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Sentieri Urbani Rivista semestrale della Sezione Trentino dell’Istituto Nazionale di Urbanistica Issn: 2036-3109

Numero 3 - aprile 2010

Poste Italiane Spa spedizione in a.p. D.L. 353/2003 (conv. in L 27/02/04 nr. 46) art. 1, comma 2, CNS Trento anno II - numero 3 diffusione gratuita


Sentieri Urbani 3 indice

Sentieri Urbani rivista semestrale della Sezione Trentino dell’Istituto Nazionale di Urbanistica nuova serie anno II - numero 3 aprile 2010 registrazione presso il Tribunale di Trento n. 1376 del 10.12.2008 Issn 2036-3109 direttore responsabile Alessandro Franceschini direttore@sentieri-urbani.eu redazione Fulvio Forrer, Paola Ischia, Giovanna Ulrici, Bruno Zanon redazione@sentieri-urbani.eu hanno collaborato a questo numero: Giorgio Antoniacomi, Christian Arnoldi, Rose Marie Callà, Elisa Coletti, Marco Danzi, Sandro Fabbro, Elena Ianni, Cristina Imbroglini, Raffaele Mauro, Peter Morello, Silvio Pancheri, Francesco Pastorelli, Maria Grazia Piazzetta, Edoardo Salzano, Francesco Sbetti, Sara Verones tipografia Rotooffset Paganella s.a.s. di Roberto Alessandrini &C via Marchetti, 20 38122 Trento abbonamenti Per ricevere Sentieri urbani è sufficiente inviare una e_mail indicando i dati postali di chi desidera abbonarsi alla rivista: diffusione@sentieri-urbani.eu Sentieri urbani è a diffusione gratuita. Per contribuire concretamente al sostentamento della rivista è sufficiente una donazione, anche simbolica, sul conto corrente intestato all’Inu Trentino presso la Cassa Rurale di Trento IBAN IT63M0830401813000013330319 contatti: www.sentieri-urbani.eu 328.0198754 editore Istituto Nazionale di Urbanistica Sezione Trentino Via Oss Mazzurana, 54 38122 Trento direttivo 2010/2012 Giovanna Ulrici (presidente) Fulvio Forrer (vicepresidente) Elisa Coletti (segretario) Alessandro Franceschini (tesoriere) Davide Geneletti (consigliere) Marco Giovanazzi (consigliere) Paola Ischia (consigliere) In copertina: Punto panoramico nei “Percorsi tra luoghi di pregio storico-culturale in Val di Non - Trentino” (crediti a pag. 38-39). Foto di Paolo Sandri per gentile concessione del Citrac.

Editoriale Con fiducia verso il futuro di F. Forrer Intervista al nuovo presidente Giovanna Ulrici a cura della redazione Spazio&Società Studi per una variante al Prg di Isera di C. Imbroglini Il Masterplan di Bolzano di P. Morello e F. Sbetti Le ambivalenze della partecipazione di G. Antoniacomi Un “teatro d’ombre” nei villaggi alpini di C. Arnoldi Le periferie come luogo di scontro o anomia? di R. M. Callà Pianificazione per città a basse emissioni di S. Verones e B. Zanon Mobilità Metroland? Un’idea sulla quale discutere Intervista a R. Mauro di A. Franceschini Lo studio di fattibilità per una ferrovia Trento-Canazei di M. Danzi La borsa dei transiti alpini per ridurre i mezzi pesanti di F. Pastorelli Territorio&Paesaggio Un premio per far crescere l’architettura di M. G. Piazzetta Regole per chi costruisce in montagna di A. Loos Botta (e risposta) sulle politiche infrastrutturali di S. Pancheri e S. Fabbro «Land grabs» in Africa: tema di pianificazione di E. Ianni L’intervista L’urbanistica come passione civile Intervista ad Edoardo Salzano Vita associativa Rigenerazione energetico-paesaggistico-ambientale di P. Ischia Rassegna urbanistica nazionale di G. Ulrici Il nuovo Consiglio direttivo dell’Inu/Trentino di E. Coletti Biblioteca dell’urbanista a cura della redazione

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Con fiducia verso il futuro Mit vertrauen in die Zukunft di Fulvio Forrer

Il presidente uscente della sezione Trentino Forrer (a sinistra nella foto), durante un laboratorio

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urante l’ultima assemblea ordinaria, la sezione Inu Trentino ha profondamente rinnovato il suo direttivo ed i suoi equilibri interni. Il ruolo ed il riconoscimento di Inu in questi anni si è radicato ed è cresciuto. Si è anche allargato coprendo ambiti che una volta gli sfuggivano. La collaborazione con i nostri amici di Inu Bolzano oggi si avvia ad una serena e proficua collaborazione. Il territorio provinciale, contesto principale di nostro riferimento, sarà guidato con nuove regole (Comunità di Valle, Legge urbanistica provinciale nr. 1/08, Piano urbanistico provinciale, Valutazione d’impatto ambientale-Valutazione ambientale strategica, il nuovo modello di certificazione energetica Leed) e da obiettivi coerenti con il quadro europeo in una visione di ampia condivisione, ma che rappresenta anche una scommessa per la sua effettiva applicazione. Il rinnovo delle amministrazioni comunali potrà dare slancio al governo locale con nuove ed auspicate risorse umane. Davanti a noi si apre quindi un futuro di impegni e di opportunità, ricco anche di incertezze e insidie, ma in ogni caso un contesto di occasioni capaci di dare slancio e forza agli obiettivi che la comunità trentina che nel suo insieme si è data. La presenza dell’Istituto quale soggetto autonomo (da un punto di vista culturale e politico) è finalmente visto come una presenza positiva e di stimolo alla realtà provinciale, anche la rivista Sentieri Urbani, da foglio informativo interno alla sezione

si è lanciato verso orizzonti più ampi. Un risultato così positivo è motivo di grande soddisfazione, ma è anche fattore di consapevole preoccupazione per il difficile mantenimento e miglioramento di uno status, per molti versi, già invidiabile. Come contraltare abbiamo invece un aspetto ancora molto carente: esso è la chiusura culturale che caratterizza gli apporti alla sezione locale. Ingegneri, avvocati, geologi, agronomi, forestali, naturalisti, sociologi, ecc, mantengono la separazione delle loro visioni (e competenze) che li caratterizza, diffidenti nei confronti degli altri approcci alle problematiche territoriali in un apparente prevalere di logiche e attenzioni professionali. Pensiamo ad esempio che il 53% del territorio provinciale è coperto da boschi e che essi sono prevalentemente pianificati con dettaglio in visioni per una gestione del territorio ai più sconosciute. O al tema dei servizi sociali che hanno così forti e importanti interazione con la qualità della vita e della pianificazione, ma che tendono e rimanere discussi nei circuiti degli specialisti di settore. Una necessità, quella dell’apertura al confronto multidisciplinare, che vede nella realtà locale la gestione di molte problematiche dentro e soluzioni settoriali, molto spesso anche miopi delle più semplici esigenze e apporti intersettoriali: una sfida per il futuro che deve riguardare la società trentina, prima ancora che l’Istituto Nazionale di Urbanistica.


e d i t o r i a l e

Intervista al nuovo Presidente GIOVANNA ULRICI a cura della redazione

Presidente Ulrici, ci può raccontare come è iniziata la sua attività nell’Inu? Sono iscritta ad INU dal 1998. In quell’anno mi occupavo di urbanistica praticamente a tempo pieno; in Emilia Romagna, terra da cui provengo. Piani Regolatori, anche intercomunali, Osservazioni, Controdeduzioni. PTCP, Carte delle Tutele. Piani dei Servizi e Piani del Commercio. Perequazioni sperimentali, piani delle reti ciclabili, matrici ambientali. Ogni approfondimento, ogni riflessione era centrata sui documenti della pianificazione, costruiti per durare nel tempo, approvati dopo lunghissimi e sfinenti processi di contrattazione. Gli architetti Fatima Alagna e Lino Bulgarelli, che non c’è più, mi propongono ad INU, oltre ad insegnarmi più o meno quello che so di urbanistica. Praticamente qualche era geologica è passata da allora, per l’urbanistica e per me. Di che cosa si parlava “a quei tempi”? Quando nel 2000 la Regione Emilia-Romagna licenzia la prima legge regionale sul tema dell’urbanistica, prefigurando una risposta ai bisogni pressanti di gestione più snella e di revisione dei processi di Piano (Strutturali ed Operativi), di concertazione istituzionale strutturata (Conferenza ed Accordi di pianificazione), di valutazione di sostenibilità, suggerendo nuove sfide e nuovi orizzonti per la professione...io mi trasferisco in Trentino, e cambio mestiere. Ed incontra l’Inu del Trentino... Mi pare fosse il 2003: sono invitata da Fulvio Forrer a partecipare ai Direttivi della sezione trentina di INU. Grazie a Forrer, e grazie al prof. Bruno Zanon che mi racconta i fondamentali dell’urbanistica trentina. Ritrovo Paola, compagna di Università. Trovo un gruppo di persone molto eterogeneo ma intensamente coinvolto nei temi della pianificazione. Quali sono le differenze rispetto ad una grande sezione come quella emiliana? Nel gruppo direttivo si discute e si fa. Magari non sempre tanto, le risorse sono poche: è necessario aumentare il numero ed il coinvolgimento degli iscritti. Il territorio qui è vasto e molto diversificato per culture, emergenze, accadimenti: servono testimoni e iniziative per interpretarlo. Le istituzioni sono molto vicine ed attive: è imprescindibile proporsi al confronto e al dialogo. Qualche difetto. Sono scarsi e discontinui i contatti con le Sezioni INU confinanti: bisogna cercare e proporre

Giovanna Ulrici, 43 anni, architetto presso il Servizio Parchi e Giardini del Comune di Trento è il nuovo presidente della Sezione Trentino dell’Inu.

collaborazioni. L’urbanistica oggi. Condivido profondamente il pensiero di chi osserva come l’urbanistica abbia fatto un salto in avanti: il governo del territorio è sempre più al centro di tutto, le tradizionali competenze disciplinari non bastano più. Idee nuove per fiscalità, agricoltura, sicurezza, ambiente, mobilità. Strumenti di flessibilità, velocità, collaborazione pubblico-privato. Nuovi profili demografici popolano un territorio che scopre gerarchie inaspettate per le proprie risorse. Cosa si dovrebbe fare nella nostra provincia? Anche in Trentino gli strumenti della pianificazione e le strutture di governo stanno per cambiare radicalmente: è scopo statutario di INU decodificare, portare contributi ed esperienze esterni ed interni, monitorare, fare rete. Per fare questo disponiamo anche di un piccolo e prezioso luogo di eccellenza: la rivista Sentieri Urbani, grazie al lavoro ed alle capacità del suo direttore, Alessandro Franceschini. Il programma dei prossimi due anni in una battuta... Il programma per l’attività del prossimo biennio sarà certo in continuità con il precedente, e lo comporremo nel prossimo Direttivo con Fulvio, Alessandro, Paola, Elisa, Davide e Marco, che ringrazio per la fiducia senza rete e per l’aiuto che sanno di dovermi dare. ...e uno slogan. Guardare oltre il proprio giardino.


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Sentieri Urbani

Spazio&Società

Studi per una variante al Prg di Isera: un progetto di PAESAGGIO di Cristina Imbroglini

Note: 1. Responsabili della ricerca: Lucina Caravaggi, Susanna Menichini; Responsabile scientifico: Lucina Caravaggi; Coordinamento: Cristina Imbroglini; Organizzazione: Valentina Azzone. “Sapienza”- Università di Roma - Dipartimento Interateneo di Pianificazione Territoriale e Urbanistica; Responsabile delle ricerche sul territorio: Alessandro Franceschini (Università degli Studi di Trento, Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale); Consulenza per le Norme Tecniche di Attuazione: Mario Viviani con Andrea Bagnasco; Fotografie. Alessandro Cimmino.

1. Il mandato dell’amministrazione comunale I primi di gennaio 2010 il Dipartimento Interateneo di Pianificazione Territoriale e Urbanistica della “Sapienza”-Università degli Studi di Roma ha completato lo Studio tecnico scientifico propedeutico alla redazione della Variante al Piano Regolatore Generale di Isera. L’incarico, affidato ad un gruppo di ricerca che ha come responsabile scientifico Lucina Caravaggi (1), muoveva da alcune esigenze dell’Amministrazione comunale che possono essere sintetizzate come segue: - adeguare gli strumenti urbanistici comunali al Piano urbanistico provinciale (PUP) approvato con legge provinciale 27 maggio 2008, n. 5; - tutelare e promuovere le proprie risorse storico-culturali,ambientali, economico-produttive, partendo dal presupposto che “il territorio, nella sua unicità e non rinnovabilità, ha bisogno di un momento di ripensamento e di interventi di recupero e restyling anziché di nuove zone edificabili o lottizzazioni” (2); - assumere un ruolo attivo rispetto alla defini-

zione di alcuni interventi di riorganizzazione infrastrutturale (primo tra tutti la realizzazione della circonvallazione di Rovereto) che interessano il territorio comunale e che rischiano di essere interpretati dalla comunità di Isera come un nuovo onere che si aggiunge all’attraversamento dell’autostrada del Brennero, alla strada provinciale SP 90, agli elettrodotti delle ferrovie delle Stato e della ditta Edison SPA. 2. La ricerca Lo studio tecnico scientifico propedeutico alla redazione della Variante è costituito da una relazione, da elaborati cartografici, da un Sistema informativo territoriale e da un testo normativo che, nel loro insieme, interpretano e sviluppano il mandato dell’amministrazione comunale. Il confronto con gli strumenti urbanistici sovraordinati e il Sistema Informativo Territoriale L’adeguamento al Pup e la verifica di tutele e limitazioni d’uso derivanti da regole e strumenti di pianificazione provinciali (tra i quali il Piano Ge-


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nerale di Utilizzo delle Acque Pubbliche - Pguap) non sono stati intesi come un’operazione di mera trasposizione dei vincoli, ma come un’occasione preziosa per riflettere sul territorio comunale nel suo insieme, sul suo patrimonio storico–culturale e ambientale, sulla sua evoluzione e sulle trasformazioni recenti. Sono pertanto stati condotti alcuni approfondimenti conoscitivi volti alla salvaguardia degli elementi strutturali del paesaggio (assetti idrogeomorfologici, assetti agrari storici e di pregio, beni storico-culturali, beni ambientali, etc) e alla prevenzione dei rischi. Esito di queste indagini sono le carte delle tutele e le relative norme la cui articolazione risponde all’esigenza di rendere facilmente leggibili i diversi elementi ma anche di chiarire il senso e gli obiettivi dei diversi dispositivi di vincolo (3). Questa fase di lavoro è stata supportata dalla costruzione di un Sistema Informativo Territoriale. L’avvio di un sistema informatizzato costituito da mappe geo-referenziate e data base correlati è apparso infatti indispensabile a: - garantire la possibilità di continuo aggiornamento, verifica e implementazione delle conoscenze relative al territorio comunale, utilizzando anche il patrimonio di indagini messe a disposizione dalla Provincia (SIT), senza avviare ogni volta onerose campagne di rilevazione; - ottimizzare il dialogo e lo scambio di conoscenze con la Provincia, ravvivare e rendere efficiente il dialogo intercomunale (finalizzato alla formazione dei piani territoriali di comunità e alle definizione di scelte di livello sovralocale), garantire l’integrazione tra i diversi settori di gestione territoriale anche attraverso la riorganizzazione di quadri analitici e normativi differenti e non sempre omogenei. - favorire la gestione del piano con facilità ed efficienza da parte dei tecnici del Comune. La valorizzazione e la promozione del paesaggio di Isera Gli indirizzi per la tutela, il recupero e la valorizzazione del territorio comunale hanno come riferimento strategico e operativo il paesaggio, inteso come insieme di rapporti vitali tra spazi, soggetti e attività, tradizioni ereditate e attese di futuro, in accordo con il Piano Urbanistico Provinciale e gli orientamenti comunitari e nazionali più recenti . L’insieme di rapporti storici e consolidati tra assetti fisico-morfologici, caratteri climatici, usi del suolo, attività produttive e agricole, viticoltura, non è stato inteso solo un patrimonio da difendere e valorizzare ma come risorsa vitale, capace di promuovere e incentivare nuove forme di sviluppo sostenibile del territorio comunale, aumentandone qualità, competititività e visibilità a livello provinciale e nazionale. In questa sezione di ricerca hanno assunto un ruolo centrale i rapporti tra prodotti di eccellenza (vino in particolare) e contesti di produzione.

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Questo sia in virtù del significato culturale, economico e sociale che la produzione del Marzemino ha sempre avuto ad Isera e nella Val Lagarina sia in rapporto alle possibilità di sviluppo economico e territoriale che oggi appaiono più che mai connesse alla leggibilità dei rapporti vitali tra paesaggi, soggetti ed economie locali e in particolare al rafforzamento del legame tra territorio e viticoltura,nella prospettiva di un uso allargato del territorio vitato da parte di soggetti molteplici interessati alla cultura del vino nella sua accezione più ampia e contemporanea. Uno degli esiti più significativi di questa lettura integrata del territorio comunale è la carta dei paesaggi, le schede descrittive e le relative norme. All’interno del territorio comunale di Isera sono stati riconosciuti tre diversi paesaggi, caratterizzati da specifici e differenti rapporti tra caratteri fisico-ambientali, caratteri produttivo-agricoli, caratteri storico-insediativi e dinamiche di trasformazione: il Paesaggio del Trentino Marzemino Superiore di Isera Doc; il Paesaggio pedemontano; il Paesaggio montano. Questo riconoscimento è finalizzato alla articolazione degli obiettivi e delle azioni di tutela, valorizzazione e recupero in rapporto alle specificità di funzionamento, ai rischi e alle prospettive di ciascun paesaggio. Il testo normativo relativo agli spazi aperti si articola infatti in paesaggi e definisce per ciascuno di essi gli obiettivi di qualità paesistica intesi come indirizzi per la tutela e alla valorizzazione di differenze e specificità, come misure per la valorizzazione economica (incentivi alla produzione agricola di qualità) nonché come misure per la tutela e al riorganizzazione di insediamenti sparsi, edifici, e infrastrutture connessi ai diversi caratteri produttivi e turistico-ricettivi. L’obiettivo è quello di far sì che l’eccellenza dei prodotti traspaia anche dalla cura del suolo e delle sue sistemazioni, dalla riconoscibilità dei rapporti tra insediamenti, collegamenti, spazi coltivati e spazi boscati, dall’immagine di efficienza delle infrastrutture a servizio della produzione agricola. Lo studio tecnico scientifico comprende anche una “Guida trasversale agli interventi sugli spazi edificati”, redatta a cura del Laboratorio di Pianificazione dell'ambiente e degli insediamenti Università degli Studi di Trento, Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale. La guida costituisce un documento di indirizzo, uno strumento utile per la realizzazione e la valutazione degli interventi di ristrutturazione e nuova edificazione, che fa riferimento a relazioni storiche e consolidate tra edificato e spazi aperti e tipologie ricorrenti degli elementi costruttivi degli edifici evidenziando soluzioni congrue e incongrue, buone pratiche da seguire e esempi da evitare. Questo documento non intende sovrapporsi o sostituirsi alla disciplina del Piano Generale di Tutela degli Insediamenti Storici (PGTIS) vigente

2. Cfr. Deliberazione Consiliare n°31 del 24.09.2009 “Osservazioni al procedimento di valutazione impatto ambientale (VIA) sul progetto denominato Circonvallazione tra Rovereto – S.Ilario – Volano. Tratta D” della Provincia Autonoma di Trento 3. Le carte delle tutele, in scala 1:10.000, redatte all’interno dello Studio sono distinte in: Tutele paesistiche (tavola 1.1) che individua aree e beni tutelati ai sensi della normativa nazionale in materia di paesaggio e beni culturali; Invarianti (tavola 1.2,) che individua gli elementi distintivi dell'ambiente e dell'identità territoriale e in particolare: elementi geologici e geomorfologici; rete idrografica; boschi; pascoli; aree a elevata naturalità, aree ad elevata integrità; aree agricole di pregio; Risorse idriche (tavola 1.3) che individua i pozzi, le sorgenti e le relative aree di salvaguardia (come riportate nella carta delle risorse idriche approvata con L.P. n.5/2008 e nella tavola dell’inquadramento strutturale del PUP; le aree di protezione fluviale e gli ambiti fluviali d'interesse idraulico ( quali risultano dalla specifica cartografia del PGUAP); Altre tutele del suolo (tavola 1.4) che individua are agricole ed aree silvopastorali Pericolosità geologica (tavola 1.5) intesa come un elaborato in progress, soggetto a continue verifiche e aggiornamenti in ragione di successivi approfondimenti e aggiornamenti di indagine che saranno condotti dalla Provincia e fino all’approvazione della Carta di Sintesi della pericolosità del PUP; Richio (tavola 1.6) che individua le aree a rischio idrogeologico individuate e disciplinate dal PGUAP;


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4. Isera è un comune virtuoso che nel corso degli ultimi 15 anni ha avviato con successo politiche, strategie e azioni particolarmente innovative e in particolare: - politiche finalizzate al miglioramento dei servizi sociali (politiche urbanistiche ispirate a principi di equità sociale ed economica attuate attraverso l’istituzione della Fondazione Galvagni); - politiche a favore della produzione di energie alternative e al riciclaggio dei rifiuti ; - politiche e strategie innovative a sostegno dei beni culturali (Ruderismo e attivitità culturali a Castel Corno) - azioni legate al sostegno e alla valorizzazione delle aree agricole a vite e delle strutture di produzione e commercializzazione del vino (concorso “La vigna eccellente; Casa del Vino, etc)

In alto: l’abitato di Reviano circondato dai vigneti. Nella pagina a destra: il Comune di Isera nel contesto della Vallagarina. (foto di Alessandro Cimmino).

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quanto rappresentare un raccordo tra questo e il Piano regolatore, puntando sulla continuità funzionale e paesistica tra centri storici e spazi aperti circostanti. 3. I progetti Il territorio di Isera è interessato da alcuni progetti volti alla riorganizzazione infrastrutturale (tra i quali quello della circonvallazione di Rovereto) e alla valorizzazione del patrimonio storicoculturale e ambientale, alcuni dei quali già in corso di realizzazione. Questo insieme di interventi di trasformazione promossi dalla Provincia e da associazioni di Comuni si aggiunge allo straordinario patrimonio di iniziative che Il Comune di Isera ha messo in atto negli ultimi anni e che testimoniano l’intensa vitalità del territorio (4). Lo studio tecnico scientifico propedeutico alla redazione della variante vuole costituire un’occasione preziosa per la messa in rete di queste iniziative, per una loro più stretta correlazione con gli obiettivi di qualità paesistica definiti per i diversi paesaggi, per una maggiore interconnessione tra strategie e interventi di carattere eccezionale e gestione ordinaria del territorio comunale. A tal fine è stata prodotta una carta dei progetti e sono stati definiti indirizzi normativi e progettuali volti alla attuazione degli interventi di seguito descritti. Progetto di interramento dell’Autostrada del Brennero La realizzazione della circonvallazione di Rovereto sulla attuale sede dell’autostrada del Brennero e il conseguente spostamento dell’autostrada in galleria naturale sotto la collina di Isera costituisce una occasione unica per la riconnessione funzionale e paesistica delle due parti di terri-

torio comunale attualmente separate dal tracciato autostradale e la riorganizzazione e il miglioramento della viabilità di accesso ad Isera. Per questo sono state verificate e inserite nello Studio alcune ipotesi progettuali che integrano l’insieme degli interventi previsti e già sottoposti a Valutazione di Impatto Ambientale (procedimento Via n. 5/2009 v-ipotesi 4d): lo spostamento degli accessi in galleria naturale, volto a minimizzare gli impatti sulle aree agricole e in particolare sui vigneti, la sistemazione della futura circonvallazione in galleria artificiale, così da consentire la realizzazione di aree coltivabili nella parte superiore della strada e il ripristino degli antichi collegamenti pedonali (strada delle Zigherane e collegamento con Cornalè); la realizzazione di uno svincolo con rotonda nelle vicinanze del ponte di Via Pasubio di Rovereto volta a liberare la frazione di Cornalè dal traffico della statale diretto a Rovereto. Progetto Parco del Marzemino Il progetto del parco del Marzemino prevede la realizzazione di un parco pubblico tematico sulla coltivazione e la lavorazione della vite costituito da una rete di percorsi, sequenze di spazi attrezzati, vigneto didattico, cantine storiche, etc. con fulcro nella Casa del Vino di Isera. Il progetto persegue gli obiettivi di promuovere la commercializzazione in loco del Marzemino nella casa del Vino (palazzo de Probizer) e nelle cantine e dare visibilità e occasioni di sviluppo a tutti gli operatori direttamente coinvolti nella filiera enogastronomica del Marzemino e dei prodotti tipici della Vallagarina attraverso la realizzazione di una rete di percorsi pedonali segnalati, volti a garantire la fruizione dei diversi punti vendita e specialmente a segnalare rapporti e interrelazioni storiche e consolidate tra questi e i contesti di produzione.


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A tal fine è prevista la sistemazione di un percorso attrezzato con segnalazioni turistiche e didattiche che collega la cantina sociale di Isera, le principali cantine dei soci della casa del Vino, la Casa del Vino e il nuovo vigneto didattico con sottostante parcheggio pubblico a palazzo de Probizer, i vigneti sperimentali di Castel Pradaglia (banca genetica del Marzemino) e quelli in località Carpenè. Il progetto prevede inoltre il recupero e la valorizzazione della strada romana che collega Isera a Marano attraversando i vigneti storici tra i due abitati e la sistemazione dei muri di confine che caratterizzano il rapporto tra strada e vigneti. Gli interventi già pianificati o in corso di realizzazione messi in rete da questo progetto sono in particolare: il progetto per la realizzazione del parcheggio interrato a servizio della casa del Vino (5) che prevede anche la realizzazione di un vigneto didattico e di un parco direttamente accessibili dalla casa del Vino e il progetto di valorizzazione della villa romana di Isera (6); il progetto di bonifica agraria in località Carpenè che come obiettivo prioritario il recupero agricolo di un area di una proprietà comunale boscata e incolta finalizzato alla viticoltura sperimentale. Progetto Parco fluviale e percorso di fondovalle dei comuni in destra d’Adige Il progetto del percorso di fondovalle dei comuni in destra d’Adige, inserito nel Patto d’area della destra d’Adige Lagarina (7), ha come obiettivo prioritario la salvaguardia della conoscenza e della fruizione del paesaggio culturale dei cinque Comuni della Destra Adige della Vallagarina. Il progetto prevede la realizzazione di una rete di percorsi storico-paesaggistici che si inseriscono nel più ampio sistema di itinerari ciclabili e campestri lungo percorsi di particolare interesse

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culturale che collegano le cinque municipalità creando molteplici relazioni tra l’ambiente urbano quello naturale, quello naturalistico (riserve naturali di grande interesse), il contesto rurale, il fiume e i beni storico-architettonici e culturali diffusi sull’intera area. All’interno del comune di Isera il progetto del percorso di fondovalle è volto alla realizzazione di un vero e proprio parco fluviale che ha come finalità specifica la valorizzazione e il recupero del rapporto con il fiume attraverso la realizzazione di un percorso da svilupparsi a monte dell’argine fluviale al fine di mettere in rete e recuperare le aree abbandonate lungo l’Adige e le emergenze storico-ambientali (da Castel Pradaglia, al SIC di Isera, al sistema delle trincee, alle aree vitate, alle rive del fiume). Nello Studio propedeutico alla redazione della variante sono definiti indirizzi e criteri progettuali volti alla tutela e alla valorizzazione delle relazioni storiche tra presidi di altura (castelli, trincee della Grande Guerra) e percorrenze e direttrici vallive – rilettura critica di orientamenti, allineamenti, rapporti visivi attraverso interventi di sistemazione paesistica (sentieri e camminamenti) e land art (segnalazione visiva, illuminazione, etc. Questo progetto si inquadra all’interno di alcune iniziative di valorizzazione dei beni culturali, e in particolare dei Castelli , che hanno assunto all’interno del territorio comunale un significato particolare di grande portata innovativa. Il termine Ruderismo coniato e brevettato dal comune di Isera, fa riferimento a modalità di reinterpretazione e recupero che non riguardano più solo l’oggetto ma il rapporto ambientale e culturale che ha legato oggetti e contesti nel corso della storia e ha ispirato a iniziative ed eventi culturali volti a dare nuova vita alle testimonianze della cultura del passato, attraverso un’integrazione con le attività del territorio (8).

