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Sentieri Urbani 4 indice

Sentieri Urbani rivista semestrale della Sezione Trentino dell’Istituto Nazionale di Urbanistica nuova serie anno II - numero 4 settembre 2010 registrazione presso il Tribunale di Trento n. 1376 del 10.12.2008 Issn 2036-3109 direttore responsabile Alessandro Franceschini direttore@sentieri-urbani.eu redazione Fulvio Forrer, Paola Ischia, Giovanna Ulrici, Bruno Zanon redazione@sentieri-urbani.eu hanno collaborato a questo numero: Andrea Mubi Brighenti, Luigi Casanova, Vanni Ceola, Mirco Elena, Giuseppe Gorfer, Elena Ianni, Cristina Mattiucci, Luca Paolazzi tipografia Rotooffset Paganella s.a.s. di Roberto Alessandrini &C via Marchetti, 20 38122 Trento abbonamenti Per ricevere Sentieri urbani è sufficiente inviare una e_mail indicando i dati postali di chi desidera abbonarsi alla rivista: diffusione@sentieri-urbani.eu Sentieri urbani è a diffusione gratuita. Per contribuire concretamente al sostentamento della rivista è sufficiente una donazione, anche simbolica, sul conto corrente intestato all’Inu Trentino presso la Cassa Rurale di Trento IBAN IT63M0830401813000013330319 contatti: www.sentieri-urbani.eu 328.0198754 editore Istituto Nazionale di Urbanistica Sezione Trentino Via Oss Mazzurana, 54 38122 Trento direttivo 2010/2012 Giovanna Ulrici (presidente) Fulvio Forrer (vicepresidente) Elisa Coletti (segretario) Alessandro Franceschini (tesoriere) Davide Geneletti (consigliere) Marco Giovanazzi (consigliere) Paola Ischia (consigliere) In copertina: Footing a Londra, estate 2008 (foto archivio SU)

Editoriale Urbanistica a «premi» di G. Ulrici Spazio&Società Il mestiere di urbanista di F. Forrer La città alpina e i suoi sobborghi di A.M. Brighenti Una ricerca sui masi di montagna di A. Franceschini La percezione del paesaggio e le istanze di una comunità di C. Mattiucci Progetti, Pianificazione, Partecipazione. Possibile? di E. Ianni Mobilità «Metroland» e «Val»: alcune considerazioni critiche di V. Ceola .

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Territorio&Paesaggio I muri a secco e il paesaggio di Castel Pradaglia pag. 34 di G. Gorfer Pinè/1: La relazione tecnico descrittiva della frana pag. 38 a cura degli uffici della Provincia autonoma di Trento Pinè/2: Quando la tecnica si piega alla politica pag. 43 di F. Forrer Potenzialità e criticità del sistema di autovalutazione pag. 44 di L. Paolazzi XII Biennale di architettura di Venezia pag. 47 a cura della redazione Uno sguardo sulla Cina pag. 48 di M. Elena Vita associativa No a quattro domande di derivazione dell’acqua pag. 52 a cura degli uffici della Provincia autonoma di Trento Attività culturali dell’Inu/Trentino - estate 2010 pag. 54 di G. Ulrici Recensione in forma di lettera pag. 56 di L. Casanova La differenza da… fare! pag. 57 di P. Ischia Biblioteca dell’urbanista pag. 58 a cura della redazione


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URBANISTICA «A PREMI» Note sul Piano Casa in Trentino di Giovanna Ulrici

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el marzo 2009 il Governo nazionale ha lanciato un pacchetto di interventi volti al rilancio dell’edilizia mediante norme che autorizzavano un aumento delle cubature esistenti, anche su demolizioni e ricostruzioni, in deroga alle normative in vigore. Il provvedimento aveva carattere emergenziale e temporaneo (suggeriva un orizzonte temporale di applicabilità di 18 mesi) e demandava agli enti competenti in materia (Regioni e Provincie autonome) l’emanazione delle normative di recepimento. INU nazionale ha aperto da subito un osservatorio sul Piano casa, ed ha accompagnato con iniziale forte preoccupazione l'introduzione di agevolazioni per il rilancio dell'edilizia aventi carattere estemporaneo su di un campo - quello dell'emergenza casa - permeato da storiche criticità strutturali. Inoltre le misure prospettavano una possibile significativa incidenza sull’aumento volumetrico senza nessuna apparente valutazione delle ricadute sui carichi urbanistici e sulla qualità urbana. La Provincia autonoma di Trento ha varato il proprio piano casa in tempi non rapidi (marzo 2010) e restringendo il campo di applicazione (vd. box) nell’art. 15 della L.P. 4/2010, che prevede misure straordinarie di agevolazione per la riqualificazione architettonica degli edifici esistenti a prevalente o totale destinazione residenziale nei soli casi di rifacimento totale dell’edificio. La particolarità di questa legge è avere affiancato i “premi” del Piano casa ad altre premialità volumetriche, quelle introdotte per dare maggior forza (e appetibilità) alla nuova normativa sul risparmio energetico e sul miglioramento ambientale concentrando gli sforzi per la promozione del rinnovamento del patrimonio edilizio esistente, in larga parte scadente sotto il profilo energetico. Inoltre le agevolazioni sono inserite all'interno dell’ampia riforma amministrativa e urbanistica, che è anche giunta a riordinare le procedure autorizzative edilizie. La riforma del corpus normativo urbanistico (PUP, nuova legge urbanistica e leggi di settore) e quella amministrativa (Comunità di Valle) rappresentano una epocale discontinuità nella forma di gestione del Trentino. Ne sono coinvolti il governo del territorio, i nuovi processi e nuova distribuzione delle competenze, prima che (o in-

sieme a) strumenti o modalità di pianificazione. Una “macchina da guerra” che si candida a portare a sistema tutti i livelli della pianificazione (PUP, Piani strutturali di Comunità e PRG, ecc) e ad omogeneizzare le normative e le procedure di gestione amministrativa. Detto questo, si vorrebbe aggiungere qualche annotazione relativamente alle implicazioni urbanistiche date dalla introduzione a livello locale delle misure premianti,dilaganti nelle politiche di governo su tutto il territorio nazionale, ben oltre la già variegata articolazione data dai contenuti regionali di recepimento del Piano casa. L’art. 15 della l.p. è stato promosso enunciando tre finalità della manovra (vd. Box): - affrontare il problema della casa; - affrontare il problema del rilancio dell'edilizia; - affrontare il problema del miglioramento urbanistico. Per quanto concerne il primo di questi obiettivi, la risposta al fabbisogno abitativo è di fatto in Provincia demandata ad altri provvedimenti non a tempo, con politiche e finanziamenti già in corso e piuttosto articolati ma centrati su un programma finalizzato all’individuazione di volumi di edilizia convenzionata ed agevolata. Strumento vero e centrale per il tema casa è il Piano per l’edilizia residenziale pubblica varato a gennaio 2010. Al contempo sono stati contemplati strumenti urbanistici virtuosi e di supporto alle politiche della casa nella nuova l.p. 1/2008: norme che richiamano l’obbligo di individuazione di edilizia pubblica, norme che introducono lo strumento delle compensazioni urbanistiche per chi cede alloggi, o norme di contenimento delle seconde case (rif.l.p.16/2005). L’obiettivo poi di contrastare con le premialità di cui all’art. 15 il problema del rilancio dell’edilizia pare decisamente sproporzionato: a livello provinciale non si può che osservare che su questo aspetto hanno inciso, anche se non risolto, altre iniziative aventi pure carattere di straordinarietà ma molto impegnative in termini finanziari, quali i massicci investimenti pubblici che sono stati stanziati in misure anticrisi per opere pubbliche e private negli anni 2009 e 2010. Resta il tema del miglioramento urbanistico.


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L’introduzione di queste norme premianti è troppo recente e non sono a disposizione dati sull’effettivo ricorso ai premi volumetrici e quindi sull’effettivo carico urbanistico generato dalla norma nelle zone urbanizzate. Va comunque evidenziato come il tema della premialità sia arma a doppio taglio, in assenza di strumenti di misura della sostenibilità del carico generato dalle volumetrie aggiuntive (aumento del traffico,del fabbisogno di parcheggi e servizi pubblici, per esempio) per strutture urbane esistenti e limitate nella possibilità di potenziamento ed ampliamento delle reti (strade e sottoservizi) e degli standard esistenti (verde, scuole). Senza avere cioè valutato il limite locale sostenibile di densificazione nell’uso del suolo. Il solo obbligo, previsto nella norma, di rispetto delle distanze per regolare l’accesso ai premi volumetrici può risultare un parziale strumento di gestione dei conflitti all’interno della comunità di vicinato, ma non può certo esaurire la verifica della sostenibilità urbana dei nuovi carichi antropici. Altrettanto deboli risultano alcune proposte a livello nazionale, volte ad assicurare che i fondi ricavati dagli oneri urbanistici generati dalle nuove cubature vengano dedicati ad interventi infrastrutturali che compensino il maggior carico generato dai premi volumetrici su strade o parcheggi, per fare un esempio, o il maggior costo per assicurare maggiori servizi pubblici corrispondenti ad una possibile maggiore domanda, per esempio in trasporto pubblico. Un uso puntuale e generalizzato della formula della premialità volumetrica per promuovere il rinnovamento edilizio in altre parole non sembra esaurire il principio che – usando l’affermazione di Ingersoll – “è con la città che si fa la differenza nei consumi energetici” e verrebbe da aggiungere anche nella qualità della vita. La presenza in ampi comparti urbani, soprattutto dei maggiori centri urbani della provincia, di grandi volumetrie condominiali, rende più evidenti queste preoccupazioni. Va pure osservato che certamente è intervenendo su queste tipologie edilizie, spesso le più scadenti dal punto di vista energetico e di qualità edilizia ed architettonica, che si può incidere significativamente sugli standard ambientali e di consumo energetico

COSA DICE LA LEGGE L.P. 4/2010, Art. 15, Misure straordinarie di agevolazione per la riqualificazione architettonica e ambientale degli edifici esistenti. Con questo articolo la legge autorizza un incremento della volumetria degli edifici esistenti, in misura del 15%, applicabile in occasione di interventi di sostituzione edilizia e di demolizione e ricostruzione. Un ulteriore premio volumetrico pari al 10% è concesso se detto intervento prevede la realizzazione di alloggi con affitto a canone moderato (rif. L.P. 15/2005) , con esonero totale dell’obbligo di corresponsione del contributo di concessione. Queste agevolazioni sono temporanee (il termine previsto per le domande è il 31.12.2011), salvo proroghe. La norma è entrata in vigore nel marzo di quest’anno e prevede anche uno snellimento nei tempi per il rilascio della concessione. I premi volumetrici sono sommabili ad altri premi volumetrici previsti dall’art. 86 della L.P. 1/2008 in favore della diffusione delle tecniche di edilizia sostenibile, che garantisce lo scomputo dagli indici edilizi degli elementi costruttivi finalizzati al miglioramento delle prestazioni energetiche e che prevede – per gli edifici che presentano livelli di prestazioni energetiche superiori a quelli obbligatori (individuati con Del.G.C. n. 1531/2010) – un incremento volumetrico determinato in rapporto alla qualità del livello di prestazione o in alternativa la possibilità di richiedere la riduzione del contributo di concessione . L’incremento volumetrico per il miglioramento delle prestazioni energetiche, qualora congiunto ai premi dell’art. 15 della L.P. 4/2010 si applica a scaglioni sulla base delle volumetrie (fino a 500 mc, 1500 mc, 4000 mc e oltre) e delle Classi energetiche raggiunte, e va da un minimo incremento del 5% ad un massimo incremento volumetrico del 25%. Queste agevolazioni, che non hanno carattere temporaneo, sono in vigore dal 7 luglio 2010, data di entrata in vigore della Del. G.P. 1531 che ha introdotto il Regolamento applicativo dell’art. 86 della L.P. 1/2008. Provando a fare un calcolo: un edificio residenziale ricostruito e destinato ad edilizia agevolata, che si collochi in classe superiore all’obbligatoria, per esempio A+ (ammesso che risulti economicamente vantaggiosa), potrà godere di un aumento volumetrico del 15+10+25= 50%, da sfruttare nel rispetto delle distanze.


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dei tessuti residenziali esistenti. Ma non è ipotizzabile che i numerosi proprietari e residenti delle tipologie condominiali possano facilmente trovare modo di accedere ai premi volumetrici, che nella norma presuppongono forme estreme di intervento quali la sostituzione e la demolizione con ricostruzione: basti avere esperienza della complessità nei processi decisionali interni alle assemblee di condominio, o basti pragmaticamente pensare alle oggettive difficoltà nel trovare un alloggio sostitutivo per i residenti nel periodo di cantierizzazione. Quindi non è (solo) impostando sistemi coercitivi e premianti nell'edilizia residenziale esistente che si può incidere sul rinnovo edilizio e sul risparmio energetico, ma promuovendo modalità organizzative e gestionali del territorio (che passano attraverso il disegno della città) che, densificando e minimizzando la dispersione insediativa, affrontino il tema del consumo energetico senza trascurarne le fonti reali: il settore civile incide per circa un terzo sui consumi totali, al pari dei trasporti e dell’industria. Per ottimizzare il “funzionamento energetico” della città andrebbe quindi valutata la possibile selezione del patrimonio edilizio da premiare non per il suo rifacimento ma per il suo trasferimento, o tramite il suo trasferimento. La l.p. 1/2008 prevede anche strumenti, certamente di maggiore complessità applicativa rispetto ai premi ma probabilmente di maggiore efficacia in ambiti urbani di particolare criticità: come esempio si possono ricordare le compensazioni urbanistiche (art. 55) per delocalizzazioni. Ora, con la messa a regime piena della legge 1 / 2008, i comparti di trasformazione si sbloccano: una nuova stagione di costruzione di rapporti pubblico-privato si potrebbe avviare nella costruzione di piani attuativi, cioè nel disegno della città nuova o da riqualificare. Insisto sull'importanza di questi strumenti e di questa scala: la scala della progettazione attuativa è quella ideale per fare la differenza nella qualità urbana e dove si esalta l'introduzione delle tecnologie green (e qui gli esempi europei di ecoquartieri best practices non sono pochi, dalla Svezia, alla Danimarca alla Germania). “La luce della sola razionalità non è sempre bella” sostiene il paesaggista Caruncho: la qualità urbanistica ed ambientale non passa solo attraverso indici, ma attraverso l'interpretazione – sapiente – del luogo tramite il suo disegno. L'appiattimento sulle tecnologie appartiene ad un approccio ideologico che non implica da solo il rispetto di paesaggio, sostenibilità, ecologia. La riforma delle Comunità di Valle oltre che por-

tare ad una razionalizzazione nella gestione amministrativa (al di là degli effetti sulla parcellizzazione comunale) è bisogno strutturale ed economico. Ma in ottica energetica è lo strumento per introdurre una pianificazione sostenibile: il sistema aggregativo nelle scelte di pianificazione deve contrastare il rischio di dispersioni di opere e optare per la distribuzione degli utili derivanti da tali opere su tutto il bacino di influenza. Il tema della premialità può in questo caso declinarsi al supporto di forme articolate di perequazione territoriale, le più creative e destrutturate se occorre – esempi nella pratica urbanistica italiana recente ve ne sono, con i quali se necessario confrontarsi - ma che proteggano il consolidamento di una identità di valle oltre o non conflittuale con l'identità di comunità comunale. Il tema della premialità per la delocalizzazione o per interventi di riqualificazione ambientale può pure essere uno strumento da prendere in considerazione anche in contesti di criticità ambientale: uno strumento da affiancare alle politiche di messa in sicurezza idrogeologica del territorio, per esempio, atto ad agevolare interventi pubblici in situazioni di rischio, utile per sostituire formule al presente dibattute di redistribuzione del rischio (obbligatorietà per i privati di attivare polizze assicurative) ma di difficile introduzione. Questa proposta - avanzata anche in altre Regioni nelle attuali fasi di rinnovo delle norme “piano casa”- estenderebbe i benefici ambientali dell'iniziativa anticrisi avvicinandoli a questioni che stanno assumendo enorme rilevanza nella pianificazione dei tessuti residenziali esistenti: rischio idrogeologico e sismico. In conclusione, allontanando approcci pregiudiziali sulle nome riferibili al Piano Casa, si riconoscono al contrario spunti positivi nella possibilità di ricorrere a incentivi volumetrici per attivare politiche di rinnovo del patrimonio edilizio residenziale scadente e nell’affiancamento di questi premi a politiche di risparmio e riqualificazione energetica. Si sottolinea però l’urgenza di strumenti che permettano forme snelle e articolate di monitoraggio dei pesi urbanistici per misurare e se necessario limitare questi incentivi laddove compromettano la sostenibilità nei carichi urbani incrementali o strumenti di controllo di possibili distorsioni nella creazione di mercati privilegiati. Al lato opposto è possibile pensare alla diffusione della premialità volumetrica per incentivare processi di sostituzione e riqualificazione urbana, o per supportare politiche di delocalizzazione in ambiti a rischio o criticità ambientale.

Note 1. La Provincia autonoma di Trento ha messo in campo - gennaio 2010 – un piano per l'edilizia residenziale pubblica, per 1.005 alloggi a canone sociale e 691 a canone moderato che ITEA potrebbe acquistare/realizzare entro il 31.12.2011. (Piano straordinario di ITEA spa) e che individua i fabbisogni a scala comunale. E’ previsto l’acquisto sul mercato di 245 alloggi a canone sociale, in comuni ad alta tensione abitativa, onde evitare l'individuazione da parte dei Comuni di nuove aree edificabili. Altri 760 alloggi vengono individuati su aree o immobili già di ITEA. Anche gli alloggi a canone moderato saranno messi a disposizione nei 12 comuni ad alta tensione abitativa. Il piano troverà realizzazione anche in mancanza di partecipazione delle amministrazioni comunali. Fra le ulteriori misure previste: l’introduzione di un fondo immobiliare e contributi a favore dei privati per la messa a disposizione di alloggi. 2. Conflitti o impatti sul vicinato (e sul paesaggio) sono stati affrontati in alcuni contesti ricorrendo alla conservazione delle visuali libere 3. Vd. S.Verones e B.Zanon, Pianificazione per città a basse emissioni, in Sentieri Urbani n.3, 2010 Fotografia Plein Street, Down Town, Gauteng, 2004 Photo Adam Broomberg and Oliver Chanarin


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Il mestiere di URBANISTA di Fulvio Forrer

Mexico City Ecataepec, Mexico 2006 Photo Scott Peterman

Il senso Il concetto di urbanistica nasce attorno alla città, ad un luogo di forte concentrazione antropica per il quale vi è un progetto, una visione per il futuro: la città fortificata, la città mercato, la città rappresentativa, la città industriale, la città dell’espansione edilizia, la città capoluogo, ecc. L’Urbanistica quindi è sempre stata un terreno di visione proiettata al futuro in cui il fattore preminente è lo sviluppo umano, di solito la rappresentazione degli interessi più forti e più grandi che, con una certa approssimazione, possiamo definire “la gestione dell’insieme di oggetti fisici e spaziali che formano l’aggregato urbano” (città o paese che sia) e che possiamo semplificare con la visione preventiva dell’edilizia. Oggi l’urbanistica non si chiama più così in quanto interessa visioni e gestioni che vanno ben oltre l’edilizia e la città e non riguardano solo il costruire edifici, ma sono l’insieme delle attività che vanno sotto il nome di “Governo delle trasformazioni territoriali”. E così ai piani urbanistici in senso stretto (Piani di Coordinamento Territoriale, Piani Regolatori Generali, ecc) si affiancano una miriade di pianificazioni di settore, dalla escavazione di sostanze minerarie alla gestione dei boschi, dalla mobilità ai trasporti, dalle acque all’aria, dai bisogni sociali a quelli

economici, fin tanto a interessare strumenti nuovi come la valutazione ambientale (VIA, VAS, VINCA) o quella più economica (Bilanci costibenefici, Master plan, ecc). Pianificare vuol dire conoscere, interpretare, trovare soluzioni, programmare, organizzare, prevedere e confermare strutture, prevederne di nuove, stimare risorse e bisogni, concordarle, concertarle, definire metodologie, scegliere soluzioni, fissare obiettivi. Oggi invece, soprattutto nella pianificazione urbanistica, l’azione prevalentemente è quella di dispensare valore edificiale, una specie moderna di “mercato delle vacche”: è una visione vecchia che malamente sa costruire passaggi utili alla crescita di comunità ed è limitata alla gestione degli interessi più espliciti. Gli obiettivi Per svolgere questa attività in maniera efficace e bene servono quindi idee, adeguate risorse umane (cultura e formazione) e finanziarie, organizzazione sociale e rispetto dei ruoli. L’obiettivo della pianificazione è in fondo quello della razionalità, dell’uso oculato delle risorse, dell’equilibrio nelle opportunità e nelle occasioni, dell’interesse pubblico preminente su quello privato, della sostenibilità degli obiettivi e delle previsioni rispetto alle condizioni e alle possibili-


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tà. I soggetti che concorrono a questa pratica sono tanti: la politica con la sua responsabilità di sintesi finale, la tecnica nella ricerca delle soluzioni possibili e auspicabili, gli interessi di categoria nel prospettare necessità e opportunità per raggiungere traguardi, i bisogni di area per una identificazione dei soggetti afferenti ed i fabbisogni sociali per dare stabilità alla comunità e benessere generale. Nell’urbanistica, anche espressa in maniera moderna, deve prevalere la visione, l’obiettivo generale, le soluzioni praticabili in un delicato equilibrio tra componenti e pressioni di lobby, fin tanto ad orientare la politica ed il consenso sociale (approvazione formale) verso soluzioni migliori, strategiche, rivolte al futuro. Con/correnza e presenze La pianificazione ha quindi per definizione bisogno di una molteplicità di contributi e di partecipazioni. Fino ad oggi i piani sono stati fatti nel chiuso di stanze politico-professionali “di competenza” aprendosi alla società solo nei momenti di confronto e partecipazione tipici della politica e della vita amministrativa. Il confine tra politica e tecnica è spesso confuso, i portatori di interesse premono politicamente in quanto politicamente si va frequentemente oltre la sintesi e l’azione si trasforma da legittima proposta ad accordo più o meno sotterraneo. Gli interessi d’area sono delegati, per organizzazione politicoamministrativa, agli eletti di quella zona e l’evidenziazione dei bisogni sociali sembra essere scomparsa con l’affievolirsi della stagione contrattual-sindacalista. Tradizionalmente i cittadini vengono di fatto considerati solo per esprimere bisogni personali. È il caso della raccolta preliminare delle segnalazioni di chi vorrebbe costruire, è tipico nell’accettazione delle osservazioni presentate anche (quasi sempre) non nel pubblico interesse. È il prevalere sfacciato delle logiche individuali sulle esigenze di comunità. All’amministrazione rimane in carico la previsione dell’insieme delle necessità sociali, quasi, in una condizione di soggezione per non portare via ai censiti brandelli di proprietà o di iniziativa, spesso di fatto prive di valore economico, ma di elevato valore nel caso di interessi sociali. Sembra assente la percezione che un aggregato ben equilibrato, ben progettato con il suo intorno e ben realizzato comporta poi valori immobiliari e sociali maggiori. E di fronte a tale difficoltà ecco il contributo dei differenti livelli della pianificazione (livelli istituzionali-coerenze e compatibilità) che in un delicato meccanismo di coopianificazione dialettica (l’urbanistica contrattata, indispensabile se alla luce del sole) tutela gli interes-

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si generali e la visione raccordata d’insieme. Peccato che nella realtà locale il Piano di Coordinamento Territoriale del Trentino sia oggi meno strumento di comprensione generale degli assetti lasciando spazi forse troppo ampi e discrezionali alle visioni particolari, di settore, di comparto, anche se per fortuna la nuova organizzazione e i nuovi strumenti informativi territoriali (SIAT) suppliscono adeguatamente a tale carenza. Questo sistema oggi è gestito politicamente dai livelli istituzionali e da pochi tecnici, per lo più protetti in uffici in cui la gente non capisce cosa si fa, nonché da molti “urbanisti” improvvisati che colgono nell’inserimento di Varianti urbanistiche più o meno consistenti e motivate opportunità di lavoro. Questo modo di fare è superato, servono competenze nuove, specifiche, e metodologie innovative, non solo tecnologiche. Quale formazione Evolve la vita ed il mondo e con essa dovrebbero evolvere anche le professioni. Purtroppo in un sistema sociale organizzato a corporazioni e interessi forti tale evoluzione non riesce a compier il suo ciclo naturale: pianificare è in primis conoscere e interpretare la realtà. Servono quindi valide conoscenze e capacità cartografiche, sociali, economiche, degli aspetti fisici della terra, degli equilibri naturalistici e dei fabbisogni antropici. Serve in particolare approfondire gli aspetti dell’ecologia umana, dell’organizzazione sociale e istituzionale, nonché avere solide basi di diritto e chiare motivazioni etiche. Una figura poliedrica che sa di tante cose, ma che per concretezza dobbiamo dire che “altri sanno specialisticamente di più”. Questo non deve essere visto come un limite, ma l’apertura al considerare motivatamente e scientemente la pluralità delle componenti in gioco: è il ruolo stesso della pianificazione generale e di coordinamento. Ed il gioco di squadra è il fattore strategico per raggiungere risultati più elevati sapendo raccogliere indispensabili contributi specialistici: è la multidisciplinarietà nel gioco delle componenti e dei ruoli, ovvero andare oltre la demagogica interdisciplinarietà di chi ritiene di sapere tutto (ogni riferimento è puramente casuale). Voglio soprassedere sull’esistenza di tali figure nel panorama formativo italiano per arrivare ad affermare che servono in modo fondamentale due condizioni: una adeguata considerazione da parte degli Enti dell’importanza di tali figure e l’accettazione da parte delle corporazioni di contribuire in modo significativo con le proprie capacità, superando limitate logiche di accaparramento di spazi professionali, in fondo interstiziali. Varie figure


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professionali hanno nel loro bagaglio uno degli aspetti importanti dell’urbanistica, ovvero la ricomposizione in un progetto coerente di quadri complessi, ma proprio la specializzazione a componenti fortemente tipizzanti impone che le vicinanze formative sappiano fermarsi alla loro competenza e, che nel caso di sconfinamenti, ciò avvenga previo specifica e consistente riformazione professionale o, meglio, attraverso la collaborazione interdisciplinare. Il mondo delle professioni purtroppo non mi sembra pronto ad assumersi tale responsabilità. Competenze e incompetenze A fronte del panorama lavorativo trentino, ovvero delle figure attualmente operanti nel settore della gestione delle trasformazioni territoriali, preme evidenziare che la situazione è complessa, così come è molto articolato il settore della pianificazione settoriale. Un dato di sintesi che a me appare evidente è la forte chiusura per settori di competenza: i piani di settore della pubblica amministrazione sono generalmente fatti dagli uffici di competenza con eventuali collaborazioni universitarie di natura specialistica, raramente aperti a contributi multipli o ad approfondimenti che superano i confini strettamente disciplinari, anche quando ciò sarebbe molto opportuno. Gli studi professionali privati a carattere interdisciplinare sono pressoché assenti, nella libera professione la tendenza è quella della esclusività (ovvero, non spartire i guadagni). Ed anche il settore della valutazione ambientale, che per definizione comportava il confronto multidisciplinare, oggi si è impoverito a favore della semplificazione amministrativa e della apertura alle componenti forti del mercato del lavoro. Raramente la pianificazione comunale è fatta da professionisti specificatamente specializzati e frequentemente è fatta da professionisti d’area geografica o politica. In particolare ci sono figure professionali che monopolizzano il mercato, quasi sempre operando in modo esclusivo, testimoniando con ciò in modo inequivocabile la loro necessità di affermazione lavorativa. È il nodo della monocultura e della concentrazione degli affari in poche mani, della falsa concretezza lavorativa per superare i fronzoli; ne fanno le spese la qualità dei lavori, i costi che sono spesso ingiustificati (o non comprensibili) e la percezione comune di trovarsi in una gestione degli interessi generali di bottega, anziché del miglior lavoro possibile. La mediocrità impera e la tecnica, nonché l’etica, spariscono dalla percezione comune: è l’ora di voltare pagine.

