digital magazine | febbraio 2013 | n.
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Gorewave & dark masters Mirto baliani
Lindstrøm
villagers
The clash
vitalic
Nick C av e Do We No Who U R?
and the Bad Seeds
turn on – p. 4 Mirto Baliani Villagers Vitalic
drop out – p. 10
Nick Cave Gorewave & dark masters Lindstrøm
rearview mirror – p. 96 The Clash
recensioni – p. 46 gimme some inches – p. 94 classic album – p. 110
#100 febbraio Direttore Edoardo Bridda Direttore Responsabile Antonello Comunale Ufficio Stampa Alberto Lepri, Teresa Greco Coordinamento Gaspare Caliri Progetto Grafico Nicolas Campagnari Redazione Alberto Lepri, Antonello Comunale, Carlo Affatigato, Edoardo Bridda, Fabrizio Zampighi, Gabriele Marino, Gaspare Caliri, Marco Braggion, Massimo Rancati, Nicolas Campagnari, Riccardo Zagaglia, Stefano Solventi, Stefano Pifferi, Teresa Greco Staff Andrea Napoli, Antonio Laudazi, Antonio Pancamo Puglia, Costanza Salvi, Dario Moroldo, Diego Ballani, Eugenia Durante, Federico Pevere, Filippo Bordignon, Giancarlo Turra, Giulia Cavaliere, Giulia Antelli, Giulio Pasquali, Luca Barachetti, Marco Boscolo, Mario Ruggeri, Nino Ciglio, Stefano Gaz, Viola Barbieri Copertina Nick Cave And The Bad Seeds Guida spirituale Adriano Trauber (1966-2004)
SentireAscoltare online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Provider NGI S.p.A. Copyright © 2012 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare.
Musicare uno spettacolo teatrale su Lawrence d’Arabia e compiere un percorso etno-musical-antropologico. E’ ciò che ritroviamo in T.E.L. di Mirto Baliani, giovane compositore dall’ottimo gusto
Mirto Baliani Di deserti, eroi dimenticati e sonorizzazioni visionarie
Uno dei lavori giunti sul fil di lana del 2012 che più ci ha colpiti è stato T.E.L. di Mirto Baliani, versione vinilica delle musiche utilizzate per l’omonima piece teatrale incentrata su Lawrence d’Arabia e portata in scena dalla compagnia Fanny & Alexander. Figlio d’arte, Mirto ha sempre bazzicato a vario titolo l’ambiente teatrale, tanto da far pensare ad un rapporto “istintivamente naturale” (Fin da piccolo e fino ai 25 anni circa, ho recitato in parecchi spettacoli, ho fatto lo scenografo, il tecnico luci, aiuto regista, fotografo di scena, ecc.) 4
che lo ha man mano avvicinato alla compagnia Fanny & Alexander cui si deve la messa in scena di T.E.L.: Fanny & Alexander li ho conosciuti così, andando a fare un provino per una sostituzione, non fui preso ma al lavoro successivo, REQUIEM, mi vollero come attore. Dal progetto ancora dopo, ARDIS 1° (prima tappa del lungo percorso della compagnia sul ADA di Nabokov), cominciai ad occuparmi dell’aspetto sonoro nei loro spettacoli. Parallelamente al percorso teatrale, la crescita musicale del romano si è sviluppata seguendo una weltanschau-
ung diremmo classica: Fin da piccolo ho sempre coltivato la musica in me, studiando pianoforte e percussioni da privatista, suonando in vari gruppi e ascoltando musica di ogni genere, così un po’ per volta ho iniziato a occuparmi di musiche per il teatro parallelamente agli altri lavori fino a farlo diventare la mia occupazione principale. Una occupazione che Baliani svolge ormai regolarmente da quasi un ventennio, in cui ha avuto modo di confrontarsi con registi e compagnie assai differenti, così come di sperimentare in territori musicali a volte agli antipodi. Rifugiandosi in una naturale zona franca in cui risiede il succo del suo lavoro: Lavorando con la musica in teatro/ danza/performance/istallazioni o quel che sia, il comune denominatore é mettere la propria arte e competenza al servizio di un’altra arte e il più delle volte di un altro pensiero artistico, essere guidato da altre persone, con cui non é detto si condividano gusti e scelte. Ciò fa sì che da un lato si abbiano molte più limitazioni (di genere, durata, atmosfere, ecc.), e dall’altro una grande libertà di sperimentare abbracciando anche tutto ciò che é al di fuori degli schemi/generi, fino ad abbracciare la rumoristica, la sonorizzazione appunto o anche solo la ricerca sonora intesa come strumento narrativo. Un procedere che necessita di un continuo reinventarsi tentando di mantenere una cifra stilistica propria, evidente. Nonostante le modalità applicative varino di situazione in situazione e la metodologia di conseguenza sia estremamente variabile - Mi é capitato di iniziare creando una mia libreria di suoni inediti, andando cioè in giro con boom e quant’altro a registrare tutto ciò che era inerente al tema dello spettacolo. Altre volte ho scritto in maniera più classica partendo dai temi al piano e finendo in studio a registrare musicisti in carne ed ossa e arrangiare il tutto come fosse un disco. Altre volte ancora ho creato tutto in elettronica usando solo strumenti virtuali perché quello richiedeva lo spettacolo. Spesso poi ho semplicemente messo la mia tecnica al servizio di una idea scenica “imitando” brani o generi ben definiti che erano stati scelti in un primo momento e dei quali non si poteva più fare a meno - lo stile dell’autore è ormai ben definito e in grado di cogliere sfumature e suggestioni “altre” rispetto alla realizzazione “classica” di un album. Per questo motivo l’etichetta di sonorizzazione va anche stretta a Baliani - Normalmente per come lavoro, preferisco parlare di composizione più che sonorizzazione, anche se a volte, soprattutto in un certo teatro di ricerca é effettivamente richiesto un lavoro sonoro rumoristico/effettistico più che musicale... - pur delineandone il modus operandi principale in sede creativa: porre cioè ogni suono al servizio dello spettacolo e in stretto rapporto alla drammaturgia, visto che “In teatro ogni suono o musica ha un significato
drammaturgico ancor più evidente che nel cinema dove una musica può essere anche di “sottofondo” o provenire da stereo e televisioni come suono reale in un mondo di cellulosa”. T.E.L. stupisce per la forza evocativa messa in atto da Baliani attraverso l’utilizzo di una serie di fonti sonore tra le più diverse frutto spesso di una ricerca sul campo di stampo etno-musi-antropologico di tutto rispetto. Vecchie registrazioni, prevalentemente, reimmesse in circolo da Baliani con un sapiente e certosino lavoro di reinterpretazione funzionale al messaggio - visivo, concettuale, ideologico - dell’opera messa in scena. Il risultato è una musica pertanto ritualistica, ipnotica, cerimoniale in cui il clash of cultures si manifesta in un flusso unico e ben armonizzato tra arcaiche visioni e tecnologie moderne: voci di muezzin e dub, technotrance e litanie mistiche, rimasugli white-funk e deliqui psichedelici ci fanno realmente rivivere non solo le atmosfere dello spettacolo, ma anche le atmosfere di un mondo lontano nel tempo oltre che nello spazio. Il disco è stato ovviamente rielaborato rispetto alla versione teatrale soprattutto per missaggio e pulizia, alla ricerca di un aggiustamento che potesse rendere fruibile le musiche decontestualizzate dal luogo (della mente) in cui sono state pensate: Ho limato qua e là alcune parti ancora troppo legate a delle azioni che avvenivano in scena e ho dato un taglio più elettronico ad alcuni suoni con lo scopo di renderli più incisivi, aggiustamenti che facevo dal vivo durante gli spettacoli mettendo mano a volume ed eq e che ora dovevano essere “riparati” pensando ad una resa soddisfacente in hi-fi domestici e quindi ad esempio senza subwoofer separato. Una scelta importante, insomma, quella dell’uscita vinilica e non solo per questioni nostalgiche. Le musiche per teatro di Baliani sono spesso un take one in sede di rappresentazione e non sopravvivono in forme altre, se non in sporadici casi: Alcuni lavori, come é stato per TEL, hanno un qualcosa che li rende interessanti ed evocativi anche a prescindere dalla loro messa in scena. Questo é stato il motivo principale per cui abbiamo deciso di lasciare una traccia indelebile e riascoltabile di questo progetto. Abbiamo deciso di farlo in vinile, per l’amore che nutriamo per l’oggetto in sé ma anche perché ci sembrava il supporto più giusto per queste musiche. Molti campioni vengono infatti da vinili, una sorta di ritorno alle origini, il cerchio che si chiudeva. La scelta, visti i risultati, non poteva essere migliore. Stefano Pifferi
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Penna e frontman del gruppo irlandese, fresco dall’aver ultimato il secondo lavoro, {Awayland}, Conor si rivela a SA sospeso tra il classicismo delle radici e nuove influenze elettroniche e kraut.
Villagers Paesani lontani da casa
È passato ormai qualche giorno dall’uscita di {Awayland}, secondo capitolo Villagers, in cui molti (compresa la redazione di SA) hanno riposto non poche aspettative. E già l’aria che tira non è delle migliori. Mentre il fortunato esordio del 2010, Becoming a Jackal, aveva messo d’accordo praticamente tutti (e persino Neil Hannon dei Divine Comedy che lo aveva annoverato tra i maggiori nuovi talenti d’Irlanda) per il nuovo lavoro non sono stati in pochi a esprimersi anche piuttosto negativamente. La nostra Teresa Greco ne è stata invece moderatamente soddisfatta definendolo comunque “meno intenso ed espressivo del precedente e con meno impatto all’ascolto”. In pratica, il classico album di transizione di un autore intimo che, come leggeremo nell’intervista, sembra più interessato ad esplorare nuovi territori musicali, magari venendo meno alla figura di songwriter. Lo raggiungiamo via mail facendogli alcune domande sulle sue nuove ossessioni musicali, i progetti paralleli in cui è coinvolto 6
e l’effetto che fa andare in tour con band di amici importanti. Come è cambiata la tua esperienza personale e di artista nei due anni che hanno separato questo album ed il vostro debutto, Becoming a Jackal? Ho speso molto del mio tempo in tour, penso che quello sia stato il cambiamento principale nella mia esperienza e penso anche in quella della band in generale. Quali sono state le influenze maggiori per te, nello scrivere {Awayland}? Qualche artista in particolare che ti senti di citare? Sono stato influenzato da una miriade di artisti differenti. Penso che questa volta, rispetto al passato, stessi ascoltando molta più musica elletronica. Ascoltavo Nosaj Thing, Caribou, Stereolab, Monolake, Oval, Everything But the Girl, Drexciya, Plastikman... oltre che vecchia roba Krautrock tipo Can, Cluster, Kraftwerk, Faust... ma anche roba funky quali The Meters, Allen Toussaint, Curtis May-
field, Marvin Gaye... la lista potrebbe allungarsi all’infinito... Cole Porter è stato una grande influenza (storico songwriter teatrale a Broadway negli anni venti e trenta, ndr), così come John Williams (l’uomo dietro le colonne sonore di una miriade di colossal di Hollywood, da Star Wars a Harry Potter, passando per Indiana Jones ed E.T., ndr). Awayland sembra idealmente continuare il discorso iniziato due anni fa con Becoming a Jackal, senza cercare percorsi paralleli. Sei d’accordo con questa affermazione? Non so dirti bene in quale direzione nessuno dei due dischi vada realmente. Un mio caro amico chiamato Rhob, recentamente mi ha illustrato la natura degli infiniti, e di come alcuni infiniti sono più grandi e larghi di altri, penso che questo sia un po’ la stessa cosa. Quale è stato il tuo obiettivo principale durante la scrittura dell’album? E cosa ti aspetti che ottenga? Il mio obiettivo principale durante la scrittura di questo album è stato quello di cercare di espandere più che potessi la mia immaginazione, di aprire la mia mente nella maniera più completa. Volevo testare quali fossero i miei limiti e coinvolgere il resto dei ragazzi in questo processo. Insomma, volevo creare un vero e proprio ‘band album’. In un’altra intervista, parlando di Awayland, hai detto di ‘cantare quello che non riesci a dire, ma che la tua canzone preferita è quella senza alcuna parola (la titletrack, ndr)’ e anche ammesso che i testi rappresentano ora un aspetto secondario nella musica dei Villagers. Non è un’affermazione che va in contrasto con l’immagine classica di songwriter, a cui tu in qualche modo guardi? Le liriche nel disco sono state trattate come secondarie nel processo di registrazione e produzione del disco, ma in fin dei conti penso siano in prima linea nell’insieme del prodotto finito. Non ero interessato a pensarci troppo su. Volevo che le liriche divenissero un sottoprodotto dei groove che guidano le canzoni. I temi ricorrenti nel disco sembrano essere quelli della vita, della morte e la natura che ti circonda. Qualche filo conduttore che riporta a te? Vivo la mia vita ed alla fine di questa, morirò. Nel frattempo, gradisco molto ammirare la natura. Ritieni che il sound dei Villagers sia definibile più rock che in precedenza? Non credo che lo descriverei in questa maniera. Penso che forse abbia più colori e struttura di prima, e che sia quindi più articolato in un livello molto più sensuale e basilare. Penso sia la più assortita e dinamica collezione di canzoni in cui io sia mai stato coinvolto.
Puoi parlarci un po’ più in dettaglio del progetto A Harbour Of Songs? Cosa rappresenta per te? Harbour Of Songs è un album che è stato curato da Adrian McNally della band The Unthanks. É collegato ad un progetto nel quale la gente donava pezzi di legno che eventualmente sarebbero stati usati per costruire una grossa imbarcazione che avrebbe navigato intorno alle isole Britanniche. Ogni pezzo di legno rappresentava qualcosa di sentimentale per la persona che lo donava, e al momento appunto in cui lo faceva, indicava per iscritto cosa quel pezzo di legno significava per loro, la loro storia. Adrian aveva il compito di chiedere a vari songwriter di leggere questi scritti, sceglierne uno e poi scrivere una canzone basato proprio su quello scritto. Quella che ho scritto io era basata sulla storia di una donna che era finita per donare la gamba del suo vecchio scrittoio. Aveva tenuto quel pezzo di legno come rappresentazione simbolica del suo rinnovato senso dello humour e della sua abilità di affrontare la vita in tutte le sue manifestazioni. Il mio pezzo si chiama Delayed Reaction. Le sorelle Unthanks hanno poi cantato i backing vocals e Adrian ha suonato il Wurlitzer. É stato davvero un grande piacere sentirne il risultato finale. Siete stati in tour con i Grizzly Bear? Qual è il tuo rapporto con loro e con la loro musica? L’anno scorso abbiamo avuto la fortuna di andare in tour con i Grizzly Bear. É stata un’ esperienza veramente fantastica. Io sono un fan della loro musica sin dal loro debut Yellow House ed è stato un vero piacere vederli on stage ogni sera. É stata la nostra prima esperienza in tour con le nuove canzoni. Adesso sento che siamo più forti ed arricchiti come band grazie a quel tour. Luca Falzetti
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Il producer parigino ha pronta una tracklist sfacciata per la tappa italiana del Rave Age tour, sabato 19 gennaio al Viper Club. La dialettica col lato trash ha un target specifico: spaccare nei live
Vitalic Hardcore? No, but...
Vitalic è un vero sfacciato. Gli chiedi che effetto fa live una bomba trash dance come Stamina, e lui ti risponde candidamente: “Beh... ovviamente spacca. È pensata proprio per questo, no?”. È il suo modo di interloquire con il tamarro, con quel lato kitsch che ha fatto discutere anche su album, lo stesso che può suscitare un certo clamore quando il producer francese afferma “mi piace Guetta”. È un atteggiamento di dialettica volontaria, dopo due album che in modi diversi avevano affrontato le possibilità dentro e fuori la disco, partendo direttamente dalle tesi electroclash che del filone dance pop erano state l’ultimo apice di futurismo controllato. Trattasi semplicemente di uso di un certo tipo di energia per un certo tipo di scopo. Niente di davvero esecrabile e nemmeno umiliante rispetto alle reali capacità di produzione: solo una scelta estetica come tante. Giusto per fare un dispetto ai critici col baffetto e la fissa dell’apertura intellettuale. 8
Monsieur Arbez ha scelto di far scatenare il suo pubblico. Ha scelto di farsi una tracklist di bombe funzionali alle esibizioni dal vivo, godersi il successo del formato album e sfruttare ogni gocia di energia per il tour successivo. E il Rave Age tour, ve l’avevamo detto, è arrivato in Italia. Sabato sarà di scena al Viper di Firenze e sarà l’occasione per prender confidenza con gli ottimi riscontri ricevuti in Europa. Lo abbiamo raggiunto per un’intervista esclusiva e quel che sembra trasparire è assoluta tranquillità: tutto è preparato e collaudato in funzione del risultato che deve ottenere, e la formula è diretta al punto giusto per scongiurare qualsiasi fallimento. “Rave Age può piacere a tutti”, dice. Tutti quelli che non si fanno troppi problemi con certa dance ignorante e di rapido effetto. Naive, come la chiama lui... Quindi il Rave Age tour sbarca in Italia. Pensi anche
tu che quello di Rave Age sia il miglior materiale che tu abbia mai avuto per le performance live? Certo, l’album è proprio basato su quel tipo di energia ed è pensato con l’idea di eseguirlo live, quindi è sicuramente perfetto. Coi musicisti ci divertiamo un sacco negli show, e le reazioni del pubblico sono ottime.. Come vedi l’evoluzione del tuo sound da OK Cowboy a Rave Age? Stai seguendo una direzione precisa? OK Cowboy era qualcosa a metà strada tra il sound della Gigolo (la International Deejay Gigolo Records, ndr), come Poney o La Rock, e atmosfere più meccaniche o naive, ingenue. Flashmob è venuto fuori durante il mio periodo disco, quindi le atmosfere erano più rilassate e solari. Rave Age ritorna sull’energia e mescola il rave sound con la disco e il pop. Tutti i miei album son diversi tra loro, credo che questo sia il punto. Faccio la musica che sento in quel preciso momento, senza far troppa attenzione ai generi. La tua svolta hardcore può esser vista come una risposta allo stesso tipo di svolta subìto dal dubstep. Pensi che siano i giorni d’oggi ad aver bisogno di roba più forte, e perché? Prima di tutto io non direi che Rave Age è hardcore! Però c’è un po’ di quell’energia, sicuramente. Allo stesso tempo, ci puoi trovare ballate e canzoni pop. Sul dubstep non dico nulla perché non è proprio il mio genere di ascolto, sono troppo “disco” per quello. Anzi, dal mio punto di vista mi sembra che i tempi stiano rallentando e le cose stiano diventando meno isteriche, almeno all’interno della scena underground. Che effetto fa suonare Stamina live? È veramente super. Sta davvero spaccando e nei grossi festival la gente impazzisce. La traccia era proprio pensata per quello. Come è nato il videoclip? Ho ricevuto qualche idea da alcuni registi. Di fatto avevamo quasi iniziato a girare su uno di questi script quando all’ultimo istante abbiamo ricevuto quello, con la storia delle pillole dimagranti e l’hamburger. Ho subito sentito che era quello giusto, senza dubbio. Il video è un corto e cattura il mood della traccia, tra energia e divertimento. Questo è un sound fatto per le arene, no? Non sembra anche a te che la dance stia vivendo oggi la sua propria esplosione stile “centro commerciale”, dove le realtà di massa come Skrillex, Guetta, Deadmau5 ecc. si rubano il grosso dell’esposizione mediatica e i piccoli club hanno meno spazio? Che ne pensi? Beh, ci sono alcuni DJ che si sono guadagnati il loro successo commerciale ed è giusto così. Alcune delle loro tracce sono buone. Titanium di Guetta secondo me è un pezzo dance perfetto. Ma non è esattamente quel
che faccio io. Alcuni dei miei pezzi sono facili da capire e efficaci per il pubblico, ma il feeling è differente. L’idea è differente. Che fine ha fatto l’electroclash? Che eredità ha lasciato? Per quanto ne so, in Italia va ancora. Ovunque vada c’è sempre qualcuno che mette electroclash. Sono sicuro che presto tornerà di scena... Come mai due canzoni così pop come Fade Away e Under Your Sun, in un album votato all’hard sound? Non c’è un motivo specifico, mi sono venute spontanee! Penso sia un bene avere stili differenti nello stesso disco, esplorando orizzonti diversi. Ma con le stesse sfumature sonore, così il disco mantiene consistenza. Non penso molto mentre faccio musica. Ho un’atmosfera nella mia testa e voglio disegnarla, metterla in parole, una storia, una melodia... ed è quel che faccio. Pensi che quest’album possa essere amato dalla generazione giovane? Pensi che risponda un po’ alla tipica rabbia adolescenziale? Penso che Rave Age possa essere amato da chiunque... non faccio musica per uno specifico tipo di persone, come fossero un target di mercato. Il disco ha sicuramente un’energia che piacerà ai giovani, ma anche diversi altri vibe. Musicalmente, senti una certa nostalgia per i tempi passati? C’è qualche periodo in particolare a cui ti senti affezionato, o dalla quale ricevi una qualche influenza involontaria? Non sono granché nostalgico, sono uno che guarda avanti. Mi piace l’idea di futuro e come le cose possano cambiare, evolversi e anche sparire. Per la musica è la stessa cosa. Amo molto gli 80s, mi piace un sacco la italo disco. Ho anche amato il punk rock dei tardi ‘70. Ho apprezzato qualcosa nei ‘90... Penso di prendere un po’ di tutto, da ogni periodo. Uso il mio passato, o un passato di fantasia che non ho mai vissuto, per portarlo nel presente. Come vedi la scena french electro di oggi? Penso sia ben vivace. Gesaffelstein e Brodinski sono tra i giovani che si stanno mettendo più in mostra. Fai ancora nei tuoi live vecchie hit come My Friend Dario o Poney? Faccio Dario, sì. Forse farà anche Poney. Sono tranquillamente a mio agio coi miei pezzi più vecchi. Non li ascolterei a casa o in macchina ma piacciono al pubblico, e quindi anche a me. C’è qualcosa che vuoi dire al pubblico di Firenze? “Si. Facciamo un casino al Viper :)” Carlo Affatigato,
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Nick Cave and The Bad Seeds
Testo: Tommaso Iannini
È tutto pronto per l’uscita di Push the Sky Away, il quindicesimo album di studio di Nick Cave and the Bad Seeds. Ne ripercorriamo, a grandi passi, la carriera
Do We No Who U R? Un artista, specialmente se longevo, ha spesso molte facce e Nick Cave in questo non fa eccezione. Ricordiamo le sue performance sciamaniche nei Birthday Party, la sua statura di moderno bluesman e quella di cantautore sublime, il murder balladeer ispirato dalla Bibbia e il poeta che tiene lezioni sulla vita segreta delle canzoni d’amore, il cantante che si scarabocchiava frasi blasfeme sul petto e l’autore per cui scrivere canzoni equivale alla propria personale ricerca di Dio. Un Dio che è sempre stato presente, anche se spesso in forme inconsuete. Sono lo stesso artista, la stessa persona, la stessa voce a prenderci per mano e portarci in un viaggio musicale che dura da più di trent’anni, da cui si esce sapendone di più ma anche attendendosi nuove sorprese da un momento all’altro. Sorprese che non sono mai mancate e di certo non mancheranno.
Nichol as Edwa rd Cave Nick nasce il 22 settembre 1957 a Warracknabeal, una cittadina a trecento chilometri da Melbourne. Come racconta Ian Johnston nella biografia Il seme del male (edizioni Odoya), inizia a cantare da bambino nella chiesa frequentata dalla famiglia a Wangaratta, dove i Cave si erano trasferiti pochi anni prima. Nel coro diretto dal severo padre Harvey, il piccolo Nick sarebbe però rimasto confinato nelle retrovie. La sua scarsa estensione vocale gli precludeva infatti la possibilità di ritagliarsi un ruolo da solista o anche solo di accedere al livello dei suoi compagni più dotati. Nick Cave non sarà il primo né l’ultimo cantautore la cui scrittura e la cui cifra espressiva superano di gran lunga le capacità di cantante. E pazienza se la cupa voce baritonale - come notano i più raffinati - è anche un modo per mascherare le pecche d’intonazione. Il registro grave da 11
crooner o la roca vocalità blues sono talmente radicati nella sua espressione musicale da suonare ormai, semplicemente, come un marchio di stile. Il comportamento ribelle del futuro rocker, che si manifesta già in tenera età, spinge i genitori - il padre insegnante, la madre bibliotecaria - a spedire il loro ragazzo in un collegio privato a Melbourne, sperando che almeno impari un po’ di disciplina. Per tutta risposta, lui mette su un complesso. È infatti a scuola che conosce Mick Harvey, Tracy Pew e Phill Calvert, e forma i Concrete Vulture, da cui nasceranno i Boys Next Door e quindi i Birthday Party. A scuola Nick si mette spesso nei guai e dà il meglio soltanto nelle materie che lo interessano: letteratura e arte, intesa sia come pittura sia come storia dell’arte. Dopo il diploma s’iscriverà al college per studiare Belle Arti ma non porterà a termine gli studi; è tuttora opinione diffusa che Nick sia un pittore piuttosto dotato, anche se questo suo aspetto è forse il meno conosciuto, eclissato dal suo talento per la musica e la scrittura.
The B oy ( s ) N e x t D o or Secondo quanto raccontano i compagni di un tempo, Nick sarebbe diventato il cantante del gruppo semplicemente perché non esistevano altri concorrenti per il ruolo. La formazione dei Boys Next Door esiste dall’inizio degli anni ‘70, ma solo verso il 1976/77 comincia a essere qualcosa di più di una cover band del doposcuola. In Australia quando arriva l’eco di Ramones e Sex Pistols il punk di fatto esiste già in una versione autoctona, di cui sono alfieri 12
i Saints e i Radio Birdman e che ispira la nascita di un nuovo underground. I Boys Next Door figurano come uno dei complessi emergenti nell’ambito della scena di Melbourne. Il concerto del 19 agosto 1977 allo Swinburne Technical College è stato pubblicato su un bootleg che si può ascoltare anche in rete. Il timbro vocale è già riconoscibile. Fa comunque effetto sentire Nick Cave intonare - ma sarebbe meglio dire stonare - Blitzkrieg Bop dei Ramones e blaterare con piglio beefheartiano in Gloria dei Them. Per almeno tre quarti il repertorio dei ragazzi consiste in cover di brani punk, hard rock e protopunk o di classici anni ‘50 rivisitati in chiave garage. Mick Harvey è alla chitarra e il basso di Tracy Pew in Masturbation Generation (uno dei brani originali) è addirittura preponderante su tutto il resto, probabilmente per effetto del mixaggio approssimativo. Quando l’etichetta australiana Suicide - di proprietà di una major, la Mushroom - decide di speculare sul punk pubblicando un suo pacchetto di gruppi emergenti, i Boys Next Door sono tra i prescelti. Nonostante il nome, Lethal Weapons - così si chiama la raccolta - è un’arma spuntata. La scelta dei brani dei Boys Next Door (These Boots Are Made for Walking, Masturbation Generation e Boy Hero) è imposta dall’etichetta e la produzione risulta totalmente inadeguata. Al di là del valore intrinseco delle band, chi ha gestito l’operazione aveva capito ben poco del punk e lo vedeva solamente come l’ultima moda con cui farsi un nome. La Suicide fallirà di lì a poco, ma il contratto assegnava comunque alla Mushroom un’opzione sul primo LP dei Boys Next Door. Nick e gli altri si ritrovano quindi di nuovo in studio qualche mese più tardi, anche questa volta con un produttore totalmente estraneo alla loro idea musicale. Il gruppo però riscatterà questa seconda esperienza fallimentare, trovando finalmente la persona giusta con cui lavorare in Tony Cohen, il tecnico degli studi Richmond Recorders. Door Door (1979), uscito per la Mushroom, è un mix delle sedute con Lee Karsky e di quelle con Cohen. Un prodotto acerbo e in parte incompiuto, ancora troppo legato agli schemi del rock and roll di scuola settantasettina - vale per i riff come per la voce di Nick e i classici cori (di cui il Cave maturo farà ben altro uso) - e non certo personale, feroce e scatenato come la loro musica di qualche anno dopo. Il fatto più importante è l’innesto alla chitarra di Roland Howard, che si aggiunge a Nick, a Tracy Pew (basso), a Phill Calvert (batteria) e a Mick Harvey, all’occorrenza chitarrista, tastierista, bassista, batterista, seconda voce e arrangiatore (e forse mi sono dimenticato qualcosa). Una volta risolti tutti i rapporti che li legavano con la Mushroom, i cinque trovano un nuovo manager: Keith Glass è il proprietario della Missing Link, emanazione del suo negozio di dischi di Melbourne. I Boys Next Door nel frattempo hanno raggiunto un certo seguito di culto e si stanno evolvendo dal semplice punk in qualcosa di più sperimentale, già tangibile nei brani registrati con Tony Cohen per l’EP Hee Haw, come Death by Drowning e The Hairshirt. Il periodo tra il 1978 e il 1979 è cruciale sia per le sorti della band che per il cammino personale di Nick. Mentre sviluppano un suono minaccioso e più estremo del semplice punk’n’roll, lui e i suoi compagni seguono uno stile di vita in linea con la musica. È proprio in questo periodo che il nostro protagonista si avvicina all’eroina e inizia a bucarsi. Ma il 1978 è soprattutto l’anno in cui suo padre muore in un incidente d’auto. Nick apprende la tragica notizia proprio mentre si trova al commissariato, dove è in arresto per atti vandalici e ubriachezza molesta. Il pensiero della perdita lo accompagnerà per tutta la vita. Da qualche tempo, intanto, fa coppia fissa con Anita Lane, di cui si è innamorato all’istante e che sarà per 13
un decennio una presenza fissa nella sua vita nel ruolo di fidanzata, musa, amica e amante. E lei lo segue quando i Boys Next Door decidono di cambiare nome e tentare l’avventura nel Vecchio Continente.
Nick T h e Stri p p e r Nel febbraio del 1980 i cinque componenti dei Birthday Party volano a Londra, dove presto saranno raggiunti dalle fidanzate. Sin dall’arrivo nella capitale inglese i propositi del gruppo e di Keith Glass, che li aveva convinti a tentare la carta del viaggio in Inghilterra, si dimostrano totalmente velleitari. Il complesso non solo non racimola ingaggi, ma i ragazzi si ritrovano a vivere di stenti, mangiare cibo scadente quando non fanno la fame e sbarcare il lunario in modi più o meno leciti. La scena musicale britannica è molto diversa da come Nick e gli altri l’avevano immaginata dall’Australia; agitatori artistici senza compromessi come il Pop Group o i Fall sono eccezioni, non la regola. I Birthday Party ottengono il primo ingaggio per un concerto solo a fine giugno. In compenso, sulla stampa specializzata cominciano ad apparire recensioni di dischi registrati in Australia e trattati con una certa sufficienza in virtù della loro provenienza geografica. Nonostante la difficoltà, i cinque riescono a convincere le persone giuste: parliamo di Daniel Miller della Mute, di Ivo Watts-Russell della 4AD e di John Peel. È così che la 4AD diventa la loro casa discografica europea, grazie a un accordo di licenza con la Missing Link. In autunno esce il singolo The Friend Catcher, un incubo a 45 giri nato da metastasi di Public Image Ltd. e Pere Ubu. Nick si contorce tra le cantilene deliranti di John Lydon, il farnetico schizoide di David Thomas e i toni gutturali di un Captain Beefheart - anche se lui respingeva l’ultimo accostamento sostenendo di non aver mai ascoltato il
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capitano prima che lo paragonassero a lui. Musicalmente il pezzo sembra rotolare su un lugubre riff che ritorna ciclicamente e su un cavernoso giro di basso, mentre Howard e Harvey seviziano le loro chitarre in feedback cavandone i suoni più spaventosi. Un paio di mesi prima la Missing Link aveva pubblicato Mr Clarinet/Happy Birthday, una danza dark sul primo lato e un funk epilettico sul secondo; più tardi l’etichetta australiana dà alle stampe una raccolta delle prime incisioni della band, circolata con il doppio titolo Boys Next Door/Birthday Party. Nonostante le difficoltà, il primo soggiorno in Europa serve a qualcosa; tornati in Australia, i Birthday Party si accorgono di avere un seguito di pubblico impensabile al momento della partenza. Nel giro di pochi mesi registrano Prayers on Fire (1981). L’album prova a trasferire nei solchi la perentorietà dei loro concerti dal vivo, performance sempre al limite della violenza, sonora e in molti casi anche fisica. L’ascolto evidenzia gli elementi di diversità che rendono questa band australiana apolide un esempio singolare nel panorama new wave. I Birthday Party hanno iniziato a definire il proprio stile sulla scorta delle esperienze più estreme del post-punk chitarristico per diventare essi stessi una di quelle esperienze. L’anarchia che si respira in molte loro creazioni li accomuna alla no wave neyworchese, e non è un caso se Lydia Lunch li senta da subito come spiriti affini. Talvolta confuso con il calderone dark, il quintetto australiano è una presenza più unica che rara nella scena. Pur facendo base in Gran Bretagna, si nutre di suggestioni americane. Il parallelo più naturale è con ciò che sull’altra sponda dell’Atlantico (e del Pacifico rispetto alla loro Australia) vanno facendo formazioni come Gun Club e Cramps, a metà tra lo spirito conturbante dei primi e l’istrionismo dei secondi. Il vocalismo viscerale e grottesco di Cave, la cacofonica chitarra di Roland Howard, il cigolante basso di Tracy Pew e la versatilità di Harvey creano un insieme difficile da definire; la metrica disorienta perché i musicisti della band seguono contemporaneamente scansioni diverse, con un piglio allo stesso tempo avanguardista e primitivo, colto e sboccato. Volendo usare un ossimoro si potrebbe parlare di un modernismo arcaicizzante. Zoo Music Girl condivide la linea tribalista dei PIL e di altri campioni del post-punk inglese, che nutrivano un’intensa passione per i poliritmi di origine africana, visti legittimamente come una via d’uscita dai canoni del rock classico. Altrove i Birthday Party non temono invece di sporcarsi le mani con quel blues trattato in chiave espressionista che sarà anzi una testata d’angolo del loro suono. Esemplari sono il monologo allucinato di Nick the Stripper e King Ink, più vicina a una piéce dell’assurdo o a un recital horror che a una tipica canzone rock. Il canto blues si (con) fonde con il teatro e l’avanguardia: Nick usa tutti i registri più deformanti e grotteschi per inscenare metamorfosi kafkiane e ritagliarsi una veste vocale di repellente uomo-insetto. Tra Prayers on Fire e il successivo Junkyard (1982) esce il singolo Release The Bats, un indemoniato voodoobilly con cui Nick e soci fanno il verso al dark rock. Il secondo album riparte dai presupposti del primo: da un lato la lezione eversiva di Public Image, Pere Ubu e Pop Group, dall’altro l’interesse per la musica rurale americana, vampirizzata da un’accolita di uomini pipistrello assetati di sangue e rumore. La schizofrenica Blast Off apre un carniere - un carnaio - di danze che partono dal jazz-funk frenetico in preda alle convulsioni di Big Jesus Trash Can, Kiss Me Black o Dead Joe e si lasciano volentieri irretire e risucchiare dentro i blues lenti e morbosi di She’s Hit, Junkyard e Hamlet (Pow Pow Pow). Il basso insiste spesso nel ripetere le stesse figure cadenzate mentre dalle chitarre escono ondate 15
di feedback, suoni da emicrania e frasi ritmiche taglienti come coltellate. Junkyard ha forse meno inventiva di Prayers On Fire ma il suo noise rock tinto di blues e gotico americano è una conquista essenziale anche per il futuro del rock indipendente. Riascoltandolo oggi risulta impossibile non pensare a quanto possa avere preso da questi solchi un gruppo come i Jesus Lizard, e non soltanto perché l’anti canto del primo Cave ha influenzato lo stile truce di David Yow: questo vuole essere un tributo a Tracy Pew e Roland Howard. Il trasferimento a Berlino sarà importante per Nick, ma è l’inizio della fine dei Birthday Party. La loro parabola artistica raggiunge però il culmine con i due EP The Bad Seed (1983) e Mutiny (1983), dove la maggiore coesione - è stato nel frattempo licenziato Calvert, sostituito da Harvey, passato alla batteria - si traduce in una musica ancora più potente e teatrale. «Alzi la mano chi vuole morire» urla Nick all’inizio di Sonny’s Burning ed è un’introduzione perfetta ai tesi solchi di The Bad Seed. I testi di Cave, sempre popolati da storie e personaggi allucinanti, hanno consolidato quella dimensione narrativa che gli sarà congeniale nello sviluppo della propria poetica. Registrato a band ormai sciolta per la Mute, Mutiny rappresenta l’ultimo capitolo della saga dei Birthday Party. La terrorizzante Mutiny in Heaven, con Blixa Bargeld alla chitarra, contiene già l’incipit di un’altra storia.