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5. Delibera di giunta n°42 29.04.2008; 6. Provincia Autonoma di Trento, Dipartimento Beni a Attività Culturali, Soprintendenza Beni Archeologici, Protezione e valorizzazione dell’area archeologica denominata Villa Romana p.ed. 1373; p.f. 78/2 CC Isera, progetto definitivo maggio 2007; 7. Protocollo di intesa tra i comuni di Isera, Nogaredo, Villa Lagarina, Pomarolo e Nomi , Allegato alla deliberazione del Consiglio Comunale di Nogaredo, N. 25 dd. 27/11/2008); 8. Tra questi la mostra multimediale allestita a Castel Corno dal titolo “Ruderismo tra conservazione e emozione”, lugliosettembre 2004 e la mostra “Ruderismo nell’architettura”; 9. Deliberazione giunta N° 23 del 19.03.2008 Lavori di recupero ambientale del sito di Castel Pradaglia tramite la sistemazione dell’area circostante e restauro delle murature esistenti. Affido incarico della progettazione definitiva, esecutiva, direzione lavori, piano della sicurezza in fase di progetto ed esecuzione. L.P. 10.09.1993 n. 26; 10. Protocollo di intesa tra i comuni di Isera, Nogaredo, Villa Lagarina, Pomarolo e Nomi (Allegato alla deliberazione del Consiglio Comunale di Nogaredo, N. 25 dd. 27/11/2008)


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Carta degli spazi aperti: il paesaggio del Trentino Marzemino Superiore Doc di Isera.

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Tra gli interventi già pianificati o in corso di realizzazione messi in rete da questo progetto è particolarmente significativo il progetto di recupero e valorizzazione di Castel Pradaglia (9) che prevede sia un intervento di ripristino ambientale che interessa le pendici e il piano basale della collina, sia l’intervento specificatamente monumentale teso al ripristino alla messa in sicurezza e al blocco del degrado delle murature superstiti del castello. Progetto Strada interpoderale Isera –Nomi Il progetto della strada interpoderale Isera Nomi, ha come obiettivo prioritario quello di tutelare la memoria storica del paesaggio agrario tradizionale e di promuovere la fruizione turisticoculturale del paesaggio pedemontano. A tal fine lo Studio prevede la ristrutturazione di un'antica strada inter-poderale che collega, sul versante collinare della Vallagarina, Isera a Nomi, passando per Pomarolo, Villa Lagarina e Nogaredo e la riconnessione con altri tratti della viabilità carrabile dell’area pedemontana, per garantire

il passaggio dei mezzi agricoli e la fruizione turistica sostenibile . Il progetto prevede inoltre la ristrutturazione e la messa in sicurezza del collegamento PatoneLenzima via Castel Corno. Il progetto si inserisce all’interno delle strategie di valorizzazione e recupero previste dal Patto d’area della destra d’Adige Lagarina (10) ai fini del rafforzamento del sistema agricolo locale e la promozione turistico-culturale dell’area pedemontana. Sono in tal senso parte integrante del progetto gli interventi di recupero delle aree agricole sottoutilizzate o abbandonate, di proprietà comunale, per produzioni vinicole ispirate ai principi dell’enologia contemporanea: vigneti “estremi” in condizioni di seminaturalità (Muller Thurgau, Chardonnay, etc) secondo i criteri stabiliti e adottati dalle Cantine della provincia. Progetto Percorrenze montane Il progetto percorrenze montane é volto a favorire la fruizione “lenta” dell’area montana, ed è rivolto ai turisti, ma soprattutto alla popolazione locale per rafforzare i legami con il territorio e recuperare e mantenere vive identità e cultura di montagna. A tal fine, nello Studio, sono stati individuati alcuni sentieri e mulattiere che costituiscono la struttura portante della rete di collegamento pedonale dell’area montana e sono oggetto di interventi prioritari di ristrutturazione e recupero volti a favorire la facile accessibilità e percorribilità dei sentieri per una pluralità di utenti.


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Sentieri Urbani / 9

Il Masterplan di Bolzano di Peter Morello e Francesco Sbetti

Il centro storico di Bolzano visto dall’alto

1. I caposaldi del progetto urbano Il Masterplan Per Masterplan si intende un percorso di innovazione in grado di offrire una risposta adeguata ai bisogni e alle aspettative del vivere e abitare in una città posta al centro delle Alpi e dei flussi di idee, persone e merci tra nord e sud dell’Europa. Da oltre 100 anni Bolzano è governata nei suoi processi di crescita e trasformazione da importanti Piani urbanistici, che la città ha voluto darsi come regola e modello per tutelare le sue qualità architettoniche e ambientali. Oggi, pur in assenza di una riforma urbanistica capace di una visione strutturale e strategica, superando la logica prescrittiva del Piano intendiamo proporre un percorso che affidi a un diffuso e articolato programma di riqualificazione urbana il consolidamento e l’ampliamento dei luoghi di eccellenza per estendere l’attrattività delle parti centrali della città all’intero territorio comunale (Fig. 1). Il Masterplan rappresenta il progetto di città, dove vengono definiti gli ambiti di azione che i diversi soggetti pubblici e privati potranno attivare e nel contempo individua i limiti e le invarianti rispetto a tali azioni. Il Masterplan si configura come lo strumento innovativo che individua e disegna le opportunità che con strumenti tradizionali, varianti e Puc, si attivano quando, e solo quando, sono necessarie. Storia di piani e storia di città A Bolzano, per storia, ma anche per cultura urbanistica consolidata, il rapporto fra Piano ed evoluzione urbana è molto stretto, non solo riguardo alla rispondenza formale delle previsioni urbanistiche, ma soprattutto per il concretizzarsi dell’idea sottesa ad ogni Piano che ha determinato la possibilità di riconoscere la geografia delle stratificazioni urbane e sociali: la città medioevale, quella ottocentesca, la città fascista, le espansioni degli anni ‘70 e ‘80, i nuovi quartieri degli anni ‘90. Disegno urbano e funzionale che ha rappresentato nel tempo la sfida con le modernità che di volta in volta la città doveva vincere (il mercato e lo scambio oltre le Alpi, la ferrovia, l’industrializzazione, …), a partire da un territorio limitato, che ha portato ad elaborare il concetto di “densificazione e qualità urbana” come eredità storica della “città compatta” che si concretizza nel contemporane-

o come “alternativa alla dissipazione della risorsa peri-urbana, ma anche come sfida culturale verso la sperimentazione di modelli insediativi capaci di proporre nuova e più alta qualità nella forma della città”. Contenuti ed elaborati del Masterplan Al Piano urbanistico, secondo la normativa, competono due ruoli: quello di una pianificazione delle scelte strutturali e quello di un Piano degli interventi. Il primo livello delle scelte strutturali e strategiche in merito all’equilibrio sociale ed economico, al sistema degli insediamenti, al sistema ambientale viene assunto come riferimento normativo per la costruzione del Masterplan del Comune di Bolzano. Il Masterplan è costituito da un complesso di documenti tra loro integrati (di conoscenza, direttiva e indirizzo, vincolo e tutela, valutazione), che concorrono nel loro insieme al conseguimento degli obiettivi del Piano. La componente normativa del Masterplan si articola in direttive e indicazioni per la redazione della pianificazione urbanistica generale e attuativa e costituisce riferimento per la pianificazione e le politiche settoriali del Comune e si confronta con quelle provinciali. Piani urbanistici generali, attuativi e di settore


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Questo approccio non vuole mettere in discussione i punti di forza della gestione urbanistica che hanno saputo nel tempo contenere il consumo di suolo e costruire una città compatta senza episodi di periferie rurali, quanto piuttosto porre attenzione alle relazioni e al territorio agricolo valutato come risorsa per la città: per la sua forma, il suo clima, il suo paesaggio. La conformazione degli assetti territoriali definita nella tavola del Masterplan “Il disegno strutturale e strategico della città” individua 13 ambiti.

Fig. 1 - La visione strategica La vision è il documento politico tecnico che propone il racconto del futuro possibile. Rappresenta il punto di partenza per definire le strategie e l’occasione di confronto sulle responsabilità di lungo periodo che l’amministrazione si assume.

non potranno essere in contrasto con le direttive e gli indirizzi del Masterplan. Le previsioni contenute nel Masterplan non comportano comunque la costituzione di diritti e/o obblighi per le proprietà interessate. Valutazione degli effetti ambientali delle trasformazioni Il Masterplan sulla base della conoscenza dello stato dell’ambiente illustrata nel Quadro ambientale, definisce nella Vas: - gli obbiettivi di sostenibilità ambientale; - le condizioni e le criticità di ciascun ambito territoriale potenzialmente interessabile da trasformazioni e le eventuali azioni o mitigazioni atte ad evitare, ridurre o compensare gli effetti ambientali negativi connessi agli interventi previsti dal Masterplan; - le azioni necessarie per il monitoraggio nel tempo dell’attuazione del Piano e dell’evoluzione delle condizioni di sostenibilità (Fig. 2). La partecipazione come progetto di scelta e condivisione L’informazione e la partecipazione rappresentano l’elemento qualificante del nuovo Piano. Si tratta di un percorso (già avviato) che, non pone più la partecipazione come atto finale per legittimare, anche democraticamente, le scelte, ma che prevede invece il coinvolgimento in tutte le fasi di elaborazione del Piano. Intendiamo affermare che deve essere superata la vecchia idea di piano vincolante in cui c’è già scritto esattamente cosa si può e cosa non si può fare in tutte le aree. I cittadini e le loro associazioni devono poter esprimersi e partecipare alla costruzione delle decisioni. 2. Il disegno di Piano Il disegno strutturale e strategico della città Il Piano intende rappresentare una nuova immagine della città che comprenda all’interno della sua cornice oltre alla figura urbana anche la figura dell’intero territorio.

Città consolidata. La città esistente, così come si è trasformata e consolidata nel tempo, costituisce un sistema complesso in cui si intrecciano usi diversificati, sistemi edilizi storici e recenti, ambiti produttivi e ampi parchi inseriti all’interno delle maglie del tessuto edificato. Per questo ambito valgono le regole definite dalla normativa urbanistica provinciale, dal Puc, dai Piani attuativi, dai vincoli e dalle tutele in vigore, che assieme devono concorrere al recupero e alla riqualificazione diffusa dei tessuti insediati. Le direttrici delle nuove centralità. All’interno della città consolidata il Masterplan individua precisi ambiti vocati ad accentrare funzioni e servizi pubblici e privati sia per il quartiere che per tutta la città, da connettere tra di loro e con il sistema del Parco delle Rive. Gli strumenti tradizionali del Puc, del Put e del Piano commerciale possono costruire le premesse per la riqualificazione urbanistica, della mobilità e delle attività commerciali, ma andranno accompagnati e rafforzati da concorsi di progettazione partecipata. Le aree di trasformazione. Le zone di trasformazione urbanistica comprendono quelle parti di città caratterizzate in alcuni casi da degrado urbanistico e/o funzionale con assenza di armatura urbana e con scarsa accessibilità; in altri da degrado edilizio, eterogeneità tipologica e vuoti urbani privi di identità; in altri ancora da processi di sostituzione attuati con interventi singoli senza le minime dotazioni di standard. Queste aree, dove è urgente l’avvio di processi di riqualificazione e rigenerazione urbanistica e funzionale possono costituire anche la risposta alla domanda di crescita urbana futura invertendo la logica di aggressione di nuovo terreno agricolo. Gli strumenti per intervenire sono da un lato quelli tradizionali della pianificazione attuativa e dall’altro i nuovi strumenti dei piani di riqualificazione urbanistica e delle convenzioni urbanistiche. Le aree produttive di recupero. Le zone produttive di Bolzano trovano origine lontana e le criticità che presentano sono spesso determinate dalla storia relativa ad ogni singola azienda. Nel tempo si è determinata una situazione di


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contemporanea presenza di ambiti sotto utilizzati, a volte degradati e per contro di imprese consolidate in edifici di buona qualità. Il Masterplan prevede per queste aree, in stretta connessione con le associazioni degli imprenditori, di operare attraverso la creazione di opportune “zone ed edifici di rotazione” al fine di attuare gli interventi in modo coordinato e progressivo attivando anche forme di premialità. Le direttrici di espansione. Nell’individuare le possibili direttrici di sviluppo il Masterplan esclude le aree che per ragioni diverse sono comunque da salvaguardare, cerca un equilibrio tra la dotazione di servizi e la capacità di accogliere ulteriori residenti, tiene conto della possibilità per ciascun quartiere di avere una crescita commisurata al fabbisogno e ad uno sviluppo ragionevole. All’interno delle possibilità/ opportunità introdotte con il Masterplan sarà il Puc (piano operativo) e/o le sue varianti ad attivare le diverse zone tenendo conto delle strategie e priorità indicate, del dimensionamento complessivo, dello sviluppo che si intende promuovere. Gli ambiti di ridefinizione dei margini urbano rurali. Gli ambiti compresi in questa definizione sono zonizzati, come terreno agrico-

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lo, ma segnati dalla presenza di agglomerati di abitazioni. Il Masterplan intende individuare le aree con caratteristiche di zone residenziali di completamento e tramite convenzione urbanistica prevedere limitate quote di edificabilità agevolata e privata e/o aree di verde pubblico per quelle parti della città che ne sono carenti. Limiti fisici alla nuova edificazione. Il Masterplan individua i limiti fisici degli insediamenti oltre i quali nessuna nuova edificazione è consentita, per motivi di carattere paesaggistico, ambientale, di salvaguardia del territorio agricolo, o di fragilità di diversa natura. I parchi (parco delle rive, parchi e giardini esistenti, i nuovi parchi). I parchi sono definiti come l’articolazione della rete ecologica all’interno del centro urbano, costituiscono una importante risorsa climatica e paesaggistica e rappresentano le aree di intrattenimento dedicate alla fruizione del verde. Cunei verdi. Sono le parti del territorio rurale nelle quali l’attività agricola è presente e integrata con il sistema ecologico e ambientale. Zona agricola. Il territorio rurale è l’ambito dove il Masterplan persegue l’obiettivo generale

Fig. 2 - Il paesaggio e il verde urbano I due terzi della superficie sono costituiti da spazi agricoli boschi e parchi. Grazie all’attenta azione di tutela paesaggistica ed allo sviluppo compatto dell’edificazione, tali zone sono state mantenute.


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Fig. 3 - Il disegno strutturale e strategico della città Il Masterplan si configura come un disegno strutturale della città, dove vengono definiti gli ambiti di azione e nel contempo individuati i limiti e le invarianti rispetto a tali azioni.

dell’integrazione tra politiche di salvaguardia ambientale e le politiche di sviluppo di attività agricole. Zona boschiva e verde alpino. Sono le parti del territorio rurale nelle quali la presenza di serbatoi di naturalità e di un’alta qualità ambientale e costituiscono i capisaldi della rete ecologica comunale (Fig. 3). La mobilità pubblica Il superamento del congestionamento derivante dal traffico privato diventa un obiettivo strategico, ma anche simbolico del Piano. Ferrovia urbana e tram diventano quindi la strategia per rispondere alla mobilità e contemporaneamente dare una risposta di qualità alla città. Il progetto della ferrovia urbana si dovrebbe concretizzare, sulla linea del Brennero, consentendo una maggiore frequenza di treni oltre alla possibilità di realizzare fermate ravvicinate; sulla linea Bolzano-Merano per rendere accessibile il trasporto ferroviario agli abitanti dei nuovi quartieri. L’armatura del trasporto pubblico viene ad essere rafforzata da una nuova linea da CaldaroBolzano fino alla funivia di Renon, che attraversa nella città zone particolarmente abitate, oltre a garantire una accessibilità per i pendolari dell’Oltradige. Il trasporto pubblico urbano oltre a poter utilizzare queste infrastrutture può completarsi con due prolungamenti: - la linea di tram che parte da San Giacomo/ Laives fino al nodo di interscambio in piazza Adriano, a servizio di tutta la zona produttiva; - la linea di tram che dal nodo di interscambio di piazza Adriano arriva fino al nuovo quartiere Casanova passando per le zone più abitate della città.

La dimensione energetica del Piano A fianco del consumo di territorio il Masterplan mette al centro della azione urbanistica il contenimento del consumo energetico. Il Puc negli interventi di trasformazione urbana deve tendere a recuperare il più possibile in forma passiva l’energia necessaria a garantire le migliori prestazioni per i diversi usi finali privilegiando prioritariamente il corretto orientamento degli edifici e l’attenta integrazione tra sito e involucro e compiendo le scelte di carattere tecnologico – impiantistico per la massimizzazione dell’efficienza energetica. A tale scopo il Puc dovrà prevedere l’obbligatorietà della redazione di specifici Piani energetici attuativi da prevedersi anche per estendere il risparmio energetico agli edifici esistenti. Per raggiungere l’obiettivo di ridurre le emissione di Co2 è opportuno che la produzione di energia si adatti al territorio cittadino per “isole” piuttosto che a “raggiera” per ridurre le dimensioni delle canalizzazioni e le perdite di energia legate ad un eccessivo sviluppo delle reti. Il fabbisogno energetico dovrà essere coperto da una rete di teleriscaldamento che può trovare il suo punto di riferimento principale nel termovalorizzatore e in una serie di centrali a biomassa dislocate sul territorio comunale. Ulteriori interventi di “produzione di energia” in grado di supplire, almeno in parte al fabbisogno energetico della città consolidata, previa valutazione di fattibilità, possono trovare localizzazione nelle aree di trasformazione urbanistica. Il Masterplan prevede che tutti i nuovi edifici dovranno essere zero emission; per perseguire questo si prevede di rendere obbligatorio per le nuove costruzioni lo standard di CasaClima A. Le preesistenze edilizie devono essere indotte con opportuni incentivi ed eventuali premi di


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cubatura a ridurre il loro consumo energetico. L’attuazione del Masterplan Il Masterplan intende superare lo schema che prefigurava uno stato finale della città perfettamente compiuto; un disegno che probabilmente non sarà mai attuato e che sicuramente si realizzerà per tappe; si prevede quindi un sistema di priorità e di controllo dell’attuazione per fasi in modo da valutare quali saranno gli impatti delle scelte sulla città e come la città potrà gestire le fasi intermedie. In termini urbanistici la sua definizione “strutturale” gli fa assumere la funzione di Piano guida nei confronti di tutta la pianificazione comunale e non la funzione normativa nei confron-

Crediti Sindaco: Luigi Spagnoli Assessore all’Urbanistica e ai Tempi della Città: Maria Chiara Pasquali Coordinamento generale: Francesco Sbetti - Società Sistema Snc Ufficio di Piano Servizio Pianificazione Territoriale: Rizzolo Fulvio (Responsabile Ufficio di Piano), Adriana Cattaruzza, Fulvia Gambalonga, Martha Pfeifer, Helmut Pircher Ufficio Mobilità: Ivan Moroder, Sergio Berantelli, Barbara Zannin Ufficio Statistica e Tempi della Città: Sylvia Profanter, Sabina Scola Ufficio Tutela dell’Ambiente e del Territorio: Renato

ti dei singoli cittadini e proprietari. Il Masterplan, oltre agli strumenti tradizionali affida grande importanza a quelli nuovi recentemente introdotti nella LUP. Le innovazioni previste dalla riforma da un lato consentono importanti elementi di flessibilità attraverso norme che superano la monofunzionalità improponibile a un sistema produttivo che tende sempre più a mixare funzioni terziarie e commerciali, oltre a garantirsi un’adeguata possibilità di integrare funzioni urbane come la residenza. Dall’altra adeguano la struttura urbanistica in merito alla possibilità di integrare diverse tipologie e modalità di intervento e di coinvolgere soggetti pubblici e privati nell’attuazione di piani di trasformazione urbanistica (Fig 4).

Spazzini, Cecilia Baschieri, Priska Egger, Emanuele Sascor Società Sistema Snc: Francesco Sbetti, Pierguido Morello, Rosita Izzo, Vincenzo Vecchio, Helene Hölzl, con la collaborazione di Nicola Calende, Marinella Martin, Sara Giacomella, Vincenzo Vecchio Consulenze specialistiche Approfondimenti progettuali: Carlo Azzolini, Claudio Lucchin, Elena Mezzanotte, Lia Nadalet, Wolfgang Piller, Peter Plattner, Alessia Politi, Luigi Scolari Energia: Stefano Fattor e Loris Alberghini Infrastrutture: Alberto Ardolino, Marina Bolzan, Hannes Hepperger, Danilo Postal

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Fig. 4 - I progetti esplorativi per le nuove centralità Le simulazioni progettuali, incentrate sul Parco delle Rive e sulle potenzialità che si aprono alla città in termini di riqualificazione e qualità urbana, consentono di prefigurare soluzioni spaziali degli effetti del piano.

Aspetti giuridico-normativi: Roberto Nicoli Paesaggio e verde: Marco Molon (in.ge.na) e Günther Dichgans Comunicazione-Urban center: Hstudio, Carlo Bassetti, Marco Ferracuti, Alessandro Antonuccio Tempi della città: Politecnico di Milano – Piacenza – Sandra Bonfiglioli, Roberto Zedda, Lucia Zanettichini Collaboratori Irene Breda, Pierluigi Meneghello, Marco De Rovere, Francesco Remonato Il logo è di Helene Hölzl


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munque specialistico, del compito di fondare “oggettivamente” decisioni che stentavano ad essere accettate a causa di quella che si presumeva essere (o si voleva ridurre a) una mancanza di elementi informativi conclusivi. Anche questo punto di vista, ricorrente e spesso invocato quando si parla di governi dei tecnici, è altrettanto riduzionista del precedente: per gestire un ippodromo non è detto che si debba chiamare per forza un cavallo.

È Le ambivalenze della PARTECIPAZIONE di Giorgio Antoniacomi

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uello della partecipazione, come è agevole riconoscere, è un tema centrale nell’ambito delle politiche urbane e delle politiche pubbliche in genere. È, infatti, esperienza ricorrente constatare quanto sia difficile assumere e, poi, attuare decisioni che competono formalmente all’Amministrazione pubblica senza lasciare traccia sul terreno, bene che vada, di qualche smentita e di numerose incertezze e inconcludenze. Né si tratta solo del problema, tipicamente italiano, della frammentazione (talora quasi patologica) del processo decisionale, suddiviso in molti (spesso troppi) passaggi, che mettono capo a sfere decisionali ed a competenze diverse, dove i momenti e le istanze di natura ostativa sono spesso soverchianti rispetto al momento propositivo. Si è forse troppo ingenuamente ritenuto che la crisi della decisionalità pubblica, quello che potremmo definire il “peccato originale” della non-decisione, derivasse – oltre che da un rapporto ormai definitivamente cambiato fra sistema politico e società civile e dalla stessa natura complessa delle questioni in gioco – da una debolezza intrinseca del momento politico; e si è cercato di porvi rimedio, a partire dalla metà degli anno Novanta, con soluzioni di ingegneria elettorale: introducendo, cioè, l’elezione diretta dei capi degli esecutivi e il sistema maggioritario, a garanzia di una legittimazione forte e diretta dei sindaci e di una maggiore tenuta del-

le coalizioni che li sostengono. Una scelta che si proponeva di interpretare una crescente e comprensibile domanda di semplificazione del quadro politico, di stabilità, di decisionalità e, in una parola, di governo. Ma si è trattato anche di una scelta che ha, forse, contribuito ad ingenerare un equivoco, quasi che la difficoltà di un processo decisionale potesse essere ridotta eliminando “artificialmente” alcuni fattori di complessità e semplificando l’ambiente decisionale. Si è trattato di un cortocircuito logico e di un errore, perché si è confusa la maggiore efficienza del processo decisionale con la sua efficacia (la concreta implementazione di quanto si è deciso) e, soprattutto, perché si é cercato di escludere dal momento e dai luoghi di formazione delle decisioni alcuni portatori di interessi. Con il risultato che, oltre ad uno spreco di conoscenze, di competenze e di saperi, gli interessi allontanati dalla porta sono puntualmente rientrati attraverso la finestra; e l’incapacità di decidere, ormai illusoriamente superata, ha prodotto numerose “false partenze”, trasferendosi e scaricandosi sull’impossibilità di attuare la decisione comunque adottata e sulla necessità, correlata, di gestire ricorrenti emergenze comunicative. Altre volte, il problema di “far passare” le decisioni è stato invece consegnato a soluzioni tecniciste, attraverso l’attribuzione al sapere scientifico, o co-

oggi possibile e necessario tracciare un primo bilancio di questa lunga, contraddittoria stagione per capire che cosa abbia funzionato e che cosa, invece, debba essere migliorato e per riformulare le prospettive e gli strumenti della partecipazione in maniera consapevole ed esigente. Ad uno sguardo d’insieme, è abbastanza agevole riconoscere alcuni limiti strutturali di questi approcci, che vanno opportunamente esplicitati e discussi. Un primo problema connesso alle esperienze partecipative sin qui sperimentate riguarda l’episodicità dell’approccio, condotto necessariamente – in assenza di precedenti specifici cui fare riferimento e di ogni cogenza giuridica – per tentativi ed approssimazioni. Le forme partecipative codificate (cioè giuridicamente sancite) da parte degli enti locali riguardano infatti, ad oggi, soltanto gli istituti referendari, le consulte, gli istituti per la trasparenza dell’azione amministrativa e la definizione di una funzione specifica delle circoscrizioni quali “organismi di partecipazione”. Le modalità concretamente messe in atto si sono realizzate, invece, nella incerta e dubbia “terra di nessuno” di ciò che la legge non impone, ma nemmeno vieta. Salvo poi attivare “meccanismi di difesa” (soprattutto nei piani regolatori), che hanno risolto l’inclusione degli interessi e il dibattito pubblico nella liturgia delle osservazioni. Ne sono derivate almeno due conseguenze: una è quella della discontinuità dell’impegno, lasciato a sensibilità occasionali e mai puntualmente verificato nella sua portata e nella sua effettiva consistenza; l’altra è quella della incertezza degli esiti, dal momento che non sempre chi ha promosso dinamiche partecipative ha saputo vincolarsi alle conseguenze dei processi indotti e dare la necessaria garanzia di effettività all’impegno stimolato: il rischio, come è del tutto evidente, è quello di far percepire uno scarto imbarazzante fra ciò che si promette e ciò che si mantiene.


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n secondo problema ha riguardato il rapporto, per definizione ambivalente, fra democrazia diretta e democrazia rappresentativa. Si è avuta spesso la percezione di una sorta di scetticismo pregiudiziale da parte di taluni ambienti – sia politici, sia tecnici – circa l’effettiva utilità, se non proprio l’urgenza, di momenti partecipativi. In questo senso, si è talora rischiato che sollecitazioni anche forti, provenienti da alcuni ambienti particolarmente illuminati, si riducessero nella celebrazione di rituali comunicativi o nell’espressione di un’intenzionalità “per modo di dire”. Ci sono state, in breve, resistenze più o meno apertamente dichiarate. E’ quindi importante, probabilmente vitale, che venga definito e risolto in via preliminare un nodo non scontato: è necessario decidere che cosa si intenda davvero per partecipazione (la tassonomia oramai codificata dalle pratiche da operazioni promozionali a campagne informative fino all’effettivo trasferimento di potere decisionale) e, soprattutto, se veramente le istanze elettive intendano cedere quote di sovranità a momenti avvertiti come estranei.

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n terzo problema concretamente riscontrato ha riguardato quella che potremmo definire una concezione ingenua della partecipazione: la convinzione un poco illusoria che promuovere momenti partecipativi fosse non solo necessario, ma anche sufficiente per dirimere o per prevenire situazioni conflittuali o per elaborare proposte ad elevato valore aggiunto. Questa convinzione, più diffusa di quanto non sembri, dà per scontati numerosi (probabilmente troppi) presupposti, che rimangono da dimostrare. Non sono per nulla scontati, infatti, la disponibilità dei cittadini a mettere a disposizione il proprio tempo, le vere motivazioni che spingono alla partecipazione, i criteri di selezione dei partecipanti e la stessa garanzia di rappresentatività dei momenti di confronto allargato; non vi è alcuna garanzia a priori sul fatto che la volontà dei più restituisca anche la soluzione migliore e, forse, nemmeno la più condivisa. In poche parole, la partecipazione – pur contenendo in nuce il germe di un riscatto – non costituisce “di per sé” una soluzione univoca e conclusiva a tutti i problemi della democrazia.

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n quarto problema, per certi versi implicito nella specificazione del precedente, riguarda le possi-

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bili distorsioni della partecipazione. Si rischia infatti di far passare per inclusione democratica e, in ultima analisi, per espressione dell’interesse generale ciò che, invece, riflette palesemente visioni o interessi del tutto parziali; in questo momento, in particolare, si assiste, da un lato, al tentativo da parte di minoranze particolarmente vocali e visibili dal punto di vista mediatico di colonizzare gli spazi del confronto pubblico e della decisionalità; dall’altro lato, si registra l’ostinata e contraria prevalenza del “nimbysmo”, cioè di orientamenti radicalmente oppositivi che, rifiutando soluzioni non gradite e, in fondo, l’idea stessa di ogni mediazione (e comunque la sua inevitabilità), finiscono per ignorare l’esistenza stessa dei problemi. Qui, per giunta, si affaccia uno dei problemi più ostili per un concezione matura della democrazia, dal momento che sempre più spesso un’opinione pubblica alla ricerca di convenienze immediate e parziali – o, se vogliamo, un elettorato che considera sé stesso come “consumatore” del mercato politico – esercita un forte appeal nei confronti di una politica a sua volta interessata a mettere all’incasso un consenso di breve momento, secondo logiche di soddisfazione e di esigibilità immediata.

