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Poste Italiane Spa - Spedizione in Abbonamento Postale 70% NE/TN - anno IV - numero 7 - marzo 2012 - € 10,00

Urbani Sentieri LA RIVISTA DELLA SEZIONE TRENTINO DELL’ISTITUTO NAZIONALE DI URBANISTICA Issn: 2036-3109

In questo numero

Urbanistica e rischio idrogeologico


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Fulvio non è più tra noi.

Fulvio Forrer. Urbanista

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Editoriale

Ci mancherà la sua passione civile Dallo scorso 15 marzo, Fulvio Forrer non è più tra di noi. Non crediamo si possa negare: Fulvio è stato “Inu” per il Trentino. Ha partecipato con Silvano Bassetti e altri nomi di riferimento dell'urbanistica locale alla nascita della Sezione regionale dell'Istituto Nazionale di Urbanistica, contribuendo poi alla fondazione, nel 1995, della Sezione provinciale Trentino. E' stato più volte Presidente della sezione Trentino, ne era attualmente Vicepresidente. Una separazione, quella tra il Trentino e l’Alto Adige, per Fulvio necessaria per valorizzare i percorsi urbanistici e legislativi diversi nei due territori, e negli anni recenti da lui relativizzata, convinto che il tempo oggi richieda uno sforzo di unità, di dialogo e collaborazione oltre e sopra a qualunque distinguo, a qualunque specificità. D'altronde, bolzanino trapiantato in Trentino, Fulvio rappresentava in ogni caratteristica di sé questa doppia identità nell'unità. Nato a Bolzano nel 1957 Forrer si era laureato in Urbanistica presso l'Istituto Universitario di Architettura di Venezia. Aveva scelto un corso di laurea particolare – quello appunto in Urbanistica – fondato all'inizio degli anni Settanta da Giovanni Astengo, e dal quale Forrer aveva derivato i valori dell'autonomia e dell'autorevolezza nella figura dell'urbanista era uno dei pochissimi urbanisti “liberi professionisti”. L'urbanistica era sempre presente nei suoi pensieri, come passione e bisogno, il che significava – con tutte le difficoltà ed i conflitti conseguenti – impegno politico (ambientalista militante e più volte candidato con i Verdi), impegno professionale (numerose firme a strumenti urbanistici e piani strategici ed ambientali), impegno culturale: qui c'era l’Inu. Un interesse così intenso e così totalizzante che a volte rendeva difficile l'avvicinarlo o il lavorarci insieme, anche se poi Fulvio voleva e riusciva a lavorare con tutti, profondamente convinto della necessità di rielaborare il senso della disciplina immettendovi nuove priorità, nuove competenze, prima fra tutte quella ambientale. Convinto anche di dover prendere posizione e dare modo di confrontarsi a tutti: anche per questo aveva voluto che la sezione Trentino di Inu avesse una sua rivista, Sentieri Urbani, come

luogo di incontro anche nello scontro. Sono passati alcuni anni da quando ci volle informare delle terribili vicissitudini di una malattia che lo aveva aggredito appena laureato, e che si era ripresentata, nel pieno della vita e degli impegni. Però non c'era tempo per la malattia, neppure quando gli si chiedeva come va, perché il tempo era diventato troppo importante, troppo ancora c'era da fare. Con toni spicci e una dignità sbalorditiva liquidava qualunque conversazione che sapeva di bilanci e di ricordi (e quanto avremmo voluto attingere dalla sua esperienza), solo i nuovi progetti e le cose da fare avevano spazio di discussione, uno spazio difeso con tutte le forze fino all'ultimo. E qualche dolcissimo accenno, già pieno di nostalgia, agli affetti famigliari. Come sa chi ha vissuto esperienze altrettanto dure, tutto per lui era collocato in una nuova prospettiva, più ampia, lontana da riti e condizionamenti e dove lo spazio è solo per le cose importanti. Fulvio ha lavorato, in Inu, per sviluppare e valorizzare la grande risorsa delle aree a parco e di tutela ambientale, per introdurre pratiche di partecipazione, anche di Agenda 21. Temi legati alla mobilità sostenibile, alla partecipazione, al consumo di suolo e alla densificazione, alle forme di gestione della rendita fondiaria e alle tecniche di perequazione, alla riforma urbanistica: venivano sempre affrontati da lui lontano dai luoghi comuni, dalle frasi e dai ragionamenti alla moda, sempre tenendo fermo un solido riferimento all'esperienza del fare. Non prescindeva mai da una visione territoriale ampia, estesa in particolare ai territori alpini contermini. Localmente, ma non solo, Fulvio contribuiva attivamente all'attività di Inu nazionale (ha curato e supportato la redazione dei Rapporti dal Territorio Inu), era rappresentante Inu in Cipra dove si è speso con generosità per la diffusione della Convenzione delle Alpi. Ha dato per anni e anni la cifra dell'attività di diffusione, formazione e ricerca dell'Istituto Nazionale di Urbanistica, costruendo continue collaborazioni con le Istituzioni locali, organizzando pubblicazioni, convegni, corsi di aggiornamento. Il direttivo della sezione Trentino Istituto Nazionale di Urbanistica

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Rischio, Territorio, Urbanistica Un’intervista a Silvia Viviani a cura di Giovanna Ulrici

Silvia Viviani, architetto libero professionista, è vicepresidente nazionale dell’Istututo Nazionale di Urbanistica

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Ulrici: Silvia, l'Istituto Nazionale di Urbanistica di recente ha intensificato i suoi sforzi nella sensibilizzazione sui temi del rischio e della difesa idrogeologica Viviani: L'Inu è intervenuto più volte in merito, sottolineando come in Italia, crisi economica e crisi urbana si manifestano quale prodotto di un modello di sviluppo diventato sempre più insostenibile (agosto 2011), e come sia necessario affidare l'obiettivo di contrastare questa dinamica recessiva ad una azione comune, per affrontare congiuntamente le criticità manifestate dal sistema economico e quelle relative al nostro modello insediativo. La difesa del suolo e la sicurezza idrogeologica non sono questione settoriale. Per esse è indispensabile un insieme di corrette pratiche d'uso del territorio, che attengono al suo buon governo. Perciò non abbiamo abbassato la guardia nel rinnovare l'esortazione, continua e purtroppo poco ascoltata, a procedere verso una vera riforma urbanistica concordata da Regioni e Governo per un'incisiva riqualificazione e una concreta messa in sicurezza del patrimonio edilizio e urbanistico, rendere più semplici ma anche più trasparenti le modalità di intervento, responsabilizzare i progettisti e la pubblica amministrazione (luglio 2011, comunicato congiunto Inu-Legambiente). Non abbiamo perso occasione per difendere la pratica ordinaria della pianificazione, dichiarare il contrasto all'abusivismo e auspicare un'operazione di risanamento urbanistico – territoriale gigantesca (comunicato stampa, maggio 2011), richiamare l'indispensabile processo di programmazione urbanistica in capo alle istituzioni di governo, con il coinvolgimento delle forze democratiche e della cittadinanza (comunicato stampa su protezione civile, febbraio 2012), richiedere allo Stato interventi incisivi per sostenere la riqualificazione urbana e superare la crisi della città (luglio 2011, comunicato congiunto Inu-Legambiente). Ci siamo messi a disposizione per offrire sostegno al necessario progetto di riassetto istituzionale, chiedendo che sia garantito lo sviluppo della pianificazione secondo forme e modalità che assicurino l'assetto coordinato dei territori, anche sovracomunali, l'efficacia e la certezza


La difesa del suolo e la sicurezza idrogeologica non sono questione settoriale. Per esse è indispensabile un insieme di corrette pratiche d'uso del territorio, che attengono al suo buon governo

dell'azione amministrativa e la semplificazione procedurale (Inu su “Decreto Salva Italia”, dicembre 2011). Penso anche al lancio della questione delle risorse per le nostre città e i nostri territori, all'insieme di azioni e proposte del nostro XXVII Congresso, (Livorno, aprile 2011), verso modelli produttivi ed economici ambientalmente più sostenibili, verso il rafforzamento del ruolo delle città, come luogo della innovazione e dello scambio del patrimonio di conoscenza. Tema che abbiamo ulteriormente svolto a Genova, nella IX Biennale della città e degli urbanisti d'Europa (settembre 2011) e che ci porterà al XXVII Congresso (Salerno, 2013) a proporre le città come laboratori della crescita e dell'inclusione sociale. U. Esiste e in cosa consiste una responsabilità dell'urbanistica nella situazione di rischio? V. Le terribili vicende che hanno colpito il Nord e Centro Italia chiedono in primo luogo una decisa coesione istituzionale, politica, culturale e sociale, che vada oltre la ricerca delle singole responsabilità per le quali, peraltro, non mancano gli organi a ciò competenti. Mi pare riduttivo, fin troppo facile, identificare l'urbanistica con la causa dei disastri ambientali. Certo si è costruito troppo, e si è costruito anche laddove non si sarebbe dovuto. Ma occorre considerare vari aspetti. Ne richiamo due: le caratteristiche dell'evento (la calamità naturale) e lo stato dei territori colpiti dall'evento eccezionale. Il termine eccezionalità deve legarsi a quello del rischio, mentre lo stato dei territori chiede anche la riformulazione della categoria dell'eccezionalità. Poi bisogna ricordare il quadro normativo di riferimento, un complesso assetto istituzionale, che vede una sorta di “sovraffollamento” nel riparto delle competenze di governo pubblico del territorio, anche con specifico riferimento agli aspetti della difesa del suolo. U. Partiamo allora da qui: innanzi tutto il quadro normativo appare davvero complesso. Non c'è stata innovazione? V. Non mancano, nel nostro Paese, leggi generali per il governo del territorio e leggi di settore a tutela dell'ambiente, alle quali corrispondono piani, politiche, programmi in capo a diversi Enti competenti (Stato, Regioni, Province,

Comuni). Fra queste, non mancano apposite leggi in materia di difesa del suolo, a partire dal ceppo normativo nazionale che risale al primo Novecento, fino ai più recenti testi comunitari, statali e regionali. Gli anni Novanta del secolo scorso sono caratterizzati da un profondo rinnovamento legislativo. I princìpi della prevenzione dei rischi e della difesa dei valori ambientali e paesaggistici sono stati assunti come base della sostenibilità della pianificazione territoriale e urbanistica. Dal 1989, anno di emanazione della L. 183 in materia di difesa del suolo, l'amministrazione pubblica ha l'obbligo di assicurare la difesa del suolo, il risanamento delle acque, la fruizione e la gestione del patrimonio idrico per gli usi di razionale sviluppo economico e sociale, la tutela degli aspetti ambientali ad essi connessi. Tuttavia permangono incertezze del diritto e tempi lunghi, derivanti dalla stratificazione delle norme, dall'onerosità delle procedure, e, bisogna dirlo, da una latente conflittualità nel rapporto pubblico-pubblico. La proliferazione di piani e di leggi, generali e di settore, non aiutano in ordine all'integrazione e al coordinamento delle politiche, che, invece, sono il metodo per il corretto governo della conservazione e della trasformazione del territorio. Sulle innovazioni, ricordiamo: - interdisciplinarietà, ossia il concorso di diversi saperi alla formazione dei piani urbanistici, fra i quali è obbligatorio, e certificato dalle professionalità che ne hanno la specifica competenza, quello relativo alle condizioni morfologiche, idrogeologiche, geomorfologiche del territorio, ossia l'insieme della disciplina preordinata alla difesa dei suoli. Si tratta, in altri termini, di conoscenza del rischio, individuazione delle regole di prevenzione e manutenzione, definizione delle opere di messa in sicurezza, - collaborazione e co-pianificazione fra Enti competenti nel governo del territorio; - integrazione delle attività di valutazione ambientale nella pianificazione, rispondenti a princìpi di cautela, di responsabilità e di prevenzione; - ridefinizione di una filiera di strumenti, che

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Aver assunto la difesa del suolo quale componente della pianificazione ha significato essersi fatti carico dell'interazione tra ambiente naturale e ambiente costruito dovrebbero definire, prima della gestione urbanistica ed edilizia comunale, le questioni ambientali che travalicano i confini amministrativi (bacini idrografici), - assoggettamento a regole di tutela dell'ambiente anche delle politiche di settore che regolano le attività umane sul territorio, come quelle agricole, infrastrutturali, - progressivo affermarsi del contenimento del consumo di suolo negli strumenti della pianificazione. U. La Toscana, di cui sei stata Presidente di Sezione per INU, presenta criticità ambientali tipiche di un territorio montano. Come è stata affrontata questa emergenza nella disciplina urbanistica regionale e nel resto del Paese? V. Sarebbe lungo l'elenco dei provvedimenti, leggi, atti e piani, nella sola Toscana, riferiti alla difesa del suolo e alla prevenzione del rischio idraulico nonché al governo del territorio, nei quali tali innovazioni sono contenute. Non si fa fatica a trovarne effetti diretti di miglioramento degli strumenti della pianificazione territoriale regionale, provinciale e comunale, in ordine alla difesa dell'ambiente e alla prevenzione del rischio, ed effetti indiretti, che si vedranno nell'applicazione di quegli strumenti, che si sostanziano nella inedificabilità di suoli a rischio e nella individuazione di regole di prevenzione e di opere di messa in sicurezza idraulica. Misure specifiche per la difesa del suolo e la prevenzione del rischio idraulico sono contenute in apposita deliberazione del Consiglio regionale toscano, del 1994, che integra le norme urbanistiche regionali. Misure sempre contenute nelle due riforme urbanistiche toscane, LR 5/1995 e LR 1/2005, che hanno prodotto un totale rinnovamento della pianificazione, con due Piani territoriali regionali, due cicli di Piani territoriali provinciali, la quasi totalità di nuovi Piani strutturali comunali. Una recente disposizione del Consiglio regionale toscano (LRT 66/2011Legge finanziaria per l'anno 2012), con lo scopo di coniugare la sicurezza con gli obiettivi di sviluppo, ha introdotto ulteriori restrizioni in applicazione dei princìpi di prevenzione e di cautela. Così è nella legge urbanistica della Regione Liguria (n. 36/1997) e in varie leggi regionali per il governo del territorio che hanno applicato princìpi enunciati dall'INU all'inizio degli anni Novanta: Lombardia (n. 12/2005), Emilia Romagna (n. 20/2000), Veneto (n. 11/2002),

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Friuli Venezia Giulia (n. 5/2007), Umbria (n. 27/2000, 11/2005), Marche (n. 34/1992), Campania (n. 24/1995), Basilicata (n. 23/1999), Puglia (n. 56/1980, n. 20/2001), Calabria (n. 19/2002), nelle integrazioni a testi che attendono la sostituzione in un articolato organicamente rinnovato, come in Piemonte (n. 56/1977). L'elenco si allungherebbe ulteriormente se facessimo riferimento alle leggi regionali di settore in materia di difesa del suolo. Si aggiungano piani che assoggettano specifiche porzioni territoriali a norme speciali, come per le riserve, i parchi, le aree protette, di norma improntati a salvaguardia dell'ambiente e del paesaggio. U. Quali aspetti sono prioritari per una pianificazione urbanistica che responsabilmente si faccia carico del rischio idrogeologico? V. Aver assunto la difesa del suolo quale componente della pianificazione ha significato essersi fatti carico – secondo princìpi di prevenzione - dell'interazione tra ambiente naturale e ambiente costruito o che si intende costruire, in termini di previsione evolutiva e per stabilire condizioni che garantiscano di mantenere e recuperare le risorse territoriali. Per valutare l'interazione tra ambiente naturale e ambiente costruito o che si intende costruire ai fini della prevenzione del rischio, va stabilito cos'è e come si misura il rischio e va individuato lo stato dell'ambiente costruito. Su questo si fondano sostenibili previsioni di trasformazione. Per ambiente che si intende costruire bisogna far riferimento non solo all'edilizia, ma a qualunque trasformazione dei suoli, ivi comprese quelle che derivano dalle attività che comunque garantiscono il presidio umano sul territorio, come l'agricoltura. U. Anche in presenza di ottimi strumenti di pianificazione si assiste ad una erosione del territorio fatta di deroghe ed eccezioni nel piccolo e locale: quanto incidono gli effetti cumulativi di questa pratica diffusa anche in territori “ di buon governo”? V. Incidono. I princìpi di prevenzione e valutazione degli effetti cumulativi sono contenuti nella valutazione ambientale, da integrare nella formazione dei piani. La valutazione impone di considerare gli effetti e di assumersi, in modo trasparente, la responsabilità delle scelte. Forse troppo spesso si rinvia a verifiche successive, senza che siano chiari i compiti affidati dalla pianificazione strutturale all'urbanistica operativa, dai piani ai


progetti. La capacità di pianificare avendo chiari limiti e condizioni non è fatta di rinvii ma di processi coerenti e di compatibilità delle decisioni. Infine, bisogna richiamare i condoni e l'abusivismo, fenomeni devastanti per il nostro Paese. La sanatoria rappresenta la deroga generalizzata per la quale non si opera alcuna valutazione degli effetti, né singoli nè cumulativi. L'abusivismo è una piaga pervasiva, che deturpa il paesaggio, degrada la società e allarga le città senza regole, occupando suoli che andrebbero lasciati liberi. Risanare il territorio è il compito che dovrebbe darsi questo Paese, e che dovrebbe essere considerato anche quando si affronta la questione della semplificazione, soprattutto in edilizia, in assenza della necessaria riforma generale del governo del territorio. Abbiamo chiesto un provvedimento che potrebbe avere, in modo organico e condivisibile, robuste e più sicure misure indirizzate allo sviluppo secondo i principi comunitari di economicità ed efficienza (luglio 2011) Contrastiamo da sempre, e continueremo a farlo, ogni forma di deregulation che non si confronti con le diverse e complesse realtà del territorio italiano e che comporti unicamente nuovo cemento in aree di grande pregio ambientale e paesaggistico, o a rischio idrogeologico e simico. Contestualmente promuoviamo la scelta generalizzata della riqualificazione urbana insieme a quella del contenimento radicale del consumo di suolo (comunicato stampa 19/03/2012 su riforma urbanistica). U. Piani e programmi non esauriscono le responsabilità di governo del territorio e il cambiamento climatico accelera le dinamiche di emergenza idrogeologica. Quali sono ora le priorità per l'agenda del governo del territorio? V. Non bastano i piani, né si devono caricarli di compiti che non possono assolvere. Ci vuole un piano nazionale per la manutenzione del territorio e che siano affidati compiti a tutti i soggetti che operano sul territorio, pubblici e privati, per ogni tipo di piano, programma, progetto, politica. E' un'assunzione di responsabilità collettiva, concreta applicazione del principio di prevenzione. Poi, occorre rendere stabile la misurazione del rischio, con metodi e modelli da non ridiscutere localmente o al mutare dei soggetti competenti. Infine, vi sono le opere di sicurezza, grandi e piccole, che devono essere definite come dotazioni territoriali, infrastrutture imprescindibili, una sorta di

nuovo “standard”, adeguato alla contemporaneità. Il sistema insediativo edificato, sul quale si abbattono gli eventi –eccezionali o meno- di inondazione o sismici (per i quali valgono analoghe considerazioni) si è addensato in ambiti per i quali, nel trentennio della massiccia edificazione che ha caratterizzato la seconda metà del Novecento, non vi era considerazione dei princìpi sopraesposti. Il territorio scarsamente non antropizzato, per secoli dedicato all'utilizzo agricolo e perciò manutentato, è stato oggetto di abbandono e poi ripopolato secondo modalità abitative e produttive, che solo recentemente sono tornate a farsi carico della cura puntuale (opere agrarie minori, difesa dei sottoboschi, salvaguardia delle regimazioni idrauliche) e complessiva (relazioni fra ambiti collinari e vallivi, fra boschi e pianure). Infine, ci vogliono regole anche per le pratiche che trasformano i suoli con effetti sulle interazioni fra le diverse risorse o che possono causarne impoverimento. Quanto alle condizioni climatiche, non v'è dubbio che rendono, oggi, l'eccezionalità “meno eccezionale”. In queste condizioni, collegare urbanistica e sicurezza è molto, ma occorre investire nella messa in sicurezza laddove le condizioni di rischio siano tali da non poter più operare in termini di prevenzione o manutenzione. Occorre un piano di sicurezza nazionale sul quale far convergere, come priorità, le scarse risorse pubbliche che sono rimaste nel nostro Paese. Bisogna, infine, contrastare una frammentazione delle competenze che ha circoscritto le responsabilità, ma non ha fornito fattibilità allo svolgimento dei compiti. Occorre un'azione congiunta e raccordata, coerente e coesa, che non può ovviamente essere ricavata dalla mera sommatoria dei piani. È necessario ragionare in termini di programmazione unica e coordinare efficacemente, pianificazione di settore e pianificazione territoriale e urbanistica, politiche e programmi. A ciò dovremmo pensare anche quando parliamo di riordino degli assetti istituzionali nel nostro Paese.

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Dossier: Urbanistica e sicurezza idrogeologica a cura di Giovanna Ulrici, Elisa Coletti, Riccardo Rigon, Antonio Ziantoni

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"acqua che devia si dispera si scioglie s'allontana" oltre il grande magazzino ai piedi della selva (Andrea Zanzotto, Sì, ancora la neve)

Mentre la Sezione Trentino di INU cresce, crescono anche le responsabilità: di offrire, in questo caso, un altro numero di Sentieri Urbani che assicuri una corretta informazione, un aggiornamento e – ci auguriamo – qualche spunto di riflessione. In giorni di inusuale ed inquietante siccità, ci si è interrogati sulle implicazioni che il rischio idrogeologico comporta nel ragionare di urbanistica. Il punto di partenza può essere rappresentato dalle immagini anche recenti di frane e allagamenti a valle di eventi piovosi violenti. In quale misura la causa sta nell'incuria dell'uomo per il suo territorio e le sue opere , nelle basi speculative di crescita della città, nella generalizzata ignoranza dei fenomeni naturali o nella complessità dei gradi di governo dell'acqua? Siamo partiti dai modelli di previsione e opera con strumenti statistici e matematici, per capire la complessità sperimentale della materia, e pure il fatto che non tutte le tipologie di rischi, per intensità e frequenza, possono rientrare nel campo che genera quadri di vincolo per la pianificazione. Abbiamo poi indagato sulla complessità dell'assetto istituzionale di governo dell'acqua: la Carta delle aree ad alta criticità idrogeologica predisposta dal Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio (e qui pubblicata a pag. 14) mostra che il 10% del territorio nazionale (ne è coinvolto l'82% dei Comuni) ricade in aree soggette ad alluvioni o frane o valanghe, e già questo è un dato impegnativo. Ma la carta, un mosaico di mappature eseguite dalle istituzioni competenti per territorio, mostra delle fortissime discontinuità fra ambiti amministrativi, ad esempio tra Trentino ed Alto Adige: se la normativa sulle aree critiche è la stessa, cambia però localmente l'area di applicazione e conseguentemente l'incidenza del vincolo per chi si occupa di pianificazione. Fatte queste premesse è giusto interrogarsi sulle responsabilità di una disciplina, quella urbanistica, che, come scrive Menoni in questo numero “non ha ancora davvero affrontato la questione di se e come assumere la prevenzione dei rischi naturali e tecnologici come criterio rilevante all'interno dei processi ordinari di decisione progettazione”. Infatti è pesante la responsabilità delle istituzioni nel definire i gradi e i modi d'uso del territorio sulla base delle cartografie di vincolo, perché prevedono l'innesco di fenomeni socio-economici molto complessi e delicati, tali da compromettere, in territori già difficili, la permanenza sul territorio delle popolazioni o l'assunzione di responsabilità troppo alte o costi insostenibili. C'è un problema di conoscenza del territorio, e di coinvolgimento anche culturale delle popolazioni, non solo dei tecnici-amministratori, problema che è stato messo in rilievo da molti interventi ospitati in questo numero della rivista. Scrive Forrer su SU n.4 “...I cittadini sono di fatto ignari, o colpevolmente non consapevoli, che l'interesse personale non può prevalere sulla visione d'insieme delle dinamiche e degli equilibri territoriali”. L'acqua e il suo pericolo non possono essere lasciati fuori dai singoli interventi di trasformazione territoriale, trascurando l'effetto cumulativo delle cattive pratiche. La cittadinanza è una forza positiva nel presidio della sicurezza, se informata e partecipe, come dimostrano le esperienze dei Contratti di Fiume.

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Carta delle aree ad alta criticità idrogeologica superficie delle aree ad alta criticità per: alluvioni

frane

valanghe

totale

12.263

15.738

1.516

29.517

4,1%

5,2%

0,5%

9,8%

(kmq) (del territorio nazionale)

numero di comuni interessati da aree ad alta criticità per:

frane

frane

valanghe

totale

1,492

2.023

3.118

6.633

18,6%

24,9%

38,4%

81,9%

Fonte: Geoportale Nazionale Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare

alluvioni

alluvioni

valanghe

*aree caratterizzate da livelli più elevati di pericolosità e di rischio idrogeologici, perimetrate dalla Autorità di bacino, Regioni e Province Autonome nei Piani straordinari o nei Piani stralcio per l’Assetto Idrogeologico approvati, adottati o predisposti. Segreteria Tecnica per la Difesa del Suolo - gennaio 2006

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I fiumi: un pericolo, una risorsa di Antonio Ziantoni*

Valle di Fumo, alle sorgenti del Fiume Chiese - Foto di Matteo Visintainer - www.geo360.it

* Autorità di Bacino del fiume Adige

Il fiume è un ambiente molto complesso intimamente legato al territorio come sistema a più dimensioni, come ecosistema aperto, come confine, congiunzione, diversità, identità, come tessera mobile, sempre diversa, di una realtà eccezionalmente varia. Il fiume va pensato nel Bacino Idrografico individuato da confini geografici ben precisi, rappresentati dagli spartiacque. Nello spazio bacino idrografico, si muovono le acque dalle montagne al mare, troviamo un fiume e tutti i suoi affluenti, dai piccoli rii ai fossi solitari, boschi, campi coltivati, allevamenti zootecnici, paesi, città , industrie.... Assetto, gestione, difesa e sviluppo territoriale sono i temi fondamentali nell'organizzazione dello spazio in cui vive l' essere umano. L'indirizzo ormai irrinunciabile nell'affrontarli è quello di un approccio integrato con le

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peculiarità delle risorse ambientali che ne costituiscono fondamento. Un approccio cioè che leghi coerentemente i temi della tutela ambientale, della pianificazione territoriale e dell' uso del suolo, le esigenze culturali, di sviluppo economico, l'informazione ed il coinvolgimento della popolazione. Le tematiche ambientali, la tutela delle risorse naturali presentano complessità e peculiarità che richiedono un approccio specifico da trasferire nelle leggi e nelle pratiche operative istituzionali e non possono prescindere da una effettiva assimilazione ed interiorizzazione da parte degli individui dei valori che ne costituiscono le fondamenta. Il quadro normativo vigente prevede e richiede l'elaborazione di piani di gestione ambientale fortemente caratterizzati da strategie multiobiettivo e dall'integrazione di varie


tematiche quali l'uso sostenibile, la tutela e la rinaturalizzazione delle risorse, la sicurezza idrogeologica del territorio e delle popolazioni insediate, il dimensionamento e la caratterizzazione del patrimonio umano, socio economico e culturale a fini conservativi e di tutela, valorizzativi e di sviluppo sostenibile. I temi del riassetto idraulico e dell'aumento della capacità di laminazione nelle fascie fluviali, della ricostruzione morfologica degli alvei di piena, del miglioramento dell'assetto e della conservazione dell' integrità ecologica degli ambienti fluviali e della risorsa idrica, del dimensionamento del sistema socio economico e della fruizione dell' offerta culturale e turistica, sono soltanto alcuni esempi delle direzioni verso cui è stata orientata l'azione conoscitiva d'approfondimento, lo sviluppo e la programmazione progettuale delle attività, degli interventi, la conseguente pianificazione in questi settori. Nel quadro di una aumentata sensibilità dei territori (aumento uso del suolo, aumento insediamenti abitati, crescita attività economiche, aumento mobilità e collegamenti), una diversificata serie di attività sono necessarie per giungere ad una pianificazione integrata, come ad esempio: - miglioramento delle risorse forestali e della stabilizzazione dei versanti; - perfezionamento del monitoraggio degli eventi finalizzata all'identificazione attendibile ed affidabile della previsione dei rischi e pericoli; programmazione e gestione di opere di manutenzione e prevenzione sensata e compatibile sotto ogni profilo tecnico; - migliore gestione di situazioni d' emergenza attraverso procedure e azioni di protezione civile, depurate dalla criticità evidenziate dalle esperienza occorse; - sviluppo dell' attività conoscitiva e di modellazione relativa all' evoluzione morfologica dei corsi d' acqua ed all'assetto idrogeologico dei territori di bacino con riferimento ai fenomeni di erosione, andamento del trasporto solido e di colata detritica; impiego di elementi conoscitivi creati secondo protocolli condivisi e raffrontabili con altri archivi informativi, come i catasti, la rete viaria, la rete d' infrastrutture; - costituzione di un sistema efficace e validato costi-benefici di supporto alla decisione, sia in ambito di prevenzione, che nel campo della gestione del pericolo. Strumenti, dati e analisi nel settore ambientale sono essenziali per pianificare, gestire e difendere il territorio.Indagini satellitari, indagini laser altimetriche, reti di misurazione del terreno, modelli matematici specifici, strumenti per il trattamento massiccio dei dati eterogenei, modelli statistici e dinamici, sono validi strumenti sempre più impiegati e consolidati. Molto si può e dovrà ancora fare in questi ambiti. Tra le tante cose: - ampliare e fissare uno spettro condiviso di dati rilevanti, di indicatori comuni da impiegare nelle classificazioni e nelle

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metodologie di calcolo, cosicché possano essere comparati dati, informazioni e risultati;incentivare studi più dettagliati sull' ottimizzazione della rete di monitoraggio, sugli effetti reali del cambiamento climatico, sulle frane crolli e caduta di rocce, sulle piene improvvise con elementi solidi e liquidi, sull' influenza dello zero termico sul permafrost e sul manto nevoso, sulle bombe meteorologiche, sui consumi di acqua in falda. Scienza e tecnologia contribuiscono certamente a fornire strumenti altamente sofisticati per l'analisi del territorio, per valutare i rischi e monitorare e prevedere fenomeni che sono sempre molto complessi e dipendenti da fattori che tuttavia a volte non possono essere rilevati con sufficiente accuratezza. Anche la disponibilità dello strumento più sofisticato di valutazione dei pericoli infatti non sempre consente di catturare tutti i “fattori-ombra” corresponsabili degli eventi, delle loro mutazioni di frequenza o intensità. Dal punto di vista operativo la redazione dei piani di gestione, in attuazione della direttiva 2000/60/CE, pur con i limiti che ne hanno condizionato l'esperienza, ha consentito d'individuare con chiarezza, a scala di distretto idrografico, alcune linee d'azione nell'ambito delle quali proseguire e sviluppare l'implementazione delle normative di settore. Assetto e gestione, difesa e sviluppo territoriale e del Suolo, non possono più essere visti ed affrontati in termini separati, confliggenti, concorrenti, antitetici: la dimensione legislativa, amministrativa, gestionale e quella tecnica, scientifica, dei saperi, delle conoscenze, debbono trovare le giuste complementarietà. Una strada seria ed importante per affrontare questi temi e le problematiche connesse passa attraverso l' interesse e la cura che altre discipline e saperi accordano a questi argomenti, occupandosene ed approfondendoli, sviluppandoli e completandoli in direzioni nuove. Architetti ed Urbanisti sempre più frequentemente e diffusamente si occupano di rischio idrogeologico e politiche conseguenti, proponendosi come interlocutori di nuove sensibilità. E' da qui che occorre ripartire o continuare, sviluppando quell'approccio interdisciplinare, quella visione olistica, di cui si fa un gran parlare. L' esperienza infatti ha sinora mostrato e continua a confermare che la gestione consapevole e responsabile della gestione del territorio e delle risorse ambientali che tutte le norme perseguono, passa più spesso e frequentemente per la Commissione Edilizia di una Amministrazione locale che attraverso un monitoraggio tecnico approfondito.


