutte inevase. In sostanza Berlusconi ha imposto sul mercato politico un’antipolitica professionale, proponendone un marketing di successo, che ha avuto emuli anche a sinistra. L’asse con la versione leghista dell’antipolitica – il “territorio” contro Roma ladrona e la casta, mentre si diventava casta a Roma e sul territorio – era nella logica delle cose. Quest’antipolitica, quando si è dovuta misurare non con umori del mercato elettorale nostrano, anche indotti e amplificati da uno straordinario potere mediatico, ma con un contesto internazionale del tutto refrattario ad approcci populistici, è venuta del tutto meno alla prova della politica, quella vera. E patisce, con le dimissioni di Berlusconi, la prima vera sconfitta nell’opinione pubblica del Paese; dove, a leggere le curve di consenso del premier e del governo, è arrivata “prima” di maturare sul terreno propriamente istituzionale, nei numeri parlamentari. A quanto pare, stando alla maggioranza che ha portato al governo Monti, l’antipolitica resterà attestata in Parlamento attorno alla Lega e forse in parte all’Italia dei Valori, che paiono intenzionate a puntare sugli umori antipolitici che il governo dei sacrifici “impostoci” dall’Europa dovrebbe generare. Un calcolo miope in un momento in cui bisognerebbe contribuire, tutte le forze politiche, a far capire agli italiani che, cambiate le cose che possono essere cambiate nelle “ricette” europee, l’Europa ci chiama a salvarci dai “nostri” errori di un ventennio di politica mancata, che ci espongono alla speculazione finanziaria; e che l’unico dovere è l’equità nell’addossamento sociale dei costi dei sacrifici che gli italiani sono chiamati a sopportare. Se il parlamento saprà accompagnarne il governo Monti nel lavoro su questa strada, le forze politiche che lo consentiranno avranno un’opportunità storica: portar fuori il Paese dall’antipolitica in cui si avvoltolato per un ventennio, riabilitandosi, e riabilitando la politica, agli occhi degli italiani. E questa seconda vittoria, dopo quella di un governo Monti, sarebbe ancora più importante.


Risuonano squilli di tromba... di Giovanni Invitto

Chi sta aspettando che il Concilio Vaticano II sia realizzato in maniera definitiva, dopo quarantacinque anni dalla sua conclusione, ricorda bene il senso della “costituzione pastorale” intitolata “Gaudium et Spes” che affrontava il problema dei cattolici in politica e lasciava alla coscienza del singolo cristiano le opzioni da compiere. Fondava, credo per la prima volta nella storia della Chiesa cattolica, una cultura della pluralità delle scelte: “Per lo più sarà la stessa visione cristiana della realtà che li orienterà, in certe circostanze, a una determinata soluzione. Tuttavia, altri fedeli, altrettanto sinceramente, potranno esprimere un giudizio diverso sulla medesima questione, come succede abbastanza spesso e legittimamente”. Come mai, allora, si ripropone oggi il discorso dei cattolici in politica? Se la diaspora, cioè la presenza di credenti nella pluralità delle formazioni partitiche e politiche, è già un fatto esistente e consoli-


dato, perché rilanciare il problema? La causa principale sarà stata sicuramente il fatto che molti politici e governanti del nostro paese, pur dichiarandosi cattolici e utilizzando questa “sigla”, hanno pubblicamente adottato atteggiamenti che non hanno niente a che fare non solo con l’etica cattolica, ma neanche con il comune senso del pudore. E non ci si riferisce soltanto o anzitutto a modalità di gestione del privato, ma soprattutto alla gestione della cosa pubblica. Quindi richiamare ai principi è fatto legittimo e doveroso. Ma forse qualcuno ha voluto dare a questo invito un significato che supera le intenzioni di chi lo ha posto. Si è parlato di una nuova “Democrazia Cristiana”, di un nuovo partito cattolico, evento poco immaginabile nel contesto attuale che, tra l’altro, vede il cosiddetto “integralismo cattolico” ampiamente ai margini della realtà e del dibattito ecclesiale. Nondimeno non sono mancati i politici zelanti, anche nostrani, che hanno subito voluto tranquillizzare tutti affermando: io ho il dna cattolico e l’ho sempre rispettato. È certo che, se etica e politica sono cose diverse, il governo di una comunità non può ignorare le emergenze sociali che sono altrettante istanze etiche. L’etimo del termine “comunità” sta ad indicare che tutti i componenti hanno lo stesso impegno: oggi è l’impegno a riprendere quello che, con termine desueto, chiamiamo stato sociale, distrutto da una politica che ha privilegiato chi gestisce grossi interessi economici e, ai restanti cittadini, di fatto ha detto: “arrangiatevi”. Questa non è né una buona politica né ha a che fare con uno Stato giusto: e la giustizia è una delle virtù cardine (o cardinali) perché, come dice il libro biblico della Sapienza: “Se uno ama la giustizia, le virtù sono il frutto delle sue fatiche. Essa insegna infatti la temperanza e la prudenza, la giustizia e la fortezza”. La giustizia, anche quella sociale, è alla radice di ogni altro comportamento virtuoso. Diceva don Tonino Bello, dodici giorni prima di morire: “Amate i poveri perché è da loro che viene la salvezza, ma amate anche la povertà. Non arricchitevi, non arricchitevi! Non vale. Nel gioco della vita è sempre perdente chi vince sul gioco della borsa”. L’ammonimento riguarda tanto i singoli laici quanto gli esponenti della gerarchia: torniamo ad una politica nella quale l’etica, dove c’è, non sia facciata ma sostanza delle scelte, rispetto e aiuto “istituzionale” ad ogni uomo e ad ogni condizione sociale.


Il pensiero di Pietro Scoppola di Iginio Ariemma*

Pietro Scoppola è stato sicuramente uno dei protagonisti principali del processo di formazione prima dell’Ulivo e poi del Partito democratico. Il Pd non è la continuazione dell’Ulivo, ma è indubbio che tra l’uno e l’altro molti sono i fili di connessione e Scoppola è stato ed è tanta parte di questo nesso. Si potrebbe dire che egli ne è ‘l’ispiratore’, ma, come tutti i luoghi comuni, questa definizione rispecchia soltanto in parte la verità. Soprattutto non mette in luce la profondità e l’ampiezza del suo pensiero che l’attuale Pd, con le sue ombre, riflette soltanto in misura monca. Ma su questo aspetto ritornerò in seguito. Ridurre però Pietro Scoppola a questo non è giusto. Considerava il partito uno strumento, seppure molto importante, ma non il fine. Il fine era la democrazia dei cittadini ovvero la democrazia dei cristiani, che per lui era la stessa cosa, data la sua convinzione sul nesso originario tra cristianesimo e democrazia. Scoppola è stato uno storico di grande valore, un intellettuale pubblico autorevole,


tra i più ascoltati non soltanto nel mondo cattolico, ma anche tra i laici. Ma in questa sede noi intendiamo ricordare soprattutto la sua opera di grande costruttore e riformatore della democrazia italiana, che tanto amava e che egli voleva rendere meno fragile, più coesa e partecipe. «I cittadini per l’Ulivo» erano per lui – questa la mia convinzione – uno dei laboratori sperimentali della democrazia dei cittadini. Ho conosciuto Pietro molti anni fa, negli anni Settanta, ma i nostri primi incontri risalgono alla campagna referendaria del 1991 e del 1993 allorché fu introdotto il maggioritario, e soprattutto dopo, nelle elezioni del 1994, quando si trattava di costruire una lista unitaria tra lo schieramento di sinistra, che comprendeva l’ex Pci in cui militavo e Alleanza democratica di cui egli faceva parte. Tuttavia fino alla sconfitta elettorale del 2001 non posso dire che tra di noi ci fosse comunanza di frequentazione e di idee. Dopo sì. Specialmente con la nascita e la costruzione dei Cittadini per l’Ulivo. Mi ricordo molto bene il lungo colloquio che avemmo, Renato Strada e io, a casa sua, per proporgli di presiedere la costituenda «Rete», e anche i suoi interrogativi, le sue riserve e diffidenze che poi superò con la consueta generosità. Da allora non passava settimana che non ci sentissimo: e non soltanto sui problemi che riguardavano la Rete, ma un po’ su tutto. Ho imparato molto da questi incontri. Pietro credeva molto nell’amicizia, tanto è vero che volle introdurre nel manifesto costitutivo la frase seguente che è di suo pugno: I cittadini per l’Ulivo lavorano per l’unità dell’Ulivo e ne interpretano l’anima unitaria. Devono perciò instaurare tra le varie componenti oltre che un rispetto reciproco, un clima di amicizia, senza il quale è difficile dare vita ad una volontà politica comune.

A me manca molto la sua amicizia. Un cattolico a modo suo. Pietro Scoppola è scomparso il 25 ottobre 2007. Tre giorni prima che ci lasciasse mi parlò dell’aldilà. Anche la volta precedente, circa quindici giorni prima, in un colloquio durato quasi un’ora, ne parlammo. Soprattutto l’ultima volta era molto stanco, parlava a fatica, ma con molta lucidità. Venne, premurosa, sua figlia, ma la pregò di lasciarci continuare. E ancora di più mi è rimasta impressa l’assenza di angoscia e la serenità del volto e delle parole. Mistero e fede. Mistero, perché mi rammentò la scommessa pascaliana. «La fede può essere proposta o vissuta non come verità dimostrata o dimostrabile, ma come scelta, come rischio di un impegno senza riserve, come scommessa», mi ripeté quasi sottovoce. Addirittura pensai che fosse una sorta di cortese generosità, abituale nei miei confronti, verso di me non credente. Mentre sentiva venir meno le forze residue ed era costretto a ricorrere alla bombola di ossigeno per respirare. Ma, ripensandoci, ne compresi la pienezza di fede, il suo personale, continuamente ricercato e ravvivato rapporto con Dio. Mi venne allora in mente il versetto che spesso citava: «Quidquid fit contra conscientiam aedificat ad gehennam». La fede non è riducibile a una dottrina, è libertà, è coscienza. A questo proposito


