Issn: 2036-3109
LA RIVISTA DELLA SEZIONE TRENTINO DELL’ISTITUTO NAZIONALE DI URBANISTICA
15 In questo numero:
Poste Italiane Spa - Spedizione in Abbonamento Postale 70% NE/TN - anno VI - numero 15 - dicembre 2014 - € 10,00
Pratiche territoriali di riconquista agricola
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Urbani LA RIVISTA DELLA SEZIONE TRENTINO DELL’ISTITUTO NAZIONALE DI URBANISTICA
15 Sentieri Urbani rivista quadrimestrale della Sezione Trentino dell'Istituto Nazionale di Urbanistica rivista scientifica riconosciuta dall'Anvur, l'Agenzia per la Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca anno VI - numero 15 dicembre 2014 registrazione presso il Tribunale di Trento n. 1376 del 10.12.2008 Issn 2036-3109 numero monografico “Pratiche territoriali di riconquista agricola” a cura di Alessandro Franceschini, Sergio Paolazzi e Bruno Zanon direttore responsabile Alessandro Franceschini direttore@sentieri-urbani.eu redazione Elisa Coletti, Pietro Degiampietro, Davide Geneletti, Giuliana Spagnolo, Giovanna Ulrici, Bruno Zanon redazione@sentieri-urbani.eu
06 Editoriale
di Bruno Zanon
08 Agricoltura. Genio Naturale. Terzo Paesaggio. Un'intervista a Gilles Clément a cura di Emanuela Schir
12 PRIMA PARTE: LE TEORIE E LE ESPERIENZE 14
Cibo e paesaggio agrario sono nel suolo, ma il suolo non è nel piano di Paolo Pileri
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Coltivare la città contemporanea. Le sfide dei “paesaggi agrourbani multifunzionali” di Viviana Ferrario
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I contadini di montagna e le murature in pietra dei terrazzamenti resistono di Timmi Tillmann e Maruja Salas
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Terrazzamenti e innovazione sociale. Il progetto “Adotta un terrazzamento in Canale di Brenta” di Luca Lodatti
fotografia e sito web Luca Chistè web@sentieri-urbani.eu hanno collaborato a questo numero Luca Bertoldi, Gianfranco Bettega, Viviana Ferrario, Luca Lodatti, Valentina Merlo, Renzo Micheletti, Oscar Piazzi, Paolo Pileri, Chiara Rizzi, Maruja Salas, Emanuela Schir, Timmi Tillmann progetto grafico Progetto & Immagine s.r.l. - Trento concessionaria di pubblicità Publimedia snc via Filippo Serafini, 10 38122 Trento 0461.238913 © Tutti i Diritti sono riservati prezzo di copertina e abbonamenti Una copia € 10 - Abbonamento a 3 numeri € 25 Per abbonarsi a Sentieri Urbani: diffusione@sentieri-urbani.eu I testi e le proposte di pubblicazione che pervengono alla redazione sono presi in considerazione se coerenti con la struttura dei numeri e sono sottoposti al giudizio di lettori indipendenti. contatti www.sentieri-urbani.eu 328.0198754 editore Bi Quattro Editrice via F. Serafini, 10 38122 Trento Istituto Nazionale di Urbanistica Sezione Trentino Via Oss Mazzurana, 54 38122 Trento
40 SECONDA PARTE: IL LABORATORIO TRENTINO 42
I «Richiedenti Terra» e le esperienze degli orti urbani in provincia di Trento di Valentina Merlo
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Smuovere le acque di Luca Bertoldi
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Buone pratiche di ri-uso del territorio. L’esperienza della Val di Cembra di Sergio Paolazzi
58
La plaga agricola lungo l'asta dell'Adige fra Trento e Rovereto di Renzo Micheletti
64
Hic sunt leones. Terzi paesaggi a Primiero di Gianfranco Bettega
70
La riconquista agricola come «agricoltura resistente»: l'esperienza della Val di Non di Oscar Piazzi
74 La recensione di Chiara Rizzi
76 La biblioteca dell’urbanista
E D I T O R I A L E
Occhi sul paesaggio, mani nella terra La società post-industriale nella quale viviamo è segnata da un distacco crescente dalla fonte primaria del nostro sostentamento: la terra. Ci dimentichiamo troppo spesso che dipendiamo dalla natura, in particolare da quella domesticata e trasformata dalle pratiche agricole. Dobbiamo saper guardare quindi al territorio agricolo cogliendone la fragilità e la complessità: è suolo fertile, spazio organizzato per la produzione di cibo e di materie prime, paesaggio ricco di segni e di valori, ambiente ricco di biodiversità prodotta dall'uomo. E' però uno spazio in rapido cambiamento, soggetto a pressioni e a rischi. Il presente numero di Sentieri Urbani è dedicato alle sfide che tali temi pongono alle pratiche di governo del territorio e del paesaggio e che richiedono di sapere tessere nuove relazioni tra abitanti e territorio fertile, ricomponendo filiere produttive e costruendo relazioni di responsabilità. Il numero si apre con una intervista a Gilles Clément, teorico e progettista del paesaggio che si auto-definisce con un termine - “giardiniere” - che intende sottolineare la necessità di “mettere le mani nella terra” per saper costruire gli spazi della biodiversità e della produzione agricola nei quali si possano fondere, dinamicamente, natura e bellezza. La difesa del suolo è il tema centrale del contributo di Paolo Pileri, studioso che da tempo è impegnato in azioni di sensibilizzazione su quello che a stento viene visto come un problema della pianificazione urbanistica: la rapida distruzione dello spazio agricolo. Il rapporto tra città e campagna, tra abitanti e agricoltura viene affrontato da Viviana Ferrario in una prospettiva di multifunzionalità dell'attività agricola, ripercorrendo alcune delle esperienze recenti più innovative. Coltivare 6
può essere una possibilità nuova per molte delle situazioni che caratterizzano la città contemporanea, vale a dire i “vuoti”, le “frange”, i molti spazi per i quali spesso l'unica prospettiva affermata è l'edificazione. La costruzione dei campi, nel corso del tempo, ha richiesto pazienti e impegnative operazioni di ridisegno dell'ambiente originario. Nel caso dei versanti terrazzati il suolo coltivabile è stato ricavato dall'aspra morfologia montana mediante poderose opere di scavo e di costruzione di murature di sostegno, creando dei paesaggi straordinari. L'articolo di Timmi Tillman e Maruja Salas racconta l'impegno dell'Alleanza Internazionale dei Paesaggi Terrazzati per tutelare tali sistemi agrari a rischio di degrado e sparizione. Anche in Italia si sta operando in tale direzione e il contributo di Luca Lodatti racconta l'esperienza di recupero dei terrazzamenti nel Canale del Brenta, dalla quale emerge l'esigenza di una nuova alleanza tra città e campagna fondata su reti di cooperazione e scambio, entro “reti corte”. Infine, alcuni contributi sondano le tendenze e le prospettive per il Trentino, ricostruendo delle vicende e delle esperienze di grande interesse. La domanda crescente di orti urbani è affrontata da Valentina Merlo come una occasione importante di avvicinamento degli abitanti della città all'attività agricola, che sollecita una nuova visione del governo dello spazio urbano basata su nuovi momenti di condivisione e di apprendimento. Dare un senso a strutture urbane ingombranti è la scommessa affrontata da Luca Bertoldi con una proposta progettuale nella quale verifica la possibilità di creare degli orti urbani sulla copertura dell'autosilo di via Petrarca a Trento. La lettura del cambiamento epocale vissuto dal territorio montano viene svolta da Sergio Paolazzi, che descrive le dinamiche della valle di Cembra, e da Gianfranco Bettega, che si occupa del Primiero. Le questioni affrontate sono cruciali, in quanto riguardano il rapporto stesso delle comunità locali con il proprio
spazio di vita, in una fase che vede un distacco crescente con l'ambiente – meglio il suolo - che ha costituito per secoli la fonte di vita e di produzione di materie prime per la popolazione insediata. La scommessa è di stabilire nuovi legami vitali tra abitanti e ambiente montano, attivando pratiche agricole che producano cibo di qualità e sostengano nuove forme di responsabilità. Le dinamiche dei territori agricoli specializzati sono assai diverse dai casi precedenti. La valle di Non è da tempo indirizzata verso l'agricoltura specializzata del melo, che progressivamente si estende verso quote sempre più elevate. Oscar Piazzi analizza il processo di permanenza dell'attività agricola in tale contesto, che vede da un lato i rischi della specializzazione e, dall'altro, la spinta – in particolare nell'alta valle – alla conservazione delle forme agricole tradizionali. Il fondovalle dell'Adige, percepito ora come luogo privilegiato dell'agricoltura e dell'urbanizzazione, è stato costruito in tempi recenti mediante opere impegnative di rettifica e di regimazione dei corsi d'acqua. Nel corso degli ultimi decenni l'orientamento verso alcune produzioni di mercato - in particolare la coltivazione del melo e della vite – ha rafforzato l'agricoltura ma ha evidenziato come si tratti di un territorio fragile e soggetto a pressioni a causa dell'estensione delle aree urbane e della realizzazione di nuove infrastrutture. Renzo Micheletti propone una analisi della “plaga agricola” tra Trento e Rovereto ed espone il percorso in atto per una crescita di consapevolezza dei valori in gioco e dei rischi di degrado costruendo una coalizione di amministrazioni e esponenti dei diversi settori coinvolti. Anche in questo caso, il paesaggio agrario dovrà costituire una sintesi coerente e qualificata di storia, attività umane, legami responsabili degli abitanti con il proprio territorio. Bruno Zanon Vice Presidente dell'Inu del Trentino 7
I N T E R V I S T A
AGRICOLTURA GENIO NATURALE TERZO PAESAGGIO Intervista a Gilles Clément A cura di Emanuela Schir
Gilles Clément (1943) è docente presso l'Ecole national supérieure du paysage di Versailles. Tra i suoi scritti si ricordano «Manifesto del terzo paesaggio» (2005) e «Ho costruito una casa da giardiniere» (2014).
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“Mi considero giardiniere perché ho un giardino e spesso ho le mani nella terra. Questo è molto importante perché è proprio a partire da tale esperienza che ho maturato certe posizioni in rapporto alla vita, al futuro e alle azioni da compiere”
Professore, La definiscono, agronomo, botanico, paesaggista, ma Lei preferisce essere chiamato giardiniere e, secondo quanto Lei afferma in “Sagesse du jardinier”, è forte la differenza fra progettista ideatore e giardiniere. Vista la Sua produzione scientifica sui temi del paesaggio, non è forse una contraddizione? È sempre dello stesso avviso? Innanzitutto mi considero giardiniere perché ho un giardino e spesso ho le mani nella terra. Questo è molto importante perché è proprio a partire da tale esperienza che ho maturato certe posizioni in rapporto alla vita, al futuro e alle azioni da compiere. Il mio lavoro è molto legato al giardino perché lavoro con la durata nel tempo ancor più che nel lavoro tradizionale di paesaggista. A differenza dei paesaggisti e degli architetti, che concludono la propria responsabilità di progettisti con la direzione dei lavori, io lavoro “con” il tempo. La seconda ragione è che in quanto paesaggista privilegio la dimensione del vivente. Ci sono dei paesaggisti che tendono a privilegiare la dimensione architettonica dello spazio, aspetto che faccio passare in secondo piano, così come l'estetica. Certamente lo spazio che realizziamo deve essere gradevole, ci si deve sentire bene, felici al suo interno; quindi l'estetica e la costruzione architettonica hanno comunque molta importanza. Ma antepongo a tutto questo la dimensione del vivente cioè faccio in modo che la diversità, la gestione nel corso del tempo sia ben evidente e regolata dall'équipe di giardinieri. E che si possa mantenere una qualità del vivente nel tempo. Ecco perché preferisco definirmi giardiniere.
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Come definisce i termini giardino, paesaggio e “genio naturale”? Quali sono, se ci sono, le differenze e le connessioni? Comincio dal concetto di paesaggio. Esso è legato all'individuo e alla sua soggettività. È tutto ciò che si trova sotto il nostro sguardo. Per i non vedenti il paesaggio è tutto ciò che si percepisce attraverso gli altri sensi. Noi vedenti privilegiamo però la vista. È comunque ciò che coinvolge i nostri sensi nella loro interezza e nella loro diversità. È perciò la nostra sensibilità che viene chiamata in causa e anche la nostra cultura. Se mostro a venti persone la stessa immagine di paesaggio, avrò venti risposte differenti. Ci potranno essere delle risposte concordi, delle sovrapposizioni, ma questo è raro. In realtà sulla questione del paesaggio è l'individuo in tutta la sua percezione che risponde; quindi il paesaggio è un tema soggettivo. Non è un caso che i primi paesaggisti fossero dei pittori che rappresentavano quello che percepivano. Il giardino è altra cosa. Il giardino è un sogno, è un luogo dove l'uomo è in totale libertà e in un recinto, in un perimetro. Il termine stesso giardino vuol dire recinto e paradiso. È nel cuore stesso di questo giardino che l'uomo costruisce qualcosa che destina essere migliore, più importante e che andrà poi a proteggere. In un certo qual modo lo stile del giardino racconta questo: esprime l'idea di quel qualcosa di migliore rispetto all'epoca in cui è stato concepito. Certamente l'idea di “migliore” cambia nel corso del tempo ed ecco perché cambiano la forma e il messaggio che il giardino porta in sé: dal giardino arabo, al giardino romantico fino a quello dei nostri giorni. È quindi un luogo molto particolare perché è portatore di un
“Dal mio punto di vista i problemi più gravi sono quelli legati all'espansione delle città, all'impermeabilizzazione del suolo a scapito dei terreni coltivabili che oggi vengono abbandonati per realizzare delle lottizzazioni che occupano un'enormità di spazio”
messaggio, ha una carica culturale che traduce l'evoluzione del pensiero nel corso della storia. Il “genio naturale” è indipendente dal paesaggio, perché questo è soggettivo; è indipendente dal giardino nella sua valenza culturale, ma è legato ad esso attraverso la vita e la diversità. Il genio naturale è tutto ciò che la natura ha realizzato nel corso di milioni e milioni di anni, molto prima che l'uomo fosse sulla Terra. Realizzato per vivere, per sopravvivere, per inventare dei sistemi ogni volta nuovi per rispondere alle pressioni dell'ambiente e per potersi adattare ai continui e traumatici cambiamenti. È qualcosa di dinamico, inscritto nella fisiologia e nel metabolismo delle piante e degli animali, con molta precisione e complessità. È possibile, in questa fase di crisi economica in cui sostenibilità e decrescita sono le parole d'ordine, ripristinare nei terreni incolti, nelle frange urbane, l'agricoltura a piccola scala? Quali sono, in quest'ottica, i compromessi per mantenere comunque continuità di “terzo paesaggio”? Abbiamo sempre interesse a mantenere una parte importante di “terzo paesaggio”, in particolare sotto forma di potere biologico per tutte le differenti specie. Tuttavia dal mio punto di vista i problemi più gravi sono quelli legati all'espansione delle città, all'impermeabilizzazione del suolo a scapito dei terreni coltivabili che oggi vengono abbandonati per realizzare delle lottizzazioni che occupano un'enormità di spazio. Si tratta di una obliterazione del suolo che va a discapito della produzione della diversità. D'altro canto esiste un movimento opposto legato alla reintroduzione delle produzioni agricole e orticole ai margini della città e a volte all'interno delle città. Sono dei piccoli spazi modesti, ma davvero 10
importanti dal punto di vista simbolico, dei giardini suddivisi dove esiste la produzione di diversità. Vi sono delle vere e proprie liste di attesa per poter avere questi appezzamenti in cui poter coltivare e fare giardinaggio. Questo tema oggi è molto complesso. Il problema demografico è immediato; solo che è tabù e purtroppo non se ne parla mai. In questa prospettiva di ritorno alla terra c'è bisogno di nuove competenze, nuovi strumenti, nuove tecniche per la coltivazione? L'evoluzione verso la quale dovremmo mirare dal punto di vista strettamente pratico, e qui parlo in quanto giardiniere, sarebbe quella di utilizzare tecniche e materiali adeguati al luogo, in un contesto di agricoltura e orticoltura completamente biologiche. Per il momento quello a cui assistiamo è che le grandi lobby di produzione di macchinari e strutture sono molto potenti e impongono sistematicamente culture e sfruttamento dei suoli con superfici di terreno di dimensioni considerevoli a scapito dei piccoli appezzamenti. Nelle città oggi viene fatto un nuovo censimento delle superfici di “terzo paesaggio”, ponendosi il problema se queste superfici non possano essere utilizzabili per la produzione frutticola o l'agriturismo o per l'orticultura. Ci si deve confrontare con una questione pratica e tecnica che dal mio punto di vista può essere risolta molto semplicemente ma con strumenti che non sono così facilmente reperibili sul mercato. Convertendo questi piccoli appezzamenti all'agricoltura, non si rischia di frammentare ulteriormente o addirittura sopprimere il “terzo
I N T E R V I S T A
“In certi contesti può essere più redditizio fare della produzione agricola. In altri, la semplice gestione di un ambiente con una diversità naturale importante. In altri ancora, infine, meglio non fare assolutamente niente, perché quel terreno è prezioso per accogliere la diversità”
paesaggio”, così prezioso per la biodiversità? Non si tratta di sopprimere completamente il “terzo paesaggio”. In quest'ottica bisogna fare molta attenzione e sono tre le proposte che facciamo attraverso i nostri studi. In certi contesti può essere più pratico, più redditizio fare della produzione agricola, orticola. In altri invece è meglio fare una semplice gestione di giardino in movimento, creare un percorso, una promenade qualcosa che non sia uno sfruttamento del suolo in modo da salvaguardare una diversità naturale importante. Vi è poi infine la terza categoria, per la quale diciamo non si debba fare assolutamente niente, perché quel terreno è prezioso per accogliere la diversità. Si tratta quindi di fare una sorta di perizia sui terreni prima di decidere di quali parti di terzo paesaggio stiamo parlando e quali vogliamo utilizzare. La seconda cosa da considerare è che, se la parte coltivata di “terzo paesaggio” è sottoposta a coltivazione biologica, i rischi della distruzione e della devastazione della diversità sono enormemente diminuiti rispetto alla coltivazione “tradizionale” per il non utilizzo di veleni e prodotti chimici che costituiscono il più alto potenziale di distruzione della diversità. Se si coltiva con agricoltura biologica o biodinamica riusciamo a mantenere una diversità anche nello sfruttamento del terreno. Vi sono conflitti fra differenti competenze. Abbiamo appreso che il paesaggio non è un vuoto. Gli urbanisti e gli architetti vedendo dei terreni incolti pensano si debba “riempire il vuoto”. È difficile comunicare che si tratta invece di un pieno, di “genio naturale”. Certo, qui stiamo affrontando la questione del modello culturale. Oggi ci troviamo obbligati a 11
cambiare il modello culturale e questa è una delle cose più lunghe e difficili da attuarsi. È molto facile cambiare le tecniche, utilizzare un nuovo strumento, una nuova macchina performante, ma è molto difficile cambiare il modo di pensare. Oggi non esiste un insegnamento appropriato nelle scuole, a partire dalle scuole primarie fino liceo. Si dimentica l'apprendimento delle scienze della natura, che si fa un po' quando si è piccoli, nelle prime classi, e poi non si fa altro. Non è immediata la comprensione della ricchezza e della complessità del “terzo paesaggio”. Molti non ne hanno alcuna idea e a volte lo considerano come qualcosa di brutto, da distruggere, pieno di erbacce. Vi è una strategia della paura che è molto forte, secondo cui bisogna combattere la natura perché è pericolosa, veicola dei virus, delle malattie. E così l'urbanista, che non ha alcuna formazione su questi temi, avrà la tendenza, come tanti altri, a dire: “Ecco un terreno che non serve a nulla: bisogna costruirci sopra”. È logico. Quindi tutto si gioca sulla questione della conoscenza. In un governo ideale, se per caso esisterà un giorno, il mio primo Ministero sarà quello della conoscenza, con la possibilità per ognuno di capire dove vive, cioè conoscere le piante, gli animali, i fiumi, l'acqua, su quale pianeta siamo tutti. E condividiamo la stessa acqua e abbiamo ogni interesse a che si mantenga pura. Cos'è l'ecologia, come viene insegnata: è qui che trovo una grande contraddizione fra le questioni sviluppate oggi quali quella del “terzo paesaggio”, della sua ricchezza, e dall'altro lato le pressioni per la costruzione, per incremento demografico, per l'espansione delle città che tende ad intaccare senza alcuna remora quei luoghi vuoti. Quei luoghi preziosi da salvaguardare.
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Fotografia di F.Maione
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LE TEORIE E LE ESPERIENZE
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LE TEORIE E LE ESPERIENZE
Cibo e paesaggio agrario sono nel suolo, ma il suolo non è nel piano di Paolo Pileri*
«Dobbiamo derivare i nostri principi dal mondo naturale, incuranti della derisione e riaffermare la sua validità negata» (Vaclav Havel, 1984, trad it. 2014)
*Paolo Pileri professore associato di pianificazione territoriale ambientale DAStU, Politecnico di Milano
Antefatto (per non dimenticare che la città deve la sua nascita all'agricoltura) Prima di inoltrarci in una riflessione sull'uso e abuso delle terre agricole e quindi sulle nostre responsabilità e sul ruolo dell'urbanistica di oggi, ci pare molto opportuno proporre due testimonianze di due autori che possono sembrare 'laterali' rispetto alla bibliografia urbanistica tradizionale, eppur capaci di fissare in modo efficace due 'fatti' che possiamo prendere come i margini di una possibile cornice entro la quale proveremo a muovere la riflessione seguente. Due fatti che pongono due imprescindibili questioni che dobbiamo avere chiaro perché danno forma e peso a ciò che noi oggi stiamo facendo o non facendo per la tutela del suolo. Se le tralasciamo, il rischio è di alleggerire di molto la responsabilità che abbiamo o che dovremo avere. Già perché, lo dico fin da ora, la tutela del suolo italico, come lo chiamava Luigi Einaudi, è il massimo compito civile di un popolo¹. I due autori che si incontrano qui probabilmente per la prima volta, sono Hansjörg Küster, tedesco, classe 1956, geobotanico e studioso di paesaggio e Andrea Zanzotto, veneto, classe 1921, poeta e saggista che ha scritto pagine molto profonde sulla trasformazione del terri-
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torio. Partiamo con Küster. Nella sua Piccola storia del paesaggio, egli ripercorre passo dopo passo le tappe cruciali della storia del rapporto tra paesaggio, uomo e città, sapendo che il primo è un delicato sovrapporsi e intrecciarsi di azioni prodotte dal secondo. In particolare è all'agricoltura che Küster riserva un ruolo decisivo nella formazione dei paesaggi. «La coltivazione delle piante ad opera dell'uomo è stata una delle più importanti, se non addirittura la più importante innovazione dell'umanità. In seguito, infatti, grazie ad esssa, l'alimentazione umana ha avuto basi stabili. Non potendo abbandonare i campi durante il periodo di crescita dei cereali e delle altre piante coltivate, gli uomini sono diventati sedentari. E così, sotto l'influenza dell'agricoltura, si sono formati paesaggi di un tipo completamente nuovo.²» Questo paesaggio di tipo completamente nuovo, lo ricordiamo, era (ed è ancora a tratti) fatto di campi coltivati corredati dai segni dell'irreggimentazione delle acque irrigue, di strade e sentieri, di siepi e filari, di nuove architetture rurali. Ma con questo racconto Küster mette ordine alla sequenza storica svelandoci
che la nascita della città avviene dopo e grazie a quella della scoperta dell'addomesti-camento di semi e animali. Solo allora l'uomo si è fermato, ha interrotto quel peregrinare continuo e faticoso tra un paesaggio e l'altro alla ricerca di cibo. Un peregrinare che lo sradicava di continuo esponendolo ad altissimi rischi di sopravvivenza. Quell'uomo sarebbe probabilmente estinto. Non sarebbe certo giunto a costituire 'la società', ad occuparsi di cultura, a pensare a diritti e doveri, alla legge, all'organizzazione dei ruoli, alla polis. Solo arrestandosi, ha potuto dedicarsi all'umanità. Con quell'atto di comprensione della natura e di alleanza con essa, alleanza agricola, egli ha potuto generare la città che abbiamo visto nella storia, quella che ancora vediamo e abitiamo oggi. La città esiste grazie all'agricoltura. È stata concepita nel campo. Lì la nostra storia umana ha le radici. Ed è proprio con questa parola, radice, che ora facciamo un lungo salto storico precipitando, in compagnia di Andrea Zanzotto, nei giorni nostri. In una recente raccolta di scritti, Luoghi e paesaggi, ad un certo punto Zanzotto, indignato per il trattamento che l'uomo riserva al 'suo' amatissimo Veneto, da lui 'usato' più e più volte come laboratorio simbolico per riflettere criticamente sul rapporto generale tra uomo e paesaggio, riflette proprio su quella che lui, illudendosi, credeva fosse un'alleanza infrangibile tra uomo e natura, un rapporto di muta e amorosa comprensione che, invece, si schianta sul duro cemento. «A conti fatti, posso dire di essermi parzialmente illuso. Non si è trattato di due realtà in accrescimento reciproco, ma di un rapporto unidirezionale di prevaricazione; tantomeno si può parlare di un vero e proprio “dialogo”, relativamente al tragico scempio della natura commesso dall'uomo in quest'ultimo quarantennio, ma di una monologante e allucinata sequela di insulti. Il male da cui ha avuto origine “questo” uomo dipende proprio dall'essersi volontariamente sradicato dalle proprie origini, dall'essersi gettato in spregiudicata balìa del dogma capitalistico, inabissato nella melma di una superfetazione di minime-massime violenze che trovano un'esclusiva giustificazione nella cruda meschinità di interessi particolaristici.³» Stando a Zanzotto, l'uomo ha quindi compiuto volontariamente un atto di rottura con quell'alleanza (agricola/naturale) strategica che
Küster ci aveva ricordato poco fa, decidendo di rinnegare se stesso per gettarsi in altre braccia. Affiancare queste due tracce, quella di Küster e di Zanzotto, ci disvela alcune chiavi secondo me cruciali per poter capire non solo cosa oggi non funziona producendo i guasti che diremo, ma anche che ciò che si compie continuamente con il consumo di suolo, specificatamente quello agricolo, non viene 'visto' come grave dagli occhi della maggioranza dei cittadini, degli urbanisti e dei governanti perché, tra l'immagine di ciò che vedono e il pensiero che quell'immagine forma, vi è un potente filtro percettivo intriso di una sempre più grande rimozione culturale, originata da quello sradicamento volontario, che ci continua a nascondere la comprensione degli effetti di quanto si sta facendo, che ci alleggerisce la responsabilità delle nostre azioni e che ci ha convinto a considerare giusto, buono, necessario e, soprattutto, senza limitazioni, il consumo di suolo ovvero lo svilimento del paesaggio e della nostra storia proprio poggiata su quell'antica alleanza tra noi e la natura che, a ben sentire le alluvioni, le piogge, le frane, gli innalzamenti di temperatura, non è affatto muta. Sordi, siamo noi. Questo antefatto ci consente di dare densità a quanto ora diremo, ma soprattutto di farci comprendere che i numeri del consumo di suolo non sono solo gravi in quanto sono cifre 'grandi', ma in quanto sono indicatori crudeli di quella rimozione e di una cultura di attenzione al suolo che manca nella testa dell'urbanista e che oggi è un'assenza della quale, egli prima di altri ma insieme ai governanti con cui egli decide dell'uso dei suoli, deve dare conto. Il suolo che urbanista e politico non conoscono è vitale per noi e l'ambiente. Si parla di consumi di suolo ma non altrettanto di suolo. Insomma si parla della malattia senza conoscere chi è il malato. E qui sta un vulnus non indifferente anche dei tentativi di normazione che si stanno facendo. Innanzitutto il suolo è una risorsa naturale, non rinnovabile, capace di erogare servizi e benefici e base del nostro paesaggio. La legge italiana non riesce ancora a riconoscere tutto ciò al suolo nonostante nel marzo 2014 abbia fatto un passo decisivo in avanti rimuovendo la definizione errata del testo unico ambientale⁴. Ora il suolo è “lo strato più superficiale della
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crosta terrestre situato tra il substrato roccioso e la superficie. Il suolo è costituito da componenti minerali, materia organica, acqua, aria e organismi viventi” (D.lgs. 46/2014 art. 1 comma vquater). Una definizione formalmente corretta ma 'neutra' e comunque ancora distante dal riconoscere qualcosa che è ben di più di questo strato, tutto sommato inerte e morto. Il suolo è il sistema senza dubbio più complesso della Terra⁵ ed è vivo. Il tutto è concentrato in una pellicola sottile, più o meno alta 1-2 metri: è quello lo strato vitale, non più sotto. È costituito da argilla, sabbie e limo, ma soprattutto da materia organica ovvero da carbonio, l'elemento della vita. Nel suolo c'è vita e si chiude/apre il ciclo del carbonio. Milioni di organismi viventi vi lavorano per generare quell'humus che è la base della alimentazione vegetale ovvero del nostro cibo. Il 30% della biodiversità del pianeta sta sotto i nostri piedi. Migliaia di eccipienti alla base dei farmaci che ci curano nascono nel laboratorio biochimico che è il suolo. Il suolo non urbanizzato è un regolare fondamentale per bilancio dei gas atmosferici. Stocca molta più CO2 della vegetazione e i cambi d'uso del suolo contribuiscono per il 20% circa al bilancio emissivo di CO2. Il suolo è una gigantesca spugna che trattiene fino a 3,8 milioni di litri di pioggia per ettaro. Questo spiega facilmente perché continuando a cementificare la quantità d'acqua esondabile è sempre maggiore. Ecco tutto questo non è noto né all'urbanista nè al governante o, comunque, non lo ritengono così importante da condizionare le scelte urbanistiche in fase di progetto di piano. Per loro il suolo è una base, un'area senza alcuna profondità, senza funzioni. Una superficie da usare, anzi da valorizzare. Soprattutto questo è il termine che trafigge la storia della pianificazione territoriale attraversandola da oltre sessant'anni. Produrre valore è il primo dei comandamenti, dove il termine valore è ridotto alla sua sola dimensione monetaria e per di più circoscritta prevalentemente alla sfera dell'interesse privato o di pochi privati. Il suolo, con i suoi servizi ecosistemici, produce invece beni per tutti, anche per coloro che non sono proprietari di quel suolo⁶. Per questo la regolazione dell'uso dei suoli privati è vitale in democrazia e non può non tener conto delle caratteristiche intrinseche di questa risorsa ovvero del fatto che essa è un corpo vivo e che dà vita e non una tavola morta su cui appog-
giare di tutto. Per l'urbanistica il valore è stato sempre la rendita fondiaria, il cosiddetto guadagno immeritato per gli inglesi, il virus più letale del consumo di suolo. Ma quanto suolo si consuma? In Europa. Ogni anno poco meno dell'equivalente di una città come Berlino, 252 ettari, viene urbanizzata⁷, sigillando suolo che prima era agricolo o naturale. Si tratta di un valore elevato eppur inferiore di quello che è realmente in quanto la base dati geografica originale (Corine Land Cover) non è in grado di cogliere le trasformazioni più molecolari e fini che sono parecchie ad esempio in un contesto urbanizzato come il nostro. In Italia. Oggi il dato ufficiale di consumo di suolo nazionale è quello decretato dall'agenzia ambientale nazionale – ISPRA: circa 8 m2/sec ovvero 70 ha/giorno⁸ di cui un quinto o più probabilmente concentrato in Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e Friuli⁹. Si tratta di una cifra rilevante che peraltro rischia di essere anche sottostimata. Con questa rapidità, il suolo pianeggiante italiano non urbanizzato¹⁰, che assomma tra i 6 e i 6,5 milioni di ettari a seconda che si escludano o includano le aree lacuali e fluviali, sparirebbe sotto il cemento in poco più di 230 anni. Ma la morte sopraggiungerebbe molto molto prima, venendo a mancare superficie agricola sufficiente alla produzione di cibo, i boschi spariti sconvolgerebbero il microclima e inquinanti e rifiuti si impadronirebbero di ciò che è restato del suolo. 100 anni? 150? Lo scenario da qualsiasi parte lo si guardi è terribile. Nelle regioni. Scandalosamente, non esiste un dato di consumo per ogni regione italiana. Lo Stato non lo richiede, poche regioni lo calcolano. Se non si sa nulla, il problema scompare da sé, avrà pensato qualcuno. Ci si deve accontentare solo di qualche dato e spesso vecchio. In Lombardia la cementificazione dei suoli tra il 1999 e il 2007 si è attestata attorno a circa 12 ettari al giorno¹¹, oltre il 10% del consumo nazionale. In Veneto, dove non è disponibile una banca dati efficiente sugli usi del suolo a più soglie temporali, si può prendere a riferimento il valore dichiarato dalla stessa regione in un disegno di legge sul suolo¹²: 180.000 ettari agricoli cementificati negli ultimi 40 anni (il dato è peraltro alli-
neato ai risultati di ricerca di Tiziano Tempesta¹³, secondo il quale tra il 1970 e il 2010, limitatamente al territorio di pianura e di collina sono stati persi 151.783 ettari di suolo agrario, pari a 3.794,6 ha/anno ovvero 10,4 ettari/giorno). Tra il 2003 e il 2008, in Emilia Romagna sono stati urbanizzati 15.445 ettari pari a 8,4 ettari al giorno e in Sardegna 11.642 ettari ovvero 6,3 al giorno¹⁴. Consumi che non sono spiegabili con il trend di aumento della popolazione in nessun caso. Numeri pesanti che sono ancor più pesanti in termini di aree agricole perse visto che questa non vengono solo 'mangiate' dall'urbanizzazione ma anche dai boschi quando le aziende agricole muoiono. Suolo e cibo. Consumo di suolo, perdita di sovranità alimentare. Tra i diversi effetti ambientali del consumo di suolo, quello del consumo dei suoli agrari è particolarmente grave e pericoloso. La produzione di cibo è forse il più importante dei benefici generati dal suolo in quanto servizio ecosistemico. Produrre cibo è un atto importante per un popolo. Paolo Maddalena, attraverso le parole di Giuseppe De Marzo, ricorda che sono tre le fondamentali sovranità su cui si regge uno Stato democratico: la sovranità monetaria, la sovranità energetica e la sovranità alimentare¹⁵. La sovranità, ricordiamolo, attiene alla possibilità per gli Stati come per le comunità locali di decidere autonomamente cosa produrre, di scegliere metodi di coltivazione sostenibili e rispettosi dell'ambiente e delle tradizioni locali, di decidere su quali mercati e a quali destinatari indirizzare gli alimenti. E tutto ciò a sua volta si basa su un altro principio fondamentale che è quello della sicurezza secondo il quale tutte le persone, in ogni momento, devono poter aver garantito l'accesso fisico, sociale ed economico ad alimenti sufficienti, sicuri e nutrienti che garantiscano le loro necessità e preferenze alimentari per condurre una vita attiva e sana¹⁶. Ma sovranità e sicurezza alimentare quale posizione occupano nell'agenda delle politiche territoriali? Il consumo di suolo agrario è un attacco alla sovranità e alla sicurezza alimentari Tra il 1990 e il 2006 i 19 paesi membri UE hanno cementificato terreni agricoli contraendo la loro produzione interna di un equivalente di oltre 6,1 milioni di tonnellate di frumento pari
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all'1% della produttività annua europea¹⁷. Per compensare questa perdita interna, sono state convertite ad agricoltura (soia, cereali, barbabietola da zucchero, etc.) centinaia di migliaia di ettari naturali e seminaturali (boschi, praterie, etc.) in paesi africani, sud americani e nord americani. Cosa c'entra questo con il consumo di suolo nei nostri comuni italiani? È semplice. Le ripercussioni del consumo di suolo si manifestano spesso a una scala diversa da quella su cui lavoriamo e che dominiamo, arrivando a mettere a rischio persino i già precari rapporti internazionali tra Paesi. Abbiamo spesso pensato che l'urbanizzazione sottraesse terre agricole solo nei cosiddetti paesi in via di sviluppo, invece è una questione¹⁸ che riguarda noi e la nostra responsabilità qui. L'Egitto, nostro fornitore di grano, già nel luglio 2013 era in forte sofferenza per incapacità a soddisfare la domanda interna di grano. Possiamo continuare a permetterci di cementificare i terreni più agricoli del mondo (la pianura padana) e mettere a repentaglio equilibri di pace internazionali sottraendo il cibo a popoli più affamati di noi? La distanza tra la decisione urbanistica del sindaco del comune più piccolo di Italia e una crisi internazionale è molto più corta di quella che lui e noi crediamo. Questo orizzonte di responsabilità è nuovo per l'urbanistica, ed è questa la prospettiva che oggi deve mettere a soqquadro le scale amministrative sulle quali l'urbanistica ha sempre preso le decisioni d'uso dei suoli. Il modello di governo che abbiamo ereditato dal passato, e tenuto stretto, scricchiola sotto i colpi del cemento. Non possiamo più tenere separate le questioni agricola e ambientale da quella urbanistica. L'introduzione dei concetti di sovranità e sicurezza alimentari esplicitano un nuovo e più stringente limite alla crescita urbana. L'idea di progetto deve cambiare e con essa anche le regolazioni e le politiche urbanistiche. I profili di legittimità riconosciuti al proprietario privato nel trasformare il proprio suolo sono insufficienti davanti a un cambio di scala e a una pluralità di questioni di interesse comune connessi all'uso del suolo. Pure la piccola dimensione della decisione locale che non si confronta con i grandi temi e le vaste geografie a cui è legata è un limite che produce errori e sottovalutazioni. Non è certo l'illusione di un processo di piano a metterci al riparo dagli effetti, anzi
paradossalmente potrebbe sortire l'effetto opposto. L'irreversibilità delle trasformazioni urbanistiche e il fatto che stiamo vivendo oltre i limiti del possibile devono essere molto chiari all'urbanista come al politico locale che hanno la responsabilità del piano. Ogni diminuzione di produttività agricola locale, per sommatoria, va a diminuire l'autosos-tenibilità alimentare dell'intero Paese, minacciando proprio la sicurezza alimentare globale. Torniamo quindi alle cifre del consumo che ci aiutano a comprendere la dimensione dei problemi che abbiamo introdotto. Analizziamo due questioni. La prima è attinente la relazione tra produzione di cibo e consumo di suolo, mentre la seconda tra dimensione amministrativa e consumo di suolo agrario. Consumo di suolo e produzione di cibo Attraverso una semplice equivalenza, pur se incorpora in sé semplificazioni, si riesce a rappresentare criticamente il legame complesso tra urbanizzazione, suoli agrari, produzione di cibo e diritto alla alimentazione. Infatti un ettaro di campo agricolo italiano mediamente fornisce cibo a circa 6 persone all'anno¹⁹ con un equilibrio di input/output energetico accettabile e rispettando i valori del suolo per il futuro. Questo parametro rappresenta bene la delicatezza del suolo agrario e, di riflesso, la nostra vulnerabilità in quanto destinatari di quel cibo. Per aumentare la produttività occorrerebbe versare sul suolo una quantità di energia sotto forma di prodotti chimici e azioni meccaniche che mette in crisi l'efficienza del sistema, oltre a degradarlo in modo grave compromettendone la sua funzione nel tempo. Visto dal lato della produttività, ogni urbanizzazione va a sottrarre per sempre un potenziale di quantità di cibo. Se vedessimo le cose dal lato del cibo e non del cemento, potremmo dire che, in via teorica, ogni nuova urbanizzazione che sostituisce un campo agricolo, equivale a proporre a un certo numero di persone di non mangiare più. Non solo, ogni ettaro di suolo cementificato che smette di fornire cibo, inizia a domandare cibo per i nuovi abitanti che lì vi vengono insediati. Questo scenario, pur ipotetico, inizia a divenire seriamente problematico quando si considera, appunto, la variabile 'sovranità alimentare' e, ancor più, quando la capacità di produzione alimentare di un paese è già inferiore al numero di bocche da
sfamare, che poi è il caso dell'Italia²⁰. Inedite responsabilità si stagliano davanti agli occhi di politica e urbanistica e chiedono subito posizioni alte nell'agenda. In questo momento non siamo già in grado di rispondere a tutta la domanda alimentare che è fatta di fabbisogno interno ma anche di export (che per il 'made in italy' è un settore cruciale) e, purtroppo, anche di sprechi²¹. Le continue perdite di terre agricole espongono il nostro paese ad una sempre maggior dipendenza dalle risorse alimentari e agricole estere e quindi a relativi e possibili condizionamenti²² che limitano la sovranità politica nazionale. Ricalcolando con questa lente i consumi di suolo di tre grandi regioni del nord Italia, Piemonte, Lombardia e Veneto, si nota che l'urbanizzazione ha sottratto un potenziale produttivo agrario, in termine di abitanti alimentabili, molto maggiore dell'incremento demografico per il quale sono state fatte le trasformazioni del suolo (figura 1). Questo tipo di calcolo, pur teorico quanto si vuol credere, non è stato mai fatto in sede di piano. Ed è questo il fattore probabilmente più preoccupante: l'ignoranza della questione alla fonte del processo urbanistico. Se la pianificazione territoriale vuole innovarsi nella direzione della sostenibilità, non può eludere questa dimensione a meno di essere irresponsabile. È altrettanto evidente che prendersi carico di questa dimensione significa per forza decidere di non consumare suolo e orientare le energie solo verso la riqualificazione dei patrimoni esistenti. Dimensione amministrativa e consumo di suolo agrario In molte regioni italiane, la locale legge di governo del territorio dà piena autonomia decisionale ai comuni per quanto riguarda la decisione sull'uso dei suoli. Le funzioni di coordinamento inter-comunale sono deboli e spesso facoltative²³, quindi inefficaci. Le politiche fiscali sono tutte disegnate sul comune, pertanto ogni accorpamento o cooperazione finirebbe per produrre svantaggi ad uno dei cooperanti, quindi meglio fare da soli. Non vi sono incentivi determinanti per chi coopera ed evita consumi di suolo, ma semmai solo mancate entrate. La dimensione comunale rimane l'unica geografia ammessa dal governo del territorio e
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per di più senza vincoli di coordinamento a scale intercomunali. Questo, se letto in termini di consumi di suolo, produce delle distorsioni gravi. Dall'analisi dei dati sui consumi dei suoli agrari nei comuni della Lombardia distinti per dimensione demografica, si è visto che il consumo marginale di suolo, ovvero il suolo agrario cementificato per insediare un nuovo abitante, è inversamente proporzionale alla dimensione del comune (figura 2). Più esso è piccolo e più spreca suolo agrario a parità di abitanti insiediati. Tra il 1999 e il 2007, un piccolo comune tra i 500 e i 1.000 abitanti ha consumato quasi 4.000 m2 per dare casa ad un nuovo abitante, mentre lo stesso abitante consumava 400 m2 se veniva insediato in un comune di 50.000 abitanti. Rimane il fatto che in termini assoluti i grandi comuni hanno consumato più dei piccoli, ma questi sono di gran lunga più inefficienti. Il risultato sovverte, almeno in Lombardia, il luogo comune secondo il quale il piccolo comune è virtuoso di per sé. D'altronde i difetti strutturali del governo del territorio degli ultimi venti/trent'anni, come fare cassa con i consumi di suolo, soddisfare le attese di rendita dei proprietari locali, assicurarsi consensi e favori, non possono che avere la possibilità di acuirsi di più negli ambiti più piccoli dove la prossimità tra decisore, progettista e interessi privati facilmente si cortocircuitano. I piccoli comuni sono sicuramente più deboli ed esposti alle pressioni locali e altrettanto più distanti dalla comprensione dei problemi ambientali e sociali che le scelte di uso del suolo comportano. È difficile che temi sfidanti a livello globale come i cambiamenti climatici o la sovranità alimentare trovino nella dimensione micro interlocutori che hanno consapevolezza di poter dare un contributo effettivo con le loro 'piccole' decisioni. L'interscalarità di alcune decisioni ancora sfugge e comunque deve essere un processo accompagnato e anticipato da un lavoro culturale adeguato e capillare. Evidentemente i temi globali mettono a nudo alcune inadeguatezze strutturali della nostra architettura amministrativa. Le questioni ambientali, di cui l'uso del suolo deve essere una di queste, non si fermano al confine di nessun comune e richiedono campi di visione più ampi e complessi e anche conoscenze che non sempre possiamo pretendere di vedere rappresentate ancor più in un piccolo comune.