Uno, nessuno, centomila: la sfida istituzionale nel governo multilivello delle acque di Mariachiara Alberton*

Alluvione in Veneto, ottobre 2010

* Ricercatrice Senior, Eurac

La gestione e la tutela dell'acqua1 si pongono oggi sempre di piÚ rispetto al passato come temi strategici strettamente legati ad altri altrettanto rilevanti, come per esempio la tutela del suolo, la pianificazione urbanistica, l'energia, la riduzione del rischio idrogeologico. Per questo è necessario da un lato che il governo dell'acqua sia inserito in un quadro normativo che bilanci i diversi interessi e le diverse esigenze, prevenendo conflitti e calamità , dall'altro che ci sia un assetto istituzionale chiaro e definito(-nitivo) che sia

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idoneo a svolgere le funzioni previste. Nell'ottica di guardare al governo dell'acqua in modo integrato, il legislatore europeo ha imposto agli Stati membri UE una riorganizzazione della gestione geografica ed amministrativa del patrimonio idrico europeo per raggiungere entro il 2015 un buono stato delle acque superficiali e sotterranee (Direttiva 2000/60/CE e successive modifiche). La Direttiva richiede a questo fine l'individuazione dei distretti idrografici e l'adozione di disposizioni amministrative, l'analisi completa


1. Per un approfondimento sul tema si rinvia a Alberton M.-Domorenok E., La sfida della sostenibilità. Il governo multilivello delle risorse idriche, Cedam, 2011.

delle caratteristiche delle acque superficiali e sotterranee, l'analisi delle pressioni e degli impatti esercitati sui distretti idrografici e l'analisi economica dell'utilizzo idrico, la predisposizione dei programmi di monitoraggio per la valutazione dello stato di qualità delle acque all'interno di ogni distretto idrografico, l'adozione dei piani di gestione dei bacini idrografici, l'introduzione di politiche del corretto recupero dei costi dei servizi idrici e l'attuazione dei programmi di misure. La Direttiva è l'atto legislativo più lungimirante e complesso tra quelli emanati dal legislatore europeo in ambito ambientale negli ultimi anni, implicando un numero notevole di cambiamenti per il settore idrico. Prescrive un approccio olistico alla gestione e tutela delle risorse idriche, riunendo in un solo atto gli interventi settoriali e specifici che erano stati approvati nel corso degli anni: non si tratta però solo di uno sforzo di coordinamento e di razionalizzazione normativa, ma soprattutto di un tentativo ambizioso di coordinamento e integrazione degli obiettivi ambientali e delle misure ed azioni per conseguirli già oggetto di precedenti interventi, ma separati e distinti a seconda della tipologia e dell'uso delle risorse idriche. Nell'ambito della riorganizzazione richiesta dalla Direttiva (avvenuta in Italia con la Parte Terza del D.Lgs. 152/2006 e successive modifiche), la regione alpina, limitatamente al territorio italiano, è stata ricompresa in due distretti idrografici - il distretto del Po e il distretto delle Alpi orientali -, entrambi incidenti sulla Regione Trentino Alto Adige. A capo delle aree territoriali così identificate sono state previste le autorità di distretto, che avrebbero dovuto sostituire le autorità di bacino (nazionali, regionali e interregionali) istituite dalla legge 183/89. Dal momento che però le autorità di distretto restano per ora sulla carta, non essendo stato emanato il decreto ministeriale per la loro costituzione, le autorità di bacino esistenti hanno continuato a svolgere nel proprio bacino di riferimento le funzioni di pianificazione e programmazione attraverso in particolare i piani di bacino. Questi strumenti erano stati previsti dalla legge 183/89 (abrogata dal D.Lgs. 152/2006) per pianificare e programmare le azioni e le norme d'uso finalizzate alla difesa e tutela del suolo e alla corretta utilizzazione delle acque, di concerto con i programmi nazionali, regionali e locali in tema di sviluppo economico e uso del suolo, e fornire il quadro di riferimento entro cui elaborare i piani attuativi di governo delle acque per gli usi igienico-antropici. Accanto ai piani di bacino, le autorità avevano redatto in questi anni (sulla scorta delle leggi 183/89, 267/98 e 365/2000) i piani stralcio per l'assetto idrogeologico, strumenti conoscitivi, normativi e tecnico-operativi mediante cui sono pianificate e programmate le azioni, gli interventi e le norme d'uso riguardanti la difesa

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dal rischio idrogeologico. Essi costituiscono il quadro di riferimento a cui devono adeguarsi e riferirsi tutti i piani di settore, compresi i piani urbanistici. Le autorità di bacino nazionali, in attesa della costituzione delle nuove autorità di distretto, hanno assunto da ultimo un ruolo di coordinamento per far fronte agli obblighi derivanti dalla Direttiva e hanno redatto insieme alle Regioni e Province autonome il Piano di gestione, strumento di pianificazione e programmazione del distretto idrografico che contiene in particolare la sintesi delle caratteristiche delle acque superficiali e sotterranee presenti nel distretto, delle pressioni e degli impatti significativi esercitati dalle attività umane sulle stesse, gli obiettivi ambientali che devono essere conseguiti e le misure che devono essere adottate per raggiungerli. Il piano di gestione del bacino idrografico, indicato dalla Direttiva come strumento chiave per raggiungere gli obiettivi fissati, nell'esperienza italiana si è invece segnalato come un'opportunità mancata di coordinamento interistituzionale e di reale coinvolgimento delle parti interessate. Il piano di gestione ha un contenuto molto ampio, abbracciando sia la gestione e la tutela delle risorse idriche che la difesa idrogeologica. Per tale ragione la Direttiva prevedeva tempi di redazione abbastanza lunghi, dovendosi iniziare la raccolta dati e la stesura del piano già nel 2004. In Italia i piani di gestione sono però stati il frutto di una corsa contro il tempo per rispettare le scadenze imposte dal legislatore italiano e dell'UE. In particolare, i piani sono stati redatti in poco più di sei mesi dalle risorte autorità di bacino, sistematizzando quanto già contenuto nei piani di tutela (elaborati in base alla legge 36/1994 dalle Regioni, in accordo con le Autorità di bacino e le Province, contengono l'insieme delle misure necessarie alla tutela qualitativa e quantitativa dei sistemi idrici, a scala regionale e di bacino idrografico), nei piani stralcio e nei piani d'ambito (strumenti predisposti dalle autorità d'ambito ottimale e attuativi dei piani di bacino e idrico approvati a livello sovraordinato di bacino/distretto) esistenti. Si è trattato quindi perlopiù di un assemblaggio di dati e documenti già prodotti in sede regionale. A seguito dell'entrata in vigore del D.Lgs. n. 49 del 23 febbraio 2010, recante “Attuazione della direttiva 2007/60/CE relativa alla valutazione e alla gestione dei rischi di alluvione”, sono state previste in capo alle Autorità di distretto alcune nuove funzioni. In particolare, esse sono state chiamate alla valutazione preliminare del rischio di alluvione (entro il 22 settembre 2011), all'individuazione delle zone ove possa sussistere un rischio potenziale significativo


Dossier: declinare il tema

di alluvioni o si ritenga che questo si possa generare in futuro, alla predisposizione delle mappe della pericolosità da alluvioni e delle mappe del rischio di alluvioni (entro il 22 giugno 2013), e infine alla predisposizione dei piani di gestione del rischio di alluvioni a livello di distretto idrografico (entro il 22 giugno 2015). In attesa dell'operatività delle autorità distrettuali, ancora una volta le autorità di bacino sono state investite delle competenze previste in tema di valutazione e gestione del rischio alluvioni. Nonostante gli sforzi di coordinamento fatti recentemente per ottemperare agli obblighi europei, resta aperta e urgente la questione della ricomposizione a unità del frammentato assetto istituzionale preposto al governo dell'acqua. Tra gli anni Settanta e Novanta del secolo scorso con alcuni provvedimenti (legge 183/89, 36/94, D.Lgs. 152/99), il legislatore italiano ha cercato di costruire un sistema di governo delle acque imperniato su un insieme di nuovi soggetti e nuovi strumenti. Allo scopo di garantire un sistema più efficace e integrato di gestione e tutela delle risorse idriche è stato deciso di adottare l'approccio fondato sul sistema dei bacini idrografici, che si era ampiamente diffuso in America e anche in alcuni paesi europei. Questo approccio ha fatto fatica a radicarsi in Italia. La gestione e la tutela delle acque sono stati per anni oggetto di politiche e provvedimenti normativi distinti e separati. Inoltre, raramente sono stati applicati meccanismi di cooperazione interistituzionale e pratiche di confronto e autovalutazione. Il processo di riforma non è stato né facile né lineare, e ha sovente generato conflitti istituzionali riguardanti non solo le funzioni e la composizione delle autorità di bacino, ma ambiti di competenza più ampi, concernenti diversi settori e livelli di governo. Nel corso dell'attuazione dei provvedimenti introdotti dalla legge sono emerse numerose contraddizioni, insite sia nel disegno istituzionale-organizzativo delle autorità stesse, sia nelle pratiche di interazione tra i vari soggetti pubblici coinvolti. A partire dai primi anni Novanta, infatti, nella legislazione italiana si sono susseguiti atti (tra cui legge 142/1990, D.Lgs. 152/1999) che hanno progressivamente destabilizzato la già fragile posizione delle Autorità, incrinando ulteriormente il debole coordinamento tra i vari attori rappresentati al loro interno e compromettendone la legittimità. Si è formato, pertanto, un nodo di tensione, che per decenni ha caratterizzato l'operato delle Autorità, condizionando anche i passaggi successivi legati all'attuazione della Direttiva Quadro sulle Acque 60/2000/CE. La situazione si è deteriorata ulteriormente a partire dal 2001 in seguito alla revisione del Titolo V della Costituzione e al nuovo riparto di competenze tra Stato-Regioni e Province

Autonome ivi stabilito. La specificazione di queste nuovo assetto in materia ambientale attuata dal D.Lgs. 152/2006 ha dato vita a una rinnovata conflittualità tra livello nazionale e sub-nazionale. Le norme contenute nel D.Lgs. 152/2006 suscitano infatti, da un lato, la reazione delle Regioni e delle Province autonome che vedono marginalizzato il loro ruolo rispetto all'assetto esistente prima delle stesse e riscontrano una forte ingerenza da parte dello Stato e, dall'altro, la controreazione dello Stato che a sua volta impugna di fronte alla Corte Costituzionale numerose leggi regionali incidenti sulla tutela e gestione delle risorse idriche, ritenendole in violazione delle sue prerogative. Per uscire da una logica emergenziale e frammentata del governo dell'acqua, occorre un'ampia e condivisa riflessione sulla gestione e tutela delle acque su tutto il territorio nazionale e con il coinvolgimento di tutti i livelli istituzionali. Occorre riprendere i principi ispiratori delle leggi nn. 183/1989 e 36/1994 e porre rimedio alle lacune e debolezze di quegli impianti normativi alla luce dell'esperienza ormai quasi ventennale accumulata. Il riordino e soprattutto una visione unitaria della politica e della legislazione dell'acqua devono fondarsi su un governo multilivello in cui le competenze, i compiti, le funzioni siano però chiari e non svaniscano in un groviglio burocraticoamministrativo di centri decisionali confliggenti tra loro. È indispensabile che sia riscoperta una regia statale atta a garantire un sistema unitario e coerente, entro cui dar sostanza e non solo forma a una leale collaborazione con Regioni ed enti locali. L'instaurazione di un dialogo costruttivo tra Stato, Regioni ed enti locali sul governo dell'acqua permetterebbe infatti di rispondere alle esigenze emergenti a livello locale nel rispetto del principio di sussidiarietà ed eviterebbe quei meccanismi gerarchicoformali che negli anni hanno condotto alla parziale e disomogenea attuazione delle riforme. La lezione più recente del referendum insegna inoltre che il governo dell'acqua deve essere condiviso non solo dagli attori istituzionali chiave a livello nazionale e locale, ma anche alimentato dal confronto con gli stakeholders e con la società civile, secondo un modello partecipativo-cooperativosolidale. Infine, emerge l'esigenza di mettere i vari strumenti di governo e pianificazione del territorio in dialogo tra loro, in modo che il coordinamento tra gli stessi non sia soltanto un riferimento scritto o un'aggregazione di documenti cartacei, che vengono poi ignorati nella pratica con le conseguenze disastrose di cui tutti siamo testimoni.

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Pianificazione in aree soggette a rischi naturali: limiti e opportunità di Scira Menoni*

* Dipartimento di Architettura e Pianificazione, Politecnico di Milano

1. Introduzione La pianificazione urbanistica e territoriale non ha ancora davvero affrontato la questione di se e come assumere la prevenzione dei rischi naturali e tecnologici come criterio rilevante all'interno dei processi ordinari di progettazione. In una ricerca finanziata nell'ambito del VI Programma Quadro della UE negli anni tra il 2004 e 2007, Armonia (Applied multi Risk Mapping of Natural Hazards for Impact Assessment), si è cercato di tracciare un quadro della situazione europea (Fleischhauer et al., 2006). Il confronto tra i sistemi di pianificazione di Italia, Francia, Spagna, Regno Unito, Germania, Grecia

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ha permesso di constatare che la materia dei rischi viene trattata in modo ancora molto settorializzato, poco integrato all'interno della prassi pianificatoria ordinaria. Non si riscontra solo una oggettiva difficoltà a trattare il tema dei rischi all'interno della pianificazione territoriale e urbanistica, ma anche una certa indifferenza culturale alla questione, pur con alcune significative eccezioni (Galderisi, 2004; Fabietti, 1999; Tira, 1997; Olivieri, 2004). E non si tratta di una questione “italiana”, ma generalizzata tanto nei paesi sviluppati quanto in quelli in via di


Dossier: declinare il tema

rurale

in urbano (sviluppo)

urbano

a urbano (restauro, recupero)

urbano

a rurale

rurale

a rurale

urbano

a urbano

Il piano trasforma usi e assetto dei suoli

Il piano mantiene usi e assetti esistenti

Fig.1: Schematizzazione delle attività del pianificatore e dell'urbanista

sviluppo. La ricerca Armonia ha infatti mostrato come il più avanzato modello francese, con il suo strumento cardine, il plan de prévention des risques, non riesce poi ad incidere in modo sostanziale sulle politiche e le procedure di decisione degli usi del suolo. Similmente negli Stati Uniti, nonostante importanti traguardi raggiunti attraverso ad esempio il sistema assicurativo per le alluvioni (Burby, 2001), nonostante l'impianto iniziale dello Stafford Act che imponeva alla pianificazione urbanistica di non creare nuove condizioni di rischio, pena la non compensabilità di danni eventualmente riportati da insediamenti mal concepiti o mal localizzati, non si è riusciti ad affermare nella prassi tale principio (Platt, 1999). Sempre Platt (2008) cita la collega urbanista Alexandra Dawson quando essa afferma che nessuno si appella contro i regolamenti edilizi che tutelano la sicurezza dei futuri abitanti, mentre si considerano le restrizioni degli usi del suolo come una lesione al diritto fondamentale alla proprietà privata, come un atto espropriativo. In questo contributo si forniscono alcuni elementi di riflessione sul rapporto tra urbanistica, pianificazione territoriale e prevenzione dei rischi, in un mondo nel quale per la prima volta nella storia più della metà della popolazione vive in aree urbane. Il contributo si struttura attorno alla definizione di attività urbanistica proposta nell'ambito della ricerca Armonia (Galderisi e Menoni, 2007), riportato nella figura 1, a partire dalle decisioni concrete che, a seconda dei casi, nei vari paesi si assumono riguardo al futuro dei suoli, urbanizzati e

non. La ricerca ha prodotto un modello di supporto (figura 2.) alle decisioni riguardo all' uso dei suoli che includa la valutazione del rischio presente e futuro, conseguente alle scelte operate, sulla base di una disamina puntuale delle condizioni di pericolosità, esposizione e vulnerabilità. L'applicazione di tale modello richiede che a monte si sia identificato il tipo di area di cui valutare il rischio attuale e futuro (ovvero se già urbanizzata o naturale/rurale), e si siano ipotizzate delle scelte di conservazione o di trasformazione degli usi attuali. Come si vede nella figura è possibile conservare la condizione presente, sia preservando il costruito sia preservando l'ambiente naturale o rurale. In alternativa si definiscono modalità per trasformare assetti urbani in modo da ottenere configurazioni, organizzazioni spaziali e volumetrie assai diverse da quelle precedenti, si urbanizza un ambito naturale/rurale, e, seppure in casi molto meno frequenti, si abbandona un'area urbanizzata e la si “rinaturalizza”. Dopo avere discusso le implicazioni di tali scelte dal punto di vista della gestione dei rischi, con particolare riguardo per quelli naturali nei paragrafi 2 e 3, si apre ad alcune riflessioni circa metodi e strumenti innovativi paragrafo 4. 2. La conservazione degli usi e degli assetti attuali Come si evince dal modello di supporto alle decisioni proposto in Armonia, la conservazione dell'esistente è lungi dal rappresentare di per sé

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una buona opzione dal punto di vista della prevenzione: tutto dipende infatti dallo stato di rischio attuale, se ritenuto accettabile oppure no. A questo proposito va sottolineata l'importanza delle variabili esposizione e soprattutto vulnerabilità che formano insieme alla pericolosità la funzione di rischio (laddove R = f (P, E, V). L'esposizione si riferisce al numero di persone e al valore dei beni che sono potenzialmente soggetti all'azione di un evento estremo; la vulnerabilità definisce invece le caratteristiche qualitative dell'esposto in termini di minore o maggiore capacità di resistenza e risposta. Nella filosofia di Armonia, la conservazione è semplicemente l'esito della decisione (o della non decisione) di lasciare tutto così com'è, senza modificare in modo sostanziale né gli assetti fisici, né le modalità d'uso di spazi ed edifici. E' chiaro come si tratti di una condizione ideale, poiché nessuna area può davvero rimanere immutata nel tempo: vi saranno comunque dei cambiamenti, legati ai cicli naturali nelle zone non costruite e all'azione quotidiana di abitanti e attività produttive nei centri urbani. Ha senso tuttavia affrontare la questione della conservazione dell'urbanizzato come politica attiva, che sia un'intenzionale preservazione di valori e di materiali esistenti. 2.1. La conservazione dell'urbanizzato, con particolare riguardo per i centri storici In un'interessante mostra della Biennale di architettura di Venezia del 2010 dedicata al tema della conservazione (Preservation), l'architetto Rem Koolhaas metteva in dubbio l'opportunità di definire pratiche di conservazione attiva anche di pezzi di città ed architetture molto recenti. La domanda che sorge non è infatti scontata: qual è il limite che separa ciò che si può definire storico, carico di memoria, manufatto testimonianza e ciò che è contemporaneo? L'ansia da conservazione di tutto ciò che non è contemporaneo sta investendo con esiti a volte un po' assurdi, architetture e oggetti privi di reale interesse. Ovviamente la definizione di tale limite implica delle scelte di valore, che possono essere più o meno condivise dalla maggior parte delle persone che vivono e operano in un luogo. Nelle testimonianze a due anni dalla sequenza sismica che ha colpito duramente la città di Christchurch in Nuova Zelanda tra il settembre del 2010 e il febbraio del 2011, è sorprendente trovare delle affinità significative con il caso aquilano. Anche a Christchurch ci si interroga sul futuro del “centro storico”, che rappresenta un luogo importante per l'identità collettiva degli abitanti, che ne contestano la chiusura come “zona rossa” non accessibile per motivi di sicurezza (!). Al di là delle implicazioni “filosofiche” della questione giustamente posta dai curatori della mostra della Biennale, dal punto di vista della prevenzione, occorre chiedersi qual è la qualità materica e l'idoneità localizzativa dell'esistente. Solo in apparenza si tratta di una questione semplice: si suole infatti indicare la diversa vulnerabilità delle aree esposte a seconda del periodo in cui sono state realizzate, rispetto alla data di introduzione di specifiche norme a tutela dai rischi. Tale ragionamento è tuttavia debole per diversi motivi: norme specifiche per gli edifici sono state introdotte solo per alcuni rischi e non per altri. Inoltre, anche nei casi più avanzati, come quello della difesa antisismica, i casi de l'Aquila e di Christchurch, così come molti altri, hanno

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mostrato che a volte anche gli edifici moderni, non rispettavano la normativa. Per non parlare poi delle norme di carattere urbanistico volte a limitare gli insediamenti nelle zone a pericolosità elevata. Emanate con grande difficoltà, faticano ad essere “recepite” in modo efficace nella strumentazione urbanistica e soprattutto nella prassi corrente. L'unico modo per superare le criticità insite nelle valutazioni a priori del rischio che si basino sull'epoca di costruzione di immobili e zone urbane, è quello di procedere ad un'attenta valutazione della vulnerabilità di entrambi mediante strumenti diagnostici. In tale senso si possono citare i risultati di un recente progetto europeo, Ensure (Enhancing resilience of communities and territories facing natural and na-tech hazards), che ha cercato di fornire un quadro il più esaustivo possibile, degli strumenti e dei parametri a disposizione per la valutazione della vulnerabilità di diversi sistemi (naturale, costruito, delle infrastrutture e delle imprese, sociale ed economico) rispetto all'impatto e alle conseguenze (indicate come vulnerabilità sistemica) di un evento estremo. Il progetto ha messo a punto delle matrici di valutazione rispetto ad alcuni dei maggiori rischi, in particolare alluvioni, terremoti, incendi boschivi, frane, eruzioni vulcaniche, siccità. Ogni matrice presenta i parametri per la valutazione, misurabili in modo qualitativo piuttosto che quantitativo, e i criteri, tarati il più possibile rispetto allo stress costituito da ciascun fenomeno e dalle sue conseguenze più probabili. La costruzione di tale sistema di valutazione trova il suo cardine in uno schema concettuale (figura 3) che colloca sul piano spazio-temporale diversi tipi di valutazione, relativi rispettivamente alla capacità di mitigazione degli effetti negativi di un evento, alla vulnerabilità fisica all'impatto, alla vulnerabilità sistemica all'emergenza fino a definire le variabili che condizionano una risposta resiliente nella ricostruzione. L'accoppiamento dello schema concettuale e delle matrici per ogni agente pericoloso ha permesso non solo di evidenziare lo stato delle conoscenze, ben lungi dall'essere stato integrato nella pianificazione, ma anche le zone di ignoranza che richiedono ulteriori ricerche. E' quindi possibile migliorare la capacità di valutazione delle condizioni di rischio dell'esistente rispetto a una molteplicità di possibili sollecitazioni naturali, incluse le forme concatenate (frane o tsunami innescate da sismi, frane conseguenti al denudamento di versanti in seguito a incendi o colate laviche, etc.). I parametri e i criteri di valutazione esplicitano d'altronde i casi in cui attraverso interventi attivi o passivi è possibile ridurre le vulnerabilità evidenziate o viceversa migliorare la resilienza dei sistemi. Indubbiamente, per essere completo, il processo di conservazione mirato alla prevenzione dei rischi deve anche considerare la capacità “portante” dei diversi tipi di suolo. Infatti, fattori geomorfologici e geologici locali hanno una notevole importanza in alcuni tipi di rischio: la zonizzazione geologica e sismica prevista ad esempio nell'ordinamento urbanistico della Lombardia (vedi gli articoli 55-58 della LR 12/2005) prevede diverse classi di fattibilità delle azioni di piano rispetto alla qualità dei suoli. Come discusso altrove (Menoni, 2005), tuttavia, tali norme sono di notevole utilità per le aree di nuova espansione, mentre è assai più difficile


Piani locali e regionali

Base conoscitiva processo valutativo

Dossier: declinare il tema

naturale\rurale

Vulnerabilità fisica -Diversi tipi di colture

usi del suolo Tipo di hazard -alluvioni (Flo) -valanghe (A)

-sismico (Se) -vulcanico (VO)

urbanizzato Vulnerabilità fisica -Ambito urbano -Edifici commerciali\industriali -Infrastrutture a rete -Edifici strategici

-frane (L) -incendi (F)

-Diversi usi del suolo

H. posizione

H. frequenza

H. intensità

Vulnerabilità sistemica -Attività economiche -Età popolazione -Trend demografico -Recente esperienza di disastri

Valutazione del rischio (danni Fisici attesi ): matrici

curve di fragilità

Tabella di valutazione multirisk: H, Vexp, R, CC, Na -tech

Catena Na-Na

Vulnerabilità sistemica -Attività economiche -Infrastrutture a rete -Edifici strategici Vulnerabilità sistemica: -Classi di età popolazione -Portatori di handicap

Aumenta Hazard? futuro? Come definito nel piano

Conservazione uso suolo

Trasformazione usi

Aumenta la Vuln. sistemica?

Tabella e carta delle compatibilità Criteri basati su U, V, R, VS

Uso suolo accettabile

Misure di mitigazione per ridurre gli hazard

Misure di mitigazione per ridurre la vulnerabilità e l’esposizione

Misure di mitigazione per ridurre la vuln. sistemica

Fig 2: Modello di supporto alle decisioni sviluppato in Armonia

intervenire laddove l'insediamento è già esistente. Proprio per questo motivo i fattori di esposizione e vulnerabilità devono avere un peso maggiore nei progetti di conservazione. Da questo punto di vista occorre aggiungere un ulteriore elemento degno di nota: molti dei parametri messi a punto nel progetto Ensure riguardano l'uso e le modalità d'uso. Spesso nei programmi di recupero si preservano sì i manufatti ma si modificano gli usi originali. Tali cambiamenti d'uso, come ad esempio la creazione di negozi al piano terreno, hanno delle ripercussioni importanti sulla vulnerabilità e sull'esposizione. Essi inducono a volte modifiche strutturali incompatibili con alcuni tipi di sollecitazione. Ad esempio, nel creare negozi al pianterreno si aprono luci maggiori rispetto alla condizione iniziale, si sottrae muratura portante per aprire vetrate: tutti interventi che in zona sismica indeboliscono significativamente la capacità di resistenza a sollecitazioni dinamiche. 2.2. La conservazione delle aree naturali e rurali In Ensure si è considerata anche la vulnerabilità dei sistemi naturali ai rischi; occorre chiarire in che senso, dal momento che ciò può apparire bizzarro. In realtà ciò che si considera è la vulnerabilità complessiva agli eventi, laddove ad esempio un'alluvione può comportare la dilavazione di siti o impianti con sostanze nocive eco-tossiche. In alcuni casi, come gli incendi boschivi o la siccità, vi è anche un danno effettivo ad alcuni sistemi naturali,

che producono un “servizio” ecologico all'uomo. Indubbiamente la nozione di vulnerabilità dei sistemi naturali e rurali ha una forte componente antropica. Come nel caso della conservazione del costruito, si pone la questione delle coperture del suolo che si intendono preservare. Se si conferma la non edificabilità di un'area ma si cambia il tipo di culture, è possibile incrementarne la vulnerabilità. Le zone coltivate a monocultura sono più vulnerabili alle alluvioni, specie arboree a radici corte garantiscono una minore coesione dei terreni, la riforestazione con piante a rapida crescita ma non autoctone dopo un incendio, ne aumenta in realtà la probabilità. In tutti questi casi è legittima la domanda relativa al confine tra conservazione e trasformazione. 2.3. Aspetti dinamici della conservazione Si è soliti fare coincidere la conservazione con la continuità degli ambienti e delle strutture nel tempo e nello spazio. Ma è chiaro che si tratta solo di un'illusione. Edifici e ambienti mutano nel tempo, anche se lentamente. Ciò dal punto di vista della prevenzione dei rischi ha un risvolto importante: la vulnerabilità fisica dei manufatti ad esempio aumenta col deteriorarsi dei materiali e l'usura prodotta dal tempo. La categoria della manutenzione urbana e territoriale è di fondamentale importanza nella riduzione dei rischi laddove si preservano edifici e insediamenti storici piuttosto che alcuni sistemi naturali (Di Sivo,

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Aumenta Vulnerabilità?

Uso del suolo inacettabile


scala

Scala (alla quale vanno

(hazards)

considerate le vulnerabilità) regionale Multi -sito

Vasta (regional, national, global)

Resilienza:

Sovralocale

Resilienza come prevenzione

locale

Vulnerabilità sistemica:

Capacità di trasformare danni in opportunità

vulnerabilità ai danni diretti

Vulnerabilità fisica: vulnerabilità alla sollecitazione

tempo impatto Segnali premonitori

recupero

emergenza Durata impatto

impatto

Impatti ripetuti

ricostruzione Scala temporale degli hazard

Fig. 3: Schema concettuale per la valutazione della vulnerabilità e della resilienza

2004). Si preferisce parlare di manutenzione urbana anziché degli edifici, poiché essa investe anche il sottosuolo, comprese le infrastrutture. Era di Giovanni Urbani (2000) la fondamentale intuizione che contro i terremoti poco possono gli interventi straordinari post evento, che spesso non hanno materiale sul quale lavorare a seguito di un livello di danneggiamento molto elevato, mentre sono molto più efficaci interventi di manutenzione volti a ripristinare o introdurre i presidi di difesa propri dei materiali costruttivi tradizionali (Giuffré e Carocci, 1999). Così come la vulnerabilità si costituisce e muta nel tempo, a volte come esito dell'usura, a volte in seguito agli effetti di decisioni assunte in un determinato momento storico, anche il valore esposto cambia e si arricchisce di contenuti testimoniali, diventa “capitale culturale e storico” frutto del tempo, che non può essere ripristinato una volta distrutto (Avrami et al., 2002). La ricostruzione è sempre un intervento trasformativo, anche quando mira a ricreare il più possibile l'impianto e l'insediamento originario. 3. La trasformazione degli usi e degli assetti attuali 3.1. La trasformazione da naturale/rurale a urbanizzato Rendere edificabili suoli agricoli, sottrarre ambiti alla foresta o alla costa per realizzare case e infrastrutture è il più classico ambito di pertinenza dell'urbanistica. Mentre si è ritenuto erroneamente che il ciclo della grande espansione urbana fosse giunto a compimento nei paesi sviluppati attorno agli anni Ottanta/Novanta,

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ci si rende conto invece oggi che è mutata la sua forma. Se non è aumentata la popolazione europea negli ultimi decenni, è però pur vero che si è assistito a una sua redistribuzione. Da un lato si sono formate aree di grande concentrazione urbana (la mezzaluna che unisce i territori del bacino dell'Elba al NordItalia, molte aree costiere), dall'altro ci si confronta oggi in Europa, con un vasto fenomeno di consumo di suolo, di sprawl urbano (EEA, 2006). A causa di quest'ultimo, città relativamente piccole sono attorniate da grandi estensioni di aree “rurbane” (Pigeon, 1994), sempre pronte ad essere riassorbite all'interno di grandi operazioni immobiliari qualora le condizioni al contorno le rendano convenienti, e nelle quali valgono oggi come ieri le leggi basilari della rendita assoluta (Campos Venuti, 1967). In un progetto europeo di preparazione al VII FP, dal titolo Scenario (Support on Common European Strategy for sustainable natural and induced technological hazards mitigation), ci si è interrogati sul “futuro dei rischi”, ovvero sugli scenari futuri sia di pericolosità, connessi in modo importante ai cambiamenti climatici, sia di vulnerabilità ed esposizione. La capacità di incidere della pianificazione dipenderà da quale orientamento verrà assunto: più favorevole al libero mercato o più propenso ad un ruolo forte dello stato, soprattutto in materia ambientale. Solo nello scenario che prevede uno stato capace di imporre vincoli edificatori e di orientare lo sviluppo urbanistico e territoriale si riuscirebbe a controllare lo sprawl e la


Dossier: declinare il tema

frammentazione dei paesaggi. Frammentazione che, secondo il progetto Prelude (EEA, 2007), potrebbe portare «al raddoppio dei paesaggi urbani nell'arco di un secolo». Tale processo potrebbe peggiorare alcune condizioni di pericolosità, portando finanche all'innesco di fenomeni laddove erano poco intensi o non presenti. Nel contempo, sia nelle grandi concentrazioni sia nella città diffusa, sebbene per motivi diversi, aumenta l'esposizione e soprattutto la vulnerabilità a diversi rischi naturali, legata all'interconnessione e all'interdipendenza sempre più spiccata fra sistemi urbani complessi. 3.2. La trasformazione da urbanizzato a naturale/rurale Sebbene la trasformazione inversa, da urbano a naturale/rurale sia possibile, è chiaro che essa è minoritaria. Nell'ambito della gestione dei rischi essa assume una particolare connotazione, quella dell'abbandono di aree ad elevata pericolosità, per le quali l'investimento necessario per la rilocalizzazione è controbilanciato dal beneficio che si ha dal punto di vista della riduzione dei danni attesi. In una ricerca sviluppata alcuni anni fa per la Regione Lombardia (Menoni e Pesaro, 2008), si sono proposti alcuni criteri per valutare l'auspicabilità e la fattibilità della rilocalizzazione di diversi usi e funzioni urbani e territoriali. Emerge in particolare che i pochi esempi realizzati in Italia riguardano situazioni esposte a fenomeni molto frequenti: in tal caso infatti è più facile per la popolazione e per le amministrazioni convincersi dell'opportunità di rilocalizzare piuttosto che affrontare una nuova ricostruzione a distanza di pochi anni. D'altra parte la ricerca evidenziava come in realtà sarebbe opportuna la rilocalizzazione anche in presenza di rischi rari, ma dalle conseguenze particolarmente devastanti in termini di vittime e di perdite economiche. In tali casi tuttavia si incontra spesso una certa resistenza alla rilocalizzazione. Uno dei fattori critici della rilocalizzazione è legata al destino delle zone abbandonate; in assenza di politiche e di piani specifici, infatti, si rischia di vedervi insediate nuove costruzioni e nuovi abitanti a distanza di poco tempo. Casi di rilocalizzazione, anche se non frequenti, si hanno in seguito ad eventi calamitosi gravi, quando con la ricostruzione si decide di abbandonare i sedimi originari e di investire in zone più sicure. 3.3. La ricostruzione post-evento come caso di trasformazione degli usi e degli assetti urbani La ricostruzione, soprattutto in presenza di danni ingenti è sempre un'operazione di trasformazione, anche quando, come nel caso della ricostruzione post-sismica friulana si cerca di restituire l'immagine pre-evento degli insediamenti distrutti. La ricostruzione è un processo doloroso e complesso, nel quale si incontrano e si scontrano dinamiche già riconoscibili prima del disastro e istanze nuove emerse come conseguenza dell'esperienza dell'evento calamitoso e del riassetto socio-economico che ne può conseguire. Come hanno bene mostrato Haas et al. (1977), la

ricostruzione è una fase particolarmente delicata, che potrebbe non iniziare mai. Perché essa si avvii, occorre garantire la disponibilità di fondi e risorse, umane e materiali, ma anche la capacità di costruire una visione, un progetto di futuro. Il concetto di resilienza (Vale e Campanella, 2005) è spesso associato alle fasi di primo ritorno alla normalità e di ricostruzione ed indica la capacità complessiva di una collettività, di una regione, di uno stato, di ricostruire migliorando le condizioni pregresse. Una comunità resiliente riesce ad associare ricostruzione a sviluppo sostenibile, riducendo le vulnerabilità pre-evento. In un'ottica di resilienza, diventa strategico dotarsi di strumenti per la valutazione dei danni che non consistano semplicemente in un'elencazione a scopi amministrativi. Occorre invece dotarsi di un quadro completo, che accanto ai danni fisici diretti alle residenze, alle unità produttive, ai servizi e alle infrastrutture, fornisca anche indicazioni sui danni indiretti, conseguenti a eventi concatenati con quello iniziale, o conseguenti all'interrelazione tra sistemi territoriali e socio-economici. Non vanno trascurati d'altronde i danni secondari a interi settori produttivi e di servizi, non necessariamente confinati nella zona di immediato impatto dell'evento calamitoso. Infine, occorre monitorare periodicamente il grado di ripristino e di capacità di recupero, anche diversi anni dopo l'evento. Solo recentemente gli organismi internazionali quali lo UNISDR (comunicazione di Wahlström, 2012) hanno cominciato ad interrogarsi sugli effetti di determinate scelte ricostruttive, magari operate sotto la pressione dell'emergenza, che hanno prodotto danni di lungo periodo (Di Sopra, 1986, 1992). Danni che riguardano determinati gruppi sociali, attività, o zone. Generalmente si assume che invece a livello macro, soprattutto laddove si investe sulla ricostruzione, la situazione a lungo termine spesso migliora sul piano economico. Tuttavia, quanto ha inciso l'intervento in emergenza e a favore della ricostruzione nelle molteplici località colpite da eventi di varia natura in Italia sulla spesa pubblica e in fin dei conti sul deficit di bilancio? Nessuno è in realtà in grado di dare una risposta a questa domanda; vi sono state inchieste parziali, ma in molti casi mancano i dati, frammentati tra vari enti. Sebbene possa apparire strano, non si hanno dati in merito alla qualità e alla quantità dei danni rispetto alla maggior parte degli eventi calamitosi e non solo in Italia. Studiosi di varie nazioni si sono interrogati sull'attendibilità delle cifre fornite dalle rispettive agenzie governative (se veda ad esempio per gli Stati uniti Comerio, 1998; Pielke, 2000). La riflessione sulla qualità delle banche dati nazionali e globali sui disastri avvenuti nell'ultimo secolo ha evidenziato diverse criticità e fornito alcune indicazioni per il superamento dei limiti attuali (Margottini et al., 2011). Nel contempo alcune agenzie internazionali come lo UNDP hanno messo a punto strumenti innovativi per la valutazione dei danni post-calamità a sostegno delle politiche e dei piani di ricostruzione (Bollin e Khanna, 2007). Come è possibile ricostruire bene,

