LE PROVOCAZIONI DI FULVIO di Fulvio Forrer Un centimetro ogni tre anni “Eurasia” slitta verso nord-ovest ed i riferimenti per la navigazione satellitare (GPS) devono essere ricalibrati
Sentieri Urbani
Rivista semestrale della Sezione Trentino dell’Istituto Nazionale di Urbanistica
Numero 1 - aprile 2009
Poste Italiane Spa spedizione in A.P. - DL 353/2003 (conv. in L 27/02/04 nr 46) art. 1, comma 2 CNS Trento
Le cime, i versanti, i singoli massi con i tempi della geologia scendono inesorabilmente verso valle e le protezioni artificiali difficilmente riescono a contenere i movimenti, il più delle volte rincorriamo le emergenze
Quantitativamente oggi piove quasi come nel passato (da noi –10%), ma la distribuzione degli eventi rende le precipitazioni più distruttive, i corsi d’acqua oggi sono configurati per aumentare le ondate di piena, ed il territorio mostra come sia stato utilizzato in modo incompatibile
I conoidi, per disegno morfologico, sono da sempre l’accumulo di detriti incoerenti, ma oggi vengono attraversati di infrastrutture viarie, sono localizzazione per insediamenti stabili e nella loro destinazione d’uso sono oggetto di studio per prevenire catastrofi
I boschi ed i corsi d’acqua fanno la differenza... GAIA è VIVA !
In questo numero:
IL PGUAP: UN PIANO DA SCOPRIRE SCOPRIRE?? LA VAS TRA BISOGNI E STRUMENTI PENSARE LA CITTÀ A MISURA DI BAMBINO QUALITÀ DELLO SPAZIO URBANO PER UNA COMUNITÀ SICURA LE PEREQUAZIONI E LE COMPENSAZIONI IN URBANISTICA
Sentieri Urbani 1 indice
Sentieri Urbani rivista semestrale della Sezione Trentino dell’Istituto Nazionale di Urbanistica nuova serie anno I - numero 1 aprile 2009 registrazione presso il Tribunale di Trento n. 1376 del 10.12.2008 direttore responsabile Alessandro Franceschini direttore@sentieri-urbani.eu redazione Fulvio Forrer, Paola Ischia, Giovanna Ulrici, Massimiliano Vanella, Bruno Zanon redazione@sentieri-urbani.eu hanno collaborato a questo numero: Silvia Alba, Fabrizio Andreis, Emanuele Boscolo, Rose Marie Callà, Claudio Coletta, Silvia Ferrin, Francesco Gabbi, Giovanna Sonda, Alberto Trenti tipografia Rotooffset Paganella s.a.s. di Roberto Alessandrini &C via Marchetti, 20 38100 Trento abbonamenti Per ricevere Sentieri urbani è sufficiente inviare una e_mail indicando i dati postali di chi desidera abbonarsi alla rivista: diffusione@sentieri-urbani.eu Sentieri urbani è a diffusione gratuita. Per contribuire concretamente al sostentamento della rivista è sufficiente una donazione, anche simbolica, sul conto corrente intestato all’Inu Trentino presso la Cassa Rurale di Trento IBAN IT63M0830401813000013330319 contatti: www.sentieri-urbani.eu 328.0198754 editore Istituto Nazionale di Urbanistica Sezione Trentino Via Oss Mazzurana, 54 38100 Trento direttivo 2007/2009 Fulvio Forrer (presidente) Maurizio Tomazzoni (vicepresidente) Giovanna Ulrici (segretario) Alessandro Franceschini (tesoriere) Bruno Zanon (consigliere) Paola Ischia (consigliere) Massimiliano Vanella (consigliere)
Editoriale Sentieri urbani: un’occasione di confronto per il Trentino pag. 2 a cura della redazione Territorio&Paesaggio Insediarsi nelle Alpi: pensare e programmare il futuro di F. Forrer Il Pguap: un piano da scoprire? di A. Trenti La Vas tra bisogni e strumenti di F. Forrer Chi ha ucciso il Paesaggio? di A. Franceschini Spazio&Società Qualità dello spazio urbano per una comunità sicura di B. Zanon Pensare la città a misura di bambino di S. Alba, F. Andreis e S. Ferrin La città sicura: bambini e genitori a confronto di R. M. Callà Penelope: le trame emergenti del tessuto urbano di C. Coletta, F. Gabbi, G. Sonda Dossier Le perequazioni e le compensazioni in urbanistica di E. Boscolo Vita associativa Est-etica energ-etica nella pianificazione di P. Ischia Il Governo del territorio: un corso dell’Inu/Trentino di G. Ulrici Notizie da Roma di G. Ulrici Chi siamo, cosa vogliamo, come partecipare a cura della redazione I nuovi soci a cura della redazione
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Sentieri urbani: un’occasione di confronto per il Trentino a cura della redazione
Con questo numero di Sentieri urbani inizia una nuova attività dell’Inu del Trentino. Dopo avere diffuso un bollettino per diversi anni, è giunto il momento per il passaggio ad una più impegnativa rivista semestrale
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omincia con questo numero di Sentieri urbani una nuova fase dell’attività dell’Istituto Nazionale di Urbanistica del Trentino. Dopo avere diffuso un bollettino quadrimestrale per diversi anni, è giunto il momento per il passaggio ad una più impegnativa rivista semestrale. L’Inu, fondato nel 1930, eretto ad Ente Morale di Alta Cultura nel 1943, presente in Trentino Alto Adige dal 1985 e costituitosi in sezione autonoma provinciale nel 1993, promuove lo studio dei problemi del territorio e stimola l’applicazione ed il rinnovamento degli strumenti di pianificazione. Oggi l’INU vuole essere anche un luogo di dibattito sulle dinamiche urbanistiche in atto e strumento di formazione per professionalità in grado di affrontare le sfide sulla gestione del territorio. Non solo, quindi, elaborazione scientifica, ma momento di confronto e di partecipazione. Quello appena conclusosi è stato un anno particolarmente importante per la nostra provincia. La revisione del Piano urbanistico provinciale, approvato con la legge provinciale nr. 5 del 27 maggio 2008, preceduta dall’approvazione della nuova legge urbanistica (la nr. 1 del 4 marzo 2008), ha fatto fare allo strumento di governo del territorio un ulteriore passo nel solco tracciato da quelli precedenti, lavorando in particolare su tre aspetti: la sussidiarietà (ovvero il decentramento della responsabilità di pianificazione), il paesaggio (ovvero la costruzione consapevole dell’identità), le conoscenze (ovvero pre-vedere, valutare, scegliere e argomentare in un processo di co-pianificazione). La situazione economica e sociale della nostra terra, rispetto ai primi anni Sessanta - quando è iniziata la stagione pianificatoria - è infatti mutata. Il Trentino non è più la provincia piccola e sola, collocata ai margini di una nazione e con un’economia esclusivamente agricola, affetta da frammentazione fondiara e da incapacità di rispondere alle esigenze di vita. È, invece, un territorio competitivo, dotato di una Università importante e di molti centri di ricerca di eccellenza. È inoltre un territorio su cui gravita un forte flusso turistico e che vuole collocarsi come cerniera e ponte tra il mediterraneo e la mitteleuropa. Così questo piano urbanistico, a differenza del piano di Giuseppe Samonà (1967) e di Franco Mancuso (1987), persegue nuovi obiettivi di sviluppo: rinuncia dichiaratamente alle decisioni centralistiche preferendo delegare alle comunità locali (in particolare ai Comuni e alle Comunità di valle) le scelte di sviluppo che devono avvenire in un’ottica di partecipazioni condivise. Si tratta di quella che Roberto Gambino - uno dei consulenti dell’Amministrazione - chiama «soft-power», ovvero una politica decisionale fondata sulla forza della persuasione, sull’incentivazione alla partecipazione, sull’assunzione di responsabilità da parte delle comunità locali, piuttosto che sul comando centralizzato. In questa nuova visione della pianificazione, la rivista Sentieri urbani vuole essere luogo di incontro e di elaborazione per fare crescere l’urbanistica grazie all’informazione, al dibattito, alla formazione. Per tene-
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re fede a questi obiettivi saremo sempre attenti a scorgere ed intuire quello che la disciplina, le dinamiche politiche e amministrative, nonché le esperienze di trasformazione, ci suggeriranno, segnalando le nuove prospettive ai lettori. Parleremo in particolare di perequazione urbanistica e territoriale, proponendo esperienze virtuose maturate dentro e fuori il nostro territorio, per trasformare questo concetto da un importante assunto teorico ad una prassi pianificatoria indispensabile, che già altrove vive un’importante stagione di sperimentazione. Parleremo di sviluppo sostenibile, cercando di recuperare questo importante concetto dalla retorica della politica, per proiettarlo nello spazio del progetto strategico e per farlo diventare ancora occasione per riconvertire l’economia ed il sistema produttivo, con attenzione ai cambiamenti climatici, all’uso del territorio, all’ambiente. Parleremo di paesaggio e di partecipazione riempiendo queste parole spesso “vuote” con occasioni di implementazione, di sperimentazione e di attuazione. Consapevoli che l’identità connessa a tali concetti diventa effettiva solo se la qualità del paesaggio diventerà un obiettivo diffuso e la partecipazione una pratica integrante delle politiche di settore. Parleremo di sicurezza urbana e di attenzione all’infanzia, perché la qualità della nostra vita dipende ogni giorno di più dalla qualità dello spazio in cui viviamo, in un contesto che vede sempre più persone vivere in uno spazio completamente antropizzato, dai caratteri urbani anche in campagna. Queste e tante altre cose ancora verranno affrontate ogni sei mesi sulle pagine di questa rivista. Un luogo di riflessione disciplinare, un’occasione per lo scambio delle idee, delle opinioni, delle visioni, certamente non distante dalla politica, ma caratterizzato da quella libertà di espressione e di pensiero, da quella serena pacatezza di chi è al di là degli schieramenti politici.
Parleremo di perequazione urbanistica e territoriale, di sviluppo sostenibile, di paesaggio e di partecipazione, di sicurezza urbana e di attenzione all’infanzia, cercando di riempire queste parole spesso “vuote” in occasioni di riflessione progettuale
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Insediarsi nelle Alpi: pensare e programmare il futuro di Fulvio Forrer
Insediamento tradizionale nelle Alpi italiane
Origine ed evoluzione dell’insediamento nelle Alpi In origine le Alpi erano solo territori marginali, territori di caccia: rare le presenze stanziali, sporadici i passaggi di transito: si sarebbero potuti definire spazi limite, in cui la penetrazione era di per se difficoltosa e pericolosa. Solo al termine del primo millennio d.C., le Alpi diventarono territori significativi di residenza stabile. Gli insediamenti erano dapprima nei fondovalle, ma in posizione dominante (i castellieri) a causa dei pericoli derivanti dai regimi idrici dei grandi fiumi di fondovalle, per poi radicarsi nelle aree più strategiche e comode dei fondovalle. È l’epopea del colonialismo espansivo europeo dove la crescita rappresentava più territori, più popolazione, più entrate. In questi passaggi storici le Alpi mantennero la loro caratteristica di fattore fisico di separazione e ne acquisirono uno nuovo: quello di spazio di vita per l’espandersi delle regioni limitrofe. Le Alpi serbatoio di minerali, giacimenti che rappresentano la materia prima per acquisire maggiore potenza e forza. I “territori limite” erano nelle loro condizioni laboratorio di vita, con i “roncadori”, e scuola di mestieri quanto di tecnologie di base, in una logica insediativa di diffusione sul territorio; merita ricordare che in Italia è l’epoca delle Signorie e dei Comuni, cresciuti all’insegna dell’antico bisogno di sicurezza. Di quel periodo vanno ricordato come alcune aree furono oggetto di sfruttamento intensivo delle risorse locali (legname, minerali, sale, ecc) al punto tale da trasformarsi da spazi di vita a luoghi di morte. Le conseguenze di tale carico sul territorio furono sia economiche (crisi di cresci-
ta e di mantenimento) che ambientali quanto sociali (disastri naturali con distruzione di insediamenti, migrazione). La rivoluzione industriale di fine ‘800 arriva, seppur con ritardo, fin dentro le Alpi con il prelievo di nuove risorse (acqua, energia, manodopera, ecc.); le nuove logiche economiche hanno nuovamente alterato gli equilibri di vita in montagne soprattutto attraverso il fenomeno migratorio; l’impervio – la montagna – rappresenta solo in parte il limite fisico, ma più propriamente la penalizzazione dei costi, anche di quelli commerciali. In questo contesto i poli urbani di sviluppo delle nazioni di riferimento diventano l’attrattore dei forti movimenti migratori. L’abbandono della montagna, anche se non dappertutto e nello stesso modo ed entità. Si spopolano intere comunità e vallate. Oggi le Alpi vivono una nuova stagione: sono i parchi gioco-svago/sfogo- delle aree forti di pianura il cui modello di vita si impone nei costumi quotidiani attraverso i media: il modello urbano si propaga nei fondovalle ed in collina costruendo arcipelaghi insediativi il cui riferimento organizzativo appare la metropoli. Vivere nelle Alpi: il nuovo contesto socioeconomico ed ambientale Vivere in montagna (quella vera) è difficile, oneroso ed impegnativo, in ogni caso ci troviamo in un epoca nuova. La fase economica e sociale del nostro tempo è quella della smaterializzazione e della delocalizzazione. Assistiamo ad un esodo dai grandi centri verso quelli medi ed anche nelle Alpi le città rappresentano il fattore di riferimento: in alcuni territori geografici delle Alpi gli insediamenti sono periferie dei grandi poli metropolitani della pianura, ed in altre realtà più interne al sistema alpino, sono riferimento per servizi rari e pregiati di bacino. E se storicamente i capoluoghi erano il vessillo di identificazione per le intere comunità regionali, ora i centri principali rappresentano con i loro arcipelaghi insediativi (una sorta di submetropoli di piccole dimensioni) l’opportunità di vita qualificata (minore concentrazione, tempi di vita più diluiti e minore frenesia). Le città alpine sono considerate luoghi ad alta vivibilità prima ancora dei rispettivi territori di periferia, che risultano ancora malamente serviti sia dalle reti tecnologiche avanzate che dai servizi di base. Per identificare il livello della sfida è interessante notare come la dimensione delle città italiane capoluogo di Provincia nelle
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Alpi è medio-piccola, il parametro demografico è significativo dei bacini di riferimento, ovvero della difficoltà di quadrare i costi dell’offerta di servizi che giocoforza nelle area montana sono più elevati che in pianura, a fronte invece di bacini di utenza decisamente inferiori. Il numero degli abitanti in contesti urbani alpini difficilmente supera i 100 mila abitanti; la maggior parte delle unità insediative conta tra i 20 e i 50 mila abitanti; tranne che nel caso lombardo evidentemente condizionato dal fungo d’influenza milanese; i sistemi insediativi più interni nelle valli alpine risultano regolati da logiche endogene, d’area. La globalizzazione continentale e la riduzione nella percezione delle distanze, frutto della diffusione dell’automobile, rende la vita in periferia simile a quella in città; ne consegue un modello di vita sostanzialmente urbano vissuto anche nelle località più marginali. I limiti e le difficoltà tipici della montagna non sono più percepiti nella vita comune, ne deriva un modello insediativo “della dispersione”, l’antica parsimonia nel consumo di territorio lascia spazio al modello “padano”; al virtuosismo dei paesi storici si contrappone lo spreco edilizio della modernità, in un proliferare di macchie abitate con debole struttura urbana ed elevati costi di gestione. La rincorsa all’appezzamento di terreno edificabile, ufficialmente per i figli o i famigliari, è la logica imperante nella redazione dei Piani Regolatori, i quali sono ancora oggi prevalentemente dei semplici programmi di fabbricazione. Va poi tenuto presente poi come la dotazione individuale di terreno edificabile (valore immobiliare) è fonte di speculazione edilizia, generalmente realizzata attraverso la vendita del bene che nelle aree turistiche ed urbane pregiate mantiene un valore finanziario maggiore che non con gli investimenti azionari. Dobbiamo considerare che ciò comporta costi per il soddisfacimento del bisogno “casa” di chi ha bisogno di entità esorbitan-
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te, al limite della inaccessibilità. Infine dobbiamo tenere presente che il fenomeno dello spopolamento della montagna è in buona parte finito, vi è una ripresa generalizzata della crescita demografica con esodo dalle più alte quote (ma non nei centri turistici) a favore dei centri di valle, meglio serviti di servizi e con una decente dimensione di comunità. Il consumo di suolo in Trentino evidenza come l’insediamento si disperde su oltre il 5% del territorio provinciale ed in particolare nei fondovalle con una concentrazione abitativa al di sotto dei 500 metri di quota (la parte di territorio più comoda da abitare) che registra picchi di oltre 550 abitanti per chilometro quadrato, mentre in Alto Adige l’urbanizzato si concentra su appena il 2,85% del territorio provinciale. È interessante osservare come la struttura insediativa delle città alpine italiane sia omogenea, ovvero interessate dalla dispersione come dal loro estendersi in un arcipelago di nuclei. Seppur nei fondovalle spaziosi e ampi, le città alpine fanno i conti con la morfologia dei luoghi e le asperità, nonché con le aree soggette ai pericoli naturali (aree a rischio): frane, alluvioni, ecc: Gaia è viva in montagna con più evidenza che non in pianura. Qui, a causa delle particolari condizioni orografiche, il clima peggiora: d’inverno per l’inversione termica e le concentrazioni di inquinanti e d’estate per l’ozono. I territori alpini diventano così luoghi di contraddizione, dal mito dell’aria pura alla realtà di inquinamenti simili alla periferia milanese. Le città alpine come modello di un equilibrio dentro la rigenerazione: “verso l’impatto zero” La sfida futura dello spazio alpino, e dei sistemi insediativi alpini in particolare, è rafforzare e salvaguardare le proprie caratteristiche, con attenzione a porre le condizioni per uscire dalla omologazione del modello di vita metropolitano, non-
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Le Pale di San Martino viste dal Passo Rolle
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Paesaggio Alpino: la catena del Lagorai
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ché migliorare la propria dotazione di beni e servizi, ovvero della propria capacità attrattiva come luogo di vita ad alta qualità, con una base delle relazioni ecologiche a impronta zero e con modello sociale di Comunità (solidarietà). Le ricadute delle attività economico-sociali devono garantire ritorni su base locale, preferibilmente di tipo polverizzato, solo così vi sarà quel controllo sociale (consenso) capace di salvaguardare da interessi speculativi concentrati e ad alto ritorno finanziario (generalmente guidati da investimenti finanziari di origine indefinita). Vanno in ogni caso trovati meccanismi di compensazione affinché l‘egoismo, che coinvolge anche gli interessi sociali delle popolazioni alpine, trovi adeguato contenimento e compensazione in iniziative di ampio respiro. L’obiettivo dell’impatto zero non è un miraggio, ma è un traguardo verso il quale è possibile avvicinarsi; già oggi le comunità alpine godono di favorevoli condizioni di partenza, ampia distesa di boschi con valori attorno al 50% della superficie totale. Cicli produttivi parzialmente regionali dentro ad una logica di sostegno delle produzioni locali. Un carico antropico elevato per le condizioni di montagna, ma riequilibrato da una fase storica di recessione demografia. Un sistema sociale in cui il senso di comunità è forte, nonché consistenti iniziative economiche a base cooperativistica, quindi etica e solidarietà. Un mix di condizioni economico-sociali che favoriscono una prevalenza degli interessi comuni rispetto a quella squisitamente individuali. Questi punti di partenza sono le leve sulle quali
agire per rafforzare le attuali potenzialità e affrontare le sfide future. La pianificazione territoriale, che è lo strumento per programmare le politiche di comunità su base democratica (condivisa, ovvero consenso), è il “grimaldello” per indirizzare le risorse verso gli obiettivi condivisi: di comunità. È necessario precisare, in estrema sintesi, che gli interessi di comunità non sono la sommatoria dei singoli interessi individuali e che spesso le due visioni confliggono, quindi il criterio della partecipazione dei cittadini va garantito entro un sistema costruito e organizzato in modo da rafforzare le istanze collettive rispetto a quelle individuali; ovvero va favorita/incentivata la partecipazione attiva alle scelte di comunità. In tal senso i Piani vanno redatti con esplicitazione degli scenari alternativi tra i quali valutare le ricadute; le scelte devono essere prese attraverso percorsi partecipati espliciti, preferibilmente che mutuano da esperienze di Agenda 21 Locale. Un nodo centrale per i piani del futuro è l’energia, essa è il fattore strategico per lo sviluppo della vita e per la crescita delle comunità, la trasformazione dell’energia è a sua volta il principale fattore climalterante; i Piani devono esplicitare i fabbisogni di energia e le fonti disponibili capaci al loro soddisfacimento individuandone gli effetti ambientali. Va considerato che la pianificazione urbanistica può affrontare, riducendoli, oltre il 60% dei consumi totali di energia, tale sforzo va condotto contestualmente alla redazione del piano regolatore generale e non con strumenti settoriali, ma, quale fattore cen-
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trale del processo decisionale. Il settore dei trasporti con i relativi consumi è direttamente influenzate dalla distribuzione localizzativa degli abitanti e delle produzioni, quando dei servizi e dei consumi. Il 70% degli spostamenti urbani avviene in automobile, una buona pianificazione urbana capace di fluidificare il traffico secondo il principio della lentezza può contribuire alla riduzione delle emissioni gassose per una quota significativa; ma dato che nelle città il problema principale sono gli spazi che non sono più in grado di accogliere scatole di latta (le automobili), lo sviluppo del trasporto pubblico può risultare strategico e vincente: può ridurre i consumi individuali mediamente del 50% rispetto ad oggi con una ricaduta positiva anche sul bilancio di collettività. Il settore dell’abitare, e più in generale dei consumi civili, può risentire di un deciso miglioramento delle prestazioni dalla introduzione di specifiche misure di contenimento energetico: una casa tradizionale consuma oggi mediamente 2500 litri di gasolio anno; con interventi di miglioria sull’esistente questo consumo può essere ridotto ad un terzo, mentre realizzando un edificio nuovo con le tecnologie e le soluzioni esistenti tale risparmio può raggiungere valori quasi di azzeramento dei consumi. E se invece nelle zone vocate si attivano politiche programmate di produzione energetica a bassa densità, ma diffuse sul territorio, si possono affrontare i problemi del trasporto dell’energia elettrica (inquinamento elettromagnetico) e il diretto controllo sui consumi e sulla distribuzione.
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Conclusioni Tasselli dell’approccio virtuoso e di politiche lungimiranti possono essere ritrovati in vari esempi: - la politica sui trasporti che caratterizza la Svizzera (fluidificazione lenta) o il Tirolo del Sud come nel caso della ferrovia della Venosta (trasporto pubblico); - il Piano Generale di Utilizzazione delle Acque Pubbliche (PGUAP) del Trentino, quale strumento di programmazione nell’uso delle risorse e delle logiche di recupero ambientale; - le Perle delle Alpi con le offerte di mobilità dolce; - casaclima per andare verso un rapporto con le risorse locali virtuoso (sole-legno); - nella recente legge (certamente tardiva) per il contenimento delle seconde case introdotta in Provincia di Trento; - nel processo di partecipazione popolare avvenuto nella Rheintal alla ricerca di un contenimento all'urbanizzazione diffusa o il Piano partecipato di Budoia (Friuli – I).
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Riferimenti Bibliografici A. Gorfer, I segni della storia, ed Saturnia 1982. S. Bassetti, P. Morello, Paesaggio e architettura rurale nelle valli ladine delle Dolomiti, ed Manfrini 1983. E. Ferrari F. Sembianti, M. Tomasi, G. Zampedri, I centri storici del Trentino, ed. Silvana 1981. G. Visetti, Le Alpi tradite dal denaro, Repubblica 18/7/08. C. Emanuel, Integrazione urbana e nuove gerarchie, ed F. Angeli 1988. G. Dematteis, L’Italia delle città tra malessere e trasfigurazione, ed SGI, 2008. F. Indovina, Lo spreco edilizio, ed Marsilio, 1972. F. Sembiant, Rapporto dal territorio: il Trentino, ed INU 2007. ASTAT, INFO n. 25, Istituto provinciale di Statistica 10/2006, Provincia Autonoma di Bolzano.
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Il Pguap UN PIANO DA SCOPRIRE? di Alberto Trenti Introduzione Il Piano generale di utilizzazione delle acque pubbliche (Pguap) è nato con il secondo Statuto di Autonomia per la Regione Trentino-Alto Adige (D.P.R. 31 agosto 1972, n. 670) quale strumento di intesa fra lo Stato e le Province autonome di Trento e Bolzano, alle quali lo stesso Statuto trasferiva le competenze in materia di acque e demanio idrico. In origine esso disciplinava quindi l’uso della risorsa idrica (derivazioni e attingimenti) e la regolazione dei corsi d’acqua. Alla fine degli anni ‘90 (D.Lgs. 11 novembre 1999, n. 463 - Norme di attuazione dello statuto speciale della regione Trentino-Alto Adige in materia di demanio idrico, di opere idrauliche e di concessioni di grandi derivazioni a scopo idroelettrico, produzione e distribuzione di energia elettrica), è stata conferita al Pguap la valenza di Piano di bacino di rilievo nazionale, ampliandone così notevolmente i contenuti in relazione a quanto già previsto dalla specifica legislazione di settore che dieci anni prima aveva istituito le Autorità di bacino (legge 18 maggio 1989, n. 183 - Norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo). La Provincia autonoma di Trento ha quindi avviato nel 2001 una radicale revisione del Piano per farne uno strumento di disciplina organica e integrata delle molteplici relazioni tra la sfera antropica, le risorse idriche e l’assetto del territorio; il tutto con specifica attenzione a promuovere la compatibilità ambientale e la sostenibilità dello sviluppo. Nei successivi diciotto mesi è stato redatto il documento preliminare di Piano, che con più di mille pagine di testi e tabelle corredati da seicento tavole grafiche, ha raccolto ed elaborato le informazioni e i dati più aggiornati disponibili in queste materie. Prima dell’approvazione si è svolto un lungo e complesso iter amministrativo fatto di presentazioni, pareri, accordi e intese con le parti sociali e gli Enti locali trentini, con la Provincia autonoma e le
due Regioni limitrofe, con le Autorità di bacino del Po, dell’Adige e dell’Alto Adriatico e infine con il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del territorio. Il Piano è infine stato emanato con decreto del Presidente della Repubblica il 15 febbraio 2006 ed è entrato in vigore il successivo 8 giugno. Lo scorso autunno la Giunta provinciale ha parzialmente modificato, previa intesa con gli Enti su menzionati, la parte del Piano riguardante le aree a rischio idorgeologico (deliberazione n. 2049
del 21 settembre 2007) al fine di armonizzarne le disposizioni con la nuova disciplina del Piano Urbanistico Provinciale. Esso ha infatti introdotto la Carta di sintesi della Pericolosità quale strumento di rappresentazione della criticità territoriale più adeguato, rispetto alla Carta del Rischio, per le attività di previsione e di trasformazione urbanistica del territorio. Per quanto riguarda i contenuti, come già accennato, il Piano è un documento molto corposo e ricco di informazioni;
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una vera miniera di dati ed elaborazioni, spesso originali e quasi sempre su basi GIS, rappresentati distintamente per singolo bacino idrografico e/o per ambiti amministrativi. Il tutto è suddiviso nelle otto parti brevemente descritte di seguito. 1. Quadro conoscitivo di base: descrive le caratteristiche macroscopiche del territorio e delle risorse idriche con particolare riguardo agli aspetti geomorfologici, idrogeologici, idrologici, idrometrici, idrografici e forestali. Riporta anche una specifica sezione dedicata all’agricoltura ed ai fabbisogni irrigui nonché una rappresentazione delle dinamiche demografiche e turistiche fino all’anno 2030. 2. Quantità e qualità delle acque: riporta il bilancio idrico per ciascuno dei 14 bacini idrografici principali presenti nel territorio trentino, quantificando gli apporti e le perdite sia naturali che artificiali. Quantifica i carichi inquinanti civili, industriali e agricoli, descrive l’evoluzione dei sistemi di depurazione e rappresenta l’andamento dei principali indici di qualità nel decennio 19902000, affiancandoli anche ad un indicatore di qualità delle comunità ittiche sviluppato ad hoc lungo le aste dei principali corsi d’acqua. 3. Utilizzazione delle acque pubbliche: descrive l’entità delle derivazioni d’acqua sia superficiali che sotterranee presenti in Trentino, distinte per tipologia d’uso, per bacino idrografico e per mese dell’anno; determinando inoltre il diverso indice di utilizzazione dell’acqua nei principali bacini idrografici. Rappresenta infine i fabbisogni idrici per gli usi civili, agricoli, zootecnici, industriali e di innevamento, affiancandovi quelli per il deflusso minimo vitale che viene definito distintamente per 555 sottobacini con andamento modulato nel corso dell’anno. 4. Pericolosità e rischio idrogeologico: Riguarda l’individuazione e la perimetrazione delle aree a rischio idrogeologico (esondazioni, frane e valanghe) sull’intero territorio provinciale mediante sovrapposizione della carta della pericolosità (in gran parte derivata dalla Carta di Sintesi Geologica) con la carta del valore d’uso del suolo, costruita in base alle previsioni dei Piani regolatori Generali dei Comuni. 5. Sistemazione dei corsi d’acqua e dei versanti: Contiene il Catasto delle opere di sistemazione e dei dissesti e definisce i criteri per la determinazione delle
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portate di piena nonché quelli per la programmazione, pianificazione e progettazione degli interventi di difesa (supportati da un quaderno delle opere tipo) e quelli per la manutenzione degli alvei e delle opere. Tratta infine le problematiche attinenti alla laminazione delle onde di piena con particolare riguardo ai principali punti di criticità idraulica presenti sul territorio ed alla gestione degli scarichi degli invasi idroelettrici. 6. Ambiti fluviali: Riguardano le aree che, sviluppandosi lungo i principali corsi d’acqua, ne esprimono in maniera significativa la rilevanza funzionale sotto i profili idraulico, ecologico e paesaggistico. I tre tipi di ambiti fluviali sono sovrapposti in unica cartografia per rappresentarne la coesistenza; per ciascuno di essi sono inoltre definiti specifici criteri di tutela e valorizzazione. 7. Indirizzi per la pianificazione: Tratta la definizione di criteri e indirizzi per l’armonizzazione con gli altri strumenti di pianificazione rilevanti per il territorio e le acque, ovvero il Piano urbanistico provinciale, il Piano di tutela della qualità della acque, il Piano energetico, gli strumenti di pianificazione forestale e quelli del Servizio idrico integrato. 8. Norme di attuazione: Dettano la disciplina generale per l’uso e la valorizzazione del territorio e delle acque nei prossimi 15-20 anni di validità del Piano. Sono costituite da 38 articoli suddivisi in sette capi che ripercorrono le tematiche sopra descritte definendone indirizzi, prescrizioni, misure e vincoli che puntano a definire una strategia complessiva di Piano articolata sui cinque assi strategici e relative azioni descritti di seguito. Razionalizzazione degli usi idrici: - bilancio idrico come strumento di valutazione delle concessioni; - adeguamento degli standard per i principali tipi di utilizzazioni; - interdizione degli usi impropri di acque pregiate; - riduzione significativa delle perdite dalle reti di acquedotto; - sostegno alla diffusione di tecnologie a basso consumo; - graduale passaggio dai canoni alle tariffe; - promozione di reti duali. Salvaguardia delle riserve pregiate: - protezione dei ghiacciai; - limitazioni d’uso nei laghi in quota; - interdizione di pozzi profondi in quota;
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- contenimento dei prelievi dalle falde acquifere. Aumento diffuso della qualità delle acque: - incremento dei deflussi minimi vitali; - potenziamento della rete di depurazione; - rinaturalizzazione degli alvei; - valorizzazione degli ambiti fluviali; - divieto all’estrazione di inerti dagli alvei. Riduzione del rischio idrogeologico: - nuova disciplina urbanistica delle aree a rischio; - individuazione delle opere di difesa più urgenti; - uso dei serbatoi idroelettrici per la laminazione delle piene; - nuovi standard di progettazione, costruzione e manutenzione delle opere; - tutela del demanio idrico. Miglioramento degli ecosistemi fluviali: - tutela urbanistica degli ambiti fluviali; - promozione delle tecniche di ingegneria naturalistica; - nuovi criteri per il trattamento della vegetazione in alveo; - diversificazione degli alvei. Conclusioni Se la predisposizione del Piano ha richiesto il coinvolgimento di molti soggetti (in particolare un connubio di funzionari, tecnici e scienziati con notevoli conoscenze specifiche acquisite in molti anni di lavoro diretto sul territorio) e se la sua approvazione ne ha interessati un numero ancora maggiore soprattutto nella sfera politica e in quella istituzionale, la sua attuazione sarà ancora più impegnativa e per avere successo dovrà coinvolgere attivamente anche i principali settori dell’economia, delle libere professioni e della società civile, nella ricerca di nuovi strumenti, processi e soluzioni capaci di dare concretezza agli obiettivi del Piano e quindi, in ultima analisi, di conferire allo sviluppo economico-sociale della Comunità trentina un rapporto sempre più equilibrato con le risorse idriche e territoriali.