In ogni caso una delle doti indispensabili all’urbanista è la pazienza; l’urbanista dispensa all’amministrazione, se in grado, innanzi tutto cultura ed esperienza: cultura della parsimonia (e non semplicistiche nozioni tecniche) ed esperienza nella valutazione degli effetti e delle conseguenze che ogni scelta comporta, ovvero aiuta a valutare e a negoziare. Risponde ai cittadini, se il politico glielo consente, per spiegare le ragioni generali delle scelte, agli interessati argomenta in modo circostanziato quelle valutazione che ai privati possono sembrare discriminatorie o arbitrarie. Infine con gli strumenti propri del piano descrive la struttura e le scelte in modo comprensibile a tutti e democratico, nel peno rispetto del proprio ruolo, senza mai interferire con la dialettica politica, sale del nostro sistema politico. Non è teoria, è capacità ed equilibrio propria del professionista abile ed esperto; un requisito indispensabile per fare buoni piani. Con un giudizio evidentemente più moderato la stessa Provincia autonoma di Trento, conscia di tali difficoltà e consapevole dei fallimenti precedenti, ha assunto in proprio questo nuovo onere formativo: «La Provincia realizza programmi di formazione e aggiornamento permanente in materia di pianificazione territoriale e di paesaggio avvalendosi della società per la formazione permanente del personale prevista dall'articolo 35 della legge provinciale n. 3 del 2006». Appare evidentemente superfluo commentare l’entrata in campo diretto delle Provincia, ma il gap tra quanto ottenuto in termini culturali dagli anni settante ad oggi in Alto Adige-Südtirol e quanto fatto invece in Trentino rende evidente la necessità di un profondo cambiamento. Non è detto che l’alta scuola di formazione Pat possa essere esaustiva per tutti, ma certamente potrà rendere il panorama dei responsabili operativi delle Comunità di valle più omogeneamente formati e preparati. Ma soprattutto preme caldeggiare un nuovo atteggiamento da parte di tutti i professionisti, operatori dell’Ente pubblico o nel privato: aprirsi al confronto, alla visione multidisciplinare e saper fare sintesi non dall’alto della propria prevalenza, ma alla luce degli utili apporti che dalle altre figure professionali possono venire, arricchendo di soluzioni e di dettagli. Ciò vale anche per i processi di partecipazione popolare che per essere produttivi necessitano di strutturazione ed operatività (quindi specifica formazione), solo così l’urbanistica potrà avvicinarsi ai cittadini senza venir travolta dagli interessi insistenti di chi sa puntare i piedi o di chi sa operare sottobanco. La democrazia più partecipata può essere costruita.


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La città alpina e i suoi sobborghi di Andrea Mubi Brighenti

Nuovi modelli urbani e città delle Alpi Nella primavera del 2010, insieme al professor Giolo Fele della Facoltà di Sociologia dell’università di Trento, titolare del corso di Metodi qualitativi per la ricerca sociale, abbiamo proposto a un gruppo di studenti di progettare e realizzare una piccola ricerca sui sobborghi della città di Trento. Abbiamo quindi elaborato una mappatura e una schedatura sistematica di una decina di sobborghi urbani che abbiamo scelto per la loro diversità e rappresentatività rispetto alle dimensioni di analisi che ci interessavano. In ciascuno dei sobborghi scelti, abbiamo poi realizzato un corpus di interviste con gli abitanti. Sebbene la ricerca non avesse alcuna pretesa di rappresentatività o di esaustività rispetto alla popolazione complessiva, ci è sembrato che essa potesse comunque avere un’utilità di tipo “sintomatico”. Infatti, pur non avendo raccolto dati sull’incidenza quantitativa dei fenomeni che abbiamo rilevato, dalla ricerca è emersa una serie di aspetti interessanti riguardo alla percezione di un insieme di fattori cruciali rispetto alle modalità dell’abitare: qualità di vita, spirito di comunità, attività e associazioni locali, mobilità, trasformazioni urbanistiche, rapporto tra vecchi e nuovi abitanti, e così via. Una discussione ampliata su tali questioni la si è potuta sviluppare, sempre nella scorsa primavera, in una serie di incontri volti a lanciare un piccolo “laboratorio di

etnografia urbana”. Abbiamo così cercato di esplorare quella dimensione territoriale che Renato Bocchi ha chiamato con felice espressione la “città-arcipelago” (Bocchi 2006). In questa visione ampliata della città i sobborghi risultano particolarmente importanti, sia per la quantità percentualmente significativa di popolazione che oggi essi ospitano, sia per le nuove modalità dell’abitare suburbano – come ad esempio la “appartenenza elettiva” (Savage, Bagnall e Longhurst 2005) – che incarnano. In questo breve testo, vorrei sviluppare alcune considerazioni personali emerse durante questa ricerca. Negli ultimi anni gli urbanisti e i pianificatori territoriali hanno rilevato come il classico modello urbano “centro-periferia” sia per molti versi superato (vedi ad es. Kloosterman e Musterd 2001; Parr 2004). Le nozioni di urban sprawl, ville éclatée e suburbanizzazione, d’altra parte , non sembrano da sole in grado di fornire uno strumento sufficientemente preciso per cogliere il complesso intreccio di fattori e le diverse forme del mutamento materiale e sociale in corso. Alcuni studiosi hanno perciò proposto di introdurre negli studi urbani e regionali nuove categorie di analisi, parlando ad esempio di “regione urbana” (Magnaghi e Marson 2004), “area urbana funzionale” (Perlik, Messerli e Bätzing 2001), “regione urbana polinucleare” (Dieleman e Faludi 1998), nonché di

Il centro storico del sobborgo di Cadine (Tn)


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Nuovi insediamenti nel sobborgo di Civezzano (Tn)

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“megalopoli” (Gottmann 1961; Turri 2004), “reti di città” (Camagni e Salone 1993) e di “networked urbanism” (Blokland e Savage, a cura di, 2008). Anche lo spazio alpino sembra rientrare in questo discorso. Oggi le città alpine condividono numerose caratteristiche cruciali con il resto delle città europee e occidentali in genere, come ad esempio forme di amministrazione burocratica organizzata per scale territoriali, economia capitalista avanzata, turismo, infrastrutture dei trasporti e delle comunicazioni. Insieme a tali caratteristiche si riscontrano anche tutti i tipici problemi urbani connessi alla difficoltà di pianificazione, al consumo di suolo e all’inquinamento. Allo stesso tempo, le città alpine si caratterizzano per un insieme di tratti specifici, che derivano dalla storia e dalla geografia unica e distintiva dello spazio alpino. Proprio per tale situazione, le città alpine si trovano oggi in un punto di convergenza e di tensione tra forze sociali diverse, la cui spazialità riflette la costituzione di un campo sociale discorsivo (specialistico e non) in cui vengono discussi e dibattuti diversi e divergenti modelli di pianificazione, sviluppo, governo e mobilità. Già negli anni Settanta, Giuseppe Dematteis (1975) invitava a superare la visione arcaicizzante delle Alpi come territorio a vocazione unicamente agricolo-pastorale, e dunque essenzialmente anti-urbano, sottolineando al contrario l’antichità e l’importanza delle città alpine. La presenza di centri urbani nell’arco alpino quantomeno dall’epoca romana ha svolto un ruolo economico ed amministrativo essenziale. Le città delle Alpi, notava Dematteis, sono da considerarsi propriamente delle città alpine, in quanto esse si sono sviluppate all’interno di un inscindibile legame funzionale con il territorio che le cir-

conda (attività estrattive, controllo dei transiti e così via). Più recentemente, Dematteis (2009) ha applicato la nozione di regione urbana policentrica allo spazio alpino, suggerendo come il rafforzamento delle reti urbane possa essere per le Alpi un modo distintivo per riuscire ad essere simultaneamente globali (entrando ad esempio nei circuiti dell’economia cognitiva) e locali (basandosi sulle risorse territoriali specifiche che le caratterizzano). Da questa prospettiva, le Alpi si configurano dunque complessivamente come uno spazio propriamente urbano e “il futuro delle Alpi dipende principalmente dallo sviluppo delle [sue] città” (ibid., 32). Tuttavia, proprio perché la categoria dell’urbano viene a significare oggi così tante cose contemporaneamente, nel momento in cui viene a inglobare un insieme complesso di identità territoriali differenziate, di scelte e di strategie politiche sociali e culturali ampiamente eterogenee, mi pare che essa non possa costituire, di per sé, una panacea per le Alpi. In effetti, l’analisi non può accontentarsi di stabilire la presenza o meno dell’urbano, ma deve addentrarsi a chiarire le diverse modalità e le diverse tendenze dell’urbanizzazione stessa. Inoltre, per chi voglia comprendere la complessità delle formazioni territoriali, un’analisi morfologica e funzionale deve prolungarsi, non solo in un’analisi delle economie e delle politiche (e, in senso più ampio, della politica spaziale e della spazialità politica) ma deve altresì estendersi a uno studio della cultura dell’abitare (ben oltre il semplice fatto della residenza), persino verso una fenomenologia e una poetica dell’abitare. Una fenomenologia dell’abitare include ad esempio uno studio del ruolo della percezione nella fruizione dello spazio urbano (Lynch 1960; Franceschini 2004). Questo punto di vista ci ricorda


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che la città non può essere ridotta a una dimensione o a un insieme di dimensioni quantitative. Abitare la città è un fatto sociale totale, riscontrabile sì in una serie di indicatori ma non riducibile ad essi. La “persistente importanza della territorialità per le relazioni sociali” (Savage, Bagnall e Longhurst 2005, 7) ci spinge ad analizzare le dimensioni materiali ed affettive dell’abitare, punto fondamentale attraverso il quale l’urbano si situa in un paesaggio, in un milieu percettivo caratterizzato da una Stimmung che ne contrassegna l’unità al di là delle frammentazioni esperienziali (Simmel 1912). Una fenomenologia dell’abitare deve inoltre complementarsi con una prospettiva ecologica, ovvero con una prospettiva relazionale che mostri come gli elementi – inclusi gli attori – siano il risultato di relazioni, posizionamenti e distribuzioni all’interno di un insieme interconnesso, dotato di proprietà emergenti. L’ecologia urbana è dunque un’ecologia delle attenzioni, delle sincronizzazioni, degli affetti e dei desideri, dei flussi e dei contagi. Le stesse dimensioni del pubblico e del comune che caratterizzano la città in quanto polis (Arendt 2004[1958]) possono venire comprese in questa prospettiva. Territorio urbanizzato / città territoriale Esiste, a mio avviso, un persistente divario tra urbanizzazione del territorio da un lato e territorializzazione della città dall’altro. Il territorio urbanizzato non coincide con la città territoriale; e anche laddove il primo processo è oggi più o meno compiuto, il bisogno di città territoriale resta ancora insoddisfatto. Non solo i due fenomeni non coincidono, ma è persino possibile che l’urbanizzazione del territorio si ritorca contro la territorializzazione della città. La città territoriale rinvia infatti alla dimensione

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dell’urbanità, dalla Stadtluft o city-like atmosphere, della cultura urbana. Ma tale cultura, incentrata su una nozione ampia di spazio pubblico, non coincide più con quella urbanità descritta dai teorici classici, a partire a Georg Simmel (1895) fino a Jane Jacobs (1961) e Richard Sennett (1977). Secondo Ash Amin (2008, 5), “in un’epoca di sprawl urbano, di usi molteplici dello spazio pubblico e di proliferazione dei luoghi di espressione politica e culturale non è il caso di aspettarsi che gli spazi pubblici siano in grado di adempiere al loro ruolo tradizionali e di educazione civica e partecipazione politica”. Tuttavia, come ho sostenuto altrove (Brighenti 2010c), tali considerazioni sulle trasformazioni dello spazio pubblico urbano contemporaneo non dovrebbero indurci a detrarne l’importanza. Lo spazio pubblico si ritrova infatti oggi ad essere al centro di una serie di nuovi snodi politici, culturali ed economici cruciali. Più precisamente, lo spazio pubblico si prolunga e si stratifica in un più ampio dominio pubblico (Brighenti 2010a) che è un dominio di informazione, comunicazione e nuove forme di relazione, dunque un dominio essenziale per le aspirazioni di una città territoriale. Cosa implica tutto ciò nel caso del territorio delle Alpi? Piuttosto che guardare alla città alpina tradizionale, rispetto alla quale esistono già studi ragguardevoli, mi è sembrato interessante focalizzarsi sui sobborghi urbani. Questi ultimi rappresentano per così dire delle “zone di frontiera”, non tanto tra l’urbano e il rurale quanto piuttosto tra diverse modalità di comporre, vivere e intendere l’urbano. Zone inoltre caratterizzate da una peculiare invisibilità, o forse meglio da tre diversi tipi di invisibilità (Brighenti 2010b). In primo luogo, mentre nella letteratura internazionale di ricerca sociale il tema della

Nuovi insediamenti nel sobborgo di Civezzano (Tn)


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A sinistra: nuovi insediamenti nel sobborgo di Cadine (Tn). A destra: edifici nel centro storico di Oltrecastello (Tn).

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suburbanizzazione è ampiamente frequentato – anche attraverso innumerevoli dibattiti sulla sostenibilità o meno del modello suburbano – in ambito italiano la sociologia si è focalizzata soprattutto sulle “periferie”, un interesse chiaramente dettato dall’incidenza di problemi sociali in determinate aree urbane, ritenute riserva di potenziali disordini e violenze urbane (per una rassegna vedi Callà 2010; Brighenti 2010c). In secondo luogo, e di nuovo sempre in contrapposizione alle periferie classicamente intese, i sobborghi (che pure adottando il vecchio schema centro-periferico si collocano nella periferia geografica della città) non attraggono l’attenzione dei mass media, venendo piuttosto interpretati attraverso lo stereotipo del luogo “senza eventi” e “noioso”. Tuttavia questo carattere suburbano di “mancanza di eventi” non va affatto confuso con una presunta lentezza dei mutamenti sociali in corso in tali luoghi. La ricerca mostra infatti come questi luoghi siano tutt’altro che slow-paced: essi hanno infatti subito importanti trasformazioni urbanistiche e sociali nel corso degli ultimi vent’anni, trasformazioni a volte difficili da osservare (questione della visibilità) ma tutt’ora in corso e di cui è difficile prevedere gli esiti. In terzo luogo, i suburbi sono considerati da molti studiosi, soprattutto in ambito angloamericano, come la negazione dello spazio pubblico, il trionfo del privatismo e di atteggiamenti di disaffiliazione politica. Si tratta perciò di verificare l’esistenza di forme più o meno evidenti ed emergenti di dimensione pubblica nei sobborghi, o quantomeno di registrare quale altra categoria di interazione si riveli più adatta per comprendere tali spazi sociali. La frangia suburbana Proprio perché la categoria di suburb, o sobborgo, di per se stessa problematizza la dicotomia urbano/rurale (Bruegmann 2006), andare ad esplorare i sobborghi alpini significa confrontarsi con la complessità spaziale, materiale e sociale di una sorta di frangia o zona di frontiera urbana, la quale, più che nei margini o verso una qualche esteriorità ormai difficile da incontrare,

sembra collocarsi in un “tra”, in una situazione di sospensione e interstizialità. Il sobborgo contemporaneo è un interstizio, non tra l’urbano e il rurale, quanto tra diverse modalità di comporre l’urbano – ovvero tra, da un lato, un territorio infrastrutturato di dispositivi urbani (strade, gallerie, ponti, auto, cellulari, computer, sistemi informativi, strumenti satellitari e così via) e, dall’altro, una città territoriale a venire, la quale esprime in modo ancora confuso e contraddittorio un bisogno di città e un desiderio di città (vedi anche Annunziata 2008) che va al di là della cultura classica della urbanity. Sorta di paradossale Zwischenstadt, il sobborgo alpino è un territorio in trasformazione che in tempi recenti ha visto associarsi a una forte espansione residenziale un persistente cleavage tra vecchi e nuovi abitanti. Sarebbe troppo facile contrapporre i suburbaniti agli abitanti della città sulla base della classica distinzione tra urbanofobi e urbanofili. Di fatto l’animus anti-urbano della classe media che decide di andare a vivere nei sobborghi e diventare commuter e city-user non è diverso da quello che si ritrova tra alcune popolazioni urbane, come ad esempio quella dei super-rich, ma anche degli abitanti dei quartieri difficili che sognano la fuga da una realtà territoriale stigmatizzata e soffocante. E sarebbe altresì sbagliato credere che i sobborghi alpini ospitino, come spesso quelli nordamericani, una popolazione omogenea caratterizzata da un unico modo o stile di vita. Al contrario, sebbene l’attributo della “autoctonia” sia chiaramente ideologico, nei sobborghi che abbiamo osservato nuovi e vecchi abitanti rimangono distinti, spesso separati, soprattutto sulla base di una diversa modalità di immaginare la comunità, il vicinato e le forme stesse dell’abitare. La trasformazione degli spazi materiali si è accompagnata infatti, per i vecchi abitanti, a una trasformazione delle modalità di socializzazione, non solo rispetto ai nuovi abitanti ma anche all’interno del proprio gruppo. Molti di questi abitanti lamentano un “problema di identità” dei luoghi, faticando ad immaginare la nuova configurazione che sta assumendo il proprio “paese natìo” – al quale si sentono in molti casi


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affettivamente legati in modo profondo (tema peraltro classico, quello della “piccola patria” alpina) – nel momento in cui l’espansione residenziale li porta a nuove convivenze e le nuove esigenze funzionali li trasformano in commuter essi stessi. Il tradizionalismo è un lusso che pochi possono permettersi. Da parte loro, i nuovi abitanti, espressione di una classe media impiegatizia e professionale in cerca di una casetta con giardino e vista sui monti dove crescere i figli (spesso in un piccolo condominio – approssimazione al sogno della villa tutta per sé) rappresentano la figura sociale che si accompagna all’espansione territoriale della città. Consapevoli o meno, tali nuovi abitanti sono veicoli dell’urbano – infatti spesso accusati dai vecchi abitanti di essere “anonimi”, di sfrecciare in auto via al mattino e poi indietro alla sera, come se l’“amato paese” dei primi fosse solo per i secondi un posto tra i tanti, per non dire, horribile dictu, “un dormitorio” – ma di un urbano che resta ancora più sul versante dell’urbs che non su quello della civitas, un urbano tecnologicamente supportato e però ancora incapace di una visione all’altezza dell’orizzonte dell’attuale territorialità del dominio pubblico. Urbanìti mossi da un sogno antiurbano ma essenzialmente legati ai requisiti e ai presupposti fun-

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zionali della vita urbana, questi nuovi abitanti dei sobborghi rappresentano un altro aspetto della complicata equazione territoriale suburbana. In conclusione, per studiare i sobborghi alpini di oggi abbiamo bisogno, mi pare, di tutti gli strumenti fondamentali che geografi, urbanisti, pianificatori e architetti possono metterci a disposizione. Abbiamo insomma bisogno di un’analisi sofisticata della nuova morfologia dell’urbano al di là dei modelli e dei postulati classici. Ma abbiamo altresì bisogno di uno studio dei territori sociali in questione (una vera e propria “territoriologia”; Brighenti 2010d), studio ancorato alla materialità delle pratiche e degli incontri. Ci serve una ritmanalisi delle mobilità all’interno del territorio urbanizzato, in grado di comprendere flussi e confini nella loro reciproca definizione e nel loro farsi. Ci serve una fenomenologia dell’abitare, in grado di cogliere come la percezione dei luoghi si inscriva in un immaginario che guida e dà forma alla vita quotidiana (vedi ad es. Arnoldi 2010; Mattiucci 2010). E ci serve una ecologia delle attenzioni e degli affetti, per cogliere – e forse in seguito poter aiutare – il bisogno e il desiderio emergente di città (dunque non solo di urbanizzazione) che esiste nel territorio.

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Roncegno Terme/1 Una ricerca sui masi di montagna di Alessandro Franceschini

Un tipico insediamento masale a Roncegno: Maso Postai

Premessa Questo articolo fornisce un quadro di riferimento urbanistico e architettonico relativo ai Masi di Roncegno Terme ed è il frutto di uno studio predisposto a supporto delle operazioni di progettazione e riqualificazione contemplate nella Nuova variante del Piano regolatore generale del Comune stesso. Questa revisione dello strumento urbanistico comunale è stata avviata nel 2008 da un equipe del Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale dell’Università di Trento coordinata dal prof. Corrado Diamantini ed è stata adottata della primavera 2010. All’interno delle azioni proposte da questa nuova variante (di seguito, per brevità “variante Diamantini”), sia dal punto di vista politico che da quello scientifico, la riqualificazione dei Masi rappresenta un tema di prioritaria importanza. I Masi, infatti, sono un sistema insediativo originale nel Trentino, caratterizzato dalla prevalenza dell’insediamento sparso su quello compatto. Un sistema in parte ancora integro, ma allo stesso tempo fragile e a rischio di scomparsa, di compromissione irreversibile. Attualmente i Masi soffrono di un evidente stato di marginalità: non hanno più la forza di essere comunità a sé: costituiscono un insieme disomogeneo di cinquantaquattro piccoli e piccolissimi insediamenti. I documenti ne contemplano in verità “solamente” quarantaquattro, ovvero, come riportano alcuni atti ufficili (statuto del Comune): Albio, Auseri, Aria, Beberi, Bernardi, Bocheri, Cadenzi, Cofleri, Craneri, Crozzeri, Fraineri, Gasperazzi, Gionzeri, Gretti, Groffi, Lagon, Masetti, Molini, Montebello, Montibelleri, Muro, Pacheri, Pinzeri, Postai, Rincheri, Robello, Ro-

neri, Roveri, Rozza, Salcheri, Sasso, Scali, Scalvin, Smideri, Stralleri, Striccheri, Tesobbo, Ulleri, Vezzena, Vestri, Zaccon, Zanorgi, Zonti, Zotteli; a questi la presente ricerca ha ritenuto necessario aggiungere i masi Boscheli, Caneva, Colgioni, Colgioneri, Fodra, Mandla, Paglia, Passerotto, Tecca, Tinotto e Toneri. Quest’ultimi sono masi “storici”, già contemplati nel catasto asburgico, e dotati di una specifica identità. Alcuni di questi masi sono ancora abitati ed in buono stato di conservazione, altri abbandonati o in grave stato di marginalità sociale ed architettonica. Si tratta di un vero e proprio “sistema”, un tempo anche economico ed identitario, sul quale non esistono molte conoscenze né politiche che ne tutelino le peculiarità sociali, architettoniche ed urbanistiche. Anche le ultime variante urbanistiche hanno sostanzialmente confermato una tendenza pianificatoria iniziata negli anni Ottanta: ovvero considerare il sistema masale come un’indifferenziata parte del territorio municipale (e non come un’eccezione da tutelare), concedendo possibilità edificatorie “a richiesta” degli abitanti senza vincoli di natura tipologica, urbanisticoinsediativo o perequativa. Lo scopo di questo studio è quello, anzitutto, di comprenderne l’entità, le caratteristiche, lo stato di conservazione, il grado di compromissione sia architettonica che urbanistica e sociale del “Sistema Masi”. Si tratta, probabilmente, di un primo tassello mirato a comporre un quadro conoscitivo più ampio dedicato agli insediamenti di montagna della Valsugana, che per molti anni hanno rappresentato una “rimozione culturale” nella storiografia locale (a cui hanno messo rimedio alcuni studi recenti, indicati in bibliografia), e nella coscienza collettiva degli abitanti del municipio (presente anche oggi, come si è riscontrato nel processo partecipativo alla redazione della nuova variante Diamantini, anche e soprattutto nei giovani). Un paesaggio antropico particolare Percorrendo la Valsugana, lungo il corso del fiume Brenta, giunti all’ansa valliva che dall’originaria direzione nord-est dell’alta Valsugana si tramuta nell’orientamento ad est che porta il Brenta nella pianura Padana per intercessione della Gola di Brenta, il sistema collinare e premontuoso boscato a nord appare caratterizzato da ampie schiarite agricole e silvopastorali che “denunciano” una colonizzazione


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In alto: la carta del Catasto Asburgico (1865) con individuati gli insediamenti masali; In basso: i masi individuati nella Ortofoto 2006. Da notare l’aumento della superficie boscata (indicata in grigio nella carta storica), un chiaro indicatore del progressivo abbandono della montagna

della Montagna. Si tratta dei “Masi di Roncegno” che appaiono visivamente divisi in tre emergenze morfologiche: il Monte di Tesobbo a ovest, il Monte di Mezzo a Nord e il Monte di Santa Brigida ad est. Sul culmine del primo dosso si trovano gli scarsi resti del castello di Tesobbo. Ad occidente è posto il maso Tesobbo (m. 730) che culmina nel monte Sant’ Osvaldo. Su questo monte si trovano la Valle del Diavolo dove sgorgavano le sorgenti di acqua arsenicale ferruginosa che alimentò per un lungo periodo il centro termale di Roncegno, e la cosiddetta “Busa del Tossego”, individuabile in una profonda gola, scavata dal torrente Larganza, oltre il colle di San Biagio, e caratterizzata dalla presenza di un’antica miniera di arsenico abbandonata. Nell’alta Valle del Larganza, sulla sua riva sinistra sotto il maso Bernardi, si trovano la Valle del Diavolo e i boschi di Sturmwolt (“Bosco de-

gli uragani”). Il monte di Sant’Osvaldo (m 1450) si trova sopra san Biagio, passando dal maso Gretti e Prà del Voto (m 1181). Qui sorge la piccola chiesa dedicata a Sant’Osvaldo, chiesa a carattere devozionale costruita tra il XIII e il XVI secolo da una popolazione germanofona. Monte di Mezzo è la parte della montagna che si trova tra la Valle della Larganza e quella del torrente Chiavona. È costituita da molti masi, ricca di sorgenti ed è attraversata da molte mulattiere. È coltivata fino a 1000 metri circa d’altitudine; campi e vigneti si alternano a boschi di castagni. Cenni storici sulla nascita dei Masi I Masi di Roncegno, la Montagna, sono il frutto di una forte pressione colonizzatrice medievale di contadini-minatori tedeschi (chiamati roncadóri) che hanno sempre costituito una comuni-


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A sinistra: maso Gretti, uno dei più alti del sistema; A destra: maso Groffi, abbandonato da tempo sta diventando una “rovina”

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tà “diversa”, caratterizzata da peculiarità rispetto al resto del municipio. Questa differenziazione ha dato origine, nel corso dei secoli, a differenze culturali e paesaggistiche tra il nucleo della Villa e quello dei Masi sparsi. Questa differenziazione fu anche in un certo senso “istituzionalizzata” con due sistemi amministrativi diversi. Questa diversità tra la “Villa” (o Paese) e la Montagna di Roncegno andò accentuandosi con la nascita e lo sviluppo del sistema Termale di Roncegno. La Villa si evolse economicamente, socialmente ed urbanisticamente, mentre la seconda mantenne inalterato il carattere agricolo montano. Il sistema masale di Roncegno rappresenta una configurazione originale per il Trentino, dove al contrario gli insediamenti sono concentrati in alcuni luoghi e non “sparsi” sul territorio. Il fenomeno dei Masi di Roncegno è dovuto, come si è accennato in precedenza, da flussi migratori avvenuti durante prima del XV secolo. «Gli stanziamenti medievale tedeschi del Trentino rientrano nell’ambito di una più ampia ripresa di dissodamento e di rinnovamento economico che si svolse tra il XII e il XIV secolo a opera di roncadori bavaro-tirolesi per la massima parte provenienti dal Vicentino e solo in epoca più tarda, e in misura minore, dal veronese» (Maestrelli in Grosselli, 2003). I territori venivano colonizzati attraverso il dissodamento di ampi porzioni di montagna per la collocazione di imprese agricoli famigliari. «In un certo senso essa si strutturava in impianti aziendali autonomi ed indipendenti, operanti in condizioni di auto sussistenza. Conseguentemente, non essendoci ricerca di benefici relazionali di vicinato, ciascuna famiglia tendeva a collocarsi al centro delle proprie terre e non venivano perciò poste le premesse per la formazione di nuclei abitati di una certa dimensione» (Buzzetti in Grosselli, 2003). A questo fenomeno “originario” di costruzione del sistema masale va affiancato un altro fenomeno: quello dell’arrivo di popolazioni germaniche. Molti minatori arrivarono (e molti si fermarono senza ripartire) a causa delle miniere e-

strattive aperte sulla montagna di Roncegno. Nel 1640 viene emessa la prima concessione per l’estrazione del metallo (in prevalenza argento) nella miniera di Cinque Valli (Curzel, 1998), e questa attività rimase attiva fino al 1943, quando venne chiusa definitivamente. Per quanto riguardala “provenienza” dei minatori è stato dimostra come fosse «possibile che un primo travaso di popolazione germanofona dalla confinante Valle dei Mòcheni sia avvenuto in epoca mineraria. Va chiarito che i territori di Roncegno e della Val dei Mòcheni comunicano attraverso i passi montani della Bassa e della Portèla. Verso il Cinquecento, comunque, il passaggio di persone tra la montagna mòchena e quella di Roncegno è comprovabile» (Grosselli, 2003). «Esistono svariate tracce del progressivo insediarsi nella zona – ed in special modo nella sua parte più elevata – di coloni di lingua tedesca, provenienti anche da altre aree geografiche del versante meridionale delle Alpi. Un esempio di quell’intenso traffico da un’isola linguistica germanica all’altra che sembra aver caratterizzato il periodo» (Curzel in Grosselli, 2003). Anche gli scambi tra il municipio della Valsugana e la piccola Valle dei Mòcheni furono, molto intensi: «I nostri testimoni – scrive ancora Grosselli in una indagine svolta sulla socialità nell’abitato di Roncegno – hanno rivelato come, anche in tempi più vicini a noi, sostanzialmente nel Novecento, furono varie le ragioni che avvicinarono le sue comunità. I mòcheni, specie di Fierozzo, Frassilongo e Roveda, transitavano anche da Roncegno per iniziare con le loro greggi di pecore la transumanza in direzione della Pianura Padana. E il mercato di Borgo Valsugana fu un loro punto di riferimento per acquisti e vendite. (…) Oggi, comunque, sia a Roncegno che a Marter (…) la presenza di famiglie di origine mòchena è notevole. E, non solo nella memoria orale sono frequentissimi i riferimenti al rapporto tra le popolazioni di Roncegno e della Valle dei Mocheni, ma tutt’oggi si registrano matrimoni “misti”» (Grosselli, 2003).