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infatti, senza sapere quali sono i fattori di vulnerabilità e pericolosità che hanno pesato maggiormente sui danni e senza potere stimare il costo totale reale della ricostruzione (si veda ancora Comerio, 1998)? Sarebbe in tal senso auspicabile un'interazione assai più stretta tra diverse istituzioni finalizzata alla raccolta dei dati e all'analisi dei danni post-calamità, coinvolgendo accanto alle amministrazioni pubbliche anche le università e le scuole tecniche che potrebbero in tal senso fornire un valido aiuto, come è avvenuto dopo il terremoto di Kobe del 1995 in Giappone (Building Research Institute, 1996). 4. Strumenti e metodi Affinché la pianificazione urbanistica e territoriale possa efficacemente introdurre la prevenzione come uno dei criteri di scelta della destinazione, intensità e modo d'uso dei suoli, della localizzazione di sevizi pubblici, della distribuzione delle varie funzioni, occorre che contestualmente si considerino e si utilizzino strumenti e metodi adeguati, in parte “nuovi”, in parte già da tempo parte del bagaglio disciplinare. 4.1. Il globo terrestre digitale Lo sviluppo tecnologico degli ultimi anni comporta forse un modo nuovo di rapportarsi alla rappresentazione e all'analisi dei fenomeni di natura spaziale. Se l'introduzione dei GIS è stata salutata come una significativa innovazione, capace di migliorare sia la qualità sia il contenuto informativo delle carte di piano, i più recenti sviluppi del cosiddetto globo digitale terrestre si cominciano ad apprezzare solo ora. Nei loro articoli, Craglia et al. (2008, 2012) mostrano la parallela evoluzione di due modi di rappresentare e restituire dati relativi a fenomeni spaziali: da un lato la costruzione di sistemi informativi a se stanti, tra i quali è spesso difficile creare la pur auspicata e “imposta” per legge interoperabilità, dall'altro lo sviluppo di “servizi” che forniscono dati e informazioni mappate su globi terrestri virtuali realizzati da società commerciali quali Google ed Esri. Indubbiamente i sistemi informativi “certificati”, che possono fornire dati di qualità e fonte note, rimangono fondamentali, ma è altresì chiaro che vi è un movimento “dal basso” che fruisce della maggiore apertura delle piattaforme commerciali per fornire servizi sia su base volontaria sia a pagamento. L'utilizzo di tali piattaforme in occasione di recenti disastri quali lo tsunami nel Sud-Est Asiatico o il terremoto di Haiti ha in un qualche modo sorpreso la stessa comunità dei professionisti dell'intervento umanitario (Harvard Humanitarian Initiative, 2011). E' ragionevole aspettarsi che l'uso in emergenza sia prima o poi esteso a tutte le fasi di analisi e valutazione dei rischi nonché ad altri campi quali ad esempio le simulazioni sul futuro di aree interessate da significativi cambiamenti infrastrutturali o urbanistici. E' chiaro che esiste un problema di scala, una sorta di “conflitto” tra ciò che si può vedere alla scala globale e il dettaglio necessario alla scala locale; tuttavia lo sviluppo delle tecnologie è stato talmente rapido che si potrebbe ipotizzare una significativa capacità di rappresentazione utile anche alla scala locale entro breve tempo.

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L'introduzione di tali tecnologie nel mondo della pianificazione urbanistica e territoriale comporta un cambiamento nel modo di rappresentare le scelte di piano e la relazione tra scale spaziali diverse che tanto peso ha nella dinamica di produzione dei rischi e delle vulnerabilità. Fino ad ora anche la sola “sovrapposizione” delle informazioni relative alle varie forme di pericolo e all'urbanizzato esposto era tutt'altro che semplice. In un futuro prossimo sarà possibile rappresentare contemporaneamente sul globo digitale non solo le zone pericolose, le aree urbanizzate, le infrastrutture, ma anche riportare le informazioni provenienti da strumenti di monitoraggio. Tale possibilità consentirà di attribuire alla rappresentazione urbanistica una dimensione dinamica che essa non ha mai avuto, e che richiede riflessioni puntuali per essere apprezzata e utilizzata al meglio. 4.2. L'approccio sistemico: una sorta di conclusione L'approccio sistemico è una delle risposte che la contemporaneità si è data per analizzare e affrontare problemi complessi. La pianificazione urbanistica e territoriale deve misurarsi spesso con domande sociali diverse, a volte conflittuali; a maggior ragione quando deve considerare la prevenzione come uno dei criteri per le proprie scelte. De Marchi e Scolobig (2009) hanno parlato di “dilemmi” della pianificazione urbanistica in zone a rischio, dando conto dei risultati di alcune ricerche condotte in 5 località del Trentino (Roverè della luna,Romagnano, Bocenago, Vermiglio, Vipiteno-Sterzing) e in una del Friuli (Malborghetto-Valbruna) nell'ambito del più importante progetto sulle alluvioni finanziato nell'ambito del VI Programma Quadro, Floodsite (Integrated Flood Risk Analysis and Management Methodologies). Le due Autrici illustrano il dilemma relativo all'esigenza di conciliare sviluppo socioeconomico e salvaguardia della sicurezza mediante vincoli all'attività edificatoria; il dilemma delle mappe di rischio, laddove, in particolare a Vermiglio, è emersa la difficoltà di sostenere i vincoli allo sviluppo urbano in presenza di opere di difesa dal costo elevato per la comunità, il dilemma della scarsa percezione del rischio che non fa propendere per misure di mitigazione adeguate alle condizioni di pericolo; il dilemma “di responsabilità”, per cui la migliorata capacità di risposta delle amministrazioni incoraggia la passività e la deresponsabilizzazione della cittadinanza; ed infine il dilemma della comunicazione, per il quale la redazione di carte di rischio, imposte ad esempio dalla Direttiva Alluvioni del 2007, può avere come effetto collaterale la perdita di valore dei beni immobili già esistenti. Altrove (Menoni, 2005) abbiamo definito tali dilemmi come “scelte tragiche”, citando peraltro il titolo del saggio di due autori statunitensi (Calabresi e Bobbit, 1987), mostrando le difficoltà insite nelle scelte riguardanti rischi pubblici, o collettivi, per i quali l'unica strada percorribile per evitare quelle senza uscita, consiste nella condivisione delle responsabilità e delle scelte (May e Williams, 1986). Sebbene, coerentemente con le argomentazioni di Ulrich Beck (2000), i modelli utilizzati per analizzare e valutare il rischio determinano i tipi di misure preventive che possono


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essere messe in campo, rimane il fatto che compito dei tecnici è quello di mostrare costi e benefici attesi (e stimati) delle scelte effettuate, con particolare riguardo per i danni che si potranno evitare in futuro. Ma, come correttamente afferma Mazza (2009), «una politica pubblica [e le strategie di prevenzione costituiscono una politica a tutela di un bene pubblico (Reddy, 2000)] può essere analizzata e valutata tecnicamente se con ciò intendiamo far emergere costi e benefici attesi, ma non può essere giudicata tecnicamente perché il giudizio degli stessi costi o benefici varia in funzione delle finalità politiche perseguite». La collettività può anche scegliere di accettare in una certa misura il rischio connaturato allo sviluppo in zone soggette a pericoli di natura idrogeologica; una volta assunta questa scelta è pur sempre possibile definire un modo di sviluppo, secondo quanto suggerito dal modello del progetto Armonia, che mitighi il più possibile i possibili impatti, agendo sulle variabili dell'esposizione e della vulnerabilità. Similmente occorrerà accettare di bilanciare la riduzione di efficacia di una misura preventiva non strutturale di lungo periodo (la pianificazione urbanistica restrittiva in zone a rischio) con il miglioramento di misure preventive non strutturali di breve periodo (la costruzione di un piano di emergenza efficace e di un sistema di monitoraggio connesso con il piano di emergenza e con le procedure operative di allertamento della protezione civile). In un recente incontro tenutosi nell'ambito del progetto Interreg RiskNat, Fabrizia Derriard, Sindaco di Courmayeur, osservava correttamente che a fronte della spinta edificatoria a uso turistico, che produce ricchezza per la valle, si può pensare di migliorare contestualmente le opere di difesa, ma solo entro certi limiti, dettati dalla sostenibilità economica ed ambientale dei manufatti necessari, con la consapevolezza che non esiste il rischio zero e che, determinate scelte di sviluppo impongono di convivere con un margine di rischio più elevato. Nell'affrontare questi dilemmi o “scelte tragiche”, l'approccio sistemico ha il vantaggio di esplicitare le relazioni spazio temporali tra scelte, situazioni concrete, e diverse variabili di tipo fisico, sociale, ed economico. Inoltre, esso permette di tenere più facilmente sotto controllo le esternalità delle varie scelte, pagate da settori e gruppi sociali a volte interni alla comunità che le assume, altre volte esterni.

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Applicazione delle procedura Ensure alla città di Sondrio

di Daniela Molinari* e Guido Minucci**

*Dipartimento di Ingegneria Idraulica, Ambientale, Infrastrutture viarie, e Rilevamento del Politecnico di Milano **Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano

La città di Sondrio, sita nelle Alpi Lombarde, non lontano dal confine con la Svizzera, con i suoi 22.000 abitanti, occupa un conoide di deiezione formato dal Torrente Mallero alla confluenza con il fiume Adda. Il bacino del Mallero si estende per circa 320 km2 , con il punto più alto a 4000 metri circa sopra il livello del mare e il punto più basso a 300 metri nella città di Sondrio. Si tratta quindi di un fiume montano le cui piene sono caratterizzate da un elevato trasporto solido, energia e velocità elevate, con tempi di risposta all'evento meteorico scatenante molto rapidi. Sondrio è protetta da argini che la proteggono da piene con una portata di circa 700 m3/s, aventi un tempo di ritorno stimato in 1000 anni. Nonostante ciò, la Città è soggetta a rischio di alluvioni ed ha conosciuto nella sua storia alcuni eventi critici, quali quelli del 1834 e del 1927 che danneggiarono direttamente alcune zone centrali. Nel XX secolo gli altri eventi eccezionali che provocarono danni ai centri a monte di Sondrio, lambendo la città sono quelli del 1911, del 1953 e il più recente del 1987. Tali eventi sono stati determinati dal trasporto solido che depositandosi diminuisce la profondità “utile” dell'alveo, riducendo la portata che è davvero necessaria per esondare. La metodologia del progetto Ensure è stata applicata alla città di Sondrio: sono state quindi valutati i parametri delle quattro matrici (qui presentate per stralci), corrispondenti alla capacità di mitigazione, vulnerabilità fisica e sistemica, ed infine resilienza nella ricostruzione. Ogni matrice è a sua volta suddivisa in quattro parti, relative al sistema naturale, all'ambiente costruito, alle infrastrutture critiche e ai siti produttivi, al sistema socioeconomico. Nella prima matrice, si dà conto della capacità di mitigazione del rischio in “tempo di pace”. Per quanto riguarda l'ambiente fisico, non si valuta solo la presenza o meno di un sistema di monitoraggio, ma anche la sua qualità e l'attendibilità delle previsioni fornite dal modello utilizzato a fini di allertamento. Il sistema di monitoraggio nel bacino del Mallero

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presenta una serie di limiti, che vanno dal trascurare l'apporto del trasporto solido nella identificazione di soglie critiche per l'allertamento alla mancata integrazione tra il sistema tecnico di analisi e interpretazione dei dati e le procedure di allertamento della popolazione. Per quanto attiene al sistema costruito e alle infrastrutture, si denota la scarsa considerazione del rischio alluvionale nei piani territoriali e nei regolamenti edilizi. Con la seconda matrice si valuta la vulnerabilità fisica all'impatto: nell'estratto si riporta l'esito della valutazione sulla vulnerabilità degli edifici e dei quartieri maggiormente esposti: una parte cospicua del centro storico è a rischio, e in particolare le attività (commerciali) al piano terra degli edifici; la forma dell'insediamento storico, con l'alternanza di vie larghe e strette potrebbe produrre in alcune un effetto si sifonamento che in eventi simili a quello qui ipotizzato ha prodotto danni strutturali significativi. Nella terza matrice si valuta in particolare la capacità di risposta all'emergenza, valutando quanto i danni fisici potrebbero ridurre la funzionalità dei servizi essenziali per il soccorso e la gestione della crisi. L'accessibilità urbana è particolarmente critica sia dall'esterno verso l'interno sia all'interno della maglia stradale. Inoltre, le velocità idriche stimate renderebbero impossibile o con conseguenze letali l'uso di alcuni tratti di viabilità urbana sia ai mezzi sia ai pedoni. Nella quarta e ultima matrice diversi parametri indicano l'esistenza o meno di condizioni che favoriscono una risposta resiliente nel ritorno alla normalità e nella ricostruzione. Nello stralcio si valuta la disponibilità di risorse per un'eventuale ricostruzione, sia da parte dei privati sia sottoforma di finanziamento pubblico; si fa riferimento a quanto complessivamente erogato per il disastro Valtellina, ponendo però la questione se un'analoga spesa sarebbe sostenibile nella situazione attuale.


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Sistema

Componente

Aspetto

Parametri

Scala e criteri di valutazione

Applicazione a Sondrio Classi per la valutazione

Ambiente naturale

E' presente un sistema di Binario monitoraggio?

Pericolosità

Ambiente costruito

Esposizione e vulnerabilità del costruito

Stato del monitoraggio

Sì/no

QUALITA' MEDIA Il sistema è costituito da 13 pluviometri che coprono l'intero

Se la risposta alla domanda precedente è affermativa, di che Giudizio esperto qualità è la rete e la distribuzione del sistema di monitoraggio?

Elevata/Media/Bassa

E' presente un sistema rada?

Sì/no; tipo di radar

Vulnerabilità ed L'esposizione e la vulernabilità esposizione sono sono considerati nei piani attuali? considerati nei piani urbanistici e territoriali?

Norme e regolamenti edilizi a difesa dalle piene montane

Binario, qualità

Sì/no; Binario; solo formalmente/in modo Modalità di recepimento sostanziale, con norme specifiche

Binario; data di introduzione

Norme e strumenti Esistono forme di mitigazione del per la gestione del rischio? Qual è la loro rischio efficacia/qualità? La resistenza alla sollecitazione prodotta da alluvioni montane è considerata nei progetti Binario e programmi di recupero e manutenzione degli edifici

Sistema

Componente

Aspetto

Parametri

Scala e criteri di valutazione Materiali

Sistema costruito

Caratteristiche strutturali Numero di piani degli edifici Livello del piano terra rispetto alla strada

Esposizione e vulnerabilità del costruito

Proprietà nella zona Quali sono i fattori che rendono il allagabile costruito vulnerabile alla sollecitazione provocata da una piena montana? Vulnerabilità del centro urbano

Vulnerabilità del centro storico/beni culturali

Infrastrutture e siti produttivi

Sistema Componente

Aspetto

Parametri

Quali sono i fattori che rendono il centro urbane vulnerabile alle Esistenza di edifici conseguenze del danno fisico pubblici strategici subito?

bacino (1 /25 km 2). Uno strumento solo è disponibile per monitorare il livello idrico. Nessuno strumento è disponibile per misurare il trasporto solido e il grado di riempimento dell'alveo.

Sì, sono necessari ulteriori dati

SOLO FORMALMENTE Il piano urbanistico deve conformarsi alle indicazioni del Piano di Assetto Idrogeologico e in particolare al iano Stralcio delle Fasce Fluviali; ad oggi tutavia questo non è disponibile per il sottobacino del Mallero.

sì/no; l'efficacia viene valutata rispetto all'anno di introduzione (rispetto agli avanzamenti dello stato delle conoscenze)

SI, SOLO PER GLI EDIFICI PUBBLICI Le Norme per le Costruzioni del 2008 non impongono specifiche misure in zona alluvionale; il Piano di Assetto Idrogeologico impone specifiche norme per gli edifici pubblici; a Sondrio tuttavia la maggior parte di questi ultimi è storicamente collocata nelle zone potenzialmente allagabili

SI/No

NO

Classi per la valutazione

Tabella 1. Stralcio della matrice di valutazione della capacità di mitigazione

Applicazione aSondrio

legnor/terra/pietra/matton Gli edifici presenti a Sondrio sono prev alentemente di cemento o muratura e/cemento armato 1/2/ >2

La maggior parte degli edifici > 1 piano

Più basso/uguale/più alto

Più alto La maggior parte degli edifici nell'area

Presenza di cantina

Sì/no

Numero e tipo di proprietà

Rilievo o dati statistici

Posizione e caratteristiche del tessuto edilizio e degli spazi aperti nelle zone allagabili

Tessuto tale da facilitare evacuazione/tessuto tale da ostacolare l'evacuazione

Nel centro storico sono presenti sia strade

Tipo di tessuto storico in zona allagabile

ALTA

Come per vulenrabilità del centro urbano

inondabile (68%) ha una cantina 2000 (stima) MEDIO larghe sia strade strette, che potrebbero produrre un effetto di sifonamento di acqua e fango.

La maggior parte del centro storico è in zona allagabile, v edi parametro precedente.

Scala e criteri di valutazione

Tabella 2. Stralcio della matrice della vulnerabilità fisica

Applicazione a Sondrio Classi per la valutazione SI

Sì/no; capacità funzionale residua in seguito a danni fisici

Valutazione capacità di mantenimeno funzionalità delle strutture

la maggior parte degli edifici pubblici strategici, inclusa la prefettura, è uin area allagabile

BASSA

Numero delle strade di Ridondanza; accesso; qualità delle strade; tipo di strade; tempo atteso di transito forma e larghezza

Esposizione e vulnerabilità del costruito

la connessione interna tra le due parti in destra e sinistra del Mallero Bassa (poche strade strette)/media/ alta (molte non può essere garantita;il centro urbano sarebbe inaccessibile strade larghe) poiché la maggior parte delle

Accessibilità urbana

strade sarebbe allagata

Fruibilità delle strade

Sistema Componente

Aspetto

Parametri

Pedoni/veicoli

Scala e criteri di valutazione

BASSA; la fruibilità delle strade sia per pedoni sia per veicoli è bassa anche in presenza di una piena di scarsa entità

Alta/media/bassa

Tabella 3. Stralcio della matrice di valutazione della vulnerabilità sistemica

Applicazione a Sondrio Classi per la valutazione ALTO

Disponibilità di risorse Grado per riparazioni in proprio

alto/medio/basso;

si tratta di una delle prov ince più ricche della Lombardia ALTO

Sistema sociale

Fino ad oggi lo Stato ha garantito risorse per la ricostruzione; Legge Speciale 102/90 detta Legge Valtellina, ha stanziato nel 1990 circa € 1.239.500.000 (L. 2.400 Mld)

Persone/individui

Qual è il grado di resilienza della comunità locale?

con

Access o a fondi pubblici per la ricostruzione

Grado

Alto/medio/basso

l’obiettiv o principale di raggiungere condizioni di stabilità idrogeologica dei territori e di creare migliori condizioni di sv iluppo socioeconomico per le popolazioni residenti nel territorio coinv olto dall'ev ento della Val Pola del 1987; la domanda è se tali cifre potranno essere messe a disposizione anche in futuro.

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Tabella 4. Stralcio della matrice di valutazione della resilienza


Modelli di previsione e prospettive di pianificazione di Riccardo Rigon* Negli ultimi cinquant'anni l'aumento degli insediamenti abitativi e la crescita delle attività' economiche, unitamente alle variazioni climatiche, hanno praticamente aumentato quasi ovunque il rischio idrogeologico (in Figura 1, il cambiamento di uso del suolo a Bressanone). La presenza di nuove infrastrutture ha reso il nostro territorio vulnerabile a fenomeni che prima non costituivano problema per la sicurezza delle persone e dei beni. In Europa, nell'ultimo secolo, più di sedicimila persone hanno perso le loro vite a causa di frane o esondazioni e le perdite economiche sono state valutate attorno al miliardo e mezzo di euro (dati EM-DAT, OFDA/CRED International Disaster). L'Italia, tra i paesi europei, è quello maggiormente colpito da disastri idrogeologici: negli ultimi venticinque anni circa cinquecento persone hanno perso la loro vita per questa causa, e il numero di persone coinvolte in questi disastri è stato almeno 25 volte superiore a questo dato. Il pericolo economicamente più impattante riguarda il pericolo (ed il rischio conseguente) derivante dal franamento. Il meccanismo che genera il franamento è molto semplice: esso avviene quando le forze che attraggono il materiale verso il basso eccedono la resistenza dei materiali che compongono il terreno. Tale meccanismo però si esplica in dinamiche molto complesse, che, allo stato dell'arte, non è possibile prevedere con certezza a priori. Alcune frane si muovono lentamente, altre si muovono velocemente durante eventi sismici o per precipitazioni intense. Molte delle considerazioni di carattere generale relative a questo campo sono trasferibili anche alle piene fluviali e alle problematiche legati ai crolli.

* Università di Trento Dipartimento di Ingegneria Civile e Ambientale e Direttore del CUDAM (Centro Universitario per la Difesa idrogeologica dell'Ambiente Montano)

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Come si calcola il pericolo? Nella stesura delle norme sul pericolo che riguardano la Provincia di Trento, e alle quali il CUDAM (Centro Universitario per la Difesa Idrogeologica dell'Ambiente Montano,NdR) ha partecipato, si è definito il pericolo in base a discriminanti fisiche basate sulla possibilità che il sedimento/detrito prodotto da un fenomeno di franamento o di esondazione possa raggiungere un certo luogo con determinati volumi e determinate velocità e con una frequenza relativamente alta. Per esempio, la normativa trentina stabilisce che si manifesta una situazione pericolo quando un fenomeno di esondazione supera una certa altezza (idrometrica o di deposito di sedimento) e l'acqua scorre in superficie con una velocità superiore ad un valore limite. La scelta dei valori di intensità è in parte convenzionale e in parte dettata dall'esperienza ed è legata al concetto di tempo di ritorno di un evento. Non ci si può esimere dal considerare con quale frequenza un evento calamitoso si presenta in un certo luogo: se in linea di principio eventi pericolosi possono manifestarsi in ogni


Dossier: declinare il tema

Figura 1 - Esempio (cortesia di Andrea Zisch) di Bressanone/Brixen dove si vede l'aumento degli insediamenti e delle attività produttive in prossimità del fiume Isarco avvenute negli ultimi 50 anni.

luogo, come è successo nel passato, di fatto alcuni rimangono ragionevolmente improbabili e altri si ripresentano nei medesimi luoghi con cadenze aventi una certa regolarità. Il concetto di tempo di ritorno, per altro, è limitato dal fatto che discende da una visione convenzionalmente stazionaria del clima, considerato quindi non mutevole. Il concetto di tempo di ritorno risponde alla domanda: con quale frequenza si ripeterebbe un evento di una certa intensità se il clima futuro mantenesse invariate le caratteristiche statistiche misurate sinora ? Questo approccio convenzionale riassume in sé quanto di meglio la scienza può offrire in questo momento e produce una ragionata, ancorché imperfetta, stima del pericolo. Naturalmente il concetto stesso di frequenza va compreso. Non rappresenta, per esempio, il riprodursi di un evento ciclico. Così secondo questo schema di pensiero, un evento con un tempo di ritorno, di 10 anni, non si ripresenta deterministicamente ogni dieci anni, ma "mediamente" ogni dieci anni, in un arco di tempo notevolmente più lungo, per esempio, 100 anni. Chi normalmente si occupa di pericolo, ritiene che quanto più un pericolo si presenta frequentemente, tanto più questo è problematico, e, naturalmente – a rischio di ovvietà- tanto più un pericolo è intenso, tanto più è da evitare. La normativa normalmente assume questa ipotesi di lavoro, attraverso grafici come quello mostrato in Figura 1. Tanto più è

intenso un pericolo, tanto più è da evitare e tanto più è frequente, tanto più è da evitare. Ma il peso da dare ad intensità e frequenza è naturalmente frutto di interpretazione, e quello implementato dalla figura 2 corrisponde a varie scelte su ciò che è pericoloso (rosso), mediamente pericoloso (blue) o non affatto pericoloso (giallo). La logica sottesa è che eventi molto intensi ma molto rari, benché disastrosi, non possono essere usati per la prevenzione del pericolo o per la pianificazione. La loro occorrenza sarebbe poco più probabile di un terremoto di grandissima magnitudine, o di un altro disastro ambientale, e la stessa stima della probabilità molto incerta e pertanto, in un certo senso inaffidabile. Allo stesso tempo, il costo delle opere necessarie per la salvaguardia dal pericolo o il loro impatto sull'ambiente e gli insediamenti potrebbero risultare economicamente non affrontabili. D'altro canto, eventi molto frequenti ma di bassa intensità sono percepiti come sopportabili (economicamente o "politicamente"). Dunque: sono gli eventi di media intensità e di media frequenza quelli che maggiormente interferiscono con le attività umane e che richiedono interventi maggiori e sono considerati complessivamente, in un bilancio di frequenza ed intensità, i più pericolosi. Come risultato di questo ragionamento, sono gli eventi con un tempo di ritorno di 200/300 anni (che sono stimati

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Fig. 2 - La "matrice" delle classi di pericolosità secondo il metodo detto BUWAL.

Intensita (I)

gli eventi pericolosi

elevata

gli eventi mediamente pericolosi gli eventi non pericolosi.

media

bassa

elevata

media

bassa

ripetersi quattro-cinque volte in mille anni), che, nell'ambito dei fenomeni di franamento superficiale e di esondazione, si tengono come riferimento quali più pericolosi, anche se le recenti normative europee hanno innalzato questo limite a 500 anni. I pericoli con frequenza minore (tempo di ritorno maggiore) cadono nella categoria del "pericolo residuo", sempre esistente, ma di difficile quantificazione. Non è stato chiarito tutto a tutti se non si chiarisce un ulteriore concetto. "Duecento anni di tempo di ritorno" è infatti un valore legato ad un particolare areale. Se il fenomeno, come accade spesso in campo idro-geologico è legato a precipitazioni di natura convettiva, tale areale è una zona di alcune decine di chilometri quadrati. Questo significa, che sulla più grande scala regionale, di alcune migliaia di chilometri quadrati, questi eventi si potranno ripetere molto più spesso di una volta ogni duecento anni (in media): anche cento volte in duecento anni, ora in un bacino, ora in un altro. Questi eventi estremi, fino ad un certo punto però, si comportano come "una roulette russa" che colpisce ripetutamente un'area grande, come può essere l'arco Alpino, in posti diversi e, come le cronache riportano infatti, il loro ripetersi è quasi annuale. Ho tentato di introdurre alcuni concetti e ne ho posto in luce, in alcuni passaggi, gli elementi convenzionali. Quelli possono essere discussi: doverosamente anche dai “non tecnici”. Bisogna però ribadire che, pur nella dialettica che sempre esiste nella scienza, non si deve confondere tra conoscenze scientificamente accettate e pratiche infondate (l'astronomia con l'astrologia). Tra una conoscenza, sia pure incerta, e l'ignoranza di fatti verificati e misurati. Tra ciò che si può interpretare, e ciò che si deve invece accettare come sufficientemente verificato e deve essere preso a riferimento, in scienza e coscienza.