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La Vas tra bisogno di decisioni sostenibili e strumenti di oggettività di Fulvio Forrer
- Il processo di partecipazione (consultazioni e informazione); - Il nodo conoscenze oggettive/valutazione; - Il tema dei tempi e dei costi. Il testo unico nazionale sull’ambiente “Tua” La normativa nazionale disciplina la valutazione strategica recependo in sostanza la direttiva comunitaria ribadendone l’articolazione e slittandone i tempi entrata in vigore; in ogni caso la materia è, nei nostri territori, di competenza primaria provinciale ed attuabile in via ordinaria previo specifico recepimento normativo.
Grandi opere e paesaggio: ponte romano sul torrente Giara in provincia di La Spezia (Liguria)
La direttiva Comunitaria La direttiva comunitaria definisce che la valutazione ambientale strategica «contribuisce all’integrazione di considerazioni ambientali all’atto della elaborazione e dell’adozione di piani e programmi al fine di promuovere lo sviluppo sostenibile». Quindi la Vas “contribuisce” e non è necessariamente esaustiva; essa “contribuisce” all’integrazione e non crea un percorso differenziato (settoriale); infine, essa “contribuisce” all’atto della elaborazione e della adozione alle decisioni, quindi non può essere solo un atto formale, ma necessità di strutturare la conoscenza e la decisione con passaggi congruenti. La direttiva ne fissa il percorso metodologico: - Il rapporto di impatto ambientale (Relas) individua, descrive e valuta gli effetti significativi del piano sull’ambiente, e le ragionevoli alternative; - Le consultazioni che prevedono necessariamente la messa a disposizione della proposta di piano e del rapporto alle autorità e al pubblico, - La valutazione del Rapporto e dei risultati delle consultazioni vanno introitati nel processo decisionale, la messa a disposizione del pubblico delle informazioni facendo emergere la necessità di rendere effettiva e costruttiva la partecipazione, ovvero godere di condizioni adeguate per la partecipazione già in fase preparatoria delle decisioni che si caratterizzi per attivismo, corretta, conoscenza delle informazioni e coerenza dei contributi di partecipazione. Tale metodica comporta l’affrontare le seguenti problematiche: - L’approccio alla prevenzione e alla precauzione;
Un precedente importante per il Trentino è la storia della Via Il Trentino è stato un precursore della valutazione d’impatto ambientale (Via) a livello nazionale, la piena entrata in vigore della procedura è del ‘90, introduzione delle legge e sua gestione influenzano significativamente l’attuale ritardo nell’applicazione della Vas. Sono evidenti le relazioni ed i richiami tra Via e Vas, pur essendo due procedimenti tra loro molto differenti per natura, finalità e metodiche, ma con una radice comune: l’ambiente e la valutazione. In estrema sintesi merita ricordare come l’evoluzione della Via in Trentino si possa condensare nella rapida evoluzione dalla sperimentazione ad un approccio multidisciplinare di merito con effetti significativi sull’esito del rilascio della compatibilità ambientale, ad una evoluzione successiva, la fase attuale, prevalentemente settoriale e burocratica, fatto dalla sommatoria dei pareri di competenza, privi della capacità di leggere le sinergie e di condizionare i progetti. Ciò nonostante la Via ha rappresentato un assunzione di responsabilità da parte dei proponenti, con specifica ricaduta positiva sui progettisti. Ma la Via, in passato ed ancor oggi, è stata pesantemente attaccata come fattore penalizzante le nuove iniziative economiche e quindi oggi vi è molto forte la pretesa per una diluizione dei tempi della introduzione della Vas, anche se questa centra solo in modo indiretto con i processi economici. Alla ricerca di un metodo oggettivo di valutazione: Psst Voluto dall’Agenzia Provinciale per la Protezione dell’Ambiente ed elaborato dall’Università di Trento anche con il contributo di un focus group, nel 2000 è stato elaborato il Progetto per lo Sviluppo Sostenibile del Trentino (Psst),
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un contributo tecnico-scientifico alla implementazione di percorsi di sostenibilità e che aveva esplicitamente tre obiettivi: - valutare il grado di sostenibilità ambientale dello sviluppo economico locale; - identificare gli aspetti più problematici relativi alle interazioni tra sviluppo economico locale e sistema ambientale, associandoli a indicatori capaci di rifletterne l’intensità e le dimensioni; - individuare conseguentemente alcuni campi d’azione su cui intervenire prioritariamente. Lo studio ha distinto le questioni di natura generale da altre di tipo settoriale, da indagare per la loro conoscenza sintetica con specifici indicatori: 13 di natura generale e 9 di tipo settoriale. L’attenzione era stata posta tra l’altro a fornire dei criteri di valutazione da applicare distintamente e con misure migliorative (da attuare con politiche) da quelle di valutazione strategica (da esplicitare e prevedere nei piani); lo studio si era concluso con l’indicazione della autovalutazione incardinata all’interno dei processi di pianificazione. Tale scelta risultava motivata dalla volontà di superare la logica delle imposizioni dall’alto favorendo così la responsabilizzazione di tutti i livelli e di soggetti della Società. A mio giudizio il risultato principale che ha ottenuto lo studio è stato di ribadire che la conoscenza dei fenomeni ambientali deve passare attraverso, valori misurabili oggettivamente superando la apparente, o reale, discrezionalità dei procedimenti. Inoltre, grazie a questo studio, oggi disponiamo di un set selezionato di indicatori con i quali misurare in modo mirato al contesto locale le interazioni tra uomo e ambiente. L’atto di indirizzo della Giunta Provinciale sullo Sviluppo Sostenibile Approvato con delibera n 1.947 del luglio 2000, l’Atto di Indirizzo sullo Sviluppo Sostenibile impegna la Giunta a promuovere uno sviluppo locale sostenibile. La delibera ha affrontato, oltre alle questioni più rilevanti in merito alle pressioni sulle risorse ambientali, anche il tema della “valutazione-implementazione-valutazione” della sostenibilità, formalizzando gli indicatori come strumento di valutazione e la selezione degli indicatori come risultato di un percorso di condivisione tecnico-scientifica che richiama i principali capisaldi della corretta gestione ambientale. Gli strumenti di attuazione del criterio generale di sostenibilità sono in particolare i Piani che costituiscono l’ossatura del governo della cosa pub-
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blica in Trentino. La Vas è quindi vista come strumento ordinario per la sostenibilità dentro al processo di analisi ambientale finalizzato alla formazione degli obiettivi di sviluppo in cui deve concorrere anche la valutazione dell’efficacia e dell’efficienza delle politiche. Un percorso di esperienze utili alla introduzione della Vas Nel 2001 la Provincia autonoma di Trento (Pat) ha prodotto una linea guida allo scopo di condurre le Agende 21 in ambito trentino; in essa era indicato che il Documento di Sintesi sullo Stato dell’Ambiente era da elaborare attraverso l‘utilizzazione degli indicatori sintetici, così come individuati con il Psst, integrato con eventuali ulteriori approfondimenti tematici, e accompagnato da un documento basato sugli Indicatori Comuni Europei, quale integrazione attenta agli aspetti sociali-qualità della vita- e al consenso popolare. Uno dei nodi fondamentali era comunque la disponibilità dei dati. Essi dovevano essere raccolti in modo organico, vidimati e messi a disposizione degli utenti da un soggetto forte di elevata referenzialità. Questa strada avrebbe permesso quindi alta qualità dei dati di riferimento. Un soggetto unico forte nei confronti dei detentori delle informazioni base, ed in grado di razionalizzare il sistema di raccolta, trattazione e fornitura dei dati con conseguenti risparmi economici e di sistema. Il Comune di Riva del Garda nel 2002 ha aderito al procedimento sperimentale di A21L e ha utilizzato le metodologie proposte dalla linea guida Pat. Il problema emerso da questa esperienza è stata la frammentarietà dei dati, la loro difficile disponibilità e la non sempre soddisfacente significatività delle conoscenze nei confronti del contesto nel rapporto tra le conoscenze di livello provinciale da quelle su base locale. Il procedimento di Agenda 21 è stato ripetuto nel 2008 sostituendo alcuni degli indicatori originali di cui era stata messa in discussione la validità, con altri dati più facilmente disponibili nelle banche dati locali. Il documento sullo Stato dell’Ambiente e di Bilancio Ambientale Comunale (Sabac) così ottenuto, per quanto a conoscenza e valutazione, è risultato di peggiore qualità e non incidente sulla riduzione dei costi. Va tenuto presente che un Sabac è un documento preliminare necessario alla selezione dei campi di azione (A21L) e complementare anche alla valutazione ambientale strategica su base oggettiva. La mancata strutturazio-
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ne di un soggetto detentore di dati di sostenibilità sensibili e referenziati ha di fatto svuotato di significato i procedimenti di miglioramento ambientale riducendoli, prevalentemente, a semplici campagne pubblicitarie di marketing ambientale. La Vas del Documento di Programmazione Unica 2000-2006 (Docup) Il documento unico di programmazione raccoglie in modo coordinato ed organico le azioni a sostegno dello sviluppo dei sistemi locali, la valorizzazione delle risorse naturali, del patrimonio culturale e gli interventi per il miglioramento della qualità ambientale, nonché il razionale utilizzo delle risorse energetiche rinnovabili; interventi il cui finanziamento è stato richiesto dalla Provincia autonoma di Trento alla Comunità europea e poi attuate nel periodo di validità del Programma a scala locale. La Vas è stata un atto di responsabilità elaborata come strumento volontario di valutazione delle scelte in un processo parallelo e sperimentale rispetto al programma presentato alla Comunità Europea. Il documento di Relas risulta molto articolato, mai approvato formalmente dalla Giunta Provinciale e scarsamente inserito nel processo decisionale; l’analisi è stata condotta da un gruppo multidisciplinare attraverso l’uso degli indicatori e sintetizzato per mezzo della schematizzazione delle relazioni tra i punti di forza e di debolezza con i rischi e le opportunità. L’esperienza della valutazione del Docup ha aperto la strada alla valutazione dei piani di settore provinciali. La Vas del Piano Provinciale della Mobilità (2003) Il Piano, elaborato nei primi anni 2000 e mai approvato dalla Giunta Provinciale, tende a perseguire i seguenti fini: a) attuazione di una gestione coordinata dei diversi sistemi di trasporto, sia persone che merci, ristrutturazione e costruzione di opere e infrastrutture necessarie allo scopo; b) contenere i consumi energetici e riduzione delle cause di inquinamento atmosferico ed acustico. Le misure sono: - orientare lo sviluppo dei trasporti urbani ed extraurbani e delle relative infrastrutture, - indirizzare per l’integrazione ed il coordinamento intermodale dei differenti sistemi, - migliorare rete dei servizi pubblici e del trasporto pubblico extraurbano,
- individuare i comuni all’interno dei quali deve essere svolto un sistema di TP di tipo urbano. La relazione ambientale strategica (Relas) analizza le scelte del Piano contestualizzandole nel rapporto esistente con il sistema della programmazione ed evidenziandone la coerenza in valutazioni riferite agli aspetti territoriali e alle problematiche emergenti, nonché inserendole in considerazioni qualitative legate anche a misurazioni oggettive (uso degli indicatori). Essi sono assunti da due riferimenti scientifico-culturali: il Progetto per lo Psst e gli indicatori Ocse. La metodologia di valutazione è stata la Swot (vedi descrizione precedente). Il rapporto risulta in questo modo articolato, argomentato e completo, nonché ricco di spunti di riflessione e di segnalazioni per il miglioramento nel rapporto con il territorio e l’ambiente. Anche qui è mancata la parte pubblica-decisionale del processo, ovvero le consultazioni e la messa a disposizione del pubblico. La Vas del Piano Provinciale di Smaltimento Rifiuti – 2° e 3° aggiornamento (2002/2006) L’aggiornamento del Piano Rifiuti si inserisce in una fase di profondo cambiamento della normativa e della organizzazione del sistema di trattamento dei rifiuti e che ha registrato una consistente evoluzione anche sul fronte operativo. La Reazione Ambientale Strategica del 2° aggiornamento e del terzo si collocano nella fase di prima sperimentazione del procedimento di Vas, hanno applicato metodologie e sistemi di misurazione già utilizzati nelle altre valutazioni ed il processo di confronto pubblico da registrato momenti di intensa partecipazione. La Vas ne risulta quindi arricchita di verifiche, sia metodologiche che di merito, con esplicitazione dei limiti. La Vas del Piano Generale di Utilizzazione delle Acque Pubbliche (Pguap - 2004/06) Il Piano, elaborato in parallelo alla redazione della Vas e solo per gli aspetti relativi alla gestione delle risorse idriche, ha disciplinato la materia delle concessioni alla captazione delle acque e il loro utilizzo compresa la disciplina del deflusso minimo vitale, il nodo della sicurezza del territorio individuando le fasce di rispetto dei corsi d’acqua di tipo idrologico, per la funzionalità fluviale e le aree di pertinenza paesaggistica. Infine ha dato indicazioni di natura progettuale per le sistemazioni idrauliche. La specifica Relas è stata elaborata dai compe-
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tenti uffici provinciali, in collaborazione con uno studio professionale, per oggettivizzare la valutazione ha utilizzato tre set di indicatori: quelli del Psst, quelli del Rapporto sullo Stato dell’Ambiente Trentino e quelli Ocse; la valutazione è stata condotta con il metodo Swot. Con questa impostazione il processo di integrazione tra scelte pianificatorie e valutazioni strategiche è stato organico e strutturale, anche se in qualche modo parziale, così come il processo di partecipazione è avvenuto secondo una procedura formale (osservazioni-accoglimento/rigetto). E’ quindi stato percorso un processo di Vas completo in cui la natura stessa del piano ha facilitato il buon esito delle indicazioni della valutazione. La Vas del Piano Provinciale di Utilizzazione delle Sostanze Mineriarie – 4° aggiornamento (2003) Il Piano ha regolato le previsioni di sviluppo delle attività estrattive dentro ai tradizionale metodi di governo del settore. La specifica Relas è stata elaborata da consulenti interni della Pat, in collaborazione con Prof. Roberto Camagni e Tommaso Pompili, e la valutazione è stata condotta con il metodo Swot, nonché con la compilazione di una check-list. Con questa impostazione il processo di integrazione tra scelte pianificatorie e valutazioni strategiche si è inserito nel processo decisionale con risultati piuttosto modesti ed anche la fase della partecipazione pubblica appare di contenuta entità. La Vas del Piano di Sviluppo Rurale (20072013) Il Piano prevede 4 assi su cui intervenire sostenendo finanziariamente le iniziative che saranno proposte: per migliorare il settore agricoloforestale, per migliorare l’ambiente e lo spazio rurale, per migliorare la qualità della vita e la diversificazione delle attività, nonché per attuare le strategie di sviluppo locale. La Relas è stata elaborata a cura del prof. Geremia Gios, metodologicamente abbandona le esperienze precedenti e la valutazione è impostata su di un criterio di rendicontazione urbanistico-territoriale allargata ai fattori ambientali, ma con giudizi qualitativi generali. La valutazione appare scarsamente integrata nel processo decisionale ed la partecipazione risulta di modesta validità. La Vas del Programma Operativo 2007-2013 (ex Docup) Il Piano, elaborato in parallelo alla redazione del-
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la Vas, ha previsto il sostegno finanziario dei seguenti assi: Energia/ambiente e distretto tecnologico, Tecnologie dell’informazione e della comunicazione, Nuova imprenditorialità, Sviluppo sostenibile, Assistenza tecnica. La Relas è stata elaborata dai competenti uffici provinciali avvalendosi anche del supporto scientifico multidisciplinare esterno, utilizzando una metodologia adatta alle valutazioni strategiche di scala comunitaria, con riferimenti e richiami alla fonte Eurostat. La procedura ha previsto anche la fase delle consultazioni nella forma del coinvolgimento dei soggetti competenti e direttamente interessato senza avventurarsi in partecipazioni allargate. Gli indicatori si riferiscono alla strategia di Lisbona per il 2010 e hanno utilizzato varie fonti, nonché la valutazione è stata condotta sia con l’utilizzo di matrici che di check-list. Inoltre, risultano esplicitate anche le alternative. La Vas del Pup 2008 Il nuovo Piano di coordinamento territoriale del Trentino è passato da una impostazione con previsioni puntuali e prescrittive ad uno con contenuti strategici generali, di indirizzo, da sviluppare e dettagliare a scala di Comunità. Il gruppo di valutazione strategica ha lavorato parallelamente al gruppo di progettazione del Pup con una significativa integrazione metodologica e pratica, nonché coinvolgendo un ampio spettro di organi competenti, ovvero interessati, dalle scelte di natura urbanistica. La Relas del Pup risulta complessa e articolata: gli strumenti di valutazione sono stati le Matrici per la valutazione degli obiettivi, delle strategie e delle alternative. Sono state analizzate le componenti di piano e per la sintesi delle valutazioni si è utilizzata il metodo dello Swot ambientale incardinato sugli Indicatori di contesto e di prestazione, nonché sulla Cartografia. La valutazione d’incidenza redatta in parallelo appare approfondita e analogamente complessa. Le consultazioni hanno riguardato il Piano nei suoi differenti passaggi, dal documento preliminare alle tre adozioni formali che hanno comportato tre fasi di osservazioni-risposte, interessando anche la legge di approvazione. Parallelamente ciò ha corrisposto alla messa a disposizione delle informazioni necessarie alla partecipazione secondo le modalità previste dalla legge e con incontri d’area (comprensori) e tematici (le categorie), nonché con la presentazione del Piano per mezzo della distribuzione agli interessati di materiale
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Grandi opere e paesaggio: l’invaso del Lago di Santa Giustina in Valle di Non (Trentino)
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illustrativo di facile consultazione. Con il procedimento delle Osservazioni-correzioni al piano e risposta alla stesse la consultazione è stata pienamente inserita nelle decisioni formali condizionandone l’esito del Piano. Ora il monitoraggio potrà avvenire attraverso il continuo aggiornamento del Siat-Pat, nonché con il confronto dei dati che saranno sviluppati a livello di Comunità. È certamente il processo di Vas più completo e organico fatto in Trentino. La Vas sui provvedimenti antincendi boschivi È in corso una esperienza volontaria di valutazione ambientale strategica a cura del competente Servizio e incardinata sulle risorse interne con supporto di altri attori Pat e che sembra aver introitato la Vas nel processo decisionale, ovvero di redazione dello strumenti di programmazione. La Vas del PRG di Mori È in corso la redazione di una valutazione strategica a livello comunale volontaria, affidata al prof. Vittorio Ingegnoli. Pur non essendo ancora stata presentata, ne disponibile, è dato sapere che ha una impostazione tipica di “Ecologia del paesaggio” e appare poco coerente con l’impostazione dettata dal PUP alla autovalutazione. L’ordinamento urbanistico trentino e l’autovalutazione Il nuovo Ordinamento urbanistico trentino (LP n. 1/08) coniuga la Vas al valore strategico dei piani in una dizione di “autovalutazione”, in coerenza con gli antefatti già presentati, scelta che sotto il profilo metodologico risulta pienamente condivisibile soprattutto alla luce della riforma
istituzionale (sussidiarietà responsabile), e che nella pratica comporterà ai soli piani di settore provinciale e ai Piani di Comunità l’essere assoggettati alla procedura di valutazione. Appare opportuno evidenziare che la valutazione dei piani settoriali fin qui fatta si è rilevata positiva in quanto, superata la prima sperimentalità, ora sta percorrendo strade di diversificazione metodologica, e che comunque registra il positivo inserimento della Vas all’interno dei processi decisionali. Risultano però esclusi dalla valutazione strategica i Piani urbanistici comunali, in Trentino, i Piani Regolatori Generale (Prg) in quanto per impostazione normativa, ma blandamente nella nuova legge, di natura “operativa”, quindi che non dovrebbero contenere scelte di natura strategica, almeno nella forma amministrativa delle “Varianti”. Ma gli sviluppi che è possibile registrate sulla vicenda Comunità pone in taluni ambiti serie perplessità sulla effettiva costituzione ed operatività di questo nuovo ente, in particolare la storia dei piani comprensoriale suggerisce grande prudenza. In ogni caso, in assenza dei Piani di Comunità, e comunque per un lungo periodo di interregno di sicura non breve durata, resteranno operativi i soli Prg (Varianti comprese). Ne risulta che lo sviluppo del territorio locale per i prossimi 3-5 anni, ma probabilmente anche di più, rimarrà sicuramente privo della valutazione ambientale strategica. E se è vero che i Prg non sono del tutto esclusi dalle valutazione di coerenza con l’ambiente, il nodo per ora al centro dell’attenzione è (LP 1/08, art. 6): la «rendicontazione urbanistica che verifica ed esplicita, su scala locale, le coerenze con l'autovalutazione dei piani» sovraordinati, questa avviene comunque all’interno delle tradizionali procedure partecipative dei Prg e del vaglio tecnico-
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burocratico interno alla Pa (assenza consultazioni-informazione-introitazione nelle decisione del processo partecipativo). E se è vero che l’autovalutazione e la rendicontazione devono evidenziare gli effetti finanziari delle scelte di piano, nonché esplicitare la coerenza con i criteri, gli indirizzi e i parametri della pianificazione di livello superiore, in particolare riportando misurazioni degli «indicatori strategici e parametri, da implementare, monitorare e aggiornare attraverso il SIAT, per misurare e valutare il livello di conseguimento degli obiettivi» fin tanto a dire «se ne ricorrono i presupposti (…) comprendono la valutazione d'incidenza» il meccanismo della valutazione appare sbilanciato verso la considerazione delle sole variabili territoriali e pianificatorie, lasciando in secondo piano i fattori ambientali. Rimane inoltre irrisolto il nodo della oggettività delle valutazioni, quindi dell’apparato conoscitivo, ovvero dell’uso degli indicatori così come definiti dal Psst, validi nel tempo e nello spazio. Infine, nella versione trentina della valutazione strategica è carente la parte che riguarda la partecipazione e l’informazione, trasformando la Vas da fattore tecnico-democratico e variabile tecnico-burocratica riservata a soli addetti ai lavori. A ciò si aggiunge la mancata considerazione-presentazione delle alternative come metodo di confronto pubblico. Conclusioni In questi dieci anni (1999-2008) la Vas trentina ha prodotto sul fronte dei piani di settore e di coordinamento territoriale un’esperienza ampia, articolata e complessivamente positiva. Al di là degli aspetti formali di recepimento della direttiva comunitaria, con un processo prevalentemente volontario, si è permesso un maturare del procedimento e delle metodologie. Si evidenzia dunque una articolazione ed una differenziazione dei percorsi alla ricerca del metodo migliore in cui emerge il nodo della oggettività della valutazione (dati). Sul fronte invece dei piani urbanistici intesi come la “disciplina d’uso e di governo del territorio” l’approccio appare orientato a diluire i tempi d’entrata in funzione del meccanismo di Vas, forse in attesa di un assetto più forte della pianificazione, scelta che forse potrà avere delle accelerazioni, o delle diversioni, in relazione alle scelte che farà la prossima Giunta Provinciale. In ogni caso l’aspetto informativo e partecipativo appare orientato ad incardinarsi sulle prassi di approvazione dei piani in vigore
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trascurando l’opportunità delle Agende 21 come processo di partecipazione strutturato. Trovo che questa impostazione sia debole, soggetta ad eventuali rilievi comunitari, e che in ogni caso tralascia l’opportunità di cambiare il rapporto tra le scelte “politiche” ed i cittadini (il nodo del consenso). Per la norma trentina il soggetto protagonista della Vas è principalmente la Comunità di valle, ovvero un livello istituzionale e di pianificazione ancora inesistente, di cui ci si auspica una rapida introduzione, ma per il quale non si può che registrate l’assenza. L’esclusione poi dalla Vas della pianificazione comunale e la sua relega alla rendicontazione, smonta nei piani comunali (quelli che oggi contano) la possibile interferenza della valutazione ambientale strategica con il processo decisionale tradizionale, inserendolo invece a pieno nella contrattazione tra la PAT ed gli Enti locali. La metodologia fin qui utilizzata per valutare i piani di settore appare funzionare anche se la vicenda degli indicatori non è ancora risolta e mostra tutta la sua complessità e articolazione. Ora in vista della valutazione di livello comunale, “coordinato”, la questione delle conoscenze secondo criteri oggettivi, strutturati e condivisi (indicatori e loro vidimazione), con i relativi costi e disponibilità, si fa pressante. Il Siat costituisce una parte di questa risposta, ma non è in grado di affrontare il versante ambientale, per competenza e non per capacità o risorse. Appare opportuno ribadire il concetto, già altre volte espresso, che la Pat deve farsi carico di questo compito semplificando le fasi elaborative preliminari della valutazione e riducendone così i costi, ma anche elevando l’affidabilità degli strumenti. I dati e le informazioni sono strumento di democrazia, la mancata attivazione di un soggetto dedicato allo scopo, ovvero il suo spostamento in altro luogo, testimonia la difficoltà ad affrontare una questione complessa e delicata per cui la soluzione stenta a delinearsi. Appare poi difficile superare il modello decisionale politico tradizionale, ovvero quello della Decisione maturata all’interno di un luogo chiuso e competente, l’Annuncio della stessa con l’attivazione di misure per la Difesa dell’operato e la conseguente necessità di addomesticare i procedimenti al fine di non perdere tempo o consenso. Infine, l’esplicitazione delle alternative risulta sostanzialmente assente e raramente presa in seria considerazione.
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Chi ha ucciso il PAESAGGIO? di Alessandro Franceschini
È
Nota 1. Tratto da F. Farinelli, “Viaggio all’isola Maurizio”, in E. Turri (2008), Antropologia del paesaggio, Marsilio,
difficile, oggi, parlare di paesaggio, scrivere di paesaggio. Forse non è mai stato semplice. Ma oggi più che mai quando la parola “paesaggio” viene pronunciata o scritta – e se chi parla o scrive non è un ingenuo – dovrebbe far tremare il sangue nelle vene e nei polsi. Troppi i rimandi culturali e disciplinari che sono sottesi a quelle nove lettere. Troppi i significati identitari, le occasioni di progetto consapevole, le opportunità di costruire l’aperto e il cuore degli uomini, per liquidare quella parola con banalità. Tuttavia: oggi quella parola è sulla bocca di tutti. Ma proprio di tutti. E fra gli alcuni che pronunciano questa parola con rispetto, ce ne sono tanti che lo fanno senza cognizione di causa, collocandola tra un neo-logismo e una citazione anglosassone, credendo di riempire vuoti discorsi con qualcosa. Ma, in realtà, bestemmiando il paesaggio. Ma perché questo concetto è diventato così di moda, così insopportabilmente al centro di tutte le conversazioni disciplinari che hanno come oggetto di studio lo spazio aperto? Insomma: che cosa hanno in comune l’ingegnere infrastrutturale e l’architetto, il geografo e l’artista, il filosofo e l’economista, il legislatore e l’ecologista per usare – chissà con quale significato diverso, per ciascuno di loro – la parola paesaggio con tanta abbondanza? Quasi fosse che il paesaggio avesse una capacità “totalizzante”. Le sue caratteristiche, definite, tra l’altro da autorevoli studiosi, in termini di inafferrabilità (A. Clementi), imprevedibilità (A. Lanzani), vecchiezza (M. Ja-
kob), intuitività (M. Vitta), arguzia (F. Farinelli), meta-spazialità (R. Assunto), artisticità (M. Schwind), etica (Venturi Ferriolo) solo per citarne alcune, possono essere lette come una metafora del nostro tempo, delle sue contraddizioni e delle sue mode cangianti. Superata la crisi in cui era caduto all’inizio degli anni Settanta, oggi il concetto di paesaggio ha ripreso vigore e autorevolezza. Ma perché? Oggi è il geografo Franco Farinelli a spiegarci il perché della rinnovata fortuna del paesaggio. Scrive: «Il paesaggio (…) è esattamente il contrario dello spazio, è innanzitutto quello che sfugge alla micidiale riduzione sulla quale l’intera modernità si è fondata: la riduzione del mondo, che è un complesso di processi, ad una carta geografica, che è un complesso di elementi statici. Il paesaggio si compone di tutto quello che sfugge a tale fondamentale mortificazione. E poiché oggi quella misteriosa cosa che è la rete ha abolito lo spazio dal funzionamento del mondo, il paesaggio (che per sua natura è l’antispazio) diventa l’unico modello con il quale tentare l’impresa di comprendere quest’ultimo: proprio il modello d’attitudine rispetto al mondo in cui, come nella rete, tra soggetto e oggetto è impossibile distinguere, nel senso che il primo, consapevolmente, si riconosce anzitutto come parte del secondo e inseparabile da esso»1. L’analisi di Farinelli è chiara quanto impietosa. Come la rete ha la capacità di fondere in una sola parola la complessità dei suoi funzionamenti e, al contempo, di liquidare tutto il fardello dello spazio aperto, così il paesaggio ha la capacità di essere essenza di processi antropici e naturali che convivono nell’equilibrio. Ne consegue che il paesaggio è la metafora più funzionale (e funzionante) per descrivere e per progettare in maniera efficace lo spazio aperto. Esso si antepone alla “vocazione all’eternità” di architetti ed urbanisti. Sbarazza la pratica della costruzione del mondo dall’imperativo dell’immortalità per lasciar spazio alla fluidità dei processi che da sempre hanno governato l’immagine del mondo. Cosa dobbiamo fare, allora, per rispettare questa tensione del paesaggio ad essere metafora del mondo d’oggi? Anzitutto rispettando la parola stessa, evitando l’uso a sproposito e l’abuso, quasi fosse un comandamento: «non nominare il suo nome invano».
