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Coordinamento scientifico-editoriale Elio Matassi - Ivana Bartoletti - Carmelo Meazza Adesioni Bruno ACCARINO (Univ. di Firenze), Massimo ADINOLFI (Univ. di Cassino), Claudia BARACCHI (The New School for Social Research, New York); Massimo BARALE (Univ. di Pisa), Giuseppe BEDESCHI (Univ. La Sapienza, Roma), Luigi BERLINGUER (Univ. di Siena), Enrico BERTI (Univ. di Padova, Accademia dei Lincei), Franco BIASUTTI (Univ. di Padova), Remo BODEI (University of California (Los Angeles)), Almut Sh. BRUCKSTEIN (Ha’atelier, Berlino/Gerusalemme), Massimo CACCIARI (Sindaco di Venezia, Univ. San Raffaele, Milano), Giuseppe CANTILLO (Univ. di Napoli), Carla CANULLO (Univ. di Macerata), Andrea CAUSIN (Esecutivo PD), Stefano CECCANTI (Univ. La Sapienza, Roma), Mauro CERRUTI (Univ. di Bergamo, Deputato), Pierpaolo CICCARELLI, (Univ. di Cagliari), Umberto CURI (Univ. di Padova), Antonio DA RE (Univ. di Padova), Roberta DE MONTICELLI (Univ. San Raffaele, Milano), Pietro D’ORIANO (Univ. La Sapienza, Roma), Massimo DONA’, (Univ. San Raffaele, Milano), Adriano FABRIS (Univ. di Pisa), Maurizio FERRARIS (Univ. di Torino), Giovanni FERRETTI (Univ. di Macerata), Marco FILIPPESCHI (Dirigente nazionale PD, Sindaco di Pisa), Pierfrancesco FIORATO (Univ. di Sassari), Massimo FIORIO (Univ. di Torino), Vittoria FRANCO (Senatore, Univ. di Pisa), Fabrizia GIULIANI (Univ. di Siena), Sergio GIVONE (Univ. di Firenze), Maurizio IACONO (Univ. di Pisa), Giovanni INVITTO, (Univ. di Lecce), Marco IVALDO (Univ. di Napoli), Antonello LA VERGATA (Univ. di Modena), Claudia MANCINA (Univ. La Sapienza, Roma), Sandro MANCINI (Univ. di Palermo), Aldo MASULLO (Univ. di Napoli), Eugenio MAZZARELLA (Univ. di Napoli), Alberto MELLONI (Univ. di Modena), Virgilio MELCHIORRE (Univ. Cattolica, Milano), Gaspare MURA (Pontificia Università Urbaniana), Alessandro PAGNINI (Univ. di Firenze), Silvano PETROSINO (Univ. Cattolica, Milano), Andrea POMA, (Univ. di Torino), Mauro PONZI (Univ. Romauno), Alfredo REICHLIN (Presidente del Cespe), Luigi RUSSO (Univ. di Palermo), Gennaro SASSO (Univ. La Sapienza, Roma, Accademia dei Lincei), Aldo SCHIAVONE (Univ. di Firenze), Lucinda SPERA (Univ. di Siena), Tamara TAGLIACOZZO (Univ. Roma Tre), Andrea TAGLIAPIETRA (Univ. San Raffaele, Milano), Corrado VIAFORA (Univ. di Padova), Carmelo VIGNA (Univ. di Venezia), Mauro VISENTIN (Univ. di Sassari), Franco VOLPI (Univ. di Padova).

Idee per un nuovo orizzonte della laicità. Filosofie per una riforma della politica Http://www.Inschibboleth.org - Mensile on line (con aggiornamenti settimanali), Luglio-Settembre 2008, n° 10. (Numero 11, 30 Settembre 2008) - Registrazione presso il Tribunale di Sassari. Redazione principale: via Nazionale 75, 00184 Roma. Redazione virtuale on line su Skype. Ufficio stampa, Enrica Sanna. E-Mail: infotiscali@inschibboleth.org Direttore responsabile: Aldo Maria Morace.


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Il Partito Democratico tra partecipazione e spettatorialità di ELIO MATASSI

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Gelmini e l’economia di UMBERTO CURI

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Il maestro unico e la riforma Gelmini di EUGENIO MAZZARELLA

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La ragione filosofica e la fede cristiana di MARCO IVALDO

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Intervista a Giovanni Ferretti A CURA DELLA REDAZIONE

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Il consumo consuma. Globalizzazione e principio di unicità di SILVANO PETROSINO

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Rileggendo Il Senso del fondamento di Aldo Masullo di ARMANDO RIGOBELLO

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Memoria e politica. Attualità di Antigone di CARLA CANULLO

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Il rapporto medico-paziente: il modello deliberativo alla prova di CORRADO VIAFORA

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La difficile prova del progetto “nazionale” DI ALFREDO REICHLIN

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A cento anni dalla “voce”. L’eredità culturale del primo Novecento DI UMBERTO CARPI

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Analisi di un partito in cerca di identità DI IVANA BARTOLETTI

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Il Partito Democratico tra partecipazione e spettatorialità di Elio Matassi

La minaccia estrema che nella contemporaneità ipoteca la politica, limitandone potenzialità e sviluppi, sta nella crescita esponenziale di quella che può essere definita, con un neologismo non molto elegante, ‘espertocrazia’. In una società la cui complessità interna aumenta costantemente e lo Stato, parallelamente e specularmente, si frantuma in una molteplicità di istanze politico-amministrative che operano a più livelli, il ruolo dei tecnocrati cresce inesorabilmente. I politici, per parte loro, si trincerano dietro i pareri degli esperti, in modo che, alla fine, nessuno risulta responsabile né tantomeno colpevole di nulla. Andando ancora più a fondo, la depoliticizzazione nasce in questo caso dal-


l’idea che per ogni problema politico o sociale vi sia alla fine un’unica soluzione tecnica possibile che spetta agli ‘esperti’ trovare. La conseguenza sta in un esercizio sempre più razionalizzato e burocratico del potere e i politici dimenticano che sta a loro decidere le finalità dell’azione pubblica; questo atteggiamento presume che la democrazia sia una cosa troppo fragile per essere affidata al popolo e che, per restare “governabile”, essa debba essere il più possibile sottratta alla partecipazione e alla deliberazione pubblica. Così come l’ideologia economicistica tende a mettere sullo stesso piano il governo degli uomini e l’amministrazione delle cose, nella stessa misura l’‘espertocrazia’ realizza la politica in quanto attività fittizia che scaturisce dalla sola autorità della ragione. L’ideologia economicistica è l’erede di quei teorici che credevano, sul modello delle scienze esatte, di poter trasformare l’azione politica in una scienza applicata fondata sulle norme della fisica o della mathesis. L’obiettivo è quello, sopprimendo la pluralità delle scelte, di eliminare l’indeterminatezza ed anche il conflitto, per definizione fonte di incertezza. La speranza, certamente sempre frustrata, sta nel far coincidere razionale e reale lavorando per un futuro ‘scientificamente’ prevedibile. Ricondurre la politica ad un’attività di valutazione tecnica porta, dunque, a privare il cittadino delle sue prerogative, riducendo il gioco politico all’esercizio di una razionalità universale. Aristotele, quando richiama la nozione di saggezza pratica, mostra bene la differenza che esiste tra razionale e ragionevole, mettendo in discussione con forza l’idea che la politica possa mai coincidere con una scienza; il pensatore greco mette in guardia contro la congettura che si possa applicare allo stesso grado di rigore e di precisione delle scienze matematiche anche l’ordine delle cose umane, variabili e soggette alla scelta. La conclusione che se ne può desumere è che gli esperti possano avere un ruolo che non sia subordinato. La competenza politica non dipende dalla perizia tecnica, perché non è agli esperti che compete determinare le finalità dell’azione pubblica. Il popolo associato, nella sua diversità, riunisce competenze di cui nessun individuo può disporre separatamente. Il cittadino non ha bisogno di essere un esperto per partecipare alla deliberazione ed esprimere le sue preferenze o le sue scelte. In ultima analisi si può plausibilmente affermare che lo sviluppo tecnologico, nell’arco di alcuni decenni, ha trasformato la vita delle società più in profondità di quanto non abbia mai fatto qualsiasi governo. E’ proprio in questo senso che possiamo affermare, con Massimo Cacciari, che “l’imposizione dell’immanenza tecnica significa depoliticizzazione globale”. ‘Governo degli esperti’, così come ‘governo dei giudici’ o ‘governo dei mercati finanziari’, sono solo formule che sottolineano come lo spazio del politico sembri oggi essersi ristretto. La questio sta nel comprendere come questo spazio sappia o possa ritrovare le sue prerogative ed, in modo particolare, essere rimodellato. E’, dunque, necessario rafforzare l’idea stessa di ‘democrazia’ e, a questo fine, è indispensabile, per così dire, un ritorno alle origini. In Europa, la politica appare in Grecia contemporaneamente alla democrazia. O meglio, appare in quanto democrazia. Non si tratta affatto di un caso. Se si ammette che la partecipazione alla vita pubblica è il mezzo migliore per l’uomo di realizzare se stesso e di esercitare la sua libertà – così come afferma una tradizione che va da Aristotele a Hannah Arendt – allora bisogna anche riconoscere che la democrazia non è il meno cattivo dei sistemi politici, come sostengono sdegnosamente coloro che vi vedono solo il male minore, ma è proprio il migliore – ed anche, forse, il solo che possa essere considerato come veramente politico, essendo anche il solo il cui principio poggia sulla partecipazione del maggior numero di persone agli affari pubblici. In ulti-


ma analisi, la democrazia prima di essere rappresentativa è partecipativa. Quest’ultima è una delle forme di riconoscimento reciproco all’interno di una data comunità. In seno a questa comunità, la democrazia partecipativa ottiene ciò che l’antico diritto delle genti riusciva ad ottenere solo con la guerra: ridurre le ostilità. Essa permette di regolare pacificamente i conflitti e di scegliere tra i contendenti senza criminalizzarli né annientarli. Ogni forma di dispotismo, al contrario, essendo riconducibile ad un semplice gioco di potere, tradisce lo spirito del politico poiché poggia su una espropriazione. Oggi la politica è per lo più concepita in maniera impolitica, non solo perché la natura vera del politico non è più percepita, ma anche perché essa si trova sempre più minacciata dalle tendenze egemoniche dell’economia, del diritto e della tecnologia. Dominio del mercato e dei valori mercantilistici, giuridismo ipertrofico, espertocrazia: queste sono le grandi figure contemporanee le cui pretese crescenti si affermano a scapito del politico accelerandone la sua desimbolizzazione. Il Partito Democratico, ben al di là delle sue difficoltà tattico-strategiche, è nato proprio in vista del superamento di tale empasse della democrazia rappresentativa, un superamento che parte da una riflessione a tutto campo di una nuova forma di partito che inglobi in sé l’istituzionalizzazione delle ‘primarie’ a vari livelli, che sole possono consentire il pieno recupero della dimensione più originaria della democrazia, quella partecipativa. Una svolta che si propone di assimilare alcune delle suggestioni più significative, prospettate dal dibattito etico contemporaneo, in particolare dall’etica delle capacità (soprattutto nella declinazione di A. Sen), dall’etica della cura (con particolare riferimento alla prospettiva di J. Tronto, argomentata in Confini morali) e dall’idea di etica planetaria elaborata da E. Morin. L’esito di tale percorso etico-concettuale è rappresentato dalla proposta di un contratto sociale planetario che, nell’accogliere la sfida della globalizzazione, sia in grado si tener conto dei bisogni ed emergenze di nuovi soggetti contrattuali ben al di là degli Stati-Nazione. Contro le tesi radicali degli anarcocapitalisti – penso in particolare a M.N. Rothbard e H. Hoppe – A. Sen, per esempio, prospetta un’interpretazione più fondata di A. Smith che presenta, tra l’altro, anche il merito di riconsiderare l’evoluzione storica della dimensione economica. E’necessario ricordare che tale disciplina nasce e si sviluppa all’interno della filosofia morale. Il recupero delle prerogative etiche dell’economia consente di comprendere come solo una visione angusta e riduttivistica possa presumere che all’economia siano estranee domande quali: come bisogna vivere? Quali esiti hanno prodottole mie scelte a livello sociale? Non bisogna in alcun modo stravolgere la teoria dei sentimenti morali confondendo il dominio di sé e l’amore per se stessi, di cui parla Smith, con l’interesse personale. E’ la ‘simpatia’ il sentimento morale più profondo che deve essere correlato con quell’autodisciplina che egli mutuava dagli stoici. Nella Teoria dei sentimenti morali si può leggere, infatti, un’affermazione come la seguente, “l’uomo dovrebbe considerare se stesso non come qualcosa di separato, distaccato, ma come cittadino del mondo, un membro della vasta comunità della natura. Nell’interesse di questa grande comunità egli dovrebbe sempre essere disposto a sacrificare il proprio piccolo interesse”. A Smith, teorico del liberismo, su queste basi etiche, non era assolutamente contrario, a differenza di Malthus, alla Poor law, alla legge che consentiva il sostegno dello Stato ai poveri. Sen, inoltre, osserva come Smith abbia esaminato “anche l possibilità che le carestie nascessero da un processo economico comportante un meccanismo di mercato, e non fossero causate da una reale scarsità generata da un calo


della produzione di cibo”. Nella valutazione della cause del sottosviluppo, dovremo dunque prestare grande attenzione alle dinamiche di mercato ed alle politiche economiche. Quanto acquisito finora diventa importante anche per l’analisi del fenomeno della globalizzazione per l’individuazione di proposte alternative sia sul piano della teoria, sia su quello pratico, al liberismo incentrato sul self interest ed all’anarco-capitalismo. La realtà effettuale del mondo globalizzato pone il Partito Democratico di fronte ad alcuni aspetti da cui non è possibile prescindere: in primo luogo, l’ottanta per cento della popolazione mondiale vive in condizione di indigenza e povertà, mentre il restante venti per cento si trova in condizioni di opulenza tale da configurare un vero e proprio spreco di risorse. La globalizzazione può costituire la grande occasione per ridurre tale scarto. Perché ciò avvenga è, però, necessario affrontar la sfida della costruzione del consenso intorno a principi etici che non possono non essere globali. Pensatori come A. Sen ed E. Morin parlano a tale proposito della necessità di un’etica globale o planetaria. Sono questi due piani sui quali il Partito Democratico dovrà cercare di costruire una nuova ‘egemonia’: ripudiare la filosofia della spettatorialità (il cittadino ridotto a spettatore) che governa il codice genetico del PdL e che sembra lambire anche quello del PD, per abbracciare fino in fondo la partecipazione con l’adozione conseguente di una forma-partito ad hoc. Lo spostamento dal piano nazionale a quello internazionale della dimensione etica e di quella contrattuale, rovesciando in tal modo il mediocre protezionismo di breve respiro che sembra caratterizzare la politica etica ed economica del PdL.


Gelmini e l’economia di Umberto Curi

In visita sabato scorso a Venezia, il ministro Mariastella Gelmini si è detta scandalizzata per essere stata accolta da una manifestazione ostile di alcune centinaia di insegnanti, allievi e genitori. “Mai avrei pensato che” – ha affermato – “facendo il ministro della Pubblica Istruzione. Mi sarei dovuta avvalere della collaborazione delle forze dell’ordine”. Ha ragione. Il titolare di un dicastero al tempo stesso delicato e strategico, come quello da lei ricoperto, non dovrebbe essere né protetto né condizionato da “poteri” esterni. Dovrebbe agire in piena autonomia, guidato esclusivamente da una considerazione di ciò che si debba fare per organizzare nel modo migliore i processi di formazione a tutti i livelli. Non dovrebbe perciò dipendere dal ministro degli Interni e dalla sue forze dell’ordine. Per la stessa logica, in sé ineccepibile, se ritiene doverosa la tutela della propria autonomia, non dovrebbe neppure prendere ordini dal ministro dell’Economia. Ma la coerenza, al giorno d’oggi, è virtù sempre più rara, in modo particolare tra i politici. Dovrebbe infatti spiegare, la ministra, come mai le uniche motivazioni addotte per giustificare i provvedimenti assunti, per la scuola elementare e per l’Università, rimandino ai tagli di spesa imposti da Tremonti. E’ questo, infatti, il vero nodo della controversia, sorprendentemente eluso nelle molte discussioni di queste ultime settimane. Un ministro che decida di ritornare al maestro unico, non sulla base di argomentate ragioni di carattere culturale, pedagogico e psicologico, ma esclusivamente per tagliare i costi del-


l’istruzione, è un personaggio che rinuncia in partenza ad ogni autonomia, è letteralmente uno che ha tradito la missione che gli è stata affidata. Un ministro che, d’imperio, senza nessun’altra giustificazione, cancella dall’organico delle università 4 posti su 5, sia fra i docenti, che nel personale tecnicoamministrativo, senza fare alcuna distinzione fra aree disciplinari, facoltà e atenei, senza curarsi di verificare quali squilibri, inefficienze o vere e proprie paralisi tutto ciò possa produrre, il tutto nel nome dell’inderogabile risanamento economico del paese, è un incompetente, indegno di occupare quella poltrona. Di più: è evidentemente una vittima della pseudocultura generata e messa in circolazione dal berlusconismo - prima dalle sue televisioni, e poi dalla sua politica. Una mentalità miope e angusta, interessata esclusivamente alla partita doppia, incapace di concepire altri obbiettivi, che non siano quelli del profitto, impossibilitata a capire la differenza che passa fra la realtà e i reality show, fra la cultura e il gossip, fra la ricerca scientifica e le chiacchiere televisive di Zichichi e Odifreddi. Una mentalità secondo la quale conta solo la quantità, in tutte le sue declinazioni, soprattutto monetarie, mentre la qualità è un optional del quale si può serenamente fare a meno. E dunque, che importa se, ripristinando il docente unico, si rischia di compromettere il livello qualitativo di una scuola, quale è la nostra elementare, che è miracolosamente ai primi posti delle classifiche internazionali? Che importa se il taglio indiscriminato degli organici universitari aggraverà ulteriormente il fenomeno della fuga dei cervelli, produrrà un generale abbassamento della didattica, metterà in pericolo la sopravvivenza stessa di dipartimenti e centri di ricerca? Quello che conta – l’unica cosa che conta – è poter sbandierare le cifre dei risparmi fatti, delle spese tagliate, dei costi ridotti. Senza però dire con quale contropartita queste “economie” siano state realizzate, senza essere sfiorati dal dubbio che, per il futuro di un paese, e per il suo stesso sviluppo economico, il taglio dei fondi per la ricerca non è la stessa cosa del taglio delle auto blu, delle scorte dei politici o della cancelleria per gli uffici. Anche nella prospettiva economicistica scelta dalla Gelmini, non tutte le spese sono uguali, non ogni risparmio è equivalente. Tagliare sulla sanità è incivile. Tagliare sull’assistenza è barbaro. Tagliare sulla scuola è miope. Intervenire così pesantemente, e in maniera così indiscriminata, sulla scuola e sull’università, vuol dire compromettere le prospettive a venire di questo paese, equivale a segare l’albero sul quale si è seduti. E’ vero che le sciagure non vengono mai sole. Ma chi poteva immaginare che, assieme alla Carfagna e a La Russa, ci toccasse anche la Gelmini?