non ha esitato a interloquire e a discutere, nei suoi ultimi interventi su «la Repubblica», il modo con cui Benedetto XVI affronta il nesso tra fede e ragione e la storicità del diritto di natura. Religione e fede, a suo parere, non possono essere identificate. Sono due ‘grandezze’ per così dire diverse. L’una, la religione, è credere nella verità rivelata, appartenenza di tradizione, di storia, di cultura. L’altra, la fede, è il rapporto con Dio, che è un rapporto di devozione e sottomissione, ma pugnace, combattuto, e sempre personale. E la persona per lui significa individuo innalzato a valore. Il legame tra le due grandezze sta nel fatto che «non si crede da soli, ma solo e sempre in una comunità credente e orante». Per questi motivi era come spaurito di fronte alla fede dei giovani di oggi. «Questo clima di incertezza sul futuro» scrive «spinge verso il rifiuto di ogni prospettiva di fede, di ogni valore – visto che nulla è garantito – e verso una fede senza dubbi, senza ricerca, che possa rappresentare psicologicamente un punto saldo di approdo». Per Pietro, invece: «una fede che non dubita è una fede morta», ripeteva con Miguel de Unamuno, (Un cattolico a modo suo, Morcelliana, Brescia, 2008, p.15 e p. 48). Il pontefice Paolo VI lo definì «un cattolico a modo suo». C’è in questa definizione non soltanto una indubbia acutezza nel cogliere un tratto essenziale della personalità di Pietro, ma anche qualcosa di più. Scoppola non ha mai concesso nulla ad atteggiamenti di eresia e neppure di dissenso più o meno pregiudiziale. Questi comportamenti erano considerati da lui manifestazioni di aristocraticismo intellettuale e personale, se non anche, talvolta, di sciocco esibizionismo. Ferme erano le sue convinzioni, ma altrettanto ferma era la sua fiducia nel confronto democratico, nel dialogo, nella capacità di ascolto, nel rispetto non soltanto delle regole democratiche, ma anche della tradizione e del sentimento popolare. Scoppola non ha mai messo in discussione il principio di autorità del pontefice, ma, nello stesso tempo, ha sempre denunciato, in particolare negli anni più recenti, quella che definiva la «Chiesa del silenzio», che parla con una voce sola, sia pure autorevole, come quella del Papa. Sovente mi ha detto che non amava le piazze piene e le chiese vuote e silenti. Verso la gerarchia ecclesiastica, diceva, occorre obbedienza, ma obbedire in piedi, non in ginocchio. Egli rifiutava le etichette. Perciò era critico verso espressioni, quali cattolico liberale, cattolico popolare, e persino cattolico democratico lo sentiva un po’ stretto. Talora li utilizzava, perché era consapevole che non esistono «cattolici senza aggettivi», e anche i cristiani sono «dentro una cultura, una estrazione sociale … insomma una scelta di campo e tanti condizionamenti reali» (La democrazia dei cristiani. Il cattolicesimo politico nell’Italia unita. Intervista a cura di Giuseppe Tognon, Laterza, Roma-Bari, 2005, p.14). Un cattolico a modo suo è il titolo che volle dare, con una punta di orgogliosa compiacenza, al suo ultimo libro, pubblicato, per sua scelta, per i tipi della Morcelliana, una casa editrice cara a Paolo VI. Me ne parlò con sollievo, nell’ultimo incontro che abbiamo avuto, per essere riuscito in pochi mesi a dare di sé l’ultima testimonianza. Una testimonianza sobria e sincera, in cui fa i conti con se stesso, con la lucidità del laico e la serenità del credente. Come mi disse, era, per certi versi, un ritorno ai pensieri che


lo avevano arrovellato in gioventù. Fino all’ultimo, in questa sorta di piccolo testamento spirituale, non esita a esporre i suoi dubbi e le sue convinzioni sui temi più discussi e spinosi, che tormentano la Chiesa cattolica: sulla contraccezione, sui sacramenti alle persone divorziate, sull’ordinazione femminile, e persino sui novissimi, a partire dalla vexata quaestio dell’inferno. E sempre con al centro la problematicità della fede e la saggezza del dubbio. Non si è mai presentato, come ha detto Oscar Luigi Scalfaro, «come credente in divisa, questa divisa che subito divide perché io non sono come gli altri, non sono come voi. Lui infatti è sempre stato totalmente eguale». Il mondo cattolico e la democrazia italiana Non è mia intenzione, né ho la competenza necessaria per ricordare l’elevato contributo che egli ha dato agli studi storici. Altri l’ha già fatto, e lo potrà fare in futuro molto meglio di me. Una delle sue qualità – l’ho già detto – era la generosità e pertanto la capacità di formare allievi di notevole levatura, orientarli e seguirli, all’università e nella vita associativa. Credo che la sua passione politica risalga agli anni giovanili. In La democrazia dei cristiani dice che il suo primo riferimento è stato don Primo Mazzolari, un riferimento almeno curioso per un giovane proveniente dalla borghesia romana e cresciuto in una scuola molto cattolica, addirittura gesuita, come il liceo Massimo. Ma solo parzialmente, perché, in quegli anni di guerra e del crollo del fascismo e subito dopo la fine della guerra per un giovane di formazione cattolica l’antifascismo, democratico e progressista e soprattutto in prima persona, di don Primo Mazzolari aveva una forte attrazione. Tuttavia, il suo impegno politico, vero e proprio, inizia a partire dagli anni Settanta. Prima c’è stata la partecipazione, appassionata e intensa, ai lavori del Concilio Vaticano II, che ha lasciato in lui un segno molto profondo nella sua attività e opera futura. E prima ancora il lavoro di storico, cioè lo scavo nella storia italiana, specialmente sul rapporto tra questa storia e la Chiesa e il mondo cattolico dal Risorgimento a oggi. Il suo interesse precipuo, in questi anni, ma anche dopo, è nei confronti dei movimenti politici laici all’interno della Chiesa cattolica: il neoguelfismo (1957), il modernismo e la formazione, poi fallita, della prima Democrazia cristiana (1961), fino alla nascita del Partito popolare (gli studi compresi in Coscienza religiosa e democrazia nell’Italia contemporanea, Il Mulino,1966), Chiesa e lo Stato nella storia d’Italia e La Chiesa e il fascismo (Laterza 1967 e 1970). Anche nei lavori del Concilio Vaticano II uno dei punti che più gli premeva, come cattolico e come intellettuale, è stato il ruolo autonomo, la responsabilità dei laici nei confronti del clero e della Chiesa in generale. Il cuore della sua ricerca, storica e teorica, che durerà tutta la vita, è, infatti, il rapporto tra democrazia e cattolicesimo. Ricordava e citava spesso Alexis de Tocqueville e in particolare i due splendidi tomi La democrazia in America, in cui Tocqueville rivendica alla religione, e a quella cattolica, più che a quella protestante, un ruolo regolatore e moralizzatore della democrazia, in quanto contiene e tempera la


passione egualitaria, e quindi protegge i cittadini contro le pretese irragionevoli a conoscere e dunque a rivoluzionare tutto, mentre affida a Dio la questione dei fini ultimi e del destino dell’umanità. La credenza o «l’ardore per l’eguaglianza», per Tocqueville, è inevitabile. Ma, affinché sia compatibile con la libertà, deve essere parte dell’ordine sociale e del processo democratico. La condizione sine qua non per cui la religione possa svolgere questo ruolo è che ci sia una separazione tra potere politico e religione, e pertanto una concezione laica della vita politica. Se c’è «unione intima» con la politica la religione perde la propria universalità. E lo stesso accade allo Stato e al potere politico. Scrive Scoppola, seguendo Tocqueville: Lo stato laico ha bisogno della religione. Ma la religione deve accettare in pieno la laicità per svolgere il ruolo di lievito della democrazia. [E ancora:] La democrazia sfida ogni religione, perché si fonda sulla libertà di coscienza e sul principio di maggioranza che può entrare in conflitto con i criteri di verità proposti da una religione. L’esperienza religiosa ebraico-cristiana è quella che ha offerto alla democrazia il suo vero fondamento: il senso della fragilità, del limite, del peccato, della fallibilità umana fonda l’esigenza di stabilire i diritti individuali dell’uomo, di sottoporre il potere al controllo e alla necessità del ricambio.

Gli stessi concetti si trovano in Norberto Bobbio e Jürgen Habermas, due intellettuali agnostici, ma che hanno compreso a fondo la portata della tradizione e del sentimento popolare religioso. Andando oltre Tocqueville, Scoppola sottolinea due concetti. Il primo è il nesso originario tra cristianesimo e la democrazia: il secondo concetto concerne il diritto soggettivo che il cattolicesimo deve maggiormente considerare, se vuole essere coerente con il nesso originario precedente e soprattutto affrontare la modernità. Soggettività e libertà di coscienza, persona e fede sono i termini che, insieme a democrazia, forse più percorrono la sua ricerca storica e umana: La democrazia si concilia difficilmente con l’integralismo religioso di ogni colore; si concilia assai bene con la fede intesa come scelta personale rispettosa delle scelte diverse, come adesione ad una verità che trascende l’uomo sicché nessuno può dire di possederla come cosa sua, ma tutti devono cercarla. (Le tre citazioni precedenti sono tratte da La democrazia dei cristiani, cit., pp.200, 14, 193, 210).