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Qualità degli spazi urbani per una comunità SICURA di Bruno Zanon
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uale strada scegliamo per tornare a casa? Perché frequentiamo una certa piazza e spesso evitiamo un parco? Ci sentiamo più a nostro agio in un centro commerciale o nei pressi della stazione ferroviaria? Le risposte, se non sono reticenti, mettono in luce aspetti cruciali del vivere la città, in termini di qualità dei luoghi e di senso di benessere ma soprattutto di sicurezza personale. Si tratta di un tema all’ordine del giorno dell’agenda politica ed è quindi difficile affrontarlo dai diversi punti di vista – anche disciplinari - senza essere spinti verso direzioni inappropriate. Certamente l’urbanistica è chiamata a dare risposte nuove, rivedendo modelli progettuali, riferimenti organizzativi e quantitativi ed assumendo un atteggiamento meno improntato all’atto creativo e più consapevole delle modalità di operare in quella macchina complessa che è la città. Il percorso deve partire da una riflessione sul rapporto tra lo spazio fisico e lo spazio sociale, tra la città costruita e la comunità che la abita, in quanto stanno avvenendo trasformazioni profonde su entrambi i versanti. Cosa succede alle città? Perché invece di essere i luoghi dell’incontro, della promozione sociale, dello sviluppo personale, presentano sempre più di frequente situazioni di degrado fisico e di disagio sociale? Perché invece di garantire la sicurezza appaiono come i luoghi della devianza e del rischio? Eppure le città da sempre intendono offrire sicurezza. Ne sono testimonianza aspetti fisici, - come le mura -, aspetti politici - come il governo e la sorveglianza -, aspetti sociali - in particolare la presenza di una comunità che partecipa, condivide gli spazi e li controlla -. Le città attualmente stanno vivendo fasi di profonda trasformazione. Sono luoghi sempre più complessi ed articolati, con parti storiche attorniate da espansioni più o meno recenti e quindi da vasti spazi di frangia, dove si collocano le nuove polarità urbane e reti infrastrutturali poderose. Dalla dimensione umana, nel senso che gli spazi e gli edifici sono multipli della misura dell’uomo, si passa ad una astratta dimensione spazio-temporale, dove le misure sono prese in termini di percorrenza con un veicolo. In questo quadro si alternano pieni e vuoti, aree verdi ed edificate, oggetti di dimensione diversa che si contrappongono e si sovrappongono. Qui il senso di appartenenza e di
responsabilità nei confronti dei luoghi, proprio dell’abitare, perde di significato. Ma anche nelle parti antiche della città, dove tendiamo a vedere la permanenza dei fatti fisici, tutto cambia. Non solo le attività tradizionali, ormai sparite, ma anche gli abitanti, che da un lato sono i nuovi ricchi che occupano gli edifici più prestigiosi e dall’altro gli ultimi arrivati, che occupano le nicchie (o le vaste aree) di degrado. Le rapide trasformazioni socio-economiche in atto, gli effetti della globalizzazione, i flussi di persone da un continente all’altro producono, inoltre, situazioni sempre nuove, che richiedono capacità di comprensione e di governo adeguate ai processi in atto. Un sociologo ben conosciuto
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Architettura contemporanea e sicurezza: una bella, ma allo stesso tempo inquietante, immagine della Staatsgallerie di James Stirling, Michael Wilford and Associates a Stoccarda
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come Bauman racconta i timori e le paure che pervadono anche le nostre città, molte delle quali di dimensione modesta e con una lunga tradizione di convivenza. Ma non si può descrivere la nuova condizione solo citando uno dei molti film “di paura” ambientati in città disfatte. La sicurezza urbana richiede sia maggiori controlli e interventi di prevenzione più efficaci, sia il ripensamento delle modalità consuete di costruire gli edifici e le città, che devono accogliere le persone e farle diventare cittadini, dare loro una casa e farle diventare abitanti, fare incontrare gli individui e creare comunità. In particolare, vanno ripensate le proposte e le esperienze urbanistiche sviluppate nel secolo scorso, cogliendo i limiti e gli errori della città costruita per brani caratterizzati dalla monofunzionalità che azzera il potenziale di incontri e fatti casuali (la serendipity) e crea spaesamento; da dimensioni degli edifici e degli spazi poco appropriate, con una frequente commistione tra pubblico e privato, che attenua il senso di appartenenza e la responsabilità nei confronti dei luoghi; dalla carenza di luoghi di aggregazione spontanea; da strade concepite come canali di traffico. Spesso le attrezzature e gli spazi pubblici (i parchi, le piazze, i parcheggi, ecc.) non sono dei veri luoghi urbani ma dei semplici vuoti separati dalla vita della città. Ed ancora, l’architettura, per assumere un senso urbano, non può essere intesa come il semplice esito di un atto creativo, così come appare inadeguata una concezione astratta della bellezza della città che prescinda dai modi di vivere, usare e trasformare lo spazio urbano. Troppe volte raccontiamo di
“architetture tradite” o di luoghi urbani male utilizzati. Poche volte leggiamo gli errori progettuali di edifici e spazi - anche “firmati” - congegnati senza riguardo al senso di appartenenza, alle possibilità di controllo visivo, di orientamento (nonostante gli architetti conoscano le lezioni di K. Lynch), ma anche di durabilità ed insieme di flessibilità. Una città composta di belle architetture dovrebbe costituire uno spazio di vita per una società buona. Purtroppo non è così e paghiamo gli esiti di iniziative velleitarie, di progetti basati su modi di vita immaginari, di vuoti che dovrebbero diventare fulcri sociali, di edifici senza connessioni fisiche con l’intorno che dovrebbero innescare relazioni comunitarie, di percorsi articolati e di piazze sopraelevate o ribassate che dovrebbero diversificare l’ambiente urbano e moltiplicare i luoghi pubblici ma che creano degli spazi dove nessuno si addentra. Sul versante della disciplina urbanistica, la qualità molto spesso è stata perseguita per mezzo di aspetti quantitativi (distanze tra edifici, dotazioni di verde e parcheggi, ecc.) oppure proponendo modelli di spazio urbano che spesso entrano in conflitto con le esigenze della sicurezza, come nella tradizione del Movimento Moderno, che descriveva la città in base a solo quattro funzioni: abitare, lavorare, circolare, ricrearsi. Era una visione “fordista” dell’architettura (“macchina per abitare”, la definiva Le Corbusier) e della città, che vedeva prevalere le grandi dimensioni degli oggetti e degli spazi urbani e la loro specializzazione funzionale. Ne erano compromesse in primo luogo le relazioni urbane e si
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Tralasciando le proposte (frequenti in alcuni paesi dove le distanze sociali sono accentuate) di spazi segregati per dividere i gruppi sociali e difendere quelli che possono permettersi soluzioni elitarie (le gated communities, ma anche gli edifici alti delle città sudamericane, che si distaccano dalle favelas), si deve puntare alla qualificazione della città nel suo insieme. In questo filone si colloca l’approccio definito Crime Prevention Through Environmental Design (Cpted), che pone l’accento sul ruolo del disegno dello spazio fisico nel sostenere la sicurezza e il controllo della città. Non pretende peraltro che un ambiente ben congegnato determini automaticamente comportamenti corretti, ma persegue condizioni che attenuino la paura del crimine e rendano più difficile porre in essere atti criminosi, migliorando la qualità della vita degli abitanti. In generale, si deve mirare ad una qualità urbana che stimoli il senso di appartenenza; che rafforzi la “territorialità”, che crei una sfera di influenza che responsabilizzando gli abitanti e scoraggiando i malintenzionati; che stimoli, mediante un buon disegno, la sorveglianza spontanea degli spazi ed in particolare degli accessi. Tali condizioni non sono certo date per sempre, dipendendo in buona parte dai processi sociali attivi, dalla manutenzione, dalla sorveglianza continua. È importante, infatti, intervenire a fermare il degrado ed a rimuoverne i segni evidenti ed allarmanti (gli early warning signals, o le broken windows), che trasmettono un senso di abbandono ed allentano le regole del comportamento socialmente responsabile.
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vanificavano la complessità funzionale e il carattere in gran parte casuale della vita della città. Alcuni esempi italiani ci ricordano le conseguenze di tali concezioni astrattamente risolutive, quali le “Vele” di Scampia a Napoli, o alcuni edifici “a ponte” sull’asse viario principale del quartiere Laurentino a Roma, la demolizione dei quali ha rappresentato l’esito inevitabile di situazioni di degrado intollerabile. Sono molti, del resto, gli esempi di edifici e di quartieri, specie di edilizia residenziale pubblica, che si sono dimostrati ingestibili a causa di una errata concezione quanto a dimensione od organizzazione o per il “marchio” che si portano appresso, insopportabile per gli abitanti. Quali sono i possibili interventi per la sicurezza urbana? Più controllo di polizia, maggiore segregazione, più telecamere oppure il rafforzamento del senso di appartenenza degli abitanti e della loro responsabilità? Non si possono dare risposte ideologiche ma è necessario combinare una maggiore attenzione ai comportamenti devianti e criminosi a risposte strutturate dal punto di vista tecnico, ben sapendo che gli spazi urbani devono garantire il benessere dei cittadini. Non servono più telecamere se non ci sono gli “occhi degli abitanti sulla strada” come proponeva Jane Jacobs. Nella progettazione urbana, come ricorda una autrice americana, non ci si deve rassegnare a distorcere il principio funzionalista: “la forma segue la funzione” in quello, sempre più diffuso: “la forma segue la paura”, che spinge verso spazi segregati o blindati.
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Parcheggi di “genere”
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Passaggio urbano
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Come si vede, c’è un’ampia affinità di modalità di intervento tra la prevenzione dei comportamenti criminosi mediante una appropriata progettazione e la ricerca della qualità urbana. Questa deve essere intesa come l’esito della interazione tra le caratteristiche fisiche, morfologiche, percettive dello spazio urbano e le modalità con le quali esso è concretamente vissuto dagli abitanti. Tutto questo assegna grandi responsabilità alla progettazione urbana e al governo dei processi di trasformazione della città. In particolare, appare opportuno porre attenzione ai temi della sicurezza nelle fasi di decisione e di autorizzazione dei progetti di rilievo urbano e dei progetti edilizi di una certa dimensione, così come si fa correntemente per le barriere architettoniche o per le misure antincendio. Naturalmente queste valutazioni non possono essere improvvisate e richiedono una specifica professionalità.
Riferimenti bibliografici Bauman Z., 2005, Fiducia e paura nella città, Milano, Bruno Mondadori. Bauman Z., 2008, Paura liquida, Torino, Editori Laterza. Crowe, T.D., 2000, Crime prevention through environmental design: applications of architectural design and space management concepts, Boston, Mass., Butterworth-Heinemann. Ellin N., 2001, “Thresholds of Fear: Embracing the Urban Shadow”, Urban Studies, vol. 38, N. 5-6. Jacobs J., 2000, Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane, Torino, Edizioni di Comunità (1a ed. 1961). Lynch K., 1964, L’immagine della città, Padova, Marsilio. Newman O., 1996, Creating Defensible Space, U.S. Department of Housing and Urban Development, Office of Policy Development and Research, Washington.
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Pensare la città a misura di BAMBINA/O di Silvia Alba, Fabrizio Andreis e Silvia Ferrin*
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ikolaj è un bambino moldavo di 6 anni, vive in una piccola città italiana e si prepara a frequentare il primo anno della locale scuola elementare. Qualche giorno prima dell’inizio delle lezioni la madre incontra la futura maestra di Nikolaj per avvertirla che il bambino tornerà sempre a casa da solo perché sia lei che il papà sono impegnati con il lavoro ma anche perché si fidano di loro figlio. Finite le lezioni del primo giorno di scuola Nicolaj saluta i compagni e si incammina da solo verso casa, non abita lontano e la giornata è bella. Nemmeno il tempo di uscire dal cortile scolastico che una mamma lo nota e lo riporta indietro dalla maestra: «l’ho incontrato che voleva incamminarsi da solo verso casa e ho pensato di riportarlo indietro» dice alla maestra che a sua volta tenta di spiegarle invano la situazione. La mamma non capisce o meglio non riesce a concepire come un bambino così piccolo, di soli 6 anni, possa raggiungere da solo il fondo del viale. È vero che c’è un bel marciapiede e che l’incrocio in fondo è sicuro, però, lei ne è convinta, il bambino è troppo piccolo. Nicolaj incomincia a spazientirsi, vuole andare a casa dalla sua mamma, poi aveva in mente di fermarsi un attimo davanti alla vetrina del negozio di animali, che è sulla strada. Nicolaj riparte. Subito fuori dalla scuola incontra la maestra Giuliana, che insegna nella sua stessa scuola, nelle classi più anziane, che gli chiede un sacco di cose, intimorendolo: Cosa fa in giro da solo a quest’ora?, Dov’è la sua mamma o il suo papà?, Chi è la sua maestra?, Che classe frequenta? Dove abita?…. Ovviamente lo riporta indietro dalla sua maestra che per fortuna era ancora a scuola perché doveva sbrigare alcune pratiche. Risolto anche questo contrattempo Nicolaj finalmente riparte verso casa. In fondo al viale, però, viene fermato da un Vigile urbano, addetto al controllo dell’incrocio, che dopo averlo interrogato lo riporta a scuola. Nicolaj esausto incomincia a piangere: vuole andare a casa dalla sua mamma!
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uesta breve storia di ordinaria nonautonomia racconta una situazione diffusa in Italia, dalla grande città fino al piccolo paesino. Mette in luce, secondo noi, alcuni elementi utili ad inquadrare il rapporto fra i bambini e lo spazio pubblico urbano contemporaneo: il percorso casa-scuola, il rapporto fra il bambino e la strada, i tempi della città, il rapporto fra la scuola e la comunità, la/e percezione/e del pericolo da parte dell’adulto in generale e del genitore in particolare, quella/e dei bambini… Siamo un gruppo di architetti che lavora applicando metodologie partecipative. Da qualche anno collaboriamo con le Amministrazioni pubbliche della provincia di Trento su alcuni progetti che considerano un parametro per valutare il grado di vivibilità di un ambiente urbano partendo dall’assunto che quando un luogo, piccolo o grande che sia, è a misura di bambino sicuramente lo è per tutti. Un esempio emblematico è il percorso casascuola che quotidianamente i bambini compiono. Esiste un’ampia letteratura che dalla psicologia all’antropologia, dalla pedagogia all’architettura, dall’urbanistica alla sociologia, si occupa del rapporto tra spazio costruito e abitanti, tra percezione e vissuto quotidiano, e il nostro obbiettivo non è affrontare queste tematiche da un punto di vista teorico, quanto piuttosto di fare alcune riflessioni sul nostro lavoro con i bambini di questo territorio nell’ambito dell’iniziativa “A Piedi Sicuri” da casa a scuola.
*Gruppo Palomar progettazione partecipata, Silvia Alba Fabrizio Andreis - Silvia Ferrin architetti www.gruppopalomar.it
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In alto a sinistra (Fig.1): bambino di sette anni che si muove a piedi per recarsi a scuola; a destra (Fig.2): bambino di sette anni che si muove in bicicletta per recarsi a scuola
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L’attività proposta dal progetto “A piedi sicuri” è un processo inclusivo che, applicando modalità codificate nei progetti di Agenda 21 locale, vuole favorire già nel breve termine l’autonomia del bambino nel percorso casa – scuola. Si rivolge principalmente ai bambini delle scuole primarie, e quindi coinvolge anche le famiglie, gli insegnanti, l’associazionismo, le attività economiche, le amministrazioni comunali e quella provinciale. Ma per far cosa? Innanzitutto per permettere ai bambini di raggiungere la scuola da soli, senza l’accompagnamento di un adulto e soprattutto senza utilizzare l’automobile, e, nel lungo periodo, per stimolare le Amministrazioni pubbliche locali a dar forma alle trasformazioni dello spazio urbano tenendo conto delle esigenze di autonomia e sicurezza dei bambini per migliorare la vivibilità di tutti. Siamo profondamente convinti che una città nella quale si vedono i bambini per strada è una città sicura, viva, democratica e più serena anche per gli altri abitanti. Le azioni messe atto, semplici se prese singolarmente, creano dinamiche complesse se considerate nelle relazioni reciproche e in una prospettiva temporale di medio e lungo periodo. In una prima fase, occorre monitorare la situazione di partenza capendo la percezione dei genitori, quella dei bambini e dei diversi attori che a vario titolo si occupano di bambini e della gestione della città (dirigenti scolastici, insegnanti, associazionismo locale, politici, servizi tecnici, addetti alla sicurezza stradale…) rispetto alla sicurezza e qualità dei percorsi che conducono a scuola. Nella fase successiva queste informazioni diventano lo sfondo sul quale si predispone uno schema operativo per permettere ai bambini di muoversi in modo sostenibile e possibilmente autonomo: individuazione dei percorsi “sicuri”, degli spazi di sosta per i genitori “automobilisti”, microinterventi infrastrutturali ecc. Poi, si sperimenta per un certo periodo questo insieme di azioni e si confrontano i risultati con la situazione
iniziale. Accanto a queste azioni sono state organizzate alcune iniziative di sensibilizzazione a sostegno: dalle feste di quartiere ai cortei di bambini, dai “piedibus” alle feste ecologiche, dalle esposizioni pubbliche all’organizzazione di consigli comunali allargati anche ai bambini. Sono ormai una trentina le scuole che in Trentino hanno partecipato al progetto, in molte è diventato una prassi quotidiana che si applica dal primo all’ultimo giorno di scuola con risultati che sono generalmente positivi a dimostrazione come sia possibile invertire tendenze e abitudini che paiono a prima vista consolidate, in primo luogo quella dell’utilizzo del mezzo privato per accompagnare il proprio figlio a scuola. Di seguito vengono riportati alcuni risultati dei questionari rivolti alle famiglie e alcune riflessioni sui disegni dei bambini. A conclusione una breve lettura del rapporto dei bambini con lo spazio pubblico della strada intesa come luogo dei diritti negati. Il percorso da casa a scuola in Trentino: i risultati di 2000 questionari rivolti alle famiglie Il primo dato utile a portarci nel cuore del problema è quello relativo alla distanza casa-scuola; oltre il 90% delle famiglie abita a meno di 20 minuti a piedi dalla scuola, diciamo a meno di 1 chilometro, una distanza relativamente vicina. Ma come vanno a scuola i bambini? La metà arriva trasportato con autobus, scuolabus o automobile privata. Questi ultimi sono circa un terzo. Vuol dire che in una scuola che ospita 250 bambini ci possono essere un’ ottantina di macchine che si muovono davanti all’edificio in un lasso di tempo molto limitato, circa 10 minuti, con tutto ciò che questo comporta. Si tenga poi presente che alle macchine dei genitori vanno aggiunte, in molti casi, anche quelle degli insegnanti e del personale amministrativo della scuola che per qualche strano motivo parcheggia all’interno del cortile scolastico erodendo spazio utile ai bambini. L’altra metà
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dei bambini si muove a piedi, da soli o accompagnati; gli autonomi sono circa il 30% (da soli o con amici e/o fratelli). La bicicletta non viene praticamente utilizzata, solo il 3%. Ma uscendo dal percorso da casa a scuola e andando a vedere se esistono altri luoghi che i bambini possono o potrebbero frequentare autonomamente emerge che solamente il 40% si muove da solo per frequentare gli amici, i parenti, per fare qualche compera, per andare al parco pubblico o frequentare qualche attività. Si ricorda che stiamo parlando di situazione urbane in molti casi molto piccole non di metropoli. Ma quali sono i motivi che secondo le famiglie scoraggiano l’autonomia dei più piccoli, che generano questa situazione? Il 34% ritiene che siano i pericoli del traffico, la stessa percentuale che accompagna i propri figli in automobile: forse una coincidenza o forse sono genitori che si lamentano del traffico generato da loro stessi, un cane che si morde la coda. Gli altri motivi riguardano la lontananza da scuola (20% che corrisponde alla percentuale di famiglie che abita sopra il chilometro e che utilizza il mezzo pubblico), il peso dello zaino/cartella, il 15%, e un altro 15% fa parte di una risposta che volutamente abbiamo lasciato aperta e definita “altro” che è stata utilizzata per segnalare il pericolo dei pedofili, dei malintenzionati in genere, degli stranieri, ecc. Interessante sottolineare come le condizioni meteorologiche avverse, in una regione con un inverno molto rigido, non condizionino più di tanto le scelte delle famiglie. Da ultimo abbiamo chiesto come veniva percepita l’autonomia del proprio figlio in relazione alla propria, alla stessa età. Solo il 20% la ritiene migliore, uguale il 36%, quasi la metà la considera peggiore della propria.
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Il paesaggio disegnato: la percezione del bambino del suo contesto di vita. Analisi di 600 disegni dei bambini dai 6 ai 10 anni Una premessa sul perché abbiamo scelto di lavorare con i bambini. L’infanzia è portatrice di un’alterità rispetto alla condizione adulta: non è migliore (come certo partenalismo sostiene), non è peggiore, è diversa e dal nostro punto di vista per questo merita di essere valorizzata perché arricchisce i punti di vista, crea complessità, mette in crisi verità acquisite e abitudini consolidate, mette in luce interessi economici e scelte politiche non sempre lungimiranti. Insomma i bambini sono sovversivi se messi in condizione di esserlo. Se invece di stare a casa davanti al computer possono stare in piazza a guardare la parata sono in grado di dirci che il re è nudo. Dalla casa alla città: La casa. Il bambino piccolo si sofferma sulla descrizione estremamente accurata della propria casa, della scuola, dell’accompagnatore o del mezzo che usa per recarsi a scuola, non curandosi di rappresentare la continuità del percorso casa – scuola. Nella maggior parte dei disegni i protagonisti principali sono le persone, l’accompagnatore, il compagno di scuola, il nonno vigile, il negoziante. Questo può farci pensare che per i più piccoli percorso casa–scuola sia un’opportunità per incontrare altre persone dai famigliari. Poi, con l’aumento dell’età, la componente umana diminuisce sino a scomparire del tutto nell’ultimo anno delle elementari (Figg. 1 e 2). La città. Il bambino a partire dagli otto anni dà una rappresentazione selettiva e completa del percorso. Compare lo spazio costruito La maggiore autonomia di movimento e quindi di esperienze conoscitive va di pari passo con l’allargamento dello spazio rappresentato.
In alto a sinistra (Fig.3): bambino di otto anni che si muove in auto per recarsi a scuola; a destra (Fig.4): bambino di otto anni che si muove in auto per recarsi a scuola
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In alto a sinistra (Fig.5): bambino di dieci anni che si muove a piedi per recarsi a scuola; a destra (Fig.6) bambino di nove anni che si muove a piedi per recarsi a scuola
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Città continua e città frammentata: - la città continua è quella disegnata dal bambino pedone che come si può notare nel disegno sopra riportato, è priva continua; ogni elemento che sia un edificio, una piazza o un parco, è legato dal percorso che collega la casa con la scuola. È una città conosciuta dall’esperienza, ricca di dettagli e informazioni. - la città frammentata è invece quella disegnata dal bambino “motorizzato”; il percorso casa/ scuola è una striscia vuota che incontra pochi luoghi degni di interesse (Figg. 3 e 4). I luoghi disegnati Sono i luoghi urbani che il bambino quotidianamente frequenta e che considera significativi. il bambino disegna la casa e altri luoghi cosiddetti specializzati, luoghi cioè definiti nella loro funzione (specializzata) e che non permettono una fruizione libera, ma sempre ricondotta alla funzione a cui sono dedicati: i parchi attrezzati per bambini, le ludoteche e i cinema sono i luoghi del divertimento, l’ospedale, il luogo della malattia, l’ospizio, il luogo della vecchiaia, il centro commerciale, il luogo delle compere, gli asili e le scuole, i luoghi dell’apprendimento (Fig. 5). Grande attenzione viene data nel disegno degli ostacoli o punti di discontinuità lungo il percorso come gli attraversamenti pedonali, gli incroci e i semafori, che vengono rappresentati con dovizia di particolari dal bambino pedone non senza una certa apprensione (Figg. 6-10). I disegni dei bambini ci restituiscono la città com’è veramente e come l’abbiamo creata noi adulti ad uso e consumo dell’automobile, della fluidità degli spostamenti e del consumo. Dai loro disegni non emerge l’esperienza dello spazio pubblico se non come spazio di attraversamento per raggiungere altri luoghi ognuno con la propria funzione. Noi riteniamo che quanto emerge può far riflettere i responsabili politici e tecnici della trasformazioni urbane sull’interesse che attività di con-
sultazione allargata e coinvolgimento dei bambini possono avere prima per la comprensione della realtà attuale, poi nella scelta di indirizzo e da ultimo nella verifica delle conseguenze delle scelte di trasformazione urbana. La strada contemporanea, luogo di diritti negati Il diritto di accedere in modo aperto e sicuro agli spazi pubblici - il diritto alla strada e alla città - è esplicitamente garantito dalle carte dei diritti dei bambini diffuse negli ultimi anni da molti organismi internazionali. (Unicef e Unchs/ Habitat). Il diritto di accesso e di libera circolazione nei luoghi pubblici è posto come uno dei diritti fondamentali dei bambini, il cui compimento deve essere raggiunto attraverso procedure di coinvolgimento diretto dei bambini nella progettazione della città e dell'ambiente. Mark Francis le ha chiamate Democratic streets: strade dove ci sono molte attività, dove ci sono persone, dove si può stare fermi a guardare, giocare e incontrare amici vecchi e nuovi. Strade dove c’è complessità e rischio ma anche protezione sociale. Oggi con un aggettivo di significato più ampio le chiamiamo le strade sostenibili, in cui i bambini hanno la possibilità di giocare, di sentirsi protetti, di sperimentare i propri limiti e le proprie capacità, di incontrare gli altri, di sentirsi parte di un luogo. Il gioco Da sociale e motorio il gioco sta diventando solitario, statico e incentrato sullo sviluppo di funzioni cognitive. Ma nell’infanzia la motricità ha un peso determinante nello sviluppo dell’intelligenza. Inoltre il gioco motorio senza la supervisione degli adulti permette l’ interazione sociale tra pari con la quale i bambini imparano la reciprocità, la cooperazione, l’assunzione di responsabilità rispetto alle regole, la gestione dei conflitti.
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Il gioco motorio per strada permette di abitarla e quindi di conoscerla e rispettarla. Da un’indagine collegata al progetto A piedi Sicuri svolta ad Albiano è emerso che i posti per giocare fuori casa dei bambini di oggi sono il parco giochi, il campo da calcio, la palestra, l’oratorio. Quelli dei genitori quando erano bambini, invece, erano il campo da calcio dove oggi c’è la palestra, un circuito bici in un campo, il castello diroccato, i frutteti, gli androni delle case, le strade in genere, il torrente e l’oratorio; è interessante sottolineare come per gli adulti, a differenza dei bambini, non sia stato necessario specificare che si parlava di luoghi fuori casa. La sicurezza Il percorso casa-scuola o il muoversi autonomamente per le strade è stata per la maggior parte degli adulti un’esperienza normale, giudicata a posteriori come determinante nella vita. Oggi per la maggior parte dei figli di queste persone si tratta di un’esperienza negata. Il problema principale si chiama traffico veicola-
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re. Le soluzioni che servono per restituire la strada agli abitanti, in primis ai bambini, non sono solo tecniche, ma anche e soprattutto culturali. Le strade sicure per i bambini si costruiscono a partire da una chiara volontà politica ad andare verso interventi di moderazione del traffico diffusi e pervasivi, di riduzione dell’occupazione di suolo pubblico da parte delle auto, di sensibilizzazione permanente verso la cittadinanza e di ascolto delle esigenze dei bambini e delle altre categorie “deboli”. Un altro aspetto di carattere pedagogico riguardo alla sicurezza è la convinzione diffusa che questa debba essere garantita dall’esterno e non costruita dal bambino durante un lento percorso di crescita, in cui il ruolo del genitore non è quello di non perdere di vista il figlio, ma quello del promuovere la sua emancipazione dalla protezione e dalla dipendenza dagli adulti. Il rischio: al lupo, al lupo! “La strada (la città, ndr) dovrebbe essere peri-
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In alto a sinistra (Fig.7): bambino di nove anni che si muove a piedi e in auto per recarsi a scuola; a destra (Fig.8): cortile di una scuola media. In basso a sinistra (Fig.9) bambino di dieci anni che si muove a piedi per recarsi a scuola; a destra (Fig.10): una strada che fiancheggia la scuola elementare
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colosa o sicura come un bosco” (F. La Cecla) Il bosco può essere avvicinato a quello delle favole in cui V. Propp ha riconosciuto le radici dei miti di antiche prove da superare, di pericoli da riconoscere ed evitare, di persone amiche di cui imparare a fidarsi di persone ostili da imparare a riconoscere ed evitare. Sempre dall’indagine di Albiano emerge che per i nonni (60-75) e i genitori i posti pericolosi erano quelli che scaturivano dall’esperienza quotidiana (il torrente i muretti, gli alberi, il bosco), e dipendeva dal modo comportamento tenuto la loro pericolosità. I luoghi non erano pericolosi in sé. La strada sembra invece ai bambini di oggi pericolosa comunque a causa del traffico insieme ad altri luoghi non conosciuti che diventano pericolosi. Insieme al traffico la paura dei pericoli sociali legati a persone malintenzionate nei confronti dei bambini è un atteggiamento condizionato dai mass media che non ha riscontro nella realtà. È socialmente pericoloso insegnare ai bambini a non fidarsi degli adulti esterni alla famiglia, da un lato si mina la loro autonomia, aumentando la dipendenza dalla famiglia, dall’altro s’impedisce ai bambini di sperimentare nuove relazioni rendendo difficile nel bambino lo sviluppo della sana e ponderata diffidenza verso l’estraneo che si acquisisce solo con l’esperienza e non con la chiusura aprioristica. L’autonomia: poter parlare fra di noi. Dal consiglio dei bambini di Fano è emerso che ai bambini piace andare a scuola da soli perché “possiamo parlare tra noi”. Nei luoghi specializzati pensati per i bambini sempre sotto il controllo degli adulti non è possibile la comunicazione, non sono possibili esperienze aperte che il bambino possa controllare, modificare, secondo decisioni sue, senza ripetizioni forzate. Dai dati in nostro possesso emerge che nel percorso casa-scuola in Trentino è autonomo all’andata il 31,9% e al ritorno il 39,7%. Il 63% dei bambini si sposta sempre accompagnato. Dato in linea con altre esperienze italiane: una su tutte quella di Legambiente in un quartiere di Milano in cui ad andare a scuola autonomamente era il 32%. Il tempo: quanto tempo ci metti? Il tempo dei bambini non è quello degli adulti. “Quanto ci metti da casa a scuola?” chiede l’adulto al bambino. “10 minuti” risponde. “ E se corri quanto ci metti?” “Sempre 10 minuti” Per l’adulto la distanza e il tempo sono dimensioni euclidee e ciò che conta sono la partenza e l’arrivo. Per i bambini quello che conta è ciò che sta in mezzo. Il percorso che dura 10 minuti in qualsiasi modo venga percorso perché per
il bambino sono 10 muniti di libertà a cui lui non vuole rinunciare. I bambini hanno una percezione diversa del tempo e dello spazio. Non inferiore o sbagliata.Il ritmo frenetico delle strade dominate dall’automobile è emblematico di una situazione esistenziale in cui bambini non hanno più l’opportunità di fare esperienze di vita orientate verso orizzonti di esigenze e di comportamento propri e non imposti dagli adulti. Questo li porta ad essere spesso bambini stressati, con difficoltà di apprendimento e con comportamenti aggressivi. Come accade agli animali in cattività. La partecipazione Le ricerche di psicologia dell'infanzia, e molte sperimentazioni pratiche, hanno individuato una specifica competenza spazio-temporale dei bambini: una competenza abile, consapevole ed esperta. Nella conversazione sociale che deve accompagnare la formazione delle politiche urbane, ascoltare i bambini non è allora un esercizio retorico o paternalistico, ma una precisa esigenza tecnica che arricchisce e completa un quadro altrimenti non in grado di rispondere alla complessità contemporanea. Rispetto al tema della strada e dei luoghi collettivi, è importante che le competenze dei bambini siano considerate risorse in vista della loro riorganizzazione fisica come spazi pubblici di relazione. Per concludere Chiudiamo con un piccolo test. «I bambini nel piccolo parco giochi sono affaccendati a giocare e divertirsi. “Mi sento sicuro a giocare in questo giardino, molto più di quando sto per strada”. Questa è forse l'unica opportunità che questi bambini hanno di fare qualcosa di divertente fuori dalle loro case. A causa delle precarie condizioni di sicurezza, infatti, i genitori sono assai riluttanti a lasciarli uscire di casa per andare a giocare». Chi sono questi bambini e dove abitano? Provate mentalmente ad immaginare al parco pubblico di quale città si riferisca questa breve descrizione. Ora leggete il resto e fate le vostre considerazioni. La scena avviene in un villaggio palestinese di Wadi Al Salqa, nella Striscia di Gaza. Ma quella che altrove è una semplice scena di vita quotidiana non è qualcosa di ordinario qui, dove i bambini hanno davvero pochi posti per giocare. «I bambini di Gaza vivono in un'atmosfera di paura e insicurezza inimmaginabili» spiega Dan Rohrmann, Rappresentante UNICEF nel Territorio Palestinese Occupato (TPO).