Il maestro unico e la riforma Gelmini di Eugenio Mazzarella

La ripresa legislativa per la scuola italiana è stata amara in Commissione Cultura e Istruzione della Camera con l’arrivo della conversione in legge del decreto Berlusconi-Gelmini sul maestro unico nella scuola primaria. Sostanzialmente il piatto forte del decreto, con il contorno scenico del ritorno del voto in decimi, della valutazione della condotta, e del libro di testo adottabile per un quinquennio. Questo piatto forte del decreto è stato presentato dal Governo e, con qualche dissimulata sofferenza dalla maggioranza, come la panacea di tutti i mali della scuola primaria italiana, affetta da bulimia di spese (lo stipendificio per lo più rivolto a pessimi docenti meridionali con cui ci ha deliziato la Gelmini quest’estate) e anoressia di risultati di qualità. Eppure la scuola primaria è l’unico segmento formativo italiano collocato nelle prime posizioni di tutte le classifiche del settore, anche quelle richiamate dal governo. Ma l’argomento per il Governo è debole, a fronte dell’esigenza di ridurre il rapporto studenti-docenti, troppo alto rispetto alla media europea, e di dare alle famiglie più libertà formativa per i loro figlioli, liberandoli da un tempo in classe troppo prolungato, che gli consenta qualche ora quotidiana in più per attività formative extrascolastiche. Il maestro unico e l’orario obbligatorio di fatto ridotto saranno più efficienti per le casse dello Stato e per la formazione dei bambini. Questa è la tesi del Gover-


no. Il cui idealtipo educativo, su cui concentrare gli sforzi, è un bambino di buona famiglia, ben seguito da genitori attenti, che abbiano la disponibilità economica, e a discendere organizzativa familiare, per attingere liberamente fuori della scuola, in modo magari più creativo, quel quanto di formazione extracurriculare che gli viene tolto in classe. In buona sostanza, per strappare un sorriso, la filosofia ‘creativa’ di Linus: “meglio ricchi e felici, che poveri e malati”. Facendo grazia al Governo dell’obiezione che il rapporto docenti-allievi, per il Governo da abbassare portandolo a medie europee, è incrementato da dati non depurati (ad esempio i docenti di sostegno e di religione), l’antitesi a questa boutade didattica e formativa è nel realtipo educativo italiano presente in vaste fasce sociali, soprattutto quelle più deboli, che si ampliano sempre di più, cominciando ovviamente dal Sud, ai cui peggiori risultati scolastici medi il Governo pure dice di voler porre riparo. E questo realtipo parla di famiglie nient’affatto in grado di sostenere costi aggiuntivi extrascolastici per la formazione dei loro ragazzi, tanto più che non saranno certamente i Comuni, a loro volta messi in difficoltà dall’abolizione dell’Ici a poter fornire ai ceti medio-bassi, che sono la maggioranza del Paese, gratis o a prezzi “popolari” le opportunità formative extracurriculari portate fuori della scuola. In sostanza il progetto del Governo è una formazione flessibile in una società flessibile, dove chi può irrobustirà la sua formazione con mezzi propri, e chi non può starà a guardare. Alla società flessibile serve una formazione “di classe”, questa sembra essere lo spot del Governo, nel senso che la qualità formativa, un mix tra quello che lo Stato offrirà nella scuola, e quello che dovrai procurarti a tue spese fuori della scuola, sarà appannaggio privilegiato di chi se la potrà permettere in termini di censo, cioè appunto di classe. Né a dire che i risparmi previsti dall’introduzione del maestro unico e dalla riduzione dell’orario scolastico saranno investiti sulla scuola secondaria o sull’università, dove il confronto con l’Europa mano a mano che si sale nella filiera della formazione ci imporrebbe investimenti maggiori. Anzi, anche qui Gelmini taglia. Nei tagli alla scuola e all’università nient’altro c’è che una strategia per fare cassa. Magari per finanziare la scellerata soluzione per l’Alitalia, dove la bad company che si accollerà i debiti alla fine la pagheranno le 87.000 maestre in meno e i 42.000 esuberi del personale ATA. Bel modo di far volare l’Italia. Ma anche a voler tenere in conto la franchezza di Tremonti, che l’ha fatta breve dichiarando a Ballarò che la scuola primaria italiana sarà pure di qualità, ma non ce la possiamo permettere, anche come mera manovra di cassa per il Paese il decreto è una manovra sbagliata. Se si guarda ai costi sociali allargati del decreto – per le famiglie che dovranno integrare di tasca propria, se lo potranno, il deficit i formazione extracurriculare prodotto dal combinato disposto maestro unico-riduzione a 24 ore settimanali del tempo curriculare obbligatorio; per gli enti locali, se potranno e vorranno sostituirsi, ricorrendo a nuova imposizione, agli impegni formativi cui lo Stato viene meno; per la spesa sociale, ovviamente sollecitata da 130.000 disoccupati in più – il decreto rischia di essere a somma zero per il sistema Paese. Inspiegabile resta, su una materia così delicata, su cui ci sarebbe stato bisogno un ampio confronto in Parlamento e con le parti sociali, nella quasi totalità – come risulta dalle audizioni in Commissione Cultura – contrarie al maestro unico e all’orario ridotto, il ricorso al decreto, se l’urgenza di fare cassa per sostenere i costi di qualche promessa elettorale del premier, a cominciare dall’Alitalia. E, per restare in tema, se qualche perverso risparmio avanzerà, molto probabilmente sarà usato per costituire un tesoretto cui far ricorso a fine legislatura per finanziare in extremis qualche meschino ed elettoralistico taglio dell’Irpef da vendere agli elettori e


recuperare il consenso perso strada con gli infortuni sociali prevedibili con l’approccio di Tremonti alla finanza pubblica, impegnato con una cura di magra per lo Stato. Però a Tremonti andrebbe ricordato che lo Stato e la sua spesa pubblica sono un po’ come la pecora famosa del capitalismo, la puoi tosare non oltre lo spellamento; dopo l’ammazzi e basta.


La ragione filosofica e la fede cristiana. Riflessioni a partire dal discorso di Regensburg di Marco Ivaldo

La ben nota lectio magistralis tenuta da Benedetto XVI all’università di Regensburg nel 2006 avanzava alcune idee sul rapporto fra ragione filosofica e fede cristiana che non ribadivano semplicemente tesi già divulgate - ad esempio nella linea di una tradizionale neoscolastica, ma anche di una ‘postmoderna’ teologia ‘narrativa’ -, ma avevano per certi aspetti un carattere fecondamene provocatorio, e che perciò mi sollecitano a provare a pensare a mia volta l’antica, ma sempre attuale (oggi di nuovo attuale) questione. Riassumo le tesi che più mi hanno colpito. L’idea centrale di quel discorso è che “agire contro la ragione è in


contraddizione con la natura di Dio”. Qui si manifesterebbe una profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore del termine e ciò che è fede in Dio sul fondamento delle Scritture. Una concordanza che si palesa in modo decisivo nel prologo dell’evangelista Giovanni, che modificando il primo versetto del Genesi inizia con: in principio era il Logos e il Logos è Dio. Questo avvicinamento fra la fede biblica e il pensiero greco aveva comunque già avuto antecedenti nell’Antico testamento, o nella Bibbia ebraica. La nuova conoscenza di Dio va di pari passo, nell’esperienza di Israele, con una specie di illuminismo, che si esprime nel rifiuto delle divinità che sarebbero soltanto opera dell’uomo, insomma si manifesta in una tendenza monoteista e anti-idolatrica. La “sintesi” fra “spirito greco e spirito cristiano” sarebbe però stata successivamente spezzata, ad esempio nell’”impostazione volontaristica” di Duns Scoto, che nelle sue conseguenze (perciò non in Duns Scoto stesso) avrebbe portato all’affermazione che noi di Dio conosceremmo soltanto la voluntas ordinata, e che al di là di essa esisterebbe la libertà di Dio in virtù della quale egli avrebbe potuto creare e fare anche il contrario di ciò che ha fatto. In questo modo però, secondo Benedetto XVI, la trascendenza e la diversità di Dio verrebbero accentuate in una maniera esagerata, sicché risulterebbe spezzata la convinzione che tra lo Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia. Vengono in particolare richiamati tre momenti successivi in cui questa sintesi fra spirito greco e spirito cristiano sarebbe stata contestata in modo deciso, designati come “ondate” di una “de-ellenizzazione del cristianesimo”. Il primo momento viene individuato nel rifiuto della mediazione metafisica (scolastica) da parte della Riforma. Certamente Benedetto XVI non misconosce affatto alla Riforma il merito d’aver respinto una determinazione della fede dell’”esterno”, in forza di un modo di pensare che non derivava da essa, e d’aver ricercato, con il sola Scriptura, la pura forma primordiale della fede, come essa è presente nella parola biblica. La mediazione metafisica della scolastica appariva però ai Riformatori un presupposto derivante da altre fonti, da cui occorreva liberare la fede, perché questa tornasse totalmente se stessa. Il secondo momento viene riconosciuto nella teologia liberale del XIX e del XX secolo, nella quale campeggia la figura di Adolf von Harnack. Al fondo di questa teologia vi sarebbe la auto-limitazione moderna della ragione, espressa in modo classico nelle tre Critiche di Kant (Kant viene, purtroppo – aggiungo io - , inteso secondo canoni ermeneutici di derivazione grosso modo neo-kantiana, che mettono in secondo piano il fondamentale momento sistematico e – a suo modo - ‘metafisico’ della sua filosofia trascendentale). In particolare Harnack voleva tornare al semplice uomo Gesù e al suo messaggio prima di tutte le teologizzazioni ed ellenizzazioni. Questo messaggio rappresenterebbe il vero culmine dello sviluppo religioso dell’umanità, e attraverso il suo attingimento si pensava di portare il cristianesimo in armonia con la ragione moderna. Quest’ultima si fonda su una sintesi fra platonismo (cartesianesimo) ed empirismo. L’elemento platonico nel moderno concetto della natura consiste nella struttura matematica della materia, che rende possibile comprenderla e usarla. L’elemento empirico è fornito dal fatto che solo la possibilità di controllare verità e falsità mediante esperimento fornisce la certezza decisiva a proposito della conoscenza della natura. Soltanto il tipo di certezza che deriva dalla sinergia di matematica ed empiria consente di parlare di scientificità. Ma questo tipo di scientificità – obietta l’oratore – esclude come tale il problema di Dio dall’ambito della conoscenza. D’altra parte se la scienza è soltanto questa, l’uomo stesso subisce una riduzione: gli


interrogativi propriamente umani – relativi al ‘da dove’ e al ‘verso dove’ -, gli interrogativi della religione e dell’ethos non possono trovare posto nello spazio della ragione comune descritto dalla “scienza” così intesa, e vengono spostati nel campo del soggettivo e della discrezionalità personale. La terza ondata della de-ellenizzazione si affermerebbe per parte sua con l’idea, sollecitata dall’incontro con la molteplicità delle culture, che la sintesi con l’ellenismo compiutasi nella chiesa antica sarebbe soltanto una prima inculturazione della fede, una inculturazione che non vincola le altre culture, le quali dovrebbero avere il diritto di tornare al punto che precedeva quella prima inculturazione stessa, per riscoprire il messaggio del Nuovo testamento nella sua sorgività e inculturarlo di nuovo nei rispettivi ambienti. A questo programma Benedetto XVI obietta però che il Nuovo testamento è stato scritto in lingua greca e porta in sé stesso il contatto con lo spirito greco, e che alcune decisioni di fondo, che riguardano il rapporto della fede con la ricerca della ragione umana, fanno parte della fede stessa e ne sono gli sviluppi conformi alla sua natura. Non posso soffermarmi qui più ampiamente su quest’ultima posizione, che afferma una intrinsechezza dello “spirito greco” alla determinazione della fede nel suo rapporto con la ragione, posizione che non riesco a vedere bene come si concilia con quella che chiamerei la differenza universalistica del messaggio cristiano rispetto alle culture e con il fatto che la ragione potrebbe aver conosciuto – come credo abbia conosciuto – auto-attuazioni determinanti di sé al di là dell’orizzonte segnato dallo “spirito greco”. La questione mi pare però degna di riflessione. Orbene, di fronte a questa “critica della ragione moderna” l’oratore non postula affatto un ritorno a prima dell’illuminismo, rigettando le convinzioni dell’età moderna. Occorre invece per lui “allargare” il concetto di ragione e l’uso di essa; bisogna superare la auto-limitazione della ragione a ciò che è verificabile nell’esperimento e dischiudere a essa tutta la sua “ampiezza”; è necessario ritrovare unite in modo nuovo la ragione e la fede. La stessa ragione moderna propria delle scienze naturali, con il suo intrinseco elemento platonico, porta in sé un interrogativo che la trascende con le sue possibilità metodiche. Questo interrogativo verte sul perché del dato di fatto di una corrispondenza fra il nostro spirito e le strutture razionali operanti nella natura, interrogativo che deve essere lasciato dalle scienze naturali alla filosofia e alla teologia. Vorrei interloquire con questo complesso impianto teorico in merito a tre punti, relativi alla fede, alla ragione moderna, al rapporto fra la fede e la ragione. Prendo le mosse dalla critica agli sviluppi del “volontarismo”, dalla critica cioè a una accentuazione esagerata della trascendenza e della diversità di Dio, che andrebbe insieme con la rottura della analogia fra creatore e creatura. Vorrei valorizzare il diverso modo in cui Anselmo d’Aosta richiama l’assoluta trascendenza di Dio rispetto al nostro pensare: “O Signore, leggiamo nel Proslogion, tu non solo sei ciò di cui non si può pensare nulla di più grande (non solum es quo maius cogitari nequit), ma sei più grande di tutto ciò che si possa pensare (quiddam maius quam cogitari possit)”. Qui incontriamo una affermazione della trascendenza di Dio che non va nella direzione di un arbitrarismo divino, ma in quella del riconoscimento della maestà, della elevatezza qualitativa di Dio, più grande di quanto si possa pensare. Penso che proprio questa trascendenza qualitativa di Dio sia la figura di trascendenza che dischiude lo spazio della fede religiosa, e sia allora, come tale, una dimensione


che anche la fede in senso cristiano deve mantenere in se stessa. Ciò sollecita a una chiarificazione semantica e concettuale sulla fede, termine che non può essere preso come ovvio e scontato, come accade in numerosi dibattiti attuali. Nella Introduzione al cristianesimo dell’allora docente Ratzinger la fede veniva designata come una “trasvolata, un balzo spiccato su un abisso infinito, cioè fuori dal mondo afferrabile che si presenta all’uomo”. Inoltre - rinviando a Isaia, 7,9: “Se non crederete, non avrete stabilità” – l’autore caratterizzava la fede come uno “stare”, un mantenersi uniti a Dio, tramite cui l’uomo acquista un solido appoggio nella vita. Un salto sull’abisso, uno stare in Dio: così viene vista la fede nella sua forma pura e paradossale. Ora, anche se può apparire singolare quanto affermo, Kierkegaard non era lontano da questi pensieri quando nel Diario 1852 scriveva: “Pistis come è usata nel buon greco […] è preso per indicare qualcosa di molto inferiore a episteme: pistis si rapporta infatti al verosimile […]. Ora, viene il cristianesimo ed eleva il concetto di fede a tutt’altro senso, fede intesa appunto come rapportantesi al paradosso (quindi all’inverosimile) e poi indicante a sua volta la certezza più alta”, della quale parla la Lettera agli ebrei (cfr. 11, 1: “La fede è sostanza (hypostasis) delle cose che si sperano; prova delle cose che non si vedono”). Fede è pertanto lo ‘stare dopo un salto’; è certezza attraverso il paradosso, coscienza concreta del Dio trascendente e vicino. La fede deve venire intesa allora come una attuazione originale dell’io, né superiore né inferiore alla scientificità (episteme), ma distinta da essa. Questo implica la conseguenza che, nonostante il suo impulso verso il comprendere (fides quaerens intellectum), la fede religiosa non coincide con il logos anche quando essa è riconoscimento esistentivo del Logos (precisamente: del Logos nel suo presentarsi in una specifica “carne”). La fede è un conferimento di fiducia che nasce da un incontro fattuale (interpersonale), il logos è l’agire auto-consapevole della riflessione. Il logos ha certamente rapporto con la fattualità, ma nella forma dell’astrazione e della riflessione su di essa. La fede ha invece con la fattualità un nesso concreto, si afferma e di accredita nell’incontro tra persone. Quanto alla interpretazione della ragione moderna come pensiero calcolante e finalizzato a computare il fattibile in vista del dominio tecnico, questa è soltanto una – non l’unica - interpretazione della ragione moderna, nella quale è percepibile una certa ispirazione ‘heideggeriana’ o ‘francofortese’ (uso questi termini in senso grezzo e generico). Nella storia della cosiddetta ragione moderna esiste però anche, ad esempio, la presenza della figura trascendentale della ragione, che trae origine dalla tradizione socratica del logon didonai, vale a dire dall’idea di filosofia come interrogazione e come sforzo del “dare ragione”, come impegno a giustificare, argomentandone nella discussione i fondamenti e i motivi, le proprie affermazioni e le proprie azioni. Descartes, che è in definitiva il fondatore ante nomen della figura trascendentale della ragione filosofante, muove dal cogito, che non significa cognosco, ma pondero: pondero un punto di inizio scelto, una asserzione, rispetto al compito, cui sono sollecitato, di cogliere ciò che è vero e reale. Se la filosofia è amore della sapienza (determinazione che mi sembra restare valida), questa non è data come fatta e compiuta, bensì vuole essere anzitutto rinvenuta come tale, vuole essere ricercata come uno scopo e soltanto nella sua forza convalidante può essere trovata come appagante. Ora, proprio perché non siamo già dall’inizio nella sapienza (nella conoscenza vera e reale), la filosofia – che per questo diviene filosofia trascendentale – prende inizio con lo sforzo verso questa conoscenza, cioè inizia dal cogito, dall’atto del ponderare e dalla sua auto-comprensione. Noi non siamo ipso facto nel


retto sapere e nel retto tendere, ma ci sforziamo verso di essi, vale a dire ponderiamo, pratichiamo il riflettere. E’ nell’atto del ponderare – in quello che Kant chiamava “io penso”, che è insieme un “io voglio” – e a partire da esso che, lasciando via via cadere tutto ciò che è insufficiente, ci imbattiamo in ciò che è supremo e ultimo, in ciò che si convalida (logon didonai!) a partire da sé. Qui, nella figura trascendentale della ragione, abbiamo una sintesi fra elemento platonico ed elemento empirico diversa da quella che si esprime in una scienza orientata al dominio tecnico. L’atto del ponderare, del riflettere sul nostro agire, conoscere, sentire, volere, è infatti primariamente orientato non alla disposizione tecnica, ma al conoscere e al fare ciò che è vero e consistente; anzi è atto conoscitivo perché è in radice attuazione pratica, è cioè volere (voler cercare, riconoscere, realizzare) ciò che è vero e reale. A Bacon aveva in questo senso già risposto Descartes, solo che il pensiero cattolico - nonostante poche eccezioni, tra cui rammento, tra le recenti, colui che ha aperto un accesso completamente nuovo al pensiero di Fichte, cioè Reinhard Lauth – non ha saputo coglierne la lezione e continua a voler battere altre vie, che o ritornano alla metafisica tradizionale (che tratta solo il lato “realistico” dell’intero), oppure saltano, abbandonata ogni metafisica, in una ermeneutica della fattualità separata dalla giustificazione riflessiva, che è la forma di giustificazione specifica della ragione filosofante. Non posso qui argomentare come questa forma di giustificazione riflessiva mantenga la sua consistenza anche di fronte alle obiezioni della figura postmoderna del pensare. Quanto al rapporto fra la fede e la ragione, nel Discorso preliminare ai suoi Saggi di teodicea – “Sulla conformità della fede con la ragione”, un testo di profondo spessore – Leibniz sostiene che i “misteri” non sono contro la ragione, intesa come la “connessione delle verità” che l’intelligenza umana può naturalmente raggiungere, bensì sono al di sopra della ragione, in quanto la nostra mente non li può comprendere. Al di sopra, non contro la ragione: questa è la condizione epistemologica delle verità che la fede comunica, ovvero di ciò che Leibniz chiama: i misteri. Orbene, Leibniz argomenta che i misteri si lasciano spiegare (expliquer) dalla nostra ragione, ma non comprendere (comprendre), e che essi si possono grazie a essa sostenere (soutenir), ma non provare (prouver). Le verità della fede possono perciò venire spiegate, approfondendone il senso e adducendo motivi di credibilità, anche se non si può comprendere il come del loro prodursi. D’altro lato non è possibile dimostrare i misteri, che sono al di sopra della nostra ragione, ma resta possibile sostenerli, cioè difenderli contro le obiezioni. La pratica della ragione è perciò indispensabile per spiegare e sostenere le verità della fede, ovvero – potremmo dire con un altro linguaggio – per evidenziarne l’intrinseca ragionevolezza (o forse anche: la ‘sensatezza’ ultima), e ciò senza cadere in un razionalismo religioso che riuscirebbe altrettanto sbagliato che un fideismo fondamentalistico. Tuttavia può essere fatto valere anche il rapporto inverso. Luigi Pareyson, prolungando nella sua ontologia della libertà le meditazioni di Schelling, ha sostenuto che la filosofia, per poter adeguatamente pensare questioni che nessun uomo può ignorare, come il rapporto fra Dio, la presenza del male, la libertà – le tre questioni della teodicea leibniziana! – deve farsi ermeneutica dell’esperienza religiosa. Non che la filosofia debba divenire filosofia religiosa, o che essa debba produrre una religione filosofica, ibridi che Pareyson respingeva. La filosofia deve farsi interrogazione e interpretazione dell’esperienza religiosa, volta a chiarirne il senso e a metterne in luce


l’universabilità, vale a dire quei significati che sono in grado di illuminare la vita umana nella sua dialettica radicale e che come tali sono capaci di suscitare se non il consenso, almeno l’interesse di ogni uomo, credente o non credente. In questo senso la religione, e l’esperienza religiosa, non andrebbe affatto considerata come una soluzione ‘pacificante’ ai dilemmi della ragione filosofante, ma come una esperienza concreta e incarnata, che conferisce nuovi impulsi, suscita nuovi interrogativi, apre impensate e vertiginose prospettive per la filosofia. La ricerca dell’”armonia” fra fede e ragione, che oggi attira rinnovate attenzioni delle quali il discorso di Regensburg è significativo documento, non dovrebbe portare a sottovalutare la fecondità di una prospettiva che valorizzi e approfondisca la “dialettica” che esiste fra di esse.