Bl ac k Crow Ki n g La prima testimonianza discografica di Nick Cave al di fuori della sua prima band appare sull’album Burning The Ice (1983) dei Die Haut, complesso tedesco che aveva fatto da spalla ai Birthday Party. Cave vi canta quattro brani, di cui firma anche i testi. Nonostante in alcune interviste dichiari l’intenzio16
ne di abbandonare il mondo della musica, dopo pochi mesi la sua nuova avventura comincia però a prendere forma. La prima persona a cui pensa per il post Birthday Party è Mick Harvey, per trent’anni una vera e propria colonna portante di più o meno tutta la sua attività musicale. Le qualità di compositore, polistrumentista e arrangiatore e le doti organizzative di Mick si erano dimostrate preziose già nel gruppo precedente e lo saranno ancora per molto, molto tempo. Cave e Harvey lavorano sui primi brani ai Garden Studios di Londra, dove li raggiungono due geniacci del rumorismo industriale: uno è il connazionale e amico Jim Thirlwell; l’altro è ancora Blixa Bargeld, che nonostante abbia detto più volte di odiare le chitarre per anni ancora caverà sangue dalle sei corde agli ordini di Re Inkiostro. Non si può dire lo stesso di Foetus, il quale romperà i ponti con Nick dopo avere scritto e avergli fatto ascoltare Sick Man, un brano ispirato dallo stile di vita di Cave, che non la prenderà bene tanto da congedarlo senza mezze misure. Al posto di Foetus il vate di Wangaratta chiama Barry Adamson, ex Magazine, che già aveva lavorato con i Birthday Party sostituendo Tracy Pew durante le registrazioni di Junkyard (mentre il bassista si trovava in carcere in Australia), e il chitarrista australiano Hugo Race. Nel periodo che precede le sedute di registrazione del marzo 1984, Nick ha modo di provare dal vivo alcuni pezzi da cui trae nuova linfa per la sua seconda vita musicale; tra questi figurano anche una cover di Elvis (In the Ghetto) e una di Leonard Cohen (Avalanche). L’intento di Cave è cercare una forma d’espressione più narrativa ed epica, che traduca l’intensità emotiva dei Birthday Party nel linguaggio della canzone d’autore. La rivelazione arriva proprio da In the Ghetto, dove si ritaglia un ruolo da neo crooner che, a posteriori, risulterà decisivo per lo sviluppo del suo stile di canto. From Her to Eternity (1984) è il manifesto di una transizione artistica fondamentale, i cui segni si avvertono ancora in fieri man mano che si procede nell’ascolto. Seppure non abbandoni i toni esacerbati o i registri demoniaci, Nick libera la sua voce melodica come non aveva mai fatto prima. Se dobbiamo parlare di un brano come vertice assoluto del primo disco da solo, opera di intensità non comune, la scelta non può che cadere sul lied punk di From Her To Eternity, per quanto Cabin Fever!, Well of Misery, Saint Huck o A Box for Black Paul meritino ugualmente una citazione. Il tratto distintivo più evidente del 33 giri dal punto di vista musicale consiste soprattutto nella ricerca, nella creazione e nel primo approfondimento di una forma personale e moderna di blues. Un blues contemporaneo colto, per cui il Delta del Missisippi e il profondo Sud degli Stati Uniti possono camminare a braccetto con il background punk australiano e l’algida Mitteleuropa. La sfida è vinta grazie agli arrangiamenti, trionfo della polivalenza di Harvey e Adamson e della sensibilità atonale di Blixa Bargeld. Ai meriti del chitarrista tedesco, oltre all’approccio non convenzionale nei confronti dello strumento, sono da ascrivere naturalmente le trame di suoni metallici e percussivi in stile Einstürzende Neubauten, fondamentali quanto l’uso del pianoforte nella dinamica musicale dell’album. I musicisti agiscono al servizio dei testi di Cave, sempre più simili a racconti in forma di blues, sottolineandone la punteggiatura narrativa e drammatica con effetti stilistici molto ricercati. Registrato agli Hansa Studios di Berlino, il successivo The Firstborn Is Dead (1985) segna un ulteriore passo verso la terra promessa agognata, il mito reinventato, le radici di tutto un immaginario lirico e sonoro. Qui Nick consolida ulteriormente la fama di affabulatore gotico, un po’ predicatore e un po’ cantastorie. In questo caso si trova nel pieno di una full immersion 17
nelle ambientazioni del romanzo E l’asina vide l’angelo, in corso di stesura già durante la realizzazione di questo secondo disco. Se quello dell’album precedente era un blues post-punk, per non dire postmoderno, il primo 33 giri a nome Nick Cave and The Bad Seeds - il camaleontico gruppo di accompagnamento, qui ridotto al solido trio Harvey/Bargeld/Adamson - vuole avvicinarsi di più all’originale, entrare nella carne del vero blues, cercarne l’essenza. Perciò riprende motivi (il carcere, il treno) e personaggi classici, che se rivivono, però, lo fanno pur sempre profondamente trasfigurati dalla fervida fantasia dell’autore, che vi si immedesima fino a renderli cosa sua. L’allegoria di Elvis Presley e il parallelo con la figura di Gesù sono il tema portante di Tupelo, tonante blues a passo di locomotiva. Blind Lemon Jefferson è un meta-blues dove il grande bluesman diventa personaggio immaginario e incarna il mito (di se) stesso. Nel caso di Wanted Man, siamo di fronte a una vera e propria riscrittura del brano di Bob Dylan: a tratti il ritmo è molto più aggressivo dell’originale (sembra quasi di sentire le scansioni dei Velvet Underground, con quel monotono battere in quattro quarti) e Nick Cave ha inserito ben quattordici strofe in più di testo. Black Crow King aggiunge un nuovo capitolo a una saga di autorappresentazione tutta personale, dopo Nick The Stripper e King Ink. I suoni, anche, sono più classici: per l’occasione Blixa Bargeld si cimenta con la slide guitar - quando in From Her To Eternity preferiva usare un rasoio elettrico per un assolo - e lo stesso Nick suona l’armonica a bocca. Train Long Suffering rivela un’ascendenza gospel che era già nelle corde del re corvo nero, anche se non ancora così accentuata. Nel complesso The Firstborn Is Dead porta a compimento un percorso partito già dai Birthday Party, fino a inquadrare definitivamente Nick Cave come il bluesman della generazione new wave. Parliamo di un blues allegorico, metaforico e astratto, certamente consapevole dei codici lirici e musicali del genere, e però altrettanto forte di un’impronta personale, accentuata soprattutto dalla qualità dei testi che avvicina l’ex cantante punk ai grandi cantautori del passato che progressivamente finirà per prendere a modello: nomi come Bob Dylan, Leonard Cohen e Tom Waits. Appunto al passato è rivolto il terzo album, Kicking Against the Pricks (1986). Il titolo cita una frase contenuta negli atti degli Apostoli, capitolo 26 versetto 14 (significa letteralmente “opporsi all’inevitabile”), ma il termine prick, che è anche un insulto, voleva alludere ai critici musicali che l’amico Nick non aveva mai sopportato. In un primo momento il titolo del disco di cover doveva addirittura essere il più provocatorio ed esplicito Head on a Platter, per prendersi gioco del massacro giornalistico a cui sarebbe andato - quasi volutamente - incontro. Potremmo dire, considerando l’amore di Cave per le metafore e le citazione biblico/evangeliche, che si trattava di un modo abbastanza perfido di porgere l’altra guancia. La raccolta abbraccia grossomodo tutte le principali influenze del protagonista della nostra monografia: c’è ovviamente il blues di John Lee Hooker e Leadbelly (Black Betty nella versione CD), ma ci sono anche il country di Johnny Cash, il gospel (il tradizionale Jesus Met the Woman at the Well) e il pop melodico degli anni ‘60. Il rock è rappresentato da All Tomorrow’s Parties dei Velvet Underground e, in senso lato, da una versione new wave di Hey Joe. Si tratta obiettivamente di un momento interlocutorio e di stasi creativa, in cui Nick è troppo assorbito dalla faticosissima stesura del suo romanzo per poter comporre, e quindi la scelta di incidere brani non originali andava sicuramente a coprire questo buco. Anche considerando le contingenze, Kicking Against the Pricks non si 18
esime dal tracciare una sorta di bilancio musicale e chiudere virtualmente un periodo creativo, almeno per quanto concerne la carriera solista del titolare ma spingendosi anche più indietro. Non è forse un caso che sia stato registrato a Melbourne e che siano ospiti Hugo Race, - ma soprattutto - gli ex Birthday Party Tracy Pew e Roland Howard e addirittura la mamma di Nick, Dawn, al violino in Muddy Water. Tutto il mondo di Nick Cave sin qui - o quasi - è chiamato a raccolta in questi solchi. Come ammette il diretto interessato, è un disco rivelatore da cui trapela molto della sua personalità. E, nonostante le premesse, non fu affatto stroncato.
Il fi g l i o l pro di g o o T h e G o od S o n L’impresa di completare E l’asina vide l’angelo era diventata un’ossessione, arrivando ai limiti del feticismo e dell’autoreclusione. Il romanzo, che sviluppa temi classici dell’arte di Nick Cave - religiosi, erotici, esistenziali e morali - con uno stile letterario e un’atmosfera vicini ai romanzi di Faulkner, e la via della narrazione in musica, intrapresa già in diverse canzoni, sono due percorsi che si completano. Della canzone strutturata come short story è un esempio The Carny con il suo raccontar cantando a tempo di valzer, e l’organo, il glockenspiel, lo xilofono, cui spetta il compito di evocare l’atmosfera di un circo triste e l’opprimente senso di morte. Il brano fa parte di Your Funeral, My Trial, 19
il disco pubblicato nel 1986 sotto forma di doppio EP, che oltre a un blues psicotico (Hard on for Love) contiene i brani più melodici dei primi Bad Seeds sino a quel momento, in particolare Sad Waters, la title-track e Stranger than Kindness, la cui trama è tuttavia sottesa da chitarre nervosamente psichedeliche. Nel 1987, mentre sta lavorando al nuovo 33 giri, Nick viene arrestato e incriminato per possesso di eroina. La dipendenza dalla droga, ormai una storia più che decennale, l’ha ridotto a una sorta di onnubilamento dei sensi ma per la prima volta sta avendo influssi negativi sul suo lavoro (la difficoltà nella realizzazione di Tender Prey è dovuta proprio alle condizioni estreme in cui si trovava). A fatica, e con una scelta essenzialmente di comodo per evitare il carcere, accetta di disintossicarsi. Dalla clinica esce trasformato, in tempo per l’uscita di Tender Prey (1988), l’album che lo impone ormai all’attenzione di tutti, anche di quella stampa che lo aveva tanto osteggiato. Persino il sospirato romanzo è alle bozze finali. Nonostante le difficoltà, Tender Prey è uno dei migliori lavori dei Bad Seeds. Mick Harvey lo ha paragonato a Rain Dogs di Tom Waits, ma è soprattutto l’anticamera della consacrazione definitiva di Nick. Il momento di rinascita umana e di vera e propria palingenesi artistica passa per un disco che raduna Germania, Inghilterra e Australia. Non ci riferiamo soltanto agli studi di registrazione di mezzo mondo utilizzati per mettere insieme le canzoni, quanto ai motivi di fondo che lo rendono un passaggio delicato verso la maturità. La sua faticosa gestazione ha infatti la stessa portata simbolica del patchwork di Kicking Against the Pricks; la differenza è che in questo caso l’eterogeneità del repertorio equivale a tirare le fila delle tante anime presenti nella musica dei Bad Seeds anche a livello compositivo - e non soltanto di ispirazione, come era stato per l’album di cover. L’ultimo brano, A New Morning, dai sapori country, sembra aprire inoltre a un futuro diverso, che avrà la luce del Sudamerica dalla sua parte (ma adesso stiamo correndo troppo in avanti). La formazione dei Bad Seeds, già rimpinguata dagli innesti di Kid Congo Powers alla seconda chitarra e di Roland Wolf alle tastiere - accanto agli immancabili Bargeld e Harvey e a Thomas Wydler alla batteria -, sottolinea i momenti più rock, pervasi di gospel e r&b, di Deanna, Sugar Sugar Sugar e City of Refuge (l’ultima è un omaggio a Berlino ispirato a un brano di Blind Willie Johnson). L’impressione generale ricavata dai lavori precedenti è che le pagine migliori del primo Nick Cave si trovino spesso là dove il testo viene “illustrato” dalla musica attraverso una vera e propria messa in scena del contenuto delle liriche, in cui la progressione che conta è quella dettata dalla situazione narrativa e l’arrangiamento equivale a una sorta di drammaturgia, che avvicina questo tipo di composizione a quella di una colonna sonora. Il capolavoro di questo genere di racconto-canzone si trova proprio all’inizio di Tender Prey. Parliamo, naturalmente, di The Mercy Seat. In verità, l’intreccio tra parole e musica del brano è talmente profondo che è impossibile scinderlo e stabilire dove inizino le une e dove l’altra. Il principio del loop seguito per la base ritmica - che spara in sottofondo il suono di un basso percosso con la bacchetta della batteria, tra EN e Sucide - vale anche per le liriche, dal momento che la scansione regolare e implacabile e il climax continuo della seconda metà della canzone - dove si continua a ripetere il ritornello con calibratissime variazioni che ne accentuano l’intensità - si esaltano nel turbinio di anafore, allitterazioni, rime interne e sostituzioni di parole con la stessa metrica e lo stesso suono (tooth, truth, proof), per cui si dovrebbe parlare più propriamente di poesia. Con The Mercy Seat Nick Cave ci porta 20
direttamente dentro il braccio della morte e nella testa di un condannato al patibolo, creando un equivalente moderno dei blues sul tema e delle ballate carcerarie di Jonny Cash, che non a caso ne inciderà una propria versione. Sulla stessa falsariga, anche se meno d’impatto, sono il blues maledetto di Up Jumped the Devil - che segue subito dopo - o la struggente Mercy, ispirata alla prigionia - di nuovo - di Giovanni il Battista. Deanna sarebbe il pezzo più scanzonato della raccolta - e di Nick Cave in toto, so far - se non ci fossero le allusioni demoniache e immagini come il teschio di sperma sul vestito («I cum a death’s head in your frock»). È soltanto, si fa per dire, il brano più orecchiabile, una canzone d’amore dai toni noir, all’insegna di un r&b luciferino paradossalmente ricalcato sul famosissimo gospel Oh Happy Day. Anche i momenti più soft di Watching Alice e Slowly Goes the Night emanano un fascino decadente. La prima con poche frasi trasmette un senso di malinconia quasi infinito, la seconda è uno dei pezzi pop meglio costruiti del nostro, quasi alla Burt Bacharach. Non solo quindi canzoni narrative, ma canzoni a tutto tondo - le cui influenze sono sempre il blues e i cantautori rock ma anche i crooner bianchi come l’ultimo Elvis o Frank Sinatra - con un capolavoro assoluto (The Mercy Seat) e un contorno più che degno. Il Nick Cave di fine anni ‘80 è uno dei maggiori artisti della musica indipendente ed è intenzionato a rimanerlo a lungo. Nell’aprile del 1989 il nostro si reca finalmente in tour in Brasile, un Paese che da tempo lo affascinava ma in cui non aveva mai suonato e che non aveva nemmeno mai visto. Qui il destino lo attende; un destino benevolo, perché a un concerto a San Paolo rimane colpito da una ragazza del pubblico fino a innamorarsi. Lei si chiama Viviane Carneiro. Nella metropoli brasiliana Nick tornerà per registrare The Good Son (1990) ma soprattutto per vedere di
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nuovo Viviane e, infine, per vivere lì, lasciandosi alle spalle per un po’ l’Europa e ponendo fine alla lunga relazione con Anita Lane, più volte interrotta e più volte ripresa fino all’incontro fatale. Sempre che ce ne fosse bisogno, The Good Son è una conferma della statura artistica di Nick Cave e della sua maturità. È il disco di un cantautore che aspira a diventare un classico. Le ballate ora ne danno la vera misura creativa, con le costruzioni quasi sinfoniche, gli arrangiamenti d’archi e melodie che sono allo stesso tempo intime e solenni. Ormai Nick fa storia a sé, al punto da potersi permettere canzoni più dirette e parlare delle proprie emozioni - prima di tutte l’amore - senza più assumere maschere. Nonostante il Brasile sia soltanto sullo sfondo a livello musicale, si tratterà forse di semplice maturazione artistica ma la nuova dimensione esistenziale irradia - così pare - una luce diversa. Nel panorama dell’autore non sembrano più esserci soltanto il desiderio e la maledizione, e i riferimenti religiosi - di cui i testi grondano come sempre - anche se non smettono di riecheggiare le parabole nere o le visioni implacabili delle liriche precedenti, hanno toni più commossi e affettuosi. Sotto questo aspetto è l’album più edificante, che si apre con la commovente Foi Na Cruz, adattamento di un inno protestante brasiliano, e con The Good Son, maestoso incrocio tra uno spiritual, un blues in chiave sinfonica e una ballata di Bob Dylan del periodo 1967/68. Il quinto LP ufficiale di studio annovera tra i suoi assi due classici assoluti: uno è The Weeping Song, che oltre al duetto tra Nick e Blixa Bargeld nei ruoli di un figlio e di un padre contiene un piccolo capolavoro di arrangiamento, e l’altro The Ship Song, la più misteriosa e bella canzone d’amore scritta da Nick Cave e probabilmente una delle più emozionanti che siano mai state composte («Come sail you ships around me/and burn your bridges down/we make a little history, darling/every time you come around»). Di episodi notevoli ce ne sono altri: la bossa rock di Hammer Song o il pop latino di Lament, nel cui ritornello fa il suo ingresso una melodia dolente e dolcissima. Il dolore rende queste canzoni ugualmente tragiche ma candide, sensibili, umane. Per molti, ed è compreso anche il sindacabile giudizio di chi scrive, The Good Son è l’album capolavoro di Nick Cave.
A Ha nds o m e M a n i n a Dust y B l ac k C oat wit h a Re d Right Ha nd Il 10 maggio del 1991, Viviane dà alla luce Luke. Nonostante la nascita del suo primogenito lo riempia di gioia, Nick comincerà presto a stufarsi della vita in Brasile, dove - a parte la novità dei primi mesi - non si è mai veramente ambientato. Il successore di The Good Son viene registrato a New York. Su consiglio di Daniel Miller della Mute, il gruppo si rivolge per la prima volta a un produttore esterno, scegliendo David Briggs in virtù il suo passato lavoro con Neil Young. Abile nell’ottenere buone performance in presa diretta, Briggs si rivela totalmente inadeguato per il lavoro di sovraincisione - necessario a dare profondità e dinamica alle composizioni - e ancora di più per il mixaggio, al punto da costringere Cave e Harvey a rifarlo da capo insieme al fido Tony Cohen, cui affideranno anche le cure dell’album Live Seeds(1993), estratto dei concerti tra Europa e Australia del biennio 1992/1993. Partito con il presupposto di allontanarsi dai preziosismi di The Good Son per una linea musicale più diretta, anche se magnificamente arrangiata come da tradizione Bad Seeds, Henry’s Dream (1992) si fa ricordare per i talking gospel infervorati di Papa Won’t Leave You Henry, I Had A Dream Joe e Brother My Cup Is Empty e la ballata Straight To You, uno dei momenti più pop del 22
repertorio caveiano. Con un organico che vede Conway Savage al piano e Martyn Casey al basso, i brani assegnano alla chitarra acustica un inedito rilievo in sede di struttura armonica e di mixaggio, insolito per le produzioni targate Nick Cave and the Bad Seeds, poco inclini ai cliché del rock ma anche della musica pop in generale. In Christina The Astonishing i Bad Seeds confermano una loro peculiarità, saper piegare al proprio registro i codici dei più svariati generi musicali, anche i più inconsueti per le corde di una rock band - come, in questo caso, la musica liturgica. Alcuni testi di Henry’s Dream, a cominciare da Papa Won’t Leave You Henry, sono tra i più manifestamente autobiografici di Cave fino a questo momento, su argomenti che vanno dalla recente paternità alla crisi creativa. Segno di un uomo che cambia, al di là di un cantautore che ha ormai assunto una fisionomia abbastanza precisa e delineata, pur nella sua complessità e nelle molte sfaccettature. Nel 1993 il musicista australiano compie una svolta che si rifletterà anche nella sua vita artistica, decidendo di trasferirsi stabilmente a Londra insieme a Viviane e Luke. Registrato negli ultimi mesi dell’anno, Let Love In (1994) riesce nell’intento di allargare ulteriormente lo spettro musicale dei Bad Seeds senza rinunciare alle inconfondibili atmosfere da thriller: dal soul hard boiled di Do You Love Me? al funky strisciante e perfido di Red Right Hand, al country rock a velocità folle di Jangling Jack e Thirsty Dog e alla ballata morriconiana della title-track. Per quanto manieristica sia già a questo punto l’arte di Nick Cave, la duttilità, l’intelligenza e una dose non indifferente di ironia (come in Lay Me Low, dove il cantautore australiano immagina il proprio funerale) rappresentano ancora un baluardo contro il rischio di scadere in un puro e semplice esercizio di stile. Se in parte Let Love In può essere considerato un disco a tema sull’amore, il successivo lavoro è una sorta di concept album, tutto dedicato a un particolare filone letterario e musicale com’è quello delle Murder Ballads (1996). Tra brani originali e traditionals riarrangiati, un mondo popolato da personaggi inquietanti come la folle serial killer Loretta di The Curse of Millhaven o lo spietato Stagger Lee. L’apoteosi del disco e della sua torbida vena narrativa è ben rappresentata nella lunghissima O’Malley’s Bar.
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È il lavoro più conosciuto di Nick Cave a livello mediatico, e per molti ha rappresentato il primo incontro con il tenebroso cantautore australiano; merito di un progetto generale che colpiva particolarmente l’immaginazione e dei duetti con Kylie Minogue (Where the Wild Roses Grow) e PJ Harvey (Henry Lee). I videoclip delle due canzoni, passati più volte sugli schermi di MTV, hanno fatto guadagnare al titolare una nomination agli MTV Awards per la migliore performance maschile (candidatura poi rifiutata dallo stesso Nick, con un comunicato in cui spiegava che alla sua Musa non importa nulla delle gare). È suggestivo considerare Murder Ballads, in cui ricompaiono nel ruolo di ospiti anche Anita Lane e Roland Howard, come un disco corale allo stesso modo in cui lo fu a suo tempo Kicking Against the Pricks. Nick Cave ha dimostrato una capacità di scrittura e un carisma con pochi paragoni tra i contemporanei e anche tra i musicisti di generazioni successive, ma non avrebbe sicuramente raggiunto certi traguardi senza l’apporto creativo garantitogli da un gruppo d’eccezione. Che, se vogliamo, ha avuto la lungimiranza di scegliere e assortire con cura invece di circondarsi più comodamente di turnisti.
L’a rt i g i an o de l l e can zo n i d’a m or e Nel 1998 viene dato alle stampe The Boatman’s Call, prodotto insieme a Flood. In controtendenza rispetto alla coralità del lavoro precedente, ci propone Nick Cave e i Bad Seeds in una veste musicale inedita, intimista e rarefatta. La formazione accreditata nelle note di copertina è forse la più nutrita di sempre - oltre a Harvey, Bargeld, Wydler, Casey e Savage, è confermato Jim Sclavunos e fa il suo ingresso in pianta stabile Warren Ellis - ma suona raramente al completo. In linea con il mood riflessivo dell’intera raccolta, gli arrangiamenti sono scarni, al punto che in Into My Arms, il brano più toccante e riuscito, si ascoltano solamente il pianoforte e il basso. Le sonorità dominanti sono quelle del pianoforte o dell’organo hammond con cui Nick si accompagna. È il suo disco più sentimentale, delle canzoni d’amore meste e malinconiche - West Country Girl e Far From Me -, di quel duende di cui parla 24
lui stesso nel saggio La vita segreta delle canzoni d’amore, che si può leggere come introduzione alla raccolta di testi pubblicata nel 2001 da Strade Blu (Mondadori). Lo sguardo duro scolpito nel bianco e nero di Anton Corbjin è l’immagine del momento difficile a livello personale che ha ispirato i pezzi, dalla fine della relazione con Viviane e a quella con PJ Harvey. L’anno dopo però sposerà Susie Bick, dalla quale avrà due gemelli. No More Shall We Part (2001) parte dalla stessa componente melodica con As I Sat Badly by Her Side, la title-track, jazzata come il brano di uno chansonnier d’altri tempi, e Love Letter, dando però più rilievo al lavoro corale, con l’aggiunta delle voci di Kate e Ann McGarrigle. I pezzi centrali, in tutti i sensi, sono Fifteen Feet Of Pure White Snow e God Is in the House; la prima parte in sordina e sale d’intensità fino all’apoteosi gospel, la seconda è una magnifica ballata al pianoforte con echi di Leonard Cohen e momenti a cappella che mettono i brividi. Se i Bad Seeds non erano nuovi ad arrangiamenti d’archi, spesso curati da Mick Harvey, è inedito lo spazio che si ritaglia Warren Ellis, quasi da solista. Il suo violino è una risorsa creativa sempre più importante nell’economia del gruppo che accompagna Nick Cave, e la sua figura finisce per eclissare quella di Blixa Bargeld. Nocturama (2003) riceve una tiepida accoglienza da parte di molti ammiratori, che riscontrano forse per la prima volta un’involuzione. Per un autore dalla tensione creativa fortissima, rappresenta non un tonfo ma un cedimento che assume i contorni comici del video in stile bunga bunga pensato per il singolo Bring It On. Quello che rimane di Nocturama sono soprattutto i poderosi squilli di Dead Man in My Bed e dell’interminabile Babe, I’m On Fire, che fanno a pugni con l’immagine compita dell’ultimo Cave e con la sua immagine di artigiano rigoroso della canzone - veicolata da alcune interviste in cui descriveva il lavoro quotidiano dello scrivere canzoni nel suo studio con orari da ufficio - adombrando un possibile ritorno ai suoni aspri e ai toni esagitati dell’era Birthday Party. Perché ciò accada - in parte - bisogna saltare un disco, il doppio CD Abattoir Blues/The Line of Orpheus (2004), primo album registrato senza Blixa Bargeld. Una defezione così epocale non può che lasciare il segno. È Mick Harvey stavolta a occuparsi delle parti di chitarra, il nuovo arrivato James Johnston, ex Gallon Drunk, arricchisce il suono di nuove sfumature con il suo organo, e la possibilità di lavorare con il London Community Gospel Choir è di quelle da non lasciarsi sfuggire. La diversità tra le due parti del lavoro è molto evidente. Abattoir Blues comincia con Get Ready for Love, un gospel funk con i riff di chitarra più duri e vibranti mai eseguiti prima dai Bad Seeds, e continua nel segno del soul, del funk e del rhythm and blues, con il singolo Nature Boy e la trascinante There She Goes My Beautiful World sugli scudi. The Lyre of Orpheus è principalmente una raccolta di canzoni melodiche, dove si fanno notare però il blues del brano omonimo e il flamenco di Supernaturally. Ho ancora vivo il ricordo del concerto italiano dell’epoca, e dell’impressione che mi fece Cave con la sua classe, il suo aplomb da gentleman e il suo elegante pianoforte. Qualche anno dopo quell’immagine sarebbe stata fatta a pezzi dallo stesso Nick in versione baffuta.
Gr ind er m a n Eh sì, perché il baffo a manubrio, non privo di una certa esibita tamarraggine, compare almeno dalle foto promozionali dei Grinderman, il quartetto nato da una costola dei Bad Seeds: Jim Sclavunos, Martyn Casey e l’imprescindibile Warren Ellis. Con Nick che imbraccia la chitarra, per la prima volta. Alla 25
consolle, il produttore degli ultimi lavori di Nick Cave, Nick Launay. Il disco omonimo del 2007 non è una svolta epocale perché la base di tutto rimane sempre il blues, anche se con i riff più grassi e rumorosi, le chitarre intossicate di feedback di No Pussy Blues, i groove più secchi e il rock and roll graffiante di Love Bomb, e un certo portamento rollingstoniano che fa balenare un possibile parallelo - addirittura - con Jon Spencer. L’album dei Bad Seeds Dig, Lazarus, Dig!!! (2008) risente per forza di cose di quella parentesi tuttora aperta. I groove sono la versione più elegante e rilassata di quelli della nuova band, e il pallino dell’album è spesso nelle mani di un rock and roll pre punk che riporta indietro a metà degli anni ‘70, e che può ricordare gli Stooges in Today’s Lesson, oppure Lou Reed o Bruce Springsteen, nomi che difficilmente in passato si era portati ad accostare a quello del cantautore australiano. Il brano più curioso, We Call The Author, è un pezzo soul con accenni di hip-hop. Rivisto a Milano a distanza di qualche anno, Nick Cave dal vivo sembra un altro personaggio, che spara fuckin’ neanche fosse Dennis Hopper in Velluto Blu e provandoci anche un certo gusto.. Appunto, le roi encre s’amuse, ed è forse la nota più interessante di questa nuova veste. Anche Grinderman 2 (2010) è un disco di rock sporco suonato da musicisti navigati; pur calato appieno nella veste più convenzionale di cantante di una rock band, Re Inchiostro riesce in qualche caso a forzarne comunque i confini. Nei Duemila, re inchiostro è anche attivo insieme a Warren Ellis - divenuto ora la sua spalla principale dopo che anche Mick Harvey ha lasciato i Bad Seeds - nelle colonne sonore, raccolte nel doppio White Lunar (2009). Ha scritto la sceneggiatura di The Proposition e pubblicato un nuovo romanzo, La morte di Bunny Munro, “road novel” ironico con cui ha dato una nuova veste letteraria alla sua prosa graffiante. Delle canzoni di Push the Sky Away ascoltate finora, convince la ballata Jubilee Street, almeno per l’atmosfera. È una nuova storia, più ellittica di altre, che lascia a chi legge il testo e ascolta di comporre i dettagli. Una frase colpisce più di altre: «You’ve got to practice what you preach». Ha predicato molto Nick Cave, e ha praticato altrettanto.
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sentireascoltare.com
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Gorewav Dark Mast Testo: Carlo Affatigato
Dai residui post-witch alla generazione Tri Angle fino alle nuove teorie soniche del disagio: le intuizioni tecniche e la ricerca delle suggestioni emersa recentemente sotto il segno della tenebra 28
e Fac
ve & sters
Your Dem ons
A prima vista sembrerebbe l’effetto dei soliti corsi e ricorsi storici, il ritorno geneticamente mutato di quella darkwave che dagli ultimi ‘70 di Joy Division, Siouxsie and the Banshees e Bauhaus ad oggi è andata e venuta senza sosta. E invece stavolta è qualcosa di diverso, una corrente più programmatica e complessa che sta facendo accorrere rappresentanti dalle estrazioni più differenti: complice forse la serpeggiante sensazione da fine del mondo che ciclicamente troviamo occasione di rinnovare e per la quale i Maya rappresentano l’ultimo pretesto, il suono oscuro, depresso e introspettivo diffusosi negli ultimi tempi sta determinando una corrente affascinante, soprattutto perché densissima dello spessore tecnico che solo l’intervento di artisti dalla base eterogenea può portare. Quello che affrontiamo oggi è un trend preciso e dai confini ben delineati, che discende dalle ceneri dell’ultima fiammata gotica sviluppatasi come 29
nuova sensazione, ossia la witch-house: come parentesi di buio pesto partita dall’underground USA, la musica delle streghe è cresciuta con una precisa identità e si è estinta in brevissimo tempo (dai primi segni hype a Balam Acab corre circa un anno), eppure le sue intuizioni di stile e contenuto han determinato un’estetica di suggestioni dalle importanti possibilità di derivazione, sopravvivendo nelle produzioni introspettive recenti. E se lo spettro risultante è tanto ampio che anche nomi insospettabili come gli SprectraSoul fanno una Knuckle Waltz che al posto della d’n’b onora oOoOO, diventa inevitabile stabilirne i volti, le sfumature e l’identità. Dalla discesa witch alle mutazioni interne, dai derivati horror alla generazione Tri Angle, fino alle frange di tenebra teorizzate dagli artisti più coraggiosi. Se, come dicono, l’inferno sia dentro di noi, è ora di percorrere la strada fino in fondo e conoscere i demoni che ci abitano. La nostra bussola è la musica, e chissà che il viaggio non ci doni un prezioso bagaglio di nuove consapevolezze. Cominciamo.
Post-wi tc h e h orro r wav e : da l d ecli n o all a meta m or f o s i La storia recente comincia dove l’avevamo lasciata l’ultima volta, ossia con la witch-house all’apice dei suoi eccessi. Era la seconda metà del 2010 e il non-genere nato nei polverosi seminterrati statunitensi stava bruciando la sua fiamma in fretta, troppo in fretta per lasciar intendere una vita particolarmente lunga. I Salem erano l’esempio più lampante in tal senso, col loro carico di noise e disturbi su strofe rap a determinare un’immagine dura e lontana da qualsiasi compromesso d’ascolto. Si trattava in fondo di una corrente giovane figlia di una generazione di adolescenti col fascino dell’occulto e un’occhio attento al web (che prontamente han disseminato di &da gger;†gr△‡∑mi†† per un target di ventenni MSN-addicted) e, come ogni passione adolescenziale che si rispetti, è partita a rotta di collo ed è puntualmente decaduta non appena coperti gli spunti d’interesse immediati. A restare - e a durare - sono invece le sensazioni estetiche legate a una modalità oscura legata all’occulto. Già tra gli esponenti interni si erano già fatti notare elementi dal sound più corposo e maturo, e saranno proprio quelli che resisteranno meglio al declino witch: per un Balam Acab che ha segnato la fine ufficiale della parentesi witch con un album, Wander/ Wonder, sfociato nell’ambient dub, abbiamo ad esempio il brooklyniano oOoOO, col suo mood introspettivo ansiogeno fatto di demoni interiori e timori inconsci, sopravvissuto a testa alta alla morte delle streghe grazie a un’abile dialettica con teorie modern beats e abstract hip-hop (acume ritmico che oggi definiremmo trap, presente già in Nosummer4U del 2009 e convogliato a perfezione formale in Our Loving Is Hurting Us, con vere lezioni di (in)consistenza gore come Springs, Starr e NoWayBack). oOoOO però va considerato una piacevole eccezione di istinto e talento. Altrove il riadattamento al nuovo equilibrio dark si è configurato con una maggiore aderenza a schemi classici, meno coraggiosi ma più semplici da maneggiare. I Modern Witch rappresentano in tal senso uno dei sound più furbi del filone: partiti ai primissimi esordi con un pezzo come Can’t Live In A Living Room discendente diretto del post-punk dei Bauhaus, arrivati poi al personale culmine estetico con una Not The Only One da dimensione parallela (e loop incessante) e passati più recentemente alla thrilling synthwave 30
di In Your Eyes e Scandalous Ghost, in modo da evitare teorie complesse e agganciare un suono apprezzabile su molti più livelli (anche di pubblico). Una metamorfosi più scaltra che ispirata, tentata per certi versi anche dagli stessi Salem con I’m Still In The Night, che lima gli spigoli e prova a soffermarsi sull’essenza dell’ignoto (Baby Ratta), pur non contraddicendo in toto il proprio suono debordante (Krawl). Alla fine la scelta diffusa dei post-witch act è stata quella di inseguire i canoni di facile fruibilità, fino anche ad avvicinarsi al pacchiano eurodance dei Trust, dove i piccoli residui gore vanno a convivere con l’electropop in tuta di lycra di Bulbform o Dressed For Space. Di ben altra consistenza invece la deriva parallela più interessante emersa dal fenomeno witch, vale a dire la horrorwave. Emersa nello stesso periodo sempre dall’underground USA, ma con una più marcata vena intellettuale fondata sulle pratiche standard di musica del terrore portate avanti da anni di esperienza cinematografica. Che per gli Stati Uniti significa fondamentalmente John Carpenter. Due gli elementi più in vista, entrambi su Not Not Fun (che, va detto, ha saputo cavalcare in maniera eccezionale un trend apparentemente lontanissimo dal sound di casa): il primo è Umberto, il più fedele alla base filmica (Red Dawn è pura attesa da cripta) e anche il più vicino ai nostri Goblin (quelli più atmosferici e fondati sull’angoscia da Fantasma dell’Opera, vedi Temple Room), due ottimi album usciti nel 2010 (From The Grave e Prophecy of the Black Widow) e un valido ritorno anche quest’ultimo anno (con Night Has a Thousand Screams e brani incalzanti umberto
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come Paralyzed); il secondo è Xander Harris, più propenso invece ai flirt con materiale in bilico tra electro e techno dei primordi (I Want More Than Just Blood, Fucking Eat Your Face) e ragionamenti cosmic/kraut d’ambientazione (Tanned Skin Dress), esploso nel 2011 con Urban Gothic e anche lui tornato di recente con Chrysalid e una ancor più netta verve ritmica. La breve vita della witch-house non ne ha pregiudicato le potenzialità delle intuizioni. Con essa lo stimolo oscuro è passato a un livello psichico successivo, lavorando su ansie e disagi che agiscono nello strato inconscio. E mentre i frutti migliori dell’horror soundtrack e del riassestamento post-witch si tengono ancora in vita con sufficiente dignità, il passaggio all’introspezione e al piacere della complessità ritmica sono i veri testimoni trasmessi alla micro-generazione di giovani talenti emersa subito dopo. Tutti, guarda caso, riuniti in raccolta in una delle label con l’occhio più lungo dei tempi recenti.
Tr i An g l e : l a nuova g en er a z i one g or ewave Nata nel 2010 proprio sull’onda witch-house e legata fin da subito a quell’estetica a partire dallo stesso nome, la Tri Angle, label newyorkese che fa capo a Robin Carolan, si è sempre distinta in realtà per una scelta di suoni e artisti che andavano oltre lo schema. Non a caso i primi esponenti coinvolti furono a suo tempo proprio Balam Acab e oOoOO, entrambi decisamente intrisi dell’oscurità witch ma con una visione lunga che li spingesse oltre la fruizione di nicchia: del primo, ad esempio, parla chiaro la nota See Birds, uno dei pezzi più amati dai witchers eppure uno dei più atipici, fiero portatore di una passione ambient che poi sboccerà definitivamente sull’album di metà 2011, aprendo a tutti gli effetti la nuova fase della label e del filone intero. È nel 2011, infatti, che la Tri Angle inizia ad attirare la vera attenzione mediatica, sfoggiando una scuderia di giovani figli del buio di casa ma dotati allo stesso tempo di un bagaglio tecnico di livello superiore, perfettamente consapevole degli attrezzi del mestiere beats e degli ultimi spunti d’avanguardia. Il primo a venire fuori fu Holy Other, presentandosi con discreto impatto nei cinque pezzi del With U EP, tutti abbastanza fedeli alla scia di oOoOO a parte uno spunto particolarmente riuscito, Touch, un flirt entusiasmante col dubstep astratto che gli è valso l’accostamento a James Blake. La coscienza di un certo modo di sperimentare bassi e ritmi era la carta vincente del ragazzo, che infatti ci ha costruito su il suo album di debutto, Held: tra (W)here e U Now si infilano tutte le asimmetrie ritmiche del continuum, ma il bello è che restano volontariamente ingabbiate nell’ombra, così da tenere ben saldo il polso del mood gotico ed evitare un ribaltamento di prospettiva. L’obiettivo qui non è sconvolgere ma pizzicare con un equilibrio di stimoli sottopelle, inserti intelligenti che non cambiano le regole del gioco ma sono studiati appositamente come punte d’estro alternativo per l’ascoltatore fedele al sound di casa. Coraggio ma anche sensibilità verso il proprio target. Uno che invece non ha avuto paura di spiazzare è Vessel, ultimo arrivato in casa Tri Angle con un album di debutto apprezzato non poco dagli amanti della novità estetica. Order Of Noise salta a pié pari la questione goth e sfoggia tutta la coscienza di producing di cui un giovane 22enne possa essere capace: sfumature techno da Berlino (Scarletta) a Detroit (Court Of Lions), buio ambient intriso di IDM marchio Warp (Silten), asimettrie acid (Lache) e segni di avanzamento beats (Images Of Bodies), lo stile di Vessel è il più coraggioso della linea e la consistenza oscura di fondo serve solo da legante per la struttura. La provenienza stavolta non è più né l’occulto witch né i 32
holy other
suoi diretti discendenti, ma un mistero introverso che da sempre permea le frange più ambiziose della techno (e l’omaggio ad Actress di Aries significa qualcosa). Sebbene la prova d’ascolto del disco attenui l’entusiasmo per il troppo eterogeneo ventaglio comunicativo, Order Of Noise è un piccolo capolavoro di tecnica contemporanea che non va lasciato passare inosservato. Come accade in tutti i gruppi artistici compatti, anche alla Tri Angle le intuizioni circolano velocemente e tutti i nomi del giro attivi oggi presentano lo stesso, identico approccio implicito verso le modernità arty dell’elettronica contemporanea, maneggiando materiale stilisticamente avanzato con tutte le cure del caso e incorporandone gli effetti sotto forma di attenuate sfumature sottopelle. Con Howse, ad esempio, l’impressione è proprio quella che vi dicevamo in sede di recensione, ossia che i soggetti in questione siano perfettamente consapevoli di aver qualcosa di potente tra le mani e pertanto la maneggiano coi guanti: nel Lay Hollow EP le dichiarate influenze jungle e juke son così ben nascoste che è difficile rintracciarle, le inquietudini in loop di VBS rimandano al footwork ma sono prima di tutto concentrati di pathos, mentre i martellamenti in breakbeat di Old Tea, nella loro impronta ambient, riprendono anche certa glitch astratta tanto familiare ai ‘90. Il ragazzo di Providence sembra uno dei più appassionati di modern beats e dintorni e adesso resta da focalizzare i contenuti in un album che potrebbe fare il botto. Uno che invece la questione oscurità l’ha quasi messa da parte è Evian Christ: tra gli otto pezzi messi in mostra in Kings And Them, uscito a febbraio 2012, c’è molta più abilità su ritmi e voci che attenzione a un mood introspettivo, pezzi come MYD e Horses In Motor aggrediscono i wonky beats con un’intraprendenza tale da poter essere apprezzato dai seguaci trap, 33
evian christ
dove Fuck It None Of Ya’ll Don’t Rap e Snapback Back aggiungono il peso del thug rap e Go Girl ammorbidisce con quella che la cartella stampa definisce nel modo migliore, “r’n’b diluito e ritorto”. La sua fase ambientale però è potente, resa tra spazi (Drip) e impianti dronici (Fridge, Crank, Gun) e suona come qualcosa di molto vicino all’ipotetica colonna sonora di Paranormal Activity. Ancora tutta da valutare la teoria sonica di questo giovane dell’area di Liverpool, ma la tecnica c’è tutta. Nessuno dei personaggi Tri Angle può esser definito un big, ma considerati come collettivo stanno operando tutti insieme uno dei rinnovamenti estetici più influenti del momento. La stilizzazione del mood dark e i giochi di specchi con voci e ritmi sono il vero marchio a fuoco posto dall’etichetta all’annata in chiusura, col doppio effetto di trasformare prima i germi malati della witch house in disegni fertili per uno sviluppo efficace, e di aprire poi la strada a un ulteriore progresso delle teorie oscure. A quest’ultima ambizione sta pensando un altro filetto di produttori dal fiero talento, per i quali le intuizioni post-witch sono il punto di partenza su cui apporre la robustezza delle proprie reinterpretazioni personali.