Il mondo cattolico italiano soffre di una sorte di anemia religiosa e culturale, di arretratezza culturale, che non ha ancora chiaramente preso coscienza dei problemi più vivi del mondo moderno, che non ha ancora chiaramente risolto il problema della libertà, che si dibatte nelle strettoie del vecchio clericalismo. (Coscienza religiosa e democrazia nell’Italia contemporanea, Il Mulino, Bologna, 1966, p.322). Scoppola ripeteva spesso l’espressione di Aldo Moro che i cristiani, nei confronti della democrazia, avevano o, più esattamente, potevano avere qualcosa di più: il principio di non appagamento, che derivava loro dalla religiosità vissuta in modo completo e senza ipocrisia. Ha ricordato Leopoldo Elia, amico di una vita, che Scoppola «non poteva permettere che la religione fornisse alibi a


condotte transigenti e disinvolte». Conseguentemente a quanto detto l’analisi storica, e politico-culturale, di Scoppola sul rapporto tra la Chiesa e più in generale tra il mondo cattolico e la democrazia italiana è molto realistica. Non è assolutamente ‘tenero’, nei suoi studi storici, nei confronti della Chiesa: Scoppola vede in questi limiti, che non sono leggeri persino nei termini (anemia religiosa, arretratezza culturale, clericalismo), una delle ragioni di fondo che hanno fatto sì che nel nostro Paese non si affermasse e avesse basi di massa un partito conservatore di chiara impronta democratica. Addirittura scrive che la Chiesa ha impedito o almeno ostacolato la costruzione di «un sentimento nazionale condiviso». Questi limiti, insieme all’orientamento prevalente del clero e delle gerarchie vaticane, sono stati determinanti per fare vincere le correnti più intransigenti e clericali, e far naufragare la prima Democrazia cristiana, quella di Romolo Murri, e il moto di rinnovamento religioso e culturale rappresentato dal modernismo, agli inizi del ‘900, e, negli anni seguenti, per condizionare e offuscare il programma e la politica del partito popolare, in contrasto con le aspirazioni autonomistiche e democratiche di Luigi Sturzo. Successivamente questo conservatorismo clericale ha avuto un peso considerevole nel determinare la connivenza e le compromissioni tra Chiesa e fascismo, a cui Pietro dedicherà pagine illuminanti e incontrovertibili. La democrazia italiana è stata segnata dalla freddezza, se non proprio dalla ostilità della Chiesa, le cui manifestazioni principali sono state la non separazione tra Chiesa e Stato, che, attraverso il Concordato del 1929, ha assunto anche i risvolti di «unione intima» con il fascismo, per usare l’espressione di Tocqueville, la non partecipazione dei cattolici alla vita politica, se non in modo ipocrita e non trasparente, il rifiuto a ogni processo di rinnovamento sociale. Questa tradizione è stata una zavorra negativa e pesante anche negli anni della Repubblica. Scoppola, giustamente, ha contribuito in maniera notevole ad allargare la visione della Resistenza e della lotta di Liberazione al fascismo, che non può essere ristretta, al ruolo, seppure primario, della guerra partigiana. La partecipazione alla Liberazione è stata molto più ampia. Soprattutto dalla caduta del fascismo in poi c’è stata una funzione, a livello di massa, oltre che dei militari, della popolazione civile, con un apporto molto significativo del mondo cattolico, che sta sempre più venendo in luce: nell’aiuto, anche con gravi rischi personali, dei perseguitati ebrei, dei militari italiani e stranieri delle truppe alleate, dei prigionieri e dei partigiani. Un contributo che va parecchio al di là di quella ‘zona grigia’ di chi stava in disparte e si era ritirato e rifugiato ‘nella casa in collina’ (25 aprile. Liberazione, Einaudi, Torino, 1995; La costituzione contesa, Einaudi, Torino, 1998). È significativo che Andrea Riccardi, suo allievo, abbia dedicato a Pietro il recente L’Inverno più lungo, sulla Roma città aperta del 1943-1944. Tuttavia, anche lui come Giuseppe Dossetti, che pure la guerra partigiana l’ha fatta, seppure senza sparare un colpo, conveniva che, in larga parte del mondo cattolico, non era avvenuto «un innamoramento serio» verso la Costituzione, nata dalla Resistenza. La Democrazia Cristiana, e in particolare la leadership di De Gasperi è dovu-


ta partire da qui. Cercando di garantire alla rinascente democrazia italiana il consenso della Chiesa dopo le sue compromissioni con il fascismo, riportare alla democrazia quei ceti medi e quelle realtà popolari che avevano dato il loro consenso al fascismo, assicurare su questa base una valida resistenza democratica al comunismo. (A colloquio con Dossetti e Lazzati, 14.11.1984, Il Mulino, 2003, p.131). Scoppola dà un giudizio positivo sul lavoro svolto dai partiti politici per far crescere e radicare la democrazia da quella che ha definito, forse nella sua opera più matura, la repubblica dei partiti (La repubblica dei partiti, Il Mulino, 1991, ed.11, 1997). Ma oggi è una democrazia ancora non del tutto consolidata; che contiene nel suo seno aspetti di fragilità e precarietà. Egli è convinto che il venire meno della DC non ha aperto la via ad una più dispiegata democrazia, ma ha fatto riemergere dal profondo della società italiana una realtà di arretratezza culturale e morale che la DC aveva a suo modo incanalato in espressioni e verso obiettivi politici. Oggi, purtroppo, assistiamo a «uno sbandamento di gran parte del mondo cattolico verso una destra senza storia». Questo è stato il suo assillo nell’ultimo periodo della sua vita. Un assillo tanto più acuto in quanto era convinto, molto convinto che «la democrazia dei cristiani non può essere una nuova democrazia cristiana. La domanda dei cristiani, invece, oggi coincide con la democrazia di tutti», nella quale ci sia una grande tensione etica nel pieno rispetto della diversità tra laici e cristiani (La democrazia dei cristiani, cit., p.191). Passione politica come disegno per il futuro Come ho già detto in precedenza, Scoppola viene trascinato dentro la battaglia politica dal referendum sul divorzio nei primi anni Settanta. Scoppola è uno dei leader, forse il più autorevole, dei cattolici del no, di coloro cioè, che pur essendo convinti dell’indissolubilità del matrimonio cattolico, sostennero però la piena laicità dello Stato e quindi il diritto di legiferare sul divorzio. La notorietà, conquistata in quella occasione, in una certa misura, gli viene fatta pagare poco dopo, quando una parte del clero e della gerarchia vaticana chiede la sua estromissione dalla presidenza della commissione preparatoria del convegno molto importante, promosso dal Vaticano, su «Evangelizzazione e promozione umana». Venne difeso dal pontefice Paolo VI, che, come ho già ricordato, per quell’occasione coniò per Pietro la qualificazione di «cattolico a modo suo». In questi anni, è bersaglio anche di contestazioni violente: alla fine del 1968 all’università di Trento dove aveva avuto da poco la cattedra (si dimette dalla cattedra per non sottostare all’imposizione sui temi e sui metodi di insegnamento da parte del movimento studentesco), e, più pericolosamente, nel 1977, quando viene trovata sotto la sua automobile una bomba ad alto potenziale. Dopo l’esperienza a «il Mulino», che ha sempre considerato fondamentale nel suo cammino, nel 1975 è uno dei fondatori della Lega democratica, una delle fucine più interessanti e importanti, e purtroppo ancora poco studiata, dei cattolici democratici. Insieme al periodico «Appunti di politica e di cultura», sorto nel 1978 pochi mesi dopo il rapimento di Moro, e diretto in più occasioni da Pietro Scoppola, raccoglierà le riflessioni e le energie delle teste migliori


del progressismo cattolico. Purtroppo molti di loro stanno scomparendo. È un’intera generazione del cattolicesimo democratico che se ne va, senza che si veda chi la sostituirà, almeno finora. Negli anni della Lega Democratica Scoppola, pur non essendo iscritto alla Dc, è fautore di un rinnovamento radicale della Dc. Scoppola è sempre più convinto che l’unità politica dei cattolici era un ostacolo non soltanto allo sviluppo democratico e civile del Paese, ma allo stesso cattolicesimo. Tanto da non escludere, in disaccordo con Aldo Moro, l’opportunità di una frattura della stessa Dc, se non si fosse rinnovata. In secondo luogo è convinto che per far crescere la democrazia italiana, anche come misura di igiene democratica, è necessario dare vita a un sistema elettorale e istituzionale che prevede l’alternanza tra campi opposti. Sulla base di questo disegno appoggia con convinzione la segreteria di Benigno Zaccagnini, prima e dopo il caso Moro. Anche dopo, con la segreteria di Ciriaco De Mita, considera possibile tale rinascita. Nel 1981, infatti, è uno dei più prestigiosi e ascoltati membri dell’assemblea dei cosiddetti esterni per rinnovare la Dc. Nel 1983 accetta di essere candidato come indipendente nelle liste democristiane e viene eletto senatore. Farà parte della commissione bilaterale Bozzi per le riforme istituzionali, dove proporrà una riforma elettorale di tipo tedesco per favorire la partecipazione dei cittadini e l’alternanza di schieramenti contrapposti, uno progressista e l’altro conservatore. Inoltre – altra sua iniziativa significativa – presenterà la proposta di rivedere il Concordato con la Chiesa e di inserire nella scuola l’insegnamento di cultura religiosa, a partire dalla Bibbia, facendo divenire facoltativo, in orario non curriculare, l’insegnamento confessionale. A questo proposito mi ha raccontato con un certo gusto che l’iniziativa era stata ritenuta un po’ avventurosa da parte del gruppo comunista e in particolare del senatore Gerardo Chiaromonte, che pertanto non la appoggiò. Sicuramente non è stato il mancato successo di queste iniziative a farlo desistere dal candidarsi nuovamente nel 1987, ma piuttosto la convinzione che per avviare la terza fase della politica italiana occorreva procedere con altri mezzi. Di qui la stesura, in gran parte opera sua, delle nove tesi per l’alternanza (1988), a cui segue, già nel 1990, l’impegno, insieme a Mario Segni, a favore del referendum che, nel 1993, ha introdotto il maggioritario. In quegli anni partecipa attivamente ai tentativi di nuova aggregazione politica, che puntano a costruire uno schieramento democratico e progressista: i Popolari per la riforma e Alleanza democratica. Punto centrale di queste nuove alleanze è l’intesa con gli ex Pci, dopo il crollo del comunismo e la svolta del 1989, che porta alla costituzione dei Ds. Pietro Scoppola non è mai stato un cattocomunista. Pur riconoscendo al Pci e soprattutto ai suoi militanti una tensione etica e spirituale con cui era necessario confrontarsi e dialogare, lo ha sempre combattuto in quanto riteneva che il Pci continuasse a essere troppo «morbido» e «concessivo» non soltanto nei confronti del comunismo sovietico e della rivoluzione d’ottobre, ma anche, più a fondo, di quella che egli definiva «la cultura della rivoluzione», la quale porta inevitabilmente al giacobinismo e al terrore come mez-


zo di comando. E questo perché è intrinsecamente una cultura della verità assoluta. «La rivoluzione» scrive «è un mito fuorviante per la democrazia» (La repubblica dei partiti, cit., prefazione, p.26). Il comunismo, tuttavia, così diceva, va combattuto con l’anticomunismo democratico, quello praticato dalla Dc nel dopoguerra per merito della leadership di De Gasperi. Scrive: Non si comprende la storia della Repubblica e l’opera di De Gasperi, se non si dà il giusto rilievo a questa categoria dell’anticomunismo democratico, troppo a lungo ignorata, di un anticomunismo cioè convinto di potere e dovere far fronte alla pressione comunista con gli strumenti della democrazia, nella Costituzione, nel rispetto della legge, in Parlamento, sulla base del consenso democratico dell’elettorato. (Relazione De Gasperi, tra passato e presente, Valsugana, 19.08.2004).