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n quinto ordine di questioni critiche tocca il tema della dimensione specialistica della partecipazione. Anche questo, forse, è un problema implicito in una sua concezione ingenua, che tende quasi a risolvere il “prendere parte” in una questione di buona volontà reciproca e in una capacità implicita quasi maieutica di far emergere problemi e soluzioni dall’intelligenza diffusa. Questa concezione non considera – o sottovaluta – la necessità di almeno due ordini di apporti specialistici: quello dei saperi esperti (in grado di veicolare informazioni, analisi, interpretazioni che gettino luce sugli argomenti in discussione) e quello della gestione dei momenti partecipativi, che ha bisogno di una tecnicalità anche raffinata a garanzia di un presidio (cioè della capacità di legittimare e di gestire i processi inclusivi), di un corretto dimensionamento (cioè della capacità di adeguamento degli strumenti alla specificità dei problemi, vale a dire alla loro scala e alla loro natura), di un sistema di regole (anche per evitare che l’apertura dell’arena decisionale divenga il pretesto per far riemergere un rimosso fatto di rancori e di rivendicazioni), di una esplicitazione dei tempi e dei

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costi del partecipare.

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ecuperare il senso chiaro e la praticabilità della partecipazione significa prima di tutto, in termini definitori, ritornare ad una tassonomia che assuma una scelta di campo circa il livello di partecipazione che si voglia promuovere – se un livello formalistico (che, a rigore, non può nemmeno essere definito partecipativo), un livello prudente o un effettivo trasferimento di titolarità – e specifichi la forma partecipativa corrispondente (che può andare dal più vuoto rituale e dal paternalismo rassicurante alla consultazione, fino a forme compiute di autogoverno). In secondo luogo, è necessario considerare che i problemi rispetto ai quali si generano valorizzazioni plurali e discordanti, cioè conflittualità, non hanno sempre e necessariamente una chiara oggettività. In altre parole, si deve tener conto che i nodi da affrontare sono spesso molteplici e mutevoli e che la questione fondamentale sulla quale si fondano le divergenze è spesso costituita dalla definizione del problema più che dalla pluralità e dal differenziale di accettabilità delle soluzioni. In termini schematici, va ribadito che la partecipazione non è un modo per negoziare le soluzioni più idonee o più accettabili, ma è prima di tutto un modo per addivenire ad una condivisione della natura e della portata dei problemi attraverso la loro discussione pubblica. Un terzo equivoco è rappresentato dall’illusione dell’unanimità. Per illusione dell’unanimità possiamo intendere la convinzione ingenua che i metodi partecipativi consentano di pervenire ad una soluzione che, in un modo o nell’altro, metta tutti d’accordo. Anche questa è una convinzione che la realtà si incarica di smentire, perché i punti di vista non sono soltanto plurali, ma spesso contraddittori e reciprocamente incompatibili. E perché spesso, nei momenti pubblici formalmente convocati, le agende proposte vengono disattese da altre priorità. Per questo, va ribadito che l’obiettivo della partecipazione coincide con l’assunzione di decisioni (o con la formazione di un consenso) su cui non vi sarà mai (o vi sarà solo eccezionalmente) una piena convergenza rispetto ad una soluzione ottimale, mentre ciò che va ricercato non può che essere la massima convergenza possibile attraverso mediazioni e compromessi.


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Un «teatro d’ombre» nei villaggi alpini: iper-territorialità e riservatezza di Christian Arnoldi

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li spazi esistenziali, fisici e simbolici, all’interno dei quali gli individui trascorrono le proprie esistenze sono costituiti da una trama, variabilmente fitta, di norme, di regole, di prescrizioni che servono a orientare i loro comportamenti. Anche quando sembrano vuoti e sgombri questi sono densi di fatti sociali, di convenzioni, di costrizioni che ne regolano le dinamiche. Prendiamo come esempio gli spazi specifici del gioco, di tutti i giochi conosciuti: le palestre, i campi da calcio, da pallacanestro, da pallavolo; la scacchiera, il gioco dell’oca, il tavolo da gioco... Essi acquistano senso e plausibilità agli occhi dei giocatori soltanto grazie alle istruzioni e alle regole che sovrintendono al loro funzionamento. Lo stesso accade per i luoghi pubblici: le piazze, le strade, i cinema, i teatri, le stazioni, i negozi; anch’essi acquistano significato e diventano fruibili grazie alle norme e ai meccanismi di controllo che permettono agli individui di interagire al loro interno. E ciò vale per tutti i contesti che noi possiamo immaginare: sia per quelli chiusi e circoscritti, sia per quelli ampi e articolati come i villaggi oppure i quartieri cittadini. In particolare per quanto riguarda lo spazio relazionale prettamente comunitario di alcuni villaggi delle valli trentine di Non, Sole, Fiemme e Fassa, dove abbiamo condotto alcune ricerche a partire dal 2004, si può riscontrare che una delle norme fondamentali che governano il rapporto tra abitanti e territorio sia il rispèt. Si tratta di una serie di prescrizioni la cui violazione induce timore, imbarazzo, inadeguatezza, vergo-

gna: quanto nel linguaggio locale viene spesso tradotto con il termine rispèt o respèt. Questa norma generale, che potrebbe persino rivelarsi come una vera e propria struttura antropologica, è piuttosto articolata, e come vedremo tra poco contribuisce a determinare la collocazione degli individui all’interno degli spazi della comunità, a limitare i loro movimenti, il raggio d’azione di ognuno, i rapporti interni ed esterni alla comunità, le loro relazioni, persino ad orientare la comunicazione interpersonale. Un primo corollario di questa norma è la territorialità, vale a dire il legame e il vincolo di appartenenza che ogni individuo sente verso il proprio luogo di vita. La manifestazione più eclatante di questa condizione è senza dubbio il campanilismo ovvero un certo snobismo manifestato dagli abitanti di ogni villaggio nei confronti degli abitanti degli altri, con la tendenza a considerare il proprio paese il migliore e il più bello. Le numerose iniziative e i progetti diffusi nelle valli per favorire la collaborazione tra paesi e comuni di una medesima zona nascono proprio a partire dalle difficoltà e dalle resistenze in questo senso. Da un certo punto di vista l’attaccamento al territorio è funzionale al rafforzamento dei legami di solidarietà tra gli abitanti di un luogo, al consolidamento dei rapporti interni alle comunità. Oltre a questo però vi è anche un vero e proprio obbligo al mantenimento dei confini e delle separazioni tra i paesi che si manifesta in molteplici modi: dalla più varie rivalità, alle caparbie differenze linguistiche. Questo vincolo, derivante probabilmente dalla necessità di tenere a bada la crescita dei gruppi che vivono in un territorio dove le risorse sono assai limitate, funziona ancora oggi; al punto tale che ogni paese tende a essere il più possibile completo, autosufficiente, chiuso e in competizione con gli altri. Un secondo elemento conseguente alla norma del rispèt è l’iper-territorialità. Si tratta di una particolare concezione dello spazio interno alle comunità, caratterizzata dalla iperframmentazione, ovvero da un susseguirsi di confini, di limiti e di soglie invalicabili. Alcuni di questi confini sono evidenti: pensiamo ai recinti, ai muretti, ai cancelli, agli steccati, alle siepi, alle ringhiere, alle pietre confinarie, agli alberi; servono a marcare una delimitazione, a indicare una separazione tra proprietà diverse. Altri limiti invece sono dati per scontati, non si manifestano in maniera evidente sul territorio e hanno a che fare con la destinazione e l’uso dei luoghi. In ogni paese vi è uno spazio per il gioco, uno per


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il lavoro, uno per il ritrovo, uno per la discussione politica, uno per gli affari. Naturalmente nel tempo possono modificarsi, possono spostarsi, ma non vengono mai meno. Nel caso del gioco per esempio i ragazzi sanno dove possono e dove non possono ritrovarsi per divertirsi. Quelli che abitano in un rione tendenzialmente tendono a giocare tra di loro in certi luoghi, senza andare a invadere gli spazi di quanti giocano da un'altra parte. Eventualmente per ritrovarsi tutti insieme utilizzano le aree comuni, come il campetto da calcio, oppure il parco giochi. Sono soggette alla logica della iperterritorialità anche la modalità con cui vengono concepite le abitazioni private. Di solito sono tenute sempre in perfetto ordine e costituiscono una sorta di “mausoleo” dell’intimità familiare. Difficilmente si entra nelle case degli altri. Spesso nemmeno i bambini invitano i loro coetanei e i loro amici a giocare a casa. Lo spazio del gioco collettivo è all’esterno delle case. Esse, in effetti, difficilmente sono un luogo di socializzazione e di incontro, anche per gli adulti. Non è frequente per esempio invitare qualcuno a cena, oppure ritrovarsi la sera a casa dell’uno o dell’altro. È molto più probabile che ognuno mangi a casa propria e che poi esca per incontrare gli amici nei luoghi di ritrovo prestabiliti, come i bar o i pub. Un altro modus operandi della iperterritorialità riguarda l’occupazione e la lottizzazione degli spazi pubblici; parchi, pizzerie, bar. Ognuno di questi luoghi viene colonizzato dai diversi gruppi, dalle diverse compagnie, per cui si sente parlare frequentemente del “nostro bar”, il “nostro pub”, la “nostra pizzeria”. Alcuni bar per esempio, frequentati sempre dalle medesime persone, con un loro tavolo abituale, che fanno la stessa ordinazione, giocano alla solita partita a carte, proprio per questa ragione sono di difficile accesso. Chi entra, di solito, è sottoposto allo sguardo interrogativo di tutti gli avventori abituali e ciò provoca imbarazzo, fa sentire fuori luogo, mette in soggezione, fa provare un sentimento che potremmo appunto definire, ancora, rispèt. Il meccanismo di divisione e di controllo dello spazio fisico interno alle comunità che abbiamo chiamato iper-territorialità, funziona anche per lo spazio psichico degli individui. Potremmo definire quest’altro ambito del rispèt come obbligo di riservatezza, divieto di invadere l’altrui privacy o spazio personale. C’è una sorta di timore di invadenza; prima di rivolgersi a

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qualcuno ci si pensa più volte, si lascia passare del tempo, si esita, si attende una situazione particolarmente favorevole e alla fine spesso si desiste per via della paura di disturbare, oppure per il timore di creare degli obblighi. Ciò vale anche nel caso in cui si vogliano chiedere delle semplici notizie o ci si voglia proporre per dare un aiuto. Il timore di invadenza fa in modo che talvolta gli stimoli e le intenzioni di cercare un contatto con gli altri si fermino sulla soglia di casa. È ancora il senso del rispèt a prevalere sulle intenzioni individuali; la paura di disturbare, di infastidire e di far perdere tempo fanno in modo che i contatti siano contenuti e limitati. Un ultimo aspetto di questa articolata regola di funzionamento degli spazi sociali osservati è legato paradossalmente al controllo. Come se non bastasse, oltre alla separazione tra le diverse comunità, alla divisione interna, ai limiti posti alle interazioni e in definitiva alla comunicazione, lo spazio dei villaggi è attraversato anche da consistenti flussi di informazioni sui suoi abitanti. Tutti sanno tutto di tutti. Il pettegolezzo è l’elemento simbolico più utilizzato negli scambi tra individui. E ciò evidentemente produce una ulteriore chiusura, un surplus di isolamento, questa volta motivato dal tentativo di preservarsi dalle chiacchiere e dai giudizi. Anche i giovani sono sottoposti a questo sguardo, alla sorveglianza di tutti su tutti e la loro situazione è aggravata da una esposizione maggiore ai modelli culturali globali veicolati dai vari mezzi di comunicazione e spesso malvisti e criticati nelle realtà paesane dove anche il divario generazionale è molto marcato. È difficile per i ragazzi mediare tra ciò che impone il gruppo dei pari, per esempio a scuola, e ciò che impone la comunità. Alcuni di loro percepiscono addirittura la realtà in cui vivono come una gabbia, al punto tale che nelle interviste alcuni definiscono i paesi come prigioni dove la socialità da un certo punto di vista è semi-coatta. In generale potremmo dire che la norma propria di questo contesto, che serve per garantire una convivenza pacifica, sicura e prevedibile, impedendo disagi e confusioni, tende a isolare gli abitanti dentro spazi ben definiti e delimitati, riducendo ulteriormente le già scarse occasioni di incontro rese difficili anche dalle condizioni ambientali, dagli spostamenti e dalle distanze. In tal modo la vita quotidiana sembra come svuotarsi di contenuti e valori esistenziali per impoverirsi nella superficialità ripetitiva di un teatro d’ombre.

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Le periferie come luogo di scontro e anomia o come occasione di incontro e di formazione societaria? di Rose Marie Callà I complesso de “Il Magnete” fotografato da Gabriele Basilico

Le periferie: da fenomeno negativo a occasione di cittadinanza In Italia, nel corso degli ultimi decenni, si è assistito ad una dinamica demografica positiva in città di varie dimensioni, caratterizzate da trasformazioni economiche che tendono all’innovazione e alla dinamicità (Davico, Mela, 2002:79). Questo fenomeno dettato principalmente da fattori economici e definito come “riurbanizzazione”, è accompagnato in primis da un aumento dei posti di lavoro che, conseguentemente, richiamano gruppi sociali ad alto livello di istruzione e formazione professionale. Contemporaneamente, in tali contesti urbani, si assiste ad altre trasformazioni che inducono anch’esse ad un aumento della popolazione: la riqualificazione del patrimonio edilizio del centro

storico, generalmente ad opera di soggetti pubblici, che a sua volta determina il rilancio sia dei servizi, sia dei mezzi di trasporto pubblici che delle infrastrutture. Ne scaturisce un “imborghesimento” sociale, architettonico ed urbanistico del centro storico (Davico, Mela, 2002:80). Questa porzione della città che subisce l’azione di restyling sembra tuttavia non funzionare come vettore di integrazione e di spazio pubblico, ma rimane luogo di autonomizzazzione degli individui calati in un prezioso e raffinato arredo urbano. Contemporaneamente a queste trasformazioni vissute dalla città formale, si assiste all’espansione della/e periferia/e, nella modalità diffusa. Questo anche perché, accanto ai flussi di gruppi sociali ad alto livello di istruzione e di reddito, si


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affiancano arrivi di gruppi sociali a basso reddito, generalmente provenienti da Paesi del Sud del Mondo. Lo sviluppo, infatti, delle economie cosiddette avanzate abbisogna di un parallelo sviluppo di economia di bassa qualità che permetta ai fruitori e attori delle prime di esplicitare i propri ruoli (Davico, Mela, 2002:81). Nonostante questi soggetti provenienti da Paesi in Via di Sviluppo siano a tutti gli effetti degli «utili invasori» (Ambrosini, 2000), ai residenti storici autoctoni appaiono soprattutto come elementi inquinanti da allontanare, ghettizzare, contenere in quelle eterogenee porzioni di città ai margini della sezione della città formale, occupata generalmente al centro storico e che rappresentano, a tutti gli effetti, delle «città parallele» (Ferrarotti, 2009). Consapevoli del fatto che è riduttivo e poco corretto circoscrivere il fenomeno dell’esclusione sociale nel contrasto centro-periferia in quanto esistono periferie ricchissime e centri che ospitano esclusi di ogni genere (Augé, 2007:17), è senz’altro vero che se in un passato post-bellico, oramai piuttosto lontano, le periferie rappresentavano la metafora della modernità e del progresso, oggi si evidenzia in esse soprattutto la scarsa qualità del loro ambiente urbano, il loro disordine funzionale, con l’assenza di servizi, di attrezzature e di spazi liberi, con la conseguente difficoltà da parte degli abitanti di appropriarsi del loro spazio, caratterizzato dall’assenza di occasioni e relazioni. Cittadini residenti «che si portano addosso anche lo stigma negativo del vivere in un quartiere problematico» (Guidicini, 2000: 52). Quello che spesso viene definito come il “dramma delle periferie” è rappresentato dall’emarginazione di interi gruppi sociali – vere e proprie subculture (Park, 1938) –, esclusi quasi sempre da un punto di vista sociale, spesso anche privati dei servizi essenziali, di spazi deputati alla relazionalità e di stimoli culturali. Come se la lontananza dal centro significasse irrimediabilmente perdita di opportunità (Ferrarotti, 2009:18). E tuttavia questi luoghi ai margini, percepiti come fonte di problema e/o privi di funzioni importanti, sono abitati da un numero crescente di individui che svolgono funzioni vitali per il centro, senza le quali il salotto della città propria cesserebbe di esistere. Ed i soggetti che svolgono tali funzioni vitali non sono «popolazione eccedente», vite di scarto (Bauman, 2004), ma persone che hanno lascia-

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to il loro paese e portano con sé ricchi bagagli culturali, anzitutto «ciò che di più prezioso una patria può donare: la nostalgia» (Roth, 2003:115). A fronte dello sviluppo delle città parallele, le governance urbane oscillano tra forme di segregazione di tali contesti periferici a tentativi di disciplinare la loro espansione, di omologare forme di convivenza non ortodosse, di annullare gli usi degli spazi pubblici non convenzionali. Il tentato processo di integrazione da parte della “città propria” avviene dunque sulla base di diversi imperativi: legalità, razionalizzazione, ordine sia esso di tipo urbanistico-architettonico con progettazioni disciplinanti dello spazio, sia di tipo socio-culturale con tentativi di contenimento delle diversità etniche. Le aree suburbane, per contro, si propongono come zone indeterminate, sia per il loro confini geografici mutanti e sia per i gruppi sociali eterogenei che in esse risiedono (Ferrarotti, 2009). Sia le azioni di segregazioni che quelle di riordino appaiono tuttavia dettate da una miopia di fondo che non tiene in dovuta considerazione le trasformazioni epocali che la società globale sta subendo e che, necessariamente, si ripercuotono anche sui destini delle aree urbane, siano esse formali o appartenenti alla “città altra”. Il fenomeno delle migrazioni internazionali, infatti, impossibile da arrestare a causa degli squilibri laceranti di natura sociale, economica a demografica tra nord e sud del mondo, ci pone di fronte a scenari urbani multietnici, nei quali lo scontro e l’incontro, i conflitti e le contaminazioni con l’Altro, sono e saranno progressivamente sempre più diffusi (Guidicini, 2008; Ferrarotti, 2009). Da un lato, dunque, si assiste ad una realtà locale “gelosa della propria specificità”, ma dall’altro il territorio diviene un mero contenitore anonimo e anomico (Guidicini, 2008). Si può ragionevolmente prevedere che non sarà il mondo periferico – in senso urbano, in senso globale, in senso sociale – ad indietreggiare, anzi esso si imporrà come modello sia sociale sia come tipologia di insediamento abitativo prevalente. Mentre la città formale, sempre più simile ad un oggetto inanimato, svuotata dai conflitti nel senso sia di fligere – urtare –, ma anche di cum – insieme –, non riacquisterà la sua antica capacità di creare società (Ferrarotti, 2009). Le emergenti forme di urbanità sia delle periferie più o meno degradate da un punto di vista

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I complesso de “Il Magnete”. Archivio SU.

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urbanistico e/o sociale, ma sia i centri storici “incellofanati” in vetrine illuminate, palazzi restaurati e ricche solitudini, evidenziano la loro fragilità alla quale si può rispondere solo con la ricostruzione ex-novo, o con il rafforzamento dei meccanismi di solidarietà e di socialità avanzata, partendo dal territorio, rilanciando i quartieri e le iniziative di partecipazione e di condivisione (Guidicini, 2000). Perché è proprio la mancanza di senso di condivisione che origina il senso soggettivo, ma anche la condizione oggettiva, di esclusione. Forse è proprio nella periferia che potenzialmente possono emergere in spazi, tempi e situazioni a volte imprevedibili, elementi della dimensione comunitaria come l’identità, il senso di appartenenza, la fiducia, la reciprocità, la solidarietà. Elementi questi portati avanti da individui che coscientemente hanno abbandonato il centro o che dal centro sono stati “scacciati”: soggetti sociali deboli, migranti e “altri”. Le città hanno bisogno di questi altri “utili” e “problematici” perché rappresentano la possibilità delle cittadinanza e della condivisione sociale nella diversità come sinonimo di arricchimento societario (Guidicini, 2000). Esistono, in questo senso, alcuni esempi che dimostrano come la costruzione comunitaria sia possibile anche in contesti difficili e (percepiti come) pericolosi, nonostante il rispetto pedissequo degli standard urbanistici. Anzi, paradossalmente, soprattutto in questi. Si descrive di seguito il caso di una periferia “ordinata” ma priva di una comunità residente che con un percorso di condivisione partecipata crea una propria identità, risolve parte delle carenze sociali e strutturali, in modo originale e creativo. Il caso “Magnete” a Trento: da “Bronx” a Comunità A partire dal dopoguerra le città sono state protagoniste di un fenomeno importante ed imprevisto: le periferie sono cresciute veloci, senza essere accompagnate da un’altrettanto veloce crescita delle comunità residenti. Questo fenomeno ha invertito, di fatto, la tendenza con cui le città sono state costruite nei secoli, ovvero per mano di una comunità. La crescita subitanea delle periferie ha preferito seguire le logiche di mercato e di opportunità piuttosto che quelle della convivenza. Tuttavia è possibile avviare azioni ex-post di costruzione della comunità. Quando la città è ormai finita anche nelle porzioni periferiche stig-

matizzate in negativo. Un caso interessante da analizzare in tal senso è costituito dal caso “Magnete”, un quartiere periferico della città di Trento costruito in anni recenti e protagonista di una suggestiva azione di riqualificazione sociale. Il “Magnete” è un articolato complesso edilizio, un edificio misto (servizi e residenziale) morfologicamente identificabile in un grande blocco tripartito orientato est-ovest, che comprende spazi verdi e spazi pubblici. Rispetto alla struttura della città di Trento, il complesso è situato nella zona nord, in una area particolarmente marginale e collocato in un’area chiusa tra la linea ferroviaria, una strada statale ad alto traffico e un’area exindustriale, oggetto di riconversione urbana, attualmente in attesa di disinquinamento. Il complesso è stato costruito alla fine degli anni Novanta. È strutturato in quattro “listoni” che ospitano 274 famiglie (di cui una cinquantina “migranti”) per un totale di 543 residenti. Si tratta, in parte, di alloggi realizzati dall’Istituto trentino edilizia abitativa (Itea) – ente che nella Provincia autonoma di Trento gestisce la realizzazione dell’edilizia economico popolare. In una parte del complesso sono ospitati alcuni servizi ed uffici, tra cui la sede trentina dell’Agenzia delle Entrate. Il manufatto edilizio è sostanzialmente di buona qualità sia nella progettazione degli spazi sia nell’articolazione dei materiali: aree a verde si alternano ad aree che fungono da spazio di ritrovo sociale. Tra i servizi va segnalata


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anche la presenza di una pizzeria. Il quartiere risponde dunque a tutti gli standard urbanistici relativi al verde, ai servizi e più in generale all’urbanizzazione secondaria. La stessa struttura architettonica è di buon livello con un’evidente attenzione alla qualità degli spazi costruiti. Tuttavia questa bella scatola edilizia non è stata sufficiente per trasformare il quartiere in un luogo in cui è bello vivere. In particolare è risultata carente la modalità con cui è stato realizzato il tessuto sociale: le famiglie hanno riempito gli alloggi secondo le risposte del mercato, nel caso di alloggi privati, o secondo le assegnazioni dell’ente pubblico, nel caso degli alloggi popolari. I problemi sociali dentro il Magnete si sono manifestati fin da subito: la presenza di alcune famiglie a basso reddito e con problemi sociali si è intrecciata con le difficoltà intrinseche di un quartiere periferico, senza legami diretti con la città. Il quartiere soffre così di “isolamento” e presenta episodi di disagio sociale che lo rendono protagonista sulla stampa locale. Ecco nascere così la metafora del «Bronx» per descrivere quel brano di città (Coletta, 2009). Il disagio degli abitanti (sono le donne, le madri che abitano nel quartiere, ad avviare le prime azioni di protesta e di richiesta all’ente pubblico) amplificato dai mass-media, è divenuto protagonista di un’azione promossa dal “Polo Sociale 2” e dalla Circoscrizione competente – struttura questa implementata dal “Piano Sociale per la

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città di Trento” (Fazzi, Scaglia, 2001) e avente lo scopo di individuare i disagi e promuovere, anche con l’aiuto di soggetti appartenenti al privato sociale, la loro risoluzione. I due soggetti pubblici hanno avviato un percorso di costruzione di comunità. A seguito delle richieste delle famiglie e dell’individuazione dei disagi sociali all’interno del complesso, quindi, il Comune di Trento (tramite l’Assessorato alle Politiche sociali) ha affidato, nel 2003, ad una Cooperativa sociale (Cooperativa Arianna) il compito di avviare momenti di costruzione comunitaria. I progetti attivati dalla Cooperitiva – denominati «Animagnete: laboratori creativi per bambini e genitori» e «Prove di comunità: spazi e incontri per ascoltarsi, partecipare e costruire… insieme» – hanno avuto come obiettivo quello di attivare processi di conoscenza e di rafforzare relazioni positive tra gli abitanti del complesso residenziale, sostenendo da un lato la genitorialità resa più fragile da una società in rapido mutamento e, dall’altro, rafforzando la comunità stessa, sviluppandone il senso di identità e di consapevolezza attraverso l’acquisizione di maggiori competenze comunicative e di convivenza. Le prime richieste delle famiglie sono state di evidente necessità. In particolare la prima battaglia compiuta dagli abitanti si è concentrata sulla necessità di dotare il quartiere di un pulmino di servizio che garantisse ai bambini l’arrivo alla scuola più vicina, a qualche chilometro di distanza. Altre richieste si sono concentrate sul bisogno di rendere più efficiente il servizio di raccolta dei rifiuti solidi urbani. Una altra vittoria delle famiglie è stata quella di avere a disposizione una sala per le riunioni e per gli incontri sociali. Le azioni messe in campo dalla Cooperativa Arianna e dal Comune di Trento possono essere sintetizzate nelle seguenti linee di lavoro: contribuire alla creazione di una comunità integrata e dialogante; offrire spazi relazionali e di confronto agli abitanti del Magnete; far emergere la creatività e l’immaginazione dei bambini e dei genitori; sostenere una genitorialità consapevole; favorire la cooperazione tra bambini; favorire un armonioso processo di costruzione di identità; offrire momenti di socializzazione e incontro tra bambini e adulti. Nella pratica le azioni si sono concretizzate soprattutto nella conversione di spazi privati in spazi pubblici, creando luoghi destinati alla comunità dove i residenti possano incontrarsi e riconoscersi e, soprattutto, nella creazione di

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momenti di incontro e di socializzazione (feste, ritrovi, azioni comuni, momenti di sensibilizzazione e di informazione) necessari tra vicini di casa e tra abitanti dello stesso condominio. A distanza di sei anni dall’avvio dell’azione della Cooperativa Arianna è possibile affermare che al Magnete è oggi presente una comunità più viva e strutturata che coinvolge abitanti di età, religione, nazionalità diverse. Gran parte dei conflitti iniziali sono andati scemando. La presenza di questa comunità ha conseguentemente migliorato in maniera significativa la qualità della vita dentro il complesso. E questo è stato possibile grazie a due momenti: l’espressione del disagio da parte degli abitanti e la richiesta di aiuto all’ente pubblico; la capacità dell’ente pubblico di ascoltare e di offrire un pronto intervento dimostrando di considerare la costruzione della comunità un elemento fondamentale – ancorché tardivo – della costruzione della città. Conclusioni: una lezione per l’urbanistica Questa esperienza dimostra ancora una volta come sia necessario che le città siano impermeabili al nuovo e al diverso che sopraggiunge e che si insedia nelle aree marginali, lette generalmente e solo come luoghi di imperante disorganizzazione sociale e di degrado urbano, evitando di incrementare quella dualità che caratterizza la maggior parte delle città contemporanee: debolezza sociale frammista alla debolezza del tessuto della città (Guidicini, 2000:8). Il ribaltamento necessario, invece, è quello di riconoscere il mondo periferico come bacino di risorse economiche e culturali future e di garantirgli un posto centrale nella formazione di Società. La progettazione urbana, architettonica e sociale, quindi, dovrebbero essere sempre più strumenti atti ad evitare che le divisioni territoriali non siano anche e ancora confini simbolici per mantenere salde frontiere mentali, puntando ad attenuare da un lato l’isolamento dei gruppi sociali emarginati nelle periferie, e dall’altro la solitudine dei gruppi sociali che ereditano i centri stori-

Riferimenti Bibliografici Ambrosini M., 2000, Utili invasori. L’inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro italiano, Franco Angeli, Milano. Augé M., 2007, Tra i confini. Città, luoghi, integrazioni, Mondadori, Milano. Bauman Z., 2007, Vite di scarto, Editori Laterza, Roma-Bari. Bauman Z., 2001, Voglia di comunità, Editori Laterza, Roma-Bari. Coletta C. (et al.), 2009, Penelope. Le trame emergenti del tessuto urbano, in Sentieri urbani nr. 1, 2009. Davico L., Mela A., 2002, Le società urbane, Carocci, Roma. Fazzi L., Scaglia A., 2001, Il governo della città nella trasformazione del welfare: l’esperienza del piano sociale della città di Trento, Franco Angeli, Milano Ferrarotti F., Maciotti M.I., 2009, Periferie, da problema a risorsa, Sandro Teti Editore, Roma. Guidicini P., (a cura di), 2000, Luoghi metropolitani. Spazi di socialità nel perturbano emergente per un migliore welfare, Franco Angeli, Milano. Guidicini P., 2000, “Il bisogno di radicamento come superamento dell’esclusione sociale grave”, in Guidicini P., Pieretti G., Bergamaschi M, (a cura di), L’urbano, le povertà. Quale Welfare. Possibili strategie di lotta alle

ci, dando luogo a spazi di contaminazione, dialettica e scambio sociale (Ferrarotti, 2009:12). Compito dell’architettura e dell’urbanistica è quello di progettare luoghi che possano esser usati dai soggetti che effettivamente vi andranno a vivere «che abbiano una dimensione esistenziale, che non comporti una dissipazione di identità e dove gli utenti e l’architettura possano interagire in una reciproca partecipazione» (Romano, 2001:19). L’esperienza del Magnete può dare all’urbanista una lezione sintetizzabile in questi punti: le politiche urbanistiche non possono essere disgiunte da quelle sociali. Soprattutto nel caso di costruzione di interi comparti urbani dove è necessario accompagnare alla costruzione degli spazi la costruzione di quelle reti sociali che permettono la serena convivenza tra le persone; gli “standard” urbanistici, pur necessari, non sono più sufficienti a garantire la qualità della vita entro i grandi complessi edilizi: gli spazi verdi poco controllabili possono essere degli autentici “buchi neri” dentro il tessuto urbano; è necessario garantire nuovi spazi obbligatori, come quello di aggregazione – un tempo non necessario ma oggi fondamentale; la periferia, se ben governata, può essere l’occasione per costruire la comunità: non più un problema ma una risorsa (Ferrarotti, 2009): i confronti, gli scontri e le contaminazioni possono essere un’occasione inedita di accettazione dell’altro per creare una comunità nuova; la progettazione dei nuovi spazi urbani ha bisogno di professionalità che vanno ben oltre i compiti classici del progettista e dell’urbanista: c’è bisogno del contributo non solo di sociologi e psicologi della percezione, ma anche di professionisti dell’interculturalità; la periferia, quando è ben governata, può essere un pungolo alla riqualificazione anche del Centro storico che tende a diventare la negazione delle potenzialità della periferia: scatole edilizie svuotate di residenze che creano spazi cimiteriali.

povertà, in Franco Angeli, Milano. Guidicini P., 2008, Migrantes, ovvero: la città che ci dobbiamo aspettare, Franco Angeli, Milano. Guidicini P., Pieretti G., Bergamaschi M, (a cura di), 2000, L’urbano, le povertà. Quale Welfare. Possibili strategie di lotta alle povertà, in Franco Angeli, Milano. Park E.R., Burgess E.W., McKenzie R.D., 1999, La città, Edizioni di Comunità, Milano, 1999, (Titolo originale The City, The University of Chicago Press, Chicago, 1938). Romano A., Giancarlo De Carlo. Lo spazio, realtà del vivere insieme, 2001, Testo e Immagini, Torino. Roth J., 2003, Le città bianche, Adelphi, Milano. Sgroi E., 2000, “Città ed esclusione sociale: riparliamo di comunità”, ”, in Guidicini P., Pieretti G., Bergamaschi M, (a cura di), L’urbano, le povertà. Quale Welfare. Possibili strategie di lotta alle povertà, in Franco Angeli, Milano. Stupazzoni G., 2000, “Città che cambia, esclusione sociale grave e politiche di welfare”, in Guidicini P., Pieretti G., Bergamaschi M, (a cura di), L’urbano, le povertà. Quale Welfare. Possibili strategie di lotta alle povertà, in Franco Angeli, Milano.