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La città sicura: bambini e genitori A CONFRONTO di Rose Marie Callà Premessa Nell’ambito dello studio “La vivibilità urbana. Un inquadramento teorico e metodologico”1 commissionato nel 2007 dall’Assessorato alla Vivibilità urbana, Mobilità e Ambiente del Comune di Trento, sono state analizzate e descritte quattro diverse azioni per incrementare la vivibilità in ambito comunale. Una di queste azioni si è focalizzata sull’analisi dei questionari somministrati agli allievi - e ai loro genitori – di alcune classi della Scuola Elementare “Tomasi” di Villazzano. L’obiettivo della suddetta analisi, di cui si riportano alcune parti nel presente intervento, era quello di individuare, attraverso la testimonianza dei bambini e degli adulti, possibili trasformazioni urbane volte all’incremento della sicurezza nel tragitto casa-scuola. Il fine ultimo era, ed è, quello di (ri)costruire una città più vivibile per i bambini e, dunque, più vivibile per tutti, come è stato ampiamente spiegato da Alba et al. nell’intervento su questo stesso numero di Sentieri Urbani2. La somministrazione dei questionari nella Scuola Elementare “Tomasi” di Villazzano si inserisce in un progetto molto più ampio - “Bambini a piedi sicuri per una mobilità sostenibile 2007/2008” - promosso dall’assessorato alle Politiche Giovanili del Comune di Trento e rivolto alle scuole elementari presenti sul territorio comunale teso ad incrementare l’autonomia delle bambine e dei bambini nel tragitto da casa a scuola3. L’iniziativa ha origine nell’anno scolastico 2003/2004 proprio con l’obiettivo di incentivare i minori a compiere il tragitto casa-scuola da soli, limitando l’utilizzo degli autoveicoli privati e privilegiando, invece, i mezzi di trasporto sostenibili come “i piedi”, la bicicletta, l’autobus4. Dall’anno scolastico 2003-2004 all’anno scolastico 2007-2008, il progetto “Bambini a piedi sicuri per una mobilità sostenibile” ha visto il coinvolgimento di oltre 3.000 studenti e oltre 3.000 genitori. L’analisi dei questionari I questionari qui analizzati si riferiscono a 6 classi della Scuola Elementare “Tomasi” di Villazzano, ed in particolare: due prime classi (sezione A e B), una classe seconda (sezione A), due terze (sezioni A e B) e una quarta (sezione A). Lo strumento di rilevazione ha previsto le stesse domande rivolte dapprima ai genitori e in successione ai loro giovanissimi figli. Si presupponeva, dunque, l’auto compilazione del modulo-
questionario da parte del genitore per la domanda rivolta a lui e la successiva “interrogazione” dell’adulto rivolta al proprio figlio per la medesima domanda. Il collettivo di riferimento è pari a 190 soggetti (genitori: n. 95; figli: n. 95). Il questionario semi-strutturato somministrato, composto da 13 domande - in parte a risposta aperta e in parte a risposta chiusa a scelta multipla - si poneva i seguenti diversi obiettivi: - sondare con quali mezzi i bambini si recassero a scuola; - identificare i luoghi del quartiere che i genitori percepissero come sicuri, come piacevoli e come pericolosi; - identificare i luoghi del quartiere che i bambini percepissero come piacevoli e come pericolosi; - identificare i luoghi ritenuti pericolosi nel tragitto casa-scuola; - identificare gli interventi ritenuti utili per sopperire alla pericolosità dei luoghi rilevati. Vediamo, di seguito, le risposte fornite dai due gruppi di soggetti alle diverse domande. Le modalità di spostamento dei bambini La prima parte dello strumento di rilevazione indagava con quale mezzo e con chi il bambino percorre il tragitto casa-scuola. In generale, confrontando le rilevazioni dell’ISTAT del 2001 e del 2006 nell’ambito dell’indagine sugli “Aspetti della vita quotidiana”, si rileva come la popolazione studentesca italiana abbia aumentato, nel corso degli ultimi anni, l’utilizzo dell’auto per recarsi a scuola - dal 32,3% del 2001 al 35,9% del 2006 - e diminuito l’utilizzo, o rimasto praticamente invariato, di tutti gli altri mezzi sostenibili: a piedi dal 28,2% al 26,1%, la
1 Lo studio è stato realizzato dall’arch. Alessandro Franceschini (2007). 2 L’intervento si intitola “Pensare la città a misura di BAMBINO”, p. 21-26. 3 Per maggiori approfondimenti relativi al progetto si consulti il sito: www.trentogiovani.it. Il progetto realizzato a Trento si pone nell’ambito di una vasta serie di iniziative simili realizzate in numerose città italiane (Genova, Milano, Varese, Bergamo, Bologna, Firenze, Bari, La Spezia, ecc.) e di tutto il mondo (Berna, Londra, Losanna, Montréal, New York, ecc.) che ebbero inizio negli anni ’90 e che proseguono tutt’ora. Si veda, a tal proposito, i seguenti siti che aggiornano, in tempo reale, cosa si sta realizzando in tutte le città del mondo per promuovere gli spostamenti sostenibili dei bambini (e non): www.ecodallecitta.it; www.iwalktoschool.org. 4 Nell’anno scolastico 2003/2004 le iniziative del progetto usufruirono della supervisione scientifica del Gruppo Palomar di Trento (www.gruppopalomar.it).
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Graf.2: Con quale m ezzo si reca a scuola il bam bino?
Graf.1: Mezzi utilizzati dai bambini nel tragitto casa-scuola. Istat 2006 70
60 50 40 30
60
48,4 35,9
50
35,9 24,6
26,1 30,3
40 30
20 10
2,6 2,1
0
24,2
20
14,7
10
A piedi
Mezzi pubblici Italia
Auto
Bici
1,1 0 Auto
Trento
Graf. 3: Ci sono punti pericolosi nel tragitto da casa a scuola? 80
60
Piedi
B ici
Mezzi pubblici
Graf. 4: I problemi che incontrano i bambini che vanno a scuola in autonomia 2,1
72,8 19,1
70 60 50
25,5
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40
27,2
30
40,4
20 10 0 Sì
No
bici dal 2,5 al 2,2, il treno dal 6,5% al 5,1%, l’autobus scolastico da 6,2% al 5,7%, la corriera dal 12,3% al 12,4% e, infine, il bus dal 12,3% al 12,7%. La popolazione studentesca della Provincia Autonoma di Trento, nel 2006, rispetto al contesto nazionale, vantava, tuttavia, una mobilità - da casa a scuola - più sostenibile rispetto ai coetanei del resto Italia (Graf.1). Dall’analisi delle riposte fornite ai questionari si rileva come la maggior parte degli scolari intervistati della Scuola Elementare di Villazzano (il 60%) si reca a scuola in “auto”. Solo un quarto dei soggetti rispondenti adulti dichiara di consentire ai figli di compiere il percorso “a piedi”, mentre poco meno del 15% dei bambini si avvale dei mezzi pubblici per recarsi a scuola (Graf.2). Questi risultati sembrano avere un certa caratterizzazione negativa rispetto ad altri dati rilevati negli ultimi anni a livello nazionale. Nel 1996, l’Istat, rilevava infatti come il 40,2% dei bambini italiani dai 6 ai 10 anni si recasse a scuola in auto. Nel 2006, tuttavia, sempre nell’ambito dell’indagine Istat sugli aspetti della vita quotidiana, la percentuale saliva al 50,5%. Per quanto riguarda, invece, i bambini dai 6 ai 10 anni che in Italia dichiaravano di recarsi a scuola a piedi si attestavano al 42% nel 1996 e al 34,4% nella rilevazione del 2006. Per quanto attiene a chi accompagna i bambini lungo il percorso casa-scuola, la maggior parte dei bambini della Scuola Elementari “Tomasi” afferma di essere accompagnata da un adulto (circa l’81%) che prevalentemente risulta essere la madre (56% circa) ed in seconda battuta il padre (26% circa). Queste informazioni sono in linea con quanto rilevato a livello nazionale. Come, infatti, viene riportato nel rapporto Istat del 2008 “Conciliare lavoro e famiglia. Una sfida quotidiana”, le madri sono il soggetto che nell’ambito del nucleo familiare spende un tempo maggiore – indipendentemente dalla sua
la distanza tra scuola e casa sono troppo piccoli altro
i pericoli del traffico essere fermati da sconosciuti
condizione occupazionale – nell’accompagnare i figli nelle diverse attività scolastiche ed extrascolastiche. Se per gli uomini, infatti, vivere in una coppia con figli, rispetto ad una coppia senza figli, non comporta né un aumento delle ore di lavoro familiare né una diminuzione delle ore dedicate al tempo libero, la condizione delle donne, in presenza di figli, cambia significativamente e in peggio: aumentano le ore dedicate al lavoro domestico e per la cura dei figli, diminuiscono le attività fisiologiche e di svago e, non ultimo, si assiste ad una riduzione delle ore di lavoro retribuito con conseguente arretramento o congelamento della carriera professionale (FMS, 2000; Istat, 2008; Saraceno, 1980). Perché, dunque, i bambini della Scuola Elementare non si muovono in modo sostenibile per andare a scuola? Oltre i due terzi dei soggetti rispondenti adulti (73% circa) dichiarano di individuare uno o più punti pericolosi nel tragitto che separa la propria casa dalla scuola (Graf.3). In generale, comunque, la maggior parte dei minori (il 77%) non si reca in autonomia in nessun luogo. Per quanto attiene, invece, a quella quota minima di bambini i cui genitori dichiarano di lasciarli andare da soli in altri luoghi diversi dalla scuola (circa il 22%), è composta prevalentemente dai minori che si recano dai nonni (5%) o in altri luoghi presenti nel quartiere di residenza (parco giochi, amici, ecc.). I “pericoli del traffico” e la “distanza tra scuola e casa” sono i problemi prevalentemente percepiti dagli adulti rispondenti, difficoltà dunque che i bambini dovrebbero affrontare se andassero a scuola da soli. Non trascurabile, tuttavia, anche la possibilità di “essere fermati da sconosciuti”, risposta la cui percentuale si attesta al 19,1% (Graf. 4). Questi “ostacoli” all’uso di mezzi sostenibili per compiere il tragitto casa-scuola convergono con
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Graf. 5 b: Adulti: luoghi più pericolosi del quartiere
Graf. 5 a: Adultii: luoghi più piacevoli del quartiere 80
71,9
30
70
18,3
20
50
14,6
15
40 30
9,8
10
10
11,2
5,6
Centro Sportivo Valnigra
Campagna, boschi
5 0
0 Villa Mersi
Via Valnigra
Graf. 6 a: Bambini: luoghi più piacevoli del quartiere 70 60
28
25
60
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/ 29
Via Villa
Graf. 6 b: Bambini: luoghi più pericolosi del quartiere
30
50
25
40
20
21,4
18,6
10 6,9
10
28,6
15
19,3
20
P.zza Niccolini
35
58
30
Le strade
0
7,1
5 0
Villa Mersi
Centro Sportivo Valnigra
Casa Nostra
altre ricerche fatte sullo stesso argomento. Recentemente lo studio di Ahlport et al. (2008) rilevava sia barriere di tipo sociale - paura di rapimenti, di atti di bullismo e di coinvolgimento in incidenti, immaturità dei figli, scarsa motivazione sia ad affrontare le avverse condizioni climatiche, sia ad alzarsi prima il mattino e, infine, la difficoltà nella gestione del tempo causato, in primis, da orari di lavoro non flessibili sia barriere di tipo fisico, ossia la presenza di strade senza marciapiedi, il traffico elevato, la distanza della scuola, ma anche un peso eccessivo degli zaini e la scarsità di luce al mattino presto, che si traduce dunque in un potenziale maggiore pericolo per i bambini. Ovviamente, la presenza di tutti o di alcuni di questi fattori, rendono l’automobile il mezzo privilegiato per lo spostamento casa-scuola, aumentando - di fatto - quel traffico veicolare aspramente criticato, la sedentarietà di grandi e piccini, il livello dell’inquinamento atmosferico e, non ultimo, privando i bambini di una possibile occasione di socializzazione, di responsabilizzazione e dunque di crescita. Genitori: analisi dei luoghi del quartiere che i genitori percepiscono come sicuri, piacevoli e come pericolosi La seconda parte del questionario indagava quali fossero, per i genitori e per i figli, i luoghi all’interno del quartiere percepiti come sicuri e piacevoli e quelli, invece, ritenuti pericolosi. Analizzando in prima battuta le risposte riferite dai soggetti rispondenti–genitori, si rileva come i luoghi più sicuri menzionati siano: con circa il 24% il Parco pubblico di Villa Mersi5, con il 15,7% delle risposte la piazza principale del paese, P.zza Niccolini6. Altri luoghi ritenuti sicuri nel quartiere sono la dimora domestica (11,4%), il Centro Sportivo Valnigra (10%) e la Scuola (8,6 %) (Graf. 5b). Alla domanda che chiedeva di elencare i luoghi
Strade
Via Valnigra
più pericolosi del quartiere, il collettivo-genitori si è concentrato su una delle vie principali - Via Valnigra - con il 24% circa delle risposte. Seguono P.zza Niccolini (14,6%) e Via Villa (9,8%). Dalle analisi delle risposte aperte di questa domanda emerge frequentemente la percezione del pericolo relativamente a diverse strade presenti nel centro storico e/o nelle strette sue vicinanze: strade a forte percorrenza veicolare e di forte interesse pedonale, sprovviste di sia marciapiede, sia di facili e sicuri attraversamenti e di piste ciclabili. Infatti, il 18% circa degli adulti rispondenti ritiene un luogo pericoloso “le strade del centro/fuori dal centro senza marciapiede”. Riprendendo una riflessione fatta poc’anzi, sull’esistenza cioè di fattori sia di natura sociale che fisica che ostacolano l’uso di mezzi sostenibili, rileviamo come alcuni luoghi siano privi degli uni, ma pregni degli altri. E’ il caso, ad esempio, di P.zza Niccolini: un luogo pubblico, luogo di incontro e di passaggio, con un forte controllo sociale che rende meno probabile l’incontro con gli ipotetici malintenzionati, e che viene dunque menzionato tra i luoghi percepiti come “sicuri”. Contemporaneamente, a causa dell’intenso traffico veicolare, che pone a rischio l’incolumità fisica dei bambini, la piazza viene menzionata anche fra i luoghi “pericolosi” del quartiere. Per quanto riguarda, invece, il luogo più bello e più piacevole che i genitori hanno menzionato è Villa Mersi con il 72% circa delle risposte, segue il Centro Sportivo Valnigra7 con il 11,2% (Graf. 5a). Sono, questi, due spazi nei quali i bambini possono svolgere attività ludiche e sportive in ambienti chiusi e protetti e provvisti anche di aree adibite a verde pubblico. Bambini: analisi dei luoghi del quartiere che i genitori percepiscono come sicuri, piacevoli e come pericolosi Per quanto riguarda i luoghi ritenuti più pericolo-
Pzza Niccolini
Via Villa
5 Si tratta di una villa di origine medievale arricchita da un ampio parco al suo interno adibito a “verde pubblico”, utilizzata come centro civico, affittata per cerimonie e feste di varia natura, rappresentazioni teatrali e concerti. 6 Si tratta della piazza principale del paese, antistante alla Scuola Elementare “Tomasi”. 7 Si tratta di una struttura con attrezzature per la pratica di sport e dotata di parco pubblico, situata in Via Valnigra.
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Sopra: il passaggio pedonale che porta al centro sportivo di Via Valnigra. Nella pagina a fianco: Piazza Niccolini
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Questa significativa concordanza nelle risposte può essere dovuta anche all’influenza del genitore che risponde alla stessa domanda formulata nel questionario subito prima di quella rivolta al bambino. Inoltre, ricordiamo che il genitore è il soggetto che materialmente compila in toto il questionario. 9 In Trentino il rapporto è 55 auto ogni 100 abitanti.
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si riferiti dai bambini si rileva come essi siano sostanzialmente quelli menzionati dai genitori8. Emerge, in maniera ancora più netta rispetto alle risposte fornite dagli adulti, come “le strade del centro/fuori dal centro senza marciapiede” siano ritenute dai bambini pericolose con il 28,6% delle risposte. Seguono Via Valnigra con il 21,4% e P.zza Niccolini con il 18,6% (Graf. 6b). Per quanto attiene ai luoghi più belli e piacevoli riferiti dai figli, prevalgono gli spazi aperti nei quali giocare o praticare sport. Come per i genitori, infatti, i luoghi che riscuotono maggiore successo sono il parco di Villa Mersi con circa il 58% delle risposte, e il Centro Sportivo Valnigra con circa il 19,3%. Seguono, ma con una certa distanza, la dimora familiare e il cortile antistante con il 6,8% e, infine, P.zza Niccolini con il 5,7% (Graf.6a). Nell’indagine Istat “La vita quotidiana di bambini e ragazzi” del 2008, i giardini pubblici raggiungevano, invece, il 35,6% delle preferenze mentre il cortile antistante la dimora domestica il 29,7%. Se sommiamo le risposte fornite dai genitori e dei figli come se fossero un unico collettivo è possibile con maggiore agilità identificare quali siano i luoghi che maggiormente vengono percepiti come pericolosi e piacevoli dai soggetti rispondenti: Via Valnigra con il 25%, le strade in generale con il 23%, P.zza Niccolini con il 16,4% per quanto riguarda quelli pericolosi, e Villa Mersi con il 65%, il Centro Sportivo Valnigra con il 15,3% e, infine, P.zza Niccolini con il 5%, delle risposte riguarda quelli piacevoli. Osservazioni sui risultati La prima osservazione che possiamo trarre da questi risultati è che la maggior parte delle risposte (85,3%) converge su tre luoghi ritenuti piacevoli: il parco pubblico di Villa Mersi, il Centro Sportivo Valnigra e la piazza principale di Villazzano – P.zza Niccolini – antistante l’Istituto scolastico “Tomasi”. Questi sono anche probabilmente i luoghi più frequentati e conosciuti dai bambini nel “tempo-scuola” e nel “tempo-libero”. La seconda osservazione è che i luoghi identifi-
cati come più pericolosi sono quelli necessari per raggiungere i luoghi identificati come più belli (e dunque più frequentati). Come evidenziato sopra, le strade in generale sono motivo di apprensione soprattutto per i bambini perché molte di esse, sia nel centro storico, sia nelle zone antistanti al centro storico, sono sprovviste di marciapiedi e di sicuri punti di attraversamento. Emerge, per esempio, come la strada per raggiungere il Centro Sportivo Valnigra, Via Valnigra appunto, è una strada pericolosa, percorsa dagli autoveicoli a forte velocità, senza “fasce protettive” per pedoni e/o per ciclisti, sprovvista di luoghi sicuri adibiti all’attraversamento. La stessa P.zza Niccolini, luogo privilegiato da genitori e bambini, sia perché vicino alla scuola, sia perché luogo “bello e piacevole” e sia, infine, perché luogo a forte impatto socializzante, è contemporaneamente luogo ritenuto “pericoloso” per la presenza di intenso traffico, per l’assenza di facili e sicuri attraversamenti e sprovvisto di sistemi di monitoraggio del traffico stesso. Infine, proprio in prossimità di P.zza Niccolini è presente il parco pubblico di Villa Mersi, luogo che in modo determinante (65%) viene considerato da adulti e minori il luogo più bello e più piacevole del quartiere. Per raggiungere il parco, tuttavia, si percorrono strade senza marciapiede e senza attraversamenti sicuri (Via Villa in particolare, ma anche Via Giordano, Via Tessadori, Strada Stretta e Via Tabarelle). Sembrerebbero dunque possibile individuare tre “oasi” di sicurezza, tre luoghi di pace, di socialità, di gioco, di divertimento, ad alto livello di vivibilità. Ma raggiungere tali luoghi comporta una sorta di “prova ad ostacoli” oggettivamente pericolosi, fonte di ansia e preoccupazione sia per i bambini, sia per i genitori che li accompagnano in tali luoghi e la cui presenza non consente una mobilità sostenibile. Infatti, se facciamo riferimento alle risposte analizzate precedentemente è altamente probabile che in tali “oasi” i genitori accompagnino i propri figli in auto. Ricordiamo infatti che il 60% infatti dei bambini si reca a scuola accompagnato da un genitore in auto, il 73% identifica punti pericolosi nel tragitto da casa a scuola, il 78% circa dei bambini non si reca in nessun luogo da solo a piedi, proprio a causa del traffico per almeno il 40% circa dei soggetti rispondenti. Se, infine, in modo sintetico elenchiamo gli interventi che i soggetti rispondenti hanno suggerito in modo puntuale compilando il questionario per sopperire ad alcuni punti pericolosi nel tragitto da casa a scuola, le problematiche precedentemente descritte tornano in modo reiterato: la mancanza di marciapiedi e di attraversamenti sicuri in primis - e, coerentemente, gli interventi suggeriti dal collettivo di riferimento sono tesi a sopperire in maniera semplice ma efficace tali problematiche.
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Conclusioni Pur consapevoli di come molteplici e di varia natura siano le trasformazioni da apportare per incentivare una mobilità sostenibile, ci appare necessario partire da qualcosa. Da un lato per risolvere concretamente alcune problematiche relative alle oggettive barriere di tipo fisico, ma dall’altro per sensibilizzare la popolazione sulla necessità di un cambiamento di stile di vita. L’Istat rilevava nel 2008 il numero degli autoveicoli in Italia superava 35 milioni, mentre l’Osservatorio per la Mobilità sostenibile, nel 2007, gridava al nostro triste primato: l’Italia al primo posto in Europa per densità automobilistica: 60 auto ogni 100 abitanti9. Non a caso i problemi maggiormente sentiti dagli italiani sono nell’ordine: il traffico (45,6%), l’inquinamento (41,4%) e la difficoltà di parcheggio (39,3%) (Istat, 2008). Tuttavia solo un quarto della popolazione usa il mezzi pubblici. Oltre a questo rapporto squilibrato con gli autoveicoli o conseguentemente a questo rapporto unito alla percezione di insicurezza in ambito urbano, emerge una popolazione sedentaria pari al 41,1% dell’intera popolazione, con un 35% di soggetti in sovrappeso e il 10,2% di soggetti obesi10. E in questa popolazione di sedentari ritroviamo anche i piccoli cittadini: il luogo preferito dai bambini dai 3 ai 10 anni per il gioco - con una percentuale pari al 97% - è la propria casa, nella quale le attività più frequentemente svolte sono “guardare la tv” e giocare “con giochi elettronici”. L’idea di apportare trasformazioni urbane per agevolare la mobilità sostenibile non è, e non può essere, di per sé risolutiva. Come è stato sottolineato le barriere fisico-sociali che disincentivano l’uso dei piedi e della bici per compiere il tragitto casa-scuola sono innumerevoli e
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fanno capo a diverse dimensioni, non riducibili alla sola mancanza di sicurezza stradale. Senz’altro una componente/barriera significativa si riferisce alla gestione del tempo degli adulti. In particolare al tempo - stretto e soffocante delle donne, oberate e occluse nella loro “doppia presenza”: angelo del focolare che svolge le attività domestiche e si prende cura dei figli e donna emancipata che lavora. Due ruoli, dunque, che lasciano pochi varchi alla sostenibilità. L’auto diviene infatti mezzo comodo e veloce per portare il figlio a scuola – o due figli in scuole diverse - e correre al posto di lavoro, non necessariamente vicino all’istituto scolastico. Il mondo del lavoro rimane ancora rigido a fronte dei cambiamenti sociali e familiari, e lo è diventato in maniera più stringente in questo periodo di crisi economica globale, nel quale non perdere il posto di lavoro sembra essere l’unica aspettativa possibile. Le politiche di conciliazione, ossia tutte quelle misure volte ad armonizzare i tempi della vita familiare con quelli della vita lavorativa, sono ben lungi da essere sviluppate e incentivate nel nostro paese. Un’altra variabile, relativamente indipendente dalle trasformazioni urbane, è la percezione di sicurezza, quella relativa alla “paura di incontrare sconosciuti” che possono aggredire i bambini. Senza ampliare la riflessione sull’andamento della criminalità in generale, ma soffermandoci solo sull’andamento negli ultimi anni di alcun tipi di reato più attinenti al nostro argomento, si rileva dal rapporto del Ministero dell’Interno del 2007, una netta diminuzione degli scippi, dei borseggi, delle aggressioni e dei furti di biciclette. Quelli che aumentano sembrano invece essere i furti negli appartamenti, le violenze e gli omicidi in ambito familiare, consumate proprio tra le mura domestiche, dove vittima e carnefi-
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In Trentino la percentuale di popolazione sedentaria è di circa il 18%, mentre quella degli obesi è di poco oltre il 9% (Istat, 2008).
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ce si conoscono bene, sono persone legate da vincoli affettivi e di sangue. Da ciò si può affermare che la probabilità di essere aggrediti per strada da uno sconosciuto è decisamente inferiore a quella di essere aggrediti a casa da un parente. Fatta questa precisazione, siamo tuttavia consapevoli di quanto sia comunque importante la percezione soggettiva dell’aumento della criminalità da parte dei cittadini. Nel 2008, nell’ambito del rapporto annuale dell’Istat, si rileva che tale paura angoscia il 36,8% degli italiani (contro il 34% circa rilevato nel 2007); secondo il Ministero dell’Interno (2007)una persona su quattro si sente poco o per niente sicura quando cammina nel proprio quartiere, soprattutto di sera, soprattutto quando è buio. In questo senso il livello su cui operare sono i media con le loro campagne del terrore, ma anche il linguaggio della politica che negli ultimi anni privilegia e strumentalizza l’argomento “sicurezza” per far breccia nei cuori degli elettori, letteralmente disseminano paura e diffidenza. Ed è necessaria anche una corretta informazione sull’andamento e caratteristiche reali della criminalità, anche operando confronti tra il livello nazionale con il livello locale (Ahlport, 2008). Nel caso specifico del comune di Trento si rileva, infatti, su tutte le tipologie di reato un’incidenza inferiore a quella riscontrata nel nord-est e in Italia. Ma ancora: il livello sul quale operare è anche quello della scuola, caratterizzata da orari rigidi che non rendono agile la già congestionata giornata degli adulti, in primis di quelle delle mamme lavoratrici. E’ totalmente assente un coordinamento reale tra le politiche del mercato del lavoro e quelle relative all’istruzione, soprattutto per quanto riguarda la conciliazione degli orari degli adulti che sono da un lato genitori e dall’altro lavoratori. Ma la scuola è responsabile anche del sovra carico di libri per i bambini, tanto da far abbandonare negli anni la classica cartella di un tempo, per optare dapprima in uno zainetto, poi in uno zaino tipo escursione in montagna con sosta in rifugio, fino ad arrivare al carrello trasporta-zaino. Le trasformazioni dell’ambiente urbano sono condizioni necessarie ma non sufficienti per la promozione della mobilità sostenibile e dunque devono essere collegate a strategia a diversi livelli che appartengono a dimensioni e sfere diverse del vivere. Quindi, per concludere, le Iniziative quali i nonni vigili, il piedi bus, l’aumento delle piste ciclabili e la messa in sicurezza delle strade divengono anche momenti di riflessione, informazione e sensibilizzazione per tutta la cittadinanza, auspicando ad uno stimolo verso il cambiamento su tutti i livelli sopra menzionati: politico, mass mediatico, mercato del lavoro, sistema scolastico, individuale, culturale, per una riduzione del traffico automobilistico, dell’inquinamento, per
un aumento dei momenti di socializzazione, di responsabilizzazione e di attività fisica dei bambini dunque facilitando lo sviluppo delle loro capacità motorie, intellettuali e sociali. Per migliorare la qualità della vita di “piccoli” e “grandi” cittadini, in modo sostenibile.
Riferimenti Bibliografici Ahlport K. N., et al., (2008), “Barriers to and facilitators of walking and bicycling to school: formative results from the non-motorized travel study” in Health Education & Behavior, Aprile n. 35 (2): 221-44. Fondazione M. Bellissario,(2000), Oltre il tetto di cristallo. Donne e carriera: la scalata difficile, a cura di Brancati D., Bergantino E., Milano. Franceschini A. (2007), Rapporto “La vivibilità urbana: un inquadramento teorico e metodologico. Quattro azioni per la vivibilità della città di Trento”, Assessorato alla Vivibilità urbana, Mobilità e Ambiente del Comune di Trento. Istat, (1996), Aspetti della vita quotidiana, Roma. Istat, (2002), La sicurezza dei cittadini. Reati, vittime, percezione della sicurezza e sistemi di protezione, Roma. Istat, (2006), Aspetti della vita quotidiana, Roma. Istat, (2008), Annuario statistico, Roma. Istat, (2008), Gli incidenti stradali, Anno 2007, Statistiche in breve, Settore Sicurezza, Roma. Istat, (2008), Conciliare lavoro e famiglia. Una sfida quotidiana, Roma. Istat, (2008), La vita quotidiana di bambini e ragazzi, Roma. Ministero dell’Interno, (2007), Rapporto sulla criminalità in Italia. Analisi, prevenzione, contrasto, Roma. Osservatorio per la Mobilità sostenibile dell’AIRP, (2007), Rapporto sulla densità automobilistica in Italia. Saraceno C., (1980), Il lavoro mal diviso: ricerca sulla distribuzione dei carichi di lavoro nelle famiglie, De Donato, Bari.