Scoppola non era mai stato un seguace di De Gasperi, ma, studiandolo (La proposta politica di De Gasperi, Il Mulino, 1977), ne apprezza la profonda spiritualità e si rende conto e riconosce la lungimiranza politica del leader trentino, proprio per il rinnovamento sociale e per il consolidamento della democrazia italiana. Lo spartiacque nel rapporto con i comunisti italiani, anche per lui, è il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro. Già prima erano avvenuti contatti e convergenze, ma si era sempre mantenuto alquanto distante; tanto da essere alquanto critico verso quel gruppo di cattolici, con i quali aveva rapporti di amicizia, che avevano accettato di prendere parte alla lista della Sinistra indipendente a fianco del Pci. Ma dopo Moro si convince sempre più che dal confronto occorreva passare alla ricerca dell’intesa con il Pci. Anche in uno dei suoi ultimi scritti ha insistito sul fatto che la vicenda Moro è stata una grande occasione perduta per dare compimento alla transizione italiana. Per due motivi: La mancata «interpretazione politica unitaria e coerente» si è tradotta in delusione e sfiducia nella democrazia e nella politica (Introduzione a La coscienza e il potere, Laterza, Roma-Bari, 2007). Il decennio 1980-1990, dopo l’assassinioMoro, è per Scoppola «uno dei più cupi della storia della Repubblica», durante il quale «il popolo cristiano diventa muto» (La democrazia dei cristiani, cit., p.154). Il crollo del comunismo sovietico del 1989 elimina in Scoppola ogni riserva e ogni ombra sulla necessità di procedere ad una intesa piena tra le forze che hanno dato vita alla Costituzione per rendere compiuta la democrazia italiana. Di qui la sua battaglia referendaria e la sua ferma convinzione che fosse necessario superare definitivamente quelli che erano stati i macigni miliari, contrapposti, della politica italiana: l’unità dei cattolici e l’unità delle sinistre. In un primo tempo Scoppola aveva pensato che le riforme istituzionali o soltanto elettorali potessero accelerare la transizione italiana. Ma in uno dei suoi ultimi interventi questa illusione è completamente caduta e dirà: Abbiamo un po’ tutti commesso l’errore di immaginare la transizione italiana ad un livello esclusivamente politologico; di non vedere le condizioni più profonde culturali ed etiche. Abbiamo immaginato che il


passaggio al maggioritario e al bipolarismo garantisse per sé solo il compimento di quello che ho chiamato il processo fondativo della democrazia italiana. (Assemblea dei Cittadini per l’Ulivo, Roma, 17 marzo 2007). Egli, a dire il vero, ha sempre avuto una riserva di fondo nei confronti della proposta di una nuova Costituente, persino nell’uso del termine, pur essendo favorevole a rivedere alcune norme di essa, senza però stravolgerne i principi e il dettato di fondo. Nella Costituente, secondo lui, si celava o si mascherava una radicalità e una deriva che egli non condivideva nel modo più assoluto come ha testimoniato la sua battaglia per la difesa della Costituzione nel referendum del 2006, contro la legge del governo Berlusconi che la modificava radicalmente in senso autoritario. Infine non sottoscrisse il referendum Guzzetta-Segni di modifica dell’attuale legge elettorale, perché, diceva, l’esito di esso sarebbe «destinato a coprire il più spregiudicato trasformismo» con un risultato dunque opposto a quello perseguito. Pur essendo sempre favorevole a un sistema bipolare che favorisse l’alternanza di schieramenti contrapposti, negli ultimi anni era meno persuaso della validità del sistema elettorale maggioritario e si pronunciò per il modello spagnolo che aveva il merito, attraverso il disegno di piccoli collegi, di condurre i partiti al bipolarismo senza accedere a premi di maggioranza e senza clausole di sbarramento o altri marchingegni come il recupero dei resti che falsano il voto. Agostino Giovagnoli, uno dei suoi allievi, («la Repubblica», 26-10-2007) si è chiesto, a proposito della sua azione politica, se si può parlare di sconfitta oppure di fallimento politico e offre una risposta che mi trova d’accordo. In realtà Scoppola «ha perseguito una missione impossibile: cambiare il costume civile e politico degli italiani, facendo leva contemporaneamente su un rinnovato senso religioso e su un profondo spirito laico». Riformatore religioso e riformatore dello Stato e della democrazia, questo è stato Scoppola, che ha candidamente confessato: Sì, la politica mi ha appassionato, ma per quello che non riesce ad essere molto più per quello che è; [cioè] come politica in sé, come disegno per il futuro, come valutazione razionale del possibile e come sofferenza per l’impossibile, come chiamata ideale dei cittadini a nuovi traguardi, come aspirazione a una uguaglianza irrealizzabile che tuttavia è il tormento della storia umana (Un cattolico a modo suo, cit., p. 47).


La libertà esistente, verso una possibile interpretazione dell’originario Intervista a Claudio Ciancio a cura di Bachisio Meloni

Incontriamo Claudio Ciancio, ordinario di Filosofia teoretica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università del Piemonte Orientale e Presidente del Centro Studi filosofico-religiosi Luigi Pareyson (Torino). In questo breve appuntamento con lui, colloquiamo sui più importanti temi che hanno contraddistinto le sue ricerche, in particolare sull’on-


tologia ermeneutica, con specifico riguardo alle questioni della libertà come principio, dell’alterità, del male, dell’esperienza etico-religiosa. D.: Professor Ciancio, desidererei soffermarmi sulla dialettica di indeterminazione e determinatezza (o di infinito e finito, di alterità e identità), sul ruolo predominante della prospettiva ermeneutica, ossia sul mai risolubile rapporto tra verità e interpretazione: sembra prevalere l’impressione che gran parte del discorso riguardante la questione del fondamento difficilmente possa suggerire condizioni in grado di dirimere il dramma inestinguibile sotteso allo sfondo primigenio e ultimo dell’indeterminato. Lei, sulla base della prospettiva pareysoniana de l’Ontologia della libertà (Il male e la sofferenza), facendo di essa il Suo precipuo campo di ricerca, specie in questo Suo ultimo lavoro Libertà e dono dell’essere (Marietti, Milano 2009), mostra di trattenersi ampiamente su come affrontare l’ambivalenza del rapporto, sempre che possa dirsi tale, tra l’originario pensato come essere al di sopra della libertà e l’originario quale primato della libertà al di fuori dell’essere. Quali sono, in sintesi, gli esiti di questa Sua ulteriore prosecuzione di studio?

R.: Non parlerei di ambivalenza del rapporto tra l’originario pensato come essere e l’originario pensato come libertà, anzitutto perché non si tratta di un rapporto ma di un’alternativa. A me pare si tratti dell’alternativa fondamentale che attraversa la storia della filosofia. Se essa si presenta esplicitamente a partire dall’avvento della visione cristiana del mondo, si può dire che in nessun momento sia veramente assente o superata. Se possiamo affermare che il pensiero classico è dominato dal primato dell’essere e quindi della necessità, non si può però non restare sorpresi dall’idea platonica dell’al di là dell’essere, un’idea che anche se non la si vuole interpretare, vedendovi una forzatura, alla maniera di Levinas, è pur diventata, almeno in Plotino, un’apertura verso una possibile interpretazione dell’originario in termini di libertà. L’Uno «non è schiavo né dell’essenza né di se stesso, né l’essenza è principio per Lui, ma egli è principio dell’essenza, che Egli non creò per sé ma, dopo averla creata, lasciò fuori di sé, poiché non ne ha affatto bisogno Colui che l’ha creata» (Enneadi, V, 3, 19). Dunque l’Uno è libero da tutte le cose e da se stesso, dall’essenza e dall’esistenza. Se si può parlare di un suo essere, si deve dire che «il suo essere consiste nel suo creare e, diciamolo pure, nel suo generare eterno» (Ivi, 20). Aggiungerei poi quello che uno dei miei maestri, Nicola Abbagnano, ripeteva spesso e cioè che Platone riconosce all’uomo un’effettiva libertà al di là del destino, come dimostrerebbe il mito di Er. Come nel mondo antico non è assente del tutto il senso della libertà e persino del suo primato, così nel pensiero moderno vi è una persistenza del principio della necessità e una lotta per il primato con il principio opposto, che solo raramente (da Schelling all’esistenzialismo a Pareyson) vede una chiara vittoria della libertà. Vorrei anche precisare che, se si può parlare, come Lei fa, di un essere pensato al di sopra della libertà, non si può dire invece che l’ontologia della libertà affermi il «primato della libertà al di fuori dell’essere». Uno dei cardini teorici del mio libro è proprio il nesso inscindibile di libertà ed essere o, più precisamente, l’affermazione contestuale del primato della libertà e della sua inseparabilità


dall’essere. Una libertà che non passa all’essere è una libertà che rifluisce nel nulla o, come dice Pareyson, implode. Mi rendo ben conto che si tratta di un rapporto paradossale, ma non c’è altro modo di pensarlo, perché da un lato, come intuì Schelling, la libertà o è al primo posto o è perduta per sempre, e d’altro lato una libertà senza l’essere è pura evanescenza. Questa dialettica di libertà ed essere è, come Lei dice, una dialettica di indeterminazione e determinatezza, perché la libertà è aperta a possibilità opposte e quindi, in questo senso indeterminata, ma non può restare in questa indeterminazione senza dissolversi e quindi esige il passaggio alla determinazione, la scelta attraverso la quale si pone in un modo determinato e così assume l’essere. Tale dialettica non riguarda soltanto l’originario, perché ogni manifestazione dalla libertà, per quanto determinata, conserva in sé la radice della libertà, che ha sempre il carattere dell’inesauribilità, e ciò comporta che si possa configurare in infiniti modi. Ciò risulta più chiaro proprio nel rapporto tra verità e interpretazione. La verità è inesauribile in quanto è la manifestazione dell’originaria libertà, non è dunque pura indeterminazione, ma è l’originaria libertà che si è posta come esistente. Ma questa libertà esistente, a cui possiamo dare il nome di Dio, contiene in sé l’inesauribile ricchezza di potenzialità dell’originario e quindi è inesauribilmente interpretabile.