Intervista a Giovanni Ferretti a cura della Redazione

1) Quali sono attualmente i temi su cui a Suo avviso la ricerca filosofica dovrebbe insistere di più per essere influente sul proprio tempo? La risposta dipende ovviamente dalla diagnosi e dalle valutazioni che si danno della situazione culturale del nostro tempo. Io la vedrei soprattutto caratterizzata da una nuova forma di appiattimento dell’uomo; per un verso alla sua dimensione “oggettivabile” da parte delle scienze e delle tecniche – oggi soprattutto le scienze cognitive e neurologiche, le biotecnologiche, in base alle quali si ritiene ormai possibile transitare verso il post-umano, cioè oltre la visione dell’uomo libero e responsabile del suo destino; - e, per altro verso, alla sua dimensione individuale, libertariamente intesa, cioè scissa da vincoli di relazioni e responsabilità sociali; di fatto, però, ridotto al ruolo di individuo “consumatore” all’interno di una società mercantile globale; con una singolare “dialettica del libertarismo” che sfocia in un ribaltamento dei fini non dissimile da quello denunciato dai francofortesi quando parlavano di “dialettica dell’illuminismo”. In controtendenza si assiste ad una crescita, almeno nelle coscienze e nella pubblica opinione, del senso della dignità umana, di ogni uomo e donna del pianeta, con il divulgato riconoscimento – almeno teoricamente proclamato– dei fondamentali diritti umani, pur variamente interpretati nelle diverse culture. Ed è proprio questa diversa interpretazione – anche a prescindere dal-


le più evidenti e riconosciute violazioni – che sta innescando quei processi di difesa o ricerca identitarie, che hanno fatto emergere forme inedite di fondamentalismo intollerante e aggressivo; tra gli aspetti più preoccupanti dell’odierno pluralismo culturale. In riferimento a questa diagnosi, mi pare che la filosofia dovrebbe particolarmente insistere sul problema dell’uomo, rivendicandone in modi e forme nuove la sua “trascendenza” o “profondità”, irriducibile a quanto ne possono indagare le scienze, ma anche in grado di modificare o indirizzare, in virtù della sua natura razionale, una sua presunta “natura” solo biologicamente intesa. Ho letto in questi giorni, in una recentissima traduzione italiana delle lezioni tenute da Heidegger nel semestre estivo 1934, dedicate alla “Logica come problema del linguaggio” (a cura di Ugo Ugazio, presso Marinotti, Milano 2008), quest’affermazione: “La filosofia cerca un sapere che sia nel contempo prima di tutta la scienza e vada oltre tutta la scienza, cerca un sapere che non sia legato necessariamente alle scienze” (Ivi, p. 25). Questo sapere riguarda in primo luogo lo studio dell’uomo, della sua “essenza” – dice Heidegger – intimamente connessa con il linguaggio, ossia con la sua capacità di comunicare, di essere in relazione con gli altri. Libero, certamente, ma con una libertà già da sempre “investita” di responsabilità nei loro confronti, quindi originariamente etica, come Levinas ha evidenziato con particolare efficacia nei suoi lavori. Mi pare che la filosofia debba oggi impegnarsi anzitutto in questo campo, antropologico ed etico, se vuole contribuire alla salvezza dell’uomo, alla difesa della sua dignità. E può far questo solo rivendicando una razionalità che non si riduca alla razionalità scientifica e che sia in grado di instaurare un dialogo interculturale effettivo, ricercando e favorendo quella convergenza delle varie antropologie filosofiche o filosofico-religiose (non in tutte le culture v’è quella distinzione tra sapienza filosofica e sapienza religiosa, che abbiamo elaborato in occidente) su un comune senso dell’umano, che tutte debbono poter arricchire ed in cui tutte debbono potersi riconoscere. 2) Considerate le polemiche che frequentemente si accendono in Italia intorno alla delicata questione dei rapporti tra potere politico e gerarchie ecclesiastiche, quali declinazioni del concetto di “laicità” sarebbero più auspicabili oggi? Le polemiche italiane che a quessto proposito spesso divampano nella stampa e nel dibattito politico, si comprendono solo sullo sfondo della nostra storia, segnata dal sorgere dello stato unitario contro il potere temporale dei papi, dal laicismo di stampo anticlericale di fine ottocento ed inizio novecento, dal prolungato statuto della religione cattolica come religione di stato o con privilegi concordatari, dall’appoggio esplicito dato nel recente passato dalla chiesa gerarchica ad alcuni partiti politici contro altri, dal persistente ed ancora attuale tentativo di utilizzo del magistero della chiesa e delle convinzioni dei cattolici in funzione politica di parte, con il corrispettivo timore, da parte di se ne ritiene svantaggiato, che ciò si verifichi, dal progressivo allontanarsi della nostra cultura secolarizzata e libertaria dall’ethos cristiano-cattolico, con un pressante desiderio e/o pretesa che esso non abbia più alcun influsso nella legislazione civile ecc. In linea teorica mi pare che si dovrebbe essere ormai giunti ad un sufficiente chiarimento del concetto politico e religioso di “laicità”, soprattutto alla luce del profondo mutamento della situazione italiana che si è avuto con l’avvento, da un lato, della costituzione repubblicana “democratica” – penso, in particolare, ai diritti fondamentali dell’uomo che essa sancisce, tra


cui l’uguaglianza tra singoli cittadini senza discriminazione di razza, sesso, religione, il diritto alla libera manifestazione del proprio pensiero, il diritto alla libera professione della propria fede religiosa, compreso il diritto a farne propaganda – e, d’altro lato, con la svolta costituita dal Concilio Vaticano II – che ha riconosciuto la legittima autonomia delle realtà terrene (tra cui la politica) dalla sfera religiosa, ha riservato ai “laici” cristiani il compito di mediare tra i principi etici cristiani e la loro concretizzazione nella vita politica, ha ribadito che la chiesa come tale non intende né può intervenire direttamente nel campo della vita politica, non avendo ricevuto da Cristo alcun potere politico; secondo il detto “date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”; chiesa che ha, infine, ufficialmente accettato lo stato democratico come quello che meglio risponde ai diritti delle persone umane. Dal punto di vista dello stato democratico, la “laicità” che ne deriva non implica un’esclusione delle convinzioni religiose dal dibattito pubblico, bensì la salvaguardia della loro libera, democratica e pluralistica espressione; e ciò anche in riferimento alle convinzioni che esprimono le gerarchie ecclesiastiche cattoliche, sia su principi etici generali sia sulla valenza etica di singole leggi dello stato – cosa che deve essere riconosciuta come un diritto costituzionale ad ogni singolo cittadino e ad ogni singola associazione di cittadini, ovviamente in forme che non violino le leggi dello stato (altro è criticarle, altro violarle!) e non siano contrarie ai principi costituzionali. Da questo punto di vista, mi pare in contrasto con un vero concetto democratico di laicità il tacciare d’illegittima interferenza in campo politico ogni intervento delle gerarchie ecclesiastiche cattoliche volto a richiamare principi etici propri della tradizione cristiana, ritenuti di valore umano e razionale universale, ed anche ad applicarli alla concreta discussione di processi legislativi in corso. Esponendo il proprio pensiero la chiesa non impone politicamente alcunché – né ha il potere concreto di farlo nel nostro stato democratico, dato che i singoli cittadini, credenti o no, hanno piena libertà di aderirvi o meno, come i celebri referendum sul divorzio e l’aborto hanno ben mostrato nei fatti. Essa mette semplicemente in atto argomenti, punti di vista, convinzioni profonde, che ritiene condivisibili razionalmente anche da chi non ha fede, avendo fiducia di poter essere convincente. Poiché pienamente accetta il metodo democratico, anche la Chiesa gerarchica non può che sottoporre i suoi giudizi e le sue argomentazioni alla libera accoglienza e discussione, come contributo alla formazione delle coscienze e indirettamente al costituirsi di quelle maggioranze popolari e parlamentari che sfoceranno nelle decisioni legislative democratiche. E ciascuno può e deve, in democrazia, accettare o rifiutare tali pronunciamenti, discuterli o contraddirli secondo scienza e coscienza, senza però tentare di squalificarli a priori – a mio avviso poco laicamente - come “illegittimi”. Mentre dal punto di vista dello stato laico così inteso non si dovrebbe neppure considerare illegittima l’organizzarsi di una comunità religiosa in partito politico, che lotta per il potere (nel laico e democratico Israele ciò avviene – a quanto ne so - in modo pienamente legittimo) – fatto salvo il rispetto dei principi costituzionali, tra cui l’uguaglianza di tutti i cittadini senza discriminazioni di razza o religione – dal punto di vista della Chiesa cattolica (e in genere delle chiese cristiane, sia pur con diverse accentuazioni), l’organizzarsi della comunità cristiana come tale in partito politico o in forme di collateralismo politico in funzione del raggiungimento dei propri fini eticoreligiosi, è chiaramente da escludere; non tanto perché in contrasto con la “laicità” dello stato quanto perché in contrasto con la propria stessa auto-


coscienza religiosa, nel cui DNA originario v’è quella distinzione di ruoli di cui sopra si diceva con il richiamo al “Date a Cesare…”, implicante la rinuncia all’uso diretto del potere politico e il conseguente riconoscimento ai laici cristiani del compito di mediare tra i principi etici cristiani e la concretezza della vita politica. Dato poi che tale mediazione implica una serie di valutazioni e decisioni spesso molto opinabili o comunque da demandarsi alla libera inventiva umana in relazioni alle diverse condizioni socio-culturali, tale mediazione potrà e per lo più dovrà essere pluralistica. Donde la necessità di evitare da parte della Chiesa gerarchica, in relazione alla propria funzione pastorale di salvaguardia dell’unità di fede e, per quanto possibile, anche di “ethos” dei credenti, quegli interventi che siano uno schierarsi o anche solo diano l’impressione di schierarsi per una determinata parte politica o comunque di favorirla, creando inevitabile e improprie divisioni nella comunità cristiana. Da questo punto di vista, questa specifica “laicità cristiana” – originale e originaria rispetto ad altre concezioni religiose, tra cui oggi emerge l’Islam per la sua persistente differenza al riguardo – sembra essere in particolare sintonia, almeno in linea teorica, con il principio costituzionale della laicità dello stato democratico. Da un punto di vista storico è stato peraltro con buone ragioni sostenuto che essa è stata anche all’origine della laicità dello stato democratico moderno, di fatto nato non senza motivo anzitutto in paesi di cultura cristiana. Stante quanto sopra detto, mi paiono fuorvianti quelle coniugazioni della “laicità” con il rifiuto di ogni principio o valore “assoluto”, quasi che solo chi ha posizioni che ritiene relative o rivedibili possa essere un buon laico democratico. Ciò che è essenziale alla laicità, non è, infatti, la debolezza o meno delle proprie convinzioni, quanto proprio la convinzione “assoluta” che non le si possano in alcun modo imporre agli altri con la forza, ma solo proporre con argomentazioni razionali, nel rispetto delle posizioni sostenute in buona fede dagli altri, nel clima di un libero ed effettivo dialogo. Tanto meno mi pare contribuisca al chiarimento del concetto di “laicità” il tentativo di farlo coincidere con un determinato tipo di ethos individualisticolibertario o addirittura con la non-credenza religiosa o con l’ateismo teorico o pratico. La frontiera tra chi è democraticamente laico o no non discrimina tra credenti o non credenti ma attraversa gli uni e gli altri, distinguendo in questi e in quelli i tolleranti e gli intolleranti, i dialoganti e i dogmatici, chi vuol convincere e chi vuol vincere e costringere a tutti i costi, chi è pronto ad ascoltare le ragioni degli altri e chi non fa che ribadire il suo punto di vista, chi è interessato alla verità e chi è interessato al potere, ecc. 3) Per una riflessione sulla origine della vita e sulla dignità della vita umana, a partire dalla equazione che Berti propone [nell’articolo Che cos’è l’anima?, in Bollettino, sett-dic.2007, pp.5-17] tra DNA ed anima, quale dovrebbe essere la posizione da assumersi riguardo alla questione dell’aborto e della eutanasia? Se fosse lecito modificare la legge 194 sull’interruzione della gravidanza, su quali punti dovrebbero essere apportate delle correzioni? O in che termini dovrebbe essere riaperta la riflessione sulla legge 40 sulla fecondazione assistita? L’equazione proposta da Berti tra anima e sequenza del DNA umano – per quanto ne so sulla base delle sue risposte all’intervista omologa fattagli da Schibboleth - è certamente un intelligente modo moderno di interpretare il concetto aristotelico di anima come forma del corpo; con una conseguenza particolarmente nuova, sia rispetto ad Aristotele che a San Tommaso, e cioè che essendo il DNA chiaramente umano fin dal concepimento, ne segue che


ci troviamo di fronte ad un essere umano fin dall’inizio, e non all’emergere di successive anime: vegetativa, animale e intellettiva nel corso del formarsi dell’embrione, come invece sostenuto da Aristotele e San Tommaso e come ritenuto anche dalla Chiesa cattolica per molto tempo. Cosa che non l’ha mai portata però a giustificare moralmente l’aborto, perché in esso si trattava pur sempre di impedire un processo di nascita umana già in atto, anche se lo si valutava moralmente e giuridicamente in modo diverso, e meno grave, dell’infanticidio e dell’omicidio (cfr. l’esaustiva storia dell’evolversi del pensiero cattolico al riguardo nell’opera ben documentata del teologo moralista Paolo Sardi, L’aborto ieri e oggi, Paideia, Brescia 1975). E si deve certamente anche alle nuove scoperte scientifiche, come quella del DNA, se la Chiesa cattolica oggi ritiene che si debba considerare “persona umana” il frutto del concepimento fin dall’inizio; e a giudicare come moralmente negativo l’aborto anche se permanessero delle incertezze circa la qualificazione di persona umana fin dal momento del concepimento. Come ebbe ad esprimersi Paolo VI, «anche se ci fosse un dubbio concernente il fatto che il frutto del concepimento sia già una persona umana, è oggettivamente un grave peccato osare di assumersi il rischio di un omicidio» (così Paolo VI nella Dichiarazione sull’aborto procurato della Congregazione della dottrina della fede, del 28 giugno 1974, cit. in Paolo Sardi, L’aborto ieri e oggi, cit., p. 247). Posizione che mi sento di condividere non tanto e non solo come cattolico, per l’autorità magisteriale che la enuncia, ma anche in quanto filosofo, per le buone argomentazioni razionali su cui tale posizione si fonda, come riconosciuto anche da Berti: il rispetto della dignità di ogni essere umano, che implica per lo meno il dovere di non uccidere l’innocente. Circa l’equazione posta da Berti tra DNA e anima come forma del corpo mi rimangono però delle serie perplessità teoretiche, che cercherò di sintetizzare come contributo alla discussione della sua posizione, per quel tanto che ho compreso. L’anima propriamente umana, infatti, cioè l’anima intellettiva e spirituale, che San Tommaso riteneva essere l’unica forma del corpo – con quella sua particolare interpretazione dell’aristotelismo, in contrasto con le posizioni di stile agostiniano più tradizionali – non mi pare che possa ridursi alla pura e semplice struttura della dimensione biologica dell’uomo attestata dal DNA. Essa è attestata, infatti, non semplicemente da tale struttura ma da esperienze irriducibili a quanto scientificamente sperimentabile, come, ad esempio, dall’esperienza dell’autocoscienza, della libertà, della trascendenza del pensiero, dell’incondizionatezza dell’appello morale. Temo quindi che l’equazione di Berti, anche se conduce ad individuare la presenza di un essere biologicamente umano fin dal primo momento del concepimento, rischi proprio quell’appiattimento dell’uomo sul piano dell’oggettività scientifico-biologica che paventavo all’inizio di questa intervista. Le conclusione poi che Berti trae da tale equazione contro la posizione della chiesa cattolica che ritiene l’anima umana creata “direttamente” da Dio, cui contrappone il suo sorgere per semplice incontro dei cromosomi maschili e femminili dei genitori, mi pare frutto sia di tale appiattimento sia di una interpretazione letterale della espressione usata dal magistero della chiesa, avulsa dal suo contesto teologico – così anche nel libro di Mancuso condiviso da Berti su questo punto. La chiesa cattolica, infatti, non sostiene che l’anima umana sia creata “direttamente” da Dio nel senso che venga escluso, per il suo sorgere, il concorso biologico determinante dei genitori o nel senso che Dio crei una sostanza-anima umana che poi infonderebbe in un corpo generato dai genitori. Secondo quanto la teologia cattolica più avvertita interpreta (cfr. anche solo la voce “anima” nel Piccolo dizionario teologico


di K. Rahner e H. Vorgrimler, o nel Dizionario teologico interdisciplinare della Marietti), tale espressione significa che il normale concorso divino, indispensabile per ogni attività delle creature, è presente in modo del tutto particolare in quell’atto umano che è la generazione di un figlio, dato che il risultato di quell’atto (che è atto generativo di un uomo, con la sua anima umana, altrimenti non si potrebbe parlare di generazione di un uomo da parte dei genitori! Con le conseguenze teologiche che se ne traggono anche per la misteriosissima trasmissione del “peccato originale”) trascende il piano puramente biologico della fusione dei cromosomi maschili e femminili, dato che termina ad una creatura che ha nel creato un posto del tutto particolare in quanto “creata ad immagine di Dio”. Quanto alla legge 194 sull’interruzione della gravidanza, diversamente da Berti continuo a ritenere che sia una cattiva legge, per lo più applicata nel modo peggiore. Una cattiva legge perché volta a legalizzare e non solo a depenalizzare l’aborto entro i primi 90 giorni, considerandolo come un intervento sanitario unicamente a salvaguardia della salute della donna, senza tener in debito conto quella “tutela della vita umana dal suo inizio” di cui pur dice di farsi carico in premessa. La genericità del dettato circa i motivi che giustificano l’intervento abortivo, cioè il “serio pericolo per la salute fisica e psichica della donna” o le “malformazioni del nascituro”, hanno di fatto condotto ad una legalizzazione dell’aborto in ogni caso di richiesta, anche quando esso si presentava come un puro e semplice mezzo di controllo delle nascite; nonostante la esplicita dichiarazione, nel testo della legge, che esso non dovesse essere usato a tal fine. Quanto alla parte della legge che riguarda la “tutela sociale della maternità” e prescrive un fattivo intervento da parte dei consultori per superare le cause che possono indurre la donna a richiedere l’interruzione della gravidanza, soprattutto nei casi in cui l’aborto viene richiesto per motivi economici, essa è risultata – a quanto ne so, ma confesso la mia poca competenza a riguardo - quasi del tutto disattesa, soprattutto nei consultori pubblici. Non penso che si possa oggi ipotizzare in Italia un’abrogazione o anche solo una modifica della legge 194: non vi sono né le condizione politiche né le condizioni di ethos diffuso che lo consentono. E il legislatore, anche cattolico, deve tener conto, nel legiferare in un paese democratico, anche dell’ethos diffuso, e quindi delle convinzioni altrui; nel caso, delle convinzioni che altri hanno sull’inizio della vita umana, e sull’insieme dei valori in gioco in una legislazione concernente l’aborto. Tra questi valori c’è stato e c’è tuttora l’intento di contrastare la piaga dell’aborto clandestino ed anche di diminuire il numero degli aborti. Valori che in gran parte si sarebbero conseguiti (circa la diminuzione del numero degli aborti non mi consta però che sia veramente attestato), tanto da portare ad un giudizio complessivamente positivo sulla legge attuale anche in chi ne era contrario all’inizio, come nel caso di Berti, il cui cambiamento di parere rispetto pur non condividendolo. Ciò che condivido è invece il principio, che egli ricorda, secondo cui il legislatore, soprattutto tenendo presente il contesto di pluralismo etico in cui ci troviamo, deve legiferare anche tenendo presente il criterio del “minor male” nel complesso intreccio, spesso conflittuale, dei valori in gioco. Ciò che invece ritengo possibile e doveroso sarebbe oggi un impegno comune, senza opposizione tra “cattolici” e “laici” e secondo lo stesso spirito dichiarato nella legge, per mettere effettivamente in atto quella parte relativa alla tutela sociale della maternità, contribuendo a superare le cause che inducono spesso le donne, non senza grave sofferenza fisica e psichica, a ricorrere all’aborto. Se anche solo l’equivalente del 50% dei fondi che oggi sono spesi


nelle strutture sanitarie pubbliche per praticare l’aborto alle donne che lo richiedono, fossero spesi per sostenere economicamente le donne che sono portate ad abortire per difficoltà economiche, forse saremmo un paese più civile, nonostante la permanenza di opinioni diverse sulla gravità etica e giuridica dell’aborto volontario. Anche alla luce di quanto sostenuto da Berti circa l’inizio della vita umana non vedo la necessità di rivedere la legge 40 sulla fecondazione assistita. Una pratica in cui s’intrecciano una molteplicità di considerazioni scientifiche e tecniche, oltre che filosofiche ed etiche; esse, mi pare, hanno raggiunto un primo equilibrio legislativo in tale legge, confermata da un referendum; per qual poco che riesco a capire e “salvo meliore iudicio”, non mi pare che sia opportuno modificare tale equilibrio senza averlo prima messo alla prova del tempo. Né mi pare che la questione del momento dell’origine della vita umana incida sul problema dell’eutanasia, almeno dal punto di vista filosofico e giuridico. Dal un punto di vista religioso cristiano, che vede la vita come un “dono di Dio”, non mi pare che dovrebbe seguirne, come dice Berti, che tale dono, una volta fatto, rimane nella piena disponibilità della persona a cui è stato fatto, per cui questi può liberamente rinunciarvi, qualora gli divenisse gravoso. Bisognerebbe, infatti, considerare, come le stesse riflessioni sul dono oggi mettono in luce, che il dono, e direi soprattutto il dono della vita, è l’instaurarsi di una relazione tra Dio e l’uomo, che vincola donatore e donatario ad una responsabilità reciproca; da parte divina la responsabilità di una promessa di assistenza amorosa; da parte umana la responsabilità di una cura premurosa della propria vita (oltre della vita altrui) come unico modo di stare nella relazione con Dio; con quella piena fiducia di aver ricevuto un bene che rimane tale nonostante tutte le difficoltà che il vivere, in certi casi, uò comportare. Che la propria vita biologica non sia il bene supremo, tanto da poterla e talora doverla non direi “sacrificare” (nessuno dovrebbe lecitamente uccidersi e tanto meno essere ucciso per un qualsiasi fine più alto!) ma subordinare a beni più importanti, come l’amore del prossimo, la difesa della verità o simili, anche secondo il detto evangelico: “non c’è amore più grande di dare la vita per i propri amici”, non comporta che essa possa essere direttamente soppressa, in vista di fini superiori, né dal soggetto stesso della vita umana né tanto meno da altri. Ma la problematica dell’eutanasia, con le doverose e non semplici facili distinzioni– anche in seguito ai progressi della medicina - dalla sospensione dell’accanimento terapeutico e le sue connessioni con il delicato problema etico e giuridico del testamento biologico, vanno ben al di là di una possibile presa di posizione in questa sede.