Figura 1 - Stima della perdita di produzione di cibo a seguito dei consumi di suolo in Piemonte, Lombardia e Veneto
Aumento della spesa per la gestione delle reti di drenaggio acque (prendiamo il valore tedesco: 6500 €/ha*anno. Non attualizzo per semplificare. Si tratta di valori monetari al 2013)
PIEMONTE 1991 -2005 -20.000 ettari c.a. (§) Pari a -1.429 ha/anno
LOMBARDIA 1980-2007 -218.837 ettari c.a. (*) Pari a -8.105 ha/anno
VENETO 1970-2006
-3,9 ha/giorno
-22,2 ha/giorno
-11,6 ha/giorno
Spesa annua incrementale pubblica prodotta:
Spesa annua incrementale pubblica prodotta:
Spesa annua incrementale pubblica prodotta:
6-9,3 milioni di euro/anno
35-53 milioni di euro/anno
15-27,4 milioni di euro/anno
(§) Fonte: piemonteagri.it, 2013
(*) Fonte: ERSAF, 2011
(^) Fonte: Tempesta, 2013
-151.783 ettari c.a. (^) Pari a -4.216,2 ha/anno
Questi valori non tengono conto delle spese per il tessuto urbano già esistente, dei maggiori costi dovuti allo Sprawl e degli effetti di cumulo. L’intervallo inferiore della spesa indicata si riferisce alla quota impermeabile del suolo calcolata come il 60-75% della artificiale. La seconda è invece l’artificiale
Continuare a pensare che l'attuale configurazione amministrativa dei poteri urbanistici sia un'invariante rappresenta un vulnus per l'ambiente e per noi. Bisogna chiedersi se oggi, in un periodo in cui le responsabilità ambientali sono palesi, non debba essere rimessa in discussione la competenza esclusiva dei comuni su materie che hanno ripercussioni e ricadute che vanno ben oltre il confine amministrativo di competenza di chi decide, come l'uso del suolo. Se l'acuirsi dei danni, conseguenti al peggioramento di risposta del territorio agli eventi naturali o ai bisogni primari come il cibo, non viene visto come l'opportunità anche per rivedere la sostenibilità di alcune funzioni amministrative e alcune geografie dell'organizzazione delle decisioni che oggi non reggono né il cambiamento né le sfide globali, si perderà un'occasione cruciale per correggere la deriva in cui versa l'attuale sistema urbanistico, continuamente aggrappato a schemi vecchi e impermeabile ai temi sfidanti per il futuro e per la crisi attuale. Se il suolo è una risorsa ambientale come è, il suo uso non può essere che riportato ad un decisore con una capacità di visione per sistemi ambientali appropriati e per dimensioni problematiche di vasta scala. La frammentazione amministrativa e la scomposizione orizzontale delle decisioni continueranno a generare inefficienze, sprechi, brutture, spesa pubblica in un territorio che diverrà sempre più informe e irriconoscibile. L'urbanizzazione sottrae suolo all'agricoltura, senza ritorno.
Se teniamo seriamente in conto gli effetti sociali e ambientali del consumo di suolo, dobbiamo immaginare totalmente una nuova urbanistica. I ragionamenti e le evidenze fin qui portate per quanto riguarda il rapporto uso/consumo del suolo agricolo ed effetti sulla produzione del cibo sono una prova già sufficientemente preoccupante dell'eccesso di insostenibilità che questo modello urbanistico porta con sé, ripetendo se stesso immutabilmente da anni. La questione del consumo di suolo va inquadrata in quella più ampia e strutturata del suolo che, a sua volta, deve essere ricompresa nella questione ambientale visto che, come detto, il suolo è a tutti gli effetti non solo una risorsa ambientale il cui consumo produce effetti ambientali gravi e spesso irreversibili, ma essa stessa la risorsa più irriproducibile (per generare 10 cm di suolo occorrono 2000 anni). Del suolo fatto così, il pensiero urbanistico non si è mai o troppo poco misurato, se non per bocca di una minoranza di portavoce. Da questo punto di vista il piano ha fallito trascinando nel pozzo la qualità della vita, l'integrità della sovranità nazionale, la volontà di cambiamento, la capacità di vedere altro e oltre. La politica che si è occupata di urbanistica non è stata capace di suscitare questi nuovi immaginari, tenendo i cittadini di fatto lontani dai temi ambientali e dalle ricadute di tale s-considerazione. L'urbanista ha una forte responsabilità in tutto ciò. Davanti a seri problemi ambientali il suo atteggiamento è stato spesso inconsistente o velleitario. La mediazione di interessi è stata spesso intesa come principio preventivo di progettazione, e per di più positivo in sé, soffocan-
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do sul nascere lo spirito critico con cui riuscire a comprimere le attese e le spinte di forze che nulla avevano a che fare con l'interesse generale²⁵. Improbabili strade e operazioni 'cementifere' hanno avuto ampi spazi di azione. I tentativi di alcuni, pur encomiabili, non sono stati in grado di modificare la rotta generale. Un atteggiamento notarile ha spesso prevalso nella coppia progettisti/amministratori inducendoli sempre più a registrare i desideri dei privati come richieste non rigettabili per definizione, in maggior misura quelle dei più forti. Gli atteggiamenti critici sono stati soffocati con la derisione o con facili slogan inneggianti la crescita, l'economia, il bilancio finanziario da sanare. L'obbedienza al vincolo di mandato (ovvero al potere politico) o la paura anche solo a sfiorare gli interessi della rendita e della speculazione immobiliare²⁶ hanno suggerito a molti progettisti di inventarsi formule che rilette dopo le alluvioni o dopo la vista di un capannone che cerca acquirenti da cinque anni sono ridicole se non più propriamente offensive. Suolo, boschi, filari, acque, aria, bellezza sono rimaste comparse mute alle orecchie sorde di urbanista e amministratore che non voglion sentire le loro ragioni, anteponendogli sempre altre questioni, altro. Non si spiegherebbero altrimenti gli oltre 41.400 ettari che i piani urbanistici comunali lombardi si sono messi in pancia in questi ultimissimi anni incuranti della crisi²⁷ (il dato riguarda la situazione previsionale così come dichiarata dalla Regione Lombardia nel 2013 su dati aggiornati al 2012. Ad oggi Legambiente sostiene siano addirittura 55.000²⁸). Un dato disaccoppiato da ogni previsione demografica e che andreb-
perdita di superficie agraria tra 1999e 2007 per ogni nuovo abitante insediato [m2/ab]
variazione abitanti [Δab x 100]
Figura 2 - Lombardia 1999-2007. Andamento del consumo di suolo agrario pro abitante insediato (linea tratteggiata) in funzione della dimensione demografica dei comuni in Lombardia. Il consumo marginale di suolo è maggiore nei comuni più piccoli dove peraltro è stato quasi irrilevante la variazione demografica (linea a punti)24
(ΔmqAGR/Δab)99-07
2.000
ΔPop_1999-2007 (x100)
1.000 0
-1.000 -2.000 -3.000
Valore 'outlier'e invertito: per ogni abitante persosono stati consumati 14396 m2di suolo agrario
-3902 m2/ab
-1382m2/ab -785m2/ab
-504m2/ab
-475m2/ab
-4.000
be a togliere ulteriore produzione alimentare, a produrre più acqua nei fiumi, più spesa pubblica e più emissioni di CO2. Un fuori scala di questo tipo fatica a trovare spiegazioni se non nella miopia e nell'incapacità di generare modelli diversi e non asserviti alle solite logiche del profitto e della rendita (figura 3). Alla fine dobbiamo renderci conto che forse i tentativi di riforma legislativa che da quasi cinque anni in Italia vengono rimandati e mai approvati nascondono una chiara intenzione di non disponibilità a modificare le condizioni di base in cui spazia la rendita e l'interesse del cemento. Idem per il (voluto) fallimento della Valutazione Ambientale Strategica, pressoché ovunque in Italia. Stessa cosa la riconosciamo nell'incapacità del legislatore di annullare quello sciagurato passaggio della legge finanziaria 2005 con il quale si è data la possibilità ai comuni di utilizzare gli oneri di urbanizzazione per sostenere la spesa corrente ovvero qualsiasi spesa. Anche la recente (20 novembre 2014) approvazione da parte del consiglio regionale lombardo della legge contro il consumo di suolo che rimanda però il divieto di consumo a fra 30 mesi nasconde, neppur troppo bene, il messaggio chiaro di invito a consumare tutto quel che si può e al più presto. Prendersi cura, subito, della grave situazione culturale Qual è allora il filo rosso che attraversa tutto ciò? Sono tanti i fili rossi e moltissimo è il lavoro da fare in sede legislativa, professionale, accademica e politica. Ma è forse la dimensione culturale oggi ad essere quella più urgente. Urbanista, politico, studente di architettura e di ingegneria, valutatore ambientale e cittadino non sanno
cosa è il suolo, non sanno cosa accade se lo si consuma, non sanno a chi vanno vantaggi e a chi svantaggi, non sanno che occupazione e lavoro del futuro non possono stare nel cemento (se non quello per recuperare). Manca una cultura sul suolo e mancano le sedi
-398m2/ab
-478m2/ab -282m2/ab
e le occasioni in cui si spiega e se ne parla. Nei corsi di architettura e ingegneria di suolo non si parla (un po' di consumi). Non si parla in Parlamento come nel più piccolo dei consigli comunali. Tutti sanno che non si può vivere senza il cibo
Figura 3 - Variante 2014 al PGT di Casalbuttano (CR). Tratteggiata in rosso è rappresentata la proposta di tangenziale esterna. Si tratta di un classico esempio di proposta di piano che va a sfasciare completamente il paesaggio agrario di frangia, generando consumi di suolo ingenti e permanenti. È questa la responsabilità del piano davanti alla crisi? È questa l'interpretazione della questione agricola?
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che giunge dal suolo, ma sembrano dimenticarsene o non curarsene quando si decide di cementificare anche un solo metroquadrato di suolo agrario o, forse, non sono messi in grado di decidere se accettare un certo modello di sviluppo che al momento gli viene letteralmente imposto, al prezzo della sovranità di quelle genti.
1. Einaudi L. (1951), Della servitù della gleba in Italia, in Corriere della Sera, 15 dicembre 1951 2. Küster H. (2010), Piccola storia del paesaggio, Donzelli, Roma, p. 34 3. Zanzotto A. (2013), Luoghi e paesaggi, Bompiani, Milano, p. 150 (il brano, inserito nella raccolta, è tratto da un testo pubblicato da Zanzotto nel 2006 con il titolo Sarà (stata) natura?) 4. D.lvo 152/2006, art. 54. 5. Ritz K. (2008), Soil as a paradigm of a complex system, in Ramsden J.J. e Kervalishvili P.J. (eds.), Complexity and security, IOS press 6. La definizione che rende piena giustizia al suolo in quanto risorsa e in quanto elemento che ha diritto ad essere tutelato proprio per le sue molteplici, vitali e preziose funzioni è ancora quella contenuta nella strategia per la protezione del suolo della Unione Europea, che troviamo nei documenti europei COM(2006)232 e COM(2006)231 definitivo Strategia tematica per la protezione del suolo. 7. Commissione Europea, Orientamenti in materia di buone pratiche per limitare, mitigare e compensare l'impermeabilizzazione del suolo, Unione Europea, Lussemburgo, p. 12 (SWD(2012) 101 final/2, disponibile all'indirizzo http://ec.europa.eu/environment/soil/sealing_guidelines.ht m) 8. Ministero delle politiche agricole e forestali (2012), Costruire il futuro: difendere l'agricoltura dalla cementificazione. Munafò M. (2013), La misurazione del consumo di suolo a scala nazionale, in ilProgettosostenibile n. 33/2013, Edicom Edizioni, Gorizia. 9. Arcidiacono A. et alii (2010, a cura di), Rapporto CRCS 2010, INUedizioni, Roma 10. In Italia la superficie artificiale, di cui quella urbana è il sottoinsieme di gran lunga prevalente, viene stimata intorno al 7% (Munafò M., 2014, Obiettivi e risultati del sistema di monitoraggio del consumo di suolo, in Arcidiacono A. et alii (a cura di), Politiche, strumenti e proposte legislative per il contenimento del consumo di suolo in Italia – Rapporto CRCS 2014, INUedizioni, Roma, pp. 13-17) 11. Arcidiacono A. et alii (2010), op. cit., p. 170 12. Disegno di legge n.393/2013, Norme per il recupero di suolo all'uso agricolo e ambientale per lo sviluppo sostenibile del Veneto. 13. Cfr. intervento di Tiziano Tempesta (Università di Padova) alla Scuola di Governo del Territorio Emilio Sereni (16 marzo 2013) presso l'istituto Alcide Cervi di Gattatico (RE), dal titolo: Sprawl urbano, agricoltura moderna e degrado del paesaggio. 14. Arcidiacono A. et alii (2010, a cura di), op. cit., p. 198 15. Maddalena P. (2014), Il territorio bene comune degli italiani. Proprietà collettiva, proprietà privata e interesse pubblico, Donzelli editore. Roma, p. 200 16. FAO, 1996, Rome Declaration on World Food Security, http://www.fao.org/wfs/index_en.htm 17. Dati tratti dai factsheet della conferenza di Berlino 2013 consultabili in www.globalsoilweek.org 18. Tiepolo M. (2002), Urbanizzazione e sicurezza alimentare. A Niamey, Niger, in Storia Urbana n. 98-99/2002, Franco Angeli, Milano.
L'opera culturale può divenire l'energia di base per «riappropriarsi del nostro territorio e dei grandi valori che esso contiene»²⁹ sconfiggendo quella grande rimozione culturale del valore della terra in quanto bene comune. Se non possiamo permetterci che si vada avanti a consumare suolo e futuro, ancor meno possiamo permetterci di lasciare che le prossime
generazioni crescano nuovamente ignoranti di ciò che hanno sotto i piedi. Sarà loro la responsabilità di tutelare il prossimo suolo libero, ma nostra, e ora, quella di iniziare a farlo subito, come subito va spiegato loro fin da piccoli.
19. Questo coefficiente, molto delicato e complesso, deriva dal seguente doppio percorso di calcolo che va a convergere proprio sul valore numerico del coefficiente. Partiamo dalla dieta procapite giornaliera che possiamo assumere pari a 2500 kcal, assortita in verdure, carni e latticini, richiede un'estensione di circa 1500 mq per persona. Un ettaro di superficie agricola può quindi sfamare 6,6 persone (Cfr. Mercalli L., Sasso C. (2004), Le mucche non mangiano cemento, SMS, Torino). Secondo altri studiosi il fabbisogno energetico procapite giornaliero potrebbe essere ben maggiore (Pretolani 2012: 3638 kcal/persona*giorno) e ciò andrebbe a peggiorare il bilancio globale (cfr. Pretolani (2012), Agricoltura lombarda e consumo di suolo agricolo, report interno EUPOLIS, presentato in Regione Lombardia il 10 ottobre 2012; www.eupolis.regione.lombardia.it/shared/ccurl/562/658/P retolani.pdf). Sempre secondo Pretolani in Lombardia gli abitanti mantenibili per ettaro, con l'attuale produzione, ammonterebbe a 5,7 [ecco allora che qui prendiamo un valore intermedio pari a 6] (cfr. anche il rapporto L'agricoltura lombarda conta - 2013, www.inea.it/documents/10179/124894/Lombardia2013_w eb.pdf, p. 13) e i consumi di suolo dal 1982 al 2010 hanno ridotto la capacità di produzione alimentare in termini di equivalenti energetici del 6,3% (“La riduzione della superficie agricola negli ultimi 30 anni [in Lombardia] ha portato ad una diminuzione della produzione di calorie vegetali del 9,7% e del valore della produzione del 5,9%”). Con tale risultato la Lombardia ha peggiorato la sua auto capacità di soddisfare la domanda interna di cibo (sempre secondo Pretolani il tasso di autoapprovvigionamento globale al 2011 era pari al 79% e quello per consumi umani del 60%), aumentando la propria dipendenza da approvvigionamenti esterni. Ciò ha prodotto ripercussioni anche a livello nazionale, esponendo l'Italia ad una maggior dipendenza e ad una minor sicurezza di avere sufficiente cibo. Tale ragionamento e quindi l'applicazione di tale metodologia vale anche per tutte le regioni. 20. Secondo il documento presentato dal ministro dell'agricoltura del governo Letta, Mario Catania, e allegato alla proposta di legge per contenere i consumi di suolo, l'Italia attualmente produce circa l'80-85% delle risorse alimentari necessarie a coprire il fabbisogno dei propri abitanti. Insomma, non è autosufficiente. (MIPAF, Costruire il futuro: difendere l'agricoltura dalla cementificazione. Rapporto tecnico allegato al Disegno di legge quadro in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo del suolo – Luglio 2012) 21. Lo spreco alimentare è una piaga assolutamente non considerata. Bisogna riflettere che a ogni cibo gettato nell'immondizia corrisponde un pezzo di terra coltivato per nulla e/o un trasporto fatto per nulla e/o una spesa energetica fatta per nulla, una spesa pubblica per smaltire quello che diviene rifiuto e, non ultimo, è un cibo sottratto a chi non ha da mangiare. In Italia, Andrea Segrè si occupa da anni con la sua ricerca di dimostrare l'insostenibilità degli sprechi e per la precisione proprio quel cibo che viene gettato via prima di arrivare in tavola. Secondo i suoi studi
l'1,19% del PIL italiano (al 2011) va in pattumiera generando costi sociali e pubblici elevati (Segrè A. (2013), Vivere a spreco zero. Una rivoluzione alla portata di tutti, Marsilio, Venezia, p. 43). Si tratta di un equivalente teorico di 180 kg di cibo che ogni anno ogni cittadino getta via prima di scartare. 22. Agnoletti M. (2010), Paesaggio Rurale. Strumenti per la pianificazione strategica, Edagricole, Milano. 23. Recentemente la regione Toscana ha approvato una legge (n. 65/2014) introducendo una sostanziale novità nel panorama nazionale in materia di tutela dei suoli agricoli. Questi non possono essere più trasformati se esterni al perimetro edificato a meno che si ottenga autorizzazione da una conferenza di co-pianificazione, composta da Regione, Provincia e Comune interessato. La legge dovrebbe bloccare i nuovi consumi di suolo e comunque eventuali decisioni non sono più nell'autonomia del singolo comune ma prese in carico da un nuovo soggetto che ha una visione territorialista ed è meno prossimo alle pressioni locali. Riferimenti: approvazione del Consiglio Regionale in data 29/10/2014 e pubblicazione sul BURT n. 53 del 12/11/2014. 24. Il grafico è stato pubblicato e discusso dallo scrivente in varie sedi. Questa versione è tratta dalla pubblicazione Di Simine D., Pileri P., Ronchi S. (2013), Consumo di suolo e questioni ambientali, in ilProgettosostenibile, 33/2013, pp. 14-23 25. La frase in corsivo è tratta da una celebre affermazione di Antonio di Cederna 26. Si legge in un recente piano di governo del territorio lombardo integrato tra diversi comuni (variante adottata nel 2014): «Il documento di piano offre un paniere articolato di occasioni insediative che complessivamente, non provocano distorsioni sulla rendita immobiliare e sull'equilibrio tra domanda o offerta (come altrimenti sarebbe successo adottando politiche che comprimessero eccessivamente le opzioni insediative» (p. 55). «Le percentuali di incremento della popolazione insediabile nel quinquennio di attuazione del PGT-I (riferite al 2014) sono state individuate sulla base delle previsioni demografiche di carattere strutturale di lungo periodo corrette al rialzo sia per tenere conto in parte delle dinamiche più recenti sia per evitare una compressione dell'offerta insediativa che potrebbe provocare distorsioni del mercato immobiliare» (p. 59). Fonte del documento pianificatorio: Terre dei Navigli, Piano di Governo del Territorio Integrato, Documento di Piano Integrato. 27. Pileri P. (2014), Volo del calabrone e piano del sindaco sono inconciliabili. Scala ambientale e scala amministrativa alla ricerca di nuove forme di convivenza, in Arcidiacono A. et alii (a cura di), Politiche, strumenti e proposte legislative per il contenimento del consumo di suolo in Italia – Rapporto CRCS 2014, INUedizioni, Roma, (p. 69-75) 28. Cfr. il comunicato stampa datato 20.11.2014: http://lombardia.legambiente.it/contenuti/comunicati/leg ge-ammazzasuolo-apportate-misure-di-limitazione-deldanno-ma-il-cuore-della29. Maddalena P., op. cit. p. 205
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LE TEORIE E LE ESPERIENZE
Coltivare la città contemporanea. Le sfide dei “paesaggi agrourbani multifunzionali” di Viviana Ferrario*
*Viviana Ferrario, Università Iuav di Venezia
Nella seconda metà del novecento l'agricoltura è stata relegata ai margini dell'economia e della società occidentali: pur essendo stata fonte primaria di ricchezza e di lavoro per lunghissimo tempo, di fronte alle prestazioni degli altri settori economici l'agricoltura dà oggi un contributo quasi trascurabile al prodotto interno lordo ed è quasi irrilevante in termini di numero di addetti. Le politiche agricole hanno perseguito a lungo il principio della massima indipendenza rispetto alle condizioni geografiche nelle quali l'agricoltura veniva praticata, ignorando la sua straordinaria capacità di produrre territorio e di costruire paesaggi. Insieme all'agricoltura anche il territorio coltivato ha perso valore economico e sociale, e il processo di urbanizzazione che ha portato alla costruzione della cosiddetta città contemporanea ha potuto travolgere le aree agricole sostanzialmente senza essere realmente governato. Oggi le cose sembrano improvvisamente cambiate: le politiche di sostegno all'agricoltura sono state riviste nella direzione di valorizzarne il contributo ambientale e paesaggistico, e da alcuni anni, complici forse le nuove condizioni poste dalla crisi della seconda metà degli anni 2000, l'intera società occi-
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dentale manifesta verso l'agricoltura un nuovo generale interesse. I giovani cercano lavoro in agricoltura; nuove pratiche emergenti come quelle legate agli orti urbani, ai mercati di prossimità, all'agricoltura sociale, coinvolgono i cittadini e attirano l'attenzione degli studiosi: lo stesso tema “nutrire il pianeta, energie per la vita”, scelto per il prossimo Expo 2015, allude ad una nuova sensibilità collettiva non solo per i cicli naturali, ma anche per quelli produttivi agricoli, che permettono la vita dell'essere umano sulla terra. Nel corso del XX secolo il consumo di suolo agricolo è stato l'argomento più popolare contro la dispersione urbana e in favore di politiche di contenimento che hanno però avuto un grado di efficacia assai limitato (Bruegmann, 2005). Con la crisi alimentare del 2008 nel dibattito italiano in particolare è riemerso il concetto di "consumo di suolo", già esplorato negli anni ottanta del novecento, e la tutela dei terreni agricoli fertili è divenuta nuovamente popolare. Da più parti si chiedono nuove politiche di contenimento, anche di tipo radicale: il cosiddetto approccio "ettaro zero" propone una crescita urbana senza espansione (cioè senza consumare nemmeno un ettaro di terreno agricolo). Le implicazioni di que-
sta prospettiva sono molto importanti, in quanto spostano l'attenzione dalla limitazione della nuova espansione (il principio che ha guidato le politiche antisprawl fino ad oggi) ad uno sviluppo senza espansione, che presuppone un investimento sulla trasformazione del tessuto urbano esistente. Si tratta di immaginare un diverso progetto per la città contemporanea, che si affranca da posizioni consolidate e apre a nuovi paradigmi. Quale è oggi il ruolo dello spazio coltivato in questa importante partita? 1. Richieste multiple all'agricoltura Un buon modo per provare a rispondere a questa domanda è mettere in fila le richieste che la nostra società urbana esprime nei confronti dell'agricoltura. In primo luogo certamente l'agricoltura produce cibo. La crisi alimentare globale che stiamo attraversando si manifesta sia in termini di scarsità e di conseguente aumento dei prezzi, sia di declino della qualità degli alimenti. L'allungamento artificioso delle filiere alimentari comincia ad esser messo in discussione e il controllo sulla provenienza dei prodotti viene richiesto con sempre maggior forza. In connessione con il tema della “filiera corta” (una delle parole d'ordine degli ultimi anni) si colloca la questione dell'approvvigionamento alimentare nelle aree lontane dalla produzione agricola, delle grandi metropoli, dei food desert. I casi di Londra (www.capitalgrowth.org) e di Rennes “ville vivriere” (Darrot et al. 2010) testimoniano, tra molti altri, l'importanza che viene oggi attribuita al tema della sicurezza alimentare (Di Bartolomei et. al, 2014), che si declina in termini di quantità di derrate ma anche di qualità e tracciabilità della produzione. In secondo luogo l'agricoltura è chiamata ad erogare particolari servizi ai cittadini, in quanto spazio per il tempo libero, o per attività educativo-terapeutica (fattorie didattiche, agricoltura sociale); in questo caso lo spazio dell'agricoltura si configurerebbe come una sorta di “standard urbanistico” sui generis, una forma di welfare spaziale, una sorta di immenso “parco” coltivato, la cui manutenzione sarebbe in un certo senso pagata dai cittadini europei attraverso la Politica Agricola Comune. C'è poi una visione dello spazio agrario come patrimonio culturale, riconosciuta in
modo crescente anche dalle istituzioni (Agnoletti, 2011), che sollecita la conservazione di pratiche tradizionali e di paesaggi agrari storici. Altre richieste trovano la loro origine nella questione ambientale: lo spazio agrario è chiamato a contribuire all'accrescimento della biodiversità, l'agricoltura ad essere strumento di conservazione di specifici habitat. Crescenti sono le richieste espresse nei confronti dello spazio agrario come luogo di produzione di energia: sia sotto forma di coltivazioni di biomasse, legnose e non, che sostituiscono i combustibili fossili, sia sotto forma di “spazio a disposizione” per l'installazione di impianti di energie alternative, per esempio il fotovoltaico o le centrali a biogas. Non trascurabile è il contributo potenziale dello spazio coltivato al controllo del cambiamento climatico, sia attraverso la conservazione del patrimonio arboreo, sia attraverso l'impiego di pratiche agricole che non diminuiscano la fertilità del suolo (ricordiamo che nel suolo fertile è contenuta gran parte della CO2 del pianeta). Nei territori fragili delle pianure alluvionali possiamo aggiungere il contributo dello spazio coltivato alla sicurezza idraulica, con la sua capacità di trattenere volumi d'acqua in eccesso in situazioni di emergenza. Insomma, entro lo spazio coltivato la città contemporanea cerca un modo per aumentare la sua sostenibilità e la sua resilienza, per chiudere alcuni dei cicli che nelle concentrazioni urbane restano aperti (Urban Agriculture, 2009). 2. Agriculture through the (contemporary) city Ne sono prova gli studi e i progetti che esplorano in modi diversi il mutuo rapporto tra spazio urbano e spazio coltivato, che si sono moltiplicati negli ultimi anni fino a formare un ricco filone, entro il quale troviamo noti progetti di metissage agrourbani quali la “Philippi Housing” di Noero Wolff architects, (2006), “Hinterland” di FKL Architects (2006), “Rethinking happiness” di Cibic (2010), la strategia Agropolis per Monaco (2011) o quella di Manuel Gausa per Barcellona, e nuovi strumenti per il governo del territorio come gli champs urbains dello SCoT du Pays de Rennes (2007) o il “Patto città-campagna” del PTRC della Regione Puglia (2009). Proposte di nuovi paradigmi come i continuos productive landscapes
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di Viljoen et al. (2005, 2014), l'agriurbanisme di Vidal e Vilain (2009), l'agrarian urbanism di Waldheim (2010) si accostano ad esperienze come quelle dei parchi agricoli (Magnaghi e Fanfani 2010). Pur nella diversità delle scale, degli approcci e degli obiettivi immediati, mi sembra che da questi progetti emerga un tentativo comune: quello di riflettere sulla dimensione spaziale delle problematiche di cui ho parlato nel paragrafo precedente. Mi sembra infatti che la possibilità che l'agricoltura possa rappresentare un elemento di resilienza per la città contemporanea, sia soggetta ad alcune questioni di tipo squisitamente spaziale, che pongono delle domande rilevanti alle discipline del territorio. In primo luogo infatti esiste un problema di mutua relazione tra lo spazio urbano e lo spazio coltivato che va a mettere in discussione la forma stessa della città. La ricerca dello spazio coltivato per rispondere a certi bisogni della città e dei cittadini ha delle “potentially profound implications for the shape and structure of the city itself” (Waldheim, 2010). Sottesa ad essa infatti c'è un'idea di città-territorio in cui coltivare e abitare sono azioni vicendevolmente compatibili, e che possono avvenire sul piano della prossimità e della mescolanza piuttosto che su quello della separazione e della distinzione. Anche le posizioni apparentemente più ferme sull'ideale della città compatta, nella pratica del progetto si stemperano e tendono a lavorare sulla mescolanza (Magnaghi e Fanfani, 2010, p. 226). Sembra insomma che anche nelle posizioni più radicali una rigida separazione tra spazio urbano e spazio agrario non sia più l'unico obiettivo possibile di ogni progetto di territorio. Non si tratta cioè più di inseguire una forma ideale della città espressione di una società lontana e molto diversa dalla nostra, ma di fare i conti con i caratteri attuali dei territori che la nostra società ha prodotto, per migliorarli. La città contemporanea non ha una forma, ne ha più di una. La mescolanza tra spazio urbano e spazio dell'agricoltura non è più una colpa, ma una opportunità. Ma l'attenzione all'agricoltura nella città contemporanea solleva un secondo problema spaziale: la conservazione della biodiversità, la produzione di energia, la produzione alimentare, la sicurezza idraulica hanno tutte bisogno di spazio, e tendenzialmente entrano
in competizione per gli stessi spazi. Lo sviluppo degli agro-carburanti può entrare in competizione con la produzione alimentare, la coltivazione delle biomasse riduce tendenzialmente la biodiversità, la creazione di aree di laminazione sottrae terreni alla produzione, l'uso ricreativo del territorio agricolo o le esigenze di conservazione del paesaggio agrario storico possono scontrarsi con la produzione alimentare e così via. Questa competizione si gioca, certo, sul fronte delle pratiche e delle tecnologie, così come sul fronte delle conoscenze biologiche e agronomiche: tuttavia la dimensione spaziale è rilevante. Ho proposto queste questioni ai partecipanti del convegno Agriculture through the city, che si è svolto presso l'Università Iuav di Venezia nel maggio 2012 (www.iuav.it/agriculturethrough-the-city). Ne è emerso il carattere di trasversalità territoriale e di transcalarità dello spazio coltivato, dall'orticoltura urbana alle grandi monocolture intensive, e la necessità di considerarlo tutto (non solo quello interno alla città) nel quadro di un progetto di territorio che integra l'agricoltura tra i suoi materiali. Tuttavia le conseguenze di queste opportunità restano ancora in gran parte inesplorate: una delle frontiere sulle quali pare opportuno riflettere è quella della multifunzionalità. 3. Paesaggi agrourbani multifunzionali Per descrivere la capacità dell'agricoltura di soddisfare le richieste multiple che abbiamo più sopra individuato, le politiche agricole fanno riferimento al suo carattere “multifunzionale” che “refers to the fact that an economic activity may have multiple outputs and, by virtue of this, may contribute to several societal objectives at once. Multifunctionality is thus an activity oriented concept, that refers to specific properties of the production process and its multiple outputs (si riferisce al fatto che una attività economica può avere diversi output e, grazie a questi, può contribuire contemporaneamente a diversi obiettivi della società. Multifunzionalità è pertanto un concetto orientato all'attività, riferendosi alle specifiche proprietà del processo produttivo e ai suoi molteplici output)” (Maier, Shobayashi, 2001). In questa definizione il significato economico del concetto di multifunzionalità è prevalente, ma esso può avere un particolare interesse anche per le discipline terri-
toriali. Esso infatti permette di interpretare in modo diverso non solo l'agricoltura europea in quanto attività economica, ma anche l'assetto stesso delle aree agricole e il loro ruolo territoriale. Applicata alla pianificazione del territorio la multifunzionalità ha effetti potenzialmente rivoluzionari. L'ultimo decennio infatti è stato importante per una miglior comprensione non solo del carattere multifunzionale dei paesaggi agrari, che combinano funzioni di tipo ecologico-ambientale, economico, sociale, ricreativo, estetico simbolico, ma anche delle potenzialità insite nel concetto stesso di “paesaggio multifunzionale” (Brandt, Vejre, 2004; Selmann, 2009). Interpretare il territorio come una stratificazione di paesaggi multifunzionali, può avere ricadute interessanti sulla comprensione e sul progetto sia di aree in forte competizione per l'uso del suolo come sono quelle metropolitane, sia in aree marginali che sembrano destinate al declino; costringe a concepire lo spazio urbanizzato e quello coltivato, le aree dell'abbandono e quelle della pressione insediativa, in un disegno unitario che lavora sulle relazioni mutue tra le diverse funzioni e componenti e che esplora le possibilità e le regole della convivenza; consente di superare la stessa categoria di “uso del suolo”, proponendo una visione alternativa a quella tradizionale dello zoning e una dimensione attenta tanto agli usi stabili e duraturi quanto a quelli temporanei ed effimeri; consente di misurarsi con il tema dei cicli di vita. Su questi temi vorrei proporre all'attenzione di chi legge quattro esplorazioni progettuali che mi hanno coinvolto a diverso titolo negli ultimi anni. 3.1 Quattro esplorazioni progettuali È bene chiarire che non si tratta di progetti con un preciso committente e con un budget: si tratta piuttosto di occasioni nate da una riflessione sui territori del nord-est italiano condotte in un contesto di ricerca e di didattica. Hanno un contenuto dichiaratamente provocatorio e non trovano riscontro - anzi contraddicono - le indicazioni degli strumenti urbanistici. Ben sapendo che questo costituisce un limite rilevante, mi pare però che nel loro insieme queste provocazioni traccino un possibile programma per ridefinire il ruolo dello spazio coltivato nel futuro del territorio contemporaneo.