D.: Ritengo non si possa fare a meno di giungere al porle la fondamentale questione su quanto la meontologia pareysoniana sia sì un’“ontologia della libertà” ma tale in quanto “ontologia del nulla” (La libertà e il nulla, quale titolo per un conseguente libro previsto da Pareyson). Sulla base di quanto Lei afferma a proposito del nesso inscindibile di libertà ed essere quale presupposto inesauribile di ricchezza senza fondo, Le chiedo, in che termini l’impersonale neutralità che sostiene la libertà esistente può aggiungere qualcosa di più profondamente significativo nel superamento dell’equivoco originario e dell’abissalità? Si tratta certo di uscire da tale senso di equivoca indeterminatezza, e come Lei sostiene ricavandolo sulla base della posizione critica levinasiana dell’altrimenti che essere – per altro anch’essa non del tutto scevra da elementi di problematicità – è equivocità che, è il caso di Heidegger, presenta conseguenze moralmente e spiritualmente devastanti.

R.: La critica di Levinas alla filosofia di Heidegger intesa come filosofia del Neutro (contenuta peraltro in Totalità e infinito) intende questo Neutro come l’essere o, più precisamente, come natura impersonale che nega l’alterità e la responsabilità. Queste sono le conseguenze devastanti. Ma l’abissalità della libertà è altra cosa. Mentre il Neutro dell’essere unisce, dispone e governa il bene e il male, come Heidegger mostra chiaramente nella sua interpretazione di Schelling, l’abisso della libertà significa “soltanto”, e più indietro non possiamo retrocedere, che la radice dell’essere è la libertà e che dunque l’essere poteva non essere e poteva essere altrimenti e che è affidato alla libertà potendo ricadere nel non essere. La meontologia va pensata nel senso che il nulla originario non è il nulla posto, reale, ma l’alternativa non ancora decisa fra l’essere e il nulla, un’alternativa tuttavia già da sempre superata, dove il “già da sempre” non


significa affatto che l’essere è necessario o è divenuto necessario, ma che la libertà che ne è la radice, come direbbe Schelling, “imprepensabile”. Nell’ontologia della libertà il non essere, in quanto libertà, non è né l’ombra dell’essere né ciò che sta prima dell’essere o meglio, se possiamo dire che lo precede, è solo nel senso che ne è la radice e, come la radice, non vive senza la pianta, e tuttavia, essendone la radice che lo alimenta è la causa del suo crescere o del suo seccarsi.

D.: In questa alternativa o compossibilità radicale sottesa all’idea di ontologia della libertà è come vivere l’inesausto tentativo di determinare un “inizio” pur rimanendo di continuo sollecitati dal tener testa a un’“origine” quale ulteriore sviluppo in direzione dell’immemorabile; è il sempiterno e vicendevole transito dalla determinazione del principio allo smarrimento di fronte alla prospettiva dell’abisso così come al tempo stesso dall’indeterminatezza di uno sfondo abissale alla continua e forse inesauribile tendenza al processo esistenziale del principio, o di un sempre invocato e auspicabile “nuovo inizio”.

R.: La questione dell’inizio è la questione della temporalità, che io credo non possa essere posta adeguatamente se non in un’ontologia della libertà. L’inizio del tempo e ogni nuovo inizio nel tempo, se sono veri inizi, non possono essere pensati se non come imprevedibili, infondabili, come un salto. Ed è solo in virtù di questi inizi che è possibile istituire una vera distinzione di tempi: un nuovo inizio separa il presente dal passato e la possibilità di un altro inizio istituisce il futuro. Anche il primo inizio, secondo la grande intuizione di Schelling, è l’istituzione di un passato, in questo caso un passato eterno o un’eternità come passato, l’origine immemorabile di cui Lei parla. Un tempo così concepito è un tempo delimitato e tagliato dall’eternità. I salti che distinguono i tempi non appartengono infatti al flusso del tempo ma lo interrompono, non provengono dal tempo ma lo costituiscono. A prima vista può sembrare sorprendente questa interpretazione degli atti discriminativi della libertà in termini di eternità. Diventa meno sorprendente se pensiamo che è stato Kant, prima di Schelling e di Kierkegaard, a metterci su questa strada quando ha pensato gli atti della libertà come posti fuori del tempo, atti noumenici.

D.: Lei mostra di far leva, anche se con l’intento di attraversarla, sulla critica levinasiana al “lasciar essere” in Heidegger, secondo la quale la nozione di libertà non è mai l’abisso imprevedibile e incontrollabile; semmai è sempre subordinata determinazione rispetto al senso di responsabilità che l’altro mi suggerisce e mi invita a ritenere. In che termini, chiedo, Lei ritiene che la libertà, pensata quale prospettiva verso una possibile interpretazione dell’“originario”, uscendo dallo sfondo indistinto della sua abissalità, e traducendosi nei ‘sentieri boschivi’ della libertà esistente, sia tale se pensata nella schellinghiana, e non solo, “forma paradossale dell’amore”? In cosa consiste il paradosso da Lei rilevato, specie alla luce della natura umana, intendo, dinanzi all’umanità dell’eros mai disgiungibile dall’altrettanto umana disposizione all’impulso della distruzione e


dell’autodistruzione? La Sua è ricerca di una prospettiva veritativa, nel pieno rispetto di quanto peraltro sostiene l’ermeneutica contemporanea, alla quale, tuttavia, considerate le sempre più inestricabili diramazioni del senso, potrebbe interessare più che altro, e per così dire, il processo di raggiungimento dello scopo, non già lo scopo stesso.

R.: Il paradosso dell’amore consiste nella sintesi senza mediazione di alterità e unità. L’amore è attraversamento dell’alterità irriducibile ed anzi ne è costituito e come tale può presentarsi soltanto come qualcosa di assolutamente imprevedibile e, in ultima istanza, incomprensibile, non mediazione e integrazione delle differenze ma piuttosto grazia che armonizza senza costringere, possibilità di un dispiegamento non dissipativo delle differenze e del loro concrescere. L’amore ha lo stesso rispetto dell’alterità che costituisce la sostanza della relazione etica e tuttavia è anche reciprocità, una reciprocità desiderata ma non richiesta. L’amore è possibile perché è fondato sull’unità originaria, che rende pensabile e realizzabile la relazione reciproca, la corrispondenza, ma ciò senza ridurre l’impegno etico, che resta la condizione prima dell’amore, ed anzi in certo modo rafforzandolo in quanto gli si apre una prospettiva di piena realizzazione della relazione; una relazione – va ribadito – che non può essere pensata se non in termini paradossali, perché sintetizza, senza poter esibire la mediazione, unità e alterità. Penso che effettivamente la libertà si compia nell’amore, perché l’originario come libertà è posizione di alterità, ma l’altro della libertà come essere o come altra libertà può diventare ostacolo e opposizione, e però può anche ritrovare l’unità da cui proviene, ed è evidente che solo nell’unità, cioè nell’essere riconosciuta e accolta, la libertà è sostenuta e potenziata. In questo senso è chiaro che, come Lei suggerisce, l’impulso distruttivo e autodistruttivo nasce dalla stessa radice dell’amore, cioè dall’esigenza di unità, che però in questo caso viene soddisfatta attraverso la negazione violenta dell’alterità e diventa così un’unità vuota.

D.: Percependo il senso, o il “peso” e il “tormento” della loro libertà, come inscritta nell’inevitabile paradigma di un destino o come originariamente protesa sul nulla, nel limite estremo della propria esistenza, alcuni personaggi letterari (specie in Dostoevskij, l’autore prediletto da Pareyson, la cui prospettiva culturale e filosofica è da lui percepita quale il luogo ideale di quel “vincolo originario fra la libertà e il nulla”) è come se cercassero di intuirsi e bramassero di presentarsi a noi quasi con l’estrema necessità e l’urgenza di autodeterminarsi sempre sul filo stesso della propria morte, come se il senso dell’esperienza propria di ognuno risiedesse sempre sulla linea di un margine, sia esso limite sia esso confine; e senza che questo più incessante e disperato bisogno di determinarsi sotto forma di esperienza di vita debba per forza di cose coincidere con il disegno o la fatalità di una formula esatta, ossia col tradursi in un principio, esso sì davvero, di morte.

R.: A mio parere i personaggi di Dostoevskij non si determinano tanto sul filo della propria morte quanto piuttosto sul filo della li-


bertà attraverso la quale si pone la drammatica alternativa tra bene e male. Non c’è in Dostoevskij un vero pathos della morte, ma piuttosto un pathos del male (e del bene). Penso a Ivan disposto a trent’anni a rovesciare la coppa della vita o a Kirillov che si dà la morte per affermare una libertà assoluta e sostituirsi a Dio. Penso in generale al fatto che il male non nasce dall’angoscia di morte ma dalla rivolta, di cui le grandi figure dostoevskijane sono portatrici. Capisco che nel nostro clima culturale ciò risulti quasi incomprensibile, ed è anche questo che rende inattuale l’ontologia della libertà, per la quale il vero sfondo non è il dramma della morte o anche del limite dell’uomo o meglio è anche questo ma a partire dal dilemma etico-religioso del bene e del male, dell’obbedienza a Dio o della ribellione. Il mio maestro, Pareyson, mi diceva che la morte era per lui angosciante in quanto momento del giudizio di Dio, non, s’intende, nel senso banale della paura dell’inferno, ma nel senso della drammatica manifestazione della nostra responsabilità e della nostra lontananza dalla verità.