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Pianificazione per città a basse emissioni di Sara Verones, Bruno Zanon Il dualismo città-energia. La dimensione urbana del problema energetico In Europa circa il 75% della popolazione vive in aree urbane. Molti paesi, tra cui USA, Giappone, Gran Bretagna, ma anche Messico e Venezuela, hanno già superato questa percentuale. L’Agenzia Europea dell’Ambiente stima la crescita del tasso di urbanizzazione nel vecchio continente entro il 2020 a valori dell’80%. La città contemporanea è, quindi, la concentrazione di attività e popolazione, è il centro della produzione e del consumo e quindi di trasformazione delle risorse naturali e di degrado di materia ed energia. Allo stesso tempo è il luogo della dispersione insediativa, della ricerca di un nuovo ordine spaziale in cui “il modello di sviluppo urbano prevalente si caratterizza per un fenomeno di sovra e sottoutilizzazione di risorse, a partire da quelle territoriali” (Renè Carillon). CONSUMI ENERGETICI PER SETTORE DI UTILIZZAZIONE Percentuale (Totale anno 2007: 100%)

Le città datano circa 5000 anni, ma fino alla rivoluzione industriale erano un’eccezione. Le persone vivevano principalmente in aree agricole, in stretto contatto con la natura e in sintonia con i cicli ambientali. La città pre-industriale aveva dimensioni e spazi in relazione con le diverse attività che insistevano. Queste dipendevano dall’area territoriale entro o immediatamente prossima al confine degli insediamenti urbani, nei limiti imposti dalle caratteristiche ambientali del sito (topografia, idrografia, clima, ecc.), dalla sua capacità tecnologica, legata alle risorse naturali come l’acqua ed il vento, ed alla capacità politica di governo dei processi economici e sociali. La rivoluzione industriale e lo sviluppo tecnologico hanno rotto questo equilibrio consentendo a quegli insediamenti che, per posizione geografica, condizione economica o potere politico erano in grado di competere con altri

Tabella 1: dati percentuali sui consumi energetici in Italia nel 2007

TRASPORTI

CIVILI

INDUSTRIA

AGRICOLTURA

31.4%

30.3%

27.7%

2.3%


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BOLGHERA

QUARTIERE

Totale

Media

SAN GIUSEPPE Totale

Superficie [m2]

457146

Abitanti

4016

4851

Volume edificato [m3]

1272069

1128572, 9

Superficie totale costruita [m2]

424023

376190,9

Numero alloggi

1.995

2517

Media

349281

Superficie costruita a residenza [m2 alloggio / m2 suolo]

0,41

0,68

Densità abitanti [abitanti / ha]

85,8

164,5

Densità costruito [m3 / m2]

2,7

3,8

Superficie / abitanti

48,9

41,6

Persona / alloggio

2,1

1,9

% verde urbano

1,5

15,1

% superficie costruita per residenza

90,5

89,6

% superficie costruita per terziario

6,6

4,3

% superficie costruita per commercio

2,1

2,3

% superficie costruita per servizi

0,8

3,7

Tabella 2 – Dati della struttura urbana dei quartieri Bolghera e San Giuseppe

centri, di appropriarsi della capacità di carico della regione e dell’hinterland dei centri vicini. La tecnologia era prevalentemente basata sul carbone e poi, nell’epoca di maturità industriale, sull’energia elettrica. Il passaggio alla città industriale e post-industriale nei due secoli è stato possibile grazie ad una grande disponibilità di combustibili fossili. Contemporaneamente alle transizioni dell’ambiente urbano, da città mercantile a città industriale e poi da città postindustriale a città digitale, sono cambiate perciò anche le problematiche legate all’ambiente. Nel 1972 “The Limits to Growth” delinea le conseguenze possibili della crescita rapida della popolazione mondiale e della finitezza delle risorse. Pubblicato negli anni della crisi petrolifera e cerealicola, il report del MIT, commissionato dal Club di Roma, catturò l’attenzione mondiale. Quasi negli stessi anni alcuni scienziati suonarono l’allarme sulle condizioni climatiche, ed in particolare sul riscaldamento globale. Essi evidenziarono come negli anni ’60 e ’70 le concentrazioni di anidride carbonica nell’atmosfera fossero aumentate. Nonostante questo, solo nel 1988 fu fondato da United Nations Environment Programme (UNEP) e dal World Meteorological Organization (WMO) un gruppo scientifico intergovernativo sul cambiamento climatico (Intergovernmental Panel on Climate Change, IPCC). Il primo report del 1990 dichiarò che il riscaldamento della Terra era un problema reale ed urgente e che qualcosa doveva essere fatto “the balance of evidence, from changes in global mean surface air temperature and from changes in gepgraphical, seasonal and vertical patterns of atmospheric temperature, suggests a discernible human influence on global climate”. La chiave del messaggio di questi contributi consiste nella previsione che dopo l’anno 2000 l’umanità si sarebbe scontrata con il limite delle risorse naturali e che l’inquinamento antropico

nell’atmosfera sarebbe stato la causa del riscaldamento della Terra, spostò le priorità internazionali, da una grey agenda ad una green agenda, attraverso uno sviluppo sostenibile focalizzato sulla città e sull’ambiente urbano. Esiste oggigiorno un consenso largamente condiviso sul concetto di progresso attraverso lo sviluppo sostenibile. C’è, comunque, un considerevole dibattito su che cosa questo termine significhi. Una parte di questo dibattito è focalizzato sul ruolo delle città come maggiori consumatori di energia e generatori di inquinamento. Questo è infatti il luogo di concentrazione della domanda di energia e, contemporaneamente, dei problemi ambientali legati ad essa, come le precipitazioni acide, il buco dell’ozono e il cambiamento del clima mondiale (greenhouse effect). Queste ed altre affermazioni sottolineano come l’energia sia uno dei maggiori fattori che devono essere considerati nella discussione sullo sviluppo sostenibile e come sia intimamente legato alle concentrazioni urbane, cioè alle città. E’ essenziale perciò considerare la dimensione urbana del problema energetico. La questione è: le città possono essere pianificate in modo da essere più efficienti energeticamente? L’“immagine energetica” della città . La dimensione spaziale dell’energia “Essere ecologicamente corretti quando si costruisce può risolvere solo in parte il problema dello squilibrio ambientale. Intervenire sulle città è invece la chiave di una svolta più profonda. A che cosa serve il risparmio energetico del proprietario di una casa sostenibile se egli deve comunque usare l’automobile in continuazione?” (Ingersoll, 2004) I consumi finali di energia in Italia, per settori di utilizzazione, sono suddivisi, all’anno 2007, tra trasporti, 31.4%, civili (edifici esistenti, il tasso di ricambio annuo è solo dello 0.5%) 30.3%, industria, 27.7% ed agricoltura 2.3%. Questi consumi riguardano principalmente petrolio e gas, pari a circa il 78% dei consumi interni lordi (contro il 58% circa della media europea) e da una forte importazione strutturale di energia elettrica, pari a circa il 5% dei consumi primari ed al 14% dei consumi elettrici (in sostanza siamo i maggiori importatori al mondo). I dati illustrano come il problema dell’energia sia principalmente spaziale, legato ad un territorio, ad una città, alle modalità organizzative e gestionali del suo governo. I risultati positivi conseguibili alla scala del singolo edificio attraverso la tecnologia edilizia e l’applicazione dei principi della fisica tecnica, possono risultare perciò insufficienti. La letteratura scientifica, sin dagli anni ’70, ha indagato attraverso indagini empiriche e teoriche quali siano le relazioni quali-quantitative tra domanda di energia ed aree urbanizzate. Molti fattori “fisici” concorrono, interagendo, nel determinare la pressione energetica: forma e


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QUARTIERE

SAN GIUSEPPE

BOLGHERA

Sezione censuaria

133

209

160

Superficie della sezione [m2]

6072

9691

4110

Abitanti nella sezione

190

118

17

Volume edificato nella sezione [m3 / m2]

35117

28369,6

7498,4

Superficie totale costruita nella sezione [m2]

11706

9457

2499

Superficie alloggi nella sezione [m2]

8.938

5.101

929

Numero alloggi nella sezione

125

69

7

Superficie costruita per sezione [m2 alloggio / m2 suolo]

1,47

0,53

0,23

Densità abitanti [abitanti / ha]

312,9

121,7

41,3

Densità costruito [m3 / m2]

5,7

2,93

1,82

Superficie costruita / abitanti

47

43,2

54,6

Persona / alloggio

1,5

1,7

2,4

71 29

100

20 80

30 - 39

2

1

40 - 49

3

5

50 - 59

13

14

60 - 79

45

27

80 - 99

17

44

100 - 119

17

6

120 - 149

2

3

Prima del 1919

Vetustà edifici [%]

dal 1919 al 1945 dal 1946 al 1961 dal 1962 al 1971 dal 1972 al 1981 dal 1982 al 1991 Dopo il 1991 Tipologie diverse da abitativo < 30

Superfici alloggi per classi [%]

150 o +

dimensione urbana, densità o dispersione degli abitanti, condizioni microclimatiche e connesse esigenze di mitigarle, caratteristiche del costruito e mobilità. Newman e Kenworthy (1989), per esempio, esplicitano attraverso una funzione curvilinea le relazioni tra densità urbana e consumo energetico pro-capite, in base ad un’indagine su 32 città del mondo. Le differenze, però, in questo caso sono attribuite al ruolo dei trasporti, con città a bassa densità con inefficienti trasporti pubblici ed alta dipendenza dai veicoli privati. In uno dei primi lavori sulla domanda energetica e uso del suolo, Steadman (1979) discusse le implicazioni energetiche delle differenti forme di sviluppo urbano, considerando sia la densità che la forma. Egli considerò, successivamente, le relazioni basate sull’uso del suolo teorico, come descritto da Martin e March (1972) e discute le differenze energetiche tra il pattern lineare e quello centrale, concludendo che la densità lineare è la forma preferita di sviluppo urbano poiché essa mantiene aree verdi ed accesso ai servizi, oltre a permettere l’illuminazione naturale e la ventilazione e gli apporti gratuiti di energia solare. In una review sui problemi relativi agli edifici,

19

81

Steemers (2003) conclude che gli argomenti energetici pro e contro il processo di densificazione delle città sono bilanciati e la valutazione dipenderà dalle problematiche infrastrutturali (per esempio l’opportunità per gli edifici di condividere reti energetiche). Inoltre, quando l’angolo di ostruzione solare incrementa oltre i 30°, densificare diventa inefficiente dal punto di vista energetico. Il consumo è intimamente legato alla geometria urbana e quindi alla disponibilità di luce solare e luce diurna sulle facciate degli edifici, e questi sono effetti diretti perché la geometria dell’insediamento influenza il microclima. Come nota Givoni (1989) “le temperature, la velocità del vento, la radiazione solare a cui un singolo edificio è esposto non è il clima regionale, ma il microclima modificato dalla ‘struttura’ della città, principalmente dal quartiere dove l’edificio e locato”. Sulla base di queste considerazioni è necessario considerare la dimensione spaziale dell’energia ed ampliare il campo di intervento dal singolo edificio al contesto urbano al fine di realizzare un’azione più efficace e perseguire obiettivi energetico/ambientali più significativi. Ed inoltre è necessario non tralasciare nelle prassi di piano e di progettazione urbana la riqualificazione

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Tabella 3 – Struttura abitativa per le tre sezioni censuarie prese a campione


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Tabella 3 – Consumi reali di gas metano per le tre sezioni censuarie prese a campione

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SEZIONE CENSUARIA Bolghera - 160 San Giuseppe - 209 San Giuseppe - 133

Consumo di gas metano [kWh/anno] 205707 666885

Densità del costruito [m3/m2] 1,82 2,93

1180038

5,7

in chiave di sostenibilità energetica del vasto patrimonio esistente. L’esistenza di programmi a diversi livelli istituzionali a scala locale riguardanti per lo più il tema generale della sostenibilità in ambiente urbano, si pensi al Libro Verde sull’Ambiente Urbano in Europa, al Progetto Città Sostenibili ed alla Carta di Aalborg, hanno già permesso di sensibilizzare e rendere famigliare alle pubbliche amministrazioni il concetto di sostenibilità. Il diretto collegamento di questo con il concetto energetico, concepito a scala territoriale, richiede l’implementazione a scala più vasta di best practices come i piccoli ecoinsediamenti di Understenshoejdan in Svezia, Munkesoegaard in Danimarca e Ecolonia nei Paesi Bassi, come Nieuwland nei Paesi Bassi, il progetto Halifax in Australia e Friburgo in Germania. Dalla conoscenza del territorio alle azioni. L’uso degli strumenti di pianificazione esistenti e la loro efficacia La riqualificazione delle città attraverso gli strumenti di pianificazione, in chiave di efficienza, risparmio e produzione decentrata di energia, richiede non solo il mero uso degli strumenti che la legislazione italiana prevede (l’articolo 5 della legge 10/91 istituiva il Piano Energetico, comunale, provinciale e regionale). Ripensare agli insediamenti esistenti necessita di un’effettiva integrazione fra i differenti livelli di piano, in primo luogo fra il Piano Regolatore Generale, a livello di piano strategico ed operativo, e Piano Energetico Comunale. La pianificazione prevede infatti la conoscenza dell’”immagine energetica” degli agglomerati urbani, attraverso lo studio dell’interazione fra i settori dell’energia, della mobilità (pubblica, privata e lenta), della struttura urbana e del mix funzionale, e la definizione di azioni locali per ri-orientare i modelli di sviluppo urbano. Negli anni di cogenza della legge 10/91, sono stati predisposti molti piani energetici di area vasta, ma sono state poche le esperienza a scala locale e quelle poche hanno assunto un carattere di settorialità. La disattenzione alla dimensione territoriale del fenomeno energetico e delle relazioni con quelle variabili tipicamente governate dagli strumenti di pianificazione con cogenza normativa - di cui si è trattato nel paragrafo precedente - non ha permesso l’integrazione, come auspicato dalla legge, all’interno del PRG. Rimangono alcuni casi in cui questa percezione non è stata completamente assente, ma che però mantengono inalterata l’impostazione riguardo alla parte più propriamente legata alla

Consumo di gas metano /superficie costruita [kWh/m2anno] 83 70.5 100.8

progettazione/riqualificazione urbana e più in generale alle azioni di piano. La Provincia di Modena con il PRODEM, (Studio di nuovi strumenti regolamentari degli enti locali atti ad agevolare l’applicazione di sistemi per il risparmio energetico e l’uso di fonti rinnovabili) e il Comune di Modena con il Piano Energetico Comunale (PEC), propongono la definizione di requisiti per gli insediamenti in materia di ottimizzazione energetica e soglie di uso della risorsa cui subordinare l’attuazione delle trasformazioni insediative. La strutturazione del primo approccio progettuale utilizzabile per l’aggiornamento del Piano Territoriale della Provincia di Modena, appunto il PRODEM, nonostante la volontà di inserimento della variabile energetica nelle politiche di governo del territorio, attraverso una completa analisi dello stato di fatto della domanda energetica, con metodo GIS, e la creazione dell’entità di bacino omogeneo territoriale su cui ricadono scelte strategiche per la sostenibilità energetica, vede una relativa povertà di indirizzi e direttive alla pianificazione locale e settoriale. Queste limitazioni sono ancor più evidenti a livello di città, come si nota con il PEC del Comune di Modena. L’accenno nel PRODEM all’analisi delle relazioni tra matrice territoriale dei consumi e domanda energetica a partire da un’indagine empirica comincia a prendere in considerazione l’influenza della struttura e della tessitura urbana, ma lo studio è residuale rispetto all’intero lavoro e gli effetti sull’intero metapiano sono limitati. Nella maggior parte di questi casi virtuosi, si pensi anche al PTCP della Provincia di Bologna (2004) e al PTC della Provincia di Grosseto (1999), pur contenendo obiettivi di natura integrata ed un approfondito quadro conoscitivo, a livello normativo sono riportate nel piano solo disposizioni di carattere generale, non differenziate. L’esperienza italiana evidenzia la difficoltà a passare dalla conoscenza del territorio alle azioni di progettazione territoriale ed urbana. Come scrive Corboz (1985) la conoscenza è si necessaria ma deve essere finalizzata ad agire in maniera precisa e mirata cosicché le azioni siano declinate contestualmente alle caratteristiche del territorio. La natura di questa conoscenza è comprensibilmente molto ampia: riguarda l’individuazione e la valutazione delle risorse del territorio, la consistenza dei fenomeni che costituiscono città e paesaggi, la valutazione critica dei modi della loro organizzazione e la trasformazione delle dinamiche. E’ ormai ampiamente acquisito però che le analisi non sono propedeutiche e autonome rispetto ad iniziative di piano, ma piuttosto integrate e capaci di leggere la va-


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riegata pluralità dei fenomeni urbani nell’ottica degli obiettivi che ci si propone di conseguire. Questi obiettivi vedranno il loro compimento, in primo luogo, nell’identificazione delle problematicità legate alla domanda energetica e alla tipologia insediativa, e successivamente nella definizione di linee guida e procedure appropriate in materia energetica per i differenti ambiti di intervento. In quest’ottica, la settorialità della pianificazione, (PEP, PEC, PRG, RUE e PA) non favorisce la ricerca, intenzionale, di una nuova relazione, di un quadro complessivo di interdipendenze tra strumenti già costruiti, in fase di realizzazione o da adottare. Questo invece permetterebbe di realizzare azioni più efficaci e perseguire obiettivi energetico/ambientali più significativi, non considerando l’energia come un settore, ma piuttosto come il motore dello sviluppo economico, sociale ed urbano. Il caso di Trento Lo scopo dello studio che si sta conducendo sul caso di Trento è l’analisi di alcune tra le più significative variabili che legano la domanda energetica alla città allo scopo di definire azioni, linee guida e procedure. Si intende procedere dall’analisi alle azioni, legando PEC, PRG e piani attuativi. Alla base di questa prima elaborazione, qui presentata, vi è l’ipotesi che i consumi annui da fonti non rinnovabili (kWh/m2anno) siano in funzione della densità del costruito (m3/m2). In letteratura non si parla direttamente di densità del costruito, ma più propriamente di densità di popolazione e di come questa sia in diretta relazione con il consumo soprattutto della mobilità. Il progetto di ricerca vuole esplorare gli effetti della texture urbana sui consumi energetici degli edifici, in particolare gli effetti della geometria urbana. Per fare questo si è scelto un caso studio, la città di Trento, localizzata nel nord Italia. Sono state individuate zone diverse, sia nel fondovalle, che nella collina cittadina. In questo intervento vengono presentati i primi risultati riguardanti due quartieri della città, Bolghera e San Giuseppe, entrambi nella zona sud, vicino al torrente Fersina A livello di sezione censuaria l’analisi delle relazioni tra struttura urbana e consumi reali di gas metano è stata condotta a seguito di un dovuto approfondimento limitato ai casi presentati. Il problema dell’affidabilità e della mancanza di dati del Servizio Statistica del Comune di Trento e della società erogatrice di gas metano in Trentino, la Dolomiti Energia s.p.a., è stato affrontato, in primo luogo, calcolando l’errore dovuto alla media sulle classi di superfici in cui i dati censuari erano aggregati, e poi verificando l’effettiva e completa metanizzazione delle vie in esame. Per il primo punto inoltre, sono stati ricercati i dati puntuali sulle superfici calpestabili per ogni abitazione censite nel 2001. Si è ri-

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scontrato un errore intorno al 10-15%, di cui si dovrà tener conto per il prosieguo della ricerca. In base alla normativa tecnica italiana, UNI TS 11300, la determinazione delle prestazioni energetiche degli edifici richiede due tipi principali di valutazione. La valutazione in fase di esercizio, che considera i principali vettori energetici e il loro uso (gasolio, gas metano ed energia elettrica), e la valutazione energetica di calcolo che prevede il metodo della Direttiva europea EPBD. Allo scopo di verificare la relazione tra le variabili in esame si è scelto di valutare la fase di esercizio attraverso i dati del catasto degli impianti termici, in possesso del Comune di Trento secondo la normativa italiana in materia. Come in tabella 3, i dati per le sezioni censuarie mostrano cospicue differenze tra i due modelli insediativi prima descritti. Se consideriamo l’influenza della struttura spaziale sui bisogni energetici di una serie di attività, come i trasporti, Newman e Kenworthy nel 1989 hanno dimostrato su un campione di 32 città nel mondo, che esiste una funzione che lega il consumo energetico da trasporto e la densità urbana, in termini di popolazione. La ricerca di un’analoga relazione tra densità del costruito e consumi degli edifici, non può probabilmente essere svolta limitandosi a queste due variabili ma piuttosto considerando anche la classe energetica degli edifici, la tipologia di impianto di riscaldamento, il microclima e gli apporti solari passivi La complessità dell’argomento, si pensi alle relazioni fra consumo energetico degli edifici e struttura spaziale teorizzate da Owen (1986), richiede un tipo di approccio differente, distante da quelli relativi alla fisica tecnica degli edifici ma più propriamente indicato per capire le dipendenze tra energia e città. Conclusioni Il primo principio della dichiarazione sull’ambiente e lo sviluppo di Rio del 1992 afferma che “gli esseri umani sono al centro delle preoccupazioni relative allo sviluppo sostenibile. Essi hanno diritto ad una vita sana e produttiva in armonia con la natura” (UNCED, 1992, 3). “In nessun luogo [questo] è così vero come nelle città. Il suo ambiente è costruito da persone, adatto ai loro bisogni. Non è un luogo per la flora e la fauna, eccetto per piccioni, parchi ed animali domestici.” (Roberts et al., 2009) È quindi nella città, intesa come concentrazione di persone, di attività e di consumo delle risorse naturali, (suolo, acqua ed energia), la sfida dello sviluppo sostenibile, ma ancor più quello dell’efficienza, risparmio e produzione decentrata di energia. Per fare ciò è necessario pensare alla riqualificazione di interi comparti attraverso l’uso della pianificazione attuativa, studiando azioni misurabili, basate sulla conoscenza delle relazioni tra morfologia urbana e domanda energetica.

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La ricerca presentata mostra come la densità del costruito, rimanendo uno dei parametri principali, non spiega, almeno nella sua interezza, il consumo degli edifici in aree urbane. Il problema è infatti di tipo multivariabile, con una forte interazione tra le varie caratterizzazioni. E’ perciò necessario approfondire la conoscenza degli effetti della geometria urbana sui consumi energetici prendendo in considerazione la luce solare, l’illuminazione naturale sulle facciate degli edifici ed il microclima urbano e quindi studiando il rapporto superficie-volume, l’orientamento delle facciate e la distanza tra gli edifici. Il progetto di ricerca è finalizzato ad indirizzare ed a valutare l’efficacia dei differenti interventi di riqualificazione di parti di città esistente (conservazione edili-

Bibliografia Libri: Agenzia europea dell’ambiente, (2008), Rapporto sullo stato dell’ambiente Ingersoll R., (2004), Sprawltown, Melteni Editore IPCC First Assessment Report, Houghton J.T., Jenkins G.J., Ephraums J.J. , (1990), Scientific Assessment of Climate change – Report of Working Group I, Cambridge University Press, UK Martin L., March L., (1972), Urban Space and Structures, Cambridge University Press Meadows D.H., Meadows D.L., Randers J., Behrens III W.W., (1972), The limits to growth, Universe Books Newman P., Kenworthy J. , (1989), Cities and automobile dependence, Gower Technical, Aldershot

zia, conservazione urbana, trasformazione urbana e formazione di spazi pubblici urbani) in modo tale da ottenere un alto livello di sostenibilità energetica degli agglomerati urbani. Questo tipo di procedura necessita un’interpretazione delle pratiche di pianificazione differente da quella fino ad ora seguita dagli enti amministrativi locali. La risoluzione delle problematiche energetiche all’interno di specifici piani di settore limita gli ambiti di intervento e non permette di realizzare azioni efficaci e perseguire obiettivi energetico/ambientali significativi. E’ auspicabile quindi una maggiore integrazione fra piani, in particolare fra i Piani Territoriali di Coordinamento, i Piani Regolatori ed i Piani Energetici.