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3.1.1 Orti alti a Padova Orti alti è un'idea nata nel contesto dell'iniziativa per il Parco Agro-paesaggistico Metropolitano di Padova (PaAM). Attorno al programma del PaAM si è avviato nel 2014 un percorso di Agenda 21 coordinato dal Comune di Padova, che ha visto la partecipazione di associazioni, cittadini, scuole agrarie e aziende agricole. Obiettivo è quello di costruire una strategia per la salvaguardia e la valorizzazione degli spazi agricoli periurbani, in una prospettiva di rinnovamento e riqualificazione multifunzionale delle stesse attività agricole. La strategia si appoggia ad alcune esperienze già in atto, istituzionali, come gli orti sociali del Comune e il Parco etnografico di Rubano, e di resistenza, come il Presidio Sotto il Portico, che da anni si oppone all'espansione della Zona Industriale. Entro le attività del comitato per il PaAM abbiamo immaginato un progetto provocatorio per uno degli spazi urbani della città più scandalosamente privi di un progetto credibile. L'esplorazione progettuale si misura con il complesso del macello e foro boario comunali, progettati negli anni sessanta da Giuseppe Davanzo e mai entrati appieno in sevizio. Localizzata lungo la tangenziale ovest, l'area di 15 ettari è oggi completamente impermeabilizzata, una gara bandita dal Comune per il suo riuso a fini residenziali e terziari è andata deserta. La proposta provocatoria è quella di rinunciare a valorizzare dal punto di vista immobiliare l'area, per trasformarla invece in una urban farm. Le superfici asfaltate verrebbero asportate, il suolo rinaturalizzato e messo a coltura, gli edifici dismessi del macello, delle stalle di sosta e del foro boario verrebbero impiegate per le necessità dell'azienda agricola, che gestirebbe anche i 10.000 metri quadri di orti sociali, da ricavarsi sulle coperture del complesso edilizio (fig. 1). 3.1.2 De-industrial park nella pianura veneta La proposta nasce nel quadro della ricerca «Agropolitana» grazie alla quale tra il 2010 e il 2013 ho ragionato sulla costruzione di scenari progettuali per i paesaggi agrourbani della pianura centrale veneta (Ferrario, 2011; 2012; 2013). La ricerca ha lavorato con i diversi pattern che nel loro insieme costruiscono il territorio contemporanea (Gabellini, 2010). Uno di questi pattern è quello delle placche indu-
Orti Alti (2012). Proposta provocatoria per la trasformazione dell'area dismessa del macello e foro boario comunali di Padova in una urban farm, con orti sociali sui tetti del complesso progettato da Giuseppe Davanzo negli anni Sessanta. Nata nell'ambito del comitato promotore del Parco Agropaesaggistico Metropolitano di Padova la proposta è stata presentata nel corso del Salone del Gusto e Terra Madre a Torino del 2012
striali disperse nel territorio (in media quattro per ogni comune nel Veneto) e spesso mescolate alla campagna coltivata. Come è noto, una delle sfide che questo territorio dovrà affrontare nel prossimo futuro è quello del surplus di queste zone industriali e artigianali, sovradimensionate, spesso non completamente realizzate e oggi nettamente sottoutilizzate a causa della delocalizzazione delle attività produttive e della crisi economica. La proposta prova a rispondere ad alcune indicazioni provenienti dai piani territoriali (Regione del Veneto, 2009, Provincia di Treviso, 2010), radicalizzandole. Si esplora la possibilità di gestire la dismissione controllata di alcune di queste aree in una prospettiva temporale di lungo periodo. I terreni non utilizzati possono ospitare da subito colture di biomasse legnose; nei capannoni abbandonati si possono ospitare gli allevamenti che recano disturbo ai residenti; mano a mano che nuovi capannoni rimangono vuoti si smontano e il terreno viene bonificato e messo a coltura. Gli ampi spazi impermeabili inutilizzati vengono rinaturalizzati. Si tratta dunque di uno scenario in fieri, che sfrutta i tempi spontanei della dismissione, senza forzarla. Tutti gli stadi intermedi sono progettati su un modello che non teme la commistione tra lo spazio coltivato e quello urbanizzato e che anzi che ne valorizza le possibili mutue alleanze (fig. 2). L'esito, tem-
poraneo ma di lungo periodo, si rifà esplicitamente all'utopia agrourbana di Agronica (Branzi, 1996). 3.1.3 «Recycling agricultural space» nel bacino del Marzenego Anche questa proposta nasce entro la ricerca “Agropolitana” e ne costituisce anzi il cuore: si tratta infatti di immaginare una diversa configurazione dell'area centrale veneta come paesaggio agrourbano multifunzionale. La parte che presento qui è stata successivamente ripresa nel contesto di uno dei workshop organizzati dall'unità di ricerca dell'Università Iuav di Venezia entro il Programma di Rilevante Interesse Nazionale “Recycle Italy” (Tosi et al., 2014). Nel quadro di una riflessione progettuale sul bacino idrografico del fiume Marzenego, propongo di “riciclare” lo spazio coltivato entro un quadro di valori collettivi, quali la sicurezza alimentare e la qualità degli alimenti, la biodiversità, la sicurezza idraulica, la produzione di energie rinnovabili, lo spazio per il tempo libero. Quattro azioni disegnano un nuovo paesaggio agrario multifunzionale. La prima risponde al problema della sicurezza idraulica e all'esigenza di razionalizzare le filiere alimentari: le colture compatibili con esondazioni di breve periodo (prati, pascoli, colture perenni da biomassa) vengono con-
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centrate lungo i corsi d'acqua nelle parti meno elevate del territorio, formando nuove aree ad alluvionamento programmato ausiliarie rispetto alle aree di laminazione principali, e contribuendo alla necessaria estensivizzazione degli allevamenti bovini. La seconda azione migliora la sicurezza idraulica lungo le strade, costruisce habitat potenziali e protegge le colture dagli inquinamenti originati dal traffico veicolare: i bordi dei campi affacciati lungo le strade vengono risagomati e forestati, costruendo un filtro tra strada e campo, che può combinarsi con percorsi ciclopedonali. La terza azione risponde alla necessità di connessione naturalistica tra i corridoi ecologici della Rete Ecologica Regionale e contemporaneamente a quella di preservare i seminativi a scopo di produzione alimentare e di uso del territorio agricolo per il tempo libero: si tratta di agroforestazione su larga scala, articolata in fasce boscate che contengono percorsi ciclopedonali, alternate con fasce agroforestate, dove i seminativi convivono con la presenza degli alberi per la produzione di legno da opera. La quarta azione è volta alla produzione di energia da biomassa, alla costruzione di habitat volti a rammendare il tessuto connettivo arboreo a scala minuta tra i corridoi ecologici principali, alla fitodepurazione degli inquinanti di origine agricola:
l'azione riempie le smagliature nel sistema delle siepi campestri con nuovi impianti diffusi di fasce tampone boscate lungo fossi e scoline (fig. 3). 3.1.4 Oltre l'abbandono della montagna : ricoltivare i versanti a Pontebba Si tratta di un progetto sviluppato in una tesi di laurea magistrale che ha come oggetto il recupero delle aree dismesse di Pontebba, centro delle Alpi Giulie, in provincia di Udine, situato a pochi chilometri dalla frontiera con Austria e Slovenia (Mazzucco, Peroni, 2014). La costruzione dell'area doganale ferroviaria più importante del nord-est italiano e di tre grandi caserme militari occupa nella seconda metà del novecento i terreni fertili del fondovalle, mentre l'economia nata attorno allo scalo doganale e alle caserme accelera il processo di declino delle attività agropastorali e l'abbandono dei versanti. La chiusura delle caserme e della dogana seguito alla fine della Guerra Fredda e agli accordi di Schengen (1995), fa sì che oggi il 25% del suo suolo urbano di Pontebba sia dismesso. La tesi mette in discussione un progetto di sviluppo del settore turistico invernale elaborato dalla Regione Friuli Venezia Giulia, che prevede la realizzazione di un collegamento funiviario tra il centro di Pontebba e l'importante comprensorio sciistico austriaco
di Pramollo-Nassfeld, con il recupero delle aree militari dismesse per destinarle alla ricettività turistica. Nel quadro del Progetto Pramollo i 18 ettari dell'area dell'ex dogana ferroviaria di Pontebba verrebbero trasformati in un parcheggio per 2000 posti auto. La proposta alternativa elaborata dalla tesi è quella della trasformazione della dogana ferroviaria dismessa in una azienda agricola cooperativa, con l'obiettivo di recuperare alla coltivazione non solo i terreni dello scalo ferroviario bonificati, ma anche i prati abbandonati dei versanti vallivi circostanti. Grazie ad un ristorante e ad uno spazio per la vendita diretta dei prodotti la cooperativa agricola intercetta sia il mercato potenziale rappresentato dagli sciatori che quello legato all'itinerario ciclabile Alpe Adria (fig.4). 4. Un progetto di territorio che include l'agricoltura : questioni aperte La nuova sensibilità per i cicli di produzione agricola si sposa con una nuova attenzione al rapporto tra urbanizzazione e spazio coltivato, che sta esplorando forme nuove di convivenza tra coltivare, abitare e produrre. Come può questa stagione di riflessioni contribuire al progetto della città contemporanea? Come ho già anticipato e come mostrano gli esempi sopra riportati, questo contributo va in due
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direzioni. La prima è una sollecitazione a riflettere di nuovo sulla forma della città: il territorio contemporaneo può essere riletto e riprogettato alla luce del mutuo rapporto tra spazi coltivati e spazi abitati (Ferrario, 2011; Lanzani, 2012). Ciò significa da un lato “accettare” come progettabili certi territori stigmatizzati e implicitamente ritenuti non progettabili (ad esempio quello della città diffusa); dall'altro significa avere a disposizione un modello nuovo, che in certe condizioni, può essere proposto anche per la città consolidata e per le periferie urbane. La seconda direzione che la nuova attenzione all'agricoltura ci suggerisce è la possibilità di progettare il territorio contemporaneo come un paesaggio multifunzionale. Coltivare la città contemporanea, certo, è uno slogan, ma si può articolare nell'invito ad alcune azioni innovative degne di nota: - Coltivare le aree dismesse. Questa azione permette di guardare alla dismissione come ad una opportunità invece che un limite: la messa a coltura di aree dismesse conferisce loro valore, un valore diverso da quello puramente immobiliare, contraddicendo implicitamente i meccanismi della rendita; - Coltivare le aree in attesa: permette di dare un senso ai “tempi morti” dell'urbanistica, quelli che intercorrono tra una previsione di
piano e la sua realizzazione. La loro durata, spesso importante, fa venire il sospetto che non si tratti di incidenti imprevisti ma di un problema strutturale del governo del territorio così come lo concepiamo ora, che potrebbe essere rivisto alla luce di una attenzione specifica per la dimensione del “temporaneo”;
- Coltivare i territori della dispersione. Questa azione propone di guardare alla dispersione insediativa come un confuso laboratorio dove, sia pure con alterni successi e in modo assi poco riflessivo, si è sperimentata una nuova forma di città: lo spazio coltivato consumato, frammentato, intercluso, può essere il punto di partenza per un progetto
De-industrial park (2011). Scenario di dismissione controllata di una zona industriale-artigianale nella città diffusa veneta, progressivamente de-impermabilizzata e ricoltivata, fino a raggiungere un pattern discontinuo infrastrutturato sul modello di Agronica (Branzi, 2005)
finalmente adeguato ai suoi caratteri; - Coltivare paesaggi multifunzionali: invita a dare diversa sostanza alle critiche alle tecniche di zoning, oltre la mixité, verso il riconoscimento della multifunzionalità di ogni parte del territorio. - Ri-coltivare i versanti vallivi: nel progetto del territorio contemporaneo è necessario
Recycling agricultural space (2011-2014). Proposta di “riciclo” del territorio agricolo del veneto centrale come paesaggio agrourbano multifunzionale, per
After Schengen (2014). In questa tesi di laurea (Mazzucco e Peroni, 2014) la dogana ferroviaria di Pontebba, dismessa dopo i trattati di Schengen, diventa una cooperativa agricola con l'obiettivo di tornare a coltivare i versanti abbandonati del Canal del Ferro e i pascoli alti
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includere la montagna, coinvolgendo quelle parti di territorio che la modernità ha lasciato ai margini e che alla luce delle condizioni attuali acquistano nuovamente valore. Tutto questo però non possono farlo gli urbanisti da soli: coltivare la città contemporanea obbliga al confronto e alla collaborazione con
altri saperi e con altre discipline, costringe all'ascolto e alla collaborazione con attori territoriali precedentemente non considerati (gli agricoltori, le associazioni), spinge a immaginare nuovi e diversi strumenti di governo. Un lavoro ancora tutto da fare.
rispondere alle richieste della città contemporanea nei confronti dell'agricoltura e dei suoi spazi: cibo, energia, biodiversità, tempo libero, sicurezza idraulica
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LE TEORIE E LE ESPERIENZE
I contadini di montagna e le murature in pietra dei terrazzamenti resistono di Timmi Tillmann* e Maruja Salas*
*Timmi Tillmann e Maruja Salas sono membri della ITLA - Alleanza Internazionale dei Paesaggi Terrazzati. L'articolo è stato tradotto dall'inglese da Elena Faccio e Sergio Paolazzi.
Chi siamo? Eravamo 50 sognatori, visionari entusiasti che si sono incontrati nella provincia cinese dello Yunnan nella Prefettura del Fiume Rosso nel novembre 2010 in occasione della prima conferenza sui Paesaggi terrazzati, e abbiamo fondato l'Alleanza Internazionale dei Paesaggi terrazzati (ITLA) per tutelare, preservare e promuovere questi paesaggi e le relative culture. Ora siamo più di 100 attivisti, agricoltori e ricercatori provenienti dalle Americhe, Europa, Africa e Asia, interessati a dar voce ai custodi dei terrazzamenti e a promuovere l'importanza dei paesaggi terrazzati per la produzione di cibo. Siamo impegnati ad organizzare la Terza Conferenza Internazionale sui Paesaggi Terrazzati e le sue culture che si terrà in Italia nel 2016. Ci proponiamo di mappare i terrazzamenti esistenti e mostrare le loro peculiarità ecologiche, culturali e gastronomiche, raccogliere una bibliografia selezionata e commentata sul mondo dei paesaggi terrazzati e le sue culture, intraprendere dei casi di studio, individuare i più esperti custodi, costruttori e agricoltori coinvolgendoli nel dialogo necessario tra sistemi di conoscenza. Vogliamo intraprendere azioni volte a preser-
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vare, proteggere e promuovere il recupero dei terrazzamenti e del loro ruolo nella storia dell'agricoltura del genere umano. Siamo un'alleanza a favore degli agricoltori emarginati e privi di potere, uomini e donne, per sostenere il loro inserimento e la loro voce per una vita dignitosa. Cosa ci unisce? La visione di un futuro in cui questi custodi dei terrazzamenti e le loro biodiversità, continuino a godere della cultura dei loro territori e trasformarli in paesaggi interiori di identità multiple, dove possano conquistare spazi democratici per difendere i loro raccolti, le loro risorse, i loro mezzi di sussistenza in modo da poterli sentire in Asia, Africa, Europa e nelle Americhe. Perché ci concentriamo su terrazzamenti Le condizioni ambientali delle zone di montagna sono state la base naturale per domesticare piante utili al consumo umano. Vavilov individuò otto centri di domesticazione in diversi continenti dove per migliaia di anni una grande varietà di piante domestiche e selvatiche hanno contribuito a creare questo patrimonio dell'umanità. Le pratiche e le conoscenze delle comunità locali sulle condizioni naturali atte a
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1. Discussioni di gruppo durante la conferenza 2. Vigneti e ciliegi a Goriska Brda (Slovenia) 3. Contadini in costume etnico dallo Yunnan 4. Paesaggio terrazzato nella regione cinese di Yuanyang
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Fotografia di L. Chisté
favorire la crescita delle piante hanno contribuito alla sopravvivenza di questo patrimonio e dell'umanità. I centri Vavilov mantengono ad oggi il loro significato come spazi di conservazione delle piante, e non a caso si trovano in zone di montagna prevalentemente tropicali e subtropicali, che godono di condizioni (naturali e culturali) favorevoli alla domesticazione delle piante. Si tratta di un prezioso tesoro dell'umanità, messo in pericolo dal processo di modernizzazione della produzione agricola e dalla vita rurale messa a dura prova. Saggezza e pratiche locali Esistono paesaggi terrazzati in tutte le catene montuose del mondo, in cui gli esseri umani hanno coltivato la terra per migliaia di anni e hanno addomesticato le colture alimentari dell'umanità. I terrazzamenti sono stati costruiti sulle montagne, sulle linee di costa e sulle isole, ognuno dei quali con un proprio metodo e competenza. Se ne fanno molteplici usi: uomini e donne, anziani e giovani avvalendosi di un patrimonio culturale di competenze tramandate gestiscono l'acqua, i terreni, i climi e sono in grado di coltivare la biodiversità. Costruiscono paesaggi incredibili grazie alle loro particolari modalità di organizzazione sociale, alle originali tecnologie tramandate di generazione in generazione, con valori culturali locali (riflessi anche nella loro cultura alimentare). Le loro molteplici conoscenze integrano osservazione, tradizione e innovazione, armonizzando la dialettica del rapporto tra esseri umani e natura. Identità multiple Il paesaggio interiore dei custodi, la loro identità, si basa sulla comprensione e sul dialogo con la natura. Il terreno, le montagne, le rocce, la pioggia, le acque sorgive, le piante e gli animali fanno parte della comunità degli esseri viventi, e questo è specifico in ogni luogo e cultura. La reciprocità sociale e il dialogo con la natura permettono che l'evoluzione del clima sia tramandata lungo il calendario annuale e nel corso degli anni di generazione in generazione. Ogni anno il clima è unico in ogni luogo del mondo dove esistono terrazzamenti (regioni aride o umide) – nessun anno è uguale all'altro - e le popolazioni locali hanno imparato che i
cambiamenti, così come le loro vite, dipendono dalla conoscenza della natura. Ogni sistema di terrazzamenti costituisce un universo di interazioni dinamiche tra gli elementi naturali, gli esseri umani e le loro culture. Il tratto comune è però una gestione verticale che riesce a trarre il massimo vantaggio, al di là della variabilità dei climi e dei terreni, dall'adattamento delle piante, domesticate dal popolo in base alle proprie esigenze, all'interesse e alla creatività. Il futuro di terrazzamenti è quello di produrre una varietà di colture con qualità, anche in piccole quantità per garantire una vita decente. Mezzi di sostentamento e stili di vita Una vita sana e tranquilla e i paesaggi rurali terrazzati sono valori associati e riconosciuti anche dalle persone che vengono da fuori. Per la gente del luogo l'agrobiodiversità viene al primo posto, poiché consente di gustare buon cibo secondo la propria cultura alimentare; al secondo posto c'è lo scambio e la vendita di prodotti alimentari nei mercati locali, e ciò consente di rafforzare i legami sociali. La qualità del cibo proveniente da terrazzamenti è straordinaria ed è una prerogativa esclusiva dei consumatori che lottano per la propria sopravvivenza. Le giovani generazioni imparano l'innovazione Le comunità montane dei paesaggi verticali (in realtà tutte le comunità rurali hanno a che fare con la natura, ma questo rapporto è più estremo nelle zone di montagna a causa della biodiversità dei luoghi) hanno messo a punto i propri modi di conoscere e di trasmettere il sapere (attraverso rituali, cerimonie e attività sociali) così che le giovani generazioni possono essere introdotte nella cultura e imparare i segreti tecnici e spirituali di trattare con la natura (terrazzamenti, acqua, suolo e piante). Le comunità terrazzate nei diversi continenti sono creative e solide come i loro muri in pietra. Sebbene forze esterne tendano a reprimere queste comunità considerandole antimoderne e nemiche dello sviluppo unilineare, i loro muri resistono. Attualmente molti terrazzamenti abbandonati da decenni sono stati adottati da giovani generazioni che vivono in armonia con la natura recuperando l'utilità e la bellezza delle regioni di montagna. Stanno nascendo nuove comunità e quelle locali si
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organizzano per difendere i loro diritti sulla terra e sull'acqua, contro gli interessi delle industrie estrattive, supportate da sistemi politici e orientate all'esportazione. Che cosa ci mobilita? In primis è il principio della sovranità alimentare, un diritto umano fondamentale, che inizia con il controllo delle proprie sementi e della propria terra. Significa rispettare le decisioni delle famiglie e delle comunità a favore delle loro culture alimentari come le tradizioni regionali (legate a lingua ed etnia) contro la minaccia dell'uniformismo dell'industria alimentare globalizzata. Noi siamo mossi dall'obiettivo di tutelare un'alternativa allo sviluppo economico convenzionale, consentendo l'autonomia e l'autodeterminazione dei popoli locali a coltivare le proprie specifiche culture. Mantenendo i paesaggi terrazzati nelle zone di montagna le popolazioni rurali continuano la loro storia di vita sostenibile e la difesa dei loro diritti. Le minacce alla cultura dei paesaggi terrazzati Dialogando con le comunità montane del sud est asiatico, della Cina e sulla base delle testimonianze dei custodi dei terrazzamenti del Perù, Ifugao (Filippine) e Bali abbiamo elencato e raccolto una serie di minacce per i paesaggi terrazzati e le loro culture. Queste minacce valgono per tutte le società tradizionali in diverse regioni, ma hanno maggiore peso in questi territori, poiché nelle zone di montagna le condizioni di sopravvivenza sono più difficili. I cambiamenti climatici I popoli di montagna di tutto il mondo sono stati in grado di domesticare il paesaggio per la loro sussistenza e il loro benessere. La previsione climatica basata sull'osservazione di lungo periodo della natura nei microclimi di montagna è stata la chiave che ha permesso di sperimentare, allevare, produrre e sopravvivere come esseri umani e come culture etniche. Il cambiamento climatico mette a dura prova la capacità delle comunità rurali e dei loro esperti per la stagione agricola. In montagna ancora di più: siccità che bruciano i raccolti, piogge torrenziali che producono inondazioni e frane, gelo e grandine che distruggono
le giovani piante. Gli effetti del clima sulla natura percepiti dai contadini e la conoscenza del calendario agricolo non coincidono più con il lavoro dei campi. Ma, per fortuna i paesaggi terrazzati offrono particolari vantaggi nei confronti dei cambiamenti climatici rispetto alla pianura e alla collina. Industrie estrattive e compagnie minerarie L'impatto delle industrie estrattive sulla vita delle comunità è dannoso, disastroso: i sistemi agricoli tradizionali sono intaccati dalle miniere che impiegano le risorse idriche e contaminano le colture alimentari locali inquinando l'acqua di irrigazione e danneggiando la salute degli abitanti, dei villaggi locali e infine dei consumatori urbani. Spesso le società minerarie si impossessano dell'acqua in quanto hanno più potere economico e possono influenzare le autorità che vedono nell'esportazione di minerali la soluzione alle esigenze di sviluppo nazionale a discapito delle esigenze delle piccole popolazioni rurali (i cui voti alle elezioni non contano). I terrazzamenti delle comunità montane richiedono molto lavoro, ma quando vengono aperte nuove miniere, si assumono persone (uomini e donne) e soprattutto i giovani abitanti che abbandonano i campi per avere un salario fisso, anche se basso. Se la comunità si oppone alle concessioni alle società minerarie, questi hanno diversi metodi per convincerla: corrompono le autorità, attaccano leader forti fino al punto di uccidere loro o familiari, stabiliscono contratti con la popolazione e offrono posti di lavoro a basso reddito (ma almeno a pagamento), offrono un sostegno economico per le infrastrutture sociali indirizzate alla modernizzazione delle comunità montane. A volte ingaggiano degli antropologi per convincere gli abitanti del villaggio ad accettare l'invasione, utilizzando i loro stessi termini culturali. In cambio i territori sono indeboliti e le sane produzioni alimentari locali vengono compromesse dall'introduzione del cibo spazzatura. Organizzazione sociale e migrazione Dato che il sistema ufficiale emargina le comunità rurali e promuove lo sviluppo urbano e la modernizzazione ci sono pochi incentivi a rimanere nelle zone rurali, e ancora meno in zone di montagna terrazzate, che richiedono un rigoroso calendario agricolo e molta fatica. Richiede tradizionalmente una forza lavoro giovane e
l'intelligenza creativa femminile per la raccolta. I terrazzamenti non possono essere facilmente meccanizzati. I giovani delle comunità specie quelle più remote, emigrano alla ricerca di lavoro in città o nelle industrie. Chi rimane con gli anziani, spesso donne e bambini, sono impossibilitati a mantenere il sistema produttivo e la raccolta nei campi. L'organizzazione sociale si indebolisce e la saggezza tradizionale svanisce con la rottura delle connessioni tra generazioni. Contrazione delle biodiversità Le tradizioni agricole sono colpite dall'invasione di semi moderni, dalla tecnologia della rivoluzione verde e da una ecologia indebolita. La saggezza locale svanisce: il modello urbano trasforma le culture alimentari locali e indebolisce il sistema nutrizionale delle famiglie rurali. Varietà vegetali tradizionali e razze animali legate alle culture etniche nelle valli montane vengono a perdersi e l'agrobiodiversità si esaurisce. L'agricoltura familiare non è una priorità nelle politiche ufficiali, mentre lo è l'esportazione di prodotti agricoli. Agricoltura chimica e meccanizzazione Agricoltura chimica, fertilizzanti e pesticidi sono stati inventati dopo la seconda guerra mondiale quale opzione dell'industria delle armi: vere armi chimiche per la produzione alimentare. In particolare il governo degli Stati Uniti ha istituito sistemi di espansione con ex membri dell'esercito per promuovere l'agricoltura chimica come parte di una politica di sviluppo e di crescita. Questa ha minacciato la salute di produttori e consumatori, attraverso sostanze chimiche nocive trasmesse al cibo tramite l'aria e l'acqua. I sistemi naturali di produzione delle famiglie di agricoltori sono stati indeboliti o anche distrutti, in quanto le sostanze chimiche distruggono la capacità naturale del suolo di produrre cibo gustoso e sano. Inoltre il modello occidentale, imponendo la meccanizzazione e l'industrializzazione, elimina la forza lavoro, creando quartieri poveri e di conseguenza la povertà. Nei paesaggi terrazzati grazie alla meccanizzazione si distruggono i campi, i sistemi di irrigazione ben congegnati e le modalità famigliari di produzione, colpendo le qualità naturali dei terreni. Campi bonificati (per esempio terrazzamenti
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del vino in Germania) mostrano meno difese contro gli attacchi di gelo, perché i nuovi terrazzamenti sono più larghi rispetto ai sistemi tradizionali. La manodopera familiare è sostituita da specialisti dell'agricoltura e le aziende stesse diventano dipendenti da fattori esterni come il petrolio. Se i terrazzamenti sono demoliti, l'erosione del suolo a sua volta indebolisce le montagne. Denaro e mercato L'economia di mercato influisce negativamente sulle culture tradizionali e sui sistemi produttivi locali. Invece di produrre cibo per l'autoconsumo e per i mercati locali, le comunità si trasformano in attrazioni folkloristiche per il turismo in cambio di soldi, eliminando la produzione alimentare della famiglia. I mercati globali richiedono una produzione uniforme e costante in quantità enormi distruggendo l'agrobiodiversità. Il denaro favorisce la migrazione verso le città e indebolisce la cooperazione intergenerazionale; corrompe autorità, fa esplodere interessi e impoverisce le risorse naturali tradizionalmente nelle mani delle comunità locali. Il ricco trae guadagno dai poveri che non hanno potere. Menti colonizzate e controllo da parte di poteri esterni I governi istituiscono modelli di sviluppo lontani dai bisogni delle comunità locali. Gli interventi sono normalmente progettati nelle città e nei centri mondiali di sviluppo che mirano a crescita, industrializzazione e modernizzazione; le società tradizionali sono percepite come ostacolo al modello di sviluppo occidentale. Le industrie internazionali producono e controllano le conoscenze, condizionano le agende di ricerca agricola e gli interessi della scienza, creando valori e visioni in contrasto con quelli della popolazione locale. Non c'è dialogo interculturale sullo sviluppo, le idee e le proposte sono unidirezionali: il sistema dominante colonizza le comunità con il suo metodo, i sistemi formali di istruzione e infine, l'opinione pubblica e i media a rifiutare gli stili di vita tradizionali e le sue culture alimentari. Il razionalismo e il positivismo scientifico negano la spiritualità del rispetto per la Madre Terra e per tutti gli esseri viventi, come piante, animali, paesaggi, montagne. Il sistema dominante minaccia la sopravvivenza della vita sul pianeta Terra.