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Caratteri tipici del modello insediativo La Montagna di Roncegno è colonizzata stabilmente “a maso” da una quota di circa 457 m slm (Masso Vezzena) a quella di 1157 m slm (Maso Mandla). Gran parte dei masi si attestano, comunque, tra gli 750 e gli 850 m slm. La quota “media” dei masi è infatti 790 m slm. Il 25,9 % dei masi è collocato tra i 700 e gli 800 m, ed altrettanti della fascia altimetrica fra gli 800 e i 900 m. L’11% è collocato sopra i 1.000 m slm, mentre il 7% è collocato sotto i 600 m slm. Il modello insediativo si è sviluppato secondo questo sistema originario: una famiglia contadina si collocava al centro di uno spazio agricolo vitale alla propria sussistenza. Attorno al maso originario si estendevano, e a volte ancora si estendono, i campi coltivati e dedicato al prato a pascolo del bestiame. Il settore orientale della montagna di Roncegno prende il nome dalla chiesetta che sorge su una collina sulla riva sinistra del torrente Chiavona, sopra la località Rozzati, vale a dire Santa Brigida. In quest’area, sulla destra del rio San Nicolò, c’è il dosso (m 698) dove si trovano i resti del campanile della chiesa di San Nicolò, risalente, secondo gli ultimi studi condotti dal settore Beni Archeologici della Provincia autonoma di Trento, almeno al XIV secolo. Questa chiesetta sorge su una terrazza posta una decina di metri sotto il culmine del dosso ed è attorniata da resti di mura di antiche costruzioni. Oltre la valle, sotto il maso Montebello (m 716), su un colle, si trovano pochissimi resti del Castello di Montebello. Si ritiene che i dossi di San Nicolò e di Montebello costituissero in origine un unico complesso sul quale si disponevano le costruzioni facenti parte del castello. Il sistema insediativo è strutturati in tre grandi gruppi: - i Masi di Santa Brigida (Auseri, Boscheri, Gasperazzi, Striccheri, Sasso, Caneva, Roveri, Pacheri, Crozzeri, Craneri, Paglia, Lagon, Passerotto, Bebberi, Strellèri di sopra e di sotto, Pinzeri, Albio, Boscheli, Rincheri, Muro, Masetti, e

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Vezzena), collocati a est del torrente Chiavona; - i Masi di Monte di Mezzo (Mandla, Zonti, Fodra, Gretti, Fraineri, Coglioneri, Rozza, Gionzeri, Postai, Tecca, Vestri, Smidelri, Uelleri, Bernardi, Tòneri, Salcheri, Zonti, Zanorgi, Molini, Cofleri, Scalvin, Cadenzi) collocati tra il Torrente Chiavona e il Torrente Larganza; - i Masi di Tesobbo – in epoca più recenti compresi in quelli di Monte di Mezzo – (Gretti, Tesobbo, Tinotto e Aria) ma che per molto tempo hanno costituito un’identità a sé stante e collocati ad ovest del Torrente Larganza. Dal punto di vista della struttura urbanistica possiamo osservare alcune differenze: la Frazione di Monte di Mezzo è costituita da un numero minore di Masi ma mediamente più “grandi” in termini di edifici e quindi, storicamente, di abitanti. La frazione di Santa Brigida, invece, ad eccezione del Maso Montibelleri, considerata la “Parigi” della Montagna di Roncegno, sono tutti di piccole dimensioni, 4/5 unità, e non è raro trovare masi costituiti da un solo edificio. Il modello identitario Il riconoscimento identitario, per una comunità composta da piccoli nuclei indipendenti ed autonome, si è svolta nel corso dei secoli attraverso due istituzioni principali: - le Scuole elementari (obbligatorie fin dalla metà dell’Ottocento, ma delle cui prime tracce si ritrovano nel 1699) aveva una sede in ciascuna delle tre frazioni in cui è diviso il sistema Masi: a Tesobbo (esistente dal 1839 e collocata a quota 736 m slm) dentro l’omonimo grande maso sul monte Tesobbo; a Monte di Mezzo era costituita dall’edificio bianco collocato a monte di Maso Zonti, esistente dal 1824 a quota 740 m slm, attualmente utilizzato come casa sociale e per associazioni di cacciatori; a Santa Brigida, esistente dal 1730 e allocata nell’edificio a monte di Maso Scali, a quota 786 m slm, e che risulta oggi essere un edificio per accoglienza di anziani. La caratteristica degli edifici scolastici è

A sinistra: maso Rozza attualmente abitato da una persona; A destra: Maso Roneri: da notare il passaggio dell’antica mulattiera sotto il portico dell’edificio


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Il sistema viario tradizionale delle mulattiere (a sinistra) e l’attuale strada carrabile (a destra)

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certamente la loro collocazione “concentrica” alla loro area di influenza, sia in termini planimetrici che altimetrici (per una ricostruzione esaustiva del sistema scolastico a Roncegno si veda Candotti, 2007). I bambini istruiti nelle singole sedi scolastiche, crescevano così con una chiara collocazione territoriale ed identitaria. - la Chiesa, che era (ed è) articolata in due sistemi parrocchiali: la Chiesa di Santa Brigida su cui affluivano i fedeli dell’omonima frazione e la Chiesa parrocchiale di Roncegno, dedicata ai Santi Pietro e Paolo, che faceva confluire i fedeli delle frazioni di Monte di Mezzo e di Tesobbo. Per quanto riguarda la prima chiesa, dedicata a S. Bigida (storicamente denominata “Santa Brigitta”), sappiamo che fu fondata intorno al 1533. Dapprima usata come chiesa per cerimonie saltuarie (dal 1585, custodita da un eremita, e in cui si officiava una volta al mese), ebbe un parroco stabile a partire dal 1785 e divenne parrocchia indipendente, come lo è tutt’ora, a partire dal 1919. Più antica è invece la chiesa parrocchiale di Roncegno, dedicata ai SS. Pietro e Paolo, che serviva anche i masi della montagna di Mezzo. Le prime notizie risalgono al 1323 e divenne parrocchia nel 1492, su permesso del Papa Innocenzo III. La chiesa fu costruita insolitamente fuori dal centro storico di Roncegno appunto per essere un luogo “neutro” fruibile sia dagli abitanti della Villa che dagli abitanti dei masi. L’evoluzione dell’ecosistema Nel 1865 i tecnici dell’Impero Asburgico, con la costruzione del sistema catastale, tracciano una dettagliata descrizione cartografica dell’ecosistema dei Masi di Roncegno. Quello che emerge, anche ad una prima lettura, è la forte pressione antropica a cui è sottoposta tutta la montagna. I boschi rappresentano una parte residuale dell’uso suolo, relegata – ad eccezione del più pendete monte Tesobbo, su cui insistono grandi estensioni boschive – alle zone u-

mide lungo i torrenti Larganza e Chiavona. Il resto della superficie era dedicata principalmente a seminativo (soprattutto nella parte bassa delle frazioni di Santa Brigida e di Monte di Mezzo), a prato (soprattutto nella parte alta), pratofrutteto o pascolo. Da notare, inoltre, i seminativi sparsi fino a quota molto alta (fino ai Zotteli e gli Auseri, sopra i 1000 metri) e la presenza di una lunga fascia, intorno ai 500 metri, coltivata a vite. Attualmente la situazione si è molto modificata. L’abbandono della coltura di montagna e del prato “a sfalcio”, iniziata a partire dagli anni Sessanta, ha modificato pesantemente la composizione ecosistemica della montagna di Roncegno. Oggi buona parte della superficie è occupata dal bosco. È scomparsa quasi completamente la coltura del seminativo, mentre tutta l’area originariamente destinata a vitigno è attualmente occupata dai boschi. La mobilità: la rete storica e la rete contemporanea Per capire come si è evoluta la socialità dei masi appare utile confrontare le mappe della viabilità storica con quella attuale. Oggi l’asse principale di comunicazione è posto nel fondovalle, lungo il corso del fiume Brenta e permette un’agevole comunicazione tra la valle dell’Adige e la pianura veneta. Si distinguono, a completamento della via principale, una rete di fondovalle parallela che collega i vari centri abitati, una rete viaria più complessa costituita da strade secondarie a servizio degli insediamenti montani ed una fitta rete di sentieri, ancora in parte utilizzati. Se l’asse viario principale è destinato a porre in comunicazione con l’esterno, il sistema delle strade secondarie, dei sentieri e delle mulattiere è funzionale alle esigenze della popolazione che risiede nella zona e, dunque, perfettamente aderente alla realtà geografica e insediativa del territorio. Si deve infatti osservare che malgrado le pendenze, che creano non poche


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difficoltà, soprattutto nella stagione invernale, i masi di Roncegno Terme sono a tutt’oggi abitati fino ad un’altitudine di quasi 1200 metri. Verso monte la rete viaria si innesta nelle vie di comunicazione che immettono nelle valli limitrofe. Per quanto riguarda specificatamente il sistema dei Masi, la viabilità storica era costituita da una fitta rete di percorsi “verticali” che collegava le basi di ciascuna frazione ai territori più alti secondo una struttura ad albero. A questa rete si affiancava un secondo sistema di comunicazione “orizzontale” che collegava in maniera intensa le parti alla stessa quota delle singole frazioni e in maniera più puntuale le tre frazioni. Negli anni Ottanta, a seguito del Piano regolatore generale firmato dal sociologo Antonio Scaglia dell’Università di Trento, è iniziata la costruzione di strade carrabili di collegamento fra la Montagna e il fondovalle. Si trattava di un lavoro urgente, fortemente voluto dalle popolazioni locali e ancor oggi considerato “tardivo”, di connessione tra le parti più isolate del municipio, che aveva causato anche in anni recenti fenomeni di migrazione verso comuni limitrofi. La costruzione della nuova arteria, tuttavia, non ha rispettato il sistema infrastrutturale storico. Le due strade principali collegano, diramandosi, il paese con le parti più alte dando origine ad alcuni fenomeni: La parte alta del Monte di Mezzo (Fodra, Mandla, Zotteli, Groffi, Fraineri, Rozza e Colgioni) è stata “funzionalmente” annessa alla frazione di Santa Brigida, Mentre la Frazione di Tesobbo è stata “funzionalmente” annessa a quella di Monte di Mezzo. La rete così costituita ha generato anche un altro fenomeno: la rete storica è stata progressi-

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vamente abbandonata tanto da essere oggi, a distanza di soli vent’anni, praticamente inagibile a causa dei dissesti idrogeologici e dell’invasione da parte della fitta vegetazione. Una conseguenza diretta di questa modificazione è stata la perdita delle connessioni dirette fra i masi. I modelli insediativi Nella presente indagine sono stati individuati quattro “modelli” attraverso i quali i masi si sono naturalmente collocati lungo i pendii della Montagna di Roncegno. Purtroppo si tratta “archetipi”, che molto spesso hanno subìto delle alterazioni tipologiche negli ultimi decenni. Non è rado, infatti, trovare delle costruzioni avulse dal contesto, sia in termini architettonici (il modello della casa economica anni Sessanta è il prevalente) che urbanistici (insediamenti recenti che non tengono conto del “disegno urbano” del maso, e l’arrivo dell’automobile ha dotato i Masi di tipi sconosciti di edifici come garage interrati, box auto dalle fogge urbane…). Tuttavia, ad una attenta lettura planimetrica, i tipi insediativi sono ancora chiaramente leggibili e sono andati a consolidarsi secondo due esigenze: la pendenza del terreno in cui il maso è inserito (più è pendente il terreno, più il maso tende a ordinarsi “in linea”); le dimensioni del fondo su cui il maso insiste: più è grande il fondo, più il maso tende ad ingrandirsi e diventare a “borgo”. Tutti i masi sono comunque dotati di alcuni elementi “minimi” che li rendono tipi appartenenti ad uno stesso sistema: la presenza di una fontana “pubblica”; la presenza di uno slargo, una corte, una piazzetta ove si svolge la vita collettiva del maso; il sistema delle strade,

Alcune “varianti” del maso di Roncegno Terme


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Maso Salcheri: con la sua struttura “in linea” è uno dei più tipici masi di Roncegno Terme

quasi tutte di proprietà comunale, che si spingono fin all’ingresso degli alloggi di ogni singolo maso. Vediamo di seguito le tipologie: Il maso “a corte” È costituito dall’aggregazione di tre o più edifici attorno ad una corte-piazzola, spesso di forma irregolare, che funge da centro del maso. Nella piazzola si possono trovare alcune funzioni pubbliche come ad esempio la collocazione della “fontana”, una panchina di sosta. La piazzetta è di proprietà comunale e solitamente è attraversata dalle strade pubbliche. Sono esempi di masi così strutturati Maso Albio, Maso Fraineri, Maso Smidleri, Maso Sasso, Maso Rozza e Maso Zonti. Il maso “ad edificio unico” È costituito da un edificio che si staglia solitario lungo una via di comunicazione. Può essere che in tempi recenti il maso sia stato “arricchito” con altri edifici e superfetazioni. Può capitare che l’edificio presenti elementi aulici o particolarmente importanti. Inoltre i masi isolati, rispetto agli altri, hanno dimensioni solitamente imponenti, sia come superficie che come altezza. Fanno parte di questa tipologia: Maso Bebberi, Maso Gretti, Maso Montebello, Maso Muro, Maso Boscheli, Maso Vezzena. ll maso “in linea” È il classico maso di Roncegno. Si sviluppa attraverso l’affiancamento di cellule abitative sui una linea parallela alle curve di livello. Solitamente sono posti su declivi pendenti e hanno una parte o tutto il pian terreno collocati da un alto verso valle e da un lato sotto il livello del terreno. Gli esempi più eloquenti di questa tipologia li possiamo trovare nel Maso Postai, nel Maso Gionzeri, nel maso Salcheri, nel Maso Vestri, nel Maso Stralleri di sotto e, soprattutto, nel maso Tesobbo. Il maso “a borgo” È costituito da un insieme

di edifici aggregati dalla regola della “vicinanza” e tendono ad essere un gruppetto di case assimilabili ad un piccolo borgo. Sono il frutto di aggiunte storiche ma che già nel 1860 avevano caratteristiche consolidate. Solitamente, nel maso a borgo, esistono (o esistevano) dei chiari luoghi deputati alla vita pubblica, dotati di fontana e di panchine di sosta. Possiamo considerare come facente parte di questa categoria, tra gli altri, Maso Cadenzi, Maso Molini, Maso Roveri, Maso Uelleri. Il maso di Roncegno I masi di Roncegno si caratterizzano per essere edifici di semplici e povera costruzione. Nella gran parte dei casi essi si configurano come gruppi di edifici raccolti attorno ad un incrocio stradale lungo un versante della montagna. Il maso è generalmente costituito su tre piani: al piano terra troviamo la parete dedicata al ricovero degli animali; al primo piano troviamo il luogo della residenza di una o più famiglie; al secondo piano, infine, troviamo le zone destinate alla conservazione dei fieno. Il maso è caratterizzato dalla presenza di balconi, logge e ballatoi di sottotetto. Numerosi sono anche i fori ampi nel sottotetto necessari per accedere direttamente al deposito del fieno. La copertura è solitamente a due falde (più raramente a quattro) e, se originariamente presentava delle coperture “a scandole”, oggi quel tipo di manto è andato scomparendo per fare spazio a lamiere o marsigliesi. Linee di gronda e bordi del tetto sono sempre semplici e lineari, privi quasi sempre della “mantovana”. Spesso i tetti sono dotati di un abbaino che taglia la linea di gronda del lato del maso a “monte” e tipologicamente rinvenibile nel tipo denominato “a cuccia di cane” al quale si poteva accedere direttamente dal terreno per


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il deposito della fienagione. Gli aggetti sono catalogabili in tre componenti: la scala esterna, sempre in legno (a parte le prime due alzate, generalmente in pietra) e con il parapetto “alla trentina”; i balconi, presenti in grande abbondanza sui lati “a valle” del maso, che spesso assolvono la funzione di “ballatoio” per servire alloggi di diverse famiglie; un ballatoio utilizzato per l’essicazione del grano nel sottotetto. La composizione della facciata è solitamente caratterizzata da un disegno molto sobrio e da un rispetto degli allineamenti verticali dei fori. Non di rado la facciata è divisa orizzontalmente dall’alternarsi del materiale costruttivo: pietra nel basamento e legno nella parte alta. Le aperture nella facciata (finestre e porte) sono caratterizzate da una grande povertà costruttiva, con l’assenza di elementi in pietra, e con cornici e serramenti costruiti in legno, generalmente in assi ad orditura orizzontale. Il futuro dei masi Attualmente il maso ha perso la sua funzione produttiva nella quasi totalità dei casi. Ma se il cambiamento del sistema economico può rappresentare anche una grande opportunità, la preoccupazione maggiore, per la salvaguardia di questo importante patrimonio insediativo, è la perdita dei tipi insediativi e della tipologia costruttiva. Pur trattandosi di strutture molto semplici e stilisticamente povere, sono altresì da considerarsi originali e la loro conservazione - almeno in quei manufatti che hanno conservato delle strutture originarie - rappresenta un passo fondamentale che le future politiche di recupero del “sistema masi” dovranno necessariamente contemplare. Per una riqualificazione del “sistema masi” di Roncegno Terme è necessaria la messa a punto di una strategia che affronti i vari aspetti di cui è composto l’insieme e basata sostanzialmente su tre livelli di intervento: - una riqualificazione urbanistica ed ambientale di tutto il sistema masi, inteso come un organi-

Riferimenti bibliografici - Autori Vari (1998), Dizionario Toponomastico Trentino, Ricerca Geografica 5, “I nomi locali dei comuni di Novaledo, Roncegno, Ronchi Valsugana, Provincia autonoma di Trento, Temi editrice - Bassetti S. (et al), (1987), Le viles nella Val Badia, Priuli & Verruca editori, Torino - Candotti G. (2007), L’istruzione scolastica in Roncegno dagli inizi ai giorni nostri (1966-1990), Roncegno Terme - Ferrari E. (et al), (1981), I centri storici del Trentino, Silvana Editoriale, Trento - Ferrari E., Moretti G., (2003), Il patrimonio edilizio del Parco Naturale Adamello Brenta, Edizione Tipoarte, Bologna

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smo unico fatto di manufatti edilizi, sentieri e strade di collegamento, spazi aperti e sistemi colturali; - l’individuazione di strategie di recupero concertate con i proprietari e legate chiaramente a ciascun singolo maso. Ogni nucleo masale, infatti, è dotato di caratteristiche proprie che devono essere conosciute e valorizzate; - l’individuazione di una modalità di intervento su ogni singolo manufatto che contempli sia il restauro conservativo sia la sostituzione edilizia. Tutti questi tre aspetti sono importanti per il mantenimento del sistema masale. Una riqualificazione, pertanto, deve saper incidere e governare sia il sistema dell’abitare sia quello infrastrutturale e sia quello relativo al sistema economico. Infine i Masi sono caratterizzati da una grande varietà di tipologie e di qualità edilizie. Ad esempio: alcuni non possono essere più considerati “masi” o perché assorbiti dal tessuto urbano di Roncegno (come nel caso di caso Cadenzi e Maso Scalvin) o perché hanno perso quelle caratteristiche che li rendevano tali (l’essere abitati stabilmente, la particolare conformazione architettonica…). Per queste ragioni è necessario che ogni maso venga riqualificato a partire dalle sue potenzialità e dalle intenzioni dei proprietari: da quella residenziale a quella agricola, da quella turistica a quella artigianale fino a quella che prevede un sereno ritorno alla “rovina”. Analogo discorso può essere fatto per le caratteristiche di ogni singolo edificio. I masi di Roncegno hanno subìto, nella gran pare dei casi, delle ristrutturazioni sostanziali che ne hanno pregiudicato l’interesse architettonico. Occorre quindi elaborare delle strategie che siano orientate ad una chiara analisi degli edifici prevedendo il restauro e la ristrutturazione edilizia solo nei casi in cui il manufatto meriti, e preveda, invece, azioni fortemente improntate alla sostituzione edilizia quando i manufatti non abbiano nessun interesse architettonico.

- Gorfer A., Faganello F. (1970), Gli eredi della solitudine, Cierre edizioni, Verona - Gorfer G. (1990), “Ricerca Storica del Paesaggio antropico del comprensorio”, studio eseguito per il Piano generale ca tutela degli insediamenti storici, Comprensorio Bassa Valsugana e Tesino, Borgo Valsugana - Grosselli R.M., Cavagna P. (2002), Un paese, Nicolodi, Trento - Moretti G. (a cura di), (2002), I masi delle valli di Peio e Rabbi, Edizione Tipoarte, Bologna


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Roncegno Terme/2 La percezione del paesaggio e le istanze di una comunità di Cristina Mattiucci

Note 1. Gli esiti più ampi di questo lavoro di ricerca condotto durante il corso di Dottorato in Environmental Engineering (specialization in Environmental Planning, Landscape Architecture and Sustainable Building) in C. Mattiucci (2010) “A kaleidoscope on ordinary landscapes. The perception of the landscape between complexity of meaning and operating reduction” European PhD Thesis.

Roncegno Terme visto da est (foto archivio SU)

L

a riflessione sulla percezione del paesaggio (1) ha accompagnato i lavori per la stesura della Nuova Variante al Piano Regolatore Generale di Roncegno Terme (2), come una modalità per decodificare - attraverso i giudizi ed i desiderata che venivano espressi dai Roncegnesi nel percepire il paesaggio – alcuni dei contenuti su cui indirizzare la trasformazione urbana e territoriale che si stava definendo. Uno dei refrain che hanno animato i numerosi incontri con la comunità locale, sia durante le riunioni con la Commissione del Consiglio Comunale che durante gli incontri allargati alla cittadinanza, era infatti domandarsi cosa quella comunità “volesse diventare da grande” ovvero quali erano i tratti del futuro che gli abitanti stavano immaginando per il proprio paese e quali fossero le istanze che quella immagine di futuro conteneva, nel momento in cui si facevano committenti di una Variante al piano urbanistico che – aldilà dei contenuti e della tempistica tecnico-politica che la rendevano opportuna – era espressione tutto sommato dell’esigenza di dare al territorio una nuova dimensione fisica, più adeguata ai cambiamenti della società locale. La riflessione sul paesaggio, dunque, ovvero l’orecchio teso verso il desiderio di paesaggio che quelle immagini di futuro stavano esprimendo, è diventata una costante trasversale alle elaborazioni dei documenti di piano, quale riflessione permanente sui contenuti e sul senso delle trasformazioni che si stavano indirizzando.

Prima di strutturare questa riflessione attraverso l’indagine sperimentale del paesaggio percepito, secondo una metodologia che nel frattempo si andava definendo, la tensione all’ascolto si è modulata su tutto quanto – molto spesso implicitamente e senza mai nominarlo – facesse parlare gli abitanti di paesaggio. Un ascolto attivo verso il paesaggio inteso aldilà delle sue caratteristiche meramente fisico-ambientali, che pure erano riconosciute dagli abitanti di Roncegno come una qualità peculiare ed una risorsa territoriale essenziale (3). Il paesaggio, così come concepito in questo lavoro, è stato esplorato nella sua accezione ampia, quale “soggetto alle dinamiche di trasformazione che si stanno compiendo nella società e, di conseguenza, nell’organizzazione dello spazio” (De Carlo 1961: 23-26) che si manifesta attraverso un materiale ordinario - come poteva essere quello del townscape di Cullen (1971) per esempio- fatto di tutti quegli elementi che concorrono alla sua definizione (edifici, elementi naturali, traffico, annunci pubblicitari…). È paesaggio diffuso (Durbiano e Robiglio 2003: 95-108) che nella sua dimensione ordinaria può inoltre essere considerato l’opera in continuo movimento di un’intera comunità, uno spazio postmoderno (Jameson 1989, Harvey 1990) dove più che altrove si esprime quella condizione en mouvance (Berque 2006) che lega la contingenza delle società locali ad un territorio, per un dato tempo ed in determinate condizioni. Nello studio della sua percezione, la ricerca ha assunto come riferimento teorico principale quel sistema di studi interdisciplinari che intendono il paesaggio come prodotto delle attività umane (Cosgrove 1984; Debarbieux 2007) e manifestazione delle società locali, nei termini in cui esso registra “l’uso che una società ha fatto del suo territorio” (Turri 1979) e concorre a esprimerne peculiarità e legami di appartenenza. Lavorare con la percezione sociale del paesaggio significa allora porre all’attenzione del planner – ed alla responsabilità delle sue scelte - un materiale vasto, di difficile diretta codificazione, che fa da contenitore di valori formali (De Carlo 1962) per una popolazione, e che per questo determina una risorsa collettiva. Una risorsa che peraltro travalica la compagine contingente e/o tradizionale delle società locali, ma che diventa il medium comune alle popolazioni che, seppur con


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origini eterogenee, popolano e vivono un dato territorio. Le società contemporanee, caratterizzate da una complessità di riferimenti culturali ed etnici, possono dunque ritrovare nel paesaggio la possibilità di riconoscere e declinare in modo costruttivo la propria identità, nei termini in cui essa può rappresentare la convergenza di valori e significati attribuiti dai vari abitanti – i vecchi, i nuovi, gli insiders, gli outsiders (4) a partire dalla comune esperienza dello stesso paesaggio, percepito nell’ottica di culture diverse. Nel caso di Roncegno questo è parso subito evidente. Anche dalla prima campagna di indagine che ha accompagnato la stesura del documento preliminare (5) è emerso come la comunità tutta potesse assumere – se opportunamente indirizzata verso questa assunzione – il paesaggio come risorsa collettiva, comune sia a chi è già radicato sul territorio (6), che riconosce nel paesaggio gli elementi che determinano un senso di appartenenza ai luoghi, sia ai nuovi abitanti, per i quali il paesaggio determina la qualità dell’abitare e quindi motiva le scelte insediative. Esso può diventare allora a giusta ragione una misura critico-progettuale con cui intervenire nella realtà in trasformazione (Vittoria in Durbiano e Robiglio 2003: 35). Il lavoro sviluppato a Roncegno, va peraltro nella stessa direzione indicata dalla Convenzione Europea del Paesaggio che introducendo la definizione del paesaggio come una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni” (7) sollecita alla sperimentazione della percezione come strumento dapprima interpretativo, quindi potenzialmente operativo, per comprendere il paesaggio ordinario contemporaneo. La riflessione operativa sul paesaggio percepito muove dunque da alcune questioni che interessano il dibattito in corso sulle politiche per il paesaggio (alcuni esempi in Clementi et al. 2002; Maciocco et al. 2008), misurandosi con l’attualità della revisione di alcuni paradigmi interpretativi (Waldheim et al. 2006) e con i rischi delle interpretazioni del paesaggio come traduzione tout court delle volizioni degli abitanti (Lanzani 2008) in elementi e temi, senza inserirle in una logica più ampia di comprensione, da un lato della complessità delle relazioni

Foto 1: il desktop di un intervistato: Roncegno Terme vista dalla Montagna

tra popolazione e luoghi, e dall’altro di quelle spinte meno locali (8) che pure contribuiscono a conformare i paesaggi. La centralità del paesaggio nei lavori per la Nuova Variante di Roncegno Terme ha inoltre un significato legato alle direttive del PUP di Trento, che riafferma il ruolo del paesaggio come fattore di sviluppo locale, sollecitandone la valorizzazione, così come quella del patrimonio culturale, tutto in relazione ai “disegni territoriali” delle comunità che lo abitano e continuamente lo rielaborano. La ricerca è stata concepita come un momento progettuale e parallelo all’elaborazione del piano urbanistico, che si relaziona, interpreta e da’ un senso alle direttive che rispetto al paesaggio erano state inserite nel PUP di recente approvazione. Nel PUP infatti, aldilà delle direttive legate ad una dimensione scalare complessa a livello provinciale, in seno alla quale è necessario misurare la realtà di Roncegno con le problematiche più ampie che riguardano la trasformazione del territorio, si suggerisce esplicitamente la sperimentazione di metodologie di comprensione del paesaggio. Facendo riferimento in particolare alla Carta del Paesaggio, a Roncegno si è lavorato ad una scala più minuta, realizzando – attraverso la metodologia proposta - una specificazione di contenuti degli orientamenti definiti a scala provinciale e testando uno strumento di riferimento, che possa essere utile anche per le altre realtà territoriali che si doteranno di strumenti urbanistici sussidiari. La ricerca va infatti inclusa in un dibattito disci-

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2. La redazione delle Linee di indirizzo e la formulazione di un quadro progettuale in funzione della Nuova Variante al PRG del Comune di Roncegno Terme sono state redatte da un Gruppo di lavoro del Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale dell'Università degli studi di Trento, coordinato dal prof. arch. Corrado Diamantini. 3. Come si evince delle “Linee di Indirizzo” (giugno 2008) ciò che attrae oggi di Roncegno - e quest ovale per chi ci abita da una vita o anche solo da qualche anno - è la dotazione ambientale e paesistica che compensa l’assenza dei vantaggi della vita urbana


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4. Queste categorie, che fanno riferimento anche a più note letture sociali del paesaggio (Cosgrove 1984), si ritrovano sempre più spesso – date le condizioni di mobilità, spostamento ed abitare contemporanei - a rappresentare contemporaneamente lo stesso abitante, insider per i luoghi d’origine, che guarda da outsider i luoghi lontani che pur quotidianamente frequenta e può maturare in tempi brevi lo status di vecchio/nuovo abitante per i posti ove si trasferisce. 5. Si vedano in particolare le indagini sociali nelle Linee di Indirizzo (Diamantini 2010) 6. Come si evince dall’analisti sociale contenuta nel documento “Linee di Indirizzo” per la Nuova Variante al PRG di Roncegno Terme, aldilà della specificità dei flussi migratori in termini di origine e ritorni, stando ai dati forniti al 2007, i nuovi abitanti costituiscono il 49,2% della popolazione (1344 su 2732).