Owens S. , (1986), Energy, Planning and Urban Form, Pion Ltd., London Provincia di Bologna, (2004), Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale Provincia di Grosseto, (1999), Piano Territoriale di Coordinamento Provincia di Modena, Area programmazione e Pianificazione Territoriale in collaborazione con la Regione Emilia-Romagna, Servizio politiche energetiche, (marzo 2006), PRODEM: studio di nuovi strumenti regolamentari degli enti locali atti ad agevolare l’applicazione di sistemi per il risparmio energetico e l’uso di fonti rinnovabili Roberts P., Ravetz J., George C., (2009), Environment and the city, Routledge, Londra e New York EEA Report No 10/2006, Urban sprawl in Europe – The ignored challenge Comune di Modena, Settore Ambiente,

(marzo 2007), Piano Energetico Comunale Articoli: Corboz A. , (1985), Il territorio come palinsesto. Casabella, n. 516 Givoni B. , (1989), Urban design in different climates. World Metereological Organisation WMO/TD No.346 Ratti C., Baker N., Steemers K., (2005), Energy consumption and urban texture. Energy and Buildings, 37, 762-776 Steadman J.P., (1979), Energy and patterns of land use, in: D. Watson, Energy Conservation trough building stock, transport and energy model of a medium sized city. Report to the EPSRC Steemers K. , (2003), Energy and the city:density, buildings and transport. Energy and Buildings, 35, 3-14


Mobilità

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Mobilità/1 - parla il prof. Raffaele Mauro Metroland? Un’idea sulla quale discutere di Alessandro Franceschini

L

a gestione e il potenziamento della mobilità in Trentino sono alcuni dei temi che accendono il dibattito pubblico sulle dinamiche territoriali in atto nella nostra provincia più di molte altre questioni. In questi mesi è “Metroland”, ovvero l’idea di dotare il territorio trentino di una rete di collegamenti metropolitani veloci, a tenere viva l’attenzione dei media. Sentieri Urbani ha voluto così intervistare il professor Raffaele Mauro, ingegnere delle Infrastrutture e dei Sistemi di Trasporto e docente di Ingegneria Stradale e Ferroviaria presso la Facoltà di Ingegneria dell'Università di Trento, per chiedere l’opinione esperta di un osservatore privilegiato. Professor Mauro, il suo occhio esperto legge una strategia nelle politiche infrastrutturali in atto nella nostra provincia o si sta avanzando a tentoni e a suon di boutade? «Io credo che vi sia una strategia. Considerando gli strumenti di programmazione dei quali è dotata l’Amministrazione provinciale credo non sia possibile da parte degli uffici e degli amministratori della Provincia autonoma di Trento fare sortite di carattere estemporaneo. Con gli strumenti predetti le iniziative di infrastrutturazione vanno comprese all’interno di inquadramenti definiti. Salvo poi articolare, ovviamente, le diverse opzioni. Esiste una relazione molto stretta, logica e procedurale, tra il piano stralcio della mobilità per i vari comparti e gli strumenti di pianificazione. Il tutto è subordinato alle procedure di valutazione ambientale strategica, recepite completamente dalla Giunta provinciale nel 2006 e che contemplano una valutazione per tutti i piani e programmi che ne hanno i requisiti (come, ad esempio, i settori agricoli, foreste, trasporti, rifiuti...). In questa direzione è prevista la definizione di un quadro di riferimento per l’approvazione, l’autorizzazione o comunque la realizzazione, di opere ed interventi i cui progetti sono sottoposti alle procedure di Valutazione d’Impatto Ambientale». A che punto è il processo di ammodernamento infrastrutturale del Trentino avviato alla fine degli anni Novanta? «Credo che il processo di infrastrutturazione stradale in Trentino sia giunto di fatto a piena attuazione. Negli ultimi anni c’è stato uno sforzo notevole condotto con grande determinazio-

ne e con efficienza che ha portato sostanzialmente all’ammodernamento delle rete stradale e a risolvere problemi rimasti da decenni insoluti a fronte di un incremento della mobilità che, però, diversamente da quanto percepito dalla pubblica opinione, o amplificato dai mezzi di comunicazione locali, non ha mai avuto nulla di drammatico. In questa provincia, i fenomeni della mobilità hanno avuto sì incrementi, ma la loro rilevanza, sia per l’ovvio motivo della contenuta crescita demografica, sia per la conformazione, la organizzazione e le modalità di sviluppo della struttura del territorio e delle attività presenti, è sostanzialmente non drammatica. I fenomeni di congestione sono stati in realtà più avvertiti e presentati in modo enfatico che realmente riscontrati». Può spiegare meglio questo concetto? «In questa provincia si assiste ad una sorta di permanente allarme ambientale, che ha dato anche i sui frutti certo positivi. Il fenomeno deriva dalla circostanza che il valore dell’ambiente è sempre stato al centro di una diffusa consapevolezza identitaria, mi scuserà, è un termine del sociologese, ma non trovo ora parola migliore. Le persone si riconoscono nell’ambiente naturale e lo tutelano. E questo fa parte della dimensione culturale del Trentino, dei trentini, che mira a conservare la totale integrità del territorio. Non è un fatto casuale. Non è solo dovuto ad una scarsa pressione demografica che pure c’è, ma da una sedimen-

Raffaele Mauro al lavoro presso l’Università di Trento. Ingegnere delle Infrastrutture e dei Sistemi di Trasporto e docente di Ingegneria Stradale e Ferroviaria è un autorevole esperto di mobilità


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Mobilità

tata cultura di rispetto dell’ambiente e da una capacità di vivere comunitariamente. Atteggiamenti che non sono scontati o facilmente reperibili in altri contesti sociali. Basta spostarsi nel vicino Veneto per scoprire una gestione del territorio completamente diversa. Questo è un fatto oggettivo. Però questa sensibilità si ripercuote a volte in una sorta di eccesiva pressione mediatica sui problemi dell’ambiente quando si parla di infrastrutture ed impianti. Nella realtà la rete stradale è una rete ben connessa, molto ben mantenuta e gli interventi fatti sono stati eseguiti spendendo bene i soldi pubblici. È stato tutto sostanzialmente pensato, o, almeno così appare». Eppure i dati parlano di città letteralmente invase da autoveicoli… «Le cifre che si leggono sui giornali sono irrealistiche. Non so da dove provengano, ma sono irrealistiche rispetto sia alla dimensione demografica della città e dei suoi ambiti, sia per la capacità di reale attrazione di traffico dai contesti di incidenza. Si tratta di cifre sovrastimate. Non c’è chiarezza sulle variabili statistiche rilevate: ad esempio, sono transiti o veicoli reali? Si ha l’impressione che queste cifre abbiano come genesi una carenza metodologica nelle definizioni delle grandezze in misura e negli scopi per i quali le rilevazioni – o le previsioni – si effettuano. Il piano delle misure, delle rilevazioni, deve essere tarato sulla base degli obiettivi. Altrimenti la sovrabbondanza e la ridondanza delle informazioni raccolte, sempre che corrette, portano alla classica situazione descritta dal famoso motto: “prendere fischi per fiaschi”. Quali sono i margini di miglioramento? «Ora è evidente che in città il comparto del sistema dei trasporti – infrastrutture e servizi – è consolidato, nel senso che è molto difficile intravvedere altri possibili, sensati, sostanziali interventi di potenziamento. Un elemento critico del sistema è comunque rappresentato da aliquote di traffico di attraversamento che continuano ad impegnare Trento nel suo nucleo urbano». Su quali aspetti si dovrà lavorare nel futuro? «In futuro ci saranno due problemi sulle reti stradali urbane ed extraurbane: da un lato avremo la necessità di un’avanzata – per criteri e strumenti operativi – gestione programmata della manutenzione e dall’altro occorreranno una serie di necessari provvedimenti nelle aree urbane. La cosa che incuriosisce un esperto di

traffico che attraversa la città capoluogo è l’assoluta mancanza di una messa in fase ottima dei controlli delle intersezioni. C’è da lavorare molto in questa direzione con gli strumenti dell’ingegneria del traffico disponibili ed oramai entrati nella pratica tecnica, naturalmente quella che si aggiorna culturalmente in modo sistematico. Attualmente, l’insieme dei nodi sembra esercitato senza una organica ed efficace strategia operativa. Sarà poi necessario sfruttare meglio le infrastrutture esistenti, dotandole di tecnologie nuove informative e di controllo. Un esempio per tutti: gli assi principali verso Trento potrebbero essere dotati di dispostivi di informazione dell’utenza per poter re-instradare il traffico in caso di necessità. L’implementazione di queste azioni necessita, però, di approfondimenti di modellistica raffinati e di un chiaro disegno complessivo di integrazione infrastrutturale e di gestione unitaria del sistema viario. Un discorso complesso, ma tecnicamente conseguibile a partire dall’esistente». In questo contesto, come s’inserisce la politica provinciale che dopo anni di investimenti in strade decide ora di investire in ferrovie. «L’idea di interessarsi di trasporto collettivo in sede propria, cioè su ferro, è una naturale evoluzione di una strategia che, anche se non dichiarata in modo esplicito, in realtà è nei fatti. Se si vuole migliorare non si può fare altro che interconnettere. Il modo più efficace è lo scambio tra diverse modalità di trasporto: ferrogomma, pubblico-privato, sede propria-sede promiscua. In una visione dei Sistemi di Trasporto che obbedisce ad un principio evolutivo, quando vengono portati a compimento i processi in un sottosistema è necessario procedere oltre». Parliamo di contesti urbani. «Nello specifico dell’’ambito della mobilità urbana nuovi interventi hanno senso solo quando la gestione dei flussi pur riassestata in condizioni ottime non appare comunque in grado di soddisfare le esigenze, le necessità cui il sistema è chiamato a dare risposte. Solo nella prospettiva di un riordino complessivo del trasporto pubblico, di una sua semplificazione, l’idea di attrezzare qualche dorsale con sistemi di metropolitana leggera, qualche significato può averlo. Personalmente, avendo osservato da dentro la condizione di Trento e le sue caratteristiche di “città obliqua”, credo che siano certo consigliabili sistemi di collegamento collina-valle integrati con sistemi di pedonalizzazione assistita. Si potreb-


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bero attuare interventi efficaci con spesa contenuta». Cosa manca nelle città trentine per migliorare la qualità della vita? «Quello che manca nelle città è una sorta di costante dialogo con l’utenza. Le strategie di informazione e di presentazione dei vantaggi della dismissione dei mezzi privati in città sono fondamentali. Qui non esiste una massa demografica urbana, né una scala territoriale urbana o metropolitana, tale da autorizzare un sistema metropolitano articolato. Il successo dei sistemi di metropolitani è legato a quell’aliquota di utenti che non ha mezzo privato o ha scarsa propensione al suo uso. In Trentino questa fascia di fatto è contenuta. Tra l’altro qui la tariffazione della sosta è particolarmente conveniente e poco penalizzante e quindi tutto questo rende complicato pensare ad un semplice trasbordo di persone da una modalità privata ad una pubblica solo per una disponibilità maggiore del mezzo pubblico. Questo non avviene facilmente. Occorre invece prendere impopolari provvedimenti di carattere prescrittivo. Non si capisce perché in città che si attraversano mediamente in 40 - 60 minuti, non si vogliono seriamente attivare delle politiche di limitazione dell’uso del mezzo privato. Non si può pensare che con qualche euro si possa sostare per tutto il tempo che si vuole. È improponibile. Serve più turnaggio. La sosta costa poco ma non è organizzata secondo dei limiti massimi di sosta. Si dovrebbe liberare lo stallo al più ogni due ore, anche lì dove la sosta

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è a pagamento. Bisogna ripensare la politica della sosta in città. Quindi, riorganizzazione dei traffici con strategie di controllo corretti delle intersezioni e di alcuni assi, quindi disciplina della sosta, quindi riorganizzazione dei trasporti pubblici, declinazione di nuove modalità di trasferimento tra valle e collina per Trento. Forse questo, prima che altri parcheggi di attestamento». Come vede i parcheggi di attestamento e i bus navetta di collegamento con il centro? «La navetta in genere funziona poco. Può funzionare solo se la sosta diventa o troppo costosa o troppo breve in città. Credo, ma non ne sono certo, che anche all’interno degli strumenti nuovi come il Piano della mobilità non sia mai pensato in modo organico ed esplicito di riassettare verso condizioni ottime il sistema esistente». Da dove deriva questo problema? «In generale, in molte città italiane - non dico specificatamente di Trento - da chi crede, in veste di decisore politico o funzionario tecnico preposto, che i problemi di organizzazione del traffico e di sicurezza dell’esercizio stradale in una città possano semplicemente essere affidati al buon senso, o mutuando qualche idea più o meno colorata o graziosamente fantasiosa da qualche altro contesto evitando e scavalcando così precise e specialistiche competenze tecniche, sempre che si sia a conoscenza della loro esistenza. Per non dire delle mediazioni – sempre paralizzanti – orientate all’impresa impossibi-

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Attrezzature infrastrutturali e paesaggio di fondovalle in un tratto della Valle dell’Adige, all’altezza di Rovereto.


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le di non scontentare nessuno per non perdere consenso o affrontare difficoltà ed opposizioni. Una miscela dagli esiti esplosivi, in termini di disservizio ed inefficienza. A Trento, in città, ricorrono tutte le condizioni, dato lo stato del sistema dei trasporti ed urbano, per ottenere risultati efficaci e durevoli con interventi sostanzialmente limitati, basta che ad essi si dedichino tempo per le analisi e strumenti solutivi adeguati ed aggiornati». Torniamo all’idea di Metroland. «L’idea di infrastrutturare su ferro l’ambito provinciale che sta suscitando molte perplessità e contrarietà credo abbia una sua logica. Poi bisogna vedere, naturalmente, quali saranno le caratteristiche del sistema, in termini anche di tipo di infrastruttura e di convogli prevista, per non dire delle modalità di esercizio e di gestione. E questa logica nasce da un lato dalla necessità di agevolare un certo tipo di accessibilità e dall’altro di potenziare nel suo complesso il sistema del trasporto in tutti i suoi aspetti. Se poi abbia senso o non senso fare linee dirette e concentrare su capisaldi le relazioni, non ci sono al momento informazioni sufficienti per poter valutare queste condizioni. Tra l’altro, date gli attuali livelli delle specializzazioni professionali e le competenze che oggi ne derivano, questa questione, ma più in generale, quella relativa alla valutazione della opportunità o meno di realizzare un sistema come Metroland, non compete all’ingegnere dei trasporti, quale io sono, ma agli urbanisti, ovvero a chi si interessa della pianificazione del territorio e, naturalmente, alla fine, alla politica. Faccio ora, comunque, un discorso generale, forse anche generico. Sicuramente – e qui non sarò d’accordo con alcuni che, più autorevolmente di me, già si sono espressi anche pubblicamente – così come fin ora presentata, la circostanza che non vi sarebbe sufficiente domanda da porre alla base di queste iniziative attuative non può, secondo me, costituire il solo argomento decisivo ad orientare verso un giudizio ostativo, per due motivi. In qualsiasi sistema di trasporto su ferro con il ricavato dei biglietti non si copre mai più del 20-30% delle spese di gestione. Va ricordato, a questo proposito, che il D. Lgs 442 del ’97 per il trasporto collettivo locale contempla la possibilità di perdite da collocare a carico della collettività fino al 65% delle spese di gestione. Quindi si registrano sempre

perdite sistematiche. Bisogna valutarne ai fini delle decisioni attuative dell’intervento, le entità ed i riflessi finanziari ed economici anche generali, non solo in relazione all’intervento medesimo. Possono infatti essere altri i vantaggi derivanti dall’opera. Poi, non è detto che un sistema di questo tipo non possa essere con provvedimenti di esercizio (cadenzamenti differenziati per ore del giorno, per fasce settimanali e per periodi dell’anni) reso meno diseconomico». Ci sono altre questioni? «C’è un altro aspetto cui vorrei accennare, anche se non è il mio mestiere, visto che sono un ingegnere che non fa l’urbanista. Si tratta di considerazioni che liberamente elaboro e che mi derivano dalla frequentazione con gli esperti dell’ingegneria del territorio, della pianificazione urbanistica e dei sociologi, dai quali sistematicamente apprendo molte cose interessanti. Ovvero: le opportunità di connessione e facilitazione dell’accessibilità sono di per sé un valore e costituiscono di per sé un elemento di sviluppo potenziale del territorio. Questo non è in contraddizione con il decentramento e con il potenziamento del decentramento. Poi naturalmente sarà necessario entrare nel dettaglio, valutare i problemi quando ci saranno documenti completi di fattibilità e si sarà nella fase della Valutazione strategica ambientale. Lì si inizierà forse a capire quali sono i pesi dei pro e dei contro». L’idea è quindi, allo stato dell’arte, assennata… «L’idea non è quindi in linea di principio per me astratta, anche se ovviamente l’approfondimento della questione economica, tra le altre, cioè, a dirla in modo improprio, dei costi, della convenienza, in senso generale e della redditività degli investimenti è più che fondata. Per il resto, e qui continuo a non fare il mio mestiere, molto si giocherà nelle valutazioni sulla opportunità dell’intervento, sulle possibilità e sulla portata dello scambio modale ovvero sui livelli e sul tipo di complementarità che i due sistemi, quello su gomma e quello su ferro, dovranno o potranno raggiungere nella direzione di un riassetto dei territori di incidenza. Già ristretta in questi ambiti visuali limitati la questione Metroland credo sia davvero complessa, tanto da non poter essere oggetto di studio di un solo specialismo, men che meno, quindi, esclusivo appannaggio dell’Ingegneria in generale, di quella dei Trasporti in particolare».


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Mobilità/2 Il Trenino dell'Avisio Lo studio di fattibilità per una ferrovia nelle valli di Fiemme e Fassa di Marco Danzi – Qnex, Bolzano

1. L'idea: un treno per Fiemme e Fassa La riscoperta del trasporto ferroviario degli ultimi decenni, supportata dagli esempi concreti delle ferrovie Trento-Malè-Marilleva e MeranoMalles, ha stimolato, anche nelle valli di Fiemme e Fassa, l'idea che il treno possa essere la soluzione ideale per risolvere i problemi di mobilità e contemporaneamente per riposizionare l'offerta turistica. L'importanza economica e sociale dell'investimento impone una severa valutazione e ponderazione delle scelte con un'attenta analisi di costi, impatti e benefici. Nelle valli di Fiemme e Fassa ha senso realizzare un trenino o un sistema analogo? Se sì, come e dove? Per questo nell'estate 2009 l'Associazione Transdolomites di Pozza di Fassa ha commissionato a Qnex – Soluzioni per la Mobilità di Bolzano uno studio di fattibilità per la realizzazione di un servizio di trasporto ferroviario nelle Valli di Fiemme e Fassa con l'obiettivo di analizzare le caratteristiche del territorio e della mobilità e di verificare – dal punto trasportistico, ingegneristico, economico, sociale e ambientale – possibili concrete ipotesi di realizzazione. 2. L'approccio: dal servizio all'infrastruttura Obiettivo ultimo nella pianificazione e progettazione di una nuova infrastruttura di trasporto non è costruire una linea ferroviaria, nemmeno fare circolare dei treni, bensì trasportare persone. I parametri progettuali di un'eventuale infrastruttura vanno calibrati sulla base delle prestazioni richieste al servizio di trasporto pubblico per intercettare l'eventuale domanda di mobilità, che deve essere adeguatamente analizzata e dimensionata. L'analisi del territorio e della mobilità privata e pubblica fiemmese e fassana ha verificato l'esistenza di macroindicatori di fattibilità sia in termini di potenziale trasportistico (consistenza della domanda e sua effettiva distribuzione) che di potenziale tecnico (caratteristiche orografiche e urbanistiche del territorio). In estrema sintesi, la mobilità fiemmese e fassana presenta quattro caratteristiche: - un significativo bacino di utenza residente e turistico concentrato lungo un'unica direttrice;

Fiemme e Fassa offrono circa 27.000 abitanti e 7 milioni di presenze turistiche annue lungo un asse di circa 50 km; su base annua circa il 70% della mobilità è costituito da residenti e lavoratori che quindi costituiscono l'utenza principale, senza trascurare l'utenza turistica nelle stagioni estiva ed invernale; - una forte rilevanza della mobilità locale (di prossimità e corto raggio) rispetto alla media e lunga percorrenza (oltre i confini delle due valli); - una domanda frammentata su tutto l'arco della giornata, con volumi significativi anche fuori dalle classiche ore di punta; - una forte predominanza nell'utilizzo del mezzo privato rispetto al mezzo pubblico. Pertanto il successo della nuova offerta di trasporto pubblico dipende dalla capacità di costituire una credibile alternativa al trasporto privato per il maggior numero possibile di residenti, lavoratori, turisti giornalieri stanziali. A tal fine sono vengono individuati i seguenti requisiti prestazionali: a. tempo di percorrenza: sostanzialmente analogo all'auto privata sia sulla breve che sulla lunga distanza, con una garanzia del rispetto degli orari anche in ora di punta, in alta stagione e in condizioni meteo sfavorevoli; b. capillarità delle fermate e loro prossimità ai centri urbani: il leggero aumento dei tempi di percorrenza del mezzo di trasporto viene compensato dal minor tempo necessario per raggiungere le fermate e dall'eliminazione di rotture di carico e interscambi per buona parte del bacino di utenza, determinando una generale riduzione del tempo complessivo di spostamento origine/destinazione. In tal modo inoltre l'offerta risulta attraente anche per spostamenti da, verso e tra destinazioni secondarie, garantendo una redditività del servizio (riempimento dei treni) anche in realtà piccole, prive di grossi attrattori di traffico point-to-point alle estremità della linea in grado di generare da sole domanda di mobilità sufficiente; c. elevata frequenza: un orario cadenzato con passaggi ad intervalli regolari consente di creare un'offerta di trasporto pubblico consistente e “pulita”, facile da comprendere e da utilizzare che per un'utenza residente occasionale (non

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L’ipotesi del tragitto attraverso le valli di Cembra, Fiemme e Fassa

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pendolare) e turistica, nonché di ottimizzare le risorse disponibili, aumentando l'offerta a parità di chilometri grazie all'eliminazione di inefficienze (corse parallele o ravvicinate, trasferimenti a vuoto, ecc.); d. semplicità di utilizzo: orario di base a validità annuale; sistema tariffario integrato; pianificazione, progettazione informazione e promozione integrata con il trasporto pubblico su gomma afferente alla linea ferroviaria. e. ridotto impatto ambientale: il contesto territoriale sensibile e dedicato impone requisiti severi per occupazione di spazi, rumore, emissioni e impatto visivo; f. sostenibilità economica: sia in fase di realizzazione che di gestione è importante massimizzare i bacini di utenza in rapporto al costo complessivo stimato dell'intervento. 3. L'infrastruttura: parametri progettuali La necessità di rispondere ai requisiti trasportistici sopra indicati e l'analisi del contesto territoriale ha portato a definire i seguenti parametri progettuali di base: - infrastruttura: ferrovia a binario unico in sede

completamente separata dal trasporto privato scartamento: 1435 mm sagoma limite: UIC 505 alimentazione: 3kV cc pendenza massima: fino a 4% circa raggio minimo di curvatura: 200m circa velocità massima della linea: fino a 120 km/h circa, in ragione della distanza tra le fermate 4. Il percorso: veloce, diretto, al servizio del territorio La conformazione delle Valli di Fassa e di Fiemme e la collocazione dei centri abitati consente di individuare un tracciato di massima tra Canazei a Cavalese che non presenta particolari difficoltà realizzative. Tale percorso può costituire una tratta funzionale autonoma e funzionare in una prima fase indipendentemente dal collegamento con la rete ferroviaria RFI. A valle di Cavalese – anche su indicazione del Committente – si è inizialmente esplorata la fattibilità di un collegamento con la linea ferroviaria del Brennero presso Ora o Egna, ipotizzando una sostanziale riedizione in chiave moderna della Ferrovia Ora-Predazzo soppressa nel 1963.


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Il vecchio tracciato a scartamento metrico e molto tortuoso determina tempi di percorrenza non competitivi. La scarsa densità di popolazione tra Cavalese e Ora, ma soprattutto il fatto che Ora non risulta essere una significativa destinazione finale, ma solamente un punto di interscambio da o verso Trento e Bolzano non giustificano i forti investimenti necessari per la realizzazione di una nuova linea su tale direttrice. L'ipotesi Metroland prevede una linea ferroviaria a binario unico Cavalese-Borgo ValsuganaPergine-Trento di 57 km con un tempo di percorrenza di 28 minuti e un costo di circa 1050 milioni di euro. La notevole lunghezza del percorso vanifica le elevate velocità dei treni e comporta maggiori costi di realizzazione e gestione per la presenza di lunghi tunnel che impongono sofisticati requisiti di sicurezza. Il ridotto numero di fermate limita il bacino di utenza della linea soprattutto nei confronti delle esigenze di mobilità locale. Di contro, un collegamento tra Cavalese e Trento attraverso la Valle di Cembra consente un sostanziale aumento del bacino di utenza della linea, grazie a fermate in Bassa Valle di Fiemme, Valle di Cembra, Meano e Gardolo mentre la riduzione di percorso di circa 14 km (pari a circa il 25%) rispetto a Metroland comporta tempi di percorrenza Cavalese–Trento comparabili a Metroland con costi di realizzazione e gestione sensibilmente inferiori. 5. La Ferrovia dell'Avisio: percorso e costi di realizzazione La linea ferroviaria ipotizzata ha capolinea ad Alba di Canazei, in corrispondenza della stazione a valle della funivia Alba-Ciampac. Percorre quindi l'intera Valle di Fassa con un tracciato in superficie, lungo la sponda destra del torrente Avisio, servendo tutti i centri abitati e gli impianti di risalita di Canazei, Campitello, Pozza di Fassa, e Predazzo. Dopo la fermata di Ziano la linea ferroviaria abbandona il fondovalle per servire a mezza costa le fermate di Panchià, Tesero, Cavalese Cabinovia e Cavalese Ospedale. Ritorna quindi nel fondovalle per la fermata di Molina, costeggia in destra orografica il lago di Stramentizzo e sale al paese di Capriana. Di qui alternando tratti all'aperto a brevi gallerie, serve le fermate di Grauno/Grumes, Faver, Cembra e Giovo. Quindi la ferrovia attraversa la valle portandosi in località Comparta e tangendo l'abitato di Meano scende a Gardolo per immettersi sull'asse di via Brennero in corrispondenza dell'incrocio con la SP76 Gardolo-Lases e proseguire in direzione del centro città, innestarsi nel sedime ferroviario dell'ex scalo Filzi per raggiungere la stazione ferroviaria di Trento. La lunghezza complessiva della linea è di circa 86 km, di cui circa 72 km in superficie 8 km in

tunnel (10 gallerie) e 6 km sopraelevati o in viadotto. La linea è prevista a binario unico, con 5 punti di incrocio, per garantire una frequenza massima di un treno ogni 30 minuti per senso di marcia. Le 25 semplici fermate, di facile realizzazione e ridotto impatto ambientale prevedono 150m di marciapiede, pensilina di copertura, panchina, tabella porta orari, sistema di informazione dinamica. Non sono previsti locali chiusi, né emettitrici di biglietti che verranno collocate a bordo dei treni. In prossimità delle fermate vanno previsti posti auto, fermata dell'autobus e parcheggi biciclette. Anche in caso di fermate a due binari gli attraversamenti sono previsti a raso con protezione ma senza sottopassi, con un contenimento dei costi e un più agevole e veloce accesso ai treni. Un cadenzamento a 30 minuti richiede una flotta di 10 elettrotreni a 3 o 4 casse con elevate prestazioni in accelerazione e frenatura, incarrozzamento a raso, elevato comfort di viaggio, silenziosità esterna, spazi multifunzionali per passeggini e biciclette. Il costo complessivo di infrastruttura, fermate e

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materiale rotabile è stimato in circa 800 milioni di euro. La fascia di terreno necessaria per la realizzazione della linea è di 5 metri circa. Grazie a tale ridotto ingombro il consumo di spazio è molto limitato e consente di inserire l'infrastruttura nel territorio, senza conflitti nemmeno con la pista ciclabile o con il percorso della Marcialonga. Sono previste intersezioni con la viabilità secondaria risolte con passaggi a livello in considerazione della frequenza massima di 4 treni ora. Il rumore e le vibrazioni di treni elettrici moderni su un binario moderno sono inferiori rispetto a quelli di un autobus e si avvertono unicamente al passaggio dei treni. 6. L'offerta commerciale Il successo del trasporto pubblico dipende da qualità ed affidabilità del servizio: il cliente chiede facilità di utilizzo, fermate comode e accessibili, un sistema tariffario semplice, un orario facile da memorizzare, treni moderni, veloci, silenziosi e confortevoli. Il servizio di trasporto ipotizzato prevede treni ogni 30 minuti in ora di punta e ogni 60 minuti in ora di morbida con un tempo di percorrenza complessivo di 82 minuti, riducibile di circa 1015 minuti per treni diretti con fermate solamente nei centri principali. Il Treno dell'Avisio offre alle valli di Fassa, Fiemme e Cembra un servizio veloce ed efficiente sia per la mobilità locale tra i paesi che per gli spostamenti da e per Trento. Contestualmente il trasporto autobus viene riorganizzato in linee ambito locale integrate con il trasporto ferroviario a servizio della domanda di mobilità non adeguatamente servita dal treno e/o di particolari tipologie di utenza (trasporto scolastico, skibus,...). Tra Gardolo e Trento il Treno dell'Avisio può percorrere i binari FTM, in gran parte già attrezzati per il doppio scartamento. Lo studio evidenzia l'opportunità di prevedere però il Treno dell'Avisio su via Brennero in alternativa alla metropolitana automatica VAL, nell'ambito di un servizio ferroviario metropolitano in grado di offrire un livello di servizio – in termini di frequenza, velocità e capillarità delle fermate – comparabile con la metropolitana con costi e tempi di realizzazione inferiori. Viene messo in evidenza come gli interventi a vario titolo previsti dalla Provincia di Tren-

to per la riqualificazione delle ferrovie del Brennero (nuove fermate), Valsugana (potenziamento ed elettrificazione) e TrentoMarilleva (modifica scartamento in fondovalle), se opportunamente ricalibrati e integrati in una progettazione comune consentono di utilizzare la cintura ferroviaria di cui Trento già dispone per realizzare servizi ferroviari passanti (es. Pergine-Trento-Mezzolombardo, Canazei-CembraTrento-Mattarello, Mezzocorona-TrentoRovereto). La sovrapposizione di tali servizi comporta per le fermate esistenti, previste e realizzabili nell'area urbana di Trento frequenze in ora di punta a partire da 3-5 minuti, analogamente a quanto avviene in servizi S-Bahn come Monaco di Baviera. Un sistema di servizi ferroviari passanti consente non solo spostamenti veloci all'interno della città, ma offre a chi proviene in treno da altre località della provincia la possibilità di arrivare direttamente presso una molteplicità di fermate cittadine fino in prossimità della destinazione finale - per esempio il nuovo ospedale NOT - con aumento del comfort e riduzione dei tempi di viaggio. Più che di una nuova tecnologia di trasporto, la città di Trento sembra necessitare di una ottimale integrazione dei servizi ferroviari esistenti in un'offerta di trasporto efficiente e di facile comprensione, un'ottimale integrazione tariffaria e un moderno sistema di informazione e promozione dei servizi. Anche a seguito del raddoppio della linea ferroviaria del Brennero tutto l'attuale traffico passeggeri rimarrà sull'attuale linea ferroviaria, liberata però dal traffico merci. L'interesse di aziende ferroviarie straniere, in primis DB e ÖBB già presenti sulla linea del Brennero, dimostra il forte potenziale del trasporto ferroviario in Trentino Alto-Adige. La Provincia Autonoma di Trento ha colto la storicità del momento attuale, dichiarando attraverso Metroland la disponibilità ad investire imponenti risorse nella realizzazione di nuove linee ferroviarie. La sfida oggi è utilizzare nel modo ottimale queste risorse, affinché le infrastrutture realizzate vadano a beneficio del maggior numero possibile di utenti e contribuiscano a mantenere elevato il livello di qualità della vita e di offerta turistica del Trentino.