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Progetto Penelope: le trame emergenti del tessuto urbano di Claudio Coletta, Francesco Gabbi e Giovanna Sonda* Introduzione La forma e la vita di una città emergono dall’intreccio di prassi amministrative, pratiche quotidiane, reti d’azione pubbliche e private che definiscono l’organizzazione urbana e le sue regole, e al contempo creano vie di fuga: usi imprevisti, alternativi, inconsueti degli spazi. Per questo uno sguardo sociologico sui fenomeni urbani aiuta ad esplicitare le connessioni tra il vissuto del territorio, le strategie e le visioni politiche e a mettere in discussione il “dato per scontato” dell’abitare. Le controversie urbane e territoriali rappresentano un terreno privilegiato per osservare questo intreccio di posizioni, di trame organizzative, di retoriche e per seguire la città nel suo farsi: come si definisce l'adeguatezza di uno spazio? Per quali funzioni un luogo è stato pensato e come viene invece utilizzato? Nelle controversie lo spazio non è più dato per scontato, ma viene creato e connotato dalle diverse posizioni in gioco. Dal momento che le controversie assumono visibilità attraverso i mezzi di informazione, la componente mediatica si pone come elemento rilevante per avviare una ricerca ancorata al territorio, che segue le visioni politiche e i processi di trasformazione. In questa ricerca i media più che una funzione informativa, hanno un carattere performativo (Robert Park, 1940): essi orientano cioè il discorso pubblico con effetti che si traducono nelle retoriche e nelle prassi degli stessi abitanti (Bifulco, De Leonardis, 2005). Gli articoli dei quotidiani si configurano allora come tracce da seguire non per verificare l'attendibilità dei fatti riportati, ma per ragionare sul modo in cui le classificazioni e le connotazioni utilizzate si riverberano nel tessuto urbano, e sul modi in cui i significati si traducono nelle pratiche. Per meglio comprendere questo meccanismo, proponiamo due episodi che interessano la città di Trento, che raccontano come alcuni brani di città prendono forma attraverso le rappresentazioni prodotte a partire dai quotidiani locali. Organizzare il Centro storico secondo il “decoro” Il primo episodio riguarda il centro storico di Trento. Tra febbraio e marzo 2008 abbiamo seguito le controversie legate all'approvazione del nuovo regolamento di polizia municipale. In particolare, il regolamento prevedeva sostanziali modifiche al capo X, “Esercizio dell’arte e dello spettacolo su strada”, riguardanti sostanzialmente i musicisti, e - nei termini del regolamento - le “emissioni sonore negli spazi pubblici”. Il
regolamento nasce infatti a seguito delle ripetute lamentele dei residenti e delle persone che lavorano o frequentano il centro. La questione chiama in causa la natura della musica di strada come forma d'arte, la qualità della vita, l'inquinamento acustico. Senza addentrarci nella questione di cosa sia arte o meno, e di cosa sia divertimento o disturbo della quiete, ciò che interessa in questa sede è osservare come questi aspetti definiscano la controversia e come connotino il centro storico di Trento. In che senso l'opera degli artisti di strada mette in discussione o mantiene la natura e l’immagine del centro storico? I tratti di questa controversia ci hanno portato a collegare il discorso degli artisti di strada con un'altra questione che ricorre frequentemente nelle pagine dei quotidiani, quella degli “happy hour”, gli aperitivi in centro. Ciò che accomuna questi due episodi è il carattere ingovernabile del suono, che mette in discussione i confini tra il pubblico e il privato, tra spazio urbano e ambiente lavorativo o domestico. Il suono è qualcosa di difficilmente classificabile che si situa oltre la portata degli strumenti normativi, ma deve essere comunque regolato, ricondotto in una cornice istituzionale, visualizzato, misurato (ne è un esempio la recente mappa di zonizzazione acustica pubblicata sul quotidiano locale “Trentino” del 6 marzo 2008). In questo senso una disciplina del rumore diventa una disciplina degli spazi di competenza della polizia municipale. Ecco cosa prevede il regolamento: l’individuazione di 27 aree entro le quali è possibile suonare liberamente dalle 9 alle 20 nel periodo invernale, e dalle 9 alle 22 nel periodo esti-
* Queste osservazioni emergono da un lavoro di ricerca nell’ambito del progetto “Penelope – le trame emergenti del tessuto urbano” curato dai sociologi Claudio Coletta, Francesco Gabbi, Giovanna Sonda (Istituto Regionale di Studi e Ricerca Sociale di Trento). Il progetto è cofinanziato dalla Fondazione Caritro e dal Comune di Trento. Maggiori informazioni relative al progetto sono disponibili al sito www.progettopenelope.net
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tezza e dai suoi paradossi: il centro deve mantenere il decoro e il silenzio, ma deve anche essere capace, in quanto centro, di attrarre le persone promuovendo eventi. Il silenzio e il decoro diventano allora prerequisiti per ospitare eventi eccezionali, che eccedono appunto le regole della fruizione quotidiana. La controversia sugli artisti di strada è stata un’occasione per seguire come gli spazi vengono regolati, performati, costruiti e come si definisce la loro adeguatezza o inadeguatezza. In sostanza, capire come fare fronte ad una questione difficilmente governabile come il rumore mette in evidenza le visioni degli attori in campo, gli usi molteplici degli spazi, il modo in cui la percezione sensoriale è incorporata nella dimensione organizzativa.
Musicisti lungo le vie del Centro storico
vo. Nelle altre zone della città, è obbligatorio notificare in anticipo la performance, che può aver luogo solo in specifiche fasce orarie. Inoltre è vietato suonare per più di due ore nello stesso luogo. È interessante notare come nell’individuazione delle aree il centro storico viene a coincidere con la Zona a Traffico Limitato (ZTL), cioè uno strumento di polizia municipale per la gestione del traffico urbano. Questo artefatto eccede la sua funzione originaria e diventa strumento per la gestione degli aspetti culturali della città, promuovendo l’idea di un centro storico silenzioso, depurato dalle auto e dai rumori. Il processo di visualizzazione e regolazione degli aspetti sonori della città influenza il modo in cui il centro storico viene concepito e costruito. Questo ci fa capire che il territorio non è univoco. In altre parole, esistono molteplici “centri storici”, tanti quante sono le mappe che rappresentano e gestiscono un particolare aspetto della città. C'è un centro storico monumentale, una Zona a Traffico Limitato, un centro storico del commercio, un centro storico circoscrizionale. Tutto questo produce delle trame mobili che sono al tempo stesso trame narrative che raccontano pezzi di città, ma anche trame fisiche del tessuto urbano e trame organizzative. Da tutte queste trame il centro storico emerge come realtà multipla, la cui identità si costruisce (e, al tempo stesso, viene messa in crisi) a partire da concezioni diverse di adegua-
La drammatizzazione della periferia: la metafora del ‘bronx’ Il secondo episodio riguarda il Magnete, un complesso edilizio di recente costruzione composto da diversi blocchi abitativi, che si estende ad ovest di via Brennero, di fronte al centro commerciale Top Center. Rispetto alla natura decorosa e regolamentata del centro storico, il Magnete si presenta con dei tratti decisamente drammatici. Vale la pena di riportare un passo da L'Adige, del 6 ottobre 2007: «Benvenuti al Magnete, il Bronx del Trentino, come lo definiscono gli stessi residenti, sempre più arrabbiati per la situazione di degrado che sono costretti a subire. Casermoni tutti uguali stretti sopra un’arida spianata di cemento, punti di fuga infiniti rinserrati tra l’Agenzia delle entrate e il palazzo che ospita la sede della Guardia di Finanza, il Magnete si trova pure a ridosso della ferrovia. Il rumore dei treni merci diventa una costante a cui l’orecchio fatica ad abituarsi. Ma una volta varcata la soglia del sottopasso che lo separa da via Brennero l’impressione di asettica geometria dei palazzoni lascia il posto allo sgradevole aroma dei rifiuti in decomposizione ammonticchiati nei pressi delle campane di raccolta, sovrastate dal compattatore verde dell’inorganico. I sacchi e sacchetti sventrati lasciano fuoriuscire lunghe budella di immondizie, dove le pantegane zampettano felici e le vespe fanno il nido dentro il compattatore». Il ricorso alla metafora del Bronx è pratica ricorrente nei quotidiani locali per indicare una situazione di degrado e di insicurezza. Nel corso degli ultimi due anni il termine Bronx è stato uti-
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lizzato sui tre maggiori quotidiani trentini almeno 60 volte, e nella maggior parte dei casi per parlare di zone collocate a nord di Trento. L'etichetta veniva usata sia in termini identificativi – come nello stralcio di giornale – sia in termini differenziativi, con affermazioni quali «Non vogliamo diventare il Bronx», per prendere le distanze dalla nebulosa di Trento Nord. Dall’analisi dei quotidiani siamo passati all’indagine sul campo: abbiamo contattato un gruppo di donne che abitano nelle case ITEA del Magnete riunitesi in una associazione informale denominata “Animagnete”, che promuove iniziative per migliorare la qualità della vita nel quartiere. La descrizione che loro stesse danno della zona è molto interessante e condivide molte analogie con quanto scritto sui quotidiani locali. A differenza di quanto accadeva con il centro storico, laddove la vista è il senso più coinvolto, purificato dall’inquinamento acustico e automobilistico, la descrizione del Magnete è molto più sensoriale: vi è un forte richiamo alla puzza, alla sporcizia e in generale un’enfasi drammatica nel suo carattere iperbolico. Dalle loro testimonianze l’area si afferma come una zona frequentata da transessuali e prostitute che lavorano sia in casa che fuori, un’area di spaccio e consumo di droga. Un racconto sinestesico che tende a sollecitare reazioni forti. A questa drammatizzazione della situazione fa da contraltare il richiamo al concetto di comunità come un valore a cui tendere, e risultato di un processo di tessitura delle relazioni che richiede costanza ed impegno. Le signore intervistate fanno spesso riferimento alle “braciolate” organizzate all’interno del complesso per facilitare la reciproca conoscenza. La qualità della vita al Magnete sembra dipendere molto dalla possibilità di coltivare anche lì, nel loro Bronx, delle relazioni tipiche della Gemeinschaft di toennesiana memoria. Ma lo stesso utilizzo della drammatizzazione sembra essere, per certi versi, una vera e propria tattica per guadagnare visibilità presso gli amministratori e per chiedere maggiore attenzione e servizi. Partiamo dalla definizione di tattica di De Certeau (1980): «azione calcolata che determina l’assenza di un luogo proprio». La tattica ha come luogo solo quello dell’altro. Approfitta delle “occasioni” dalle quali dipende, per accumulare vantaggi, espandere il proprio spazio e prevede-
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re sortite. È insomma astuzia, un’arte del più debole. Nel caso del Magnete drammatizzare è una tattica, come si può leggere in questo brano di intervista: «…ci hanno buttato di tutto e noi prendevamo ‘sta spazzatura e la buttavamo. Finché poi uno ha cominciato a fare dei lavori ed ha lasciato sai quei cosi dei container, sì proprio nella proprietà, ti ricordi? – pieno di… – no, no ragazzi, non potete avere l’idea, perché partivano con gli scarti degli appartamenti e siamo arrivati ai parafanghi delle macchine, roba assurda, dicevo, non è possibile. Abbiamo chiamato a tutti, tutti quelli che era possibile chiamare, non c’è stato niente da fare. Alla fine, abbiamo detto, usiamo un altro metodo, diciamo che ci stanno i topi, che è un rischio per la salute. Così quando abbiamo cominciato così, abbiamo trovato un vigile che è stato attento. Devi avere la fortuna di trovare una persona che si prenda a cura della situazione che tu vivi». Il campo in cui si gioca la controversia è quello istituzionale, dei servizi, e ha un linguaggio proprio e proprie pratiche organizzative non sempre facili da intercettare. Per questo la semplice telefonata non era sufficiente a modificare l’ingranaggio amministrativo e dunque si è deciso di giocare con la stessa logica della pubblica amministrazione, puntando a creare un’emergenza riguardante la sicurezza, divenuta oramai nel dibattito pubblico una questione ri-
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Gli appositi spazi per le “performances” musicali
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Il complesso chiamato “Il Magnete” nell’area Nord di Trento
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corrente. Ma a ben vedere la sicurezza è utilizzata come un concetto ombrello (Bricocoli, 2005) che comprende questioni anche molto diverse tra loro che con la sicurezza hanno ben poco a che fare. Si drammatizza dunque per intercettare il linguaggio delle politiche e per confrontarsi sul loro terreno. Si cerca di dare visibilità alla propria situazione, utilizzando metafore e linguaggi derivati dagli stessi quotidiani e alimentando conseguentemente la creazione degli stessi Bronx cittadini. Conclusioni I due brani di città che abbiamo presentato sono legati da un filo narrativo che li connota e li mette in relazione tra loro e con altri quartieri della città secondo meccanismi di identificazione e differenziazione, come quando i residenti di Piazza Mostra e S. Martino rivendicano la loro appartenenza al centro storico e richiedono la stessa cura, la stessa attenzione che l’amministrazione riserva al centro storico anche per non finire come certi ‘bronx’ di altre parti della città. Curioso, tra l’altro, osservare che Piazza Mostra e S. Martino sono nel centro storico e fanno parte di questa circoscrizione. In questi due casi lo studio delle narrazioni e delle pratiche urbane ha prodotto una conoscenza minuta dei diversi meccanismi che regolano l’abitare e ha reso visibili delle connessioni tra strategie amministrative, tattiche di vita quotidiana e cronaca locale. Infatti, «i processi di messa in visibilità sono fortemente influenzati da una sorta di doppio legame che si crea tra l’arena mediatica e la mobilitazione degli abitanti di quella comunità: da un lato l’arena mediatica fissa la rappresentazione del problema, dall’altro
la mobilitazione di tale oggettività trae alimento e giustificazione a tradurre la messa in visibilità nella forma dell’allarme sociale» (Bifulco-de Leonardis, 2005).
Riferimenti bibliografici Bifulco, L. e de Leonardis, O. (2005) “Sulle tracce dell’azione pubblica”, in L. Bifulco (a cura), Le politiche sociali. Temi e prospettive emergenti, Roma: Carocci. Bricocoli, M. (2005) “Insicurezza, Città e politiche in affanno”, in L. Bifulco (a cura), Le politiche sociali. Temi e prospettive emergenti. Roma: Carocci. De Certeau, M. (1980) L'invention du quotidien, Paris: 10/18; trad. it. L’invenzione del quotidiano, Milano: Edizioni Lavoro, 2001. Park, R. (1940) News as a form of knowledge, in American Journal of Sociology, 45, pp. 669686
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DOSSIER Le perequazioni e le compensazioni nel PROCESSO URBANISTICO di Emanuele Boscolo (Avvocato e Professore di Diritto Amministrativo nell’Università dell’Insubria)
1. La legislazione regionale ed il modello perequativo La stagione apertasi nella seconda metà degli anni Novanta all’insegna di una revisione della legislazione urbanistica regionale si è precipuamente contrassegnata per una radicale mutazione del paradigma di piano urbanistico comunale. Il dato più evidente è sicuramente rappresentato dalla scomposizione del piano, fenomeno che in alcune regioni è coinciso con l’introduzione del modello piano strutturale-piano operativo proposto dall’INU, mentre in altre regioni è approdato alla frammentazione del piano comunale in una pluralità di documenti, attraverso i quali trovano esplicazione le diverse funzioni di governo del territorio. Ma le innovazioni forse ancor più radicali si sono registrate sul versante dei contenuti. L’ossatura di piano è stata rivista dalle fondamenta: l’impostazione improntata ad un rigido zoning, eredità dell’urbanistica razionalista, è stata superata in nome della ricerca di soluzioni capaci di favorire la compresenza di funzioni (mixité). Anche il sistema degli standards, storicamente retto da una logica rigidamente parametrica (mq/ ab.), è stato riconsiderato: la programmazione degli interventi infrastrutturativi si articola in stretta corrispondenza con i bisogni effettivi delle diverse coorti sociali e dalla mera ‘messa in riserva’ di aree tramite vincoli preespropriativi si è passati alla ricerca di soluzioni infrastrutturative concrete. Il risultato di questo mutamento è inevitabilmente rappresentato da una sempre più marcata differenziazione dei piani urbanistici: in passato – per effetto del D.M. 2 aprile 1968, n. 1444 – i piani mantenevano una forte matrice unificante; il decreto ministeriale fungeva, in altri termini, da fattore omologante, mentre negli ultimi anni
ciascuna amministrazione tende ad identificare ex ante – con pieno esercizio della propria autonomia – i valori ai quali conformare l’azione pianificatoria, gli obiettivi da assumere nella fase di impostazione (framing) del piano e, da ultimo, gli strumenti e le ‘tecniche’ più efficienti al raggiungimento dei risultati prefissi. Tutto ciò a partire dal riconoscimento dei caratteri di quello specifico territorio. Il ricorso alle tecniche della perequazione, della compensazione e dell’incentivazione costituisce indubbiamente un significativo indicatore di discontinuità. A circa un decennio dall’avvio del dibattito attorno a questi strumenti anche nel mondo giuridico è possibile cercare di tracciare un primo bilancio. La ricerca della linea discretiva tra le diverse stagioni dell’urbanistica e tra le diverse generazioni di piani si presenta tuttavia particolarmente complessa. Sarebbe errato ritenere che il crinale passi soltanto per le traiettorie della legislazione regionale. Volendo fare un bilancio che vada oltre la superficie, l’analisi non può esaurirsi in una disamina della produzione normativa regionale: così come in (ambiti diversi) si sono registrate significative sperimentazioni perequative ben prima che la legislazione regionale evolvesse in tale direzione, allo stesso modo la diffusione di questi strumenti continua a rappresentare un dato trasversale, che travalica i confini delle regioni che esprimono le soluzioni normative più avanzate. Sarebbe del pari semplificatorio ritenere che anche nelle regioni dotate di norme su questo istituto il modello perequativo (inteso secondo l'originaria radice semantica del lemma come equa ripartizione tra più proprietari dei vantaggi ed oneri connessi alla trasformazione edificatoria) costituisca ormai
un riferimento consolidato. Le regioni che hanno dato spazio alla perequazione nelle loro leggi urbanistiche sono un numero importante: per prime si sono orientate in questa direzione la Toscana, l'Emilia Romagna, la Basilicata, il Lazio, la Puglia e la Calabria e, più di recente, anche la, Campania, il Veneto, la Lombardia, l'Umbria, la Provincia di Trento ed il Friuli Venezia Giulia e la Provincia di Bolzano, tuttavia, per avere un quadro veramente indicativo, occorre necessariamente estendere l’analisi ai piani che hanno visto la luce negli anni più recenti: solo a questo livello è possibile cogliere il dato concernente la effettiva diffusione della perequazione e verificare quali modelli perequativi sono concretamente praticati. Solo a questo livello, in altri termini, si possono cogliere appieno i tratti di una tendenza alla ‘differenziazione’ che va ben oltre la cornice della produzione legislativa regionale e che costituisce la più autentica cifra caratteristica dell’ultimo decennio. Osservando il panorama dell’attività pianificatoria comunale, si riscontra che il modello perequativo non è ancora riuscito ad affermarsi appieno sino a divenire il modello veramente prevalente. Quantitativamente, i piani perequativi sono ancora un numero ristretto, anche se godono di grande risonanza ed assurgono a termine di confronto (benchmarking). L’interesse suscitato dai modelli perequativo-compensativi non deve tuttavia indurre a relegare sullo sfondo la circostanza che l’orizzonte urbanistico italiano sembra destinato ancora per molti anni ad una compresenza di episodi innovativi e di piani con radici saldamente ancorate nella tradizione urbanistica novecentesca. Le leggi regionali non hanno sancito l’obbligatorietà della perequazione ed
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hanno fatto menzione di questi istituti unicamente in guisa di un contenuto opzionale delle nuove figure di piano urbanistico comunale. La decisione circa la struttura del piano, retta secondo il diritto amministrativo generale da un vincolo di proporzionalità-idoneità (Geeignetheit) dello strumento rispetto agli obiettivi che ciascun comune assegna alla pianificazione, è quindi demandata alle singole amministrazioni comunali. Importanti indicazioni sul punto sono venute dalla giurisprudenza amministrativa, che si è partitamene soffermata proprio su questa decisione preliminare, enunciando il principio secondo cui la verifica circa la possibilità di soluzioni perequativo-compensative costituisce un passaggio indefettibile, da rendere esplicito (mediante una puntuale motivazione degli atti attraverso cui prende forma l’impostazione del piano). In termini sostantivi, il Consiglio di Stato ha rimarcato che, ove il piano si prefigga l’obiettivo di acquisizione di vaste aree, il ricorso a questi strumenti pianificatori diviene necessitato. La motivazione di una delibera di reiterazione di vincoli deve conseguentemente dare conto della “mancanza di possibili soluzioni alternative o di perequazione fra i proprietari espropriabili” e, laddove sia configurabile una alternativa non autoritativa all’esproprio, quest’ultima è senz’altro preferibile: la perequazione e la compensazione consentono infatti il più efficace perseguimento delle politiche pubbliche con il minor sacrificio della posizione dei proprietari, secondo la caratteristica valutazione di ‘minor compressione’ in cui si sostanzia la cd. proporzionalità-necessarietà (che presuppone il rispetto del principio ‘del mezzo più mite’ Gebot des mildesten Mittels). Ne consegue che l’unica ragione idonea a giustificare la riproposizione di una frusta impostazione vincolistica può essere rinvenuta solo in una comprovata inapplicabilità per ragioni strettamente urbanistico-territoriali della perequazione e della compensazione (essenzialmente, per insussistenza di aree sulle quali far ‘atterrare’ diritti e crediti edificatori: amplius infra). Le norme regionali si limitano, nella più parte dei casi, a scarne proposizioni di principio (fanno eccezione la Lombardia e la Provincia di Trento, che hanno adottato delle formulazioni ‘lunghe’): di conseguenza, le singole amministrazioni, muovendosi in questo
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spazio non determinato, hanno finito per tratteggiare schemi perequativi improntati ad un certo sincretismo, risultato di una circolazione ultraregionale della modellistica applicativa. A fronte di una sempre più accentuata diversificazione dei diritti urbanistici di derivazione regionale, l’impostazione perequativa rappresenta uno dei pochi elementi unificanti tra piani che riflettono schemi (ed hanno nomi) eterocliti. 2. Le ragioni del ritardo nella diffusione del modello perequativo Chiarito preliminarmente che quando parliamo di perequazione e di compensazione il riferimento va a fenomeni dalla diffusione ancora relativamente circoscritta, occorre interrogarsi sulle ragioni di questa mancata generalizzazione, che potrebbe essere prima facie ascritta ad una sottovalutazione dei vantaggi che - anche secondo il Consiglio di Stato - oggettivamente si riconnettono all’introduzione di queste figure entro la struttura dei piani. Sicuramente si registra della riottosità dei decisori politici ed una certa diffidenza anche in larghi strati della categoria degli urbanisti; le ragioni più profonde vanno tuttavia ricercate nel contesto generale entro cui si colloca la stagione urbanistica del presente: le condizioni per la sperimentazione di queste tecniche infatti non sono affatto favorevoli. Nell’ultimo decennio si è consumato un mutamento di scenario forse ancor più radicale di quello determinato dalla riforma della legislazione regionale. La progressiva presa di consapevolezza del ‘parametro suolo’ quale risorsa finita, non rinnovabile ha imposto il passaggio da pianificazioni incrementali, fondate sulla diffusione urbana (sprawl), a piani connotati da una impostazione fortemente contenitiva, nella quale ogni ulteriore consumo di suolo agro-naturale deve trovare una rigorosa giustificazione. Le tecniche perequativo-compensative - che fanno leva su un principio allocativo dello stock volumetrico orientato ad una maggior equità ed efficacia delle decisioni pubbliche - hanno quindi avuto il rispettivo banco di prova in una contingenza in cui le volumetrie complessivamente assegnabili appaiono molto ridotte rispetto al passato. In comuni - e non sono pochi, specie nelle regioni settentrionali e nelle cinture metropolitane - in cui le uniche possibilità di intervento sono ormai rappresentate dal-
la ricucitura di circoscritte aree interstiziali, difettano le condizioni strutturali per imbastire ambiziosi programmi perequativi. Merita di essere sottolineato anche un altro dato che emerge dalla fase di prima sperimentazione. Nella pratica amministrativa si è registrato un serio problema di costruzione del consenso attorno a questi nuovi modelli. Il tema – ovviamente – non è propriamente giuridico, ma una analisi orientata al dato effettuale non può non tenerne conto, specie perché si sostenuto che l’impostazione perequativa allenterebbe le tensioni che si scaricano sui decisori pubblici. Nei fatti la decisione politica pone difficoltà sin qui non adeguatamente considerate. Anche in un piano che preveda il mantenimento della capacità insediativa previgente i proprietari delle aree attualmente edificabili (cd. residui di piano) vengono chiamati ad una condivisione delle possibilità edificatorie ed in ciò avvertono il senso di una autentica privazione. Nel confronto con un piano tradizionale, anche ove il saldo volumetrico complessivo non subisca riduzioni, comunque mutano radicalmente gli esiti individuali. Parafrasando la critica mossa dai filosofi egualitaristi all’utilitarismo classico, si può dire che nel modello pianificatorio tradizionale si guarda(va) unicamente alla grandezza della torta, disinteressandosi della dimensione distributiva e trascurando che a questo livello di manifestasse una profonda disparità tra classi di proprietari. Nella perequazione ci si preoccupa invece innovativamente del numero, dell’entità e dell’allocazione - secondo un parametro egualitario delle singole fette. Nei piani di questa matrice l’equità si persegue secondo il criterio del maximin (maximum minimorum): la strategia egualitaria si concentra cioè sull’innalzamento del risultato ottenibile dei proprietari altrimenti svantaggiati. Restando alla metafora, in luogo delle poche grandi fette d’un tempo, in un piano perequativo vengono previste molte più frazioni, tutte uguali, ma ciascuna di minori dimensioni. Degli esiti della ‘spalmatura’ tra più soggetti della dotazione volumetrica beneficiano dunque i fondi che in un piano tradizionale verrebbero gravati con un vincolo, ai quali il piano perequativo riconosce invece una frazione della volumetria insediabile, ancorché eventualmente concentrabile altrove.