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Probabilità (P)

Il problema politico (o urbanistico?) L'aspetto di cui tenere conto, da un punto di vista pianificatorio è dunque quello di valutare il problema per un'area regionale, in cui gli eventi con alto tempo di ritorno si ripetono molto frequentemente. Nonostante le Istituzioni operino su un territorio da decenni, certamente il territorio non è stato esplorato ovunque con il medesimo grado di approfondimento: perché in passato mancavano gli strumenti tecnici (specialmente quelli informatici e gli strumenti di analisi remota) che ci sono oggi e perché le risorse da impegnare in siffatto compito erano, sono, e rimarranno sempre limitate dalle altre esigenze dell'organizzazione del paese e della sua vita quotidiana. C'è dunque il problema di stabilire una priorità di interventi, e c'è il problema scientifico connesso, di stabilire quali siano le aree da analizzare prioritariamente o con maggiore dettaglio di altre. In effetti, la scelta delle aree sulle quali intervenire (con prevenzione) è quasi scontata: sono le aree urbanizzate (se in pericolo). Ma l'elemento geografico in cui avvengono tali fenomeni è “un bacino” e su questo interagiscono varie situazioni che non sono riconducibili ad azioni puntuali ma richiedono una pianificazione diffusa e multisettoriale (Figura 3) E' dunque necessario, rovesciando un noto detto (pensa globalmente, agisci localmente) agire globalmente, e comunque avere degli strumenti per discriminare i luoghi maggiormente pericolosi "alla grande scala", cioè alla scala nazionale o regionale, per poi, nel caso “l'incrocio” con l'urbanizzazione locale si realizzi, approntare degli studi di maggiore


Dossier: declinare il tema Fig. 3 - Interazioni ecologiche e di uso del suolo in un bacino (Andreas Zisch, 2010)

scoglimento del ghiacciaio

degradazione del permafrost

uso agricolo estensificazione caccia

prese d‘acqua bacino di ritenuta diga

frane

acqua potabile

stato del bosco

pesca situazione di pericolo opere di difesa

approfondimento (e di maggior costo) là dove serve. Per necessità, le carte del pericolo vengono dunque disegnate, con una “scala” come le carte geografiche: anche se non sempre questa informazione risulta riportata in evidenza, o, se riportata, compresa correttamente. Le carte nazionali hanno un dettaglio diverso da quelle regionali (provinciali) le quali sono meno risolte di quelle comunali (ma il controllo dell'economia sta spesso nelle mani di coloro che agiscono sulle macroscale) e vanno usate in modo diverso. Non è solo un problema di "risoluzione", ma anche di approfondimenti. Le carte regionali sono prodotte con strumenti diversi, "di sintesi", rispetto a quelli usati per approntare le analisi locali. Queste ultime danno, se ben fatte, una informazione maggiormente corretta: ma è probabile che non siano disponibili per tutto il territorio: tutto il territorio non può essere studiato con il medesimo grado di approfondimento. La macchina tecnica al lavoro Il governo del territorio mette allora in azione una macchina tecnica che coinvolge varie figure e vari ruoli, non tutti unicamente vocati allo scopo. C'è il contributo tecnico che proviene dagli studiosi, siano essi ricercatori universitari, o in enti di ricerca. Il loro contributo è spesso sul piano teorico, nella formulazione delle teorie che dovrebbero spiegare i sistemi naturali, da un lato, o sperimentale, nel confrontare le teorie con i modelli teorici e produrre nuova conoscenza. Alcuni di questi, moltissimi in verità, producono, alla fine del loro lavoro, modelli matematici del fenomeno e li

uso agricolo intensificazione

ecologia

implementano in software. La maggior parte di questo software rimane però nelle mani dei ricercatori che l'hanno prodotto e raramente sono usati da terzi per fare analisi sistematiche ed approfondite su tutto il territorio. Generalmente questi studiosi producono "casi di studio". Ci sono poi i tecnici delle istituzioni. Questi si trovano di fronte al compito gravoso di tradurre le teorie, e, possibilmente le più efficaci, in carte del pericolo. E', naturalmente, un lavoro che non possono fare da soli, e pertanto si avvalgono spesso di contributi di tecnici esterni ai quali viene dato in appalto il lavoro di mappatura. È su questi tecnici nelle istituzioni che grava il dilemma di quali modelli usare, di come usarli, e, nella mancanza di tempo di affrontare con il massimo approfondimento tutto l'ambito territoriale, a quali aeree dare la precedenza negli studi. Nell'ipotesi che il vero lavoro di mappatura sia fatto da professionisti esterni, i tecnici delle istituzioni si devono anche porre il problema del controllo di qualità del lavoro svolto e della omogeneità del risultato su tutte le aree esaminate. I tecnici esterni infine sono sottoposti alle regole del mercato, nell'ottenimento di un rapporto ottimale, nel rispetto della deontologia professionale, tra risultato da ottenere e compenso, dove, nelle spese da computare, devono anche venire messo in conto l'aggiornamento necessario per poter ottenere risultati tecnicamente soddisfacenti, in un campo in progresso esponenziale. L'interfacciamento tra studiosi (ricerca) e tecnici delle istituzioni e tra tecnici delle istituzioni e professionisti è

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onerosissimo ed è l'elemento cruciale per la buona riuscita della risoluzione del problema di mappatura. E' un “processo industriale” distribuito, che deve funzionare sempre senza interrompersi e che solo recentemente si è tentato di implementare sistematicamente. Bisogna anche ricordare che lo studio del pericolo non solo investe la catena di produzione "verticale" (ricercatori, enti, professionisti) appena delineata, ma anche una catena "orizzontale": è infatti facilmente riconoscibile come le competenze del solo geologo o del solo ingegnere non siano sufficienti a coprire le competenze necessarie ad un lavoro di indagine ben fatto. Servono (a tutti i livelli di produzione) tutte le competenze: anche se queste non sempre parlano la stessa lingua scientifica. La difficoltà più grande è dunque nella comunicazione efficace delle conoscenze "giuste" lungo tutta la catena operativa (orizzontale e verticale) e nel dosare i livelli di approfondimento richiesti: implementare un sistema sostenibile e non velleitario di supporto alle decisioni. La “carta del pericolo”, non è una collezione di mappe, ma, in senso lato, un processo in continuo fieri e in continuo rifacimento. La scienza idrologica contemporanea cerca di determinare sistemi di previsione dei fenomeni e di anticiparli con il sufficiente grado di confidenza, tale da consentire di mitigare i fenomeni, là dove possibile, e di allertare opportunamente la popolazione e mettere in sicurezza vite umane e beni, quando non si possano costruire opere di salvaguardia adeguate. Questo lavoro ha a che fare con la complessità dei fenomeni ambientali, nei quali gli "eventi" sono spesso i soli esperimenti che i ricercatori hanno a disposizione. Lo scienziato ambientale “smonta” gli eventi osservati sulla base di informazioni quasi sempre insufficienti a riprodurre il quadro fenomenologico completo, tentando di riscostruire “a posteriori” il senso di un esperimento “ben fatto”. E' ovvio infatti che manchi la ripetizione dell'esperimento, che puo' essere ottenuta solo in senso lato analizzando e ripetendo, in scala e in laboratorio, solo alcuni degli aspetti dei fenomeni rilevati. Questa situazione ha evidentemente un effetto anche sulle norme che regolano la gestione del pericolo e del rischio. Infatti per farvi fronte la legislazione fa riferimento a modelli concettuali che spesso hanno più un carattere convenzionale che oggettivo. Questo è per esempio il caso del tempo di ritorno, di cui si è già parlato, e delle procedure "di norma" per la messa in sicurezza del territorio che ne derivano, le quali, per altro, consentono, se ben applicate, di rispondere alle esigenze di sicurezza in modo generalmente sufficiente e accettabile dalla popolazione. Il cambiamento climatico impone di considerare un'ulteriore variabile nel processo conoscitivo e decisionale. In particolare, il riscaldamento globale della Terra causa generalmente un diverso regime pluviometrico e, nello stesso tempo, un diverso regime ed una diversa intensità degli eventi estremi tale da porre in dubbio la validità dell'impostazione tradizionale dell'approccio al pericolo. Se l'opera dello scienziato della Terra è quasi sempre un lavoro di “reverse engineering”, va anche detto che i moderni strumenti di analisi del territorio (rilievi satellitari, rilievi laser-altimetrici, reti di misura a terra, modelli matematici di vario ordine, strumenti di trattamento massiccio di dati eterogenei, modelli

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statistici e dinamici) rappresentano una opportunità unica e con un grado di affidabilità mai registrato prima e che consentirebbe un controllo capillare del territorio. Per esempio, la topografia del territorio del Trentino-Alto Adige, (ma lo stesso vale ormai per molta parte del territorio nazionale) è conosciuta oggi con una risoluzione precedentemente inimmaginabile. I dati laser-altimetrici riproducono le quote del territorio riportandole mediate su un'area di pochi metri quadri (da 1 a 4) con precisione di pochi centimetri rispetto al geoide di riferimento (il che significa che si distinguono i massi, i marciapiedi, le case e i singoli alberi). Un'analoga precisione è offerta dalle immagini satellitari in campo ottico (con risoluzione sino a 50 cm): cosa alla quale, del resto, Google Earth ci ha abituato nella vita quotidiana. Siamo nell'epoca dei Petabyte d'informazione. Questo fatto, se rappresenta una gran bella notizia (tanti sono alla ricerca di chiavi interpretative e di possibili utilizzi di questa grande messe di dati), costituisce anche un caso in cui "la soluzione è arrivata prima del problema". Normalmente, nella scienza, i problemi specifici richiedono dati per essere risolti (e quindi teorie corredate di equazioni e di regole interpretative condivise). In questo caso invece non tutti i dati disponibili sono necessari a produrre il "corpus" di informazione che consente di risolvere il problema - nel nostro caso dell'innesco del franamento e del suo successivo prodursi in colate detritiche e o di fango, o il problema gemello, di calcolare le piene fluviali. Inoltre, spesso il quadro idrologico-geomorfologico è ambiguo, dovuto al sovrapporsi di processi diversi nel tempo, almeno a partire dall'ultima glaciazione, con la sua eredita' periglaciale e all'interazione di elementi fisici, chimici antropici ed ecosistemici. Talvolta però il quadro non è affatto ambiguo. Per esempio la forma morfologica del conoide alluvionale, alla chiusura di una valle pendente, rappresenta chiaramente il prodotto di una precisa azione, ovvero il trasporto di sedimento e detrito, riconoscibilmente durante eventi eccezionali (ma ragionevolmente avvenuti tutti negli ultimi 1015000 anni) di relativamente grande frequenza (testimoniata dalla simmetria della forma) (come in Figura 4). Pertanto, le popolazioni che li hanno via via abitati, hanno stipulato con la natura un contratto di accettazione di rischio, in cambio di una posizione soleggiata per le case e di terreni adatti ad alcune colture (per esempio della vite). Contratto che richiede prima o poi la sua esazione. Si potrebbero, naturalmente portare altri esempi, per esempio ricordare che anche le pianure si dicono "alluvionali": proprio per ricordare che furono prodotte dalle continue esondazioni dei fiumi, di cui le tracce permangono facilmente visibili nelle immagini aree e satellitari. Nel quadro dell'arco alpino, e, a costo di semplificare molto, l'ultima glaciazione ha prodotto grandi quantità di sedimento e di detrito che attendono di essere riportati a valle. Questo avviene continuamente, con movimenti minimi, e, soprattutto sotto la sollecitazione delle precipitazioni, con maggiore intensità quando le precipitazioni sono più intense. Ogni punto del territorio è in transiente equilibrio (è un ossimoro: i tecnici dicono equilibrio dinamico, ma il concetto è


Dossier: declinare il tema Fig. 4 - Vista panoramica del conoide della Gorgia della Madonna. In primo piano l'abitato di Bersezio sul margine del conoide alluvionale (Foto Turconi, 2000).

lo stesso) di forze. Se il clima cambia (cade una precipitazione più intensa del normale o l'azione dell'uomo modifica lo stato di equilibrio) alcune aree non saranno più in equilibrio, le forze resistenti alla gravità possono diminuire, e la gravità del terreno imbevuto d'acqua, aumentare: ed eventualmente questi "punti" (ovvero il loro sedimento e la loro acqua) possono muoversi verso il basso. Nel moto possono trascinare con sé altro materiale creando franamenti e piene. Il ruolo della scienza specifica si svolge nella comprensione di questo meccanismo e si può schematizzare nel: riconoscimento della quantità di detrito movimentabile (lavoro interpretativo delle immagini satellitari e aeree; lavoro interpretativo a terra della stratigrafia geologica; lavoro pedologico di caratterizzazione del suolo/detrito; lavoro geofisico, a terra, con strumenti elettromagnetici e, più raramente, gravimetrici, per stabilire la composizione stratigrafica e il contenuto d'acqua del suolo; lavoro di modellazione, su base statistica o fisica, con modelli e software opportuni per creare carte dello spessore del detrito); nella caratterizzazione delle proprietà idrauliche dei suoli, per il loro utilizzo nei modelli (ex-ante, ovvero a partire dalla caratteristiche geofisiche e di copertura e da altri elementi pedologici; o ex-post, attraverso l'utilizzo di modelli, i cui parametri vengono "aggiustati" sino a riprodurre gli eventi misurati); nell'utilizzo di modelli idrologici (volti soprattutto a determinare l'onda di piena liquida); nell'utilizzo di modelli geotecnici (per valutare la stabilità dei pendii); nell'utilizzo di modelli idraulici (per la propagazione della piena liquida e solida lungo gli alvei e la loro possibile esondazione). Per ciascuno degli ambiti elencati, esistono diversi gradi di conoscenza scientifica di base, diverse possibilità di approfondimento, diversi gradi di incertezza e, naturalmente, diversi costi (alcuni dei quali decisamente non affrontabili, almeno su scala

complessiva). Non va trascurato in tutto questo, il ruolo della rappresentazione della conoscenza scientifica. Questa, nel caso in esame, si traduce alla fine in carte tematiche, il piu delle volte in tre colori: per loro natura, uno strumento di sintesi (in Figura 5).

Fig 5 - un esempio di carta del pericolo alluvionale. Prodotta, come dice la legenda in funzione di certe ipotesi, prodotto di un ragionamento informato, ma da validare tecnicamente

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Un ragionato compromesso: le linee guida per la redazione della carta del pericolo idrogeologico Le linee guida per la redazione del pericolo della Provincia Autonoma di Trento, a cui il CUDAM ha contribuito, rappresentano un buon compromesso tra tutti gli elementi di cui ho parlato in precedenza. Ovviamente si rivolgono a tecnici: ma richiamano la necessità di un lavoro multidisciplinare (che la Provincia ha riconosciuto affidando gli incarichi degli stralci del lavoro a consorzi di ingegneri, geologi, dottori forestali). Nelle linee guida c'è un richiamo all'esigenza di ricostruire il patrimonio storico di informazioni e di sintesi delle problematiche del territorio (processo, nel quale, in verità i cittadini potrebbero, avere un ruolo più attivo nel corso del tempo). Questi strumenti di sintesi sono, prevalentemente, modelli basati sull'analisi della topografia, che, come abbiamo detto, non fornisce informazioni complete, ma che conosciamo con estremo dettaglio: si tratta delle aree e delle pendenze dei bacini a monte, accompagnate dalle notizie su eventi storici disponibili e delle prime indagini sulle fotografie aeree e sul posto, che determinano un primo discriminante di pericolosità. Tale analisi, in funzione dell'utilizzo del suolo (in senso urbanistico) porta alla decisione sulle priorità di approfondimento. Che deve essere di natura geologica, geofica, geotecnica, idrologica ed infine idraulica. Le prospezioni e le analisi possono avere gradi di approfondimento. Per esempio, l'accuratezza delle prospezioni geo* può essere molto accurata, ma a fronte di spese e a tempi di indagine crescenti. L'amministrazione deve quindi procedere alle scelte tecniche di indagine adeguate che si realizzano normalmente in una rapporto interattivo tra committente (l'istituzione) ed esecutore (la squadra di professionisti che esegue l'analisi). Sistemi e processi di decisioni Ricapitolando: il trasferimento delle conoscenze del territorio e il loro utilizzo nel campo della prevenzione e della mitigazione del pericolo passa attraverso il filtro delle norme e della loro interpretazione. Un primo aspetto è quello che riguarda l'identificazione degli eventi di riferimento che le norme identificano con l'assegnazione di un tempo di ritorno. Anche se, in tempi di potente cambiamento climatico, tale concetto ha un significato relativo, questo è quanto stabilisce la norma. In particolare costituisce un problema il riferimento a tempi di ritorno molto alti (nella direttiva europea sulle alluvioni, per esempio, si fa riferimento ad un tempo di ritorno di cinquecento anni: eventi per i quali la valutazione sia statistica che fisica diventa di difficile caratterizzazione). La soluzione prescelta in genere è di attribuire a questi eventi il significato di pericolo residuo, e quindi di non usarlo a scopi di pianificazione urbanistica, se non in quei casi in cui ogni evento immaginabile debba essere scongiurato. Da un diverso punto di vista l'iter di attuazione delle norme viene filtrato attraverso la costruzione di mappe del pericolo che, nella pratica corrente e con variazioni minime, derivano da una analisi del pericolo in un piano frequenza degli eventi - intensità degli stessi eventi, in cui agli eventi di più alta intensità e più alta frequenza viene assegnato il massimo grado di pericolo e via via a scendere. Il grado di priorità degli interventi e degli investimenti viene riservato, in fase di azioni di mitigazione, alle aree nelle quali la vulnerabilità, determinata dalla densità e qualità degli insediamenti, è

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grande. Esiste, naturalmente, in queste valutazioni un grado di soggettività abbastanza elevato. Infine la scelta di approntare opere di mitigazione, di farne alcune piuttosto che altre, non solo ha un impatto urbanistico attivo, cambiando in alcuni casi la morfologia del paesaggio, ma anche passivo, determinando quali insediamenti sono “ragionevolmente possibili”. Questo piano di decisioni rimane, ovviamente al di fuori delle linee guida ed è un compito precipuo della politica, intesa in senso lato. Da questo punto di vista, credo ci sia ancora molto da ragionare, soprattutto nella direzione di implementatare processi che, senza essere inutilmente assembleari, coinvolgano opportunamente più soggetti in un duplice sforzo: quello di giungere a soluzioni condivise (e quindi anche operative) e quello di accrescere la percezione del territorio e dei sui problemi, svolgendo una funzione storica e sociale fondamentale. Di questi tentativi di coinvolgimento, esistono esempi un po' dovunque e andrebbero seguiti con interesse. In ciò che si vede la tradizione regionale nel processo di governo del territorio gioca un ruolo importante. In alcune realtà regionali o provinciali si è ritenuto che sia il processo di determinazione delle carte del pericolo, sia il processo urbanistico fosse assegnato ai comuni (con il problema di accedere spesso a studi di minore qualità scientifica e di mancare di una visione più ampia del territorio là dove necessario); in altri casi si è dato maggior governo ad enti di grado superiore (con maggiore qualità della produzione delle carte del pericolo, ma una minore comprensione degli elementi locali). Naturalmente, ciascuna delle soluzioni presenta dei vantaggi e degli svantaggi. Per esempio: al fine di ottenere un'azione efficace, mentre coloro che hanno scelto la prima strategia hanno dovuto aggiungere al processo decisionale una fase di supervisione (sia scientifica che necessaria alla mediazione degli interessi, a volte divergenti degli interessi locali), i secondi hanno dovuto implementare comunque degli strumenti di confronto sul territorio. Nell'uno e nell'altro caso, anche se non ben chiariti, si sono dovute implementare delle modalità di revisione delle decisioni e di approfondimento degli studi, che forse sarebbe stato possibile inserire, in parte, già nei processi di costruzione della carta del pericolo. Rimane un problema aperto, ed è chiaro che da questo punto di vista, rimane ancora strada da fare.


Strumenti di pianificazione strategica e partecipata nei territori fluviali: i Contratti di Fiume di Massimo Bastiani Architetto, coordinatore scientifico del Tavolo Nazionale Contratti di Fiume

La pianificazione urbanistica, ma più esattamente la pianificazione ecologica, nei territori fluviali, è ormai entrata anche in Italia in una nuova era: quella dei Contratti di Fiume. Nel 2008 quando in Umbria si tenne il primo Tavolo Nazionale dei Contratti di Fiume le esperienze presentate descrivevano ancora un fenomeno limitato solo a pochi fiumi del Piemonte e della Lombardia, recentemente in occasione del VI Tavolo tenutosi a Torino sono stati censiti oltre 60 processi sparsi in tutto il territorio nazionale. Si tratta di esperienze ad un livello diverso di definizione, ma che vede oltre una ventina di queste apprestarsi a divenire Contratti di fiume a tutti gli effetti. Le problematiche fluviali da un punto di vista idrogeologico, inquinologico, paesaggistico ma anche socio economico, é ormai chiaro che necessitino di nuovi approcci, multiscalari e multidisciplinari e

STRUMENTI DI PIANIFICAZIONE E PROGETTI PILOTA PER FRONTEGGIARE IL CAMBIAMENTO CLIMATICO di Paola Ischia Progettare insediamenti è, da sempre, confrontarsi con l'elemento idrico: risorsa e pericolo. La condizione contemporanea vede il convergere di una molteplicità di fattori (variabilità termica solare, dinamica geologica ed idrica, diffusa e non ponderata antropizzazione di suoli ed aree montane, immissione di agenti alteranti nell'atmosfera) che portano ad un unico risultato: l'imprevedibilità. I cambiamenti climatici stanno determinando l'esigenza di ricalibrare i parametri della sicurezza. Se a ciò si aggiunge che una molteplicità di strumenti programmaticopianificatori non hanno potuto concretamente attivare le loro potenzialità precauzionali per motivi sociali, economici, tecnici, politici o forse anche perché eccessivamente settoriali e non sufficientemente integrati con strumenti operativi, emerge drammatica la “costosa precarietà” del patrimonio immobiliare ed infrastrutturale. Nel rispettoso cordoglio per le vittime dei drammatici eventi verificatisi e contemporaneamente nella cautela a definire responsabilità nel saper fronteggiare forze naturali così implementate, è necessario un approccio consapevole ed operativo alla situazione. Nuovi strumenti e procedure, comprensive di coinvolgimento della popolazione, possono aprire nuovi scenari; tra questi i “Contratti di fiume”, presentati di seguito in questo numero di Sentieri Urbani. La crisi strutturale suggerisce inoltre di individuare convergenze immediate tra investimenti e ritorni e prefigurare sistemi complessi in cui ogni singolo elemento sappia autonomamente fronteggiare esigenze di approvvigionamento e sussistenza, in un sistema a rete (soggetto/società, comunità). Così non solo le abitazioni dovranno essere nearly zero energy (direttiva 2010/31/UE) ma il tessuto insediativo potrebbe essere articolato in plurime opportunità e sperimentare o tornare a concepire, un'“idrodinamica linfa vitale”. Ogni evento meteorologico eccessivo potrebbe essere quantomeno calmierato oltre che con l'attenta cura per pendenze che orientino il deflusso ad aree di esondazione

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programmata (parchi, attrezzature sportive, piazzali dedicati), anche attraverso la realizzazione di vasche di accumulo o torri d'acqua, adatte poi al rilascio per molteplici fattori funzionali (approvvigionamento energetico tramite microturbine, climatizzazione-raffrescamento, irrigazione di spazi verdi ed orti urbani, pulizia delle strade da polveri e, non ultima, possibilità di fronteggiare periodi di siccità). Anche il trasporto merci, così come una mobilità alternativo/ricreativa, potrebbero scaturire dal rigenerare il tessuto urbano con canalizzazioni a cielo aperto (potenzialmente fruibili inoltre per applicazioni di pretrattamento di fluidi tramite idrotermia/geotermia o la ridefinizione di tracciati ispezionabili ed efficienti per acquedotti e reti multifunzionali). Tornando a progettare con l'“Acqua-Bene Comune” o recuperando antichi tracciati (traversabili mediante grigliati metallici), il sistema insediativo potrebbe veder convergere la protezione dal pericolo con il vantaggio della risorsa (l'acqua alta a Venezia era in passato felicemente attesa come “sistema autopulente” di calli e fondamenta…). Imponenti azioni programmatiche come il “Thames Gateway Delivery Plan” per Londra, o raffinatissimi progetti paesaggistici, come il masterplan per l'Expò di Saragozza che ha saputo dialogare con l'ironico e didattico esondare dell'elemento idrico celebrato, possono essere affiancati da semplici strumenti di regolamentazione che vietino apertamente il costruire alloggi raso terra (così “interpretati” nella stagione speculativa) o il totale utilizzo a fini abitativi di sottotetti, che potrebbero in alternativa ospitare serbatoi multifunzionali. A vent'anni-venti, dalla dichiarazione sullo Sviluppo Sostenibile di Rio de Janeiro del 1992 (UNCED United Nations Conference on Environment and Development) e di lotta al Cambiamento Climatico (UNFCCC United Nations Framework Convention on Climate Change), grave calamità è la contemporanea attenuazione di capacità/volontà progettuale-sperimentale.


L'ingegneria idraulica è insufficiente in assenza di altri interventi di pianificazione e manutenzione del territorio

negoziali. I contratti di fiume promuovono di fatto una nuova visione d'intervento e rappresentano una esperienza che si è già diffusa in molte parti del mondo dal Canada, all'Africa ed in particolare in Europa a partire dalla Francia e Belgio. I contratti di fiume si configurano come un accordo strategico tra soggetti pubblici e privati per la realizzazione di un programma di azioni pluriennali definito attraverso la concertazione. Sono uno “strumento” al servizio della pianificazione e programmazione dei territori, senza l'ambizione di sostituirsi ad essi. Nel descrivere questo aspetto e azzardando una “metafora”, mi sono trovato spesso a dire che “il Contratto di Fiume è il compasso con cui si traccia il cerchio e non il cerchio stesso”. Attraverso il Contratto di Fiume è possibile collegare all'interno di un sistema multiobiettivo di pianificazione locale o sovra-locale, più direttive ed iniziative europee la 2000/60 Direttiva Acque, 2007/60 Direttiva alluvioni, Direttiva 92/43/CEE Conservazione degli habitat naturali, Convenzione Europea sul Paesaggio del 2000, Direttiva 2003/4/CE sull'accesso del pubblico all'informazione ambientale, Direttiva 2003/35/CE sulla partecipazione del pubblico a piani e programmi ambientali, Proposta di Direttiva Quadro per la Protezione del Suolo (SFD - Soil Framework Directive), COM(2006) 232, Direttiva 2001/42/Ce: Valutazione ambientale di piani e programmi (VAS)….In Italia il dibattito sui Contratti di Fiume è divenuto di sempre maggiore attualità in relazione alla difficoltà cronica a mettere in campo politiche di prevenzione e precauzione. Si tratta di un dibattito che interessa non solo noi, ma l'intera Europa e che si rinnova ogni qualvolta si verifichino calamità naturali come alluvioni ed esondazioni. Tra il 1998 e il 2004, in Europa ci sono state almeno 100 grandi inondazioni, che hanno causato oltre 700 morti lo spostamento di 500.000 persone e 25 miliardi di € di danni. Solo in Italia le alluvioni negli ultimi 100 anni sono state oltre 7.000 e negli ultimi 50, sono stati causati danni per più di 16 miliardi di euro. Alla base di tutto ciò non è difficile individuare un degrado progressivo dei suoli, l'abbandono del territorio, l'occupazione dello spazio censito come a rischio, la riduzione delle zone umide, delle lanche fluviali, lo spostamento dei fiumi dalle aree golenali che proteggono i territori dalle inondazioni, lo sfruttamento intensivo e poco programmato del territorio. E tale situazione non potrà che peggiorare a causa dei cambiamenti climatici. “I Cambiamenti Climatici sono destinati a indurre con continuità, profonde variazioni alle precipitazioni e scorrimento delle acque, rischi di inondazioni e erosioni costiere, distruzione di specie

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ed ecosistemi, in termini stagionali ed annuali”. Questi cambiamenti si apprestano a divenire particolarmente significativi nella seconda metà di questo secolo. La Commissione Europea con la White Paper Adapting to climate change; Towards a European framework for action (COM/2009/147) invita ad integrare l'adattamento ai Cambiamenti Climatici nell'implementazione delle politiche riguardanti le acque. E' quindi sempre più necessario il ricorso a strumenti di pianificazione territoriale che contribuiscano a fornire nuovi scenari per la gestione dei singoli sub-bacini e bacini fluviali. La Commissione Europea con la Direttiva 2007/60 CE ha imposto agli Stati Membri di fornire la valutazione preliminare del rischio di alluvioni entro il 2011, produrre entro il 2013 le mappe della pericolosità da alluvione e rischio di alluvioni ed entro il 2015 i piani di gestione del rischio di alluvioni. Per quanto riguarda l'implementazione della Direttiva, in Italia ISPRA rileva già per questa prima fase, una disomogeneità nel valutare la vulnerabilità, cioè l'attitudine di una determinata “componente ambientale”, popolazione umana, edifici, servizi, infrastrutture, etc. a sopportare gli effetti di un evento in funzione della sua intensità ed inoltre che solo l'11% delle Autorità di Bacino ha tenuto finora conto degli effetti dei cambiamenti climatici nella definizione degli scenari di rischio. Come possono intervenire i Contratti di Fiume in questo quadro? Possono farlo creando una azione sinergica tra soggetti pubblici e privati, efficientando e rendendo coerente la pianificazione e favorendo l'innovazione. Consentendo di risparmiare risorse economiche intervenendo sulla prevenzione. Evitando la duplicazione o la realizzazione di opere inutili o addirittura dannose per il territorio. Rifocalizzando l'attenzione sull'uso del suolo e sulle scelte connesse in particolare in ambiti perifluviali. Chi opera in questo settore o semplicemente si trova ad operare in territori fluviali, conosce bene la difficoltà di doversi confrontare con la molteplicità di strumenti di pianificazione e programmazione esistenti (Piani triennali delle OO.PP., PRG, Piani di settore, programmi contenuti negli strumenti di programmazione negoziata, ecc) e contemporaneamente con una altrettanto nutrita schiera di soggetti decisionali (Regioni, Province programmazione idrica, idrogeologica, idraulica, paesaggistica, agricola- ATO idrici, Uffici del Genio civile, Soprintendenze dei beni culturali ed ambientali, Ispettorati forestali, Comuni, Ente Parco ecc..). Tutto ciò tralasciando il ruolo che


Dossier: declinare il tema

Alluvione del 25 dicembre 2009 rottura argine zona Industriale, Via SarzaneseLoc.Vignola, Lucca

comunità e associazioni locali se non coinvolte per tempo possono assumere ai fini della realizzabilità degli interventi. Un coordinamento delle politiche e dei soggetti, è indispensabile. La stessa Commissione Europea, con l'introduzione della Direttiva Quadro sulle Acque 2000/60, ha riconosciuto il ruolo centrale della concertazione nell'ottenimento di risultati di miglioramento ambientale apprezzabili nel tempo. I contratti di fiume in Europa si sono sviluppati, a partire dalla Francia nei primi anni '80 per poi diffondersi in pochi anni in molte altre nazioni come il Belgio, il Lussemburgo i Paesi Bassi, la Spagna e l'Italia, in molti casi sotto forma di processi transfrontalieri che interessavano più territori. Una parte della pubblicazione “Contratti di fiume” è dedicata alla descrizione dell'approccio francese e di quello vallone (Belgio) illustrando in dettaglio alcune delle esperienze più significative portate avanti in questi paesi: per la Francia i contratti di fiume della Dordogne e della Bassa Valle dell'Ain; per il Belgio il contratto di fiume dell'Ourthe un affluente di destra della Mosa. In Italia una spinta allo sviluppo dei CdF è certamente derivata dall'attività del Tavolo Nazionale sui “Contratti di Fiume” del coordinamento nazionale A21 Italy, che è attivo dal 2007 sito web http://nuke.a21fiumi.eu/ e community su Twitter https://twitter.com/#!/ContrattiFiume. Lo scopo del tavolo è di contribuire alla diffusione di un nuovo approccio non tecnocratico alla materia, aprire un dialogo e un confronto, scambiare buone pratiche diffondere le linee guida e lanciare un “Manifesto” per la valorizzazione dei bacini fluviale, fornire un contributo su questo tema che sempre più spesso è trattato dai processi di A21. Fino ad oggi sono stati realizzati sei incontri nazionali che hanno visto circa 800 partecipanti provenienti da tutta Italia. Le esperienze Nazionali rilevate attraverso l'attività del Tavolo sono state raccolte in un volume che è ad oggi lo strumento più completo di ricognizione metodologica e di ricognizione di casi. Di seguito illustrerò brevemente gli esiti di questa esperienza a livello nazionale, raccolti nel volume "Contratti di fiume pianificazione strategica e partecipata dei bacini idrografici" edito nel 2011 e da me curato .

Le esperienze della Lombardia La Regione Lombardia ha avviato il proprio impegno nei contratti di fiume nell'ambito del programma d'iniziativa comunitaria IIIB Cadses 2000-2006. Il compito della Regione all'interno del progetto Netwet 2 era proprio quello di realizzare un esempio dimostrativo di contratto di fiume nell'area ad alto rischio ambientale e idraulico del bacino LambroSeveso-Olona, contribuendo così alla creazione di nuove condizioni di partecipazione e sinergia per la gestione sostenibile delle risorse idriche a livello di bacino idrografico. Questa iniziativa ha segnato l'avvio di una prima fase, propedeutica alla diffusione dei contratti di fiume e all'emanazione della L.R. 26/03 che, al titolo V Disciplina delle risorse idriche, capo II, individua i contratti di fiume (così come i contratti di lago) come processi di sviluppo del parternariato funzionali all'avvio della riqualificazione dei bacini fluviali. Oggi questa rete coinvolge circa 150 firmatari e vede la partecipazione di oltre 1500 soggetti interessati a vario titolo nei processi di riqualificazione paesaggistico-ambientale in atto, programmati o progettati (Clerici, 2010). La maggior parte dei processi in atto, più di 40, si caratterizza per interventi alla scala di sottobacino e per il ruolo dei parchi, come promotori dei contratti. Attualmente i contratti di fiume lombardi si stanno evolvendo secondo modelli di co-programmazione, ovvero su percorsi di condivisione e di integrazione tra più livelli di governo del territorio. Al centro vi è la volontà di creare una azione sinergica tra i diversi strumenti di pianificazione e programmazione del territorio: contratti di fiume, attuazione di azioni per la sicurezza idraulica, politiche di ruralizzazione e di forestazione, politiche di implementazione della rete ecologica regionale e politiche insediative attente alla valenza strutturale dei territori fluviali (come previsto dal piano paesaggistico regionale vigente). Le esperienze del Piemonte In Piemonte i contratti di fiume sono stati attivati, secondo l'art. 10 delle Norme di piano, quali strumenti di programmazione negoziata per l'applicazione sul territorio del Piano di tutela delle acque (pta)

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Attualmente in Vallonia vi sono 19 Contratti, attivi nei 19 sub-bacini che coprono più del 78% del territorio

approvato nel marzo 2007, redatto in applicazione della normativa nazionale (D.Lgs. n. 152/2006). La Regione, inoltre, ha rafforzato la valenza istituzionale del contratto di fiume e di lago richiamandolo espressamente anche nelle Norme tecniche attuative del Piano territoriale regionale – PTR, adottato nel dicembre 2008. I primi quattro contratti piemontesi hanno interessato altrettanti bacini pilota in aree idrografiche caratterizzate da particolari criticità ambientali e da pregresse esperienze associative a livello locale. Le esperienze del Veneto La prima esperienza di contratto di fiume in Veneto sta interessando la Provincia di Vicenza e riguarda il torrente Astico, uno dei principali corsi d'acqua provinciali che attraversa per un tratto minore anche

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la Provincia autonoma di Trento. La caratterizzazione ambientale condotta sull'Astico ha evidenziato una serie di criticità inerenti la presenza di molteplici usi ed interessi. In particolare il principale elemento di pressione rilevato è dato da una sovra-richiesta idrica per scopi irrigui e idroelettrici che non risulta compatibile con la reale disponibilità della risorsa ed è responsabile di uno stato ecologico scadente in buona parte del corso d'acqua. Un altro processo è stato attualmente avviato dall'amministrazione comunale di Silea “Verso un contratto di fiume del Melma e Nerbon” e interessa il territorio della provincia di Treviso. Attraverso l'avvio del processo, l'amministrazione comunale ha inteso orientare i propri sforzi al fine di valorizzare il territorio d'acqua che costituisce il bacino idrografico di due fiumi minori, affluenti in