Foto 2: i materiali raccolti durante il lavoro sul campo Foto 3: una scheda del caleidoscopio dei paesaggi percepiti a Roncegno Terme

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plinare ed operativo, che aspira – tra gli altri propositi - a collaudare nuovi strumenti conoscitivi e di interpretazione del territorio, integrando quelli che a scala provinciale rimandano a generiche “unità di paesaggio percettivo”, con particolare riferimento al paesaggio contemporaneo che “proprio nel suo continuo cambiamento impone nuovi strumenti di lettura e di gestione” (9) per essere indagato anche attraverso gli sguardi delle società locali. Per la comprensione del paesaggio percepito, a Roncegno è stata applicata una procedura d’inchiesta secondo una modalità analitico/ esplorativo di tipo qualitativo. Coinvolgendo 40 partecipanti, selezionati in modo random secondo le percentuali di distribuzione territoriale nelle aree in cui si concentra la popolazione di Roncegno (Centro, Masi e Marter) e mantenendo nella selezione anche una adeguata proporzione tra vecchi e nuovi abitanti, sono state eseguite con ciascuno interviste e photowalks (10) per discutere dapprima, e quindi andare fisicamente a vedere i luoghi di cui si era discusso, fotografandoli. La traccia per realizzare le interviste, sia nella prima fase in cui si configurano come interviste semi-strutturate, che nella fase “in situ” dove sono piuttosto interviste open-end che accompagnano le photowalks, si basa su alcuni assunti teorici e sulla definizione di tre paradigmi interpretativi per esplorare il paesaggio percepito. Sono state assunte a riferimento quelle teorie che affermano come la percezione dei luoghi abbia una dimensione complessa che contiene quella fisico/naturale, simbolico/culturale, psicologico/personale e intersoggettiva/ collettiva (Backhaus et al. 2008) e sia data da tre elementi costitutivi: le componenti fisiche, le attribuzioni di senso individuali e le attività che vi si praticano (Canter 1977). I luoghi, i paesaggi, sono percepiti attraverso azioni che appartengono allo “stare nei luoghi”. È qui infatti che si realizza quella interazione società-territorio che diventa condizione preliminare alla percezione del

paesaggio. Essa non esiste senza l’esperienza (11). Si è trattato allora di riconoscere quali sono le esperienze a cui ricondurre le possibilità di percepire paesaggi. L’esperienza infatti, seppur nella sua genericità, si presta a molte specificazioni ed include almeno quella personale (che appartiene alle esperienze quotidiane), quella collettiva (mediata anche dalla costrizione a guardarsi che l’indagine sollecita) e infine quella elaborata e riflettuta (esperienza per certi versi a-temporale che contiene la summa dell’esperienze di paesaggio vissute, tra memoria e sublimazione) (12). A ciascuna di esse può corrispondere un tipo di paesaggio, che viene percepito proprio per i temi che connotano ciascun tipo di esperienza: pratica quotidiana, adozione dello stereotipo e memoria/desiderio. Ciascun tema permette la definizione di una sorta di paesaggio archetipico, che si può definire come paradigma interpretativo per scindere il paesaggio percepito in tre componenti, di cui si possono riconoscere – secondo la procedura di indagine proposta nella ricerca – gli elementi peculiari, che risultano comprensibili proprio per mezzo dell’esplorazione parallela che essi consentono. Il paesaggio ordinario viene così percepito in funzione dell’esperienza che si realizza in questi tre layers: il paesaggio quotidiano, il paesaggio rappresentativo e l’innerscape. Per ciascuno, è stata preparata una specifica traccia dell’intervista. I meccanismi stabiliti per comprendere il passaggio quotidiano attivano la descrizione dei


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luoghi comuni, dove la gente vive. Per il paesaggio rappresentativo si esplorano le immagini più stereotipate (quelle che compongono una sorta di "cartolina") al fine di indagarne il significati, attraverso le esperienze collettive o individuali che le hanno prodotte. L’innerscape viene letto per mezzo dell’evocazione di luoghi che hanno suscitato particolari sensazioni, attraverso una memoria o piuttosto un’immagine, al fine di verificare se esistono poi nel paesaggio ordinario e reale analogie o mancanze che andranno interpretate in una prospettiva progettuale. Il riferimento continuo ai supporti digitali su cui sono registrati i paesaggi, come fotografie, telefonini, desktop del computer, sia come supporto della memoria del paesaggio, che come occasione di conoscenza di altri paesaggi, che addirittura come elaborazione del punto di vista per comprendere il paesaggio (“la visione più rappresentativa di Roncegno è da Google Earth” (13)), fa emergere la necessità di aggiornare alcuni paradigmi di espressione e di comprensione della relazione tra società e territorio, laddove la relazione fisica o la prossimità non sono più un requisito necessario all’appartenenza. Il lavoro ha prodotto un materiale vasto, ordinato per successive semplificazioni e mediante un software (14) per identificare le mappe dei luoghi che compongono il paesaggio percepito. Il materiale raccolto è costituito da circa 2300 minuti di audio registrato, una 30ina di schizzi e circa 500 fotografie. Prima delle elaborazioni

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sintetiche è stato necessario esercitare una problematica e tematica riduzione, mediante approcci qualitativi - come la discourse analisys - che avessero come obiettivo la connessione dei dati raccolti sul campo, riconoscendo “famiglie” di paesaggi percepiti, attraverso “le cose in comune” e registrando anche le possibili differenze e ridondanze. La percezione può rischiare infatti di divenire uno strumento di restituzione banale del paesaggio (15), laddove ci si spingesse ad omologare forzatamente le molteplicità che rivela in una mimesi impossibile. Partendo allora dalla ricchezza di materiali che invece concorre a collezionare, a partire dagli sguardi situati che li rivelano, accomunati dall’esperienza del paesaggio, è stato proposto un dispositivo che consenta letture trasversali e tematiche: il caleidoscopio. Il caleidoscopio è un dispositivo che può tradurre il paesaggio percepito in varie forme, ma assume una specificità procedurale, reiterabile, per il meccanismo di restituzione che attiva. A partire dalla combinazione dagli elementi che connotano i tre layers (il paesaggio quotidiano, il paesaggio rappresentativo e l’innerscape) si è proceduto così ad una “combinazione di visioni” che sintetizzi per tipologie di sguardi i paesaggi percepiti. La letture dei tre paesaggi sono state intrecciate per restituire una narrazione in forma di entrelacement che non disperdesse attraverso

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8. Politiche che non riguardano il paesaggio in se’ per esempio, ma anche scelte economiche con ricadute ambientali e sociali, formazioni di reti che mettono in crisi scontate reciprocità tra persone e luoghi, azioni che superano le loro frontiere territoriali di influenza (Zanini 2000: 24-27 in particolare). 9. Estratto dalla relazione del PUP 10. Per una completa descrizione della metodologia si rimanda a Mattiucci (2010) A kaleidoscope on ordinary landscapes. The perception of the landscape between complexity of meaning and operating reduction. Trento DICA - Università degli Studi di Trento. 11. Si assume qui the experiential landscape perception paradigm identificato da Zube et al (1982). Foto 4: Roncegno nelle Ortofoto 2001 Foto 5: mappa del paesaggio rappresentativo (elaborata con MME)


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Foto 6: mappa dell’Innerscape (elaborata con MME)

12. Secondo Muir (1999) il senso dei luoghi si produce attraverso due principali situazioni: o in quei paesaggi che sono molto caratterizzati, visibilmente riconoscibili e dotati di una immagine forte, oppure in quei luoghi riconosciuti per un attaccamento emozionale maturate dagli individui e dalle comunità. A queste due condizioni private e pubbliche si aggiunge qui quella interiore, che contempla esperienze in una loro più complessa dinamica di appartenere a tutti i luoghi vissuti e/o visti e/o esplorati in altre situazioni, che influenzano la percezione di quelli che viviamo in un dato momento. 13. Citazioni testuali di un intervistato.

classificazioni forzate la molteplicità di immagini emerse dalla ricerca. Attraverso il caleidoscopio si intende proporre una visualizzazione in grado di esplicitare dinamiche ricorrenti, per verificare – se esistono nella molteplicità delle percezioni - significati comuni, aldilà degli elementi fisici. Questa restituzione deriva da un’interpretazione dei dati raccolti sul campo, condotta secondo una logica rizomatica, attraverso la ricerca delle connessioni culturali, multiple e non gerarchiche, che il paesaggio percepito può attivare. Come se il dato materiale percepito fosse esso stesso l’esternalità di connessioni più profonde, che sostanziano di per se’ l’analogia con la nota figura resa metafora da Deleuze e Guattari (1980). Attraverso il caleidoscopio si possono provare a comporre gli sguardi - medium dei paesaggi percepiti - nella loro pluralità, come manifestazioni di una modalità quotidiana di vivere il territorio, che si rivela con tutte le sue discontinuità e le sue rotture, e che quindi diventa materiale fertile nelle mani di chi opera nel paesaggio, per sollecitare una responsabilità intergenerazionale, inter-territoriale (Lanzani 2008: 115) e anche interdisciplinare nell’operare nel/sul/con il paesaggio. Il tema della pluralità degli sguardi situati che il caleidoscopio si propone di restituire va allora compreso come un modo per provare a comprenderli – non fosse altro che nell’esplicitarli esplorando le prospettive di azioni che ne derivano. A Roncegno, il caleidoscopio dei paesaggi percepiti è composto da 14 schede in cui le tipologie di sguardi contengono sia la descrizione dei pae-

saggi che presentano, che i temi progettuali che suggeriscono. Essi infatti non solo interpretano il paesaggio, ma sono strumentali alla costruzione del consenso intorno alle sue trasformazioni, realizzando quella relazione ciclica che esiste tra il modo in cui il paesaggio è percepito e rappresentato ed i comportamenti e le decisioni che determinano e supportano le trasformazioni territoriali (Rimbert 1973). L’uso quotidiano del paesaggio di Roncegno ha rivelato un sistema di spazi prevalentemente di servizio che sono interconnessi dalle relazioni d’uso che danno loro senso e li rendono appunto paesaggi, come gli spazi riconosciuti e potenzialmente riconoscibili non solo per la loro conformazione, ma soprattutto per la possibilità di essere condivisi con il resto della comunità la cui presenza è spesso essa stessa fattore di riconoscimento. In questo senso, ciò che costituisce paesaggi sono i parchi e i giardini, i negozi, le strade, la montagna come spazio dell’abitare e spazio del lavoro. Il paesaggio rappresentativo emerso dalle percezioni degli abitanti è un sistema di spazi, talvolta coincidenti con quelli quotidiani di cui ciascuno è consapevole in modo abbastanza singolare, per le visioni più o meno stereotipate che rivela, in modo spesso inversamente proporzionale al fatto di essere radicato nel paese. La rappresentatività, per esempio, deriva dal modo in cui il paesaggio di Roncegno permette di leggere le relazioni insediative sui Masi e sul conoide di Marter e le rende distintive nel panorama della Valsugana. Aldilà della conformazione, questo è un dato che risulta molto significativo ai fini della ricerca, perché è proprio in


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quelle pratiche insediative che si può leggere una traccia dell’identità in costruzione, da parte di una società che si esprime - nel paesaggio - anche aggiornando e mutando quelle scelte insediative stesse. Quelli che sono indicati come simboli e landmarks locali, peculiari per Roncegno, come le terme o il Monte Fravort o le ville, si inseriscono negli attraversamenti quotidiani determinando un patrimonio diffuso piuttosto che eccellenze o oggetti monumentali. Il Monte Fravort si riconosce per il fatto che esiste il paese “ai suoi piedi”, così come le ville che si vedono proprio perché inserite nei percorsi usuali. L’innerscape mostra come l’esperienza del paesaggio, e dunque I meccanismi per sviluppare un immaginario che ne influenza la percezione, è più ampia dei confini del paesaggio fisicamente vissuto. Tranne che per alcuni luoghi evocati per il loro valore contemplativo, esso è composto di paesaggi ove si è transitato o vissuto, rendendo per analogia materializzabili quelle sensazioni positive che gli abitanti aspirano a trovare nel paesaggio ordinario. Anche se consideriamo l’eccezionalità di quelle esperienze (viaggi, soggiorni brevi e passati) essi sono sempre descritti paragonandoli ai luoghi del quotidiano, confermando peraltro l’ipotesi che il paradigma aiuta a riflettere su come trasformare questi luoghi stessi. Gli sguardi nel caleidoscopio, che muovono dalla combinazione riflettuta dall’esperto dei tre layers, esprimono la complessa relazione tra popolazioni e territorio. In alcuni casi, poi, essi hanno determinato in modo diretto i temi progettuali, che possono risultare effettivamente sostenibili perché condivisi da una parte significativa di abitanti. Quelli che vedono il paesaggio come “un dato di fatto”, “casa mia” o “inesistente se non altrove” condividono una visione indifferente al paesaggio nelle sue dimensioni fisiche e ordinarie. Questi sguardi non sono indifferenti alla questione in Riferimenti bibliografici Backhaus, N., C. Reichler, et al. (2008). "Conceptualizing Landscape: An Evidencebased Model with Political Implications." 28 (2): 132-139. Berque, A., P. Aubry, et al. (2006). Mouvance 2 : Du jardin au territoire Soixante-dix mots pour le paysage. Paris, La Villette. Canter, D. (1977). The Psychology of Place. London, The Architectural Press. Clementi, A. (2002). Interpretazioni di paesaggio. Roma, Meltemi Editore Srl. Cosgrove, D. E. (1984). Social formation and symbolic landscape. London, Croom Helm. Cullen G. (1971) Townscape. London, The Architectural Pess. Debarbieux, B. (2007). "Actualité politique du paysage." Journal of alpine research(954): 101-114. De Carlo, G. (1961). "I piani paesistici e il codice dell'urbanistica." Urbanistica 33: 2326.

sé, ma ad una sua interpretazione collettiva, e rendono necessarie azioni di sensibilizzazione e coinvolgimento, al fine di generare attraverso le proposte di trasformazione del paesaggio, un riconoscimento e quindi un contributo alla sua salvaguardia. È stato poi possibile identificare un’altra tipologia di sguardi, di coloro che riconoscono i valori del paesaggio che passano per una valutazione visuale ed estetica. Coloro che vedono il paesaggio come “bellezza”, “rifugio nella memoria”, “contemplazione” e “natura nei suoi landmarks” reclamano l’attenzione del piano per un sistema di luoghi e valori che qualificano di conseguenza anche il contesto più ampio ove si collocano. Esistono infine sguardi “intermedi”, normali. Essi percepiscono il paesaggio come “le persone”, “gli spazi aperti”, “l’attraversare”, “la sovrapposizione”, “le montagne”, “l’incontro”. Questi sguardi possono rivelarsi davvero preziosi perché sono quelli che rivelano la realtà dell’ordinario anche in base alle pratiche d’uso, che reclamano una attenzione strutturale e costante per rendere gli spazi pubblici vissuti e più in generale trasformare lo sfondo della vita quotidiana attraverso una sistema di progetti diffusi. Così come concepita ed elaborata a Roncegno, l’indagine sulla percezione dei paesaggi ordinari può dunque effettivamente sostanziare lo step successivo alla formulazione del quadro di interventi progettuali che la Nuova Variante ha prefigurato. Essa infatti suggerisce i temi progettuali per la trasformazione del paesaggio e li rende sostenibili, perché individua le vocazioni del territorio – aldilà delle analisi e delle letture di settore attraverso lo sguardo degli abitanti, in una dimensione partecipativa che però necessita sempre di un ruolo costante e attivo - ed interattivo (Healey 1997) del progettista/ pianificatore/esperto.

Diamantini, C. et al. (2008). Nuova Variante al Piano Regolatore Generale del Comune di Roncegno Terme.Linee di indirizzo. Trento DICA - Università degli Studi di Trento. Deleuze, G. and F. Guattari (2003). Millepiani. Roma, Castelvecchi. Durbiano, G. and M. Robiglio (2003). Paesaggio e architettura nell'Italia contemporanea. Roma, Donzelli Editore. Jameson, F. and S. Velotti (1989). Il postmoderno, o, la logica culturale del tardo capitalismo, Garzanti. Jones, M. (2007). "The European Landscape Convention and the question of public participation." LandascapeResearch32(5): 613633. Lanzani, A. (2008). Politiche del paesaggio. Paesaggi Culturali - Cultural Landscapes. R. Salerno and C.Casonato. Roma, Gangemi. Healey, P. (1997). Collaborative Planning, Shaping Places in Fragmented Societies, Palgrave Publishers Ltd.

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14. Una parte della ricerca, nella fase di elaborazione dei dati è stata svolta presso la Corvinus University di Budapest, nel gruppo coordinato dal prof. L. Leteney che si occupa di mental mapping e utilizzando il software MentalMapEditor (MME) 15. Il rischio è al centro del dibattito più recente sul paesaggio, in cui le modalità partecipative – e quindi anche quelle che riguardano l’interazione esperto-locale come proposte in questa procedura – assumono una centralità che mette in secondo piano le responsabilità di chi opera nel paesaggio, senza compiere scelte, ma giustificandole negli indirizzi degli abitanti. Si vedano su questi temi, per esempio, l’intervento di A. Lanzani al convegno “Cultural landscape” (Milano 2008) , le riflessioni sulla partecipazione di P. Savoldi (2006) o le questioni poste da M. Jones

Letenyei, L. and B. Borbély (2007). Mental Map Editor 1.0 BETA version. Budapest, TeTT Consult. Maciocco G., Ed (2008) Urban and Landscape Perspectives. Berlin Heidelberg, Springer Verlag. Mattiucci C. (2010) A kaleidoscope on ordinary landscapes. The perception of the landscape between complexity of meaning and operating reduction. Trento DICA - Università degli Studi di Trento. Rimbert, S. (1973). "Approches des paysages " L'Espace géographique3: 233-241. Savoldi, P. (2006). Giochi di partecipazione. Forme territoriali di azione collettiva. Milano, Franco Angeli. Scaglia, A. (1988). Comunità e strategie di sviluppo. Roncegno Valsugana tra identità e calcolo razionale, F.Angeli, Milano. Turri, E. (1979). Semiologia del paesaggio italiano. Milano, Longanesi. Waldheim, C., Ed. (2006). The landscape urbanism reader. New York, Princeton


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Progetti, Pianificazione, Partecipazione. Possibile? Un racconto dal sito El Tajín, Messico di Elena Ianni

E

l Tajín è un sito archeologico bellissimo. Una città pre-ispanica circondata da foresta, quel che resta di una esuberante selva tropicale. Nel 1910 i pascoli occupavano nella zona il 3.3% della superficie agricola disponibile, alla fine del secolo scorso ne occupavano il 72.7% (Chenaut, 1995). Il sito El Tajín è un’area protetta, dichiarato dall’UNESCO patrimonio mondiale dell’umanità. L’area protetta ricopre 1221 ettari e al suo interno vive una popolazione di circa 3000 persone. Ogni anno El Tajín riceve un gran numero di turisti, quasi settecentomila. Quanto a visite turistiche, a livello nazionale El Tajín è secondo solamente al sito archeologico di Città del Messico, l’imponente Teotihuacan. La popolazione che vive all’interno dell’area protetta è di origini indigene totonaca. Le strade del governo e delle comunità si incrociano nel 1939 quando il sito de El Tajín viene definito area archeologica protetta e l’INAH, Istituto nazionale di antropologia e storia, assume la gestione del sito. Il governo acquisisce le terre prossime al nucleo del sito archeologico, dove vivono molte persone, con le loro case e i loro appezzamenti. Compra loro la terra (ad un prezzo “simbolico”) e gli abitanti si aggregano in comunità allontanandosi dalla parte centrale del sito. In quegli anni la copertura forestale è già di

molto diminuita; l’attività predominante nella zona è diventata l’allevamento, tradizionalmente non praticato dalle comunità totonaca e il paesaggio nel quale il sito è immerso è formato prevalentemente da pascoli. El Tajín non è fatto oggetto di particolari attenzioni fino al 1999 quando il sito archeologico si impone all’interesse dell’allora presidente Miguel Aleman che propone un “visionario” progetto di sviluppo: hotel cinque stelle, un’autostrada, e un campo da golf in mezzo alle piramidi. Nel frattempo, dato che l’allevamento non è più redditizio, i pascoli sono stati abbandonati e sono diventati foreste secondarie che stanno ricolonizzando l’area. Nasce così contemporaneamente nel governo l’idea di una compensazione: creare un’area naturale protetta intorno al sito. Il progetto “di sviluppo integrale” per l’area, pronto per l’approvazione, viene bloccato da una sollevazione delle comunità indigene residenti, e dal buon senso. Il rapporto tra INAH e le comunità vicine al sito non è mai stato morbido. Terreno di scontro in particolare sono le lungaggini dei procedimenti di verifica archeologica obbligatoria per gli interventi strutturali agli edifici nelle comunità all’interno dell’area protetta. Il consiglio di archeologia messicano ha di recente approvato il piano di gestione e un progetto di “reordenamiento territorial”, letteral-

mente - riordino del territorio, dell’intera area, la cosiddetta “poligonal” per la forma del perimetro dell’area. Le basi teoriche di questo progetto, un classico mix di buoni propositi, si rifanno a quelle seducenti parole che sono partecipazione, progetto integrato, multidisciplinare, paesaggio culturale, e altre. Le solite buone cose, non mi dilungo. L’INAH quindi decide di fare delle riunioni nelle comunità che rientrano nel perimetro dell’area protetta per presentare loro il progetto di reordenamiento territorial. Nelle riunioni, il messaggio che i ricercatori credono di comunicare alle comunità è: “Non ha senso proteggere l’area archeologica senza salvaguardare le vostre comunità e la vostra cultura che sono la parte viva di questo sito. Il progetto di pianificazione vuole migliorare la gestione del sito cercando di riconciliare gli interessi divergenti affinché tutti possano aumentare il proprio benessere. Per questo vi chiediamo il permesso di entrare nelle vostre comunità a fare rilievi e ricerche”. La prima riunione con i ricercatori, nella comunità di san Lorenzo, termina con un: “grazie, siamo contenti che siate venuti qui nella nostra comunità. Speriamo veniate presto a fare le vostre ricerche”. La seconda, a Nuevo Ojital, si conclude con: “siamo contenti che abbiate cambiato attitudine, non ci avete dato il permesso di costruire la scuola, ma siamo contenti che adesso siete cosi disponibili”. La terza, San Antonio Ojital, si conclude con un: “fate quello che volete, ma basta chiedere permessi per costruire”. La quarta riunione è decisamente interessante. Ha luogo nella Congregación Tajín: arrivano quasi 200 persone, un numero, per essere una riunione di comunità, da grandi occasioni. La gente arrivando alla riunione, si saluta con: “anche tu qui?” “Sì, son venuta a vedere che lotto ci tocca”. Il messaggio che si è diffuso nella Congregacion Tajín dalle riunioni tenutesi nelle altre tre comunità è stato infatti: “l’INAH ha deciso che tutti noi dobbiamo essere risistemati fuori dai confini della poligonal; non vogliono che nessuno viva più qui, quindi assegneranno a tutti un nuovo terreno”. Come prevedibile, la riunione finisce nella confusione


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e nelle urla; i ricercatori se ne vanno abbastanza soddisfatti ritenendo che comunque è un bene che si sia aperto un dialogo. I ricercatori classificano come “pettegolezzi” la paura infondata della gente e come “problema di mancata comunicazione della corretta informazione” il telefono senza fili intercorso tra le comunità. I giorni successivi alla riunione nella Congregación Tajín, le voci dell’imminente esproprio si fanno più insistenti e le comunità cominciano a organizzare la resistenza. La domenica successiva, due topografi si presentano a San Lorenzo per fare i rilievi. Non riescono nemmeno a entrare alla comunità poiché si trovano davanti i proprietari terrieri che dicono: “a costo della vita, difenderò la mia terra”. I topografi e il loro inutilizzato teodolite si ritirano. Ad oggi, lavorano dal loro ufficio delimitando i lotti attraverso le immagini di Google Earth. La storia è ovviamente infinitamente più complessa di come la sto raccontando, ma per semplicità si può assumere sia cosi. La risposta alla domanda: perché sta succedendo questo? non è ovviamente univoca né tantomeno semplice. La vulnerabilità delle comunità indigene, i rapporti con le agenzie di governo, la particolare storia locale sono tutti fattori che devono essere descritti nel loro complesso per capire i processi in atto. In questo breve articolo mi soffermo solo su due punti che mi sembra interessante sottolineare come contributo alle pratiche di pianificazione e partecipazione. La prima osservazione riguarda il linguaggio. Il termine re-ordenamiento territorial è formato dalle parole ordine e territorio. Ordine (sensu occidentale) non è un concetto “interno” a una comunità povera indigena. Territorio, a orecchi digiuni di urbanistica, suona come proprietà privata. Il “riordino del territorio” viene quindi interpretato come il risultato della somma degli addendi, ovvero: “un estraneo vuole cercare di mettere ordine nella mia proprietà privata e quindi vuole che io me ne vada”. Il linguaggio è uno degli aspetti della comunicazione che Borrini -Feyerabend et al. (2004) affrontano nella revisione di molte esperienze di co-gestione e di partecipazione (declinata in varie sfumature) condotte da IUCN. Gli autori ribadiscono come nelle iniziative di sviluppo e di conserva-

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zione, la strategia di comunicazione raramente riceve l’attenzione che meriterebbe. Le istituzioni esterne (agenzie governative, enti di ricerca...) coltivano l’illusione che meccanismi locali assicurino una perfetta comunicazione sociale. Fa invece parte della responsabilità delle istituzioni non confinare l’informazione agli individui che ricoprono ruoli di potere e godono di privilegi locali. L’abitudine a relazionarsi solamente con un elite può far si che una “agenzia di sviluppo” (senso lato) sia cieca rispetto a ciò che sta realmente accadendo. La seconda osservazione riguarda il contenuto della conversazione. Il messaggio partito dalla testa dei ricercatori è arrivato in maniera del tutto distorta alle comunità ed è riuscito a penetrare nel tessuto sociale rapidamente e profondamente. Questa successione di eventi deriva indubbiamente da radici profonde: le comunità sanno che, prima o dopo, un progetto di “sviluppo” simile a quello del 1999 da parte del governo verrà messo sul tavolo. Quindi, in mancanza di un messaggio alternativo chiaro, le riunioni “partecipative” vengono interpretate come una strategia subdola per fiaccare la combattività delle comunità e lasciarle impreparate e arrendevoli al “vero” progetto che verrà proposto.

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I ricercatori sono poco avvezzi alla profonda auto-critica. In questo caso però, sembra essere necessaria. E’ innegabile che la distorsione del messaggio sia causata anche dalla distonia del messaggio all’interno dell’équipe di ricercatori. I “ricercatori multidisciplinari” non sono riusciti a formulare un discorso univoco, chiaro e comprensibile. La multi/interdisciplina è un esercizio faticoso, che richiede una continua rifinitura a livello di gruppo per ottenere la reale integrazione delle competenze. Se le dinamiche all’interno del gruppo non sono chiare, all’esterno le conseguenze saranno facilmente visibili. Sembra che la parte più difficile dell’arte della multidisciplina sia adeguarsi a ciò che questa implica: la perdita di potere individuale e della propria disciplina, a favore del gruppo e del fine ultimo del lavoro. Anche se in superficie può sembrare una inutile perdita di tempo, il lavoro preliminare di costruzione e formazione del gruppo di lavoro può rappresentare una chiave di volta. I ricercatori per primi devono condividere la propria visione del sistema (Delgado et al., 2009) per arrivare alla costruzione della sintesi. Solo allora, sarà il momento di presentarsi alla comunità. Hasta la proxima.