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Sul piano aggregato, l’allargamento della base dei proprietari soddisfatti giustifica ampiamente la ‘delusione’ inflitta ad alcuni, ma il problema di costruzione del consenso resta. Il discorso si presta, naturalmente, ad essere rovesciato. In questi anni è infatti emerso con chiarezza che proprio la condizione di scarsità volumetrica rende ancor più stringente l’esigenza di disporre di un sistema di ripartizione esteso ad un maggior numero di proprietari, capace di evitare i risultati intrinsecamente discriminatori - ormai rifiutati nel dibattito pubblico - che si riconnettono inevitabilmente ad una allocazione delle dotazioni volumetriche e dei vincoli che ricalchi strettamente lo zoning di progetto. Conclusioni diverse valgono invece per la compensazione. Ci si trova di fronte ad un istituto che ha avuto ampia applicazione. Anche qui l’analisi deve tuttavia scavare sotto la superficie: la sperimentazione su larga scala della compensazione, nella più parte dei casi, si è risolta nell’estemporanea inserzione in piani di impianto tradizionale di accordi di scambio tra aree per infrastrutture ed opportunità di edificazione, senza che da ciò sia derivata una autentica revisione del modello pianificatorio e, primariamente, delle politiche infrastrutturative. Per contro, nella compensazione (e sovente nel binomio compensazione-esecuzione a scomputo) è stato intravisto un rimedio alla endemica inefficacia delle politiche dei lavori pubblici. Questo ha indotto amministrazioni poco avvedute ad impegnarsi in onerose iniziative acquisitivo-realizzative sul presupposto (del tutto errato) che la compensazione consenta di ‘battere moneta volumetrica’ a costo nullo. La considerazione dei suoli alla stregua di una risorsa limitata impedisce invece di assumere l’alternativa compensativa alla stregua di un metodo ordinario di soddisfacimento di qualsivoglia esigenza di dotazioni territoriali e, per contro, induce ad una ancor più rigorosa gerarchizzazione delle priorità di intervento. 3. Equità e coesione sociale quali (nuovi) valori orientatori della pianificazione Il ricorso alla perequazione nei diversi contesti non ha affatto indebolito la funzione di progettazione urbanistica. La valenza orientativa (e differenziante)
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dell’urbanistica ‘disegnata’ in vista di un ordinato assetto territoriale rimane inalterata. La perequazione, così detta a posteriori, e la compensazione sono state pressoché ovunque impiegate unicamente alla stregua di strumenti (‘tecniche’, appunto) utili a rendere indifferenti per i proprietari coinvolti le decisioni - non più separabili - sulle destinazioni edificatorie e sulle localizzazioni delle infrastrutture. Nell’affermazione di questa prospettiva ‘strumentale’ (“la strada per ammettere la perequazione è quella di considerarla non un fine in sé ma un mezzo”) si coglie il superamento di un approccio non scevro da un certo ideologismo egualitarista che nei primi anni Novanta aveva accompagnato la fase di esordio della perequazione (da cui non si distingueva ancora la compensazione). Il consolidarsi di questo atteggiamento ‘laico’ ha rappresentato la condizione che ha reso possibile la significativa diffusione di esperienze perequative anche in contesti culturali come il Veneto e la Lombardia, più refrattari ad ogni sottolineatura circa la valenza redistributiva di questi strumenti. Come si è già indicato, alla base della scelta di informare un piano ad un modello perequativo vi è sempre una revisione dell’orizzonte assiologico a cui si ancorano le decisioni pubbliche. E’ la riconsiderazione valoriale ad innescare il processo di revisione del paradigma di piano. Nell’impostazione tradizionale, l’unico valore sotteso alla pianificazione si ricollegava all’ordinato sviluppo territoriale, a cui si riconnetteva un interesse pubblico all’affermazione del disegno prefigurato dal piano, le cui previsioni secondo il tipico schema poteresubordinazione - si imponevano imperatativamente entro la sfera proprietaria. Sempre in nome di questa (astratta) prevalenza del pubblico interesse la natura edificatoria o vincolata dei singoli fondi era considerata un mero riflesso della decisione di piano. Il risultato (outcome) di questo schema era un piano ‘intrinsecamente discriminatorio’, come ebbe a sottolineare sin dagli anni Sessanta P. Stella Richter. La sperequazione tra diverse classi di proprietari fondiari, taluni fortemente avvantaggiati dalle scelte pubbliche sull’edificabilità dei suoli, talaltri gravemente penalizzati dalle decisioni infrastrutturative, costituiva una ineluttabile conseguenza non tanto dell’imperatività
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del piano quanto piuttosto della tecnica dello zoning, nella quale la linea tracciata dal ‘pennarello del pianificatore’ segnava anche le sorti dei proprietari. La storia dell’urbanistica dagli anni Sessanta può essere ripercorsa anche in questa chiave: è il periodo in cui il tema della ‘riforma urbanistica’ fu posto al centro del dibattito pubblico dall’INU di A. Olivetti e da G. Astengo con il famoso ‘Codice dell’urbanistica’; il tema, come noto, fu ripreso con forza (ma senza successo) dal Ministro dei LLPP F. Sullo e dai suoi successori Zaccagnini, Mancini e Pieraccini, anche se l’unico risultato di quella tensione riformatrice fu costituito da un intervento contingente come la legge ‘ponte’. Questo dibattito si affievolì, rimanendo sottotraccia, sino al Congresso dell’INU del 1995, nel quale venne presentata una organica proposta di superamento della legge urbanistica del 1942, entro cui – abbandonati progetti di riforma della struttura della proprietà - la perequazione veniva identificata quale rimedio alla esternalità negativa dello zoning impiegato quale tecnica di allocazione di una risorsa scarsa come l’edificabilità. Nel perdurante silenzio del legislatore nazionale, il tema ha cominciato a trovare finalmente spazio nelle leggi regionali di terza generazione. Uno sparuto stuolo di comuni si era comunque già avviato sulla strada della sperimentazione in carenza di una copertura normativa, ma con il favore della giurisprudenza amministrativa. In particolare, va fatta menzione del rilievo che ha assunto il primo arresto sul piano regolatore di Reggio Emilia. Tale sentenza ha avuto l’effetto di rafforzare la convinzione che il meccanismo perequativo potesse trovare legittima applicazione anche in assenza di una revisione della normativa urbanistica generale. Nella stagione pionieristica della perequazione le motivazioni di questa 'storica' sentenza si sono inoltre rivelate decisive per fare chiarezza sulla ratio di questa tecnica, identificata nelle parole dei giudici amministrativi nel gravare “contemporaneamente la proprietà del beneficio dell’edificabilità e del peso di contribuire all’elevamento generale della qualità urbana”. L'in se della perequazione, com’è parso chiaro da quel momento, effettivamente si concentra tutta in questa inscindibilità tra vantaggi della trasformazione ed o-
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neri infrastrutturativi. Attorno alla seconda metà degli anni Novanta il valore etico dell’equità, tradizionalmente confinato entro altre politiche pubbliche, come quella tributaria o quella sociale, è stato esteso anche alla decisione pianificatoria, ripensata secondo un criterio di giustizia distributiva. Si è quindi imposta la revisione delle modalità applicative dello zoning. Le tavole di azzonamento (organizzate sempre più spesso per tessuti e sempre meno per zone omogenee) non coincidono più con il piano: ne esprimono soltanto la componente progettuale. Attraverso questa tecnica si identificano le possibilità di trasformazione, ma da questo disegno ordinatore si svincola l’attribuzione delle dotazioni volumetriche (scambiabili) ai singoli lotti. Questa innovativa forma di piano postula quindi una doppia maglia pianificatoria (a cui, effettivamente, vengono a corrispondere due serie di tavole): l’una finalizzata alla esplicitazione delle previsioni insediative ed infrastrutturative, l’altra funzionale alla allocazione delle dotazioni volumetriche ed al riparto dei correlati oneri infrastrutturativi tra una base più ampia di proprietari. Definito il mosaico territoriale, la volumetria insediabile in misura sostenibile rispetto alla capacità di carico di un territorio viene previamente ripartita tra tutti i cd. fondi-sorgente (sending areas). La permuta delle aree o lo scambio a titolo oneroso dei ‘titoli’ (cd. diritti edificatori) rappresentativi di tale attribuzione originaria (sulla scia del Transfer of Development Rights della tradizione statunitense) consentiranno, al momento della successiva concentrazione dei volumi (cd ‘atterraggio’) sui soli fondi-accipienti (receiving areas), di garantire anche ai proprietari dei fondisorgente una frazione dei risultati (economici o costruttivi) dell’attività di trasformazione. L'attuazione della vicenda perequativa fa sì che la distinzione tra le funzioni delle aree (profilo che resta determinato dello zoning) non ingeneri alcuna sperequazione (almeno economica) tra i soggetti coinvolti. Il tema dell’equità ha tenuto il campo per tutti gli anni Novanta. All’impostazione della legge del 1942 si è contrapposto un modello di piano perequativo tendente a far coincidere il massimo di equità con l’applicazione sull’intero territorio trasformabile (esclusi soltanto gli areali agricoli ed il
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centro storico) di un ‘indice unico’. Soluzioni di questo tipo hanno tuttavia mostrato i propri limiti. L’applicazione di un principio di giustizia distributiva alla pianificazione non è funzionale a determinare esiti necessariamente eguali, quanto piuttosto all’identificazione di un criterio oggettivo da assumere quale fattore distributivo in presenza di situazioni di fondo diversificate. Una tale forma ‘estrema’ di uguaglianza territoriale non tiene conto che i lotti presentano delle irriducibili differenze legate alla posizione, alla giacitura, alla prossimità alle reti stradali e dei servizi, etc. Paradossalmente, la forzosa cancellazione di tali oggettive ed innegabili differenze produce anch’essa un esito disuguagliante (reverse discrimination). Sul piano della tecnica urbanistica si è progressivamente assunta consapevolezza che anche la decisione di riparto delle potenzialità volumetriche (e non solo la funzione progettuale di disegno urbano) deve essere necessariamente preceduta da un lavoro di analitica decodificazione dei caratteri e delle invarianti territoriali, che va usualmente sotto il nome di ‘classificazione dei suoli’. Questa analisi è funzionale all’identificazione di un certo numero di classi di suoli formate da lotti tendenzialmente omogenei. Queste aggregazioni verranno a costituire altrettanti frames di pianificazione. Nella fase successiva, i lotti compresi in una determinata classe (anche a distribuzione territoriale discontinua) riceveranno eguale attribuzione volumetrica indipendentemente dalla destinazione finale. Da ultimo, verranno fissate delle regole sulla trasformazione entro le unità minime di intervento (comparti, piani attuativi, ambiti o distretti della trasformazione, secondo il lessico delle diverse leggi regionali) o fissate le norme sulle forme di circolazione dei titoli volumetrici corrispondenti alla dotazione volumetrica di ciascun fondo. La perequazione - dimessa ogni bardatura ideologica - non elide le differenze fisico-morfologico-ubicazionali tra i lotti, ossia le differenze ‘ricevute’. Si limita ad evitare che la decisione di piano ingeneri ulteriori disparità. L’attività preliminare di classificazione dei suoli dovrebbe avere matrice conoscitiva e sostanziarsi in una serie di acclaramenti, ma nella realtà non è completamente scevra da valutazioni tecnicodiscrezionali. Il richiamo all’estimo ed
alla ‘tecnica urbanistica’ prelude spesso ad una inammissibile opacità dei criteri applicati e ad una non ripercorribilità delle micro-decisioni che si consolidano in tale fase ‘tecnica’. Il risultato della classificazione costituisce una ‘premessa decisionale’ particolarmente stringente per il pianificatore: a valle della classificazione residua unicamente l’attribuzione degli indici alle singole classi di suoli, ossia una operazione rappresentabile alla stregua di una suddivisione esatta, in ossequio ad un fattore distributivo predeterminato, della volumetria identificata ex ante come ambientalmente e territorialmente sostenibile. Si pone quindi il problema della piena ‘giuridificazione’ dell’identificazione delle classi differenziate di suoli. Non tutte le leggi regionali fanno espressa menzione di tale attività che nel flusso procedurale della pianificazione correla la fase conoscitiva e quella decisoria e sono molti i piani in cui non si riscontra adeguata traccia di queste fondamentali attività. Occorre quindi l’identificazione previa di un set di indicatori conoscibili ed occorre rendere aperta ad una autentica partecipazione (sottraendola dunque alla sfera ‘tecnica’) l’attività di applicazione di tali indicatori ai suoli, onde rendere pienamente ripetibili (e dunque giustiziabili) i correlativi esiti. L’esame di taluni piani perequativi, specie nelle regioni in cui la classificazione non è espressamente prevista come una specifica fase, lascia invece sovente l’impressione che opzioni enfaticamente definite di perequazione ‘verso il basso’ o di fissazione di un indice assiomaticamente definito ‘equo’ riflettano decisioni politiche sempre a rischio di arbitrarietà, che sono ben lungi dal rappresentare un mero ‘riepilogo’ conseguente alla messa a fuoco su un piano oggettivo dei caratteri intinseci dell’armatura urbana. La democraticità (e la giustiziabilità) costituiscono invece complementi indissociabili del valore dell’equità applicato alla pianificazione. Al di là delle affermazioni di principio che si riscontrano in alcune leggi regionali, nel periodo più recente l’idea di una azione pianificatoria impiegata in chiave redistributiva ha subito un netto ridimensionamento e, con essa, è stato messo in discussione anche il modello della perequazione generalizzata (a cui peraltro pare guardare in controtendenza il Comune di Milano), conno-
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tato da dispositivi di scambio delle potenzialità edificatorie omogeneamente estesi sull’intero territorio comunale (trasformabile). Innumerevoli piani perequativi esprimono invece meccanismi di circolazione delle possibilità edificatorie circoscritti a taluni segmenti (anche discontinui) del territorio trasformabile. Si parla conseguentemente di perequazione parziale, nella quale il nesso con le politiche infrastrutturative è solitamente più evidente. All’affievolirsi delle suggestioni egualitarie, ha fatto da contrappunto - sempre sul piano dei valori - il rafforzamento della concezione secondo cui la spinta verso la revisione della pianificazione in senso perequativo-compensativo (la compensazione - come vedremo - ha nel frattempo conquistato uno statuto autonomo e riconoscibile) si ricollega strettamente all’esigenza di maggior effettività nella risposta alle questioni infrastrutturative ed ambientali (la costruzione-rafforzamento della ‘città pubblica’, costituita dalla maglia delle dotazioni territoriali, fra le quali vanno ricomprese anche le aree destinate al verde pubblico). Si tratta invero di un obiettivo strumentale, dietro il quale si staglia il valore (di derivazione comunitaria) della coesione sociale: le politiche infrastrutturative costituiscono infatti un mezzo per la realizzazione delle dotazioni territoriali essenziali per garantire alle diverse popolazioni urbane una adeguata offerta di prestazioni (di servizio pubblico ed ambientali) che valgano, per un verso, ad evitare situazioni di marginalità ed esclusione e, per altro verso, a consentire l’accesso generalizzato e non discriminatorio a risorse ambientali fondamentali. Ad un argomento etico si affianca quindi una istanza di efficienza. L'idea che la necessaria infrastrutturazione del territorio continui ad identificarsi con la sequenza vincolo-espropriolavoro pubblico è entrata da tempo irreversibilmente in crisi. Il fallimento di questo schema ottimistico, testimoniato dall'elevato numero di vincoli che le amministrazioni si trovavano sistematicamente a dover reiterare, costituisce uno dei più evidenti limiti dell'urbanistica tradizionale. La pianificazione in questi casi finisce per risolversi in un disegno ottativo del territorio, incapace di promuovere l’effettiva acquisizione dei beni a fruizione collettiva e la formazione delle strutture destinate all'erogazio-
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ne dei servizi pubblici. La riconsiderazione del modello di piano deriva oggi (anche e soprattutto) da una considerazione di ordine pratico: la politica infrastrutturativa sconta un grave deficit di effettività, a cui si può ovviare solo cercando di strutturare una corrispondenza diretta tra vicende edificatorie e formazione delle dotazioni territoriali ed una comunanza di interessi tra proprietari delle aree edificabili e proprietari delle aree destinate alla città pubblica. 4. La distinzione tra perequazione e compensazione e le figure ricorrenti L'urbanistica 'postvincolistica' si esprime attraverso schemi operativi tesi a stimolare una spontanea adesione dei proprietari all’attuazione della pianificazione, facendo coincidere il perseguimento di obiettivi egoistici (gli unici che essi sono razionalmente orientati a ricercare) con risultati di utilità pubblica. Al di là di questo denominatore comune, è tuttavia necessario segnare una distinzione tra situazioni urbanistiche diverse, corrispondenti ad istituti differenziati, ai quali – con tutta la stipulatività dei nomi – devono quindi essere attribuite etichette distintive proprie. Sin qui abbiamo parlato di perequazione e di compensazione senza segnare una distinzione tra queste due figure. Occorre ora fissare una linea discretiva di carattere strutturale tra perequazione e compensazione e, partendo da una accettabile tassonomia, cercare di classificare i molteplici modelli perequativi e compensativi che si registrano nella prassi. Sul piano ricostruttivo, di fronte ad una realtà tanto frastagliata, occorre raggruppare i diversi modelli riscontrabili nella prassi entro schemi di fondo che ne consentano – quanto meno – una più agevole confrontabilità. Parlare di perequazione tout court significa fare ricorso ad un iperonimo riferibile a tecniche profondamente eterogenee: il significante non corrisponde ad un significato preciso ed univoco, con la conseguenza che questa insufficiente pregnanza semantica finisce per lasciare in ombra le reali dinamiche della prassi pianificatoria. Va dunque superata l’idea che queste innovazioni si conformino ad un modello monolitico (‘la perequazione’), laddove sembra sicuramente più corretto parlare di ‘modelli perequativi’ al plurale (‘le perequazioni’). Eguale sforzo distintivo
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di impone anche con riferimento alla compensazione. Affinando ulteriormente la classificazione e cercando di ricondurre ad alcuni ‘tipi’ indicazioni eterogenee espresse da leggi e soprattutto da piani molto diversi tra loro, si possono isolare alcune situazioni ricorrenti. a. In un primo ordine di casi, il pianificatore si limita a garantire una equa ed estesa distribuzione dei vantaggi derivanti delle previsioni di edificabilità, mediante una omogenea attribuzione volumetrica tra i suoli su cui si concentreranno le trasformazioni ed aree che, pur connotate da un astratto statuto di trasformabilità (aree interstiziali, comprese nel perimetro dei tessuti consolidati, od aree perturbane di prima frangia), debbono restare immodificate per prevalenti ragioni di disegno urbanistico: in questi casi, trova spazio la figura più semplice (e primigenia) di perequazione, alla quale è sottesa unicamente un’istanza di giustizia distributiva e la ricerca di soluzioni conformative (densificazioni e, nel contempo, preservazione di suoli) condivise: in queste fattispecie, si può parlare di ‘perequazione urbanistica’ (o ‘pura’). b. In un secondo ordine di casi, il pianificatore, oltre a favorire la più ampia ed equa distribuzione dei vantaggi indotti dal piano, deve altresì farsi carico di talune previsioni infrastrutturative (acquisizione di aree senza esborsi a carico del comune): in queste fattispecie, trova spazio un diverso modello di perequazione, caratterizzato da possibilità edificatorie necessariamente più elevate rispetto al caso a), con dispiegamento dei volumi entro le aree di concentrazione e contestuale cessione delle superfici per la formazione della città pubblica a vantaggio del comune: in questo modello le logiche equitative e di conformazione condivisa sono consentanee rispetto all’istanza di effettività del programma infrastrutturativo: si parla in tali ipotesi (sicuramente le più diffuse) di perequazione infrastrutturale (o ‘con oneri di cessione’). c. In un terzo ordine di ipotesi, in sovrapposizione a quanto previsto nei modelli sopra descritti, il piano ‘riserva’ all’amministrazione comunale una frazione della volumetria concentrabile su specifici lotti (ad es., nei piani attuativi o nel recupero di opifici dismessi): il comune potrà poi cedere a titolo oneroso tale dotazione volumetrica ovvero
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impiegarla per scopi connessi al social housing: si parla in tali fattispecie (rispetto alla cui legittimità rimangono forti dubbi) di perequazione ‘con volumetria pubblica aggiuntiva’; d. In un quarto ordine di casi, il pianificatore affronta il problema dei ‘residui di piano’, ossia delle previsioni edificatorie inattuate espresse dal piano precedente e giudicate non confermabili: con l’intento di evitare drastiche soppressioni, si privilegia una ‘conversione’ di tali potenzialità in ‘diritti edificatori’ scambiabili; l’istituto si ricollega ad una tendenza (a volte criticabile) a ricercare il consenso dei destinatari anche ove l’amministrazione disporrebbe di alternative autoritative: questa soluzione infatti ha solamente l’effetto di orientare su aree meno ‘irrinunciabili’ l’atterraggio del carico insediativo ereditato da piani sovrabbondantemente dimensionati; in questi casi si persegue una sorta di equità intertemporale nella successione tra piani e si può parlare di perequazione ‘sui residui’; questo modello può avere una variante infrastrutturativa ove sia prevista la cessione al comune delle aree rese inedificabili; e. In un quinto ordine di casi, il pianificatore identifica nel piano (nella componente infrastrutturativa) segmenti di città pubblica di rango strategico primario, rispetto ai quali l’amministrazione non può rinunciare a priori al vincolo ed alla facoltà imperativa ed unilaterale di acquisizione coattiva delle aree; in queste fattispecie, si deve apporre il vincolo preespropriativo ed, entro il termine di cinque anni, fare ricorso all'espropriazione; viene tuttavia prevista la possibilità di ristoro del proprietario mediante attribuzione di ‘crediti compensativi’ in luogo dell’usuale indennizzo pecuniario; dietro questo modello campeggia una esigenza di effettività dell’azione infrastrutturativa: in questi casi si può pertinentemente parlare di compensazione infrastrutturativa. f. In un sesto ordine di fattispecie, il pianificatore cerca di rompere il tralatizio schema secondo cui il piano può produrre effetti solo de futuro con riferimento ai nuovi interventi, essendo privo di incidenza sui manufatti preesistenti: per contro, ove si configurino dei detrattori ambientali o paesaggistici (si pensi a manufatti in degrado od incongrui, in quanto suscettibili di snatu-
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rare la percezione di un luogo) si ritiene oggi possibile sollecitare (ed in alcuni casi imporre) azioni positive (dalla delocalizzazione alla riqualificazione), i cui oneri vengono integralmente compensati ancora una volta tramite l’attribuzione di ‘crediti compensativi’: in queste fattispecie si può pregnantemente parlare di compensazione paesaggisticoambientale. Da questa sintetica tipizzazione (che non ha alcuna pretesa di completezza, anche perché i diversi modelli sovente vengono impiegati in combinazione tra loro entro uno stesso piano) si possono trarre delle indicazioni di ordine generale. La perequazione, sovvertendo lo schema tradizionale, configura una autentica alternativa al vincolo: allarga il novero dei proprietari tra cui si distribuiscono i vantaggi e gli oneri indotti dal piano e poggia sul presupposto che tutti i proprietari coinvolti trovino razionalmente preferibile l’adesione alle decisioni sull’assetto territoriale. La compensazione ha invece un doppio volto: in alcuni casi si mantiene entro l’alveo della pianificazione tradizionale ed è finalizzata ad elidere le conseguenze pregiudizievoli che si manifestano ove resti necessario acquisire delle aree mediante vincolo-ablazione, in altri casi si pone al di fuori degli schemi usuali e diviene funzionale a garantire ristoro ad un proprietario a cui si richiede (od impone), un facere per ragioni paesaggistico-ambientali. La perequazione garantisce ai proprietari risultati che rendono comunque (anche dopo l’assolvimento degli oneri infrastrutturativi) vantaggiosa l’attuazione del piano, mentre la compensazione affronta in termini nuovi il problema degli effetti delle previsioni urbanistiche sfavorevoli, assegnando ai proprietari interessati da scelte pianificatorie di segno negativo (in funzione ablatoria o per l’eliminazione di ‘detrattori’ percettivi) una alternativa in valori urbanistici preferibile rispetto all’ordinario indennizzo pecuniario. Nella perequazione le previsioni pianificatorie profilano al proprietario una soluzione comunque vantaggiosa e la decisione di adesione rimane volontaria. La compensazione infrastrutturativa interviene invece in chiave indennitaria in presenza di incisioni autoritative su diritti, nell’ambito di fattispecie in cui ci si trova di fronte a situazioni in cui il
proprietario non può rifiutare di aderire alla previsione dettata dal piano, in quanto è posto di fronte ad una alternativa vincolistico-ablatoria; nella compensazione paesaggistica invece l’imposizione di interventi a carico dei privati è prevista più raramente: la compensazione funge da elemento volto a rendere economicamente neutra per i proprietari la decisione di conformazione – comunque quasi sempre volontaria – al piano: poiché un tale risultato può rivelarsi sub-ottimale rispetto alle preferenze dei proprietari, in queste fattispecie la compensazione è molto spesso associata a forme di incentivazione che riescono ad aggiungere un quid decisivo per rendere preferibile la soluzione di adeguamento a quanto profilato dal piano. 5. Gli oneri (non vincoli) perequativi Uno degli elementi su cui poggia la distinzione proposta tra perequazione e compensazione (infrastrutturativa) attiene alla natura delle previsioni pianificatorie aventi ad oggetto la cessione di aree all’amministrazione. Si tratta di un profilo decisivo per segnare il distacco della perequazione dal tradizionale schema vincolistico. Mediante l’apposizione di un 'peso' su un fondo entro un piano di matrice perequativa il pianificatore si limita a fissare un obiettivo (di pubblico interesse) a cui è condizionato il dispiegamento delle potenzialità attribuite ai proprietari. Le previsioni relative alla cessione di aree all’amministrazione in coincidenza con il dispiegamento delle potenzialità edificatorie sui fondi-accipienti non sono quindi da considerare vincoli in senso proprio. Il proprietario non subisce una iniziativa di matrice vincolistica: egli è tenuto a cedere l’area per la città pubblica solo contestualmente al dispiegamento delle potenzialità volumetriche (sulle aree di concentrazione), ossia nel momento in cui tutti i soggetti coinvolti sono nelle condizioni di ripartirsi privatamente tanto i vantaggi quanto gli oneri correlati all’attuazione dell’assetto prefigurato dal piano. Questa ripartizione, nei diversi modelli operativi della perequazione, avviene mediante negozi di ricomposizione fondiaria (ownership readjustment) ovvero mediante la circolazione di diritti edificatori (infra). I proprietari danno attuazione a quanto prefigurato dal piano solo ove percepisca-
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no tale soluzione come economicamente vantaggiosa, ad esito di una comparazione tra i vantaggi ritraibili dalla trasformazione dei fondi accipienti ed i costi derivanti dalla cessione al comune dei fondi-sorgente (svuotati dei correlativi diritti). L’operazione si presenta (e viene quindi percepita) come connotata da un bilancio positivo e non postula quindi una privazione per le parti che vi partecipano. Nella perequazione la cessione non è conseguenza dell’imperatività di un vincolo, bensì adempimento di un onere (con un ossimoro si è parlato di 'dovere libero', retto dal principio ‘se vuoi, devi’), la cui previsione nel piano va a modificare l’intima struttura giuridica della proprietà fondiaria, secondo un innovativo modello di conformazione che fa leva unicamente sulla spinta al perseguimento da parte dei proprietari dei vantaggi ritraibili dal piano, vantaggi che restano tali (pur risultando più ridotti) anche in presenza dell’onere. La più immediata conseguenza sul piano urbanistico di tale carattere del piano perequativo è che questo tipo di previsioni - come è stato chiarito anche dai giudici amministrativi liguri - non sono soggette a decadenza quinquennale. Il vincolo preespropriativo costituisce un 'peso esorbitante' per il proprietario che lo subisce: di lì la nota soluzione che rimonta alla teorizzazione sandulliana di prevederne la temporaneità in alternativa alla indennizzabilità. Gli 'oneri perequativi', al contrario, non costituiscono un carico esogeno compressivo della proprietà fondiaria: rappresentano piuttosto la componente infrastrutturativa passiva intrinseca alla articolata vicenda di dispiegamento della facoltà edificatoria attiva. In un piano perequativo il diritto di proprietà mantiene sempre una dimensione di segno positivo, ancorché lo sviluppo edificatorio sia condizionato all’assolvimento dell'onere di cessione. Questo giustifica la prescindibilità di un limite temporale. Attenendosi a questo schema di fondo, i giudici amministrativi hanno messo in guardia da ‘false perequazioni’, caratterizzate da indici troppo bassi per giustificare le cessioni richieste. L’equilibrio interno al diritto di proprietà in questi casi veniva sbilanciato dal peso soperchiante delle cessioni. Sarà quindi opportuno che i piani contengano delle schede di giustificazione economica degli scenari microeconomici pro-
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posti ai proprietari. I giudici amministrativi potranno quindi valutare tale dato non allo scopo di strutturare un sindacato di merito, ma al fine di verificare ab externo se ci si trovi effettivamente nel campo della perequazione, in cui - ritornando al principio di proporzionalità - l’attuazione del piano si denota sempre per costituire una scelta autonoma e vantaggiosa, comunque accrescitiva della sfera patrimoniale del proprietario. 6. La perequazione endoambito ed estesa Avendo ora riguardo alla struttura ed ai funzionamenti dei piani perequativi, è necessario introdurre una dicotomia ulteriore: sul piano gestionale, l’applicazione della perequazione (generalizzata o parziale) può avvenire infatti all’interno di ambiti o piani attuativi ovvero mediante la messa in circolazione dei diritti edificatori su tutta la porzione territoriale interessata dalla perequazione. Questa differente impostazione segna una netta divaricazione tra tipologie di piani definibili a pieno titolo perequativi. Schematizzando, e premettendo sempre che le denominazioni hanno valenza stipulativa, si può quindi parlare di perequazione endoambito e di perequazione diffusa. a. Il modello uniformemente profilato nelle leggi regionali è quello della perequazione endoambito, che trova applicazione entro piani attuativi variamente denominati (ambiti, piani attuativi, distretti della trasformazione, etc.) e, comunque, entro perimetri – anche discontinui - predeterminati dal piano. Il luogo di dispiegamento delle potenzialità volumetriche è dunque fissato ex ante dal pianificatore. Il meccanismo – in queste fattispecie – è relativamente semplice. Il piano comunale assegna una potenzialità volumetrica all’ambito nella sua interezza (previo 'scorporo' della volumetria degli eventuali edifici esistenti) ed è poi il piano attuativo a ripartire tra tutti i proprietari delle aree interessate dagli interventi le capacità edificatorie e gli oneri correlati alla formazione delle dotazioni territoriali. I proprietari coinvolti, prima della presentazione del piano attuativo, provvedono – in piena autonomia – a porre in essere una ricomposizione fondiaria (“La realizzazione degli interventi previsti nell’ambito soggetto a perequazione
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urbanistica presuppone la redazione di un piano di ricomposizione fondiaria comprendente permute o cessioni immobiliari tra tutti i soggetti aventi titolo, definito sulla base del progetto di dettaglio a fini esecutivi riferito all’intero ambito”). In questo modello l'elemento decisivo idoneo ad innescare la sequenza che porta al verificarsi dell’effetto perequativo è costituito dal vincolo di attuazione necessariamente unitaria (e di fatto contestuale) delle previsioni di piano.. Questa rigidità esogena ‘costringe’ infatti tutti i proprietari dei lotti compresi nell’ambito ad un atteggiamento cooperativo, pena la vanificazione di ogni previsione edificatoria (la ‘paralisi’ del piano attuativo). Questa cooperazione – come ormai chiaro – può verificarsi solo in presenza di una redistribuzione percepita come equa, in quanto rispettosa di un fattore distributivo condiviso da tutti i proprietari interessati. In questo modello la capacità edificatoria non è assegnata a singoli lotti edificabili, bensì all’ambito (solitamente sotto forma di indice territoriale) nella sua interezza, con la conseguenza che non sono configurabili proprietari avvantaggiati e proprietari svantaggiati dal piano, ma solo soggetti coinvolti in una vicenda attuativa a cooperazione necessaria. A rendere indifferente la collocazione dello standard è l’essenzialità dell’adempimento dell’onere di cessione: in carenza di tale cessione nessuna area sarà materialmente trasformabile e quindi nessun proprietario potrà assumere un atteggiamento predatorio. Il fattore distributivo, vettore di equità, è rappresentato unicamente dall’incidenza percentuale delle aree riferibili a ciascun proprietario rispetto alla superficie complessiva dell’ambito e non dal carattere edificatorio delle stesse: sul punto intervenuto anche il Tar Lombardia, sez. Brescia, affermando che "è conforme agli obiettivi ed alla tecnica della perequazione urbanistica, nonché ai principi costituzionali in materia di tutela della proprietà privata che, in applicazione del principio della perequazione, i benefici e gli oneri derivanti dalla pianificazione vengano distribuiti in modo rigidamente proporzionale alla consistenza ed estensione delle singole proprietà". b. La perequazione estesa, alla quale si riferisce in termini veramente espliciti solo la legge urbanistica lombarda,
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ma che trova un certo numero di applicazioni in piani anche di altre regioni, si innerva su un innovativo principio di smaterializzazione della dotazione volumetrica assegnata ad un fondosorgente sotto forma di ‘diritto edificatorio’ cedibile a titolo oneroso. Il dispiegamento del diritto edificatorio assegnato ad un'area che il pianificatore non consente venga trasformata può avvenire su uno qualsiasi dei molteplici fondi-accipienti previsti dal piano quali aree di concentrazione necessaria. La vicenda di attuazione del piano si frammenta in una teoria di iniziative individuali. Il piano si limita a prefigurare due macro-categorie di fondi ed è lasciata all’iniziativa individuale (al mercato, si potrebbe dire, senza ascrivere a questo termine alcuna accezione valoriale) l’individuazione delle possibili soluzioni di atterraggio: il piano si astiene dunque dal predeterminare la destinazione puntuale dei diritti edificatori, limitandosi a prevedere che ogni trasformazione sia il risultato di un ‘atterraggio’ di diritti edificatori esogeni che si saldano alla (eventuale) dotazione intrinseca del fondo-accipiente (comunque insufficiente a consentire la trasformazione dell’area). Questo schema risulta quindi molto diverso non solo da un piano tradizionale ma anche dal mainstream perequativo diffusosi in questi anni. Dovendo regolamentare scambi tra quadranti territoriali con accentuate differenze morfologiche, questo tipo di piani devono necessariamente prevedere dei ‘coefficienti di ponderazione’ sotto forma di indici fondiari differenziati, legati alle destinazioni concretamente insediabili ed alle differenze di posizione tra le diverse aree di atterraggio. Questa fondamentale operazione, che si sostanzia nell'attribuzione di una consistenza differenziata ai diritti edificatori in ragione dell’area di atterraggio, è consentanea alla classificazione dei suoli che precede l’attribuzione del diritto edificatorio e serve a preservare il principio di eguaglianza in un orizzonte di circolazione dei titoli volumetrici in contesti molto eterogenei. Va aggiunto che la perequazione estesa istituisce un dinamismo aperto, che non contempla vincoli di contestualità rispetto a specifiche vicende attuative (come accade invece negli ambiti e nei piani attuativi). Un piano così impostato massimizza la libertà dei proprie-
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tari e in tal modo tende ad assecondare (anziché ingabbiare) i processi complessi che regolano i ritmi e gli itinerari di sviluppo di una città. Un piano di questa matrice è destinato a dare risultati organici in un torno di anni non breve: va infatti messo in conto che l’attuazione proceda inevitabilmente per frammenti, come in una sorta di macro -mosaico. In questa prospettiva si rafforza il ruolo della funzione di disegno territoriale. Il piano deve esprimere soluzioni ‘modulari’ per la strutturazione di un assetto urbano funzionale ma, d'altro canto, non deve vincolare eccessivamente il ventaglio delle possibilità di negoziazione tra i proprietari (non deve cioè predeterminare rigidamente l’ambito di possibile atterraggio di ciascun diritto edificatorio), onde scongiurare il manifestarsi delle tipiche 'patologie del mercato' (monopolio, dipendenza, atteggiamenti predatori) che diverrebbero esiziali fattori di inceppamento del modello. Si può parlare di un ‘mercato’ dei titoli volumetrici, nel quale ciascun proprietario (tanto chi disponga di un fondo-accipiente, tanto chi sia titolare di diritti edificatori esportabili) deve poter immediatamente identificare un numero elevato di potenziali interlocutori (anzi proprio la ristrettezza ed asfitticità di questo ‘mercato’ finirebbe per far fallire il modello). Vedremo più avanti come questi titoli circolino in forme non dissimili da quelle tipiche dei titoli di credito. In qualche piano di comuni più piccoli, in cui l’amministrazione assume unicamente l’obiettivo di non superare una certa soglia di densità, si profila addirittura la possibilità riconoscere margini di autonomia ancor maggiori ai privati, lasciando ai proprietari l’opzione circa la valenza quale fondo-sorgente od accipiente della rispettiva area. In altre realtà ove la perequazione serve a garantire la formazione di vaste aree a parco pubblico (come a Bergamo) i fondisorgente rimangono invece rigidamente identificati in coincidenza con i perimetri dei futuri parchi, che si formeranno progressivamente (nella logica del mosaico), in seguito alla sequenza di cessioni che si perfezioneranno nell’arco temporale di efficacia del piano (come, del resto è accaduto nel caso – assai noto – della ‘cintura verde’ di Ravenna).
7. La circolazione dei titoli volumetrici Nei diversi modelli perequativi il perseguimento di significativi interessi pubblici viene a coincidere con il soddisfacimento degli obiettivi egoistici autonomamente assunti dai proprietari. Il risultato della funzione infrastrutturativa viene direttamente collegato all’efficiente funzionamento della perequazione: va quindi attentamente vagliato il rischio che tali programmi rimangano privi di attuazione in ragione del mancato accordo cooperativo tra i proprietari. Se nella perequazione qui definita urbanistica ciò non avrebbe rilevanti implicazioni (al più, tanto i fondisorgente quanto quelli accipienti resterebbero inedificati), il fallimento della perequazione infrastrutturativa e della compensazione postulerebbe invece l’inattuazione delle opere essenziali per l'erogazione dei servizi pubblici e la frustrazione della garanzia di accesso generalizzato a beni pubblici: fallimenti che lascerebbero dunque residuare rilevanti costi sociali. L’amministrazione, a differenza del passato, non può quindi disinteressarsi dell’attuazione del piano. Questa costituisce un’altra rilevante novità. Un piano perequativo assume dunque una struttura tipicamente processuale (specie nelle regioni in cui il piano si divide in una componente strutturale ed in una operativa, approvate con un significativo scarto temporale), che vede l’amministrazione coinvolta in azioni pro -attive tese alla agevolazionesollecitazione delle vicende attuative in quanto direttamente interessata in un’ottica di risultato. L’amministrazione svolge quindi una funzione di regolazione finalisticamente orientata alla massima efficienza (intesa come allocazione dei titoli volumetrici e delle possibilità edificatorie nelle mani dei soggetti interessati al loro sfruttamento). I problemi si pongono – come detto – soprattutto con riferimento alla perequazione estesa e nella compensazione (infra), ossia nelle fattispecie in cui sia prevista la circolazione di titoli volumetrici. Per limitare i rischi di fallimento di questi dispositivi occorre rafforzare i dispositivi di scambio mediante norme che cercano di rispondere ad una duplice esigenza: a. far assumere all’amministrazione un ruolo pro-attivo nel favorire l’incontro tra la domanda e l’offerta di titoli volumetrici; b. garantire certezza nei negozi giuridici perequativi.