La storia delle valli di montagna La storia delle regioni di montagna è contaminata dall'imposizione di valori e comportamenti derivanti da una logica esterna. Lo sviluppo ed i modelli sociali vengono imposti, non vi è alcun tentativo di dialogo con la popolazione locale, le opinioni delle comunità indigene e rurali non sono prese in considerazione nella progettazione del futuro da parte degli urbanisti. Poteri politici ed economici esterni occupano la terra, spostano i loro habitat, i campi e le coltivazioni, distruggono le loro tradizioni producendo povertà e l'indigenza delle maggioranze. I progetti di sviluppo propongono e spesso impongono, le loro idee di modernizzazione dividendo le comunità locali, creando organizzazioni parallele e manipolando la conoscenza. L'industria alimentare favorisce nei consumatori la dipendenza dai prodotti alimentari trasformati e la dipendenza da parte dei produttori per l'ingresso nel mercato di sementi ibride o di OGM – con conseguenti problemi legati all'accesso al credito- incentivando le esportazioni e favorendo il predominio dei mercati.
Ma come riconquistare una produzione locale di alimenti sani per i consumatori locali, in base al principio del chilometro zero?
visibilità data alle conoscenze contadine, condurranno verso la nascita di nuove strutture in difesa dei diritti territoriali.
Che cosa dobbiamo fare? Dare visibilità alle diversità dei prodotti autoctoni. Fortificare un movimento internazionale consapevole del valore che non si limiti al prezzo. Cercare spazi per una produzione sana, favorire iniziative locali, il dialogo intergenerazionale e la cooperazione che permettono la realizzazione come esseri umani in armonia con la natura. Organizzare mostre itineranti, che evidenziano le minacce e le potenzialità future di queste regioni, rinforzando le culture locali e le organizzazioni contadine.
Stringere alleanze con accademici coscienti e impegnati. La complessità dei sistemi terrazzati richiede un approccio multidisciplinare e interdisciplinare tra le scienze. Stimola a fare ricerca in modo diverso tra i contadini esperti con alle spalle una lunga storia di esperimenti, in sintonia con la natura e le sfide delle montagne. Questioni come le conseguenze del cambiamento climatico dovrebbero coinvolgere giovani ricercatori, normalmente entusiasti e creativi, al fine di recuperare le conoscenze degli agricoltori, maschi e femmine.
Sostenere la nascita di organizzazioni contadine per promuovere la solidarietà e la mobilitazione della difesa dei diritti dei custodi della terra contro le minacce esterne, rafforzando l'identità.
Decolonizzare le nostre menti. Rivedere i concetti che orientano le idee e le politiche sulle aree di montagna nelle sue varietà ecologiche e sociali, che hanno influenzato i paradigmi tradizionali. Costruire un nuovo modello di sviluppo montano sulla base della lunga storia di domesticazione di piante, animali e paesaggi dalle società delle regioni montane.
Dialogare con i politici con l'obiettivo di rafforzare la voce e le iniziative dei custodi della terra. Questi luoghi di decisione democratica e la
La Seconda Conferenza Internazionale. Cusco, maggio 2014 Esito del secondo congresso mondiale di Itla, Alleanza Internazionale dei Paesaggi Terrazzati tenutosi a Cusco (Perù) a maggio 2014 e propositi per il terzo congresso che si terrà in Italia nel 2016 Presentazione Per 3 anni il gruppo organizzatore composto da Giovanni Conti dell'Università Cattolica, Hilda Araujo, CITPA, Mourik Bueno de Mésquita del centro Bartolomé de las Casas supportato da ITLA, ha riunito un folto gruppo di ricercatori, privati ed enti pubblici per la progettazione e realizzazione della seconda Conferenza Internazionale. In preparazione per l'evento il gruppo ha organizzato diversi workshop con i leader della comunità (maschi e femmine) a Cusco, discutendo le problematiche dei contadini operanti nei terrazzamenti del sud Perù. Le loro testimonianze sono state portate alla Conferenza Internazionale. Risultati I risultati della conferenza saranno pubblicati all'inizio del 2015 grazie al supporto finanziario della JICA (Japanese International Cooperation Agency). Il principale risultato della Conferenza è stato il ruolo da protagonisti delle donne e degli agricoltori maschi delle comunità andine di Cusco, Puno, Arequipa, Tacna, Abancay, Ayacucho e Lima.
Hanno organizzato la Mostra sui terrazzamenti, sono intervenuti al Forum, nei tavoli di confronto hanno espresso le loro idee e le preoccupazioni ponendosi sullo stesso livello dei partecipanti professionisti. Infine le conclusioni che hanno tratto, frutto del lavoro di ben due anni, sono state fondamentali per elaborare idee motivate a proteggere e promuovere i paesaggi terrazzati in Perù. Hanno proposto di cominciare a livello individuale e familiare a coinvolgere le giovani generazioni ad imparare le tecniche, i rituali ed i valori dell'agricoltura terrazzata. A livello comunitario hanno espresso l'intenzione di mobilitare le comunità e il loro sistema di istruzione per valorizzare le risorse naturali e la loro cultura alimentare. A livello nazionale i delegati propongono di organizzarsi come una federazione di comunità per fermare le politiche dannose, per difendere i loro diritti con il supporto da parte di terzi (ONG, avvocati, attivisti), di lavorare con gli scienziati per il recupero delle colture tradizionali (sementi). la ricostruzione e il rilancio dei terrazzamenti abbandonati. A livello internazionale vogliono essere collegati ad altri movimenti e agricoltori mondiali, e, se possibile, aderire ad ITLA 2016 per poter scambiare le loro preoccupazioni, interessi ed esperienze con le comunità alleate.
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La vita dei terrazzamenti coltivati a Sandia in PerĂš
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Formazione continua e reciproca - ITLA 2016 in Italia I paesaggi terrazzati sono una fonte inesauribile di formazione e di ispirazione: si prosegue verso la Terza Conferenza Internazionale in Italia ad ottobre 2016. Inviteremo diverse realtà mondiali per unire gli sforzi, cercheremo alleati per dare voce ai custodi della terra e ci impegneremo in azioni globali di supporto. Senza burocrazie: in modo agile e flessibile come l'acqua che scorre e mostrando solidarietà e forza come le pietre dei muri a secco. Durante l'ultimo incontro a Milano all'inizio di novembre 2014 abbiamo concordato con il team organizzativo di ITLA Italia come pianificare la conferenza, iniziando il processo di selezione della sede per la terza conferenza sulla base di fattori quali, motivazioni, sostegno istituzionale e la disponibilità di risorse finanziarie. Analizzeremo anche i luoghi per le visite sul campo pre-conferenza nelle aree della Costa di Amalfi, Liguria (Cinque Terre e Arnasco), Trentino, Sicilia, Veneto, Lombardia (Valtellina), Valle d'Aosta, Piemonte, Friuli e Toscana convogliando il maggior numero di professionisti e di esperienze in ITLA 2016. Il tema centrale della prossima conferenza sui Paesaggi Terrazzati e delle sue culture sarà il Benessere futuro, i giusti mezzi di sussistenza, l'osservazione, l'analisi e la condivisione di esperienze di cultura agricola. Studieremo dal punto di vista ecologico, la qualità del paesaggio e dei prodotti alimentari, nonché i modelli sociali ed economici per un futuro sostenibile. Vogliamo mappare i paesaggi terrazzati evidenziando il valore della combinazione di tradizioni tecnologiche e culturali con le innovazioni scientifiche, economiche e sociali. L'obiettivo è il recupero, la protezione, la conservazione e la promozione dei terrazzamenti nelle montagne del mondo. A Cusco, nel maggio 2014, abbiamo nominato un comitato internazionale a sostegno dell'organizzazione del congresso italiano
composto dai seguenti membri: Timmi Tillmann, Germania, Coordinatore; Donatella Murtas, Mauro Varotto, Damiano Zanotelli, in Italia, come organizzatori locali; Maruja Salas, Perù-Alemania; Mourik Bueno de Mesquita, Manuel Aguirre, Perù; Lucija Azman, Slovenia; Heather Peters, Thailandia, UNESCO; Noriyuki Baba, Giappone. La delegazione italiana si è proposta di organizzare la terza conferenza in occasione della conferenza di Cusco, con l'approvazione unanime dei delegati. La conferenza si dividerà in tre sezioni: · Un incontro iniziale di due giorni per i visitatori esteri per conoscere la situazione dei paesaggi terrazzati in Italia e in Europa. · Il lavoro sul campo e il dialogo con le comunità locali per 5 giorni in diverse regioni italiane, con l'obiettivo di dare spazio alla discussione di problemi, potenzialità e possibili usi dei terrazzamenti. · Infine, la terza conferenza in un luogo scelto vicino ai paesaggi terrazzati per lo scambio di esperienze e la raccolta di proposte di azione a livello locale, regionale, nazionale, e globale a favore del futuro dei paesaggi terrazzati, delle società e delle culture. Durante la riunione di Milano, per la preparazione della terza conferenza ITLA in Italia sono state proposte una serie di attività: · · · · · · · ·
messa in rete promozione dei prodotti del paesaggio sito web bibliografia e Filmografia dei terrazzamenti in Italia (e in tutto il mondo) mappatura dei terrazzamenti e delle preziose esperienze iscrizione a Expo 2015 e Slow Food 2016? Corsi di costruzione di muretti a secco per terrazzamenti Laboratori tematici italiani ed europei.
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LE TEORIE E LE ESPERIENZE
Terrazzamenti e innovazione sociale. Il progetto “Adotta un terrazzamento in Canale di Brenta” di Luca Lodatti*
* Luca Lodatti. Regione del Veneto - Sezione Urbanistica, PhD presso il Dipartimento di Geografia dell'Università degli Studi di Padova.
1. Introduzione Ai lettori di Sentieri Urbani non sarà ignoto quel tratto della valle del fiume Brenta che a sud della Valsugana si stringe fino a assumere la forma di un canyon e prende il nome di Canale di Brenta. Questo articolo descrive un progetto di recupero territoriale sviluppato in quest'area a partire dall'autunno 2010 e chiamato familiarmente Adotta un terrazzamento, che ha coinvolto un gruppo di persone non originarie della valle nella manutenzione e coltivazione dei versanti, storicamente destinati all'agricoltura, ma al momento attuale per la maggior parte in stato di abbandono. Il progetto ha preso forma a partire da una serie di riflessioni fatte presso il Dipartimento di Geografia dell'Università di Padova sui fenomeni di ritorno all'abitazione e alla coltivazione di aree montane nei decenni passati soggette a spopolamento, a opera non solo di abitanti locali ma anche di cittadini provenienti dall'esterno delle valli, sensibili a motivazioni quali una maggiore qualità della vita e la conservazione di un territorio di valore. Questa tematica negli ultimi anni ha trovato riscontro a livello internazionale, in particolare in Francia e in Italia, con libri, documentari e lungometraggi che hanno cominciato a descri-
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vere gli sforzi di recupero degli insediamenti alpini da parte di nuovi abitanti provenienti dalla pianura (ad es. Il vento fa il suo giro, di G.Diritti). Nel nostro paese sono state avviate alcune ricognizioni delle esperienze di ritorno all'abitare nelle aree montane (ad es. La nuova vita delle Alpi, di E. Camanni), i cui esiti hanno offerto al progetto qui descritto spunti di riflessione, per gettare una nuova prospettiva sui versanti terrazzati, ancora oggi spesso visti unicamente come un paesaggio dell'abbandono. 2. L'area di lavoro del progetto Il Canale di Brenta, come il lettore saprà, è una stretta valle con orientamento Nord-Sud della lunghezza di circa 25 km situata nelle Prealpi Venete, in Provincia di Vicenza. Forse non altrettanto conosciuta è la storia di questo luogo, che nel corso dei secoli ha visto più di un rivolgimento cambiare in modo radicale la sua sorte. In epoca romana e poi medievale il Canale di Brenta era utilizzato soprattutto come passaggio dalla pianura veneta verso l'area tridentina e il Nordeuropa. A partire dal '400 la valle ospitò attività di commercio del legname e produzione manifatturiera sotto il dominio della Repubblica di Venezia. Lo sviluppo storico della valle ebbe una svolta a
partire dal XVIII secolo con la concessione da parte della Serenissima per la coltivazione del tabacco, che prese piede nella valle e andò estendendosi intorno ai centri abitati nel corso dell'Ottocento fino a assumere un ruolo di monocultura. La tabacchicoltura indusse gli abitanti alla costruzione di estesi terrazzamenti agricoli sui versanti per ricavarne superficie coltivabile, portando nel tempo ad una nuovo aspetto del territorio, con l'edificazione di 230 Km di terrazzamenti complessivi. L'estensione delle aree terrazzate andò allargandosi fino agli inizi del '900, accompagnando la crescita demografica, improntando anche le abitudini di vita e il rapporto con il loro ambiente delle comunità locali. La coltivazione del tabacco ha continuato a essere l'attività produttiva principale fino al secondo dopoguerra, quando si è verificato un crollo diffuso della tabacchicoltura sui terrazzamenti, che non si presta alle forme moderne di coltivazione estensive e meccanizzate. Nell'arco di alcuni decenni (1960-1990) il numero delle aziende agricole è diminuito fino quasi a scomparire (del 90% in Comune di Valstagna). La popolazione si è ridotta in misura minore (34% in media), ma gli abitanti della valle hanno sempre più trovato impiego nell'industria, dando luogo a una dipendenza economica della valle dalla pianura antistante. Solo agli inizi degli anni 2000 è emerso un nuovo interesse per le aree terrazzate, da parte ora del mondo della ricerca scientifica. I terrazzamenti oramai si presentano in prevalenza ricoperti dal bosco, con le strutture abitative e produttive (compresi in terrazzamenti) in rovina e minacciate da crolli. É in questa prospettiva che sono stati sviluppati alcuni progetti di ricerca promossi dal Club Alpino Italiano, dalle Università di Padova e di Venezia e dalla Regione Veneto, nel periodo che va dal 2000 fino al 2010. 3. Il progetto di recupero territoriale coinvolgendo i 'non valligiani' L'iniziativa di Adotta un terrazzamento si collega al lavoro di ricerca di un progetto europeo (Progetto ALPTER, 2005-2008) cui ha partecipato l'università di Padova: durante l'ultimo anno di questo progetto è stata registrata una richiesta pervenuta all'amministrazione comunale di Valstagna per l'affidamento di un terreno incolto di pubblica proprietà da parte di due abitanti del vicino centro di Bassano del Grappa. Dopo che
la richiesta è stata accolta il riuso produttivo dei terrazzamenti ha dato un buon esito, portando al recupero e alla nuova coltivazione dei terreni, così che in seguito sono giunte altre richieste (da parte di privati e di associazioni) per prendersi cura di un terrazzamento. L'università e l'amministrazione comunale hanno seguito con interesse queste attività spontanee di riuso dei terrazzamenti, che sono state considerato come un potenziale punto di partenza, portando a sviluppare l'idea del progetto Adotta un terrazzamento, volto ad allargare la pratica messa in atto da un caso isolato a un progetto di recupero territoriale. Nell'elaborare il sistema di gestione per l'affidamento dei terreni si è andati a identificare i soggetti necessari allo svolgimento delle attività, che comprendevano l'amministrazione comunale, le associazioni di volontariato dei centri urbani, la comunità locale, e l'università con un ruolo di gestione e supervisione. Un gruppo dei rappresentanti di questi soggetti si sono riuniti nell'agosto 2010 per costituire un comitato denominato appunto Adotta un terrazzamento in Canale di Brenta, con lo scopo di dare forma concreta al progetto. Il comitato ha assunto anzitutto la funzione di contattare i proprietari locali per acquisire in affidamento i terreni incolti. A tale scopo è stato steso un modello di contratto di comodato d'uso modale, che prevede la concessione gratuita dei terreni per 5 anni, a fronte dei lavori regolari che garantiscano il loro recupero e manutenzione. D'altra parte il comitato è andato ad accogliere al suo interno coloro che hanno chiesto di avviare le attività di nuova coltivazione dei terrazzamenti. La struttura di gestione ha così assunto un ruolo di mediazione fra i proprietari dei terreni in abbandono e i nuovi coltivatori che andavano a prenderli in mano e prendersene cura. I primi terreni sui quali dare inizio ai lavori sono stati scelti prendendo in considerazione aspetti diversi legati alla salvaguardia e al riuso agricolo, quali il valore storico-culturale e paesaggistico, il contributo alla stabilità dei versanti, la vicinanza di una strada carrabile e di un punto d'acqua, nonché la possibilità di reperire i proprietari. Nell'ottobre 2010 sono state così avviate le prime attività di recupero, presso la contrada di Ponte Subiolo e nello stretto imbuto della Val Verta, cominciando a tagliare la
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vegetazione che aveva invaso i terreni per riportarli al loro uso agricolo. 4. I risultati del progetto Nei suoi primi quattro anni di attività, dal 2010 al 2014, il progetto ha condotto al recupero di 123 terrazzamenti, per una superficie totale di quasi 5 Ha. Le richieste hanno continuato a pervenire con regolarità al comitato di gestione, con una media di 30 domande all'anno. Si è così andata definendo attraverso la pratica concreta quella che è l'attività per contrastare il degrado delle aree terrazzate di Adotta un terrazzamento, nato inizialmente come un piccolo progetto sperimentale. Alcune cifre possono aiutare a delineare meglio quella che sono le caratteristiche dei lavori avviati dai partecipanti alla adozione dei terreni. L'estensione media degli appezzamenti è di 400 mq, lotti di medie dimensioni, adatti a una famiglia o a un piccolo gruppo di persone nella coltivazione per l'autoconsumo. La distanza media da una strada dei terreni recuperati è di 80 m, quella da una presa d'acqua di 30 m, condizioni non ideali per la coltivazione, ma accettabili per una agricoltura familiare quale si è andata avviando. Infatti un aspetto che ha caratterizzato di gran lunga le attività di adozione è lo sviluppo di una agricoltura per l'autoconsumo, che caratterizza l'80% degli affidatari. Seguono nell'utilizzo dei terreni quello ricreativo (10%, legato alle associazioni), l'apicoltura (5%) e altri usi (5%, viticoltura e olivicoltura). I Soci iscritti al comitato sono 111, tra di essi ci sono 4 associazioni, 2 cooperative sociali, 1 istituto agrario. Il profilo degli affidatari raccolto dal comitato restituisce un'età prevalente è fra i 50 e i 65 anni (45%), seguita da 35-50 anni (20%) e infine da 18-35 (25%, il restante sono associazioni). Particolare la provenienza geografica dei partecipanti, che è solo in piccola parte dalla valle (13%), per la maggioranza dai centri urbani limitrofi (50%, ad es. Bassano d.G., Marostica, Rosà, ecc.) e comprende anche aree più lontane quali Vicenza e provincia (13%), Padova e provincia (5%), fino a Venezia e provincia (5%), con una distanza anche di 100 km che gli affidatari compiono regolarmente per curare i terreni. Infine risulta interessante considerare il livello di istruzione dei partecipanti, che vede più del 50% dei partecipanti in possesso di un diploma superiore o di
Vista di Valstagna con i versanti terrazzati in una foto d'epoca degli inizi del '900 (Collezione Todesco, Valstagna).
La stessa vista di Valstagna con i versanti terrazzati in una foto scattata nel 2012(Foto dell'Autore).
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una laurea. Si viene così a delineare nei suoi tratti generali quello che è il quadro delle attività avviate da Adotta un terrazzamento. Si tratta di una forma di utilizzo dei terreni che accanto all'orticoltura per un uso familiare dà importanza alla qualità dell'ambiente naturale come il Canale di Brenta e all'impegno per il mantenimento di questi luoghi di valore con un contributo dato in prima persona. La produzione avviata è nella quasi totalità dei casi per l'autoconsumo. D'altra parte la cura di un terrazzamento, come indicano i dati del profilo geografico e sociale qui sopra delineato, chiama in causa un impegno per il mantenimento dell'ambiente naturale a cui molti soci sono legati, e un riconoscimento del valore territoriale e paesaggistico di questi luoghi. Si può quindi concludere che sia questo il quadro socio-economico, diverso dalla lotta per la sopravvivenza del tempo della tabacchicoltura, che si è delineato nell'attività di Adotta un terrazzamento e l'ha sostenuto in questi 4 anni. 5. Tre questioni in una prospettiva più ampia Al termine di questa presentazione del progetto Adotta un terrazzamento si può accennare a tre questioni che si sono imposte all'attenzione in quanto centrali per il riuso produttivo dei terreni incolti a livello non soltanto locale, ma per un processo di recupero a scala più ampia, andando a tratteggiare le soluzioni che il progetto ha provato a mettere in campo. 5.1 Il contatto e il contratto coi proprietari La questione della proprietà dei terreni in abbandono risulta basilare per la possibilità di un recupero produttivo, nel Canale di Brenta come in altri ambiti montani, aree che sono caratterizzate da un alto grado di frammentazione fondiaria. Questo problema è oggetto di una riflessione in corso da anni anche a livello nazionale, tanto da condurre all'elaborazione di un progetto di legge presentato alla Camera (Legge Quartiani, 2008). Il disegno di legge prevedeva una procedura di pubblico esproprio dei terreni rimasti incolti per un lungo periodo, e forse per questo non ha trovato consenso al livello parlamentare. Questo porta a considerare l'importanza della forma con cui si vanno a rimettere in uso le proprietà agricole improduttive, che dovrebbe
consentire da una parte il riutilizzo produttivo e dall'altra una tutela degli interessi dei proprietari. La soluzione messa in campo dal progetto Adotta un terrazzamento in questo senso ha corrisposto alle esigenze di mediazione fra istanze diverse, attraverso la forma del comodato d'uso che, seppur provvisoria e volutamente debole, consente una nuova agricoltura, capace di garantire sia i proprietari che la cura delle aree terrazzate. Nel Canale di Brenta si può anche segnalare come allo stato attuale vi siano terreni che contano un alto numero di eredi, dei quali alcuni sconosciuti o emigrati altrove. Il progetto quindi, dopo aver avviato le attività su terreni dei quali i proprietari erano noti, ha in seguito dovuto compiere un lavoro capillare di ricerca catastale e di contatto con gli interessati, i quali a volte si sono potuti individuare solo attraverso la conoscenza degli abitanti locali. A fronte della complessità fondiaria in ogni caso la scelta di un compromesso nella soluzione del problema della proprietà della terra si è rivelato strategico, consentendo una operatività rapida a fronte di una possibile reversibilità della concessione in uso, andando a mediare fra le istanze dei diversi attori coinvolti. 5.2 Una struttura di gestione “inclusiva” Fin dall'inizio il progetto Adotta un terrazzamento è nato puntando sul coinvolgimento della società civile, anche esterna alla valle, piuttosto che sul sostegno pubblico. La partecipazione delle amministrazioni pubbliche è risultata comunque importante per la sua funzione di garanzia dei lavori attuati (da parte del Comune) e di gestione delle procedure (da parte dell'Università). D'altra parte è stato il coinvolgimento diretto dei cittadini delle aree urbane a consentire la manutenzione e il nuovo utilizzo produttivo del patrimonio terrazzato. Una chiave del successo del progetto è stato quindi il coinvolgimento di tanti attori di estrazione diversa, che ha dato modo a ciascuno di mettere in campo le proprie competenze e le proprie risorse, facendole convergere sull'obiettivo del ritorno all'uso dei territorio terrazzato. Per un'area caratterizzata attualmente da marginalità economica, tanto più in un periodo di crisi come quello odierno, è risultata una strategia attuabile quella di riunire le esigue forze di un gran numero di soggetti
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attorno ad un obiettivo condiviso. Il progetto è stato allora messo in atto accogliendo nel comitato di gestione soggetti di estrazione molto diversa, ricomprendendoli all'interno di una struttura aperta e non vincolante come quella di un'associazione. Si sono così ritrovati gli uni accanto agli altri amministrazioni locali e associazioni escursionistiche, enti di ricerca e istituti scolastici, abitanti della valle e cittadini urbani. Ciascuno è stato chiamato a seconda delle situazioni e delle esigenze a contribuire per quelli che erano i suoi ambiti di competenza, suddividendo il carico amministrativo e operativo all'interno dell'ampio gruppo dei soci. In questo senso un approccio inclusivo ha pagato, rendendo possibile con l'unione delle forze quello che ciascuno dei soggetti coinvolti non sarebbe probabilmente stato in grado di raggiungere. 5.3 Una coltivazione per l'autoconsumo Una riflessione merita infine l'uso produttivo che è stato avviato nei terreni recuperati. Infatti come si è visto la quasi totalità degli affidatari utilizza i terrazzamenti per l'orticoltura e l'autoconsumo. I terreni non offrono cioè una resa annuale monetizzabile e il progetto si è mantenuto nell'ambito del volontariato, un argomento più volte discusso fra i soci. A questo riguardo si possono fare due considerazioni di ordine diverso. La prima è che alcuni membri del comitato hanno dato vita indipendentemente a una piccola cooperativa agricola che punta a un reddito a partire dai terrazzamenti; altre due piccole cooperative sono state fondate nel Canale di Brenta da quando è stato avviato il progetto e ora cercano una loro posizione sul mercato. Si può in questo senso dire che Adotta un terrazzamento, mantenendo un profilo volontaristico, ha avuto un ruolo propulsivo e propedeutico alla ricerca di una nuova dimensione produttiva per i terrazzamenti della valle. La seconda considerazione, di contro, riguarda come l'uso dei terreni fatto da Adotta un terrazzamento risulti fra quelli meno invasivi per il territorio terrazzato. Il nuovo utilizzo fatto degli appezzamenti non giunge a una trasformazione del paesaggio quali altre coltivazioni possono richiedere, sia in termini di alterazione dei terrazzamenti, che di utilizzo di fertilizzanti o di introduzione di nuove specie colturali. Si può quindi dire che il progetto ha preso una
strada di mediazione fra l'impegno in tutela del territorio, riconosciuto dai soci come precipuo, e quello a un riuso non semplicemente conservativo ma produttivo, fondamentale per il progetto a livello operativo e di sostenibilitĂ nel tempo. Con queste considerazioni sparse si conclude la breve carrellata sul lavoro di Adotta un terrazzamento. Un progetto nato come una piccola sperimentazione che ha mostrato una capacitĂ significativa di autoalimentarsi, giungendo fino a fornire indicazioni sulle potenzialitĂ offerte dalle forme di collaborazione pubblico-privata per la conservazione del paesaggio, andando a offrire un contributo su prospettive ormai d'interesse in ambito nazionale e internazionale.
Fotografia aerea e estratto catastale con evidenziati i terreni recuperati dal progetto presso la contrada di Ponte Subiolo a Valstagna (Foto: G.Medici).
Giornata di lavoro comune del comitato a Valstagna presso la contrada di Ponte Subiolo (Foto dell'Autore).