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U nco n s c i ous da r k n ess t h eory: l e intu izio n i e il futuro Il concetto di superamento è la base dell’evoluzione. Portare quel che poco tempo prima era una nuova intuizione alla dimensione di pratica consolidata, assorbirne i connotati e rielaborarne i tratteggi verso una visione nuovamente originale poiché personale. È quello che i ragazzi alla Tri Angle han fatto con la witch-house, ed è quello che sta facendo oggi chi vede ormai anche la post-witch sotto nuove prospettive e potenzialità. Uno di questi è il producer finnico Albert Swarm: già nel 2011 le cinque tracce dell’EP Held ristabilivano un concetto di spazi e sensazioni escapiste, Aging Out e Foundling Wheels sembravano quasi aprire a una fase positivista mentre Homecoming riportava tutto sotto un’aura di soundtracking, e a battere il tempo erano frustate simil-halfstep o addirittura battute ambient house da psych-dance (Familiarities). Ancor più coraggioso l’album di metà 2012, Wake, con le correnti gotiche che ritornano sulle sintonie ambientali di Touched By The Sun e le voci gotiche pizzicate sotto le aperture di Something Glows e A Dream That Glistened a metà tra folktronica e beat hip-hop. È dietro l’assetto indie electro di Moths and Moth Catchers che si sente maggiormente l’eredità goth psichica, ma la forza del ragazzo sta nella freddezza scandinava che cristallizza voci (He Took a Deep Breath) e rarefazioni robotiche (Fadima), in quella che è probabilmente la paillette sonora più complessa e affascinante della nostra disamina. Il più affascinante incrocio tra suggestioni tetre, poteziamenti ritmici e voci enigmatiche l’ha realizzato Andy Stott con Luxury Problems. Lui che proandy stott
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veniva da un lungo percorso di approfondimenti techno, culminato in una prima fase con Merciless (2006) e poi passato agli accartocciamenti dub raccontati negli eppì We Stay Together e Passed Me By, in questo 2012 si è fatto coinvolgere dalle teorie dell’oscuro, dove i demoni nascosti tra le curve del tessuto dub trovano ideale avversario nei vocalizzi angelici che scorrono per tutto il disco. Un pezzo come Hatch The Plan realizza splendidamente tale dicotomia emozionale mentre in Leaving sbocciano le derive ambient, ma la vera cifra stilistica di Stott emerge nei clangori post-industriali della sua dub-techno (Expecting o Lost And Found) e soprattutto nella cassa viscerale rallentata fino ai 100 bpm, dove brani come Numb e Sleepless riassumono un marchio di fabbrica che inizia a farsi spazio nella scena mancuniana. Un modo di vedere le cose estremamente personale ma per il quale la ricerca Tri Angle non è passata senza effetti: stessa somatizzazione dell’ignoto, stesse astrazioni della tecnica, un intreccio di spigoli esteriori e avvolgimenti psichici che mette in note la lucida follia. Chi ha preso sul serio più di tutti l’impegno di scendere nelle viscere del disagio interiore per tirar fuori l’impronunciabile è Holly Herndon, come ve l’abbiamo raccontata per i suo album Movement. Dotata di un backgroung fortemente intellettuale ma grande appassionata di tecnologia, il laptop è il
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suo strumento e da esso succhia con avidità ogni potenzialità di processamento per operare una metamorfosi totale sulla voce umana. Il risultato è una terrificante carrellata di ansimi cibernetici, distillati di ansia da stato di malattia terminale che portano alle orecchie quanto di più vicino possa esserci alle Montagne della Follia di H. P. Lovecraft. Breathe è totale assenza di umanità, Terminal la massima astrazione sintetica al concetto di psicosi, Dilato l’estremismo campionato del lamento demoniaco, eppure è proprio la sperimentazione tecnologica a generare il massimo contatto coi nostri centri fisiologici del disagio. Quando in Fade e Movement le forme raggiungono la simmetria consistente della techno appresa a Berlino è solo per accogliere un minimo livello di fruibilità, ma in realtà è la sua vena più astratta e malata la reale marcia in più della producer originaria di San Francisco. La Herndon tocca il punto più concettualmente profondo dell’indagine oscura trattata oggi e rappresenta perciò l’esperienza d’ascolto più impegnativa ed esigente di questo meta-filone. Fino ad ora. Difficile dichiarare conclusa ed esaustiva la disamina. Il fascino dell’ignoto, della paura e del disagio sembra uno dei leganti metanarrativi più forti di questi tempi, e prima di cedere il passo ad un’eventuale corrispettivo opposto bisogna che vengano meno le ragioni che han spinto tanto spesso gli artisti a guardare in faccia i propri timori. Per capire queste ultime l’analisi andrebbe spostata su un più accurato piano storico-sociologico in cui non vogliamo entrare, se non ipotizzando un certo legame con un diffuso pessimismo globalizzato di ritorno, che ha sempre meno scrupoli a pronunciare la parola FINE. Del capitalismo, del benessere, del mondo: son tante le dimensioni di insicurezza per le quali necessitiamo di risposte, e l’artista dell’oscuro forse prova semplicemente a configurare una strategia difensiva che possa rispondere all’imprevedibile. Chiamiamola esorcizzazione dell’ansia da catastrofe, in qualunque forma possa essa presentarsi. Comunque vadano le cose, però, avremo ancora molto materiale con cui affascinare la nostra curiosità morbosa, prima che inizi un nuovo rinascimento. Music for your Demons: discografia di riferimento oOoOO - oOoOO EP (2010): 6.8 / 10 Umberto - Prophecy Of The Black Widow (2010): 7.2 / 10 Modern Witch - Unknown Domain (2010): 7.3 / 10 Xander Harris - Urban Gothic (2011): 7.1 / 10 Albert Swarm - Held EP (2011): 6.7 / 10 Salem - I’m Still In The Night EP (2011): 5.9 / 10 Evian Christ - Kings And Them (2012): 6.8 / 10 Trust - Trst (2012): 6.4 / 10 oOoOO - Our Loving Is Hurting Us (2012): 6.9 / 10 Xander Harris - Chrysalid (2012): 7.0 / 10 Holy Other - Held (2012): 7.1 / 10 Vessel - Order Of Noise (2012): 6.8 / 10 Umberto - Night Has a Thousand Screams (2012): 7.0 / 10 Howse - Lay Hollow EP (2012): 7.1 / 10 Albert Swarm - Them (2012): 7.2 / 10 Andy Stott - Luxury Problems (2012): 7.3 / 10 Holly Herndon - Movement (2012): 7.5 / 10
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Lindstrøm The Kitchen Interview
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Le soddisfazioni e i rimpianti, i progetti in corso e il rapporto con la musica, i Daft Punk e Daniele Baldelli, la scena norvegese e i punti di contatto con l’Italia. Confessioni dietro i fornelli.
Testo: Carlo Affatigato
È stato un anno eccezionale per Hans-Peter Lindstrøm. Iniziato con la sfida poderosa di Six Cups Of Rebel, col quale il semidio della space disco ha esplorato il suo lato più mentale e intraprendente verso il classicismo, e continuato con il ritorno in studio, fino a Smalhans, dove invece è venuta fuori la verve dancey più esplicita di sempre. Due volti opposti di un modo di girare intorno alla dance sempre unico, due dischi che vi abbiamo raccontato con prontezza e senza peli sulla lingua: a gennaio esprimevamo preoccupazione per la direzione eccessivamente sperimentale intrapresa, e quando avvertivamo il bisogno di un maggior occhio allo stimolo fisico è sembrato quasi di parlare direttamente alla fonte creativa nella testa di Lindstrøm, visto che con Smalhans sembra aver accontentato i desideri inconfessati di una grossa fetta di pubblico. Un doppio colpo che suona tanto come un punto di arrivo nella discografia del producer norvegese. Dopo i diversi gradi di approfondimento space di Where You Go I Go Too e It’s A Feedelity Affair e le frizzanti collaborazioni con Prins Thomas (due volte) e Christabelle, Lindstrøm schizza quest’anno da una parte all’altra del suo spettro espressivo, riassumendo le due anime del suo sound, quella melodica (che gira da sempre intorno a funk ed ambient) e quella disco. Dove uno dei due risvolti indietreggia, l’altro prende piede, e quest’anno pare che ognuno dei due istinti abbia voluto andare fino in fondo per mettersi alla prova. Come essersi tolti due ingombranti sassolini, gli ultimi languorini prima di poter lasciarsi andare a nuovi, differenti propositi. Il contatto con Lindstrøm non è stato per nulla facile. Ma dove sono falliti i canali stampa canonici, ha avuto successo il tweet civettuolo del nostro Mirko Carera, al quale Hans ha risposto con tranquilla disponibilità. Non è un tipo da farsi intervistare facilmente, ma l’oretta passata al telefono mentre lui preparava il pranzo è andata via in modo piacevole. Nel momento più rilassato della sua giornata-tipo ci ha raccontato le soddisfazioni e i rimpianti legati agli ultimi due album, i progetti attuali, il suo rapporto con la musica, lo stato di forma della space disco e le affinità con la musica italo. Ne vien fuori un profilo artistico fortemente solido nelle basi e incline alle contaminazioni, che guarda al nuovo con fiducia ma alimenta costantemente l’amore per il classico. 39
Dopo un ultimo album che esplicita il legame con la dimensione culinaria (le sei tracce di Smalhans hanno i nomi di sei piatti tipici norvegesi) e due anni dopo la nostra panoramica sulla nascita della scena norvegese fatta con Bjørn Torske (un’altro a cui piaceva l’accostamento coi cibi), l’intervista in cucina, tra i rumori di pentole e l’acqua che scorre, è la porta ideale per aprire i segreti del mondo Lindstrøm. A voi. “Il cambiamento è estremamente importante per me. Non voglio finire a ripetere me stesso continuamente.” Ciao Hans, benvenuto su SA!Il tuo management ci spiegava che ci tieni a non togliere tempo alla famiglia e al lavoro in studio, e per questo è stato difficile fissare la data di quest’intervista. Sei in studio adesso? No, sono a casa, sto cucinando per pranzo [ride]. È vero, non faccio spesso interviste perché richiedono molto tempo, che solitamente devo sottrarre al lavoro in studio. Ora però, dopo i due dischi di quest’anno mi sono preso un periodo di riposo casalingo, quindi è un piacere anche per me farmi questa chiacchierata. In effetti rilasciare due album nello stesso anno non dev’essere una cosa semplice. Com’è accaduto che iniziassi a lavorare su un altro LP subito dopo Six Cups Of Rebel? Dopo l’album mi sono rifiondato in studio per nuovi pezzi, ma inizialmente l’intenzione non era fare un altro album. Alla fine però son venute fuori 6-7 tracce e le ho trovate soddisfacenti abbastanza per poterle includerle in una nuova release. Smalhans però è molto diverso da Six Cups Of Rebel.. Assolutamente. Direi quasi agli antipodi: Six Cups Of Rebel può esser visto come il tuo album più astratto e sperimentale, mentre Smalhans è il più dancey, quello più libero da ambizioni intellettuali.
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Esatto. Inizio a notare che questa cosa mi accade spesso, dopo un lavoro fortemente sperimentale finisco sempre per buttarmi su qualcosa di più diretto, più orientato alla dance music. È già successo nell’album con Christabelle, venuto fuori dopo Where You Go I Go Too, o anche nei lavori con Prins Thomas. È anche un modo per tornare a vedere cosa succede nell’altra sponda. Con Smalhans ho voluto ristabilire un contatto con la dance, la dimensione live e i club. Tutti i pezzi dell’album sono pensati per quella porzione di pubblico che vorrebbe qualcosa di più ballabile quando assiste ai miei concerti. Eheh, allora sarai d’accordo con noi, che in sede di recensione abbiamo definito Smalhans “il tuo regalo per i fans”... È proprio vero [ride]. Sono consapevole che molti di quelli che mi seguono stavano aspettando un album come questo dal 2006 o giù di lì. Solo che ho sempre voluto provare qualcos’altro. Evidentemente il momento per Smalhans è arrivato proprio oggi, anche a me era venuta voglia di qualcosa di più facile, da ascoltare e da ballare. Quella della ballabilità però è un’ambizione relativa: non credo che Smalhans possa essere amato dal pubblico strettamente legato ai clubs. Per quanto riguarda la mia esperienza, la gente che vuol ballare di solito preferisce musica ancora più semplice di questa. Questo album è molto concentrato sulla melodia, sui crescendo e le distensioni. Non lo definirei massimalismo, ma ci siamo vicini. E pretendere che il pubblico dance lo accolga a braccia aperte forse è un po’ troppo... Beh, forse non è un album strettamente rivolto al club, ma è sicuramente un album dancey ottimo per essere apprezzato all’ascolto, trovi anche tu? Sì, e questa è la cosa che conta. La dimensione ideale che immagino per la mia musica è l’ascolto in cuffia, o in auto o a casa. Non è mai stata mia intenzione far suonare i miei pezzi ai dj. Però Smalhans mi dà l’opportunità di soddisfare il pubblico dance che viene ai miei concerti, quello sì. È stato per te una sorta di “sacrificio” della tua vena sperimentale? No, in realtà mi è venuto totalmente spontaneo. Dal mio punto di vista, le mie produzioni stavano diventando particolarmente impegnative, soprattutto con Six Cups Of Rebel. Di contro, per Smalhans è venuta fuori la musica più strutturalmente semplice che fossi in grado di fare: nessuna voce, pochi cambi di passo, immediatezza nelle melodie e nella logica. C’è pochissima complessità. Non sono sicuro che i prossimi lavori continueranno in questa direzione, probabilmente adesso proverò ancora qualcosa di ancora differente. Il cambiamento è estremamente importante per me. Hai già qualche idea? Molte. Sto lavorando a diversi progetti, e magari molti di questi confluiranno su album. E son tutte collaborazioni con altri artisti. Penso che adesso sia una cosa benefica per me lavorare insieme ad altri, dopo essermi concentrato su me stesso per due album. Sono tornato a lavoro con Prins Thomas, e ho anche diverse cose in ballo con altri ragazzi interessanti. Tutta roba esaltante, vedremo cosa verrà fuori eheh. Cosa mi dici di Todd Terje? Lo hai scelto per mixare Smalhans e probabilmente è la cosa più fresca che sia venuta fuori dalla scena norvegese recente... Oh, adoro quel che sta facendo, Todd ha una montagna di talento. Il suo intervento sul mio album è stato un onore per me. Al momento stiamo 41
lavorando su alcune cose insieme. Lo conosco da più di dieci anni ormai, è un ragazzo eccezionale sia musicalmente che umanamente. Un amico. “Restare leggermente disallineato con l’electronica contemporanea mi aiuta a esprimermi in modo differente dagli altri” Non sembra anche a te che questo maggiore orientamento verso la gente sia una direzione comune a tutta la scena space norvegese? Lo stiam vedendo anche negli ultimi lavori di Prins Thomas o Todd Terje, come se la space disco stesse diventando meno “space” e più “disco”, più dancey e facile da apprezzare. Cosa sta accadendo? È vero. I pezzi di Smalhans sono molto più orecchiabili di Six Cups of Rebel, e anche gli EP di Todd Terje sono sia piacevoli all’orecchio che buoni per il dancefloor. Sinceramente non so cosa stia accadendo [ride]. Parlando personalmente, però, so che tornerò a far musica più articolata di questa. Il costante cambiamento per me è tutto, non voglio finire a ripetere me stesso continuamente. Però è bello pensare che la scena space disco quest’anno stia raccogliendo i suoi frutti, dopo diversi anni di sperimentazione. È vero, negli ultimi sei anni l’impatto sulla gente è stato crescente, è stato piacevole vedere una parte di pubblico passare dalla dance abituale alla space disco. Magari questo è stato proprio l’anno giusto. Tra l’altro non sarebbe nemmeno un caso isolato. Moltissimi producers storici quest’anno han voluto disegnare il perfezionamento formale delle intuizioni maturate finora. Lo abbiam notato per Venetian Snares, Nathan Fake, Photek, i fratelli Kalkbrenner... Posso immaginare. C’è un sacco di nuova musica interessante in giro, anche se ammetto che impegno i mei ascolti prevalentemente su altri fronti. Ad esempio? Ascolto moltissima musica anni ‘60, ‘70 e ‘80. Prima che mi chiamassi stavo ascoltando Donny Hathaway. Mi piace il Motown soul. Ieri ascoltavo Diana Ross. Prediligo la musica del passato, ti sorprenderò dicendoti che non ascolto molta musica elettronica o dance. E non lo sento nemmeno come un grosso problema: restare leggermente disallineato con l’electronica contemporanea mi aiuta a esprimermi in modo differente dagli altri. Sai com’è, la musica che ascolti, volente o nolente, ti spinge all’imitazione. E mi sento più a mio agio se questo avviene con cose più classiche. Tra le tracce di Smalhans ci abbiam sentito le soundtrack dei Vangelis, ma anche certe cose dei Daft Punk. Possibile? I Daft Punk li ho ignorati per lungo tempo, ma li ho recuperati recentemente, in particolare i primi album. E l’ho trovata roba molto buona. A volte il valore della musica vien fuori dopo tanto tempo e tanti ascolti ripetuti, coi Daft Punk è stato così. Daft Punk e Vangelis sì, sono sicuramente influenze reali. È tutta musica ben compatibile con la mia visione, stili che posso assorbire e remixare mentalmente, rielaborare sotto nuove forme. Abbiamo letto nella cartella stampa di un particolare processo produttivo per le tracce di Smalhans. Ce ne parli? In pratica mi sedevo in studio e partivo sviluppando la progressione melodica, senza sapere dove sarei andato a parare. Lasciavo che la cosa progredisse sotto le mie mani, magari combinandola con la giusta ritmica, e così via. 42
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Non c’era un’idea precisa in testa. A fine giornata caricavo la roba prodotta sull’iPod e la ascoltavo più volte per capire se era buona o no. L’effetto finale è che Smalhans sembra una creatura dotata di vita propria. Come se fosse cresciuta da sola, secondo direzioni autonome e libera da un’imposizione severa da parte tua. L’ho trovato un modo piacevole di lavorare, e sono un forte sostenitore dell’idea che se uno ama quel che fa, tira fuori per forza qualcosa di valido. Non ho cercato di compiacere un certo pubblico in particolare, ho lavorato per me stesso, seguendo un’idea di soddisfazione soprattutto mia. Magari la musica che faccio non è adatta proprio a tutti, ma è importante per me seguire la mia visione. Il fatto che stavolta sia andato incontro ai desideri di una parte del mio pubblico è stata una soddisfacente coincidenza. “Penso che la disco music più interessante nella storia sia venuta fuori grazie ai bianchi, fuori dagli Stati Uniti. L’Italia è un ottimo esempio. E se stiam facendo bene il nostro lavoro, anche la Norvegia.” Mi spieghi com’è possibile che la tua musica, e la space in generale, suoni sempre così familiare? Ad esempio, da italiano sento spessissimo i Goblin dietro molta space disco, e stavolta Smalhans mi ha fatto tornare in mente certe forme di musica popolare italiana. C’è un legame concreto, o è solo un’impressione soggettiva? Non saprei. Personalmente, è molta la musica italiana a cui sono legato. Adoro Daniele Baldelli, ad esempio. Il suo approccio alla musica è esattamente lo stile che io amo, un mix eclettico che va in tutte le direzioni e spinge la sperimentazione verso nuovi orizzonti. Forse Norvegia e Italia hanno in comune lo stesso modo di assorbire il background disco, da posizioni esterne rispetto a dove la disco è nata, ossia gli USA. Penso che la disco music più interessante nella storia sia venuta fuori grazie ai bianchi, fuori dagli Stati Uniti. L’Italia è un ottimo esempio. E se stiam facendo bene il nostro lavoro, anche la Norvegia [ride]. Il pubblico norvegese, poi, è particolarmente aperto, può accettare ogni tipo di musica, di qualsiasi provenienza. E lo fa senza nessun senso di colpa. Anch’io in passato mi son fatto appassionare da certa dance meno ambiziosa, senza alcun pregiudizio. Magari in altri posti certa musica si accetta meno facilmente, non so. Dici che nel 2012 esiste ancora qualcuno che vede la dance come una cosa cattiva, di cui vergognarsi? Dopo tutto quel che ha dimostrato? Qui da noi no di sicuro! [ride] Eheh e tanto basta.Quindi possiamo dire che Smalhans è il preferito tra i tuoi dischi? Poco fa coglievo un cenno di insoddisfazione su Six Cups Of Rebel, mi sbaglio? Six Cups è sicuramente una delle cose più difficili che abbia mai tentato di fare, e non saprei dire con assoluta certezza se alla fine sia venuto fuori un album ottimo. Però a me piace molto e ne sono orgoglioso, di questo come di tutti gli altri album. Nel tempo comunque cambia anche l’idea di bellezza che abbiamo. Probabilmente in futuro cambierà il mio modo di considerare belle o no certe cose, dipende anche da quel che senti dietro certa musica. Ora ad esempio vedo un ritorno di certa musica dark anni ‘70 e presto ritroveremo questo background nelle nuove produzioni. Tutto è legato con tutto, e ogni nuova combinazione fa cambiare il modo di percepire le cose. 44
Possiamo dire che Smalhans è il tuo album “pop”? Mmm, questo oppure quello con Christabelle, lo lascio decidere a voi eheh. Il pop però è una dimensione diversa, e non nego che mi piacerebbe provarci, sarebbe una bella sfida. Si tratterebbe di interagire anche con la parte cantata, perché il pezzo pop perfetto non può prescindere dalla voce. Forse verrà fuori qualcosa di pop-oriented dal materiale a cui sto lavorando adesso, perché coinvolge diverse vocalist. In ogni caso, mi sembra di capire che qualsiasi cosa succeda, sarà sempre venuta fuori in maniera spontanea, senza importelo intenzionalmente. Sicuramente. Non so nemmeno io cosa verrà fuori. Staremo a vedere anche noi.Ok Hans, ti lasciamo al tuo pranzo. Grazie e alla prossima! È stato un piacere, ciao! 45
Recensioni febbraio
— cd&lp
A$AP Rocky - LONG.LIVE.A$AP (RCA, Gennaio 2013) Genere: hip hop A$AP Rocky, balzato agli onori delle cronache nel 2011 grazie al mixtape LIVE.LOVE.A$AP, arriva al suo debut commerciale con tutte le attese di un contratto plurimilionario con la RCA e un anno fatto di rinvii e posticipazioni. Il 2012 del rapper di Harlem NY è stato caratterizzato dall’uscita di un singolo, Goldie, e dall’esordio/pasticcio del suo collettivo A$AP Mob con Lord$ Never Worry, crew della quale Rocky è leader ma che, al contrario degli attivissimi Odd Future, non ha pubblicazioni all’attivo di alcuno dei suoi membri, a parte Rocky stesso. E le similitudini con il collettivo guidato da Tyler, The Creator si esauriscono proprio qui, sono anzi le differenze ad essere più evidenti. A$AP non è di certo un punk o un outsider come Tyler, rappresenta piuttosto tutto quello che di tendy e hipster è finito nel frullatore hip-hop dell’era post-My Dark Beautiful Twisted Fantasy, che incanala le tendenze internettiane 2.0 e le convoglia nel nuovo network dell’East Coast moderna. Nell’hip hop di Rocky passa infatti l’eredità Harlem di Big L e Mase, ma anche la versatilità e l’intelligenza di scegliere il proprio campo di gioco. A$AP se la cava e riesce a stagliarsi tra la fitta folla di feat. e la produzione expensive, che include Hit-Boy, Clams Casino, Danger Mouse, T-Minus, passando indenne anche per esperimenti pericolosi quali il feat con Skrillex Wild For The Night. Quello di A$AP è un hip hop maleducato e sfrontato il cui mantra è Pussy, Money, Weed (All I Really Need), portato avanti con un flow rilassato dall’erba e swagger elevato all’ennesima potenza: “My whip white but my top black / And my bitch white but my cock black”, Rocky non è un asso della scrittura ma possiede un wordplay pieno di iperboli West-iane: “Niggas talk shit ‘til they get lockjaw/ Chrome to ya dome ‘til you get glockjaw”. Il boom bap dell’East Coast si mischia a chopped & screwed beats e stranezze elettroniche varie, come appunto la brostep di Skrillex, i sampling ad opera del solito bravissimo Clams Casino, le ruvidezze southern di F***in’ 46
Problems, con ospiti il ‘solito’ 2Chainz, ma anche Drake e Kendrick Lamar (scelta quest’ultima un po’ in contrasto con lo stile del pezzo, il rapper di Compton si rivela infatti l’anello più debole). Lamar ricompare poi anche nell’ottima 1 Train, lunga traccia a cui segue una ancora più lunga lista di credits, da Danny Brown a Big K.R.I.T, passando per Joey Bada$s e Yelawolf, praticamente tutti i nomi caldi dell’hip hop degli ultimi anni. Rocky fa da piattaforma ai nuovi trend e se ne appropria con disinvoltura, riuscendo in gran parte e steccando qua e là, soprattutto quando prova a cantare negli hook di Phoenix e dell’opening track in cui finisce con l’attraversare territori non suoi. Quello che esce fuori è comunque un buon prodotto, in parte scostante ma che sa intrattenere, se il pubblico è quello giusto. (6.7/10) Luca Falzetti
MESS 2 - Versatile 2.0 (Autoprodotto, Dicembre 2012) Genere: hip hop E’ molto dura tenere dei toni distaccati di fronte a un prodotto che con la scusa di fare un disco hip hop prettamente strumentale finisce per essere un album di MUSICA in senso lato. Mess Too (o anche Mess 2) è stato per un breve tempo membro del duo di produttori Night Skinny (di cui è anche cofondatore) ridottisi poi al solo Cee Mass (personaggio che i b boys storici, bolognesi e non, ricorderanno anche come Dj Bronx). Non si sa bene cosa sia successo, ma quello che emerge da Versatile 2.0 è che la strada intrapresa dal primo grande singolo So cosa vuoi (che vedeva la presenza di un Musteeno in forma smagliante e dedito al rhyming più oscuro e visionario) trovi il suo ideale proseguimento più qui che in Metropolis Stepson (l’album pubblicato da Luca “Night Skinny” Pace). Mess Too è un produttore di Termoli che vanta un attitudine onnivora nei confronti della musica, il boom bap più classico gli sta abbastanza stretto, così come lo lasciano indifferente le nuove derive elettroniche in odor di dubstep, wonky e via dicendo; non è dunque il tipo di produttore che opta per una stortura della ritmica,
Arvo Pärt - Adam’s Lament (ECM, Ottobre 2012) Genere: sacra/minimalism Che senso ha oggi comporre musica sacra, quando già da decenni la musica esplicitamente tale di Igor Stravinskij viene eseguita più in teatri che nelle chiese? In un’era del post-moderno in cui lo spazio per la spiritualità sembra essere sempre più colmato di altri culti, altri miti, altri passa-tempi. Da almeno mezzo secolo, però, la musica dell’estone Arvo Pärt è lì a cercare di ricordare al mondo che quello del sacro è un ambito troppo ingombrante per essere semplicemente dimenticato. Motivo per cui la sua parabola musicale, che in un lasso di tempo così lungo ha avuto diverse fasi, si è progressivamente allontanata dal minimalismo degli anni Sessanta, si è fatto holy minimalism, per poi andare a ritroso nel tempo a cercare di recuperare la purezza del gregoriano, il canto omofonico della preghiera medievale, e cercare di conciliarlo con una dodecafonia modernizzata. Con questo lamento di Adamo, costruito a partire da un testo teologico di Staretz Silouan, Pärt conduce in porto la migliore delle opere di questa nuova fase musicale iniziata una decina di anni fa. Il lungo brano per coro e orchestra è un tragico in una maniera dolce, completamente umana eppure ricco di una tensione verticale che ricorda il Bach dei mottetti o il Mozart dell’Ave Verum. Ci sono echi di tintinnabulum, la tecnica compositiva “matematica” e rabdomantica, che lo stesso compositore ha messo a punto, ma c’è una sintesi straordinaria di un viaggio musicale alla ricerca di un Dio che non conosce né tempo, né spazio. Si direbbe quasi un disco sincretico, che nel suo essere commissionato dalle capitali europee del 2010 (Tallin e Istanbul), sembra voler metter accordo tra canto latino, stile ortodosso e visioni interiori in un tempo lento aperto a meditazioni, ma anche a qualche strattone dell’animo (si veda il crescendo della seconda metà, con i violini che vanno in una direzione, mentre le voci maschili sembrano incapaci di staccare l’ombra da terra). Ci sarebbero mille altre sfumature della musica di Pärt, che emergono anche dalle altre composizioni che completano il programma: Beatus Petronius per due cori e orchestra, una Salve Regina per coro, celesta e orchestra; Statuit ei Dominus per due cori, legni e archi; L’Abbé Agathon per soprano, baritono, coro femminile e orchestra; oltre a due ninne nanne estoni. La registrazione nella chiesa di Niguliste, con i suoi echi naturali, non fa che accentuare il fascino degli improvvisi vuoti del Lamento, sottolineando l’universalità di queste note. (7.7/10) Marco Boscolo
preferendo concentrarsi sulla natura stessa del suono. E’ proprio in questo aspetto, cioè nel suono, la potenza di un album che a livello di struttura non ha la pretesa di essere un equivalente degli Anti Pop Consortium. Un possibile nome di riferimento potrebbe essere il Dj Shadow del periodo UNKLE, soprattutto prendendo in considerazione brani come la riuscita Grida o muori, caratterizzata da un approccio solo apparentemente semplice. La versatilità cui fa riferimento il titolo dell’album si palesa in maniera evidente nella capacità di Mess Too di adattarsi perfettamente ai vari ospiti, dote che emerge nelle tracce che vedono protagonista Naga con il suo delirante eloquio inquisitorio (a leggerlo così sembra brutto, ma in realtà è ciò che in altra sede potrei definire una figata), o in Adriatic bora, con la partecipazione di Sandro Phogna e Cuba Cabal. In questi brani, partendo da delle semplici strofe che potrebbero finire in una
qualsiasi posse cut, soprattutto per l’esigua durata, il produttore di Termoli riesce a tirare fuori delle vere e proprie canzoni con una dinamica notevole. Più in generale, si ammira di questo lavoro la volontà di approcciarsi alla costruzione del beat prendendo in considerazione ogni tipo di input, evitando la facile strada del sample funk/ soul e della ciclicità del loop. L’unica cosa che potrebbe lasciare l’ascoltatore più esigente un po’ perplesso è il già citato disinteresse per la contemporaneità, per cui non dedicatevi a una ricerca di suggestioni tipiche del nuovo hip hop astratto degli ultimi cinque anni, siamo dalle parti di un progetto alla Handsome Boy Modeling High School con una pericolosa propensione al rumore prodotto dalle fonti più disparate (su You Tube è possibile persino vedere Mess Too al lavoro con dei controller creati da lui stesso partendo da dei joypad), con punte di metallaggine miracolosamente tenute a freno. Uno dei best kept secret italiani, 47
per fortuna o purtroppo. (7.5/10) Sebastian Procaccini
Al Doum & The Faryds - Positive Force (Black Sweat, Dicembre 2013) Genere: spiritual etno-psych Suonare una sorta di etno-world terzomondista ma col piglio di una “noise” band, senza cioè tirar fuori annacquata robetta new age o inoffensiva musichetta da non-luogo. Questo è ciò che fa Al Doum & The Faryds, sestetto milanese formato da Domenico Davidini, Johnny Serpico, Filippo Ferrari, Riccardo Vincentini, Stefano Tamagni e Lorenzo Farolfi, che è facile da subito accomunare alla congrega messa su da Stefano Isaia aka Gianni Giublena Rosacroce con La Piramide Di Sangue. Troppo facile e scontata, però, l’assonanza se è vero che i Faryds girano da parecchio e Positive Force è il loro secondo album lungo. Quaranta minuti scarsi di “ethnic sounds” e “psychedelic music”, per loro stessa ammissione, che sorprende per la capacità di creare mondi nuovi con una sapiente mistura di musica da trip: cosmico alla maniera del kraut meno convenzionale (se tale potesse definirsi il kraut), spirituale alla maniera del jazz dei neri, avventuroso e sognante come quello del maestro riconosciuto Sun Ra. Nomi da tirare in ballo ce ne sarebbero eccome, dagli Agitation Free alla “new entry” Omar Souleyman, dagli ultimi Om a molti degli intrippati made in Italy che abbiamo incontrato ultimamente, ma la musica dei sei si regge benissimo anche senza impegnativi paragoni, tanta e tale e la forza con cui viene maneggiata la materia. L’inaugurale Sinai ha la vorticosità delle chitarre e l’esotismo da viaggio del leading sax, la muscolarità delle percussioni e l’ascetismo spirituale delle atmosfere, gira di qua e di là dal Mediterraneo, affonda lo sguardo su epoche passate e presenti, il qui e l’altrove, noi e l’altro. Ribadendo per l’ennesima volta - l’ultima fu in occasione di Goat e Spaccamombu - la capacità della musica, di “certa” musica, di varcare confini e superare barriere, in nome di un flusso primordiale e riconoscibile in ogni tempo. (7.3/10) Stefano Pifferi
Alice Russell - To Dust (Tru Thoughts, Febbraio 2013) Genere: pop soul Alice Russell la conosciamo per il supersuccesso di Pot of Gold del 2008. In quel disco aveva utilizzato le strutture 48
del soul mainstream di Aretha Franklin e le aveva fatte convogliare nel pop filtrato da una sensibilità retrò anni 50-60, che da lì in poi sarebbe diventata pane quotidiano di spot, revival e muzaks varie. Risultato: uno zilione di dischi venduti, i critici che acclamano e la ragazza che sale nel gotha delle voci soul mondiali. Oggi che la Winehouse ha lasciato un’immensa eredità da colmare e che Adele con la sua poshy waspness vende per due anni consecutivi più di tutti in Inghilterra, Alice Russell esce dalla facile ripetizione del successo e fa la mossa di tornare ai ruvidi amori di gioventù, cioé il blues e il rock, grazie alla mano del fido produttore TM Juke. Non si dimentica comunque del soul e mescola infatti le istanze caleidoscopiche dell’esordio Under the Munka Moon (2004), che raccoglieva singoli eterogenei e diversi modi di interpretare la blackness, con la maturità di una carriera arrivata al quinto album (sesto se consideriamo la collaborazione con Quantic in Look Around The Corner). Che fosse capace di trasformare la voce a seconda delle richieste, l’avevamo capito anche dalle collaborazioni su piani apparentemente senza punti di intersezione: Daddy G che le chiede di cantare sul main stage del Big Chill nel 2006, Mr. Scruff che le dà il featuring sull’album Ninja Tuna, l’incontro con le atmosfere cubane nel già citato album con Quantic e last but not least la collaborazione con David Byrne e Fatboy Slim nella traccia Men Will Do Anything su Here Lies Love. L’adattamento ad un tono ruvido e di pronta beva svecchia la forma standard della canzone blues ed esalta la vocalità della Russell. In A To Z si sentono i forti richiami al gospel, Heartbreaker (primo singolo estratto) è già pronto per sbancare le classifiche, la sua controparte Heartbreaker Pt. 2 starebbe bene in un disco di Jack White per l’immediatezza ed il fondo 100% bluesy, For A While va a parare su quel sentire nu-soul Ninja che ci aveva esaltato nell’ascolto di Andreya Triana, Hard And Strong fa il verso a certe atmosfere à la Emeli Sandé (scommettiamo che sarà il secondo singolo?), la titletrack e Citizens sono pura energia Winehouse, I Loved You rispolvera il gospel di Aretha attualizzandolo con le tipiche malinconie pop-now d’albione, Twin Peaks è un gioellino per balletti da palco in rigoroso tubino nero. Se cercate il disco che media perfettamente tra pop e soul, tra classifica e nicchia, tra sputtanamento e riconoscimento, l’avete trovato. Alice Russell è l’in medio stat virtus del soul contemporaneo. Una a cui non puoi voler male, perché ha una voce che è un gioiello, ma di cui non ti puoi nemmeno innamorare, perché è già maschera cristallizzata di un modo di porsi da star falsificante. La sua voce è l’esatto “sign o’ the times”, come diceva