Il consumo consuma. Globalizzazione e principio di unicità. di Silvano Petrosino1

(...) a me sembra che il motore che governa l’attuale globalizzazione sia da individuare essenzialmente nella spinta al consumo: la società di oggi2 è plurale proprio perché governata dalla logica del consumo, o per essere più precisi: la spinta al consumo si fonda su quella logica delle differenze – come si cercherà di chiarire in seguito, su una certa logica delle differenze – che è ad un tempo causa ed effetto della nostra società plurale. E’ questo un aspetto della questione che non bisogna in alcun modo sottovalutare: il consumo, più che gestire o sfruttare o adeguarsi alle differenze, in verità le individua e sollecita, configurandosi così come il principale fattore della loro stessa istituzione e valorizzazione; in tal senso – un senso che dovrà essere qui di seguito subito precisato (...) – il consumo è per sua natura «fecondo», «vitale», e non è un caso che esso venga con insistenza configurato con


l’immagine della «spinta». Volendo raccogliere in uno slogan queste iniziali considerazioni si potrebbe così affermare che la nostra è una società plurale proprio perché dominata dalla spinta al consumo e dall’imperativo che la governa: «Si deve vendere tutto, si deve vendere a tutti». (...) Riconosciuta la sollecitazione delle differenze prodotta dalla spinta al consumo è necessario però comprendere meglio la natura dell’apertura prodotta dall’imperativo «Si deve vendere tutto, si deve vendere a tutti». Innanzitutto «si deve vendere tutto»; si assiste a tale riguardo ad una continua estensione della categoria del «vendibile»: ogni aspetto della vita in generale e della persona umana in particolare viene indagato, senza alcuna esitazione e senza alcun senso della misura, al fine di riconoscere un suo possibile sfruttamento in funzione della vendibilità. Da questo punto di vista, di fronte a quello che appare come un radicale ridimensionamento della sfera del pudore (per vendere e far consumare non ci si ferma quasi di fronte a nulla), non è affatto vero che «oggi» non ci sono più valori, poiché quest’ultimi sono sempre affermati ed anzi altri nuovi di continuo vengono istituiti sebbene solo nella misura in cui tutti si trovano ricondotti all’interno di un unico valore, all’interno di quella autentica pulsione a consumare che rappresenta il vero motore dell’attuale società. In secondo luogo bisogna «vendere a tutti», cercando di continuo nuovi mercati, imponendo, se necessario, il mercato a tutti, interessandosi a ciascuno in quanto ciascuno è un potenziale consumatore. In tal senso la spinta al consumo è astrattamente «democratica»: non c’è uomo che, adeguatamente accostato e preparato, cioè formato/educato, non possa diventare un grande consumatore. Tutti possono consumare, e questo spesso ha significato, e ancor più spesso, penso, presto significherà: tutti dovranno consumare. In terzo luogo, prendendo atto che in verità non proprio tutto è vendibile e non proprio a tutti si può vendere, è necessario isolare, neutralizzare se non proprio eliminare, rinchiudere il «non vendibile/consumabile» all’interno di luoghi il più possibile marginali; è questo il destino, ad esempio, di alcuni sentimenti, delle più profonde convinzioni morali e religiose, degli affetti se si vuole più imbarazzanti, del dolore inconsolabile di alcuni soggetti «sfortunati»: tutto ciò viene relegato nel privato, nel «cuore», nell’ambito notturno e nella marginalità. Il non vendibile/consumabile – nessuno nega la sua esistenza – subisce così ciò che propongo di chiamare un «processo di incistamento»: esso non può essere del tutto espulso dalla vita del singolo e dal corpo sociale, e così rimane al suo interno, ma sempre e solo come separato, reso inattivo, come una ciste isolata dal resto dell’organismo da una membrana che precisamente è una forma di difesa. All’interno di una simile prospettiva si potrebbe così arrivare a pensare – come talvolta si è anche esplicitamente affermato – che l’educazione più realista e meno ideologica alla differenza, al confronto tra le differenze, è proprio quella relativa al consumo: bisogna educare soprattutto al consumo, bisogna insegnare e imparare a consumare, tutto il resto verrà di seguito. Eppure – ecco l’altra evidenza che contraddistingue l’attuale società «plurale» – è necessario riconoscere che la spinta al consumo apre inevitabilmente solo a quel tipo di differenza che è conforme alla logica stessa del consumo. Quest’ultimo senza dubbio sollecita l’inter-esse del soggetto, spinge ad entrare in relazione con il diverso, ma solo nella misura in cui quest’ultimo viene pre-visto o pre-figurato (identificato) come conforme alla legge che il consumo impone. In altre parole, il consumo si interessa solo al consumabile, e in tal senso esso senza alcun dubbio apre all’altro


ma solo in quanto questi viene «immaginato» come sensibile al consumare; il consumo si inter-essa all’altro solo nella misura in cui quest’ultimo viene identificato come il corrispondente alla logica stessa del consumo: all’interno di una simile logica, dunque, l’altro è sempre e solo – ecco un’evidenza che non ha nulla di naturale ed ovvio – un consumatore (venditore/cliente). Di conseguenza se da una parte la spinta al consumo favorisce quella che può essere definita una forma di «attenzione» o di «acutezza» – dovendo vendere e far consumare ci si sforza di individuare sempre nuovi clienti, così come con insistenza si fa di tutto per prendersi cura delle esigenze di ogni singolo cliente – ,dall’altra parte questa stessa spinta condanna a quella che può essere definita una forma di «distrazione» o di «cecità»: non si vede altro, dell’altro non si vede altro che la sua capacità di consumo, per questo ci si interessa all’altro ma dell’altro non interessa null’altro. In conclusione, la spinta al consumo – la stessa che apre all’altro, che va con insistenza verso l’altro – finisce per coincidere con la consumazione stessa dell’altro nel consumo. (...) La nostra società globale risulta così contemporaneamente plurale ed omologata, ed anzi si potrebbe arrivare a pensare ch’essa si presenta come plurale proprio perché al fondo è essenzialmente omologata. Riprendendo la concettualità biblica, si può forse riconoscere in un simile processo di differenziazione/omologazione l’antica ed inquietante modalità dell’abitare babelico: tutti insieme, ma sempre e solo perché mossi da un’unica pulsione, da quell’ «attività macchinale», per dirla con Nietzsche, che spinge ciecamente verso un’unica città, una sola torre, un’unica lingua, all’insistente ricerca di un solo nome. Forma dell’abitare che Dio viene a scompaginare3. Se dunque non bisogna mai cedere a quella tentazione apocalittica che tende a criminalizzare il concetto stesso di consumo, non bisogna neppure essere così colpevolmente ingenui da credere nelle proprietà «salvifiche» di ogni spinta al consumo; in tal senso, senza cadere in contraddizione con quanto precedentemente affermato, non si può fare ameno di affermare che la nostra non è affatto una società plurale, e che di conseguenza è ancora necessaria, è con ogni probabilità non cesserà mai di esserlo, un’autentica educazione/formazione al dialogo tra autentiche differenze (...) In tal senso si deve opporre all’imperativo più sopra individuato («Si deve vendere tutto, si deve vendere a tutti») l’antica sollecitazione «Andate e moltiplicatevi», riconoscendo in essa non solo l’invito ad aprirsi a tutti, ma anche, e a mio modesto avviso soprattutto, ad aprirsi al tutto che ciascuna singolarità è4. In termini minimamente rigorosi non si può nemmeno porre la questione di un’educazione al convivio delle differenze al di fuori di questa concezione forte o densa, senz’altro drammatica, della differenza che deve essere pensata fino al culmine dell’unicità: sforzati di aprirti a tutti (evitando ogni esclusione), ma al tempo stesso sforzati di aprirti al tutto, all’unicità, di ogni ciascuno (evitando ogni censura). (Footnotes) La conferenza, dal titolo «Il fenomeno della società plurale: identità e differenze oggi», è stata tenuta l’11 gennaio 2007 nell’ambito del Convegno Internazionale «Nel convivio delle differenze. Il dialogo nelle società del terzo millennio» che si è svolto nei giorni 11-12 gennaio 2007 presso la Pontificia Università Urbaniana in Vaticano. Il testo della conferenza è ora pubblicato in AA.VV., Nel Convivio delle differenze. Il dialogo nelle società del terzo millennio, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2007, pp. 25-33. 2 Mi riferirò esclusivamente all’ «oggi» di quel tipo di società che caratterizza ciò che si è soliti definire il «primo mondo», vale a dire una società ad alta industrializzazione ed informatizzazione, con un’economia di libero mercato e con un’elevata capacità di consumo pro-capite. 3 Per un’analisi più approfondita del grande racconto biblico relativo alla costruzione della 1


Torre di Babele (Genesi, 11, 1-9) rinvio a S. Petrosino, Babele. Architettura, filosofia e linguaggio di un delirio, il melangolo, Genova 2003. 4 P. Beauchamp, commentando l’episodio biblico della costruzione della Torre di Babele all’interno di ciò che definisce il «regime di senso» creaturale, afferma: «(…) la separazione delle lingue è tuttavia associata a un insieme (Gn, 10) di disposizioni separatrici inauguarate dal regime imposto ai viventi, uomini e animali, a partire dai figli di Noè. Tutte hanno un’efficacia positiva, benché non possano ancora introdurre alla salvezza (…)» (P. Beauchamp, L’un et l’autre Testament. 2. Accomplir les Ecritures, Seuil, Paris 1990, trad. it. di M. Milazzo, L’uno e l’altro Testamento. 2. Compiere le Scritture, Glossa, Milano 2001, p. 256).


Rileggendo Il senso del fondamento di Aldo Masullo di Armando Rigobello

E’ stato recentemente riproposto il saggio di Ado Masullo Il senso del fondamento, a cura di Giuseppe Cantillo, che ne ha redatto la prefazione, e di Chiara de Luzenberger, cui si deve l’introduzione. Il testo è edito dall’Editoriale Scientifica, Napoli, dicembre 2007. Si tratta di un saggio che risale alla fine degli anni sessanta ma le cui incisive argomentazioni, come osserva Cantillo nella prefazione, sono esemplari nel caratterizzare il contributo speculativo del prestigioso maestro dell’Università di Napoli “Federico II”. Il titolo stesso indica l’orientamento del discorso: la centralità del tema del fondamento e insieme in quale senso possa essere proposto in dürftiger Zeit, un tempo di privazione come il nostro, ma anche nella condizione umana di ogni tempo: la ineludibile domanda sul senso globale che accompagna il sorgere stesso del pensiero filosofico di fronte all’insuperabile limite della morte individuale. Le argomentazioni di Masullo partono dai limiti fenomenici della kantiana conoscenza trascendentale. Kant supera il dramma attraverso il sentimento morale e il conseguente primato della ragione pratica, ma se non si accetta il dualismo sembra che non rimanga che l’angoscia esistenziale, l’irrazionalità. Masullo invita a superare il dualismo kantiano concependo il trascenden-


tale come il luogo della intersoggettività. E’ la comunicazione con l’altro, anzi con gli altri, che in questo rapporto ridisegna la fecondità dell’agire nel presente e l’apertura sul futuro attraverso la dinamica storica dello stesso processo intersoggettivo. Non si tratta di non riconoscere il limite, né di superarlo postulando un trascendimento in un diverso piano di realtà, ma di immergersi nella fecondità della comunicazione, dell’agire nella trama dialettica sempre aperta del divenire storico. Il trascendimento della soggettività singola avviene sul piano trascendentale della comunicazione e della progettualità intersoggettiva. Si potrebbe dire con Spinoza che la filosofia è “meditatio vitae” e non “meditatio mortis”. Le difficoltà del dualismo kantiano sono, secondo Masullo, «superabili soltanto se si tiene ben fermo che la filosofia progetta di ricercare un fondamento il quale non possa essere trovato nella sua immediata effettività, ma nella sua dialettica negazione e assenza, trovato nella “memoria” e al tempo stesso nella “speranza”, e in ogni caso come “limite” dell’umana possibilità» (p. 12). Il fondamento colto “nella sua immediata effettività” è quello della metafisica ed insieme della via kantiana del postulato della ragione pratica. L’esperienza fenomenicamente rilevante non è quella dell’empirismo, né quella della sintesi a priori della kantiana estetica trascendentale, ma quella di Diltey e di Yorck von Wartenburg. Il fondamento quindi è compiutamente immanente e dinamico, un orizzontalismo attivo che agisce alimentato dal “ricordo” e sostenuto dalla “speranza”. Potremmo dire che siamo di fronte ad un pensiero che si situa oltre Kant verso Hegel, ove però la dialettica hegeliana perde la sua compiuta necessità logica e si svolge nella concretezza di una dinamica esistenziale, tra continuità (ricordo) e programmazione (speranza). La tragicità della fine viene esorcizzata in una specie di comunione nella soggettività collettiva e nel tempo storico. Il marxismo rimane come sfondo utopico e come questione di metodo. Un efficace sintesi del nucleo centrale del discorso la possiamo cogliere nelle ultime pagine del saggio. « L’ angoscia – osserva Masullo – non scaturisce invero dall’anticipazione della possibilità della morte, se non quando l’uomo ha perduto il suo fondamento. Il “sicuro fondamento originario dell’umanità “ è la comunicazione, la comunità vivente che ne fonda e delimita le possibilità» (p. 168). L’eredità della dialettica hegeliana si intreccia con la fondazione dell’intersoggettività della V Meditazione cartesiana di Husserl. Ricoeur ha acutamente osservato che Husserl attribuisce all’intersoggettività quel ruolo che Cartesio attribuisce alla garanzia divina, ma mentre tutta la ricerca fenomenologica ha per Husserl un prevalente valore propedeutico, il carattere dialettico dell’argomentazione di Masullo si presenta come affermazione costitutiva. La prospettiva di Masullo si situa al centro dei dibattiti sulla situazione culturale, etico-politica contemporanea, il testo risale alla fine degli anni sessanta, a ridosso della grande contestazione. Il discorso di Aldo Masullo sottende particolari situazioni, apre però ad orizzonti più ampi e finisce per delineare quelle prospettive che, per usare una espressione di Sartre, potrebbero essere indicate come “prolegomeni ad ogni futura antropologia”. Nel testo di Masullo il senso del fondamento si oppone alla schizofrenia, la vita umana è riscattata dall’angoscia attraverso l’immersione nel vissuto comunitario. Sono proposte certamente lontane dalla radicalizzazione esistenzialistica del Sartre di Etre et neant, l’uomo di Masullo non è certo una


“inutile passione”. Nonostante le apparenze la comparazione è forse più agevole con un altro pensatore francese, Gabriel Marcel. Non si tratta di una convergenza, ma di livelli di discorso che permettono un confronto. Il testo di Marcel in proposito è Abbozzo di una fenomenologia e di una metafisica della speranza (1942). Il nucleo speculativo del discorso di Marcel è condensato nella frase finale del saggio: «Potremmo dire che la speranza è essenzialmente la disponibilità di un’anima così intimamente impegnata in un’esperienza di comunione da compiere l’atto trascendente in contrasto con il volere ed il conoscere mediante il quale essa afferma la perennità vivente di cui questa esperienza offre insieme il pegno e le primizie». Ricordo (memoria), intersoggetività e speranza sono presenti nelle due prospettive, quella di Masullo e quella di Marcel, sebbene l’intersoggettività in Marcel, si radicalizzi come comunione, la speranza venga indicata come “memoria del futuro”, la dialettica si attui attraverso “lo scacco del conoscere e del volere”, accompagnato da anticipazioni e da “primizie”. La chiave di lettura di questo confronto sta nella differenza tra intersoggettività e comunione: la prima indica un costitutivo rapporto di riconoscimento reciproco, la seconda si richiama ad una esperienza esistenziale al limite della fusione. Per chiarire il senso della comunione possiamo ancora fare riferimento ad una espressione di Sartre, questa volte tratta dalla Critica della ragione dialettica, quella di “gruppo in fusione”, ma la comunione di Marcel non è esposta alla “rocciosa” necessità di una “dialettica costituita” che dissolve, attraverso l’emergere del “pratico inerte”, il gruppo in fusione nella “fraternità terrore”. La intersoggettività e la comunione sono entrambi dei trascendimenti della singolarità personale, ma la prima si concreta nella sfera dei rapporti pubblici e il suo spazio è la società civile, la seconda allude al “corpo mistico”, al “Reich der Gnade” di Leibniz e in qualche modo può anche richiamare il “Reich der Zwecke” di Kant. L’azione cui la comunione dà luogo non è rilevante soltanto sul terreno storico, temporale ma trae la sua forza e la sua giustificazione in un eschaton che trascende “la curva dei giorni”. Anche nella intersoggettività comunicativa di Masullo è presente un coinvolgimento esistenziale, quello dell’eros, forza creativa ove la soggettività personale e il rapporto interpersonale si intrecciano, ma nella comunione di Marcel una trascendentale speranza metastorica accompagna l’impegno: la “poetica dell’agape” e “l’economia del dono”. Sono espressioni di Ricoeur. La differenza tra un agire intersoggettivo alimentato dal reciproco riconoscimento e dall’etica della comunicazione e l’agire nell’esperienza di una comunione che la morte non può interrompere sono certamente notevoli, ma non mancano convergenze se prendiamo in considerazione l’eros cui allude Masullo, che muove dall’interno la comunicazione ed il suo esercizio etico, e la comunione di Marcel, che fonde le anime in una trascendentale speranza e comporta un esercizio di fraternità. La differenza fondamentale è sul piano religioso più che su quello dell’azione, delle conseguenze operative, per lo meno nelle loro linee più generali. Si può anche richiamare la distinzione che Ricoeur pone tra la fede religiosa, che è la risposta ad un appello, e la filosofia, che è autonoma ricerca. Ma è in uno dei punti più problematici della ricerca filosofica, quello del male nel mondo, che le due posizioni illustrate si differenziano radicalmente. Nel testo di Aldo Masullo lo spazio del male sembra configurarsi come limi-


te. La “perdita del fondamento”, che finisce per determinare la schizofrenia, è il vero aspetto negativo della condizione umana. Accettare la naturalità del limite (e quindi della morte), immergersi nella terapia della comunicazione, nel fervore del vissuto, è esercizio di etica civile, liberatrice. La speranza è la controfigura della schizofrenia, essa si conquista nel superare la malattia psichica con l’impegno nel tessuto intersoggettivo del mondo umano, delle sue dinamiche. Questo impegno ha un nome antico, è l’eros, inteso nel contesto di una interpretazione immanentistica dell’eros platonico. Il fondamento ritrovato è la dinamica comunicativa, la sua fecondità sociale ed insieme un coinvolgimento erotico nell’azione pubblica. Con tutta l’ammirazione per l’impegno con cui Masullo ha saputo affrontare il dramma filosofico, e non solo filosofico, del nostro tempo, ci pare opportuno osservare come il problema del male non si possa risolvere dialetticamente, anche perché il male non è solo il timore della morte. “Quest’atomo opaco del male” purtroppo è enormemente più esteso. Il “dolore invendicato”, di cui parla Dostoevskij, è dilagante. L’esperienza di comunione, pur nel pericolo di retoriche evasive, allarga l’orizzonte di riferimento oltre i limiti di paure esistenziali e di cedimenti psichici fino ad abbracciare tutto il dolore del mondo. Questa esperienza di comunione è così intensa da divenire “pegno” e “primizia” di una “perennità vivente”. Questa perennità è il fondamento che “ci precede ed insieme ci fonda”. Marcel generalmente evita di fare esplicito riferimento alla rivelazione cristiana, ma la derivazione dal linguaggio di san Paolo è evidente. Siamo di fronte al “credo ut intelligam” e all’ “intelligo ut credam” di Agostino? Affrontare la questione nell’ambito di questa recensione sarebbe fuori luogo, dà comunque a pensare l’affinità ed insieme la distanza tra la “perennità vivente” di Marcel, che emerge da una esaltante intensità di comunione, e il fervore della comunicazione che, secondo Masullo, si attua nella puntualità temporale dell’agire. Il ritrovato fondamento si fonde con l’attualità del presente. La differenza tra le due posizioni si delinea chiaramente se si considera il rapporto della speranza con la temporalità. Per Masullo sia il fondamento che la speranza si coagulano nella creativa pienezza dell’azione, per Marcel la speranza è “memoria del futuro”. Il “ricordo” è presente anche nell’agire attuale, secondo Masullo, ma non né essenza del futuro. La speranza “come memoria del futuro”invece inverte il corso della temporalità naturale, introduce nel tempo l’avvertimento di una metatemporealità che, come dicevamo poco fa, “ci precede e ci supera”. La differenza tra le due pozioni speculative è radicale, ma ad entrambe è utile il confronto a partire dall’analisi della domanda di senso, tipica della condizione umana, e da una puntuale comparazione in sede etica del loro concreto esercizio.