Riferimenti bibliografici Borrini-Feyerabend, G., M. Pimbert, M. T. Farvar, A. Kothari and Y. Renard (2004) Sharing Power. Learning by doing in co-management of natural resources throughout the world, IIED and IUCN/ CEESP/ CMWG, Cenesta, Tehran. Chenaut V. 1995. Aquellos que vuelan. Los totonacos en el siglo XIX. Historia de los pueblos indígenas de México. INI Delgado LE, Marín VH, Bachmann PL, Torres-Gomez M (2009) Conceptual models for ecosystem management through the participation of local social actors: the Río Cruces wetland conflict. Ecology and Society 14(1): 50. [online]: http://www.ecologyandsociety.org/vol14/ iss1/art50/


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«Metroland» e «Val»: alcune considerazioni critiche di Vanni Ceola

Vanni Ceola, avvocato, è stato Presidente di Atesina S.p.A dal maggio 2000 al novembre 2002 e di Trentino Trasporti fino al maggio 2010. Questo testo contiene la relazione tenuta da Ceola al seminario promosso dai Verdi di Rovereto, Riva ed Arco il 26 giugno 2010

Dalle visioni di Oss Mazzurana al Piano urbanistico provinciale di Giuseppe Samonà a Metroland Non possiamo nasconderci che il progetto Metroland, ovvero l’idea di dotare il territorio provinciale di una rete metropolitana che colleghi centro e periferie, e il progetto di costruire nel capoluogo un sistema Val (l’acronimo sta per Veicolo automatico leggero) siano di per sé dei progetti affascinanti. Il Presidente della Provincia afferma in sostanza: abbiamo speso miliardi di euro per dotare la Provincia di Trento di una rete di strade efficienti; ora dobbiamo pensare ad una rete ferroviaria altrettanto efficace, che consenta di collegare tra loro tutte le località del Trentino. Di primo acchito si tratta di un progetto ecologicamente compatibile, di una svolta nella politica della mobilità, di un progetto democratico perché consente a tutti gli abitanti della provincia di essere quasi sullo stesso piano, di muoversi a costi contenuti. Nello stesso tempo consente una conversione da una mobilità privata ad una mobilità collettiva. Fatta questa premessa vorrei andare a ricercare nella storia le origini di questo progetto. Era un’epoca di profonda crisi economica quella di fine ‘800 quando amministratori lungimiranti pensarono e progettarono un’infrastrutturazione ferroviaria del Trentino. Una rete di tranvie che raggiungeva tutte le valli, che riduceva di 5 volte i tempi di percorrenza. Sembrava una follia, prevedeva costi apparentemente insostenibili, ma in qualche decennio la ferrovia della Valsugana, la Trento-Malè, la Dermulo-Mendola, la Mori -Arco-Riva, la Ora-Predazzo vennero realizzate e divennero ben presto un volano di iniziative e fonte di ricchezza per i territori che raggiungevano. Il progetto, approvato dal Consiglio comunale di Trento era più vasto e organico, interessava le Giudicarie verso Brescia, prevedeva il collegamento della Rendena con le Valli del Noce, andava ad interagire con le ferrovie del Sudtirolo e del Bellunese. Poi ci fu l’avvento dell’automobile, della mobilità individuale, delle strade e delle autostrade, del modello economico italiano tutto proteso alla motorizzazione privata. Della «macchina» come status symbol. I risultati li vediamo oggi: abbiamo un sistema ferroviario inefficiente (era fino agli anni ’60 il più sviluppato e moderno in Europa), lento, sporco, dove i passeggeri viaggiano in condizioni intollerabili (salvo i pochi privilegiati delle frecce rosse e d’argento) e nello stesso tempo abbiamo un sistema di trasporto

individuale vicino alla paralisi. Le grandi città nelle ore di punta non sono raggiungibili. I tempi di percorrenza delle nostre strade sono diventati intollerabili. Ogni mattina serpentoni di macchine ferme cercano, lentamente, di entrare nelle nostre città. In parte anche da noi, in Trentino, è stato così: le ferrovie locali sono state una a una smantellate. Nel 1963, per ultima, è stata chiusa la OraPredazzo. In controtendenza, una scelta coraggiosa, ha rilanciato la Trento- Malè, che oggi trasporta oltre 2,5 milioni di passeggeri all’anno, che viene visitata da esperti di tutta Europa, che è stata ed è un modello per molte esperienze ferroviarie, non ultima quella della rinnovata ferrovia della Val Venosta, che dalla Trento-Malè ha importato tecnologia ed esperienze. La Provincia ha investito molto sulla ferrovia della Valsugana, ma finché questa non potrà diventare provinciale, finché non si faranno investimenti sulle rettifiche del percorso e sulla sua elettrificazione, rimarrà una ferrovia incompiuta. Dobbiamo riflettere sul Pup del 1968 di Samonà, che ha dettato le prospettive del futuro urbanistico, ma soprattutto sociale del Trentino. Le scelte erano chiare e su queste si sono mosse le comunità: si sarebbe potuto decidere di creare il paradiso terrestre, boschi, prati, laghi e fiori a servizio dei turisti. Ma poco a poco non avremmo trovato più nessuno che avrebbe avuto voglia di curare il giardino; sarebbero tutti scesi in città a cercare lavoro e fortuna nelle fabbriche, come comunque in qualche modo è avvenuto. Avremmo avuto la seconda grande ondata di emigrazione, dopo quella epocale iniziata nella seconda metà del 1800. Si scelse invece e giustamente di creare le condizioni, per gli abitanti delle valli, di poter rimanere nei loro paesi, di trovare lì i servizi necessari per poter vivere, di conservare il loro territorio, lavorandolo e così salvaguardandolo. Si sono sviluppati gli ospedali periferici, le scuole in ogni valle, le zone artigianali. E questo ha permesso alle comunità di svilupparsi e di crescere; di avere pari dignità rispetto alle città; di avere pari occasioni. O quasi. Questa politica ha in parte contribuito ad interrompere il fenomeno dello spopolamento delle valli. I costi Un ragionamento va fatto sui costi. Chissà perché, ogniqualvolta si parla di ferrovie, di traspor-


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to pubblico, gli “economisti” cominciano ad affermare che le ferrovie non si possono fare, perché costano troppo, sia sotto il profilo della realizzazione, che della gestione. E cominciano a parlare di ammortamenti dell’investimento, di numero di persone impiegate nel servizio. Avete mai visto un economista che parli di ammortamenti di una strada, di costi di manutenzione di una strada? (quasi che il servizio strade della Pat, per citare uno degli elementi di costo, fosse gratuito). La Provincia in questi anni, dopo aver ricevuto le competenze che erano dell’Anas ha costruito una rete invidiabile di strade e la gestisce in modo efficiente. Costruire una ferrovia costa meno di costruire una strada. E quando parliamo di costi dobbiamo considerare tutti i costi: gli economisti tengono conto di quanto costa l’inquinamento delle vetture sulle strade? Dei costi per i cittadini per acquistare le automobili, dei costi per i combustibili, per le riparazioni,…e poi, qualcuno considera i costi per le migliaia di incidenti, per curare i feriti, per assistere gli invalidi, per consolare i parenti delle vittime, i costi che la società e le famiglie si sono accollati per l’istruzione e la professionalità delle persone che hanno subito un incidente? Questi non sono costi? E allora il progetto Metroland, il progetto Val o un altro progetto alternativo a questi è comunque interessante ed affascinante. La Provincia di Trento, prima in Italia assieme a quella di Bolzano decide di investire meno sulle strade e di investire di più sulla mobilità collettiva. Era ora. Si tratta però di capire come. Metroland Stiamo parlando di un qualcosa che non è neppure un progetto di massima, solo quattro righe tracciate su una cartina senza alcun ragionamento di fondo: e in particolare del come si leghi alla filosofia del Pup originario e a quello del 1988, quello pensato da Walter Micheli del “dopo Stava” (La catastrofe della Val di Stava che si verificò il 19 luglio 1985 quando i bacini di decantazione della miniera di Prestavel ruppero gli argini scaricando 160.000 mc di fango sull'abitato di Stava, piccola frazione del comune di Tesero, provocando la morte di 268 persone) per intenderci, sul quale i Verdi hanno avuto un ruolo importante, e all’ultimo recente del 2008. Qual è l’idea della mobilità del Trentino sottesa a questo progetto; e non solo della mobilità, ma anche e soprattutto del futuro

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economico e sociale di coloro che vivono nelle valli del Trentino. Perché, quando ascolti le necessità che ti prospettano amministratori e abitanti delle valli, le comunità che vivono ogni giorno nelle valli, quello che chiedono è sempre e solo di realizzare un sistema di mobilità interno alla valle per consentire di muoversi meglio, di sfruttare le opportunità che lì vengono offerte. Andare e tornare a Trento è sempre stato visto come un problema secondario. Del resto i dati dello studio Ciurnelli (lo studio di Perugia che ha collaborato al Piano della mobilità della Provincia) individuano correttamente quali siano le origini-destinazioni dei residenti nelle valli. In gran parte interni alle stesse. Questo, ovviamente, non vuol dire che non si debba pensare a collegamenti ferroviari con il centro, anzi. Poi, dobbiamo considerare che abbiamo un territorio unico. E non lo facciamo vedere? Le ferrovie di tutto il mondo realizzano carrozze panoramiche per consentire ai passeggeri di vedere il panorama, di pensare, di leggere, di lavorare al computer, di conversare in un ambiente piacevole e amichevole. Ha senso un percorso quasi tutto in galleria? Abbiamo pensato dove metteremo i milioni di metri cubi. di materiale necessario per realizzare le gallerie? Abbiamo pensato e valutato le conseguenze sotto il profilo idrogeologico della realizzazione delle gallerie? E allora, sempre per fare un esempio, visto che si vuole perforare i Lagorai per collegare Pergine con Cavalese, ci rendiamo conto che i laghi del Lagorai sono tutti collegati fra loro con un sistema di vasi comunicanti? Non si tratta di confondere Metroland con una ferrovia di montagna come può essere definita, in parte, la Ferrovia Trento-Malè. Ma si tratta comunque di dare servizi ai territori e la ferrovia può essere lo strumento migliore per divenire cerniera ed elemento di collegamento delle realtà intervallive e fra loro e il centro. Potrà anche essere un mezzo di trasporto per i turisti, che lasciata in valle la loro macchina (con o senza i regali di Michil Costa e degli albergatori dell’Alta Badia nella loro recente e fantasiosa iniziativa) possono utilizzare per i loro spostamenti il treno, anche per una piacevole gita a Trento in un giorno di pioggia. O percorrere le valli alla scoperta di nuovi paesaggi e di nuove suggestioni ambientali. In questo gli svizzeri sono stati maestri: la rete dei loro treni percor-

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La cartolina che ricorda il primo viaggio della ferrovia Trento-Malé (coll. Ferruccio Mascotti)

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re, lenta, le loro valli e trasporta passeggeri entusiasti provenienti da ogni parte del mondo. Si è detto dei tempi di percorrenza. Al di là di evidenti errori materiali (non è pensabile percorrere 34 Km in 14 minuti, a una media di 146 Km/h), rispetto ad una ferrovia tradizionale i tempi origine-destinazione sono significativamente inferiori solo per le località che hanno una stazione. Per tutte le altre i tempi si dilatano e un treno che le tocca, le attraversa e carica passeggeri nelle stazioni dei diversi paesi consentirebbe invece tempi sicuramente concorrenziali a quelli del trasporto privato. E come non pensare ad un territorio che può essere offerto al turismo come raggiungibile in ogni sua valle da un treno panoramico, che ne esalti da subito le bellezze. Le stesse bellezze possono essere apprezzate, e sono apprezzate, anche dai passeggeri locali. Non mi scandalizzo invece per i costi. Ritengo che siano assolutamente compatibili con il bilancio provinciale e che anzi rappresentino un investimento sicuramente da fare. Neppure ritengo sovrastimato il sistema sulla base dei passeggeri che si prevede possano essere trasportati. Se vogliamo creare un sistema ecologicamente sostenibile, se vogliamo dare del nostro territorio un significato di questo genere, non c’è spazio per discussioni sulla compatibilità economica di un sistema ferroviario in Trentino. Metroland deve essere pensata anche per il servizio merci. Non hanno senso le file di ca-

mion che percorrono la val di Non e quella di Sole per portare i cementi di Tassullo, le mele di Melinda o l’acqua di Peio. Sull’acqua poi andrebbe fatto un altro ragionamento, ma non è questa la sede. Nei primi anni ’90 avevamo spinto molto per la rinascita della Mori-Arco-Riva, non solo come mezzo di trasporto di passeggeri, ma anche per eliminare gli autotreni della Cartiera, oltre che tutti i mezzi che riforniscono di merci la Busa. Forse oggi i tempi possono tornare ad essere maturi. Del progetto Metroland, certamente il collegamento Rovereto-Riva appare il più urgente. Ma cerchiamo di ottenere che sia il meno possibile in galleria. Facciamo vedere il passo San Giovanni e poi facciamo affacciarsi i passeggeri sul balcone di Nago, a guardare il lago di Garda e la rocca di Arco. Si pagano 25 euro per salire in funivia da Malcesine verso il Baldo e noi pensiamo di mettere nel buio delle gallerie i nostri passeggeri. Magari gli proiettiamo un film di quello che c’è fuori e non possono vedere dal treno? La VAL di Trento Un sistema efficiente di ferrovie sul territorio non può non coniugarsi con un sistema di mobilità collettiva nelle città più importanti. Dieci anni fa proposi al Sindaco di Trento la realizzazione di un tram che viaggiasse il più possibile in sede propria e che attraversasse da sud a nord Trento, un sorta di spina dorsale sulla quale innestare un sistema di bus, di tapisroullant, di ascensori, di funivie, di piste ciclabili.


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Le merci avrebbero dovuto essere distribuite collettivamente come si fa in tante città del mondo. La città avrebbe dovuto essere liberata dalle macchine. Il nuovo progetto di Piano urbanistico della mobilità, anche se molto timidamente, disegna una città di Trento che cerca di avvicinarsi ad un modello come quello a suo tempo proposto. Trenta anni fa i cittadini di Zurigo decisero che nella loro città non c’era spazio per un sistema di metropolitana. Non solo sono sopravissuti senza, ma hanno una delle città meglio servite in Europa dal servizio pubblico. Ecco allora le mie perplessità sulla Val, che non si basano sul fatto che la stessa Siemens la propone per città di almeno 300.000 abitanti. La Val è un sistema complesso e delicato, viaggia senza manovratore, ma richiede un numero altissimo di addetti (a Torino sono più di 120 per 10 Km di linea). È veloce, ma a Torino viaggia ad una media di 40 Km/h, con fermate distanti l’una dall’altra 700 metri. A Trento, senza corsie preferenziali, i bus viaggiano a 22 Km/h, con fermate ogni 300 metri. Un tram o i bus, con linea riservata, possono avvicinare i 40 Km/h. Non discuto di costi, né di passeggeri. L’ho detto prima per Metroland e lo ribadisco per la Val. Partiamo poi da un servizio di bus che porta ogni anno 22 milioni di passeggeri in una città di 115.000 abitanti. Certo, da un po’ fastidio quell’indicare sempre a esempio Modena (190.000 abitanti e 8 milioni di passeggeri

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all’anno, un rapporto di quasi 1 a 5 a nostro favore). Ma, purtroppo, questi sono i nostri amministratori comunali. Ho poi dei dubbi per l’utilizzo progettato della VAL in Valsugana fino a Pergine. Si tratta di un sistema segregato, che raggiunge una velocità massima di 70 Km/h. Credo serva un mezzo più veloce e più semplice. Un treno leggero. E poi il problema che ritengo più importante: da ovest a est abbiamo oggi almeno sei barriere principali (autostrada, tangenziale, l’Adige, la ferrovia, la Trento-Malè, via Brennero). Ne creiamo un’altra? La Trento–Malè verrà a breve interrata. Non si potrebbe spostare su via Brennero? Non potrebbe diventare una sorta di servizio metropolitano? Nel senso, utilizziamo quello che c’è, potenziamolo. Colleghiamolo alla Valsugana da un lato e portiamola verso Rovereto dall’altro e poi giù verso Arco e Riva, in una sorta di treno-tram, come avviene in molte città tedesche. Abbiamo decine e decine di esempi virtuosi da copiare. Non ci si deve vergognare di copiare quando i modelli sono convincenti. Togliamo le macchine dalle strade, o da parte delle strade, e creiamo un tram che viaggi su sede propria. Mettiamolo in collegamento con un sistema ferroviario di Valle efficiente, con fermate in ogni Paese. Non sono i cinque minuti in più o in meno che danno maggiore o minore appeal ad un treno, sono altre cose, sono l’efficienza, il cadenzamento, la pulizia. Credo che, se ci riusciremo, avremmo fatto un grande servizio al nostro territorio.

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Ferrovie retiche tra Svizzera ed Italia


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I muri a secco e il paesaggio di Castel Pradaglia a Isera di Giuseppe Gorfer

I ruderi di Castel Pradaglia, nel Comune di Isera (Tn)

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a collina su cui nereggiano le rovine di Castel Pradaglia (o Predaglia), s'incunea nella Valle dell'Adige, a mezzogiorno di Borgo Sacco protendendosi verso il dosso di Lizzana, quasi a voler costringere il fiume in un vasto corridoio livellato perfettamente dalle alluvioni. La boscaglia e i terrazzamenti avvolgono la collina nascondendo le rocce calcaree che danno luogo a brevi aspri burroni e che sulla sommità appaiono levigate dallo scorrere millenario del ghiacciaio. A settentrione e a mattina il colle, una specie di Verruca, s’innalza improvviso; a mezzogiorno invece, dove c'era l'ingresso del castello, sotto la bassa rupe si allarga una piatta pianura sul fondo di una dolce conca. Era qui che si svolgevano le adunanze dei vassalli del vescovo di Trento ed i tornei, il più memorabile dei quali fu combattuto durante la guerra veneziana. Accadde il 30 maggio 1487. Perduto il Castello di Rovereto, i Veneziani mandarono al campo trincerato di Serravalle il generale Roberto Sanseverino con un corpo d'armata di truppe fresche in sostituzione del comandante Giulio Cesare Varano. Il compito affidato

al Sanseverino non ammetteva indugi: bisognava bloccare le milizie del duca Sigismondo e respingerle, se ciò fosse possibile, al di la del Murazzo. Costruito un ponte sull'Adige, la colonna veneziana giunse a Isèra dove si unì ai soldati del Signore di Gresta e a quelli dei Lodron. Dal canto loro le truppe tedesche varcarono il fiume a Sacco entrando in contatto con gli avversari proprio nella zona controllata da Castel Pradaglia. I combattimenti che ne seguirono furono lunghi, sanguinosi e senza alcun risultato né strategico, né tattico. Fu allora che al comandante tedesco venne l'idea di un duello per decidere le sorti dell'inutile battaglia. Il campione tirolese fu lo stesso comandante, il giovane e valoroso Hans conte di Sonnenburg, il campione veneziano fu il figlio del valoroso capitano Roberto Sanseverino, Antonio Maria. Così i soldati delle due parti si ritrovarono il 30 maggio nel vasto prato antistante il castello, a far tifo attorno allo steccato dove i due campioni vestiti di ferro e armati di lancia e spada, si battevano. Vinse il signore di Sonnenburg ed il San-


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severino si diede al suo cortese avversario con cavallo, armatura e denaro, secondo i patti. Il colle, dove ora si elevano poche rovine, era un castelliere prima, un luogo fortificato poi. Su di esso furono rinvenute reliquie romane e preromane. Sorgeva a guardia di un incrocio di strade e forse luogo di sosta notturno delle legioni sulla via della Rezia e del Norico. Nel Medioevo vi sorse una fortezza tenuta da un signorotto che esigeva pedaggi e controllava la navigazione sul sottostante fiume su cui, a Sacco, c'era un ben noto porto. Nel 1027, con la donazione di Corrado il Salico, anche il signore di Pradaglia divenne gastaldione del vescovo di Trento e più tardi nel castello furono inviate truppe per bloccare la colonna ghibellina guidata da Adalpreto. I ghibellini scesero contro i guelfi lagarini qualche tempo dopo sconfiggendoli a Marco e distruggendo le rocche di Pradaglia e di Castelnuovo. Sei anni dopo (1183) Maria, figlia di Ottolino, che lo aveva sommariamente restaurato, vendette il castello per 1400 lire veronesi al vescovo Salomone che vi tenne un ministro con il titolo di Capitano della Val Lagarina sino al 1198, anno in cui Corrado II di Beseno ne investì Briano di Castelbarco. Nel 1234 il vescovo Aldrighetto di Campo, temendo un colpo di mano dei Veronesi, fece fortificare la rocca assieme a quella di Beseno. Dopo aspre guerre a cui diedero luogo i feudatari guelfi e durante le quali Pradaglia venne danneggiato, nel 1258 Egnone nominò Jacopino di Lizzana, figlio di Jacopo, capitano della Vallagarina ordinandogli di eleggere quale sede il castello di Pradaglia. Morto Jacopino, la rocca, che per breve tempo era stata concessa a Sodegerio da Tito, e tutti i domini di Lizzana, essendo la nipote Fanzina maritata a Leonardo di Castelbarco, ritornarono a questa potente famiglia. Nel 1416 a seguito della pace firmata con l'arciduca Federico, Pradaglia venne in possesso dei Veneziani. Nel secolo successivo, e precisamente nel 1508, le soldataglie di Massimiliano I lo spianarono per sempre al suolo. Difficile è immaginare come era il castello e il dosso di Pradaglia al tempo del Sanseverino. La storia infatti ci racconta di un paesaggio ben diverso dall’attuale, dove nel corso dei secoli, il lavoro dell’uomo ha definito una specifica caratterizzazione. Non sempre positiva. Così vediamo che vicino alla collina vitata, si aprono gli squarci

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della cava di basalto, la squadrata presenza di capannoni industriali, la schematica crescita urbanistica del piccolo aggregato di Cornalé. Tuttavia l’ambiente agreste prende ancora il sopravvento, contrassegnato dai scenografici e romantici resti di quello che un tempo dovrebbe essere stato un vasto castello a controllo del fiume e del suo attraversamento con il porto di Borgo Sacco, oggi contrassegnato dal vasto complesso della manifattura Tabacchi. Come si può evincere il paesaggio è estremamente diversificato ma all’occhio del visitatore la prima e principale sensazione è l’ordine dei vigneti, il gioco dei terrazzamenti, un paesaggio agricolo di vigneto che sovrasta la storia antica e moderna. Un paesaggio che distingue questi luoghi; il paesaggio della vite, dove i resti del castello danno quel tocco di romanticismo che lo rendono unico e estremamente suggestivo. Nel ‘700 il paesaggio lagarino e quello più particolare di Isera e del Dosso di Pradaglia si inserivano nell’ondulata pianura atesina, ammantati di vigneti, sparsi di fattorie, di ville signorili, di frutteti. Le filande roveretane producevano sete famose quanto quelle lombarde, la piccola città di Rovereto era centro di industrie, arti e commerci. In quell’epoca Clementino Vannetti decantava non solo il paesaggio di Isera ma il suo prodotto più illustre: il marzemino. Vino dal carattere secco, vivo, genuino che proprio con le uve di Foianighe, le colline basaltiche verso il castello di Pradaglia, acquistava un particolare temperamento. Ecco dunque perché parlare di Isera, e del rilievo di Pradaglia non è possibile non parlare dei vigneti di Marzemino. Qui come non mai l’uva e il vino riflettono l’immagine di un paesaggio e ne sono la conseguenza. Il paesaggio quindi segnato dai vigneti, in maniera diversificata se cresciuti in fondovalle o in pendio. Regolari appezzamenti di terreno con altrettanti regolari quadrature di vigneto con diversi orientamenti, segnano il fondovalle. Un reticolo di muretti a secco a sostegno dei campi tratteggiano i pendii ricordando la faticosa e secolare cura del territorio e

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Il tipico muretto a secco nei dintorni di Castel Pradaglia, con la caratteristica presenza di rocce calcaree alternate da quelle nere di basalto


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Una fase della ricostruzione del muro a secco

adattamento dello stesso all’attività economica dell’uomo. Lo scoglio roccioso di Predaglia appare fortemente terrazzato, principalmente sui versanti nord e ovest. Più dolci su quello meridionale, mentre in avanzato abbandono o quasi assenti sulle ripide balze rocciose orientali. La presenza di terrazzamenti è antica come dimostrato dalla sezione archeologica effettuata sul versante ovest del rilievo. La sezione, realizzata per verificare la presenza di tracce antiche prima del proseguo dei lavori, ha evidenziato la presenza di tre fasi di terrazzamento costruite su un piano basale costituito dal pendio formato da materiale franoso dai contrafforti rocciosi. Successivi crolli hanno comportato la ricostruzione dei terrazzi in un arco temporale di difficile ricostruzione ma di epoca coeva o anteriore alla presenza del castello. Le murature attuali sono databili tra il XIX e gli inizi del XX secolo, quindi posteriori all’abbandono, demolizione e smantellamento del castello avvenuta nel 1508 ad opera delle truppe di Massimiliano I. Infatti la loro costruzione vede l’utilizzo delle pietre del castello costituite da rocce calcaree alternate da quelle nere di basalto. Un effetto pepe sale che conferisce una caratteristica unica. Contrariamente ad altri casi sono quasi completamente assenti nella trama muraria dei muri di terrazzamento, le pietre lavorate. Segno evidente di come i ruderi del castello, successivamente alla sua demolizione, siano diventati cava per il recupero di elementi lapidei utilizzati nella ricostruzione degli edifici civili dei vicini centri abitati. L’osservazione di muri a secco che tratteggiano i versanti del Dosso di Predaglia, evidenziano anche l’accortezza degli aspetti funzionali per una corretta coltivazione dei vigneti. I vari terrazza-

menti sono collegati da scalinate, ricavate nello spessore murario che permettono il raggiungimento veloce dei vari livelli terrazzati. Ecco dunque come il contesto dei campi terrazzati di Predaglia, che si estende per circa 600 metri di muratura su diversi livelli, rappresenti un ambiente particolare e un paesaggio fortemente specializzato che trova la sua unicità nella conformazione morfologica, nella metodologia di costruzione e soprattutto nella specificità dei materiali lapidei utilizzati. Purtroppo l’abbandono dei vigneti su questi pendii hanno comportato il loro degrado, provocando crolli e rigonfiamenti dovuti spesso alla crescita selvaggia dell’Acacia, specie non autoctona e infestante, di veloce diffusione. Sui versanti nord, ovest e est, l’Acacia ha preso il sopravvento nascondendo i terrazzamenti e danneggiando le murature. Il versante sud è stato invece oggetto negli anni ’50 del XX secolo di un rimboschimento di Cedri, di Pino nero e di altre essenze resinose creando un bosco artificiale che poco ha di coerente con il circostante ambiente coltivato. Non è neppure coerente con il paesaggio boscato che ammanta i versanti non terrazzati dove è presente la crescita spontanea del bosco termofilo composto dal Caripo nero, Roverella, Orniello, con la presenza costante del bagolaro (Celtis australis). Lo stato di degrado che interessava l’intera collina, quindi non solo i ruderi monumentali, rappresentava da solo una motivazione per il suo ripristino e l’utilizzo del sito a scopi pubblici. La sua posizione, tra la città di Rovereto e i sobborghi e paesi limitrofi, pone il sito in una particolare localizzazione con una facile raggiungibilità. In particolare le condizioni precarie delle murature hanno richiesto un intervento urgente affinché le


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stesse non crollino creando un serio pericolo per i frequentatori attuali e la sottostante viabilità oltre che a perdere un prezioso segno della storia passata. L’acquisizione dell’intera collina dall’Ente Pubblico rappresenta infine una grande opportunità per un intervento generale che restituisca alla funzione pubblica questo bene attivando un progetto di recupero dell’intera collina con la trasformazione in un parco dove il rudere rappresenti l’elemento carismatico e paesaggisticamente di richiamo. L’intervento di ripristino, oltre il restauro delle murature del castello superstiti, ha previsto la messa a parco delle pendici che circondano il rilievo con la sistemazione e pulizia del suolo e della vegetazione presente e la realizzazione di percorsi che ne permettano l’utilizzo attraverso la realizzazione di un parcheggio, il restauro del roccolo trasformandolo in edificio servizi, di un percorso pedonale panoramico e sbarrierato, il Parco della leggenda di Sanseverino ed infine il ripristino dei vigneti e la conseguenza sistemazione e ricostruzione delle murature a secco. Il castello si trova nel cuore del Marzemino, centro pulsante sia in senso geografico che in senso qualitativo. La collocazione di Castel Pradaglia rispetto al Marzemino evidenzia la centralità del territorio di Isera. La culla adottiva del vitigno è Isera, con le sue caratteristiche podologiche e ambientali. Il sito di Castel Pradaglia è l’attualizzazione dell’antica culla del vitigno e simbolo moderno dell’elezione del territorio per questo vitigno. Quale luogo storico si può proporre a museo del Marzemino, meglio di Castel Pradaglia? Il connubio vitigno-territorio è esemplificativo a Castel Pradaglia. Qui, l’affiorare del basalto, rappresenta l’emblema della vocazionalità pedologico-ambientale di Isera verso il Marzemino. Castel Pradaglia rappresenta, in sintesi, il più autentico esempio attuale e moderno dell’antico rapporto Marzemino-Vallagarina. Per questo si è ritenuto opportuno dare valore a tale connubio con la realizzazione di un vigneto che sia il museo vivente della varietà. Una banca genetica del Marzemino a cielo aperto, nella quale trova spazio la coltivazione della variabilità genetica del Marzemino. Si tratta di recuperare tale variabilità genetica producendo un numero di esemplari per ogni biotipo o per ogni clone o per ogni autofencondato o per ogni incrocio, in cui vi sia espressione piena o parziale del genoma del Marzemino. In tal modo, oltre ad operare una fondamentale azione di conservazione della variabilità genetica varietale, si produce una fondamentale azione di verifica su un numero più significativo delle potenzialità viti-enologiche dei singoli individui ospitati, così da poter provvedere con azioni di me-

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dio lungo periodo alla valorizzazione in pieno campo di individui qualitativamente ritenuti miglioratori dello standard attuale. Non ultimo, si produce in tal modo una significativa azione di educazione rispetto al valenza di una varietà storica quale il Marzemino che potrà essere osservato con occhio tecnico dai suoi viticoltori, che ne apprezzeranno le diverse caratteristiche colturali. Tale “campo museo, banca genetica” della varietà, sarà un fondamentale strumento educativo verso i giovani studenti del territorio che potranno vedere, toccare con mano ed educarsi alla valenza del patrimonio genetico in relazione alla storia e alla cultura di un territorio. Il progetto prevede la messa a dimora del vitigno in forma di filare, che ospiterà il gruppo di ceppi in sequenza, rappresentativi di ogni espressione genetica. Il vigneto sarà allevato a Guyot, con filari che andranno ad occupare, massimizzandone l’uso, lo spazio recuperabile dall’intervento di riqualificazione dell’intera area. I lavori per il recupero dei terrazzamenti sono iniziati nella primavera del 2009 e eseguiti dal Servizio Conservazione della natura e valorizzazione ambientale della Provincia autonoma di Trento. La tipologia dei lavoratori presenti e delle opere da realizzare hanno rappresentato un ottimo connubio scandendo tempi di lavorazione idonei alle tipologie delle opere da realizzare. Alla pulizia dei terrazzi dalla presenza infestante dell’Acacia, sono seguiti la pulizia delle murature a secco, la demolizione e ricostruzione dei tratti lesionati, la ricostruzione di brani murari crollati eseguiti con la vecchia tecnica del muro a secco. Attraverso l’esperienza di un muratore specializzato, Giancarlo Manfrini, il lavoro ha visto la partecipazione di maestranze con specifica formazione, accanto a operai specializzati generici e operai dei Lavori socialmente utili, diventando una sorta di scuola per il restauro e costruzione di murature a secco. In totale hanno lavorato la Coop. Arcopegaso con 3 operai specializzati e 4 operai dei lavori socialmente utili e la Coop. C.L.B. con 2 operai specializzati e 5 operai dei Lavori socialmente utili. All’estate del 2010 si può quantificare che sono è stata demolita e ricostruita circa 160 mc di muratura con l’impiego di materiale nuovo di cava alternato con quello esistente il loco, mentre l’intervento di ripristino e consolidamento ha interessato circa 100 mc di strutture. L’aspetto attuale il Dosso di Castel Pradaglia, anche se i lavori non sono ultimati, ha ridato al paesaggio il tassello mancante costituito dal rilievo composto da terrazzi, vigneto, castello in un insieme che ha contrassegnato per secoli il paesaggio lagarino a cavallo del Fiume Adige.