D.: Dono, o darsi, della libertà, quasi a suggerire con nettezza l fanteriorità o lo sfondo ideale per ogni possibile determinazione di senso rispetto a quello della dialettica fra essere e nulla. Siamo cioè di fronte, come Lei sottolinea, a un più consapevole e deciso primato dell fetico in rapporto all fontologico; al dubbio amletico o leibniziano del “perché c’è qualcosa e non piuttosto il nulla?”, dovremmo anteporre un più edificante dubbio jobico sul gperché c fè il male e non piuttosto il bene? h, specie ancor più quando, in assenza di libertà, o nella piena pervasione di una gpassività radicale h del soggetto, l fessere, come già a suo tempo esplicitato da Levinas sulla base della lettura dell fopera blanchotiana, è percepibile, più che in chiave di chiarore e apertura, nel clima di deprivazione dell f gIl y a h o di svilimento del gneutro h.

R.: Forse più che di primato dell’etico in generale parlerei di primato dell’esistenziale, di un’esistenzialità certo caratterizzata in senso etico-religioso, un primato nel senso di punto di partenza originario della nostra comprensione dell’essere. Un semplice primato dell’etico in generale porta alle conseguenze di Levinas, un pensatore che io amo moltissimo, ma di cui non condivido l’espulsione dell’ontologia dalla prospettiva filosofica. Perché l’etica restringe la prospettiva all’ordine delle relazioni umane finendo per usare i concetti religiosi e ontologici come semplici metafore, ma un’etica senza ontologia è un’etica non solo senza fondamento ma esposta alla smentita dell’ordine ontologico. È quel che aveva capito benissimo Kant, a cui Levinas si richiama a riguardo del primato della ragion pratica. Kant aveva capito che occorre allo stesso tempo affermare l’autonomia dell’etica, altrimenti ne va dell’assolutezza della libertà, e ancorare l’etica all’ontologia, com’egli fece attraverso la dottrina dei postulati, che impedisce di porre la ragione in contraddizione con se stessa, come accadrebbe se vi fosse originaria e totale estraneità fra la ragion teoretica e la ragion pratica o fra l’ordine dell’essere e quello del dover essere. Naturalmente dire che l’etica richiede l’ontologia lascia ancora impregiudicato di quale ontologia si tratti. Ritengo che solo un’ontologia della libertà garantisca l’ordine etico, che è quello della libertà finita, libertà


che, quando sia sottoposta a un ordine ontologico della necessità, finisce inevitabilmente per essere negata o meglio ridotta ad apparenza. Se invece l’originario è esso stesso libertà, allora la libertà finita è posta come libertà e in rapporto libero con l’originario stesso, il che non esclude che essa sia sottoposta, proprio perché finita, a norme e condizionamenti, che tuttavia non s’impongono senza che essa liberamente vi reagisca, di modo che in nessun modo possiamo considerarla determinata. Ancora un’osservazione sulla domanda metafisica fondamentale, da Lei richiamata. Quella domanda nasce dall’angoscia determinata dalla consapevolezza che l’essere è esposto alla possibilità della nullificazione. Ma l’angoscia in ultima istanza si giustifica soltanto se la possibilità del nulla è male, cioè è una possibilità che può ma non deve essere. Se è una necessità o una casualità, vuol dire che è inscritta nella costituzione stessa dell’essere e non c’è ragione di considerarla negativamente. E infine che la domanda metafisica sorga dall’angoscia è una conferma della radice esistenziale della filosofia.

D.: Ancora a proposito di una sempre più viva attenzione da parte dei filosofi al linguaggio della poesia – era il lamento di Pareyson –, ritiene sia ancora così mal disposta la ragione filosofica a tollerare l’incandescenza e la virulenza di alcuni temi essenziali, quali il male e la sofferenza, che via via sembrano sottrarsi ad ogni possibile volontà di comprensione?

R.: Sì, penso che sia davvero maldisposta più ancora di come lo è stata in passato, quando pure dominava la tendenza a un’interpretazione riduttiva, e quindi evasiva, del problema del male, ma almeno lo si affrontava. Oggi la rimozione è più radicale e la ragione mi sembra abbastanza evidente: si tratta della rimozione dell’esperienza della libertà nella sua dimensione più propria e inaggirabile, cioè quella morale. La rimozione della libertà morale si accompagna alla medicalizzazione, tecnicizzazione e politicizzazione della cura del male, un male ricondotto a cause di orsine psico-fisico o al massimo sociale. Ma l’attribuzione del male a fattori sociali, che già criticava Dostoevskij e che era ancora molto diffusa qualche anno fa, sembra ora arretrare, come del resto è inevitabile in una società atomizzata. Medicina, psicologia e neuroscienze sembrano meglio attrezzate ad affrontare il problema. Certo penso anche che dietro alla sua rimozione ci sia anche la convinzione, più o meno implicita, della sua insolubilità, convinzione che facilmente può dissuadere dall’affrontarlo. Ma questo è il frutto avvelenato di una ragion pigra, che si riveste magari di una pietà religiosa pronta ad arrendersi subito davanti al mistero. Ora va detto che è indegno della ragione arrendersi, non perché non debba riconoscere ciò che, come direbbe Pascal, la sorpassa, e non debba ammettere che non vi è di tutti i problemi una soluzione razionale, ma perché invece le è sempre possibile un approfondimento e una più ricca comprensione del problema. Ma questa è una cosa che solo una ragione ermeneutica può veramente accettare.


Alternances de la métaphysique – Essais sur Emmanuel Levinas, Paris, Galilée, 2010, par Joseph Cohen1. Entretien avec Stéphane Habib2 Saluons d’abord l’importance de ce livre de Joseph Cohen, Alternances de la métaphysique – Essais sur E. Levinas (la force de celui-là ne peut nous faire oublier l’importance de quelques autres allant de Catherine Chalier à Jacques Derrida en passant par Didier Franck) qui de Levinas sait dire autre chose que ce qui ne s’y trouve pas écrit. La puissance de l’écriture de Joseph Cohen est telle qu’à simplement se déplier, elle fait voler en éclats nombre de préjugés – et ils sont légions – concernant la pensée d’Emmanuel Levinas. C’est qu’il est par lui d’emblée inscrit, dès le titre de l’ouvrage, dans l’histoire même de la philosophie, et dans ce que cette histoire a de plus radicale, c’est à savoir ce qui s’appelle « Métaphysique ». 1 Joseph Cohen est Enseignant-chercheur en philosophie contemporaine au University College de Dublin. Il a publié deux ouvrages sur le philosophe allemand GWF Hegel intitulés Le spectre juif de Hegel (Paris, Galilée, 2005) et Le sacrifice de Hegel (Paris, Galilée, 2007). Il a également publié un ouvrage sur Emmanuel Levinas intitulé Alternances de la métaphysique. Essais sur E. Levinas (Paris, Galilée, 2010). En outre, il a co-dirigé plusieurs collectifs importants, dont Judéités. Questions pour Jacques Derrida (en collaboration avec R. Zagury-Orly, Paris, Galilée, 2003), Heidegger. Le danger et la promesse (en collaboration avec G. Bensussan, Paris, Kimé, 2006) et Heidegger. Qu’appellet-on le lieu ? (en collaboration avec R. Zagury-Orly, Les Temps Modernes, Paris, Gallimard, no. 650, juillet-octobre 2008.) 2 Stéphane Habib est psychanalyste et philosophe. Tient un séminaire avec Françoise Gorog pour l’IHEP consacré à « Jacques Lacan dans ses rapports à la philosophie contemporaine…et inversement », dirige avec Françoise Gorog la revue Corrélats. A notamment publié La responsabilité chez Sartre et Levinas, et Levinas et Rosenzweig – philosophies de la révélation (Paris, P.U.F, 2005)


Donnant un tel départ à son texte c’est toutes les interprétations en termes de gentil humanisme, de nouvelle petite morale, ou encore de nouvelle théologie juive qui se trouvent barrées, empêchées, reléguées au rang de facilités. Surgissent alors les figures de Hegel, Schelling, Heidegger, Derrida, Blanchot et quelques autres. Avec Alternances de la métaphysique, Joseph Cohen redonne à lire Emmanuel Levinas dans toute sa subversion, avec le tranchant de son questionnement et le vif d’une langue jusqu’à lui inouïe. S.H. Vous donnez comme titre à votre dernier livre Alternances de la métaphysique. On peut alors penser y lire un certain engagement, le vôtre d’une part, dans la philosophie, et partant, celui que vous indiquez de Levinas dans la tradition de la métaphysique. Voilà qui est de prime abord très singulier puisque la très grande majorité des commentaires de Levinas se réduisent à en dire que l’être n’est pas sa question. Pouvez-vous alors nous faire entendre comment Levinas s’inscrit dans la philosophie, son histoire, et puis dans le débat philosophique le plus contemporain. J.C. Il faudrait tout d’abord ouvrir en disant ceci – que Levinas a très bien compris, vu, interprété – qu’en philosophie on ne sort jamais de la métaphysique. La métaphysique, pour ainsi dire, est toujours notre lieu, et donc nous y sommes déjà engagés, exposés, rivés. Or cela ne saurait vouloir dire qu’il n’y a pas, dans la métaphysique, de différences, de dissemblances ou de césures, voire des « révolutions » qui renversent ou bouleversent l’orientation de son histoire. Bien plutôt, c’est marquer que toutes les gestes qui s’arment de la prétention de sortir de la métaphysique ne font que la réaffirmer et la reconstituer. Plus précisément, que de chercher à sortir de la métaphysique, c’est cela même qui constitue la métaphysique. Le titre de cet ouvrage, Alternances de la métaphysique, trouve ainsi sa première explicitation : incessamment la métaphysique est alternée. Ce qui veut dire qu’en se signifiant, la métaphysique est toujours orientée et tendue vers l’autre qu’elle-même. Et Levinas se situe d’emblée dans cette infinie alternance de la métaphysique. Il s’y situe en révélant au cœur de la métaphysique une inflexion radicale, à savoir qu’à même le déploiement de sa question fondamentale, la métaphysique est toujours déjà exposée à un événement irréductible au sens et hétérogène à l’essence qui s’y dicte – un événement lui commandant de toujours dire autrement ce qui s’y dit. Voilà l’exceptionnalité de ce rapport : la métaphysique est l’histoire de l’identité ou de la mêmeté, mais celle-ci n’est possible que si elle est déjà éveillée à et par une altérité événementielle et intraitable, nondialectisable et non-reconnaissable par cela même qu’elle éveille. Ainsi, le rapport que Levinas maintient et entretient avec l’histoire de la métaphysique, rapport signifié dans la distinction qu’il introduit dans le discours philosophique entre le « Dire » et le « dit » ou entre l’« autrement qu’être » et l’« être », peut alors être pensé comme « inconditionnalité ». Ce terme vient signifier la radicalité du rapport entre Levinas et l’histoire de la métaphysique. S’y trace une toute autre approche de l’histoire de la métaphysique. Une approche où l’autre de la métaphysique, éveillant la métaphysique tout en lui étant irréductible, ne cesse à la fois de suspendre et d’interrompre