Baustelle - Fantasma (Warner Music Group, Febbraio 2013) Genere: pop, italiana Basta un colpo di bianco mantello e il Fantasma si porta via tutto, facendo evaporare in pochi istanti quasi ogni produzione italiana degli ultimi anni, a partire da quelle di chi lo ha evocato, i Baustelle. Si tratta, anzitutto, dell’inusuale scelta di un linguaggio, il concept album, magia letteraria che affonda le proprie radici negli anni ‘70 e che allontana la musica d’autore dal pop e dall’immediatezza. Il concept è un linguaggio musicale che richiede a chi ascolta una cura profonda per il dettaglio, una capacità e un’attenzione che gli permettano di ricostruire un disegno musicale e linguistico spesso ampio e complesso unendo tutti i puntini: le canzoni del disco. I Baustelle provano, del tutto anacronisticamente, a lanciarci questa sfida, affrontando in diciannove pezzi il tema del tempo, quasi in ogni sua declinazione: i mali del nostro tempo, il tempo che scappa, il tempo sociale e il tempo del singolo, il tempo dell’amore e di tutti gli affetti, il tempo sulla terra e il tempo dilatato, quello di ogni forma di fede che culmina poi in un’idea di eternità. Sono le musiche, in Fantasma, a dare il giusto peso a una tematica così monumentale dal punto di vista strettamente letterario: un’orchestra di sessanta elementi che dalle viscere di Breslavia, in Polonia, si presta all’interpretazione di quello che è il vero corpo dell’opera: le partiture straordinarie a metà tra Mahler e Stravinskij stese da Francesco Bianconi e, in primis, da Enrico Gabrielli. Siamo di fronte a un disco dalle radici infinite e dalle altrettanto infinite prospettive: emerge sin dai titoli di testa un Morricone più che mai oscuro, quello di L’uccello dalle piume di cristallo; si apre in un solo pezzo, Cristina, allo Scott Walker delle cavalcate e insieme all’Endrigo di Back home someday o - e questo persino nel modo inconsueto di capovolgere l’ordine dei versi e del discorso - al Celentano di Storia d’amore (“amici dal fottuto giorno in cui praticò l’amore/ la tua amica, la migliore. e lo praticò con me”). Più di ogni altri, però, il fantasma che appare è quello di Fabrizio De André, di un De André preciso, forse il più difficile, il più letterario e quello, non a caso, dei concept album: Storia di un impiegato e Tutti morimmo a stento. È da lì che viene il cantato solcante di Bianconi, quella vocalità che taglia la tela del silenzio e insieme del suono sinfonico, quel recitato travestito da cantato che, come quello di quegli album, ci offre una visione precisa dello stato attuale del tempo e insieme alcune possibilità di stravolgimento totale, destrutturazione visionaria dello schema sociale e politico e delle tensioni quotidiane dell’intimo umano. Ecco che Fantasma è quindi la reiterata e vertiginosa visione di una catastrofe apocalittica che termina con la definitiva estinzione umana da questo nostro mondo di morte, affinché si approdi a una pace finalmente naturale ed eterna (Primo principio d’estinzione, Secondo principio d’estinzione, Maya colpisce ancora, L’estinzione della razza umana). Permane quindi un’idea già presente ne I mistici dell’occidente, disco in cui Bianconi tendeva a suggerire, per la verità ponendosi a volte in maniera fastidiosa qualche sfera più in alto dell’ascoltatore, nuovi modi di calarsi nel reale. I ripetuti “bisogna” e “dobbiamo” però, in Fantasma, sembrano arrivare da una voce finalmente matura, quella di un uomo che col tempo ha fatto conti, che conosce il senso dell’arresa, del dolore non sottile della maturità (Il futuro) e sceglie di viverlo appieno e di scovarne all’interno sfumature felici (Radioattività). Fantasma è un libro orchestrato e come tale va affrontato, ricordando comunque che De André resta un riferimento, un’aspirazione, e che non mancano alcune cadute post-adolescenziali tipiche dell’immaginario baustelliano (Monumentale, in parte, e Contà l’inverni, in toto). L’imponenza di questo disco è, tuttavia, totale, monumentale, vecchio palazzo sovietico nel centro di Mosca o grattacielo sventrato che fa girare la testa. La sfida è immensa per un medio ascoltatore di pop italiano perché siamo di fronte a qualcosa di essenzialmente colto e lontanissimo dagli approcci del nostro tempo. I Baustelle questa sfida l’hanno vinta, abbandonando grazie alla straordinaria preparazione e genialità compositiva di Enrico Gabrielli, i terribili muri di chitarre che affliggevano Amen e devastavano I mistici dell’occidente. Lo fanno salendo di livello, cedendo il passo alla musica concreta, a Wagner, a Ligeti e a un esplicitissimo Bolero di Ravel. Il risultato è un album che rade al suolo le incertezze più o meno profonde dei loro ultimi tre dischi, la perfetta costruzione di un’opera schiacciante, emotivamente tagliente, a partire da quella tremante e oscura Nessuno fino all’abbandono totale della fisica classicità di Radioattività che cristallizza, negli ultimi due versi, tutto il senso di questo bel lavoro. (7.7/10) Giulia Cavaliere
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il buon vecchio Prince. Per ora noi cogliamo volentieri l’attimo. (7.3/10) Marco Braggion
Anthony David - Love Out Loud (eOne Music, Gennaio 2013) Genere: Neo Soul Se l’RnB è riuscito a entusiasmarci nel 2012 grazie a una serie di artisti giovanissimi e visionari (al punto che pure Toro Y Moi ha deciso di prendere lezioni da Frank Ocean e The Weeknd), Love Out Loud è una doccia fredda che ci ricorda quanto retrogrado possa essere questo genere. Anthony David ha una pluriennale carriera alle spalle, ormai al suo quinto album, e ha raggiunto un minimo di notorietà nel 2008 grazie al suo duetto con la vocalist India.Arie. Words, con il suo kitschissimo piano e armonie vocali richiamava il più pacato Neo Soul degli anni 90 come quello delle En Vogue o dei Boyz II Men. Anthony non si discosta minimamente da questa formula, e il risultato è un album blando e noioso come pochi, con basi così datate da essere capaci solo di evocare ricordi della pubblicità del Nescafé della mia infanzia. L’unica canzone minimamente memorabile, grazie al dialogo ammiccante che la chiude, è Official. Imbarazzante quanto vedere il proprio padre flirtare con la salumiera. Nessuno si aspetta da Anthony che prenda spunto dalle sonorità più forward di artisti come How To Dress Well o Willis Earl Beal, ma in Love Out Loud dimostra di non aver nemmeno appreso la lezione di Erykah Badu o John Legend. Non riesco a immaginare nessuna ragione per cui chiunque non faccia parte del target di Fifty Shades of Grey debba ascoltare questo disco. Soprattutto ora che c’è pure la ristampa di Voodoo di D’Angelo. (3.8/10) Antonio Cuccu
Apparat - Krieg Und Frieden (Music For Theatre) (Mute, Febbraio 2013) Genere: soundtrack Da sempre sinonimo di duttilità artistica, il berlinese Apparat, esce ancor più dai club per andarsene a teatro. I presupposti c’erano tutti: dopo la deriva dream/shoegaze - in convergenza parallela con Thom Yorke - dell’Apparat-band, il viaggio di Sascha Ring fuori dall’electro continua con una collaborazione a livello ancor più globale. Un album - non album - una soundtrack - non soundtrack - richiesta dal direttore teatrale Sebastian Hartmann per la sua ultima opera commissionata dal 50
festival dell’arte Ruhrfestspiele: un’interpretazione di Guerra e Pace, celebre romanzo di Lev Tolstoj. Il progetto per Ring nasce inaspettatamente senza un copione o qualsiasi altro input, ma da un War and Peace-trip in Thailandia su consiglio dello stesso Hartmann; viaggio nel quale l’artista berlinese leggerà per intero l’opera Tolstoy-iana e inzierà ad abbozzare la sua composizione. Pur senza riferimenti espliciti non è da escludere un’ispirazione ricavata, oltre che dall’intimismo di letture personali, anche dalla commemorazione Tchaikovsky-iana alla grande madre Russia per la resistenza napoleonica di Overture 1812 o dai maestri degli ambienti minimali come Steve Reich, dove l’enucleazione “music for” ne pare un chiaro omaggio. Una volta tornato e rifugiatosi con un ensemble di 30 musicisti tra cui Philipp Timm e Christoph Hartmann dell’Apparat-band, Ring dà il via allo studio e alle registrazioni in una fabbrica abbandonata. Dopo la (mezza) delusione di The Devil’s Walk questa volta Apparat centra il bersaglio con componimenti carichi di trasporto dai cananoni profondamente classici, cogliendo a pieno la “tensione” Tolstoy-iana. Siamo di fronte ad un tutt’uno pervaso da un senso di imminenza e di impotenza nei confronti del destino, abbandonati al melanconico adagio per archi di ‘44 - ‘44(noise version) fino al climax estatico della triade Tod - Black Page - PV. Una chitarra classica entra in gioco nella prima versione della theme song K&F Thema a scandire un andamento ticchettante che segna inesorabile lo scorrere del tempo. Archi, pianoforte e percussioni collimano nel finale su Austerlitz, in un lavoro che ha visto però qualche caduta di stile sui due pezzi cantati Light On e Violet Sky (presentato come singolo). Non facente parte dell’opera treatrale, l’idea di inserire un singolo catchy è quanto meno di pessimo gusto, ma considerata la caratura dell’album è una macchia tutto sommato perdonabile. Ring, con il suo disco “un po’ strano, con meno beat e un sacco di drone”, si rivela artista a trecentosessanta gradi, capace di evolversi e di rimettersi in gioco con nuove attitudini, confermandosi un romantico in continua transizione. Magari aveva proprio bisogno di un’ ispirazione poetica.. (7.3/10) Davide Nespoli
Arbouretum - Coming Out Of The Fog (Thrill Jockey, Gennaio 2013) Genere: rock Il gruppo di Dave Heumann continua con successo quella che non appare una sfida alla tradizione, quanto un’intelligente opera di aggiornamento. Che di per sé non è affatto poco, anzi. I quattro di Baltimora non cercano
Blue Willa - Blue Willa (Trovarobato, Gennaio 2012) Genere: avant punk Da un lato c’è Carla Bozulich e l’attenzione tutta italiana nei suoi confronti, ricambiata da una serie inesauribile di live su tutto il territorio nazionale. Dall’altro ci sono Serena Alessandra Altavilla, Mirko Maddaleno, Lorenzo Maffucci e Graziano Ridolfo, che dal 2004, con il nome di Baby Blue, battagliano sui palchi più desueti d’Italia, nel più classico dei pellegrinaggi rock, quelli che dal garage portano ai tour carbonari e militanti degli ultimi figli del punk. L’incontro, in quel di Firenze, tra la musicista californiana e la band di Prato, porta ad un turning point fondamentale per quest’ultima, che ne esce con una pelle completamente nuova, un sound rivisitato e un disco che rappresenta il primo passo verso un percorso del tutto rinnovato. La Bozulich registra Blue Willa insieme a Davide Cristiani presso il Bombanella Soundscapes di Maranello (MO) tra marzo e aprile 2012, con successive puntante in fase di mastering nientemeno che a Dharamsala in India e al Jitterbug Studio di Parigi. Il suono finale è denso, carismatico e ad altezza d’America, in un modo che va a fare il paio con Memories For The Unseen dei Mimes Of Wine rappresentando un po’ la punta di diamante di un modo di suonare rock, in Italia, finalmente sintonizzato sull’attualità globale del post-2000. Ergo i Blue Willa escono allo scoperto unendo il proprio retrogusto punk-blues con le manie apocalittiche della Bozulich del dopo Evangelista. Il suono dei Baby Blue aveva già ascendenze traditional a sufficienza per tirare in ballo i vecchi Geraldine Fibbers e Scarnella. L’unione con le trovate della musa californiana porta a brani come Eyes Attention e Fishes, che sono un po’ come suonerebbe Evangelista avendo venti anni di meno: tirate visionarie, ritmica irregolare, cori di ubriachi, urla teatrali e chitarre calde, acide, avvolgenti. Tambourine è il caso emblematico della prima parte del disco. Un brano che prende a schiaffi i vecchi Gowns, animato da tutta una teatralità inedita oltremanica, forte com’è di ascendenze mediterraneo-balcaniche. Quello dei Blue Willa è anche un suono che si riallaccia molto ad un’idea di indie rock anni ‘90. Moquette è una ballata sbilenca che ricorda i primi Devics, di cui i Blue Willa riprendono un gusto retrò per le torch songs; altri vertici sono la multiforme Rabbits, con la Altavilla che si addobba a regina di un regno dimenticato o abitato da fantasmi, e la magnifica Cruel Chain, che unisce Stooges e Little Annie. Un solo disco forse è poco per farsi un’idea di come procederanno d’ora in avanti i quattro Blue Willa e, del resto, la longa mano della Bozulich soprattutto di tutta la sua effettistica in fase di mastering - è forse troppo evidente sul disco. Con un esordio del genere, comunque, c’è da essere quanto meno ottimisti. (7.3/10) Antonello Comunale
suoni di tendenza e neppure un compiaciuto revival: nei solchi di questo quarto album (quinto se si conta lo split Aureola), le linee del cantautorato rock classico e della sua mutazione spettrale degli anni ‘90 (quella dei Will Oldham, dei Mark Linkous, dei Jason Molina) si sovrappongono con naturalezza a traiettorie musicali più eccentriche quali lo stoner e lo slow core, dando come risultato una musicalità fluida, acida e tagliente come la sei corde del leader. Il folk d’autore va a braccetto con il fuzz rock più ipnotico, anche per merito di una chitarra nervosa e impressionista che nell’assolo di Renouncer mi ha ricordato addirittura i Thin White Rope. Se i brani possono suggerire molti accostamenti inconsueti - il Neil Young virato stoner di The Long Night, i Black Sabbath e gli Shearwater
di The Promise, i Low e i Pink Floyd della title track -, tirando le somme - senza tralasciare il quid dark blues di All At Once, The Turning Weather o i languori country di Oceans Don’t Sing - la personalità degli Arbouretum e la loro maturità risultano indiscutibili. (7.2/10) Tommaso Iannini
Asaf Avidan - Different Pulses (Polydor, Gennaio 2013) Genere: pop Nato a Gerusalemme oramai 33 anni fa, Asaf Avidan faceva il grafico, oltre che suonare e pubblicare alcuni dischi con i suoi The Mojos. Ma sarebbe mai bastata la provenienza esotica per farne un fenomeno internazio51
nale quale oramai è diventato? Probabilmente no, ma ci si è messo di mezzo un remix di un brano (One Day) realizzato da un oscuro dj tedesco. E allora le cose sono cambiate definitivamente. Abbandonati i The Mojos, qui Asaf suona quasi tutto da solo ed esordisce in proprio con un disco che sta facendo sputare votoni da tutte le parti e gli ha già garantito un tour da sold out in mezzo continente. La particolarità del suono di Asaf Avidan sta tutta nella sua voce del tutto particolare, come se il timbro graffiante di Macy Gray si fosse fuso con l’angelicità di Antony, seppure senza davvero avvicinarsi a quella profondità espressiva. Con tale strumento donatogli da madre natura, Asaf riesce a creare atmosfere suggestive che si affacciano tanto nel cantautorato pop-rock europeo, quanto nel post-trip hop. A noi il personaggio ricorda moltissimo un fenomeno da una stagione come Ké, anche per lo Strange World che si porta dietro. Per l’uso intenso dell’eco per la voce vengono in mente anche i primi Portishead o il Tricky in bianco e nero di un famoso spot tv. Non vi ritroviamo però lo spessore del grande artista che qualcuno vi intravvede, quanto piuttosto l’onesto artigiano che con il mestiere riesce a scrivere brani suggestivi come Love It Or Leave It o il downtempo di Conspiratory Visions Of Gomorrah. Apprezzabili pure gli inserti mediorientali di 613 Shades of Sad, come la cinematica titletrack. Lo ritroveremo presto in una campagna pubblicitaria. E non ci sarà niente di male. (7/10) Marco Boscolo
Beach Fossils - Clash The Truth (Captured Tracks, Febbraio 2013) Genere: surf-pop, post-punk Seppur unica annata dall’esordio a non averli visti attivi discograficamente parlando, il 2012 è stato determinante per la storia dei Beach Fossils. Abbiamo assistito alle prove dei side project di Zachary Cole Smith e John Penã (rispettivamente DIIV e Heavenly Beat), al loro successo (superiore a quanto mai racimolato dalla band madre nel primo caso, oltre le aspettative nel secondo) ed, infine, al doppio abbandono all’insegna delle ambizioni del caso. Così, a fianco del titolare Dustin Payseur è rimasto il solo batterista Tommy Gardner, eppure il nostro non pare particolarmente intimorito dai movimenti in formazione. Punta anzi in alto, fissando come obbiettivo del nuovo lavoro quello di catturare urgenza e componente umana dei celebri live shows. Diciamolo subito: sono velleità. Più corretto sarebbe parlare di ritorno alle origini pre-Beach Fossils, ovvero al periodo in cui Payseur (come il 99% dei possessori 52
di chitarra in Brooklyn) militava in collettivi punk/postpunk. I segnali sono d’altronde agilmente coglibili: l’ingaggio in cabina di regia di Ben Greenberg (The Men) con la richiesta di aumentare la grana piuttosto che la fedeltà; la spinta tout court su strutture circolari ed il mordente - mai così intenso - riservato a basso e percussioni; lo stesso artwork di copertina. E quando l’escamotage è tutto fuorché celato (Generational Synthetic, Caustic Cross), la proposta addirittura sorprende. Peccato però si preferisca far pendere nuovamente l’ago della bilancia verso l’arcinoto brand surf-pop dallo shimmering jangle. Queste nuove jam, vuoi per ritorsione delle scelte in produzione, vuoi per un generale senso di reiterazione che sa di pilota automatico (o eccessivi riguardi alla fanbase) finiscono per non risultare meno opache di quelle del debutto. Non basta l’aggiunta di un’inedito secondo guitar-tone a far parlare di progresso evidente, in specie ritrovando quella Shallow - rilasciata su 7” lo scorso anno e qui rimasterizzata - a ricordarci come, con l’apporto degli ex, quel progresso fosse già ben avviato. Allo stesso modo non avrebbe probabilmente guastato osare di più (fare i DIIV?) sulle tracce strumentali (Modern Holiday, Brighter, Ascension), mentre alla parentesi dream-pop con l’ennesimo feat. di Kazu Makino (In Vertigo) continuiamo a preferire quella lunga un EP (What A Pleasure, 2011) e con la comparsata di Wild Nothing. A chiudere il parco rammarici: lo slancio dal furore prossimo ai Cloud Nothings che risponde al titolo di Careless, emblema di quanto, con più ponderate mediazioni e radicale coraggio, la direzione pensata da Payseur avrebbe comunque potuto concretizzare una transizione di sorta. Di transizione Clash The Truth porta invece soltanto la natura, risultando, a conti fatti - e con le attenuanti del caso (lo studio di registrazione distrutto dall’uragano Sandy) - tra le uscite Captured Tracks più deboli da tre anni a questa parte. (6.3/10) Massimo Rancati
Ben Ufo - Fabriclive 67 (Fabric, Febbraio 2013) Genere: techno Bass Ben Ufo non produce musica - lo dice con orgoglio il cofondatore di Hessle Audio - ma si limita a mixarla. Pattern su Ableton e software di produzione, macchinari vari di controllo che non siano piatti e mixer, sono a uso esclusivo di Pangaea Ramadanman e degli altri soci dell’avventura Hessle. Ben Ufo mette i dischi e li fa girare dosandoli sapientemente, trovarlo sul Fabriclive n 67 è una cura zuccherina ai giorni di freddo. Appassiona
Cesare Basile - Cesare Basile (Urtovox, Febbraio 2013) Genere: cantautorato rock Un disco omonimo non è mai per caso, soprattutto per artisti come Cesare Basile. È oltretutto un lavoro che ariva a pochi mesi dall’ottimo Sette pietre per tenere il diavolo a bada, a suggellare quel senso di radici recuperate, di cerchio chiuso tra diaspora rock e ritorno al folk terrigno dell’amata/odiata Sicilia, ai piedi dell’Etna che lo vide nascere e lo ha visto tornare. È il suo lavoro più cantautorale, dove lo spasmo cupo blues rock s’impasta con la brama di narrazione, l’elettricità scomposta, selvatica, bieca come ombra dell’incedere acustico impreziosito di cento voci percussive, squillanti, legnose. Un suono abitato da spiriti e tremori, memorie rabbiose e inquietudini sanguigne (collaborano tra gli altri il violinista Rodrigo D’Erasmo ed il multistrumentista Enrico Gabrielli). Due anime che diventano una, il rocker letterario dalla visione espansa di Parangelia (echi Joy Division tra fremiti d’archi, fiati distorti e sfrigolii sintetici) ed il trovatore drammaturgico di Canzuni addinucchiata (scritta assieme alla conterranea Dina Basso, poetessa classe ‘88) con l’idioma catanese a conferire tragicità solenne alla ballata. Quest’ultima scelta poetica più che espediente, peraltro ripetuta in oltre metà scaletta: ne traggono indubbio vantaggio la tesa L’orvu e la struggente Maliritta carni (splendido l’arrangiamento cameristico). D’altronde episodi in italiano come Caminanti e Sotto i colpi di mezzi favori sono quasi-talkin’ tra sdegno e commozione in cui avverti palpabili retaggi De André e De Gregori, quegli stessi che la splendida Nunzio e la libertà rielabora con la fosca intensità John Parish che conosciamo. Non bastasse, nell’edizione in vinile (per la Viceversa Records, di cui Cesare è direttore artistico) possiamo trovare un disco di bonus, Le ossa di Colapesce, contenente versioni acustiche - assieme intime e lancinanti - di brani noti, tra cui le notevoli All’uncino di un sogno, Finito questo e Dal cranio. Credevamo di esserci già imbattuti nella maturità di Basile, ma frutti succosi continuano ad arrivare. Non saranno gli ultimi. (7.3/10) Stefano Solventi
“MR dj” per come riesce sapientemente a dosare “ritmo pausa basso break” proprio come se fosse una nenia, mantenendo un solfeggio techno di base che consente poi divagazioni verso la techno agli antipodi del garage (consexual anno 1993), Bass, UK Bass, house. Tutte soluzioni stilistiche stupefacenti. Trovare Matthew Herbert (con una traccia del 1996 inclusa nell ep Part Four) su un remix del Fabric è come invitare Syd Barrett al Festival di Sanremo. Nella sua dj bag trovano spazio, tra gli altri, Mr. Fingers (I’m strong nella versione strumentale, un pezzo datato 1988 che è storia della house), Blawan, Floating Points, Fluxion, tutti perfettamente inseriti, tutti perfettamente incastrati, in una sapiente architettura turntabilistica. Ventotto tracce che suonano come un unico pezzo, ventisette convincenti e preziosi passaggi sul mixer, perfettamente armonizzati, che proiettano Ben Ufo di diritto insieme a Jackmaster, Shackleton e Photek tra quelli che possono essere definiti come “superior quality” djs (7.4/10) Mirko Carera
Bianco - Storia del futuro (INRI Records, Febbraio 2013) Genere: pop-rock d’autore Alberto Bianco - o, più semplicemente, Bianco - è un giovane cantautore torinese già incontrato ai tempi di Nostalgina, album di debutto che aveva visto, tra gli altri, AntiAnti (moniker di Dade dei Linea 77) nel ruolo di produttore e Gionata Mirai in veste di ospite. Bianco lo ritroviamo ora con Storia del futuro, sophomore di undici tracce già anticipato da un EP omonimo. Il qui presente è un disco che continua sui binari del pop-rock cantautorale, come nell’iniziale La notte porta conigli o nella title-track. Brani resi spendibili dalla verve frizzante dei ritornelli e in bilico tra elettricità ed elettronica, complice anche la lezione dei Subsonica. La solitudine perché c’è ospita Tommaso Cerasuolo dei Perturbazione ed è un buon esempio di quella malinconia pop à la Dente che popola le liriche di tutto l’album (Il bosco dell’amore, Mi piace come ridi tu) e nella quale Bianco mostra di trovarsi perfettamente a suo agio. Il tutto nasce da racconti presi direttamente dal quotidia53
Cult Of Luna - Vertikal (Indie recordings, Gennaio 2013) Genere: classic cult Personalmente avevo perso le tracce di questa formazione svedese dopo quel Salvation targato 2004, zenit discografico personale, e perfetto passepartout per il salotto buono del post-metal-hardcore, in compagnia dei vari Isis, Pelican e Neurosis. Mi sono dunque rispolverato i successivi - e tutto sommato buoni - Somewhere Along The Highway (2006) ed Eternal Kingdom (2008) per arrivare con le idee più chiare a Vertikal, un album che pur non proponendo sostanziali novità (parliamo di varianti casomai) è di fatto uno dei punti più alti della discografia Cult of Luna. Ancora una volta, come era successo per Eternal Kingdom, alla base c’è un concept e questa volta l’ispirazione viene dal Metropolis di Fritz Lang. Il sound si fa più industrial, grigio, in cui sintetizzatori ed elettronica assumono un ruolo più incisivo (basta sentire l’epica e suggestiva introduzione di The One - anche se forse più adatta a Blade Runner che a Metropolis - o il tenebroso incipit di Vicarious Redemption). Il resto è la riproposizione del sound Cult of Luna tirato a lucido: arrangiamenti che agiscono per sottrazione, chitarre equamente divise tra prog e hardcore, la batteria a veleggiare tra geometrie molto più Mogwai che Mesuggah. Insomma Vertikal ha le stigmate del classico per la band (I:The Weapon) pur con qualche lungaggine e alcune forzature come l’evitabilissimo passaggio dubstep nei 19 minuti di Vicarious Redemption. A ogni modo è un disco ispirato, con quel senso d’astrazione e intimismo che da sempre accompagnano il lavoro del gruppo. E’ quanto basta per mandare in brodo di giuggiole i cultori del genere e un ottimo approdo per curiosi e nuovi adepti. (7.3/10) Stefano Gaz
no, da parole d’amore e da quel malessere generazionale che avvicina in parte l’autore al canone di scrittura di Vasco Brondi. Nel disco c’è spazio anche per sonorità maggiormente rock - e non potrebbe essere altrimenti, vista la dichiarata ammirazione per Josh Homme dei Queens Of The Stone Age -, che si traducono negli echi ninenties di Scoria e Morto, mentre Quasi vivo, che chiude il disco, è uno degli episodi più sperimentali del lotto, con il banjo e la chitarra acustica da un lato e gli inserti beat dall’altro. Nel complesso, Storia del futuro è un album che mette in mostra buone capacità autoriali, andando di fatto a legarsi a quel neo-cantautorato oggi assai diffuso. (6.5/10) Giulia Antelli
Biffy Clyro - Opposites (14th Floor, Gennaio 2013) Genere: alt-rock/pop L’ascesa verso il successo dei Biffy Clyro è sintetizzabile graficamente dalla retta della funzione y=(1/3)x: album dopo album, ma mai troppo rapidamente, la band scozzese ha infatti guadagnato spazio, visibilità e airplay in
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modo implacabilmente costante.Se proprio si vuole cercare il punto di rottura tra una prima fase più coraggiosa e una seconda fase più accomodante, bisogna tornare indietro fino al 2007-2008, quando il quarto disco Puzzle - probabilmente il meno riuscito fino ad oggi - ha portato la band guidata da Simon Neil nelle zone alte della classifica inglese. In Italia, e in buona parte dell’Europa continentale, i Biffy Clyro sono invece arrivati al grande pubblico due anni più tardi grazie al più che dignitoso Only Revolutions e alle sue rock-ballads Many Of Horror e God and Satan. Il sesto sigillo, intitolato Opposites, è il classico disco che si carica della responsabilità di spezzare un percorso: scendere a compromessi è ormai una scelta praticamente obbligata (si pensi agli ultimi Kings of Leon), le pressioni si fanno maggiori e aumenta la possibilità di perdere i fan della prima ora e contemporaneamente di non riuscire a ripetere i risultati commerciali previsti. Risultato di una gestazione difficile e di una fase di registrazione “american dream” prolungata nel tempo, Opposites è un doppio atipico (esiste anche la versione singola da 14 tracce), composto da venti brani distribuiti equalmente in due capitoli: The Sand at the Core of Our Bones e The Land at the End of Our Toes.I
veloci fraseggi punkish di un tempo si fanno sempre più rari (Little Hospitals) e sono i passaggi d’ampio respiro in direzione stadio ad avere la meglio: l’insipida Black Chandelier strizza l’occhio al mercato americano ed è stata scelta - discutibilmente - come singolo, mentre altrove si affonda in un canonico pop-rock da telefilm alla Snow Patrol (Pocket) o in cheesy-sound un po’ troppo sfacciati (Opposite) che suonano soprattutto come tentativi di bissare quanto fatto dalle due rock-ballads citate in precedenza, nonostante un impatto melodico minore (The Thaw). Il fronte rock emerge nei riff math-angolari di Sounds Like Ballons (il chorus e il bridge tendono però ad appiattire il tutto) o nel tiro di scuola Foo Fighters di The Joke’s On Us, A Girl and His Cat o della pasticciata Modern Magic Formula, rimanendo sempre contestualizzati in memorie fine anni ‘90. Sottotraccia è presente anche un DNA al limite del proggy (e da qui probabilmente l’idea di realizzare un ambizioso doppio), tra latinismi inaspettati (Spanish Radio) e tempi non lineari (Victory Over The Sun). La carne al fuoco è indubbiamente tanta. Furbi quanto abili, Neil e i gemelli Johnston coninuano a con una personale ricerca compositiva che per forza di cose va di pari passo con un rock-FM talvolta impersonale, una sorta di strabismo artistico: un occhio punta verso l’arricchimento strutturale-sonoro (si pensi all’apoteosi scottish sul finale di Stingin’ Belle) mentre l’altro punta dritto alle classifiche, due direzioni che riescono a convivere per quanto... opposte. (6/10) Riccardo Zagaglia
Big Boi - Vicious Lies and Dangerous Rumors (Purple Ribbon, Dicembre 2012) Genere: Hip Hop E’ forse destino dei due André (André 3000 e Big Boi), meglio conosciuti come Outkast, quello di infrangere delle barriere. Con Stankonia portarono all’attenzione mondiale una scena, quella del Sud, fino a quel momento rimasta ai margini dell’atlante dell’hip hop che conta. Ci riuscirono offrendone una versione molto rieducata, una musica funk e psichedelica affiancata da rime di altissimo livello, del tutto diverse da quelle semplicistiche e volgari che si pensava popolassero la scena southern. L’ultimo tabù venne infranto dal debutto solista di Big Boi, Sir Lucious Lef Foot, che a gran sorpresa divenne uno dei più apprezzati dal colosso Pitchfork. Big Boi, il membro ritenuto più vicino allo stereotipo del rapper tutto culi e Cadillac, riuscì così a imporsi come uno dei re dell’hip hop senza liberarsi di questa fama ma, anzi, giocando con tali stereotipi per sovvertirli dall’interno.
Il tutto magnificato dall’idea ormai chiarissima che non avesse tecnicamente molti rivali nel flow. Dopo quel concentrato irresistibile tra brani dancefloor, erotomania e un sound plasticosissimo erede più di Prince che dei Parliament era chiaro che il seguito questo Vicious Lies - fosse atteso come un successo già conclamato. Purtroppo i risultati sono ben diversi: la voracità di Big Boi, spinta verso un connubio tra hip hop, indie, elettronica e una vasta gamma di collaborazioni di lusso, manca il bersaglio e, come evidente nei casi limite (le tre tracce in collaborazione col duo electropop Phantogram), i brani sembrano incidenti stradali tra l’elettronica spigolosa e futuristica di Josh Carter, i ritornelli malinconici e synth pop di Sarha Barthel e il rap dello stesso Big Boi. Neppure la comparsa in Lines del giovane re mida A$AP Rocky riesce a risollevare il livello: il pretty motherfucker regala probabilmente la peggior performance mai registrata. Altri punti dolenti sono Shoes for running (in collaborazione con Wavves e B.O.B.) e Apple of my eye che sembrano, rispettivamente, un b-side degli Animal Collective e uno di El Camino dei Black Keys. Più riuscite le tracce in collaborazione con Little Dragon: Thom Pettie, in cui compare anche Killer Mike (e si sente, non solo a livello di rap) Descending, morbido e sexy come amiamo Big Boi, e il dub(step) futuristico e distopico di Higher Res o episodi come The Thickets, In the A (con T.I. e Ludacris) e Raspberries, lontani dall’eccellenza ma senz’altro convincenti. Possibile che questo Vicious Lies and Dangerous Rumors sia più un quaderno di appunti per idee ambiziose ed eclettiche che una raccolta di brani riusciti? (6.4/10) Gianluca Carletti
Black Veil Brides - Wretched and Divine: The Story of the Wild Ones (Universal Republic, Gennaio 2013) Genere: lol rock In questi primissimi scorci del 2013 gli USA hanno dato il peggio che potessero offrire sul versante rock: i nuovi album dei tardivi crossoveristi Hollywood Undead (veramente terribili, statene alla larga) e dei teen-glamers Black Veil Brides. Wretched and Divine: The Story of the Wild Ones è il terzo album in studio dei Black Veil Brides, quintetto trash rock che da qualche anno sta provando a riportare in auge le pagliacciate glam metal, modernizzate dallo sfruttamento della peggiore musica “heavy” uscita nell’ultimo decennio. Siamo al limite del grottesco, del comico, e l’effetto-fa55
Gerry Read - JUMMY (FOURTH WAVE, Dicembre 2012) Genere: freestyle jazzyhouse Flying Lotus? Ne ha 29, Maya Jane Cole, 25, i due Raime poco più che vent’anni e la lista potrebbe allargarsi a dismisura. È ormai evidente come i fasci di luce degli “Dei dell’elettronica” siano più che mai puntati sui giovani, e non conta la gavetta, non conta la carriera, è tutto freschezza e stile, che sia elettronica o house poco importa. Non parliamo di House per la grande distribuzione à la Swedish House Mafia, trance da arena simil Tiesto o di un nuovo “alza popoli” dnb e dubstep come Madeon (il nuovo Skrillex? Staremo a vedere) con i loro enormi bacini d’utenza MTV generati, parliamo di protagonisti caratterizzati da altissima qualità produttiva e capacità di trendsetting. E in questo scacchiere non può mancare senz’altro Gerry Read, britannico, ventenne, la solita manciata di EP alle spalle, l’esordio su Dark Trax (Pattern Ep) immerso nel pantano post-dubstep tra burialize effect e dark garage, altre prove che suonano tra scruffy house e classic deep (Roomland su 2nd Drop Records o All By My Self/What a Mess su Fourth Wave), un’apparizione sul dj kick della citata Maya Jane, il reclutamento da parte della Delsin Rec. e ora l’attesissima pubblicazione sulla lunga distanza con Jummy (sempre Fourth Wave), uscita lo scorso dicembre e doverosamente recuperata. Il debutto comprende tredici tracce che taggare house sarebbe assolutamente limitante. Questa è jazz house, freestyle house, ancora meglio. Gerry manda a memoria le lezioni sul “suonato” di Mathew Johnson e Cobblestone Jazz e sulla “concreta” di Matthew Herbert approdando così a 4/4 dove il tipico house kick drum trionfante viene parcheggiato per i rullanti, i tom sordi e i piatti charleston (Jummy). In pratica, club music ricercatissima tutta filtri flanger sui synth e bassi, strascichi dub Villalobos e, ancor di più, uno studiato daftpunkismo in zona Homework che non è mai un semplice cut & copy (Be Pushing). Ciliegina? I “sabor latini”, destrutturati e messi di traverso. Poco altro da aggiungere se non, album bomba. (7.5/10) Mirko Carera
cepalm è lo stesso suscitato da quei film horror talmente brutti da strappare qualche risata (Shark Attack 3: Megalodon, ad esempio). Il concept alla base di questa sorta di rock opera - a corredo è stato realizzato anche il film Legion of the Black - è assolutamente agghiacciante: la storia dei “The Wild Ones”, ribelli impegnati a difendere i propri cuori, le proprie menti e i propri corpi dal nemico chiamato F.E.A.R. e, se ho capito bene, tutto ciò viene immaginato durante un trip mentale da una ragazzina fan sfegatata della band, per questo incompresa e rinchiusa dai genitori in un manicomio. Insomma, tra look glam/fake-emo, concept e derive deliranti in zona Tokio Hotel, i Black Veil Brides - ricordiamolo, hanno fatto sold out al Tunnel di Milano l’anno scorso - non sono altro che una delle tante band destinate esclusivamente a quei fanatismi adolescenziali che vanno a braccetto con la Twilight-saga. Ma esclusa la facciata, la musica com’è? Beh, va di pari passo. Diciannove brani - quattro dei quali sono intermezzi/trasmissioni della F.E.A.R. - che si muovono tra riff possenti glam-hard e stacchi di metalcore melodico. A volte vengono in mente i peggiori Avenged Seven56
fold, altre volte invece i F.E.A.R. prendono le sembianze di Nickelback & simili (New Years Day, Devil’s Choir). Rock zarro, plastic-goth, single di cartoni animati giapponesi (Days Are Numbered), chitarre settate in zona pop-metal anni ‘80, ma del “Social Distortion meets Metallica” dichiarato in pre-release non c’è praticamente traccia. Album e band impresentabile sotto tutti i punti di vista. A quasi dieci anni dall’esplosione mediatica/sociale dell’emo-non-emo e del metalcore-non-metalcore siamo ancora qui a dover fare i conti con certe realtà. (3/10) Riccardo Zagaglia
Bonnie “Prince” Billy/Dawn McCarthy - What The Brothers Sang (Domino, Febbraio 2013) Genere: pop/folk Per Bonnie “Prince” Billy sembra il grande momento per le valutazione di una intera carriera. Dopo un’autobiografia, con un ep di auto-cover (Now Here’s My Plan), ed essersi abbeverato alla fonte del folk anglosassone con i Trembling Bells di The Marbles Downs, il musicista torna
a collaborare con l’amica Dawn McCarthy per coverizzare la passione che lo accompagna fin da bambino: gli Everly Brothers. Se recentemente lo avete visto dal vivo, sapete che prima dei suoi show talvolta si presenta con un set di cover proprio dell’amata band, per una versione di Bonnie “Prince” Billy da karaoke ignorante e molto divertente, sia per chi la suona che per chi assiste. Qui però la faccenda è diversa, perché ad accompagnare Bonnie c’è la grazia di Dawn e il cuore dell’operazione è l’incontro armonico delle due voci, già al centro dell’intera estetica di Don e Phil Everly. Le canzoni del duo sono una delle colonne della cultura popolare bianca americana, almeno quanto lo sono le canzoni delle tradizioni country e bluegrass, e hanno avuto un impatto enorme, difficilmente misurabile, nelle generazioni successive che se li sono ritrovati alla radio in heavy rotation per decenni. Registrate con una pletora di amici, che, a loro volta, immaginiamo devoti fan degli Everly Brothers, queste take sono un atto d’amore prima che un filologico tributo. Impressiona l’equilibrio tra Hey Jude e country orchestrale di Omaha o la delicatezza con cui le voci di Bonnie e Dawn si incontrano in Devoted To You. O ancora la mezza citazione Presley-iana di Milk Train o il rock sudista di Somebody To Help Me. Avvicinando la base dei fan agli originali, quest’opera d’acculturamento musicale è senz’altro benvenuta Allevierà, infine, l’attesa per il prossimo album di originali. (7.2/10) Marco Boscolo
Brothers In Law - Hard Times For Dreamers (We Were Never Being Boring Collective, Gennaio 2013) Genere: dreamgaze Con buona pace della scena alternativa all’italiana pompata da alcuni magazine, le realtà più interessanti, esportabili e soprattutto contemporanee uscite negli ultimissimi anni dal nostro paese sono altre: ad esempio i beat ambient-techno dei Voices From the Lake, il crazy-pop dei Drink To Me, i risvolti minimal soulstep degli Iori’s Eyes e il revivalismo wave-gaze-dreamy dei Be Forest. È la chitarra feedbackata di Nicola Lampredi il filo conduttore tra l’universo algido dei Be Forest e quello dei fratellastri Brothers in Law e se i primi hanno già raggiunto soddisfazioni enormi (basti pensare al tour europeo con i Japandroids), i secondi hanno aperto per alcuni dei nomi più chiacchierati degli ultimi tempi nelle loro apparizioni nello stivale (Wild Nothing ad esempio), crescendo concerto dopo concerto sotto tutti i punti di vista.