Dossier: declinare il tema

Rigenerazione territoriale e urbana nel contesto rivierasco del sottobacino dell’Alto Tevere in Umbria

sinistra idrografica del fiume Sile, trascurati e assediati dall'urbanizzazione e dallo sfruttamento antropico del territorio: i fiumi Melma e Nerbon. Le esperienze dell'Emilia Romagna Le prime esperienze di contratti di fiume in Emilia sono state promosse nel 2006 dalla Regione con il contributo della Provincia di Bologna, della Provincia di Modena e del Comitato acque bacino del Reno. Tali iniziative che hanno preso il nome di Patti di fiume hanno interessato il bacino idrografico Samoggia-Lavino. Il torrente Samoggia è un affluente del Reno e si sviluppa su un bacino pari a 372 km. Un altro filone di interesse nella diffusione dei contratti di fiume in Emilia Romagna riguarda l'integrazione concettuale tra contratto di fiume e contratto di paesaggio (contratti di fiume/paesaggio). In questo ambito, due casi pilota hanno inaugurato la strada dei contratti di fiume/paesaggio, prima in forma preparatoria sul fiume Conca (Cattolica e Comuni della vallata – Provincia di Rimini, 2008) e successivamente in forma compiuta sul medio corso del fiume Panaro. Una ulteriore esperienza in Romagna è rappresentata dal progetto di tutela e valorizzazione ambientale del fiume Savio in Provincia di Forlì Cesena, promosso dal gal (gruppo di azione locale) l'Altra Romagna. Il progetto si articola in un percorso di caratterizzazione ambientale e di costruzione di una strategia d'azione partecipata che si è evoluta sul modello dei contratti di fiume e che sta trovando ulteriori applicazioni su altri fiumi di questo territorio. Le esperienze della Toscana In Toscana possiamo attualmente individuare due filoni di sviluppo per i contratti di fiume: uno promosso dalle istituzioni e legato alla connessione con i piani di distretto e l'altro più legato alla nascita di movimenti spontanei che promuovono processi di costruzione dal basso. Uno dei casi più significativi in Toscana è quello avviato per il parco fluviale del Valdarno empolese. Si

tratta di un percorso che, come già avvenuto nei primi contratti di fiume in Belgio e Francia, è il risultato di una lunga storia di attività di riscoperta del fiume da parte degli abitanti rivieraschi iniziata in questo caso, a metà anni '90. Il contratto di fiume elaborato per il tratto empolese, proposto come caso pilota per l'intero corso dell'Arno, si prefigge l'obiettivo della riqualificazione dei territori rivieraschi attraverso il coordinamento delle politiche settoriali e la messa in rete e valorizzazione delle competenze e creatività locali che, sulla base di uno scenario condiviso, possono contribuire alla costruzione collettiva del nuovo paesaggio fluviale e di una nuova comunità rivierasca. Tale esperienza – che ha prodotto, tra l'altro, un Manifesto per l'Arno e il Master plan del Parco fluviale – mette in evidenza il ruolo di catalizzatore svolto dal contratto di fiume ai fini della crescita dell'autocoscienza e dell'innalzamento collettivo della consapevolezza di una comunità verso il suo fiume. Le esperienze dell'Umbria L'Umbria sta ponendo una crescente attenzione alle politiche inerenti la tutela e la gestione dei corsi d'acqua. Tale processo fa perno sul riconoscimento del Tevere come elemento identitario regionale da valorizzare. A questo fine è nato il Progetto Tevere uno dei sette progetti strategici individuati nel disegno strategico territoriale (dst) per lo sviluppo sostenibile della Regione Umbria. Nel redigendo Piano urbanistico strategico territoriale (pust) che prende a base il DST intervenire sul Tevere è ritenuto uno dei progetti cardine per il futuro della Regione, anche in una prospettiva interregionale Toscana-Umbria-Lazio. Da un punto di vista operativo, sia nella provincia di Perugia (fiumi Tevere e Clitunno) che in quella di Terni (fiume Nera) si sta assistendo allo sviluppo di una progettualità diffusa finalizzata a una

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riqualificazione fluviale partecipata, che si interseca con il livello di programmazione strategica regionale. Le esperienze del Lazio Il patto per il territorio del bacino del Tevere nasce da un'intesa tra Anci e Legambiente per la mitigazione del rischio idrogeologico, con l'intento di promuovere una nuova cultura del territorio e dei fiumi. Il patto vede nell'uscire dalla logica emergenziale post-disastro un presupposto essenziale per una corretta politica di gestione ordinaria del suolo che costituirebbe la vera grande opera pubblica su cui finalizzare risorse pubbliche e private. Quello che si propone è un impegno integrato tra più livelli, in grado di attivare sinergie sociali ed economiche. Le esperienze della Campania In Campania il Presidente della Regione ha specificatamente individuato i contratti di fiume all'interno del suo programma politico “Da un ambiente degradato alla tutela del territorio e della qualità della vita” come uno dei riferimenti per migliorare la gestione regionale delle acque. Il contratto di fiume – si legge nel testo – rappresenta lo “strumento di programmazione delle attività nei bacini idrografici e per il coordinamento tra le istituzioni, associazioni e portatori di interesse, con lo scopo di ridurre la frammentazione delle competenze armonizzare gli interventi da realizzare per la salvaguardia di fiumi e corpi idrici”. Nel 2009 la Provincia di Salerno ha adottato una delibera d'indirizzo che individua nei contratti di fiume lo strumento più idoneo per processi negoziali per la riqualificazione dei bacini fluviali; altre iniziative si registrano nella Provincia di Benevento dove lo strumento del contratto di fiume è individuato all'interno delle azioni di riqualificazione dei corsi d'acqua Calore Irpino, Volturno, Isclero, Sabato e Tammaro. Un caso simbolo della necessità dell'avvio di nuove politiche regionali nella tutela dei corpi idrici e nella prevenzione del rischio idrogeologico in Campania è senza dubbio rappresentato dal fiume Sarno. Ancor oggi l'Italia ricorda Sarno per le colate di fango che la notte tra il 5 e il 6 maggio 1998 devastarono i centri di Sarno, Bracigliano, Siano e Quindici, riportando 160 vittime. Le esperienze della Puglia, Basilicata e Calabria In Puglia l'attenzione ai contratti di fiume nasce all'interno del Patto Val d'Ofanto. Il patto persegue l'attuazione di proposte di sviluppo interregionali e intersettoriali al fine di promuovere uno sviluppo integrato e sostenibile della Bioregione Val d'Ofanto, inquadrata in un accordo di programma delle tre Regioni Campania, Basilicata e Puglia. In Basilicata una interessante esperienza di riqualificazione partecipata è stata sviluppata nel bacino idrografico del fiume Noce. L'area oggetto del programma ha un'estensione complessiva di circa 420 km2, di cui 380 km2 appartenenti al bacino idrografico del fiume Noce e 40 km2 ai bacini idrografici minori dei valloni e degli impluvi presenti sui versanti tirrenici di Maratea, questi ultimi definiti bacino idrografico Noce a mare.

nazionale di A21Italy e in Federparchi per l'attivazione e la promozione dei contratti di fiume presso i parchi fluviali italiani. Il caso dell'Alcantara è emblematico della necessità di una integrazione tra istituzioni e politiche fluviali. Il fiume per gran parte della sua lunghezza è confine tra due province, per cui la programmazione idrica, idrogeologica, idraulica, paesaggistica, agricola, di area vasta viene operata da due province, da due ATO idrici, da due Uffici del Genio civile, da due Soprintendenze dei beni culturali e ambientali, da due Ispettorati forestali, da dodici Comuni, da diversi piani strategici e da un solo Ente Parco che però ha competenze limitate. Recentemente anche la Provincia di Palermo sta avviando tre contratti di fiume nel Belice Alto, Oreto ed Eleuterio. Le esperienze della Sardegna In Sardegna la prima iniziativa riguarda il bacino del Cedrino nella provincia di Nuoro, con valenza pilota regionale. Il contratto promosso dall'Unione dei Comuni Valle del Cedrino ha riscosso l'interesse ufficiale della Regione ed ha attualmente in corso di definizione il percorso metodologico e attuativo da seguire. A fianco di questa esperienza analizziamo tre casi che possono essere di supporto alla costruzione di contratti di fiume. Il primo caso riguarda l'istituzione dell'Osservatorio della pianificazione urbanistica e qualità del paesaggio, voluto dalla Regione autonoma della Sardegna, in collaborazione con le Università degli Studi di Firenze e Sassari. Un'altra esperienza in corso riguarda il processo di accordo per il Flumini Mannu: un'ipotesi di riqualificazione paesisticoambientale del contesto agricolo-insediativo dell'intero bacino. Il bacino del Flumini Mannu interessa un vasto territorio ricadente nelle Province del Medio Campidano e di Cagliari. Si tratta del quarto fiume della Sardegna per ampiezza di bacino e lunghezza. Per la diffusione di questo strumento il documento di riferimento è la Carta nazionale dei contratti di fiume, proposta da Regione Lombardia, Regione Piemonte, Autorità di bacino del fiume Po, Gruppo di lavoro del coordinamento nazionale dei parchi fluviali e redatta con il contributo del Tavolo nazionale sui contratti di fiume, rappresenta la base su cui sviluppare un nuovo modo di pianificare e gestire le risorse fluviali e lacustri.

Le esperienze della Sicilia Per quanto riguarda la Sicilia è importante segnalare l'attività svolta dal Parco dell'Alcantara sia all'interno del suo contesto territoriale sia presso il coordinamento La Carta Nazionale dei Contratti di Fiume è stata presentata a Milano nel 2010 nel corso del V Tavolo

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Declinare il tema in ambito alpino

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Rischio idrogeologico e vulnerabilità del territorio alpino di Francesco Dellagiacoma*

1966: Trentino, Veneto, Friuli 1987: Valtellina, Alpi Centrali (Svizzera e Austria) 1994: Piemonte 2000: Val d'Aosta, Piemonte 2009: Veneto (Vicenza) Sono le grandi alluvioni che hanno colpito le Alpi negli ultimi decenni, provocando enormi danni, interrompendo le comunicazioni, arrestando la normalità della vita, causando decine di vittime e danni per milioni di € a infrastrutture, insediamenti e terreni, con un'estensione e una forza distruttrice che non si ricordavano a memoria d'uomo. Anche perchè la memoria dei media e dell'uomo di oggi è bombardata dalle catastrofi globali ma tende a dimenticare rapidamente, alla luce delle nuove notizie; in parte perchè il territorio è soggetto ad un utilizzo molto più intensivo ed è quindi vulnerabile su un'area molto più estesa; in parte perchè alcune opere risultano insufficienti rispetto a fenomeni eccezionali; e anche perchè i cambiamenti di uso del territorio e del clima influenzano certamente i fenomeni alluvionali.

*Provincia autonoma di Trento, Dipartimento risorse forestali e montane

1. Gestione territoriale e rischio In questa situazione il problema delle sicurezza si pone in termini nuovi: è necessario prendere coscienza che non è possibile garantire la sicurezza del territorio in termini assoluti, nonostante gli investimenti significativi e costosi che i governi delle regioni alpine, in misura e con continuità diverse, hanno garantito. Il problema del rischio va affrontato in modo complessivo: con interventi di prevenzione importanti: sistemazioni adeguate, dando ai corsi d'acqua spazi adeguati e possibilità di espansione in aree a uso estensivo, prevenendo utilizzi intensivi (specialmente insediamenti e produttivi) nelle aree soggette a pericolo elevato, tramite una pianificazione del territorio attenta ai pericoli naturali. Ma anche assumendo l'esistenza di un rischio residuo, valutando l'effetto di eventi eccezionali e la risposta delle difese, che sono sempre dimensionate per rispondere ad un certo tipo di eventi. Occorre accettare che c'è un limite alla sicurezza che si può garantire, analizzare cosa può succedere nei casi non previsti, predisporre piani di intervento e di emergenza per gli eventi di dimensione maggiore; installare sistemi di allarme per capire in tempo se si sta andando verso questi eventi, se e quando si devono attivare evacuazioni e pronto intervento. È necessario che governi, amministratori locali e cittadini assumano questa prospettiva di sicurezza parziale e orientino gli interventi e le decisioni ad un'assunzione di responsabilità in questo senso: decisori politici, tecnici e cittadini hanno la responsabilità di comportamenti adeguati, occorre in qualche modo superare la delega totale al governo pubblico (regione, provincia, comune)

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e la pretesa che questo garantisca la sicurezza totale. Il tema non è facile: occorre far capire che nonostante gli investimenti fatti in alcune circostanze c'è un rischio che permane: e questo richiede limitazioni nell'uso degli edifici e aree interessate (che acquisiscono quindi un valore inferiore), interventi di adattamento (spese) o l'assunzione (consapevole) di un rischio, che può essere coperto o no da un'assicurazione. Regione (provincia), comune e cittadino sono chiamati ad un'assunzione di responsabilità. L'alternativa è rimuovere il problema, pensare di essere al riparo del problema e un brusco risveglio se l'evento eccezionale, che certamente ha bassa probabilità di verificarsi, avviene. Ma dobbiamo sapere che l'evento statisticamente destinato a verificarsi nei prossimi 100 anni può verificarsi anche quest'anno. Per questo in varie regioni è stato avviato un dialogo sul rischio, coinvolgendo amministratori locali delle aree interessate, operatori economici e cittadini. Siccome sono interessati i diversi livelli di governo e i cittadini e a tutti è richiesto un atteggiamento responsabile: è essenziale che vengano attivate forme di partecipazione, anche ai cittadini si richiedono decisioni e comportamenti consapevoli, che tengano conto della permanenza di un rischio residuo. In base al livello di rischio è utile anche un'educazione e la predisposizione di piani, in modo che gli operatori prima e la gente poi sappia comportarsi in modo adeguato nel caso in cui l'evento eccezionale si verifichi. In tale situazione è evidente anche l'importanza di poter disporre di un sistema di pronto intervento che possa rapidamente essere allertato e intervenire efficacemente nella fase del pronto intervento e del ripristino di condizioni minimali di 'normalità'. Talora la realizzazione di importanti opere di sistemazione ha avuto l'effetto di indurre una sicurezza nelle amministrazioni e nei cittadini, per cui l'effetto è stato quello di accelerare la rimozione del ricordo degli eventi passati e di costruire nelle aree che sono state soggette ad esondazione, senza considerare la possibilità che nuovi eventi alluvionali potrebbero ancora interessare queste aree. E si è costruito senza tener conto della possibilità di esondazioni, realizzando piani interrati, in cui poi si installano impianti e magazzini senza particolari attenzioni. Le Alpi sono un sistema geologicamente ancora giovane, nel quale le forze che modificano il paesaggio sono tuttora attive: crolli rocciosi, movimenti franosi, valanghe, instabilità causate dal ritiro dei ghiacciai, incendi boschivi. La gestione territoriale deve tener presente tutti questi pericoli naturali, oltre che a


Dossier: il contesto alpino

quelli legati alle attività umane (strutture e processi che comportano la presenza di sostanze pericolose, che in caso di incidente e in circostanze eccezionali diventano fonti di nuovi pericoli). 2. Rischio idrogeologico e vulnerabilità del territorio alpino Le grandi alluvioni hanno caratterizzato profondamente la storia degli insediamenti nelle Alpi, determinando la posizione dei paesi, delle aree produttive e delle infrastrutture. I corsi d'acqua da sempre sono stati elementi di attrazione (ad essi sono legati l'approvvigionamento di acqua per gli usi civile, agricoli e produttivi), e allo stesso tempo la principale fonte di pericolo per gli insediamenti nell'area alpina, perché ad essi sono legati i grandi pericoli naturali che possono distruggere gli insediamenti e cancellare le opere dell'uomo. La situazione è profondamente cambiata nel corso degli ultimi 150-200 anni. Le grandi bonifiche delle valli principali (secolo XIX) hanno permesso la coltivazione e l'utilizzo delle aree umide che prima occupavano estese porzioni dei fondovalle, impedendo anche l'uso agricolo. Oggi queste aree sono occupate da agricoltura intensiva (frutticoltura, viticoltura), percorse da infrastrutture di interesse nazionale o internazionale, in parte occupate da aree produttive e da insediamenti. Le valli alpine principali sono divenute un'area fortemente utilizzata e densamente abitata, le sistemazioni e le bonifiche provvedono al deflusso ordinato dell'acqua. E il modo di vita richiede collegamenti sempre disponibili, accessibilità 24 ore al giorno e 7 giorni alle notizie, ai dati e agli strumenti elettronici: le interruzioni non sono previste e ci si aspetta, si pretende, che l'ente pubblico possa garantire stabilità e sicurezza. In occasione di eventi eccezionali, come quelli citati, il sistema entra in crisi: un eccesso di precipitazioni, l'effetto combinato di temperature (scioglimento della neve) e precipitazioni, gli effetti di frane e trasporto solido convogliato dai torrenti, possono provocare ondate di piena superiori rispetto a quelle che i corsi d'acqua sono in grado di smaltire. L'acqua si riprende gli spazi di un tempo, i danni enormi. Naturalmente i corsi d'acqua non sono solo fonte di pericolo di alluvione per il territorio, ma sono molte altre cose, che devono essere considerate nella pianificazione del territorio e nella gestione del corso d'acqua: aree umide di interesse naturalistico, ambienti residui di specie un tempo diffuse, elementi di paesaggi che l'uso intensivo delle aree pianeggiante ha quasi eliminato (boschi ripariali, aree di esondazioni soggette ad un uso estensivo, paludi

improduttive ma importanti sia dal punto di vista naturalistico che nel ciclo dell'acqua...); i corsi d'acqua rappresentano degli elementi fondamentali del paesaggio, che devono essere preservati e valorizzati; e spesso possono rappresentare delle importanti aree ricreative, delle la struttura del corso d'acqua ha un'influenza diretta e importante sulla qualità dell'acqua, aspetto altrettanto importante della quantità; il sovrapporsi degli utilizzi dell'acqua, gli effetti sulla qualità dei cambiamenti ambientali dei corsi d'acqua e delle aree limitrofe, il cambiamento climatico creano situazioni di scarsità d'acqua stagionale anche in alcune aree delle Alpi, che pure rappresentano la riserva d'acqua di buona parte dell'Europa. Se dopo le grandi alluvioni la priorità è di ricostruire rapidamente le opere distrutte e garantire alla popolazione una situazione di sicurezza, nella gestione dei corsi d'acqua tutti gli altri aspetti devono essere considerati complessivamente: la gestione della sicurezza deve tenere in considerazione anche le altre funzioni del corso d'acqua, ricercando soluzioni compatibili. Anche le modifiche dell'uso del territorio hanno una grande influenza sulla funzionalità del ciclo dell'acqua: da una parte l'espansione e il miglioramento della copertura forestale su gran parte della montagna, cui però si accompagna una riduzione dell'azione di governo e manutenzione dell'uomo garantita in passato dalla presenza dell'agricoltore di montagna, che interveniva prontamente con la sua azione a ripristinare la stabilità, nei terreni agricoli e nel bosco. Oggi questa azione di controllo e manutenzione da parte della popolazione locale, in passato in gran parte legata all'agricoltura, viene meno. Il monitoraggio e la manutenzione del territorio devono essere garantiti in altro modo, anche la popolazione di montagna si è concentrata nei centri principali e frequenta il territorio sporadicamente e in modo diverso. In prospettiva c'è un problema di garantire la stabilità e l'efficienza dei boschi di protezione, che svolgono una funzione essenziale, non sostituibile da opere tecniche, nel garantire la protezione di infrastrutture e la stabilità complessiva della montagna. 3. Cooperazione fra territori: la Convenzione delle Alpi Nel 1882 una grande alluvione colpì le Alpi sudorientali in modo drammatico: il Tirolo meridionale e la Carinzia erano in ginocchio: morti, paesi isolati, case e strade distrutte, campagne devastate. L'intera regione regione era stata colpita e si doveva pensare alla ricostruzione. Per organizzare la ricostruzione il Ministro dell'Agricoltura del governo austro ungarico, conte

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In alto: frana in località Campolongo, a Baselga di Pinè, in Trentiino (15 agosto 2010)

Falkenheyn, nel 1883 intraprese un viaggio nelle Alpi francesi, nelle quali, a seguito di recenti eventi alluvionali che avevano colpito la parte occidentale della catena alpina, era stata iniziata una grande opera di sistemazione dei torrenti e delle aste principali. Il ministro era accompagnato dal barone von Seckendorff, direttore dell'Istituto di ricerche forestali dell'Università Boden Kultur di Vienna, che pochi anni prima aveva percorso le Alpi francesi proprio per studiare i ripristini messi in atto dal governo francese, basati sulla ricostituzione e il miglioramento della copertura forestale (sistemazione delle frane, estesi rimboschimenti e sulla sistemazione delle aste torrentizie, principali e secondarie. L'esperienza francese è stata descritta nel libro “Verbauung der Wilbäche, Aufforstung und Berasung der Gebirgsgründe” (sistemazione dei torrenti, rimboschimento e inerbimento dei terreni di montagna) pubblicato dall'allora Ministero dell'Agricoltura nel 1884. Da questo viaggio nacquero la costituzione della legge “per il deflusso senza danni delle acque montane (1884) e l'Imperial-regia Sezione per la Sistemazione Montana, con una stazione per la parte settentrionale dell'impero (in Slesia) e una alpina a Villaco. Il servizio fu dotato di personale tecnico e di mezzi importanti per operare nelle aree montane, che interessavano buona parte del territorio. Il primo responsabile della sezione, il consigliere forestale Johann Salzer, aveva a sua volta effettuato un viaggio di studio nelle Alpi francesi nella primavera 1884, insieme ad altri 6 tecnici, per analizzare le modalità di intervento e di realizzazione delle sistemazioni montane. Fu l'inizio di una struttura tecnica unitaria che negli anni successivi realizzò una grande opera di ricostruzione nelle aree colpite dalla grande alluvione. Il servizio è stato successivamente mantenuto in Austria -

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oggi permane come struttura ministeriale, con sezioni nei vari Laender; ed è stato preservato dall'amministrazione forestale nel Trentino-Alto Adige e rilanciato dopo la grande alluvione del XX secolo (1966). La collaborazione, gli scambi di esperienza e la cooperazione tecnica a livello alpino hanno una storia lunga e importante. Le sistemazioni dei corsi d'acqua hanno avuto una grande importanza nell'utilizzo del territorio alpino e sono state oggetto di grande attenzione da parte dei governi locali. Nonostante le opere realizzate, la situazione complessa legata alle trasformazioni sociali ed economiche della montagna alpina e all'incombente cambiamento climatico richiede un approccio nuovo alla sicurezza nei confronti del rischio idrogeologico. In una realtà in evoluzione e di fronte a questioni nuove, il ruolo della cooperazione fra le regioni alpine è essenziale: riguarda lo scambio di dati e di esperienze -indispensabile quando si vogliono considerare gli effetti di eventi 'fuori scala' con probabilità molto basse - la conoscenza degli approcci innovativi e delle esperienze negli ambiti nuovi e più difficili. Gli stati alpini lo hanno riconosciuto e nell'ambito della Convenzione delle Alpi hanno costituito una piattaforma specifica per la gestione dei rischi nel territorio alpino (Planalp), con lo scopo di promuovere una visione integrata nell'approccio della gestione del rischio in ambiente alpino; promuovere la realizzazione di misure adeguate, la prevenzione e il dialogo sul rischio; scambiare esperienze e best practices a livello alpino. La piattaforma ha proposto una raccomandazione alla Convenzione, articolata su 4 punti: adattamento ai cambiamenti climatici, dialogo sul rischio, rischio residuo, pianificazione territoriale ed è consultabile al seguente indirizzo: (http://www.alpconv.org)


Dossier: il contesto alpino

I Piani delle zone di pericolo in Alto Adige: tra istanze locali, leggi nazionali e direttive europee di Pierpaolo Macconi*

Ciclo del rischio

*Settore sviluppo progetti Provincia autonoma di Bolzano

Il territorio altoatesino, per la conformazione orografica e la tipologia di insediamento, convive da sempre con il rischio idrogeologico; il rapido sviluppo urbanistico degli ultimi decenni, concentrato soprattutto nei fondovalle, ha incrementato in particolare i potenziali rischi legati alle alluvioni, sia per i fiumi maggiori (ad es. Adige e Isarco) che per i numerosi rivi e torrenti montani. In virtù dello statuto di autonomia, la Provincia concentra numerose e ampie competenze nell'ambito della gestione del rischio idrogeologico, tra cui le funzioni di protezione civile, la sistemazione idraulica dell'intera rete dei corsi d'acqua, la gestione del patrimonio forestale e la pianificazione territoriale. La Provincia ha cosí la possibilità di programmare in maniera efficiente e coordinata le diverse fasi della gestione del rischio idrogeologico, limitando la dialettica al confronto tra Provincia e Comuni. Si configura così uno schema di governance del rischio notevolmente semplificato rispetto al resto della realtà nazionale, dove il sovrapporsi di diversi enti a diversi livelli amministrativi è spesso fonte di conflitti o vuoti di competenza .

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Quadro legislativo Nel 2008 la Provincia autonoma di Bolzano ha inserito nella legge urbanistica l'obbligo per i Comuni di redigere i cosiddetti Piani delle zone di pericolo (PZP), definendo le metodologie in apposite direttive e stabilendo, in un regolamento d'esecuzione, le norme relative agli interventi ammissibili, in funzione dei livelli e delle tipologie di pericolo rilevato. Questo strumento di pianificazione costituisce inoltre adempimento alle prescrizioni previste dalla normativa nazionale, in primis la legge 183/89 (oggi sostituita dal Codice ambientale 152/2006) che ha introdotto nel nostro paese la pianificazione di bacino. Nella provincia di Bolzano infatti, in virtù delle competenze riconosciute dallo statuto di autonomia, il Piano di Bacino viene sostituito dal Piano Generale di Utilizzazione delle Acque Pubbliche (PGUAP) redatto dalla Provincia; in questo documento si prevede che l'insieme dei Piani comunali delle zone di Pericolo ha valenza di Piano di Assetto idrogeologico (PAI). Con l'adozione della Direttiva 2007/60 “Alluvioni”, la comunità europea ha introdotto un ulteriore riferimento normativo; la direttiva prevede che tutti i paesi membri elaborino dei Piani di gestione del rischio di alluvioni, basati su mappe della pericolosità e del rischio. Come conseguenza è stato necessario verificare la coerenza delle norme e delle direttive altoatesine non solo con la normativa nazionale ma anche con quella comunitaria. Procedure e metodologie I singoli Comuni provvedono alla redazione dei PZP, incaricando liberi professionisti. La Provincia, oltre a garantire un cofinanziamento tra il 30% e il 50% dell'importo, fornisce supporto tecnico nella fase di elaborazione e mantiene un ruolo di controllo nella procedura di approvazione dei piani stessi La redazione dei PZP in Alto Adige prevede le seguenti fasi: - fase A: il Comune suddivide il proprio territorio in aree di diversa rilevanza urbanistica; i tecnici provinciali, sulla base di questa classificazione, stabiliscono il livello di analisi dei pericoli idrogeologici incidenti in modo da permettere una stima dell'impegno economico necessario; - fase B: il Comune indice la gara di appalto a cui possono concorrere pools di tecnici liberi professionisti qualificati, spesso organizzati in


Esempio di Piano delle zone di pericolo

associazioni temporanee di impresa; - fase C: questa fase corrisponde all'effettiva elaborazione il piano in stretta collaborazione coi tecnici provinciali; - fase D: il Comune approva il PZP e lo invia alla Provincia, che avvia la stessa procedura di approvazione prevista per il Piano urbanistico comunale (PUC): il piano viene approvato dalla Giunta provinciale, sentito il parere della Conferenza dei servizi Dal punto di vista metodologico, la valutazione dei livelli di pericolosità e di rischio segue il sistema elaborato dall'attuale Ufficio federale svizzero dell'ambiente (ex BUWAL). Questa metodologia, che nasce dalla pluriennale esperienza dei cantoni svizzeri nella pianificazione del rischio, esprime la pericolosità come funzione di probabilità di accadimento (o, in altri termini, del tempo di ritorno) e intensità geometrica del fenomeno, che a sua volta dipende da parametri diversi (per le alluvioni, ad esempio, l'intensità è funzione del tirante e della velocità dell'acqua). La pericolosità è espressa con i seguenti livelli: - pericolo molto elevato (H4 – colore rosso); - pericolo elevato (H3 – colore blu); - pericolo medio (H2 – giallo). Le norme e i vincoli imposti sulle diverse aree di pericolo sono contenute in un apposito regolamento d'esecuzione. In presenza di un pericolo la realizzazione degli interventi ammessi presuppone una verifica di compatibilità Nei piani possono essere inoltre previsti scenari con probabilità molto bassa che, pur non prevedendo vincoli urbanistici, costituiscono comunque uno strumento decisionale utile, si pensi ad esempio allo scenario di rottura di una diga. A valle della carta del pericolo del pericolo è stata prevista una classificazione del rischio molto semplificata, basata sulla sovrapposizione con una carta di vulnerabilità a quattro classi; dal dialogo tra i soggetti coinvolti nella gestione del rischio idrogeologico emerge sempre più chiaramente come, mentre la definizione del pericolo possa avere una valenza generale e polifunzionale, il concetto di rischio sia funzione dell'”utente” e del suo specifico ambito di interesse (protezione civile, sistemazione del territorio, pianificazione territoriale, ecc.), richiedendo metodologie

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di analisi specifiche e differenziate. Il rischio, essendo funzione dell'evoluzione territoriale, ha inoltre una dinamica molto accentuata e non può essere “congelato” in un'unica carta statica; . Le esperienze raccolte con i primi piani hanno messo in luce alcune criticità nella pianificazione del pericolo e del rischio, sia a livello generale sia in merito alla “via altoatesina”: - i numerosi approcci, metodi e strumenti di valutazione del pericolo oggi disponibili, seppur in costante evoluzione, si basano ancora su forti semplificazioni dei processi fisici; i dati di base inoltre, in particolar modo quelli idrometeorologici, sono di regola insufficienti se posti in relazione alle scale temporali considerate nella pianificazione, dove si parla di tempi di ritorno pluricentenari; su queste basi non è ancora possibile una definizione univoca ed incontrovertibile dei livelli pericolosità; - pur dimostrando una grande capacità di aggiornamento, parte del mondo professionale non ha ancora maturato la necessaria esperienza e dimestichezza con le metodologie di valutazione del pericolo; tale “insicurezza” porta i tecnici ad affidarsi con eccessiva fiducia e acriticità ai modelli matematici. - delegando l'elaborazione dei piani ai 116 Comuni bisogna quindi mettere in conto un certo livello di disomogeneità nei prodotti cartografici; - il livello comunale, pur garantendo un aggancio ottimale con la pianificazione territoriale e con i piani di protezione civile, può essere influenzato da interessi localistici; - all'amministrazione provinciale è richiesto un notevole impegno nelle attività di controllo e coordinamento, nel garantire la connessione con i livelli territoriali e la coerenza con le istanze normative di livello superiore; - per organizzare in maniera efficiente la notevole mole di dati forniti è necessario dotarsi di un sistema informativo robusto che faciliti l'interrogazione e la rielaborazione dei dati stessi; - l'applicazione “tout court” della normativa italiana ad aree delimitate con metodologia svizzera si è rivelata difficilmente perseguibile. È stato necessario apportare degli adeguamenti normativi che permettessero uno sviluppo del territorio minimizzando il rischio; - per processi naturali con estensione “sovracomunali”, quali grandi frane e fiumi di fondovalle, può essere opportuna un'analisi separata; Concludendo è importante sottolineare come, aldilà dei dettagli metodologici e normativi, gli strumenti di pianificazione saranno tanto più efficaci quanto saranno accompagnati, nella società civile e nelle istituzioni, dallo sviluppo di una moderna cultura del rischio.