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Mobilità/3 La Borsa dei transiti alpini per ridurre il traffico dei mezzi pesanti di Francesco Pastorelli (Direttore di CIPRA Italia)

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arlando di trasporto merci e di trasferimento modale spesso si fa riferimento alla Svizzera per via delle sue nuove infrastrutture ferroviarie, il tunnel del Lötschberg e quello in costruzione del Gottardo. In realtà il percorso svizzero per il trasferimento modale è molto più complesso e non si limita alle infrastrutture. In Svizzera, a partire dagli anni '90 con la cosiddetta Iniziativa delle Alpi è stato avviato un serio cammino in questa direzione. La Confederazione, mediante l’Iniziativa delle Alpi, protegge la regione alpina dalle ripercussioni negative del traffico di transito, stabilisce che il traffico di merci attraverso la Svizzera deve avvenire su rotaia e decreta che non può essere aumentata la capacità di transito delle strade. Quest’ultimo è un caposaldo che, ad esempio, la politica dei trasporti italiana non ha mai nemmeno preso in considerazione; si pensi ai progetti di nuove infrastrutture autostradali che periodicamente vengono alla ribalta. Le misure adottate non sono state quindi soltanto quelle della messa a disposizione di nuova capacità di trasporto, ma si è trattato di adottare strumenti finanziari per il trasferimento del traffico. Di più, è stato dimostrato come per il raggiungimento degli obiettivi di trasferimento modale, oltre a non essere sufficienti i nuovi tunnel, non bastino nemmeno gli attuali strumenti economici come la tassa sul trasporto pesante commisurata alle prestazioni (TTPCP, mediante la quale ogni mezzo pesante circolante in Svizzera paga una tassa per ogni chilometro percorso e per ogni tonnellata trasportabile), ma occorra un ulteriore sforzo. Quella che può essere considerata una efficace misura di accompagnamento è la Borsa dei Transiti Alpini (BTA). Alla base del suo funzionamento vi è un concetto di domanda offerta: da una lato abbiamo una forte richiesta di attraversamento del territorio alpino con mezzi pesanti, dall'altro la regione alpina che non può disporre di un'offerta illimitata di transiti, anche per ragioni ambientali. E' quindi opportuno porre un limite alla capacità di transito (numero di passaggi di mezzi pesanti tollerato dall'ecosistema alpino) e creare una “borsa” che consenta di regolare domanda ed offerta. Stabilito un limite massimo di mezzi pesanti ai quali è consentito di attraversare le Alpi, ogni autocarro che intende attraversare le Alpi dovrà essere munito di un “diritto di transito”. Sui diritti di

transito si verrebbe quindi a creare un mercato di domanda ed offerta in un quadro stabilito dalle autorità politiche che fissano la quantità di transiti consentiti. L’applicazione di uno strumento come la BTA comporterebbe vantaggi sia per l’ambiente che per la popolazione alpina riducendo i transiti su gomma e la fiscalità, grazie alle entrate della vendita dei diritti di transito. L’introduzione della BTA deve essere coordinata con gli altri paesi alpini confinanti. Nel caso dell’Italia vi è molto terreno da recuperare in quanto si stentano ad affrontare la problematica dei trasporti sotto una logica che non sia di sole infrastrutture e strumenti come il Protocollo Trasporti della Convenzione delle Alpi da anni attendono di diventare legge. Una piccola speranza viene dal Trentino Alto Adige: in occasione della seduta congiunta delle assemblee legislative della Provincia Autonoma di Bolzano, del Land Tirol e della Provincia Autonoma di Trento, il 29 ottobre 2009, è stata adottata una deliberazione riguardante una strategia comune concordata per il graduale trasferimento del traffico merci dalla strada alla rotaia. I sottoscrittori di questo documento si pongono come obiettivo – sia pur considerandolo complementare alla realizzazione della galleria di base del Brennero un “sistema di controllo e coordinamento del traffico nel senso della Borsa dei transiti alpini, per amministrare i vettori e limitare il traffico merci su strada a un livello compatibile con la tutela della salute e dell'ambiente”.

Informazioni sulla borsa dei transiti su: www.borsa -dei-transiti.org e www.iniziativa-delle-alpi.ch


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Un premio per far crescere L’ARCHITETTURA di Maria Grazia Piazzetta (Citrac) Alcune opere premiate al concorso “Costruire il Trentino” dalla giuria composta da Francesco Dal Co, Mauro Galantino, Manuel Aires Mateus, Giuseppe Nannerini, Duccio Canestrini. Qui sopra: “Percorsi tra luoghi di pregio storicoculturale in Val di Non” (progettisti Claudio Maurina, Edy Pozzati, Paolo Pozzati).

Nel mese di febbraio il Premio “Costruire il Trentino” promosso dal Circolo Trentino per l’Architettura Contemporanea ha concluso il suo percorso registrando un positivo ritorno d’immagine per il Citrac ed una notevole, seppure temporanea, visibilità per l’architettura trentina. L’evento va ora a collocarsi accanto a quella serie di iniziative che il Circolo da sedici anni promuove prevalentemente intorno ad un unico tema: la poetica del luogo, ossia il rapporto tra “progetto” e “luogo”. Tema questo pregnante e complesso con illustri ascendenti teorici (Levi Strauss, Frampton...) che comporta il risveglio e la riscoperta delle proprie tradizioni culturali, intese in senso dinamico e non come repertorio, per evitare un mediocre appiattimento su culture predominanti perché semplicemente più forti. In architettura, dove il termine luogo è oggi abusato e spesso svilito a supportare penosi mimetismi o peggio contaminazioni e parodie di stili, l’intervento contemporaneo fa luogo sul

luogo, facendo interagire la memoria con le dinamiche di oggi, interpretando quindi un territorio in perenne trasformazione (il Regionalismo critico e il Regionalismo dinamico). In particolare, nelle regioni alpine come il Trentino dove cultura e paesaggio hanno acquisito nella loro storia una precisa identità, sono paradigmatiche di questo pensiero le opere assolutamente innovative di Carlo Mollino o di Edoardo Gellner, che non solo non feriscono la montagna ma la rendono ancora più grandiosa, misteriosa, poetica o le architetture di Othmar Barth capaci ogni volta di instaurare con il luogo – sia esso città o lago o campagna – un mutuo rapporto di conoscenza e valorizzazione. Mi sono forse troppo soffermata sulle premesse, ma da queste premesse scaturiscono i fondamenti e le aspettative del Premio e le osservazioni e le considerazioni che la conclusione del Premio ci sollecita a proporre. Scorrendo il catalogo, nella maggioranza delle opere presentate la pluralità, la freschezza, la


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personalizzazione delle grammatiche compositive schiettamente contemporanee, elaborate attraverso la lettura e l’interpretazione individuale della cultura architettonica del territorio di riferimento, mostrano una percezione quasi emozionale, sensoriale del luogo e di conseguenza una diffusa esplicitazione della propria appartenenza a una comune identità trentina. Passando all’esito del Premio, si nota oggettivamente una certa disomogeneità nelle scelte – differenziate, casualmente forse, a seconda delle diverse tipologie delle opere – dovuta presumibilmente a criteri di valutazione non precostituiti e quindi genericamente variabili, oppure a criteri prevalentemente estetici. Infatti per la categoria “edifici” la Commissione ha privilegiato quella minoranza di architetture presenti (di indubbia validità) il cui linguaggio

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stereometrico e astratto è riconoscibile come internazionale: architetture agevolmente “nomadi” o comunque non facilmente relazionabili con il luogo se non in modo “cerebrale” (come “rilettura” personale, si veda il verbale giuria) o volutamente conflittuale. Al contrario la scelta operata sugli “interventi nell’ambiente” sembra scaturita dal criterio opposto, in quanto segnala opere che, attraverso citazioni, tecniche costruttive, uso del materiale legno, rinviano alla tradizione, e nel luogo (la natura) fanno di spazi indifferenziati nuovi luoghi “costruiti,” parte di quello specifico territorio. Infine per gli interventi “di recupero” la teoria ”stratigrafica” del restauro invocata dalla giuria va a coincidere con la metodologia derivante per noi piuttosto dalla poetica del luogo (il monumento) che in questo caso nega il rinvio for-

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In alto: “Centro studi e ricerche Tassullo” (progettista Renato Ruatti); In basso: “Infrastrutture nella valle dell’Avisio” (progettisti Cesare Micheletti, Loredana Ponticelli, Claudio Micheletti, Marco Piccolroaz, Alfonso Dalla Torre).


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male - ossia la ricostruzione - a favore di una contemporaneità di linguaggio che rispetta ed esalta l’unicità del manufatto esistente. Sembra quindi che gli assunti e le aspettative del Citrac (…far emergere opere con attenzione al luogo” e “…approfondire i valori dell’identità”) espressi nel bando siano stati solo casualmente o comunque parzialmente considerati e quindi solo parzialmente e indirettamente soddisfatti. Né il verbale della giuria chiarisce del tutto tali problematiche. E il brillante monologo di Canestrini che parla di “luogo”, di “contesto”, di “identità”, di “fluidentità”, di architettura relazionata o no ai luoghi è denso di dubbi e di domande evidentemente senza risposta se alla fine Canestrini afferma che “la giuria… ha coraggiosamente deciso di non affrontare il tema dell’identità”. Tutto ciò fa ragionevolmente pensare quindi a una posizione culturale non coincidente con quella del Circolo, rispettabile ovviamente comunque e suscettibile da parte nostra di riflessione e di approfondimento. Una considerazione finale riguarda l’alto numero di opere presentate: tante per un concorso, pochissime gocce d’acqua nel mare magnum

della degradata edilizia trentina. Constatarlo e analizzare le responsabilità istituzionali e private coinvolte è purtroppo deprimente e improduttivo. Preferiamo trarne un messaggio positivo: la presenza anche solo puntuale di buone architetture è pur sempre un mezzo per aggiornare l’immagine di un territorio e per arricchire culturalmente, anche in forma indiretta e non partecipata, chi ne fruisce. La professionalità di tanti progettisti di tutte le fasce d’età - soci e amici del Circolo ma anche nuovi e giovani nomi - presenti al Premio è il segno dell’esistenza di una minoranza impegnata che comunque agisce, pur nel desolante contesto culturale generalizzato. Per noi del Citrac, che spesso ci sentiamo isolati e disillusi, questa insperata numerosa e qualificata realtà costituisce un incoraggiamento e uno stimolo nel percorso intrapreso di maturazione culturale e professionale, che nasce soprattutto dalla passione verso il nostro lavoro. Ci auguriamo quindi di proseguirlo sempre più numerosi. E insieme.

Regole per chi COSTRUISCE IN MONTAGNA di Adolf Loos* Non costruire in modo pittoresco. Lascia questo effetto ai muri, ai monti e al sole. L’uomo che si veste in modo pittoresco non è pittoresco, è un pagliaccio. Il contadino non si veste in modo pittoresco. Semplicemente lo è. Costruisci meglio che puoi. Ma non al di sopra delle tue possibilità. Non darti arie. Ma non abbassarti neppure. Non porti intenzionalmente a un livello inferiore di quello tuo per nascita e per educazione. Anche quando vai in montagna. Con i contadini parla nella tua lingua. L’avvocato viennese che parla con i contadini usando il più stretto dialetto da spaccapietre deve essere eliminato. Fà attenzione alle forme con cui costruisce il contadino. Perché sono patrimonio tramandato dalla saggezza dei padri. Cerca però di scoprire le ragioni che hanno portato a quella forma. Se i progressi della tecnica consentono di migliorare la forma, bisogna sempre adottare

questo miglioramento. La pianura richiede elementi architettonici verticali; la montagna orizzontali. L’opera dell’uomo non deve competere con l’opera di Dio Non pensare al tetto, ma alla pioggia e alla neve. In questo modo pensa il contadino e di conseguenza costruisce in montagna il tetto più piatto che le sue cognizioni tecniche gli consentono. In montagna la neve non deve scivolare giù quanto vuole, ma quando vuole il contadino. Il contadino deve quindi poter salire sul tetto per spalar via la neve senza mettere in pericolo la sua vita. Anche noi dobbiamo costruire il tetto più piatto che ci è consentito dalle nostre cognizioni tecniche. Sii vero! La natura sopporta soltanto la verità. Va d’accordo con i ponti a travi reticolari in ferro, ma rifiuta i ponti ad archi gotici con torri e feritoie. Non temere di essere giudicato non

Qui sopra: Adolf Loos in un disegno di Oskar Kokoschka, 1910

moderno. Le modifiche al modo di costruire tradizionale sono consentite soltanto se rappresentano un miglioramento, in caso contrario attieniti alla tradizione. Perché la verità, anche se vecchia di secoli, ha con noi un legame più stretto della menzogna che ci cammina al fianco. *Tratto da Adolf Loos, Parole nel vuoto, Adelphi, Milano, 1993


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Botta (e risposta) sulle POLITICHE INFRASTRUTTURALI di Silvio Pancheri e Sandro Fabbro Caro Presidente Fabbro, ti scrivo dopo aver letto e apprezzato il tuo documento del tre novembre sulle piattaforme logistiche. Condivido l’invito a prestare una rinnovata attenzione a temi periodicamente sottovalutati e trascurati nelle politiche infrastrutturali del Paese, quei temi che con bella sintesi riassumi in una frase in chiusura del tuo secondo paragrafo, che fa chiarezza sugli obiettivi dei lavori della nostra commissione. Scrivi (...) l’obiettivo è, pertanto, quello di ricercare, se necessario rivedendo anche le Piattaforme, quei “sistemi territoriali regionali e, più spesso interregionali capaci di giustificare e pianificare le armature urbane e territoriali strategiche per l’intero Paese”. Il territorio, ho inteso anche nelle tue parole, è parte costitutiva di ogni nuova infrastruttura: la accoglie come un innesto ben riuscito se essa è proporzionata alla sua capacità (del territorio) di essere trasformato e di reggere il cambiamento; in questo caso si instaura un rapporto economico positivo, dove l’infrastruttura “rende” quel che noi le chiediamo. Importante è sapere cosa chiedere e per sapere cosa chiedere bisogna avere la percezione dei limiti oltre i quali non si dovrebbe andare. Mi riferisco naturalmente ai molti casi di infrastrutture realizzate “per il bene del Paese” nella consapevole indifferenza ai vincoli e ai rischi, alle carte dei vincoli e dei rischi costruite con il lavoro dei servizi tecnici nazionali, dei geologi, degli urbanisti, ignorati per il rigetto di una disciplina che per la sua stessa natura sta dalla parte della “qualità del territorio” ed è attenta ad interpretare il senso degli strappi e delle accelerazioni improvvise, talvolta fermate da una semplice colata di fango prevedibile. Oggi per l’infrastruttrazione del Paese l’urbanistica è come la Ragioneria generale delo Stato: prima ancora di dire cosa è importante fare e cosa meno, deve dire oltre quale tetto non si deve andare, qual è il limite dell’accelerazione del processo che rischia di provocare bilanci insostenibili. Mi riferisco non solo alla numerosità degli elenchi di infrastrutture che oggi popolano i tavoli delle discussioni sulle priorià, elenchi che hanno sostituito spes-

so i piani con la più spiccia decisione oracolistica del panel di esperti del metodo delphi: un elenco può nascere dal fabbisogno e allora resta stabile finché quel fabbisogno si manifesta, può nascere però anche in molti altri modi e allora i cambiamenti sono tutti legittimi. Realizzare più velocemente le infrastrutture si può, ma serve un piano alle spalle di ogni progetto, che possa rassicurare sull’inserimento, le alternative, i costi previsti. Non basta un programma. Oggi però pare che per predisporre piani manchi il tempo. La nozione di piano sta scomparendo, piano va via assumendo connotati negativi e viene associato a rigidità, dirigismo e inutile iter burocratico. Alla nozione di piano viene preferita la nozione di programma e talvolta anche di accordo. Così le scelte infrastrutturali spesso non hanno alle spalle né un apparato analitico né idee messe a confronto. Il nostro Paese è ancora oggi nelle condizioni che oltre centotrenta anni fa ci descrisse il Bel Paese che l’abate Stoppani, geologo e italiano-italiano senza declinazioni regionali, scrisse applicando l’adagio nosce te ipsum all’Italia, stando ciò a significare, per lui, che la sapienza di una nazione è data dalla profondità e ampiezza della conoscenza che essa ha di sè. La chiamerei, oggi, la radice dello sviluppo. Così nel Paese dell’abusivismo e dei condoni per un elementare gioco dialettico dev’ essere l’urbanistica a indicare se l’innesto di nuove infrastrutture in territori talvolta in degrado e mal studiati non provocherà forme di rigetto; sarà l’urbanistica a indicare le più opportune modalità per riportare a normalità il territorio, riqualificandolo prima di nuovi interventi, prodigandosi nel “recupero” della qualtà perduta. Niente di astratto nelle mie parole. Vediamo spesso cosa comporta l’indifferenza per le ragioni del territorio, sappiamo tutti cosa succede a forzare il territorio: semplicemente, il territorio si vendica. Così ha fatto a Stava, a Soverato, a Sarno, a Patti, dove la distruzione è la moneta con la quale il territorio ripaga incuria e negligenza. Superare quell’incuria richiede la presenza visibile

della disciplina urbanistica, che deve “raccontare” quanto importante sia la conoscenza del territorio non solo per non manomettere le sue parti più pregiate ma anche per procedere alla correzione delle sue patologie, quali sono ovviamente l‘abusivismo e lo stesso condono, quando questo non si pone nemmeno il problema della rilettura dello stato del territorio a seguito del consolidamento e presa d’atto della sua manomissione nelle mappe dell’uso del suolo. Non è casuale che gli smottamenti si ripetano più frequenti nel Mezzogiorno: le mappe del rischio segnalano numerosi ambiti territoriali particolarmente fragili e vulnerabili. A Patti il dramma si è addirittura ripetuto, ma nemmeno la replica è servita; nulla è cambiato se non - forse - proprio nei luoghi delle funzioni dove la comunità colpita da eventi calamitosi si raccoglie per l’ultimo saluto: quando l’urbanistica occupa l’omelia potrebbe essere un buon segno ma anche solo il segno che se ne parla solo nella disperazione, quando scuote le coscenze ma non impedisce gli scempi. Superati i momenti drammatici, dopo un pianto si riprende daccapo. Si riprende spesso molto più indietro da dove si era arrivati. Il motivo è molto semplice: non impariamo mai dalle esperienze perché periodicamente distruggiamo la memoria del nostro territorio: così accade ad esempio al cambio di ogni Ministro - persone e scatoloni di atti abbandonano il campo; progetti pronti tornano nel cassetto e da quel cassetto escono progetti già visti. Anche il disinteresse per il lavoro burocratico (essenziale!) di archiviazione degli atti del territorio dimosta l’arretratezza urbanistica del nostro Paese. Archiviare è servizio a bassa visibilità, produce possibilità di analisi e niente più, ma non è lavoro inutile. Oggi la faticosa predisposizione delle migliori condizioni per l’infrastrutturazione del territorio del nostro Paese è fortemente ostacolata dalla perdurante assenza – non certo ovunque, ma nemmeno in misura sottovalutabile -- delle più elementari attenzioni urbanistiche di coordinamento territoriale. E’ difficile tracciare una nuova strada in


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un territorio sconvolto dall’abusivismo, spesso non rilevato (per definizione, se riferito a nuove costruzioni) non avendo per esso né strumenti per l’esproprio né per la demolizione, senza poter minimizzare i costi dei movimenti terra da cave e discariche, senza sapere chi si interesserà del consolidamento dei versanti montani per la sicurezza della circolazione. Fa sorridere il pensiero che oggi si taglino i tempi dei progetti con leggi speciali volte ad accelerare l’infrastrutturazione “d’ufficio”. I progetti sarebbero pronti in molto meno tempo se la fase di programmazione fosse destinata a raccogliere informazioni coerenti con le successive esigenze progettuali. Mi domando così, caro Presidente se ci sono davvero le condizioni per quei programmi di intervento complessi dei quali discutiamo discutendo di piattaforme. Non intendo affatto dire che questo difficile tentativo di pervenire a un “programma generale” di una piattaforma territoriale non sia utile, ma dovrebbe essere – ecco la mia proposta – declinato anche per sostenere le differenze fra regioni indifferenti o sostenitrici dell’importanza del pensiero urbanistico e dei suoi strumenti per aumentare la qualità degli interventi sul territorio, fino a giungere a sconsigliare interventi infrastrutturali complessi in territori compromessi e senza strumentazione urbanistica adeguata. In effetti, oggi l’unico studio serio che rende conto delle differenze in tal senso fra le regioni è lo studio INU sullo Stato della pianificazione del territorio. E’ per me come il Conto nazionale dei trasporti: lo puoi criticare ma non puoi farne a meno. Sono in chiusura. Mi sono appuntato una frase che mi è capitato di leggere e che ti vorrei riportare integralmente. Ti prego di leggerla senza pensare a chi la può aver scritta e quando e dove e solo dopo aver tentato di rispondere a una domanda che ti suggerirò, di guardare da dove è stata tratta. Eccola, come vedi sembra proprio complementare alla tua. (...) “il costo sociale della mancata pianificazione dovrebbe far meditare seriamente i politici. D’altra parte, per porre in essere una effettiva pianificazione territoriale non si chiedono invero atti rivoluzionari od operazioni tecnicamente dispendiose”. (Giovanni Astengo) La domanda è molto semplice: la possiamo ritenere una declinazione degli obiettivi che ci siamo dati per i lavori della commissione infrastrutture? Grazie. con stima e affetto Silvio Pancheri

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Caro Silvio, mi sono preso un po’ di tempo prima di rispondere ad alcune delle osservazioni contenute nella tua lettera. Per la verità sono di per sé già talmente ricche da non richiedere ulteriori commenti. Non servirebbe aggiungerci nulla. Se si vuole entrare nel merito per dire qualcosa di più si devono aprire un bel po’ di questioni. Provo a farlo nell’interesse della Commissione e della sua riflessione interna. Ma anche per richiarirmi le idee che inevitabilmente finiscono per confondersi dopo ogni lettura impegnativa. La risposta ad una lettera argomentata può diventare così l’occasione per allargare un po’ lo sguardo ma anche per conoscersi meglio tra noi della Commissione. Per chiarezza espositiva divido l’argomentazione in tre punti. 1. I concetti di fondo La frase dove dici che il territorio “è parte costitutiva di ogni nuova infrastruttura: la accoglie come un innesto ben riuscito se essa è proporzionata alla sua capacità (del territorio) di essere trasformato e di reggere il cambiamento; in questo caso si instaura un rapporto economico positivo, dove l’infrastruttura “rende” quel che noi le chiediamo” è di per sé illuminante delle relazioni di fondo tra infrastrutture e territorio. Non serve altro! Sostenere poi che, per l’infrastrutturazione del Paese, “l’urbanistica (…) prima ancora di dire cosa è importante fare e cosa meno, deve dire oltre quale tetto non si deve andare, qual è il limite dell’accelerazione del processo che rischia di provocare bilanci insostenibili” definisce bene un programma, molto complesso e ricco, ma anche entusiasmante, di lavoro. 2. Gli strumenti Ma quando entriamo negli strumenti le cose si fanno più complicate e controverse. E’ vero che la nozione di piano sta scomparendo e va via via assumendo connotati negativi e viene associato a rigidità, dirigismo e inutile iter burocratico” e che “alla nozione di piano viene preferita la nozione di programma e talvolta anche di accordo. Così le scelte infrastrutturali spesso non hanno alle spalle né un apparato analitico né idee messe a confronto”. Ma è anche vero che il piano che conosciamo è essenzialmente il piano della “1150” e che è su questo, o su ciò che è diventato, che si appuntano le critiche che sappiamo. Non voglio discutere qui della validità ed utilità del piano urbanistico (quello storico ma anche quello che conosciamo oggi il quale, tanto più in là di

quello storico non può andare perché, piaccia o non piaccia, il piano urbanistico ha, nei nostri ordinamenti, delle funzioni precise che deve svolgere comunque soprattutto in relazione alle garanzie da assicurare ai cosiddetti diritti soggettivi come quelli di proprietà) voglio rimarcare, però, il fatto che i grandi programmi di infrastrutture hanno sempre sovraordinato e bypassato i piani urbanistici (sottoforma di “recepimenti dovuti”) e che questi ultimi non sono mai riusciti, per limiti dimensionali, amministrativi ecc., ad incorporare in maniera efficace ed autonoma anche la pianificazione delle infrastrutture. Da questo punto di vista, quindi, ogni tentativo di agganciare un po’ di più conoscenza e valutazione alla programmazione (e, per ora, mi accontento della “programmazione”) delle infrastrutture mi sembra già un passo in avanti rispetto al passato. Dunque, un po’ di più conoscenza e valutazione (economica, ambientale, paesaggistica, urbanistica)! Ma dove metterla? Quale “Piano” delle infrastrutture? Le soluzioni sul tappeto (ma ancora in nuce) sono sostanzialmente due: un primo tentativo è quello che punta ad incorporare un po’ di conoscenza e valutazione all’interno dello stesso strumento programmatico; un altro tentativo è quello che punta a definire due ambiti separati: da una parte un sistema di conoscenze per la valutazione; dall’altra il programma delle infrastrutture. La separazione, in questo modello, è funzionale alla chiara distinzione tra le necessarie tutele e conservazioni, per farla breve, che riguardano tutti, dagli interessi di trasformazione che non riguardano sempre tutti. Solo separando “garanzie” da “strategie”, in altre parole, si riesce ad istituire un rapporto corretto tra conoscenza (di rischi e valori) da una parte e trasformazione dall’altra. Si tratta di due approcci ma anche di due culture del territorio e di due etiche pubbliche, non lontanissime ma diverse: il primo caso è quello che possiamo sintetizzare con il “progetto di territorio”. Si prende la grande opera o l’insieme di opere previste e le si inquadra in una elaborazione che si incentra soprattutto sul concetto di “fattibilità”. Scenari, visione strategica, valutazione ambientale, economica e giuridico-amministrativa ecc. sono finalizzati ad una valutazione “di fattibilità”. La conoscenza è giusto quella che serve a questa specifica valutazione. Non è poco. Ma essendo, questa conoscenza, costruita internamente al sistema, la valutazione del progetto difficilmente può mettere in discussione le premes-


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se del progetto stesso e cioè le ipotesi di armatura infrastrutturale da cui si è partiti (che, peraltro, spesso non sono neppure ipotesi ma soluzioni già ampiamente definite). Nel migliore dei casi, quindi, il “progetto di territorio” costruisce una integrazione dell’infrastruttura con il territorio (la cala nel territorio con intelligenza). Nella peggiore serve a fare un po’ di mitigazione e di furba compensazione locale. La cultura di provenienza di questo approccio è quella architettonico-ingegneristica. L’etica è quella di una trasformazione responsabile ed autodisciplinata dal tecnico-progettista stesso. Ottima etica. Luterana quasi. Nulla da dire! Ma che succede se la si impianta in un paese poco responsabile e pieno di furbetti? b. il secondo approccio, forse meno capito, è quello che prevede delle “Carte dei vincoli e dei valori” (o altre denominazioni simili), da una parte, ed i “programmi” infrastrutturali dall’altra (più o meno complessi, non è questo il punto). In questo approccio, alle Carte suddette (che non sono un piano ma un quadro conoscitivo) viene attribuito un potere condizionante la scelta infrastrutturale. Ovvero, attraverso un processo di valutazione, il programma infrastrutturale dovrebbe essere confrontato, in termini di compatibilità, con i contenuti della Carta. E’ qualcosa che ricorda la VAS. Ma la VAS non è solitamente chiara sulla separazione degli strumenti e sul ruolo delle “Carte” (preferisce la nozione di Rapporto ambientale che, ovviamente, non esclude la Carta, ma che è qualcosa di diverso dalla Carta). La Carta, in verità, o assume un ruolo regolativo ma di livello “costituzionale”, pre-politico, e come tale rappresenta gli interessi di tutti ed a lungo termine, o non serve a niente. Come tale va definita almeno nelle leggi urbanistiche regionali e già una serie di regioni si stanno muovendo in questa direzione (Basilicata, Calabria, Abruzzo). La matrice tecnico-culturale è qui scientificamente più complessa perché incorpora anche gli analisti del territorio fisico, dei suoi rischi (geologi, naturalisti ecc.) e dei suoi valori (storici, paesaggisti ecc.). L’etica pubblica di fondo è di tipo “neocontrattuale” (nel senso del “contratto sociale” originario e non nel senso del contratto di tipo privatistico”. Il “contratto sociale” (che appartiene comunque ad un orizzonte liberale come quello della responsabilità che abbiamo detto prima) in questo caso dice: stabiliti alcuni valori e rischi che è interesse di tutti di tutelare e che abbiamo fissato in un processo di conoscenza condivisa (e che mettiamo nella Carta che assume, a