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Fotografia di L. Chistè
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IL LABORATORIO TRENTINO
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IL LABORATORIO TRENTINO
I «Richiedenti Terra» di Trento e le esperienze degli orti urbani in provincia di Trento di Valentina Merlo*
«They tried to bury us. They didn't know we are seeds» Proverbio messicano
*L'articolo è tratto dalle ricerche di Leila Ziglio e Daniele Saguto. Contatti: richiedentiterra@gmail.com
Orto urbano? Sì, ma comunitario! La realtà degli orti/giardini urbani è in costante espansione in buona parte del mondo e anche in Italia, dove ha conosciuto un notevole aumento negli ultimi tre anni. E' bene sottolineare che quando si parla di "orti urbani" (non prendendo in considerazione quelli di proprietà privata) si possono sottendere due categorie alquanto diverse: gli orti sociali e gli orti comunitari; gli orti sociali urbani, che si sono diffusi in Italia dagli anni Settanta in poi, sono parcelle di terreno date in concessione dal Comune, in genere coltivati da singoli, per lo più delle classi d'età oltre i 50 anni, e lo scopo prevalente della coltura è l'autoconsumo familiare. Per giardini e orti comunitari (anche chiamati condivisi o collettivi) s'intendono invece appezzamenti di terreno urbano, anch'essi in genere di proprietà pubblica, concessi dall'Amministrazione comunale o occupati dai cittadini e coltivati collettivamente, prevalentemente da persone che vivono nei quartieri limitrofi. Le due realtà, nate da esigenze in parte diverse, convivono nelle città italiane, in aree urbane distinte, e in genere non hanno grandi rapporti tra loro, anche se sembra esistere un'influenza reciproca. Ad esempio, l'emergere degli orti comunitari ha posto in
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evidenza e segnalato all'attenzione degli Enti locali bisogni che li hanno orientati a modificare i criteri di affidamento e di gestione degli orti sociali. In questo momento i community gardens costituiscono una realtà di nicchia, minoritaria rispetto agli orti sociali, e molto meno regolamentata, data anche la recente origine. Gli orti urbani si diffondono negli Stati Uniti e in Europa con l'avvento della rivoluzione industriale e lo spostamento in città di masse di lavoratori che cercano occupazione nelle fabbriche e che vivono in condizioni molto precarie. Per loro la coltivazione dell'orto diviene una risorsa importante, sia come fonte di nutrimento per le famiglie, in grave stato d'indigenza, sia perché riallaccia il legame con la terra, col mondo rurale e con le sue pratiche. Lavorare nell'orto è un'attività incoraggiata e sostenuta dalle aziende manifatturiere, dalle compagnie ferroviarie, dalla Chiesa e dagli enti governativi, che la ritengono educativa e salutistica e le attribuiscono funzioni di neutralizzazione della protesta sociale. Negli Stati Uniti, in particolare, a partire dal 1893 e fino alla fine della seconda guerra mondiale molte amministrazione cittadine sviluppano programmi di assistenza per le fasce più deboli
della popolazione, mettendo a disposizione dei terreni comunali abbandonati per la coltivazione di ortaggi. Durante la guerra e la grande depressione l'invito a coltivare l'orto viene farcito di retorica patriottica (un esempio su tutti la campagna "Sow the seeds of Victory. Plant and raise your own vegetables.” - Pianta il seme della vittoria. Semina e cresci i tuoi ortaggi, il cui manifesto raffigura una giovane donna vestita a stelle e strisce, impegnata a seminare un campo). In Europa la diffusione degli orti ricalca il modello americano e ha gli stessi scopi: il miglioramento della dieta delle classi più povere e il sostentamento delle popolazioni durante le guerre mondiali. Le politiche in favore degli orti-giardini cessano ovunque non appena i devastanti effetti delle guerre scemano, l'emergenza alimentare è superata e, con gli anni Cinquanta, si avvia la ripresa economica. I terreni urbani sono utilizzati per costruire strade, abitazioni, scuole e industrie, attività che lasciano spazio alla speculazione edilizia e alle rendite, molto più redditizie della produzione di ortaggi. Inoltre agli orti viene associata, nell'immaginario collettivo, l'etichetta sgradevole degli orti di guerra come luoghi per la sussistenza. Il movimento dei community gardens nasce a NewYork negli anni '70 del secolo scorso, prendendo spunto dall'attivismo ambientalista ed ecologista e dall'intensa fase di attività politica degli anni precedenti, in particolare le rivendicazioni di autogestione e di autodeterminazione che riguardano anche l'uso della terra, in contrapposizione al vorace mercato edilizio. Le necessità materiali, che erano state decisive per le generazioni precedenti di orticoltori, costituiscono in questa fase solo una delle variabili in gioco, a fianco alla volontà di dare nuova vita ad aree pubbliche degradate a seguito della crisi economica e del crollo del mercato immobiliare, di far crescere comunità costruendo aggregazione sociale e di riprendere parte alla filiera del cibo al fine di recuperare la sovranità alimentare. Il primo nasce nel 1973 a New York a seguito di un'azione di guerrilla gardening ad opera di un gruppo di cittadini organizzati chiamati Green Guerrillas. Di lì, molti community gardens sono il risultato di occupazioni di aree pubbliche, e non tutti vengono successivamente sanati. Nel giro di un decennio le esperienze di orti comunitari si moltiplicano in tutte le città sta-
tunitensi e si crea una fitta rete di associazioni no profit che danno consulenza, assistenza legale e forniscono aiuto materiale a chi vuole creare un orto o un giardino e di organi istituzionali, quali Green Thumb, che gestisce e dà in affitto le aree pubbliche al prezzo simbolico di 1$ al mese. Questa politica è dovuta al riconoscimento dell'amministrazione cittadina della validità delle esperienze di community gardening, che oltre a migliorare l'arredo urbano, hanno apprezzabili funzioni ambientali, quali il riequilibrio della temperatura e la diminuzione del rumore. I giardini conosceranno alterne vicende, secondo l'andamento del mercato immobiliare e l'orientamento politico delle amministrazioni cittadine. Il fenomeno dell'orticoltura urbana si (ri)diffonde poi in Europa e su scala mondiale, assumendo forme diverse in contesti diversi, ma a partire da alcune caratteristiche comuni, di cui le più importanti sono sintetizzate nella definizione che segue: “Un orto o un giardino condiviso è anzitutto uno spazio pubblico con finalità socioculturali, oltre a essere un'area verde dentro la città che contribuisce al sistema ambientale, al microclima, alla biodiversità”. Per community gardens si intendono per lo più spazi non suddivisi in parcelle, dove il gruppo coltiva insieme terreni stabilendo le regole in modo condiviso, sebbene esistano casi in cui il campo è diviso e le persone costituiscono un gruppo perché coltivano terreni disposti gli uni accanto agli altri in un unico spazio adibito allo stesso uso, organizzando insieme attività sociali e pubbliche (questo è ad esempio il caso del "Semi Rurali Garden" di Bolzano). Una delle realtà più importanti in Europa è quella della Germania, dove gli orti sono considerati un'attività urbana, di cui si tiene conto nella pianificazione cittadina (facendo riferimento ad una legge nazionale che risale al 1919, modificata nel 1983 ed ancora in vigore), sebbene questo non significhi che esistano strumenti adeguati per la loro tutela, soprattutto nel caso dei community gardens. In Italia il fenomeno si è sviluppato con un certo ritardo rispetto ad altri Paesi europei, in modo disomogeneo e frammentato sul territorio nazionale. Negli anni Settanta nelle città di grandi o medie dimensioni aveva ripreso piede la pratica dell'orticoltura. Si trattava di orti individuali e per la maggior parte abusivi, collocati sulle rive dei fiumi, a ridosso delle fer-
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rovie o in altre aree urbane residuali. In linea di massima gli orticoltori erano persone con un basso reddito, di una certa età o pensionati. Per loro l'orto poteva rappresentare uno svago, ma più spesso era una fonte di cibo e un modo per mantenere il legame con il mondo contadino di provenienza. In Italia, rispetto ad altri Paesi, mancava quindi la dimensione sociale e ricreativa. Nel momento in cui le Amministrazioni comunali riconoscono l'utilità sociale degli orti e intervengono per disciplinarli, nascono gli orti sociali (anche conosciuti come "orti dei pensionati"), parcelle di terreno di proprietà pubblica date in concessione a cittadini che ne facciano richiesta e che abbiano determinati requisiti, per la maggior parte anziani, sempre individuali o a conduzione familiare. La prima città che nel 1980 redige un regolamento comunale sui criteri per l'assegnazione delle parcelle coltivabili è Modena. E' solo negli anni 2000 che si assiste alla nascita dei primi orti comunitari urbani: il movimento è un fenomeno spontaneo, che nasce dal basso, dal coinvolgimento attivo dei cittadini che vogliono assumersi responsabilità rispetto alla gestione o co-gestione degli spazi verdi cittadini, che una parte consistente del movimento considera beni comuni. Anche una parte di quelli che sono poi diventati orti sociali autorizzati erano stati in precedenza occupati dagli orticoltori con azioni spontanee e ancora oggi esistono orti individuali abusivi in parecchie città italiane, ma la differenza sta nella dimensione collettiva, in quella ecologica e nella volontà di compartecipare alla gestione della cosa pubblica, in una parola nella dimensione politica. Gli scopi principali del movimento degli orti comunitari sono: - Un contatto più stretto con la natura e con la terra, finalizzato a un maggior benessere personale (valvola di sfogo e possibilità di fuga dai ritmi e dagli impegni della città); - Il miglioramento della qualità ambientale e paesaggistica dei centri urbani; - Il miglioramento dell'estetica delle città, talvolta per contrastare una situazione di degrado urbano; - La salvaguardia e la riqualificazione del territorio; - La tutela dell'ambiente, la diffusione di pratiche ambientali sostenibili e di prati-
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Fotografia di L. Chistè
Fotografia di L. Chistè
che agricole eco-compatibili, reagendo ai sistemi di coltivazione intensivi e all'uso incontrollato di fitofarmaci e prodotti chimici - La tutela della salute tramite un miglioramento della qualità degli alimenti, unito al piacere di produrre autonomamente il proprio cibo; - La promozione e l' esercizio della cittadinanza attiva; - L'elaborazione di strumenti di gestione partecipata di spazi urbani e periurbani marginali; - La possibilità di incidere maggiormente, come cittadini, nelle scelte di politica urbana; - La riconquista e lo sviluppo di spazi di socialità e di relazione; - La proposta di attività culturali, educative, di animazione sociale, che favoriscono l'inclusione sociale delle fasce deboli della popolazione; - La rottura delle barriere sociali, economiche e razziali, per riuscire a mettere insieme persone con età e backgrounds differenti. Alla base di queste pratiche vi sono soprattutto i movimenti sociali che tendono a conciliare l'ambientalismo, la rivendicazione di diritti e l'attivismo politico. Il linguaggio usato, i valori della solidarietà, cooperazione e inclusione che traspaiono dai testi, la coltivazione biologica, l'agricoltura urbana in funzione di un'economia alimentare sostenibile, le reti alternative di vendita, il voler reinventare la città, il considerare i beni pubblici come beni comuni, tutti questi elementi danno prova di un impegno verso il cambiamento, che viene coltivato nello stesso modo in cui vengono coltivate le piantine negli orti. Caratteristica interessante del movimento degli orti comunitari è che promuove la cultura del fare (invece di quella della rivendicazione) e non delega più ad altri, siano pure lo stato o altre agenzie pubbliche o private, la soddisfazione dei propri bisogni, innescando così percorsi di trasformazione sociale gestiti e vissuti in prima persona. Anche l'ottica non è per nulla scontata; in un mondo in cui prevale l'individualismo, i partecipanti al community gardening adottano strategie comunitarie, mettendo in comune i saperi e puntando sull'elaborazione collettiva.
Numerosi studi e osservazioni hanno rilevato i vantaggi che i community gardens possono arrecare ai contesti urbani. In primo luogo vantaggi climatici, poiché le aree urbane tendono a trattenere il calore e a essere di alcuni gradi più calde e le aree coltivate diventano importanti per abbassare la temperatura e bilanciare il clima all'interno della città. Il valore delle case che si trovano nelle vicinanze di un community garden aumenta nel tempo, accrescendo le rendite immobiliari, e il Trust for Public Land di New York ha dichiarato che i giardini condivisi attraggono nuovi residenti e riducono la criminalità locale, perché promuovono le relazioni sociali e sono un antidoto alla solitudine che affligge molte persone. Contribuiscono anche all'integrazione tra cittadini di nazionalità, religioni e background culturali diversi. Gli orti comunitari interculturali sono stati pensati e progettati con questo specifico scopo, parecchi altri non esibiscono questa etichetta, ma sono di fatto interculturali perché fioriscono in quartieri multietnici. Per quanto riguarda la salute, chi si occupa di orti in genere la migliora, consumando più vegetali freschi e mantenendo in esercizio il fisico. I Richiedenti Terra Era dicembre 2011, è bastato un incontro casuale (ma forse un segno?) fra persone con tante idee, ma mal strutturate. Alle spalle e nel presente, da parte di alcuni, la costruzione di un percorso, uno studio, una lotta sui beni comuni (si era conclusa da poco la campagna referendaria "acqua bene comune" e l'entusiasmo della vittoria era ben presente), la costituzione di un GAS (gruppo di acquisto solidale), la ricerca dell'alternativa alle imposizioni dell'industria agroalimentare. A ciò si innesta un avvenimento particolare, che non sembrerebbe centrare nulla con l'avvio di un orto, ma in questo caso è fondante: l'arrivo in Trentino di 211 richiedenti asilo in fuga dalla guerra civile libica. Nel cercare di coinvolgere alcuni di loro in attività ludiche che li potesse includere e far passare del tempo in maniera positiva si era sentita la necessità di nuove forme di socialità e spazi di aggregazione. Questa terza scintilla ha acceso una lampadina nella testa dei primi incontrati: la terra! La prima idea, forse troppo idealista, aveva fatto pensare ad un terreno confiscato alla criminalità organizzata: più grande di noi, dopo le
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prime verifiche si è scoperto che sì, ce ne sono anche in Trentino, ma sono (o erano) ancora coperti da segreto istruttorio. Si passa allora all'amico coltivatore biologico per passione che vuole lasciare un pezzo del suo appezzamento: ancora una volta bloccati da impedimenti burocratici, in questo caso legati alla certificazione biologica. Senza arrendersi, si convoca la prima assemblea del gruppo "senza terra" e, casualmente o meno, vi partecipano le persone giuste: lo studente che l'anno prima coltivava l'orto allo studentato universitario di San Bartolameo, l'appassionato che da anni sognava di creare un orto comunitario, il professionista esperto di cibo biologico, alcuni richiedenti asilo con esperienze di orticoltura nei loro paesi d'origine e vari curiosi senza nessuna conoscenza in campo orticolo, ma tanta voglia di mettersi in gioco. Da quel momento il gruppo ha iniziato ad incontrarsi ogni sabato, a pranzo, per tutto l'inverno, decidendo di denominarsi "Richiedenti Terra". Difficile dire oggi, a tre anni di distanza, se l'idea abbia subito l'influenza di altre esperienze di orticoltura comunitaria urbana di fuori regione. Ad alcuni verrebbe da affermare di no, forse altri componenti l'hanno indirettamente avuta, sicuramente dopo la fondazione del gruppo ci si è iniziati ad informare. Il primo, piccolo, orto comunitario sperimentale di Trento è proprio nello studentato di San Bartolomeo (180mq), messo a disposizione dall'Opera Universitaria di Trento che vedeva positivamente la presenza dei Richiedenti Terra lì, la cura di uno spazio tendenzialmente incolto ed il coinvolgimento degli studenti. Da subito, però, i nuovi ortisti si erano riproposti di trovare uno spazio più grande, sempre in città, preferibilmente un terreno abbandonato da recuperare e rendere vivo. Dopo un tentativo di contatto con tutte le circoscrizioni della città di Trento non andato a buon fine (solo la circoscrizione di Sardagna ha risposto positivamente, e la si ringrazia), grazie agli avvistamenti del team "fiuta terreni abbandonati" è stato individuato uno spazio a Villazzano, adiacente la stazione dei treni. Il progetto di orto comunitario dei Richiedenti Terra è stato quindi presentato al Servizio Attività Sociali (aprile 2012) e giudicato "di alto valore sociale" dalla Giunta comunale, che ha deliberato di assegnarlo al gruppo, qualora si fosse costituito in associazione, a novembre 2012.
Una novità per il Comune, e in particolare per il Servizio Patrimonio, la richiesta di un associazione così variegata, e rappresentata da molti giovani, di gestire un terreno senza peraltro volerlo dividere in parcelle. Spiazzato, ma non per questo restio, l'Ufficio ha assegnato il terreno seguendo la procedura standard che istruisce in tutti i casi di richieste di concessione di una sede "in muratura" da parte delle associazioni. Nel verbale di consegna del terreno si parla di “recupero di un'area comunale incolta, di coltivazione biologica di ortaggi e di un orto comunitario (non diviso in lotti e gestito tramite il metodo del consenso) […] per stimolare situazioni ed esperienze di “felice convivenza” tra la terra e i suoi abitanti, promuovendo così l'agricivismo”. Ѐ stato posto un vincolo di destinazione a orti comunitari, quindi, almeno per il momento, non esiste il problema della transitorietà della concessione, anche se nel contratto è scritto che il Comune può richiedere il terreno in qualsiasi momento per motivi d'interesse pubblico. L'area concessa è di circa 3000 metri quadrati, nascosta da un boschetto anch'esso incolto di altri 4000 m2 circa, dove è necessario addentrarsi per arrivare all'orto. Il la ai lavori lo ha dato un corso, tenuto a marzo 2013 dall'agrotecnico Mauro Flora, che ha visto cinquanta persone invadere il terreno e porre le basi dei cumuli (utilizzati in agricoltura sinergica) che tutt'ora utilizziamo. L'Orto Villano, questo è il nome dato all'orto, oggi si sta preparando al suo secondo inverno, dopo una stagione abbondante che vi ha visto nascere ortaggi di tutti i tipi, grano saraceno, piccole quantità di cereali (segale, frumento e miglio), fiori - commestibili e non - ed erbe aromatiche, fragole e lamponi, nonchè qualche frutto dai giovani alberi (mele, pere e albicocche). A tener alta la biodiversità del luogo, oltre alle colture diversificate e consociate in modo da aiutarsi a vicenda nella crescita e alle sementi antiche recuperate dall'associazione La Pimpinella, la presenza di uno stagno con la sua vegetazione, dove si sta aspettando l'arrivo delle ranocchie. In quest'oasi a 10 minuti di autobus dal centro della città di Trento, dove in estate le temperature sono più sostenibili rispetto alla città, i Richiedenti Terra organizzano, oltre all'ordinaria manutenzione dell'orto, pic-nic comunitari, laboratori (rico-
noscimento di erbe spontanee, cippatura, semenzaio diffuso, eccetera), momenti di svago, aperitivi musicati, visite e saltuariamente incontri con classi delle scuole elementari. Al di fuori dell'orto, l'associazione gestisce inoltre un piccolo gruppo d'acquisto solidale e organizza eventi legati all'agricoltura e al cibo genuini. La partecipazione al progetto è sempre stata aperta a chiunque. Secondo l'accordo del gruppo, l'orto non ha una suddivisione in lotti personali, ma ogni partecipante ragiona, coltiva e si muova sul progetto nella sua interezza, in modo da avere il massimo della socialità e sperimentare un vero percorso decisionale partecipato. La semina e la coltura seguono le modalità stabilite dal gruppo durante le assemblee, così come la raccolta e la destinazione delle verdure prodotte (che fino ad ora sono state destinate principalmente all'autoconsumo). L'obiettivo ora è quello di aprirsi alle arti e a nuove persone di qualsiasi età a provenienza, per fare capire che un orto comunitario ha bisogno sì di costanza e impegno, ma si può iniziare da zero e dedicarvici il tempo che ognuno ritiene opportuno, senza forzature. Lo spazio c'è, e se un giorno i Richiedenti Terra diventeranno troppi, si troverà un altro spazio incolto da recuperare! Anche a Trento, quindi, le due tipologie di orti - sociali e comunitari - coesistono, la differenza principale sta probabilmente nella dimensione collettiva e nel fatto di vedere l'orto come un'attività politica: una scelta (il biologico, l'autoproduzione delle sementi, il rifiuto degli OGM e delle monocolture intensive, ecc.) per la salute e il benessere, contro le speculazioni, dalle grandi opere a quelle agricole delle multinazionali dell'agroindustria, per una città interculturale e aperta verso tutte le diversità. Orti e giardini comunitari in Provincia di Trento Oltre ai Richiedenti Terra (e ai già citati orti sociali dati in concessione agli anziani), nella Provincia di Trento esistono una decina di altre realtà di "contadinanza" urbana o periurbana comunitaria. La prima in ordine di fondazione è L'Ortazzo di Caldonazzo, che dal 2009 al 2013 ha gestito un appezzamento di terra di 3000 m2, concessa dal Comune, come orto comunitario. Dal 2014 l'esperienza
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dell'orto si è (per lo meno temporaneamente) conclusa per mancanza di partecipazione, ma l'associazione porta avanti serate di sensibilizzazione molto partecipate e un Gruppo d'Acquisto Solidale. A Trento esiste anche l'Orto in Villa, situato nel sobborgo di Meano, interessante progetto di orto didattico nato per volontà dell'Ecomuseo dell'Argentario in collaborazione con la ProLoco locale. Il progetto concentra la sua attenzione sulla coltura delle erbe officinali e spontanee, ma punta anche a coinvolgere volontari nella gestione comunitaria, benché non si fondi su un modello di autogestione tipico degli orti condivisi. A Rovereto l'Associazione OrtiCorti gestisce due orti, uno molto piccolo nel cortile di una scuola, l'Orto Brione, e uno di quasi 2000 m2 alla confluenza fra il fiume Adige e il torrente Leno (per questo chiamato Orto Leno), per concedere il quale l'amministrazione comunale ha chiesto all'associazione una serie di adempimenti burocratici, anche piuttosto costosi. Entrambi gli orti sono coltivati secondo i principi dell'agricoltura sinergica. A Pergine Valsugana sono presenti tre orti comunitari: uno di circa 100 m2 all'interno del Parco Tre Castagni, nato nel 2012 nell'ambito del progetto europeo Together, a cui il Comune aveva aderito, che prevedeva la sperimentazione di un metodo di democrazia partecipativa. L'organizzazione generale ed i rapporti con l'amministrazione sono gestiti da uno dei membri dell'orto, pagato (per un periodo) come collaboratore del Comune; il secondo gestito dalla Banca del Tempo di Pergine e Sant'Orsola ed il terzo, in fase di progettazione, dell'Associazione Rastel, sorgerà all'interno del Bioparco del Rastel. A Levico Terme il comitato LocalMenti, che fa parte del network per la Decrescita Felice, gestisce il C-Orto Corrente secondo i principi della coltivazione sinergica. Il Movimento per la Decrescita Felice AltoGarda cura un orto comunitario di 300 m2 chiamato "Se Pòl", su un terreno concesso da un privato nella località di Linfano, Riva del Garda. L'orto nasce all'interno di un progetto più ampio finanziato dal Piano Giovani di Zona Alto-Garda Ledro dal titolo “FarmAzione, braccia ridate all agricoltura”: un corso di agricoltura sinergica ed open-source ecology. Infine a Lavis, sull'altopiano della Paganella e a Dro sono nate da poco, o sono tuttora in progettazione, altre realtà di orti condivisi.
Sebbene non possano essere classificati come orti comunitari, è importante segnalare la presenza crescente di orti all'interno delle scuole elementari (soprattutto) e medie, da Trento alle valli. L'obiettivo dell'orto, in questo caso, è prettamente educativo e ovviamente sono insegnanti e/o formatori esperti a coordinarne i lavori. Negli orti didattici la coltivazione viene vista come utile strumento per applicare nel concreto nozioni apprese in classe, ma anche come attività che facilita più in generale lo sviluppo cognitivo e fisico dei bambini. Nel comune di Mezzolombardo sta nascendo un particolare progetto di orto didattico in collaborazione fra la scuola, la casa di riposo e alcune associazioni di volontariato locali. Conclusioni E' impossibile rintracciare una sola causa all'origine della nascita degli orti comunitari: alcuni orti sono nati con intenti didattici e pedagogici o come spazi dove sperimentate forme di democrazia diretta e partecipata; altri rappresentano una via innovativa di socializzazione ed integrazione sociale; altri ancora anelano a diventare un modello possibile di cambiamento reale nello stile di vita e di consumo anche al di là dei ristretti confini del terreno di cui si occupano. I community gardens trentini non rappresentano ancora una realtà strutturata, istituzionalizzata e pienamente integrata nel territorio. Il fenomeno di diffusione di queste forme di agricoltura urbana e periurbana è ancora in una fase di sperimentazione ed acerbi risultano anche i rapporti stretti con le amministrazioni pubbliche. A differenza di molte regioni italiane in Trentino non esistono orti comunitari occupati; sono sorti infatti o su terreni privati o su terreni concessi dai rispettivi Comuni in seguito alla richiesta formale da parte di associazioni nate proprio in relazione alla volontà di ottenere una terra da coltivare collettivamente. Le amministrazioni comunali hanno di volta in volta proposto soluzioni legali ad hoc per affrontare una richiesta nuova e fuori dagli schemi ordinari di gestione degli spazi verdi comunali. L'ambito normativo-istituzionale è stato lasciato in mano alla discrezione dei funzionari pubblici che hanno valutato da caso a caso le modalità, le forme, le condizioni e la durata della cessione. Esiste ancora una certa
difficoltà, da parte delle Amministrazioni, a comprendere il popolo degli ortisti. La percezione che gli attivisti di un giardino condiviso hanno di se stessi e che, in qualche modo, trasmettono anche agli altri, è quella di costituire un interessante laboratorio di elaborazione e sperimentazione. La gestione comune di un orto porta a esplorare alcuni campi, quali i processi decisionali per consenso e non per maggioranza, i conflitti interni al gruppo e la loro gestione e l'organizzazione collettiva delle attività di coltivazione e, nello stesso tempo, richiede di avere rapporti con l'Amministrazione pubblica e di trovare soluzioni creative nell'ambito della partecipazione civica. Gli orti/giardini si collocano nel punto d'incontro di campi cruciali per definire modelli di vita alternativi a quelli attualmente dominanti e nel punto d'intersezione tra pubblico e privato. Da questo punto di vista possono essere considerati un movimento politico sui generis che prende in considerazione temi finora poco valutati dalla politica attiva e in genere esaminati separatamente. Dal punto di vista relazionale gli orti costituiscono la risposta a un bisogno crescente di socialità che non sia vuota ed effimera, ma che coltivi significati. Sono forme di aggregazione aperte ai quartieri dove sono situati, che dimostrano, in genere, grande capacità d'inclusione anche verso categorie svantaggiate, che vanno dai migranti ai disabili. I giardini condivisi sono per definizione interculturali, a prescindere dalla presenza o meno di migranti, poiché ospitano persone assolutamente eterogenee per età, condizione sociale, background culturale e provenienza nazionale. Quelle sperimentate nei community garden sono strategie inclusive, che rafforzano la coesione sociale tramite la solidarietà e la cooperazione tra persone e gruppi e per mezzo della condivisione e diffusione dei saperi e delle pratiche, che superano il carattere privatistico della conoscenza.
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Note: 1. In Gran Bretagna nel 1939 viene lanciata la campagna “Dig for Victory” (zappa per la vittoria), con incentivi pubblici destinati per creare i cosiddetti “victory gardens”, considerati utili sia per l approvvigionamento che come strategia per tenere alto il morale della popolazione. Negli stessi anni, in Italia, il regime fascista avvia le politiche autarchiche, che si avvalgono anche degli orti, e intraprende la battaglia del grano, arrivando a coltivare a frumento anche piazza Duomo a Milano. In tutto l'Occidente campagne mediatiche (stampa, radio, ecc.) esortano i cittadini a trasformare qualsiasi terreno utile (parchi pubblici, campi sportivi, aree edificabili non utilizzate, ecc.) in orti e giardini per la produzione alimentare. 2. Il termine guerrilla gardening è applicato in situazioni differenti per descrivere forme di giardinaggio radicale attraverso atti dimostrativi di forte impatto comunicativo, chiamati “attacchi” verdi, che si oppongono attivamente al degrado urbano agendo contro l'incuria delle aree verdi pubbliche. Sono tutte forme di giardinaggio “politico”, non violente e nella maggior parte dei casi illegali. Azioni tipiche sono la piantumazione di fiori all'interno delle aiuole pubbliche o alla base degli alberi che popolano le strade, il lancio delle bombe di semi, allestimenti temporanei con materiali di riuso o la predisposizione di veri e propri giardini all'interno di aree degradate. 3. Cioli S., Mangoni A., D'Eusebio L., 2012, Come fare un orto o un giardino condiviso, Terre di Mezzo ed., Milano 4. I richiedenti asilo non possono lavorare nei primi sei mesi dall'arrivo in Italia. Bibliografie - Bussolati M., 2012, L'orto diffuso. Dai balconi ai community garden, come cambiare la città coltivandola, Orme Editore, Roma.- Pasquali M., 2008, I giardini di Mahattan. Storie di guerrilla gardening, Bollati Boringhieri, Torino.- Restelli G., 2013, Gli orti comunitari: struttura, multifunzionalità e diffusione. Il caso del comune di Milano, tesi presentata all'Università di Agraria di Milano - a.a. 2012/13 - disponibile alla consultazione su ortodiffuso.noblogs.org - Cioli S., Mangoni A., D'Eusebio L., 2012, Come fare un orto o un giardino condiviso, Terre di Mezzo ed., Milano
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IL LABORATORIO TRENTINO
Smuovere le acque di Luca Bertoldi*
*Luca Bertoldi. Laureato in IngegneriaArchitettura a Trento, ha frequentato la Escuela Superior de Arquitectura di Granada e l'Universität der Künste di Berlino. L'articolo è tratto da “Smuovere le acque. Sui metodi pertecipativo e gentrificatorio nell'approccio alla città contemporanea. Il caso delle zone di Centa e San Martino in Trento.” A-A 2011-2012 ,Università degli studi di Trento, Facoltà di Ingegneria, Corso di studi in Ingegneria Edile Architettura. Tesi di Luca Bertoldi. Relatori: Alessandro Franceschini, Raffaele Mauro. Corelatori: Renato Bocchi, Andrea Mubi Brighenti.
Il cambio di destinazione d'uso della copertura dell'Autosilo di Trento da posteggi ad orti urbani è una delle proposte nate in seguito allo studio di ricerca interdisciplinare sulle zone di San Martino e Centa condotto nell'anno 2012.* Il progetto di ricerca supporta il fenomeno quartiere nel capoluogo trentino come elemento terzo nella dialettica serrata tra la diffusione viabilistica e il formalismo centripeto. Il mito del fiume che giustificava la nascita del borgo come dogana ad est e favoriva l'attività agricola ad ovest si perpetua oggi attraverso la viabilità a senso unico di via Brennero sia in termini di separazione tra le parti che di occasione economica. Il quartiere si comporta da giunto di dilatazione nell'assorbire le spinte alterne in direzione nord-sud del centro storico e della periferia: ad est il borgo di San Martino guarda al centro città e sopperisce alla penuria di superficie condivisa attraverso pratiche informali di occupazione e adattamento, ad ovest la zona di Centa si perde nel reticolo viario moderno e negli specchi degli edifici istituzionali progettati a tutto lotto e vuoti dopo le cinque del pomeriggio. Ai tre lotti rotatoria inscritti nella vecchia ansa del fiume sono rimandate le relazioni trasversali tra le parti. Si tratta di tre lembi di suolo
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adibiti rispettivamente ai servizi di posteggio, commercio e verde, dove l'incontro informale tra la città storica e quella moderna ha particolare evidenza: l'assemblaggio di abitazioni di inizio secolo ad attività commerciali degli anni Ottanta e Novanta, l'alternanza tra le archeologie del vecchio quartiere ferroviario e i nuovi servizi per la viabilità contemporanea, gli interstizi di spazio scartato dalle stratificazioni che mantengono i lotti porosi e esplorabili. Le proposte progettuali vogliono mettere in relazione il capitale sociale fervente del borgo storico con quello spaziale e di sevizio di Centa, guardando quindi al valore potenziale di questi tre lotti di confine nell'attivazione di dinamiche di percezione e uso trasversali alle zone. Nello specifico la proposta che riguarda il lotto più a sud di confine con il centro storico prevede la costruzione di 70 orti di dimensioni variabili tra i 25 e i 35 metri quadrati a 18 metri di quota. L'Autosilo Buonconsiglio occupa tutta la metà occidentale del lotto allungato e a questo deve la sua linea curva. Sotto la struttura scorre interrato l'Adigetto che dà ragione alla soluzione fuori terra del parcheggio e alla conseguente sproporzione in quota pensata per limitare l'impatto ambientale dell'edificio sul piano strada del quartiere. Gli sforzi di conteni-
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mento dell'altezza tra i solai dei quattro piani sopraelevati ne sacrificano le possibilità di riuso senza assolvere tuttavia l'Autosilo dal ruolo di maggior ostacolo percettivo tra San Martino e Centa. Ogni piano sopraelevato ha una capienza di 142 posteggi auto, al piano terra la pianta alterna gli ingressi e le uscite carrabili e pedonali a servizi commerciali legati alla viabilità. La lezione progettuale di De Carlo di prevedere sul confine del quartiere infrastrutture viarie riconvertibili in spazi abitabili sotto a piazza della Mostra, può qui essere messa in pratica solamente sull'ultimo piano scoperto. I parcheggi di copertura risultano pressoché inutilizzati e dunque di irrisoria incidenza sulle entrate dell'attività: la sosta a breve termine a 18 metri di quota non è competitiva rispetto ai parcheggi a livello strada presenti nel quartiere, mentre la sosta a lungo termine a parità di costi è preferibile al coperto dei piani inferiori. Il quarto piano dell'Autosilo, l'ultimo coperto, è riservato alle vetture dei dipendenti provinciali che lavorano negli uffici nella zona di Centa, è quindi in affitto all'istituzione. Queste sono le osservazioni secondo le quali si propone l'uso a coltivazione dell'ampia superficie di 3000 metri quadrati attraverso l'affitto della copertura a carico di enti quali ad esempio Itea, di importante presenza nel quartiere di San Martino, le Cooperative attive nel reclamare momenti di spazio pubblico oppure le stesse istituzioni Comune o Provincia familiari a tale pratica. Va considerato che un affitto anche agevolato del piano di copertura rappresenterebbe un'entrata costante nella gestione dell'Autosilo. A supporto della conversione esistono inoltre incentivi europei alla pratica dell'orto urbano vincolanti in termini di estensione minima della coltura a 50 metri quadrati e di gestione del servizio e che permetterebbero all'ente esterno di accedere ad una terza soglia di finanziamento in termini di agevolazione sull'affitto, oppure all'ente di gestione dell'Autosilo di accedere ad una seconda soglia di finanziamento in termini di gestione della realizzazione. Il progetto prevede l'accorpamento di più moduli coltivabili e la loro disposizione lungo i lati della pianta, in tal modo gli intervalli tra le colture possono facilitare l'attività agricola, ma anche permettere una passeggiata continuativa centrale con alcuni episodi di affaccio
laterale. Gli orti sono inoltre dotati di una cassapanca che funge da deposito attrezzi oltre che agevolare i momenti di sosta. Gli spazi liberi di risulta dai raggruppamenti dei lotti coltivati permettono la manovra e la condivisione. Le caratteristiche tipologiche e normative della copertura semplificano la conversione da parcheggio ad orto ad esempio in termini di cantierabilità e di barriere architettoniche. Oltre alle rampe di accesso carrabile la struttura offre due scalinate posizionate agli estremi della pianta e un'ascensore centrale. La quota a 18 metri garantisce l'esposizione della coltura e la capacità portante della copertura permette il trattamento a verde intensivo di tutta la superficie. La pratica dell'orto è interessante per i costi contenuti di allestimento, ma anche in quanto la sua manutenzione è connaturata all'attività stessa. Inoltre le colture sono una risposta in termini di verde pubblico alle esigenze emerse dalle interviste qualitative effettuate ad un campione di 102 abitanti riguardo al miglioramento del quartiere. Tutte riportano commenti sulla mancanza di verde e laddove presente, ad esempio nel parco di piazza Centa, ne è denunciata la problematica accessibilità. Oltre ai benefici personali dell'autoproduzione, il rapporto con la natura, trasversale rispetto a tutte le categorie sociali, può essere attivatore di dinamiche relazionali in uno dei quartieri più eterogenei della città. La luce e il verde raggiungibili in copertura compensano la visione infrastrutturale e fuori scala che si ha dell'edificio dal piano strada con effetti sull'immagine di tutto il quartiere, dalle viste panoramiche della Cervara fino a quelle di chi lavora negli uffici limitrofi di qualche piano più alti dell'Autosilo. Il progetto prevede anche la possibilità di una soluzione di collegamento verticale sul lato est così da favorire l'eventuale indipendenza dell'attività di copertura da quella sottostante, ma anche la frequentazione da parte degli abitanti di San Martino dando senso all'innesto trasversale tra il lotto e una delle vie del borgo storico. Anche gli interstizi tra l'Autosilo e gli altri edifici possono favorire la circolazione interna al lotto con effetti sulle strutture abbandonate come ad esempio il vecchio asilo del quartiere ora murato. Nello specifico l'interstizio a sud del lotto assume il
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ruolo di entrata al quartiere supportato formalmente della forma cilindrica in facciata dell'Autosilo mutuata dai torrioni del castello, da Torre Verde e già riproposta nella soluzione d'angolo di Libera per le scuole Raffaello Sanzio. Ricucendo la cinta muraria si nobilita la parte moderna del quartiere di un'entrata pedonale con l'effetto di attenuare l'eccentricità delle zone. Da un punto di vista macroscopico in un momento in cui Trento si trova a sostenere l'immagine di città fluviale ha senso intervenire in maniera ecologica e informale laddove questo fiume è ora assente a seguito della più ingente deviazione di un corso d'acqua avvenuta sul continente. L'intervento di riciclo di spazio infrastrutturale sancirebbe poi un gemellaggio con quello delle Gallerie di Piedicastello con conseguente affiliazione tra quartieri rispetto al loro ruolo nella città. La terrazza verde ricuce inoltre l'antica passeggiata romantica che collegava il parco di piazza Dante con quello di Centa sollecitando così il recupero di tutta la mezza luna di dialogo tra la città storica e quella moderna. La proposta è pensata intrinsecamente sostenibile per gli enti a cui è stata presentata secondo una linea progettuale cosiddetta debole, ovvero di basso costo, breve realizzazione, di riconversione funzionale e riciclo di spazi, quindi ecologica a priori, in fieri perché partecipata e con effetti sull'intorno a lungo termine. Ciò può avvenire innescando sistemi con le risorse spaziali, storiche e sociali già presenti nel quartiere.