Dossier: il contesto alpino

I piani delle zone di pericolo Strumento di indirizzo per i pericoli naturali in Alto Adige di Frank Weber*

* Ufficio pianificazione provinciale per la coordinazione dei Piani delle zone di pericolo Provincia autonoma di Bolzano

In attuazione della Legge Statale n. 183 del 18 maggio 1989 è stata introdotta in Alto Adige la pianificazione delle zone di pericolo, con l'aggiunta dell'articolo 22 bis nella Legge Urbanistica Provinciale. Nel comma 1 la Giunta provinciale veniva autorizzata ad emanare direttive per la stesura di piani delle zone di pericolo, che vennero poi approvate con la delibera n. 2741 del 28 luglio 2008. Tali direttive sono ripartite in tre parti. La parte introduttiva A contiene disposizioni generali e distingue i pericoli naturali in “frane”, “pericoli idraulici” e “valanghe”. In essa le zone di pericolo vengono inoltre suddivise come segue in base a criteri di pericolo: H4 – molto elevato, H3 - elevato, H2 – medio e zone grigie che presentano pericolosità residua o nessuna pericolosità dimostrabile. Il paragrafo B è dedicato alla stesura del piano delle zone di pericolo e definisce tra l'altro le categorie per l'analisi del pericolo idrogeologico. Nel paragrafo C viene definita la classificazione del rischio specifico. Con queste Linee Guida è stato creato uno Standard provinciale che consente una valutazione obiettiva dei pericoli naturali. La responsabilità per la stesura dei piani delle zone di pericolo è stata affidata ai Comuni. In questo modo da una parte viene rafforzata la congruenza con i Piani urbanistici che già vengono elaborati dai Comuni (cfr. figura 1), dall'altra, si ottiene un maggior coinvolgimento di istituzioni e gruppi di persone, che in seguito dovranno confrontarsi con tale strumento legislativo, facilitando l'introduzione e l'utilizzo della pianificazione stessa. L'insieme dei singoli piani di pericolo comunali costituisce il piano delle zone di pericolo provinciale, parte integrante del piano generale dell'utilizzazione delle acque pubbliche. Ai Comuni resta in teoria la scelta se elaborare autonomamente il piano o incaricare un esperto esterno. Poiché la maggior parte dei Comuni dell'Alto Adige sono relativamente piccoli e la competenza specifica necessaria è molto alta, la pianificazione verrà in gran parte realizzata da tecnici liberi professionisti. L'amministrazione provinciale mette a disposizione il massimo sostegno

Fig. 1: Nesso legislativo dei piani delle zone di pericolo

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Fig. 2: Il management del rischio nelle aree urbanizzate dell’Alto Adige

professionale possibile. La figura 2 rappresenta pericolo, rischio e le loro relazioni per quanto riguarda la protezione delle persone e degli insediamenti. In linea di massima, per i piani delle zone di pericolo vale il criterio secondo il quale un pericolo al di fuori delle zone abitate non è rilevante. Un pericolo diventa socialmente rilevante solo quando implica un potenziale di danno, cioè di beni da proteggere. Solo in questo caso si parla di rischio. L'equilibrio tra responsabilità individuale e protezione da parte della società va individuato, trattando di pericoli naturali, nella scelta dei beni da proteggere. Mentre ad esempio in Svizzera la definizione di rischio avviene a partire dagli obiettivi di protezione, in Alto Adige, nel „Regolamento per l'attuazione dei piani delle zone di pericolo” sono stati definiti alcuni beni protetti rilevanti dal punto di vista degli insediamenti con Decreto del Presidente della Provincia n. 42 del 05/05/2008. Questo provvedimento mette inoltre in evidenza che i piani delle zone di pericolo sono soltanto uno strumento di programmazione urbanistica, essi infatti sono limitati dal punto di vista tematico e territoriale all'attività insediativa. Altri aspetti delle interazioni tra persone e pericoli naturali sono già regolati altrove e/o contemplati da altre norme giuridiche. I piani delle zone di pericolo documentano pericoli naturali in zone di insediamento e creano così criteri di base per le decisioni riguardanti l'utilizzo delle superfici edificabili in un'area. Prima dell'introduzione dei piani delle zone di pericolo, le situazioni di rischio venivano valutate caso per caso tramite singole perizie. Anche se la singola valutazione tramite perizia risultava economica, dal punto di vista di una valutazione dell'intero territorio il costo complessivo era invece molto alto. Poiché non era prescritta alcuna ponderazione degli interessi pubblici, inoltre, le perizie potevano facilmente venire manipolate secondo interessi privati. Mancando una visione d'insieme sul territorio, solo sporadicamente era possibile dare un orientamento alla pianificazione degli insediamenti. La strategia scelta con i piani delle zone di pericolo si

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inserisce quindi nella strategia generale attualmente praticata nell'ambito della pianificazione urbanistica. Grazie alla conformità di scala con il piano urbanistico, la carta delle zone di pericolo è di facile utilizzo. Con l'approvazione del piano, le relative informazioni sulle zone di pericolo vengono inserite nel già esistente sistema GIS, in modo che tutti i dati necessari possano essere scaricati da internet in qualsiasi momento dai cittadini. Ciononostante, per realizzare una vera “governance” del territorio, si pone al legislatore la sfida di definire strumenti più adatti dell'attuale Legge Urbanistica Provinciale con la sua impostazione fortemente basata sul principio della pianificazione. Effetti dei piani delle zone di pericolo Nel modello della pianificazione delle zone di pericolo in Alto Adige, sono stati ripresi i beni protetti definiti dalla legge statale e le classi di rischio ad essi correlate. Queste definizioni determinano in buona parte anche effetti ed utilizzo dei piani delle zone di pericolo. La funzione passiva di protezione dei piani consiste principalmente nell'evitare il sorgere di insediamenti in zone esposte a pericoli naturali. Situazioni di pericolo per insediamenti già realizzati, rese evidenti dalla stesura dei piani, indicano un rischio e rendono necessari provvedimenti attivi di protezione. In questo caso i piani delle zone di pericolo rendono visibili rischi esistenti. Questa tendenza ha avuto tuttavia nella pratica l'effetto che, nei Comuni dove si è già cominciato a stendere piani delle zone di pericolo, si sono evidenziate molte situazioni che richiedono un intervento e si esige dalla politica che vengano presi i necessari provvedimenti per ridurre i pericoli emersi. La Giunta Provinciale ha tenuto conto di questa circostanza, distribuendo, con la Delibera n. 42 del 16 gennaio 2012, i tempi per la stesura dei piani su più anni, in modo da rendere possibile una programmazione equilibrata dei


Dossier: il contesto alpino Fig. 3: Applicazione della pianificazione del pericolo - livello operativo

budget. Gli stessi piani delle zone di pericolo contribuiscono a ridurre al minimo i mezzi finanziari necessari in futuro alla riduzione del rischio ed a programmarne in modo ottimale l'utilizzo. Il Regolamento per l'attuazione sopra nominato definisce le norme relative alle costruzioni ammesse ed ai provvedimenti per la prevenzione di pericoli o danni causati da eventi naturali, differenziati a seconda del grado e della tipologia di pericolo riscontrata. La parte principale del Regolamento è costituita degli articoli dal 4 al 7, che descrivono gli interventi ammissibili nelle zone a rischio idrogeologico molto alto, alto e medio. In esso viene definito un bene protetto essenziale, cioè l'edificio ed il soggiorno di persone ad esso connesso. In linea di massima vige la regola secondo la quale in zone ad alto rischio non è consentito aumentare la presenza di persone, è di conseguenza proibito costruire in tali zone nuovi edifici. Un principio analogo sta alla base della regolamentazione delle zone ad alto rischio. Tuttavia, in zone di questa categoria di pericolo, previo raggiungimento di un rischio medio è possibile costruire all'interno del contesto insediativo. Nel caso ideale non vengono riscontrati pericoli naturali, o il pericolo si limita ad un livello residuo. In tal caso la zona esaminata viene evidenziata in grigio nel piano e non vi sono ulteriori limitazioni per insediamenti o interventi edilizi. Il Regolamento d'attuazione e le Direttive costituiscono insieme la cornice per la pianificazione delle zone di pericolo in Alto Adige. Il Regolamento stabilisce anche il procedimento nelle aree non indagate, definendo una verifica del pericolo (art.10) ed una verifica di compatibilità relativa al pericolo per interventi edilizi (art.11). Con la verifica di compatibilità devono essere date indicazioni vincolanti relative alla valutazione del rischio specifico in base alle interferenze tra dissesti ed uso del suolo attuale e programmato, all'esistenza di elementi vulnerabili e gravità dei

danni potenziali, alla valutazione delle misure di sicurezza necessarie e deve essere garantito che non siano cagionati danni o rischi maggiori a terzi. I risultati della verifica di compatibilità sono vincolanti per l'approvazione o l'autorizzazione dell'opera da parte dell'autorità competente. Nel prossimo futuro l'applicazione corretta della verifica di compatibilità sarà una sfida sia per i tecnici che per i Comuni, in quanto solo i provvedimenti adeguati a seconda del pericolo garantiscono la riduzione del rischio per l'opera in questione. In conclusione, le esperienze fatte finora dimostrano che la pianificazione delle zone di pericolo è uno strumento efficace per la valutazione di scelte urbanistiche sul territorio. Grazie alla raccolta standardizzata dei dati, anche nel lungo periodo essa rappresenta un'ottima base per la pianificazione. Al di là del sicuro ammortamento dei costi nel periodo applicativo dei prossimi dieci anni, essa reca in se' un'enorme potenzialità di risparmio nella gestione dei pericoli naturali ed è perciò consigliabile come strumento di pianificazione anche in futuro. La rigidità del procedimento e la limitazione dei contenuti contrastano tuttavia con le esigenze della protezione civile che ha bisogno di strumenti operativi e flessibili. Ciò rende necessarie ulteriori soluzioni. Si può individuare come miglior risultato ottenuto la nascita di una nuova coscienza nell'amministrazione e nei responsabili. Contrariamente alla valutazione tramite singole perizie, nella pianificazione delle zone di pericolo si è confrontati con la trasparenza dei costi della programmazione e dell'amministrazione dell'intero territorio comunale. Questo fa sì che investimenti futuri possano e debbano essere meglio ponderati e che la scelta di un sito per l'insediamento sia suggerita da criteri di qualità storicamente tramandati e non dai dettami del profitto facile.

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L'Esperienza austriaca nella definizione delle aree a rischio per torrenti e valanghe di Daniel Kurz*

1. La base normativa Nella legge costituzionale federale del 1930 è stabilito che le sistemazioni montane (compresa la protezione dalle valanghe) è una materia di competenza federale. La definizione delle aree soggette a pericolo è prevista nella legge forestale del 1975. Nell'articolo 8 vengono previste 3 forme di pianificazione forestale: una di queste è la delimitazione delle aree a rischio. L'articolo 11 precisa i contenuti dei piani delle aree a rischio e il procedimento di approvazione, dal progetto iniziale fino all'approvazione definitiva da parte del Ministero dell'Agricoltura, Foreste, Ambiente e Acqua. Il Regolamento 30.7.1976 prescrive quali aree devono essere interessate dalla pianificazione delle aree a rischio e le modalità di realizzazione. L'ancoraggio dei piani delle zone a rischio nella pianificazione territoriale avviene a livello dei Länder, poiché la pianificazione è una materia di loro competenza. In base alle leggi dei Länder le aree a rischio diventano una base dell'ordinamento e della pianificazione territoriale, nonché dei piani urbanistici comunali. 2. Il procedimento di approvazione dei piani La realizzazione dei piani delle aree a rischio, dal progetto iniziale all'approvazione definitiva del Ministero, avviene in modo unitario in tutta l'Austria, passando attraverso le seguenti fasi: - Progetto di piano: comprende i rilievi nel bacino, la valutazione dei pericoli, una proposta di delimitazione delle aree soggette a pericolo; - Coordinamento interno: discussione e valutazione dei contenuti e della delimitazione all'interno del servizio con tecnici esperti; - Riesame tecnico da parte del Ministero: fase opzionale, quando non c'è unanimità nei pareri della fase precedente; - Pubblicazione della proposta: la proposta viene esposta all'albo comunale per 4 settimane per permettere la presa di visione di tutti i cittadini, che possono presentare osservazioni;

* Servizio tecnico per il controllo di torrenti e valanghe, Ministero Federale Agricoltura, Foreste, Ambiente e Acqua, Sezione di Innsbruck

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Dossier: il contesto alpino

Valle di Fiemme, il massiccio del Lagorai - Foto di Matteo Visintainer - www.geo360.it

Tab. 1: criteri per la delimitazione del pericolo da fenomeni torrentizi

Criteri 1) acqua ferma 2) acqua in movimento 3) canali di erosione 4) deposito di materiale

zone Rossa Gialla Rossa Gialla Rossa

Evento di progetto Profondità > = 1,5 m Profondità < 1,5 m Livello energia >= 1.5 m Livello energia < 1.5 m Profondità > = 1,5 m

Gialla

Profondità < 1,5 m

Rossa Gialla Rossa Gialla Rossa Rossa

Altezza depositi >= 0,7 Altezza depositi < 0,7 Limite superiore della frana Fascia di sicurezza Limite della colata Possibile limite

Evento ripetuto Profondità > = 0,5 m Profondità < 0,5 m Livello energia >= 0.5 m Livello energia < 0.5 m Canali di erosione possibili Deflusso senza erosione, criterio 2 Deposito di materiale possibile Nessun deposito, criterio 2

5) frane di sponda a seguito dell’erosione 6) colate detritiche 7) erosione di versante innescata Non considerato Gialla Considerare 3) e 5) dai torrenti Note Criterio 1): non vengono considerati paludi, stagni, sorgenti, piccole vallecole Criterio 5): la larghezza della fascia viene motivata nei singoli casi

Tab. 2: criteri per la delimitazione del pericolo da fenomeni valanghivi

Criteri 1) pressione (p)

zone Rossa Gialla

Evento di progetto p > = 10 kN/m² 1 <p< 10 kN/m²

Evento ripetuto p > = 10 kN/m² 1 <p< 10 kN/m²

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- Valutazione congiunta: una commissione presieduta dal rappresentante del Ministero e composta da un rappresentante dell'ufficio di Sistemazione territorialmente competente, da un rappresentante del Land e da un rappresentante del comune esamina le osservazioni pervenute, valuta la proposta di piano ed eventualmente vi apporta delle modifiche. Il piano deve essere approvato dalla commissione con una votazione; in caso di parità prevale il voto del presidente; - Approvazione da parte del Ministro federale: la proposta di piano valutata dalla commissione viene approvata dal Ministro, che la rende definitiva e operante ai termini di legge; - Il piano viene trasmesso all'ufficio territoriale di sistemazione montana, al comune e al distretto (livello amministrativo intermedio) perché ne prendano atto; - Il piano definitivo delle aree a rischio costituisce uno strumento tecnico essenziale sia all'interno del servizio di sistemazione che per la pianificazione territoriale e urbanistica. Esso è la base; - nell'attività interna del servizio di sistemazione, per la programmazione delle opere di difesa, le analisi costibenefici, la definizione delle priorità per le misure di difesa e per l'attività di consulenza tecnica; - per Land e comune è una base per l'ordinamento territoriale, l'edificazione e la gestione della sicurezza; Il piano delle aree a rischio consiste di 2 parti: - una parte cartografica, composta sostanzialmente da queste carte: > Carta dei pericoli (scala 1:50.000), sulla quale sono riportati l'rea compresa nel piano, i bacini e le cause di pericolo. Possono essere inserite in questa parte anche carte idrologiche, geologiche, morfologiche ecc; > Carta delle aree a rischio (scala 1:5000 o superiore), che deve riportare la delimitazione dell'mbito territoriale rilevante dal punto di vista urbanistico, con l'ndicazione delle zone soggette a pericolo, delle aree da tenere come riserva tecnica (aree blu, vedi in seguito) altre aree per le quale sono fornite delle indicazioni (aree marron e viola, vedi in seguito); - Una parte di testo nella quale vengono descritte le cartografie, motivate le delimitazioni e definite le indicazioni per la pianificazione territoriale: > descrizione dell'area del piano: dati generali su clima, , geologia, rischi naturali ecc; > descrizione del bacino: descrizione precisa dei torrenti, delle valanghe, delle zone franose, aree soggette crollo e ad erosione, motivazione della delimitazione dell aree a rischio; > indicazioni per la pianificazione territoriale, urbanistica e per le gestione delle emergenze. Elaborazione del piano Nella redazione del progetto di piano vengono utilizzate tutte le fonti di informazione e tutti i metodi disponibili, al fine di comprendere al meglio tipologia e intensità dei fenomeni che interessano l'area: - metodo storico: vengono considerate tutte le possibili fonti di informazione: vecchie cronache, ogni tipo di documentazione scritta, memorie, vengono intervistati testimoni ecc; - metodo morfologico: carte geomorfologiche, cartografazione di segni e estimoni muti(segni di eventi

passati). La loro interpretazione permette di individuare il tipo di eventi verificatisi in passato e i processi in atto; - metodo empirico-statistico, basato sulla valutazione delle misurazioni a disposizione (tipicamente misurazioni idrologiche); - metodo numerico-matematico, basato su modellizzazione matematica dei fenomeni (simulazione di piogge-deflussi, modelli idraulici fluviali, simulazioni di valanghe o colate detritiche); - modelli fisici, raramente utilizzati nelle zonizzazione delle aree a rischio sono talora utilizzati nella progettazione degli interventi. Nel progetto di zonizzazione e nella delimitazione delle aree a rischio vengono utlizzati tutti i metodi a disposizione per l'area di progetto. Aree a rischio All'nterno dell'area rilevante dal punto di vista urbanistico, che comprende le aree già ad uso intensivo (residenziale, produttivo o per infrastrutture e quelle che potranno diventarlo in futuro) vengono definite le aree soggette a rischio, come indicato sotto. Vengono inoltre indicate delle aree di riserva per futuri eventuali interventi tecnici e altre aree per le quali vengono fornite indicazioni relative ad altri tipi d rischio. Le aree a rischio e quelle da tenere in riserva sono delimitate sulla base degli effetti di un evento con tempo di ritorno di 150 anni in base ai seguenti criteri: a) aree rosse: a causa dell'attività torrentizia o delle valanghe sono soggette ad un rischio tale per cui l'utilizzo permanente come residenza o come via di comunicazione possibile solo ad un costo molto elevato a causa dell'entità della frequenza dei danni che si verificano con la probabilità prevista (vedi tabelle 1 e 2) b) aree gialle le altre aree a rischio per l'attività di torrenti o valanghe, il cui utilizzo residenziale o per la comunicazione limitato a causa di questo rischio (vedi tabelle 1 e 2) c) aree blu: sono aree di riserva, da tenere a disposizione per : > la realizzazione diinterventi tecnici di sistemazione o rimboschimenti o altre misure bioingegneristiche, nonchper gli interventi di manutenzione; > a gestire in modo particolare per il mantenimento di una funzione di protezione o per la funzionalitdi una sistemazione d) vengono ulteriormente definite: > aree marron, dove sono presenti rischi diversi da torrenti e valanghe, come crolli o frane non connesse a torrenti e valanghe; > aree viola, la cui funzione protettiva legata al mantenimento delle caratteristiche morfologiche o del terreno Il procedimento descritto viene applicato da più di trent’anni in Austria e certamente ha contribuito a raggiungere un elevato standard di sicurezza nell'ambiente alpino, nel quale i pericoli naturali hanno un ruolo molto rilevante nello sviluppo residenziale e produttivo. La sua applicazione permette di puntare, in futuro, ad un ulteriore sviluppo nell'area alpina mantenendo un alto livello di sicurezza. (traduzione Francesco Dellagiacoma)

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La sicurezza nella pianificazione in Trentino

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La lezione della tradizione: l’insediamento storico e la pericolosità idrogeologica di Alessandro Franceschini

La lezione del mondo rurale: ripartire da Giuseppe Pagano Nel 1936, durante la VI Triennale di Milano, venne allestita la prima mostra sull'architettura rurale italiana. L'iniziativa, curata da uno dei protagonisti del Movimento Moderno, Giuseppe Pagano, in collaborazione con Guarniero Daniel, rappresenta un evento singolare se contestualizzato dentro il clima monumentale e retorico che caratterizzava il dibattito architettonico degli anni Trenta. Erano gli anni della linea piacentiniana dell'architettura di regime «classicista semplificata». Gli anni delle colonne in pietra ovunque e a ogni costo. L'obiettivo – controcorrente – dei due curatori è quello di rendere esplicita la ricchezza della casa contadina italiana, intesa come un documento di architettura frutto spontaneo e sovra-storico di una serie di elementi o condizioni esterne e proprio per questo «pura», «a-stilistica», forgiata solo dal contesto inteso come sommatoria di materiale edilizio, di clima e di struttura economica della produzione agricola del luogo (Pagano e Daniel, 1936). Alle origini dell'iniziativa va sicuramente ascritto il carattere polemico dell'attività culturale di Pagano che aveva già manifestato interesse verso il mondo rurale negli anni precedenti dalle pagine di Casabella – rivista di cui, allora, Pagano era direttore: «la conoscenza delle leggi di funzionalità e il rispetto artistico del nostro imponente e poco conosciuto patrimonio di architettura rurale, sana ed onesta, ci preserverà forse dalle ricadute accademiche,

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ci immunizzerà contro la retorica ampollosa». La ricerca intende dimostrare quella che Pagano definisce la «tradizione del nuovo» organizzata sull'assioma che l'architettura rurale è l'esempio più fulgido dell'efficacia del lavoro collettivo, intergenerazionale ed anonimo. Che, se da una parte rifugge dall'essere un'opera autoriale, dall'altra rappresenta la materializzazione dell'organizzazione razionale dell'abitare comune. Come scrive Aldo Castellano (1996), questa tesi «si basa sullo stesso principio dell'evoluzione della specie, mutuato dalla biologia, secondo il quale l'adattamento alle condizioni ambientali spinge le specie viventi a modificare per via ereditaria la propria morfologia, o anche la propria fisiologia, così da rispondere in modo adeguato alle necessità della sopravvivenza». Sfogliano oggi il catalogo di quella mostra, appare evidente come la ricerca di Pagano e di Daniel si concentri volutamente solo su alcuni aspetti del mondo rurale, in primis la questione delle tecnologie e della “forma” dei manufatti architettonici. Scarsa attenzione, ad esempio, viene data alla questione sociale in cui è immersa la vita degli abitanti degli insediamenti rurali. Allo stesso tempo non viene affrontata approfonditamente la questione legata alla collocazione territoriale degli insediamenti che può suggerire interessanti riflessioni sulla «naturale» collocazione degli insediamenti umani dentro un territorio, che non può che essere ispirata da quegli stessi principi di «necessità». L'osservazione del territorio del Trentino può, in questo senso, dare delle indicazioni utili per comprendere le regole insediative in un territorio montano con particolare attenzione alla sicurezza idrogeologica. Studiando con attenzione la collocazione degli insediamenti storici sul territorio, infatti, appare evidente una loro non casuale articolazione. Come già evidenziato in precedenza (Diamantini e Franceschini, 2010), esistono delle regole ricorrenti che sulle quali si costruisce l'impianto insediativo del Trentino: l'edificazione in zone soleggiate, la collocazione in sicurezza idrologica (la «quota» rispetto le piene dei fiumi) e l'articolazione in zone al riparo dal rischio di eventi idrogeologici catastrofici. In particolare per quanto riguarda la prima questione – d'interesse per questo numero della rivista – può essere utile osservare con più attenzione la struttura morfologico insediativa del territorio Trentino per trarre conseguenti suggerimenti utili a supporto della pianificazione.


Dossier: il Trentino

Il territorio attorno al Doss di Sant’Agata, sulla collina est del Comune di Trento. Nell’altra pagina il rilievo del Catasto austroungarico (1865 ca). A destra l’estratto della Carta di sintesi geologica. Da notare gli insediamenti storici, a differenza di quelli contemporanei, collocati in aree a basso rischio idrogeologico.

Il Trentino: le caratteristiche dell'impianto «originario» Durante l'Ottocento il Trentino, come tutte le provincie dell'Impero austro-ungarico, è oggetto di un accurato rilievo topografico che – alla data del 1865 – restituisce una descrizione estremamente dettagliata del territorio. Un racconto cartografico interessante per chi si occupa di territorio, poiché si tratta di una «fotografia» fedele dell'articolazione della provincia in un momento storico particolarmente significativo. Le origini di questa operazione cartografica risalgono al 1759 quando l'imperatrice Maria Teresa d'Austria ordina l'istituzione, su tutto l'Impero, di «registri» e di «mappe catastali». Successivamente, per quanto riguarda più specificatamente il rilievo e il disegno del Trentino, viene emanata, sotto l'Impero austro-ungarico, la sovrana patente dell'Imperatore Francesco I, promulgata il 23 dicembre 1817 che di fatto istituisce il Catasto del Tirolo. I lavori di rilievo, iniziati con forte ritardo a causa delle opposizioni dei poteri locali (che temevano un aumento delle imposte) furono completati nel 1861, cent'anni dopo l'iniziativa teresiana (Buffoni et al., 2002). Rappresentato dentro circa diecimila di tavolette, rilevate in loco grazie a triangolazioni dalla grande alla piccola scala, e quindi ridisegnate e acquerellate a mano a Vienna, il territorio della provincia di Trento appare articolato in un chiaro impianto insediativo che si suddivide in centri maggiori e piccoli agglomerati distribuiti lungo i corsi d'acqua, all'innesto dei solchi vallivi oppure ordinati nel sistema morfologico della fascia di fondovalle. Per una serie di coincidenze il rilievo si concluse al termine di un'epoca particolarmente significativa per il Trentino. Si tratta, infatti, della fine di un periodo – dal punto di vista territoriale – molto uniforme che non ha previsto sostanziali modifiche nel corso dei secoli precedenti. Mentre proprio in quegli anni due grandi mutamenti sono intervenuti a modificare radicalmente la struttura socioterritoriale del Trentino: la regimazione dell'Adige (già avviata all'inizio dell'Ottocento ma conclusa proprio in

quei decenni) e, soprattutto, l'arrivo della ferrovia Verona-Bolzano. Si tratta a tutti gli effetti dell'avvio di una fase protoindustriale, destinata a modificare in profondità gli equilibri su cui si era andato a costituire il modello insediativo tradizionale del Trentino. Il rilievo del catasto storico viene quindi ad inserirsi al culmine di una fase ancestrale, poco prima di una nuova pagina di storia destinata a sconvolgere irrimediabilmente la struttura insediativa del territorio. Osservando le mappe colorate ad acquerello è quindi possibile ammirare e comprendere l'articolazione di insediamenti che si distribuiscono secondo delle leggi «naturali», assecondando la «necessità» del mondo rurale che mettono in evidenza le caratteristiche di una modalità d'insediarsi dell'uomo in un territorio di montagna, in perfetto equilibrio con l'ambiente circostante. Costruire in sicurezza: una consuetudine ereditata dalla tradizione L'attenzione alla «salubrità» del territorio, che anticamente ha significato anche «abitabilità di un luogo», emerge anche dall'interpretazione dei toponimi che articolano le varie parti del territorio. Ecco alcuni esempi: palù o paludi (zona paludosa), ronchi (zona rocciosa), ischia (area esondabile). In molti casi sono dei veri e propri segnali che la tradizione sedimenta, attraverso il linguaggio, sul territorio per «avvertire» della possibilità o meno di un luogo di ospitare l'antropizzazione. Un aspetto particolarmente significativo emerge se si sovrappone questa carta del catasto storico alla più recente Carta di sintesi geologica elaborata dagli uffici della Provincia autonoma di Trento. Si tratta di uno strumento cartografico, che ha lo scopo di individuare le aree soggetto a rischio geologico, idrogeologico o valanghivo. In particolare, per quanto

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Il territorio del Comune di Vervò, nella Val di Non, in Trentino. A sinistra l’Ortofoto 2006. A destra, l’immagine del rilievo del Catasto austroungarico (Provincia autonoma di Trento, Servizio Catasto) e l’estratto della Carta di sintesi geologica (Provincia autonoma di Trento, Servizio Geologico). Quest’ultimo strumento cartografico individua quattro classi di «penalità» di rischio: le aree ad «elevata pericolosità geologica ed idrogeologica» (colore rosso), le aree «critiche o recuperabili» (colore rosa), le aree «con penalità medie e gravi» (colore arancio), le «aree con penalità leggere» (giallo), e le aree «senza penalità» (bianco). Da notare gli insediamenti storici in aree senza penalità e le nuove espansioni in aree con penalità medie e gravi

riguarda il rischio geologico, individua quattro classi di «penalità»: le aree ad «elevata pericolosità geologica ed idrogeologica» (segnate con il colore rosso), le aree «critiche o recuperabili» (colore rosa), le aree «con penalità medie e gravi» (colore arancio), le «aree con penalità leggere» (giallo), e le aree «senza penalità» (bianco). Sono contemplate all'interno della carta anche campiture che segnalano il rischio sismico, le aree soggette a fenomeni di esondazione e le aree con una pericolosità valanghiva – in questa sede di scarso interesse. Sovrapponendo le due carte è interessante osservare come gli insediamenti storici cadano all'interno delle aree con bassa o nulla penalità dal punto di vista idrogeologico. L'impianto storico, quindi, risentiva in maniera sostanziale del vincolo della sicurezza geologica, secondo un sapere conoscitivo che non si basava, ovviamente, su cartografie di dettaglio, ma su una sensibilità ereditata dalla tradizione orale, secondo la quale appare evidente la distinzione tra luoghi adibiti all'abitare e luoghi meno adatti all'edificazione. Proviamo a vedere alcuni esempi, rimandando ad altre sedi una trattazione più puntuale della questione. Il primo caso è collocato ad Oltrecastello, un borgo di antico insediamento sulla collina ad est di Trento. Si tratta di un cento abitato collocato su un pianoro. Il paesaggio morfologico è caratterizzato dalla presenza di un singolare monte che gerarchizza visivamente tutto il paesaggio circostante. Il dosso di S. Agata – questo suo il nome – è a sua volta caratterizzato, nella parte rivolta a sud, da terrazzamenti agricoli (le frate). È interessante osservare come tutti gli insediamenti storici fossero collocati entro un'area a «penalità leggera» per quanto riguarda il rischio geologico. Gli insediamenti più recenti – come si può evincere dalla stessa carta – sono collocati alla base del colle in un'evidente posizione al di fuori dell'area

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più sicura. Il secondo esempio è tratto dall'abitato di Vervò. La scena si svolge in Val di Non, nel Trentino nord-occidentale. Il paese in questione è collocato lungo una dorsale premontana, quasi alla sommità di un crinale, fra due solchi vallivi. L'impianto originario si sviluppa sostanzialmente lungo la strada a mezza costa, in un luogo che, geologicamente, non presenta problemi. Le addizioni urbane che sono state effettuate in anni più recenti, invece, sono collocate in aree con penalità, anche qui, «medie e gravi». Naturalmente sarebbe semplicistico ridurre l'antropizzazione del territorio trentino a questa sola regola insediativa. Come detto in apertura di questa nota, anche altre regole concorrono alla costruzione dell'impianto insediativo originario. Tuttavia il rispetto alla carta di sintesi geologica si configura, più che come una prassi, come una vera e propria regola morfogenetica che da origine – insieme agli altri fattori che condizionano l'insediamento umano – ad una vera e propria disposizione morfologica sul territorio trentino di pianura e di collina. La perdita delle regole: un'ipotesi di lavoro Le regole insediative che hanno caratterizzato l'antropizzazione del territorio Trentino fino al 1860 resistono, anche se con alcune significative modificazioni, fino al secondo dopoguerra. Il rilevo del Istituto Geografico Militare (che redige le meglio conosciute come “tavolette dell'Igm” in scala 1:25000) descrive ancora un territorio nel quale appaiono evidenti le parti compatte urbanizzate e quelle dell'agricoltura aperta. Le modificazioni più significative iniziano a partire dagli anni Sessanta e si consolidano negli anni Ottanta e Novanta: le regole secondo le quali viene urbanizzato il territorio non sono più quelle sedimentate dalla tradizione, legate alla «necessità della sopravvivenza». Con l'avvento dell'urbanistica pianificata (il primo Piano


Dossier: il Trentino

urbanistico provinciale è del 1967) ecco prendere il sopravvento nuove modalità di consumo di suolo, legate ora all'opportunità politica, ora alle necessità economiche di quel tempo. Il principio sul quale si fonda il disegno di quel primo Pup è proprio quello della «campagna urbanizzata». Si tratta di un principio di urbanizzazione, concepito dal progettista del piano, Giuseppe Samonà, proprio per evitare lo spopolamento delle valli trentine. Il piano intendeva portare nelle valli tutti i servizi della città: le scuole, i poli sociali, i servizi alla persona. Le priorità di quel tempo erano quelle di vincere «la fame ed il freddo» che caratterizzavano un territorio uscito dai due conflitti mondiali pesantemente provato sia socialmente che economicamente. Il Pup è nella sostanza un piano di rilancio economico del territorio – quasi un documento strategico – che, se da una parte non dimentica la tutela del paesaggio (sempre in quello strumento urbanistico troviamo l'istituzione dei parchi naturali e l'individuazione delle aree di protezione dell'ambientale), dall'altra non rinuncia ad obiettivi di rilancio economico del territorio. Se a questo si aggiunge la difficoltà di perseguire nella coerenza del documento urbanistico - mai fino in fondo messo in atto nell'attuazione dei vari piani regolatori comunali - è facile intuire come la necessità di sviluppo economico abbia coinciso con un uso del territorio particolarmente disinvolto e poco attento alle «regole» insediative sedimentate nella consuetudine. L'urbanistica «regolamentata» da disegni e norme di attuazione si riscopre paradossalmente senza regole. Alle necessità dettate dalla morfologia dell'ambiente circostante, si sostituisce l'opportunità (o l'opportunismo) di scelte di natura politica che assecondano altre urgenze ed altri obiettivi. Il territorio cade in un oblio dal quale comincerà a riemergere solo alla fine degli anni Novanta. Quando il Trentino si riscoprirà improvvisamente violentato nella sua struttura originaria, per certi versi ed in molte zone non lontano dalle immagini della «megalopoli pagana» che ha caratterizzato l'urbanizzazione della confinante regione Veneto.

Riferimenti bibliografici Buffoni D. (et al), L'eredità cartografica catastale degli Asburgo in forma digitale, in Atti della 6a Conferenza Nazionale ASITA “Geomatica per l'Ambiente, il Territorio e il Patrimonio Culturale”, Perugia, 5-8 novembre 2002 Castellano A., (1996), La casa rurale in Italia, Electa, Milano Diamantini C. e Franceschini A. (2010), Dal catasto asburgico alle immagini aereo-fotogrammetriche: l'evoluzione del modello insediativo del Trentino, intervento al Convegno internazionale “Di monti e di acque. Le rughe e i flussi della terra”, Trento, 1-4 dicembre 2010 (Atti in corso di pubblicazione).

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La sicurezza del territorio negli strumenti di pianificazione territoriale della provincia di Trento di Angiola Turella*

La sicurezza del territorio rispetto ai fenomeni naturali di tipo geologico e idrogeologico rappresenta uno dei temi di maggiore rilievo della pianificazione territoriale provinciale che, a partire dal Piano urbanistico provinciale (PUP) approvato nel 1987 (l.p. 9 novembre 1987, n. 26), ha provveduto a sviluppare, approfondire e regolamentare coerentemente l'uso del territorio. Proprio il Piano urbanistico provinciale del 1987, sull'onda della tragedia di Stava, ha assicurato l'integrazione nella pianificazione territoriale del concetto di rischio idrogeologico, introducendo le specifiche previsioni nel proprio Sistema ambientale e la relativa disciplina nelle norme di attuazione. Gli approfondimenti, condotti nel corso della attuazione del PUP, hanno portato alla elaborazione della Carta di sintesi geologica provinciale, adottata dalla Giunta provinciale nel 1998 nell'ambito della Variante 2000 al PUP (l.p. 7 agosto 2003, n. 7) e approvata nel 2003 quale strumento specifico per la disciplina del pericolo idrogeologico, periodicamente aggiornata, sulla base delle verifiche e degli studi effettuati dall'Amministrazione provinciale nella gestione del territorio.

Carta di sintesi geologica provinciale, tavola 81130, Serravalle all'Adige

* Provincia autonoma di Trento Servizio Urbanistica e Tutela del Paesaggio

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La scelta di unificare nella sede provinciale il processo di elaborazione, valutazione e gestione della Carta di sintesi geologica, prima allegata ai singoli strumenti urbanistici comprensoriali o comunali, ha determinato una decisa innovazione dei contenuti metodologici e disciplinari della stessa, assicurando: - l'aggiornamento delle disposizioni della Carta sulla base della verifica e in particolare degli studi effettuati dall'Amministrazione provinciale; si ricorda che la prima Carta di sintesi geologica già riporta gli esiti dei fenomeni franosi che nell'autunno 2000 (es. Romagnano e Tenno) avevano comportato anche un potenziamento dell'attività provinciale di studio, intervento e monitoraggio sul territorio; - l'articolazione delle indagini in base alla tipologia di pericolo (da crollo o da esondazione) nonchÊ l'estensione del campo di intervento ai fenomeni di sicurezza dalle valanghe e di valutazione del rischio sismico; - l'introduzione del concetto di pericolosità geologica, espressione in senso assoluto del pericolo derivante dal fenomeno calamitoso incombente sull'area, distinto dal concetto di rischio in quanto connesso alla presenza di persone e cose sullo stesso territorio; - la semplificazione delle procedure di aggiornamento della cartografia di sintesi attraverso l'introduzione di procedimenti amministrativi demandati alla Giunta provinciale (a partire dal 2003 oggi è in vigore il sesto aggiornamento della cartografia).