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tal fine, un valore regolativo istituzionale e non di governo in senso stretto), si procede poi alle trasformazioni richieste dai vari interessi in gioco solo se queste trasformazioni sono compatibili con i valori ed i rischi contemplati nella Carta. Dico subito che la mia posizione è più favorevole a quest’ultima impostazione. Dico subito anche che è più difficile da far passare rispetto alla prima perché la nostra cultura, che è di matrice ingegneristico-architettonica, continua a riferirsi, più o meno consapevolmente, al primo tipo di etica pubblica (“il bravo professionista è già anche un valutatore”; “il buon progetto contiene anche le valutazioni necessarie”, quante volte abbiamo sentito questo mantra!). Questa etica pubblica, che ha nobilissime origini nel pensiero tecnico della modernità, calata nel concreto di un paese di furbetti dove l’autoresponsabilità è un mito, diventa una copertura da “utili idioti” (ovviamente non intendo offendere nessuno; è solo per capirci). Laddove si ha una visione meno mitica e più concreta, più realista direi, dei rapporti sociali, si ritiene invece che sia meglio, per ragioni di buona convivenza, che lo Stato fissi, a monte e con legge, alcune garanzie per tutti lasciando poi la società autorganizzarsi liberamente all’interno di quei limiti. 3. Ma allora a che punto siamo? Cosa fare con riferimento alle infrastrutture? Qui vorrei rispondere alla tua ultima osservazione: “Mi domando se ci sono davvero le condizioni per quei programmi di intervento complessi dei quali discutiamo discutendo di piattaforme. Non intendo affatto dire che questo difficile tentativo di pervenire a un “programma generale” di una piattaforma territoriale non sia utile, ma dovrebbe essere – ecco la mia proposta – declinato anche per sostenere le differenze fra regioni indifferenti o sostenitrici dell’importanza del pensiero urbanistico e dei suoi strumenti per aumentare la qualità degli interventi sul territorio, fino a giungere a sconsigliare interventi infrastrutturali complessi in territori compromessi e senza strumentazione urbanistica adeguata”. La tua ultima frase è illuminante perché dai una risposta estremamente importante al dilemma posto in precedenza. Vieni un po’ dalla mia parte ma forse apri una prospettiva che, almeno io, ancora non vedevo. La tua proposta permetterebbe di legare o, se vogliamo, di portare ad una sintesi superiore, i due approcci di cui si è detto prima. Tu in sostanza dici: vanno bene i programmi (più o meno complessi questo,

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per ora è secondario) ma se e solo se i territori su cui ricadono sono dotati di… strumentazione urbanistica adeguata”. Sono perfettamente d’accordo. Un solo ma. Cosa intendere per strumentazione urbanistica adeguata? Io non risponderei con “la dotazione di piani urbanistici comunali” perché non mi basta e non mi garantisce rispetto alle questioni che anche tu sollevi. Io chiamerei in questione direttamente la pianificazione di scala regionale chiedendo alle Regioni di dotarsi di “Carte dei valori e dei rischi” in scala e con contenuti sufficienti per poter valutare la compatibilità delle scelte infrastrutturali contenute nei programmi (regionali e nazionali). E dicendo allo Stato di non fare accordi quadro con le Regioni che non hanno la Carta e che non hanno verificato preliminarmente la compatibilità dei programmi con la Carta. Riscriverei quindi la tua frase in questo modo: “fino a negare, da parte dello Stato, interventi infrastrutturali complessi nelle Regioni non dotate della Carta dei Valori e dei Rischi del Territorio”. Qui si apre un’altra questione: ma come la pensa l’Istituto in merito? Ma questo è un altro discorso magari da riprendere nell’ambito dell’Istituto stesso e delle sue sedi di dibattito. Grazie per la frase di Astengo. Molto bella. Mi ricorda gli incontri che facevamo con lui, tra i tavoli da disegno, nelle barchesse di Villa Franchetti a Preganziol, più o meno trent’anni fa. Un caro saluto Sandro Fabbro

Nota: Sandro Fabbro è Presidente della Commissione infrastrutture Inu; Silvio Pancheri, urbanista, è membro della sezione Lazio dell’Inu. Si ringraziano gli autori per aver condiviso questa loro corrispondenza privata con i lettori di sentieri Urbani.


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«Land grabs» in Africa: un tema di pianificazione e sviluppo sostenibile di Elena Ianni

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n numero crescente di vendite o cessioni a lungo termine di vaste aree agricole è stato registrato o è in via di negoziazione in paesi in via di sviluppo. Informazioni e dati che descrivono il fenomeno della corsa alle transazioni di terre (land grabs, in inglese) stanno crescendo sia nelle pubblicazioni accademiche, nelle denunce delle organizzazioni non-governative e nei rapporti delle agenzie governative che si occupano di sviluppo (Taylor and Bending, 2009; De Schutter, 2009). Cotula et al. (2009), nel più completo studio che si occupa del tema finora pubblicato (presentato congiuntamente da IIED, FAO e IFAD), hanno analizzato gli investimenti terrieri degli ultimi cinque anni in cinque paesi dell’Africa Sub-sahariana e hanno riscontrato che le terre oggetto di compravendita ammontano a quasi 2 milioni di ettari, senza prendere in considerazione gli scambi di minor entità (sotto i 1000 ettari) e quelli ancora in fase di negoziazione. I dati riportati nello studio mostrano un trend crescente negli ultimi anni sia per numero di scambi che per estensione delle proprietà cedute e ci si aspetta che la pressione cresca nelle aree di maggior valore, cioè

quelle a più alto potenziale irriguo o più vicine ai mercati. È molto probabile che interessi crescenti si concentreranno in Africa e Sud America, dove si trova l’80% della riserva globale di terra (Cotula et al., 2008). Un’osservazione superficiale potrebbe portare a concludere che la compravendita di terra non sia un problema rilevante vista la quantità di terre “vuote” che esistono in molti paesi africani e dell’America del Sud. A questa osservazione si aggiungono però alcune considerazioni che portano ad analizzare il problema sotto una luce diversa. In particolare, a livello internazionale, appaiono in filigrana interessi economici e geostrategici strettamente interconnessi a queste acquisizioni di terre. In primo luogo, la preoccupazione rispetto alla sicurezza alimentare sembra essere un fattore trainante degli investimenti: paesi importatori di cibo, come quelli della penisola arabica con risorse limitate di terra e acqua, stanno investendo nell’acquisto di terre produttive per ridurre la loro dipendenza dalle fluttuazioni dei prezzi sul mercato globale. Un secondo aspetto è legato ai forti interessi derivati dal boom dei biocombustibili de-

gli ultimi anni. Le compagnie che si occupano di approvvigionamento energetico – non ultime quelle europee ed italiane – stanno cercando di assicurare terra per la coltivazione di piante oleose (ad esempio, Jatropha curcas) per la produzione di energia da biomasse. Inoltre, paesi industrializzati come quelli asiatici, ad alta pressione demografica e crescita economica, sperimentano una domanda sempre crescente di materie agricole grezze (come gomma e cotone). Un ruolo lo giocano anche gli investimenti e le speculazioni legate alla previsione di aumento del valore delle terre in seguito a carenze di cibo e terra in futuro. Tema non trascurabile infine, è l’accesso all’acqua: l’interesse ad acquisire nuove terre si giustifica anche col fatto che acquisendo terra o ottenendo cessioni a lungo termine, gli investitori conseguono contemporaneamente i diritti di estrarre e usare l’acqua disponibile nelle concessioni. L’argomento principale a supporto delle acquisizioni a larga scala è che esse rappresentano un importante strumento di sviluppo e che sono in grado di portare benefici sia ai governi di paesi poveri che agli investitori stranieri che alle comunità locali (Hallam, 2009). Gli investimenti stranieri infatti possono giocare un ruolo importante nel catalizzare lo sviluppo economico di aree rurali marginali di paesi poveri e portare benefici a livello macroeconomico (crescita del prodotto interno lordo) facilitando lo sviluppo infrastrutturale e la creazione di impiego. A questa argomentazione viene contrapposto il ragionamento che acquisizioni a larga scala, in particolare la conversione di terreni agricoli a biocombustibili, possono minacciare la salute dell’ecosistema e l’integrità dei servizi ecosistemici (Escobar et al., 2009; UNEP, 2009), mettere a rischio la sicurezza alimentare dell’agricoltura familiare (FAO, 2008) e l’accesso alle risorse dalle quali dipendono, non solo terra, ma anche acqua, legname e pascoli (Haralambous et al., 2009). Infine, come già accennato, cessioni di terra per investimenti possono legittimare


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l’estrazione di altre risorse naturali rinnovabili e non rinnovabili, principalmente acqua (Smaller and Mann, 2009). Ad oggi manca una concreta evidenza, supportata da dati certi e statistiche, sulla natura e l’ampiezza delle vendite e cessioni di terra e sull’impatto delle concessioni sulle comunità locali. Il commercio delle terre è infatti caratterizzato da un’assoluta mancanza di trasparenza e dall’assenza di regole chiare di pianificazione. Al contrario, la pianificazione del territorio in molti paesi viene subordinata alle richieste di concessioni forestali ed agricole da parte delle imprese. Il tema delle modalità di accesso alle concessioni – la trasparenza degli scambi tra investitori e comunità - è assolutamente rilevante e centrale in questa discussione. Di seguito si riportano alcune osservazioni derivate da un lavoro di ricerca effettuato in Mozambico dall’Università di Trento, Dipartimento di ingegneria civile ed ambientale. In Mozambico, come in altri paesi africani e latinoamericani, la legge nazionale impone che le acquisizioni di terre non possano essere stipulate tra investitori e governi senza che le comunità locali, attraverso i loro tradizionali governanti, abbiano dato l’assenso e abbiano goduto di compensazioni adeguate. Le consultazioni con le comunità locali sono considerate dagli Stati la chiave per proteggere i diritti tradizionali della terra. Se teoricamente questa legge permette alle comunità locali di partecipare al processo, di

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negoziare, di ricevere benefici adeguati e giusti dallo scambio, la realtà in Mozambico mostra che il risultato di questi processi partecipativi e negoziali è ancora del tutto insoddisfacente dato che gli scambi tra compagnie private e gruppi locali sono caratterizzati da profonde asimmetrie di potere, sia politico che economico (Kanji et al., 2005). I metodi partecipativi in questo momento utilizzati si stanno rivelando delle scorciatoie, per come vengono progettati ed attuati nelle comunità (Durang and Tanner, 2004). Vengono organizzate delle riunioni, alle quali vengono invitate solamente poche persone, normalmente le più vicine all’autorità, e vengono loro promessi benefici personali (Ianni, 2009). I contratti che vengono stabiliti nelle riunioni non vengono quasi mai siglati e quindi quasi mai rispettati. Gli scambi proposti dagli investitori sono normalmente scuole o pozzi di acqua, beni vitali per la comunità, in cambio di concessioni di terre. Hanlon (2002) afferma che le comunità che sono state consultate e che sono arrivate a un accordo non sono probabilmente consapevoli che stanno cedendo la terra in maniera permanente, e non hanno coscienza del valore di ciò che stanno cedendo. Si delinea quindi uno scenario in cui a livello governativo vengono favoriti ed incoraggiati investimenti e concessioni di terre e nel quale a livello locale gli scambi avvengono tra autorità locali corruttibili o ingenue e poco lungimiranti, e una popolazione che non è

Bibliografia Cotula, L., Dyer, N., Vermeulen, S. (2008) Fuelling exclusion? The biofuels boom and poor people’s access to land, IIED, London. Cotula, L., Vermeulen, S., Leonard, R., Keeley, J. (2009) Land grab or development opportunity? Agricultural investment and international land deals in Africa, IIED/FAO/IFAD, London/Rome. De Schutter O. Large-scale land acquisitions and leases: A set of core principles and measures to address the human rights challenge. Special Rapporteur on the right to food, June 2009. Durang T., Tanner C. (2004) Access to land and other natural resources for local communities in Mozambique: Current Examples from Manica Province. Paper presented to the Green Agri Net Conference on ‘Land Registration in Practice’, 1-2 April 2004, Denmark. Escobar J.C., Lora E.S., Venturini O.J., Yáñez E.E., Castillo E.F., Almazan O. (2009) Biofuels: Environment, technology and food security. Renewable and Sustainable Energy Reviews, 13 (6-7), 1275-1287. FAO (2008) The state of food and agriculture. Biofuels: prospects, risks and opportunities. FAO, Roma, Italy. Hallam D. International investments in agricultural production. Paper presented at the conference “Land

messa in condizione di decidere nè preparata ad affrontare una negoziazione. La sfida che la ricerca e le agenzie governative e non governative devono affrontare è individuare migliorie nei processi negoziali e allo stesso tempo proteggere i diritti tradizionali. Il ruolo delle ONG e delle associazioni che operano sul territorio potrebbe essere innanzitutto quello di aiutare le comunità a costruire forza negoziale (l’abusato empowerment) con misure concrete e abilità tecniche. Un passo avanti ad esempio potrebbe derivare dalla delimitazione certa delle terre. La maggioranza della popolazione rurale dipende direttamente dalla terra e la terra, in particolare per persone che vivono a livello di sussistenza, è centrale per le strategie di vita, per la sicurezza alimentare e non ultimo, per l’identità. In quest’ottica la questione delle acquisizioni di terra e la grande spinta verso i biocombustibili assumono il significato di una discussione sulla giustizia e sullo sviluppo sostenibile; la perdita di accesso alla terra e alle risorse naturali ha conseguenze potenziali sulle comunità locali per il diritto a un adeguato standard di vita che include il diritto al cibo, alla casa, all’acqua. I diritti civili, come quelli di partecipare alle decisioni e di ricevere informazioni, sono del tutto assenti se gli scambi continuano ad essere opachi e non partecipativi.

Grab: the Race for the World’s Farmland”, 5 May 2009, Washington DC. Hanlon J. The land debate in Mozambique: will foreign investors, the urban elite, advanced peasants or family farmers drive rural development? Research paper, July 2002, Oxfam GB - Regional Management Center for Southern Africa. Haralambous S., Liversage H., Romano M. (2009) The growing demand for land. Risks and opportunities for smallholder farmers. Discussion paper February 2009, IFAD, Rome. Ianni E. Families’ food security and the role of traditional authorities on land issues in rural areas of Caia district, central Mozambique. Working paper, November 2009, University of Trento. Kanji, N., Cotula, L., Hilhorst, T., Toulmin, C., Witten, W. (2005) Can land registration serve poor and marginalised groups? Summary report, IIED, London. Smaller C., Mann H. (2009) A Thirst for Distant Lands Foreign investment in agricultural land and water. International Institute for Sustainable Development, Manitoba. Taylor M., Bending T. Increasing commercial pressure on land: building a coordinated response. Discussion paper, July 2009, International Land Coalition, Rome.

Nella pagina a fianco: un’immagine del Mozambico


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L’intervista

L’urbanistica come PASSIONE CIVILE Intervista ad Edoardo Salzano «L’urbanistica è in crisi perché è in crisi la politica. Un tempo i sindaci avevano una prospettiva di lavoro di lunga durata e le loro azioni erano dettate delle strategie progettuali. Il piano regolatore era l’azione massima e principale che un sindaco poteva offrire ai propri concittadini e su questa era poi giudicato dagli elettori. Oggi non è più così. I politici ragionano con tempi molto stretti e lo fanno assecondando le richieste delle lobby e dei privati. Non c’è visione né strategia nel loro operare e per questo gli urbanisti non servono più. Ma non è detto che questo sistema sia di lunga durata e forse il futuro può offrire ancora una chance all’urbanistica. Non si può mai dire: la storia inventa». Sono parole di Edoardo Salzano, urbanista, amministratore pubblico, docente universitario e giornalista che commenta così il ruolo dell’urbanistica nella società moderna. Un ruolo fortemente in crisi ma che potrebbe riservare, in futuro, nuove occasioni di rivincita. Salzano ha pubblicato recentemente un interesante volume che raccoglie tutta la sua esperienza biografica di urbanista militante: “Memorie di un urbanista. L’Italia che ho vissuto”. Si tratta di un libro in bilico tra l’esperienza professionale e la storia d’Italia vista dalla prospettiva privilegiata della politica urbanistica. In occasione di questa uscita abbiamo rivolto a Salzano alcune domande per i lettori di Sentieri Urbani. Professor Salzano, come è cambiata la disciplina nel corso di questi cinquant’anni? «È cambiata radicalmente. Durante gli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta l’urbanistica è una cultura dotata di una grande identità che si esprime con grande forza propositiva nei confronti della società civile. È un punto di riferimento chiaro per la politica che vede nell’urbanista l’interlocutore privilegiato per decidere le sorti del territorio e delle città. Non a caso in quegli anni nascono delle leggi fondamentali – nate grazie anche alla imprescindibile forza propulsiva dell’Inu – di cui oggi anche gli storici iniziano a riconoscerne l’importanza. Con l’inizio degli anni Ottanta, in concomitanza con la fortuna dell’urbanistica accademica inaugurata dalla Scuola di Milano, l’urbanistica abdica al suo ruolo di pianificazione per approdare a quello del progetto. Dietro questa parola, però, si cela una vittoria degli interesse economici ed immobiliari dei privati sull’interesse pubblico». Sono gli anni del “riflusso”, del “craxismo”, del consumismo selvaggio. La crisi dell’urbanistica è

coincisa con una crisi della cultura? «La cultura viene sempre prima di ogni altra cosa. È lei che guida i cambiamenti nella società. È lei che può contrastare le derive o gettare le premesse per i grandi progressi. Per l’urbanista la cosa si fa complessa. La sua inevitabile dipendenza dal committente lo rende una figura fragile in balia della cultura imperante. Invece è necessario che l’urbanista si faccia promotore di cultura per essere, nei confronti del committente, non solo un consulente tecnico ma un riferimento tout-court». Questo a prescindere dall’orientamento politico della politica? «Credo sia un problema di sensibilità. Ricordo un’esperienza fatta a Foggia, nella redazione del Piano regolatore comunale. L’interlocutore era una giunta di sinistra che non aveva mai il coraggio di arrivare in fondo. Poi ci fu un “ribaltone” e ci trovammo con una giunta di destra con un assessore fascista. Per me, comunista, questo sembrava significare la fine dell’esperienza di Piano. Invece il nuovo assessore ci ascoltò attentamente e poi fece sue le argomentazioni del nuovo piano che fu approvato in tempi rapidissimi». Lei ha avuto una carriera da amministratore e da urbanista davvero invidiabile. Qual è stata la soddisfazione più grande? «Ho avuto moltissime soddisfazioni. Ieri la più grande fu quella di vedere, a Giulianova dopo quindici anni dall’approvazione del Piano regolatore, la realizzazione del disegno urbanistico pensato vent’anni prima. Oggi di aver collaborato con una rete di comitati e associazioni a fermare le devastazioni territoriali previste dal Piano Territoriale Regionale del Veneto grazie a 15000 osservazioni prodotte con l’aiuto di 150 gruppi di cittadini in tutto il territorio veneto». L’urbanistica oggi è in crisi? «L’urbanistica è in crisi perché non sventola più le proprie bandiere. Anche sull’ultimo Piano-casa varato dal Governo Berlusconi: è stato abbracciato da tutti gli urbanisti e da tutte le giunte italiane, a prescindere dal colore politico. Non c’è stata nessuna voce di dissenso, di indignazione per questa legge che penalizza l’interesse comune per favorire quello di una parte dei privati». Cosa si dovrebbe fare? «Alla base del nostro agire c’è sempre una opzione morale che noi, consciamente o inconsciamente facciamo. Anche oggi l’urbanista può scegliere di praticare un’urbanistica corretta.


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A fianco: la copertina del volume di Edoardo Salzano “Memorie di un urbanista” (edizioni Corte del Fontego, Venezia, 2010, 240 pp., 20 euro) da poche settimane sugli scaffali delle librerie.

Andando a guardare quello che realmente si muove sul territorio. Paradossalmente chi oggi si batte per il territorio (sia esso un parco urbano, una scuola, l’accesso all’acqua potabile) sono i comitati, i gruppi spontanei di cittadini che si riuniscono per condurre una battaglia in difesa del territorio. Si tratta di volontari che non hanno, spesso, delle capacità tecniche. Ecco l’urbanista può servire il territorio offrendo le sue conoscenze a questi comitati». Nel libro lei si scaglia contro la perequazione. Ci può spiegare perché? «Possiamo declinare il termine perequazione in due modi: il primo è quello della legge 765 del ’67 che disciplina l’uso di meccanismi di scambio tra pubblico e privato nei piani attuativi. Si tratta di un modo sano di intendere la perequazione e che potrebbe essere esteso anche dove è già edificato. Altra cosa è l’accezione contemporanea che viene data a questo termine per giustificare una incapacità espropriativa dell’ente pubblico. Quando si tratta di dotare le città di servizi si ricorre alla perequazione dando ai privati terreni nuovi in cambio di aree edificate collocate in punti strategici. Il risultato è solo un inutile consumo di suolo». Lei ha lavorato molto con il progetto ma soprat-

Sotto: l’autore alla manifestazione contro la base Usa nell’area Dal Molin a Vicenza, nel febbraio 2008. Salzano è il primo da destra.

tutto con la scrittura. «Ho sempre creduto nella forza della parola. Il nostro mestiere ha come unica arma quella del convincimento. E la parola è uno strumento indispensabile per far capire a cittadini, agli amministratori e ai politici le conseguenze delle scelte urbanistiche. Il territorio va governato come fosse un sistema complesso. E l’urbanista deve essere un supporto per far comprendere la complessità di questo sistema. In fondo questo dovrebbe essere il nostro orgoglio e la nostra missione». [a.f.]


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Rigenerazione energeticopaesaggistico-ambientale di Paola Ischia (Commissione nazionale Inu “Piano, energia ed ambiente”)

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’Assemblea elettiva 2010 di rinnovo della sezione Trentino dell’Istituto, l’11 marzo scorso, è stata occasione di aggiornamento sull’attività svolta in vari settori ed in particolare presso la Commissione nazionale Ambiente, Energia, Clima, Consumo di Suolo. Una delle più significative recenti tappe del percorso intrapreso dalla Commissione, è stata il Convegno “Pianificazione ed energia: casi di studio e prospettive”, organizzato in collaborazione con il MATTM, Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, il 04 novembre 2009 a Venezia ad UrbanPromo, evento di marketing urbano e territoriale. La successiva sequenza di appuntamenti regionali di approfondimento ed i risultati del summit COP15 di Copenaghen dell’UNFCCC, la Conference of Parties in merito all’United Nations Framework Convention on Climate Change (Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici), sono stati ricondotti ad un momento di sintesi e discussione nella Sessione “Energia ed ambiente nel governo del territorio locale” durante la VI RUN, Rassegna Urbanistica Nazionale a cadenza quinquennale, il 05 marzo 2010 a Matera. Il prossimo summit COP16 previsto a Cancun in Messico a novembre 2010, sarà predisposto attraverso incontri intermedi, recentemente stabiliti a Bonn (Climate change talks). INU e Legambiente hanno promosso un’indagine sul consumo di suolo, strutturando il CRCS Centro Ricerche sul Consumo di Suolo, che consentirà un monitoraggio del fenomeno. La collaborazione della Commissione con Coordinamento Agenda21 locali, ANCI Associazione Nazionale Comuni Italiani, UNI Unione Province Italiane, ha portato alla sottoscrizione e divulgazione della “Carta delle città e dei territori d’Italia per il clima”. L’iniziativa promuove l’adesione al “Patto dei sindaci” (il Comune di Bolzano vi aderisce insieme ad altre 200 città europee), piani d’azione per l’energia sostenibile sovracomunale, obiettivi e norme per la mitigazione e l’adattamento ai cambiamenti climatici. La RUN di Matera è stata occasione per la presentazione del bando 2010 della terza edizione del Premio “Energia sostenibile nelle città”, per la divulgazione delle migliori pratiche in materia energetica ed ambientale, pianificazione e costruzione/ ricostruzione urbana sostenibile, promosso da INU e MATTM all’interno della Campagna SEE Sustainable Energy for Europe, introdotta dalla Commissione Europea. Al concorso possono

partecipare soggetti pubblici e privati che si sono distinti nell’elaborazione di piani e progetti urbanistici attenti alle problematiche energetiche ed alla sostenibilità dello sviluppo. Sono presenti tre sezioni, ognuna divisa in due sottosezioni: regioni “obiettivo convergenza” della programmazione comunitaria 2007-2013 (Campania, Calabria, Puglia, Sicilia) ed altre regioni italiane. Le sezioni sono: A, “metodologie”, approcci metodologici con scala di riferimento urbana o di area vasta (piani regionali, provinciali, intercomunali di area metropolitana); B “progetti energeticamente sostenibili”, soluzioni progettuali in grado di migliorare la gestione del capitale energetico delle città a scala di comparto edilizio o singolo edificio; C “UrbanPromo sustainable energy”, progetti presentati all’evento di marketing urbano e territoriale, la VII edizione del quale si svolgerà a Venezia dal 27 al 30 ottobre 2010. I concetti fondamentali emersi dal summit di Copenaghen, certo non entusiasticamente e dalla ricognizione di sintesi quinquennale condotta alla RUN di Matera, ai quali possono essere aggiunte considerazioni da parte di chi opera progettualmente e concretamente nelle realtà locali, sono semplici: la risorsa ora maggiormente preziosa, da non poter assolutamente più sprecare, è il tempo ed i “luoghi dell’azione” sono quelli assai prossimi alla cittadinanza ed alla quotidianità. Non saranno grandi accordi internazionali a trovare chiavi di risoluzione alla complessa situazione contemporanea. Protocolli, certificazioni, trattati, carte, decaloghi di buone pratiche, avranno effetto solo attraverso un consapevole e diffuso approccio progettuale attivo, rigoroso, certo sperimentale, spesso imperfetto, ma consapevole e, soprattutto, collettivo. Solo una “progettualità diffusa” potrà affrontare approcci di mitigazione ed adattamento ai cambiamenti climatici e micro-climatici: l’Italia ed in particolare l’arco alpino, sono luoghi maggiormente sensibili rispetto ai dati medi, raccolti per comunicare previsioni continentali. Risulterà inoltre estremamente significativo saper conciliare azioni di approvvigionamento energetico, anche da fonti alternative, con assetti paesaggistici ed ambientali congrui. L’“eccesso di zelo monotematico” di molte proposte che si affacciano sulla scena locale e nazionale, preoccupa non poco per le conseguenze di impatto sulla percezione visiva di versanti e fondovalle o sull’equilibrio ambientale di emergenze naturali in luoghi che


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traggono sostentamento oltre che qualità della vita, dalla composizione armonica dei molteplici elementi del paesaggio. E’ necessario evitare ulteriori espansioni intervenendo sull’esistente, sapendo recuperare nell’innovazione le conoscenze della tradizione: dinamiche economiche ed “energetiche” in senso ampio, sono state da sempre elementi determinanti degli assetti paesaggistici dei diversi territori. Recuperare e riconcettualizzare l’esistente potrà ricondurre le varie componenti dell’azione, anche quelle apparentemente virtuose, ad un processo inclusivo che consenta una valutazione integrata da molteplici aspetti, al fine di equilibrare “effetti collaterali” sempre più invasivi ed introdurre quella che potrebbe essere definita una sorta di “rigenerazione energetico-paesaggisticoambientale”. A Matera è stata sottolineata l’esigenza di accelerare unendo competenze diverse per contenere il consumo di suolo ed attivare l’efficienza energetica territoriale. La “densificazione intelligente” del suolo, riconosciuto come “bene comune”, porta con sé benefici ambientali e sociali. E’ stato fatto osservare quanta energia stia recuperando Terna dalla riqualificazione delle reti di distribuzione e come sia opportuno un processo di adattamento sul ciclo delle acque. La Vas, Valutazione ambientale strategica, è stata considerata inefficace se priva di contributo progettuale. L’osservatorio sui consumi di suolo, ora Centro Ricerche, ha dimostrato l’enorme espansione avvenuta a ritmo crescente: risulta improrogabile passare dal “governo dell’espansione” al “governo dell’esistente” ed innescare trasformazioni qualitative anziché quantitative anche relazionabili alla fiscalità locale. Una redistribuzione e ripensamento del meccanismo di oneri e servizi è necessario e deve comprendere strategie di compensazione ecologica e consorzi intercomunali di sviluppo economico. Il recupero urbanistico è determinate per ottenere efficienza energetica che potrebbe essere tale, studi ENEA lo dimostrano, da conseguire enormi approvvigionamenti a minimi costi sociali. Rispetto a queste tematiche alcuni esempi possono essere còlti, in ambito trentino, nei recenti passaggi del percorso di integrazione tecnico-socio-politico “La Rete del Sommolago verso il terzo polo urbano”, formalmente avviato fin dal 2005 nell’Alto Garda e propenso a sviluppare e coniugare elabora-

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zioni progettuali e programmatiche di innovazione anche attraverso il contributo di Enti di Ricerca, Istituzioni universitarie, coinvolgimento di categorie economiche e popolazione (v. giornata di studi “Nella riva dell’arco alpino, visions e progetti di territorio sostenibile”, e workshop “Master plans e progetti pilota di rigenerazione energetico-paesaggistico-ambientale, prefigurazioni in aree produttive”). E’ da segnalare inoltre la recente esperienza del Seminario internazionale coordinato da CIPRA Commissione Internazionale per la Protezione delle Alpi, in Alta Val di Non “Comune alpino verso l’impatto zero, costruire reti territoriali e culturali” che si prefigge con altri partners tra cui INU, il compito, da sviluppare in un complesso progetto triennale, di verificare la costruzione di modelli di valutazione della sostenibilità locale, con particolare attenzione alle strategie per affrontare i cambiamenti climatici.