Considerata l’evoluzione degli ultimi dodici mesi era ovvio aspettarsi un album di debutto superiore all’acerbo ma pur buono EP Gray Days e così è stato. Si intitola Hard Times For Dreamers (non credo sia un tributo alla canzone dei Reverend And The Makers...) ed è composto da otto tracce, mezz’ora di musica pubblicata dalla We Were Never Being Boring con la partecipazione della CF Records (Girls Names e Cloud Nothings in passato) e stampata anche in Giappone via Cocoheart Records. Meno The Jesus & Mary Chain rispetto agli esordi, il suono si è fatto meno tagliente e più disteso: nonostante si porti avanti con fierezza la formazione a due chitarre (Lampredi, Giacomo Stolzini) più batteria (Andrea Guagneli), entrano in gioco elementi sintetici. Gli stessi che introducono Lose Control, un brano fatto e finito, dal giro di chitarra efficace e dalla melodia orecchiabile. Il ritmo è scandito da un drumming sostenuto e ossessivo (stare in piedi dietro alle pelli deve essere un credo, a Pesaro e dintorni) sul quale si rilassano tappeti di riverbero dream-gaze più dolci (Follow Me) che acidi ed una voce Reidiana dai tratti non troppo distintivi, almeno a un primo impatto. È UK-sound della seconda metà degli anni ‘80 rivisitato secondo i canoni indie-USA anni dieci. Un lavoro tutt’altro che monocorde - e chi li ha visti agli esordi sa a cosa mi sto riferendo - che spazia dalla quickness jangly del singolo Leave Me alla slowness pop di Childhood, due delle tracce cardine dell’intero lotto. La loro presenza al SXSW 2013 potrebbe essere solo l’inizio. E se la Captured Tracks si accorgesse di loro... (7/10) Riccardo Zagaglia
Coheed and Cambria - The Afterman: Ascension - The Afterman: Descension (Cooperative Music, Febbraio 2013) Genere: Alt. Rock Non si può parlare dei Coheed And Cambria senza contestualizzarli in una dimensione assolutamente originale rispetto ad ogni altra band. I loro album sono immaginari scenici prima ancora che mere selezioni di canzoni, ognuno di essi è, infatti, un concept a cui s’associa una graphic novel a sfondo fantascientifico disegnata dal frontman Claudio Sanchez. Una saga dal titolo The Amory Wars - giunta alle release su disco numero sei e sette con questo doppio lavoro uscito a pochi mesi di distanza. Le novità dovute al cambio di formazione finiscono per giovare al prodotto. Se la dipartita del bassista Michael Todd è stata quantomeno forzosa - è stato arrestato per rapina a mano armata in un supermercato - il ritorno 57
dietro le pelli dell’ex batterista Josh Eppard li ha riportati al periodo 2002-2006 in cui sono uscite le produzioni migliori. Nulla cambia dal punto di vista sonoro: l’impronta rimane la stessa, l’unione di quel corposo sound hard rock di marca Gibson à la Zakk Wylde con quella parte del progressive rock più attaccata alla forma canzone (Rush); la voce di Sanchez rimane l’acuto e sottile cartoon che dà il meglio di sé quando si trascina nei pezzi meno ritmati. Rispetto agli ultimi lavori, si nota maggior compattezza, c’è meno ricerca dei singoli da radio (quelli che in No World For Tomorrow, prodotto da Rick Rubin, gli avevano fatto acquisire una discreta popolarità nel mercato musicale statunitense, con passaggi su MTW e i fari ancora oggi puntati di Rolling Stone USA); dei due è The Afterman: Ascension a presentare pezzi con maggior caratura, tra tutte la Policeana Mothers Of Men e Domino The Destitute, primo di cinque brani della saga Key Entity Extraction (le serie numerate sono un marchio di fabbrica della loro produzione, altra analogia col mondo dei fumetti). Un paio di uscite che non scontenteranno i fan della band, che trovano sostanzialmente ciò che hanno sempre ascoltato. Con un po’ di fortuna potrebbero acquisire nuovi estimatori, soprattutto giovani di formazione rock più classica. Più verosimilmente, però, rimarranno lavori di nicchia. (6.5/10) Andrea Forti
Darkstar - News from Nowhere (Warp Records, Febbraio 2013) Genere: indie, psych, gloDopo un album di synth-pop perfettamente calato nel proprio tempo, perché nostalgico al tempo delle nostalgie electro-wave dei Duemila, lamentoso e intimista, fichetto e furbetto, e nondimeno bellissimo, i Darkstar passano da Hyperdub a Warp e sinceramente pare una cosa naturale, che quasi non sposta nulla, vista la sempre maggiore sovrapponibilità dei cataloghi delle due label, sempre più aperte ad altro dal loro côté originario (leggi dubstep e IDM). Titolo u-topico (dall’omonimo pamphlet fanta-socialista di William Morris, preraffaellita di spicco e fondatore di Arts & Crafts) e copertina floreale solarizzata che aggiorna appunto l’art nouveau richiamando scenari di bucolica psichedelia, levità folk ed elettronica tutta nastri in reverse, acconcissimi per un album che al primo ascolto ci aveva fatto appuntare qualcosa tipo disco di coretti pop psych anni Sessanta suonato da Laurel Halo. O uno spin off degli Animal Collective. 58
Scritto per la prima volta in trio (il cantante James Buttery è entrato in formazione già in corsa per North), lontano da Londra, in una casa persa nella campagna dello Yorkshire, registrato nello studio del produttore Richard Formby (Sonic Boom, Telescopes, Egyptian Hip Hop, Wild Beasts, al lavoro sull’imminente nuovo Ghostpoet), il disco tradisce tutte le sue fonti, ma stingendo tanto la forma canzone quanto la produzione in arrangiamenti ondeggianti ed evanescenti, caleidoscopi e bolle. Incorniciata da una intro supernebbie glo-, sognante, diafana, e da una lunga outro adaggiata su tastiere minimali ed escapiste, tra l’esotico e lo spaziale, si dispiega sul tutto l’ombra lunga del Collective, e specialmente in numeri come il carillon giocattoloso e in accelerazione del singolo Timeaway (che occhieggia alla surf trasfigurata di My Girls), nel country scampanellante di Amplified Ease o nella scanzonatezza quasi-Architecture in Helsinki di You Don’t Need a Weatherman. Così come A Day’s Pay for Day’s Work - LA canzone del disco - sono i Radiohead di Everything in Its Right Place/Pyramid Song che rifanno i Beatles di A Day in the Life in odor degli XTC Duchi di Pale and Precious. Si sente sul serio il prog-rock citato come ispirazione nel tastieroso valzerino insinuante di Young Heart’s. Ma tra tanti ammiccamenti espliciti e in bilico, affiora inevitabile un po’ di stanchezza (Armonica, l’intermezzo sussurrato in falsetto senza titolo, Bed Music). Un disco così è già forse fuori tempo massimo, lo denuncia l’ascolto, che dopo un po’ si distrae e assopisce. Ma forse lo scopo programmatico era proprio questo. E forse un paio di pezzi molto belli - e la consapevolezza che comunque questi elementi erano già accennati in nuce nel primo album - salva questo dal farlo taggare come puramente derivativo, semplicemente fragile e semplicemente indie, pregi e difetti inclusi nel pacchetto, com’è. (6.6/10) Gabriele Marino
Darwin Deez - Songs For Imaginative People (Lucky Number, Febbraio 2013) Genere: pop folk Secondo disco per Darwin Deez a tre anni da un omonimo debutto molto scarno a livello sonoro - da cameretta, si dice in questi casi - ma che lasciava presagire un certo talento. Il ragazzo, nel frattempo, ha affinato il lavoro di produzione, ampliato il parco strumentazione che i software possono disporre e si ripropone con Songs For Imaginative People. Non a caso l’apertura, affidata alla traccia (800) Human, scomoda nei paragoni perfino il Sufjan Stevens di The
Girls Names - The New Life (Slumberland, Febbraio 2013) Genere: jangle-pop/post-punk The New Life è il secondo album dei Girls Names - se escludiamo l’otto tracce You Should Know By Now targato 2010 - ed arriva a quasi due anni di distanza da Dead To Me, un lavoro che ha diviso gli addetti, convincendo alcuni e lasciando invece più freddi - me compreso - altri. Abbandonate quasi completamente le atmosfere surf/garage (I Could Die o Cut Up dell’esordio) con il sophomore, la band di Belfast si va ad inserire prepotentemente sia all’interno di un certo jangle-pop revival (vedi compilation), sia negli ultimi risvolti “garage goes pop” (The Fresh & Onlys), due aspetti che hanno fortemente caratterizzato il 2012. Una nuova vita, o meglio una svolta, peraltro già intuibile dall’ottimo split single - sfortunatamente qui non incluso - con i Weird Dreams dello scorso anno intitolato A Troubled See/House of Secrets. La lunghezza dei brani - i sette minuti e passa della titletrack parlano da soli - e lo spazio lasciato agli intrecci strumentali aumentano, ed è un bene considerato che l’anello debole della proposta sembra continuare ad essere l’intuizione melodica - non troppo sviluppata - delle linee vocali di Cathal Cully: i riff jangly rimangono infatti forse più impressi delle strofe o dei ritornelli, quando presenti. Immaginate la malinconia dei Real Estate e sostituite gli sporadici slanci d’entusiamo con derive post-punk (soprattutto le basslines, ma anche come mood generale del disco) più scure. Drawing Lines, uno dei brani migliori, può esserne l’emblema. Ritmi al limite della wave (Hypnotic Regression), timbro vocale che si fa meno scanzonato e più cupo (Occultation) e una band che sa benissimo dove puntare senza rinunciare a colpi d’effetto - si prenda il rallentamento, anche qui già sentito nell’ultimo Real Estate, a metà di A Second Skin - nei quali entra in scena un buon utilizzo dei synth e di suggestioni tra il sinistro e lo psichedelico. E’ tutto dosato sapientemente e la crescità (anche nella cura-Cure sonora) c’è e si sente. I Girls Names rientrano in campo in una veste nuova, saltano parecchi avversari, impressionano con alcuni passaggi assolutamente sublimi ma non arrivano ancora al goal decisivo. La strada è quella giusta, devono solo dimostrare di poter raggiungere certi picchi con una maggiore continuità. Ciò nonostante, The New Life rimane comunque un disco che sotto alcuni aspetti (atmosfera, scelte stilistiche ben definite) può tranquillamente ambire allo status di culto. (7.2/10) Riccardo Zagaglia
Age Of Adz nel permeare il folk con robotici intermezzi elettronici. Risulterà, in realtà, un passaggio singolo, così come per le ritmiche pop anni ‘80 del Prince di Sign “O” The Times in Moonlit. Per il resto, si ripete nelle intenzioni indie rock del debutto ma il ragazzo appare più sicuro sia nell’interpretazione (falsetti più decisi e un cantato non più monocorde) sia in composizione. Il suono è saturo, tastiere e drum machine ora arricchiscono, omogeneizzano e saldano le linee melodiche della chitarra anziché farne da mero sparring partner necessario nel dettare una ritmica. Unica pecca: manca una nuova Radar Detector, singolone dell’esordio. Una lacuna su uno dei brani più solari che ha anche un’altra connotazione: il nuovo Darwin Deez è quasi del tutto crepuscolare, la malinconia è il tema principale dei suoi testi, sia nell’(abusato) tema delle relazioni che, più in generale,vi è una visione pessimista dell’esistenza; per cercare un po’
di speranza bisogna percorrere accuratamente i versi e ritrovarla nei passaggi più tragici (All In The Wrists). Si può tranquillamente fare un parallelo dell’evoluzione di con le cover dei suoi dischi: nel primo, il dettaglio del viso con gli occhi socchiusi volti al terreno simboleggiavano un certo timore e titubanza nell’esporsi; qui il mezzobusto di profilo rivela ritrosia ma lascia anche intravedere un po’ di sé. Nel prossimo album lo aspettiamo con il vestito della domenica. (6.5/10) Andrea Forti
Ducktails - The Flower Lane (Domino, Gennaio 2013) Genere: lounge-pop Il progetto a nome Ducktails casca a pennello per riportare in auge l’annosa questione del side-project, la cui ra59
gion d’essere è spesso messa in discussione dall’effettiva qualità del prodotto finale, relegato talvolta a banale raccolta di b-sides che non hanno trovato posto presso il main act. In questo caso ad esser chiamato in causa è il buon Matt Mondanile, co-protagonista - insieme a Martin Courtney - dei più conosciuti Real Estate che, non più tardi di un anno e mezzo fa, ci deliziarono con quel gioiello pop che fu Days. Quarta puntata dunque per il progetto Ducktails che, da esclusivamente solista che era, si allarga invece ora a collaborazioni esterne che danno forma a quella che somiglia sempre più ad una vera band, con gli interventi impeccabili ai synth di Daniel Lopatin (già Oneohtrix Point Never), i tocchi del factotum Ian Drennan (Big Troubles) e le voci sublimi di Jessa Farkas (Future Shuttle) e Madeline Follin (Cults) prese in prestito per l’occasione. Proprio gli interventi femminili rappresentano il biglietto da visita principale di questo The Flower Lane, la cui uscita è stata anticipata infatti dalla release del primo singolo Letter Of Intent, splendido cortometraggio synth-pop contrappuntato dal duetto vocale fra Drennan e la Farkas ed in bilico lungo orizzonti sonori che, se non fosse per una straripante eleganza nella struttura ed un gusto infinito negli interventi della totalità degli elementi che compongono il mosaico, finirebbe per sfociare nel peggior eighties-trash-chart-pop che la mente umana potrebbe pensare di concepire. La stessa delicatezza - ancora una volta woman-oriented - si fa strada in Sedan Magic, vero capolavoro del disco in cui l’impianto dilatato à la Laughing Stock della strofa è preludio di un botta e risposta superlativo fra le chitarre su cui passeggiano gli appoggi di pianoforte e la voce soffusa di Madeline Follin. Le stesse chitarre assumono il ruolo di assolute protagoniste, rimandando con la mente a Days nei ricami feltiani dell’opener Ivy Covered House, con le mani degli spettri di Hayward e Deebank che si rincorrono a distanza sui rispettivi manici e moltiplicando le forze sul rollercoaster di intrecci dell’altro vertice Under Cover in cui, al dialogo chitarra-pianoforte, si va a sommare l’essenziale contributo del sax. Non si abbassa la guardia nemmeno quando si accarezzano territori psych-pop quasi lo-fi come nella conclusiva Academy Avenue o quando si affida tutto ai synth per il sexy-vibe da dancefloor di Assistant Director, così che anche le meno riuscite International Date Line e Planet Phrom - quest’ultima cover di Peter Gutteridge (The Clean e The Chills) - possano non lasciare cicatrici evidenti sul percorso. Un disco maturo di pop raffinatissimo che esplora spesso ulteriori territori ambient-lounge senza cadere nel pretenzioso o nell’artefatto e un Mondanile così 60
ispirato da far pensare ai - ora sì, il plurale ce lo si può permettere - Ducktails come a qualcosa in più di un side-project qualsiasi. Full album stream [via Pitchfork Advance] (7.2/10) Marco Masoli
Dulcamara - Uomo con cane e il ritorno dalle terre di Nonsodove (Hevenel Records, Dicembre 2012) Genere: hip-cantautorato Dovessimo indicare una peculiarità del progetto di Mattia Zani, faentino classe 1982 con un paio di dischi alle spalle (Lasciami Adest del 2007 e Il buio del 2010), ci affideremmo probabilmente a quell’incoscienza libertina che si coglie tra i solchi e che permette al musicista di rileggere il cantautorato con gli occhi dell’hip-hop amore giovanile. Un approccio al testo assolutamente personale, di difficile collocazione, terza via credibile in rima baciata che interagisce con una visione musicale ampia e senza barriere. Lucio Battisti che incontra Tormento dei Sottotono in La strada del ritorno o una Trinidad velatamente country, le andature svogliatamente reggae de Il pazzo giù all’angolo o il pianoforte minimale sul power drumming di Ora come allora, gli sviluppi inaspettati e i silenzi di Parlarti piano o il pop di Tutto passa per tornare: nell’universo di Zani ogni cosa è un collage imperfetto e fuori dagli schemi. Un ingranaggio che tuttavia funziona, come se la parola stringesse attorno a sé i vari input centrifugando stili e maniere in un “flow” impermeabile al mondo esterno. Uomo con cane e il ritorno dalle terre di Nonsodove - riferimento autobiografico all’esperienza californiana di Zani conclusasi nel 2007? - è fondamentalmente la storia fotografica di un viaggio, tra chitarre, trombe, bassi, organi, synth, cori e batterie. Un girovagare folk nell’anima e senza una vera destinazione, con a fianco compagni fedeli sempre pronti a saltare sul primo treno (Nicola Valtancoli, Marco Manzoni e Thomas Festa). (7/10) Fabrizio Zampighi
Dutch Uncles - Out Of Touch In The Wild (Memphis Industries, Gennaio 2013) Genere: art-pop Avendo del tempo a disposizione, sarebbe interessante proporre un’analisi comparata e approfondita della scena pop contemporanea, prendendo in esame uno ad uno ogni singolo progetto e giungendo alla conclusione che, tralasciando la sempre produttiva - e più marcata-
Grouper - The Man Who Died In His Boat (Kranky, Gennaio 2013) Genere: drone folk L’infatuazione della Kranky per Liz Harris non è cosa nuova e ha già portato, l’anno scorso, alla ristampa di A | A e alla pubblicazione dell’album dei Mirrorring. Ora arriva l’ultimo tassello di un mosaico che vede la signorina di Portland pubblicare per tutte o quasi le label più importanti dell’attuale scenario di etichette specializzate in drone-folk. The Man Who Died In His Boat contiene brani scartati dalle sessions di Dragging a Dead Deed Up A Hill, il best seller del progetto Grouper, pubblicato dapprima su Type nel 2008 e ora ristampato dall’etichetta di Chicago. Giunti a questo punto della sua carriera, si potrebbe agevolmente tracciare un profilo dell’artista che, a dispetto degli snob della prima ora, quelli che di fronte all’ermetismo informale di Way Their Crept storsero il naso e liquidarono con sciatteria, ha marchiato a fuoco questi anni con una calibratura inedita e altamente personale di elementi già noti e ascoltati. Ovvero il massimo della maestria nel sapersi costruire un’identità trafficando con suoni e soluzioni che più abusate non si potrebbe. In questo senso, The Man Who Died In His Boat può essere considerato come un comodo bignami per addentrarsi nell’universo diafano e nostalgico di Grouper, giacché sufficientemente mosso e articolato nel mostrare le diverse sfaccettature di un sound che richiama molti se non tutti i suoi riferimenti. Ovviamente, trattandosi del periodo Dragging a Dead Deer, il folk lirico e arcano nello stile della hit Heavy Water è ampiamente rappresentato. Vital è altrettanto leggera, malinconica, orecchiabile. Lo stesso dicasi di Cloud In Places, della titletrack, di Towers e della più riuscita di tutte Cover the Long Way. Il folk sound di Grouper è sempre fragile, romantico, sfocato. Dà sempre l’impressione di ricordare questo e quello (Bunyan? Bailiff? Baier?) in realtà è la misura di se stessa e l’unico paragone possibile, con i dovuti distinguo anche proprio a livello di sound, mi sembra quello con la Anne Briggs di The Time Has Come. Poi arriva il lato più stordito e lisergico del suo suono. I trascorsi da appassionata ascoltatrice shoegaze non li ha mai rinnegati, né tantomeno i punti di contato con la rural psichedelia dei Flying Saucer Attack. E’ fin troppo evidente che brani come Being Her Shadow, Difference (Voices) e quella piccola piece completamente fuori dal mondo che è STS furono scartati perché troppo in linea con il mood di Wide e Cover The Windows And The Walls, ovvero con un tasso di effettistica sulla voce oltre il livello di guardia e le chitarre trattate al delay, in un modo che non a caso ricorda il tardo Roy Montgomery di The Allegory Of Hearing. The Man Who Died In His Boat è un disco agevole, melodico, facilmente accessibile. Ha qualcosa di più del classico fascino dell’album di b-sides, pieno com’è di brani ad altezza di classifica che faranno il loro effetto e consolideranno lo status della musicista di Portland. (7.5/10) Antonello Comunale
mente settoriale - scena scandinava, da qualche tempo a questa parte si sta facendo largo un ulteriore insieme di proposte che converge, a sua volta, verso sonorità psych-art-pop fra loro assimilabili, dando vita ad un possibile nuovo filone di studio. A farsi strada all’interno di quest’ultima categoria sono anche i Dutch Uncles, band che - neanche a farlo apposta - presenta come personale headquarter quella prolificissima Manchester, condivisa dagli act affini di cui sopra (Everything Everything, Egyptian Hip Hop e Alt-J su tutti) e, a livello macro, quel Regno Unito che ha dato i natali ai compagni di tour - e spesso straordinariamente affini - Wild Beasts e ai numi tutelari - nonché colleghi sotto Memphis Industries - Field Music.
Questo Out Of Touch In The Wild è il terzo lavoro dei cinque dopo l’omonimo d’esordio e Cadenza del 2011 ed il primo a spingere seriamente l’acceleratore verso strutture labirintiche e vagamente math, piazzando i già citati Field Music sul dancefloor e cercando di restituire il sorriso a Mark Hollis e compagni. E’ così che fanno sorprendentemente capolino le sfumature esotiche e saltellanti di xilofono e marimba (Fester e Threads) quasi fossero novelli XTC o ancora si lasci la scena ai barocchismi strings-centred di Flexxin e Godboy, quest’ultima in odore di ultimi Phoenix ed entrambe - sicuramente - esempi lampanti della strada che una band pseudo-decaduta come i Ra Ra Riot avrebbe dovuto pensar bene di intraprendere per dare un senso alla propria esisten61
za. C’è tanto lavoro di studio dietro questa produzione e testimonianza ne è la percezione di avere sempre il suono giusto al momento giusto, la sovrapposizione impeccabile e la capacità di gestire ‘a memoria’ strutture prog criptiche e complesse come accade nel krautconclusivo - e convulsivo - di Brio. C’è anche spazio per il basso funky a tenere le redini di Bellio e per la splendida doppietta simil-Wild Beasts introdotta dal pianoforte scintillante di Phaedra e impreziosita, soprattutto, dalle raffinatezze di Nometo, probabilmente apice dell’LP in questione. In definitiva, una prova di assoluto valore per la band mancuniana che, seppur mostrando talvolta il fianco ad eccessi di uniformità di suono, affronta con personalità la sfida lanciata dai compatrioti, dando ulteriore testimonianza dello stato di grazia attuale delle proposte pop d’Albione. (7/10) Marco Masoli
Elio Petri - Il bello e il cattivo tempo (Cura domestica, Gennaio 2013) Genere: .... Poco più di due anni fa ci sorprese con un Non è morto nessuno che già ne metteva in luce la peculiare cifra cantautorale, peculiare al punto che facevi fatica a chiamarla tale. Oggi, normalizzato il nome del progetto in Elio Petri (via le parentesi, dentro le maiuscole), Emiliano Angelelli torna iniettando elettricità nella vena, una più evidente propensione soul dal piglio slacker e i già noti retaggi post portati a conseguenze più estreme. Il risultato è un indie rock che del cantautorato conserva l’impronta omeopatica, in punta di testi impermeati da un ermetismo emotivo che si mette in gioco con disarmante disinvoltura ed evasivo cinismo. A partire dalla spigolosità laconica dell’iniziale Il disprezzo, ospite Teho Teardo, sorta di soul acido e sdegnoso, fino agli spurghi hard stemperati in digressioni cinematiche post di Ti farò soffrire, passando da quella Vipera che impasta rabbia funk-rock e sarcasmo ricordando (sarà per quel violino dietro i clangori di chitarra) certi Afterhours dei tardi Novanta. Messe in conto le rielaborazioni grunge (di quello più ipnotico e cerebrale) in pezzi come Bruco e una palpabile simpatia per band disposte al più morbido dei sincretismi come i Sea And Cake (nel melò onirico ed intrigante di Alga e nel canterbury inacidito della conclusiva Capra astrale - ospite Marco Parente), usciamo dall’ascolto con la sensazione che manchi qualcosa (forse qualcosa di inaudito dal punto di vista stilistico e/o sonoro: siamo proprio incontentabili, eh?), ma che ciò che abbiamo sentito è 62
efficace, incisivo, in qualche strano modo contagioso. (6.9/10) Stefano Solventi
Elvis Costello - In Motion Pictures (Universal, Dicembre 2012) Genere: compilation In attesa di un nuovo album, la Universal esce con una selezione tematica, curata personalmente dall’artista, in cui Elvis Costello sceglie quindici delle sue canzoni incluse in film o scritte apposta per il grande schermo. La compilation offre uno sguardo al Costello noto e meno noto, edito e inedito (come Life Shrinks, scritta per The War of the Buttons ma mai usata), arrivando fino al 2011 con Sparkling Day, scritta per il film One Day con Anne Hathaway e Jim Sturgess e coprendo una trentina d’anni di carriera. Il cinema è sempre stato vicino all’artista inglese, visto che personalmente è apparso come attore per il cinema e la TV. Si va da Accidents Will Happen (E.T.) a Miracle Man (Il Padrino III), dal duetto con Jimmy Cliff (Seven Day Weekend, in Club Paradise) alla cover dei Kinks, Days, inclusa in Fino alla fine del mondo, dal rifacimento di She di Charles Aznavour apparso in Notting Hill, My Mood Swings in Il Grande Lebowsky fino alle partecipazioni attoriali in Straight To Hell - Dritti All’inferno di Alex Cox (A Town Called The Big Nothing) e Prison Song di Darnell Martin (Oh Well). In sostanza, un’occasione per ripercorrere anni di carriera e godere ancora una volta del suo songwriting di classe. (7.3/10) Teresa Greco
Emeralds - Just To Feel Anything (Editions Mego, Ottobre 2012) Genere: new kosmische age Forse la chiave per comprendere questo Just To Feel Anything rientra nelle varie forme che può assumere l’inevitabile. In quel saliscendi a cui ogni gruppo, specie del sottobosco e con una discografia corposa, è giocoforza sottoposto e col quale bisogna scontrarsi. I recenti fatti di cronaca ci suggeriscono più di un indizio per avvalorare quelle che in principio erano solo percezioni soggettive. E invece l’abbandono della nave madre da parte di Mark McGuire, avvenuto proprio in questi giorni, non fa che evidenziare i dubbi, farci notare le crepe, gettare (tetra) luce ulteriore su un lavoro che ci lascia dibattuti tra forze contrastanti. C’è qualcosa che non va nello slavato 7 tracce edito al solito da Mego, vero e proprio anello debole di una discografia in crescendo che passo
Niagara - Otto (Monotreme, Gennaio 2013) Genere: psych-tronica Non ci stupiremmo se l’esordio dei Niagara vi suggerisse il nome dei Drink To Me. Del resto entrambe le formazioni sono di Torino, entrambe bazzicano una psych-tronica tutta synth e atmosfere sognanti di ispirazione Animal Collective e il Davide Tomat qui presente - cinquanta per cento dei Niagara, l’altro cinquanta risponde al nome di Gabriele Ottino - è stato pure il produttore del Brazil pubblicato dagli stessi Drink To Me nel 2009. Tomat che, oltre a militare in questo di progetto, suona nei N.A.M.B., fa uscire dischi a proprio nome come il 01-06 June pubblicato lo scorso anno ed è impegnato in una miriade di altre collaborazioni a tutti i livelli. Dopo un EP uscito nel 2012 sempre su Monotreme, i Niagara esordiscono sulla lunga distanza con un Otto che rivela uno sguardo piuttosto curioso sulla materia. L’impostazione è comunque meno ortodossa e diretta rispetto a quella dei concittadini, tanto che in mezzo al classico tripudio di synth si finisce per citare un pop quasi beatlesiano (Etacarinae), un misto di folktronica e melodie espanse di pinkfloydiana memoria (Eight), derive ambient peculiari (E.V.A.), un breakbeat cosmico in salsa kraut (Galaxy Glaciers) e una psichedelia molle non troppo distante, nella concezione generale, da certe idee dei Jennifer Gentle (la conclusiva Love Me Love Me). Il punto di congiunzione tra i vari immaginari è una sorta di humus lisergico e onnicomprensivo à la Flaming Lips - adattato ovviamente ai canoni estetici dei Nostri - che contribuisce a destabilizzare e a rendere più flessibile una formula potenzialmente stereotipica, vista la diffusione a tutte le latitudini del sound di riferimento. In Otto invece non ci si annoia mai, i brani lavorano di cesello e il sound mantiene, anche sulla lunga distanza, consapevolezza, trasversalità e una freschezza che non crederesti possibile. (7.3/10) Fabrizio Zampighi
dopo passo aveva spinto i tre di Cleveland verso l’empireo dell’hype. Non un album da buttare, specie per chi ha scoperto da poco gli Emeralds, ma nemmeno stimolante come ci si sarebbe atteso in virtù della curva positiva intrapresa fino a Does It Look Like I’m Here? e dalle buone e varie prove in solo dei tre. Si parte bene, a dirla tutta, col crescendo synthetico della doppietta Before Your Eyes e Adrenochrome, buoni approdi verso lande di suono cosmico tra pulviscolo iridescente e beat dal sapore epico, ma già l’ambient malinconica di Through & Through comincia a scivolare sul versante più mollemente newage del kosmische, facendo tornare in mente gli incerti passi del secondo periodo dei Tangerine Dream o certa produzione made in Schulze. Roba dall’impatto emotivo magari anche alto, coinvolgente, ma dalla “pericolosità” e dalla forza destabilizzante praticamente nulla. Con la scialba cavalcata kraftwerkiana della title track, un carillon risentitissimo e senza mordente, e il vuoto fatto d’echi e riverberi che fa di The Loser Keeps America Clean una ambient dozzinale che più sterile non si può, sembra proprio di avvertire un accomodamento sul conquistato, quasi una stanchezza di fondo che il citato split non può che confermare. Ve-
dremo cosa ne sarà degli Emeralds restanti, ma per ora ci resta un grossissimo punto interrogativo. (5.9/10) Stefano Pifferi
Enrico Ruggeri & Elio Rosolino Cassarà - Musteri Hinna Föllnu Steina (Neverlab Avant, Dicembre 2012) Genere: ambient E’ ambient compita, quella di Ruggeri e Cassarà. Una musica dallo sviluppo millimetrico che sgocciola lentamente, pennellando field recordings, droning minimale, cupezze oniriche distribuite su spazi ampissimi. Dimensione visiva e uditiva si toccano, in un fluire sinestesico che molto ha a che vedere con i quadri che lo stesso Cassarà dipinge: paesaggi inconsistenti, vagheggiamenti fumosi di colore, immagini slavate di ricordi che sembrano sostanza del subconscio. L’altra metà della formazione è costituita da Enrico Ruggeri (non QUEL Ruggeri), ex Hogwash chiamato a maneggiare i contributi concreti mentre il suo alter ego si occupa di colori, synth e pianoforte. Un binomio esplicitato in dieci brani che sembrano parti di un unicum inscindibile e omogeneo. 63
Torna in mente Mamuthones, anche se qui le inquietudini suggerite dalla musica sono meno nervose e maggiormente tarate su profondità avvolgenti e senza facili punti di riferimento. Quel che accade, ad esempio, in una Kobold che è vibrare tellurico tra i cunicoli della terra, nel drone atomizzato e disperso di Eisen o col ronzio persistente e statico di Krvavi Obred. Con tanto di riferimento obbligato all’universo nordico e suggestivo dei Sigur Rós, richiamato da un titolo in islandese che tradotto significa “il tempio delle pietre cadute”. Il disco è affascinante è farà da colonna sonora al film sui paesi fantasma, gli edifici abbandonati e l’archeologia industriale sarda che quelli di Sardegna Abbandonata - via crowdfunding - stanno progettando di girare (per tutti i dettagli, qui). Destinazione migliore per materiale tanto evocativo non si sarebbe potuta trovare. (7.1/10) Fabrizio Zampighi
Ethernet - Opus 2 (Kranky, Gennaio 2013) Genere: ambient Tanto il primo disco, 144 Pulsations of Light rimaneva in superficie, tanto questo Opus 2 scende in profondità. Tim Gray ritorna sugli scudi della Kranky, con il progetto Ethernet e un disco che nel suo piccolo sorprende, a dispetto dello scialbo esordio e di quello che all’epoca definimmo “comoda ambient d’arredo di stampo elettro”. Le sei tracce di Opus 2, aggiustano il tiro e trovano un fortunato equilibrio tra stasi eterea e lirismo melodico. Siamo sempre nell’ottica di un prodotto easy listening per i canoni del genere. La conturbante metafisica degli Stars Of The Lid non viene sfiorata minimamente, ma il piacere di questo lavoro sta anche nella facilità con cui prepara il terreno ambient e su di esso elabora diagrammi concentrici sempre più ambiziosi man mano che procede. Monarch e Correction alzano il velo sullo stile classico di Gray: iper minimal techno, che agita acque ora statiche ora in lenta e inarrestabile progressione. Vengono confermati i riferimenti a Seefeel e Gas, ma in un ottica di appropriazione e ribellione nei confronti del loro stile, rispetto allo stanco mimarne le gesta. Arrivano qui le centrali Cubed Suns e Dog Star, ambiziose piece di umore cangiante e attendista, dall’afflato isolazionista e apocalittico. E non manca un retrogusto futuristico nello stile dei Boards Of Canada più alieni, nella geometrica iridescenza di Dodecahedron, momento di stasi prima della conclusione impenetrabile di Pleroma. Opus 2 è un lavoro che va visto nel suo insieme ed è altamente consigliabile per i neofiti del settore, dal mo64
mento che si presenta come una facile via di ingresso verso un mondo capace di suoni assai più ermetici e ostili. (7/10) Antonello Comunale
Everything Everything - Arc (RCA, Gennaio 2013) Genere: art pop Gli Everything Everything li si immagina quantomeno infastiditi dal successo di Django Django e (soprattutto) Alt-J. Loro che, con il debutto da top 20 Man Alive (2010), hanno gettato le basi per il filone di alt/art pop angolare e genre-bending ormai consolidatosi in Inghilterra (in contrapposizione alle chitarrine indie “protette” da NME) ma raccolto, per l’immaturità dei tempi e come spesso accade ai “fondatori”, comunque ben meno responsi rispetto a chi è venuto dopo. Ha quindi perfettamente senso che la voglia di rivalsa abbia portato a un sophomore che sa di capitalizzazione mainstream. Rispetto al suo iperattivo e convulso predecessore, Arc è incredibilmente più accessibile, coeso, fluente e quindi diretto. Attenzione, però: non vi è rottura rispetto all’attitudine - che tiene fede al moniker - di buttare “di tutto” nel mix, ma anzi ritroviamo le intelaiature mathematiche, i poliritmi sincopati e le melodie multisfaccettate, con lo spettro delle influenze che addirittura si espande - furbo - dal crossover proggy/ dance-pop dei mid-Eighties fino ai barocchismi particolarmente in voga. Eppure i mancuniani hanno imparato l’autocontrollo. Gli arrangiamenti operano questa volta in modo subdolo, risultando sempre al servizio della canzone, stratificati ma mai sovradimensionati o, peggio, mero ammasso di esercizi tecnici. Il risultato è una solida collezione costellata da brani single-worthy: dalla powerhouse ritmica Cough Cough all’altrettanto anthemica Radiant, dal refrain all’elio Passion Pit-iano di Kemosabe al 90s R&B via robo-pop di Armourland, c’è tutto il materiale per campeggiare a lungo sulle chart britanniche. Se poi ci si mette pure l’encomiabile produzione di David Kosten a esaltare il falsetto dominante (e il singalong) nonchè la poetica del frontman Jonathan Higgs - maturata verso il sociale in quanto a tematiche, ma anche mai così brillantemente psicotica nelle metafore -, non può che aumentare il rammarico per quel pugno di passaggi opachi (_Arc_, The Peaks) o velleitari (il fare i Radiohead di In Rainbows in The House Is Dust). Si sarebbe potuto agilmente decurtarli dalla lunga tracklist e staremmo ora già parlando di disco della consacrazione. Ci limitiamo invece ai pronostici: il Mercury Prize,
Wild Beasts permettendo, è a questo turno davvero a portata di mano. (7.1/10)
tempi (lo dimostrano le loro top songs del 2012), sia glorificare il grande passato (lo dimostra il videoclip di Ken, praticamente un tributo ai Replacements). L’iniziale S&HSXX (Intro) trae in inganno considerato che Massimo Rancati si è di fronte ad una versione teutonic martial-wave di Mama dei Genesis, ma ci pensa subito dopo la già citata Evian Christ - Kings and Them (Tri Angle, Ken a riportatci alla realtà nella NY anni 10 della rinasciFebbraio 2012) ta guitar-pop: strofa di derivazione Captured Tracks via Genere: glo-hop/R’n’B arpeggino jangly, chorus esplosivo in zona The Pains Uscito da quel sottobosco di giovani producer casalinof Being Pure at Heart, coretti femminili retrò rivisitati ghi del dopo-J Dilla-cLOUDDEAD meglio conosciuto noise-pop e tiro ‘90s/Teenage Fanclub. come Cloud Rap, Joshua Leary era fino a qualche mese Il drumming iniziale di You Are A Lion, You Are a Lamb fa un ventiduenne di una cittadina industriale del Mercrea un immediato viaggio mentale che porta a No Cars seyside che uppava musica su Youtube sotto lo pseuGo degli Arcade Fire, che sfocia poi in una leggerezza donimo di Evian Christ. Cresciuto tra i sintetizzatori del estrema al limite dell’ impalpabile - se non fosse per un patrigno, il ragazzo sa il fatto suo e finisce su Dummy astuto utilizzo della chitarra - già presente in James. Annel giro di poche ore. Neanche a dirlo le richieste delle che Separator non spinge sull’acceleratore, ma sa planalabel arrivano a raffica, ma un’etichetta sempre attenta re lentamente a qualche metro da terra con sognante alle novità come la Tri Angle non tarda ad accaparrarselo eleganza, ed è qui il punto di svolta del disco: sul finale e a pubblicargli un primo mixtape: Kings and Them. entra in scena una melodia in semi-spoken apparenteNiente banalizzazioni però. Josh viene dall’Inghilterra e ha mente fuori contesto che toglie ogni dubbio sulla capapoco a che vedere con il risultato finale di A$AP Rocky o Lil cità degli Ex Cops nell’uscire dai binari dell’ordinarietà. B, la sua è una fascinazione hauntologica ben maggiore, Non è però dato sapere se certi passaggi inaspettati siasotto l’oscuro velo post-witch, paragonabile a quella del no solamente un espediente per variare la formula pop compagno di etichetta Clams Casino. Ma la Tri Angle si song o se facciano realmente parte del DNA del duo: sa, non suona mai uguale, la personalità è fortissima e la brani come Jazz & Information (sospesa tra psichedelia riconoscibilità immediata, ma dove la texture di Casino è vischiosa come lava, quella di Christ è liscia come velluto. e sax finale), la narcotica Millionaire (uno dei primi brani del loro repertorio) e Nico Beast (a proposito di tributi Come per molti colleghi, le tracce del mixtape sono alla storia, qui sono i Velvet Underground), potrebbero state prodotte in casa: niente studio, un laptop, un appartenere tranquillamente a tre band diverse. paddino e qualche sample, ma il risultato è tutt’altro In appena mezz’ora di musica gli spunti interessanti che home made. L’album si snoda tra groove hip hop e sono tanti e molto concentrati, nel complesso però gli loop vocali, lamenti e sospiri, con più di un occhio di riEx Cops di True Hallucinations non riescono a trovaguardo all’R’n’B che risulta essere la principale influenza re quell’equilibrio tra personalità, forma e sostanza che nel suond. Le tracce sono principalemente strumentali potrebbe concretizzarsi già alla seconda prova. e strutturate su basi sintetiche, ritmi footwork e voci (6.7/10) campionate, eccezion fatta per Go Girl, dove parte un morbido rapping a più entrate. Riccardo Zagaglia Affascinato da Clams Casino e dal collettivo Odd Future, il giovane studente universitario porta al 2012 un Foxygen - We Are the 21st Century mixtape con magari più aspettative che risultati, nonAmbassadors of Peace and Magic dimeno è un esordio più che discreto. (Jagjaguwar, Gennaio 2013) (7/10) Genere: alt-pop Davide Nespoli Nel 2012 furono gli Alt-J, questa volta scommettiamo su Jonathan Rado e Sam France, in arte Foxygen, due giovanotti californiani cresciuti - a parole loro - con l’osEx Cops - True Hallucinations (Other sessione dei Brian Jonestown Massacre e reduci da Music, Gennaio 2013) una prima release in forma di EP dal titolo Take The Genere: guitarpop/othermusic Kids Off Broadway passata, per la verità, un po’ in sorTrue Hallucinations è l’album di debutto degli Ex Cops, dina. Tornano ora con questo We Are The 21st Century duo uomo-donna di Brooklyn che si ciba giorno e notte Ambassadors Of Peace & Magic e si caricano sulle spalle di musica: Brian Harding e Amalie Bruun sono infatti due il ruolo di indie-band sulla cresta dell’onda, destinata a grandi appassionati a cui piace sia stare al passo con i 65