Memoria e politica. Attualità di Antigone di Carla Canullo

Antigone, figura consegnataci dalla tragedia di Sofocle e amata da filosofi e scrittori, narrando del contrasto tra stato e individuo, tra particolare e universale, narrando della difficile obbedienza ad una legge “non giusta”, mette a nudo le contraddizioni delle umane vicende, della storia e della tradizione cui si appartiene. Figura straordinaria è quindi la figlia di Edipo, ma anche strana e inquietante, come l’uomo. Nella “sua” tragedia, opponendosi a Creonte (tiranno di Tebe), muore per aver dato degna sepoltura al fratello Polinice, traditore della patria e morto nella guerra contro la sua stessa patria, Tebe. Ma, soprattutto, la vediamo morire per quel fratello – Polinice, appunto – che nell’altra tragedia che la vede protagonista, Edipo a Colono, è maledetto dal padre. Antigone assiste inerme e in silenzio a quella maledizione, pronunciata contro Polinice che, primogenito di Edipo e Giocasta, è reo di aver esiliato il padre da Tebe costringendolo, con le sorelle Antigone ed Ismene, ad una vita di mendicanza ed erranza. Costringendolo, però, anche a compiere il proprio destino e destinandolo, a sua volta, a quella sacra ospitalità di Teseo che, a Colono, gli permetterà di trovare finalmente la pace, concedendogli di ascoltare il “tuono del dio”. Anche il destino di Antigone è compiuto dal gesto di Polinice. Non soltanto, allora, assistiamo ad uno scontro tra legittimità del potere e dell’ordine e fedeltà ad una legge che non appartiene a tale ordine


ma lo sopravanza, essendo più antica; e ancora, non soltanto assistiamo alla dissidenza di Antigone e allo scontro tra stato ed individuo: noi assistiamo anche ad un compimento che passa attraverso un deviare. Antigone, infatti, compiendo il proprio destino, fa accadere il compimento di un altro personaggio, Creonte; compimento che il tiranno, tuttavia, riconoscerà soltanto alla fine, o meglio, che conosceremo dalle parole del Corifeo: «È di felicità primo elemento l’esser savi» (v. 1348). Compimento, del quale Creonte verrà a conoscenza soltanto dopo esser passato attraverso le sciagure vaticinate da Tiresia. La fedeltà e il compimento passano, dunque, attraverso un deviare, una memoria che è paradossale non memoria, o addirittura tradimento della memoria. Il che rivela che la memoria è carica anche del suo contrario; anzi, spesso nel tradimento della memoria accade il compimento che si accompagna una nuova conoscenza, secondo verità. Ma da che cosa devia Antigone mostrandosi inadatta ed insofferente nei riguardi della situazione politica di Tebe? Il suo gesto non è, forse, equivoco? La protagonista, infatti, devia dallo stato e dalle sue leggi, da un ordine legittimo. Di più, difende Polinice che muore per aver mosso contro la sua città, e ciò nonostante egli abbia commesso un atto sommamente ingiusto contro suo padre e contro la sua patria. Questo deviare sembrerebbe essere un gesto più “negativo” che “positivo” ed ogni legittima “simpatia” nei riguardi di Antigone, ogni “entusiasmo” per questa figura non legittimano il fatto che la sua “strada” possa esser definita “giusta”. Eppure proprio Creonte è colui che, alla fine, la riconosce tale, quando finalmente apprende e comprende. L’intreccio degli elementi evocati (stato vs individuo, particolare vs universale, la difficile obbedienza ad una legge “non giusta”…) non cessa, allora, di provocare, di darsi come complessione vivente che interroga ancor oggi la politica e il giusto, questionando anche il significato del deviare. In quest’interrogazione mi pare che un ruolo non marginale sia quello che può svolgere la philia. La quale non taglia né risolve le questioni sollevate da e attorno ad Antigone, ma ne illumina la scelta e, soprattutto, ne dis-piega il suo ingresso nella politica, nella vita della polis; o meglio, dis-piega il significato politico del suo gesto. Antigone, infatti, entra nella polis non esaltando le leggi ma, anzi, opponendosi ad esse. Vi entra, cioè, scegliendo di essere apolis, “fuori dalla città”. Entra nella città deviando, ma – ecco il paradosso – deviando compie, porta a conoscenza, apre l’effettiva possibilità che la vera strada sia, alla fine, conosciuta. Contro le leggi, Antigone entra nella città affermando «nacqui a legami d’amore, non di odio» (v. 523), dove l’amore, con il “gesto” compiuto esemplarmente e “per tutti” da Antigone, si fa capace di entrare nella politica, nella vita della polis grazie ad una disobbedienza (al tiranno, a Creonte) ed un’obbedienza (alle leggi della tradizione). Obbedienza che nasce da una philia tanto diversa e lontana sia dall’azione violenta, sia dal pio gesto di una bontà “privata”. Antigone devia dall’atteggiamento violento di Creonte, inserendosi nella polis ed inaugurando una nuova politica: in questo sta la specificità del suo atto. Essa, tuttavia, non devia dalla legge opponendo al pubblico il privato, ma inaugurando una nuova politica capace di inaugurare una nuova città, fondata su rapporti diversi di amicizia e amore. Amore che non ha nulla a che vedere con la bontà ma che viene dalla (e si nutre della) memoria. Il suo è, infatti, un gesto di amore perché scegliendo di seguire le “leggi non scritte”, incrollabili, degli dèi (leggi che «non da oggi né da ieri, ma da sempre sono in vita, né alcuno sa quando vennero alla luce» (vv. 454-457))


decide di dare la vita perché Polinice abbia degna sepoltura. O meglio: perché il fratello nemico della sua patria e, soprattutto, del padre Edipo, che egli aveva condannato all’esilio e che lo aveva maledetto, sia sepolto. Di nuovo, allora, e proprio mentre ci interroghiamo sull’originalità del gesto di Antigone e sul suo ingresso nella polis, la tragedia sofoclea ripresenta il proprio crogiolo di contraddizioni e non di soluzioni pacificanti. La philia non rende piane le situazioni controverse ma nasce da una deviazione che si fa capace di esplorare sentieri nuovi. Primo fra tutti, il difficile tema della cittadinanza, tema che chiama direttamente in causa la philía. Ha ragione, in tal senso Francesca Brezzi a dire che da Antigone viene inaugurata «una nuova idea di cittadinanza, cittadinanza negoziata, retta da rapporti flessibili e malleabili, non edificata su identità etniche rigide ma interculturale» (BREZZI 2004, 297). Ecco, allora, il significato politico della philía di Antigone: essa inaugura un nuovo modo di intendere la cittadinanza, aprendo nuove modalità di rapporti; inaugura un universale non “fuori contesto” ma “in contesto”; un universale, cioè, capace di dare conto delle differenze che, nel tempo, si sono affermate (differenze politiche, sessuali, etniche… ); un universale, infine, che si traduce in quella nuova idea di “cittadinanza negoziata”. Il gesto di Antigone, compiuto nella fedeltà alle leggi non scritte ci interroga ancora rivelandosi come punto sorgivo di novità inaugurante nuovi rapporti. Fedeltà alle “leggi non scritte”, allora, come paradigma di ogni altra fedeltà. Quale fedeltà è in gioco, tuttavia? Antigone è fedele al proprio genos, naturalmente, e dunque a Polinice, e per lo stesso motivo ed in un caso analogo, lo sarebbe probabilmente stata anche all’altro fratello, che ha combattuto per la patria, Eteocle. È, però, infedele al padre Edipo, e dunque e paradossalmente, anche al proprio genos. Le contraddizioni iniziali (pubblico-privato, individuo-stato…) risuonano ancora e di nuovo nel gesto di Antigone. Un’impasse questa che, ogni qualvolta il nome dell’eroina ritorna, sembra essere sempre e inevitabilmente data in sorte. Sembra, tuttavia, perché interrogarsi sul significato della sua fedeltà può offrire una via di uscita. Non la fedeltà della coerenza brilla dalla philia di Antigone, né la stabilità dell’immutabile da essa traluce. Reciprocamente, la philia pur partendolo - nel fondare legami - da fonti diverse da quelle cui ricorrono il tiranno o il legislatore, non è per questo destinata ad inaugurare rapporti di cittadinanza precari o instabili, contrari (se non addirittura contraddittori) rispetto a quelli stabiliti dall’ordine delle leggi. Essa è destinata a generare una stabilità diversa, la cui dismisura è data dalla fedeltà. Questa possiede e genera una sua stabilità, diversa da quella che caratterizza la coerenza o il perseverare nella propria opinione: se la fedeltà fosse “volontà di non cambiare” od ostinazione, chi più di Creonte potrebbe essere detto fedele al suo editto che vietava di dare sepoltura a tutti i nemici della patria, e a Polinice innanzitutto, e chi meno di Antigone potrebbe meritare questo aggettivo? Ma la fedeltà di Antigone non è riconducibile alla coerenza affermata con un atto (quasi disperato e folle) di volontà. Lei stessa dubita della giustezza della propria azione, e piange e lamenta ciò cui questa stessa la destina, condannandola a morte e privandola della gioia di essere sposa e madre. Il suo gesto sembrerebbe piuttosto un ostinato contrapporsi al tiranno, al potere, destinato a sfociare nell’auto-annientamento di se stessi. Ma la fedeltà di Antigone non è astratta e vuota coerenza destinata ad esaurirsi nel singolo atto compiuto in uno stato prossimo alla follia. La “sua” fedeltà, lungi dall’essere l’ostinato arroccamento di una volontà che non vuole cedere, è risposta. Antigone risponde a leggi la cui origine si perde nel tempo, afferma


un amore che eccede ogni fatto e circostanza storica. Antigone risponde ad un appello che non appartiene al tempo ma che continua a convocare nel tempo perché, se non convocasse, sarebbe destinato all’oblio. Risponde ad un appello non cancellabile dalla memoria perché di esso vivono gli atti di pietà, amicizia ed amore capaci di fondare un nuovo ordine, capaci di insegnare, di dare da comprendere anche il senso della polis, della politica. Ecco il senso del suo far memoria (e, dunque, della memoria) quale capacità di generare un nuovo ordine. Una memoria che nasce dal felice paradosso di una disobbedienza esito dell’obbedienza ad un appello. Antigone, infatti, obbedisce a “leggi non scritte” che vincolano l’arbitrio dell’assoluta onnipotenza del tiranno. Queste leggi e la loro memoria si palesano nell’atto del far memoria svelando in esso ciò che, accadendo nel tempo, non appartiene al tempo e che, con la philía, può entrare anche nello spazio della polis, costringendone le leggi verso l’altrove da cui sono generate. Costringendo oltre lo spazio segnato dalla città e dalla cittadinanza per tornare alla città stessa in modo diverso. Fedeltà, dunque, come risposta a ciò che si svela nella legge come sua radice eterna e fondata in “altro”; “altro” che permette di ridisegnare i rapporti della città alla luce dell’atto compiuto come e in quanto philía. “Altro” che convoca ad una risposta ma che, anche, chiede di essere custodito. Il gesto del memorare, della memoria, è allora sempre ed anche un custodire, un serbare per mantenere desto, per istituire una continuità diversa dalla coerenza o dall’ostinato perseverare. Memorare e custodire, dunque, come gesti e verbi della fedeltà, come gesti di una fides che non vincola al “non dover mai cambiare”, che non teme gli inevitabili mutamenti cui il tempo destina le vicende umane. Antigone stessa dubita, trema, teme, esita quando “agisce contro”. Entra nella polis con un gesto nuovo, mostrando come la cittadinanza inaugurata dalla philía sia piuttosto compito (far memoria delle leggi) e non pacificazione; sia, in definitiva, relazionalità capace di creare un nuovo spazio. Ma relazionalità, appunto, come compito da costruire, apprendere ed insegnare. Quale stabilità, allora, è introdotta da una fedeltà che nasce dal convergere di due azioni, da un memorare che è rispondere all’appello di leggi che convocano nel tempo pur non appartenendo al tempo ma che in questo appello si palesano e svelano, e da un custodire che coincide con il rispondere e che fa sì che ciò che convoca sia mantenuto vivo nel tempo? Non si tratta della stabilità del perseverare a prescindere da ciò che si rivela, ma di un perdurare nel tempo dell’atto stesso che rievoca e convoca. Detto altrimenti, il perdurare che caratterizza la fedeltà è posto e reso effettivamente possibile da ciò stesso di cui si fa memoria e che è custodito. La fedeltà di Antigone non è ostinazione, ma è un deviare dalle leggi non giuste (e alla fine della tragedia riconosciute tali anche da Creonte) reso possibile dalla risposta all’appello di ciò che precede il tempo e procede da un passato immemoriale. Ancora, il perdurare di Antigone non è un atto di forza ma è un cedere a ciò che da sempre è e che, essendo da sempre, svelandosi e palesandosi genera continuità e stabilità ridisegnando e consegnando nuovi spazi di convivenza.


Riconcettualizzare il rapporto medicopaziente: il modello deliberativo alla prova di Corrado Viafora

Il modello di relazione medico-paziente che la bioetica ha finora promosso è quello espresso dal “consenso informato”, assunto come vero e proprio nuovo paradigma dell’etica in sanità. Il profilo applicativo di tale modello, come si sa, prescrive al medico l’obbligo di informare il paziente, proporgli percorsi alternativi di cura, aiutare infine il paziente a pervenire autonomamente alla “sua” decisione, mantenendo un atteggiamento neutrale da un punto di vista valoriale. La tesi che intendo sostenere, sulla base dell’analisi del più ampio contesto culturale entro cui il rapporto medicopaziente oggi si colloca, è che tale modello di relazione, così come è stato concettualizzato, non sembra in grado di affrontare le sfide con cui tale rap-


porto è chiamato a confrontarsi. Sia chiaro: non si tratta di abbandonare il modello del “consenso informato”, quanto piuttosto di rinforzarlo, superando alcuni limiti connessi con la concettualizzazione dominante ispirata alla tradizione “liberale”. 1. Premessa: l’ “emancipazione del paziente” Punto di partenza della riflessione che intendo svolgere è l’analisi di un fenomeno che per certi versi si colloca all’origine stessa della bioetica e che comunque costituisce un fattore discriminante nell’evoluzione del rapporto medico-paziente: è il fenomeno che D. Gracia, con un evidente riferimento all’interpretazione della modernità data da Kant, chiama “emancipazione del paziente”. Per Kant la modernità consiste nell’uscita dell’uomo dallo stato di minorità e avere il coraggio di pensare e agire autonomamente, emancipandosi appunto dalla tutela rassicurante di ogni autorità. Applicato allo specifico campo delle relazioni sanitarie, in cosa consiste il fenomeno dell’emancipazione? Qual è il suo impatto sul rapporto medico-paziente? L’etica medica tradizionale si basava sul principio che la malattia non solo altera l’equilibrio fisico dell’individuo, ma anche quello psichico e morale. La malattia, diceva già Aristotele, altera a tal punto la capacità di giudizio che impedisce al paziente di decidere con saggezza. Per questo la virtù primaria richiesta al paziente è l’obbedienza: funzione del medico è di comandare; funzione del paziente di obbedire. La categoria dell’emancipazione usata per indicare la progressiva presa di distanza da questo approccio paternalistico dà bene il senso della nuova attitudine che si afferma a partire dalla fine degli anni ’60: la ricerca di un rapporto più adulto con il medico che, superando la tendenza a infantilizzare il paziente, potesse avviare anche nel campo medico-assistenziale rapporti più alla pari e partecipativi. Di questa nuova attitudine si danno spesso letture ideologiche, volte alcune a “mitizzarla”, altre a “demonizzarla”. Mi sembra invece che si diano buone ragioni per sostenere che tale fenomeno comporti una sostanziale ambivalenza: può rendere il rapporto medico-paziente più adulto e cioè più consapevole e responsabile, così come può renderlo più conflittuale e cioè litigioso e rivendicativo. La questione che vorrei porre al centro della mia riflessione è perciò la seguente: quali sono le condizioni per promuovere e rinforzare gli aspetti positivi connessi con l’emancipazione del paziente e contenerne e minimizzarne gli aspetti negativi? Quali sono in sostanza le condizioni per favorire la costruzione di un rapporto medico-paziente più maturo (anche se più conflittuale) e di conseguenza anche terapeuticamente più efficace? 2. I fattori che più incidono nell’evoluzione del rapporto medico-paziente Tra i fattori che maggiormente incidono sull’evoluzione in atto del rapporto medico-paziente ne segnalo tre. Sono quelli da cui deve partire, in risposta al processo di emancipazione del paziente, la ricerca di relazioni medico-assistenziali più adulte. 2.1. L’irruzione del “linguaggio dei diritti” nel campo delle relazioni medico-assistenziali Il primo fattore che incide in maniera rilevante sull’attuale configurazione del rapporto medico-paziente è dato dall’irruzione nel campo delle relazioni medico-assistenziali del linguaggio tipico della modernità: il “linguaggio dei diritti”. Da un punto di vista culturale, la sensibilità che ha più


contribuito a esprimere e insieme a legittimare l’emancipazione del paziente è quella a cui si è ispirata a partire dal contesto nord-americano la crescente rivendicazione dei valori di individualità, di libertà e di autonomia, confluita poi nei movimenti dei diritti delle minoranze, dei diritti delle donne e, in particolare, dei diritti dei pazienti. Con l’introduzione del linguaggio dei diritti (anche) la medicina si può dire sia definitivamente entrata nella modernità. Risale al 1973 il primo documento che applica in maniera esplicita il linguaggio dei diritti al campo della medicina e dell’assistenza sanitaria in genere: è il “Codice dei diritti dei pazienti” emanato dall’Associazione degli Ospedali Americani. Un’attenta lettura del Codice è estremamente istruttiva in quanto mette in luce come i dodici punti di cui si compone non siano altro che specificazioni del diritto generale al “consenso informato”. Sulla novità di questo documento così si esprimono nella loro “storia e teoria del consenso informato” R. Faden e T. Beauchamp: “Questo documento implicava un distacco quasi rivoluzionario dall’approccio paternalistico tradizionale. Per la prima volta il medico era obbligato a coinvolgere il paziente nel processo decisionale e riconoscergli il diritto di prendere la decisione ultima”. Quanto fossero forti le resistenze di fronte a questa novità può essere testimoniato dal giudizio che sul “consenso informato” dà qualche anno dopo sull’autorevole rivista dei medici americani G. Laforet: “Il consenso informato è un mito legalista, che mette in questione la qualità delle cure prestate al paziente e paralizza il medico coscienzioso. Erige barriere insuperabili alla ricerca e non è realisticamente applicabile ad una buona porzione della popolazione. Questo termine non ha alcun posto nel lessico medico”. Precauzione e invito al discernimento si possono ancora cogliere, dieci anni dopo la stroncatura di G. Laforet, in queste parole di F. Isambert: “Grande è il rischio che nella prassi medica il consenso venga fondato su un contratto esteriore spogliandosi di ogni dimensione simbolica e cercando la solidità oggettiva di atti giuridici a loro volta garantiti da altri atti e da altre assicurazioni”. Le considerazioni di F. Isambert hanno il merito di evidenziare con chiarezza la posta in gioco del dibattito sul consenso informato e cioè la qualità del rapporto medico-paziente. Qual è la connotazione di tale rapporto? E’ il “contratto” o la “fiducia”? Dipende dall’una o dall’altra immagine che si ha del rapporto se il consenso verrà considerato “un contratto di garanzia reciproca” o “un rapporto di reciproco coinvolgimento”. Quello comunque che si deve assolutamente evitare, così conclude il sociologo francese, è che il rapporto medico-paziente si carichi di elementi burocratici e legalistici che ne snaturano la fisionomia. Passando ad un’ analisi più specificamente eticonormativa, la valutazione che nel più ampio quadro della nascente riflessione bioetica si dà dell’assunzione del linguaggio dei diritti è in genere concorde nell’individuarne le risorse e insieme nel segnalarne i limiti. Esemplare al riguardo la posizione di T. Beauchamp e J. Childress. Pur riconoscendo la forza del linguaggio “liberale” dei diritti, essi non tralasciano tuttavia di segnalarne molto onestamente alcuni limiti intrinseci. Sulla forza: “Abbiamo l’impressione che nessuna parte del lessico morale sia servita più del linguaggio dei diritti a proteggere gli interessi legittimi dei cittadini nelle varie situazioni politiche. La condizione di essere un detentore di diritti in una società che li faccia valere è fonte di tutela personale, di dignità e di stima di sé. Al contrario, sostenere che qualcuno abbia l’obbligo di tutelare gli interessi di qualche altro può mantenere il beneficiario in una situazione di dipendenza dall’altrui volontà di ottemperare l’obbligo”. Quanto ai limiti del linguaggio dei diritti, essi segnalano in particolare quelli connessi con il carattere “antagonistico” dei diritti. Questo aspetto rischia, secondo gli autori di Principles


of biomedical ethics di impoverire gravemente la comprensione della nostra esperienza morale, dal momento che le esigenze di relazioni significative, come la relazione genitoriale o la relazione terapeutica stessa, difficilmente potranno trovare adeguata espressione con il linguaggio dei diritti. Sui limiti connessi al moderno linguaggio dei diritti, a partire da una sua collocazione all’interno del quadro più ampio della costruzione del soggetto moderno, insiste anche M. Ignatieff. Nella sua “storia dei bisogni”, il sociologo canadese distingue tra bisogni che si esprimono nel linguaggio dei diritti (diritti politici, diritti sociali) e altri bisogni che invece non riescono a farsi esprimere con il linguaggio dei diritti. Partendo da questa distinzione egli arriva a formulare la seguente interpretazione: la modernità, che ha espresso una concezione del soggetto modellata prevalentemente dalla figura dell’individualità, ha sviluppato una risposta imponente ai bisogni collegati con l’autonomia del soggetto, ma ha invece dimenticato fino a cancellarli quei bisogni non dicibili dal linguaggio dei diritti. Attrezzato per esprimere le richieste che un individuo può fare alla collettività o contro di essa, tale linguaggio è relativamente povero come mezzo per esprimere i bisogni di collettività degli individui stessi. Infine - aggiunge M. Ignatieff - il linguaggio dei diritti può esprimere il rispetto della dignità umana come rispetto dei diritti reciproci e sostenere la richiesta di essere trattati con dignità alla luce della nostra comune identità di soggetti portatori di uguali diritti, ma - conclude - noi siamo qualcosa di più di soggetti portatori di diritti e in una persona c’è qualcosa di più da rispettare che i suoi diritti. 2.2. La mitizzazione della salute e la medicalizzazione della vita Un secondo fattore che incide in maniera rilevante sull’evoluzione del rapporto medico-paziente è dato da un fenomeno che si viene configurando come il fulcro attorno a cui ruota sempre più l’interesse individuale e collettivo della post-modernità: la crescente attenzione nei confronti della salute. L’onnipresente preoccupazione per la salute con la tendenza ad ampliare la medicalizzazione della vita è il fattore che in maniera sempre più evidente connota l’attuale atteggiamento verso la salute e la malattia. E’ quanto rileva l’antropologo francese F. Laplantine a conclusione della sua ricerca “sulle forme elementari del normale e del patologico”, e cioè sui diversi modi in cui, oggi, uomini e donne della nostra società si rappresentano malattia e salute. Ciò che caratterizza la nostra cultura, secondo F. Laplantine, non è tanto la ricerca della sicurezza. Questa ricerca non è più intensa oggi che un tempo, in qualsiasi altro luogo. La novità consiste piuttosto nella forma sanitaria che essa ha assunto nella nostra cultura. Espressione di questo fenomeno è l’ossessiva preoccupazione per la salute, considerata talmente importante da trasformarsi in obiettivo, fine e valore dell’esistenza. Conseguenza di questa interpretazione sanitaria della sicurezza sono altri due fattori che entrano a determinare l’attuale atteggiamento verso la salute: la crescente medicalizzazione della vita, unita alla tendenza a costruire, nel vuoto lasciato dal disinteresse nei confronti della visione religiosa della vita e dal discredito nei confronti delle ideologie, una nuova morale su base medica. Le sue tracce sono evidenti nell’immagine che noi abbiamo della medicina: è lei (la sola ormai rimasta) che ordina, prescrive, notifica; è lei che minaccia, provocando angoscia in tutti coloro che si rendono conto di non obbedire alle regole della salute e gestendo il terrore di quanto è vissuto come il flagello che sovrasta l’immaginario collettivo: il cancro. La funzione della medicina di oggi, ricorda F. Laplantine, non è solo quella di curare le malattie, ma di spingere il più lontano possibile l’assillo della conservazione di sé. Essa non