Dossier: il Trentino

Nella nuova Carta l'individuazione delle aree a elevata pericolosità idrogeologica è stata completata con la perimetrazione delle aree a controllo idrogeologico nonché con gli elementi di tutela delle acque sotterranee e di valutazione del rischio sismico. Come stabilito dall'articolo 2 delle norme di attuazione della Variante 2000 al PUP le previsioni contenute nella Carta di sintesi geologica sostituiscono ogni corrispondente disposizione tecnica cartografica e normativa contenuta in tutti gli strumenti urbanistici vigenti e ad essa deve essere fatto preliminare riferimento per la verifica di tutte le richieste di trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio. I piani regolatori generali sono quindi approvati dalla Giunta provinciale sulla base della verifica istruttoria rispetto alla Carta di sintesi geologica provinciale e i Comuni sono tenuti a osservare i contenuti della Carta nell'adozione dei piani urbanistici e nel rilascio dei titoli edilizi. Se il progressivo aggiornamento della Carta di sintesi si è dimostrato un importante lavoro di verifica e omogeneizzazione delle indicazioni desunte dagli studi idrogeologici compiuti o valutati dalle strutture provinciali, essa ha richiesto anche un vasto lavoro di confronto tra i servizi provinciali competenti – corrispondenti oggi a Servizio Geologico per i fenomeni franosi di versante, Servizio Bacini montani per i fenomeni torrentizi e fluviali, Servizio Prevenzione rischi per i fenomeni valanghivi), le Amministrazioni comunali e gli enti direttamente interessati come, almeno fino all'approvazione del PGUAP, l'Autorità di bacino del fiume Adige. Proprio l'elaborazione del Piano generale di utilizzazione delle acque pubbliche (PGUAP), approvato con d.P.R. 15 febbraio 2006, ha introdotto ulteriori elementi, contribuendo a completare il quadro di riferimento. Il Piano generale, finalizzato al governo funzionalmente unitario dei bacini idrografici di rilievo nazionale nei quali ricade il territorio provinciale, ha valenza di piano di bacino ai sensi della l. n. 183 del 1989 e ha inoltre il compito della pianificazione delle misure per la difesa del suolo. Il PGUAP ha quindi definito e perimetrato le aree soggette a rischio idrogeologico attraverso la sovrapposizione tra i livelli di pericolosità della Carta di sintesi geologica con le previsioni urbanistiche derivanti dalla carta dell'uso del suolo pianificato, realizzata dal Servizio Urbanistica e tutela del paesaggio sulla base dei PRG approvati. Riguardo alla tutela dal rischio idrogeologico il Piano ha introdotto le aree a rischio idrogeologico, distinguendo quelle a rischio molto elevato (R4), elevato (R3), medie e moderato (R2 e R1), disponendo all'articolo 2 delle sue norme di attuazione che il PGUAP ha effetto immediato e prevalente, qualora più restrittivo, rispetto ai corrispondenti vincoli contenuti in piani provinciali compreso il PUP. L'entrata in vigore di queste disposizioni ha determinato l'articolazione delle verifiche idrogeologiche rispetto a tutti gli interventi di trasformazione del territorio su due strumenti di pianificazione (PUP e PGUAP). Una serie di elementi messi a punto dall'Amministrazione provinciale nella gestione dei due strumenti (PUP e Piano generale) ha in ogni caso contribuito sotto il profilo metodologico e organizzativo a semplificare il quadro degli interventi ammessi e ad accrescere una cultura della prevenzione: - sono stati definiti gli interventi edilizi non rilevanti ai fini del rischio idrogeologico;

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- la valutazione delle nuove previsioni urbanistiche è stata subordinata al parere di una conferenza di servizi, composta dalle strutture provinciali competenti in materia di pericolo, sulla base di un documento – allegato al piano stesso – comparativo dei livelli di rischio idrogeologico determinati dalle nuove previsioni urbanistiche rispetto a quelle vigenti; - in particolare per le previsioni che determinano rischio idrogeologico elavato (R3) è stato rinviato a uno specifico studio di compatibilità l'approfondimento delle condizioni di rischio e la definizione degli accorgimenti costruttivi di carattere strutturale, localizzativo e architettonico per la realizzazione degli interventi, responsabilizzando sul tema i professionisti incaricati dello studio che devono poter attestare per gli stessi interventi un grado di rischio non superiore a medio (R2). Rispetto ai distinti strumenti vigenti di disciplina del pericolo e del rischio, il nuovo Piano urbanistico provinciale, approvato con l.p. 27 maggio 2008, n. 5, ha introdotto la Carta di sintesi della pericolosità, quale strumento di unificazione e armonizzazione delle diverse discipline tecniche volte alla classificazione dell'instabilità territoriale, mirando a fornire un quadro di riferimento organico e attendibile per le attività di pianificazione urbanistica ma anche di prevenzione dei rischi. La disciplina dettata dalle norme del nuovo PUP per la Carta di sintesi della pericolosità ne prevede l'approvazione in capo alla Giunta provinciale, sulla base delle carte delle pericolosità riferite alle diverse tipologie di fenomeni, e conferma gli avanzamenti progressivi per assicurarne flessibilità e continuo aggiornamento. Per gli interventi ammessi nelle aree con penalità elevate e con penalità medie lo studio di compatibilità rimane lo strumento di riferimento per analizzare dettagliatamente le condizioni di pericolo e definire le condizioni per la realizzazione degli interventi stessi e quelle per la loro utilizzazione, al fine di tutelare l'incolumità delle persone e ridurre la vulnerabilità dei beni. Il lavoro di elaborazione delle carte della pericolosità è stato avviato dalla Giunta provinciale nel 2006, tenendo conto delle diverse tipologie di pericoli pericoli idrogeologici (processi fluviali, processi torrentizi, movimenti di versante, valanghe) e altri pericoli (sismicità, presenza di ordigni bellici inesplosi) – e individuando di conseguenza le aree soggette alle diverse penalità urbanistiche. Il lavoro, dopo la fase di sperimentazione condotta sul territorio del Comune di Canazei, in quanto significativo per la compresenza di tutte le tipologie di pericolo idrogeologico, e sul territorio del Comune di Prezzo, in quanto interessato da un rilevante fenomeno franoso, è ora in via di elaborazione. Come previsto dalle norme del nuovo PUP la Carta di sintesi della pericolosità potrà essere approvata anche per stralci territoriali e fino alla sua entrata in vigore continuano ad avere effetto le disposizioni della Carta di sintesi geologica e del PGUAP.


Evoluzione e stabilità del territorio trentino: alcuni spunti dalla geologia di Claudio Valle*

* Dottore Geologo libero professionista

Nella relazione illustrativa che accompagna il nuovo PUP si coglie il senso di un auspicio: “Il disegno del nuovo piano urbanistico provinciale trae origine da una visione del Trentino intesa come configurazione ambientale e paesaggistica, sociale e produttiva verso cui il sistema territoriale intende evolvere, per dare realizzazione alle aspirazioni di lungo termine della comunità, tenuto conto delle potenzialità del sistema locale e degli scenari evolutivi in cui il sistema è inserito”. Un sistema ambientale e sociale in equilibrio che si centra su un importante e imprescindibile presupposto: la stabilità del proprio territorio. L'approccio urbanistico sostenibile all'utilizzo del territorio deve essere necessariamente supportato da una conoscenza specifica dei fattori che regolano le forme del suolo che noi oggi osserviamo, viviamo e coinvolgiamo nella strutturazione del territorio. Questo sforzo è necessario per poter riconoscere e governare i fattori che regolano l'evoluzione di un paesaggio; diventa importante saper collocare correttamente nel proprio contesto evolutivo le forme che oggi osserviamo per prevenire situazioni di precarietà sul lungo termine. Su questi presupposti di conoscenza deve basarsi il rapporto uomo/ambiente nel momento delle scelte della destinazione d'uso di un territorio. Lo sviluppo di un tessuto produttivo e infrastrutturale si basa sulla capacità di governo del proprio territorio e sulla capacità di prevenire e affrontare eventuali criticità specifiche, di valutarne almeno le possibilità di mitigazione se non proprio di risanamento definitivo. Lo sforzo messo in campo dall'Amministrazione Centrale, attraverso i propri Servizi dedicati (Geologico, Forestale, Bacini Montani) si muove lungo questa linea di principio in modo ben articolato; tuttavia si ritiene necessario investire energie in favore della maturazione di una sensibilità anche alla scala del singolo cittadino, favorendo la riappropriazione di elementi di riconoscimento dei fattori ambientali determinanti, che una volta era parte del bagaglio di conoscenze, pur elementari e a volte anche contraddittorie, di una società contadina, da cui noi tutti deriviamo. È quindi necessario appropriarsi di questa sensibilità sui processi naturali per una migliore partecipazione e condivisione delle scelte a cui la collettività è chiamata. Di seguito si vuole pertanto proporre una veloce carrellata di elementi di conoscenza di base circa i fattori cardine che condizionano l'evoluzione di un territorio. Innanzitutto va ricordato che l'ultimo grande aggiornamento della superficie topografica avvenne già all'indomani dello scioglimento della calotta glaciale wurmiana con il progressivo ritiro delle lingue glaciali dai fondovalle. Nella storia della Terra

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queste occasioni si sono ripetute da 2 miliardi di anni a questa parte ma le più studiate sono sicuramente le glaciazioni quaternarie a partire quindi da 1,8Ml di anni fa con la glaciazione di Gunz, seguita da quelle di Mindel e Riss fino all'ultima: il Wurm che ebbe inizio all'incirca 75.000 BP (before present). La configurazione attuale dei nostri solchi vallivi non ha tuttavia una paternità solamente glaciale bensì soprattutto fluviale in quanto è stato riconosciuto come al di sotto dei fondi vallivi attuali, colmati dai depositi terrigeni postglaciali ed interglaciali, il substrato si collochi a profondità di diverse centinaia di metri e ben al di sotto del livello del mare. Ciò avvenne, per il settore meridionale della catena Alpina, a causa di un rapido aumento dell'attività erosiva fluviale causata dal drastico abbassamento del livello del mare nel Mediterraneo avvenuto tra i 6 e i 5 milioni di anni fa (periodo Messiniano); la causa fu una variazione di quota della soglia dello Stretto di Gibilterra che determinò l'interruzione del collegamento tra Oceano Atlantico e Mar Mediterraneo. All'azione fluviale viene quindi riconosciuta la paternità dell'approfondimento dei solchi vallivi mentre il mondo della glaciologia concorda sul riconoscere ai ghiacciai l'azione di rettifica ed ampliamento del solco preesistente adeguandolo, in quanto a sezione, alle necessità di portata. Il territorio subisce quindi continuamente una sorta di intaglio progressivo da parte degli agenti esogeni all'indomani delle ripetute e periodiche ricoperture glaciali che nell'ultimo glaciale nella Val d'Adige vedeva la quota del ghiacciaio a 2000 m s.l.m. presso Bolzano e a circa 1650 metri s.l.m. a Trento. E' evidente che a tale azione di intaglio, detensionamento e riconfinamento ciclico dei fianchi vallivi, si siano manifestate risposte degli ammassi rocciosi, che li caratterizzano, alle scale più diverse. Si può comprendere quindi come il paesaggio subisca, all'indomani dello scioglimento dei ghiacci, le conseguenze della rimonta di tensioni che impegnano le “risorse” fisicomeccaniche localmente disponibili. Ecco quindi la nascita locale di stati di criticità correlabili alle condizioni di sforzo in relazione alle caratteristiche stratigrafiche e strutturali locali. Per migliore comprensione e rimanendo nella Valle dell'Adige, citeremo il caso eclatante della Marzola che, a fronte della presenza di interfacce deboli nell'ambito di una generale giacitura degli strati a frana appoggio verso la Valle dell'Adige, subisce una deformazione importante lungo l'intero fianco orografico che nella dislocazione viene recapitato


Dossier: il Trentino

direttamente nel solco Atesino. Allo stesso tempo l'elevata deformazione dello stesso versante ha determinato una modifica delle proprie condizioni di porosità, all'interno di Formazioni fragili carbonatiche, che lo hanno quindi predisposto all'infiltrazione delle acque metoriche, ridistribuite poi più a valle (Povo, Villazzano, ecc) laddove trovano “sostegno” nei livelli permo-triassici meno permeabili. Riusciamo quindi ad apprezzare dei rapporti causa/effetto tra glacialismo, tensioni correlate, litologia ed idrogeologia. Possiamo così incominciare a comprendere come il paesaggio che noi osserviamo sia quindi il risultato in divenire della sovrapposizione temporale di più fattori, la cui azione morfogenetica è correlata, oltre che alla rispettiva magnitudo, soprattutto ai tempi di ritorno. Il perdurare delle forme è quindi solo un fatto puramente relativo all'ampiezza della finestra temporale d'osservazione. Potessimo quindi rivedere accelerata la registrazione dell'evoluzione del paesaggio negli ultimi 10.000 anni, cioè all'indomani dello scioglimento dei ghiacci, osserveremo una ripresa della vegetazione che progressivamente popola e stabilizza il suolo lungo i fianchi vallivi, accompagnata dal veloce e progressivo colmamento alluvionale e gravitativo del solco glaciale (grandi frane della Marzola, Lavini di Marco e Marocche di Dro). A questi colmamenti naturali dei solchi esarativi glaciali (tassi di sedimentazione iniziali elevati a 0,09 e 0,22m per anno, risalenti a10.000 BP, fino ai più ridotti 2-3mm/anno fino al 3000 BP), che hanno portato alla quota attuale della Valle dell'Adige, si associano i prodotti dell'azione di trasporto e accumulo dei corsi d'acqua tributari che si interdigitano in un rapporto di coalescenza con i primi. Prendono forma quindi le estese conoidi che a seconda del rapporto tra i relativi tassi di sedimentazione/aggradazione prevalgono più o meno sulla quota del fondovalle. Nella comprensione del mutuo rapporto tra dinamiche alluvionali ed espansioni

dei corpi deiettivi laterali sorge tuttavia un interrogativo: ma perché i conoidi non sono tutti parimenti estesi e potenti? Il motivo va ricercato nei fattori predisponenti l'esistenza di importanti disponibilità di materiali da trasportare a valle che risultano sempre, e a loro volta, correlate a fattori geologici-geomorfologici specifici che ne determinano la condizione favorevole. Rimanendo nella Valle dell'Adige è questo il caso del conoide di Roverè della Luna, del conoide di Romagnano, del conoide di Calliano, mentre spostandosi in Valsugana troveremo i conoidi di Levico e di Susà, di Pergine, in questo caso piuttosto simili ai conoidi della Val Venosta per tutta una serie di analogie sotto il profilo litostratigrafico e geocinematico. Necessità editoriali impediscono di entrare nella descrizione dell'interessante universo dei fattori predisponenti e scatenanti le colate detritiche, riconosciute oggi tra i principali costruttori delle conoidi montane. È quindi evidente che il paesaggio si evolve costantemente seguendo un percorso dove si individuano momenti di accelerazione al prevalere di un fattore morfogenetico sugli altri. Data ovviamente per costante la forza di gravità (nella nostra regione i transienti di accelerazione sismica generalmente di basso grado e con tempi di ritorno elevati assumono scarso o nullo ruolo morfogenetico), cui peraltro rimangono esposte perennemente tutte le masse rocciose, l'unica importante variabile in gioco, glaciazioni a parte che si collocano ben al di fuori del tempo di ritorno centenario, rimane la distribuzione quantitativa e temporale dell'acqua meteorica recapitata al suolo. Gli apporti elevati possono innescare calamità che tutti conosciamo, ma la domanda che sorge è se in passato sia sempre stato così, o se esse siano una conseguenza più direttamente collegata alle

Il massiccio della Vigolana - Foto di Matteo Visintainer - www.geo360.it

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modalità di utilizzo del suolo. E' indubbio che, come successe nel 1966, 485mm di pioggia caduta al suolo in due giorni abbiano rappresentato una eccezionalità e il risultato furono 20 morti e danni per 68Mld dell'epoca! Ma nel 1822 a fronte di un evento simile i morti furono 22 e in entrambi i casi i danni maggiori non furono provocati dalle frane ma dalle rotture d'argine a fronte della imponente portata. Nella primavera del 1967, esattamente il 7 e 8 aprile, si tenne a Trento la “Conferenza dell'Adige” alla quale parteciparono i maggiori esperti di idraulica, di forestazione, di sistemazioni idraulico-forestali e di edilizia civile allo scopo di trovare le migliori modalità per “addomesticare” i fiumi e i torrenti per una conformazione stabile del territorio nel lungo periodo. L'ing. Giovanni Padovan, nel suo intervento, ricordava come “in sostanza la piena del novembre 1966 ha fatto emergere le precarie condizioni dei corsi torrentizi del bacino dell'Adige, per i quali si impone una radicale sistemazione, oltre ad ogni altro intervento diretto a consolidare il suolo”. Da allora in regione è stato fatto sicuramente molto da parte dei Servizi Bacini Montani sia della Pat che della Provincia di Bolzano (per quanto attiene l'asta dell'Adige), ma il territorio presenta attualmente ancora importanti criticità? Questo interrogativo, all'indomani del 1966 ma soprattutto all'indomani della tragedia di Stava (19 luglio 1985 Val di Fiemme) ha spinto gli Amministratori alla attuazione di strumenti di individuazione e analisi per elaborare delle mappe della pericolosità del territorio che permettono da un lato di stabilire una priorità degli interventi sistematori e dall'altro di individuare possibilità di antropizzazione del territorio più sostenibili dal punto di vista geologico. La centralità del governo del deflusso superficiale nella gestione del territorio viene riconosciuta dalla Pat con il DPR 15.02.2006 (Piano Generale di Utilizzazione delle Acque Pubbliche PGUAP) che all'Art.22 , comma 1 recita: “Le opere di sistemazione e di manutenzione dei corsi d'acqua e dei versanti sono finalizzate alla prevenzione degli effetti indotti dal dissesto idrogeologico e dalle esondazioni. Esse comprendono tutti gli interventi sia estensivi che intensivi volti al consolidamento ed alla protezione dei suoli, al miglioramento delle funzioni protettive dei boschi e dei pascoli, nonché alla conformazione degli alvei e delle loro pertinenze.” Traspare evidente quindi la volontà di presidiare a 360° il territorio ma nella lettura del Piano si percepisce la consapevolezza che il dissesto idrogeologico del territorio può anche non essere completamente risolto di fronte ad eventi con tempi di ritorno superiori ai 100-200 anni e laddove il territorio presenta, per caratteristiche intrinseche, maggiore vocazione al dissesto. Al riguardo osserveremo come di tutto il territorio provinciale sicuramente la zona centroorientale sia quella più fragile, sicuramente per favorevoli condizioni orografiche esposte ai flussi umidi sciroccali ma soprattutto per le litologie presenti (rocce metamorfiche caratterizzate da coperture eluvio-colluviali a bassa permeabilità) nonché per le abbondanti coperture moreniche che caratterizzano in particolare il territorio afferente i torrenti tributari in sinistra orografica dell'Avisio. La capacità erosiva del rio Brusago, tra i tanti che solcano la zona dei porfidi, proprio per la portata solida che lo caratterizza nei

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momenti critici, lo annovera tra uno dei torrenti più pericolosi dell'intera provincia. Considerati quindi fattori quali brevità e ripidità dell'asta torrentizia, ampia disponibilità di materiali sciolti all'interno del bacino afferente, la variazione del regime pluviometrico, quale si sta osservando dal 2000-2001 in poi, complica ulteriormente le possibilità di gestione in quanto, all'interno di un vasto territorio “predisposto” al dissesto, si possono verificare situazioni di apporto pluviometrico critico e repentino estremamente localizzate. L'ultima recente prossimità alla modifica su larga scala dell'interfaccia ambientale accadde nell'autunno del 2000 dove si registrarono 1470mm di pioggia in zona Trento nord, ma più in generale nell'Italia nordoccidentale dove si registrarono picchi di piovosità dell'ordine dei 600mm in 60h tra il 13 e il 16 ottobre 2000. Dopo quegli anni il 2010 ha rappresentato un altro momento di seria criticità, anche se più localizzata. Ad accusarne le maggiori conseguenze fu appunto Campolongo in valle di Pinè durante la crisi meteorologica del 13÷16 agosto in cui in sei ore, in un ambito territorialmente ristretto, si registrò un quantitativo di pioggia che cade mediamente in più di un mese ed in tre giorni quello che mediamente cade in due mesi. L'evento si manifestò con piovosità di intensità superiore a quella contemplata dalla curva di possibilità pluviometrica con T=200anni; la capacità di dilavamento del suolo da parte del flusso incanalato determinò asporti lineari dell'intera coltre terrigena soprastante il substrato impermeabile costituito da porfidi quarziferi con il risultato di 40.000mc di materiale recapitato a valle lungo il conoide che ospita la loc. Campolongo con le conseguenze ormai note. Difronte a tali evenienze, sicuramente eccezionali, la risposta non sta ovviamente solo nell'adeguamento dell'antropizzazione ed urbanizzazione del territorio con l'occhio rivolto al condizionamento della corrivazione su larga scala, ma anche alla manutenzione continua del territorio e del suo presidio fino in quota. Tanto è stato fatto in questo senso e la conferma è che il territorio complessivamente “sopporta” meglio del passato condizioni di criticità pluviometrica ma a fronte del cambiamento (transitorio o definitivo?) del regime pluviometrico intercorso dal 2000 in poi il sistema ambientale reagisce adattando inevitabilmente la forma della propria interfaccia. L'azione consapevole che attualmente registriamo generalmente sul nostro territorio può quindi senz'altro mitigarne gli effetti ed intervenire ancora efficacemente nel controllo delle fenomenologie predisponenti la criticità. Tuttavia il sistema “....sociale e produttivo verso cui il sistema territoriale intende evolvere......”deve necessariamente adeguare la propria politica di espansione all'incidenza dei fattori naturali che determinano la “....configurazione ambientale e paesaggistica,..” secondo un concetto di “sostenibilità ambientale delle scelte” per una configurazione stabile del sistema, che però riconosca ed accetti l'esistenza del “limite”.


Dossier: il Trentino

Le mappe del Rischio e del Pericolo idrogeologico da fenomeni fluviali e torrentizi di Stefano Fait*

Fig.1: Esempio di mappa della “Carta di Sintesi Geologica" (sopra)ed esempio di una mappa del rischio del Piano Generale di Utilizzazione delle Acque Pubbliche (sotto)

Introduzione L'acqua nelle regioni montane da sempre è stata risorsa e minaccia: le alluvioni e le frane hanno determinato lo sviluppo delle Alpi. Con l'aumento della complessità della società, dell'esigenza di sicurezza dei collegamenti e con l'evidenza dei cambiamenti climatici che costituiscono un forte elemento di insicurezza e potenziale minaccia nel prossimo futuro, il tema ha acquisito ulteriore importanza. Con questo contributo si vuole rappresentare e condividere le esperienze locali evidenziando quindi le difficoltà, le criticità e le soluzioni individuate in provincia di Trento per la pianificazione delle aree di pericolo. Evoluzione degli strumenti di pianificazione per la gestione del rischio e del pericolo Per quanto riguarda la Provincia Autonoma di Trento è importante evidenziare come questi argomenti siano fonte di discussione ed applicazione fin dalla metà degli anni '80. È infatti nel 1987 che la provincia si è dotata di uno strumento importante per la gestione del territorio, la Carta di Sintesi Geologica, a supporto degli strumenti di pianificazione urbanistica (sia in termini di indirizzo che prescrittivi). Tale cartografia identifica sul territorio, classificandolo, le principali fonti di pericolo idrogeologico. A questo strumento si è aggiunto nel 2006 il Piano Generale di Utilizzazione delle Acque Pubbliche che corrisponde ed equivale ad un piano di bacino di livello nazionale. Questo piano ha individuato sul territorio provinciale il rischio idrogeologico e le sue previsioni e prescrizioni costituiscono direttive per gli strumenti di pianificazione territoriale (P.U.P., P.R.G.,ecc.).

*Servizio Bacini montani Provincia Autonoma di Trento

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Attualmente le due Carte Normative (Carta di Sintesi Geologica e Carta del Rischio – PGUAP) coesistono e delle due va applicata sempre quella più restrittiva. Ogni azione di trasformazione urbanistica ed edilizia deve essere quindi confrontata con entrambe gli strumenti. E' importante evidenziare come dall'esperienza nell'utilizzo di queste due carte, ai fini del controllo urbanistico, quella più diretta e che risulta lo strumento più idoneo è certamente la carta di Sintesi Geologica in quanto rappresenta esplicitamente i pericoli sul territorio. Diversamente la Carta del Rischio – PGUAP, che si configura come una carta derivata dalla sovrapposizione del pericolo con la carta di uso del suolo, è spesso di difficile lettura perché deve essere sempre interpretata.


Fig.2: Nuovo schema per definire le aree di pericolosità (a sinistra) e un esempio di mappa di pericolosità (a destra)

Non sempre riesce ad evidenziare appropriatamente il grado di rischio in quanto questo è legato alle diverse definizioni di uso del suolo con cui vengono costruite le mappe. In ogni caso la definizione del rischio si è dimostrata uno strumento utile nella pianificazione degli interventi di difesa e nella gestione delle emergenze di protezione civile. Vista l'esperienza nell'utilizzo di questi due strumenti, la Provincia Autonoma di Trento ha infine proposto ed introdotto, con il Piano Urbanistico Provinciale 2008 (Legge provinciale 5/2008) una revisione dello schema concettuale individuando nella nuova Carta della Pericolosità (CaP), lo strumento più idoneo per guidare la pianificazione urbanistica. Carta della pericolosità (Cap) Con deliberazione della Giunta provinciale n. 2759 di data 22 dicembre 2006 relativa alle “Disposizioni tecniche e organizzative per la redazione e l'aggiornamento della Carta del Pericolo”, sono stati definiti i criteri generali ed in particolare sono state attribuite e suddivise le competenze dei diversi Servizi provinciali coinvolti nel progetto. Il Servizio Bacini montani è stato individuato quale amministrazione competente per gli aspetti legati a fenomeni torrentizi e fluviali che possono essere così schematizzati: 1 - colate detritiche e colate di fango; 2 - piene iperconcentrate; 3 - piene con trasporto solido al fondo; 4 - frane e fenomeni erosivi direttamente collegati al reticolo; 5 - piene liquide. Come si comprende dallo schema riportato in figura 2 , l'attività di redazione della Carta del Pericolo ha certamente molteplici finalità: da una parte il controllo urbanistico e dall'altra una base per la pianificazione degli interventi di messa in sicurezza del territorio nonché la gestione delle emergenze negli interventi di protezione civile. A partire dall'anno 2006, sono stati eseguiti specifici studi idrogeologici, sedimentologici ed idraulici di bacini idrografici e di tratti di corsi d'acqua al fine di definire e perimetrare le classi di pericolo relative a

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situazioni ritenute particolarmente critiche. All'interno di queste attività rientra anche il rilievo topografico di tutti i corsi d'acqua di fondo valle per un estensione complessiva pari a circa 400 km. Contestualmente, al fine di stabilire un approccio metodologico omogeneo sul territorio, è stata avviata un'attività di studio e consulenza con l'Università degli Studi di Trento - Centro Universitario per la Difesa Idrogeologica dell'Ambiente Montano (CUDAM), finalizzata alla redazione di Linee Guida specifiche per lo studio e la redazione della cartografia del pericolo(cfr. figura 4 ). Queste attività hanno portato all'organizzazione di un insieme di strumenti e modelli di analisi e simulazione. Inoltre, in questa collaborazione è stata data particolare rilevanza alla formazione nell'utilizzo di questi strumenti definendo un ciclo di corsi, sia per il personale interno alla Provincia che per i professionisti esterni. Al fine di ottimizzare le risorse impiegate per la realizzazione della carta della pericolosità ed a fronte delle complessità di analisi necessarie alla classificazione e perimetrazione della dei fenomeni torrentizi e fluviali, ci si è dotati di strumenti interni per la definizione delle priorità di indagine e parallelamente del grado di approfondimento delle stesse. La definizione di tali priorità viene fatta sulla base della combinazione tra indicatori della pericolosità ed indicatori del danno potenziale (valutato sulla base del valore di uso del suolo). Tali procedure si definiscono direttamente nell'analisi preliminare degli studi e sono propedeutiche per la definizione dei passi successivi. È in questo contesto che il Servizio ha attivato una collaborazione con l'Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica del Centro Nazionale delle Ricerche di Padova (CNR - IRPI) per la definizione ed individuazione della pericolosità sintetica dei conoidi. Gli indicatori sintetici della pericolosità dei conoidi, relativamente ai fenomeni da colata detritica, sono stati derivati dal CNR nel corso degli anni 2006-2009 secondo una procedura che prevede prima la classificazione dei tratti di reticolo idrografico in funzione della loro propensione all'innesco, propagazione, rallentamento od arresto


Dossier: il Trentino

Fig.3: Diverse tipologia dei fenomeni analizzati nella Carta del Pericolo per gli aspetti torrentizi e fluviali

di colate di detrito e, successivamente, una stima del grado di impatto della colata sul conoide. Nell'ambito di questo progetto sono stati individuati circa 2500 conoidi dei quali circa il 77% classificati come ad alta pericolosità, il 4% a media ed il 19% a bassa pericolosità. Sulla base di questi dati sono stati poi individuati degli indicatori sintetici (su base geografica) di supporto alla pianificazione delle attività di approfondimento delle analisi della pericolosità da fenomeni torrentizi e delle attività di mitigazione del pericolo. Tali strumenti danno delle indicazioni sia sulla priorità di indagine (essenzialmente legata al pericolo) sia sul grado di approfondimento (legato sostanzialmente al danno potenziale). Il danno potenziale è derivato dalla Carta del Valore di uso del suolo del Piano Generale della Acque Pubbliche (PGUAP) dove viene valutato il valore delle principali categorie urbanistiche che compongono l'uso del suolo pianificato (cfr. figura 5) Un esempio di indicatore di rischio sintetico è quello

derivato dalla selezione dei conoidi con almeno 1.000 m² di uso del suolo classificato come "Aree residenziali", "Campeggi" o "Aree produttive". Tramite questa semplice analisi si sono individuati 274 conoidi ad alta “pericolosità sintetica”, 46 a media e 163 a bassa. Un altro elemento indispensabile da considerare nella valutazione delle priorità di indagine e di intervento è rappresentato dalle opere di sistemazione esistenti. Particolarmente importante, in questo contesto, è la valutazione della presenza di una o più delle oltre 200 briglie filtranti (e relative piazze di deposito) fino ad oggi realizzate a monte delle situazioni che, dalle analisi approfondite, sono risultate essere più critiche (cfr. figura 6). Una volta definiti i casi da analizzare attraverso la priorità di indagine ed il grado di approfondimento, si procede all'analisi che porta alla definizione ed alla redazione della Carta del pericolo. Ovviamente, dai risultati ottenuti nell'analisi preliminare si può procedere con diversi livelli di approfondimento che sono schematizzati nella figura 7. Un aspetto importante che è emerso dalle applicazioni delle diverse metodologie, più o meno semplificate, è l'analisi finale delle carte (Analisi critica delle mappe). Questo aspetto risulta di fondamentale importanza perché troppo spesso nelle applicazioni ci si fida eccessivamente della modellazione o di procedure automatizzate di analisi

Fig.4: Indice sintetico delle linee guida

ANALISI PRELIMINARE

Elenco di dB, strumenti, sw e procedure Analisi del corso d’acqua Analisi dell’assetto vegetazionale e dell’uso del suolo

Analisi dei dati disponibili Analisi storica degli eventi alluvionali Inquadramento geologico di tutto l’ambito di studio

Determinazione delle priorità di indagine e del grado di approfondimento

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Fig.5: Schema per la valutazione delle priorità di indagine ed il grado di approfondimento

Determinazione delle priorità di indagine e del grado di approfondimento

Metodo speditivo per la determinazione delle priorità e del grado di approfondimento la priorita’ di studio viene quindi definita attraverso l’incrocio tra il pericolo sintetico ed il danno potenziale (valori uso del suolo)

RAZIONALIZZARE ED OTTIMIZZARE IL LAVORO NECESSARIO PER LO STUDIO DI DETTAGLIO DELLE AREE DI PERICOLO Valutazione del pericolo sintetico attraverso l’utilizzo di indicatori

Valutazione del danno potenziale

àt is o l o icr eP

ac tie t n iS

il grado di studio viene definito in funzione del danno potenziale in modo da applicare alle aree a maggior valore di uso del suolo un’analisi dettagliata del pericolo, indipendentemente dalla priorita’ assegnate

Priorità di studio

Grado di studio

Valutazione del rischio potenziale

Valori uso del suolo Danno Potenziale

Fig.6: Conoidi interessati da almeno 1.000 metri quadrati di uso del suolo classificato ad elevato valore (PGUAP) e presenza di briglie filtranti

che da una parte permettono di velocizzare ed approfondire molto bene i vari fenomeni ma dall'altra possono portare anche ad errori consistenti di valutazione. E' evidente infatti, che qualsiasi modello rappresenta una schematizzazione della realtà che porta necessariamente con sé delle semplificazioni. L'analisi finale, quindi, deve tener conto anche di tali incertezze Fig.7: Schema metodologico

ANALISI PRELIMINARE Grado di approfondimento ELEVATO

MEDIO

Analisi di bacino Analisi geologica Analisi idrologica Analisi sedimentologica Analisi Idraulica

Analisi di bacino Analisi geologica semplificata

BASSO

Valutazione critica della pericolosità sintetica

Analisi idrologica e sedimentologica Analisi Idraulica semplificata

Valutazione dell’incertezza Analisi Critica e confronto con le cartografie in vigore (CSG e PGUAP) REDAZIONE CARTA DEL PERICOLO

Per approfondire: -Disposizioni tecniche e organizzative per la redazione e l'aggiornamento della Carta del Pericolo (Deliberazione della Giunta Provinciale n. 2759 di data 22 dicembre 2006) -Approvazione del nuovo piano urbanistico provinciale - Legge provinciale 27 maggio 2008, n. 5 -Linee guida per la redazione della Carta della Pericolosità dei fenomeni fluviali e torrentizi –Università degli Studi di Trento Centro Universitario per la Difesa Idrogeologica dell'Ambiente Montano (CUDAM)

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sia attraverso la valutazione di diversi scenari, il confronto con le cartografie esistenti e le integrazioni di tutti quegli elementi singolari presenti sul territorio (cosiddetti testimoni muti). Con le esperienze fino ad oggi maturate, sì è dimostrato infatti, che l'analisi critica delle mappe può portare ad alcune osservazioni molto importanti che contribuiscono sostanzialmente alla classificazione delle aree di pericolo. L'investimento di risorse che si sta operando per la redazione delle mappe del pericolo è giustificato dal fatto, come sopraddetto, che con ciò si ottengono diversi obiettivi: controllo urbanistico del territorio, pianificazione degli interventi di difesa e gestione delle emergenze negli interventi di protezione civile. Per questo motivo la Carta del Pericolo non può essere considerata solo l'applicazione di vincoli e divieti ma piuttosto un opportunità per rappresentare la sintesi conoscitiva del territorio, finalizzata alla prevenzione dal dissesto idrogeologico. Infine è importante evidenziare come il percorso intrapreso della Provincia Autonoma di Trento, tradotto dall'esperienza di circa 25 anni negli strumenti di gestione del rischio idrogeologico attraverso l'individuazione di approcci integrati che vanno dalla prevenzione alla gestione dell'emergenza, sia generalmente in linea con quanto recentemente indicato dalla direttiva europea 2007/60/CE (Direttiva alluvioni).