Planet Soap - My Homies EP (Safe Sexx Music, Gennaio 2013) Genere: Trap Il filone abstract, la morte di J Dilla, la contaminazione dubstep e l’ambizione IDM, i broken beat e le infatuazioni funk, Bristol, Glasgow e gli USA e poi mettici pure il footwork, l’EDM e il gangsta rapping: è impressionante la ragnatela di percorsi storici ed estetici che ha segnato la sperimentazione post-hip-hop degli ultimi dieci anni e non stupisce che quel wonky che ha tenuto banco nella seconda metà dei 2000 è sempre rimasto più una questione di attitudine, difficilissimo da inquadrare secondo parametri oggettivi e afferrabile solo per assonanze e propositi compositivi, e solo se istinto e orecchio son ben sviluppati. Le cose si complicano ancor più ora che l’hot topic del momento è la trap music, termine di conio non troppo recente (se ne parla già nei primi 2000) ma riesploso più o meno dopo i TNGHT, le cui distinzioni rispetto al wonky sono ancora appassionante argomento di dibattito della comunità internazionale: si parla sicuramente di una più evidente sporcizia ghetto, un’attenuata estrazione intellettuale e l’occhio più attento verso la dimensione ballabile, ma la sfida alla definizione stabile e omnicomprensiva sarà aperta ancora a lungo. In tutto questo aggiungici i soggetti che per natura non si limitano a uniformarsi ma ci mettono anche uno stile personale ed estrarre un disegno globale diventa praticamente impossibile. È il caso del duo lombardo Planet Soap: da sempre in evidenza come una delle realtà italiane più in vista anche all’estero, dal 2010 ad oggi si son passati un po’ tutti gli indirizzi sperimentali che contano, prima figurando come protagonisti nei nostri vari focus sulla scena beatz italica, poi riconfigurandosi nell’album su un più rassicurante piano bass e infine cimentandosi recentemente nei terreni spinosi del juke (vedi Beastie e il nostro speciale) e adesso della trap, col nuovo My Homies. Anticipato dal gustoso video-contest (indovina i personaggi e vinci la t-shirt), My Homies è l’eppì che unisce i puntini lasciando ancora sfumata nel futuro l’immagine globale. Oltre a tutti i tratti tipici della trap (rappato negro in campioni di strada, acume ritmico che invade gli spazi, mood appesantito e innesco dell’headbanging), vengono fuori le passioni giovani dei due beatmakers, così che in Keep Coming Back fan capolino le scorie fidget dei Bloody Beetroots, le trombe tarantiniane predilette dai Jazzsteppa e i reflussi juke in loop. E se DatFeeling rappresenta la forma trap-hop di presa più immediata e Sunday la libera uscita verso una electro prog da arena, è My Homies che riassume il significante criptico-orrorifico della release, una cifra stilistica sempre presente nel sound dei PS che da Planet Terror a oggi appare perfettamente a suo agio in mezzo a gangsta movin’ e punte ritmiche. Se fossimo nel soundtracking questi sarebbero i Goblin, e per i neofiti ciò non fa che complicare la comprensione. L’entropia aumenta e i Planet Soap sembrano sguazzarci. 7.2/10) Carlo Affatigato
ricalcare le orme di tutti quegli esordienti - o pseudo tali - che con un pugno di canzoni che funzionano, l’immagine giusta e una solida promozione alle spalle, buttano fuori un disco che fa il pieno di vendite. Così come per gli Alt-J, anche in questo caso non si sta parlando però di un disco brutto, altresì ci troviamo di fronte a un LP ben confezionato e piacevole da ascoltare, di quelli piuttosto catchy che si fanno anche canticchiare. Il problema principale, però, è una mancanza quasi totale di personalità, che riduce il tutto a una simil-compilation di quasi-cover da cui, raramente, emerge qualche vero guizzo. Ecco così che ci si trova dentro un po’ di tutto, dalle atmosfere super beatleasiane dell’opener In The Darkness, passando per i sacrileghi scimmiottamenti 66
di Tweedy e compagni di No Destruction, continuando con il trascinato acid-blues in odore di Black Keys di On Blue Mountain e il pop luccicante di chiara scuola Belle & Sebastian della - seppur simpatica - San Francisco. La ciliegina sulla torta viene infine con l’incedere evidentemente bowiano di Oh Yeah e la sfuriata punk, per non farsi mancare proprio nulla, della title-track. La sensazione è che i due peschino di qua e di là con la vista un po’ annebbiata dalla volontà di stupire, dilapidando gli sprazzi di buona scrittura pop e perdendo così l’occasione di mettere a segno un esordio di vera sostanza. (5.8/10) Marco Masoli
Francesco Forni/Ilaria Graziano - From Bedlam To Lenane (Novantiqua, Dicembre 2012) Genere: Etnico, pop A volte basta poco: una chitarra acustica, un ukulele e una voce da impazzire. Questo è quanto ci è concesso di ascoltare in From Bedlam To Lenane di Ilaria Graziano e Francesco Forni. I due artisti, di scuola napoletana e cresciuti e maturati con i 99 Posse, Daniele Sepe e tutta la scuola folkloristica partenopea, mettono insieme una carica country singolare, mescolata ai gorgheggi idilliaci della voce femminile. Già collaboratori in altre esperienze, ora hanno deciso di fare sul serio, senza però affidarsi a produzioni troppo ingombranti, con la semplicità che è la loro forza primordiale. From Bedlam To Lenane è un lungo percorso, fatto di riferimenti espressamente blues (la cover di Be My Husband di Andy Stroud parla chiaro in questo senso), citazioni letterarie (dall’anonimo poema Tom o’ Bedlam prende il via l’intero disco), tradizione messicana mariachi (Cancion Mixteca), inediti che sanno di mar Mediterraneo tra ritmi in levare e sirtaki (La strada) e spiccata tradizione black in E minor (Rosaspina, Lenane’s Blues). Immaginate quanto di più esotico conosciate: questo disco è un viaggio di distrazione di massa, dalle terre del Messico alle lande del Texas, dal tango argentino alla canzone napoletana, dalle isole greche alla Route 66. Il tutto appoggiato alla duttilità di due strumenti a corde. Non scomoderemo riferimenti illustri come Cash o Lanegan & Isobel Campbell, ma From Bedlam To Lenane si lascia comunque ascoltare senza sforzi, dimostrando che la semplicità può ancora premiare. (6.2/10) Nino Ciglio
Gallops - Yours Sincerely, Dr. Hardcore (Bloodshot Records, Dicembre 2012) Genere: Math-Rock Hanno impiegato cinque anni dalla formazione della band per produrre il disco d’esordio i Gallops, gallesi di Wrexham. Nel mezzo, un EP e soprattutto la spinta promozionale dell’emittente regina britannica BBC che sin dall’origine li ha sponsorizzati considerandoli come una delle realtà più interessanti tra le nuove proposte britanniche, tanto da assicurargli il ruolo da headliner nel palco BBC: Introducing dell’edizione 2010 del festival di Reading (e gemello Leeds). Yours Sincerely, Dr Hardcore pur essendo l’ultima in ordine di tempo tra le uscite math/post-rock figlie di Mirrored dei Battles (l’intro di Lasers sembra un omaggio ad Atlas del combo newyorkese), presenta
al suo interno tutte le sfumature esplorate dall’attuale scenario di genere made in UK. Ecco dunque ritrovare le tastiere e i synth tanto cari agli Errors pre-svolta glo (Windows FX), piuttosto che le distorsioni e i feedback proprie del filone più heavy (And So I Watch You From Afar) nella suite conclusiva Crutches; nel mezzo, a cesellare e rendere accessibile le dieci tracce strumentali, una marea di brevi ma ossessivi riffs di poche ma veloci note che hanno fatto la fortuna (e il successo) dei primi Foals. In uno dei settori musicali dove è difficile distinguersi per originalità difficilmente si può sostenere che i Gallops facciano eccezione. D’altro canto non si può nemmeno dire che il risultato non sia soddisfacente: il meltin-pot di influenze c’è ma si miscela in maniera personale. Aspetteremo la conferma. (6.7/10) Andrea Forti
Giulio Aldinucci - Tarsia (Nomadic Kids Republic, Novembre 2012) Genere: ambient L’apertura di Alpha E Omega sa di cameristiche visioni e malinconico incanto, ma è l’insieme del tutto a mostrarsi via via come una perla di suggestiva eleganza minimale intrisa di struggente lirismo. Giulio Aldinucci, senese già noto con la sigla Obsil, abbandona il passato e si getta alla maniera dei nomi da noi spesso citati, anche nel consuntivo di fine anno, in una esplorazione a nome proprio, intimista e iperdettagliata delle lande sonore di stampo ambient elettroacustica. Con gusto da “rinascimento” toscano verrebbe da dire, tanta e tale è l’eleganza con cui Aldinucci soppesa ogni componente sonora senza mai sbagliare dosaggio, o con cui intarsia, ci si scusi il troppo semplice gioco di parole ma proprio a quello mira la scelta del titolo, paesaggi sonori che si stagliano all’esatta convergenza tra immaginario neoclassico e perizia digitale, evocative visioni e impalpabili suggestioni minimali. Prende molto dalla natura circostante com’è giusto che sia e come testimoniano i numerosi field recording utilizzati, ma è il procedimento di accumulo, per stratificazione che non annoia e che anzi svela, ascolto dopo ascolto la capacità visionaria del senese. Capace di (ri) creare psicogeografie (Castiglion Della Pescaia, Winter 2011) che non esitiamo a riconoscere come propri di una Terra particolare com’è la “maremma”, tra estatiche visioni di un cielo iridescente, Sole cocente a disturbare la vista e sfocare il paesaggio, Risacca di un mare lontano e tanta, tanta Pianura (Con Gli Occhi Di F.). La scuola ambient/elettroacustica italiana, a dimostra67
Xabier Iriondo/?Alos - Endimione (Brigadisco Records, Novembre 2012) Genere: noise poetico ?Alos è la nostra Diamanda Galas? Paragone impegnativo, ci rendiamo conto, ma nonostante gli ovvi distinguo - una dimensione vocale molto più limitata e un esotismo maudit meno evidente - troviamo sempre più punti di contatto tra le due. Per immaginario extra-musicale di matrice letterariamente colta, per capacità di infrangere barriere generazionali, per volontà di “teatralizzare”, virandolo drammaturgicamente, un portato musicale aspro, spigoloso, ispido. L’impegno preso per preparare questo Endimione è, per apertura mentale, immaginario evocato - quello dei Madrigali di Artaud -, capacità sovversiva e attenzione al dettaglio, il segno più evidente di una crescita costante, di una ricerca di una via sempre più personale, unica verrebbe da dire, all’oltre-rock. Ad una concezione di musica che è contaminazione con arti visive e visionarie, performance, drammaturgia, poesia e esplicitazione di una bruciante inquietudine esistenziale. Certo, il sostegno di Xabier Iriondo sul versante prettamente musicale è notevole: macchine e cordofoni autocostruiti, field recordings e chitarra, basso e 78 giri d’annata si fanno di volta in volta tappeto minimale per accompagnare il malefico sussurro della Pedretti (Robert Mortier), arpeggio irsuto e in grave tensione tra noise e tradizione a sorreggere la disumanità del cantato (Marguerite Jamois), tribalismo schizzato e asincrono per il cut-up di Florent Fels, anti-blues da discarica (Simone Dulac) o carillon del disagio meets avant classical smostrata (Genica Atanasiou). Ma Iriondo in solo non lo scopriamo certo oggi. La cosa che sorprende è la naturalezza con la quale i due si fondono, compenetrando ognuno le peculiarità e la sensibilità dell’altro, dando vita a un lavoro ostico, duro, incompromissorio com’è giusto che sia - e capi d’opera di avant-rock in overdrive come Charles Dullin e Georges Gabory sono lì a futura memoria - e che brucia ad ogni singolo, impegnativo ascolto. Endimione è decisamente un disco da cui non si torna indietro con facilità. (7.8/10) Stefano Pifferi
zione di un periodo di estrema fertilità, ha un (vecchio) nuovo adepto. (7.3/10) Stefano Pifferi
Guards - In Guards We Trust (Blank, Febbraio 2013) Genere: indie pop-rock Quello dei californiani Guards era uno dei debutti più attesi del primo trimestre 2013. Una band che nasce dalla mente di un Richie Follin che tra le altre cose - nonostante gli opposti East-West - è il fratello di Madeline Follin dei Cults. I primi EP di entrambi i progetti sono usciti nel 2010, ma se la coppia Madeline&Brian ha trovato la consacrazione (vedremo se effimera o meno) già l’anno dopo con l’omomino album, per i Guards il momento di esordire su formato lungo arriva solamente oggi. Con un titolo che non nasconde un certo ego, In Guards We Trust non farà fatica a diventare il lavoro di maggior successo per un Follin il cui curriculum vanta quattro dischi come leader degli indie-garagers minori Willowz e un lavoro solista realizzato ispirandosi ai racconti sulla 68
seconda guerra mondiale che gli raccontava lo zio. Crystal Truth, il brano che li ha fatti uscire dall’anonimato ormai un po’ di tempo fa, qui non è presente. C’è invece la contagiosa Coming True - presentata lo scorso novembre - e i due singoli Silver Lining e Ready To Go. Attenzione però, perchè tutto il disco è un concentrato di melodie orecchiabili, sbarazzine e positive (Can’t Repair). Trova spazio un po’ di tutto in In Guards We Trust, ma nessuna influenza o sottogenere emerge in modo evidente: c’è la pischedelia pop-rock anni ‘90 (1 & 1) filtrata da punteggiature power-pop (Heard The News, Giving Out), c’è un gusto retrò che affiora a tratti (l’appicicosa Your Man, dove è protagonista la seconda voce Kaylie Church) e che si spinge fino al noise-pop meets ‘60s dei Cults incorporando forti dosi di indie corale anni zero. I Guards puntano in alto e non nascondono le ambizioni pop, altrimenti non si spiegherebbero alcuni passaggi un po’ ruffiani di Not Supposed To o situazioni che potrebbero portare alla mente gli Arcade Fire, ma nel complesso era da un po’ di tempo che non usciva un disco con così pochi filler in tracklist. Se non si può negare di avere tra le mani un disco piacevole e non
inquadrabile in nessun contesto/moda del momento, è vero anche che non sembra di essere davanti a una band destinata a modificare l’evoluzione musicale dei nostri giorni. In fondo Richie Follin&co sono dei mattacchioni che coverizzano Metallica, Vampire Weekend e M.I.A, (l’EP Cover Songs) e sanno scrivere immediate pop songs con una facilità impressionante. Full album stream [via Pitchfork Advance] (6.6/10) Riccardo Zagaglia
Guided by Voices - The Bears for Lunch (Fire Records, Dicembre 2012) Genere: alt rock La notizia è che dobbiamo prepararci ad un nuovo album dei Guided By Voices (si conosce già il titolo, English Little League, uscita prevista nei primi mesi del 2013) quando ancora dobbiamo recensire il lavoro precedente. E’ una situazione tipica con Pollard e soci, e sembra proprio che i bei tempi siano tornati. Così tanto e bene che non è il caso di tergiversare né dilungarsi troppo: The Bears For Lunch è il secondo lavoro di inediti (terzo se consideriamo l’ep lungo Class Clown Spots A UFO) dopo la clamorosa e riuscita reunion dello scorso anno, che li vide sfornare l’apprezzabile Let’s Go Eat The Factory. La band di Dayton prosegue sulla propria strada, ovvero fa proprio quello che ti saresti augurato, nessuna sorpresa: spunti hardcore marezzati psych, retaggi wave e vampe power pop, estro stradaiolo e malinconie lo-fi, insomma una fusione di elementi basali che suggeriscono la fantomatica dimensione indie con approssimazione pressoché assoluta. Diciannove i pezzi in una scaletta eterogenea as usual, patchwork sgranato e pulsante di schegge stradaiole (Dome Rust), sdilinquimenti Badfinger (The Military School Dance Dismissal), inneschi robotici (Skin To Skin Combat), arty febbrile (Amorphous Surprise), metalurgie tribaliste (Tree Fly Jet), fragranze bucoliche (Waking Up The Stars) e agri siparietti The Who (Finger Gang). Una collana di pietruzze grezze dal cuore prezioso, sulle quali s’impongono la cupezza rombante di Hangover Child, il crescendo lisergico agrodolce di The Corners Are Glowing e una Everywhere Is Miles From Everywhere che assieme alla opening King Arthur The Red vaporizza d’un botto le residue nostalgie R.E.M. e Hüsker Dü. Se l’autenticità nel rock è un concetto morto fin nella culla, questo è un caso in cui mestiere, attitudine e convinzione (stavo per aggiungere: ossessione) la rendono un’eventualità credibile. In altre parole: repetita juvant. Avanti il prossimo. (7/10) Stefano Solventi
Holiday In Arabia - Open Ending (Baffo Music, Novembre 2012) Genere: electro-dreamy Tra gli stereotipi in voga, quello dei francesi abili nell’avanguardia elettronica, è forse il più errato. Ma certo non si può negare l’importanza di un marchio sonoro (quello electro-soft) per una generazione addietro e forse ancora per quelle a venire: il genere degli Air, dei Justice, di Kavinsky e, di certo, dei Daft Punk. Nel primo Lp degli Holiday In Arabia solo la label promotrice è parigina (Baffo Music), ma già lì è innegabile l’enorme influenza dell’immaginario di riferimento sul duo mantovano. Il disco, che si sviluppa in nove episodi da cassa dritta e atmosfere oniriche, è un elogio ai finali aperti (il titolo è Open Ending) dei film sperimentali. Come chi ha imparato a tessere trame complicatissime e a non sbrogliarle mai, gli HIA si fanno promotori di un sound debitore tanto alla tronica anni Ottanta, quanto al kraut teutonico, tanto al trip-hop brisoliano, quanto alle derive electro-dark più “commerciali”. Dietro un muro di oscurità malaticcia, da ciminiere non depurate, da postindustria distopica, si celano claustrofobiche verità, che non lasciano spazio al terso cristallino del cielo, né ad una semplice risalita. Si va dall’asse più spiccatamente pop di Open Ending con (Im)patience che fa il verso ai Depeche Mode, Cosmos che vede il fortunato featuring del chiacchieratissimo Pietro Paletti (The R’s) e Around Me che suona come se i Daft Punk si fossero fatti infinocchiare dagli Air, con le loro derive dreamy; per passare poi all’animo sperimentale di un disco suonato (salvo pochi episodi) tutto chini su laptop e drum machine: la opening track 1960 che ci ferma nel purgatorio di Moby solo per qualche istante, prima di passare all’electro-poliziottesca Petrolio (con i dialoghi di Milano Calibro 9) e alla cavalcata finale di Tegel, in cui l’insistenza riverberante delle percussione sfuma nello spazio propulsore del nulla. Dopo l’ottimo esordio in Ep ci aspettavamo una conferma dal duo: Open Ending è la prova tangibile della vitalità della band e di un genere che, salvo pochi nomi importanti, (Aucan su tutti) nel Bel Paese molto spesso cade nell’anonimato. (6.9/10) Nino Ciglio
Horror Vacui - In Darkness You Will Feel Alright (Avant!, Novembre 2012) Genere: goth-punk Dicevamo in occasione della ristampa di Osanna! L’angelo Sterminatore dei Rivolta Dell’Odio di come il re69
troterra punk primigenio fosse divenuto humus fertile per lo sviluppo di idee post-punk/wave dalle sonorità gotiche. Ora ribadiamo il concetto con l’esordio lungo dei bolognesi Horror Vacui, quintetto misto proveniente a vario titolo dalla scena hardcore/crust cittadina con Kontatto, Campus Sterminii e Sumo. Album che racchiude l’immaginario di base rendendo perfettamente la dimensione del goth-punk sound che aveva colpito il nostro Andrea Napoli all’epoca sia del primo demo, che del primo 7”, al punto che è proprio la sua Avant! a co-produrne l’esordio. I nove pezzi, comprese intro ed outro, di questo In Darkness... ci mostrano come i cinque siano fedeli compagni di acts come Anasazi e Lost Tribe, tanto per fare due nomi spesso passati su queste pagine, infilando una serie di canzoni “classiche” che sanno di ciuffi neri, ossessioni alla Sisters Of Mercy, cantato petermurphyiano e aggressività grezza di chiara matrice punk. Non uscendo dal perimetro delle sonorità e delle influenze di riferimento, ma aggiungendoci quel sudore e quella sincerità che li fa apprezzare. Una bella botta di vita per nostalgici indefessi e neodark addicted. (7/10) Stefano Pifferi
I Am Kloot - Let It All In (Pias, Gennaio 2013) Genere: indie pop folk Sesto album in studio per gli I Am Kloot, un percorso il loro che si avvia a coprire tre lustri, rotolati con una certa inerzia dopo il botto dell’esordio Natural History. Il quale - visto da qui - sembra sempre più un buon disco capitato nel posto giusto al momento più giusto possibile. Da quello, ahiloro, non hanno saputo ripetersi né reinventarsi, malgrado i tentativi di aggiustare il tiro e azzeccare qualche pezzo degno della fama. Con questo Let It All In - affidato alle cure degli amici-producer Guy Garvey e Craig Potter della fidata casa Elbow come già il non memorabile predecessore Sky At Night - dimostrano se non altro di aver affinato la calligrafia fino al punto in cui non distingui più dove inizi il mestiere e finisca l’ispirazione. Con la particolarità di cavarsela meglio quando scelgono di giocarsela sotto traccia, tra ugge folk-blues e tepori orchestrali, con la voce chioccia di Bramwell opportunamente mantenuta su registri laconici: e comunque si tratta di episodi al più gradevolmenrte interlocutori. E’ il caso della dolciastra Masquerade (vagamente George Harrison), della sottilmente inquieta Hold Back The Night, di Bullets con quell’aria guitta e spiegazzata da 70
club fumoso, di Let Them All In col freno a mano tirato sulle palpitazioni Grant Lee Buffalo. Va meno ben quando entra pesantemente in gioco il tocco di Garvey/ Potter, quella strategia di rimbombi, riverberi e tastiere caramellose per imbastire un’epica inafferrabile da Eno/ U2 addomesticati (Even The Stars) o fremiti raga come dei Talk Talk in sedicesimi (These Days Are Mine). C’è insomma un difetto di sostanza ed è tanto più evidente quanto più sono gli espedienti utilizzati: è emblematica in questo senso la conclusiva Forgive Me These Reminders, toccante finché mantiene un’essenzialità sgualcita Wilco e piuttosto stucchevole con l’entrata in scena degli archi nebbiosi. Cos’altro aggiungere: a volte la maturità può essere la peggiore delle sentenze. (5.8/10) Stefano Solventi
Iceage - You’re Nothing (Matador, Febbraio 2012) Genere: post punk Gli Iceage sono quattro ragazzini danesi nati in quell’underground che poi sarebbe meglio chiamare overground. Tam Tam sulla rete per un disco bello e chiacchierato ancora prima di sentirlo, e all’uscita nemmeno troppa delusione, anzi un post punk al fulmicotone che si era fatto apprezzare per immediatezza e smalti: questa la storia del debutto New Brigade targato Dais. Ora, a un anno di distanza, li ritroviamo nel rooster Matador, un bel colpaccio che sembra fare il paio a una scaletta perfetta per la conquista degli USA. Chi aveva amato le tenebre patinate noise più europeiste rimarrà un po’ deluso: sempre di post punk trattiamo, ma qui la deriva hard californiana dei 90s (Nofx e Drive Like Jehu) si fa più incisiva e ortodossa facendo suonare You’re Nothing meno fresco rispetto al predecessore. E’ un peccato perché sul fronte concettuale l’approccio alla materia rimane sostanzialmente identico: piacciono gli Iceage che suonano dritti, immediati e melodici, sferrando una malinconia pestata a sangue aperta a piccole stonature e imprevisti. Ci fosse stato più spazio per l’immaginazione saremo qui a parlare di un disco per le chart di fine anno, così invece tocca accontentarsi del trittico in repeat Morals, Everything Drifts, Wounded Hearts come caparra per il futuro. (7/10) Stefano Gaz
Jamie Lidell - Jamie Lidell (Warp Records, Febbraio 2013) Genere: funksoul 80s Questo disco è una grossa succosa Big Babol. Acquolina in bocca per la golosità immediata dei suoni, tutti da masticare e succhiare, ma più mastichi e meno ne resta di sapore. O meglio, il sapore è quello di cose già masticate, e senza che gli additivi del nuovo risaltino particolarmente o risultino particolarmente felici. E dopo un po’ la sputi via la Big Babol. Sempre più immerso a pesce negli anni Ottanta, ritmiche quadrate e squillanti, cosmesi plasticosa e lucida di tastiere e controtastiere e mood colorato e partydressed (occhio a certi affondi praticamente hip house), Lidell va di canzoni sui 4 minuti abbondanti, tirando per le lunghe idee superpop fastfood che sarebbero ben più ficcanti se accorciate. Il pathos di What a Shame, robotico, e il refrain instant-tormentone di Do Youself a Flaver, i luccichii stardust post-disco di So Cold e gli spasmi sottilmente michaeljacksoniani di In Your Mind non riescono a contrastare più di tanto l’impressione generale, con gli stanchi sdilinquimenti e la stanca bassline grassamente funk di You Naked, la gag boogie onomatopeica - c’è il trombone a coulisse - che vorrebbe forse essere a modo suo tomwaitsiana di why_ya_why e il guazzabuglio You Know My Name, come un aggiornamento clash su Super Freak di Rick James. Proponendosi come anello mancante - senza troppe obliquità - tra Prince e Justin Timberlake (sparsamente, e clamorosamente in Blaming of Something), l’album scivola all’ascolto ed è anche piacevole, piacevolmente caricaturale (ma senza gli eccessi fantasticamente grotteschi e quindi liberatori di 20Ten), sempre che non si abbia in antipatia il personaggio, tra stilizzazioni lidelliane a un passo dalla maniera (ok, di maniera e basta) e dai cliché di genere. Noi in antipatia non ce l’abbiamo e però ci sembra questo un lavoro prescindibile, che nulla aggiunge e nulla varia rispetto a quanto fatto finora, dai profetici Super Collider di Christian Vogel ai lavori solisti. Lidell lo dice in apertura, è egoista, e stavolta si diverte soprattutto lui. (5.8/10)
e ricorda il tempo in cui era semplicemente un robot”. Se il titolo non fosse già evidente da sé, ci pensa lo stesso Jim James a spiegarci (a modo suo) in quale strano trip spiritual-sci-fi sembra essersi intrappolato. Se però avete a mente stranezze provenienti dal recente catalogo My Morning Jacket come Highly Suspicious o Holdin’ On To Black Metal, non esiterete a realizzare che questa cosa ha un senso. Ancor più quando l’autore rivela l’ispirazione principale per questo debutto solista ufficiale (se non contiamo le scorrerie dei Monsters Of Folk o le cosucce pubblicate a nome Yim Yames): la graphic novel del 1929 God’s Man di Lynd Ward, capolavoro interamente intagliato nel legno che racconta per immagini - senza testo - l’ascesa e la caduta di un uomo. Ambizioni a parte, Regions Of Light And Sound Of God si rivela, nelle sue nove tracce, per quello che effettivamente è: il gioco-capriccio di un bandleader/cantautore che a un bel momento della carriera decide di fare (anche perché ne ha l’opportunità, finalmente) un disco tutto da solo. Jim suona la maggior parte degli strumenti, pasticcia con i loop come piace al suo idolo - mai dichiarato - Thom Yorke (I Didn’t know Til’ Now), va a briglia sciolta tra funk-blues spaziali (State Of The Art) e canzoncine anni ‘50 come piacerebbe all’amico M Ward (A New Life), e in generale si lascia andare a suggestioni tutte personali incurante sia della coerenza stilistica sia, talvolta, del buon gusto (le scale arabeggianti di All Is Forgiven). Del gruppo madre (ovvero di quel folk-rock sanguigno) resta solo l’impronta dream-psych: il tutto è effettivamente sognante e, nel senso più genuino del termine, psichedelico, e la predilezione per il soul di Marvin Gaye si fa sentire più che altrove (e figuriamoci se è un male); il vero problema è che la natura ludica del tutto - benedetta, per carità, ma va dichiarata - non lascia grande spazio alla piena realizzazione artistica che si presuppone (e in un certo senso si sbandiera). Sempre che fosse questo l’obiettivo, e non quello - più plausibile e realista - di togliersi uno sfizio nella maniera più weird - diremmo, flaminglipsiana - che si potesse concepire. (6.1/10) Antonio PancamoPuglia
Gabriele Marino
Jim James - Regions Of Light And Sound Of God (V2 Music, Febbraio 2013) Genere: psych, pop “Volevo che questo album suonasse come proveniente da un’altra dimensione temporale. Proveniente dal passato del futuro, sempre che questa cosa abbia un senso; il sogno di un androide-umanoide che ha acquisito coscienza
Jim O’Rourke - Old News no. 8 (Mego, Settembre 2012) Genere: elettroacustica La serie Old News continua la rapida successione, dal quinto all’ottavo capitolo, in un anno e mezzo o poco più. Queste vecchie notizie del compositore Jim O’Rourke non sono fatte per stupire ma per tracciare una personale agiografia dove la produzione più blasonata, 71
affiancata alla meno conosciuta, costruisce una storia possibile. Partiamo dall’episodio meno noto: in Giappone, Jim rimasterizza Merely, un brano inciso dal vivo presso la chicagoiana DePaul University nel 1991 a tiro del bellissimo CD Disengage, un manifesto di grandiosità elettroacustica e nondimeno dello spazio mentale che il poliedrico musicista voleva dimostrare di sapersi prendere nelle attenzioni dell’ascoltatore. Fatto strano per chi è sempre parso tenere più per una proliferazione di esplorazioni e di enunciazioni, anziché per il perentorio statement. Disengage si prese spazio allora come oggi nel doppio LP, e nella recensione che qui lo sta affrontando. Da quell’uscita O’Rourke riprende la prima composizione Mere, divisa in tre parti, e la sistema nelle facce A, B, C del vinile duplice di Old News no. 8. Mere era forse meno interessante di A Young Person’s Guide To Drowning, eppure risentirla - nei suoi tre atti dronici, nella sua capacità, dopo vent’anni, di ipnotizzare come al primo ascolto - su supporto vinilico, e quindi dando alla pausa dei tre movimenti un riscontro fisico, psico-motorio, è un’esperienza di ri-ascolto non irrilevante. La tenuta semantica e stilistica del doppio si gioca forse solo su un gioco di parole, le due lettere che separano Mere da Merely, di cui sopra, fatta di percussioni di presenza inconstante, che entrano in sinusoidi armoniche tra loro stesse e i tocchi di triangolo. Un trattato sulla permanenza nel taccuino uditivo e nei solchi del vinile, una specie di lavoro sulle conseguenze, sugli effetti elettroacustici del gesto acustico. Scavando nel proprio passato, Jim O’Rourke recupera episodi più o meno convincenti. Qui, nulla che non lasci il segno. (7/10) Gaspare Caliri
Joy Formidable - Wolf’s Law (Atlantic Records, Gennaio 2013) Genere: rock-pop The Big Roar, album targato 2011 dei gallesi The Joy Formidable, aveva ricevuto al momento dell’uscita critiche molto positive. Ci siamo chiesti molte volte per quale motivo e ancora non siamo riusciti a darci una risposta. Lasciando da parte il discorso critico, The Big Roar per Ritzy Bryan e compagni ha rappresentato il definitivo superamento delle barriere “indie”, andando ad incontrare un pubblico decisamente più vasto rispetto al debutto mini album/EP A Balloon Called Moaning del 2009 con il quale condivideva diversi brani. Era quindi 72
logico aspettarsi un ulteriore scalino in direzione mainstream e Wolf’s Law, in questo senso, non tradisce le attese. Il trio parte da dove aveva terminato la precedente esperienza, ovvero dalla rock music che va alla ricerca dell’epico radiofonico: la voglia è quella di uno strafare non concesso dagli schemi classici del “radio edit” e alla fine ci si ritrova in mano un prodotto piuttosto artefatto. Il singolo This Ladder Is Ours è tutto ciò che era stato chiuso nel cassetto “mid-90s female rock” e che non volevamo riascoltare, ovvero chitarre + tiro alla Placebo + vocina pop. Il problema più grande della band, qui come in passato, è l’incredibile dislivello qualitativo tra il comparto strumentale (grandioso e avvolgente) e quello vocale, spesso melodicamente frivolo, tanto da non risultare troppo lontano da quello di formazioni come i Paramore: prendete un pezzo come Maw Maw Song e fatelo cantare ad una Karen O qualsiasi, il risultato cambierebbe drasticamente. Se avete voglia di Cranberries con le chitarre in perenne overdrive (Tendons), di Foo Fighters senza il carisma di Grohl o di Smashing Pumpkins via Silversun Pickups (The Leopard and The Lung), troverete di che gioire (almeno sul lato strumentale) ma potreste comunque storcere il naso davanti ad alcune sbandate inconcepibili. Little Blimp ad esempio, porta una linea di basso distorto in zona Balzary che si tramuta in una sorta di epic-disco-rock poco definibile (se non un ritornello che ricorda i The Gossip). Inutile girarci troppo attorno, i Joy Formidable convincono più a livello di produzione - si sono fatti aiutare dal guru Andy Wallace al mixaggio, ma per il resto è opera loro - che a livello di idee compositivo-melodiche. Anche in Wolf’s Law infatti il suono è perennemente over the top, un trionfo di potenza (Bats) che trova pausa solo nell’evitabile passaggio acustico-riflessivo Silent Treatment. L’impatto rock e la capacità di sprigionare energia non salva un lavoro che scende a troppi compromessi pur di arrivare ad un obiettivo in fin dei conti non così scontato. (5.8/10) Riccardo Zagaglia
Karl Marx Was A Broker - Alpha To Omega Director’s Cut (From Scratch, Febbraio 2013) Genere: post punk noise Correva l’undicisettembre del 2011 quando vi riferimmo dell’esordio dei Karl Marx Was A Broker, un duo che imbracciando il basso e molestando una batteria
(col non piccolo aiuto di un loop) riusciva a combinare ordigni incandescenti e spigolosi come una turbina impazzita noise, math, hardcore e stoner sbilanciato metal. Tutto ciò senza proferire parola, mettendo però i testi a disposizione di chiunque li volesse sbraitare. Alpha To Omega ne usciva quindi come un lavoro convincente, capace di sopperire con piglio, intensità e tracotanza ad una sostanziale mancanza di originalità. Bene. Però, siccome evidentemente i due pistoiesi sono più tradizionalisti di quel che la ragione sociale faccia pensare, lo scorso giugno hanno voluto obbedire al vecchio adagio che non c’è due senza tre, imbarcando in formazione il chitarrista/tastierista nonché tecnico del suono Stefano Tocci, già nei concittadini e piuttosto sludgy Incoming Cerebral Overdrive. Risultato, una gran voglia di rimettere mano al materiale passato per meglio imbastire le trame del futuro. Le nove tracce del debutto vengono quindi riviste alla luce di questa nuova triangolazione, un “tuning” elettrosintetico col quale perdono un bel po’ di quel ghigno carbonaro ma guadagnano in effervescenza e acidità, esplodendo col fragore tridimensionale di uova in un microonde. In attesa degli inediti veri, ai quali pare stiano già lavorando, mi sembra che abbiano fatto il passo nella giusta direzione. Attendiamo fiduciosi. (7.1/10) Stefano Solventi
L’officina della camomilla Senontipiacefalostesso Uno (Garrincha Dischi, Febbraio 2013) Genere: indie-pop Solo qualche mese fa riflettevamo sul “caso” Lo stato sociale con tutto il portato sociologico annesso e connesso e ora ci troviamo a scrivere di una band che adotta lo stesso modus operandi. A cominciare dall’etichetta scelta per la pubblicazione (una Garrincha Dischi che dopo il successo di Turisti della democrazia riprova il colpaccio), passando per gli ospiti chiamati a collaborare (a dare la benedizione c’è proprio la formazione bolognese citata in apertura), fino ad arrivare a un immaginario che più indie di così non si potrebbe. Con tanto di Ikea immancabilmente citata nei testi, manco si trattasse ormai di un riferimento obbligato per ogni band emergente che si rispetti. Certo, affidarsi anche a scelte musicali analoghe sarebbe stato troppo, e allora i cinque de L’officina della camomilla optano per un groviglio di chitarre elettriche à la Libertines (Dai graffiti del mercato comunale), una spruzzata di reggae (Agata Brioches), intimismo sdrucito da cameretta (Un fiore per coltello), certi pianoforti disim-
pegnati (Città mostro di vestiti) e persino il country (La provincia non è bella da fotografare). Senza dimenticare di confezionare tormentoni à la Mi sono rotto il cazzo, come il post-punk della discutibile Ho fatto esplodere il mio condominio di merda o una La tua ragazza non ascolta i beat happening “danzereccia” e incalzante a suon di “Siamo pieni di droga”. Singoli a loro modo virali, adatti a un pubblico che si è già dimostrato ricettivo in questo senso, attorno a cui costruire un tour duraturo seguendo l’esempio dei “progenitori”. La sensazione è di avere a che fare con una via di mezzo tra i Lo stato sociale e Jocelyn Pulsar, con la differenza che mentre i primi almeno sanno come rendere appetibile un testo e il secondo è capace di dosare ironia e leggerezza, qui si naviga a vista prendendosi fin troppo sul serio. In primis nel confezionare un prodotto che ammicca alle logiche di intrattenimento dei social network senza giustapporre un contenuto solido, tanto per dire che per proporsi come “icone” di un’ ipotetica gioventù web 2.0 ci vogliono comunque un minimo di creatività e tematiche condivisibili. Nonostante qualche buona idea, invece, Senontipiacefalostesso Uno si può riassumere in passaggi come “I film impegnati li lascio a te / io preferisco saltare la sera sui tappeti elastici / mentre canti le battaglie di Federico Fiumani / quando canti le gesta degli anni 90 dei tuoi ragazzi alcolizzati / e corri come una disperata sotto tutti i portici / ed inciampi come una disperata addosso a tutti i camerieri più educati”. Parabole che lasciano il tempo che trovano, confermando ancora una volta come certa musica nostrana sia sempre più interessata a divertire platee musicalmente non troppo esigenti, piuttosto che a rappresentare una forma d’arte fine a se stessa. Detto questo, sarà comunque un successo, tanto che pare sia prevista una parte seconda da pubblicare entro il 2013. (5/10) Fabrizio Zampighi
La notte dei lunghi coltelli - Morte a credito (Black Candy, Gennaio 2013) Genere: rock sperimentale È un nome impegnativo. Evoca fosche visioni, insinuandosi sotto pelle con un misto di sgomento, rispetto e repulsione. La notte dei lunghi coltelli: suona bene, in effetti. Se lo si accosta al titolo di celiniana memoria, Morte a credito, il tutto acquista un’impronta di ieratico esistenzialismo che, ancor prima di premere il tasto play, lo sappiamo, condizionerà l’ascolto. Per la cronaca, si tratta del nuovo progetto di Karim Qqru, batterista degli Zen Circus, che questa volta ci 73
mette la penna e la voce, oltre a tornare a imbracciare la chitarra, strumento che ne ha segnato gli esordi da musicista. Accanto a lui, Izio Orsini dei Jackie O’s Farm, Ale Demonoid Lera (già con gli Exilia) e una serie di ospiti noti del panorama underground nazionale. Ma torniamo al disco. 1934, dicevamo, Céline, ma anche Camus, evocato nella traccia che apre l’album, La caduta; e poi il Jacques Prévert di J’ai toujours été intact de Dieu e il Lev Tolstoj di Ivan Iljc. Riferimenti storici e letterari liberamente accostati, scevri sì di una fastidiosa ostentazione intellettualoide, ma anche privi di approfondimento e giudizio, spogliati così di ogni rappresentazione che non sia la pura e semplice compilazione di uno zibaldone di pensieri, influenze e suggestioni piuttosto sommarie. Ci si interroga dunque non tanto sul senso dell’operazione - del quale l’autore detiene un sacrosanto (e se vuole, esclusivo) diritto di proprietà - quanto sulla forma dell’opera, sul soddisfare o meno le aspettative che inevitabilmente gravano quando si mette in gioco una tale quantità di materiale culturale (e umano). Anche perché sul frangente puramente sonoro la questione non è meno confusa. L’impronta nichilista, la sublimazione della violenza, la poesia e la rabbia si disperdono in una serie di soluzioni disomogenee, accostate in un racconto che fatica a veicolare il proprio messaggio. Da una parte, abbiamo l’hardcore di matrice Refused in brani come La nave marcia (qui intervallato da dilatazioni electro), Morte a credito (saltellante nei cori punk-rock) e l’iniziale La caduta, nella quale, “L’urlo che precede l’urto” pare lanciare il disco nella giusta direzione, fintanto che non ci si va a schiantare - appunto - contro un maldestro recitativo, privo di trasporto, compromesso da un’eccessiva inflessione dialettale. La patina sintetica che avvolge l’intera produzione funge da trait d’union con l’altra anima del lavoro, quella elettronica; un po’ abbozzata nei fantasmi reznoriani della strumentale Ivan Iljc, declinata a reading nella lingua originale del già citato Prévert e, infine, liquefatta in un gelido ambient, nell’atmosfera desolata della Notte dei lunghi coltelli, che vede la partecipazione di Nicola Manzan al violino e nella quale si cita Visconti con un parlato questa volta sommesso, quasi ricacciato in gola, certamente più opportuno. Su coordinate ancora differenti troviamo il brano “all’altezza della situazione”, che arriva tardi ma arriva: D’isco deo, disossato e privo di ritmica, interpretato in sardo dal bravo Diego Pani, vive di voce, organo e chitarra, quanto basta per un appello rabbioso, intenso e disperato. E poi il cameo di Aimone Romizi dei Fast Animals and Slow Kids in Levami le mani dalla faccia, punk-rock su base hard-blues mutante e rumoristico, per arrivare all’indecifrabile divagazione horror elettronica della Bo74