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La frana di Pinè/1 La relazione tecnico-descrittiva della frana di Campolongo a cura degli uffici della Provincia autonoma di Trento

Premessa ed inquadramento generale Il fenomeno franoso della Val Molinara, che ha interessato il conoide sul quale sorge la frazione di Campolongo nel Comune di Baselga di Pinè, si inserisce in un più ampio contesto di dissesti verificatesi sul territorio che coincidono sostanzialmente con le aree a maggiore precipitazione. In particolare da nord verso sud si sono verificati una serie di eventi che hanno interessato il Comune di Grauno (chiusura della SS al km 29), il Comune di Segonzano (numerose segnalazioni che interessano il Rio Regnana e le località Gresta, Vallon e Piramidi), il Comune di Bedollo (8 eventi fra cui quelli sui Rivi Fabbrica e Val del Lago), il Comune di Baselga di Pinè (Rio Val Molinara, Rio delle Giare e danni minori su altri collettori dello stesso versante), il Comune di Sant’Orsola (13 eventi fra cui quelli sul Rio delle Vergini, sul Rio Val

Pegara e sul Fondovalle del Fersina), il Comune di Palù del Fersina (5 eventi), il Comune di Frassilongo (7 eventi), il Comune di Fierozzo (7 eventi) e il Comune di Tenna (smottamento sulla SS Valsugana in località Terrazze). Ulteriori segnalazioni sono giunte da altre località della provincia ma riguardano fenomeni di dimensioni più modeste; tra questi particolare attenzione rivestono le piene del Fiume Sarca (evacuati o parzialmente rimossi a scopo precauzionale alcuni campeggi in quanto le dinamiche dell’onda di piena davano la possibilità di prevedere una locale esondabilità del fiume) e del Fiume Brenta e colate ed erosioni in Val di Genova. Tra tutti i fenomeni verificatesi particolare importanza, per i danni e le dimensioni, riveste il dissesto relativo alla Val Molinara che ha coinvolto la frazione di


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Nella pagina a fianco: una veduta aerea della frana di Campolongo; La veduta foto aerea e le perturbazioni straordinarie di quei giorni. Qui a fianco: stratigrafia geologica dell’area di Pinè

Campolongo nel Comune di Baselga di Pinè. Previsioni meteorologiche Già da martedì 10 agosto i modelli meteorologici indicavano la possibilità di precipitazioni abbondanti, anche a carattere temporalesco tra sabato 14 e domenica 15. Nei giorni successivi la previsione era confermata tanto che venerdì 13 alle ore 11 il Servizio Prevenzione Rischi emetteva un Messaggio Mirato per precipitazioni abbondanti e forti temporali con valori previsti mediamente di 30-50 mm e valori locali estremi di 70-90 mm. Le previsioni di sabato mattina confermavano lo scenario previsto ed il bollettino probabilistico delle ore 11 confermava ancora un’alta probabilità di rovesci o temporali intensi. L’eccezionalità dell’evento che ha colpito la zona del pinetano è illustrata nelle immagine del radar meteorologico della Pat dalle quali di vede che i nuclei temporaleschi si sono concentrati lungo un asse nord sud rimanendovi stabili per alcune ore. Tale comportamento è sicuramente anomalo rispetto alle normali dinamiche in cui le celle temporalesche tendono a spostarsi andando ad interessare territori più ampi. Analisi idrologica Per poter comprendere la dimensione dell’evento in prima analisi è stata fatto un confronto dei dati di precipitazione della stazione pluviometrica più vicina (Sant’Orsola), con l’analisi delle curve di possibilità pluviometrica media del bacino del Rio Val Molinara. Dall’analisi emerge come le intensità di precipitazione registrate a Sant’Orsola si collochino

per la durata di pioggia di 6, 12 e 24 ore al di sopra della curva di possibilità pluviometrica relativa ad un Tempo di Ritorno di 200 anni. Dalle prime modellazioni Idrologiche fatte attraverso un modello di trasformazione afflussideflussi, ponendo come dati di input le precipitazioni dedotte dalle curve di possibilità pluviometrica con Tr 200 anni (come indicato dal Piano Generale di Utilizzazione delle acque Pubbliche – PGUAP 2006), per il Rio Val Molinara l’analisi con il modello “Piene-TN” definisce una portata al colmo di circa 3,35 m3/s. La verifica attraverso lo stesso modello idrologico della probabile portata liquida dell’evento alluvionale in esame, basata sui dati reali di pioggia misurati dalla stazione pluviometrica di Sant’Orsola, ha portato ad una prima provvisoria definizione di una portata al colmo paria a circa 5.44 m3/s superiore del 62% rispetto a quella stimata con un tempo di ritorno di 200 anni. Ciò confermando l’eccezionalità dell’evento. Descrizione degli eventi Il Rio di Val Molinara nel Comune di Baselga di Pinè è un corso d’acqua iscritto al n. 260 dell’elenco delle acque pubbliche. Drena un bacino di 1,20 kmq ed ha edificato il conoide sul quale sono presenti 20 edifici della frazione di Campolongo. Nella notte di ferragosto il susseguirsi di violenti temporali ha imbibito tutti i terreni provocando abbondanti e anomale venute d’acqua anche in zone dove l’analisi idrogeologica vorrebbe che non ci fossero. Dai rilievi effettuati nella mattinata del 15 agosto si è constatato che già a 1900 m di quota, poco sotto il

culmine della montagna, erano presenti abbondanti e concentrate venute d’acqua che innescavano una serie di fenomeni di erosione che già da quota 1800 m circa evolvevano in colate detritiche. Il fenomeno, procedendo dall’alto verso il basso, andava progressivamente aggravandosi trovando nuova alimentazione da locali piccoli dissesti laterali e soprattutto dalla confluenza dei tre rami principali del rio (vedi frecce di colore arancione nella figura in alto a pag. 42) a quota 1350 – 1400 m. Il tratto centrale del rio (da quota 1350 m a quota 1070 m) si è comportato come un grande canale di trasporto (vedi tratto rosso nella stessa figura) lungo il quale si è avuta una intensa erosione di fondo che ha messo a nudo in modo molto diffuso il substrato roccioso asportando il materasso alluvionale presente per spessori dell’ordine di 4-5 m. Il fenomeno franoso è pertanto caratterizzato da una intensa fase erosiva sviluppatasi nella parte alta e mediana del corso d’acqua e una fase di deposito nella parte bassa del torrente corrispondente al conoide ed al fondovalle. Il materiale detritico è stato valutato in 40.000 mc complessivi e si è deposto sul conoide in impulsi successivi. All’apice del conoide il materiale si è suddiviso in 3 flussi principali: quello di destra orografica, meno potente, si è mosso in direzione del lago delle Piazze, arrestandosi poco a monte dell’Albergo “alla Spiaggia”; quello centrale, di maggiori dimensioni sia in termini volumetrici che per caratteristiche del materiale movimentato, si è mosso secondo la direzione di massima pendenza, andando ad interessare le abitazioni di Campo-


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In questa pagina: estratto del Foglio n. 60 (“Trento”) della Carta Geologica d’Italia alal scala 1:50.000 A desta: l’estratto della Carta di Sintesi Geologica del Piano urbanistico provinciale (in alto) e la carta del Catasto asburgico del 1865 (in basso)

longo; il terzo flusso, infine, ha seguito per un tratto l’asta del rio, per poi esondare sui prati prospicienti il maneggio. I piani inferiori delle abitazioni di Campolongo e il maneggio sono stati interessati da allagamenti e deposito di ghiaia e fango, rendendo necessaria l’evacuazione degli edifici. I materiali hanno inoltre fortemente danneggiato la viabilità comunale determinando oltremodo l’intasamento delle reti delle acque bianche e il danneggiamento di altri sottoservizi. Il Contesto gologico Il versante interessato dal dissesto è caratterizzato dalla presenza delle formazioni rocciose appartenenti al Gruppo Vulcanico Atesino (Piattaforma Porfirica Atesina). In particolare dalla base del versante fino a quota 1.600 m circa affiorano localmente i litotipi appartenenti alla Formazione della Val di Cembra costituita da lave andesitiche a bassa permeabilità. Da quota 1.600 m alla sommità del versante affiorano le rocce appartenenti alle Formazione di Gargazzone costituite da porfidi (Ignimbriti e tufi) di colore rosso fortemente fratturati e fessurati che rappresentano il serbatoio idrico principale sotterraneo. La giacitura del contatto delle due unità è prevalentemente suborizzontale o leggermente a franapoggio verso Cam-

polongo e costituisce un orizzonte lungo il quale emergono una serie di sorgenti temporanee (frecce blu figura soprastante). Le coperture quaternarie sul versante sono generalmente di limitato spessore e sono costituite da depositi glaciali e detritici permeabili per porosità primaria. Questi depositi costituiscono un acquifero effimero che in occasioni di forti precipitazioni possono dar luogo anche a venute d’acqua concentrate ma generalmente di limitata permanenza nel tempo. I depositi sul fondovalle hanno spessori molto più consistenti e sono costituiti da alluvioni grossolane e poco selezionate (depositi di conoide costituiti da ghiaie e sabbie con ciottoli e grossi massi e limo) e da materiali a granulometria fine che occupano porzioni del fondovalle (torbe e sabbie collegabili ad antichi specchi lacustri). Sono inoltre presenti terrazzi di contatto glaciale. La quota della falda freatica è determinata dalle quote dei due laghi ed è fortemente influenzata dalla quota di invaso del Lago delle Piazze. Evento del Rio Val del lago Il Rio Val del Lago è ubicato in prossimità del Rio Val Molinara ed ha le stesse caratteristiche idrogeologiche ed idrauliche; lo stesso è stato negli anni scorsi oggetto di un importante intervento di difesa e pertanto è interessante descri-

verne il suo comportamento in occasione dell’evento meteorico del 15 agosto. Il torrente è iscritto al n. 262 dell’elenco delle acque pubbliche della Provincia e sottende un bacino di circa 0,660 km2. Posto che era nota la propensione a generare fenomeni di trasporto solido da parte del torrente, in relazione alle caratteristiche del suo bacino, e che oltremodo sul conoide di tale corpo idrico sono presenti due campeggi e un albergo, si è provveduto nel 2004-2005, alla costruzione di una briglia filtrante con retrostante piazza di deposito, al fine di contenere possibili colate detritiche. Lo scorso autunno si è provveduto a completare i lavori con la nuova inalveazione del rio nel tratto tra la briglia ed il Lago delle Piazze. L’evento meteorico descritto in precedenza ha innescato anche sul Rio Val del Lago un fenomeno di colata detritica, che non è andata ad interessare le infrastrutture presenti sul conoide, proprio perché contenuta dalla briglia selettiva da poco ultimata. Al riguardo preme sottolineare l’ottimale dimensionamento della struttura e la sua efficacia nella laminazione dell’onda di piena e nella riduzione del rischio su un conoide interessato da infrastrutture ad alta vulnerabilità. Valutazione della pericolosità da colata detritica nell’area del lago delle piazze La prima analisi riguardante la pericolosità idrogeologica dell’area del Lago delle Piazze risale ai lavori eseguiti negli anni ’90 nell’ambito del Piano Urbanistico Comprensoriale in adeguamento al Piano Urbanistico Provinciale del 1987. Tali studi avevano individuato come i torrenti che scendono dal Dosso di Costalta verso il lago fossero interessati da diffusi


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più urgente la realizzazione di opere di difesa passiva sull’alveo del Rio Val del Lago in quanto le strutture esistenti sul conoide per l’evento atteso risultavano più vulnerabili ed inoltre, come sopra richiamato, le informazioni disponibili davano questo torrente a maggiore propensione al dissesto. I fatti verificatesi confermano la validità di questa impostazione e si può affermare con certezza che se non vi fosse stata l’opera di difesa alla testata del conoide del Val del Lago le conseguenze sarebbero state sicuramente più pesanti. Attualmente, nell’ambito della realizzazione della Carta di Sintesi della Pericolosità del Piano Urbanistico Provinciale 2008, sono in corso le nuove analisi per definire la pericolosità idrogeologica del Rio Val Molinara.

fenomeni di erosione e di trasporto torrentizio e che gli stessi fossero stati classificati come area ad elevata pericolosità idrogeologica. Tale rappresentazione delle conoscenze non ha subito nel tempo alcuna variazione significativa e le previsioni sono rimaste pressoché immutate anche nella Carta di Sintesi Geologica attualmente in vigore, come riportato qui sopra. Questa zonizzazione evidenzia come l’elevata pericolosità del Rio Val del Lago interessi in maniera più significativa le infrastrutture presenti sul conoide a differenza di quanto invece si può osservare per il conoide di Campolongo, dove l’area urbanizzata è considerata quasi interamente priva di pericolosità. Per il Rio Val Molinara la zonizzazione della pericolosità contenuta nella Carta

di Sintesi Geologica era suffragata anche dall’analisi storica dell’assetto territoriale e dagli eventi alluvionali. Infatti l’attuale sedime del corso d’acqua coincide sostanzialmente con l’andamento della particella catastale demaniale del torrente così come individuata nella mappa catastale storica sottostante. Tale fatto evidenzia che nemmeno gli eventi alluvionali di fine ottocento e quelli del XX secolo hanno comportato modificazioni nell’assetto dell’alveo del conoide e che probabilmente bisogna risalire all’evento alluvionale del 1842 (precedente la realizzazione della mappa catastale storica) che aveva interessato il territorio del Comune di Baselga di Pinè nella medesima area. Nell’ambito di una corretta pianificazione delle risorse disponibili è stata valutata

Valutazione della pericolosità da colata detritica nell’area del lago delle piazze Interventi della fase di emergenza I primi interventi di somma urgenza sono stati effettuati dai VVF volontari, supportati successivamente dal corpo dei VVF permanenti, dal personale comunale e dagli abitanti che hanno lavorato per gran parte della nottata. Nella giornata di ferragosto si è provveduto a dare inizio al lavoro di rimozione dei detriti, operazione che, stante i volumi in gioco, si è protratto per più giorni. Il Servizio Bacini montani, presente nell’immediatezza dell’evento con il proprio personale di reperibilità, si è attivato con proprie maestranze e mezzi meccanici necessari per ripristinare il deflusso delle acque sul Rio di Val Molinara e garantire, attraverso la movimentazione del materiale detritico presente lungo l’asta del corso d’acqua fino all’apice del


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conoide, un sufficiente franco in grado di contenere eventuale ulteriore trasporto solido, stante la sorgente di detrito ancora attiva. Si è reso necessario attivare immediatamente un’azione di svuotamento della piazza di deposito a tergo dell’opera trasversale, in modo da ripristinarne nel breve periodo la funzionalità, stante la presenza a monte di ulteriore materiale movimentabile in caso di ulteriori eventi meteorici eccezionali. In particolare si è reso necessario proseguire l’intervento di somma urgenza con: - formazione di un rilevato in sponda destra, protetto da scogliera, in prossimità della curva che il corso d’acqua forma all’apice del conoide, per scongiurare eventuali nuove fuoriuscite di materiale; - predisposizione di una viabilità di accesso al tratto di corso d’acqua a monte del rilevato di cui sopra, nella prospettiva della costruzione di una briglia per il controllo del trasporto solido. La viabilità in questione sarà sostitutiva della strada comunale che correva lungo la sponda destra del corso d’acque e cancellata dall’evento in parola; - ripristino delle sezioni di deflusso con svasi dell’alveo; - predisposizione delle spalle del nuovo ponte sulla strada comunale che verrà poi realizzato a cura del Comune (nel frattempo si predisporrà un guado con tubi per ripristinare provvisoriamente il transito sulla strada); - consolidamento con massi e calcestruzzo della sponda destra immediatamente a monte del ponte. La realizzazione in tempi brevi degli interventi sopra descritti è stata altresì necessaria in funzione dell’agibilità degli edifici in area di pericolo.

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Dall’alto: Visione d’insieme del versante su cui si sviluppa il Rio Val Molinara. Il corso d’acqua è stato suddiviso in una parte alta (linee arancioni) caratterizzata da diffusi fenomeni di erosione, una parte centrale (linea rossa) caratterizzata da trasporto ed erosione di fondo e la parte bassa (linee colore verde) in corrispondenza del conoide del torrente caratterizzata da deposizione del materiale detritico. Immagine Lidar del conoide della Val del Lago. Si notino il camping e la briglia filtrante con la piazza di deposito a monte che è stata colmata dalla colata detritica. Rilievo delle aree di deposito delle colate che hanno interessato il conoide di Campolongo. Come descritto nel testo sono bene visibili i tre flussi principali di come si è suddivisa la colata principale all’apice del conoide. Immagine della colata detritica che ha investito il nucleo abitato


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La frana di Piné/2 Quando le conoscenze tecniche si piegano alle VOLONTÀ POLITICHE di Fulvio Forrer

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erita una nota di commento la vicenda del recente disastro di Campolongo di Pinè. Vorrei sottolineare sin da subito che non è un processo a nessuno, ma la semplice osservazione di come la gestione del territorio è oggi troppo piegata al consenso civico, ed i cittadini sono di fatto ignari, o colpevolmente non consapevoli, che l’interesse personale non può prevalere sulla visione d’insieme delle dinamiche e degli equilibri territoriali. Ed in realtà tale responsabilità riguarda pesantemente sugli amministratori locali troppo spesso travolti dal bisogno di consenso conquistato a “suon di sì” frequentemente incauti e negativi, condizione che poi diventa governo politico, quindi il massimo livello della decisione. Il nostro territorio, lo abbiamo insistentemente segnalato in tanti precedenti numeri di Sentieri Urbani, è un territorio ad alta dinamica naturale: Gaia è viva, i continenti slittano, le montagne si innalzano e gli eventi naturali ne modellano la superficie. Gli eventi eccezionali, non quelli più banali. L’entità del disastro di quanto accaduto a Baselga di Pinè nell’agosto 2010 è evidente e ben descritto dalla stampa, anche nella sua eccezionalità, e ciò non può che farci ricordare come le forze naturali siamo in molti casi imprevedibili o prevedibili, ma con approssimazione, soprattutto nella loro entità. La sequenza degli eventi significativi, sicuramente meno gravi di quanto avvenuto nel pinetano, avvenuti nei primi 8 mesi del 2010 annoverà ben 5 episodi: Baselga di Pinè (15 agosto), Daone (12 Agosto), Canal Sanbovo (23 maggio), Mezzolombardo (23 maggio) e Daone (6 gennaio). Non sono eventi sporadici e a caso, ma situazioni che si ripetono nel tempo ed interessano varie parti del territorio. Lo strumento che ci aiuta ad affrontare con la

maggiore consapevolezza possibile il tema delle previsioni urbanistiche e della programmazione degli interventi sul territorio è la Carta di Sintesi geologica; ebbene la vallecola che ha generato l’evento alluvionale era di quelle a massimo pericolo, ma non era considerata adeguatamente pericolosa per la Carta della Pericolosità collegata al Piano Generale di Utilizzazione delle Acque Pubbliche; evidentemente con avvicinarsi del corso d’acqua alle edificazioni esistenti, ma soprattutto alle nuove aree potenzialmente edificabili, il rischio è diventato un pericolo moderato (R1). La carta della pericolosità relaziona i caratteri idrogeologici del territorio con gli usi del suolo, e in questo caso, ma anche in molti altri presenti sul territorio, anziché evidenziare il pericolo per gli abitati (ovvero inedificabilità o importanti interventi di difesa degli abitati) questo si piegato a piccoli aggiustamenti per rendere lo studio tecnico specialistico (freddo e incapace di guardare in faccia i soggetti interessati) di minor disturbo, richieste che quasi sempre vengono da istanze locali che tendono a minimizzare le visioni più negative in subordine agli interessi più immediati. Non riporto cose specifiche e dirette, quanto dichiaro è una consuetudine che, a fronte di evidenze tecniche, diciamo tatticamente incaute, vede queste rese innocue spostando le sfumature delle previsioni a più miti consigli. E così ecco che un conoide di deiezione (ovvero un cono di

terra portato a valle da precedenti eventi meteorici) diventa luogo di vita, di abitazione stabile, di investimento personale per la vita. Ci scandalizziamo nel vedere che paesi disastrati come quelli interessati dalle alluvioni in Sicilia siano lasciati a se stessi, ma a me preoccupa quando rapidamente si nascondono i danni per poi non affrontarne i problemi che vi sono alla base. Si rimuovono le macerie e tutto avanti come prima. L’urbanizzazione in trentino riguarda ormai brani di territorio con non ne posseggono le caratteristiche fondamentali: una casa che non prende mai il sole costerà ai proprietari almeno un 50% in più di combustibili per riscaldare e la cosa non è un fatto personale in quanto la bolletta energetica è un vincolo in carico a tutti noi. Un area produttiva o un campo agricolo che altera i caratteri fisici di una valle (ad esempio con la scomparsa di un ambito di espansione fluviale per i casi eccezionale) scarica a valle e alla collettività oneri e difficoltà spesso non differentemente assorbibili. E questi problemi, ne sono convinto, si affrontano in primis rimuovendo o proteggendo in modo molto puntuale gli elementi di maggiore esposizione al danno, e solo dopo, a fronte della assenza di alternative, imbrigliando, per quanto possibile, ovvero poco, i luoghi delle dinamiche naturali. Non è sfiducia, è un monito a riflettere sulla leggerezza di molte scelte e sulla scarsa memoria che ci accompagna.