è più soltanto una parte, anche se molto importante della nostra cultura, ma l’elemento dominante, quasi al punto di rappresentare da sola tutta la cultura. In qualsiasi società, per dare una spiegazione globale dell’individuo e del sociale si mettono in gioco raffigurazioni, ma mentre quelle spiegazioni sono il più delle volte religiose, a volte politiche, a volte economiche, per la prima volta nella storia dell’umanità tendono, secondo Laplantine, a diventare sanitarie e più specificamente biomediche. Come interpretare questa crescente attenzione verso la salute? Una drastica valutazione negativa proviene da chi considera questa crescente attenzione alla salute espressione di mediocrità, maschera più o meno seducente dell’impoverimento dell’uomo, la maschera che Nietzsche riferiva all’ “ultimo uomo”: “una vogliuzza per il giorno, una vogliuzza per la notte, salvo restando la salute”. Esprime una valutazione positiva chi, pur consapevole della deriva consumistica a cui in un sistema di mercato è esposta anche questa attenzione, vede tuttavia in essa l’espressione della ricerca di un nuovo rapporto con il corpo, destinata a segnare una svolta antropologica duratura. Personalmente propendo a considerarne le ambiguità. La prima ambiguità da chiarire: salute o felicità? L’ambiguità nasce per il fatto che in questa nuova cultura della salute il bene salute non corrisponde più semplicemente all’assenza di malattia, ma tende invece a identificarsi con uno stato di completo benessere, sinonimo in sostanza di felicità. Ma per quanto valido sia il tentativo di mirare a un concetto globale di salute, è giusto identificare la salute con la felicità? E’ possibile? Gli interrogativi rimandano alla discussione aperta dal 1948 in avanti, a partire dalla definizione proposta dall’Organizzazione mondiale della sanità: “La salute dell’uomo è una condizione di completo benessere fisico, mentale e sociale e non significa solo assenza di malattia”. Il merito indubbio di questa definizione sta nel fatto che include nel concetto di salute, accanto a quello fisico, anche quello mentale e sociale, evitando di operare una rigida dicotomia tra corpo, mente e società. Le critiche comunque non sono mancate. Alcune tra quelle più significative. (a) Questa definizione non riesce a distinguere in maniera adeguata tra campo medico (medical goal) e campo della salute (health goal). Una definizione di salute in termini così ampi, ricorda D. Callahan, rende molto difficile determinare quali aspetti della salute siano strettamente medici e quindi a quali compiti deve rispondere una politica sanitaria. Se, infatti scopo delle istituzioni sanitarie è realizzare il nostro completo benessere, ci si mette in condizioni di chiedere troppo alla medicina e di esporre il rapporto medico-paziente ad una inevitabile frustrazione; (b) Questa definizione porta ad un’arbitraria medicalizzazione della vita. Enfatizzando il completo benessere, questa definizione, secondo F. Anschuetz, legittima atteggiamenti errati nei confronti di quelle condizioni umane che non realizzano le indicazioni di un tale completo benessere e quindi vengono facilmente patologizzate: la vecchiaia ad esempio, così come particolari condizioni di disabilità. Con questa definizione non si ha modo di definire “sana” una vecchiaia. Non si ha modo di definire “sana” una condizione di menomazione. (c) L’approccio alla salute come completo benessere porta, infine, a confondere salute con felicità. In effetti, nella misura in cui la salute venga considerata ad un tempo come mezzo per il raggiungimento di ulteriori fini e insieme la sintesi di questi fini, si arriva inevitabilmente a confondere salute con felicità. Non si esce da questa confusione, sostiene R. Mordacci, se non distinguendo a quale specifico livello si situa la salute rispetto all’orizzonte di senso della vita nella sua totalità. Questo è possibile solo se si dia una forte capacità di rimando simbolico che renda capace il soggetto di andare oltre


il livello puramente fisico, per attingere una dimensione di senso ulteriore. Solo a questa condizione il riferimento alla salute potrebbe costituire l’unitario simbolo capace di abbracciare ed esprimere l’orizzonte umano nella sua interezza, capace cioè di esprimere insieme un sano stile di vita, un sano modo di far fronte alla sofferenza e alla malattia, un sano modo di pensare alla morte, un sano modo di vivere anche nella menomazione fisica. Fuori da questa prospettiva, c’è il rischio che l’enfasi posta sulla salute porti a rinforzarne una concezione “anestetica”. La seconda ambiguità: è la medicina che tende a gestire in termini totalizzanti i bisogni di salute degli individui o sono gli individui a delegare la gestione dei loro bisogni di salute all’istituzione medica? L’interrogativo rimanda alle tesi provocatorie di I. Illich e all’ ondata di scalpore che suscitarono a metà degli anni ’70. Illich era fermo sostenitore della prima tesi: è la medicina che tende ad appropriarsi della salute degli individui, espropriandoli della capacità potenziale di far fronte in maniera personale ai propri bisogni di salute. La medicina organizzata professionalmente, secondo Illich, è venuta assumendo la funzione di un’impresa morale dispotica tutta tesa a programmare la sua espansione in nome della lotta contro ogni sofferenza. Al di là del tomo provocatorio e della quota di pregiudizi di cui queste tesi si alimentano, c’è in esse un aspetto che merita di essere attentamente valutato. E’ il forte richiamo a considerare la salute come “virtù”, compito personale da assumere personalmente, più che aspettarsela dal medico e dai farmaci. E’ questo il contributo costruttivo presente nella denuncia di Illich. E tuttavia è proprio la considerazione di questo aspetto che rende evidente il superamento delle sue tesi. Analisi storiche, come quelle proposte dalla “tormentata storia del rapporto medico-paziente” del canadese E. Shorter, hanno evidenziato in maniera sempre più convincente che le resistenze a intendere la salute come un compito affidato innanzitutto alla responsabilità personale non vengono solo dai medici. La resistenza dei medici è solo una parte di verità. L’altra parte di verità di cui bisogna prendere atto è che sono i pazienti stessi ad andare dal medico semplicemente per liberarsi dal sintomo, evitando di scendere alla radice della malattia per assumersi la parte di responsabilità del processo che ha portato alla malattia. Perciò, se è vero che l’incapacità di integrare la dimensione personale nel rapporto clinico ha indebolito secondo alcuni la mano guaritrice del medico, bisogna aggiungere che l’impersonalità diventa seducente anche per il paziente, per il quale un rapporto personale con il medico, con l’invito ad appropriarsi della propria malattia, potrebbe comportare un insostenibile confronto con il proprio stile di vita. 2.3. La radicalità assunta dalla dimensione etica in sanità Un ulteriore fattore che interviene a influenzare l’evoluzione del rapporto medico-paziente si riferisce alla radicalità assunta dalla dimensione etica in sanità. La radicalità in questione è evidente qualora si faccia attenzione ai seguenti fenomeni. L’emergenza della questione antropologica. Sempre più le decisioni in campo sanitario coinvolgono questioni che sorpassano le competenze strettamente medico-professionali e fanno di questo campo il nuovo “locus antropologicus”, il luogo cioè dove più direttamente oggi si decide della dimensione umana dell’uomo. Le scoperte scientifiche più importanti - afferma D. Roy, fondatori di uno dei primi centri di bioetica, presso l’ Institut de recherche clinique di Montréal - hanno sempre aperto nuove direzioni


di ricerca non solo in senso scientifico. Esse hanno anche generato nuove questioni fondamentali sul destino globale dell’uomo. La rivoluzione copernicana, l’evoluzione darwiniana, la scoperta freudiana dell’inconscio hanno trasformato profondamente la nostra comprensione della natura umana. Ognuna di queste scoperte ha messo in moto una serie di domande e di nuove intuizioni. Ognuna in sostanza è servita come “locus antropologicus”. Oggi è la biomedicina - conclude D. Roy - ad acquisire un ruolo particolare nell’elaborazione di una nuova rappresentazione della natura umana e perciò destinata ad occupare un posto sempre più centrale a livello culturale. La medicina procreativa, ad esempio, rendendo possibile con la diagnosi prenatale il controllo della qualità delle nascite, coinvolge e mette in questione lo specifico della responsabilità genitoriale. L’innalzarsi dell’aspettativa di vita, frutto anche delle potenzialità diagnostiche e terapeutiche della medicina di oggi, porta a sviluppare nuove idee sull’età anziana e insieme a pensare diversamente i cicli di vita e il rapporto tra le generazioni. La genetica e le scienze neurologiche pongono questioni inedite relative ai limiti dell’identità umana, coinvolgono e mettono in questione il “futuro della natura umana”. È questo il motivo di fondo per cui il campo sanitario, e più in generale il campo biomedico, è diventato oggi il luogo dove più immediatamente si scontrano le diverse impostazioni morali presenti nella nostra società. L’ampliamento delle potenzialità della medicina. Se l’emergenza della “questione antropologica” è il primo fattore che spiega la radicalità assunta dalla dimensione etica in sanità, ce ne sono altri che interessano più specificamente l’area sanitaria. Si tratta di situazioni problematiche strettamente legate all’evoluzione del sistema sanitario e della relazione di cura, non sempre interpretate con un adeguato senso critico. Ne segnalo due in particolare. Innanzitutto l’ampliamento delle potenzialità della medicina. La disponibilità di nuove potenzialità, frutto in gran parte dell’applicazione anche alla medicina del progresso tecnologico, può rinforzarne le risorse, così come può indurre un’arbitraria medicalizzazione. In questione come si vede è, anche in questo caso un aspetto radicale: la natura stessa della medicina. La medicina, in sostanza, è una mera tecnica assiologicamente neutra e quindi a disposizione di qualunque desiderio e di qualunque potere, o invece una “pratica normativa” nel senso forte del termine con suoi fini interni? Se è così, quali sono le condizioni da rispettare perché la medicina possa gestire le nuove potenzialità in coerenza con i suoi fini costitutivi, evitando che prevalga l’attitudine puramente tecnica per cui tutto ciò che si può fare si legittima di per sé? E d’altra parte, come risignificarli questi fini di fronte alla “inevidenza” che attualmente sembra li abbia investiti. Se finora era evidente che fine della medicina fosse di fare tutto il possibile per prolungare la vita, tale evidenza sembra messa in questione (paradossalmente) dall’ampliamento delle potenzialità stesse della medicina. Se, in linea di principio, è giusto nel caso di un neonato gravemente prematuro attivare alla nascita tutti i trattamenti medico-assistenziali che si dimostrino efficaci per la sopravvivenza, nella misura in cui il suo miglior interesse, a cui la medicina è tenuta, coincide con la difesa del bene fondamentale che è la vita; nel caso tuttavia in cui pesanti complicanze, come un’emorragia endocranica di quarto grado, offrano ad un certo punto del decorso clinico dati prognostici estremamente gravi, che, se si fossero dati al momento della nascita, avrebbero senz’altro giustificato l’astensione dal trattamento intensivo, sospenderlo, una volta attivato, può essere eticamente non diverso dell’astensione. Questo vuol dire forse arrogarsi il potere di sottoporre l’inclusione nella comunità morale al “controllo della qualità”? O non vuol dire piuttosto sottrarre le scelte cliniche


alla logica dell’“irreversibile concatenamento” tipico della tecnica, per gestire responsabilmente quello che tecnicamente si può fare? La strutturale scarsità delle risorse. Un’ulteriore situazione che evidenzia la radicalità assunta dalla dimensione etica in sanità è costituita dall’attuale riordino dei sistemi sanitari di fronte alla strutturale scarsità delle risorse. Quanto più, di fronte a tale scarsità, si voglia impostare il riordino sulla base della determinazione di “priorità” piuttosto che sulla base di “tagli” indiscriminati di servizi e prestazioni, tanto più diventa urgente il confronto sui criteri in base a cui fissare le priorità e quindi sulle diverse prospettive etiche su cui basare questi criteri. A conferma del carattere strutturale della scarsità delle risorse si richiamano fenomeni come: l’aumento della popolazione anziana e la conseguente crescita della richiesta di assistenza; l’introduzione nel sistema sanitario di tecnologie biomediche a ritmi sempre più accelerati e costosi; l’aumento di malattie legate a stili di vita e contesti a rischio così come a nuovi tipi di disagio sociale. E tuttavia proprio in rapporto a questi fenomeni si richiede un’interpretazione più critica del concetto di “scarsità delle risorse”: Quanto incide sulla scarsità delle risorse l’invecchiamento della popolazione (in sé) e quanto incide invece il modo in cui gli anziani vengono trattati all’interno delle nostre società in genere e del sistema sanitario in particolare? Quanto incide sull’introduzione delle tecnologie biomediche una logica di aumento dei profitti e quanto invece l’obiettivo di un’effettiva promozione della salute? Quanto incide sulla scarsità delle risorse sanitarie l’utilizzazione distorta dei servizi e delle tecnologie sanitarie per far fronte a bisogni di salute che dovrebbero essere affrontati in altro modo e non medicalizzati? 3. La centralità del dialogo per riconcettualizzare il rapporto medicopaziente Nella ricerca di una nuova concettualizzazione del rapporto medicopaziente, le posizioni in campo continuano a oscillare tra approcci contrapposti: la riproposizione da una parte del tradizionale modello paternalistico o, all’estremo opposto, la proposta di chi, interpretando la relazione medicopaziente in chiave radicalmente contrattualistica, concepisce tale relazione come interazione basata esclusivamente sulla logica della prestazione tecnica, nel totale disimpegno del coinvolgimento personale. Tra queste due opposte posizioni, c’è chi cerca di delineare un approccio alternativo basato sulla reciproca interazione medico-paziente. Un approccio esemplare al riguardo è quello proposto da E. Emanuel e L. Emanuel. Tale approccio è esplicitamente indirizzato a superare i limiti sia del modello “paternalistico” tradizionale, che del modello “informativo” moderno. Così i coniugi Emanuel sintetizzano rispettivamente il primo e il secondo modello. Il modello paternalistico (“the paternalistic model”) si basa sul presupposto che, per la sua specifica competenza, è il medico che può meglio valutare la condizione del paziente e indicare i trattamenti più appropriati a guarire o a curare. Quando il medico è giunto ad una certa conclusione, potrà sia incoraggiare il paziente ad acconsentire ai trattamenti che, egli, in quanto medico, giudica migliori, sia, in alcuni casi, informare il paziente sul trattamento che, di autorità, sarà attivato. Il modello paternalistico presume che si diano criteri oggettivi per determinare qual sia il migliore trattamento e, di conseguenza in che cosa consista il miglior interesse del paziente, a prescindere dalla diretta determinazione da parte del paziente. In questo modello, il medico agisce come tutore, protettore (“guardian”) del paziente, nella considerazione prioritaria dell’interesse del paziente e rivolgendosi ad altri colleghi qualora si accorgesse di non avere


le conoscenze specifiche che il caso richiede.Nel modello informativo (“the informative model”) invece l’interazione medico-paziente è finalizzata a dare al paziente tutte le informazioni rilevanti perché il paziente stesso possa autonomamente scegliere il trattamento che desidera e che il medico, successivamente eseguirà. Questo modello presuppone una netta distinzione tra fatti e valori. Si presume che i valori del paziente siano da questi ben definiti e conosciuti. Ciò che il paziente non conosce sono i fatti. Al contrario il medico conosce i fatti ed è tenuto a comunicarli al paziente, mentre i valori del medico non hanno alcun ruolo così come non hanno alcun valore né la sua comprensione dei valori del paziente, né il suo giudizio su questi valori. Il medico è un esperto, fornitore di competenze tecniche. Come tale egli è tenuto a dare informazioni corrette e a tenersi aggiornato nel campo delle sue competenze. Al paziente compete il diritto di controllare le decisioni mediche. Cercando di concettualizzare un modello di rapporto medico-paziente che, superando il modello paternalistico e (soprattutto) il modello informativo, miri ad una reciproca interazione, gli Emanuel riconoscono che ci sono situazioni della pratica medica dove questi due modelli possono essere del tutto adeguati: il rapporto medico-paziente nel corso di una diagnosi specialistica, o il rapporto medico-paziente nel caso di una situazione di emergenza. Il rapporto duraturo tra medico e paziente deve comunque potersi sviluppare in altre due ulteriori direzioni: il modello interpretativo (“the interpretive model”) e il modello deliberativo (“the deliberative model”). Nel modello interpretativo l’interazione medico-paziente è finalizzata a chiarire i valori al paziente stesso e ad aiutarlo a fare la scelta migliore, quella cioè che realizza al massimo questi valori. In sostanza il medico aiuta il paziente a interpretare i valori del paziente stesso. Alla base di questo ruolo del medico c’è la convinzione che i valori del paziente non siano necessariamente chiari al paziente stesso e, in particolare, che non sia evidente al paziente stesso che cosa questi valori richiedano nella specifica situazione in cui si viene a trovare. Di conseguenza l’interazione medico-paziente ha il compito di aiutare il paziente a chiarire i suoi valori e a usarli in maniera coerente nella situazione medica. Al medico è richiesta la funzione di accompagnamento e di counselling. I suoi obblighi richiedono non solo un’adeguata situazione ma anche di coinvolgersi nel processo di interpretazione insieme al paziente. Il concetto di autonomia che in questo modello viene valorizzato è quello dell’autonomia come comprensione di sé e dei valori su cui si basa la propria identità. Un ulteriore passaggio si ha con il modello “deliberativo”. Questo modello si basa sul presupposto che i valori del paziente non debbano solo essere interpretati, ma che debbano anche essere discussi. Il medico è visto come amico e come maestro con cui il paziente apre un dialogo per confrontarsi su quella che è la decisione migliore. Scopo dell’interazione medico-paziente, in questo modello, è di aiutare il paziente a determinare e a scegliere i migliori valori di ordine medico che si possono realizzare nella particolare situazione clinica del paziente. Il medico riconosce che ci sono altri valori di ordine non medico che il paziente può ritenere più importanti di quelli su cui si concentra il medico. Medico e paziente discutono tra loro sul significato di questi valori. Il medico non soltanto indica quello che il paziente può fare, ma anche quello che dovrebbe fare sulla base dei valori in discussione. Il medico incoraggia il paziente a seguire la scelta migliore facendo opera di persuasione. A differenza, però, del modello paternalistico, quello che si dovrebbe fare diventa chiaro attraverso il dialogo. Una duplice conclusione Quali sono dunque le condizioni di un rapporto medico-paziente più adulto di fronte al fenomeno da cui la riflessione ha preso avvio: e cioè il processo


dell’emancipazione del paziente? La conclusione che le considerazioni svolte prospettano è duplice: in “negativo” la prima; in “positivo” la seconda. Quanto alla conclusione “in positivo”, è senz’altro da accogliere la centralità data al “dialogo” nella riconcettualizzazione del rapporto medicopaziente proposta dagli Emanuel. Alla luce di un’interpretazione del rispetto che ne sottolinei la dimensione “attiva” e “interattiva” (e non riduttivamente “negativa” come quando si dice di “rispettare le aiuole”), il principio dell’autonomia risulta effettivamente garantito nella misura in cui si offra nel rapporto medico-paziente la possibilità di un reale dialogo. Nel contesto di una relazione di aiuto, la qualità del dialogo è fonte e insieme segno di autentico rispetto. È nel dialogo che ci si riconosce reciprocamente interlocutori adulti, degni di stima e di fiducia. Naturalmente più si valorizza il principio di autonomia, più forte diventa l’obbligo di provare l’autenticità della volontà del paziente, in ordine sia al consenso che al rifiuto. Che significa ad esempio il rifiuto del trattamento (o, prima ancora, dello stesso cibo) da parte di un paziente anziano non autosufficiente, che viva il ricovero in casa di riposo come una situazione di immeritato abbandono da parte dei suoi familiari? Che significa l’ostilità e la diffidenza di un paziente oncologico che vive nel dubbio e nell’incertezza? Non può essere che determinate richieste siano indotte da una certa immagine che anche implicitamente si proietta sul paziente? Certo il senso della propria dignità, del suo mantenimento come della sua perdita, è affidato a quanto ci possa essere di più soggettivo e tuttavia l’esperienza clinica, specialmente in alcuni particolari contesti, dimostra quanto reale sia la forza dello sguardo dell’altro sia nel “confermare” il senso della propria dignità, sia nel metterla in dubbio. Tanto basti, da una parte, per mostrare l’ingenuità di chi pensa che l’informazione sia sempre e solo un qualcosa di neutro; dall’altra, per evidenziare che se è importante informare, altrettanto lo è il confermare; e, in termini più generali, per evidenziare che, se la tradizionale interpretazione liberale del principio di autonomia riesce a dare un fondamento all’informare, ha poco da offrire per quanto riguarda la necessità di confermare l’altro. La cosa non deve far meraviglia. Se il bisogno di informazione è del tutto coerente con questa concezione, essa risulta del tutto sprovveduta di fronte ad un bisogno di natura specificamente intersoggettiva, come è appunto il bisogno di trovare conferma della propria dignità nello sguardo dell’altro. Anche da questo versante passa il superamento della (tuttora) dominante concettualizzazione liberale del rapporto medico-paziente e in particolare del “consenso informato”. Sfide altrettanto impegnative comunque si situano a livello culturale. E’ quanto sostengono autori come D. Callahan, che da una prospettiva globalmente comunitaristica, evidenziano i limiti della “bioetica minima” di ispirazione liberale. Tale bioetica, basata per rispetto del pluralismo delle società democratiche sulla costruzione di procedure di accordo tra individui “sgombri” di ogni appartenenza, si rivela del tutto insufficiente a intercettare la radicalità assunta oggi dalla dimensione etica in sanità. La sfida può essere adeguatamente affrontata - sostiene D. Callahan - da una bioetica che miri a costruire il consenso su una base non solo procedurale, ma anche espressamente sostanziale. Contro questa prospettiva si obbietterà che accordi di sostanza di una certa “densità”, soprattutto nelle “questioni di vita”, sono impossibili in società pluralistiche come la nostra; e che gli approcci liberali si rivelano vincenti proprio perche, assumendo come indiscusso punto di partenza il pluralismo, danno sistematica priorità al “giusto” sul “bene”. Questo può essere (banalmente) vero. E tuttavia la valutazione di D. Callahan può essere del tutto valida, nella misura in cui non si tratta di negare le acquisizioni e i valori della


tradizione liberale. Sono parte della nostra cultura. Ciò che di questa tradizione va però criticato è, da una parte, la pretesa di ritenere assiologicamente “neutre” le relazioni di cura, la relazione medico-paziente in questo caso, e, dall’altra, la “resistenza”, in nome della connotazione “privata” delle opzioni morali, nei confronti della stessa discussione pubblica sui valori che potrebbero dar senso alla sofferenza, alla procreazione, al declino della vita, alla morte. Non è questa la sede per analizzare con più attenzione l’interessante dibattito che in questi ultimi anni si è sviluppato, in particolare nell’ambito della filosofia politica, tra prospettive “liberali” e prospettive “comunitarie”. E tuttavia la posta in gioco di tale dibattito non interessa solo l’evoluzione della società in generale; interessa e molto da vicino anche l’evoluzione delle particolari relazioni che si stabiliscono in ambito medico-assistenziale. Due domande per portare la riflessione su un piano di maggiore concretezza, in relazione a due aree dove è crescente il coinvolgimento della medicina generale: l’area della presa in cura del paziente anziano, da una parte, e l’area dell’accompagnamento del paziente terminale, dall’altra. Nell’uno e nell’altro caso si fa sempre più evidente quanto il “vuoto culturale” o per lo meno la “resistenza” alla discussione pubblica sui valori incidano sulla relazione medico-paziente. Prima domanda. Dove trovare la capacità “terapeutica” di “confermare” una persona anziana, malata cronica e dipendente, sul senso del suo valore e della sua dignità umana, se l’allungamento degli anni di vecchiaia si scontra oggi con la totale mancanza di un senso condiviso di questa fase della vita? Seconda domanda. Dove trovare le parole per comunicare con il paziente oncologico in fase terminale e strapparlo dall’isolamento o dalla confusione, se nel più ampio contesto culturale in cui il rapporto medicopaziente oggi si colloca ha fatto della “negazione” della morte la sua strategia prevalente? Nella riconcettualizzazione del rapporto medico-paziente, domande come queste non possono essere ignorate da una riflessione sufficientemente critica e spre-giudicata.