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Sul primo versante qualche legge regionale (Basilicata, Veneto) ha previsto che il comune si faccia garante della struttura efficiente del mercato dei diritti edificatori mediante un sistema di aste 'amministrate': si fa quindi leva sulla valenza che assume la garanzia derivante dalla presenza dell'amministrazione nell'ambito delle trattative tra i proprietari e tra questi ed eventuali terzi interessati ad acquisire fondi e/o diritti edificatori. Sovente si organizzano delle sessioni aperte, precedute da avvisi pubblici, nelle quali domanda ed offerta possano venire contestualmente a galla con la desiderabile chiarezza e con il vantaggio di una piena confrontabilità. A Milano, ove ci si accinge a varare un piano di governo del territorio imperniato su una forma di perequazione estesa, sulla scia delle esperienze nordamericane, proprio in quest’ottica, si sta lavorando alla strutturazione di una ‘borsa’ (luogo per antonomasia dell’incontro tra domanda ed offerta) dei titoli volumetrici, mentre in Veneto, si pensa ad un intervento di mediazione tramite una società pubblica (Veneto scambi s.p.a.). Ulteriori forme di enforcing più strettamente urbanistiche sono peraltro le più varie: in questa direzione si potrebbe ipotizzare, per fare un esempio concreto, che il piano assegni indici perequativi destinati a mantenere efficacia solo per un periodo limitato di tempo, oppure indici che diminuiscano progressivamente decorso un primo triennio (cd. allineamento: applicabile soprattutto in presenza di ‘residui’, ingombrante lascito di un precedente PRG). Sul secondo versante altre leggi (Veneto e Lombardia) hanno previsto che il comune gestisca un ‘registro dei diritti (e crediti) edificatori’. I comuni devono supplire ad un sistema pubblicitario storicamente pensato solo per l’annotazione dei negozi su diritti reali (che non consente quindi la trascrivibilità dei negozi aventi ad oggetto titoli volumetrici). Al bisogno di certezze reclamate da questi particolari mercati urbanistici si cerca quindi di rispondere mediante la costituzione di un 'registro comunale nel quale vengono annotati, dopo l’assegnazione, i diritti edificatori ed i crediti compensativi e le correlative vicende di circolazione. dei diritti (e crediti) edificatori'. Un tale registro può tuttavia assumere anche una funzione di volano delle negoziazioni: basti pen-
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sare alle forme di pubblicizzazione in rete delle disponibilità attuali di titoli volumetrici ‘alla ricerca di atterraggio’. Il problema della circolazione dei titoli volumetrici si lega anche alla struttura dei negozi giuridici che hanno ad oggetto questa innovativa tipologia di ‘beni urbanistici’ generati dalla decisione di piano. Nella perequazione estesa e nella compensazione e, comunque, in tutte le vicende di 'scorporo' della dotazione volumetrica di un fondo a vantaggio di soggetti non proprietari dell’area, il titolo di legittimazione (diritto edificatorio; credito compensativo) dovrebbe essere espresso – come detto - da una 'scheda' rilasciata dall'amministrazione comunale (una sorta di certificato di destinazione urbanistica, trasferibile e cedibile, secondo la logica dei titoli di credito, a mo' di cartula, corrispondente alle annotazioni sull’apposito registro comunale), idonea ad assicurare la necessaria certezza in ogni contesto negoziale; inoltre tale scheda dovrebbe indicare la consistenza effettiva e gli oneri a cui è condizionato il dispiegamento del diritto edificatorio. Al fine di rendere 'fluida' la negoziazione dei diritti edificatori, si deve necessariamente guardare – come detto - alle logiche che caratterizzano la circolazione dei titoli di credito. Si è sovente parlato di ‘smaterializzazione’ dello ius aedificandi facendo riferimento alla caratteristica vicenda di scorporo della volumetria dal fondo a cui è stata assegnata e di messa in circolazione della stessa alla stregua di un (nuovo ed autonomo) bene, di natura non reale (superando in tal modo il problema del numero chiuso dei diritti reali). Non v’è dubbio che una tale concezione ponga una serie di problemi che toccano direttamente il diritto privato e la struttura del diritto di proprietà: si tratta quindi di profili sui quali dovrebbe intervenire il legislatore statale. E’ tuttavia un fatto che di questi strumenti si stia cominciando a fare uso e che occorra strutturare dei modelli giuridici utili nella prassi. La circolazione del titolo volumetrico (il ‘volo’, secondo alcuni) può seguire due itinerari. In comuni più piccoli si tratterà di vicende bilaterali, nelle quali (art. 1260 c.c.) la pretesa qualificata nei confronti dell’amministrazione comunale ad ottenere il dispiegamento dell’attribuzione volumetrica verrà scambiata direttamente tra il proprietario del fondosorgente ed il titolare del fondo-
accipiente (magari entro la cornice di un accordo che veda la ‘presa d’atto’ dell’amministrazione). In realtà territoriali di maggior complessità è invece preferibile che un documento (nella logica dei titoli di credito, appunto) ‘incorpori’ tale pretesa e possa così circolare con la massima fluidità, anche in forza della ‘astrattezza’ del titolo rispetto alle vicende contrattuali sottostanti. Non si dovrebbe escludere, ad esempio, che il diritto edificatorio venga scambiato in seguito a delle 'girate' (annotabili nel registro comunale). Il problema della letteralità, ossia della esatta corrispondenza tra quanto indicato nel titolo e l’attribuzione volumetrica effettuata dall’amministrazione, si risolverebbe mediante la stampa da parte dell’amministrazione medesima della cartula (documento immodificabile da parte dei privati) ed il titolo circolerebbe secondo le regole proprie dei beni mobili (possesso vale titolo). Si tratterebbe di un titolo ‘rappresentativo’ (come la fede di deposito: art. 1996 c.c.) di una grandezza volumetrica assegnata dal piano e la gestione ‘borsistica’ o comunque accentrata presso l’amministrazione comunale (cd. dematerializzazione del titolo) consentirebbe di evitare molte delle incertezze che potrebbero frenarne la circolazione. Al momento della richiesta del permesso di costruire, l’amministrazione avrebbe poi la possibilità di verificare che il presentatore del titolo sia effettivamente il soggetto legittimato – sulla base di validi negozi attributivi – ad utilizzare tale dotazione volumetrica. La vicenda circolatoria tuttavia si complica non poco ove sia prevista la cessione al comune del fondosorgente: in tal caso, la circolazione per girate continue del titolo espressivo del diritto edificatorio deve comunque essere accompagnata da un impegno contrattuale idoneo a garantire che – al momento dell’ ‘atterraggio’ del diritto edificatorio – intervenga effettivamente la contestuale cessione al comune del fondo destinato alla città pubblica da parte dell’originario titolare dello stesso. Il ‘diritto’ allo sfruttamento della volumetria incorporato nel titolo non può infatti dispiegarsi disgiuntamente dall’adempi-mento dell’onere di cessione. La circolazione su larghissima scala dei diritti edificatori, ossia ad una scala ove non siano sempre possibili accordi
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plurilaterali che vedano direttamente coinvolta l’amministrazione-garante, pongono quindi una serie di problemi giuridici – in primo luogo sul versante del rispetto del principio di legalità (l’art. 2001, II comma, c.c. fa riferimento alla legge quale fonte esclusiva della disciplina dei titolo di credito ‘pubblici’) - non ancora sufficientemente indagati, specie con riferimento alla perequazione infrastrutturativa, problemi a cui – nel perdurante silenzio del legislatore nazionale - i registri dei diritti edificatori comunali possono offrire soluzioni comunque solo parziali. 8. Le logiche della scelta individuale Se la pianificazione deve dettare le condizioni per l'adesione 'spontaneamente interessata' di tutti i proprietari, è opportuno che il piano si corredi di schede recanti simulazioni di scenari condotte facendo ricorso anche al sofisticato apparato logicomatematico che va sotto l’etichetta di ‘teoria dei giochi’: è infatti decisivo 'modellizzare' le condotte dei proprietari, che si prestano ad essere paragonati ad attori razionali (giocatori). In un ‘gioco’ cooperativo, indici troppo bassi, zone di concentrazione volumetrica troppo ristrette, incertezza nei negozi giuridici privatistici sottesi all’attuazione del piano od altre rigidità potrebbero rivelarsi premessa di posizionamenti non convergenti dei privati. All’attuazione della perequazione – specie quella endoambito - è sotteso un accordo cooperativo tra più proprietari: dal raggiungimento di questo accordo multisoggettivo tutti i proprietari ritraggono un guadagno. La funzione di utilità di ciascun giocatore è quindi massimizzata dall'accordo ed una condotta predatoria od opportunistica nei confronti degli altri proprietari non garantirebbe alcun vantaggio. Occorre quindi che i proprietari mettano debitamente a fuoco che stare fuori dalla coalizione generalizza semplicemente la perdita e non rende nulla al singolo. Lo snodo cruciale è quindi costituito dall'efficienza decisionale e dall’ordine delle preferenze degli attori coinvolti. La calibratura di tutti i profili che compongono la previsione perequativa deve tuttavia prefigurare una situazione di 'ottimo' (detta 'equilibrio di Nash'), nella quale tutti i proprietari ricavano un vantaggio (pay-off) dall'adesione alla proposta attuativa maggiore rispetto a
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quello (pari a zero) che perseguirebbero rimanendo isolati ‘sabotatori’ dell’iniziativa. Le coalizioni che si formeranno saranno in tal caso tendenzialmente stabili: nessuno dei concorrenti ha infatti interesse ad uscirne in quanto non troverebbe altrove condizioni di valorizzazione del proprio fondo od altre soluzioni di atterraggio del proprio diritto (o credito) edificatorio. Si tratta di circostanze decisamente ottimali, che - almeno in astratto - dovrebbero sempre decretare il successo di questa formula. La realtà è tuttavia ben più complessa ed i proprietari (specie quando non si tratta di operatori economici) non sempre rispondono alla stregua di decisori razionali. Occorre allora spostare l'attenzione sull'efficienza di enforcing delle regole procedurali e sulla loro effettiva attitudine a stimolare la cooperazione (e quindi, prima ancora, a far emergere la razionalità) dei proprietari. Le disposizioni contenute nelle leggi regionali - in questa prospettiva – costituiscono, nell'immaginifico vocabolario della teoria dei giochi, la game form (la regola del gioco). Una regola decisiva è quella secondo cui la maggioranza (assoluta o qualificata) del valore catastale può proporre il piano attuativo (entro cui si attua la perequazione endoambito) e chiedere l'esproprio delle aree dei proprietari non cooperanti (evento non usuale ma possibile, almeno secondo alcune leggi regionali che richiamano la disposizione espressa dalla l. 166/2002 e comunque prefigurato anche nella disciplina del comparto). La sottrazione del potere di veto ad una minoranza è importante soprattutto per l’effetto di deterrenza che produce, con il risultato di stimolare, sovente attorno ad un play maker, il coagularsi di coalizioni stabili. Sul piano concettuale, la perequazione richiama implicitamente il teorema elaborato sin dagli anni sessanta dall'economista R. Coase, secondo cui (in condizioni ottimali) la disponibilità a pagare il prezzo più alto da parte del soggetto interessato a perseguire la forma di sfruttamento più efficiente dei beni dovrebbe comunque portare alla allocazione più efficiente dei beni. Questa fondamentale teorizzazione (qui fortemente semplificata sino al limite della banalizzazione) descrive solo il risultato finale di un processo e non dice nulla circa le condizioni che devono verificarsi affinché la sequenza si inneschi effettiva-
mente. In particolare, va considerato che - sempre sul piano della razionalità decisionale - l'adesione del proprietari interviene solo a condizione che siano vantaggiosamente sostenibili i cd. ‘costi di transazione’ (che si sommano a quelli derivanti dall’adempimento degli oneri di cessione). Nella perequazione estesa si deve strutturare un particolare mercato avente ad oggetto aree e diritti edificatori. Nella perequazione endoambito la perequazione presuppone ricomposizioni fondiarie’: si attua cioè tramite una serie di negozi giuridici che hanno direttamente ad oggetto beni fondiari; la riflessione su vicende contrattuali simili a quelle che connotano la perequazione è tuttavia sostanzialmente ferma agli studi sul contratto di cessione di volumetria (o di cubatura), nell'ambito dei quali - peraltro - non si sono raggiunti risultati conclusivi. La circolazione dei diritti edificatori nella perequazione estesa secondo le forme tipiche dei titoli di credito sconta un carico fiscale ancora non precisamente determinato e solo impropriamente determinabile per inferenza rispetto alla circolazione di beni immobiliari. La questione del carico fiscale che i privati devono sostenere in tutte queste (diverse) ipotesi diviene quindi assai rilevante, non solo in termini generali di equità del prelievo tributario, ma per i riflessi che la fiscalità determina sull’attuabilità delle previsioni di piano. Maggiore è il carico fiscale, minore è infatti la possibilità che il proprietario aderisca alla proposta di ricomposizione fondiaria (o di cessione del titolo volumetrico), salvo che non venga correlativamente innalzata la potenzialità volumetrica complessivamente perseguibile. L'amministrazione comunale, in altre parole, dovrebbe intervenire con un incentivo assai oneroso per la collettività (l'innalzamento della dotazione volumetrica, con tutte le conseguenti implicazioni sul piano della sostenibilità) per bilanciare gli effetti di un costo di transazione indotto dalle scelte di altri livelli di governo (dai quali dipendono in maniera esclusiva le politiche fiscali sulla circolazione dei diritti reali). Raccogliendo l'eco del dibattito che si è acceso negli ultimi anni attorno a questa decisiva questione, il legislatore nazionale è intervenuto ed ha limitato (da ultimo con l’art. 1, comma XXV, della l. 244/2007) all'1 % l'aliquota della imposta di registro ed ha sottoposto alle imposte catastali e ipotecarie in misura
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fissa i trasferimenti che riguardino beni immobili ricompresi in ambiti pianificatori esecutivi (id est piani attuativi perequativi). La conseguenza (sino ad ora rimasta in ombra) di questa drastica riduzione dei costi di transazione è rappresentata da un significativo ribasso della soglia di pareggiamento costivantaggio per i proprietari che consente ai comuni di assegnare potenzialità volumetriche più contenute e dunque maggiormente sostenibili sul piano ambiental-territoriale, aprendo spazi ad una autentica perequazione 'verso il basso'. 9. La compensazione infrastrutturale e paesaggistico-ambientale La possibilità di introdurre nel piano la perequazione rimane strutturalmente condizionata al ricorrere di precise condizioni spaziali, non sempre verificabili. Per quanto, sulla scia delle possibilità aperte dalle leggi regionali si possa parlare anche di 'comparti discontinui' connotati da receiving areas non attigue a quelle che producono i diritti edificatori (sending areas) e sia stata introdotta la perequazione estesa, l'applicazione di questi modelli non è sempre possibile, specie nei tessuti della città consolidata. Nei piani, anche in quelli di più moderna concezione, si continua a prevedere in molti casi (anche in abbinamento con la perequazione parziale) il ricorso al vincolo preespropriativo ed, entro il termine di cinque anni, il ricorso all'espropriazione. Anche in relazione a queste fattispecie la legislazione regionale è comunque intervenuta segnando – come si è visto - una netta ed autentica discontinuità rispetto agli schemi tralatizi. L’idea di fondo è nel senso di evitare che la vicenda ablatoria si risolva per il privato unicamente in un impoverimento, tanto da indurre il destinatario ad opporsi strenuamente (anche in via giurisdizionale) alle pubbliche iniziative che incidono così negativamente sulla sua sfera patrimoniale. Per perseguire questo obiettivo, a cui si lega direttamente l'effettività dei processi di formazione della città pubblica, è stato introdotto come detto - l'istituto della compensazione infrastrutturativa. Anche in questi casi la funzione precipua dell'amministrazione non è quella di esercitare l'autorità, quanto piuttosto quella di incentivare la decisione razionale del pri-
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vato verso la cessione bonaria, in una logica dietro la quale si riaffaccia quella microeconomia urbanistica entro cui proprio come nella perequazione - rivestono un ruolo fondamentale approcci neocomportamentali e modelli di formazione delle preferenze individuali. Al proprietario del terreno gravato da un vincolo è assicurata – per effetto di alcune norme regionali (Emilia Romagna, Toscana, Puglia, Umbria, Veneto, Lombardia, Friuli V. G., Provincia di Trento) - una utilità costituita da altre aree edificabili o da crediti compensativi trasferibili (in Veneto altrimenti definiti 'crediti edilizi'). Questa tendenza., del resto, ha le sue radici dirette nella sollecitazione formulata dalla Corte costituzionale nella fondamentale sentenza 179/1999. Ancora un volta sono le ragioni dell’efficienza, più che un ripensamento valoriale del rapporto proprietà-potere amministrativo, ad imporre soluzioni compensative alternative all’esproprio. Guardando alla compensazione, va sottolineata l’innovazione dalla possibilità di corrispondere l'indennizzo mediante una atipica datio in solutum ad effetti non reali (che non si sostanza cioè nell’attribuzione di un bene, bensì di un ‘credito compensativo’). L’effettività della funzione infrastrutturativa si ricollega direttamente alla percezione che il proprietario si forma circa la concretezza delle possibilità di futuro ‘atterraggio’ di tale credito compensativo. Il soddisfacimento della pretesa indennitaria – come si è detto – viene infatti differito al momento (incerto) in cui l’attributario del credito dispiegherà personalmente tale capacità volumetrica su un fondoaccipiente o, più frequentemente, un altro privato, acquisendo a titolo oneroso il credito compensativo (tramite ‘girata’ del correlativo titolo), garantirà al proprietario ablato il controvalore del fondo. Quest’ultimo soggetto è quindi posto di fronte all’alternativa tra preferire la immediata liquidazione dell’indennizzo in denaro (il che rimetterebbe l’amministrazione di fronte alla propria endemica penuria di risorse finanziarie) oppure accettare il credito ed il conseguente differimento della percezione del controvalore riferito al fondo che egli cede anticipatamente. L’offerta di crediti compensativi va quindi accompagnata da meccanismi di atterraggio preferenziale e prioritario dei suddetti crediti rispetto ai diritti edifica-
tori. In altre parole, sarebbe fortemente penalizzante che si lasciasse residuare una sorta di concorrenza tra le due tipologie di titoli volumetrici scambiabili, facendoli convergere in un unico mercato: poiché i diritti edificatori vengono assegnati al momento dell’entrata in vigore del piano, mentre i crediti compensativi si manifestano in una fase necessariamente successiva (in seguito alla cessione dell’area al comune: infra), vi è il rischio che in tale momento le possibilità di atterraggio si siano ormai fortemente ridotte. Occorre quindi prevedere una sorta di ‘riserva’ di atterraggio; i permessi di costruire rilasciabili sui fondi-accipenti dovranno presupporre l’allegazione di una certa aliquota volumetrica prodotta da crediti compensativi (e non solo da diritti edificatori): si indice così una domanda di titoli volumetrici orientata preferenzialmente ai crediti compensativi, dal cui effettivo atterraggio dipende la formazione di segmenti strategici della città pubblica. E’ inoltre possibile che i registri dei diritti e crediti edificatori prevedano la possibilità di una ‘iscrizione anticipata’: il credito – pur venendo assegnato solo in seguito alla cessione del terreno all’amministrazione – potrebbe essere iscritto in una sezione speciale del registro sin dalla fase di apposizione del vincolo. In tal modo, i proprietari dei fondi-accipenti (e dei promotori immobiliari) avrebbero la possibilità, sin dall’entrata in vigore del piano, di sollecitare la circolazione del credito: la pressione della domanda fungerebbe da volano dell’intero sistema. Tornando alla disciplina sostanziale dell'espropriazione, anche se dopo l’intervento della Corte costituzionale e del legislatore nazionale la forbice si è molto ridotta, tra la soluzione espropriativa e quella compensativa rimane una differenza quantitativa: la compensazione comporta l’attribuzione al proprietario di aree o crediti di valore pari a quello del fondo espropriato. Alcune regioni (Puglia e Toscana) avevano originariamente previsto una attribuzione compensativa "in luogo dell'indennità spettante per l'espropriazione" (indennità che, anche dopo la sentenza C. cost. 348/2007, si mantiene in alcune fattispecie per un 25 % inferiore al valore venale del bene espropriato: cfr. art. 2, comma 89, l. 24 dicembre 2007, n. 244), mentre altre
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regioni (Lombardia, Veneto), già prima dei ‘sommovimenti’ del 2007, avevano fatto direttamente riferimento al valore venale quale unico possibile controvalore. L’introduzione della compensazione, già prima dei più recenti arresti della Corte costituzionale, aveva messo a fuoco i tratti di un diritto di proprietà insuscettibile di compressioni anche di fronte al potere espropriativo. Nel complesso, si è in presenza di un ripensamento radicale dell’espropriazione, che riporta alle origini di questo istituto. Secondo l'art. 39 della l. 25 giugno 1865, n. 2359, l'indennità dovuta consisteva "nel giusto prezzo che, a giudizio dei periti, avrebbe avuto l'immobile in una libera contrattazione di compra e vendita": questa posizione era coerente con le indicazioni derivanti dall'art. 29 dello Statuto Albertino e con l'art. 438 del codice civile del 1865 ed aveva indotto la dottrina dell’epoca - - a ricostruire l'istituto espropriativo alla stregua di un "fenomeno giuridico di conversione … non di sottrazione di diritti", con la conseguenza che "l'indennità esplicitamente contemplata dalla presente disposizione è il risarcimento obbiettivo consistente nel giusto prezzo dell'immobile espropriato". La pubblica utilità fungeva unicamente da necessaria giustificazione causale entro una vicenda di matrice propriamente contrattuale. Se il potere amministrativo teneva luogo del consenso del proprietario, restava fermo l’obbligo (una vera e propria obbligazione) dell'amministrazione di corrispondere una somma pari al prezzo di mercato. Tuttavia già con la legge 15 gennaio 1885, n. 2892, si affacciò il diverso principio secondo cui l'indennità di esproprio poteva essere sganciata dal giusto prezzo di mercato. L'indennità poteva dunque essere quantificata secondo un canone normativo, derivante dalla media del valore venale e dei fitti coacervati nell'ultimo decennio. Questa modalità di determinazione dell'indennità di esproprio, introdotta per facilitare 'il risanamento della città di Napoli' (il cui centro densamente abitato necessitava di interventi di 'sventramento' atti a porre rimedio all'insalubrità che aveva favorito la devastante epidemia colerica del 1884), verrà ripresa nella importante legge 7 luglio 1907, n. 429, sulle espropriazioni per opere ferroviarie e nelle succes-
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sive leggi di approvazione dei piani urbanistici delle principali città. Di lì, attraverso vicende che qui non è il caso di riassumere, giungerà di fatto sino alla stagione del presente. Il d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, nella sostanza, si era infatti mantenuto aderente a questa impostazione di fondo e solo l’impatto della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha determinato lo scardinamento di questo paradigma. La compensazione esprime – anche semanticamente – l’immagine di una mera conversione del diritto di proprietà (una emptio ab invito) in una diversa utilità di matrice urbanistica, la cui attribuzione preserva tuttavia – dal punto di vista quantitativo – l’integrità patrimoniale del proprietario. L'introduzione della compensazione quale metodo destinato a prendere il posto dell'espropriazione si configura quindi come un definitivo superamento dell’antica tradizione giuridica italiana e pare far recedere sullo sfondo i contenuti sociali che secondo la Costituzione temperano la pienezza della situazione proprietaria. Nella frizione tra questi due valori nella legislazione regionale viene infatti la consistenza patrimoniale del diritto proprietario viene assunta in guisa di un valore intangibile, rispetto al quale non sono ammessi bilanciamenti. Si aprono inoltre dei problemi sul piano applicativo. Le discipline regionali e pressochè tutti i piani omettono ogni indicazione circa le forme e la natura giuridica che dovrà assumere l'atto di offerta al privato (non è detto, ed esempio, in quale fase del procedimento espropriativo tale atto dovrà intervenire, con quali garanzie per il privato, con quali conseguenze in caso di legittimo rifiuto da parte di quest'ultimo nell’eventualità di proposta incongrua). Vi è poi una serie di questioni che si legano alla mancata generalizzazione di questo strumento. In difetto di una rigorosa gerarchizzazione delle priorità infrastrutturative, sulla base di quali criteri si selezioneranno i casi meritevoli di compensazione, creando inevitabili disparità tra due categorie di proprietari: i 'cessionari-compensati' e gli 'espropriati-indennizzati'? L'aporia sta a monte: trattandosi di decisione produttiva di effetti sul versante dell’uguaglianza tra i proprietari, pare strutturalmente incongrua l’attribuzione di un potere discrezionale all'ammini-
strazione. Ed ancora, quali responsabilità assumerà il funzionario comunale che acceda ad una soluzione compensativa, comunque più onerosa per la collettività (in termini di consumo di suoli) rispetto ad una ordinaria procedura espropriativa finanziata con le risorse fiscali? Se la compensazione costituisce espressione di una decisione dai margini così ampiamente discrezionali (al limite della potestatività), appare davvero arduo configurare un modello di tutela. Si ripropone dunque il tema della ricostruzione di un adeguato sistema di garanzie a fronte della nuove forme che assume l’attività di governo del territorio. Mediante la compensazione si prefigura uno schema 'forte' della proprietà, ma l'urbanistica che persegua una maggior effettività del piano non può continuare a recepire alla stregua di un a priori intangibile le tracce più ingombranti di un modello insediativi inflativo e dozzinale sedimentatesi nel tempo. Nel punto di snodo in cui il governo del territorio converge con l’espressione più avanzata della disciplina paesaggistica, viene in gioco una diversa forma di compensazione (spesso applicata – come detto - in combinazione con forme di incentivazione). Anche l’obiettivo della rimozione dei manufatti incongrui si persegue stimolando l'iniziativa dei privati a muoversi nella direzione indicata dal piano, creando cioè le condizioni affinché i detrattori percettivi vengano eliminati. Alcune regioni (Calabria, Veneto, Umbria) prevedono espressamente che il proprietario possa essere gravato da obbligazioni di facere (in alcuni casi si tratta di sollecitazioni, in altri casi vere e proprie imposizioni, che appartengono alla categoria degli ordini), la cui legittimità si correla direttamente all’attribuzione di 'crediti compensativi' idonei a ristorare pienamente i proprietari dagli oneri esorbitanti di riqualificazione urbana. Si è detto che sovente la previsione di ‘premi volumetrici’ è considerata sufficiente a garantire che le indicazioni del piano assumano concretezza. Ma il nuovo diritto urbanistico regionale non mostra unicamente questo volto 'mite'. Talune leggi regionali contemplano - quale extrema ratio - l'esproprio. L'espropriazione-compensazione, fallito ogni altro strumento di incentivazione, può dunque costituire lo strumento di cui si profila l'impiego per l’eliminazione delle
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"costruzioni e degli esiti di interventi … che per impatto visivo, per dimensioni planivolumetriche o per caratteristiche tipologiche e funzionali, alterano in modo permanente l'identità storica, culturale o paesaggistica dei luoghi" o ancora, - come prevede una legge lombarda - per favorire il recupero degli opifici dismessi. Ciò in un quadro in cui fra le funzioni sociali a cui è orientata la proprietà assume uno spazio autonomo l’interesse alla riqualificazione formale del paesaggio urbano mediante l’eliminazione di iconemi negativi che in molti centri dequalificano pesantemente il paesaggio urbano. In tal modo, grazie a questa forma di compensazione, il catalogo degli strumenti per incidere in termini reali sull'assetto materiale della città esistente risulta decisamente più completo. 10. Le differenze tra diritti edificatori e crediti compensativi La scarsa consapevolezza delle differenze tra la perequazione e la compensazione fa sì che uno dei profili su cui i piani mantengono una notevole incertezza terminologica e concettuale attiene alla dicotomia tra diritti edificatori e crediti compensativi. Sul piano teorico si profila invece una netta distinzione tra i titoli volumetrici scambiabili che si assegnano ai proprietari coinvolti nella perequazione (diffusa) e nella compensazione (infrastrutturale ed ambientalepaesaggistica). E’ opportuno rimarcare tale distinzione caso – come si è fatto sin ad ora - anche sul piano semantico. Questi titoli volumetrici scambiabili a titolo oneroso, indipendentemente dalla circolazione del fondo (scorporabili cioè dal fondo), consentono al titolare (od al cessionario) di beneficiare di una quota dei risultati economici conseguibili per effetto della trasformazione di un fondo -accipiente. Le due tipologie di titoli volumetrici profilate differiscono in primo luogo in ragione della finalità a cui assolvono (diversità teleologico-causale). Il diritto edificatorio costituisce lo strumento per allocare dotazioni volumetriche anche su fondi materialmente non trasformabili, con lo scopo di consentire ai rispettivi proprietari di concorrere comunque alla distribuzione dei benefici economici indotti dal piano; secondo il tipico schema delle previsioni conformative, il diritto edificatorio viene ad accedere al fondo, anche se tale potenzialità, prodotta dal fondo, non sarà
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dispiegabile sul fondo. Dalla circolazione del titolo espressivo di un carattere urbanistico del fondo deriverà un risultato patrimonialmente vantaggioso per il proprietario del fondo-sorgente (e del titolo che ‘incorpora’ tale carattere). Una redistribuzione privata successiva consentirà di ‘perequare’ le differenze derivanti dal diverso statuto edificatorio dei suoli (ed in caso sia prevista la cessione del fondo-sorgente all’amministrazione consentirà a quest’ultima di risparmiare il costo degli indennizzi). Il credito compensativo assolve invece ad una funzione tipicamente indennitario-compensativa, a ristoro dei ‘pesi’ imposti dal piano ai proprietari di specifici fondi. Il credito compensativo accresce quindi, in funzione di riequilibrio, il patrimonio del proprietario di tali fondi, garantendo a tale soggetto, in seguito alla circolazione del credito, la possibilità di ottenere un risultato economico che ne ripristini la originaria consistenza patrimoniale. Il sintagma ‘credito compensativo’ esprime quindi con pregnanza i tratti di un sequenza entro la quale il proprietario che adempie ad una obbligazione urbanistica ottiene il ristoro non mediante una contestuale controprestazione da parte dell’amministrazione (come accadrebbe in caso di immediata liquidazione di una indennità in numerario o come accade quando al privato viene assegnata in permuta un’altra area), bensì tramite l’assegnazione di un titolo che garantisce a tale soggetto un soddisfacimento differito, conseguente ad un’altra vicenda giuridica di circolazione del suddetto titolo. Anche in questo caso è una redistribuzione privata a garantire il controvalore dell’obbligazione urbanistica adempiuta e l’amministrazione risparmia il costo dell’indennizzo. Questi titoli differiscono anche in ragione del rispettivo regime giuridico. I diritti edificatori sono assegnati direttamente dal piano, alla stregua di un carattere giuridico-urbanistico del fondo. Sono scambiabili dal momento della approvazione del piano e ne costituiscono un ‘prodotto’ diretto. I crediti compensativi sono (sovente) quantificati dal piano (in stretta proporzione alle prestazioni imposte al proprietario) ma assegnati al soggetto proprietario del fondo vincolato o gravato da obbligo di facere solo ad esito della effettiva cessione del fondo o
dell’esatto adempimento dell’obbligazione di riqualificazione paesaggistico-ambientale. Sono scambiabili solo dopo l’assegnazione, in seguito ad una particolare vicenda attuativa del piano urbanistico generale. Da ultimo, le due diverse tipologie di titoli volumetrici reagiscono poi in maniera diversa al riesercizio del potere pianificatorio da parte dell’amministrazione. I diritti edificatori rimangono immanentemente sottoposti al potere di revisione del piano da parte dell’amministrazione (salvo che il comune – alla stregua di un autolimite – non dichiari di voler tenere ferma tali attribuzione per un certo numero di anni, magari già preannunciando il dissolvimento progressivo dei diritti decorso tale periodo di stabilità garantita). Una diversa regola dovrebbe invece valere per i crediti compensativi, che costituiscono il risultato di una prestazione che il privato ha già assolto (cedendo la propria area o riqualificando un proprio manufatto). Le rilevanti questioni che restano aperte, il cui approfondimento (si pensi alla estensibilità di schemi proprie dei titoli di credito) per alcuni versi travalica il diritto amministrativo, rischiano quindi di frenare la circolazione di questi titoli, con effetti penalizzanti per la realizzazione delle dotazioni territoriali. Ne risulterebbe penalizzata la formazione della parte pubblica della città e dunque la costruzione della coesionesociale - valore essenziale per tutti i cittadini e non solo per i proprietari immobiliari - a cui è sottesa la funzione più alta dell’urbanistica ed ai suoi innovati strumenti.