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Potenzialità e criticità del sistema di autovalutazione del Piano di Luca Paolazzi*

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*Luca Paolazzi, laureato magistrale in Scienza della politica e dei processi decisionali, è collaboratore presso il Servizio Urbanistica e tutela del Paesaggio della Provincia autonoma di Trento. Si è laureato con una tesi dal titolo “Gli strumenti di governo della pianificazione urbanistica e territoriale nella Provincia autonoma di Trento”. Contatto e-mail: luca.paolazzi@gmail.com

ggetto di questo scritto è l’analisi delle potenzialità e delle criticità dei processi di autovalutazione degli strumenti di pianificazione urbanistica e territoriale della Provincia autonoma di Trento e delle Comunità di Valle, alla luce del quadro normativo delineato dalla legge urbanistica provinciale 1/2008. La procedura di autovalutazione si sostituisce nell’ordinamento trentino alla VAS. L’ autovalutazione dei piani si inserisce nella categoria dei processi di valutazione ex-ante, cioè attuati prima dell’approvazione del piano stesso, per quanto essi si configurino nella prassi come strumento di supporto e valutazione in-itinere, seguendo il decisore lungo tutto il percorso di adozione dell’atto. La valutazione ex-ante è una forma di supporto al policy making, il cui scopo è quello di richiamare i decisori all’analisi delle potenzialità di un intervento e alla stima degli effetti che esso potrebbe generare. Essa produce cioè valutazioni qualitative e quantitative su decisioni ancora da assumere ed i cui risultati possono essere reintrodotti nel processo decisionale prima che le decisioni vengano approvate. Attraverso l'anticipazione degli effetti delle varie opzioni decisionali, la valutazione ex-ante assume una funzione di auditing che agevola l’attivazione di un processo di ampliamento della razionalità decisionale individuale ed istituzionale, permettendo al policy maker di valutare con

maggiore oggettività le alternative percorribili e limitando l'influsso sulla situazione decisionale dei limiti cognitivi ed esperienziali tipici della razionalità umana. Per lo stesso motivo viene limitato anche l'influsso sulla decisione esercitato dai vari interessi particolari, offrendo dei parametri oggettivi sui quali ponderare l'opportunità delle varie alternative e contribuendo all’attivazione di un percorso di responsabilizzazione dei decisori. L’introduzione dei processi di VAS, a livello comunitario prima e nazionale e regionale poi, trae origine dalle difficoltà emerse negli ultimi due decenni nell’attività pianificatoria; difficoltà in particolare legate a tempistiche redazionali ed attuative molto lunghe, ad un sistematico ricorso all’utilizzo di varianti al piano, all’incoerenza tra i piani elaborati a livelli di governo diversi, alla scarsa considerazione delle variabili socioeconomiche ed ambientali, allo scarso utilizzo di strumenti di valutazione delle politiche pubbliche ed all’inefficacia dei piani. L’istituzionalizzazione dei principi di matrice comunitaria di sostenibilità, prevenzione, coordinamento tra livelli di governo, sussidiarietà ed adeguatezza ha veicolato la necessità di un orientamento strategico volto all’integrazione nel processo di pianificazione territoriale degli obiettivi di sostenibilità economica, sociale ed ambientale, alla creazione di una struttura di pianificazione e governo del territorio basata su rapporti di governance tesi alla fles-


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sibilità e alla condivisione delle responsabilità amministrative e alla previsione nei processi di governo del territorio di una maggiore partecipazione dei portatori di interessi generali e della collettività. Tali indicazioni normative hanno condotto ad un nuovo paradigma di Piano basato sull’individuazione di strategie ed obiettivi strutturali di lungo periodo, sull’introduzione di strumenti di valutazione strategica e sulla predisposizione di sistemi di monitoraggio e valutazione ex-post delle azioni e degli obiettivi di piano mediante l’uso di indicatori statistici e territoriali. La VAS ha cioè introdotto una logica precauzionale nelle politiche di pianificazione al fine di garantire l’integrazione delle considerazioni ambientali e la promozione di un modello di sviluppo sostenibile nel processo di adozione degli strumenti di pianificazione. È dunque agevole comprendere come la VAS non si connoti come un atto autorizzatorio, bensì come un processo di supporto al decisore nella verifica della coerenza delle proprie decisioni rispetto agli obiettivi di governo e della coerenza esterna al piano, nella valutazione delle alternative e degli impatti cumulativi e nella consultazione dei diversi attori interessati. La VAS riconosce inoltre un ruolo strategico alla creazione di una capitale conoscitivo comune e alla misurazione dei fenomeni territoriali ed ambientali nei processi di pianificazione e di coordinamento delle scelte dei vari livelli di governo. Il tutto al fine di addivenire ad una pianificazione specifica per ambiti di area vasta ma coordinata a livello provinciale/regionale. La Provincia autonoma di Trento, in virtù della sua competenza legislativa primaria in materia, ha provveduto al recepimento della direttiva VAS 2001/42/CE tramite il d.P.P. n.15-68/Leg del 2006. La nuova legge urbanistica provinciale 1/2008 riprende le disposizioni procedurali stabilite dal succitato decreto introducendo nell'ordinamento provinciale l'obbligo di sottoporre gli strumenti di pianificazione urbanistica e territoriale ad un processo di autovalutazione. L'articolo 6 della legge prevede infatti che il PUP, i piani territoriali delle Comunità di Valle ed i piani di settore richiamati dalla legislazione urbanistica debbano essere sottoposti a un processo di autovalutazione contestualmente al relativo procedimento di formazione del Piano. In quest’ottica, la legge urbanistica configura l’autovalutazione quale metodologia di analisi e di valutazione con cui il pianificatore integra le considerazioni ambientali e socio-economiche all’atto

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dell’elaborazione e adozione del piano, anche ai fini del monitoraggio degli effetti della sua attuazione. Il soggetto o l’ente competente dell’autovalutazione è lo stesso competente dell’adozione del piano, andando a configurare tali processi decisionali come due processi paralleli. Oltre ad una funzione di supporto dei processi pianificatori, il sistema di autovalutazione, e la verifica di coerenza interna ed esterna al piano in esso sottesa, è anche finalizzato alla sistematizzazione delle connessioni tra i diversi livelli di pianificazione, al fine di promuovere la responsabilizzazione dei diversi livelli di governo territoriale rispetto ad una pianificazione specifica per sistema territoriale, coerente con i progetti di sviluppo locale ma al contempo coerente con la pianificazione provinciale e degli altri enti territoriali. In questo senso l’autovalutazione potrà supportare il decision maker nella ricostruzione dei rapporti tra i vari livelli di governo coinvolti nella governance del territorio provinciale, rispondendo ad una funzione di accountability (ricostruzione della matrice delle responsabilità) sia all’interno del processo decisionale sia, esternamente, nei rapporti tra esecutivo e Consiglio e tra eletti ed elettori. Nella prima accezione l’autovalutazione si caratterizza come un processo finalizzato all'apprendimento del decisore relativamente alle conseguenze delle proprie scelte, supportandolo nell’individuazione di percorsi coerenti con le problematiche del contesto, nella verifica di coerenza rispetto agli obiettivi di piano e di sostenibilità, nel confronto delle alternative decisionali, nella verifica di coerenza esterna (in particolare con il Programma di sviluppo provinciale), nella valutazione di efficienza/efficacia/rilevanza e nella progettazione del sistema di monitoraggio del piano. In un quadro di governance territoriale come quello delineato dalla riforma dell’ordinamento istituzionale trentino e dalla nuova normativa urbanistica (reintroduzione della pianificazione generale intermedia in capo alle Comunità di Valle), assume una rilevanza strategica per l'attività di pianificazione, oltre ai processi qualitativi sulle strategie, la periodica misurazione degli effetti raggiunti dai piani, date le criticità ed i vantaggi dei singoli sistemi territoriali così come individuati alle diverse scale di pianificazione. La misurazione del fenomeno territoriale risulta sempre più strategica nei processi di pianificazione urbanistica ed è alla base del modello conoscitivo sul quale originano le scelte di piano. Il calcolo di indicatori di contesto e prestazionali è quindi oggi

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uno strumento fondamentale per i processi di pianificazione e valutazione strategica, sia in quanto base conoscitiva che come sistema di supporto decisionale. L’utilizzo degli indicatori, pur non rappresentando completamente la complessità dei sistemi territoriali, permette di integrare in un’unica metodologia analitica un gran numero di variabili e componenti ambientali, urbanistiche, territoriali e paesaggistiche. In tal modo, grazie al monitoraggio condotto attraverso l’utilizzo sistemico degli indicatori, le decisioni pianificatorie si rendono più aggiornabili, simulabili, confrontabili e modulabili sulla base dei cambiamenti delle variabili e delle dinamiche territoriali, oltre che sulla base dei risultati delle politiche pubbliche precedenti. Il decentramento di funzioni in materia urbanistica e territoriale dalla PAT alle Comunità ha veicolato l’individuazione e l’implementazione di strumenti di coordinamento e supporto al decision making. Tali strumenti risultano necessari, in campo urbanistico e territoriale, per garantire l’attivazione dei percorsi di autovalutazione/VAS delle scelte pianificatorie, il monitoraggio delle stesse e l’uniformità delle premesse decisionali sull’intero territorio provinciale. In tale contesto risulta strategica la definizione di un set di indicatori di carattere ambientale, territoriale, sociale ed economico, capaci di garantire al decision maker una visuale complessiva e sintetica sullo stato dell’ambiente e del territorio antropizzato e libero. Un set di indicatori è già stato individuato nel Rapporto di valutazione strategica del PUP e nelle linee guida per l’autovalutazione. Dell’integrazione di altri indicatori standard è incaricato il Servizio Urbanistica e Tutela del Paesaggio della PAT nell'ambito del progetto di sviluppo del sistema software di supporto alla decisione pianificatoria denominato Interfaccia Economica Territoriale (IET). IET è un sistema informativo con interfaccia utente WebGIS di supporto alle decisioni territoriali, contenente dati statistici e geografici. Esso nasce per aggregare dati territoriali a dati di natura socio-economica su base georiferita, con lo scopo di integrare la pianificazione urbanistica con la programmazione economica e sociale. IET ha lo scopo primario di automatizzare la disponibilità ed interrogabilità di dati ed indicatori e di garantirne la rappresentazione geografica. Attraverso l’interpolazione di dati territoriali e statistici, e grazie all’automatizzazione del calcolo di indicatori statici e dinamici di varia natura, IET dovrà poter supportare i processi di analisi del contesto, di autovalutazione, di monitoraggio delle dinamiche territoriali di stato e pressione oltre al monitoraggio dell’implementazione delle azioni di piano e del raggiungimento degli obiettivi strategici definiti dal PUP e modulati dai singoli PTC. La funzionalità del sistema sarà raggiunta tramite la progettazione, ad oggi in corso, di un interfaccia che permetterà di accedere interattivamente all’insieme dei dati caricati e al calcolo automati-

co degli indicatori via web. In tale quadro risulterà fondamentale anche il ruolo del SIAT, chiamato a garantire la continua validazione e trasmissione dei dati a supporto informativo dei processi decisionali e valutativi nonché la creazione di un quadro conoscitivo unitario sul quale impostare il coordinamento dei vari strumenti di pianificazione. L’autovalutazione dovrà produrre informazioni relative all'evoluzione del contesto, all'evoluzione dello stesso rispetto all’ipotesi zero, all’efficacia delle azioni implementate e alla misurazione del gap tra situazione reale e obiettivi di piano. Le informazioni prodotte dall’attività di monitoraggio e dalla valutazione ex-post, sistemi questi a loro volta architettati in sede di autovalutazione, dovranno essere trasformate, a chiusura del ciclo, in conoscenze reinseribili in un nuovo processo di pianificazione e di aggiornamento dei Piani, a suggello del principio di flessibilità posto alla base del nuovo ordinamento urbanistico provinciale. La legislazione urbanistica crea dunque, parallelamente alla governance della pianificazione, una governance dell’auto-valutazione dei Piani. Tale previsione risulta avere un carattere fortemente strategico sia in funzione di apprendimento ed accountability che di trasparenza. Con riferimento al primo aspetto i processi di autovalutazione potranno garantire un recupero di capacità cognitiva dei decisori sul policy making nonché l’ampliamento della conoscenza delle istituzioni e della collettività relativamente ai processi di pianificazione territoriale. La logica autovalutativa pone però al contempo numerose criticità. Innanzitutto l’efficacia del nuovo strumento, nel più complesso sistema di governo del territorio, richiede una ristrutturazione culturale e cognitiva sia delle istituzioni che dei pianificatori. In secondo luogo mancano molto spesso i dati territoriali e statistici di livello comunale indispensabili alle analisi quantitative territoriali ed ambientali. Risulta indispensabile procedere velocemente all’integrazione dei processi di valutazione strategica con una fase di valutazione quantitativa, al fine di oggettivarne i procedimenti ed evitare che l’autovalutazione si trasformi in strumento di convalida di scelte indipendentemente assunte, facendone invece uno strumento in grado di stimolare la propensione dei policy makers alla valutazione dell’intervento pubblico ed in grado di svilupparne la capacità cognitiva sulle relazioni causali tra le scelte effettuate e le variabili contestuali. Vista infine la funzione di accountability, sarebbe utile integrare il sistema con una valutazione esterna al policy making, cioè effettuata da una posizione cognitiva non vincolata all’esperienza di produzione del piano e finalizzata alla conoscenza ed alla rendicontazione. Lo straniamento del valutatore garantirebbe in questo senso maggiore oggettività nell’analisi dell’arena, del processo decisionale e di quello attuativo, nonché la produzione incondizionata di un capitale conoscitivo ad essi inerente.


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XII BIENNALE DI ARCHITETTURA «People meet in architecture» a cura della Redazione Fotografia di Lina Bo Bardi, Museu de Arte de São Paulo MASP, 1957-1968 Concert at the Belvedere, 1992

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i è aperta domenica 29 agosto (fino a domenica 21 novembre 2010), ai Giardini della Biennale e all’Arsenale, la 12. Mostra Internazionale di Architettura dal titolo People meet in architecture, diretta da Kazuyo Sejimae organizzata dalla Biennale di Venezia presieduta da Paolo Baratta. La mostra nasce e si sviluppa secondo le linee di ricerca che la Biennale di Venezia porta avanti nel campo dell’architettura e che l’hanno resa nel corso degli anni un appuntamento immancabile della cultura internazionale. Dopo una serie di Biennali affidate a eminenti critici o storici, il settore quest’anno è stato nuovamente affidato a un architetto, Kazuyo Sejima. Prima donna a dirigere la Biennale Architettura, Sejima è stata insignita il 17 maggio del prestigioso Pritzker Architecture Prize 2010, insieme a Ryue Nishizawa. La Mostra People meet in architecture è allestita al Palazzo delle Esposizioni della Biennale (Giardini) e all’Arsenale e forma un unico percorso espositivo, con 46 partecipanti tra studi, architetti, ingegneri e artisti da tutto il mondo. Il titolo suggerisce che l’architettura ha il compito di creare degli spazi reali che agevolano la comunicazione tra gli individui, in un’epoca in cui le tecnologie più avanzate sostituiscono il dialogo diretto tra le persone. Per supe-

rare la condizione di isolamento e restituire un nuovo senso alle comunità, l’architetto piuttosto che concentrarsi su grandi utopie, dovrà cercare di realizzare visioni funzionali al presente. Sejima concepisce luoghi fluidi e privi di gerarchie che permettono una relazione continua tra esterno e interno, incoraggiando la capacità dei partecipanti di interpretare lo spazio. «È più che mai auspicio della Mostra – dichiara Paolo Baratta - che si sviluppi una più articolata ed efficace committenza sia privata che pubblica, dalla quale possa no emergere domande e richieste all’architettura che oggi appaiono sopite o ignorate. Una mostra di Architettura può aiutare utilizzando il proprio linguaggio, che non è solo quello della documentazione ma quello dell’emozione visiva, che porta a intuire e pensare possibilità nuove e diverse rispetto al quotidiano e al consueto. People meet in architecture vuol anche dire che we become peo ple in architecture; è appunto nella res publica che l’uomo corona il proprio sforzo di costruire la civiltà dell’uomo». «Questa edizione della Mostra consente alle persone di prendere coscienza delle varie idee emanate da contesti diversi – svela Sejima - e rispecchia il presente che incapsula in sé potenzialità per il futuro. È mia speranza che questa esposi-

zione sia un’esperienza di possibilità architettoni che, che riguardi un’architettura creata da diversi approcci, capace di esprimere nuovi modi di vita. Un’esposizione d’architettura è un concetto provocatorio, dato che è impossibile portare in mostra gli edifici veri e propri, i quali devono essere dunque sostituiti da modelli, disegni e altri oggetti. In quanto architetto, ritengo che sia compito della nostra professione utilizzare lo “spazio” come un mezzo con cui formulare il nostro pensiero». La Mostra è affiancata, negli storici Padiglioni ai Giardini, all’Arsenale e nel centro storico di Venezia, da 53 Partecipazioni nazionali. I paesi presenti per la prima volta sono Albania, Regno del Bahrain, Iran, Malesia, Repubblica del Ruanda e Tailandia. Ailati. Riflessi dal futuro è il tema del Padiglione Italia all’Arsenale, organizzato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali con il PaBAAC - Direzione Generale per il paesaggio, le belle arti, l’architettura e l’arte contemporanee, e curato da Luca Molinari. Il Padiglione Venezia ai Giardini ospita un doppio omaggio a uno scultore, Toni Benetton, e a un architetto, Toni Follina, in una mostra a cura di Carlo Sala e Nico Stringa. Gli Eventi collaterali quest’anno sono 20, promossi da enti e istituzioni internazionali e organizzati in diverse sedi a Venezia e fuori Venezia.


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Uno sguardo SULLA CINA di Mirco Elena

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i questi tempi parlare di Cina è di gran moda ed è facile capire perché. Un paese che fino a pochi decenni fa era caratterizzato da grande miseria, si propone ora come il principale candidato a subentrare nel medio periodo alla superpotenza americana, in evidente declino, come leader mondiale. Se le sue capacità militari sono ancora modeste, la sua economia ha compiuto passi da gigante e la sua industria inonda di prodotti competitivi i mercati mondiali. Tremano i posti di lavoro nel ricco occidente, incapaci a competere col basso costo della manodopera della Nazione di Mezzo (questo è il nome che i cinesi danno al loro stato), ma nel contempo rilevanti strati poveri della popolazione europea e americana mantengono una certa capacità di acquisto proprio grazie alle merci cinesi a buon mercato. Sul fronte politico non c'è nazione, grande o piccola, che non assuma un atteggiamento di cauto rispetto verso il gigante risvegliatosi da un lungo sonno. Passati sono i tempi della Guerra dell'Oppio e delle Legazioni, quando una Cina sconfitta e umiliata subiva il volere avido degli occidentali, efficacemente supportato dalle cannoniere.

Che il cambiamento sia davvero epocale lo capiamo se pensiamo che alla fine degli anni '50 ci furono in Cina oltre venti milioni (sì, venti milioni, un terzo degli attuali italiani) di morti a seguito della carestia provocata dalle folli scelte di politica economica decise da Mao, culminate con il “Grande balzo in avanti”. A distanza di mezzo secolo, i negozi cinesi però traboccano di mercanzie di ogni genere, comprese quelle di importazione e pure di quei beni di lusso che risultano irraggiungibili anche per la maggior parte dei cittadini occidentali. Il veloce progresso economico va peraltro di pari passo con l'abbandono di positivi valori tradizionali, quali una certa morigeratezza, la solidarietà tra vicini, il rispetto degli anziani. Tutto viene travolto dall'imperativo di arricchirsi. Fare soldi diviene l'unica fondamentale virtù; mai l'invito di un leader politico (in questo caso Deng Xiao Ping) fu così entusiasticamente fatto proprio dalle masse popolari. Risulta davvero chiaro come i cinesi delle più giovani generazioni stiano copiando tutto quel che odora di occidente, tra cui i modi di vita e i comportamenti. Ed “occidente”, per i cinesi, vuol dire “americano”. I cinesi copiano infatti, inevita-


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bilmente, dal primo della classe, gli Usa, e non dagli europei, visti sostanzialmente come comprimari (ed evidentemente colpevoli, nella lunga memoria orientale, di tutta una serie di soprusi al tempo dell'espansionismo coloniale). I risultati positivi non mancano, giudicando in particolare dall'impressionante miglioramento nelle comunicazioni via strada, ferrovia e aereo. Queste hanno ricevuto un'accelerazione impressionante, grazie alla realizzazione rapidissima di autostrade, viadotti, ponti, collegamenti su rotaie veloci, aeroporti. Ormai si può viaggiare in treni puntuali e confortevolissimi tra città distanti oltre mille chilometri in un pugno di ore. Nuovi tratti ferroviari raggiungono ormai Lhasa in Tibet e Kashgar ai confini con il Pakistan, aprendo la strada allo sviluppo economico, ma anche permettendo l'afflusso di persone di etnia cinese “han” in aree sinora dominate da minoranze restie ad accettare il dominio del governo centrale, con le inevitabili tensioni che ciò comporta. Gli aeroporti competono tra loro in modernità ed efficienza, con quello di Pechino, che impressiona non solo per le sue dimensioni e piacevolezza estetica, ma anche perché nelle ore diurne è illuminato ottimamente con luce naturale, con un effetto assai apprezzabile. Assieme ai valori sociali sopra ricordati, i cinesi perdono anche parte della loro storia, della loro architettura, del loro paesaggio. Lanciati a perdifiato nella veloce corsa verso la modernità, che ha già consentito loro di lasciarsi dietro le spalle i tempi -letteralmente bui- delle stanze fiocamente illuminate, delle strade sconnesse, dei ponti mancanti, dei trasporti lenti ed inaffidabili, dei negozietti minuscoli, i cinesi abbattono senza esitazione interi quartieri residenziali, a Pechino e in altre città, per realizzare al loro posto palazzi e grattacieli dall'aspetto modernissimo. Se ne vanno pertanto le basse case di uno o massimo due piani, modeste ma umane, aperte su cortili interni tranquilli e riparati, per fare spazio al vetrocemento delle costruzioni di dieci o venti piani, luccicanti e orgogliose, che però nel giro di pochi anni subiranno l'inclemenza del tempo e cronicamente mancando una manutenzione adeguata - perderanno rapidamente il loro lustro. (Ma un appartamento moderno ha i suoi indubbi vantaggi, in primis il gabinetto privato, un lusso che si apprezza davvero solo dopo essersi serviti di taluni puzzolentissimi bagni pubblici!). Se ne vanno così begli esempi di architettura tradizionale, con i tetti dalle eleganti estremità ricurve, le tegole decorate, gli accessi a forma di omega, gli architravi di legno scolpito, i dragoni antifulmine sul colmo del tetto. Preziosità che scompaiono di fronte all'ondata modernista, che nulla salva nel suo cieco anelito allo “sviluppo”. Ed è un peccato, forse inevitabile, ma certo un peccato. Peraltro anche noi italiani, negli anni ormai lontani del boom economico, abbiamo distrutto il profilo di città e borghi, realizzando brutti palazzoni anonimi ed inquinando a più non

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posso (ricordiamoci le immagini del fiume Lambro pieno di schiuma negli anni '60). Come criticare allora i cinesi, che il ricordo della miseria più nera e spietata lo hanno ancora dentro di sé, essendo questo assai più recente? Gli errori (e gli orrori) si ripetono nel corso della storia umana. È tuttavia vero che in talune costruzioni moderne si mantengono alcuni caratteri orientali, che ingentiliscono il risultato e ci fan capire di non essere a New York o a Tokyo, ma sono relativamente rare. Specialmente i tetti all'occidentale, squadrati e totalmente anonimi, fanno rimpiangere la tradizione locale. Anche i brillanti colori di molti monumenti cinesi non trovano uguale nel grigio che domina l'architettura europea classica. I colori vivaci sono ormai quelli delle luci al neon e dei giganteschi tabelloni luminosi che trasformano le strade principali delle metropoli. Come se la dilagante modernità architettonica non bastasse, è di moda, nelle grandi città così come nei piccoli borghi, far sfoggio di abbellimenti e decorazioni luminose, a colori, lampeggianti, cangianti; più spesso che no di un'indiscutibile pacchianeria. Non solo. Pure le palme finte di plastica colorata sono apparse a deliziare (si fa per dire...) gli occhi dei passanti, lungo i viali e nei giardini. Ma questi sono dettagli trascurabili, a fronte della questione energetica che la drastica crescita dei consumi e la corsa verso la modernità ha comportato. Nemmeno la costruzione di giganteschi impianti idroelettrici, come la diga delle Tre Gole (che da sola può arrivare a produrre quanto una ventina di centrali nucleari) riesce a far fronte ad una domanda in rapidissima crescita, che viene soddisfatta costruendo annualmente tante centrali elettriche quanto quelle esistenti in un medio-grande paese europeo! La Cina ha iniziato ad importare sempre maggiori quantità di petrolio e gas naturale, oltre ad estrarre in misura crescente carbone, l'unica risorsa di cui è ricca. Ha ormai sorpassato gli Stati Uniti come principale emettitore di gas serra in atmosfera (sebbene a livello pro capite si situi ancora assai indietro, rispetto a tutti i paesi sviluppati dell'occidente). È vero che si sono intrapresi anche grandiosi progetti per favorire un rapido sviluppo delle energia rinnovabili; viaggiando in zone come lo Xinjiang, nell'estremo ovest cinese, territorio in gran parte desertico, si incontrano campi eolici sterminati. Pure il fotovoltaico sta facendo rilevanti passi avanti. Ma il problema di fondo è che i progettisti di edifici copiano ancora dall'occidente più arretrato, mirando a realizzare palazzi esteticamente impattanti, ponendo però poca o nulla attenzione alle misure di limitazione delle necessità energetiche, che possono produrre risultati meravigliosi, come dimostrano le esperienze europee (e Casa Clima in Alto Adige). E questo è un grave handicap che influirà sul futuro del paese, dato che una volta che si è realizzato male un edificio, questo continuerà a spre-

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Olivo Barbieri, Site specific_SHANGAI 04 © Olivo Barbieri

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care per molti decenni. E le conseguenze non solo solo di natura economica o ecologica, per una nazione che mira a divenire la principale potenza mondiale. La dipendenza energetica dalle importazioni potrebbe infatti rivelarsi il tallone di Achille che la pone alla mercé di chi controlla le rotte del petrolio e del gas, in particolare degli Stati Uniti e dei loro alleati. * * * A mio parere i cinesi sono per vari aspetti gli “italiani d'oriente”; di conseguenza non è sorprendente scoprire che sono assai attenti a far bella figura; gli status symbol sono un elemento fondamentale del loro vivere. Un esempio lo troviamo nelle automobili che acquistano ormai in gran numero. Non si è assistito ad un progressivo aumento delle dimensioni delle vetture,

da una prima fase con le piccole utilitarie, man mano procedendo alle berline e così via. I cinesi hanno bruciato le tappe. In un paese in cui lo spazio disponibile nelle città è assai scarso e vi è sempre stato grande affollamento, l'acquirente di Pechino o di Shanghai compera esclusivamente mezzi di grossa cilindrata e di dimensioni rilevanti, sui quattro metri di lunghezza. Non è strano che comincino ad esserci notevoli problemi di traffico e di parcheggio. Ormai nella metropoli di Pechino, dal lunedì al venerdì, si circola regolarmente a targhe alterne! Penso non ci vorrà molto prima che venga introdotto l'obbligo, per chi acquista un veicolo, di dotarsi innanzitutto di un garage privato dove parcheggiarlo. Proprio come in Giappone. Visitando regolarmente la Cina si rimane assai colpiti ed anche ammirati dalla velocità con cui avvengono i cambiamenti. L'elite tecnocratica


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attualmente al governo ha dimostrato di saper guidare con mano ferma il paese fuori dalle sacche del sottosviluppo (che permane peraltro ancora assai diffuso nelle campagne), e di saper navigare nelle perigliose acque dell'economia mondiale, passando praticamente indenni attraverso le gravi crisi del sud-est asiatico prima e di quella recentissima che ancora fa sentire i suoi effetti su tutto l'occidente. D'altro canto lo sviluppo accelerato, unito ad una mancanza di attenzione nei confronti dell'ambiente, ha danneggiato gravemente l'aria e l'acqua e questo costa molto - non solo in termini di denaro - ad un paese in cui molte aree sono aride. Si assiste in questi ultimi anni ad una maggiore consapevolezza dell'importanza di proteggere l'ambiente e ci son le prime forti indicazioni che si sta cominciando a rimediare,

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introducendo norme severe che però bisognerà capire come e quanto verranno applicate in pratica. Già adesso si può vedere che la rete delle metropolitane nelle grandi città è cresciuta ad una velocità impressionante, ma la corsa all'automobile privata sembra inarrestabile, pur se già ora si perdono ore e ore bloccati nel traffico delle grandi conurbazioni. C'è da auspicare che la Cina si converta rapidamente ad un modello di sviluppo più rispettoso della natura, della propria antica cultura, della qualità della vita dei propri cittadini. Non è una speranza del tutto vana. Sfruttando il sistema governativo autoritario, basta che la dirigenza prenda una decisione che questa può venir implementata in tempi che nel nostro mondo europeo appaiono strabilianti. Una “conversione ecologica” di quello che fu il Celeste Impero potrebbe tornare comodo anche all'Occidente, consentendoci di esportare verso Pechino quelle tecnologie, quel know how, quella cultura che abbiamo lentamente sviluppato nel corso della nostra storia e che potrebbe rivelarsi essenziale per evitare che l'ascesa della Nazione di Mezzo come potenza economica mondiale produca risultati catastrofici sul piano ambientale planetario. Con un po' di fortuna si può sperare che il miracolo economico cinese si trasformi presto in un caso di sviluppo ecologicamente compatibile e in un esempio positivo per tutti gli altri paesi del terzo mondo che aspirano ad abbandonare la miseria e per i quali Pechino rappresenta oggi un modello da imitare. La natura pragmatica dei cinesi, unita alla coscienza che cambiamenti come quelli climatici avrebbero conseguenze disastrose anche per il loro paese, e all'emergere di generazioni non più terrorizzate dalla prospettiva di un ritorno alle condizioni di sottosviluppo del passato, permettono di avere una certa fiducia che nel giro di pochi anni anche la Cina intraprenda un percorso virtuoso di riduzione della propria impronta ecologica. Certo che questo percorso avverrà tanto più efficacemente quando più dal ricco Occidente verranno segnali concreti che questa è la strada che noi stessi intraprendiamo con decisione. Peccato che i problemi economici abbiano fatto perdere slancio all'amministrazione americana, che con Obama finalmente pareva ottimamente disposta in questa direzione e che, rimanendo nel nostro piccolo angolo d'Europa, in questo momento il governo italiano non dimostri alcuna sensibilità


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“NO” a quattro domande di derivazione d’acqua per riqualificazione di energia a cura dell’Ufficio Stampa della Giunta della Provincia autonoma di Trento

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l 26 marzo scorso la Giunta della Provincia autonoma di Trento ha approvato quattro diverse delibere che riguardavano l'ammissibilità della successiva fase istruttoria di quattro domande di derivazioni per pompaggio d’acqua con accumulo, finalizzate alla riqualificazione dell’energia. Questo preliminare giudizio è il risultato di verifiche circa la sussistenza di prevalenti interessi pubblici generali a carattere ambientale, paesaggistico o socio-economico nonché per usi diversi. Con le quattro delibere del presidente Lorenzo Dellai e del vicepresidente e assessore all'ambiente, Alberto Pacher, si è deciso di dire "no", ritenendo appunto prevalenti gli interessi pubblici generali. Due domande sono relative alla possibilità di costruire due distinti impianti di pompaggio dell’acqua dal lago di Garda con stoccaggio della risorsa in serbatoi da realizzarsi in sotterraneo sul Monte Altissimo. Un terzo progetto prevede la realizzazione di una grande diga sul torrente Maso in località Pian delle Madonne. Il quarto, infine, prevede il sollevamento delle acque dal fiume Adige sul comune di Terlago, in località Faeda, a monte dei laghi di Lamar. Ricordiamo che gli impianti di pompaggio per riqualificazione di energia non sono classificabili come impianti idroelettrici ma si configurano come apparati utili per accumulare energia elettrica già prodotta da altre centrali e capaci di rilasciarla in tempi differiti con maggiore potenza. Essi sono in grado di concentrare, e di rendere disponibile alla rete elettrica, l’energia prelevata dalla medesima durante i momenti di minor consumo. Impianti di grandi dimensioni hanno la funzione anche di riserva, di bilanciamento e di riaccensione della rete nel caso di black-out. La Provincia Autonoma di Trento ha competenza al rilascio della concessione a derivare e per la valutazione di impatto ambientale relativa a questi progetti, in base alla legge provinciale numero 18 del 1976, modificata recentemente con la legge 19 del 2009. Sono state presentate due diverse domande relative alla possibilità di costruire due distinti impianti di pompaggio dell’acqua dal lago di Garda con stoccaggio della risorsa in serbatoi da realizzarsi in sotterraneo sul Monte Altissimo, da realizzarsi a circa un centinaio di metri al di sotto del piano campagna. Il progetto proposto dalla società Eisackwerk srl di Bolzano prevede il prelievo della portata di 46 m3/s, la costruzione di un serbatoio di 1 milione di m3 con una po-