le principe régulateur de son histoire, à savoir celui de rechercher et d’établir le fondement ultime de ce qui est. Levinas ouvre ainsi à un rapport inédit où la métaphysique ne cesse de proliférer en tant que recherche et quête du fondement mais où cette prolifération est toujours déjà exposée à ce qu’elle ne peut approprier. Disons même, que la métaphysique ne cesse de proliférer parce qu’elle n’arrive jamais à approprier ou à réapproprier cela même qui l’anime, l’inspire, l’insuffle. Comme si la métaphysique n’arrivait jamais – mais c’est précisément cela qui la maintiendrait – à se réconcilier en et pour elle-même. C’est pourquoi en relisant la tradition philosophique, Levinas ne sollicite jamais une extériorité pure à partir de laquelle il la questionnerait, la solliciterait, l’interprèterait. Bien plutôt, il engage ce que l’on pourrait nommer une dé-fondation de la question fondamentale de la métaphysique en habitant le déploiement même de sa structure. Ainsi, en habitant la métaphysique, il témoigne à la fois de son sens et de son essence tout en y révélant cela même que ce sens et cette essence ne pourraient jamais fonder : l’impensable de la métaphysique. Ce que Levinas nomme l’Illéité – c’est-à-dire l’altérité d’un passé qui n’a jamais été et ne peut jamais être vécu dans la forme de la présence. En ce sens, l’Illéité ne cesse d’ébranler et de déborder la détermination du sens de l’être comme présence. C’est dire que se profile toujours dans la métaphysique la trace d’un Dire radicalement hétérogène au sens de l’être qui aussi et en même temps, ambigument et aporétiquement, appelle l’être à être dit. Voilà pourquoi la pensée de Levinas travaille à énoncer en grec ce qui vient d’un ailleurs que la Grèce. Levinas l’a maintes fois répété. Il s’inscrit dans le lieu philosophique en y inventant des performativités venues d’une exposition à l’autre impensé et impensable du Logos. Comment penser ce rapport ? Telle est la question levinassienne. Elle commande qu’on pense l’histoire de la métaphysique depuis une certaine idée de la justice hyperboliquement irréductible à la vérité. Ce qui signifie ouvrir à un rapport éthique avec la métaphysique, disons une certaine façon d’être fidèle à la métaphysique en lui étant aussi infidèle, en lui insufflant cela même qu’elle ne saurait encore comprendre ou faire sienne. 2. Votre livre dégage quelque chose comme une position voire un structure propre à la philosophie d’Emmanuel Levinas, une manière d’être et dedans et dehors en même temps, un « au-delà » qui est un « dans ». Structure par laquelle se brouillent les oppositions soutenant communément la pensée. Structure déstructurante en somme dont les affinités avec la déconstruction sont, semble-t-il, importantes. Ainsi Levinas échappe à toute prise définitive et conséquemment ne peut que déranger. Quel est l’impact d’une telle insaisissabilité pour la pensée ? Est-ce cela qui permet à Emmanuel Levinas de travailler et avec la philosophie et avec la littérature et ce sans contradiction ? Parce qu’en effet, il est important de rappeler que Levinas a livré quelques textes dans lesquels les fils de la philosophie et de la littérature font noeud. Je pense entre autres à Celan, Jabès, Proust et bien entendu Blanchot auquel vous consacrez l’impressionnant dernier texte de votre livre : « Prier ». La question est judicieuse à plus d’un titre. D’abord parce qu’elle souligne fort justement une certaine filiation entre la déconstruction


et ce que Levinas appelle l’éthique. Je tiens à cette filiation. Non pas parce qu’elle isolerait Derrida et Levinas dans une position contrephilosophique uniquement concentrée sur l’altérité et l’oubli de l’altérité dans la tyrannie logo-centrique de la pensée occidentale, mais bien plutôt parce qu’on peut signifier, depuis cette filiation, un rapport inédit, engageant, résolument tournée vers ce qui dans l’histoire de la philosophie lui demeure encore insoupçonné et qui la porte vers un avenir où incessamment l’envoi du philosophique, sa question propre et originaire serait toujours déjà mise en question et donc interpellée à être autrement formulée. Comme si ce qui s’ouvrait dans l’écriture de Levinas, de Derrida, c’était une mise en question de la question fondamentale de la métaphysique – une mise en question qui en retour constitue la question fondamentale de la métaphysique non plus simplement en visée mais aussi en adresse. C’est là une « structure » inédite du langage qui se promet. Or il faudrait ici exposer rigoureusement cette filiation en commençant par rappeler que ce que Levinas nomme la signifiance, cela même qui définit le pour-l’autre, est toujours dans l’être au-delà de l’être. Cette modalité, l’« au-delà dans », ouvre non pas à un horizon de signification ou d’intentionnalité ni non plus à ce que l’on appelle, en phénoménologie, un « monde ». Bien plutôt, elle ouvre à ce que j’appellerais la réitération d’une aporie où la réponse, ce qui veut toujours dire pour Levinas la responsabilité, signe toujours une disjonction du temps-présent. En effet, la possibilité de la réponse est ici entièrement rivée à l’impossible de la présence, c’est-à-dire à l’impossibilité pour cette réponse responsable de se donner dans la présence du présent. Ainsi, pour Levinas, la possibilité de la réponse responsable est toujours déjà travaillée par une inconditionnalité – à savoir, l’impossibilité de se faire présence. Et Levinas ne cesse en effet de réitérer cette aporie. La réponse est toujours décrite comme l’intimité même du sujet – non pas donc comme un accident qui arriverait à un sujet, mais comme une « structure » qui précèderait la subjectivité en débordant de toutes part son identité à soi. D’où la question : comment penser cette réponse dont le sujet ne serait même pas responsable et où la subjectivité ne peut plus se poser soimême dans l’être sans être déjà commandée, interpellée, élue pour l’autre ? Cette question ouvre à un abîme au cœur de la subjectivité, un abîme où celle-ci ne saurait se résoudre dans l’absolu de la liberté, de la conscience ou du cogito comme modalités ontologiques de son autonomie. La subjectivité ici est happée hors d’elle-même et donc ab-solue parce qu’elle a toujours à répondre et qu’elle est déjà en retard sur sa réponse en ce qu’elle demeure commise avec l’Autre irréductible et hétérogène à sa visée qui l’élit avant qu’elle soit à même de l’élire. Ainsi, toujours avant l’autonomie et déjà en retard sur l’appel de l’autre, il y a une disposition singulière du sujet pour-l’autre. Ce qui signifie que la réponse est toujours déjà en infinition, comme l’écrit Levinas, c’est-à-dire inaccomplie et an-archique, sans fin et sans commencement, rivée à ne jamais pouvoir se dire et s’affirmer en et pour soi-même. Toujours la réponse ne se donne que là où son don est gardé et sauvegardé par l’impossibilité de se faire présence. Et donc en rompant, en césurant, en perçant irrémédiablement l’horizon temporel de la phénoménalité, la réponse ouvre à une idée de justice qui précède


toujours la vérité. Une justice qui commanderait toujours la défondation, la désarticulation, lâchons le mot, la déconstruction du temps en en appelant à une réponse impossible à comprendre dans et par l’ordre du phénomène. Or cette idée de justice hyperbolique, c’est très précisément ce qui œuvre dans la philosophie de Levinas. Et c’est aussi ce qui, me semble-t-il, demande à être pensé : une éthique de la déconstruction. Je me garde ici de m’enfoncer trop rapidement dans ce qui pourrait ressembler à un slogan. Mais il me semble que cette idée de justice qui hyperboliquement réitère l’aporétisation de tout horizon de signification ou d’intentionnalité, arrive à toute réponse. C’est là peut-être la seule et unique, singulière et insubstituable chance que vienne à l’idée quelque chose comme l’éthique. Une éthique cependant qui n’aurait plus rien à voir avec l’autonomie de la loi morale ou bien avec la reconnaissance dialogique dans l’élément universel d’une communauté de sens, mais qui chaque fois tiendrait à éveiller l’unicité d’une responsabilité immémoriale adressée à l’altérité irréductible à la visée ou à l’intentionnalité, à l’interprétation ou à la catégorisation. D’où la possibilité de faire parler la philosophie autrement et donc, peutêtre aussi, littérairement. 3. Pour finir il me faut vous demander si ce livre, Alternances de la métaphysique – Essais sur Emmanuel Levinas, est à inscrire dans la suite de vos deux livres précédents : Le spectre juif de Hegel et Le sacrifice de Hegel ? Si oui, comment lire cette inscription ? Levinas y occupe-t-il une place particulière voire stratégique ? A quoi alors sera consacré votre prochain ouvrage ? Comment ne pas finir sur l’à-venir dont vous rappelez que Blanchot en dit qu’il est pour l’écriture ce qui reste « à dire » ? Que vous reste-t-il à dire alors ? Merci pour cette question. Car elle fait jouer une particularité très difficile à définir. Elle fait jouer une certaine trace qui, loin de se constituer en question fondamentale, ne cesse de travailler la lecture toujours active, l’interprétation radicalement plastique et le questionnement sans relâche, infatigable, quasi-obsessionnel que j’essaie – à partir de Hegel et de Levinas, mais aussi de Nietzsche, de Heidegger et de Derrida – d’inscrire dans l’histoire de la métaphysique. Ce qui me travaille c’est, en vérité, le mouvement essentiel de cette histoire là où ce même mouvement révèle, non pas contre lui-même, mais en et par lui-même un supplément impensé, voire un reste ou un excédant impensable et insoupçonné. Comme si l’histoire de la métaphysique se constituait précisément dans et par cette a-logique de la supplémentarité. C’est là ce que Derrida nommait la spectralité et que je tente, à ma manière, d’éveiller, de réveiller, d’animer dans et par les textes de la tradition philosophique. Comme si l’histoire de la philosophie disposait encore de ressources, de potentialités, de puissances ou de forces toujours au-delà de ce que cette tradition s’emploie à signifier et qui ne cesseraient de s’infiltrer, de s’écrire, de se transcrire dans ladite tradition. Et ce geste de « tourner autour », que j’employais dans les deux études consacrées à Hegel, ne cesse en effet d’encercler le corpus de cette tradition en y faisant voir le déploiement essentiel