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RASSEGNA URBANISTICA NAZIONALE Un resoconto da Matera di Giovanna Ulrici Struttura e Temi L’attenzione generale della RUN di Matera, che l’INU ha organizzato per la prima volta nel Sud d’Italia, è stata rivolta alle diverse scale delle pianificazioni e delle progettualità per il governo del territorio vasto e locale. La Rassegna deve il nome al fatto che affianca all’intenso programma convegnistico una ricca esposizione di casi-studio presentati da parte dei soggetti istituzionali che espongono i loro programmi, piani, politiche, progetti, elaborazioni, esperienze. La RUN, con i percorsi della mostra e i numerosi momenti di dibattito programmati, è stata strutturata su due macroaree tematiche, ognuna articolata in quattro focus di attenzione ed interesse costituenti Sessioni a) Governo del territorio vasto e b) Governo del territorio locale. La VI RUN intende verificare e sondare, attraverso alcuni temi che INU considera particolarmente significativi: lo sviluppo ed il consolidamento delle esperienze di pianificazione locale e d’area vasta (con particolare attenzione alle innovazioni introdotte dalle leggi regionali conseguenti alla riforma costituzionale); i processi di innovazione degli strumenti, dei temi considerati, delle problematiche e delle soluzioni perseguite inerenti il governo del territorio; gli esiti della pianificazione complessa e dei finanziamenti europei e dell’integrazione di alcune politiche urbane e territoriali. Il Governo del Territorio vasto: coordinamento e sicurezza. La dimensione strutturale di area vasta è stata affiancata alla dimensione paesaggistica nell’analisi di alcuni PTCP, di Puglia, Umbria, Abruzzo, Veneto, Basilicata, Emilia Romagna nell’ambito della rete europea degli enti locali e regionali per il recepimento della Convenzione Europea sul paesaggio (RECEP). E’ scaturita una definizione comune di paesaggio come dimensione di vita e condivisione, sintesi percettiva del vissuto storico in cui il territorio è prevalentemente interpretato come luogo della vita e delle trasformazioni veloci. Tramontato quindi l’approccio estetico e descrittivo del paesaggio come panorama, in cui selezionare solo frammenti meritevoli di tutela e

quindi da sottrarre alla trasformazione e all’uso, ci si rivolge ora alla necessità di adeguare i Piani alla definizione di paesaggio della Convenzione (nelle maglie del Codice); piani destinati anch’essi ad abbandonare una struttura statica per divenire percorsi di convergenza di studi, piani- guida di coerenza. I focus dedicati alla Pianificazione di coordinamento e alle Strategie, politiche e programmi hanno essenzialmente evidenziato come vi siano numerosi “lavori in corso” sui temi della pianificazione provinciale, perequazione territoriale, consumo di suolo, governance territoriale ma sia difficile riconoscere esperienze consolidate e procedure diffuse. Gli sforzi innovativi più interessanti riguardano i temi delle infrastrutture, dei trasporti, della valorizzazione delle aree protette, dell’energia e delle politiche abitative. Non solo il coinvolgimento di INU nella ricostruzione del dopo-terremoto in Abruzzo, ma anche la necessità di affrontare in modo sistematico il rapporto tra Pianificazione e Protezione civile ha informato il focus sperimentale dedicato alla pianificazione della sicurezza del territorio . L’autorevole testimonianza di DeBernardinis, Responsabile operativo della protezione civile si è affiancata al riconoscimento che troppo spesso la pianificazione si è rivelata accomodante rispetto ai problemi della sicurezza.

Il Prof. Properzi. coordinatore della sessione, ha recuperato la genesi dei Piani nei trattati di polizia seicenteschi, volti ad “assicurare lo splendore della città”, riconoscendo poi che al presente prevale la constatazione del consolidamento di pianificazioni parallele e non comunicanti: del paesaggio, del territorio, delle tutele idrogeologiche... Properzi ha sottolineato come i pianificatori non siano soggetti unici ma utilizzatori di un quadro del rischio condiviso che non può certo essere costruito all’interno del piano. I pianificatori devono introdurre sistematicamente la valutazione del rischio indotto dalle previsioni urbanistiche. De Bernardinis, nell’inquadrare l’azione della Protezione Civile ha innanzitutto sottolineato l’esistenza e/o la necessità di un rapporto gerarchico fra pianificazioni. Con efficaci immagini di disastri di area vasta e urbani ha introdotto il tema centrale dell’incontro, del rapporto tra una pianificazione che disegna il territorio senza riconoscerne i rischi, e di una emergenza cui la protezione civile risponde facendo riferimento alle mappe del rischio idrogeologico conosciuto e previsto, che non possono prevedere attenzioni particolari alle strutture insediative preesistenti o alle consuetudini sociali e storiche di uso del territorio, se a rischio. Prevenzione: per la protezione civile è un


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termine declinato in tempo reale, che ha inizio con l’imminenza di un pericolo o l’accadimento di una emergenza e impegna ad una azione continuata fino al ritorno alle ordinarie condizioni di vita. Che non vanno intese come condizioni di vita precedenti all’emergenza, ma quelle considerate a rischio accettabile secondo una pianificazione di settore (sismica, idrogeologica). Questa pianificazione viene intesa come interna e funzionale alla operatività. Il sapere scientifico partecipa all’operatività e si sostanzia nell’affinamento di modelli probabilistici di previsione. Tanti gli esempi di urbanizzazioni che dimenticano non solo i rischi ma i disastri passati. Esempi di costruzioni sotto gli argini, in alveo, costruzioni abusive e non solo… Le conseguenze dell’intervento della Protezione Civile (Abruzzo 2009, Giampilieri 2009, Vibo Valenza 2006) sono spesso inevitabilmente legate ad una delocalizzazione degli insediamenti abitati. In questa situazione serve uno strumento urbanistico che supporti, che condivida l’analisi del rischio e che contribuisca a ricostruire non solo per la sicurezza ma anche per l’identità del territorio e degli insediamenti. Il prof. Luino, geomorfologo CNR-IRPI di Torino cita Stava, e costringe subito ad ammettere che anche un territorio gestito in modo attento e rigoroso come quello trentino non può ritenersi estraneo a questi temi, basti pensare alla tradizionale urbanizzazione dei conoidi. In territori vicini e montani viene citata la frana, meno nota, di Borca di Cadore del ’55. Sono 10 i milioni di euro che quotidianamente vengono spesi per ricostruzioni rese necessarie per fenomeni causati dal solo dissesto idrogeologico in Italia.Territori investiti da inondazioni in zona d’alveo vengono visitati dopo alcuni anni: i fabbricati che all’epoca del disastro erano in costruzione, ora risultano recuperati e completati ed utilizzati. Prevalentemente abusivi al sud, rigorosamente concessionati al nord con tanto di relazione geologica. In Italia non è a sistema un approccio di responsabilizzazione del privato, anche se in occasione di disastri sismici o idrogeologici il dibattito su questo tema riprende sempre: l’obbligo di delocalizzarsi è di fatto impedito dai costi e dalla scarsa disponibilità di suolo, l’obbligo alternativo di assicurarsi è di fatto impedito dalla politica e dalle resistenze delle compagnie assicurative, che pretendono certezze impossibili nei modelli previsionali. L’urbanistica è quindi chiamata a rivedere le gerarchie degli elementi con cui

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compone le scelte di piano, e a trovare strumenti non solo per recepire ma per interagire con le scelte del rischio. E’ la pianificazione che deve collaborare sul cosa fare delle aree abbandonate, e come dare identità alle aree delocalizzate. Non vi sono alternative per contribuire, quando accade – come è accaduto all’Aquila – che sorgano nuove città per 20.000 abitanti, senza un piano e senza una piazza. Al riguardo sono stati presentati dalla dott.ssa Cremonini, del gruppo di lavoro INU vulnerabilità del sistema urbano, i primi risultati di una ricerca orientata alla verifica degli effetti di una sistematica introduzione di stadard urbanistici intesi come prestazioni funzionali utili per gestire la vulnerabilità. Una diversa ma non distinta accezione del termine sicurezza in chiave urbanistica riguarda la sfera sociale. Il prof. Mazza dell’Università di Napoli ha inquadrato le emergenze date dal rischio sociale tra crisi dello spazio pubblico e radicazione dei conflitti. Ha evidenziato la recente e pur consolidata parcellizzazione della società, avvenuta anche sulla spinta di una reale o percepita insicurezza nella recente evoluzione della composizione etnica urbana . In chiave di sicurezza sociale sono stati letti i luoghi della città: sono gli spazi pubblici, se vuoti rappresentano la terra di nessuno, o delle paure. Se affollati generano disorientamento o vengono colonizzati da gruppi specifici. Due gli effetti: declino immediato degli spazi pubblici, declino sociale ed ambientale. Una forma di reazione difensiva può però portare alla privatizzazione degli spazi pubblici: telecamere, sistemi di sicurezza, azioni volte a dedicare gli spazi a gruppi omogenei selezionati. Il Governo del Territorio locale: associarsi per contare. Sembra non esserci alternativa: le urgenze date da ambiente, energia, paesaggio, mobilità, processi insediativi obbligano ad un governo in forma associata. Perchè si fa pianificazione associata? Per essere più forti, o per difendersi o per competere. Ma sempre per affermare l’identità di luoghi, anche marginali. Questa la chiave comune ai casi presentati nel focus Territorio locale e metropolizzato coordinato da Sbetti che dice: “La pianificazione intercomunale, come si chiamava nella legge urbanistica del ’42 è un tema che da sempre è stato posto al centro della pianificazione, tanto più quando questa affronta i temi strutturali legati all’ambiente, all’idrografia, alle infrastrutture, ma anche a quelli strategici della demografia, dell’abitare e dei ser-

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vizi. Le esperienze e i fallimenti delle esperienze passate sono conosciuti da tutti e fanno parte della storia urbanistica del nostro paese: piani intercomunali (vd. Milano), comprensori... Oggi, come conseguenza di una molteplicità di fattori, siamo in presenza di un rinnovato interesse da parte dei comuni, degli operatori delle utilities, dei servizi e di operatori privati nei confronti della pianificazione intercomunale o associata, fattori che trovano ragione nelle innovazioni normative delle leggi regionali e specificatamente nel piano strutturale che finalmente mette al centro la difesa del suolo, le reti ecologiche e i sistemi ambientali che devono essere affrontati a scala sovracomunale; nello sviluppo disciplinare delle pianificazioni separate che hanno portato una nuova dimensione sovracomuanle alle scelte del piano in merito ai parchi, alle infrastrutture viabilistiche ed energetiche, ai beni culturali, ai bacini idrografici...; nelle dinamiche insediative e nei conseguenti processi di concentrazione e diffusione. Fenomeni consolidati di localizzazioni abitative slegate dal luogo di lavoro, del crescere esponenziale del pendolarismo, delle esternalizzazioni dei processi di crescita residenziale e produttiva delle città capoluogo ai comuni di cintura, del fenomeno dei city user caratterizzano non solo i modelli metropolitani ma tutti i comuni di dimensione maggiore, determinando una sorta di modello urbano a fisarmonica che cambia dimensione, ma anche carattere, funzione e domande nel corso della settimana e del ciclo diurno/notturno”. Si impone ormai costantemente un nuovo modello territoriale: non più il lavoro ma la casa stabilisce le condizioni di localizzazazione. E questa nuova forma urbana che non rispetta i confini amministrativi esprime anche la presenza di nuovi cittadini, nuove morfologie sociali, nuove domande abitative e nuove domande di servizi. La popolazione di Milano è rappresentata per il 30% da pendolari, a Venezia il 14% di chi ci vive non ha la residenza. In Emilia Romagna il 52% dei comuni sono associati per lo sportello unico, il 48% per la protezione civile. La risposta a questi fenomeni ha interessato prevalentemente l’organizzazione di servizi urbani quali i rifiuti, la polizia locale, alcuni servizi tecnici e tutte le tematiche delle municipalità (acqua, illuminazione, energia, ecc.). Solo recentemente assistiamo, proprio a partire dalle nuove leggi regionali, ad una nuova stagione di pianificazione intercomunale sia attraverso aggregazioni “spontanee” che promosse dalle province. Si tratta però di esperien-


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ze che riguardano temi settoriali anche se in alcuni casi si avventurano in processi di pianificazione che coinvolgono completamente i territori di più comuni. Fra i casi presentati, quello di Imola, che ha elaborato per il territorio sovracomunale un Piano Stategico Comunale associato per un totale di 737 kmq, dedicato solo ad alcuni temi chiave per il territorio: dimensionamento di massima, fabbisogno di edilizia sociale, tre poli produttivi. Imola dimostra come l’elaborazione di strumenti intercomunali possa privilegiare solo alcuni settori, assicurando autonomia alle singole amministrazioni su altri, magari non strategici alla scala più ampia, o magari – e può capitare se si tratta della partita insediativa – troppo cruciali per l’elettorato. Un caso apparentemente di poco peso ma poi rivelatosi molto rappresentativo è quello delle “Terre dei Navigli”, Unione dei Comuni del Soresinese (CR): 11 comuni della piana cremonese di piccole dimensioni (2000-400 abitanti) che hanno condiviso il timore concreto che l’attivazione di Expo 2015 implicasse l’espulsione di attività logistiche di basso valore sul proprio territorio, ai margini della città infinita milanese, con il conseguente incremento di un degrado già presente. La molla che ha attivato il processo di associazione, l’ambizione di poter dire qualcosa sui processi che investiranno il proprio territorio, invece che subirli, ha poi supportato politiche associate: la decisione di destinare una quota degli oneri di urbanizzazione ad interventi di interesse intercomunale, di concentrare le attività industriali, di attivare polarità per i servizi. Aldo Bonomi fondatore del Consorzio A.A.STER ha composto la sintesi del focus: l’associarsi sarà il grande tema del futuro per i Comuni; insieme per competere o per difendersi, afferma. Ora ancora molto è dominato dal modello politico centralistico, per la necessità di avere un interlocutore con lo Stato Centrale, ma i casi presentati sono paradigma di altre urgenze, in particolare della forza dei flussi che impattano il territorio: vari flussi, di finanza, di migrazioni, di reti infrastrutturali. Ci si associa fra comuni per reggere i flussi, perchè di localismo “si può morire”. Il territorio va disegnato sulla base dei flussi. Vengono citati anche i patti territoriali, come un tentantivo nuovo di associarsi per ridisegnare i propri spazi economico-finanziari rispetto al nuovo, ma ne viene anche richiamato il grosso limite, nell’eccesso di normazione. Si assiste a grandi voglie di

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“perimetrazioni rancorose”, generate da paure, che producono visioni “ecologiche” nel senso di comuni puliti anche in senso sociale. Sicurezza è la parola chiave, e sempre più si declina come isolamento; al contrario ci si orienta all’associarsi fra amministrazioni per contrastare la solitudine. Il focus dedicato a strategie e piani di Città ha registrato una grande partecipazione: 65 casi presenti in mostra, fra cui Torino, Venezia, Bari, Bologna. Il direttore generale del CENSIS, Giuseppe Roma, ha condotto la sintesi finale e ha individuato l’origine di una così forte diffusione di piani strutturali nella necessità di costruzione di una base condivisa di progetto di città. Forse manca in parte la coscienza da parte delle amministrazioni di essere potenziale laboratorio per uscire dalla crisi economica. IL focus dedicato alla dimensione operativa dei piani ha dato spazio alla presentazione di testimonianze di approcci integrati per la sostenibilità, ma ha anche riflettuto sullo spazio pubblico come luogo centrale di qualità complessiva. Si conferma come limite ormai universalmente riconosciuto alla strumentazione di piano la scarsa velocità e flessibilità, in questa direzione sarà interessante cercare esempi e sperimentazioni. La dimensione energetica e ambientale nel governo e nella pianificazione del territorio locale è stato un tema affrontato a varie scale e settoriale (R.E., Piani Energetici, ecc.), per riconoscere in generale la difficoltà di trarre sintesi e ad introdurre questioni ambientali in una struttura di governo basata sul consenso sociale. La sessione, sulla base delle esperienze maturate dalla Commissione nazionale INU “Piano, energia, ambiente, consumo di suolo”, ha presentato casi di studio relativi a due profili prioritari: il contenimento del consumo di suolo e l’incremento dell’efficienza energetica urbana e territoriale, verificando altresì i gradi di integrazione tra i numerosi strumenti settoriali. Tali profili sono, oggi, da ritenersi prioritari in quanto segnano un reale punto di svolta rispetto alla prassi vigente, portano con sé un diffuso cambiamento che interessa numerose altre tematiche e generano straordinari cobenefici ambientali ed economici in favore delle comunità. E’ stata occasione per aggiornare, da parte di un rappresentante del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, sulla campagna "Energia Sostenibile per l'Italia" nell'ambito della campagna europea "Sustainable Energy Europe (SEE)": dopo la prima fase 2005-

2008, la campagna SEE è stata rilanciata dalla Commissione Europea con il nuovo triennio 2009-2011 e il Ministero continuerà a svolgere la funzione di Focal Point Nazionale.L'iniziativa ha tra i suoi fini quello di accrescere la consapevolezza e modificare la produzione e l'utilizzo dell'energia nell'ottica anche del raggiungimento degli obiettivi del protocollo di Kyoto Infine un appunto dedicato ad uno fra i numerosi eventi collaterali della RUN, una tavola rotonda di aggiornamento sulla diffusione e sul futuro della VAS in Italia, gestita dal gruppo di studio nazionale INU VAS. La Valutazione Ambientale Strategica si sta confermando, a livello nazionale e internazionale, uno strumento utile per la formazione di nuove generazioni di piani e programmi. Problemi diffusi rilevati: spesso la VAS non si avvia con il PRG ma arriva ex-post, è vista come appesantimento, servirebbero tecniche di coinvolgimento che però hanno costi per una procedura alla quale in genere si assegnano limitate risorse. Inoltre chi redige la VAS appartiene a disparate figure professionali, con la conseguenza che i prodotti sono generati da diverse visioni e approcci disciplinari e difficilmente comparabili. Le alternative da individuare sulle azioni di Piano sono troppo spesso formali, o si attiva il “gioco” dell’alternativa come opzione di non attuazione del piano. Lo scenario nazionale (decreto correttivo 2008) sembra accrescere il pericolo di separazione tra pianificazione e VAS (Spaziante); il Ministero dell’Ambiente tace, le Regioni procedono in ordine sparso, i Comuni spesso interpretano la VAS in processi riduttivi e formali. Chiavi di successo del processo valutativo sono individuate nell’avvio della VAS contestuale all’avvio del Piano, nell’impegno preso ad accettarne i risultati, nel fatto che il Piano si integri di un sistema di monitoraggio di cui si individuino i soggetti responsabili già all’avvio del lavoro. Ma ancora c’è bisogno di linee guida ministeriali, di rendere esperienze pratiche comparabili, di inglobare la VAS nelle procedure previste dalle nuove leggi urbanistiche. Infine, l’impegno preso da INU nel redigere il bilancio della RUN è stato di affrontare la preparazione del prossimo congresso di Livorno occupandosi non solo di forma urbana e degli strumenti urbanistici che la descrivono, ma di fare un bilancio della pianificazione rispetto agli ormai troppi fenomeni di trasformazione territoriale avvenuti...a insaputa degli urbanisti.


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Il nuovo Consiglio direttivo dell’Inu/Trentino

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’Assemblea Generale della sezione trentina dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, si è riunita il giorno 11 marzo 2010 presso la Sala Rosa della sede della Regione Trentino-Alto Adige per il rinnovo delle cariche elettive. Il presidente uscente Fulvio Forrer, ha riassunto le iniziative svolte dalla Sezione Trentino e ricordato i progetti impostati ed attuati negli ultimi due anni, fornendo un breve quanto esaustivo resoconto delle attività condotte dal direttivo uscente, composto oltre che dal presidente stesso, dagli architetti Alessandro Franceschini, Paola Ischia, Maurizio Tomazzoni, Giovanna Ulrici, Massimiliano Vanella e Bruno Zanon. Gli iscritti alla sezione Trentino, presenti all’Assemblea, hanno poi eletto, nel rispetto dei criteri di cui all’art. 22 del Regolamento Nazionale, i sette membri del nuovo Consiglio Direttivo che sono, in ordine alfabetico: arch. Elisa Coletti, arch. Alessandro Franceschini, dott. Fulvio Forrer, dott. Davide Geneletti, arch. Marco Giovanazzi, arch. Paola Ischia, arch. Giovanna Ulrici. Il nuovo Direttivo, conformemente a quanto disposto dallo Statuto, si è poi riunito al fine di eleggere nel suo seno Presidente, Vice Presidente, Segretario e Tesoriere. In occasione di questo incontro, tenutosi il giorno 1 aprile 2010, il Presidente uscente, dopo aver richiamato le disposizioni dello Statuto stesso in ordine alle modalità di assegnazione delle cariche, ne ha ricordato e chiarito ruoli e mansioni. Vista la dichiarazione di indisponibilità da parte del dott. Fulvio Forrer a candidarsi per il

rinnovo dell’incarico, dopo un’attenta discussione e valutazione, il Consiglio ha provveduto all’attribuzione delle cariche. La carica di Presidente viene assegnata all’arch. Giovanna Ulrici, affiancata dal dott. Fulvio Forrer in qualità di Vice Presidente. Assume il ruolo di Segretario l’arch. Elisa Coletti e viene riconfermato quale Tesoriere e Coordinatore di Urbanistica Informazioni l’arch. Alessandro Franceschini. Saranno impegnati in qualità di consiglieri il dott. Davide Geneletti, l’arch. Marco Giovanazzi e l’arch. Paola Ischia. Il nuovo Consiglio direttivo ha concluso il primo incontro ricordando iniziative in corso e attività in atto, ragionando sui contenuti del programma da predisporre ed esprimendo il proprio interesse alla partecipazione attiva alle Commissioni nazionali di studio. I membri del direttivo, pronti a impegnarsi a perseguire gli scopi statutari dell’INU nella sua qualità di “ente di alta cultura e di coordinamento tecnico giuridicamente riconosciuto” che “presta la sua consulenza e collabora con le pubbliche Amministrazioni, centrali e periferiche nello studio e nella soluzione dei problemi urbanistici ed edilizi, sia generali, sia locali” (Statuto, art.1), esprimono gratitudine per la fiducia accordata. In chiusura, ringraziano i membri uscenti del Direttivo del biennio 2007/2009 per la proficua collaborazione ed il generoso impegno, auspicando che il prezioso rapporto di collaborazione possa essere mantenuto sempre vivo. [e.c.]

COME ASSOCIARSI Per associarsi all’Istituto Nazionale di Urbanistica (INU) occorre presentare al Presidente della Sezione di competenza (per residenza o luogo di lavoro) una domanda sottoscritta da due Membri effettivi dell’Istituto e accompagnata da un breve curriculum e dalla ricevuta di pagamento della quota associativa per il primo anno. Il Consiglio direttivo locale approva le domande e le trasmette alla sede nazionale per la ratifica e la registrazione. Per gli Enti pubblici che intendono associarsi è sufficiente inviare alla sede nazionale dell’Istituto la delibera degli organi competenti (di cui potete scaricare il modello) contenente anche l’impegno di spesa per la prima quota annuale, oppure anche solo una copia della ricevuta del versamento della quota associativa. Informazioni e modelli per iscriversi sono sul sito: www.inu.it Il pagamento della quota associativa può essere effettuato con bollettino postale n. 97355002 intestato a “INU c/Soci” o mediante bonifico bancario sul conto n. 000000581551 intestato a “INU” – Banca di Roma – Filiale 112 – ABI 03002 – CAB 03256. Per contatti e ulteriori informazioni: Segreteria INU Sezione Trentina (arch. Elisa Coletti, elisacoletti@libero.it cell. 339.8675819).

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Recensioni

Biblioteca dell’urbanista

Paolo Perulli Visioni di città

Renato Bocchi Progettare lo spazio e il movimento

Alberto Clementi (a cura di) Architettura e paesaggio

Giulio Einaudi editore, Torino, 2009 (1^ edizione)

Gangemi, Roma, 2010 (1^ edizione)

List, Barcelona (Spain), 2009 (1^ edizione)

Le città del mondo stanno modificando quella forma ben impressa nella mente degli abitanti. Le idee e le visioni che hanno rappresentato le forme della città, proprio perché sfidate dalla trasformazione contemporanea, sembrano ora ritirarsi da quello che erano, irrinunciabili direzioni di senso della nostra civiltà. Ma fino a che punto possiamo ridare senso all'idea di centro, messa in crisi nella post-metropoli dispersa come Los Angeles o nell'ubiquità del "villaggio globale"? Nell'epoca dei flussi possiamo continuare a pensare come circolare la forma della città, anzi delle "città di città" che crescono per gemmazione? A loro volta, periferie e ghetti sono versioni dell'idea di bordo che definisce i regimi dell'inclusione e dell'esclusione: oggi proprio le terre di confine sono i nuovi luoghi della trasformazione. Se la città ha sempre selezionato e marcato gli spazi, ha anche sempre cercato nuove combinazioni invadendo e mescolando zone. La rete è dunque la forma-archetipo delle città e della loro infinita capacità riproduttiva e connettiva. Ricostruendo la complessa storia culturale di questi concetti-chiave, ed esplorandone la persistenza rispetto alla realtà attuale, l'autore riflette criticamente sulle teorie e pratiche politiche e sociali più diffuse relative alle trasformazioni urbane in corso.

L’architettura? «Oggi più che mai è un architettura di relazioni anziché di puri oggetti». Il paesaggio? «Ha assunto una inedita centralità». La città? «Qualcosa che ritorna a fare della geografia il carattere fondante della propria forma». Sono parole ed interpretazioni di Renato Bocchi, architetto e docente universitario, “rubate” da questa sua ultima pubblicazione, sugli scaffali delle librerie da qualche settimana. Il volume raccoglie dodici scritti scelti di Bocchi che ruotano attorno al tema dei rapporti fra arte, architettura, spazio e paesaggio. Alla base della raccolta troviamo una rielaborazione aggiornata di un ciclo di lezioni tenuto nell’estate del 2005 nell’ambito di un master presso l’Università di La Plata in Argentina, ed è ordinata in quattro capitoli: «città e paesaggio», «spazio e architettura peripatetica», «arte, natura e paesaggio» e «architettura e geometrie del paesaggio». «L’architettura – spiega l’autore – oggi è dunque più che mai un’architettura di spazi relazionali dinamici, anziché di scene statiche. In questo si avvicina molto al progetto di paesaggio. (…) È un progetto come mediatore fra contesti morfologici diversi, ossia un progetto che si assume il compito di mettere in relazione le differenze fra diverse situazioni morfologiche e proprio da queste intersezioni trae vita».

Un confronto tra le esperienze italiane e giapponesi, in tema di architettura e pianificazione del paesaggio, con molti spunti critici ed esempi di progetti e di realizzazioni, con saggi illustrati da architetti italiani e giapponesi, tra i quali Toyo Ito, Fumihiko Maki, Kengo Kuma, Atelier Bow Wow, Antorio Citterio, Franco Purini, Paolo Desideri, Mosè Ricci e molti altri. Come scrive il curatore: «L’esperienza dell’architettura giapponese sembra testimoniare un’innata sapienza di confronto con la natura, interiorizzata mirabilmente nei singoli edifici e nello spazio immediatamente circostante. Mentre l’esperienza italiana di pianificazione del paesaggio elabora attraverso il paesaggio una scala di appartenenza del progetto che trascende il singolo manufatto, per interpretare valori, di lunga durata sedimentate nelle stratificazioni del contesto. Le une e le altre esperienze, messe assieme, ci parlano di un paesaggio necessariamente transcalare, dove i valori identitari che provengono dalla grande scala del contesto di appartenenza si combinano con la scala minuta dei caratteri morfologici e linguistici dell’architettura, dei suoi cromatismi e della stessa grana dei materiali della costruzione». Il paesaggio si declina così simultaneamente in tutte le scale del progetto.


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