Riferimenti bibliografici VIAFORA C., Etica della malattia e ossessione della salute. Bioetica e crisi del soggetto, in AA.VV. La bioetica. Questione civile e problemi teorici sottesi, Glossa , Milano 1998. GRACIA D., Orientamenti e tendenze della bioetica nell’area linguistica spagnola, in VIAFORA C. ( a cura di ), Vent’anni di Bioetica. Idee, protagonisti, istituzioni, Gregoriana Libreria Editrice, Padova 1990, p. 274. GRACIA D., History of Medical Ethics, in TEN HAVE H., GORDIJN B. (eds.)


La difficile prova del progetto “nazionale” di Alfredo Reichlin*

Se misuriamo bene la novità e la grandezza dei problemi che incombono sulla ripresa politica autunnale, c’è nella situazione del Partito democratico qualcosa di paradossale. Da un lato, insieme a segni di vitalità e di ripresa, permane un senso diffuso di sfiducia e si succedono manifestazioni di rivalità personali veramente insopportabili. Sembra che tutti si credano Napoleone. Dall’altro lato però, le prospettive, ma direi di più: la ragion d’essere, la funzione politica nella vicenda nazionale di un nuovo soggetto politico come abbiamo cercato di definirlo (anche in un programma fondamentale del quale però si è persa traccia) a me sembrano più che mai aperte. Perché la distanza tra il dire e il fare è così grande? So che la risposta non è semplice. Ma dirò una cosa che può sembrare (ed è) troppo vaga, ma che prego di non confondere col populismo. Penso che noi in questi anni ci siamo distaccati non dalla cosiddetta opinione pubblica, ma dal popolo italiano. Il quale non è una somma di individui, ma una soggettività in continuo divenire. Noi non siamo riusciti a leggere lo straordinario travaglio di questo popolo italiano. Ecco la verità. Se ripensiamo a questi anni alla luce della vittoria della destra davvero non si capisce come un riformismo dall’alto, tecnocratico, appunto «senza popolo», poteva fornire una guida a quella sorta di ‘riformismo reale’, spontaneo e perverso ma profondo, che


consisteva nella risposta difensiva e selvaggia che Nord e Sud, operai e commercianti, imprenditori esposti alla concorrenza mondiale e roditori delle risorse pubbliche davano, ciascuno a suo modo, a uno straordinario processo di trasformazione dell’economia mondiale e degli assetti politici dell’Europa e del mondo che ci investiva in pieno. Ma ancora oggi: dov’è la guida? Se la politica non si colloca a questo livello io credo che continueremo a giocare di rimessa e temo che l’attuale confronto tra noi (che è importante e al quale partecipo) non vedrà né vincitori né vinti. È dal basso che bisognerebbe ripartire, dallo sforzo di fronteggiare la scissione sempre più profonda tra dirigenti e diretti (anche nel nostro popolo) tra i territori e soprattutto (mi pare che solo la Chiesa se ne sia resa conto) della vera e propria cesura che si è creata tra le generazioni. D’altra parte per quale ragione si fonda un partito nuovo? Solo per conquistare il premio di maggioranza e tornare al governo? Io credo che siamo entrati in una fase nuova, nel senso che non sarà facile tornare al governo se non alziamo la posta del gioco. Non dice nulla il fatto che i democratici americani propongono un uomo di colore alla presidenza del Paese più potente del mondo? Certi dibattiti estivi mi sono apparsi fuorvianti. Si è discusso sulla «scomparsa dell’opinione pubblica» (il solito cinismo e opportunismo degli italiani? La loro solita mancanza di senso dello Stato?) mentre in realtà era la classe dirigente che bisticciava intorno ai temi imposti da Berlusconi, ma non aveva nulla da dire di fronte al fatto che l’inevitabile avvio del federalismo rimette in discussione, in un Paese come il nostro, tutto. Tutto, cioè l’insieme delle strutture profonde dello Stato: dal rapporto tra i poteri alla funzione della scuola pubblica, al destino del Mezzogiorno. La stessa figura storica, culturale ed etica dell’Italia quale si era configurata dopo Porta Pia e poi ridefinita dopo il fascismo come repubblica democratica. Sbaglierò, ma io vivo così questo passaggio. Se non ora, quando il Partito democratico si deciderà ad alzare il tono del suo discorso e a mettere sul tavolo tutta la sua ambizione? Si è creato un vuoto anche morale ma soprattutto di guida in conseguenza soprattutto del fatto che il processo di internazionalizzazione che è in atto rende sempre più difficile il vecchio modo di stare insieme degli italiani. Siamo già arrivati al punto che medie statistiche non sono più applicabili a quelli che ormai sono due Paesi. Il Nord la cui ricchezza è giunta al livello massimo europeo (Amburgo e la regione parigina); il Mezzogiorno che arretra ed è già sotto il livello della Polonia e del Portogallo. Con in più la mafia e la camorra. Il federalismo diventa obbligatorio. Ma quale? Non si tratta evidentemente di un problema amministrativo, ma del cruciale dilemma tra costruire un nuovo Stato (federale ma unitario) oppure subire un processo di frammentazione della compagine nazionale. Perciò il tema che mi assilla è il distacco della sinistra dal popolo. Che popolo di ‘italianieuropei’ si va formando? E noi come stiamo incidendo? Il tema è questo. Ricordiamoci che l’Italia moderna sarebbe incomprensibile se i padri del socialismo prima ancora di organizzarsi in un partito non avessero fatto quella predicazione intellettuale e morale e quella trasformazione delle plebi in comunità che sappiamo. È lì che sta il codice genetico del riformismo italiano, e quindi anche – io penso – del Partito democratico. Sta in quell’epoca tra Ottocento e Novecento quando nella Valle Padana, ma anche in vaste regioni del Centro e del Mezzogiorno, socialisti, cattolici e repubblicani produssero una critica radicale dello Stato sabaudo e dell’Italietta liberale. E non in astratto, ma organizzando le forze sociali emergenti e trasformando le menti. Può sembrare strano per un certo professionismo politico ma il realismo di quei movimenti, ciò che fondava la loro concretezza,


stava nel fatto che la politica non si vergognava di produrre senso e visione del mondo, giacché il mondo anche allora viveva un grandioso mutamento e apriva grandi interrogativi. La politica non aveva paura di parlare del destino dell’umanità intera ma lo faceva – questo è il punto – organizzando le leghe e cercando la gente nelle stalle e nelle osterie. Il latino dei vescovi era traducibile nel volgare dei parroci. La politica vera, la sostanza della nostra storia, la forza della sinistra è stata questa: la formazione del popolo italiano. Senza di che noi non saremmo niente. Ecco perché quando io cerco di capire le ragioni di uno smarrimento e di una sfiducia così grande, che non si spiega solo con la perdita dei voti ma con la sensazione di non avere più certezze, orgoglio, convinzioni, io mi chiedo se insieme alle grandi ragioni che derivano dal cambiamento epocale delle strutture del mondo non ci sia un fatto italiano molto grave. Il fatto che da alcuni anni sembra essere entrato in crisi (o perlomeno in una fase nuova molto travagliata dati i fenomeni di interdipendenza col mondo) quello che chiamerei il processo di sviluppo del popolo italiano. Dopotutto è per questa ragione che ho molto creduto nell’idea di una sinistra che esce dai suoi vecchi confini per dare vita a un nuovo grande partito «nazionale». E resto sempre più convinto del fatto che questa oggi è la base di un riformismo vero, che possa rappresentare una alternativa maggioritaria a una destra europea che è uno strano miscuglio di paure, di leghismo, di egoismi sociali e di posizioni neoprotezioniste. Gli italiani di oggi sono inconoscibili se non si parte dal fatto che essi, a cominciare dagli operai, stanno dentro le sfide, i pericoli ma anche le nuove occasioni di un sistema mondiale interdipendente. Ripensare la presenza degli italiani nel mondo è oggi il compito dei riformisti. Per affrontarlo dobbiamo impedire la divisione del Paese (perciò il Mezzogiorno è il problema principale) e contrastare questa sorta di «secessione delle élites» che sempre più si isolano dagli strati popolari più profondi. Basta vedere come la classe politica, anche a livello locale, si configura ormai come un notabilato dal quale, di fatto, gli strati del Paese che stanno in basso sono esclusi. Apparentemente la piazza mediatica è aperta a tutti. Di fatto, solo le classi in possesso di certi codici culturali sono in grado di servirsene come mezzo di partecipazione attiva alla vita politica. E così siamo arrivati al dunque. Il progetto del Pd adesso è alla prova. Una difficile prova perché non siamo di fronte a un problema amministrativo, da delegare ai sindaci e agli addetti ai lavori. Noi finiremo a rimorchio della Lega se non abbiamo una idea nostra su come sia possibile in uno Stato federale garantire lo stare insieme degli italiani. È una partita che riguarda la tenuta anche culturale e civile del Paese. E dobbiamo comunicarla questa idea non solo a Calderoli, ma al Paese, il quale deve ritrovare nel Partito democratico la speranza che c’è un futuro nel mondo nuovo per tutti gli italiani, del Nord come del Sud. Ecco perché io davvero non capisco una disputa politologica del tutto astratta tra il «partito a vocazione maggioritaria» che starebbe in Largo Nazzareno e coloro che tramerebbero per un ritorno alle vecchie alleanze tra vecchi partiti. Ma che cos’è il partito a vocazione maggioritaria? È una formula magica? Al contrario, io penso che sia un contenuto. È la capacità di rispondere a problemi come quelli accennati. Non è il rifiuto delle alleanze, è la più larga delle alleanze, è una nuova idea nazionale ed europea. È la possibilità di mettere in campo una proposta federalista che non subisca una scissione silenziosa, ma fondi una nuova articolazione dell’unità nazionale in coerenza con un progetto di europeizzazione dell’Italia. Solo così lo sviluppo del Mezzogiorno può diventare realistico, in quanto diventi funzionale agli interessi


del Nord come dell’Europa continentale. E ciò nella misura in cui nessun luogo come il Mezzogiorno sarebbe adatto a diventare la piattaforma mediterranea di una Europa che vuole parlare al mondo. Si dirà che i problemi sono anche altri. Certo, anche. Ma diventa difficile difendere la centralità di una democrazia parlamentare se i deputati vengono nominati dall’alto e se la risposta al partito ‘leghista’ del Nord (che non è solo Bossi) diventa quella del partito che il governatore della Sicilia sta già creando e che consiste in una santa alleanza sicilianista, con relativa rimozione dei ritratti di Garibaldi. Altro che seminari sulla democrazia dei partiti e discussione sulle alleanze del Pd. C’è un grande bisogno di pensare il Pd in una prospettiva più ampia. La missione del partito riformista è integrare tutti gli italiani in una Europa che parla al mondo in prima persona e accoglie i diversi. Forse non è abbastanza concreto quello che dico. Ma a volte di concretezza si può anche morire. * In collaborazione con la rivista “Argomenti Umani” diretta da Andrea Margheri


A cento anni dalla “voce”. L’eredità culturale del primo Novecento di Umberto Carpi*

«La Voce» cominciò a uscire, direttore Giuseppe Prezzolini, a Firenze nel dicembre del 1908: Carducci – quasi il Risorgimento che tramontava – era morto l’anno prima, Croce aveva già pubblicato, dopo l’estetica, anche la logica e la pratica, dando un sistema e per così dire un ordine (con «La Critica» anche una rivista semiufficiale, mentre con il disegno dei Classici Italiani per Laterza un canone della letteratura nazionale) alla rinascita idealistica e neoromantica che stava disordinatamente investendo l’Italia fra reiezione di quel pensiero ‘positivo’, non necessariamente positivista, di cui si erano in buona sostanza nutrite le correnti di democrazia laica e lo stesso movimento socialista, irruzione delle mitologie ‘violente’ del pansindacali-


smo alla Sorel ovvero ‘aristocratiche’ dell’elitarismo alla Pareto e alla Mosca, magico-pragmatiste alla Papini, imperialiste alla Morasso, neo-nazionaliste alla Action française o catto-agrarie alla Péguy, variamente razziste alla Weininger con qualche nostalgia per Gobineau. La base politica di questa cultura intuizionistica e volontaristica era una critica violenta del giolittismo come sistema di governo fondato sulla corruzione parlamentare, del parlamentarismo stesso come luogo dell’inefficienza e del burocratismo, della democrazia come, si diceva, mediocrazia: invocazione delle élites, rifiuto dei partiti come elemento disgregatore (Croce scrisse in proposito un saggio famoso), liquidazione del socialismo (il medesimo Croce lo dichiarò morto in una non meno celebre intervista), critica radicale alla Oriani del processo unitario risorgimentale. E non dimentichiamo che, praticamente negli stessi giorni in cui usciva «La Voce», nasceva anche il movimento futurista di Marinetti, del quale pure, dunque, stiamo per registrare il centenario: una strana avanguardia, molto diversa dalle altre europee tutte radicalmente critiche del primato della macchina sull’uomo, della intrinseca bruttezza etica ed estetica della produzione di serie e dell’individuo a sua volta serializzato, antibelliciste e internazionaliste; il futurismo marinettiano, invece, fu apologetico della velocità, del record, della macchina-violenza, fu nazionalista e bellicista. Diversissimo Marinetti, si badi bene, da Prezzolini, e i futuristi dai vociani (quando Papini e Soffici con «Lacerba» si fecero per una breve stagione futuristi diedero luogo ad un curioso futurismo di sensibilità estetica molto agraria e toscana, estranea al marinettismo industrialista e milanese): diversi, Prezzolini e Marinetti, per formazione culturale, diversi politicamente, diversi come editori e organizzatori di cultura. Però, ed è un punto di grande significato, una cosa in comune la ebbero: entrambi accarezzarono l’ambizione di sfociare con la loro iniziativa in un Partito politico. Il Partito Intellettuale di Prezzolini, il Partito Politico Futurista di Marinetti. Croce si muoveva in modo più discreto e prudente, tendeva piuttosto a permeare e a formare che a mobilitare, ma l’obiettivo di dare una direzione alla società attribuendo alla cultura una funzione di supplenza della politica era il medesimo. Interventismo insomma della cultura e degli intellettuali nella politica, l’organizzazione politica degli intellettuali intorno a una rivista o ad una sigla come gruppo elitario: fu un fenomeno dirompente, un modello essenziale, negli anni successivi, per la formazione delle riviste e dei gruppi gobettiani (Gobetti considerò sempre Prezzolini, a prescindere dai dissensi politici, quale proprio ispiratore), essenziale per lo stesso avvio dell’«Ordine Nuovo» come gruppo, aggregato intorno a un giornale, di iniziativa interna e insieme autonoma e scissionistica rispetto al Partito Socialista. Ma fu un proliferare diffuso su tutto il territorio nazionale: e si badi che il fenomeno esplodeva in concomitanza con una novità sociale e istituzionale altrettanto dirompente, l’introduzione (d’altronde avversatissima da Croce) del suffragio universale, anche se noi oggi fatichiamo a considerar tale un provvedimento riguardante solo i maschi. Soggettività politica dirigente degli intellettuali in quanto ceto e inserimento delle masse nella dinamica politica: il Novecento italiano che cominciava. Nella iconoclastia della «Voce», prudente anche per l’eclettismo del suo direttore abile fino all’opportunismo, trovarono inizialmente posto le personalità più diverse, con i giovanissimi Slataper e Boine, con Soffici e Papini, i Croce e i Mussolini, gli Amendola e i Salvemini, giovani ‘rivoluzionari’ e più anziani oppositori, tutti uniti chiaramente nel segno dell’antigiolittismo e dell’antiriformismo, più confusamente in una domanda di modernizzazione


che riguardava insieme la cultura, la politica, le istituzioni (molto meno l’apparato industriale, perché i vociani sentirono la provincia agraria e la città degli impieghi e della burocrazia, non la città della fabbrica, e la loro stessa Milano fu quella degli agrari Casati e Jacini non la metropoli della crescita industriale): ma le convergenze finirono presto, ognuno prese la sua strada, cominciò quella suddivisione all’infinito tipica dei gruppi intellettuali-rivista, e un documento affascinante di quei rapporti di odi et amo con «La Voce» è la raccolta di saggi e noterelle Cultura e vita morale, uno dei libri ‘minori’ di Croce e però tra i suoi più appassionati e politicamente significativi. Ricordo questo libro perché fu proprio attraverso le sue pagine che mi accostai, tra il 1960 e il 1961, alla «Voce»: ne faceva allora oggetto delle sue lezioni uno storico della filosofia marxista e storicista molto ‘illuminista’, Nicola Badaloni. Fu quello il mio approccio al primo Novecento, insieme alla lettura delle ancora recenti Cronache di filosofia italiana di Garin, in cui al movimento vociano veniva sì dedicata larga attenzione, però entro un’alba del Novecento sentenziata ‘irrazionalista, pragmatista, mistica’: un segno storicistico ed anti-irrazionalista, quello di Badaloni e Garin (non a caso con Paolo Rossi i due maggiori storici della nostra tradizione filosofica rinascimentale e illuministica), che per me rimane determinante. Ma, mentre ascoltavamo Badaloni e leggevamo Garin, da fuori cominciavano a giungere gli echi dissonanti del Gruppo 63 e dei «Quaderni rossi», dell’Asor Rosa antigramsciano di Scrittori e popolo e del Timpanaro materialista leopardiano ed engelsiano. Negli anni del centro-sinistra i giovani di sinistra avvertivano una confusa e torbida insoddisfazione, cominciavano a cercare nuovi orizzonti, nuovi modelli, una nuova identità: uno dei segni distintivi del clima culturale fra 1955 e 1968 fu proprio l’attenzione verso le riviste primonovecentesche e in particolare verso il foglio e movimento vociano, via via assunto e da diversi punti di vista, da «Ragionamenti» e «Officina» a «Nuovo Impegno», come modello di auto-organizzazione politica degli intellettuali. Da un lato ci fu l’interpretazione dell’antologia vociana curata per Einaudi da Angelo Romanò, che isolava e privilegiava una prima fase della rivista molto caratterizzata da Salvemini, da Amendola, dal forte impegno sui problemi concreti della vita nazionale: era insomma una «Voce» posta all’origine della successiva cultura democratica ed antifascista. Veniva suggerita una lettura della rivista fiorentina come suscitatrice di problemi politici e culturali, di indagini ed inchieste sociali ed amministrative, di dibattiti etici ed estetici. Esattamente l’opposto di quella «Voce» a tinta teppista e antiborghese poi voluta dal Sessantotto, d’altronde complementare alla coeva apologia di Marinetti rivoluzionario: che entrambi si prestassero particolarmente bene ad una lettura di tipo estremista, neosoreliano, non c’è dubbio. In buona sintesi, «La Voce» di Romanò fu salveminiana e preludeva all’«Ordine Nuovo» curato da Spriano per la medesima collana Einaudi, quella del Sessantotto fu anarco-sindacalista e preludente ad un Gramsci consiliare contrapposto a quello del Pcd’I e dei Quaderni. Ma l’insoddisfazione ‘di sinistra’ per il quadro ‘democratico-progressivo’ einaudiano (e anche per il panorama filosofico disegnato da Garin, che dieci anni prima non a caso aveva ricevuto al suo apparire un memorabile avallo su «Rinascita» da parte di Togliatti) si agganciava ad una lunga fase di impazienze verso la politica culturale del Pci, per molti versi analoghe a quelle dei giovani vociani di cinquant’anni prima verso il socialismo riformista, che prepararono il ’68. Ennesimo e forse ultimo episodio di quel fenomeno ricorrente nel secolo che era stato il ‘vocianesimo’, la ricorrente assunzione cioè della rivista di Prezzolini come pietra di paragone, se non come modello, per definire metodo e