Una ipotesi di riorganizzazione della copertura del manufatto da posti auto (142) a lotti coltivabili (70).
I lotti coltivabili
L’autosilo di Trento nel suo contesto urbano.
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IL LABORATORIO TRENTINO
Buone pratiche di ri-uso del territorio L’esperienza della Val di Cembra diSergio Paolazzi*
I posti determinano i materiali, i posti determinano il tipo di coltivazione e di viabilità. Poi diventa un circolo che si autoalimenta e se tutte queste cose determinano il carattere ormai sedimentato di una popolazione, è anche vero il contrario. E. G. Cecchi
Questo articolo sulla Valle di Cembra è ricavato in parte da una guida di prossima pubblicazione¹: partendo da un'ampia e necessaria analisi storica e sociale, verranno evidenziate le nuove forme di sviluppo agricolo. Una relazione forse più della cultura, degli studi e delle esperienze come metodo necessario per ripensare un territorio, che dei sistemi di coltivazione. Dopo una descrizione geografica del paesaggio agricolo, si parlerà delle antiche Regole e del ruolo del sacro: due elementi fondanti e sedimentati nella cultura locale. Quindi verranno esposti gli interventi che hanno interessato la collettività in ambito agricolo ed i progetti in corso.
* Sergio Paolazzi, architetto libero professionista. Originario della Val di Cembra, vive e lavora a Riva del Garda
Solcata dal torrente Avisio che dalla Marmolada confluisce nell'Adige all'altezza dell'abitato di Lavis, a nord di Trento, occupa una superfi-
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cie di circa 135 kmq comprese tra la quota minima di 240 metri alla forra di Lavis e i 2452 metri del Lagorai. È caratterizzata da piccoli centri abitati, adagiati su pendii o al limite di pianori di origine glaciale. Le prime testimonianze di insediamenti risalgono all'età del bronzo: tra i reperti anche una serie di falcetti utilizzati nella lavorazione dei campi. Le aree abitate erano sicuramente quelle climaticamente ben esposte e con facilità di vita stanziale, necessarie all'agricoltura. La particolare conformazione e la discreta distanza dal fondovalle hanno garantito nel corso dei secoli un isolamento sociale e culturale dei centri abitati, collegati fino a metà Ottocento da mulattiere o sentieri poco praticabili.
La Valle di Cembra è una valle orizzontale La Valle di Cembra è caratterizzata dalla presenza di elementi paesaggistici specifici, che la rendono in tal modo suggestiva ed unica. Se pensiamo alla Valle in termini puramente geometrici, si potrebbe dire che è definita prevalentemente da tre tipi di linee: orizzontali, oblique e verticali. Le linee orizzontali sono quelle prevalenti, determinate dalle centinaia di chilometri formanti le murature a secco. Costituiscono, di fatto, la volontà secolare degli abitanti, di agevolare il lavoro dei campi, con il fine di rendere omogenea la lavorazione. La coltivazione della vite con il sistema “orizzontale” della pergola trentina è rimasto tale per centinaia di anni: l'introduzione di filari verticali e coltivazioni tipo Guyot² è relativamente recente. L'orizzontalità del paesaggio è quindi definita dalle murature a secco che, in ragione della loro posizione geografica, cambiano “trama e ordito”. La pietra prevalentemente utilizzata è il porfido, da sempre la matrice di tutte le costruzioni, di cui possiamo notare, particolarmente in sponda sinistra, lo sfruttamento delle cave. Nella tessitura generale, le murature a secco sono definibili in due categorie prevalenti, distinte per tipologia di pietra utilizzata: a spacco da materiale reperito in cava e quindi lavorato; naturale, se la pietra è recuperata in loco nel corso della bonifica dei depositi glaciali o se raccolta direttamente nel greto del torrente Avisio. Questa diversa tessitura è quindi collegata alla distanza dall'Avisio o dai suoi affluenti che, oltre a garantire la materia prima per la realizzazione delle murature a secco, fornivano i sassi per la produzione della calce, utilizzata poi nelle costruzioni civili. La realizzazione con le pietre raccolte dal torrente, arrotondate dai millenari processi di levigatura, prima dai ghiacciai e successivamente dall'impeto dell'acqua, necessitava certamente di maggiore abilità e competenze costruttive, un'arte che ormai è quasi scomparsa. Nelle murature realizzate con pietra a spacco di cava, distanti talvolta anche diversi chilometri, è possibile notare la diversa composizione geologica della pietra che è diversa zona per zona. Le linee oblique sono rappresentate dalle numerose strade che dai centri abitati si diramano sinuosamente nell'orizzontalità dei campi. Prendono ognuna un proprio nome in
un rapporto di convivenza e familiarità, forse un modo non solo per distinguerle o catalogarle, ma anche di rispettarle e di farle “proprie”. Le linee oblique disegnate dalle Cavade, ora divenute strade interpoderali, immettono principalmente nei fondi agricoli³. Le località di campagna a loro volta rivelano una toponomastica molto articolata, spesso una chiave di lettura per comprenderne la storia: tra i nomi con radice che rammenta l'attività agricola ritroviamo Ceole⁴; località che prendono il nome dall'antica viabilità sono Camin e Sorapont; nomi che rivelano la presenza di acqua sono invece Ischia e, secondo la lettura sinora proposta, Saosent; molto diffusi i nomi collegati alla produzione o situazione agricola, quali Nogarè, Nogarìo (con il significato di “bosco di noce”), Ronch, (che rammenta la messa a coltura di nuovi terreni, i “ronchi”) e Casele o derivanti dalla presenza di antiche chiese come San Giorgio, Floriano, Leonardo, Rocco. I “collegamenti obliqui” conducono talvolta a masi tuttora esistenti, documentati a partire dal XIII secolo in diversi urbari, tra cui quello dei Conti di Tirolo⁵. I masi possiamo considerarli come un prototipo dell'abitato tradizionale cembrano. Costruire, significa collaborare con la terra, imprimere il segno dell'uomo su un paesaggio che ne resterà modificato per sempre⁶. I centri abitati si sono sviluppati in totale simbiosi con il territorio circostante: quello che inizialmente poteva essere un insediamento famigliare si è di volta in volta esteso privilegiando le costruzioni lungo le vie / strade/ sentieri costruiti nel corso del tempo, o edificando insediamenti autonomi e staccati -masi- con un contorno delineato e preciso. Il maso si costruisce per elementi fondanti unici e necessari: la stalla, la cantina, la cucina e la stanza. Il sottotetto o un edificio adiacente serviva da fienile. I figli maschi tradizionalmente continuavano a vivere nel maso costruendosi per loro una cucina ed una stanza in aderenza a quella del padre o spesso vivendo tutti negli stessi spazi. Le baite sparse nella campagna invece, erano costruite come deposito e stalla per l'animale che i contadini si portavano appresso: due livelli, due porte, due destinazioni diverse ma fortemente legate. Se la casa è intesa come il luogo di coabitazione tra uomo e animali, è necessario prevedere
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nei suoi spazi limitrofi quanto necessario alla vita di entrambi. Spazi coltivati, fasce, la cui distanza è proporzionale alle necessità primarie. La prima fascia a ridosso delle abitazioni è occupata quindi dagli orti, risorsa alimentare che necessita per cure e gestione di una presenza pressoché quotidiana. Quando è possibile, sono esposti verso sud e riparati dai venti freddi che giungono da nord. La seconda fascia è costituita dalla campagna coltivata, con precedenza ai terreni da arare e seminare per garantirsi quelle risorse essenziali da conservare e consumare nella stagione fredda. La terza fascia, fino a quote idonee, è occupata dai vigneti, disposti orizzontalmente sui campi terrazzati e più raramente da frutteti. La quarta fascia è invece uno spazio destinato alla fornitura di legna, legname e foraggio per gli animali: comprende il bosco e i pascoli. La terra e le sue Regole Nel Medio Evo, la maggior parte delle Alpi erano abitate da contadini liberi, fatto questo abbastanza insolito in un'Europa in cui era diffuso l'istituto della servitù della gleba⁷. Le popolazioni residenti hanno quindi beneficiato nel corso dei secoli di particolari privilegi che garantivano una sorta di autogestione del territorio, dove in cambio del diritto di coltivazione -raggiunto grazie al dissodamento di territori boscati e spesso impervi- veniva versata la Decima al signore a capo della giurisdizione. Esistevano delle leggi molto severe per la gestione e coltivazione del territorio: un sistema di controllo pubblico che prendeva il nome di Regola/e. L'Istituto delle Regole era una consociazione delle famiglie originarie⁸ del luogo che avevano proprietà e diritti in comune di boschi e pascoli rigorosamente indivisi. I primi documenti scritti a partire dall'inizio del millecinquecento ci confermano questa particolare forma di libertà ed autonomia. Forniscono informazioni utili alla comprensione di alcuni aspetti della vita sociale ed economica delle comunità rurali di un tempo. Nelle regole dei vari comuni della Valle possiamo ritrovare ad esempio l'obbligo di recintare i campi, il divieto di portare i cani nei campi durante la vendemmia, la data di inizio della stessa e tutta una serie di risarcimenti per eventuali danni provocati da terzi o da animali
altrui al pascolo. Tra i divieti più curiosi, quello di “vagare per la campagna, ovvero nelle valli”, al mattino o alla sera, rispettivamente prima e dopo i rintocchi dell'Ave Maria. Importanti poi le figure di sorveglianza dei boschi e delle campagne (saltàri) che duravano in carica un anno. Sia i campi, sia i boschi erano coltivati: vigevano regole severe per il taglio delle piante con particolare attenzione a quelle destinate alla costruzione delle pergole. Era anche prevista una riserva pubblica di legname: ecco allora che ogni paese aveva il suo bosco protetto, dove il taglio era concesso solo per opere pubbliche o in seguito a gravi calamità. Il toponimo di questo bosco è ancora presente in molti comuni e varia da Gaggio, a Gazzi, a Ga-ch. La terra e il sacro Il simbolismo religioso è un'impronta presente e distinguibile su tutto il territorio sotto forma di edifici per il culto ma anche in forma di simboli “minori”: lapidi o croci a ricordo di morti tragiche, crocefissi o capitelli che segnano l'incrocio di strade, o posti a protezione di un passaggio sull'acqua; qualche grande croce, a ricordo della sepoltura sempre fuori dall'abitato, dei morti per colera o peste. I capitelli -già presenti in epoca romana- sono collocati presso le diramazioni delle strade o crocevia, luoghi ritenuti d'incontro tra sacro e profano. Luoghi che quindi dovevano essere protetti. Tra i riti religiosi c'erano le rogazioni, dal latino rogatio, preghiera: pubbliche processioni di supplica, accompagnate dalla recita delle litanie dei santi, compiute per propiziare un buon raccolto. Era una pratica già presente prima del cristianesimo che, intollerante verso questo culto pagano legato visceralmente alla madre terra, tentò di abolirlo introducendo al suo posto analoghe devozioni. Questo antico rituale è ancora in auge in pochi paesi e si celebra con processioni primaverili in direzione dei luoghi della fede esterni all'abitato, o che almeno lo erano prima dell'urbanizzazione diffusa; questi luoghi rappresentavano una sorta di finisterrae del paese. Era una specie di benedizione del territorio: un rituale per tener fuori dal sacro recinto, marcato con il passaggio della processione, il male; una sorta di esorcismo. Non a caso, tutte le leggende e racconti delle Gua-
ne/Uane, Cavezai, Om selvadek, trovavano ambientazione oltre questo confine, dove il terreno non era sacralizzato. La processione ha lo scopo di battezzare la terra, rendendola immune dagli attacchi malevoli; in questo modo entra a far parte della comunità. L'abbandono Come la maggior parte degli abitati di montagna, un notevole calo demografico si è manifestato in corrispondenza dei grandi flussi migratori in particolare verso l'America tra fine Ottocento ed inizi Novecento e verso il fondovalle, con la richiesta di manodopera nel settore industriale in pieno boom economico post bellico. L'alluvione del novembre1966 con le esondazioni dell'Avisio e le numerose frane, ha decretato la fine dei pochi masi ancora abitati non solo della parte alta della Valle, ma anche dei vicini comuni di Capriana e Valfloriana. All'abbandono delle case nelle piccole frazioni legate ad economie agricole di sussistenza, è conseguito l'abbandono della terra, innescando un processo di rinselvatichimento del territorio. Hanno resistito a questi fenomeni solo i centri della bassa e media valle mantenendo la loro forte vocazione agricola. Poi, paesi Come Albiano, Lona, Lases nel secondo dopoguerra si convertono alla coltivazione delle cave di porfido soppiantando completamente l'agricoltura. Tutte queste premesse ci aiutano a comprendere il forte legame con la terra e il profondo rispetto maturato nel corso del tempo. Buone pratiche di ri-uso del territorio L'agricoltura ed in particolare la monocultura della vite, dopo un calo sensibile durato diversi decenni, ha visto un recupero di terreni abbandonati grazie anche a sistemi di meccanizzazione e all'introduzione, oltre che a nuove metodologie di coltivazione, di vitigni adatti al clima ed ai terreni cembrani. E' dei primi anni Ottanta del secolo scorso la prima Carta Viticola ad opera della locale Cantina Sociale, documento che modificherà il modo di coltivare ed intendere il vigneto. Alla Carta fece seguito alcuni anni dopo il “Progetto Qualità”, necessario per differenziarsi e farsi conoscere in un mercato sempre più esigente ed attento alle specificità territoriali. Da
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questo momento la produzione della Cantina “fu orientata verso forme di conduzione integrate con limitazione della concimazione chimica a favore dell'utilizzo di concimi organici, all'adozione di tecniche di difesa meno generiche e più mirate al patogeno ed alla sua fase di sviluppo, all'introduzione di pratiche agronomiche di gestione a verde del vigneto, moderne ed efficienti, per il controllo dell'equilibrio vegeto-produttivo, quali il diradamento e la defogliazione”⁹. Si ottengono con queste modalità vendemmie selezionate e differenziate, dove tutto il ciclo vegetativo è assistito e seguito dai produttori grazie anche alla formazione teorica dispensata dalla Cantina stessa. Segue quindi la Zonazione, un progetto interdisciplinare teso a individuare l'ambiente ideale al raggiungimento della massima espressione qualitativa dei propri vini. A questo progetto appartiene l'elaborazione della Carta dei suoli, una vera e propria mappatura dei terreni ad uso vitivinicolo. Ne individua le varie tipologie allo scopo di acquisire precise e più vaste conoscenze scientifiche da tradurre poi in conoscenze per il miglioramento complessivo del prodotto, dell'immagine e della commercializzazione. La zonazione tiene conto inoltre di fattori come il clima, le condizioni geopedologiche, la pratica agronomica, l'altitudine, l'esposizione, la giacitura, tutti presupposti per determinare la qualità dei vini. Il progetto ha interessato circa 2000 ettari ubicati tra Trento e Salorno e fra Lavis e Grumes. Recitano un ruolo importante anche le cantine private e si osservano a partire dagli anni Novanta il recupero di terreni abbandonati o non più redditizi; talvolta sono delle vere e proprie sfide per reinvestire a quote quasi proibitive (800/900 mslm) in vigneti sperimentali che aprono nuovi orizzonti colturali. Viticoltori che diventano precursori delle tendenze più recenti, indirizzate alla riscoperta di territori e prodotti autoctoni, abbandonando sempre più spesso la coltivazione dei vitigni internazionali. In questo processo di ripensamento viticolo, le pergole a filari orizzontali iniziano a sparire, lasciando il posto ai filari a parete verticale: forse l'unico neo di questa rivoluzione colturale. Se da una parte i comuni ad alta vocazione viticola hanno visto recuperate ormai tutte le
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Fotografia di L. Chistè
Fotografia di L. Chistè
zone agricole abbandonate a quote inferiori ai 650 metri grazie anche alla sistemazione della viabilità interpoderale, dall'altra rimangono i comuni dell'alta Valle e quelli soggetti alla massiccia coltivazione delle cave di porfido con la quasi totalità di terreni ancora incolti ed abbandonati. Le principali difficoltà di recupero di questi terreni sono dovute all'alta parcellizzazione agricola e molto spesso alla carenza di strade idonee alle moderne lavorazioni. Solo in parte il completo abbandono è stato bloccato grazie all'introduzione a partire dalla fine degli anni settanta, della coltivazione dei piccoli frutti e sporadicamente di fiori ed erbe officinali, consentendo così l'insediamento di nuove aziende agricole, bloccando in parte la continua emorragia demografica. Un territorio che dialoga: socialità economia cultura Uno dei punti di forza del mantenimento, e quindi anche del recupero, dei terreni agricoli è dato dalla capacità di lavorare in gruppo, stabilendo al proprio interno metodi, criteri e regole. Che sia qualcosa di insito nella cultura locale pare scontato: forse le Regole centenarie hanno sedimentato nella popolazione un senso civico e di collaborazione altrimenti inspiegabile. Ma vi è anche una voglia di conoscere e scandagliare il territorio da parte dei suoi abitanti, riscoprendo quei luoghi abbandonati o fino ad oggi semi-sconosciuti. Tra camminate promosse da associazioni locali, festival teatrali, incontri e proposte didattiche, nel corso dell'ultimo decennio è nata la consapevolezza del patrimonio agricolo presente. Poi i corsi di formazione, seminari e dibattiti proposti direttamente dalle cooperative per formare i propri soci o da enti che scommettono sul territorio come risorsa per le generazioni future. Tra i ruoli primari quello dei Consorzi di miglioramento Fondiario, presenti pressoché in tutti i paesi, che garantiscono e gestiscono tutta una serie di servizi necessari all'agricoltura quali la viabilità, l'irrigazione o il riordino fondiario come nel caso di Grumes. Qui un terreno completamente abbandonato di circa 20 ettari, suddiviso tra un elevato numero di proprietari è stato completamente bonificato all'interno di un progetto che ne prevede poi l'assegnazione preferibilmente a nuove e giovani imprese agricole.
Grumes è un caso a sé: da alcuni anni è in corso una radicale trasformazione legata al territorio ed avviata grazie alle politiche di formazione ed informazione avviate dall'Amministrazione comunale, dalla società di Sviluppo Turistico Grumes e dalla Rete delle Riserve Alta Valle di Cembra-Avisio. Si è instaurata cosi “una rete di coesione locale molto dinamica, che in un progetto di lungo periodo ha portato una comunità di poco più di 400 abitanti ad avere un fermento in termini di progettualità ed associazionismo piuttosto evidente”¹⁰. Non è un caso se il lavoro in sinergia proposto in questo piccolo Comune, abbia portato il paese ad essere la più piccola città slow del mondo¹¹. L'importante riconoscimento gli è stato assegnato per le iniziative, i progetti intrapresi per qualificare la vita del paese, dotandolo di strutture e servizi per consentire e sviluppare la comunità nella cultura, nell'economia sostenibile, nella responsabilità sociale, nella coscienza di vivere e rispettare il proprio ambiente e territorio, rispettoso ed orgoglioso delle proprie identità, storia e tradizione, ma allo stesso tempo aperto a nuovi incontri, nuove culture, al mondo. Valori fondamentali premiati da Cittaslow sono l'attenzione al tempo ritrovato, dove l'uomo è ancora protagonista del lento, benefico succedersi delle stagioni, il rispetto per la salute dei cittadini, la genuinità dei prodotti e della buona cucina e l'accoglienza dell'altro¹². Ruolo fondamentale anche quello della Comunità di Valle, in particolare per le politiche intraprese e seguite dall'Assessorato alla valorizzazione del territorio, ambiente, agricoltura, turismo e foreste. Grazie al Progetto di Sviluppo Sostenibile finanziato dalla Provincia Autonoma di Trento, la Comunità di Valle ha potuto intraprendere delle azioni di analisi e promozione del proprio territorio, dalle produzioni agricole al suo paesaggio includendo il patrimonio culturale ad esso correlato, con l´obiettivo di aumentare la consapevolezza circa la sua valenza e migliorare le sinergie tra agricoltura e turismo. Con l'Accademia della Montagna e l'Associazione Artigiani è stato proposto un corso per rimpossessarsi della tecnica di costruzione dei muretti a secco, che sono considerati come un biglietto da visita ormai a livello internazionale. La collaborazione con
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l'Alleanza Internazionale per il Paesaggio Terrazzato(ITLA)¹³ ha portato la Valle ad essere di fatto considerata in un network nazionale ed internazionale di territori terrazzati come uno dei rari esempi in cui tuttora l´agricoltura di versante viene mantenuta in modo attivo e produttivo. Tra le ultime e più significative attività collaterali nate da questa collaborazione c´è il documentario dal titolo “Contadini di montagna” a cura del regista Michele Trentini, che fotografa con il realismo di alcuni colloqui padre-figlio il passaggio dal passato al presente dello sviluppo agricolo della Valle. Oltre all'agricoltura il Progetto Sviluppo Sostenibile ha previsto delle azioni mirate anche per il recupero della biodiversità agricola e l´individuazione di soluzioni fattibili in termini sia di coltivazione che di mercato legate alle produzioni agricole di montagna. All'interno del progetto su biodiversità agricola ed agricoltura biologica affidato al Dr. Giorgio Perini, sono state promosse, a cavallo tra febbraio e marzo 2014, le serate di approfondimento “Pillole di agricoltura Biologica” in cui, con esperti della Fondazione Mach accompagnati di produttori privati, si è cercato di capire quale tipo di agricoltura possa garantire una congrua integrazione al reddito in quelle zone della Valle dove maggiore è stato l'abbandono dei terreni agricoli. L'auspicio degli organizzatori è che si arrivi alla costituzione di un'associazione dedicata, la formula più indicata per continuare a perseguire nella pratica questi obiettivi anche alla luce delle indicazioni contenute nelle premesse della prossima Pianificazione di Sviluppo Rurale (PSR 20142020)¹⁴. Alla luce dell'interesse riscontrato, per agevolare coloro che intendono veramente recuperare vecchi terreni abbandonati o semplicemente ripristinare i terrazzamenti esistenti, è stato promosso un bando ad hoc. la Rete delle Riserve Alta Valle di CembraAvisio è un ente recente, costituito solo da una parte di amministrazioni comunali. Si tratta di un nuovo strumento per gestire e valorizzare le aree protette in modo più efficace e con un approccio dal basso, attivato su base volontaria dai Comuni in cui ricadono sistemi territoriali di particolare interesse naturale, scientifico, storico-culturale e paesaggistico. È questo in sintesi, il senso delle reti di riserve, introdotti con la L.P. 11/07 "Governo del territorio forestale e montano, dei corsi d'acqua e
delle aree protette" che ha convertito in termini istituzionali il concetto di rete ecologica e di coerenza di cui parla la Direttiva Habitat¹⁵. Infine, fondamentali per la valorizzazione e conoscenza del territorio, la pubblicazione di alcune guide che portano ad esplorare il territorio cembrano. In particolare la guida al “Sentiero dei vecchi mestieri“ interessa tre dei comuni con il maggior territorio agricolo recuperabile: Sover, Grumes e Grauno. La guida “La via dell'uva” di prossima pubblicazione, è invece un lungo percorso nel paesaggio orizzontale dei vigneti da Lavis a Segonzano, percorrendo solo strade interpoderali. Conclusioni L'orizzontalità è quindi insita nel territorio e nel tessuto sociale della Valle: concertazione, asso-
ciazioni, consorzi, formano quel tessuto dal basso necessario per la crescita delle comunità. Il 2014 è stato proclamato dall'ONU “Anno internazionale dell'agricoltura famigliare” segno che anche le più grandi istituzioni internazionali hanno riconosciuto il ruolo che la “piccola agricoltura” ha e potrà avere per il mantenimento della sovranità alimentare, la biodiversità agricola, il paesaggio e la stabilità idrogeologica dei versanti, nonché come funzione di coesione sociale. Investire in agricoltura non va inteso come un ritorno al passato, ma come uno stimolo alla nascita di attività rivolte alla produzione di qualità -eccellenzeper soddisfare un numero sempre crescente di consumatori consapevoli, settore in cui la Valle può ritagliarsi un ruolo competitivo.
1. M. Amoroso, R. Gottardi, S. Paolazzi, G. Piffer, La Via dell'uva In Valle di Cembra, Comunità della Valle di Cembra (in attesa di stampa) 2. Sistema di allevamento a parete verticale. 3. La fitta rete di strade interpoderali ci rivela indirettamente uno degli aspetti che più contraddistinguono lo spazio agrario cembrano: la sua estrema frammentazione e parcellizzazione. 4. Il termine Ceole / Ceola. Il termine, in uso in alcuni paesi, deriva dal medievale zeulla o zeola e indicherebbe uno spazio agricolo disposto a pianoro con annesse delle abitazioni. 5. In Trentino, all'insediamento di matrice romanza a nucleo si sovrappose in periodi storici differenti la tipologia di colonizzazione del territorio a maso, di derivazione germanica. Dopo l'anno Mille, con la fondazione dei Principati Vescovili di Trento e Bressanone, e successivamente con il controllo dei Conti di Tirolo, si incentivò questo sistema di popolamento, anche richiamando coloni “tedeschi” a dissodare nuove zone. Alcuni masi, forme primarie di colonizzazione, con il tempo vennero suddivisi tra più proprietari e crebbero acquisendo carattere di piccola frazione o abitato, come numerosi abitati dell'alta valle o del Comune di Giovo. Dal XVII secolo invece, la tipologia di colonizzazione a maso venne usata come risposta all'esponenziale crescita demografica, con la messa a coltura di alcuni nuovi fondi -novali- tra i più distanti dai centri abitati. 6. M. Yourcenar, Memorie di Adriano, Torino, Einaudi, 1963 7. F. Bartaletti, Geografia e cultura delle Alpi, Milano, Franco Angeli, 2004 8. Non erano ammessi i forestieri: come tali potevano essere indicati anche chi originario dal
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paese vicino 9. M. Falcetti, Atlante viticolo della Valle di Cembra: il contributo del progetto di zonazione alla conoscenza, gestione e valorizzazione del vigneto della Cantina La Vis e Valle di Cembra, 2007 10. F. Corrado, G. Dematteis, A. Di Gioia (a cura di) Nuovi montanari. Abitare le Alpi nel XXI secolo, Franco Angeli, 2014 11. Cittaslow è un movimento nato nel 1999 con l'obiettivo di allargare la filosofia di Slow Food alle comunità locali e al governo delle città. Nel Novembre 2011a Friburgo, Grumes è diventata ufficialmente socia di Città Slow International: la rete delle città del buon vivere. 12. Sito internet: http://www.lostellodigrumes.it 13. Si veda a tal proposito l'articolo firmato da Timmi Tillmann 14. Il principale quadro normativo di riferimento del PSR è il Regolamento (CE) 1698/2005 che disciplina il sostegno allo sviluppo rurale da parte del Feasr (Fondo Europeo Agricolo per lo Sviluppo Rurale). Fonte: www.europarlamento24.eu 15. È la Direttiva del Consiglio Europeo del 21 maggio 1992 “Conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche”. Lo scopo è "salvaguardare la biodiversità mediante la conservazione degli habitat naturali, nonché della flora e della fauna selvatiche nel territorio europeo degli Stati membri al quale si applica il trattato" (art 2). Per il raggiungimento di questo obiettivo la Direttiva stabilisce misure volte ad assicurare il mantenimento o il ripristino, in uno stato di conservazione soddisfacente, degli habitat e delle specie di interesse comunitario elencati nei suoi allegati.
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IL LABORATORIO TRENTINO
La plaga agricola lungo l'asta dell'Adige fra Trento e Rovereto di Renzo Micheletti*
I promotori dell'iniziativa L'iniziativa di aprire una riflessione sul significato e sul valore della plaga agricola collocata tra Trento e Rovereto è stata avviata dal gruppo di maggioranza dell'Amministrazione comunale di Aldeno nel 2011. L'esigenza nasceva dalla presa d'atto della continua erosione della campagna, sia per la progressiva espansione degli aggregati urbani, sia per l'edificazione di manufatti legati all'agricoltura lungo le strade che solcano il fondo valle o disseminati nella campagna senza alcun criterio se non quello del titolo di proprietà del fondo.