de son orientation et en le forçant, ce même corpus, à toujours produire plus que ce qu’elle présente ou représente. Or ce qui se produit à la fois au-delà de la tradition philosophique tout en travaillant entièrement dans et comme l’essence de cette tradition, c’est une puissante et inattendue figure du sacrifice. Pourquoi ? Car le sacrifice témoigne doublement, ambigument, obliquement à la fois du sens de cette histoire qui se constitue par une relève réappropriatrice où ce qui est nié est aussi gardé, sauvegardé, préservé dans l’idée totalisante d’une essence spéculative tout en marquant la césure, la coupure, la rupture de cette logique sacrificielle en ouvrant à une possibilité où se profile et se démultiplie la modalité innommable, irreprésentable, insaisissable d’un événement de pensée délié, détaché, libéré – un événement de pensée qui aurait sacrifié, sans relever dans son sacrifice, le sacrifice. Cet événement de pensée, je le cherche et le recherche, à vrai dire je le traque dans toute pensée, écriture, témoignage. Et c’est précisément, aussi rigoureusement que possible, cela même qui occupera mes recherches. C’est dire que toujours et partout je sonde le double-instant où à la fois l’histoire de la philosophie révèle, en son intimité propre, sa compulsion au sacrifice, sa puissance de porter en elle-même, l’élevant à une plus radicale sublimation, sa propre mort et où cette même histoire ne se voit pas mourir, ne retrouve pas le lieu de son sacrifice ni le temps de se reconnaître dans les bordures ou les frontières de son immolation. Je ne saurais dire ce qui m’attire et me tient, me retient, m’empêche de fixer mon regard ailleurs que sur cet instant que l’on pourrait aussi nommer celui d’une mort de la philosophie. Peut-être est-ce précisément l’alternance infinie, indomptable, a-dialectique et a-téléologique du génitif : comme si demeurer en philosophie c’était spéculer à la fois à partir du lieu où sa mort lui appartiendrait depuis toujours – là où il appartiendrait à la philosophie de s’y penser, de s’y résumer, de s’y reconnaître, de s’y accomplir – et en même temps penser à une autre mort qui, lui ressemblant tout en lui étant radicalement hétérogène et irréductible, commanderait une interruption, une suspension, c’est-à-dire aussi une décision de mettre à mort la mort, et ce sans laisser la pensée se happer par le risque ou la tentation de se relever incessamment à une profondeur plus absolue cela même qu’on abandonne. Ce qui veut peut-être dire qu’il faille s’inscrire en philosophie en y transcrivant toujours l’instant où elle perce et transperce le philosophique. Ou encore, qu’il faille lire l’autre de l’écriture dans l’écrit, parler la langue de l’autre en parlant la sienne, écrire plusieurs textes à la fois – inconditionnellement. 4. Il va de soi que je dois me faire mentir moi-même et, après vous avoir entendu dans cette réponse, reprendre le fil de mes questions, ou bien n’est-ce pas du tout me faire mentir ou me contredire, mais très précisément faire suite à ce que je crois déceler de l’inépuisabilité, de l’interminabilité du reste de ce qui « reste à dire ». Et partant me voilà dans l’obligation, contraint par la structure même de ce qui se donne à penser dans ce que vous écrivez, de relancer la question. Aussi y va-t-il justement du reste dans la question qui ne peut manquer de venir dès lors qu’on entend revenir sans cesse, dans ce que vous dites et écrivez, quelques vocables, quelques philosophèmes ou


plutôt quelques motifs que la force de la répétition pousse à qualifier d’obsédants : sacrifice, filiation – difficile de ne point se laisser aller au trop évident sacrifils – spectres, reste, tradition. J’arrête là la série en insistant sur le sacrifice et la filiation qui me font penser bien évidemment à cette question de la fidélité que vous traitâtes avec Raphaël Zagury-Orly lors du colloque Judéités – Questions pour Jacques Derrida. Cela, ce qui peut-être se joue dans ce que vous ne cessez de creuser, eh bien votre entrée dans l’histoire de la philosophie, histoire hantée dites-vous, histoire que dans ma langue je pense schizée ou divisée, votre dernier livre dans la variété de ses textes l’illustre. En effet, voilà surgir dans une séquence classique allant de Kant à Hegel, un texte – seul texte existant intégralement consacré à cette question, à ma connaissance tout du moins – dont la problématique est articulée autour des rapports de Schelling à Levinas. Quelle histoire ! Quelle histoire ? Quelle histoire de la philosophie ? Pouvez-vous de ce traitement singulier de la tradition que je crois pouvoir relever en vous lisant, expliquer, montrer ou insister sur cette manière qui est la vôtre de faire avec les textes, de lire et d’écrire. De lire c’est-à-dire d’écrire puisque, ce que Foucault écrivait à Derrida, il me semble qu’on ne peut que vous le répéter aujourd’hui : « Sans doute l’acte premier de la philosophie est-il pour nous – et pour longtemps – la lecture : la tienne justement se donne avec évidence pour un tel acte. C’est pourquoi elle a cette royale honnêteté. » Au fond, cette trop longue question en contient au moins deux auxquelles vous pouvez répondre comme il vous plaira, bien sûr, qui, ces deux questions, se tiennent et s’enlacent peut-être l’une avec l’autre, mais c’est à vous maintenant de nous le dire : quid de la fidélité, de la trahison, du sacrifice et de la filiation et comme philosophèmes (premièrement) et comme traitement à la fois radical et singulier de et dans l’histoire de la philosophie qui est la vôtre (deuxièmement) et dont Alternances de la métaphysique est un nouveau chapitre, une nouvelle partie sans doute, ô combien puissante et inventive – dont l’écriture, à vous lire et relire on le comprend avec la force de l’évidence, ne fait que commencer ? Votre double-question n’est pas sans évoquer une multitude d’entrées possibles pour tenter, à ma manière, de l’approcher. Celle-ci marque une certaine impossibilité de clore l’entretien et donc engage, nous engage, dans ce que Blanchot nommait l’« entretien infini » autour de ces « thématiques » qui incessamment reviennent dans tout travail à la fois de lecture de la tradition philosophique, puis – mais c’est évidemment sans chronologie – d’écriture, de ré-écriture de cette même tradition où – c’est en tout cas ce à quoi je m’essaie – l’événement de la différence vient surprendre, et ainsi suspendre son histoire. D’où la nécessité de la répétition. Je crois fermement en cette nécessité de répéter les mots, le lexique, les concepts, les orientations et les directions déployés dans notre tradition à même notre écriture. Et donc d’emmêler au point où elles deviendraient indissociables les deux expériences qui façonnent notre mémoire philosophique, la lecture et l’écriture. En ce sens, je perpétue inlassablement la volonté d’écrire en lisant et de lire en écrivant,


c’est-à-dire de ne jamais dissocier les deux en cherchant à penser une autre expérience à la fois de la lecture comme de l’écriture. En cherchant donc à plier « écriture » et « lecture » vers le creux d’un « instant » où chaque fois singulièrement nous répondons depuis l’histoire de la philosophie, en reprenant et en réitérant les mots de son lexique depuis un ailleurs où se déjoue toujours la dualité entre « écrire » et « lire ». Vers où nous projetterait cet instant ? En une « position » inattendue ouvrant donc à une autre expérience et un autre rapport jouant sans cesse à se dire « contre » et « tout contre » le philosophique. L’on pourrait même dire vers une singulière exposition de la pensée – là où lui arrive une autre instantanéité du temps, hétérogène à la temporalité du présent et de la présence et dont nul ne pourrait encore prédire si elle vient d’un passé ou d’un avenir. Comme si elle venait donc à la fois – et ce sans qu’ils n’arrivent à s’accorder – du passé et de l’avenir. C’est pourquoi l’événement de cette autre temporalité proviendrait d’une indécidabilité où jamais ne s’explicitera l’identité à soi de cette conjonction entre passé et avenir. C’est dire que l’événement de cette autre temporalité ne viendra que d’une disjonction du temps et donc, à la fois, d’un passé plus passé que tout passé et d’un avenir plus avenir que tout avenir. D’un passé immémorial et d’un avenir inscrutable où se sera fait entendre l’exigence de réinventer l’écriture et la lecture philosophiques en insufflant au cœur de chacune ce que nous pourrions nommer ici une « suppléance » dont la réverbération portera tout texte au-delà de l’ensemble de propositions réglées et en-deçà de la composition structurée des développements et contredéveloppements qui l’animent. C’est dire en le portant lui-même, le texte, dans la rigueur la plus démesurément précise et juste en le déportant là où il ne cesserait de s’amplifier en performativités imprévues, là où ce qui se jouerait dans l’écriture et dans la lecture ce serait le geste de répéter le même en le projetant, non pas vers son autre appropriable, mais vers l’autre radicalement hétérogène à son essence ou à sa présence. Forcer l’écriture à s’écrire toujours autrement en la « laissant dire » non pas ce qu’elle est, non pas ce qu’elle aurait à être, ni non plus ce qu’elle n’est pas, mais son diffèrement. C’est pourquoi je pense souvent et je me laisse peutêtre trop fortement emporté par le rêve de Walter Benjamin, ce rêve pour ce livre impossible où s’ajointeraient et s’assembleraient fragments, citations, extraits de textes, architecturalement disposés, enchevêtrés, collationnés, au point où l’on aurait même oublié leur provenance mais où leur répétition ne reviendraient jamais à un simple ressassements ni à une triviale redite, mais au contraire, produiraient une composition inédite non pas de sens mais de ce qui aura toujours précédé le sens, c’est-à-dire l’envoi, l’événement… Voilà au fond ce que j’appelle être fidèle. En écriture, en lecture, en philosophie. S’inscrire en une filiation pour la porter ailleurs et là où elle ne ferait, en elle-même, que se différencier et se différer – ce que Derrida appelait la « trace ».



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