Nota di redazione Per questioni di spazio, l’articolo del prof. Emanuele Boscolo viene qui riproposto privo del ricco apparato di note e di approfondimenti bibliografici. I lettori interessati ad approfondire i contenuti del saggio possono contattare direttamente la redazione per averne una copia integrale.
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Est-etica energ-etica nella PIANIFICAZIONE di Paola Ischia (Commissione nazionale INU “Piano, energia ed ambiente”)
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’Inu ha attivato la Commissione nazionale “Piano, energia ed ambiente” che opererà, integrandosi con il “sistema Inu” (altre Commissioni, Gruppi di lavoro, Osservatori) in un Programma per «…una riforma sostanziale dei contenuti e delle forme dell’azione di governo territoriale, in quanto le condizioni energetico-ambientali delle città del nostro Paese non si prestano a correzioni marginali o a risposte meramente tattiche; l’urgenza dei problemi da risolvere impone al piano riformato (“Nuovo Piano”) di confrontarsi fin d’ora con alcune “grandi questioni” per ridurre la domanda di energia, anche concorrendo a ricostruire il sistema della mobilità». La XIV conferenza ONU sul clima a Poznan in Polonia, a dicembre 2008, ha articolato il percorso verso la Cop 15 (Conference of Parties) United Nations Climate Change Conference, prevista a Copenaghen a dicembre 2009, in cui 189 paesi si riuniranno per riformulare il protocollo di Kyoto. In campo teorico, sono molteplici gli incontri, convegni, seminari, sulla questione climaticoenergetica in rapporto alla pianificazioneprogrammazione e si stanno sviluppando progetti di ricerca che, va evidenziato, hanno mosso i primi passi fin dagli anni ’70. In campo operativo, peraltro, si riscontra una paradossale mancanza di : …domanda di pianificazione! SAIE (Salone dell’industrializzazione edilizia) a Bologna, ha introdotto il settore SAIENERGIA, illustrando progetti innovativi, presentando nuovi materiali sperimentali e discutendo problematiche in convegni. URBANPROMO, evento di marketing urbano e territoriale, ha ospitato, a novembre a Venezia, la premiazione della prima edizione del Concorso Nazionale “Energia sostenibile nelle città”, promosso da INU e Ministero dell’Ambiente che introduce in Italia i temi della Campagna “Sustainable Energy Europe - SEE”,
premiando nella sezione A “Metodologia”, il Comune di Bologna, per l’applicazione del Piano Energetico al Piano Strutturale e, nella sezione B “Progetti energeticamente sostenibili”, il Comune di Faenza, per il quartiere sperimentale di San Rocco. A Venezia sono stati inoltre organizzati gli incontri: “Energia, paesaggio e valori” (SIEV Società italiana di Estimo e Valutazione), “Linee guida per regolamenti edilizi sostenibili” e “Pianificazione, contabilità ambientale e cambiamenti climatici” che ha trattato esperienze di contabilizzazione fisica e monetaria, azioni di mitigazione ed azioni di adattamento. La Commissione INU “Piano, energia ed ambiente” con il Coordinamento Agenda21 locali, ed il patrocinio del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, ha organizzato a Bologna la Conferenza Nazionale “Il clima delle città, le città per il clima”. Nell’insieme delle azioni virtuose appare imprescindibile spostare l’attenzione dal singolo edificio al complesso, al tessuto, all’organismo urbano: è necessario razionalizzare, cooperare ed organizzare. In un’intensa e diretta riflessione sulla nuova politica americana per la riduzione di emissioni di CO2, apparsa sul quotidiano la Repubblica, lo scrittore Ian McEwan, sottolinea «…la faccenda dunque sta passando da questione di virtù, idealismo e tetri inviti all’abnegazione, tutte cose di cui i governi, mercati ed elettori diffidano, a una questione di interesse egoistico e necessità, argomenti per cui tutti nutriamo rispetto. (…) Non fare niente è semplicemente troppo costoso!». La nuova politica si avvarrà delle tecnologie più avanzate (al MIT, Massachusetts Institute of Technology di Boston, sono allo studio dinamiche ispirate alla fotosintesi), capaci di incidere sui sistemi occupazionali ma esse troveranno efficace applicazione solo in un sistema coordinato, pianificato. Jeremy Rifkin ha delineato la terza rivoluzione industriale, caratterizzata da hi-tech e combustibili green, dopo quelle generate da carbone e petrolio, che comporterà un totale rinnovamento dell’infrastrutturazione del territorio, delle città, delle reti (intergrid). Anche la tanto discussa XI Biennale Internazionale di Architettura di Venezia, non ha trascurato ricerche sul tema, in particolare nel padiglione svizzero o in quello danese che ha concentrato l’attenzione sull’appuntamento di Copenaghen 2009 Cop15, attraverso l’insieme di iniziative raccolte in “ecotopedia walk the talk” a cura del DAC Danish architecture centre. Sono state presentate le trasformazioni di sette città: Bogotà, Chicago, Vancouver, Melbourne, Shanghai, Copenhagen, Dar es Salaam (Tanzania). Attraverso www.sustainablecities.dk è stato lanciato un database globale per la pianificazione sostenibile. Questo tema caratterizzerà l’Expo 2010 a Shanghai “Better City, Better Life”: laboratorio che vorrà interfacciare architetti, pianificatori, esperti, politici e cittadini.
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Gli approcci risolutivi, i temi presentati, non sono certo straordinari o di sorprendente portata innovativa. Si tratta semplicemente di rendere effettivi dei principi alla base di una corretta progettazione urbana: la città compatta, la mobilità prevalente a livello pedonale e ciclabile, la realizzazione di spazi che consentano e rendano appunto gradevole la mobilità non veicolare (è citato il successo dell’esperienza Barcellona 100 luoghi, per la riqualificazione degli spazi pubblici); l’ampia presenza di vegetazione efficace nel migliorare la qualità dell’aria, la coerenza degli spazi aperti del tessuto urbano. Su quest’ultimo aspetto il professor Jan Gehl di Copenaghen lancia una riflessione: di per sé gli edifici green, non fanno una città sostenibile! Dubai, viene definita “una collezione di edifici sostenibili” e non una città. È imprescindibile un’azione globale, una conoscenza e capacità critica diffusa: deve essere ridotta la quantità di energia che ogni cittadino utilizza. È necessario controllare l’espansione crescente di città in Asia ed Africa, centri che non devono ripetere gli errori delle città occidentali come sta succedendo in Cina, dove interi nuovi quartieri nascono in forte dipendenza dalle auto. A Bogotà in Colombia è stata attivata una precisa azione politica: chiusura al traffico di molte arterie e concessione di mobilità esclusivamente ciclabile nei giorni festivi. In Australia a Melburn si è voluto introdurre lo “stile Copenaghen” di mobilità ciclabile. A New York, Michael Bloomberg ha promosso, attraverso il Piano dei trasporti, 6.000 Km di nuove piste ciclabili. L’intento è quello di avviare il “secolo delle biciclette” per liberarsi dalla dipendenza dai combustibili fossili. È possibile progettare città più sicure, sane, sostenibili, potenziando gli spazi collettivi e pubblici di relazione: muoversi nelle città usando la propria energia personale, rende la città più sana.
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Gli strumenti per ridurre l’impronta ecologica sono noti: attenzione per l’orientamento e cura del disegno, risparmio dell’uso del suolo, utilizzo di materie prime e tecnologie locali, sperimentazioni di agricoltura urbana, ottimizzazione di cicli per acqua, trasporti e rifiuti, trasformabili come in natura attraverso processi circolari, in nutrienti. È fondamentale inoltre spostare lo sguardo su guadagni a lungo termine e far prevalere gli interessi collettivi sugli interessi individuali. Nuove visioni del vivere urbano intrecciano l’innovazione tecnologica agli spazi di relazione sociale o professionale: sono auspicati nuovi cittadini e nuovi architetti e pianificatori che sappiano riconcettualizzare il loro lavoro. Emerge infatti il problema dell’eccesso di pianificazione di settore e l’esigenza di operare integrazioni e sintesi. È fondamentale inoltre programmare il risanamento energetico del patrimonio costruito esistente. Certo gli studiosi avvertono: la creatività della popolazione è importante ma senza una politica internazionale, non sarà possibile compiere i cambiamenti in tempi sufficientemente rapidi. La questione energ-etica è anche est-etica: le città, gli spazi pubblici, devono essere “belli”: se un luogo non è vivibile, la popolazione non ne fruirà mai in modalità pedonali o ciclabili e non assumerà comportamenti virtuosi. La città storica ci trasmette la consapevolezza di come gli spazi urbani siano un insieme di studiati luoghi di micro-clima. L’Italia potrebbe acquisire, recuperare, un ruolo di primo piano a livello internazionale: Siena è globalmente individuata tra le città a minor impronta ecologica. Solo luoghi di qualità potranno innescare il rinnovamento della modalità abitativa del pianeta che appare oggi, ogni momento di più, imprescindibile.
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Nella pagina accanto, una veduta di New York (foto di Gabriele Basilico); qui sopra, una veduta aerea di Bogotà, con la ragnatela delle piste ciclabili (foto di Giovanna Silva)
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Il Governo del Territorio: un corso dell’Inu/Trentino di Giovanna Ulrici
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l Governo del Territorio, di cui la pianificazione è solo una componente seppure fondamentale, è sempre più al centro della riflessione disciplinare attualmente interessata da una fase di rapida innovazione. I piani, comunque denominati, sono uno strumento interessato da profonda trasformazione, ma accanto ad essi vi sono altri nuovi strumenti utili per raggiungere obiettivi, come i programmi, le politiche territoriali che possono mettere in campo le amministrazioni locali e regionali, nuove formule di rapporti pubblico-privato. C’è una nuova generazione di piani figli di legislazioni urbanistiche innovative in numerose regioni italiane, ma la Provincia Autonoma di Trento si trova alle soglie di una svolta senza paragone e della quale ha già posto le basi con le leggi della riforma emanate nella scorsa legislatura: non solo la nuova legge urbanistica, ma anche il nuovo PUP e la riforma amministrativa delle Comunità di Valle, solo per citare le maggiori nel campo della trasformazione territoriale. La pratica della pianificazione richiede quindi nuove competenze ma anche l’approfondimento e la verifica delle modalità di declinazione dei nuovi strumenti nelle specifiche realtà locali. L’Istituto Nazionale di Urbanistica (INU) è dalla sua fondazione vocato alla promozione degli studi urbanistici, diffondendo i principi della pianificazione: ha ritenuto quindi doveroso proporre e contribuire all’attivazione di una pratica di formazione su queste tematiche, coniugando l’illustrazione di aspetti teorici e metodologici con la presentazione di esperienze di altre regioni ed approfondimenti sulle prospettive locali. Sono stati individuati quattro temi-guida da affrontare nelle giornate di corso: - contenuti strategici e contenuti operativi della pianificazione; - il dimensionamento del piano, da tecnica a progetto; - la perequazione territoriale; - la perequazione urbanistica. I temi sono stati introdotti da docenti universitari e professionisti di chiara fama afferenti a diversi campi disciplinari (Urbanistica, Politica
economica, Diritto pubblico, Estimo) e selezionati grazie alla supervisione scientifica offerta dalla Fondazione Astengo (FA), che per INU si occupa della formazione permanente. Nelle lezioni è stato dedicato ampio spazio a casistudio di recente elaborazione a livello nazionale. Ad esporre la declinazione locale dei temi trattati sono stati invitati alti funzionari della Provincia Autonoma di Trento, promotrice con INU e FA del corso. Si tratta di attori coinvolti in prima persona nella elaborazione dei documenti e degli strumenti di pianificazione locale. A loro il compito di introdurre i principi ed obiettivi alla base del nuovo PUP e della pianificazione a scala di Comunità, i criteri operativi da applicarsi nelle procedure di dimensionamento in particolare residenziale e per l’edilizia economico-popolare, gli strumenti per la perequazione previsti dalla normativa provinciale. Dal punto di vista organizzativo, il corso è stato volutamente strutturato a numero chiuso (30 iscritti) per consentire una corretta interazione con i relatori e tra i partecipanti durante le attività laboratoriali. Si è inoltre scelto di aprire alla partecipazione gli amministratori, funzionari pubblici e professionisti: nel rispetto dei rispettivi ruoli è infatti importante contribuire alla costruzione di una base culturale comune. Il corso si è concretizzato in sei appuntamenti, quattro dei quali hanno ospitato un laboratorio di esercitazione, che ha permesso di approfondire operativamente contenuti, metodi e strumenti e che ha dato spazio alla testimonianza di chi – partecipante al corso – ha offerto la propria esperienza e casi e problemi specifici affrontati nelle rispettive amministrazioni. Questa interazione, esplicitata principalmente all’interno dei gruppi di lavoro, ha rivelato la ricchezza delle esperienze locali, ma anche l’assenza di una consuetudine al confronto, in primo luogo fra Enti, sulle problematiche di governo e di pianificazione. Un risultato indiretto ma cruciale di questo corso consiste quindi nell’aver messo in evidenza il bisogno diffuso di occasioni di scambio fra gli operatori locali: questo bisogno potrà sicuramente ottenere maggior spazio nelle future auspica-
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Alcuni momenti dei Laboratori organizzati all’interno del corso
te edizioni del corso, e merita anche una riflessione da parte degli Enti organizzatori sull’opportunità di costruire luoghi e condizioni, affinchè si diffonda una cultura del confronto e della collaborazione. Una dimostrazione del bisogno di aggiornamento e confronto è stato l’esaurimento dei posti disponibili già due giorni dopo l’uscita del bando! A conclusione del corso sono emerse alcune criticità, tali da meritare forte attenzione. Innanzi tutto si è constatato che la rigenerazione del territorio tramite le Comunità debba accompagnarsi ad una pianificazione strategica di Comunità, e perchè ciò accada serve una capillare costruzione di reti a livello locale, una gerarchizzazione di temi e problemi, una pratica di governo del territorio che comprenda ma non si esaurisca nella pianificazione tradizionalmente intesa come produzione di piani. Il rischio che si apra una fase di grande differenziazione tra le Comunità è di fatto il rischio che solo alcune di esse possano cogliere le grandi opportunità della riforma in campo di trasformazione del territorio, e che fra le cause di esclusione possano esserci fabbisogni insoddisfatti o inespressi di competenze locali in campo paesaggistico, infrastrutturale, dei servizi. Anche per le Amministrazioni comunali si apre una nuova fase più orientata allo sviluppo della parte operativa e progettuale, e all’attivazione di politiche territoriali sperimentando nuovi strumenti di partnerariato. Questo aspetto rende cruciali alcuni strumenti, quali la perequazione territoriale che – esten-
dendo i benefici del trasferimento degli indici edificabili a più comuni confinanti – potrà permettere una funzionale allocazione delle nuove iniziative finalizzata alla competitività, con il vantaggio di tutte le amministrazioni contermini e di piccole dimensioni. Ma è anche emersa la difficoltà di ritrovare nel panorama delle esperienze italiane fino ad ora maturate - condizioni di partenza affini a quelle delle valli trentine, da un punto di vista sociale e da un punto di vista fisico/ dimensionale, tali quindi da facilitare la percezione dei vantaggi dati dai nuovi strumenti: il rischio ovviamente è quello di rimandare il rinnovamento, e di cogliere solo il lato meno appetibile del lavoro che si prospetta. Infine, un grazie ai partecipanti, per la costanza, l’impegno e la passione dimostrata per questi temi. Di seguito, in ordine alfabetico i nomi degli iscritti al corso che hanno conseguito l’attestato finale di partecipazione: Stefano Bassetti, Emanuele Bernardi, Bruno Beteotti, Michele Bortoli, Lucia Brighenti, Tiziano Brunialti, Katia Buratti, Lucia Burigo, Flavio Carli, Marco Carli, Elisa Coletti, Alberto De Vecchi, Barbara Eccher, Stefano Faccenda, Marco Giovanazzi, Giorgio losi, Laura Marinelli, Ivana Martin, Elisabetta Miorelli, Loris Moar, Alessandro Moltrer, Giorgio Osele, Marco Osler, Massimo Pasqualini, Stefano Portesi, Paola Ricchi, Sandra Salvaterra, Giancarlo Sicher, Giorgio Tecilla, Enrico Tomassini, Sara Sbetti, Bianca Maria Simoncelli, Isabella Weber, Remo Zulberti.
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NOTIZIE DA ROMA di Giovanna Ulrici
Lo scorso 15 dicembre si è svolto a Roma l’ultimo incontro del Direttivo Nazionale per l’anno 2008. Tanti gli argomenti trattati, due in particolare meritano una nota per la partecipazione cui tutti gli iscritti sono chiamati in ragione dell’interesse che rivestono nell’ambito della materia urbanistica. Innanzi tutto è stato definito il calendario delle principali future iniziative nazionali per l’anno 2009 e 2010. Proprio nella primavera del 2010 si terrà a Matera la prossima edizione della Rassegna Urbanistica Nazionale (RUN), senza dubbio la più impegnativa iniziativa tenuta dall’INU, essendo strutturata sulla esposizione di un migliaio di pannelli di presentazione di piani e progetti e su un intenso programma convegnistico svolto nell’arco di una intera settimana. La RUN si è fino ad oggi tenuta con cadenza quinquennale e nelle ultime tre stagioni è stata ospitata a Venezia, ma nel corso dell’ultimo Direttivo si è deciso di optare per una nuova sede in sud Italia, ad alto valore simbolico. Lo slittamento alla primavera 2010 è principalmente finalizzato a dare il giusto risalto alla RUN, privandola di possibili interferenze con le altre iniziative, ed in particolare: - un convegno nazionale, ospitato a Verona nel maggio del 2009, dedicato alla “nuova pianificazione” e fortemente voluto da INU Veneto: sarà occasione di confronto e studio sulla prima generazione di piani figli della nuova legislazione urbanistica del Veneto, della Lombardia e di altre realtà del nord-Italia; - il Congresso INU, in programma per la fine di settembre 2010 a Livorno. Infine, si terranno regolarmente ogni anno a Venezia nel mese di novembre, gli incontri di UrbanPromo, che riconferma il proprio settore di competenza nel marketing urbano e territoriale e nella presentazione di formule di partnerariato pubblico - privato di cruciale utilità per le Pubbliche Amministrazioni. Altro tema. Con grande soddisfazione INU è giunta a licenziare la proposta di Legge di riforma statale per il Governo del Territorio, che è stata consegnata alle più alte cariche parlamentari ed ai Presidenti delle Commissioni Senato e Camera competenti per materia, oltre che agli Assessorati regionali.
Rispetto alle precedenti proposte di legge INU, questa si configura come una legge di principi, che evita l’invasività verso le leggi regionali e che pone al proprio fondamento il Governo del Territorio, di cui la pianificazione è solo una componente, seppure fondamentale. I piani, comunque denominati, sono uno strumento importante, ma accanto ad essi vi sono altri strumenti utili per raggiungere obiettivi, come i programmi, le politiche territoriali che possono mettere in campo le amministrazioni locali e regionali, le politiche generali dello Stato. Questa proposta di legge ritiene che tali strumenti e tali azioni vadano opportunamente coordinati e resi coerenti fra loro e con la pianificazione, e che per farlo occorra dare copertura legislativa nazionale in primis a perequazione, compensazione e fiscalità. È necessario che le innovazioni delle leggi regionali riformiste siano consolidate giuridicamente, quando coinvolgono competenze che appartengono allo Stato. Un’ulteriore ragione che induce alla necessità di una espressione nazionale in materia di legislazione urbanistica sta nell’urgenza di superare, abrogandolo, il vecchio corpo legislativo imperniato sulla legge urbanistica del 1942, già superato dalle leggi regionali riformiste, ma che essendo ancora vigente determina, a livello di giurisprudenza, contraccolpi negativi che spesso mettono in discussione le scelte innovative. La redazione della proposta di legge è stata relativamente veloce, ed ha coinvolto solo una parte degli attori ritenuti cruciali per ruolo ed esperienza: si apre quindi ora una fase in cui è auspicabile la più ampia pubblicizzazione del testo che va supportato nel suo iter parlamentare, ma anche arricchito di osservazioni e contributi che possano guidare le revisioni successive. Per questo motivo INU si farà cura di presentare e discutere il testo con Anci, UPI, ed altre associazioni coinvolte per competenza. Ma chiede ad ogni Sezione locale di promuovere il dibattito sull’argomento e di pubblicizzare la proposta di legge: a tal fine i documenti sono visionabili e scaricabili al seguente indirizzo, ove è stato inoltre aperto un blog per agevolare la partecipazione: www.inu.it/blog/ proposta_legge/ Buon lavoro!
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Inu/Trentino Chi siamo, cosa vogliamo come PARTECIPARE COSA È L’INU? L’Istituto Nazionale di Urbanistica è stato fondato nel 1930 per promuovere gli studi edilizi e urbanistici, diffondendo i princìpi della pianificazione. Lo Statuto, approvato con DPR 21.11.1949, definisce l’INU come “Ente di diritto pubblico ... di alta cultura e di coordinamento tecnico giuridicamente riconosciuto” (art. 1). L’INU è organizzato come libera associazione di Enti e persone fisiche, senza fini di lucro. In tale forma l’Istituto persegue con costanza nel tempo i propri scopi statutari, eminentemente culturali e scientifici: la ricerca nei diversi campi di interesse dell’urbanistica, l’aggiornamento continuo e il rinnovamento della cultura e delle tecniche urbanistiche, la diffusione di una cultura sociale sui temi della città, del territorio, dell’ambiente e dei beni culturali. Inu aderisce a CIPRA sia formalmente che con contributi ed elaborazioni di significativo valore disciplinare. La stessa composizione della sua base associativa caratterizza l’INU come luogo di scambio e di libero confronto culturale, attraverso le diverse esperienze di cui ciascun socio è portatore: da quelle scientifiche, accademiche e della ricerca a quelle tecniche, professionali e della pubblica amministrazione. L’attività sociale propria dell’Istituto si articola in prevalenza intorno alle sue numerose iniziative
nazionali, regionali e locali (rassegne, convegni, seminari e simili), che nell’arco dell’anno, sono diverse decine. A queste si aggiungono le attività finalizzate alle pubblicazioni e alla ricerca, svolta sia in proprio che – anche sotto forma di consulenze – per conto di Enti pubblici. L’INU ha sede a Roma ed è articolato in diciannove Sezioni regionali. Gli Enti associati sono Regioni, Province, Comuni, Iacp, aziende ed enti economici pubblici e privati, dipartimenti universitari, Ordini e associazioni professionali, imprese, cooperative e loro associazioni, Istituti di ricerca, studi professionali, associazioni culturali. I Soci (Membri effettivi e Soci aderenti) sono docenti e ricercatori, professionisti, dirigenti e funzionari delle pubbliche amministrazioni, studenti. Agli architetti, ingegneri e urbanisti, si affiancano giuristi, economisti, geologi, geografi, agronomi, cartografi, ecologi, archeologi e medici. Le Sezioni locali possono attivare – anche su proposta di gruppi di soci – proprie Commissioni (o gruppi di lavoro), su temi analoghi o complementari a quelli trattati dalle Commissioni nazionali, ovvero su altri temi, o per lo studio di situazioni e problemi locali. Le Sezioni locali partecipano comunque con propri rappresentanti alle attività degli Osservatori nazionali e, qualora ne abbiano interesse, ai lavori delle Commissioni nazionali di studio.
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COME ASSOCIARSI Per associarsi all’Istituto Nazionale di Urbanistica (INU) occorre presentare al Presidente della Sezione di competenza (per residenza o luogo di lavoro) una domanda sottoscritta da due Membri effettivi dell’Istituto e accompagnata da un breve curriculum e dalla ricevuta di pagamento della quota associativa per il primo anno. Il Consiglio direttivo locale approva le domande e le trasmette alla sede nazionale per la ratifica e la registrazione. Per gli Enti pubblici che intendono associarsi è sufficiente inviare alla sede nazionale dell’Istituto la delibera degli organi competenti (di cui potete scaricare il modello) contenente anche l’impegno di spesa per la prima quota annuale, oppure anche solo una copia della ricevuta del versamento della quota associativa. Informazioni e modelli per iscriversi sono sul sito: http:// www.inu.it/ informazioni/ associarsi_inu.html Il pagamento della quota associativa può essere effettuato con bollettino postale n. 97355002 intestato a “INU c/Soci” o mediante bonifico bancario sul conto n. 000000581551 intestato a “INU” – Banca di Roma – Filiale 112 – ABI 03002 – CAB 03256. Per contatti e ulteriori informazioni: Segreteria INU Sezione Trentina (arch. Giovanna Ulrici, giovanna.ulrici@tiscali.it cell. 393.2292378).
AAA - Sentieri Urbani cerca collaboratori Ti interessi di urbanistica e ti piacerebbe collaborare alla redazione di questa rivista? Contattaci! redazione@sentieri-urbani.eu - direttore@sentieri-urbani.eu
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Sentieri Urbani 9|2009
I NUOVI ASSOCIATI Nel 2008 la sezione dell’Inu/Trentino si è arricchita di tre nuovi membri aderenti. Ecco una loro breve presentazione biografica. Arch. Elisa COLETTI Dottoranda di ricerca in progettazione paesistica presso l’Università degli studi di Firenze; laureata in Architettura al Politecnico di Milano/sede di Mantova con la tesi ‘Le aree industriali dismesse: luoghi di una rivoluzione. Il caso Ti.Co.Sa a Como’. Fra le esperienze in campo urbanistico si segnala una partecipazione al Piano di Settore dei percorsi e delle piste ciclopedonali per Amministrazioni lombarde. Attualmente è collaboratore al Comune di Pergine dove si occupa del progetto di implementazione dell’Atto di indirizzo per l’applicazione della perequazione urbanistica nel territorio del Comune di Pergine Valsugana, con particolare riferimento agli aspetti metodologici riferiti alla classificazione del territorio nella fase di caratterizzazione dello stato di fatto e di diritto.
Arch. Marco GIOVANAZZI Laureato al Politecnico di Milano nel 1990, si occupa di progettazione architettonica e urbanistica. Già segretario del Circolo Trentino per l’Architettura Contemporanea e attuale consigliere dell’Ordine degli Architetti, Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Trento e membro del Comitato interprofessionale. Nell’ambito della progettazione urbana, oltre alla partecipazione a numerosi concorsi, si segnalano la proposta di riqualificazione urbanistica a Pergine Valsugana (2007) e la riqualificazione degli spazi esterni a Marilleva 1400. In campo urbanistico si segnala la redazione della Variante generale al PRG del Comune di Cavareno (2007).
Arch. Remo ZULBERTI Laureato in Architettura presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia con una tesi intitolata ‘Madonna di Campiglio: Insediamento, Turismo e Territorio’. Segue la redazione di Varianti ai PRG dei Comuni di Pinzolo (2008), Giustino (2008), Cles, Smarano, Spiazzo Rendena, Pieve di Bono. Per i Comuni di Ragoli Prezzo e Bocenago segue la redazione della Variante generale ai relativi PRG. Impegnato come Commissario ad acta per l’adozione dei PRG dei comuni di Sfruz e di Tres. Conclusi gli incarichi di redazione delle Varianti generali del PRG del Comune di Roncone e del PRG del Comune di Bersone, nell’ambito dei quali redige i relativi Progetti di recupero del Patrimonio edilizio montano. Attualmente impegnato nella redazione della Variante al PRG del Comune di Moena.
NEWS DA TRENTO Fulvio Forrer nominato nel Comitato Provinciale per l’Ambiente Sulla base della legge provinciale che disciplina la valutazione dell’impatto ambientale (LP n. 28/88 e s.m.) è stato rinnovato il Comitato Provinciale per l’Ambiente della Provincia autonoma di Trento. Il comitato è composto dai dirigenti generali dei dipartimenti competenti nelle materie di protezione dell'ambiente, urbanistica, foreste, sanità, opere pubbliche, protezione civile, attività economiche, agricoltura e alimentazione, dal direttore dell'Agenzia provinciale per la protezione dell'ambiente, dal responsabile dell'ufficio per la valutazione dell'impatto ambientale, dal medico designato dal direttore generale dell'Azienda provinciale per i servizi sanitari, da cinque esperti in materia ambientale, di cui uno designato dal direttore dell'Agenzia nazionale per la protezione dell'ambiente ed uno designato dalle sezioni provinciali delle associazioni di protezione ambientale
Fulvio Forrer, presidente dell’Inu/Trentino
individuate dal Ministero dell'ambiente, da un esperto in discipline economiche designato dalla Camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura di Trento e da un esperto in materia giuridico-amministrativa. Per le Associazioni ambientaliste sono stati nominati Giorgio Rigo (Italia Nostra) e Fulvio Forrer (INU).
LE PROVOCAZIONI DI FULVIO di Fulvio Forrer Un centimetro ogni tre anni “Eurasia” slitta verso nord-ovest ed i riferimenti per la navigazione satellitare (GPS) devono essere ricalibrati
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Rivista semestrale della Sezione Trentino dell’Istituto Nazionale di Urbanistica
Numero 1 - aprile 2009
Poste Italiane Spa spedizione in A.P. - DL 353/2003 (conv. in L 27/02/04 nr 46) art. 1, comma 2 CNS Trento
Le cime, i versanti, i singoli massi con i tempi della geologia scendono inesorabilmente verso valle e le protezioni artificiali difficilmente riescono a contenere i movimenti, il più delle volte rincorriamo le emergenze
Quantitativamente oggi piove quasi come nel passato (da noi –10%), ma la distribuzione degli eventi rende le precipitazioni più distruttive, i corsi d’acqua oggi sono configurati per aumentare le ondate di piena, ed il territorio mostra come sia stato utilizzato in modo incompatibile
I conoidi, per disegno morfologico, sono da sempre l’accumulo di detriti incoerenti, ma oggi vengono attraversati di infrastrutture viarie, sono localizzazione per insediamenti stabili e nella loro destinazione d’uso sono oggetto di studio per prevenire catastrofi
I boschi ed i corsi d’acqua fanno la differenza... GAIA è VIVA !
In questo numero:
IL PGUAP: UN PIANO DA SCOPRIRE SCOPRIRE?? LA VAS TRA BISOGNI E STRUMENTI PENSARE LA CITTÀ A MISURA DI BAMBINO QUALITÀ DELLO SPAZIO URBANO PER UNA COMUNITÀ SICURA LE PEREQUAZIONI E LE COMPENSAZIONI IN URBANISTICA