Renzo Micheletti, Architetto libero professionista in Trento
I primi contatti A seguito di un primo approfondimento fu elaborata la bozza di un documento, sulla scorta del quale fu aperto un confronto con le circoscrizioni di Mattarello e di RavinaRomagnano (che fanno capo al Comune di Trento). Il dibattito che ne seguì evidenziò quanti potevano essere i punti in comune, certamente condivisibili, seppure all'interno di istanze e di esigenze che nascevano da condizioni specifiche differenziate. Il documento integrato con i temi, che in virtù del dibattito che ne scaturì, fu rielaborato in
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modo più ampio ed esaustivo coinvolgendo il sindaco di Trento Alessandro Andreatta, e fu portato all'attenzione dei rispettivi Consigli e fatto proprio dal Comune di Aldeno e per l'appunto dalle due Circoscrizioni di Mattarello e di Ravina-Romagnano. Il testo fu inviato al dirigente del servizio Urbanistica e Pianificazione della Mobilità del Comune di Trento, arch. Giuliano Stelzer, e consegnato al presidente della commissione urbanistica consiliare del capoluogo, ing. Alberto Salizzoni, i quali ne condivisero pienamente i contenuti. In fase di impostazione della proposta del documento preliminare propedeutico del piano urbanistico del “Territorio del Comune di Trento e dei comuni contermini” di Aldeno, Cimone e Garniga, ampie parti del testo furono introdotte nei passaggi più salienti della proposta stessa. La presa di coscienza Gli argomenti, sui quali si verificò un'ampia convergenza e dai quali nacque la convinzione che la situazione stesse velocemente evolvendo in maniera negativa, tanto da richiedere un'azione congiunta ed incisiva, furono molti. Fra di essi la presa d'atto che la città di Trento si
stava estendendo, verso sud lungo la statale del Brennero con l'area ormai compromessa dedicata alla realizzazione della cittadella militare, poi abbandonata; al centro del fondo valle con la spina rappresentata dall'aeroporto, dal museo Caproni, dalla Protezione civile, ecc.; in fianco alla zona industriale di Ravina con l'espansione di un'area con la medesima destinazione d'uso. Via delle Ischie, la strada che collega direttamente Mattarello a Romagnano e la Gotarda, la strada che collega Mattarello ad Aldeno, connettendosi con la S.P. nr. 90 Destra d'Adige in corrispondenza del nuovo magazzino della frutta, sono profondamente trasformate nel loro ruolo da un'edificazione in alcuni tratti continua. È risaputo che la viabilità in situazioni di pregio e di facile sfruttamento diventa, per le forti pressioni che si generano ed in assenza di una regolamentazione rigorosa, una testa di ponte che produce la cosiddetta “edificazione di strada”. Di fatto è quanto già avvenuto lungo via delle Ischie con gli insediamenti dei floricoltori e dell'agriturismo e lungo la Gotarda con i numerosi depositi agricoli. Vista dall'alto, la plaga appare punteggiata diffusamente da molti manufatti agricoli caratterizzati da volumetrie consistenti, da altezze eccessive e da tipologie formali incongrue e non omogenee. Questi episodi edilizi sparsi, privi di un preciso rapporto funzionale con il territorio, sono elementi di forte discontinuità nella percezione del paesaggio agricolo del fondo valle e di criticità sotto il profilo ambientale. Alcuni principi, ormai patrimonio di una larga parte della cultura ambientale, incardinano in maniera chiara queste considerazioni. Ci si riferisce, in particolare alla consapevolezza profonda che il territorio è un bene comune, limitato e non riproducibile; che esso rappresenta il capitale più importante che una comunità possiede; che la trasformazione di una zona - da naturale, o agricola, ad area con destinazione edificabile - rappresenta un processo semplice, rapido ed irreversibile mentre il contrario - il recupero a verde di un'area insediata - è un fatto che fino ad ora non si è mai verificato. E anche alla convinzione che all'oggi ha un senso preciso porsi il tema del “limite” degli aggregati urbani, poiché lo sviluppo non può più essere inteso ineluttabilmente e in modo superficiale come fase espansiva. Le
città, gli abitati possiedono ormai al proprio interno enormi risorse per aumentare le proprie dotazioni in termini di servizi e per trovare (qualora ve ne fosse ancora bisogno) risposte esaustive al fabbisogno di nuovi alloggi. Basti pensare, alle aree lasciate libere dalla dismissione delle industrie ma anche alle potenzialità derivanti dai processi di sostituzione edilizia delle parti più deboli delle città, rappresentate dagli ampi tessuti residenziali realizzati a partire dal secondo dopoguerra fino agli anni Novanta, in molti casi incongrue, obsolete dal punto di vista economico, quasi sempre assai modeste sotto il profilo costruttivo ed in particolare energetico. E ancora che la plaga che si estende fra la città capoluogo e Rovereto, oltre evidentemente a rivestire un ruolo economico assai importante per chi la coltiva, assume un'importanza sempre più marcata sotto altri profili, quali quello urbanistico ed in particolare paesaggistico e ambientale. Infine che bisogna opporsi con grande determinazione al rischio, tutt'altro che remoto, di veder trasformata anche questa parte della Val d'Adige in ciò che è ormai irrimediabilmente accaduto a nord di Trento: una conurbazione continua, tipica del Veneto, che salda indistintamente in un continuum edilizio tutti i paesi dall'espansione a nord della città fino a San Michele. La plaga Partendo da queste convinzioni, è del tutto evidente che il forte grado di antropizzazione e trasformazione ormai raggiunto dal compendio territoriale in questione, richiede una rigorosa salvaguardia degli spazi ancora liberi. L'ulteriore occupazione di tali spazi significherebbe la perdita delle identità e delle peculiarità che trasformano un territorio generico in un “luogo” che può essere riconosciuto e ricordato: senza retorica, significherebbe la perdita per noi tutti del nostro senso di appartenenza ad una comunità che non è fatto soltanto di relazioni umane ma anche primariamente di orizzonti, di sguardi, di confini geografici ed ambientali. Se si sale un po' in alto, la plaga agricola appare come un quadro di Paul Klee ove, fra traslazioni e rotazioni, spiccano in una combinazione di grande suggestione, le campiture dei vigneti e dei meleti, contraddistinte da texture e colorazioni molto variate, in funzione
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dell'alternarsi delle colture e delle essenze. Si leggono ancora in maniera molto netta i grandi segni territoriali, quali i paleoalvei e le trasformazioni che via via si sono sedimentate. Non solo, ma nel rapporto stringente tra lo spazio libero e lo spazio insediato si può leggere con chiarezza la sequenza degli abitati ed essi si possono ancora “discernere” e “nominare”. Non vi è dubbio che un ambito paesaggistico connotato in maniera così ricca e precisa va conservato, perché rappresenta l'elemento ordinatore e la vera struttura del tratto della valle a partire, come già detto, da Rovereto fino a Trento. Scrive, a questo proposito, Christian Norberg Schulz: «L'uomo abita quando riesce ad orientarsi in un ambiente e ad identificarsi con esso o, più semplicemente, quando ne esperisce il significato. Abitazione quindi vuol dire qualcosa di più di “rifugio”: essa implica che gli spazi dove la vita si svolge siano luoghi nel vero senso della parola. Un luogo è uno spazio dotato di un carattere distintivo. Fin dall'antichità il genius loci, lo spirito dei luoghi, è stato considerato come una realtà concreta che l'uomo affronta nella vita quotidiana». Vi sono altre ragioni per cui le aree libere fra Trento e Rovereto vanno salvaguardate. Sotto il profilo ambientale la plaga agricola è un polmone di grande importanza, senza il quale la qualità della vita muta profondamente. L'azione di erosione di questi spazi, che spesso si esplica in una forma subdola, non immediatamente percepibile e valutabile, perché costituita da episodi limitati la cui sommatoria genera tuttavia quasi sempre un esito eclatante di pesante degrado, va arrestata poiché è ormai essenziale giungere ad un miglior uso della risorsa suolo e altrettanto importante ottenere una maggior efficienza nell'uso delle superfici già insediate. È evidente che, nel caso di un territorio a bassa densità edilizia ed abitativa, l'incidenza degli oneri dell'infrastrutturazione è assai gravoso in termini economici e di dispendio di suolo, ma anche per quanto attiene al profilo della qualità e dell'efficienza. In questo senso, va ricordato che il suolo agricolo ha una sua forza economica e che le porzioni che vengono urbanizzate rappresentano un suolo consumato/perso per sempre. Correndo il rischio di banalizzare è possibile affer-
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L'allargamento dell'iniziativa La plaga è suddivisa da una maglia complessa e immateriale che costituisce i limiti di diversa competenza amministrativa. Si tratta di linee impercettibili ma quanto mai importanti perché costituiscono un vincolo. Sono i confini che delimitano gestioni del territorio che fanno capo ad una pluralità di amministrazioni non aventi inevitabilmente e per molteplici ragioni tutte la medesima visione del territorio. Si è quindi preso atto della necessità di coinvolgere le Amministrazioni di tutti i comuni fra Trento e Rovereto, per condividere le riflessioni esposte sopra e conseguentemente promuovere un forte coordinamento volto a modificare i singoli strumenti urbanistici nella direzione della salvaguardia. Una mozione in merito è stata approvata in ordine di tempo dai Consigli circoscrizionali di Mattarello, Ravina e Romagnano (Comune di
Trento) e dai Consigli comunali di Calliano, Villa Lagarina, Nomi; Aldeno, Volano e Besenello nel corso del 2013 e dal Comune di Pomarolo nel 2014 che impegna il sindaco e la giunta a dare attuazione alle idee guida di cui ai punti citati in premessa, attraverso la loro traduzione in una pianificazione concreta, da sviluppare in accordo con gli operatori agricoli presenti sul territorio, che si ponga l'obiettivo di: - razionalizzare il sistema della mobilità esistente in una visione d'insieme estesa all'intero ambito territoriale, individuando gerarchie e ruoli differenziati in funzione della compatibilità della viabilità con le caratteristiche intrinseche (sezione, efficienza, ecc.) e con l'incidenza e il rapporto della stessa con le aree territoriali attraversate; - incentivare i percorsi ciclopedonali che connettono i nodi di maggiore potenzialità attrattiva in termini di aggregazione, offerta di servizi, inserendoli armoniosamente ed in reciproca sicurezza nel territorio; - disincentivare il traffico pesante nei tratti critici di attraversamento delle zone urbane trovando un ragionevole equilibrio fra le singole componenti; - razionalizzare il traffico agricolo dissociandolo ovunque sia possibile dal traffico veicolare di scorrimento al fine di ottenere maggior condizioni di sicurezza e di efficienza; - governare e regolamentare la regimazione e l'utilizzo delle acque, salvaguardando sia l'edificato, sia il territorio agricolo per garantirne un efficiente, sicuro controllo al fine di assicurare una proficua coltivazione delle campagne; - riconoscere le invarianti quale garanzia della conservazione del sistema ed il suo adattamento ai cambiamenti esterni e porle come caratteri fondativi delle identità dei luoghi che ne consentono il mantenimento e la crescita nei processi di trasformazione in quello che possiamo definire patrimonio territoriale, con particolare riguardo alle aree agricole di pregio; - regolamentare l'edificazione di ulteriori manufatti nell'ambito della plaga di cui stiamo trattando, affinché la stessa non sia ulteriormente punteggiata da episodi edi-
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lizi sparsi che ne indeboliscano ulteriormente l'integrità, frammentando e togliendo forza all'immagine, compromettendo il profilo ambientale a volte in modo assai pesante; - individuare, attraverso il coinvolgimento degli operatori economici interessati (in primis gli operatori agricoli), un percorso che preveda la costituzione di un vero e proprio distretto agricolo, nell'ottica di uno sviluppo economico sostenibile del territorio con valorizzazione anche dal punto di vista turistico ed ambientale; - recuperare alla coltivazione le aree prive di destinazione d'uso od occupate da strutture dismesse, obsolete sotto il profilo economico, quali relitti stradali, slarghi residuali, tettoie, ecc., per ricomporle entro la trama colturale. Il gruppo di lavoro Al fine di avviare un'analisi approfondita degli aspetti più importanti e di individuare le straFotografia di L. Chistè
mare che senza spazi agricoli una società non può esistere. Ed ancora che senza gli spazi aperti l'uomo non può vivere e nel momento in cui tale risorsa diventa scarsa egli è costretto ad andare a cercarla altrove - con costi più elevati in rapporto al crescere della distanza per garantire il perpetuarsi delle proprie attività e della propria sopravvivenza. Questo è un fenomeno inconfutabile e sotto gli occhi di tutti: basti pensare all'esodo che nei fine settimana si verifica nelle grandi città. È paradossale trovarsi nella condizione di poter raggiungere a piedi vasti spazi aperti di notevole qualità e non difenderne l'integrità perché manca la consapevolezza del loro valore. Perderli significherebbe che, per fruire delle stesse condizioni, bisognerebbe spostarsi altrove con dispendio di mezzi e tempi. I cambiamenti di copertura e di uso del suolo rompono complessi equilibri e generano sull'ambiente effetti quali la riduzione della permeabilità, una limitata capacità di immagazzinare carbonio e un cambio della temperatura. Non è retorico ricordare che il suolo produce la prima e fondamentale forma di energia: il cibo. Non è altresì fuori luogo sottolineare che il nostro è un ambito agricolo di grande pregio e che in generale l'erosione della campagna aumenta la dipendenza alimentare da altri territori.
tegie più opportune per giungere alla definizione di un progetto di grande respiro che indichi le soluzioni più appropriate per conseguire la salvaguardia del territorio in questione, fu nominato un gruppo di lavoro composto da esperti di differente formazione culturale, provenienti da ambiti professionali e da campi d'interesse diversificati (agronomia, urbanistica, controllo degli insediamento rurali, giornalismo di settore) proprio per poter contare su un approccio il più completo ed ampio possibile. L'obiettivo posto fu di giungere a definire, attraverso un percorso gradualmente sempre più affinato, una pianificazione condivisa del compendio in questione che superasse i numerosi nodi irrisolti e che conseguisse un riequilibrio apprezzabile fra le singole componenti. Due questioni incombenti Sul futuro del progetto incombono due questioni di grande rilievo che periodicamente e instancabilmente si riaffacciano nel dibattito politico e nel quadro delle strategie di sviluppo
e trasformazione del territorio lagarino: lo sbocco del progettato collegamento autostradale fra la Valdastico e l'A22 Modena Brennero – la cosiddetta PIRUBI - e le dighe per lo sfruttamento idroelettrico dell'Adige. È ovvio che qualora i due progetti trovassero una concreta realizzazione, ogni intervento di tutela di un'area già di per sé residuale e fortemente antropizzata e trasformata, diventerebbe risibile. Anche per questo, un intervento di tutela della plaga potrebbe dare ulteriore energia alle ragioni di chi si oppone allo sfruttamento indiscriminato e miope del territorio. Conclusioni Questi sono i dati evidenti con i quali ci si deve responsabilmente misurare per trovare un orizzonte di senso più profondo, proiettato oltre le semplici istanze dell'oggi. Bisogna pertanto essere capaci di formulare una visione nuova, che vada oltre il consueto e la cultura sedimentata, secondo la quale lo sviluppo e la crescita sono semplicisticamente
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intesi quali sinonimi di espansione e secondo cui lo spazio libero è lì pronto e disponibile ad essere occupato. È una responsabilità di tutti. Di coloro che si trovano nella delicata condizione di dover decidere (i politici), di coloro che in questo ambito svolgono il loro lavoro (i contadini), di chi lo deve percorrere in automobile, dei cittadini che lo attraversano in bicicletta e di coloro che in questo spazio aperto vanno a passeggiare, a correre, in definitiva a ritrovare uno stato di equilibrio e rigenerazione. Questo “vuoto” pieno di senso deve essere letto e interpretato attraverso un progetto complessivo che attribuisca ad ogni singolo elemento il proprio ruolo specifico, nella consapevolezza che la sostenibilità della pianificazione passa in prima istanza attraverso il contenimento dei consumi di suolo.
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IL LABORATORIO TRENTINO
Hic sunt leones. Terzi paesaggi a Primiero di Gianfranco Bettega*
Anche se noi non predichiamo la dottrina spontaneamente i fiori sbocciano a primavera Ikkyu Sojun (1394-1481)
*Gianfranco Bettega vive e lavora a Primiero. Si occupa di storia del territorio e dell'alimentazione
1. La formazione del territorio Fin dalle testimonianze più antiche, il territorio di Primiero appare caratterizzato dalla presenza e dalla contesa di prati, pascoli e boschi. La lunga durata di legname ed erba marcherà, pur con fluttuazioni e interazioni con altre importanti risorse, la storia delle valli del Cismon, Vanoi e Mis, fino a metà XX secolo. In particolare, entro un crescendo di riduzioni a coltura e antropizzazioni, l'impiego della risorsa erba segnerà un passaggio economico cruciale attraverso il lento mutare dei sistemi di allevamento. Se nel XV secolo i primierotti si dividevano ancora tra habentes e non habentes pecudes¹, almeno a partire dal XVII secolo e fino al XX inoltrato, lo status economico più invidiabile diverrà quello del bacàn, ossia del possidente di prati e bovini. Questo cambio della guardia tra pecore e vacche sarà uno dei fattori strutturanti il territorio primierotto. L'introduzione sempre più massiccia di bovini stanziali motiverà la produzione di sempre più consistenti scorte di fieno per i lunghi mesi invernali e spingerà all'invenzione (o, meglio, all'innesto e al peculiare sviluppo) dei masi: le stazioni familiari di pre e post-alpeggio dove si produceva la maggior parte del foraggio di scorta e sulle quali sorgerà quel vasto patrimo-
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nio edilizio dallo spiccato carattere corale che oggi chiamiamo baite. Circa 4000 edifici caratterizzati da grandi coerenza tipologica e varietà strutturale e formale che permeano il territorio al punto da poterli considerare una vera e propria invariante culturale. Un secondo determinante periodo di transizione sarà il secolo nero che va dal 1866 al 1966. Con il passaggio del Veneto all'Italia e l'ermetica chiusura della frontiera verso il loro naturale bacino economico, si aprirà per le nostre valli un'epoca scandita da regresso economico e della disponibilità di generi di vita, emigrazione, dissesti naturali e bellici. La popolazione raggiungerà i suoi massimi storici sullo scorcio dell'Ottocento e la pressione antropica passerà ogni limite sostenibile, mettendo a coltura ogni suolo raggiungibile, senza con ciò rimediare alle sempre più vaste sacche di povertà. Anche dopo il 1918 e l'annessione all'Italia, la ripresa economica tarderà a giungere: il Ventennio e la Seconda guerra mondiale posporranno di un altro cinquantennio l'ingresso in valle della modernità e del mercato. Solo dopo l'alluvione del 1966 prenderà quota una serie di cambiamenti socioeconomici che porteranno in valle il sospirato boom economico, ma quel dissesto idrogeologico accelererà
Raffronto fotografico dello stato del versante destro della valle del Cismon all'altezza dell'abitato di Siror 1935-2014.
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l'abbandono dell'agricoltura e dei suoli agricoli Espansione degli insediamenti dell'Alto Primiero dal 1859 al 2011. già in atto. Tra il 1951 ed il 1971 più di 1800 persone lasceranno il settore. Così si descrive la situazione nel 1977: “Ma l'aspetto certamente più negativo, a livello di uso delle risorse territoriali rimane quello che riguarda i terreni adibiti ad uso agricolo o a pascolo. I danni provocati dal forzato abbandono di queste attività sono estremamente gravi, non solo in quanto ciò ha costituito la distruzione di quella che era sempre la base economica di Primiero, ma anche perché tale abbandono ha avuto effetti profondamente negativi sulla conservazione e sulla protezione dei terreni.”² Numerose le cause di questo fenomeno, comune a gran parte delle Alpi. A Primiero incide senz'altro l'attrazione dei comparti turistico ed edilizio, alla ricerca di manodopera a basso costo. Tra le cause interne, potremmo oggi segnalare l'adozione di un modello produttivo inadeguato alla montagna, fondato sulla meccanizzazione spinta, l'accentramento delle stalle e della trasformazione del latte, la specializzazione estrema dell'allevamento e la svalutazione delle piccole coltivazioni di autoconsumo.³ Tutto ciò ha causato una selezione naturale da meccanizzazione con radicali mutamenti degli usi del suolo che vedono i prati e pascoli più ripidi progressivamente abbandonati all'avanzare del bosco e i coltivi più pianeggianti trasformati in prati. 2. La situazione attuale Oggi, a quasi cinquant'anni dal fatidico 1966 e dopo quasi altrettanti di programmazione urbanistica trentina, possiamo misurare la dimensione di questo mutamento epocale: una vera e propria frattura rispetto alla lunga durata dei secoli precedenti. Due gli effetti più evidenti del fenomeno. La dimensione dello spreco di suolo, nell'ultimo mezzo secolo, ha visto quasi triplicarsi gli spazi urbanizzati, passati dai 144 ha del 1960 ai 429 del 2011, proprio mentre la popolazione diminuiva quasi del 7% (dai 10.897 abitanti del 1961 agli attuali 10.147). Pur in tutta la sua gravità, questo dato riguarda comunque poco più dell'1% della superficie del territorio di Primiero che complessivamente ammonta a 413 kmq. Di vastità ben maggiore il fenomeno ad esso speculare: l'abbandono di circa 26 Kmq di suoli coltivati, persi all'agricoltura tra il 1977 ed oggi:
il 29% del totale delle aree a quel tempo utilizzate e ormai ridotte a 65 kmq.⁵ Più che approfondire la dimensione quantitativa di questa deriva, importa qui tratteggiarne la progressione, ancora in atto su larghe fasce di suolo sia di fondovalle che di mezza o alta quota.⁶ È una scala di cui si possono indicare almeno quattro gradini. Ha inizio con la dismissione delle attività agricole: dapprima le coltivazioni di campi ed orti e, in seguito, la fienagione o anche il semplice
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pascolo. Le ragioni di queste dismissioni sono legate sia al ricambio generazionale nel settore che ad una complessiva perdita di dignità del ruolo dell'agricoltore e della produzione locale di cibo nella nostra società. Il cambio d'uso del suolo, o il suo abbandono, porta con sé un'inevitabile perdita di fertilità e di biodiversità coltivata. Scompaiono specie allevate e varietà coltivate ma, soprattutto, regredisce la fertilità faticosamente costruita dalle generazioni passate. Né è il caso di bearci
di questa nuova naturalità dei suoli: “un'evoluzione lasciata all'insieme degli esseri biologici che compongono il territorio, in assenza di ogni decisione umana.”⁷ Poiché, anche se molti, tra non residenti e nuove generazioni, leggono oggi questi terzi paesaggi come un idilliaco ritorno alla natura, in realtà si tratta di suoli per i quali la nostra comunità ha rinunciato ad immaginare un futuro. E che, dati i costi che comporterebbe, sarà quasi impossibile riportare ad uso agricolo. Svalutazione culturale (della centralità della produzione del cibo) e materiale (di fertilità e biodiversità) si rivelano ben presto premesse per altri usi e valorizzazioni. Dapprima quelle più leggere ma già irreversibili (spesso legittimate, quando non addirittura incentivate o imposte dalle istituzioni locali), come la frammentazione dei suoli per creare infrastrutture o la loro impermeabilizzazione per ricavare spazi urbani di pubblico interesse come piazze, parcheggi e posti macchina. A seguire, quelle classiche di cementificazione ed edificazione. Abbandono e cementificazione sono legati e complementari ma, a Primiero, la loro percezione sociale corre su binari separati. In particolare, sull'abbandono emergono indizi frammentari e qualitativi (piuttosto che non conoscenze quantitative) che stentano a raccordarsi in un quadro organico ed unitario. Soprattutto, ben di rado si giunge alla constatazione, di per sé lapalissiana, che Gilles Clément ha da tempo enunciato: là dove l'uomo fa un passo indietro, la natura avanza e riguadagna terreno, materialmente e metaforicamente. Materialmente, avvalendosi di tutti i viventi (cervi, cinghiali, aironi, limacce, orsi, robinie, buddleiae, verghe d'oro e chissà quanti altri alieni)⁸ che trovano, nei nuovi spazi lasciati al Terzo paesaggio, il proprio naturale ambito d'insediamento e di vita. Metaforicamente, infiltrandosi tra saperi territoriali tradizionali e ormai desueti paradigmi di modernità ed urbanesimo per alimentare una nuova immagine della montagna selvaggia, distante e sconosciuta ai più. Selvaggia come la foresta che invase l'Europa dopo la caduta dell'Impero romano d'occidente e che solo il Medioevo seppe ri-leggere come risorsa per nuovi usi da parte di uomini nuovi.⁹ Distante soprattutto dalla visione mainstream che del Trentino è stata proposta in questi ultimi decenni. Ed è tutt'oggi ribadita dalle letture ufficiali dell'agricoltura come, ad esempio, la
recente mostra Terre coltivate. Una narrazione che, non a caso, dimentica Primiero e le sue agricolture, così come quelle di altre aree, periferiche all'oliato sistema unico delle DOP e delle DOC (imperniato su tre produzioni bandiera, vitivinicola, frutticoltura e casearia, e poco altro).¹⁰ Quasi che, nella carta ufficiale dell'agroalimentare trentino, Primiero fosse una sorta di terra lontana e ignota, simile a quelle che individuava, nelle mappe antiche e medievali, la scritta hic sunt leones, testimoniando innanzitutto lo sguardo distratto e l'ignoranza dell'estensore. Sconosciuta a gran parte di noi abitanti del luogo che pure discendiamo da gente che conosceva il territorio palmo a palmo perché lo percorreva, quando muoversi era un modo condiviso di imparare. Gente che sapeva leggere i segni della terra, “un alfabeto che oggi noi non capiamo, che non conosciamo quasi più, analfabeti di territorio come siamo.”¹¹ Ma anche sconosciuta ai più, a causa delle distorsioni antropocentriche che hanno guidato il nostro rapporto con gli altri viventi, convinti come siamo di essere centro e sovrani del creato.¹² In altre parole, l'attuale abbandono del territorio certifica come noi “siamo le prime generazioni nella storia che non stanno più tramandando i saperi specifici legati al territorio”¹³ e, di conseguenza, non hanno saputo sviluppare uno sguardo condiviso sul proprio territorio. 3. Tentativi, successi (pochi) e fallimenti (troppi) Non sono stati pochi, nell'ultimo decennio a Primiero, i tentativi di segnalare il tema dell'abbandono dei suoli agricoli e delle multiple agricolture ad essi collegate, di immaginare nuovi futuri per questi suoli e per le risorse che essi ancora ci propongono. Alcuni di questi tentativi portano il marchio istituzionale, provinciale o europeo. Pensiamo, ad esempio, a quella nuova categoria di pastori che, sospinti da incentivi economici, mettono insieme piccoli greggi di ovini che fanno pascolare allo stato brado e incustoditi in vecchi masi, su malghe troppo inaccessibili per interessare il comparto latterio-caseario (da tempo divenuto, nel sentire comune, l'Allevamento con l'A maiuscola di Primiero), oppure su sgrémeni all'estremo limite altitudinale della vegetazione. Niente latte o lana da questa pastorizia primitiva, alla mercé del vitu-
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perato orso: solo agnelli da carne da smerciare nel periodo pasquale. Con questo allevamento europeo fanno il paio i ripristini di prati e pascoli di mezza o alta quota: suoli rimboschiti e talora recuperati dalle stesse persone che, solo qualche decennio fa, li avevano abbandonati. A costi che si aggirano tra i 15.000 ed i 30.000 Euro/ha¹⁴, a secondo delle condizioni di partenza e con la consueta logica di selezione e intervento, quella della loro lavorabilità meccanizzata. In entrambi i casi, più che nuovi progetti di utilizzo delle risorse territoriali, si tratta di un saltare sul treno europeo dei finanziamenti: ben difficilmente si attiverebbero interventi in assenza di fondi pubblici. A Primiero non mancano tuttavia altre iniziative che, a cavallo tra associazionismo e settore pubblico, hanno cercato di analizzare agricolture minori, produzioni locali di cibo, abbandoni di coltivi e prati, avanzando anche qualche ipotesi d'intervento. Una semplice elencazione di quelle imperniate su orti e coltivi di fondovalle sarà sufficiente per lasciar intuire la loro multiforme natura: vanno dal recupero di coltivi e dell'antica varietà di mais Dorotèa¹⁵ all'orto scolastico della Scuola elementare di Tonadico¹⁶; dal Bilancio degli orti¹⁷ alla proposta di un'Aula in Campagna per i futuri cuochi di Primiero¹⁸; dal progetto della birra 100% Primiero¹⁹ alla mostra Tutto il mondo è un orto²⁰; da un'Alleanza per la Campagna²¹ fino al censimento generale degli orti della valle²². Elenchi simili si potrebbero stilare, oltre che per i coltivi, anche per altre risorse, come erba e legno. Senza dimenticare quella peculiare risorsa territoriale che è il paesaggio, nella conservazione del quale la sproporzione tra avanzare della natura e resistenza dell'uomo appare oggi particolarmente evidente. Poche centinaia di uomini – boscaioli, allevatori, operatori ecologici e siegadóri della domenica - tentano invano di arginare il terzo paesaggio intervenendo a valle del fenomeno poiché nessuno si preoccupa di considerarlo da monte, partendo dalle sue motivazioni, peraltro evidenti, a guardarle nel lungo periodo. A bilancio, pur provvisorio e parziale, di queste iniziative, ci sembra di poter indicare un carattere che connota gran parte di esse: una gran vitalità di soggetti e proposte, caratterizzata da estrema frammentazione, quando non di divisione e contrapposizione²³. Uno stato di
cose che trova emblematica rappresentazione nella divisione amministrativa di Primiero (ben otto Comuni, senza contare le altre istituzioni sovraordinate, per neanche 10.000 abitanti) che determina l'incapacità locale ad esprimere una visione territoriale strategica condivisa. È come se una grandissima biodiversità di sementi, radici, pollini e stoloni cercasse invano di attecchire in un terreno reso sterile, asfittico e poi abbandonato a sé stesso dall'aggressiva monocoltura/monocultura che domina il campo. Senza lasciarsi trasportare oltre dalla metafora, non si può comunque far a meno di constatare come costruire una visione condivisa del territorio, al di là della ricorsiva liturgia di dichiarazioni d'intenti e tavoli di partecipazione, non sia un tema prioritario nell'agenda della politica locale.
scale con cui gli altri viventi vi si rapportano.²⁶ Strettamente legato a quello delle scale appropriate è anche necessario un aggiornamento di pensiero sul tema della frammentazione, sia territoriale che amministrativa. Occorre andare oltre i luoghi comuni indotti dai modelli esogeni della frammentazione come criticità e della grande dimensione come economia di scala. Se del caso, anche recuperando una visione della frammentazione anche come strategia di distribuzione del rischio, così come è esistita in passato nell'agricoltura locale e come, peraltro, si profila in Internet o nelle reti della biodiversità. Ma anche prendendo atto dei casi in cui essa è invece elemento di stasi ed incapacità operativa. Prima tra tutte l'attuale architettura istituzionale locale. Con nuovi strumenti, messi a disposizione anche dagli altri viventi, occorre ri-vedere risor4. Nuove prospettive? Quali siano le strategie possibili per instaurare se sulle quali aprire ventagli di possibili nuovi un rapporto nuovo, coerente e sostenibile con impieghi. A partire dal terzo paesaggio si posil territorio e, in particolare, con il terzo paesag- sono contemplare destini diversi per i suoli, talgio locale, non è cosa immediata da definire. volta complementari, talaltra esclusivi: dalla Ma alcuni spunti e temi si possono intravvede- conservazione della funzione originaria di prato-pascolo all'inserimento di nuove attività e re. Innanzitutto, il terzo paesaggio allarga i margini nuovi modelli d'agricoltura di versante; dalla tra antropizzato e naturale. Quei confini che, in conservazione dei prati-pascoli come elementi epoca di massimo popolamento, si erano di varietà e qualità paesaggistica, ambientale e ridotti a sottili fronti di lotta quotidiana tra di vita, anche come componenti dell'offerta uomo e natura, si espandono oggi in profonde turistica, alla conversione dei suoli a produzioterre di nessuno dove tutto ridiviene possibile, ne legnosa da opera o da fuoco, sia in forma di per tutti i viventi. Animali e piante lo hanno già legna da ardere che di cippato da teleriscaldacapito, anche se noi umani stentiamo a pren- mento; da assetti idonei a garantire la sicurezderne atto. Sono spazi, fisici ma anche menta- za del territorio sino all'abbandono controllato li, indeterminati: luoghi di possibile fertilità di per contribuire al rafforzamento delle rete delle aree protette e naturali, alla ricomposipensiero e cambiamento. Spazi che chiedono di essere esplorati da nuovi zione di situazioni di frammentazione delle sguardi, che vengano da intelligenze e da corpi biocenosi che favorisca il vagabondaggio delle differenti: umani ma anche animali e vegeta- specie viventi. li.²⁴ Da umani che, consapevoli di non stare Per far ciò servono forse dei nuovi barbari, per sopra ma tra i viventi, sviluppino atteggiamenti reimparare il maiale? Serve cioè un nuovo simbiotici e non di contrapposizione o, peggio, Medioevo con nuovi montanari che individuino, per le risorse di sempre, nuovi impieghi? E di dominio.²⁵ In questa prospettiva occorre affinare una capa- fa differenza se questi nuovi montanari sono cità fondamentale che è quella di ri-conoscere dei locali o vengono da fuori? le scale, spaziali e temporali, dei temi e dei pro- Certo, una componente innovativa va ricercablemi, compreso quello dell'abbandono del ta, ma forse non basta. Per superare l'impasse territorio che qui ci interessa. Si tratta di risalire in cui ci siamo cacciati e di cui il terzo paesaggio la china della desertificazione, cartografica e di è espressione, serve anche riprendere dalla pensiero, che in questi ultimi decenni ha carat- storia locale alcune soluzioni di successo, terizzato il nostro rapporto col territorio, ma tenendo ben a mente che la tradizione è tale anche di riconoscere e incorporare le differenti proprio perché si tratta di un'innovazione ben
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riuscita.²⁷ Serve innanzitutto reimparare a chiudere i cicli produttivi a partire da quelli agro-forestali, ridisegnando filiere insostenibili che producono esternalità pesantissime. Occorre far in modo che gli output di un ciclo non diventino rifiuto ma risorsa per qualche altro ciclo. Ma occorre anche riprogettare le produzioni prevenendo a monte talune esternalità, anziché risolverle con investimenti di denaro pubblico a valle.²⁸ Occorre tornare a camminare il territorio come vecchio/nuovo metodo di conoscenza, controllo e progettualità. Sviluppando letture appropriate, avvalendosi di tutte le porte di percezione disponibili ed evitando di sostituire alle cose la loro immagine.²⁹ Solo così si potrà ricominciare a trasmettere l'alfabeto del territorio, adeguandolo alle nuove situazioni e recuperando l'analfabetismo di ritorno che oggi ci distanzia sempre più da questa larga parte di realtà. Naturalmente non è affatto questione di nostalgia. Si tratta piuttosto di tenere le cose buone del passato.³⁰ Detto in altri termini, si tratta di passare dal localismo vandalico³¹ che ci ha portato allo sperpero e al simultaneo abbandono dei suoli, a un'idea di territorio condivisa da nuovi montanari, resistenti e simbiotici con il proprio ambiente e con l'insieme dei viventi.³² Tenendo comunque ben a mente che, lo vogliamo o meno, spontaneamente i fiori sbocciano a primavera.