nus Track che chiude un album rischioso, pericolosamente in bilico tra pretenziosità e approssimazione, che non mancherà di esaltare il pubblico più affezionato a certo underground italico, lasciando probabilmente perplessi gli ascoltatori più smaliziati. (5/10) Antonio Laudazi
Lactis Fever - Lactis Fever (Peteran Records, Ottobre 2012) Genere: indie-rock Avvertenza: integralisti del post-punk, abbandonate questa pagina, non fa per voi. Il secondo Lp dei Lactis Fever, infatti, è un tripudio di melodia e magnificenza come solo i grupponi americani sanno fare. Non senza presunzione e (c’è da dire) grande abilità, la band di Como aduna attorno a sé i migliori stilemi dell’indie-rock da indie-disco o da Mtv; quella, per intenderci, che ha stancato già da un po’ noi ascoltatori insaziabili e più antichi. Prodotto con Matteo Cantaluppi (Bugo, The R’s, Canadians), Lactis Fever contiene nove tracce illuminate da un sole splendente, che fa scorrere col sorriso sulle labbra (e il più velocemente possibile) i coretti, gli ohoh, i la-la-la, la voce magnifica di Luca Tommasoni, i riff politicamente corretti delle chitarre, i crescendo quanto mai prevedibili di gran parte dei brani. Sulla matrice è inutile soffermarsi troppo. Che ritornino nelle nostre orecchie i Killers (The Wrost Thing You Ever Done, Shadow Of A Doubt, Oh Lord) o i Glasvegas (The Sun In Shining) o i Kasabian (Ela), poco cambia: l’impressione è sempre quella che da un momento all’altro, un fuoco d’artificio stia per scoppiare sul palco, col conseguente boato di ammirazione della folla oceanica. Lactis Fever è, per farla breve, un’ottima prova di abilità della band nel descrivere con i mezzi giusti, un genere che fa sempre presa sulle masse di video-spettatori di canali musicali e i fan incalliti di serie televisive facilone. Un disco, insomma, prevedibile per chi è cresciuto e si è evoluto con l’indie-rock, che raggiunge la sufficienza solo grazie alla cura con cui è stato concepito. (6/10) Nino Ciglio
Lo Sconosciuto - Decalogo + 1 (A Cup In The Garden, Dicembre 2012) Genere: wave-cantautorato Il cinismo è quello paranoico dei Piet Mondrian, anche se Lo sconosciuto racchiude il suo essere contro in una musica delirante almeno quanto le miserie della quotidianità di cui si fa portavoce. Generi, parole e suoni ven-
gono frantumati e ricombinati, quasi fossero il risultato di una genetica impazzita: il cantato all’elio di Identità, un Battisti in acido in Tuedio, il Battiato psicotico di Gelosia e Giustizia, il Ferretti di Libertà, ma anche il folkwave allucinante di Lo sai Baba o la ripetitività monolitica di una Solidarietà che ricorda nelle claustrofobie la Justice Aversion di Smog. Ad un primo ascolto il rigetto è quasi totale. Ci si chiede anzi se Federico Moi, in passato già batterista degli Hollowblue oltre che titolare di tre dischi a nome Lovers Of 69, non ci stia prendendo per i fondelli con un lavoro che sembra non voler arrivare da nessuna parte. Poi diventa chiaro che il succo del discorso sta proprio lì, nell’estrema libertà formale alla base di brani volutamente fuori dai canoni, in una musica che è trip fine a sé stesso, autosuggestione, sfogo controllato. Torna in mente il delirio formale del Barrett solista - se non nei suoni, per lo meno nell’approccio generale - e persino il surrealismo dei Maisie, premesso che Moi avrebbe comunque qualcosa da mettere a posto in testi brillanti ma talvolta anche troppo vicini a un triviale piuttosto banale. Quel che conferma di non avere a che fare con il risultato di una frustrazione improvvisata da cameretta ma con un disco consapevole, è una parte musicale ben organizzata, efficace, follemente lucida. Valore aggiunto di un disco che funziona, pur mettendo a dura prova gli schemi interpretativi di chi gli si avvicina. (6.5/10) Fabrizio Zampighi
ma più spesso viene presentato, uno alla volta, un campionario di personaggi, che poi abbiamo l’impressione possano confluire in mille narrazioni future. O, il che è lo stesso, possono aprire a mondi narrativi nell’orecchio dell’ascoltatore (come quelli cinguettanti della quarta traccia, o quelli sottomarini della terza), senza che queste si realizzino su supporto discografico. Intersezioni di vortici, studi ritmici e false chimere è un bestiario elettroacustico, fatto di modulazioni analogiche al sintetizzatore. Si gusta (specie in cuffia) la dinamica reciproca tra i canali, che Maggiore sul finale di qualche traccia non manca di sottolineare, ma anche lo spettro di timbri abbastanza ampio, che però esclude quasi sempre i bassi. Alcuni pungono come glitchismi, senza avere il tenore di un trick informatico ma difendendo la pasta analogica. Il bestiario ha una tenuta interna invidiabile, ed è - se considerato nella sequenza - una suite di cui sono apprezzabili rimandi, derive e ritorni. Eppure ogni suono parla anzitutto di se stesso. Questo detto, siamo ancor più convinti che gli anni che viviamo siano sempre più diretti (non solo in elettroacustica, ma anche nell’elettronica) a concentrarsi sul Suono, sulla sua “presenza”, sull’identità che esso ha in sé e sulla centralità che riveste nella composizione e nell’effetto di fruizione. Immancabile sinergia tra creazione e produzione. In questo, l’elettroacustica - e il traghettamento interno che sta vivendo tra disinvoltura dei primi ‘00 e “cura” maniacale odierna - è un laboratorio appassionante. (7.3/10) Gaspare Caliri
Luciano Maggiore - Intersezioni di vortici, studi ritmici e false chimere (Senufo Editions, Settembre 2012) Genere: elettroacustica
Massimo Giangrande - Directions (La Pioggia / Venus, Dicembre 2012) Genere: cantautorato, rock
L’improvvisazione e la composizione elettroacustiche dell’ultima manciata di anni sono certamente fatte più di brani lunghi che brevi. Non è necessaria una statistica per dimostrarlo, è una questione più di approccio che di quantità. Si tende spesso a costruire suite narrative, con una variabilità interna “tracciabile” e percepibile. Fatto che rende più accessibili anche suoni più ostici, perché inseriti in un discorso. Uscito a stretto giro con la seconda collaborazione con Francesco Brasini, Intersezioni di vortici, studi ritmici e false chimere di Luciano Maggiore, registrato tra la fine del 2011 e i primi mesi del 2012, percorre la strada opposta. Non ci sono lunghe composizioni ma dieci brevi bozzetti, che vanno dal minuto o poco più ai cinque abbondanti. In questo spazio-tempo, non è escluso il “dialogo interno” (come nella settima traccia),
Che il buon Paolo Benvegnù ci avesse abituati a tematiche d’ascolto diverse da quelle degli Scisma (ma diverse anche da quelle dei primi due dischi solista), è cosa nota. Questa volta, però, ci sembra aver fatto un buco nell’acqua con la produzione artistica del secondo disco del cantautore romano Massimo Giangrande. Giangrande è attivo da anni sia sul fronte delle band capitoline (Punch & Judy), sia su quello delle colonne sonore per il teatro (Paola Cortellesi, Claudio Santamaria) e Directions è il secondo episodio che porta il suo nome dopo Apnea. Le “direzioni” del titolo sono, da una parte, i differenti contesti in cui il lavoro è stato concepito - in viaggio perpetuo per l’Europa, nei camerini dei concerti, nei bar, nei pub, quasi a dire che l’arte si manifesta meglio nell’iter vitae -, dall’altra le ramificazioni del pastiche linguisti75
co che fa scontrare l’italiano con l’inglese, l’inglese col francese e così via. Il retroterra sonoro è un inno al sentimentalismo spicciolo al quale noi italiani siamo ben assuefatti. Directions infatti convoglia dodici ballate di suoni malinconici che, se a volte sembrano ricordare i Radiohead di Ok Computer (Chi tace acconsente, Bad Dream, Much More, Down Down), altre volte destano serie perplessità avvicinandosi in maniera preoccupante al buon Francesco Renga o, peggio, a una versione indiequalcosa dei Modà (La neve di Eva, Un attimo di gioia). A parte le reiterazioni musicali (accordi strascicati di pianoforte, arpeggiato di chitarra ossessivo) e l’inclinazione al biascicato/sussurrato/etereo/malinconico del cantato, Directions è un disco che parla solo d’amore e non nella maniera migliore: con quel “patetismo” stra-sognante che affligge la nostra povera penisola da sempre. Buono per il palco dell’Ariston, Massimo Giangrande non ha l’incisività per convincerci e a poco servono i ritmi jazzati della bella Le poisson dans l’Eau o la presenza di La neve di Eva fra i brani del film Viva l’Italia di Massimiliano Bruno. Le directions della musica nostrana preferiremmo fossero altre. (5/10) Nino Ciglio
Matmos - The Marriage of True Minds (Thrill Jockey, Febbraio 2013) Genere: concreta Giocare coi sensi è sempre stato, tra le tante altre cose, un cruccio dei Matmos. In RGB [An Audio Spectrum], ispirandosi al colore blu, i Nostri avevano suonato per una quindicina di minuti cubetti di ghiaccio e vetro; in The West, un road trip da San Francisco a Los Angeles (e ritorno) aveva fornito una traccia tematica per un’indimenticabile jam allaragata a dieci elementi tra macchine, uomini, strumenti, droni e cut up. In California Rhinoplasty, da campionamenti presi da uno studio di chirurgia estetica, il duo ci aveva fatto ascoltare della cartilaginosa glitch house in stile Matthew Herbert / Dr. Rockit, mentre in The Rose Has Teeth In The Mouth Of A Beast - dedicato a una decina di icone gay scomparse - condensato nel massimalismo del precedente The Civil War l’intero spettro estetico della gay culture di ieri e di oggi. Dopo una immersione di tastiere analogiche (Supreme Balloon) e una collaborazione con il quartetto di percussionisti/concretisti So Percussion (Treasure State), entrambi progetti rivolti al lato più jammato della loro attività, Drew Daniel e M.C. Schmidt tornano quindi a sondare i rapporti da occhio e orecchio, pop e avanguardie, in un ritrovato lavoro concettuale che intende, se 76
è possibile, superare il numero delle suggestioni estetiche e soniche finora espresse. Per farlo occorreva un nuovo escamotage, un nuova potente idea che si è ben presto sposata con un adattamento dall’esperimento di percezione e trasmissione extrasensoriale noto come Metodo Ganzfeld. In pratica, le suggestioni per la composizione delle tracce sono arrivate direttamente da una serie di cavie munite di occhialini di plastica (quelli della copertina) che ascoltando white noise, hanno descritto attraverso parole e immagini l’idea del disco fornita (ehm... telepaticamente) dalla coppia. Gli esperimenti sono continuati per ben quattro anni fornendo le linee guida per le singole composizioni: dalle mesmeriche tracce vocali sono nate le parti melodiche (il lato “pop” del disco), mentre dalla descrizione delle immagini fornite dai partecipanti si sono sviluppati gli arrangiamenti, affidati, oltre che ai Matmos, anche a membri del Nautical Almanac e del Arditti String Quartet (oltre a numerosi guest a loro volta anche cavie del Ganzfeld e musicisti aggiunti). Vien da sé che, senza alcuna discontinuità con le prove recenti, The Marriage of True Minds è la naturale evoluzione di The Rose Has Teeth.., un album zeppo di qualsiasi cosa e senza distinzioni di sorta tra arte concettuale e pop music, techno e musica latina, jazz e cosmica e persino doom metal, nel finale. In pratica, è come se il The Way Out dei Books fosse stato orchestrato da Frank Zappa o messo nel miscelatore di campioni dell’ultimo Alvin Curran: su una ricorrente serie di voci da training autogeno, il duo imbastisce fusioni tra tech-house e chamber music a suon di percussioni di elastici (a cura di Jason Willett degli Half Japanese) e tip tap su pavimento di pietra (You), pop song in gothtrance (al crooner Ed Schrader è stato chiesto di cantare le parole recitate durante la sessione Ganzfeld), fino a sondare avanguardie storiche e la a lungo amata concreta grazie a noise e field recording (Ross Transcript). Parentesi obbligatoria per gli special guest: il sempre prezioso Jay Lesser in Teen Paranormal Romance (cari Mouse On Mars perché non siete invecchiati altrettanto bene?), lo spirito affine Dan Deacon in Tunnel - altro bordone tra wave e tech, didgeridoo, funk e una sorta di Big Beat frantumato - e l’integerrimo Keith Fullerton Whitman in Aetheric Vehicle che fornisce la trascrizione per una variante funky di tradizionali melodie etiopi poi confluite in una sinfonia Kraftwerk pre-Authobahn. Nota doverosa e puramente simbolica per le due cover, la citata You scritta originariamente da Leslie Weiner e Holger Hiller (dei mitici Palais Schaumberg) e E.S.P. dei Buzzcocks, che rappresenta appunto il finale tragicomico (e un po’ superfluo) con i growl metallari.
L’ubriacante girandola sonica celebra i vent’anni umani e artistici della coppia, pontificandone l’intero spettro di possibilità e specialità. Li accosta, per approccio, ai primi Faust, per il modo di miscelare con ironia e poi dare un tocco “pop” (che allora era acid rock) al miscuglio di avanguardie e di musica colta. In particolar modo, tra una stravaganza e l’altra, emerge con forza un’idea di musica da camera (da camere?) totale che rappresenta a tutt’oggi il portato musicalmente più eccitante dell’intera esperienza Matmos. E’ un album di retroguardia? Sì è un album di fiera retro-avanguardia che, assieme alla ristampa di Bodily Functions di Herbert, verrà saccheggiato da nuove leve di producer. E applausi a Drew e M.C. per la scelta del triangolo. Non tanto una citazione del simbolismo apocalittico di tante cover degli anni 00 quanto l’ennesima dimostrazione di una straordinaria ironia oltre-gender che supera, in forza e impatto, ogni ozioso concettualismo. (7.3/10) Edoardo Bridda
Merzbow/Mats Gustafsson/Balazs Pandi Cuts (RareNoise, Gennaio 2013) Genere: noise Sono tagli che fanno male quelli messi in atto da un trio estemporaneo ma non troppo come quello formato dal noise-master nippo Masami Akita aka Merzbow, dal sassofonista svedese Gustafsson e dal batterista magiaro Pandi. Tutti e tre nomi noti e a vario titolo impegnati nella infrazione di codici e canoni dei tre macro-generi di riferimento, rispettivamente noise, jazz e rock, con molteplici progetti e release, troppo facili per essere elencati. A guidare le danze lungo gli oltre 70 minuti di musica è ovviamente il più noto e longevo dei tre, coi suoi power electronics devastanti e al calor bianco: l’opener, fluviale Evil Knives. Lines è esemplare del procedere di Cuts, con la sua marea montante di feedback e white noise in completa espansione sorretta da un drumming invasato e asincrono e dalle evoluzioni free-noise dei fiati, ma il canovaccio si ripete in tutte le cinque tracce con rare eccezioni (l’animale free-jazz di The Fear Too. Invisible o quello frantumato di Like Razor Blades In The Dark). È una lotta impari tentare di mettere a fuoco una direttrice in quello che è un marasma free-noise tra i più stordenti ascoltati di recente. Di fatto convive all’interno dell’intero Cuts - ispirato dal lavoro dell’artista visuale Leif Elggren Something Like Seeing In The Dark - il sacro fuoco decostruttivista che anima i suoi autori, sempre alla ricerca della maniera più ottundente per forzare i limiti, esplorare i confini, spingersi oltre. È un lavoro estenuante quello registrato in studio, e testato dal vivo,
da questi tre apolidi del noise. Che toglie ogni volontà all’ascoltatore, che lo piega ai suoi voleri. Che lo annienta. Una esperienza veramente borderline, oltre la quale non esiste il suono se non nella sua più naturale a/essenza: il silenzio. (7/10) Stefano Pifferi
Nadàr Solo - Diversamente, come? (Massive Arts, Febbraio 2013) Genere: rock Dopo Un piano per fuggire, il sophomore presentato tre anni fa, i Nadàr Solo di Matteo De Simone tornano con Diversamente, come?, disco che prende le distanze dal punk-noise degli esordi per giungere a un rock più tradizionale.Parafrasando, si potrebbe aggiungere: tradizionale, come? La formula proposta dal trio è quella - classica, sicura, in certi casi pure abusata - di un mix tra elettricità e melodia, nel quale si intravede l’obbiettivo di raggiungere una fetta più ampia di pubblico e qualche passaggio radiofonico in più. Per intenderci: il modello internazionale potrebbe essere quello ormai ultra-collaudato dei Muse, ma non mancano nemmeno i numi tutelari di quel rock italiano che piace tanto all’amante dell’hype quanto a quello del mainstream, e dunque via con Verdena, Ministri, Marlene Kuntz, Il Teatro Degli Orrori.Questi ultimi li ritroviamo ne Il vento, brano scritto a quattro mani con Pierpaolo Capovilla che esemplifica la direzione generale del disco: rock ad alto volume costruito su scambi di chitarra-basso-batteria, ritornelli accattivanti, mood malinconico/adolescenziale (I tuoi orecchini, La ballata del giorno dopo). Non mancano neppure episodi maggiormente elettrificati: l’attacco in synth-wave di Le ali pare preso direttamente dai Franz Ferdinand con gli amplificatori al massimo, il crescendo di Non conto gli anni è un bell’esempio di quella propensione verso il mood radiofonico di cui sopra.Arrivati alla fine del disco - con la batteria perforante di Tra le piume -, la sensazione è quella di aver ascoltato un prodotto ben costruito nella forma, ma forse ancora un po’ acerbo nella sostanza. Non mancano solida tecnica e buone intuizioni, ma ci vorrebbe anche la voglia di slegarsi definitivamente dai modelli di riferimento per osare qualcosa in più. (6.4/10) Giulia Antelli
New Order - Lost Sirens (Rhino, Gennaio 2013) Genere: new wave, pop Abbiamo rischiato di non ascoltarle più, le sirene perdute (oggi fortunatamente ritrovate) dei New Order. 77
La pubblicazione di questo mini-album è stata più volte bloccata e rinviata negli ultimi due anni a causa dell’acrimonia tra Peter Hook - che lascerà per sempre il segno nel sound “classico” del gruppo, grazie al suo basso inconfondibile - e il cantante e chitarrista Bernard Sumner: si tratta di otto outtakes, tenute per sette anni in freezer ma provenienti dalle stesse sessioni dell’ultimo disco Waiting For The Sirens’ Call - un lavoro discontinuo e poco convincente, che non è riuscito ad amalgamare gli ingredienti chiave della loro ricetta com’era accaduto con il precedente Get Ready (laddove in Technique le due anime, quella più elettronica e quella più rock, erano ben distinte e correvano su binari paralleli) e che presentava qualche tentativo disperato di restare a galla (si pensi a Jetstream, con la Scissor Sister Ana Matronic). Eppure, qui c’è più di un buon motivo per non trattare quest’album come un mero cash-in per un pubblico di nostalgici (questa sarà l’ultima prova in studio con Hook nella line-up): le melodie il più delle volte funzionano, e il sound è quello di una band che sente di non aver nulla da dimostrare e che, pur impostando a volte il pilota automatico, non sembra aver perso lo smalto. E pazienza se il testo di I’ll Stay With You indugia troppo in rime facili facili, e se la danzereccia Sugarcane sa di già sentito (e fa tesoro delle esperienze collaterali degli ex-amici Bernard e Peter, con gli Electronic di Getting Away With It e i Monaco di Sweet Lips), quando I’ve Got A Feeling e Californian Grass sono due effettivi episodi da antologia. Hellbent è un pezzo già noto - contenuto in una controversa raccolta dei Joy Division e dei New Order (Total) - che tradisce diligenti ascolti di Screamadelica dei Primal Scream, mentre la versione alternativa di I Told You So si spoglia del goffo reggae elettronico alla Ace Of Base (o, a scelta, degli UB40 di Promises And Lies) della veste originale e si trasforma in un affettuoso omaggio ai Velvet Underground di Venus in Furs e (soprattutto) All Tomorrow’s Parties. Fanno centro anche Recoil, che si bagna appena appena un dito nelle águas de março mentre scorre tranquilla su una zattera di ariosi arpeggi pianistici e accordi di chitarra acustica, e la più acida e muscolare Shake It Up. La storia del gruppo proseguirà anche senza Peter Hook, col ritorno in pianta stabile di Gillian Gilbert alle tastiere e i prossimi eventi live (li vedremo anche al Coachella...) all’insegna delle hit del passato. Il rischio che le future prove abbiano più in comune con l’esperienza Bad Lieutenant ci attende dietro l’angolo, ma è presto per deciderlo; intanto, Lost Sirens rappresenta un più che dignitoso canto del cigno dei New Order come li abbiamo sempre conosciuti e amati. Non chiamateli “scarti”. (6.5/10) Alessandro Liccardo
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Nosaj Thing - Home (Innovative Leisure, Gennaio 2013) Genere: Domestic Beats Sono passati due anni dal’ultimo lavoro di Jason Chung. Una pausa notevole, ma non sorprendente, per quel sottobosco di web producer più propensi a subire i trend piuttosto che a guidarli. Nosaj Thing era emerso sulla scia del glitch hop proponendosi come un’alternativa tra l’astrazione jazzistica di Flying Lotus e il populismo da American Apparel di un Baths. In Drift, Jason, esibiva una produzione estremamente curata unita a semplici line melodiche ed un profondo senso di intimità. Con Home si continua a seguire la scia Flying Lotus. Abbandonato il glitch hop si guarda alle sonorità più mature di Until the Quite Comes. Questa volta ai bassi ed alle ritmiche spezzate, alle influenze Hip Hop in generale, si predilgono i pad e le atmosfere che spesso ricordano una via di mezzo tra Domotic, Clams Casino e oOoOO. Oltre agli artisti di riferimento resta il grande pregio di Nosaj Thing: il suo apparire come un dilettante estremamente talentuoso. Chung è un musicista più interessato a comunicare idee musicali che a dialogare con altri artisti o a inserirsi in un trend. Il prendere in prestisto determinati generi e grammatiche, per Jason, è determinato tanto dalla loro prossimità geografica e temporale quanto dalla necessità pragmatica di dover dare una struttura alla sua profonda vita emotiva per riuscire a comunicarla. La situazione è simile al ragazzino che si mette a strimpellare la chitarra solo perché è il primo strumento che ha trovato in casa e non tanto per imitare le rockstar. Tracce come Safe, Prelude e Distance con la loro semplicità compositiva mettono in mostra a pieno la complessa sensibilità che vi sta alle spalle insieme alla loro capacità di ricompensare anche gli ascolti più attenti. Il singolo Eclipse/Blue, con la voce di Kazu Makino dei Blonde Redhead è la perla dell’album: malinconica, struggente, intima e incalzante, fa mostra di un’urgenza ed un’eleganza eccezionali. Se Home fosse stato tagliato interamente dalla stessa stoffa di Eclipse/Blue se ne potrebbe già parlare come di uno dei dischi dell’anno. Purtroppo il resto del lavoro mostra spesso un Jason incapace di sostenere questa intensità preferendo, purtroppo, di ritirarsi su terreni già esplorati come nella beat oriented Snap o nel DnB improvvisato di Light #3. Home ci lascia l’impressione di essere un album che si è andato a scontrare con una profonda mancanza di idee a metà dell’opera. Per quanto sia ricca e sofisticata, la vita interiore di un artista spesso non basta a fornire abbastanza materiale
per un intero LP, specie se la sua idea ruota completamente intorno all’intimità della casa. (6.8/10) Antonio Cuccu
Orchestra Dark Italiana - Orchestra Dark Italiana (Otium Records, Febbraio 2013) Genere: trans folk A volte ci si trova spiazzati nel dover inquadrare un disco, nell’affidare a un solo genere i tanti elementi che vi si possono trovare all’interno. È il caso di S/T, il buon esordio dell’Orchestra Dark Italiana, quartetto formato da Flavio Michele, Federica Nardi, Giuseppe Paolillo e Savino Pace. Sono infatti moltissime le influenze e le suggestioni che popolano l’immaginario di questo album: un mix non solo musicale, ma anche culturale, che in un colpo solo riunisce il folk balcanico al cantautorato rock, la precisione cameristica degli strumenti alle anarchie degli inserti elettronici. Un interessante itinerario che, partendo dalle radici della musica di strada - intesa come luogo d’incontro, di scoperta, e, soprattutto, di ricerca -, individua lungo il cammino la formula di una contaminazione sempre aperta a nuove soluzioni, tutte incanalate però nella forma-canzone tradizionale, giustamente denominata italiana. La trama acustica di Giappone introduce a un songwriting essenziale e oscuro debitore verso l’ermetismo d’autore à la Paolo Benvegnù, come fa anche Rondini, un synth-wave arricchito dalla presenza dei fiati. L’incanto melodico di Youthell - uno dei pezzi più riusciti del lotto - ha l’aspetto di un tango zingaresco in perfetto equilibrio con quell’attitudine total folk che riveste l’album; Bue Muto è un’altra incursione acustica giocata sul contrasto corale tra maschile e femminile, subito ribaltata dalle stratificazioni electro di Quindici e Suona. Oxà, che chiude l’album, è un sussulto dark-blues che rimanda tanto a certi divertissement caposselliani quanto al lirismo sghembo di Tom Waits, con le declamazioni marinaresche da un parte e il gusto per un’ironica teatralità dall’altra. Un’indovinata conclusione per un album che riesce a fondere una grande cura per gli arrangiamenti e la voglia costante di sperimentare e di giocare (con i suoni ma anche con le atmosfere) riuscendo a appropriarsi di un genere - il folk, per l’appunto - che per definizione prende vita in geografie imprecisate e trasversali. (7.2/10) Giulia Antelli
Peppe Consolmagno/Nicola Salvatori / Simone Spinaci - Flowing Spirits (Red Records, Gennaio 2013) Genere: jazz etno Al consueto piacere che mi dona un disco Red Records, si aggiunge la sorpresa di accorgersi che si tratta del nuovo lavoro di Peppe Consolmagno, percussionista che incontrammo un bel po’ di anni fa apprezzandone l’intensità, il talento e l’ampiezza del raggio d’azione. Se allora lo cogliemmo in flagrante per la collaborazione con una Cibelle ad inizio carriera, stavolta siamo nell’ambito che più gli compete, ovvero il jazz, tuttavia aperto a fragranti contagi etnici e discrete trasfigurazioni sintetiche. In trio col sassofonista Nicola Salvatori (timbrica calda da Coltrane quieto) e col chitarrista Simone Spinaci (flemmatico e resinoso), mette a punto un linguaggio fuori dal tempo e geograficamente imprendibile, un post-bop tropicalista votato ad allucinazioni ieratiche ed arguzie meditabonde. La difficoltà di mettere a punto l’interplay tra linguaggi così lontani così vicini traspare solo nella opening track, rilettura della coltraniana Spiritual dove i tramestii delle percussioni sembrano un po’ degli applique, non troppo integrati e a tratti intrusi. Nel resto della scaletta invece il punto di fusione viene raggiunto con splendida naturalezza, vedi come oriente e tropici si fondano in un miraggio solo nella bella Lion Heart, o come si dipani una densa ossessione cinematica in Temi dei Sireni n. 1 (loop di chitarra, cupezze percussive e sax carnoso). Molto belli anche il peregrinare acido di Lonely Woman (classico targato Ornette Coleman) e le vibrazioni misteriche di Baurimbé, mentre Brother Wind (di Jan Garbarek) sciorina eleganza elusiva e febbrile come una nostalgia panteista tra tesi scenari metropolitani. Per ultimo ma non meno importante, va rimarcata la qualità delle esecuzioni e dell’incisione: sembra quasi un live in studio e non la testimonianza di una serata al Festival del Jazz Village di Pesaro. (7.1/10) Stefano Solventi
Pissed Jeans - Honeys (Sub Pop, Febbraio 2013) Genere: Rock Marcio e beffardo come sempre, il quartetto di Philadelphia vomita la sua quarta fatica che, diciamolo subito, di dolce non ha proprio niente, ma che presenta qualche segnale di addomesticamento, una notevole messa a fuoco dei suoni e un maggiore controllo delle strutture. Il Punk-rock in salsa Melvins, feroce, slabbrato e un poco (volutamente) idiota, si incupisce e devia più di 79
una volta verso mefitiche paludi sludge (Male Gaze) dove galleggiano cadaveri grunge e stoner (Loubs), mentre l’ombra conturbante dei Liars si insinua in pezzi come You’re Different in Person e Cafeteria Food. Basso e chitarra viaggiano attorcigliati come amanti viziosi, nell’impasto (non più groviglio) grasso e monolitico nel quale la batteria scava il proprio incedere muscolare e arrogante, con la voce di Matt Korvette meno irritante e più profonda del solito. Il tutto suona come una jam tra Black Flag e Black Cobra, dove il nero rimane l’unica certezza nel continuo teso contendersi di punk e metal, entrambi nella loro declinazione più sudicia e ottantiana. Menzione speciale infine all’artwork del disco, dove uno yuppie giace con il collo rotto ai piedi di una scalinata metafisica e monumentale, con quella tartaruga assurda e indifferente, unica superstite di una tragedia annunciata. (7.1/10) Antonio Laudazi
Plastician - Dubstep Allstars Vol.10 (Tempa, Gennaio 2013) Genere: pure dubstep Plastician (Chris Reed), il selecta britannico, ha masticato e massaggiato dubstep già dai primi vagiti, fin da quando, nel 2002-3 il genere, ancora in fase embrionale, era massivamente chiamato dark garage, ovvero inquadrato ancora come sottogenere del declinante movimento UK garage/2 step. Se non ne è stato uno dei padri fondatori, di sicuro Reed ne è stato tra i principali untori, una delle colonne portanti, l’aristocratico e l’ortodosso del genere. Tra i suoi trascorsi, prima la cruciale Rinse FM (vedi anche il nostro articolo), poi un programma su BBC1 e infine la conduzione - sempre per la East London pirate station - di un programma fisso il mercoledì sera (più o meno continuativamente dal 2004). Questo il curricula del conductor della nuova Dubstep Allstars (storica mise en place di casa Tempa), arrivata al volume numero 10 e di cui avevamo dato un lancio riprendendo una dichiarazione dello stesso Plastician che annunciava un mix composto di tracce di pure dubstep, che guardassero a tutte le nuove correnti senza dimenticarsi del lato più old school del genere. Ci ritroviamo così alle prese con venti tracce magistralmente mixate, tra il levare e il dub con forti echi trip hop (Not Afraid), suoni più morbidi (Close Enough, Sunday Worries), leggere provocazioni wooble (ma sostanzialmente assimilabili alle produzioni del 2006), per una selezione appunto programmaticamente old School, da studio e da salotto, dove il massimo dell’innovazione è 80
data da JKenzo, coinquilino insieme a Zomby, Untold e pochi altri dell’Olimpo bass music, ma in ogni caso il più conservatore nella nuova generazione di dubsteppers Tempa. Plastician crea insomma un mix per nostalgici e “illuminati” del dubstep, per coloro che crocifissero Skream e Benga quando questi guardavano già al dancefloor, quei collezionatori seriali di compile ferme al 2006, siano queste 50 Tracks of Tempa, I Love Dubstep 2007 o la Rinse Present Vol. 6 (mixed by Plastician, guarda caso). Figuriamoci quindi se potevano rientrare in questi ranghi la techno steppa, il grime alla Terror Danjah o il bro di Kentaro. (5.5/10) Mirko Carera
Primevals - Heavy War (Twenty Stone Blatt, Ottobre 2012) Genere: old punk rock Ottavo disco per i Primevals, band nata agli inizi degli anni ‘80 dalle parti di Glasgow ma da sempre innamorata di garage rock e protopunk americano quindi devota a Iggy, Stooges, MC5, Gun Club senza dimenticare i Cramps, di cui erano compagni di etichetta - la New Rose - e con cui hanno gironzolato spesso in tour. Con Heavy war la band celebra il trentennale sempre lì, stessi lidi e stessi approdi, ma inevitabilmente qualcosa si sbiadisce. I problemi sono soprattutto nelle tracce più marcatamente punk rock, suonate sì con vigore ma ormai senza il fuoco della gioventù (Way beyond tore up, Undertow, Coming form the hills). Anzi, tra schitarrate finte heavy e qualche assolo un po’ vacuo pare proprio subentrato il sound della mezza età, buono per continuare a calcare i palchi d’oltremanica e far felici i vecchi fan. Poche pretese insomma, anche se quando si incrocia la strada di Jeffrey lee Pearce e dei suoi Gun Club le cose migliorano, con la cavalcata garage di Predilection for the blues o nel mantra blues di Don’t be afraid to cry, a dimostrazione di come i Primevals non siano proprio a secco di ispirazione. Ma lo stato delle cose è questo: il disco galleggia e per la criogenia bisognava pensarci a tempo debito. (5.5/10) Stefano Gaz
Quintorigo - Experience (EMI, Dicembre 2012) Genere: Art L’acclamato album tributo a Charles Mingus l’avevano fatto avendo almeno il contrabbasso in organico; ora invece si dedicano all’axeman per eccellenza senza ave-
re una chitarra né in formazione né come ospite (c’è il piano di Michele Francesconi e, superato ormai da tempo il trauma da abbandono di De Leo optando per un cantante diverso a seconda dei progetti, le voci di Eric Mingus e Moris Pradella). Una scelta strana fino a un certo punto per chi li conosce, per quelli che pensano che la band abbia avuto un prodromo essenziale nella celebre Purple Haze del Kronos Quartet (o nei Kraftwerk del Balanescu) e per chi ha presente l’eccellenza dei nostri nell’arte della cover, praticata fin dagli inizi di carriera (tra le altre, quella eccelsa di Highway Star ai tempi di Grigio e, ancora prima, una “Heroes” la cui difficoltà è ben esplicata dal fatto che, spesso, non la rifà bene nemmeno lo stesso autore originale). In realtà, proprio agli inizi avevano già affrontato la nebbia purpurea, ma dove il Kronos ne rivelava ombre morbose passando poi a uno svisare frenetico, i nostri avevano già il loro suono tipico: e se lì De Leo difettava in raffinatezza (Mingus risulta più adatto), in questa versione nuova il gruppo ci va più pesante caricando il ritmo. Il disco applica appunto il ben noto marchio di fabbrica ad alcune delle pagine più celebri e classiche del canzoniere hendrixiano. Com’è noto, in Hendrix c’erano composizione ed esecuzione, scrittura e assoli, veemenza da jam e struttura, ricerca sonora e forma canzone: e infatti i nostri dialogano sia con la sua scrittura che col sound (e con gli assoli: la scaletta argutamente include anche Star Spangled Banner, la cui esecuzione andata in scena a Woodstock è uno dei vertici non solo di Jimi). Sentire un gruppo così caratterizzato stilisticamente alle prese con questo repertorio fa venire in mente quello che diceva Zappa per spiegare l’importanza del “timbro” nella musica: “pensate a quello che diventerebbe Jimi Hendrix eseguito con un’orchestra di fisarmoniche”. Qui ci siamo vicini, benché gli archi e il resto siano abrasivi e impudenti come al solito, e come musica richiede. E se Hey Joe e, in parte, Fire pagano l’assenza della batteria (e forse una presenza dovuta più alla fama che a un’idea forte per arrangiarle), Purple Haze ed altre invece mantengono il piglio rock grazie ai consueti accorgimenti ritmici ben padroneggiati dai nostri (Spanish Castle Magic, Manic Depression e soprattutto Gipsy Eyes). L’inno USA, nella sua solennità, torna quasi all’originale vero (ma si ricorre al distorsore per avvicinarsi a Jimi, e l’epocale versione di Hendrix è semplicemente inarrivabile), Angel si posiziona tra Hollywood e Costello col Brodsky Quartet, in Third Stone From The Sun si mantiene l’India e si sostituiscono il free-jazz, la psichedelia e il rock mescolati nell’originale con accenti quasi latini e reminiscenze di soundtrack disneyane, mentre Voo-
doo Chile (con l’intro per sole voci) pare fatta apposta per il trattamento da Quintorigo aggressivi (con un bel theremin in mezzo opera di Vincenzo Vasi, già con Capossela). La chiusura sbarazzina di una Up From The Skies che swinga leggera neoclassicismo dà il senso di divertimento e omaggio di un’operazione (o esperienza) che non le evita tutte, ma in generale supera bene le difficoltà delle premesse. (7.1/10) Giulio Pasquali
Ra Ra Riot - Beta Love (Barsuk, Gennaio 2013) Genere: synth-pop A tre anni di distanza dal mediocre The Orchard e dopo un paio di tour fallimentari, il side-project del bassista Mathieu Santos e la dipartita della violoncellista Alexandra Lawn, i Ra Ra Riot tornano e svoltano sul synth-pop. L’obbiettivo è ben chiaro sin dall’ingaggio del producer Dennis Herring (Modest Mouse, Wavves, Elvis Costello): uscire da quell’ombra lunga sette anni di carriera che li vuole come controfigure baroque dei Vampire Weekend. La band di Syracuse deve però essersi persa tutta l’inflazione di genere dal 2010 ad oggi. Beta Love finisce così per battere fuori tempo massimo le lande già esplorate e pluricolonizzate del revival di matrice 80s tutto tastiere cheesy, smanopolamenti glitchy, drum-machine, studio enhancements (leggi: autotune) e mixaggio il più patinato e “loud” possibile. Il risultato è duplice: il paragone coi colleghi capitanati da Ezra Koenig in effetti cade col chiudersi dell’opener Dance With Me, ma soltanto per lasciare il posto ad un’etichetta che ora parla di versione meno interessante di svariati altri act, primi fra tutti i Passion Pit. Lo stesso falsetto del frontman Wes Miles si orienta a più intervalli verso quello all’elio di Michael Angelakos, mostrando però regolarmente il fianco quando si tratta di sovrastare gli hook più intensi. Siamo quindi su un generale anonimato che paradossalmente trova i propri episodi migliori nelle crepe della “nuova” formula, ovvero dove violino, handclaps e tamburelli riacquistano il diritto di parola (Angel Please) o gli arrangiamenti, pur se bass-driven, portano un certo respiro (When I Dream). Non dubitando inoltre della spendibilità sui non propriamente progressisti dancefloor indie italiani dell’accoppiata Binary Mind-titletrack (il riff di quest’ultima pare d’altronde preso in prestito dal tormentone Young Blood dei Naked And Famous), l’album sarebbe pure liquidabile come semplicemente innocuo. 81
Dalla copertina del suo decimo album occhieggia un’immagine alla My Brightest Diamond, ma l’americana Rachael Sage è in realtà più accostabile all’indie di una come Ani DiFranco. Con una carriera ormai consolidata di più di quindici anni alle spalle, la pianista, poeta, attrice e artista visiva è anche titolare e fondatrice dell’etichetta discografica MPress. Una, insomma, che ha fatto dell’arte totale la propria passione. L’artista è titolare di un songwriting intimo di derivazione classica che si può paragonare a nomi quali Carole King, la DiFranco stessa, Joni Mitchell, Suzanne Vega, e che fa del piano, degli archi, della chitarra e degli arrangiamenti i suoi punti di forza. Una scrittura onesta e diretta, a tratti più coinvolgente e convincente, che nell’insieme si ascolta con gradevolezza, trasmettendo il senso dell’artigianalità della musica, dell’onestà e della passione. (6.5/10)
