XXV Anniversario Romitaggio Getsemani

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XXV Anniversario Romitaggio Getsemani 7 luglio 2012

Le vocazioni, la profezia: Il roveto ardente, il Getsemani, la voce che grida ancora oggi: tre manifestazioni di Dio La vocazione di Mosè Es 3, 1-6. 10-16; 4, 10-17. Manifestazione di Dio per eccellenza. Gli atteggiamenti tipici del profeta e a cui il profeta si espone sono diversi: lo scandalo, il confronto con le istituzioni con conseguente persecuzione e messa in discussione della mentalità corrente, ecc. Vi è anche il dolore. La profezia mette il dolore nell’animo del profeta, altera il suo animo e la sua vita. È proprio quest’ alterazione a creare il dolore. “È strappato alla propria famiglia, al suo ambiente, alle sue condizioni di vita, alla sua mentalità, al suo temperamento, e buttato altrove. È sottratto al suo io e, trasformato, non riconosce più se stesso. Si fa di lui la sua stessa contraddizione; dice ciò che non ha mai pensato, annuncia ciò che ha sempre temuto. La sua esistenza è il paradosso del suo essere” (Neher, 244). La profezia richiede sradicamento. Pensiamo ad Amos, che stiamo ascoltando proprio in questi giorni. L’appello di Dio è assoluto: Va’… dal Faraone. (Rottura con la vita corrente. Per Mosè, l’abbandono del mestiere di pastore). “Dopo lunghi giorni di esitazione, alla fine Mosè è costretto ad abbandonare le sue greggi e ad essere profeta. Ma non ha ancora compreso quanto la sua vocazione sia così alterante. Tutto preso nei suoi pensieri, considera la vocazione profetica ancora a misura delle sue modeste preoccupazioni, si mette in cammino come un buon padre di famiglia, con tutta la sua famiglia. Occorrerà un nuovo incontro, violento questa volta, oscuro, patetico, perché Mosè comprenda che mettersi in cammino profeticamente non è seguire un itinerario per gente borghese. Un taglio deciso si è ormai operato tra lui e la famiglia. Quello è il momento in cui comincia veramente ad accedere alla vocazione che sarà, per lui, sempre più un vivere al di sopra degli altri e in solitudine” (Neher, 248). La pesantezza: il profeta non agisce liberamente, mosso cioè dal desiderio di agire di sua stessa volontà. Desidererebbe essere invece liberato dal fardello che il Signore impone. Tra Dio e il profeta vi è lotta a tutti i livelli. A volte anche una lotta corpo a corpo (Es 4, 24; Yabbok, il giogo di Geremia, ecc.). Anche Mosè cerca di conservare la sua libertà, fin dal principio, con la sua vocazione, come abbiamo visto. “Egli non accetta la sua vocazione se non dopo un lungo dialogo, della durata di parecchi giorni. Davanti al miracolo del roveto ardente che lo affascina e di cui vorrebbe penetrare il segreto, si ferma, sconvolto nell’apprendere che ciò che gli si rivela riguarda proprio lui. Con pazienza instancabile cerca di perorare la sua innocenza. La semplicità del dialogo è pari solo all’ingenuità degli argomenti che Mosè oppone al suo grande interlocutore… le obiezioni di Mosè vengono tutte scartate, l’una dopo l’altra, da una risposta di Dio, senza che questa risposta sia discussa. L’ultima grande obiezione rivela il dramma di Mosè: manda chi vuoi (Es 4, 13). La collera di Dio l’obbliga a cedere. Perlomeno ha potuto, preventivamente, parlando con Dio, manifestare il suo desiderio di restare libero” ( Neher, 256). Altri atteggiamenti: rivolta, rifiuto, contestazione. “I profeti per i quali l’elezione non si riduce a un istante, ma si dilata ampiamente in un’intimità prolungata con Dio, resteranno, tuttavia, anch’essi, con la loro sete, e non conosceranno la decifrazione ultima del loro messaggio. Dio non li dimentica, certo, ma non li sostiene abbastanza per giustificarli. L’alterazione ha per conseguenza ultima, l’abbandono. Trasformato dalla profezia, il profeta è nell’assoluto agli occhi degli uomini, e, davanti a Dio, è fra gli uomini. È se stesso senza mai esserlo” . Il Getsemani Mt 26, 36-46.