1 Così in un documento sui pascoli del 1477 conservato nell'Archivio parrocchiale di Tonadico, Pergamene e documenti antichi, C. 23. 2. Comprensorio di Primiero, Piano urbanistico comprensoriale, Feltre, Castaldi, 1981, pp. 81-82. 3. Questa prospettiva ben esemplificata da: Giorgio Scalet, Agricoltura in Primiero, storia e attualità, Zero Branco (Tv), Unigrafica, 1984, pp. 225-242, 4.Il tema dell'occupazione dei suoli, esemplificato anche dalla fig. 2, è descritto e quantificato in: Comunità do Primiero, Documento preliminare per la formazione del Piano Territoriale di Comunità. Allegato I – Ambiente, territorio e società di Primiero, marzo 2014, pp. 54-70; una sintesi della vicenda urbanistica di Primiero si trova invece in: Comunità di Primiero, La pianificazione urbanistica a Primiero. Un bilancio, marzo 2014. Entrambi i documenti sono disponibili all'indirizzo web: http://www.primiero.tn.it/Aree-Tematiche/Ambiente-eTerritorio/Urbanistica/Piano-Territoriale-di-Comunita 5. L'entità e la natura di questo abbandono sono approfondite in Silvio Grisotto, Analisi sui boschi di neoformazione nella Comunità di Primiero-Vanoi e Mis: proposta per un loro utilizzo a scopi energetici, turistico- paesaggistici e di recupero ambientale, maggio 2012, (inedito, consultabile presso la Comunità di Primiero). 6. Riprendiamo qui considerazioni già sviluppate in: Gianfranco Bettega, Dal Giardino in Movimento al Giardino Planetario, via Primiero, in Antropologia del «Terzo Paesaggio», a cura di Franco Lai e Nadia Breda, Roma, CISU, 2011, pp. 5174. Per l'ambito di Primiero, il tema è stato anche di recente affrontato nel volume: Un luogo in cui resistere. Atlante dei paesaggi di Sagron Mis (secoli XVI-XXI), a cura della Cooperativa di ricerca TeSto, Sagron Mis, Comune di Sagron Mis, 2013. 7. È la definizione di terzo paesaggio data da Gilles Clément nel suo Manifesto del Terzo paesaggio, Macerata, Quodlibet, 2005. 8. Analisi aggiornate sulla diffusione delle specie aliene a Primiero si trovano in: Alessio Bertolli – Filippo Prosser, Attività botaniche nella Comunità di valle del Primiero.Triennio 20112013, Rovereto, Fondazione Museo Civico Rovereto, 2013 (inedito, consultabile presso la Comunità di Primiero); una posizione estrema sul tema è stata espressa in Invasioni aliene? E cambiamenti climatici a Primiero, da Erwin Filippi Gilli, disponibile all'indirizzo web: http://www.lavocedelnordest.it//articoli/2011/08/19/4810/am bienteinvasioni-aliene-e-cambiamenti-climatici-a-primiero 9. Un esempio di nuova lettura del bosco come risorsa è descritto in: Massimo Montanari, Il maiale nell'economia e nell'alimentazione medievali in Tra Maghe, Santi e Maiali. L'avventura del porco nelle lettere e nei colori, a cura di Paolo Scarpi, Milano, Claudio Gallone Editore, 1998, p. 96. L'Autore evidenzia come all'abbandono seguito alla caduta dell'Impero romano d'occidente succedette, lungo l'alto Medioevo, una ri-lettura del bosco come risorsa (evidentemente operata da una nuova cultura, per lungo tempo definita barbara dalla storiografia ufficiale) che portò alla riconversione produttiva della foresta grazie all'introduzione del pascolo brado dei maiali. 10. Si veda il catalogo: Terre coltivate. Storia dei paesaggi agrari del Trentino, a cura di Alessandro De Bertolini, Trento, Fondazione Museo Storico del Trentino, 2014. Primiero vi compare per tre volte, più con riferimenti storici generici che nel merito della sua agricoltura, alle pp. 15, 90 e174. Val la pena di rammentare che, proprio dal sistema delle DOC e delle DOP, muove il Piano Urbanistico Provinciale per definire il valore dei terreni agricoli. Si veda: Provincia autonoma di Trento, Piano Urbanistico Provinciale. Allegato A Relazione illustrativa, Trento, 2008, pp. 62-66. Abbiamo già segnalato l'inadeguatezza dello sguardo ufficiale sul tema delle risorse locali, dell'agricoltura e dell'abbandono del territorio in: Dal Giardino in Movimento, cit. alle pp. 59-61. 11. Nicola Sordo, Un mondo dove tutto torna. La memoria
locale come strumento per la cura e la riprogettazione dei territori, Milano, Raccolto edizioni, 2014, p. 12. 12. Una prospettiva, utilmente dissonante rispetto a quella antropocentrica è proposta da: Stefano Mancuso e Alessandra Viola, Verde brillante. Sensibilità e intelligenza del mondo vegetale, Firenze, Giunti, 2013. Secondo gli Autori, “convinti per millenni di essere i più eccelsi fra gli esseri viventi e di occupare il centro dell'universo”, abbiamo rimosso la constatazione della nostra dipendenza assoluta dai vegetali, del loro successo planetario nell'adattamento ambientale (i vegetali rappresentano il 99,5% dei viventi, gli animali costituiscono lo 0,3%, compresa la percentuale ancora più ridotta degli umani), cosicché “le piante ci appaiono distanti, aliene, al punto che a volte facciamo persino fatica a ricordare che sono vive” (p. 107). 13. Sordo, Un mondo dove tutto torna, cit. p. 10. 14. I costi sono desunti da: Grisotto, Analisi sui boschi di neoformazione, cit. Allegato II. Casi studio delle diverse tipologie di intervento e macroaree omogenee. 15. Il progetto Custodiamo il sórc, di recupero del mais Dorotèa è promosso a partire dal 2007 dall'Ecomuseo del Vanoi. Si basa su un disciplinare partecipato disponibile all'indirizzo web: http://www.ecomuseo.vanoi.it/mulini-dei-caineri/. 16. L'orto in Condotta è stato promosso, a partire dal 2007, dalla Scuola Primaria di Tonadico in collaborazione con la Condotta Slow Food di Primiero. L'esperienza, tuttora attiva, è descritta all'indirizzo web: http://www.scuoleprimiero.it/index.php/primaria/progprim/ 620-orto-in-condotta. 17. Proposto nel contesto di Agenda 21 Locale di Primiero, il Bilancio degli orti è stato commissionato dal Comune di Mezzano. Ha portato nel settembre 2008 ad una proposta articolata: uno Schedario di censimento, Indagini e analisi accompagnate da un piano di azioni d'intervento ed un Prontuario delle componenti tradizionali degli orti del centro storico finalizzato all'erogazione di finanziamenti a sostegno della conservazione degli orti. Non sono purtroppo seguite azioni concrete da parte del Comune. 18. La proposta, avanzata dalla Condotta Slow Food di Primiero con il sostegno dei Comuni di Siror e Tonadico e dell'Ente Parco Naturale Paneveggio Pale di San Martino, assieme al locale Centro di formazione professionale professionale alberghiero ENAIP, prevedeva di istituire un orto scolastico che portasse i futuri cuochi a mettere le mani nella terra per aumentarne la consapevolezza in materia di produzioni agroalimentari. Il progetto L'aula in campagna, formulato nel settembre 2012, non è stato approvato dalla dirigenza provinciale dell'Istituto. 19. La birra 100% Primiero è l'esito di un percorso avviato nel 2011 da un gruppo di giovani soci della Condotta Slow Food di Primiero col sostegno del locale birrificio BioNoc. Ha promosso, a partire dall'abilità del birraio, la ripresa della coltivazione dell'orzo in valle. L'esperienza, tuttora in corso, è descritta all'indirizzo web: http://feltrinoeprimiero.wordpress.com/2013/06/27/e-natala-100-primiero/. 20. La mostra, curata dalla Condotta Slow Food di Primiero nel 2012, ha fatto un primo punto sulla rilevanza degli orti per i territorio di Primiero (almeno 1500 piccoli appezzamenti coinvolgono più del 10% della popolazione) e su alcune esperienze in corso. La mostra è scaricabile all'indirizzo web: http://feltrinoeprimiero.wordpress.com/2012/08/19/tutto-ilmondo-e-un-orto/. 21. L'Alleanza per la Campagna è un accordo sottoscritto nel 2013 dai Comuni di Siror e Tonadico, al quale hanno aderito varie associazioni e singoli cittadini. Propone sette obiettivi di salvaguardia e valorizzazione di una delle poche aree di Primiero che, per morfologia, pedologia e fertilità dei suoli, si presta alla coltivazione di specie alimentari di qualità. Il documento è disponibile al sito web: http://www.tonadico.eu/news/items/alleanza-per-la-
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campagna.html. 22. Promosso dalla Condotta Slow Food di Primiero e attuato grazie al volontariato di soci e cittadini, ContaOrti, il censimento di Primiero, è stato avviato nel 2013 ed è tuttora in corso. 23. Questa caratteristica della struttura socio-culturale di Primiero è ben nota e sottolineata anche in: Comunità di Primiero, Documento preliminare per la formazione del Piano Territoriale della Comunità di Primiero. Visioni, strategie e azioni per un futuro sostenibile, marzo 2014, pp. 17-18; il tema è approfondito nell'Allegato I, cit. pp. 112-116. I documenti sono entrambi disponibili all'indirizzo web: http://www.primiero.tn.it/Aree-Tematiche/Ambiente-eTerritorio/Urbanistica/Piano-Territoriale-di-Comunita. 24. Quanto possa essere fruttuoso partecipare di sguardi altri che vengano da intelligenze altre, è ben esemplificato da Mancuso e Viola in Verde brillante, cit. laddove rammentano che ogni perdita di specie vegetali è anche una perdita di soluzioni inesplorate (p. 68) e suggeriscono di “considerare il modo in cui esse risolvono i problemi una fonte di preziose informazioni anche per noi umani.” (p. 110) 25. L'approccio simbiotico è enunciato da Gilles Clément nel suo testo L'alternative ambiante del 2009, disponibile al sito web: http://www.gillesclement.com/cat-copylefttextes-titTextes-en-copyleft. 26. Il tema della desertificazione cartografica, sintomo di una più profonda desertificazione di pensiero (o anafalbetismo di ritorno) sul territorio, è affrontato in M. Varotto, Una proposta di metodo: l'esperienza d'indagine nell'area prealpina veneta in «Terre alte» e geografia. Prospettive di ricerca verso il 2002 «Anno internazionale delle montagne», a cura di Ugo Mattana e Mauro Varotto, Padova, Università di Padova, 2001, pp. 55-63 e ripreso in Geografie dell'abbandono. Valstagna e la fine della civiltà del tabacco in «Uomini e paesaggi del Canale di Brenta», a cura di Daniela Perco e Mauro Varotto, Caselle di Sommacampagna (Vr), Cierre Edizioni, 2004, pp. 213-261. 27. La definizione di tradizione è in: Massimo Montanari, Il cibo come cultura, Roma-Bari, Laterza, 2001, p 10. 28. Si pensi, ad esempio, alla filiera dell'allevamento bovino che crea esternalità come liquami, deperimento precoce delle bovine e riduzione della biodiversità prativa, alle quali localmente si cerca di ovviare con costose tecnologie fuori scala come biodigestore centralizzato e nuovo macello sovradimensionati e con costosi smaltimenti di rifiuti speciali, che un tempo erano risorse, come siero, letame e carne. Senza dimenticare gli input poco o per nulla sostenibili come mangimi, insilati e persino (come a Primiero non esistesse erba...) fieno che si importano da fuori valle. 29. Si veda: Sordo, Un mondo dove tutto torna, cit. pp. 31-34. 30. Ibidem, p. 15. 31. Il localismo vandalico come “consumo scriteriato e autodistruttivo delle proprie risorse patrimonialie” “praticato proprio da popolazioni locali colonizzate da modelli culturali di modernizzazione che provengono dalla metropoli” è definito in Alberto Magnaghi, Il progetto locale. Verso la coscienza di luogo, Torino, Bollati Boringhieri, 2010, pp. 104 e 134-135. 32. Gilles Clément, ad esempio, ha di recente enunciato il concetto di Giardini di resistenza come “metodo che si esprime in un luogo e che apre nuove possibilità di partecipazione e nuove ipotesi di economia, soprattutto in questa fase di crollo economico e di necessità di cercare un futuro realmente diverso.” Il documento Les jardins de résistence. Rêve en sept points pour une généralisatione dels jardins de résistence è scaricabile all'indirizzo web: http://www.gillesclement.com/cat-jardinresistance-tit-LesJardins-de-resistance. Le citazioni qui riportate sono tratte da un'intervista che si può leggere all'indirizzo web: http://www.architetto.info/gilles-clement-a-mi-arch-2014intervista-al-giardiniere-planetario-_news_x_24927...
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IL LABORATORIO TRENTINO
La riconquista agricola come «agricoltura resistente»: l'esperienza della Val di Non di Oscar Piazzi*
*Oscar Piazzi. Architetto, risiede ed opera in Trentino, nell'Alta Val di Non
L'agricoltura resistente come agricoltura di sussistenza Il tema di questo numero di Sentieri Urbani, ovvero quello delle pratiche territoriali di riconquista agricola, rappresenta in questo ultimo periodo, uno dei temi di trasformazione urbanistica all'ordine del giorno. È questo il caso anche della Val di Non, in provincia di Trento, il cui sviluppo del sistema agricolo, anche grazie al lavoro di pianificazione del territorio che le Comunità (di Valle) devono condurre, è diventato in tempi recenti un elemento di forte confronto tra amministratori, tecnici, operatori del settore e semplici cittadini. Come è noto, la pianificazione delle Comunità è una delle competenze delegate per legge a questo ente intermedio. Ed il tema assume particolare importanza in sede di redazione dello strumento urbanistico (il Piano territoriale della Comunità) proprio perché esso è chiamato a definire i perimetri delle aree agricole di pregio che rappresentano l'ultimo baluardo normativo pensato dal legislatore a difesa del suolo. Le aree agricole di pregio, infatti, sono il “vero” vincolo di tutela ambientale previsto dalla seconda revisione del Piano urbanistico provinciale, approvata del 2008: previste per legge, incomprimibili e non declassabili le aree
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agricole di pregio sono la matrice del territorio, capace di essere un elemento di contenimento della dispersione insediativa. C'è anche un'altra questione che può essere utile premetter in questa sede. A ben guardare, la stessa definizione di «agricoltura resistente», ancillare al tema in argomento, può essere d'interesse per leggere il tema dell'agricoltura: estremamente mutevole essa risente in maniera sostanziale della sensibilità delle epoche storiche in cui viene concepita e praticata. Se ogni tempo è caratterizzato dalla propria forma di agricoltura resistente, allora può essere interessante capire in questo breve scritto, la storia di questa modalità di sfruttamento agricolo del territorio e quello che intendiamo per questo fenomeno nel tempo che stiamo attraversando, con particolare attenzione a quello che è accaduto e che sta avvenendo in Val di Non. Caratterizzato per secoli da una poverissima economia di sussistenza questo territorio collocato nella parte nord-occidentale del Trentino, ha vissuto a partire dal secondo Novecento una vera e propria rivoluzione agricola, passando da uno sfruttamento capillare e “familiare” del territorio, ad uno sfruttamento intensivo caratterizzato dalla monocoltura della mela.
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Fotografia di L. Chistè
Fotografia di L. Chistè
Oggi siamo lontani da una concezione tradizione di agricoltura resistente, intesa come quell'agricoltura capace di creare una economia di sussistenza in grado di fornire quei prodotti base per garantire il “sostentamento” delle famiglie. Eppure quella tradizionale ha condizionato il territorio per molti secoli: era una agricoltura caratterizzata dal grande lavoro di donne e di uomini e dalla inevitabile incertezza del risultato stagionale. Dagli orti del primo millennio dopo Cristo ad oggi, tanta fatica è stata profusa nella terra per fede e per necessità. Ancora alla fine del 1400 la Val di Non, come il resto del contesto prealpino, era caratterizzata da un paesaggio molto coltivato, frutto delle fatiche fisiche e culturali degli abitanti in essa insediati. In queste terre difficili, l'agricoltura si manifestava nella scelta di quei terreni capaci di minimizzare gli sforzi fisici e di massimizzare la resa delle colture. A questo va aggiunta l'attività di miglioramento costante effettuata nel corso dei secoli dai contadini, orientata alla selezione di sementi capaci di migliorare, anno dopo anno, la qualità dei prodotti coltivati. Si trattava, quindi, di un'agricoltura resistente intimamente legata al contesto ambientale, orientata alla sopravvivenza e limitata nella varietà. Nella pratica l'agricoltura si articolava in piccole porzioni di territorio, ben dislocati nella morfologia e posizionati con logiche strettamente legate al tipo di esposizione solare, al tipo di terreno, alla presenza di acqua. Elementi, questi, che hanno condizionato, di conseguenza, la nascita dei primi centri abitati. Anche gli insediamenti erano pensati assecondando queste logiche ed erano disposti in simbiosi totale con il contesto ambientale naturale ed agricolo artificiale in via di sedimentazione. Edifici sulla “roccia”, posti in siti sicuri dal punto di vista geologico e idrogeologico, “guardavano” su colture e pascoli in terre fruttuose, controllabili e protette. Si trattava, ancora, di una agricoltura resistente capace di dettare i ritmi al contadino, i tempi delle giornate, i cicli delle stagioni, in maniera stabile rispetto a quello che accade oggi, con garanzie anche climatiche maggiori. Un equilibrio stagionale che dava comunque un contributo notevole alle avanguardie agricole che salvo eventi eccezionali potevano contare su una ritmica che dava garanzia alla loro agricoltura.
L'agricoltura resistente come agricoltura intensiva I secoli sono passati. Le colture si sono alternate, la tecnica ha fatto i molti passi in avanti, i mezzi e le condizioni ambientali sono cambiati. Oggi la realtà della Val di Non da una accezione diversa di agricoltura resistente. L'epifenomeno di questa sensibilità è stato l'affermarsi, negli ultimi decenni, della melicoltura intensiva, che dai suoi albori, ormai più di un secolo fa, ad oggi, ha avuto un processo evolutivo affascinate ed inarrestabile. Si è passati dall'originaria mela «nonesa», premiata a Vienna e contenuta in cassette bombate di paglia e stoffa, alla pluridecennale selezione della specie più consona al mercato (tra l'altro ancora in corso), fino alla intensa e sofisticata ricerca di metodi e prodotti capaci di portare ad un risultato qualitativo e quantitativo il migliore possibile. Nel corso del Novecento, la Val di Non si è trasformata, in molte zone, da una realtà frammista di frutteti non strutturati di varie specie, campi e pascoli, ad una maglia omogenea di meleti. E, conseguentemente, anche il paesaggio è mutato radicalmente, si è “semplificato”, perdendo biodiversità e qualità. Emblematiche, in questo senso, alcune condizioni “estreme” dal punto di vista ecologico, laddove biodiversità puntuale è garantita dai soli giardini di competenza alle residenze. Tale nuovo processo è stato permesso anche da una modificazione climatica avvenuta in valle nel corso del Novecento: in tale epoca, infatti, è stato costruito il grande invaso artificiale della diga di Santa Giustina che non solo ha riempito un tratto di valle, ma ha dato origine da un ampio lago capace di dare al territorio una nuova connotazione climatica, più idonea all'agricoltura, e che ha probabilmente agevolato coltivazione della mela. In questo contesto, il concetto di resistenza è diverso da quello più antico citato poc'anzi. La resistenza è diventata quel processo legato ad un modello economico e di redditività importante che si è spinto oltre, arrivando alla coltivazione ed alla commercializzazione di un prodotto DOC che ha portato notevoli benefici all'economia locale. Si pensi che nel 2014 il raccolto ha raggiunto la quantità di 42.000 “vagoni” (ovvero “camionate” di frutta), il che significa 420.000 tonnellate di mele. Una realtà economica ed imprenditoriale di rilievo frut-
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to di un processo di trasformazione da attività di resistenza per la sussistenza ad attività economia agricola globalizzata. Il tutto ha sicuramente cambiato l'approccio all'agricoltura. Questa è progressivamente diventata di “sistema”, strutturata, economicamente rilevante e politicamente influente. Anche il paesaggio ha subìto mutamenti e si è adattato ad essere un grande scenario monocolturale, costituito da una agricoltura intensiva ovunque distribuita sul territorio. È evidente che questo modello agricolo, definibile anche per la sua affermazione ed estensione di appiattimento colturale una mono-agricoltura, ha sollevato numerosi interrogativi e anche polemiche. Gli “interrogativi” guardano principalmente la presa di coscienza che un sistema siffatto ha le sue debolezze, fragilità anche economiche, ovvero potrebbe non essere, alla lunga, competitivo. Le “polemiche” – parola molto forte ma esplicita – fanno invece riferimento alla metodologia che questa frutticoltura applica sul territorio, con riferimento in particolare ai trattamenti antiparassitari invasivi. Se poi viene preso in argomento il paesaggio, che nel caso della monocultura diventa più povero e banalizzato, ecco che i temi di discussione si ampliano ulteriormente. Nuovi scenari di resistenza agricola Recentemente, anche in Val di Non si stanno delineando nuove sensibilità. Correnti alternative alla melicoltura intensiva si stanno affermando sulla base di nuovi principi, legati alla tutela della biodiversità del paesaggio, ad un’ economia agricola della tradizione o ancora ad una pluralità di soluzioni produttive estensive. Queste nuove sensibilità hanno recentemente influito anche le scelte della pianificazione territoriale in atto. Come è stato già anticipato, infatti, la Comunità della Valle di Non ha in corso di redazione il proprio strumento urbanistico, il Piano Territoriale della Comunità. Ed in seno alla definitiva approvazione del “Documento preliminare” (un documento propedeutico alla redazione del piano, discusso da un tavolo di stakeholder ed rappresentanti politici e finalizzato ad individuare la “vision” del piano) non si è potuto non considerare la determinata presa di coscienza da parte dei Comuni dell'Alta Valle di Non (territori che raccolgono una fetta non
rilevante si tutto il territorio della Comunità) verso una diversa gestione agricola del proprio territorio, emancipata dal sistema conclamato dell'agricoltura strutturata intensiva. L'Alta Valle di Non inizia a riconoscere la propria diversità. Per la prima volta sono stati individuati dentro uno strumento urbanistico degli ambiti territoriali diversi, i quali iniziano ad emergere dopo una dura resistenza storico, culturale e politica che intendeva la Val di Non un unico ed omogeneo ambito territoriale. L'originalità del territorio dell'Alta Valle è legata ad una continuità con il proprio passato e alla consapevolezza che la diversità di paesaggio corrisponde ad una ricchezza del territorio. Una ricchezza che è ben rappresentata da quelle piccole realtà agricole che si occupano della produzione di prodotti tipici da destinare ad un mercato per il consumo locale, rispettando il fatidico chilometro zero. In questo solco si inserisce la volontà di riprendere la tradizione anche con prodotti del tipo biologico, di recuperare e preservare il paesaggio tradizionale, di guardare alla zootecnia in modo differente, di pensare al pascolo come un elemento da tutelare. Di tendere, insomma, alla identità, alla sostenibilità, al distretto agricolo, ad un architettura agricola a basso impatto, come elementi capaci di portare ad un agricoltura della resistenza oggi più che mai “resistente”. La resistenza ad una deriva che stava rischiando di “azzerare” un contesto ambientale e paesaggistico, indebolendolo anche probabilmente dal punto di vista economico. Con gradualità, dopo una prima difficoltà di imposizione e scetticismo culturale, questa
nuova tendenza si sta radicando nella comunità locale. Concetti come quello di Parco agricolo, temi legati alla vocazionalità agricola montana, argomenti legati al paesaggio rappresentativo, non sono solo diventate delle opinioni correnti, ma si sono trasformati in norme espresse nei Piani regolatori generali dei Comuni d'alta valle e sono alla base della loro progettazione urbanistica. Queste nuove tendenze sono sostenute da movimenti di pensiero e linee strategiche di forte condivisione sociale. Non è un caso che unità amministrative comunali coese propongano una realtà parallela e non alternativa o concorrenziale, alla melicoltura intensiva con l'obiettivo di rafforzare il sistema di Valle. Nuovi mercati, una coltura della diversità e nuovi interessi economici, stanno dando sprono alla “variegazione” del territorio, sostenuta da filiere corte di nuovi e diversi operatori del settore agricolo. Per concludere, è possibile affermare che esistono molti modelli di agricoltura resistente, ognuno dei quali è figlio di un particolare momento storico. Ma è possibile individuare alcune regole generali che valgono oltre i modelli particolari: sempre ed in ogni caso un agricoltura è resistente perché deve soddisfare un fabbisogno alimentare e sempre ed in ogni caso viene perseguito un legittimo ritorno economico. Ecco quindi che la gestione del territorio ed il fare paesaggio tramite l'agricoltura, diventa progressivamente una delle componenti vitali per la tutela e la qualità dei territorio di montagna. Invitati, oggi più che mai, ad una nuova fase di “resistenza”.
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LA RECENSIONE
Emanuele Sommariva, 2014,
Cr(eat)ing City.
Strategie per la città resiliente. List/Laboratorio Internazionale Editoriale di Chiara Rizzi
Cr(eat)ing City è un libro che parla di un rinnovato rapporto tra cibo e città attraverso gli effetti che esso genera, non solo in termini di produzione e distribuzione di alimenti, ma anche e soprattutto per la sua capacità di modificare i nostri stili di vita, di creare, nuove forme di socialità. Il libro, di Emanuele Sommariva e edito da ListLab, è il risultato di un lavoro di ricerca dell'autore da cui il libro mutua la struttura e la rigorosità del ragionamento. L'agricoltura urbana non è utopia. L'agricoltura urbana esige la dimensione progettuale. L'agricoltura urbana è realtà aumentata. L'agricoltura urbana suggerisce un approccio debole. L'agricoltura urbana suggerisce aggregazione. L'agricoltura urbana interpreta la comunità. L'agricoltura urbana ricicla. L'agricoltura urbana cresce. Emanuele Sommariva affida a questi otto punti la sintesi di un discorso che, interpretando la storia – passata e recente – del complesso rapporto tra città e campagna, prova a fare luce sui diversi significati che l'agricoltura urbana assume nella cultura contemporanea. Si tratta di una sorta di Manifesto programmatico che l'autore consegna al lettore, allo studioso, al progettista, e che, nonostante la sua forma assertiva, può essere inteso più come un canovaccio, che come un copione già scritto. Il progetto come dispositivo, l'incertezza come principio e il riciclo come strategia, sono questi gli strumenti individuati per definire una nuova comunità che trova in uno scenario agro urbano innestato sui paesaggi di scarto della modernità una visione condivisa di futuro. L'ipotesi della tesi qui sostenuta si articola intorno ad almeno 3 considerazioni preliminari; la prima riguarda il riconoscimento dell'esistenza di paesaggi “in un costante stato di prossimità non risolta, che si dispongono tra e dentro le pieghe del costruito, lasciando zone d'ombra e di mancata definizione rispetto alle categorie interpretativo-descrittive”. La seconda considerazione deriva dalla presa d'atto di un fenomeno sociale, sempre più evidente che riguarda quelle “classi sociali che senza venir estromesse dalle varie logiche urbane, hanno volontariamente scelto di abitare in contesti differenti, in cerca di migliori qualità dell'abitare e di maggiore contatto con la natura”. Tutto ciò, insieme al “crescente interesse rispetto modelli economici alternativi, nuove forme di produzio-
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«Agricoltura e urbanizzazione utilizzano le medesime risorse, tra l'altro sempre più rare: terra, acqua ed energia». Emanuele Sommariva
ne e diffusione che coinvolgano questi luoghi e le comunità in essi insediate” determina la necessità immaginare nuove strategie per nuovi paesaggi. Strategie per la città resiliente Dalla rivoluzione industriale fino alla crisi attuale, “la centralità del processo industriale, i modelli di sviluppo urbano e di organizzazione sociale legati ad esso hanno condotto l'agricoltura e i territori rurali ad un ruolo sempre più marginale”. Ciò ha prodotto una cultura che potremmo definire della separazione, soprattutto per ciò che riguarda la percezione dell'interdipendenza dei fenomeni tra le trasformazioni in campo agricolo e l'urbanizzazione. La crisi globale ha riportato il rapporto d'interdipendenza del paesaggio agricolo e di quello urbanizzato al centro della riflessione. Si tratta infatti di una crisi che è soprattutto di natura ecologica, prima ancora che economica e sociale. Essa riguarda in toto i rapporti degli esseri viventi con l'ambiente si confronta direttamente con la disponibilità delle risorse e la loro accessibilità. Poiché agricoltura e urbanizzazione utilizzano le “medesime risorse, tra l'altro sempre più rare: terra, acqua ed energia”, non possono che essere pensate come due aspetti della stessa questione, anche e soprattutto alla luce di uno scenario di crescita costante dell'urbanizzazione. Nel 1800, solo il 2% della popolazione mondiale abitava nelle città, nel 1950 tale percentuale era passata al 30%, mentre nel 2008, per la prima volta nella storia dell'umanità, la percentuale della popolazione urbana ha superato la soglia del 50%. Si stima che ogni giorno circa 180.000 persone si aggiungono alla popolazione urbana e si prevede che entro la metà di questo secolo tale quota arriverà a oltre i due terzi (UNICEF, 2012). Se si considera che entro il 2050 la popolazione mondiale supererà i 9 miliardi di individui, si può prevedere un aumento della domanda di cibo del 70%, di cui oltre il 42% di prodotti derivati da coltivazioni risicole, cerealicole e del 35% di allevamenti bovini e suini. Lo sviluppo dello sprawl, la fine della produzione in serie, i sistemi di comunicazione globale, come internet, le recenti crisi finanziarie, le emergenze ambientali e la sensibilizzazione collettiva sui temi di risparmio energetico e uso di fonti rinnovabili, sono le trasformazioni culturali che, secondo la tesi del libro, hanno contribuito a trasformare i presupposti del proget-
to contemporaneo, assegnando allo spazio pubblico e a interventi sul paesaggio un ruolo predominante. L'esito di questo cambiamento ha prodotto una convergenza di numerose pratiche di trasformazione del paesaggio, tali da anticipare e ridefinire nuovi orizzonti disciplinari. A questo proposito l'autore fa propria la teoria di Charles Waldheim, il quale definisce due filoni ben distinti all'interno del Landscape Urbanism: il primo, sviluppatosi nel nord America, concentra l'attività sul riciclo di quei territori post-urbani (centri commerciali, aree industriali dismesse, vuoti urbani, luoghi dell'integrazione e del conflitto sociale, grandi infrastrutture...) nella dimensione del paesaggio; il secondo, di matrice europea, adotta una posizione più regionalista per la conservazione del genius loci, in cui il paesaggio si configura come sistema di riferimento entro cui riconoscersi, contro l'appiattimento della visione imposto dalla globalizzazione. In entrambi i casi, l'agricoltura urbana, definita come “quell'attività agricola le cui risorse sono o possono essere oggetto di un'utilizzazione diretta da parte dei cittadini, siano esse localizzate all'interno o ai confini di un'area abitata” (Paul Moustier, Centre International de Recherche Agronomique pour le Développement), gioca un ruolo fondamentale. Negli ultimi anni, infatti, sta emergendo con chiarezza la possibilità dell'agricoltura urbana di occupare qualsiasi tipo di spazio generato dalla città moderna e post-moderna, al di là delle classificazioni proprie dell'urbanistica tradizionale e, di conseguenza, la capacità di questo tipo di trasformazioni di creare una nuove identità, strettamente correlata al tema emergente della resilienza urbana. Gli spazi urbani coltivati, infatti, possono essere considerati spazi di transizione, in cui le caratteristiche proprie degli ecosistemi urbani e rurali si mescolano generando spazi inediti, potenziati nella loro capacità di rispondere in maniera efficace alle perturbazioni, siano esse di natura endogena o esogena. Per orientarsi nella vasta letteratura esistente, l'autore utilizza la suddivisione in capitoli piuttosto come un espediente narrativo che come una vera e propria struttura statica di ragionamento; ogni capitolo appare concluso in sé anche se, a ben vedere, fortemente connesso con gli altri. E così che questo libro può essere fruito seguendo la traiettoria tracciata dall'autore, oppure scomposto e ricomposto, quasi come fosse un cofanetto di fascicoli a se stanti. Questo tipo di struttura appare con mag-
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giore evidenza nel quarto capitolo (nuove strategie), il cui obiettivo dichiarato è quello di costruire una tassonomia comparata di progetti. Metropoli, riciclo, eco-distretti e parchi sono i 4 concetti intorno ai quali tale tassonomia viene articolata. Nello specifico s'indagano i contesti legati allo sviluppo urbano (AU + Metropoli), e al suo sottoprodotto (AU + Riciclo), indagando le forme ed i ruoli che le pratiche agricole possono assumere nei processi di gestione dei territori, in relazione alle grandi realtà metropolitane e come strategia per attribuire un nuovo valore e un nuovo senso alle aree in disuso o sottoutilizzate. Le altre due categorie individuate si riferiscono al ruolo che le aree agricole urbane possono svolgere nell'ambito delle salvaguardia e della mitigazione ambientale (AU+Eco-distretti) e nella strutturazione della matrice paesaggistica dei territori periurbani (AU+Parchi). Ognuna di queste unità tassonomiche si conclude con un caso studio. Ai quattro casi studio è affidato il compito di sintetizzare gli aspetti emergenti di ciascuna unità. Lo sviluppo di azioni locali auto-organizzate, spesso dal carattere temporaneo, per incentivare l'inclusione sociale e definire modelli di filiera corta anche nel contesto urbano newyorkese che caratterizzano il progetto Coltivare nei Five Boroughs diventano esemplificative del rapporto tra agricoltura urbana e aree metropolitane. Attraverso la narrazione delle strategie di riuso degli spazi aperti abbandonati o sottoutilizzati dovuti alla crisi del settore industriale cubano e all'isolamento dai grandi mercati internazionali del progetto Havana especial il libro ci racconta le potenzialità insite nell'attivazione di strategie di riciclo attraverso la trasformazione di aree di scarto in aree coltivate. Il progetto Agropolis München, al contrario, mette in luce la possibilità dell'agricoltura urbana di agire come incubatore di spazi in transizione. Infine, l'agricoltura urbana diventa anticipatrice di cambiamento, strumento d'innovazione del concetto di tutela passiva dei paesaggi nel progetto Campagna Salentina, sviluppato in occasione del nuovo Piano Urbanistico del Comune di Lecce.
LIBRI
La biblioteca dell’Urbanista
Enrico Formato “Terre comuni”
Giuseppe Barbera, Rita Biasi, Davide Marino (a cura di), “I paesaggi agrari tradizionali. Un percorso per la conoscenza”
Gabriella Bonini, Chiara Visentin (a cura di), “Paesaggi in trasformazione. Teorie e pratiche della ricerca a cinquant'anni dalla storia del paesaggio agrario italiano di Emilio Sereni”
Clean edizioni, Napoli 2014, 15 euro
FrancoAngeli, Milano 2014, 39 euro
Compositori editore, Bologna 2014, 20 euro
L'ipotesi di rimettere al centro del progetto urbanistico le “Terre comuni” nasce dal disagio che la perdita progressiva di identità dello spazio pubblico ha creato nella città contemporanea. Questo libro sposta l'attenzione dall'oggetto allo spazio tra gli oggetti, fissa il proprio fuoco sui residui: i vuoti inutilizzati, le aree dismesse, i frammenti agricoli e naturali, le spianate tra i contenitori specializzati e le piazze dei quartieri moderni. Spazi che presentano potenzialità di trasformazione e caratteristiche tali da configurare un nuovo tessuto connettivo tra i frammenti della contemporaneità. Le terre comuni sono dunque gli spazi dove è possibile ricostruire una dimensione sociale e simbolica dell'abitare nella città contemporanea.
L'Italia è ricca di agricoltura tradizionale che si manifesta con una miriade di paesaggi, autentici spazi di agricoltura multifunzionale. Ad oggi manca una condivisa strategia di salvaguardia dei paesaggi agrari tradizionali nonostante l'alto valore ecologicoambientale, storico-culturale e socioeconomico, questo anche a causa della scarsa conoscenza della loro effettiva numerosità, distribuzione, funzione e stato di conservazione. Il volume riporta un percorso di ricerca per la formulazione e validazione di un modello metodologico interdisciplinare e integrato, sviluppato in due diverse aree studio (Sicilia e Lazio), per una mappatura e catalogazione dei paesaggi agrari tradizionali dell'albero.
Nel 1961 Emilio Sereni pubblica "Storia del paesaggio agrario italiano", un libro che rimane ancora un caposaldo per indagare le trasformazioni agricole, politiche e sociali del territorio italiano. Le ricerche di Sereni non sono oggi meno attuali di ieri. Nuovi percorsi, nuove letture, nuove indagini danno fresca linfa al testo sereniano, e sono tutti raccolti in questo ricco volume. Centocinquanta saggi di più di centossessanta studiosi, per la maggior parte italiani, provenienti da settori disciplinari e di ricerca anche molto diversi tra loro, legati a stretto filo dalla figura e dall'opera di Emilio Sereni, la cui eredità scientifica è pienamente presente.
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STUDIO BI QUATTRO
Idee regalo originali e curiose Al mercatino di Natale di Trento in pubblicità Piazza Fiera fino al 6 gennaio
Scoprite la Casetta delle Mappe al mercatino di Natale di Trento. Troverete - Mappe antiche - Carte murali del mondo plasti cate e anticate - Plastici in vario formato - Globi gon abili con libretto didattico - Cartelline trasparenti, sottomano e valigette con stampa del planisfero
& Vedute
storiche