Sono «prevalenti gli interessi generali a carattere ambientale socio-economico e del paesaggio» tenza di turbinamento fino a 940 MW. Il progetto proposto invece dalla società Progetto Altissimo srl di Trento prevede il prelievo dal lago della portata di 74 m3/s, la costruzione di un serbatoio di 1,6 milione di m3 con una potenza di turbinamento fino a 1440 MW. Per entrambi i progetti è prevista una centrale da realizzarsi in sotterraneo con accesso mediante gallerie di imbocco dalla statale gardesana. Il terzo progetto della società So.GEAT srl di Trento prevede invece la realizzazione di una diga sul torrente Maso in località Pian delle Madonne utile per raccogliere 3,7 milioni di m3 e il successivo pompaggio al superiore serbatoio di Costabrunella attraverso una galleria di circa 7 km. La capacità produttiva di questo impianto, con pompaggio di 46,8 m3/s, è prevista in 900 MW. La quarta domanda, invece, presentata dagli ingg. Betti e Vialli di Trento si riferisce ad un impianto, di più modeste dimensioni, che prevede il sollevamento delle acque dal fiume Adige con portata di 6,3 m3/s con successivo accumulo in un piccolo invaso di circa 270000 m3 da realizzarsi sul comune di Terlago, in località Faeda, a monte dei laghi di Lamar. Tutti questi impianti prevedono l’allacciamento ad esistenti tratti dorsali di elettrodotti della rete elettrica nazionale gestita da Terna. La Giunta, grazie alle proprie competenti strutture, ha voluto approfondire le tematiche che riguardano gli effetti che queste grandi infrastrutture avrebbero sul territorio provinciale in relazione al quadro programmatico, ambientale, economico e agli aspetti istituzionali. Gli strumenti della programmazione Europea in materia di energia e di reti di trasporto prevedono la rimozione dei potenziali ostacoli regolatori e puntano a creare un unico sistema elettrico, più efficiente di quello attuale, eliminando utilmente i gap dei sistemi elettrici nazionali che non consentono il libero scambio dei quantitativi orari dell’energia giornalmente prodotta. La politica energetica nazionale in questo mo-


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mento sembra avvantaggiare questi tipi di impianti che sono basati sul gap dei sistemi nazionali, correlato alla scarsa possibilità di scambio delle quantità di energia richiesta diurna e di quella offerta notturna, creando sovrapprezzi ma in prospettiva dovrebbe adeguarsi ai più efficienti scenari europei. Questo fatto non consente il mantenimento nel tempo degli attuali vantaggi. L’entità dei progetti proposti e gli impatti ambientali che i medesimi produrranno sull’ambiente e il territorio che essi interessano, sono tali - così si legge nelle delibere oggi approvate - che le loro realizzazioni non appaiono il linea con le scelte che la Provincia autonoma di Trento ha effettuato in tema di sostenibilità del proprio sviluppo, anche con riguardo alle esigenze di tutela dei SIC e delle zone a protezione speciale interessate dagli impianti. La paventata costruzione degli elettrodotti richiesti a servizio di questi impianti non è stata dunque ritenuta compatibile con i vincoli urbanistici che questi implicano sul territorio, considerando anche il loro importante sviluppo in linea che tocca aree distanti. Nel caso del torrente Maso, l’interesse a realizzare una nuova diga, destinata anche alla laminazione delle piene, è stato ritenuto secondario rispetto ai rischi che vengono a crearsi per i territori a valle in termini di pericolo idraulico. Nella valutazione riferita all’impianto sul torrente Maso, al quale era associata la costruzione di una grande diga, sono stati considerati i conseguenti rischi antropici, nella fattispecie quello idrauli-

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co, che verrebbero a crearsi sui territori a valle della medesima. Per quanto riguarda gli impianti sul lago di Garda sussistono esigenze legate anche a preservare l’ecosistema delle acque del lago e l’importante ruolo di naturalità ed integrità nonché di immagine associato al territorio del lago. La Giunta ha ritenuto opportuno inoltre dare attuazione all’ordine del giorno del Consiglio Provinciale che impegnava ad evitare che in Trentino fossero costruiti serbatoi artificiali con mere funzioni di sfruttamento energetico, in contrasto con il rispetto del patrimonio ambientale e naturalistico ambientale. Nel caso dei progetti riferiti alle derivazioni dal lago di Garda, la Giunta ha tenuto conto delle espressioni dei consigli comunali interessati. Sulla base di questi motivi connessi alle esigenze della tutela ambientale e considerato che gli strumenti della pianificazione provinciale (PGUAP, PUP, PSP, Piano di tutela delle acque, Piano energetico ambientale) - di cui la Provincia si è dotata negli ultimi anni - non auspicano la presenza di questi impianti di riqualificazione di energia come elemento caratterizzante l’indirizzo strategico pianificatorio del Trentino, escludendo dunque la creazione di una sorta di piattaforma infrastrutturale così rilevante sotto il profilo energetico, la Giunta ha ritenuto che sussistano prevalenti interessi generali a carattere ambientale socio-economico e del paesaggio. Di qui il "no" all'ammissibilità alla successiva fase istruttoria per le quattro domande di derivazioni per pompaggio d'acqua.

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Le attività culturale dell’Inu/Trentino Incontri dell’estate 2010 a cura di Giovanna Ulrici Uno degli scopi statutari di INU è rappresentato dalla diffusione della cultura urbanistica e dalla attività di aggiornamento della disciplina. INU Sezione Trentino ha recentemente promosso due aggiornamenti dedicati ad argomenti che si ritengono cruciali ma non sufficientemente presenti nel dibattito di settore, dei quali si riferisce brevemente di seguito. Venerdì 28 maggio 2010 Sala affreschi biblioteca centrale comunale di Trento VALUTAZIONE AMBIENTALE STRATEGICA. FATTORI DI CRITICITA’ NELLA PIANIFICAZIONE A SCALA COMUNALE. Relatori: prof. Davide Geneletti e dott.ssa Chiara Bragagnolo, Università degli Studi di Trento; Arch. Angiola Turella, Responsabile Ufficio pianificazione urbanistica, Provincia Autonoma di Trento. INU ha scelto di presidiare il tema ambientale nella pianificazione con una iniziativa di approfondimento, a pochi mesi dalla pubblicazione delle “Linee guida per l'autovalutazione degli strumenti di pianificazione territoriale” (in vigore dal 7 marzo 2010) da parte della Provincia Autonoma di Trento sulla redazione della Valutazione Ambientale Strategica (VAS) e quindi in concomitanza con l’avvio delle prime esperienze applicative di una procedura complessa che troverà – ci si augura – piena integrazione nella pianificazione delle Comunità di Valle. La VAS, introdotta dalla direttiva 2001/42/CE, ha l’obiettivo di promuovere un nuovo modello di pianificazione territoriale orientato alla sostenibilità: si basa sul principio di prevenzione, e quindi sulla considerazione di possibili impatti, ambientali – sociali – economici, nei processi decisionali di trasformazione del territorio: in questo senso rientra in ogni fase della formazione degli strumenti urbanistici e ne permea la definizione di strategie e priorità. Partecipare alla diffusione della cultura della valutazione ambientale strategica in campo urbanistico, superando approcci

settoriali che tradizionalmente vedono chi si occupa di pianificazione dominare a fatica campi ritenuti specialistici o vincolistici, significa credere nelle potenzialità date da una lettura valutativa/ strategica degli indicatori territoriali, quando saranno diffusi e di facile accesso. Approfondire con questo punto di vista il tema delle risorse al miglioramento del governo del territorio date dal nuovo assetto urbanistico e amministrativo provinciale significa volere allontanare lo spettro di approcci valutativi formali e di fatto ex post rispetto alle fasi cruciali di scelte pianificatorie, e tutti i rischi di semplificazione in materia ambientale. Nel processo di VAS vi sono elementi strutturali, ineludibili, che non possono che vivificare l’iter di formazione dei piani: nuove forme strutturate di condivisione delle decisioni e di partecipazione, imprescindibili per la Valutazione strategica, sono riportate dalla legge provinciale all’interno del processo di piano (accordipiani di programma). Anche l’articolazione in cui si struttura la procedura di VAS, che prevede una prima fase di previsione degli effetti ambientali ed economici, anche cumulativi, , e una seconda fase di presidio degli impatti mediante monitoraggio potrà rafforzare ed armonizzarsi con la nuova struttura degli strumenti urbanistici che riporta all’interno della pianificazione un approccio per livelli strutturali (PDC) e operativi (PRG). L’introduzione della Vas comporterà un ripensamento del processo di pianificazione, verso un modello meno disegnato e più strategico; meno statico nel tempo e più integrato con le scelte vere, che di

solito passano mediante varianti – urgenti - ai piani. Nell’incontro si è cercato di declinare il tema della valutazione strategica applicata alla pianificazione su di un particolare ambito dimensionale, la scala comunale che, in attesa della messa a regime della pianificazione di comunità, risulta la scala più consueta nella pratica urbanistica. Scopo della comunicazione del prof. Geneletti e della dott.ssa Bragagnolo, la dimostrazione che il processo di VAS è un processo di supporto alle decisioni, e in quanto tale sintetico, finalizzato alla gestione dei conflitti, svincolato da approcci meramente analitici e – grazie all’uso di indicatori efficaci – continuo. L’arch. Turella ha ricondotto a centralità il principio della sostenibilità sotteso alla VAS, evidenziandone le componenti sociali ed economiche a fianco di quelle ambientali. Declinare la VAS alla scala comunale può significare affrontare le potenzialità


L’intervista

urbanistiche di un approccio strategico nella valutazione di diversi scenari di sviluppo, per esempio in rapporto alla localizzazione dei servizi, alla loro accessibilità, in rapporto all’esposizione ad inquinanti, all’occupazione di suolo, ecc. Declinare alla scala comunale può chiarire meglio le modalità di applicazione locale della VAS in questa fase intermedia che attende la pianificazione di comunità, o superare i problemi dei limiti amministrativi che non sono i limiti di influenza degli effetti ambientali, o chiarimenti in merito ai contenuti delle valutazioni strategiche e delle rendicontazioni: proprio la VAS potrà evidenziare il limite della scala comunale per molte scelte e la spinta ad una selezione degli ambiti sui quali attivare una cooperazione territoriale a scala maggiore (di comunità, si spera). Risulta in questo quadro quasi ovvio richiamare l’ urgenza delle questioni ambientali dibattute quotidianamente sulla stampa locale, tra inquinamenti potenziali, reali e percepiti, in una comunità che riconosce all’ambiente un alto valore identitario. È stato infine ricordato come il tema della VAS apra ad una questione ben più complessa ed estesa, quella che riguarda il difficile rapporto tra pianificazione urbanistica ed ambientale di settore: risulta sempre più difficile cercare o rivendicare un primato della pianificazione urbanistica sull’ambiente e sulla gestione della sicurezza territoriale, che della pianificazione urbanistica spesso “se ne fa un baffo”. A titolo esemplificativo basta richiamare il tema nazionale della sicurezza del territorio (sismica o idrogeologica), che assume sempre maggior preminenza mettendo spesso in crisi l’urbanistica: carte del pericolo troppo spesso offrono scenari in cui le scelte urbanistiche mostrano i loro limiti di conoscenza, per esempio dei fenomeni idrogeologici o sismici. Il problema è quindi ben più delicato della semplice tutela e autorevolezza della disciplina urbanistica, ma è un problema che ha a che fare con gli effetti pesanti sia in termini di livelli di rischio di cui le amministrazioni devono caricarsi, sia in termini di costi economici e sociali per la messa in sicurezza o il presidio del territorio generati da una miope pianificazione.

Sentieri Urbani

Martedì 8 giugno 2010 Sala affreschi biblioteca centrale comunale di Trento LE VICENDE DELLA PIANIFICAZIONE A TRENTO E A BOLZANO, DAL SECONDO DOPOGUERRA AD OGGI. Relatori: prof. Bruno Zanon, Università degli Studi di Trento; Urb. Peter Morello, INU sezione Alto Adige, Moderatore: arch. Roberto Bortolotti, Commissione urbanistica dell’Ordine degli Architetti di Trento. Interventi di: arch. Luisella Codolo, Dirigente Servizio Ambiente, Comune di Trento e arch. Giuliano Stelzer, Dirigente Servizio Urbanistica, Comune di Trento. L’incontro, dal titolo e dal soggetto certamente impegnativo, trae origine dalla presentazione di un testo di grande utilità per chi voglia riflettere e informarsi sulle vicende della pianificazione italiana: Il nuovo manuale di Urbanistica. Lo stato della pianificazione urbana. 20 città a confronto, a cura di E.Piroddi e A.Cappuccitti, Roma, Gruppo Mancosu Editore, 2009. Le città di Trento e di Bolzano trovano spazio nel saggio, e ne vengono ripercorse le vicende urbanistiche dagli stessi autori, rispettivamente il prof. Bruno Zanon e il dott. Peter Morello. Entrambe le città portano impresse nella loro forma le scelte operate dalla pianificazione degli anni ’60, nei Piani di Piccinato (Bolzano) e di Marconi (Trento): piani che disegnano le città con grande sapere tecnico, dopo frettolose ricostruzioni postbelliche e in piena emergenza demografica, prefigurando scenari di crescita sovradimensionati. Per Trento la forma prefigurata per la città di oggi è frutto di una sedimentazione di scelte riferite a modelli di città in cui permane come invariante la percezione di una separatezza tra l’urbanizzato e il territorio altro, tra il dentro ed il fuori , separatezza leggibile nei grandi Piani di Marconi degli anni ’60 e di Vittorini negli anni ’80. Il primo di questi piani si forma in stretto rapporto con il primo Piano Urbanistico Provinciale, del prof. Samonà, e deve confrontarsi con la presenza di una infrastruttura ingombrante quale è l’Autostrada del Brennero. Anche il Piano di Vittorini pone grande attenzione al sistema viario e alla costruzione di luoghi di identità, le aree centrali, nelle nuove aree urbanizzate, la cui riuscita però spesso verrà compromessa dalla mancanza di un progetto identitario condiviso.

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Con il Piano Urbanistico di struttura generale del 2001 si introduce, anticipando la legge urbanistica, una declinazione del Piano su due livelli, strutturale ed operativo, in cui inserire quindi la costruzione di uno scenario di invarianti poi sviluppato nelle “visioni” (proposte di progettazione urbanistica di brani di città) di Busquets. Come ha osservato l’arch. Stelzer, intervenuto al dibattito, in una fase in cui il Piano sembra divenire luogo per economisti e per legislatori, si torna sorprendentemente ad un piano che esalta la forma ed il disegno dei luoghi e dell’insieme urbano. Con tutti i limiti dati dalla rappresentazione a volte troppo scenografica o visionaria, il piano Busquets ha affrontato il bisogno di una forma di città unitaria, unità al presente persa in un rivolo di spunti frammentari e settoriali offerti per affrontare il futuro delle trasformazioni e della crescita urbana. Il presente inoltre, se così raffrontato ad un passato anche recente, dimostra tutta la fatica di una complessa strumentazione urbanistica affaticata da una difficile convivenza con piani e norme di settore e con accumuli di Varianti di sempre più difficile gestione. L’esperienza di Bolzano testimonia di una storia urbanistica fatta di Piani regolatori congegnati come forti progetti di società: per dimostrare questa tesi Mo-


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rello riprende la vicenda della pianificazione del capoluogo altoatesino dalla metà dell’Ottocento. Riprendere i fili della crescita urbana ottocentesca permette di impossessarsi della presente struttura della città, le infrastrutture ferroviari definiscono le forme della città fuori dal centro storico. La prima guerra mondiale, il fascismo, la seconda guerra mondiale e la distruzione che segue sono tappe della storia della città che cresce con i Piani di Piacentini prima e di Piccinato poi. Negli anni Novanta il Piano di Vittorini, riprendendo alcuni temi dei precedenti piani, si dedica alla costruzione della centralità nelle nuove aree urbanizzate con una particolare attenzione al paesaggio (studiato alla stessa scala dello zooning) e all’uso del verde come materiale di struttura per il disegno della città. La storia della pianificazione di Bolzano necessita di sottolineare la cura nel declinare in ogni fase storica il tema della casa, sia nella attenzione al risparmio di suolo, sia nelle politiche per la casa e l’edilizia agevolata. La pianificazione del capoluogo altoatesino è oggi ricca di forti potenzialità date dallo strumento che la città ha scelto anticipando o andando

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oltre quanto la normativa prevedesse. Il Masterplan del 2009 di Bolzano porta a sistema un forte disegno di città, elaborato dietro a un preciso mandato politico e alla forza persuasiva e coordinatrice di Silvano Bassetti. E’ uno strumento di struttura e di linee di sviluppo, che cercherà attuazione negli anni futuri. In questa sede ha avuto importanza sottolineare la convergenza, cercata nel Masterplan, tra i tanti Piani di settore (piano energetico, piano della mobilità, piano del verde, ecc.) prodromici alla redazione del piano stesso, e il disegno complessivo e la sintesi da questo compiuti. Leggere la cronologia della strumentazione urbanistica permette anche – come ha osservato l’arch. Codolo presente al dibattito - di annotare l’avvio ed il con-

solidamento di una componente essenziale nello sviluppo del governo del territorio e nella concretizzazione delle previsioni di piano: lo strutturarsi di un forte ufficio di Piano all’interno della Amministrazione comunale capace di continuità gestionale ed attuazione delle previsioni di Piano. La storia evidenzia anche il ruolo degli autori dei Piani come personalità capaci di dominare non solo la disciplina urbanistica ma di orientare la politica di gestione del Piano: se è cambiata la pianificazione è anche cambiato il contesto socio -politico, sono aumentate le difficoltà di dialogo e l’approccio estemporaneo e frammentato ai temi del disegno della città.

Per l’organizzazione di questo incontro, INU sezione Trentino ha cercato e trovato ospitalità in Casacittà, grazie ad una collaborazione positiva con l’Ordine degli Architetti PPC della provincia di Trento, nella convinzione che un ragionamento collettivo sulla storia della pianificazione della città non possa che accrescere i risultati della riflessione sul presente e sul futuro della città stessa, soprattutto se condotto all’interno delle istituzioni. Con questo incontro si è inoltre voluto rafforzare il clima di scambio e collaborazione con la sezione Alto Adige di INU, anch’essa da poco rinnovata nel Direttivo, come mezzo per una maggiore conoscenza e comparazione con la realtà bolzanina.

Recensione in forma di lettera di Luigi Casanova (Vicepresidente di CIPRA Italia) Cari amici delle montagne, vi invio un invito alla lettura. È appena uscito il libro curato da Marcella Morandini e Sergio Reolon, “Alpi regione d'Europa. da area geografica a sistema politico”. Marcella Morandini è stata funzionaria di CIPRA, direttrice dell'Ecoistituto di Bolzano ed oggi è funzionaria del Segretariato della Convenzione delle Alpi. Sergio Reolon, oggi consigliere regionale del Veneto, è stato presidente della Provincia di Belluno, probabilmente poco capito da certo ambientalismo ideologico. Cosa ci dice questo sintetico e stimolante libro? Che la regione alpina non può più essere letta come un insieme ambientale, una nicchia ecologica, ma che se vuole un futuro deve costruire una sua politica, deve ottenere autonomia, una autonomia completa come quella vissuta nelle due province di Trento e Bolzano (che sapete io critico in molti aspetti, ma così riesco ad averla sotto controllo). Per ricostruire una identità vera e non il folclore, per

mantenere attivi servizi, per richiamare intelligenze e lavoro, perché le Alpi ritornino ad essere luogo di vita e ritornino vissute e specialmente conosciute. Il libro non serve soltanto a noi dolomitici per crescere, ma i tanti spunti presenti saranno utili a tutta la montagna italiana, alle Prealpi come agli Appennini. Usciamo dal servilismo e dall'inchino rivolto ai cittadini delle grandi metropoli e costruiamo, noi popoli delle montagne, la nostra autonomia. Che non si chiama banalmente federalismo, è molto, molto di più. Non si chiama la interessata carità delle province di Trento e Bolzano rivolte ad Asiago e Belluno perché stiano zitti con progetti che distruggono l'ambiente (vedi Marcesina o tappa del giro d'Italia a Falcade). Ma una parola strategica: responsabilità. Per questi motivi l'ambientalismo deve fare politica, mai ideologica, sempre e con maggiore convinzione investire per ritrovare il nostro essere, il nostro valore di abitanti delle montagne.

Marcella Morandini e Sergio Reolon (a cura di), “Alpi regione d'Europa. Da area geografica a sistema politico”, Editore Marsilio, collana “Ricerche”, 110 pagine, brossura, 14 euro


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La differenza da… fare! di Paola Ischia (Commissione Nazionale Ambiente, Energia, Clima, Consumo di Suolo)

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empre più nettamente si sta delineando a livello internazionale, la crescente presa di coscienza sulla progettazione dello spazio urbano come campo d’azione delle politiche di mitigazione ed adattamento ai cambiamenti climatici, di sostenibilità del progetto e dell’azione programmatica di governo del territorio. Tra le grandi capitali, Londra da tempo articola una convergenza di strategie nel “Thames Gateway”, il programma di sviluppo e riqualificazione della parte orientale, comprensivo degli interventi per l’evento delle Olimpiadi 2012, nell’ottica della low carbon economy, con grande attenzione al verde ed al paesaggio (“parklands landscape”), nell’affrontare le prevedibili problematiche di inondazione. L’ex amministrazione di Ken Livingstone ha attivato interazioni pubblico-private agendo su: trasformazione urbana, mobilità pubblica, riqualificazione di aree dismesse. Il Design Museum ha recentemente ospitato la mostra “Sustainable futures* - (*can design make a difference?)”, suddivisa in cinque sezioni: città, energia ed economia, cibo, materiali, creatività degli abitanti. Sono stati esposti prodotti, concept, progetti, invitando ad un’interazione e scambio di proposte e conoscenze. Dalla città carbon free di Curitiba in Brasile, a Masdar negli Emirati Arabi Uniti, dall’Eco-Boulevard de Vallecas a Madrid, con le strutture ad “albero d’aria” predisposte in attesa di una complessiva rigenerazione, al quartiere di Friburgo, dal Californian Academy of Science certificato LEED Platinum, al Sahara Forest project o alla Solar Updraft Tower in Germania, casi emblematici di sistemi passivi capaci di effetti straordinari e privi di pericoli o costi sociali. A ciò è stata affiancata la presentazione di battelli, autovetture, macchinari autoalimentati da fotovoltaico, abiti in fibre naturali o riciclate e piante attivamente impiegate nel purificare l’aria di interni. Accanto allo “straordinario” in esposizione, è significativa la raffinata, costante tensione alla civitas, all’elegante silenziosa offerta di nuova fruizione urbana che si respira nella metropoli: l’invito suscitato da rastrelliere con cicli a noleggio e l’organizzazione di maratone ciclistiche con chiusura al traffico di vaste aree urbane, l’accompagnamento attraverso punti informativi a supporto della fruizione pedonale, la creazione di “passeggi” in aree da rivitalizzare, la comparsa di improvvise isole verdi microclima-

tizzate da getti d’acqua sotto porticati vegetali ombrosi, la predisposizione di spazi collettivi che integrano le tradizionali biblioteche con luoghi di aggregazione e formazione civica, intrecciati allo shopping, in luoghi destrutturati, la diffusa distribuzione di suppellettili in cellulosa per il pasto da consumare in luoghi che certificano l’assenza di conservanti negli alimenti, a fine giornata distribuiti in opere caritatevoli se non totalmente esauriti. Il progetto che fa la differenza deve certo essere declinato secondo fasi o livelli che l’attuale crisi economica comporta ma non può aspettare: il tempo è elemento determinate, i risultati e gli effetti resi visibili intrecciano ed innescano processi virtuosi. La prestigiosa A.A., Architectural Association School, ha promosso un evento collaterale alla Biennale di Architettura di Venezia, titolato “Beyond entropy: when energy becomes form”, analizzando il rapporto fra arte, architettura e scienza “… nell’individuare un nuovo paradigma per il concetto di energia”. “Politiche energetiche e sviluppo sostenibile nei sistemi territoriali” è il titolo del Convegno organizzato dal Ministero dell’Ambiente e Tutela del Territorio e del Mare che aprirà la VII edizione di “UrbanPromo, città, trasformazioni, investimenti”, dal 27 al 30 ottobre 2010 a Venezia, quest’anno ospitato nella prestigiosa sede della Fondazione Giorgio Cini, nell’Isola di San Giorgio Maggiore, in occasione del quale avverrà la premiazione della terza edizione del Premio SEE Sustainable Energy for Europe, promosso dalla Commissione Europea in collaborazione con INU.

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Biblioteca dell’urbanista

Ernesto N. Rogers Editoriali di Architettura

Leonardo Ciacci (et al.) Giovanni Astengo. Urbanista Militante

Darko Pandakovic, Angelo Dal Sasso Saper vedere il paesaggio

Zandonai editore, Rovereto, 2009 (1^ edizione)

Marsilio, Venezia, 2009 (1^ edizione)

Città studi, Novara, 2009 (1^ edizione)

«Architettura è, concettualmente, sinonimo di vita, e non solo di quella che sperimentiamo in noi, ma di quella che testimonia il nostro assaggio tra i vivi presenti per i vivi futuri: realizzare un’architettura è “presentificare” il passato e “infuturare” il presente. Chi non intende questi princìpi fondamentali è inutile che faccia l’architetto o insegni ad altri a diventarlo». Critici e polemici, i testi di Rogers raccolti in questo volume, pubblicato per la prima volta nel 1968, toccano temi di sorprendente attualità. La cultura architettonica in Italia e all’estero, di cui Rogers fornisce una lucida interpretazione, la denuncia della speculazione edilizia, la necessità del rinnovamento generazionale, i problemi che affliggono l’Università italiana, il valore della democrazia e il ruolo attivo dell’architettura nella costruzione della società futura sono solo alcune delle problematiche affrontate da Rogers, che spesso travalicano i confini strettamente disciplinari. Un ideale comune percorre tutti questi testi appassionati e appassionanti: la fede nel valore civile dell’architettura. Ernesto Nathan Rogers (1909-1969) è stato tra le figure più significative della cultura architettonica italiana del Novecento.

Un film in DVD e un libro, per avere testimonianza visiva dell'azione e della personalità di una delle figure più emblematiche della costruzione dell'Italia contemporanea: Giovanni Astengo, architetto urbanista, che negli anni più intensi della ricostruzione del dopoguerra e dello sviluppo dell'Italia industriale, ha dato più di altri il segno della necessità e dell'azione della pianificazione urbana e territoriale. Maestro tra i più autorevoli, Astengo non ha tuttavia lasciato dietro di sé un suo libro, un testo che nell'università e tra i nuovi studenti, ne tenesse viva la memoria. Quattordici interviste filmate originali rilasciate dal suoi più stretti collaboratori con cui Astengo ha condiviso battaglie professionali politiche e culturali e da alcuni dei suoi allievi, hanno fornito il materiale necessario al montaggio di questo film, a cui sono state unite sequenze di documenti televisivi originali che di Astengo conservano l'immagine e la voce e ne restituiscono una figura sorprendente. Ricomposte in un film di 80 minuti circa, le testimonianze che raccontano questo personaggio appaiono ora come un convincente strumento d'interpretazione, capace di raccontare un'avventura professionale e scientifica ricollocata nel clima culturale e politico del suo tempo.

Il paesaggio è parte della nostra esperienza quotidiana e noi siamo parte di esso. Dall'infanzia alla vecchiaia lo percepiamo quotidianamente: in esso si intrecciano le nostre relazioni e i nostri destini, ma spesso non siamo in grado di leggerlo ed interpretarlo. Gli "addetti ai lavori", data la sua complessità, lo affrontano con strumenti prevalentemente settoriali. Questo libro, il cui titolo parafrasa i due celebri testi di Bruno Zevi "Saper vedere l'Architettura" (1948) e "Saper vedere l'Urbanistica" (1961), tratta in termini accessibili il tema del paesaggio, articolato in elementi costitutivi, utilizzando diverse categorie di lettura e il contributo di differenti approcci disciplinari, privilegiando sempre la dimensione percettiva, morfologica, spaziale e architettonica. Vengono prese in considerazione le complesse relazioni tra uomo e ambiente terrestre: gli aspetti psicologici dell'esperienza del paesaggio, i presupposti filosofici, i contenuti storici, i valori artistici, la ricchezza espressiva della natura, i diversi livelli di analisi, pianificazione, progetto e gestione. Si tratta di un manuale rivolto agli studenti di architettura e pianificazione, ma anche a pubblici amministratori e a quanti hanno a cuore i destini del Bel Paese che è stata l'Italia.


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