fini, le ragioni medesime dell’interventismo politico degli intellettuali. Ciò, ripeto, si era verificato con il Gobetti di «Energie nuove» e di «Rivoluzione liberale», con lo stesso primo Gramsci (che in effetti guardò con interesse a questi fenomeni di sovversivismo culturale – non solo alla «Voce» ma anche al movimento futurista-ardito e poi allo stesso fiumanesimo dannunziano – come espressioni della crisi borghese egemonizzabili, comunque non trascurabili dalla sinistra, in ciò molto diverso da Togliatti, più tetragono fin dall’inizio a queste zone torbide della critica della democrazia e incline a vedervi tout court una cultura reazionaria), e si sarebbe ripetuto alla fine degli anni Trenta anche nella fronda fascista delle riviste di Bottai. Il tentativo postresistenziale compiuto da Romanò di definitiva sistemazione storica della «Voce» entro un primo Novecento in cui a fronte degli innegabili germi di fascismo stesse anche la radice della cultura democratica venne insomma accantonato, reso quasi inattuale dall’irrompere di questa nuova interpretazione, anzi partecipazione ideologica, che fu il sovversivismo neovociano degli anni Settanta. Ricordo con immutata avversione tutto quel che mi crebbe intorno di estremismo massimalistico, di spontaneismo anarchicheggiante, di negativismo irrazionalistico, di disprezzo per le istituzioni democratiche, di dileggio per le forme organizzate della sinistra e per la loro storia: con quali risultati devastanti per la sinistra e per la democrazia si è visto e si continua a vederlo. Faccio fatica ancora oggi (tanto più oggi, che molto di quelle idee lo ritrovo nell’attrezzatura ideologica della destra attuale) a formulare un giudizio storico sulla «Voce» senza farmi condizionare dal fastidio per quel neovocianesimo. Del resto, va tenuto conto che la divergenza era di fondo, storiografica e politica insieme, e perpetuava lo scontro – serpeggiante già negli anni Quaranta di «Quarto Stato» e del «Politecnico» poi esplosa negli anni Cinquanta (ma già prima del fatale ’56) – sulla politica culturale del Pci togliattiano. Nella fattispecie si trattava della nuova luce in cui il primo Novecento era stato collocato da Togliatti in un celebre discorso del 1950, Giolitti e la democrazia italiana, uno di quelli in cui, con l’aria di svolgere a margine della politica una pacata riflessione storica, il segretario del Pci attraverso la puntualizzazione storiografica si proponeva di definire la linea politica stessa inserendola in un’idea generale della storia d’Italia. Il metodo di Gramsci, con contenuti assai diversi dai gramsciani. Le pagine di Togliatti si chiudevano sul riconoscimento di Giolitti come l’uomo politico della borghesia spintosi «più innanzi sia nella comprensione dei bisogni delle masse popolari, sia nel tentativo di dar vita a un ordine politico di democrazia, sia nella formulazione di un programma nel quale si scorge, anche se in germe, la speranza di un rinnovamento»: ma si erano aperte con una condanna senza appello – esplicita e sprezzante la citazione di Prezzolini – dei giovani antigiolittiani, «studenti e intellettuali inesperti che proprio nel primo decennio del secolo, rotte le precedenti simpatie col movimento operaio e col socialismo, andavano in cerca di nuove guide ‘geniali’ e queste trovavano in dilettanti di sistemi filosofici e di idee generali volgarizzate, hegeliani per le dame, poeti del superuomo, vati della nazione e cose simili». Fatta naturalmente salva la sostanziale differenza dei punti di vista fra questa valorizzazione togliattiana delle aperture di Giolitti verso i socialisti in polemica contro la politica antioperaia degli attuali governi borghesi e l’apologia crociana del liberalismo del medesimo Giolitti contrapposta all’illiberalismo fascista, si trattava di un giudizio per molti versi analogo a quello a suo tempo sentenziato da Benedetto Croce nella Storia d’Italia in sostanziale palinodia – di fronte alla dittatura fascista che si affermava – del


proprio stesso antigiolittismo degli anni vociani e soprattutto dei passati civettamenti non solo coi vociani ma perfino – in funzione antisocialista – coi futuristi e coi fascisti (non dimentichiamo che il senatore Croce giunse a votar la fiducia a Mussolini financo nella crisi Matteotti): anzi, nell’avversione di Togliatti per i geniali io ho sempre avvertito un’eco diretta della medesima insofferenza argomentata da Croce contro i creatori già in un lontano saggio di Cultura e vita morale. Ma nella «Voce» c’era stato anche altro, ben diverso dai ‘geniali’, per esempio due storici-politici come Salvemini e Anzilotti. La critica del giolittismo svolta sulla «Voce» da Salvemini era legata all’analisi del processo di massificazione terziario-intellettuale – la piccola borghesia impiegatizia – che stava connotando lo sviluppo, anzi il mancato sviluppo della società meridionale; Anzilotti per parte sua svolgeva una critica ‘nazionalista’ della democrazia, cioè del rapporto Stato-popolo venutosi a determinare nell’Italia postrisorgimentale, e lo faceva sì con orecchio attento alle voci del nazionalismo francese, ma soprattutto puntando sulla revisione della lettura del Risorgimento: non dimentichiamo che il primo veniva dalla grande reinterpretazione ‘classista’ dello sviluppo dell’Italia comunale e della Rivoluzione francese e che il secondo stava diventando protagonista della storiografia revisionista dell’Italia unitaria sulla base d’una particolare idea della nostra tradizione liberale come sviluppatasi fra Settecento riformista e Risorgimento, poi interrottasi con lo Stato unitario. Salvemini, Anzilotti, ma anche Slataper e Amendola, Boine, Jahier, Rebora, i cosiddetti ‘moralisti’ o ‘religiosi’, il meglio della «Voce»: evitando di porre al centro, ideologicamente parlando, il peggio, a cominciare da quel Prezzolini giornalista di genio ma da sempre intimamente – come poi volle autodefirsi – ‘apota’, di quella furba genia che non la beve. Non i lacerbiani Papini e Soffici (anche se a Soffici si devono alcune iniziative nel settore delle arti figurative, impressionismo cubismo Rodin, di grande apertura europea), responsabili – l’uno con l’omo salvatico o finito che fosse, con il Lemmonio Boreo l’altro – di quei toni teppistici che cercavano i propri valori nella più fonda, conservatrice Toscana agrario-mezzadrile, alle origini del cattolicesimo integralista alla Giuliotti, del resto già germogliante nella senese «Torre», o del futuro fascismo ‘selvaggio’. Certo la questione vociana, se come discussione ancora militante su un modello di intellettuale-politico auto-organizzato si è chiusa trent’anni fa (e infatti da allora della «Voce» si è parlato e studiato pochissimo), interesse come problema storico non lo ha perso affatto. Da questo punto di vista, anzi, la rivista di Prezzolini chiede nuove indagini nell’ambito di una riconsiderazione complessiva della crisi primonovecentesca dello Stato liberale sfociata nel fascismo, crisi di cui fu effettivamente tra le manifestazioni cruciali: ma non può più venir assunta, se non a un rischio del grottesco già sfiorato dalla cultura sessantottesca, come riproducibile modello di attualità militante. Adesso la perdita d’identità intellettuale non si verifica più nella massa burocratica del terziario bensì nella solitaria virtualità eterodiretta di Internet e il problema della democrazia, nell’Europa della moneta senza costituzione, non si pone tanto come equilibrio tra individuo, partiti e Stato, ovvero come rapporto fra politica e cultura, quanto come questione, appunto, di un brutale primato dell’economico sul politico. La questione stessa del riformismo è diventata tutt’altra cosa da come se la poneva Prezzolini sulla «Voce», da come a Togliatti conveniva riprenderla nel 1950 ovvero dal criterio con cui la si poteva ancora discutere negli anni Settanta/Ottanta: del riformismo


sono cambiati i soggetti e gli oggetti, gli strumenti, direi la stessa nozione. È perciò che riproporre oggi le marce di Slataper sul Carso come plausibili percorsi della coscienza rischierebbe di trasformarsi in un esercizio di jogging, la vecchia casa fra gli ulivi di Boine non è più luogo di abbandono dell’agricoltura ma ristrutturato rifugio per week-end, gli opprimenti registri dell’ufficio ferroviario di Jahier sono condensati in un leggero cd-rom: Prezzolini andrebbe in rete, «La Voce» non uscirebbe settimanalmente per la revanche di intellettuali-massa, bensì fluirebbe on line tra folle di intellettuali-precari. Ci stiamo avvicinando al 2011, anno centocinquantenario dell’Unità, mentre la tenuta unitaria del Paese e la sua Costituzione sono poste pesantemente in discussione nelle loro stesse premesse di movimento storico, il Risorgimento e la Resistenza: più che di celebrazioni quella data avrà dunque bisogno – bisogno innanzi tutto politico – di un forte impegno storiografico, di una riflessione sullo sviluppo della società italiana e dei suoi snodi cruciali fino a questa crisi della Repubblica. Uno di tali snodi, per l’appunto, va certamente individuato negli anni della «Voce», che di quel periodo e di quella generazione divenne in certo senso la rivista eponima: serva perciò questo anniversario vociano ad avviare il prossimo e più complessivo proprio a partire dall’analisi – quasi metaforica – di un momento nazionale di crisi di sistema, di declino di una classe dirigente, di profondo ricambio culturale in un contesto prebellico internazionalmente già attraversato e scosso da tensioni e ricomposizioni globali.

* In collaborazione con la rivista “Argomenti Umani” diretta da Andrea Margheri


Analisi di un partito in cerca di identità di Ivana Bartoletti

Si discute molto, in queste settimane, di crisi del New Labour. Il leitmotiv e’ sempre lo stesso: l’inconsistenza di Gordon Brown, la crisi economia, elezioni anticipate. Un dibattito sui nomi e le persone, con un leader Tory – Cameron – ormai tronfio e sicuro di vincere il prossimo turno elettorale. Giorni di analisi su una lettera che David Miliband ha scritto a The Guardian: una lettera intelligente e pacata, un ”vorrei ma non posso” pronunciato a bassa voce, un invito apprezzabile a “parlare di noi”, di cosa il New Labour ha da offrire alla nazione. Gia’, bella domanda. Vivo qui oramai da mesi, e divoro le notizie di politica interna ed internazionale, leggo libri di storia piu’ o meno recente e saggi di autorevoli esponenti del progressismo in salsa british. Frequento dibattiti alla London School of Economics cercando, nel cenacolo che invento’ il New Labour e la terza via, delle risposte, delle indicazioni su come la sinistra inglese puo’ costuire se stessa. E invece, del cenacolo che diede via alla “Terza via” meglio non parlarne: l’eredita’ lasciata da Tony Blair e’ un vero fardello. Gordon Brown, affermatosi senza contesa (che errore per David Miliband!


Ricorda qualcuno in salsa italiana?) ne ha portato avanti idee e fatti, e i risultati – non tutti – non sono stati all’altezza delle aspettative. Per questo consiglio vivamente a chi in Italia pensa ancora che la politica inglese abbia avuto quel quid di liberta’ e democrazia da Tony Blair di non pronunciarlo troppo ad alta voce. Purtroppo. Perche’ davvero l’Inghilterra di quell mix ha creato quell’identita’ che mescola allargamento delle opportunita’ e crescita economica e che ne ha fatto un faro ineguagliabile per quasi un decennio. La guerra, certo. Ma non solo. E’ strano vivere in un paese che consegna quotidianamente il suo tributo in vite umane agli Stati Uniti d’America. Ma non solo la guerra: Education, degrado sociale, sicurezza... sono tanti i terreni in cui il New Labour ha dimostrato di mettere in campo delle politiche senza rinnovare la sua “Politica”. Vorrei qui analizzarne alcuni. Quello piu’ lampante e’ l’Education. Il sistema scolastico e’ al centro del dibattito quotidiano. La vocazione maniacale a fare test ha il pregio di avere a che fare con dati inoppugnabili. Ofsted, l’ente che valuta le scuole, fa un lavoro certosino. E quindi scopriamo c’e’ un nesso diretto tra qualita’ della scuola e studenti che non pagano i pasti, quartiere, comunita’ e profilo etnico della zona. E mentre nelle aree depresse le scuole non preparano i giovani, il motto di questi anni del New Labour e’ stato una sorta di “Study. Success. Achieve”. Orde di genitori temono con angoscia l’arrivo della primary school, spulciano i report di Ofsted, trasferiscono residenza, comprano un altra casa pur di mandare il figlio nella scuola giusta. E come dare loro torto? Sbagliare e’ drammatico, visto che, come le cronache mostrano ogni giorno, errori possono essere drammatici. Il divario sociale inglese e’ altissimo. Alta privacy e presenza di centinaia di aziende dell’alta finanza, fanno di Londra il posto giusto per godersi stipendi d’oro. I divari salariali sono spaventosi. Ma la vera scoperta dell’Inghilterra recente e’ la seguente: il motto labour “Education per tutti” non basta per scatenare mobilita’ sociale. La genuine convinzione di permettere a tutti di studiare a prescindere dalle condizioni socio – economiche di partenza in realta’ non ha fatto altro che permettere ai ricchi di tutelare i propri pargoli mandandoli in selezionate scuole private lasciando ai meno abbienti le scuole povere di fondi, di saperi e di insegnanti qualificati. Di questi tempi il Regno Unito guarda molto alla Svezia: in generale nei paesi nordici la mobilita’ sociale non e’ mai stata perseguita come fine, ma e’ arrivata come conseguenza di una politica volta ad abbassare le diseguaglianze salariali. Cosi’ in Svezia, il figlio del professionista va tranquillamente a fare l’operaio, e viceversa. Ma quel che conta e’ che in Svezia – e in generale nel modello nordico – I divari salariali non sono cosi’ elevate, quasi fosse una questione morale. L’opposto del modello british che va avanti senza troppi danni quando l’economia va bene, ma crolla in momenti di crisi economica. E questo e’ uno di quei momenti: il Regno Unito attraversa una crisi mostruosa e l’OCSE ha appena detto che tra tutte le economie forti, quella UK sara’ l’unica a non dare nell’immediato alcun segno di ripresa. In questo contesto, il Ministero dell’Interno ha rivelato quanto drammatica la crisi possa essere per la coesione sociale, e quanto possa acuirne il conflitto e la violenza urbana. Dunque, il nesso tra education e motore sociale dovra’ essere ridiscusso. Tra le alter, Cameron ha una ricotta semplice semplice, quella di permettere alle famiglie di organizzare scuola per i propri figli in casa.


Piu’ recentemente ho notato Cameron ha assunto i tratti di Margaret Thatcher, continuando ad affermare che chi viene da un quartire degradato deve impegnarsi, studiare di piu’ e otterra’ di piu’. Perche’ l’Inghilterra dara’ le opportunita’ a tutti a prescindere dalle condizioni di partenza. Con un messaggio subliminale che suona piu’ o meno cosi’ (ed e’ cosi’, nella semplificazione anglosassone): se un povero non ce la fa, la responsabilita’ e’ sua di non essersi impegnato abbastanza. Piu’ di un decennio di Labour dimostra invece che non ci sia nulla di piu’ lontano dal vero. Lo sforzo immane e apprezzabile dei Governi Blair e Brown di diminuire il peso delle provenienze economiche e sociali, ha dimostrato che le premesse sono sbagliate: non basta garantire le possibilita’ a tutti perche’,in una societa’ cosi’ frammentata dai divari salariali, dietro uno che riesce ce ne sono mille altri che guadagnano poche sterline al giorno per pulire le scale o vendere giornali. La pretesa immaginifica di creare uguaglianza sociale senza ripartire il peso della societa’ e, soprattutto, senza investirci denaro e’ pura utopia. Io credo davvero che su questo terreno si misuri la forza vera di un partito progressista, e non solo in Gran Bretagna. Cito qualche esempio. L’era di Blair dette vita ad alcuni programmi di riqualificazione di complessi abitativi. Sto parlando di ghetti, con alto tasso di violenza e criminalita’. Questi programmi hanno permesso agli inquilini di organizzarsi e gestire la comunita’, di finanziare scuole e centri di aggregazione. Molte donne e uomini di quelle aree hanno acquisito una formazione professionale e la violenza e’ nettamente diminuita. Dopo poco tempo pero’ e’ accaduto che chi ha acquisito gli strumenti per andarsene l’ha fatto, lasciando il posto a nuova poverta’, a nuove criminalita’. Questo dimostra che senza un patto tra cittadini, senza una vera Politica capace di generare politiche sociali innovative, le migliori intenzioni non bastano. Education, mobilita’ sociale e divari salariali saranno temi centrali della campagna elettorale, nonche’ tre grandi questioni identitarie del Labour che si presentera’ all’appuntamento elettorale (sul quando questo accadra’, ci sono varie idée): la conferenza di Manchester di fine settembre ci dira’ qualcosa di piu’. Oltre a questo, pero’, trovo che una moderna identita’ progressista non possa prescindere dalla collocazione internazionale. Ora, io non sono un economista ma non posso fare a meno di pensare che l’interdipendenza con gli Stati Uniti sia uno dei motivi principali dell’acutezza di questa crisi economica in terra British. Il credit crunch qui si e’ abbattutto con una forza mostruosa. Il prezzo delle case precipita a vista d’occhio mettendo in ginocchio il mercato immobiliare. Su questo terreno peraltro trovo ci sia poca responsabilita’ collettiva da parte di media e politica e troppo abuso di informazioni (insomma, il crollo dei prezzi dei prezzi delle case non puo’ essere additato come l’unico responsabile della minacccia della recessione, e’ un errore grossolano). L’OCSE ha detto ieri che l’economia inglese sta scivolando nella recessione mentre David Blanchflower della commissione sulla politica monetaria della Bank of England ha appena detto che 2 milioni di Britannici potrebbero essere disoccupati entro Natale. Ora, e’ chiaro che la crisi e’ ovunque e attraversa il mondo e l’Europa. Negli


Stati Uniti la preoccupazione economica ha preso il posto della Guerra nell’elenco delle priorita’ dei cittadini. Il punto che vorrei sollevare qui non e’ solo di natura economica. La questione che mi pare dirimente e’ la collocazione della Gran Bretagna tra oltre – oceano e oltre – Manica. Non e’ un punto secondario. Anche la crisi Georgiana ha visto lo straordinario spettacolo dei distinguo britannici. E senza dimenticarci che la Guerra in Iraq e’ realta’ quotidiana, tributo di vite umane ma anche sperpero di denaro che potrebbe essere utilizzato altrove. Insomma, credo che una riflessione sulla collocazione internazionale del Regno Unito sia essenziale. Tra poche settimane si svolgera’ il Congresso del Labour Party a Manchester: vedremo li’ quali risposte e quale futuro. Come e’ normale, si tentera’ di imputare a Gordon Brown la crisi economica e tutto il resto. Non so se un Labour rinnovato e capace di parlare alla Nazione ce la possa fare ancora una volta. Tony Blair tocco’ corde profonde, ma erano piu’ di dieci anni fa e il paese era reduce dal fallimento dei conservatori. Ora il Regno Unito e’ un paese in crisi, ma ha la forza di aver attratto le migliori energie e i migliori talenti. Sopratutto, non mi pare – il Labour Party – un partito incapace di affrontare riflessioni serie, e vere, di rinnovare idée e politiche, di sedersi intorno ad un tavolo, decidere una linea, una nuova leadership e marciare compatti. *** *** Si sta svolgendo in queste ore la conferenza dei Conservatori a Birmingham, e l’altra settimana si e’ tenuta quella Labour a Manchester. Le ho guardate e studiate entrambe, e ne scrivero’ nel prossimo numero della rivista. Alcune riflessioni pero’, mi sembrano immediate: 1. Cameron, il leader dei Tory e’ veramente migliorato, ed e’ un pericolo temibile per il Labour. Due anni fa stava per perdere il partito ora ne e’ il leader indiscusso; 2. Gli slogan dei due congressi segnano la differenza e l’identita’. Il congresso conservatore punta su “change”, il congresso Labour puntava sull’esperienza e Gordon Brown stesso ha affermato nella sua relazione: “This is no time for novice”. Forse, in tempi di crisi davvero non e’ il momento delle novita’ e, forse, di questo Gordon Brown potra’ approfittare; 3. La confusione politica regna sovrana: il Labour e’ accusato di non aver governato gli speculatori finanziari, Cameron propone invece controllo ed etica in ambito finanziario; 4. Da quell che ho visto fino a qui del congresso dei conservatori, ho notato una retorica incredibile, demagogica e populista, ma certamente ho anche visto un partito certo tra pochi mesi di governare il paese. I cosidetti “fringe events”, organizzati dai vari think thanks sono luoghi di piu’ approfondita analisi e riflessione culturale e politica. Mentre in quelli del Labour ho notato una certa spinta all’elaborazione, nei documenti dei Tory ho invece trovato una grande confusione intellettuale e politica.


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