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Anche qui abbiamo a che fare con una manifestazione di Dio, una sorta di teofania. Qui troviamo inoltre gli stessi atteggiamenti tipici dei profeti e della loro vocazione. Questi però non sono rifiutati; sono anzi assunti e accolti. Gesù al Getsemani è veramente se stesso, senza alterazioni. Gesù si pone in intimità con Dio nella preghiera (36. Cadde faccia a terra; altrove un angelo viene a confortarlo). Prova dolore (37-38. Altrove si parla di gocce d sangue). Desidera evitare tale missione (rifiuto), ma si rimette alla volontà del Padre (39.42.44). La solitudine e l’abbandono dei suoi (40. 43. 47. 56, ecc). La pesantezza degli occhi dei discepoli richiama alle manifestazioni di Dio dell’AT (la sonnolenza di Abramo, Gen 15; Giacobbe, Gen 28, ecc.). La ripetizione per tre volte, richiama anche a una sorta di rituale, di teofania. Sembra quasi un paradosso: in un momento d’intimità così profondo e unico con il Padre, vi è anche il culmine della solitudine e del dolore, della separazione, dell’alterità. Come se la piena umanità di Gesù gridasse tutta la sua ritrosia e fatica nell’accettare il suo fallimento. In questo momento in Gesù non vi è solo un Dio che si è fatto carne, ma l’Assoluto che entra nella notte. Al Getsemani, in effetti, inizia anche il fallimento di Gesù, fallimento necessario, che lo porterà in conclusione ad assumere la morte. Solo così del resto questa può essere annientata. Getsemani è Gesù che ricorda ai discepoli la necessità di vegliare e di pregare per non cadere nella tentazione, tentazione che è separarsi da Dio, allontanandosi dalla sua volontà, la vera morte dell’uomo. Nell’obbedienza alla volontà del Padre, Gesù condanna la morte, la separazione da Dio. Nell’obbedienza, nel rimettersi alla Sua volontà, nello stare nella relazione con Lui, sta la nostra vita. Ciò che Gesù ha richiamato nella sua predicazione (i tralci e la vite, amore-unità, ecc.) al Getsemani lui lo compie in sé. Così nella sua unità così profonda con il Padre, che al Getsemani si manifesta e che sulla croce si compie in pienezza, Gesù rivela definitivamente la sua identità. Con l’invito a pregare al quale Gesù richiama i suoi discepoli, si manifesta il desiderio che essi stiano nella vita, cioè nella relazione con Lui, nella tensione costante della ricerca di Lui. Mentre nel profeta vi era generalmente la tentazione di fuggire, di recalcitrare, di interrompere a volte la missione cui era chiamato, qui Gesù entra liberamente nella sua missione e indica la nostra: pregare, stare con Lui, vivere. Cessa la missione dei profeti. Non è più necessario richiamare altri recalcitranti personaggi per ricondurci a Dio. L’obbedienza, cioè la vita, intesa come relazione piena con il Padre, si è manifestata in maniera assoluta, una volta per tutte. Il Getsemani non è il racconto della vocazione di Gesù. Il Getsemani è la nostra vocazione. La voce che grida ancora oggi Mt 10, 5-26. Con voce che grida ancora oggi si intende il grido di Gesù, che risuona ancora oggi nel mondo. Sono i suoi discepoli a portare questa voce. “Un discepolo non è più grande del suo maestro, né un servo più grande del suo signore; è sufficiente per il discepolo diventare come il suo maestro” (Mt, 10, 24-25). La via è la stessa. La nostra vocazione, indicata dai profeti e ricevuta al Getsemani, è quella di stare con il Signore, e il nostro destino non può essere diverso: i sentimenti di solitudine, abbandono, dolore, non sono però più fine a se stessi, ma sono calati nella vita, cioè nella relazione piena con il Padre, che Lui ci ha donato. Le persecuzioni e le solitudini non ci saranno risparmiate. Ma Gesù, cioè la vera vita, non può più esserci tolto. Ci è donato per sempre. La voce che grida ancora oggi, ha bisogno di ginocchia piegate, come al Getsemani, più che di organizzate strategie. Il Romitaggio vuole essere questo. L’opportunità di vegliare e pregare con Lui; la possibilità di riscoprire questo dono. Farlo nello stesso Luogo, è poi più che un dono. È una grazia. Fra Pierbattista Pizzaballa, OFM Custode di Terra Santa

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