-Identificazione preliminare delle aree di pericolo legate a fenomeni torrentizi - l'Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica del Centro Nazionale delle Ricerche di Padova (CNR - IRPI) -Bilancio Sociale 2010 del Servizio Bacini montani - Provincia Autonoma di Trento


La Carta di Sintesi della Pericolosità del Piano Urbanistico Provinciale di Saverio Cocco*

La Carta di Sintesi della Pericolosità (CSP) prevista dagli artt. 14, 15, 16, 17 e 18 del Piano Urbanistico Provinciale (P.U.P.) del 2008 rappresenta una grande evoluzione ed ammodernamento degli strumenti di pianificazione urbanistica della Provincia Autonoma di Trento. Tale cartografia nasce come naturale evoluzione della Carta di Sintesi Geologica del P.U.P. del 1987 e della sua successiva variante 2000 e quindi fa tesoro delle informazioni pregresse affiancandovi però un nuovo lavoro di ricerca e di aggiornamento dei dati che interessano tutte le tematiche contenute nella carta stessa quali gli aspetti di stabilità dei versanti, dei fenomeni fluviali e torrentizi (esondazioni e colate detritiche) e dei fenomeni valanghivi. L'aspetto innovativo della CSP è immediatamente percettibile se si pensa che per la sua realizzazione si è reso necessario riprogettare interamente la Carta Tecnica della provincia (CTP) alla scala 1:10.000 in modo da rendere coerenti le informazioni sulla pericolosità con quelle legate alla morfologia del territorio e descritte dalle curve di livello della CTP. Questo obiettivo è stato raggiunto tramite la realizzazione di un rilievo laser-altimetrico di tutto il territorio provinciale (Progetto LIDAR) da vettore aereo che costituisce un elemento di base comune sia per la CTP Fig. n. 1: Schema generale della struttura della Carta di Sintesi della Pericolosità ed in particolare del livello Fenomeni Idrogeologici.

* Servizio Geologico Provincia autonoma di Trento

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che per tutte le ricerche e le analisi condotte a supporto della CSP. La nuova CTP ha inoltre comportato la necessità di una rielaborazione di tutti i tematismi in essa contenuti quali ad esempio l'idrografia, l'edificato, le sorgenti, la viabilità ecc. e la creazione di tematismi nuovi come ad esempio le opere di difesa. Alcuni tematismi meno importanti ai fini della corretta lettura della CSP non sono oggi ancora aggiornati ma è previsto che questa attività venga svolta nei prossimi anni trasformando, anche la CTP, in uno strumento dinamico da aggiornarsi periodicamente. Tutti i dati sono gestiti in un sistema grafico informatizzato con una precisione intrinseca del dato di 2 m o superiore in modo da renderlo compatibile per una futura interoperabilità con i dati catastali, quando questi saranno aggiornati e corretti. Di fatto si tratta della prima “bozza” di cartografia multiscala per la nostra Amministrazione. Altro aspetto di innovazione della CSP è l'uso totale degli strumenti GIS e Web per la gestione e la pubblicazione dei dati. Questa cartografia è progettata per essere facilmente consultabile anche da un utente poco esperto e dare, al professionista o al tecnico comunale, la possibilità di analizzare in dettaglio tutti i diversi livelli informativi verificando in modo diretto i risultati delle analisi sulla base dei quali è stato definito un certo grado di pericolosità e quindi la classe di penalità di un territorio. I tematismi della CSP sono stati raggruppati in otto livelli principali, ognuno dei quali racchiude un numero, più o meno elevato, di temi tecnici propri delle varie tipologie di fenomeno che generano pericolosità. A titolo di esempio nello schema allegato viene descritto come è articolato il livello dei Fenomeni idrogeologici.

DTM di Mezzocorona

aree sorgenti

Velocità

Sempre a titolo esemplificativo si descrive brevemente la metodologia di lavoro per definire le classi di penalità (vincoli) relative al tema crolli rocciosi. L'analisi parte dal modello digitale del terreno con risoluzione di cella 5x5 m ottenuto da dati LiDAR. In base ad un valore soglia di pendenza del versante viene definita l'area che potenzialmente potrebbe essere origine dei crolli rocciosi (area sorgente) e da questa vengono simulati “n” distacchi di blocchi, di forma e massa prestabilite. Dalle analisi del moto si ottengono le distribuzioni dei parametri velocità, altezza di volo e posizione di ogni blocco e, mediante un'analisi statistica, vengono associati ad ogni cella 5x5 m un valore di velocità, altezza di volo e numero di passaggi di blocchi (frequenza).

Frequenza

Nei disegni che seguono sono rappresentate alcune immagini raster che illustrano quanto sopra descritto.

Altezza

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Dossier: il Trentino

Sulla base dei dati ottenuti con le simulazioni, definendo dei valori soglia per ogni parametro, si determina il grado di pericolosità, cella per cella, di tutto il territorio. Ad esempio quando la velocità massima è > di 35 m/s o l'altezza di volo massima è >o = a 4 m o il rapporto tra il numero di passaggi ed il numero di lanci è > o = a 20 la singola area viene classificata ad elevata pericolosità da crolli rocciosi e quindi avrà nella CSP la classificazione: area con penalità elevate (art. 15 delle norme di attuazione del P.U.P.). Al termine dei lavori di analisi si sovrappongono le mappe relative ad ogni singolo tema e con un lavoro di sintesi si producono gli otto livelli che costituiscono di fatto la CSP.

Fig. n.2: Sovrapposizione dei perimetri delle aree a diversa penalità del tema crolli rocciosi della CSP sulla Carta di Sintesi Geologica in vigore. In rosso, blu e giallo rispettivamente i perimetri delle aree con penalità elevate (art. 15), medie (art. 16) e basse (art. 17)

La CSP costituirà uno strumento di indirizzo per i pianificatori che consentirà di garantire concreta fattibilità agli interventi di trasformazione urbanistica ed edilizia senza mettere in pericolo la sicurezza delle persone e dei beni. Deriva dalle mappe sulla pericolosità che rappresentano una moderna fotografia del nostro territorio dal punto di vista geologico, morfologico, idraulico, valanghivo, che utilizza una base topografica (CTP) di recente costruzione e soprattutto coerente con l'attuale assetto morfologico del nostro territorio. La CSP rappresenta uno strumento urbanistico di semplificazione del regime vincolistico in vigore (CSG e Piano Generale di Utilizzazione delle Acque Pubbliche

(PGUAP)). La legge urbanistica provinciale stabilisce che la CSP sostituirà la CSG e farà cessare l'applicazione delle disposizioni del PGUAP in materia di uso del suolo. Gli utilizzatori, al contrario delle cartografie in vigore, avranno la possibilità di risalire in maniera univoca alla causa dell'esistenza di un determinato vincolo, conoscendo qual è la struttura a cui far riferimento per eventuali approfondimenti. Sia la CTP che la CSP sono strumenti dinamici: possono infatti essere aggiornati sulla base di approfondimenti ed analisi seguendo il corso e l'evoluzione dei fenomeni idrogeologici e delle modificazioni territoriali generate dall'attività antropica.

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Piani Territoriali della Comunità: a che punto sono i lavori di redazione? a cura dei Servizi della Provincia autonoma di Trento Tutte le Comunità hanno avviato il processo di pianificazione e sono attualmente impegnate nell’elaborazione del documento preliminare e nella strutturazione del Tavolo di confronto e consultazione, di cui al comma 2 dell'articolo 22 della l.p. n. 1/2008. In particolare: 1. Comunità territoriale della Valle di Fiemme: è stato attivato, assieme alla Comunità di Primiero e al Comun General de Fascia, un processo di pianificazione d'ambito che ha portato all'istituzione di un gruppo di lavoro nell'ambito del progetto “Dolomiti in Rete”, all'attivazione congiunta di un tavolo d'ambito sulla mobilità turistica e di un progetto di ricerca ed analisi territoriale volto all'elaborazione del documento preliminare. È stato infine sottoposto ai Comuni un questionario al fine della condivisione delle strategie pianificatorie e al recepimento di osservazioni ed indirizzi preliminari. 2. Comunità di Primiero: sulla base di un atto di indirizzo approvato con deliberazione della Comunità è stato attivato il Tavolo di confronto e consultazione per la pianificazione territoriale ed è stato istituito, oltre ad un ufficio di piano, uno staff di pianificazione per la gestione ed il raccordo degli strumenti di pianificazione. Assieme alla Comunità territoriale della Val di Fiemme e al Comun General de Fascia è stato attivato un processo di pianificazione d'ambito che ha portato all'avvio del progetto "Dolomiti in rete" e all'individuazione di altre iniziative per facilitare la condivisione delle strategie di pianificazione, tra cui l'attivazione di un tavolo d'ambito sulla mobilità turistica e di un progetto di ricerca ed analisi territoriale per la stesura delle analisi socio-economiche e l'individuazione delle strategie di sviluppo sostenibili. E' stata inoltre avviata una collaborazione con il Museo civico di Rovereto in materia floristico-vegetazionale. 3. Comunità Valsugana e Tesino: è stata predisposta una bozza di documento preliminare sulla base di un'analisi statistica, socio-economica, turistica ed architettonica del territorio. L'analisi, riassumendo anche i contributi analitici già

realizzati, traccia le linee progettuali e vocazionali verso cui indirizzare l'attività di pianificazione. È stato inoltre elaborato un questionario urbanistico che verrà a breve sottoposto ai Comuni al fine di recepirne osservazioni ed indicazioni per la pianificazione. A breve sarà iniziata la procedura per l'attivazione del Tavolo Territoriale. 4. Comunità Alta Valsugana e Bernstol: la Comunità costituisce il caso di studio per l'elaborazione da parte della Provincia delle linee guida metodologiche per la definizione della Carta del Paesaggio e della Carta di regola delle Comunità. L'attività condotta ha visto la realizzazione di attività di ricerca, analisi, elaborazione cartografica, indagine antropologica e interviste sul territorio. La stesura del documento preliminare è in avanzato stadio di attuazione ed è in corso la definizione dell'organizzazione del Tavolo di confronto e di consultazione territoriale. Sono già stati effettuati una serie di incontri con tutte le amministrazioni comunali e con la cittadinanza al fine del coinvolgimento nel processo di pianificazione. Infine, nell'ambito del progetto “Sviluppo montano sostenibile e partecipato nella Comunità Alta Valsugana e Bernstol”, sono in corso di definizione le azioni volte all'individuazione di una strategia per la gestione del patrimonio paesaggistico-ambientale. Parallelamente la Comunità sta svolgendo attività di supporto tecnico a favore dei comuni per l'elaborazione di PRG e relative varianti. 5. Comunità della Valle di Cembra: sulla base di un atto di indirizzo approvato con deliberazione della Comunità è stata prevista l'attuazione di un percorso di ascolto e confronto finalizzato alla costruzione del documento strategico per lo sviluppo sostenibile della Comunità e per il processo di costruzione del PTC. Al fine del coinvolgimento dei Comuni nel processo di pianificazione è stato elaborato e sottoposto agli stessi un questionario di consultazione al fine di recepirne osservazioni ed indicazioni. 6. Comunità della Val di Non: sulla base di un atto di indirizzo approvato con deliberazione della Comunità è stata

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attivata una procedura di consultazione territoriale dei comuni mediante la distribuzione di un questionario. L'elaborazione del documento preliminare è ad uno stadio avanzato di completamento. Si sta per concludere l'analisi socioeconomica e si stanno abbozzando le analisi tecniche di approfondimento del territorio e del paesaggio secondo i punti cardine del Piano urbanistico provinciale. Un'attenzione particolare è dedicata al tema dell'agricoltura. È in corso di progettazione un corso di formazione con STEP nel quale si cercherà di affrontare le tematiche della pianificazione. Il tavolo territoriale è in fase di costruzione. 7. Comunità della Valle di Sole: è stato elaborato e sottoposto ai comuni un questionario di consultazione sui temi strategici del PTC e sono inoltre stati attivati incontri di informazione e confronto con i Comuni. In seguito a tali incontri i Comuni hanno inviato alla Comunità delle relazioni con i loro suggerimenti in merito. La fase di ricerca territoriale si è concentrata sull'analisi della situazione socio-economica della Comunità, sull'analisi architettonica, sull'analisi preliminare delle peculiarità storico architettoniche e su attività di ricerca storica di carattere artistico e paesaggistico. Il documento preliminare del PTC è completato. È inoltre attivo un progetto con gli uffici tecnici dei comuni mirante alla creazione di un regolamento edilizio comunale unificato. 8. Comunità delle Giudicarie: si è proceduto alla realizzazione dell'analisi socio-economica della Comunità. L'analisi si è caratterizzata con una prima fase di coinvolgimento e ascolto del territorio e degli stakeholders; una seconda fase incentrata sulla raccolta, analisi ed elaborazione dei dati ed una terza fase di strutturazione di un documento di analisi a supporto del documento preliminare al PTC. Sulla base dei risultati dell'analisi è già stata elaborata una prima bozza del documento preliminare. Si è realizzata una prima ipotesi di configurazione della struttura del Tavolo di confronto e consultazione. È inoltre in corso l'elaborazione della cartografia di base del Piano Territoriale di Comunità.


Il territorio della Comunità della Valle dei Laghi - Foto di Matteo Visintainer - www.geo360.it

9. Comunità Alto Garda e Ledro: sulla base di un atto di indirizzo approvato con deliberazione della Comunità si sta procedendo alla definizione del documento preliminare sulla base dell'analisi cartografica e socio-economica del territorio della Comunità. In tal senso è in corso la fase di raccolta ed elaborazione dei dati statistici e cartografici nonché la strutturazione dell'ufficio tecnico di piano. In accordo con le strategie di pianificazione è attivo il progetto di creazione del Parco agricolo del Garda che mira alla tutela del suolo agricolo, alla valorizzazione dei prodotti e della cultura agricola, alla conservazione dell'identità territoriale nonché alla valorizzazione del paesaggio e dell'ambiente anche in un'ottica di offerta turistica. 10. Comunità della Vallagrina: sulla base di un atto di indirizzo l'ufficio di piano della Comunità sta lavorando alla redazione del documento preliminare ed alla predisposizione delle basi tecniche ed operative finalizzate alla restituzione cartografica dei contenuti del piano stesso. È stato predisposto uno stralcio del documento preliminare in materia di mobilità. Parallelamente la Comunità sta svolgendo attività di supporto tecnico a favore dei comuni per l'elaborazione di PRG e relative varianti. 11. Comun General de Fascia: è stato attivato, assieme alla Comunità di Primiero e alla Comunità territoriale della Val di Fiemme, un processo di pianificazione d'ambito che ha portato all'elaborazione di un questionario che è stato sottoposto ai comuni al fine della condivisione delle strategie di pianificazione. La collaborazione intercomunitaria ha portato altresì all'istituzione di un gruppo di lavoro nell'ambito del progetto "Dolomiti in rete" e all'individuazione di altre iniziative, tra cui in

particolare l'attivazione di un tavolo d'ambito sulla mobilità turistica. È inoltre stato attivato un percorso di ricerca sui temi dello sviluppo socio-economico partendo dall'ascolto dei soggetti che rappresentano le realtà più significative della valle sotto il profilo sociale, economico e culturale, al fine dell'elaborazione del documento preliminare. 12. Magnifica Comunità degli Altipiani cimbri: sulla base di un atto di indirizzo approvato con deliberazione della Comunità è stato avviato un progetto di ricercazione territoriale al fine dell'elaborazione del documento preliminare. Tale intervento sottende una ricerca sui temi dello sviluppo socioeconomico della Comunità e mira all'individuazione degli indirizzi strategici della pianificazione territoriale partendo dall'ascolto dei portatori d'interesse individuati sul territorio. La fase di intervista dei soggetti esponenziali e dei portatori di interesse è ultimata ed è in corso la stesura della bozza del documento. 13. Comunità Rotaliana-Königsberg: sulla base di un atto di indirizzo approvato con deliberazione della Comunità è stato avviato un percorso di ricerca e ascolto del territorio finalizzato all'elaborazione del documento preliminare. L'attività di ricerca è in via di realizzazione e ha previsto in una prima fase l'analisi delle documentazioni socio-economiche degli studi già presenti al fine di delineare il quadro conoscitivo territoriale; la realizzazione di interviste qualitative a stakeholders qualificati e amministratori tese ad individuare le criticità e le potenzialità territoriali della Comunità ed infine la redazione del documento finale. I primi risultati delle analisi sono già stati presentati in due

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incontri pubblici. 14. Comunità della Paganella: il processo di pianificazione è stato avviato mediante la consultazione dei Comuni. È stato istituito un gruppo di lavoro, denominato gruppo di coordinamento, al quale partecipano, oltre alla Comunità, membri tecnici, rappresentanti di associazioni o settori economici rilevanti e portatori di interesse attivi sul territorio. Il fine del gruppo di lavoro è l'esame dei dati quali-quantitativi raccolti, l'elaborazione di un'analisi socioeconomica e la definizione di un profilo di Comunità, nonché l'individuazione degli indirizzi strategici dell'attività di pianificazione e la definizione del documento preliminare. 15. Comunità della Valle dei Laghi: sulla base di un atto di indirizzo approvato con deliberazione della Comunità è stato avviato un progetto di ricerca territoriale mirante all'elaborazione del documento preliminare al Piano territoriale. La fase di intervista dei soggetti esponenziali e dei portatori di interesse del territorio è terminata. È stata anche conclusa la stesura del rapporto di ricerca e lo stesso è stato presentato alla Giunta della Comunità e ai Sindaci, nonché alle categorie economiche. Alla fine di questi incontri, ed in base alle indicazioni risultanti dagli stessi, si provvederà alla costituzione del Tavolo di consultazione territoriale. Dal 01.01.2012 tutte le Commissioni per la pianificazione territoriale ed il paesaggio (CPC) risultano istituite e regolarmente operanti. (si ringrazia per la collaborazione Luca Paolazzi. I dati sono aggiornati al marzo 2012.)


L’INIZIATIVA

Inu/Trentino Chi siamo, cosa vogliamo come partecipare COSA È L’INU? L’Istituto Nazionale di Urbanistica è stato fondato nel 1930 per promuovere gli studi edilizi e urbanistici, diffondendo i princìpi della pianificazione. Lo Statuto, approvato con DPR 21.11.1949, definisce l’Inu come “Ente di diritto pubblico ... di alta cultura e di coordinamento tecnico giuridicamente riconosciuto” (art. 1). L’Inu è organizzato come libera associazione di Enti e persone fisiche, senza fini di lucro. In tale forma l’Istituto persegue con costanza nel tempo i propri scopi statutari, eminentemente culturali e scientifici: la ricerca nei diversi campi di interesse dell’urbanistica, l’aggiornamento continuo e il rinnovamento della cultura e delle tecniche urbanistiche, la diffusione di una cultura sociale sui temi della città, del territorio, dell’ambiente e dei beni culturali. Inu aderisce a Cipra (Commissione Internazionale per la Protezione delle Alpi) sia formalmente che con contributi ed elaborazioni di significativo valore disciplinare. L’attività sociale propria dell’Istituto si articola in prevalenza intorno alle sue numerose iniziative nazionali, regionali e locali (rassegne, convegni, seminari e simili), che nell’arco dell’anno, sono diverse decine. A queste si aggiungono le attività finalizzate alle pubblicazioni e alla ricerca, svolta sia in proprio che – anche sotto forma di consulenze – per conto di Enti pubblici. L’Inu ha sede a Roma ed è articolato in diciannove Sezioni regionali. Gli Enti associati sono Regioni, Province, Comuni, Iacp, aziende ed enti economici pubblici e privati, dipartimenti universitari, Ordini e associazioni professionali, imprese, cooperative e loro associazioni, Istituti di ricerca, studi professionali, associazioni culturali. I Soci (Membri effettivi e Soci aderenti) sono docenti e ricercatori, professionisti, dirigenti e funzionari delle pubbliche amministrazioni, studenti. Agli architetti, ingegneri e urbanisti, si affiancano giuristi, economisti, geologi, geografi, agronomi, cartografi, ecologi, archeologi e medici. LA SEZIONE “TRENTINO” Dopo molti anni di “affiliazione” alla sezione della Regione Veneto i membri effettivi presenti in Regione hanno costituito, nel 1985, la sezione Trentino-Alto Adige dell’Istituto, inizialmente suddivisa in due “comitati” per poter rispondere meglio alle specificità normative e legislative delle due provincia autonome. Per questo, nel 1993 i due comitati si costituiscono in sezioni autonome provinciali. L’attività della Sezione Trentino si concentra nella promozione di convegni, seminari di studi, corsi di formazione, studi che abbiano come oggetto le trasformazioni del territorio. La sezione è storicamente dotata di un foglio informativo che nel 2008 è diventata rivista riconosciuta dal tribunale: Sentieri Urbani. COME ASSOCIARSI Per associarsi all’Istituto Nazionale di Urbanistica occorre presentare al Presidente della Sezione di competenza (per residenza o luogo di lavoro) una domanda sottoscritta da due Membri effettivi dell’Istituto e accompagnata da un breve curriculum e dalla ricevuta di pagamento della quota associativa per il primo anno. Il Consiglio direttivo locale approva le domande e le trasmette alla sede nazionale per la ratifica e la registrazione. Per gli Enti pubblici che intendono associarsi è sufficiente inviare alla sede nazionale dell’Istituto la delibera degli organi competenti contenente anche l’impegno di spesa per la prima quota annuale, oppure anche solo una copia della ricevuta del versamento della quota associativa. Informazioni e modelli per iscriversi sono sul sito: http://www.inu.it. Per contatti e ulteriori informazioni: Segreteria INU Sezione Trentina (arch. Elisa Coletti, elisacoletti@libero.it). NUOVI ASSOCIATI 2012 Si sono associati all’Istituto: arch. Luca Eccheli, arch. Bruno Sandri, avv. Andrea Lorenzi, arch. Franco Allocca, dott. Luca Paolazzi. Nuovi enti: Comunità dell’Alta Valsugana e Bernstol, Ordine degli Architetti PPC della provincia di Trento.

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Pianificazione ed ambiente L'incontro dal titolo “Pianificazione ed ambiente - PRG: crescita, risorse territoriali e partecipazione” promosso dalla Sezione Trentino dell'Istituto Nazionale di Urbanistica, in collaborazione con l'Associazione ViviLavis, si è svolto lo scorso 28 febbraio 2012 presso l'auditorium comunale di via Filzi a Lavis. Il tema è stato scelto sia in ragione degli spunti di riflessione che la nuova stagione di pianificazione pone all'attenzione di tecnici, amministratori e cittadini sia sulla scorta dei numerosi contributi raccolti in occasione della pubblicazione del settimo numero della

rivista Sentieri Urbani, dal titolo “Valutazione Ambientale strategica; 20012011”. Questo tema era stato promosso e sostenuto da Fulvio Forrer, che generosamente aveva aderito anche alla serata di Lavis: la sua presenza è stata per molti del pubblico e per i relatori non solo una occasione di incontro ma di affettuoso commiato. Pianificazione, valutazione ambientale e partecipazione sono stati gli argomenti al centro degli interventi. Giovanna Ulrici, presidente di INU Trentino, ha introdotto il tema e Bruno Zanon, professore di Tecnica e pianificazione urbanistica dell'Università di Trento, ha coordinato i numerosi interventi. I contributi di Elisa Coletti, segretario di INU Trentino, del prof. Davide Geneletti e dell'ing. Carlo Detassis, entrambi dell'Università degli studi di Trento, hanno aperto la serata, trattando il tema della valutazione dal punto di vista normativo, disciplinare e applicativo. A fare il quadro di questi interventi e ad introdurre i nuovi strumenti per i nuovi modelli di pianificazione il prof. Bruno Zanon, che a seguire ha raccolto richieste, osservazioni e domande dei presenti in sala. Numerosi e molto interessanti gli spunti di riflessione emersi dalla discussione finale alla quale i presenti hanno preso attivamente parte: vari e preziosi i punti di vista di tecnici, amministratori e cittadini, e unico l'interesse per il tema. La sezione Trentino di INU ringrazia l'Associazione ViviLavis per la preziosa collaborazione e i numerosi partecipanti all'incontro. (e.c.)


Geological landscape Guardare il paesaggio da un’altra prospettiva Sarà visitabile fino al prossimo 10 giugno la mostra «Geological Landscape», allestita presso il Museo delle Scienze di Trento (Via Calepina, 14) e curata dal fotografo naturalista Matteo Visintainer e dal geologo Riccardo Tomasoni. Si tratta di un vero e proprio viaggio alla scoperta del paesaggio geologico del Trentino, patrocinato dal Trento Film festival, realizzato attraverso fotografie panoramiche in grande formato e alta definizione accompagnate da approfondimenti e spunti interpretativi raccontano l'anima geologica e geomorfologica del trentino territorio. «Negli ultimi anni le Scienze della Terra – spiegano i curatori – godono di un rinnovato interesse che si accompagna a un'accresciuta consapevolezza riguardo l'importanza e la vulnerabilità del patrimonio geologico e geomorfologico. Iniziative come l'Anno Internazionale del Pianeta Terra (IYPE) proclamato nel triennio 2007-2009 dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, la nomina del Parco Naturale Adamello Brenta quale componente della Rete Europea e Mondiale UNESCO dei Geoparchi nel 2008 e il riconoscimento delle Dolomiti Patrimonio Mondiale UNESCO nel 2009, hanno contribuito a riaccendere i riflettori sulla componente abiotica e in particolare sulla stretta relazione tra conformazione geologico-geomorfologica e dimensione estetico-paesaggistica del Trentino». La complessa struttura geologica di questa regione alpina si esprime in un'ampia gamma di caratteri litologici, geomorfologici e scenografici, ed è all'origine della grande varietà di scenari naturali che ne contraddistinguono i monti e le vallate. «Nel volgere di pochi chilometri – proseguono Visintainer e Tomasoni – s'incontrano paesaggi molto diversi, eredità di una lunga e affascinante storia cominciata oltre 300 milioni di anni fa, i cui capitoli sono leggibili nelle rocce e nelle morfologie che caratterizzano ogni singolo territorio. Il profilo del rilievo di una montagna, i colori delle sue pareti rocciose, la forma di un solco vallivo, riflettono la natura delle rocce in cui sono modellati e rivelano la successione di eventi geologici che hanno portato alla loro attuale

conformazione. Luoghi dalla geologia diversificata presentano un elevato grado di geodiversità, che di norma si traduce in una evidente complessità dei tratti morfologici del paesaggio naturale; di contro a un basso grado di geodiversità corrisponde una maggiore uniformità di forme e colori». Da questi presupposti nasce l'idea che anima Geological landscape: geologia e paesaggio non sono le facce di una stessa medaglia, ma piuttosto la trama e l'ordito di un'unica straordinaria stoffa. Geological landscape è una mostra fotografica costituita da fotografie panoramiche ad alta risoluzione e da immagini immersive, che ritraggono ambienti di elevata valenza geologica e geomorfologica nonché paesaggistica. Gli autori si servono di una forma inedita di comunicazione per svelare al visitatore la stretta relazione che intercorre tra i motivi morfologici ed estetici propri del paesaggio naturale e la struttura geologica che lo

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contraddistingue, nella convinzione che la bellezza paesaggistica delle montagne può essere apprezzata compiutamente e in modo nuovo se gli aspetti puramente estetici vengono riconosciuti come il risultato dell'antichissima e incessante dinamica della storia del pianeta terra. Geological landscape è una rappresentazione del “paesaggio geologico” del territorio trentino, attraverso una fotografia di dimensioni scenografiche e di elevata qualità tecnica coadiuvata da spunti interpretativi che intendono sottolineare l'anima geologica e geomorfologica che si cela nelle forme del paesaggio naturale. Per realizzare Geological landscape i punti di vista sono stati scelti allo scopo di documentare scenari naturali affascinanti, paleoambienti lontani nel tempo, fenomeni sviluppati lungo un esteso orizzonte cronologico, morfologie che testimoniano in modo eloquente la presenza di motivi strutturali.


Biblioteca dell’ rbanista

Massimo Bastiani (a cura di) “Contratti di fiume”

Scira Menoni e Claudio Margottini (a cura di) “Inside Risk: A Strategy for Sustainable Risk”

Dario Flaccovio editore, Palermo 2011, 58 euro

Springer 2011, 51 euro

Si tratta del primo testo pubblicato in Italia sul tema dei Contratti di Fiume al fine di illustrare un nuovo strumento di pianificazione da utilizzare nei territori fluviali e lacustri. Il volume è diviso in 4 sezioni che illustrano gli strumenti, le prospettive e le esperienze di Contratto di Fiume in Italia e all'estero. La prima parte è dedicata alla “manualistica” e contiene una ampia descrizione di come si possa intervenire in questi contesti da un punto di vista geomorfologico, degli strumenti di pianificazione e del paesaggio, delle componenti ecologico ambientali e della strutturazione dei processi partecipativi. La seconda parte descrive il contesto delle Direttive EU e delle leggi e normative nazionali. Nella terza parte sono illustrati casi di eccellenza in Francia e Belgio e più di 20 esperienze realizzate in 11 regioni d'Italia. Infine la quarta parte è dedicata all'illustrazione della Carta Nazionale dei Contratti di Fiume. I contratti di fiume come strumento di cambiamento possono contribuire a realizzare il passaggio da politiche settoriali a politiche integrate di riqualificazione ecologica, idrogeologica, fruitiva e paesistica del sistema fluviale. Sono un fenomeno che non interessa solo tecnici, esperti e amministratori, ma intere comunità locali che ne diventano promotrici e co-responsabili.

Disastri e danni economici dovuti ad eventi naturali catastrofici sono aumentati nelle decadi più recenti, e alcune comunità del mondo affrontano pericoli naturali quasi quotidianamente. Questo è il motivo per cui la riduzione del rischio di eventi calamitosi può rappresentare un cambiamento epocale. Il Decennio Internazionale delle Nazioni Unite per la Riduzione dei disastri naturali (1990-2000) e il piano Hyogo Framework for Action (2005-2015) – adottato da 168 nazioni compresa l'Italia con il fine di ridurre vittime e danni da disastri naturali - stanno contribuendo alla presa di coscienza e promuovono iniziative a vari livelli. In Europa hanno inoltre contribuito agli sforzi internazionali le pubblicazioni “Un approccio comunitario alla prevenzione dei disastri naturali e prodotti dall'uomo” e “Strategia dell'Unione Europea per sostenere la riduzione del rischio di calamità nei paesi in via di sviluppo”. La conoscenza è un partner chiave e un approccio integrato sul tema del rischio è un prerequisito per la lotta ai disastri naturali. In questo contesto la comunità scientifica europea ha promosso linee di ricerca innovative e tese all'implementazione nelle politiche europee correlate.

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Antonio Pizzoni e Vincenzo Pizzonia “Geologia applicata alla pianificazione urbanistica” Le Penseur 2011, 27 euro Il testo, vista la rilevanza metodologica che assume la VAS, illustra in una prima parte una procedura per fasi che si presta a garantire un processo integrato di pianificazione e valutazione, necessariamente basato su un approccio sistemico e interdisciplinare, e mostra le possibilità operative della geologia nella ricostruzione e rappresentazione dell'identità di un territorio sotto il profilo di pericolosità e rischi geologici e delle georisorse, consolidate nelle pratiche di pianificazione. In una seconda parte applicativa, sviluppa una proposta mirata a mostrare il contributo che la Geologia è chiamata a fornire, adeguandosi alle esigenze del processo integrato di pianificazione e valutazione, a partire dalla fase di costruzione dei quadri conoscitivi e nelle successive fasi di individuazione e selezione degli obiettivi di piano, di confronto delle alternative, di scelta e valutazione di compatibilità e fattibilità delle azioni di piano, di monitoraggio. Infine evidenzia il contributo specifico che la geologia può fornire per dare concretezza e prospettiva di efficacia agli strumenti attuativi della pianificazione e progettazione urbanistica per il governo del territorio


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