risce nel progetto del vignaiolo Michele Satta, che dal 2010 propone un concerto abbinato ad un vino (nel 2012 è toccato allo Syrah), in collaborazione con il guru Eraldo Bernocchi, la video-artista Petulia Mattioli e la casa discografica londinese RareNoise. Il concerto per la scorsa vendemmia aggiunge un tassello importante alla letteratura per l’insolita formazione minimal che tocca melodie ereditate dal nume tutelare Jarrett, upgradandole con un interscambio sanguigno. Una cosa che esula dalla purezza e dalla riservatezza del pianista americano, trasmettendo invece un modo di fare jazz caldo, “italiano” nei modi e nei risultati, in alcuni punti vicino pure alle prove soliste al pianoforte di Chick Corea. La melodia della Marcotulli va a ripescare i paesaggi degli impressionisti francesi, per poi svicolare con improvvisazioni e crescendo che sfociano anche nel free più percussivo (Traccia 7). Il tocco di Rabbia è precisissimo e vario, alterna grazia, silenzi nordici e un accompagnamento armonico illuminato. Il viaggio del percussionista si arricchisce poi di accenni live electronics, a cavallo tra effetti speciali e musica ambient (Traccia 2). Il dialogo, registrato dal vivo, punta tutto sull’improvvisazione, che bilancia perfettamente il contributo individuale, sia nei momenti meditativi (Traccia 5) che in quelli più movimentati. Questo disco va assaporato lentamente, come un buon vino. Dopo qualche eventuale perplessità iniziale, ne sarete stregati, perché è sempre difficile trovare chi coniuga a puntino ricerca improvvisativa con ascoltabilità e stile. Semetipsum 2012 ci riesce a pieno: attenzione però a non prendere sbronze. (7.2/10)
Teresa Greco
Marco Braggion
Chiedere però di passar sopra anche ai ripetuti tentativi di slow-jam R&B (What I Do For U, Wilderness) - tanto tremendi da far passare per capolavori assoluti gli “esperimenti” in tal senso degli Yeasayer - nonchè alla pretestuosità delle tematiche ispirate dalle novelle cyberpunk di William Gibson, è chiedere davvero troppo. E a salvare i Ra Ra Riot da una crocifissione altrimenti legittima è in fondo soltanto il ricordo, ancora troppo vivido, del debutto dei POP ETC. (4.5/10) Massimo Rancati
Rachael Sage - Haunted By You (Mpress, Novembre 2012) Genere: singer-songwriter
Rita Marcotulli/Michele Rabbia Semetipsum 2012 (RareNoise, Novembre 2012) Genere: impro-jazz Collaborazioni fruttuose tra jazz ed elettronica negli ultimi tempi ne abbiamo viste parecchie. In campo posttechno si potrebbero citare - beninteso senza velleità di completezza - i lavori del trio di Moritz von Oswald, le uscite dei Cobblestone Jazz e i remix di Villalobos con Loderbauer per ECM; altri esempi notevoli dal jazz italiano sono gli esperimenti di Gianluca Petrella con la sua Cosmic Band, l’intera carriera di Paolo Fresu e una promessa che abbiamo felicemente recensito qualche mese fa come Luca Aquino. La collaborazione fra la Marcotulli e Rabbia (la prima al pianoforte, il secondo alle percussioni e al live) si inse82
Royal Band de Thiès - Kadior Demb (Teranga Beat, Settembre 2012) Genere: Soul, groove A volte i sogni ci mettono un po’ per avverarsi: sette anni dalla fondazione del gruppo fino alla registrazione del primo album. Ah, sì: e altri 33 per vederlo pubblicato, grazie a un greco che trova qualche tua cassetta e successivamente un archivio di registrazioni che un impresario locale aveva avuto l’accortezza di realizzare, benché poi fossero rimaste inedite. Tra queste, l’unico album di un ensemble di nove elementi guidato da due cantanti (e quattro piste, le sole con cui è stato - perfettamente - registrato l’album), che coglie un momento importante nella formazione dello stile noto come Mbalax: siamo in Senegal, nel 1979, e il gruppo stava definendo, insieme ad altri e con un buon
successo nazionale benché appunto basato sui nastri, una miscela che riportava in Centro Africa il funk, il jazz e la salsa, cantando in lingua tradizionale. Tradizionali erano anche le percussioni affiancate alla sezione ritmica “occidentale” e lo stile in cui venivano suonate, a comporre pattern ritmici tanto irregolari e articolati quanto comunque ballabili (vedi Cherie Coco, Dagath, i vaghi richiami latinoamericani di Gossar, dal riff contagioso, fino alla conclusiva Righie Righie). Ma c’è spazio anche per la riflessività malinconica di Ma Kodou Deguene e Hommage à Mbaye Fall, guidate da un sax suadente e lirico, o per il relax di Sama Yaye Boye. Ennesimo doveroso dissotterramento nell’ambito della tradizione africana: il fatto che siano di questo livello diminuisce un po’ la vertigine che prende all’idea di quanto altro ci sia ancora nascosto. (7.1/10) Giulio Pasquali
RZA - The Man With Iron fists (, Dicembre 2012) Genere: Hip hop Che il cinema fosse sempre stato una della passioni di RZA non è un mistero. Sin dagli esordi con il Wu Tang Clan (il cui sound era caratterizzato da campionamenti presi direttamente dai cosiddetti kung fu flicks) e il bellissimo progetto Gravediggaz (incentrato su un immaginario tendenzialmente horror, con anni di anticipo rispetto a molte offerte meno valide che si sentono ora), ai prodotti con il moniker Bobby Digital (considerati come una colonna sonora di un film mai uscito), passando per le esperienze come curatore di colonne sonore per due figure di culto come Jim Jarmush (Ghost Dog) e Quentin Tarantino (Kill Bill, di cui vale la pena di ricordare la bellissima Ode to O’ren Ishii, dedicata all’altrettanto bella antagonista interpretata da Lucy Liu), la settima arte ha sempre nutrito il suo lavoro. Era naturale, dunque, che a un certo punto, il nostro, con una spintarella dell’imprenditore Tarantino, si decidesse a fare il grande passo e realizzasse film vero e proprio, sugli schermi italiani da febbraio. Film a mio parere non completamente riuscito e fin troppo penalizzato tanto da una regia comprensibilmente acerba quanto da una scrittura approssimativa e superficiale, ma poiché qui non siamo su Vedereguardare, lascio a voi il giudizio finale sul film. Diciamo subito una cosa: questo NON è un album di RZA, nonostante, come colleghi più competenti e famosi di me hanno già detto, sia tra i dischi recenti quello più accostabile all’immaginario del Clan, più di quell’8 diagrams non proprio riuscitissimo, sopratutto nei brani che più si lasciano andare all’immaginario del villain o delle spade
che tagliano l’aria. La soundtrack, che annovera molti elementi della Wu Family e qualche ospite inaspettato, viaggia su tre direzioni principali: brani con un mood retrosoul, pezzi di pura esaltazione tamarra e spaccona, tracce all’insegna del (bobby)digitalismo più sfrenato. I risultati migliori, dato anche il genere cinematografico (non l’abbiamo ancora detto, ma The Man With The Iron Fist è un classico film di arti marziali) della pellicola, sono sicuramente i brani più vicini all’attitudine del grande classico Enter the 36th chamber come Rivers of blood (che vede il Clan, in combutta con Kool G Rap, alle prese con un brano abbastanza violento e con un ritornello in stile Cobra Kai), Built for this (un brano con Method Man in compagnia di Freddie Gibs e Streetlife) e la torrenziale The Archer, traccia spettacolo su cui Killa Sin fa piovere liriche e tecniche da vere maestro. Si difende bene anche la opener The Baddest Man Alive, jam al sapor di blues dei Black Keys in compagnia del titolare di tutta l’impresa, un RZA in vena di divertissement, snocciolando rime da villain e immagini riuscitissime con quella sua aria seriosa che rende il tutto ancora più divertente. Convincono meno le tracce che vanno in direzione o di grandi perle del passato (i vari pezzi puramente melodici e privi di rap, tendenzialmente) o del digitalismo di cui sopra, come ad esempio Just blowin’ in the wind, pasticciaccio horrorcore piuttosto monotono con RZA in compagnia dei Flatbush Zombies. Senza soffermarci troppo su un estenuante track by track va detto che questo lavoro è piuttosto eterogeneo, i brani citati sono gli apici di un album che alterna le vette di cui sopra a pezzi fuori contesto o semplicemente nella norma (prendete con le pinze il termine, sono pur sempre tracce di artisti come Kanye West o Talib Kweli, quindi ben sopra una misera sufficienza), perciò la sensazione è di una compilation un po’ discontinua che andava leggermente snellita o studiata meglio per quello che riguarda la scaletta. Di positivo c’è che se davvero RZA abbandonerà il microfono per dedicarsi alla sua carriera di regista (notizia non lieta, visti i risultati in entrambi gli ambiti), lo spirito della W è vivo più che mai e i continuatori di una tradizione ormai quasi ventennale, ossia i membri del Clan e i vari affiliati (impossibile contarli tutti), sembrano essere perfettamente in grado di assicurarle lunga vita. (6.8/10) Sebastian Procaccini
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Simona Gretchen - Post-Krieg (Dada Dischi, Febbraio 2013) Genere: wave stoner Dopo il conflitto, probabilmente, il nulla. Nel senso che questo Post-Krieg, secondo lavoro lungo per Simona Gretchen a tre anni abbondanti da Gretchen pensa troppo forte, pare che sia anche il suo epitaffio. Fine dell’avventura, almeno sotto queste spoglie. Vedremo in futuro. Intanto c’è questo disco, breve, compatto, neanche mezz’ora per otto tracce (ma la prima, In, è una brevissima ouverture in guisa di talking teutonico effettato) immerse nella densa tensione di un concept. Si parla di identità e dissidio, di opposti e alienazione, di memoria frammentata e ricomposta, dei generi come libertà o schiavitù e del loro superamento, di catarsi e accecamento dei sensi. Con la mente a Jung, Nietzsche, Artaud. Uno sforzo concettuale che riesce a non sembrare pretenzioso perché ben impastato nell’amalgama sonoro, parata di palpitazioni cupe e impetuose, una monotonia programmatica ravvivata da svolte (ritmiche e stilistiche) repentine e sconcertanti modulazioni emotive. Parecchio hard blues acido dai riverberi Seventies (Everted part I) e stoner (la title track), un ciondolare iearatico e grottesco che rimanda ai CSI più elettrificati (Hydrophobia), vampe wave incalzanti e indolenzite (Pro(e)vocation) e nevrosi arty con derive kraut (Everted part III, con l’ectoplasmatica tromba di Paolo Rainieri dei Junkfood). Apprezzabile il contributo di ospiti quali Nicola Manzan (molto belli gli archi nella mitteleuropea Enoch) e di Paolo Mongardi (batteria della Fuzz Orchestra). Quanto alla Gretchen, nella sua voce resta qualcosa di irriducibilmente affettato, soprattutto quando si dà al talking, ma è evidentemente cresciuta, ha preso in mano la situazione con grinta e lucidità. Dunque, brava. Ci auguriamo di saperla presto al lavoro su altri progetti, sperando che non si limiti a gestire la sua label Blinde Proteus, come peraltro ha ben fatto finora. (7/10) Stefano Solventi
Singing Loins - Here on earth (Damaged Goods, Novembre 2012) Genere: punk I Singing Loins sono a tutti gli effetti da annoverare tra i primemovers del Medway Sound, quella commistione garage-rock dal sapore d.i.y. andata in onda tra la fine degli ‘80 e i primi ‘90. Il boss era ovviamente Billy Childish, coadiuvato da tutta una serie di artisti come Holly Golightly e Graham Day con cui condivideva locali, gig, gruppi e dischi, ora quasi tutti in catalogo Damage 84
Goods. Ebbene. A quei tempi c’erano anche loro, Chris Broderick e Chris Allen, formazione originaria dei Singing Loins, scoperti ed entrati subito nelle grazie di Childish e della sua Hangman Records grazie a un folk punk sgraziato sempre attento alla tradizione e con il gusto del cabaret. Certo, vent’anni dopo e le cose sono un po’ diverse. La band innanzitutto, che dopo separazioni e reunion si allarga a quattro elementi proprio con questo disco, Here On Earth. Come conseguenza il suono diventa più rotondo, morbido, in poche parole folk, e lo scarto, seppur di minime dimensioni, fa trovare nuova ispirazione. Sì, perché dopo qualche lavoro tentennante i Singing Loins sembrano prendere in mano la situazione: tolgono ogni sofisticazione sfornando ballad riflessive/malinconiche, decidono di suonare un po’ meno inglesi del solito - in questo senso i parenti più prossimi sembrano diventare i Mountain Goats, anche perché le voci di Broderick e Darnielle a tratti toccano le stesse corde - e in qualche modo si arrendono al tempo che passa, alla mezza età, ai capelli bianchi. Giusto che sia così, doveva succedere prima o poi. Da questa nuova consapevolezza nascono una buona manciata di momenti accorati e sopra le righe (Monster Ashore, My Darling, Alien) che fanno sorvolare su qualche passaggio più didascalico, e alla fine l’impressione è che i Singing Loins stiano pian piano sviluppando una propria dimensione al di là della citata appartenenza Medway. Meglio tardi che mai. (6.8/10) Stefano Gaz
Skrillex - Leaving EP (OWSLA, Febbraio 2013) Genere: Post-dubstep L’Ep è forma rapida e sicura, più diretta rispetto a un album che consente di fissare il tempo o addirittura l’attimo in maniera ordinata e programmatica. Questo deve aver pensato Skrillex mandando in release Leaving (il primo di fatto uscito per la sua OWSLA), tre tracce figlie della fresca separazione da Ellie Goulding e, secondo quanto da lui stesso dichiarato, specchio di un preciso stato d’animo. In questo Leaving EP Skrillex dimentica i canoni della brostep made in USA e si tuffa in sonorità profondamente UK, si cimenta con campioni vocali e ghirigori all’elio (Rustie?) su base vagamente hip hop e molto synth pop, in un approccio in stesura dalle parti di Mount Kimbie e George Fitzgerald (The Reason). Remixa un inedito mai pubblicato e un successone (Scary Monster And The Nice Spirites) stravolgendi in chiave british reggae dub à
la Orb (Scary Bolly Dub) e rendendoli così più accattivanti dosando finalmente i drop con misura e un minimo di classe (siamo dalle parti dello Skream di Outside The Box e Magnetic Man, per intenderci). Sorprende la title track Leaving, vero e proprio coup de theatre che crea un mood emo/rainy dal sapore plumbeo e ferroso, sub urbanità tra Burial e James Blake, morbidissima ed emozionale nel ricordare anche Darkstar. Sono lontani i tempi della drop music e la confusione del primo Ep Scary Monsters And Nice Sprites, e Skrillex, che un cambiamento, peraltro, l’aveva già accennato in Bangarang (e ne avevamo parlato), qui decisamente volta pagina. Sono solo due tracce e un remix, per carità, ma la distanza tra il prima e l’adesso è siderale, anzi un piccolo lavoro come questo rischia d’essere un punto di svolta importante per il piccolo nerd dal cuore electro/ emo. La rete si è scatenata marchiandolo come “Skrillex che ascolta Burial”. Vero, ma anche troppo semplicistico: finalmente c’è una ricerca, un ascolto attivo di sonorità diverse dal pianeta in cui Skrillex ha sempre navigato. Qui riaffiora un’idea seppur minima di maturità e crescita, un formato verso la melodia e verso la stesura di una canzone, non solo drop su pattern prefissati e una buona library di suoni precomposti. Incoraggiati, incoraggiamo. (6.5/10) Mirko Carera
Sun Araw - The Inner Treaty (Drag City, Settembre 2012) Genere: psych-dub Mettere una testa di carpa in copertina è una scelta davvero ingombrante, si capisce, ma per l’ottava uscita solista Stallones alza il tiro e a buon diritto. Di trip postMagic Lantern con il buon baffone texano ce ne siamo già fatti molti, ma The Inner Treaty profuma di personalità e di punto d’arrivo. Questo traguardo ci fa pensare che, dopo l’esperienza roots con i Congos, quella del 2012 sia stata per lui una calda estate particolarmente ispirata a Long Beach. Cotto dal sole e dagli acidi, l’album infatti trasuda dub primordiale, segnando un ritorno alle origini con una trama rudimentale e minimale, aggrovigliata in un’insolazione sonora delirante. Sun Araw si spoglia definitivamente dei pesanti droni e riverberi, asciugando le melodie per focalizzarsi sull’essenziale, sul dettaglio non dettaglio - e sulla creatività. Ben lungi dal suonar vecchio, The Inner Treaty è un’opera atemporale in un periodo di dub digitale, in cui Stallones estrapola il corrispettivo analogico con ogni mezzo possibile e ai limiti del ridicolo. Registrando il tutto in casa, blatera senza senso (quando ne ha voglia) e batte estasiato su orga-
netti, synth da principianti e percussioni-giocattolo, stuprando la chitarra fino a cavarne atmosfere malatamente tropicali, oniriche, drogate, atonali. Un trip ambientato in una giungla esotica popolata di armoniche cinguettanti, rumorismi insoliti e scorie acide, che scivola via senza appesantire la testa, privo di contridicazioni ed effetti collaterali. L’ispirazione per Stallones scaturisce dall’interno, dal rapporto tra conscio e inconsicio: percorsi evolutivi dell’anima e stadi mentali ultimi dove il tempo e le strutture perdono di significato. Non sta a buttarla tanto sull’intellettualismo, sul ragionamento: l’improvvisazione giuda l’arte e ne estrapola il risultato, come quello di una Summun Bukmun Umyun’ appena abbozzata pescata dal jazz a tinte africane di Pharoah Sanders. Già esponente di spicco nella nuova psichedelia, Stallones con il progetto Sun Araw e The Inner Treaty si afferma come uno dei massimi santoni contemporanei dell’attitudine weird, plasmando private rivoluzioni freak nate da una ricerca spirituale e da un inguaribile ottimismo. (7.3/10) Davide Nespoli
T.I. - Trouble Man: Heavy Is the Head (Grand Hustle, Dicembre 2012) Genere: Hip Hop It’s time to get trap back jumping. Dopo un lungo periodo, T.I. è tornato e ha intenzione di mostrare ancora una volta chi è il re del trap rap: Hey, nigga who you know that’s hot as this / Seriously, I’ll show you how to do the shit. Già dal titolo e dall’open track, che citano uno dei brani più popolari di Marvin Gaye, Tip intende mostrare di avere una marcia in più rispetto ai rapper di genere, stile Gucci Mane, riallacciandosi alla tradizione più classicamente urban e hip hop. La scelta è confermata anche a livello di produzione: troviamo quindi i produttori che assieme al rapper di Atlanta hanno scritto la storia del trap, come Dj Toomp e Jazze Pha, affiancati, secondo un modello già affermato con King, da altri più genericamente hip hop e R&B, come No I.D., Pharrell e Rico Love. Il disco riesce quindi a essere incentrato su ritmi di 808 a profusione, ma senza scadere nell’ossessione per la forma cassa mid tempo - piatti a doppia velocità tipica dei produttori più recenti come Lex Luger e Mike WiLL Made It, e, anzi, prosegue la tendenza dei dischi del Re a stemperarla con aperture funky e R&B. Al microfono T.I. ci ricorda come sia un rapper infinitamente più dotato dei suoi epigoni, mostrando la solita bravura e plasticità nel flow e una scrittura più complessa e versatile. Ma il vero punto di forza di Tip risiede nel 85
suo punto di vista: complesso e ambivalente, dovuto forse alla sua storia personale di ragazzo cresciuto in mezzo allo spaccio di droga e che decide di farsi testimone di quella vita, ma senza facili esaltazioni e mostrandone anche gli aspetti più scabrosi. Certo non lesina momenti di puro divertimento come Ball (in feat con Lil Wayne), un brano club-oriented nello stile della miglior tradizione Cash Money Records (“This club so packed, these hoes so drunk / I got a bottle, got a model, got a molly, got a blunt”), ma si sofferma anche a riflettere sulla propria cruda esperienza personale. Esemplare è in questo senso Sorry, in cui vediamo T.I. impegnato a meditare sulle colpe di una gioventù da criminale: “Innocent ladies raped and defenseless babies abducted / Such a horrible truth, but you see it over and over/It’s nothing, / you numb to it and your heart grow colder / Pacify your pain with a chain and a Rover”. Notevole anche la perfomance del gigante Andrè 3000, che sul finire dello stesso brano, chiede scusa all’ex compare Big Boi per aver fatto fallire il progetto Outkast, regalandoci al contempo dei virtuosismi da manuale dell’hip hop. Nel complesso Trouble Man si colloca un gradino al di sotto dei classici del Nostro, non avendo l’urgenza di Trap Muzik di dire qualcosa di nuovo, né le potenzialità pop di King, ma rimane un disco di hip hop ben fatto, che riesce a essere contemporaneo senza scadere nel modaiolo e che quindi non scontenterà gli appassionati del genere. (7/10) Gianluca Carletti
Teho Teardo - Music for Wilder Mann (Specula Records, Gennaio 2013) Genere: soundtrack Teho Teardo si sposta dal cinema alla fotografia per questo Music for Wilder Mann. Le fortunate colonne sonore di tante opere della nouvelle vague cinematografica italiana (Sorrentino e Vicari in primis) lasciano qui il posto alle immagine iconiche del fotografo francese Charles Fréger, che ritrae figure antropomorfe dalle sembianze selvagge di animali e diavoli. A ciò Teardo accosta la sua musica, con la consueta mistura di classica molto evocativa (il violoncello di Martina Bertoni), elettronica, rumorismi e calligrafie post-rock. Il compito sarebbe facile se le fotografie di Fréger puntassero tutto sulle possibilità espressioniste di esseri atavici che arrivano dal passato più lontano per spaventare. E invece no: gli umanoidi ferini di Fréger, più che incutere timore, commuovono ed è lungo questo (scivolosissimo) crinale da mito del buon selvaggio emotivo che Teardo appoggia la sua musica. La quale, com’è ovvio, 86
raccorda la propria indole futuristica (ma poi neanche troppo) con il remotissimo e il primitivo, in una sorta di invito non detto (ma nemmeno malcelato) a tornare a una dimensione più vera e istintuale. Il tutto regge? Sì e no: l’impressione è che le otto tracce di Music for Wilder Mann funzionino meglio dal vivo (dunque con le immagini a far da supporto) che su disco. La scrittura musicale di Teardo è parecchio riconoscibile e qui non regala particolari imprevisti - a parte qualche saltuario sprazzo ritmico da tregenda antropologica. Come a dire che, data l’oggettiva difficoltà del progetto, a questo giro si va sul sicuro. Emozionando, ma senza travolgere e senza nemmeno strafare. Ospiti la Johnsons Julia Kent e Erik Friedlander (John Zorn). (6.4/10) Luca Barachetti
Thao & The Get Down Stay Down - We The Common (Ribbon Music, Febbraio 2013) Genere: folk La cantautrice folk-pop Thao Nguyen pare essere uscita dal guscio di incantata introspezione che fino ad oggi ne ha caratterizzato la cifra, per lasciarsi coinvolgere da questioni squisitamente umane e sociali. Dopo diversi anni di frenetica attività, segnati dal fitto succedersi di registrazioni e tour, e dalle collaborazioni con alcuni dei protagonisti del nuovo folk - da tUnE yArDs a Laura Veirs, da Andrew Bird a Mirah -, la cantautrice californiana si stabilizza a San Francisco, decisa a vivere come parte di una comunità e attivandosi in particolare a tutela e sostegno dei carcerati. Un cambio di direzione che è alla base del suo quarto album con i Get Down Stay Down (primo su Ribbon Music dopo la lunga permanenza in casa Kill Rock Stars), nel quale il morbido disincanto dei temi trova un gradevolissimo contrappunto nei timbri irsuti del country, nelle atmosfere colorate e giocose sì, ma ritmate con particolare decisione, quasi a simulare un rinnovato moto morale. Emblematica la titletrack a base di banjo dedicata a Valerie Bolden, detenuta incontrata durante la sua prima visita alla Valley State Prison: “non riuscivo a smettere di pensare a lei - dichiarerà Thao - alle cose che mi ha detto e al modo in cui le ha dette, e molte di quelle cose sono finite in We The Common”. Qui l’incontro tra il canto rurale delle strofe e l’aperta cantabilità indie dei ritornelli restituisce un senso di contagiosa vitalità; e se in City (non a caso) si respira l’aria metropolitana, sghemba ed esuberante della scena newyorkese (Merril Garbus docet), in brani quali Holy Roller o Kindness Be Conceived, quest’ultima in duetto con Joanna Newsom, tutto ac-
quista una dimensione più intima e scarna, virando verso un folk quasi incontaminato. Nel mezzo, fiati e leggere dissonanze jazzy (Move), brillanti mid-tempo pop (The Feeling Kind, Human Heart) e diverse gradazioni di una scrittura come sempre spontanea e cangiante, che non si discosta da un’identità piuttosto cristallizzata ma trova oggi nuove motivazioni, segnando un convincente passaggio verso l’età adulta (Age of Ice). (7/10)
tanea e cangiante, che non si discosta da un’identità piuttosto cristallizzata ma trova oggi nuove motivazioni, segnando un convincente passaggio verso l’età adulta (Age of Ice). (7/10)
Marco Masoli
Si sono fatti attendere a lungo, i Beauty Room. Sei anni separano l’uscita del primo omonimo album del duo (attorniato da eccellenti compagni di viaggio) e quella del suo successore, che ha suscitato l’entusiasmo di Jean-Paul ‘Bluey’ Maunick, maestro dell’acid jazz detentore da oltre trent’anni del brand Incognito. Kirk Degiorgio (DJ e musicista londinese con un solido passato techno come As One) e Jinadu si sono presi tutto il tempo necessario, e con alcuni sessionmen di lusso hanno messo a punto una formula che trasporta con gusto, negli anni ‘10, stili e suggestioni che partono dalla West Coast e attraversano con versatilità ogni decennio. Registrato con apparecchiature vintage a Los Angeles, a Londra e in Olanda, II è il punto d’incontro tra la storia e la modernità, tra gli Steely Dan e i primi Jamiroquai, tra Brian Wilson e il trip-hop intriso di soul dei Morcheeba, tra l’esperienza e la voglia di creare una zona franca, senza steccati, tra lo smooth jazz e il pop più fruibile. Una scommessa niente male. Per vincerla, i due si sono fatti accompagnare da un ingegnere del suono che si cala alla perfezione nella parte (Peter Henderson vinse un Grammy per il lavoro svolto con i Supertramp in Breakfast In America), da Chris Whitten (batterista di Paul McCartney e Johnny Cash) e da due new entries come Brian Bromberg (già bassista per Elvis Costello) e Rob Harris. Ma la presenza più importante è quella dell’olandese Metropole Orchestra, riconosciuta per la sua capacità di spaziare senza problemi da un genere all’altro; tanto per ribadire le intenzioni serie dei Beauty Room, a dirigerla è stato chiamato Paul Buckmaster, il cui curriculum comprende album dei ‘classic years’ di Elton John e Space Oddity di Bowie. Un’elettronica soffice avvolge grazie a bassi profondi, e si fonde con gli altri strumenti nello spazioso e ordinato soundstage e l’interpretazione di Jinadu in We Can’t Throw You Away, un sei ottavi con tracce vocali sovrapposte che ricorda lo Sting più raffinato, mentre in Shadow Falling Donald Fagen e Walter Becker vanno a braccetto con gli Zero 7. Nello spettro che si estende dagli Air ai Level 42 romantici di Leaving Me Now - senza gli orpelli che la rendono oggi meno desiderabile d’un tempo -
Thao & The Get Down Stay Down - We The Common (Ribbon Music, Febbraio 2013) Genere: Folk-Pop La cantautrice folk-pop Thao Nguyen pare essere uscita dal guscio di incantata introspezione che fino ad oggi ne ha caratterizzato la cifra, per lasciarsi coinvolgere da questioni squisitamente umane e sociali. Dopo diversi anni di frenetica attività, segnati dal fitto succedersi di registrazioni e tour, e dalle collaborazioni con alcuni dei protagonisti del nuovo folk - da tUnE yArDs a Laura Veirs, da Andrew Bird a Mirah -, la cantautrice californiana si stabilizza a San Francisco, decisa a vivere come parte di una comunità e attivandosi in particolare a tutela e sostegno dei carcerati. Un cambio di direzione che è alla base del suo quarto album con i Get Down Stay Down (primo su Ribbon Music dopo la lunga permanenza in casa Kill Rock Stars), nel quale il morbido disincanto dei temi trova un gradevolissimo contrappunto nei timbri irsuti del country, nelle atmosfere colorate e giocose sì, ma ritmate con particolare decisione, quasi a simulare un rinnovato moto morale. Emblematica la titletrack a base di banjo dedicata a Valerie Bolden, detenuta incontrata durante la sua prima visita alla Valley State Prison: “non riuscivo a smettere di pensare a lei - dichiarerà Thao - alle cose che mi ha detto e al modo in cui le ha dette, e molte di quelle cose sono finite in We The Common”. Qui l’incontro tra il canto rurale delle strofe e l’aperta cantabilità indie dei ritornelli restituisce un senso di contagiosa vitalità; e se in City (non a caso) si respira l’aria metropolitana, sghemba ed esuberante della scena newyorkese (Merril Garbus docet), in brani quali Holy Roller o Kindness Be Conceived, quest’ultima in duetto con Joanna Newsom, tutto acquista una dimensione più intima e scarna, virando verso un folk quasi incontaminato. Nel mezzo, fiati e leggere dissonanze jazzy (Move), brillanti mid-tempo pop (The Feeling Kind, Human Heart) e diverse gradazioni di una scrittura come sempre spon-
Antonio Laudazi
The Beauty Room - II (Far Out, Novembre 2012) Genere: smooth jazz, pop
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trova collocazione All In My Head, signora canzone che sa ancora sedurre, incurante delle rughe e delle mode, certa del proprio fascino, con un ritornello semplice e d’effetto. Le note del piano inseguono i vocalizzi nella strofa dell’antiquariato di scuola Peter Cetera di Wonders In The Sky, e bene s’inserisce nel contesto la cover di Heaven Is In Your Mind dei Traffic. II è un disco sinuoso, levigato ma non asettico, che può non far breccia al primo ascolto ma riesce ad entrare di soppiatto in salotto, ci fa compagnia alla fine di una giornata difficile e ci aiuta, complice, a creare l’atmosfera giusta per un aperitivo galante. I Beauty Room giocano a carte scoperte, eppure evitano di ricalcare pedissequamente le fonti. Non intendono cambiare il mondo, e sanno anche che di The Nightfly ce n’è già uno; il loro è un omaggio autentico e riuscito alla bellezza della Musica, al di là di spazio, tempo ed etichette. (7/10)
sto Revolutions Reinvented a una talentuosa band di revivalisti australiani appena maggiorenni. Nel complesso, la scrittura della onorevole cricca fatica oggi ad entusiasmare come probabilmente faceva allora, probabilmente per la mancanza - salvo alcune eccezioni, cronologicamente più tarde - di quell’attitudine alla sperimentazione lisergica che ha caratterizzato le fazioni progressiste e visionarie dei mid Sixties californiani (e non), e che rappresenta l’elemento di maggior continuità con il gusto contemporaneo. Seppure dunque la band non manchi di replicare episodi di grande ispirazione (Expo 2000, Gone And Passed By, Misty Lane), nel complesso rimane legata a un’idea che tende a confondersi con il già detto, confinata negli interstizi stilistici di band di più alta caratura, Rolling Stones su tutti. (6.5/10) Antonio Laudazi
Alessandro Liccardo
The Chocolate Watchband - Revolutions Reinvented (Twenty Stone Blatt, Novembre 2011) Genere: garage-psych-rock Negli ultimi anni abbiamo assistito al rinverdire - in certi frangenti, ai limiti del parossismo - di numerosi cataloghi, attraverso l’uscita di album celeberrimi rimaneggiati e rimasterizzati. Dai Beatles in giù, le numerose reissues propongono i lavori del passato (anche recente) ripensati quanto a equalizzazione, bpm e brillantezza all’ascolto, con buona pace di chi, legato a un’idea più filologica di sound, probabilmente non vede di buon occhio l’enfasi modernista di frequenze cristalline, in quei solchi dove è naturale che scorra la linfa ancorché monofonica e polverosa del tempo. Cosa c’entra tutto ciò con i Chocolate Watchband? Questi signori del nord della California - attivi dal ‘65 al ‘69 e autori di una parabola che li ha visti attraversare garage blues, rock’n’roll e psichedelia pop - approfittando del fatto di essere ancora tutti vivi e persino in forma, hanno deciso di risuonare la loro musica, altro che remastering, confezionando un best-of di 13 pezzi tirati a lucido. L’operazione, oltre che rispondere a esigenze commerciali, sembra scaturire dal desiderio genuino di oliare le giunture e tornare in pista. Per quanto riguarda gli arrangiamenti, rispetto agli originali non ci sono che pochi interventi, rivolti per lo più a limare la bassa fedeltà di alcune soluzioni e ripulire il tutto da certa chincaglieria improvvisativa (leggi: assolo di scarsa fattura). Il sound complessivo, invece, risulta drasticamente ringiovanito ma non snaturato, tanto che potremmo attribuire que88
The Courteeners - Anna (V2 Music, Febbraio 2013) Genere: (brit)pop-rock British nel midollo e con la sfacciataggine ed egocentrismo (non sorprendono gli apprezzamenti in casa Morrissey) tipica di alcuni esponenti di spicco del pop-rock albionico, Liam Fray e compagni si ripalesano al mondo dopo due album dimenticati e dimenticabili: St. Jude del 2008 e Falcon del 2010. Lo fanno nel loro stile, tramite l’annuncio via NME sempre attento a coccolare la scena brit-rock - in cui si autodefiniscono il miglior gruppo sul pianeta terra al momento. Nient’altro che una malcelata mossa promozionale in vista del terzo disco intitolato Anna. Più versante Kasabian (vedi la qui presente Van Der Graaf) che The Music nel tentativo - fallito - di madchesterizzazione degli anni zero, i Courteeners non hanno mai brillato in nulla e anche in Anna continuano a non farlo. Are You In Love With A Notion? funziona anche bene nella sua immediatezza, come probabilmente su alcune frequenze (leggasi Virgin Radio e dintorni) potrebbe funzionare bene anche un brano come Lose Control, ma l’intero disco è un concentrato di pop-rock anonimo e stereotipato, prodotto in direzione grandeur da Joe Cross (Hurts). “We have re-arrived - Welcome to the rave” - citando il titolo della traccia numero sei - proclamano i Courteeners con la consueta modestia, ma tra tentativi cheesy (When You Want Something You Can’t Have), indie-rock da club anni ‘00s (Push Yourself), riff blues-rock modernizzato che potrebbe far strada persino in USA (Money), cori da stadio (Shark Are Circling) e un look ripulito per l’occasione, risulta veramente difficile comprendere quali siano gli
aspetti in grado di spingere l’ascoltatore a propendere per loro a discapito di altri: in Anna non c’è nulla di originale, non c’è un marchio di fabbrica, non ci sono colpi di genio e non ci sono nemmeno brani veramente memorabili. La più grande band del mondo? Qui purtroppo non siamo troppo distanti dai percorsi degenerativi di band come The Enemy o Pigeon Detectives. (5.2/10) Riccardo Zagaglia
The Crazy Crazy World Of Mr. Rubik Urna Elettorale (The Crazy Crazy Crisi) (Locomotiv Records, Febbraio 2013) Genere: psych-post punk Finito il tempo dell’ironia surreale ma amara del precedente Are You Crazy o Crazy Crazy?, i The Crazy Crazy World Of Mr Rubik di Urna elettorale (The Crazy Crazy Crisi) sciolgono la triste contemporaneità dei nostri giorni in un sound corrosivo che sa di atmosfere narcotiche, Sud America e Africa. Come se i tempi grami che ci troviamo ad affrontare non meritassero altro che un estraniarsi consapevole e alterato chimicamente, un tribalismo sciamanico in piena riscoperta terzomondista esaltato dall’abuso di Roipnol. La parola d’ordine è asciugare i suoni, calibrare gli spazi vuoti, perdendosi magari nel mantra ruvido di un’iniziale Sebele che nella parte centrale trova il modo di giocare con l’ambient, nel world-blues sintetico/psichedelico di Urna Elettorale o magari nel noise in rima baciata de La nona rivoluzione silenziosa. Il linguaggio è al solito imbastardito da mille influenze, elettronica compresa, senza che si perda mai di vista quella direttiva etnografica (riletta in chiave post-industriale, come i Ninos Du Brasil insegnano) che sembra rappresentare il punto focale del disco (Pabababè). Il mix di reiterazione di suoni, poliritmie catartiche e velleità lisergiche raggiunge l’apice nella reinterpretazione di una Live in Pankow dei CCCP trasfigurata. Semanticamente, il punto più alto di un lavoro che se non è esattamente un concept, di certo assomiglia a un trip in piena regola con tanto di chiusa ambivalente: una E’ tempo di... a metà strada tra happy ending in chiave vagamente Akron/Family e scura pulsazione ambient disturbata. Disco di sostanza, Urna Elettorale (The Crazy Crazy Crisi), meno elaborato dal punto di vista dei testi rispetto all’esordio ma capace di una buona originalità su uno scheletro fondamentalmente post-punk. Un sophomore che riesce a coinvolgere senza sublimare. (7.1/10)
The Irrepressibles - Nude (Of Naked Design Recordings, Novembre 2012) Genere: chamber art-pop Gli Irrepressibles erano riusciti ad attirare parecchi riflettori all’epoca - 2010 - del debutto Mirror Mirror, riflettori lontani sia dai classici hype-hip pitchforkiani, sia dal tipico bla-bla NMEniano che colpisce le band inglesi. Si trattava piuttosto di un buzz da salotto altolocato, un passaparola tra chi non segue quotidianamente le uscite discografiche ma si fa facilmente affascinare da personaggi un po’ decadenti e appariscenti. Unire l’impatto pop di un Patrick Wolf con velleità opera-oriented alla Antony poteva essere una formula vincente. Così in parte è stato, nonostante i limiti di un disco tutto sommato minore, come dimostra il fatto che a quasi tre anni di distanza il secondo lavoro, Nude, non abbia ricevuto le stesse attenzioni. Uscito a ottobre 2012 per la Of Naked Design Recordings, Nude arriva in Italia con qualche mese di ritardo su distribuzione Family Affair. Elementi elettronici - un po’ retrò, eighties volendo - maggiormente in evidenza rispetto al debutto, ma rimangono l’eleganza stilistica, la tipica melodrammaticità - figlia quasi dell’espressionismo tedesco in quanto esagerazione - di McDermott e le atmosfere teatrali e cinematografiche apparentemente più legate all’Europa Centrale che all’Inghilterra. Tanti i passaggi in cui la voce assume un ruolo secondario: da una parte Tears (Prelude), brano per due terzi strumetale dove orchestrazione e synth riescono a creare un landscape ambient-pop di sicuro effetto, dall’altra i classicismi barocchi, ariosi e nostalgici di The Opening e Time Passing. “Take off your clothes, I want to see you naked” canta Jamie McDermott in Pale Sweet Healing in un misto di intimità, onestà interiore e perenne rapporto di odio e amore (riassunto anche in copertina). Seguono passaggi quasi sussurrati ed esplosioni corali-sinfoniche talvolta sorrette da neoclassicismi, old-synths e certa progressive elettronic (New World ricorda talvolta Vangelis). Non mancano le sorprese come la cassa dritta - ma sempre arty via archi pizzicati - di Tears o il beat dancey bastardizzato di Ship e rimangono solo in parte le somiglianze - più vocali che altro - con i Wild Beasts (si ascolti Arrow). Sempre pronti sia a toccare le corde più raffinate del pop, sia a buttarsi completamente in sonorità tra l’epico e il kitsch, gli Irrepressibles fanno un passo in avanti rispetto al debutto acquistando personalità e plasmando i contrasti con maggiore consapevolezza. (6.9/10) Riccardo Zagaglia
Fabrizio Zampighi
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The Lone Bellow - The Lone Bellow (Descendant Records, Gennaio 2013) Genere: roots-folk/country Che gli USA siano in pura folk-mania è un dato appurato non solo dall’enorme successo dei Mumford & Sons, ma anche da quello di seguaci americani come The Lumineers, Phillip Phillips e probabilmente presto i Family Of The Year. Gli americani dall’animo redneck, in fin dei conti hanno sempre avuto un debole per il trad-sound e quindi per l’universo country (che se vogliamo è il loro corrispettivo della nostra canzone sanremese), tanto che spesso tra gli album più venduti figurano fake-cowboy barbuti o bionde a cavallo sconosciuti fuori dai confini degli States. Quello che sta accadendo negli ultimi mesi sul territorio a stelle e strisce, non è poi dissimile - con le dovute proporzioni - a livello socio-culturale dall’esplosione del grunge del 1991 o del pop-punk del 1994: duo o tre band a guidare e decine di discepoli che cercano di sfruttare (onestamente o meno) il momento d’oro. Le 4.929 copie dell’album di debutto dei The Lone Bellow registrate nella prima settimana (74° posto) potrebbero sembrare poche, ma sono decisamente di più le probabilità che nei prossimi mesi questi numeri raggiungano volumi di altro livello, perchè The Lone Bellow sembra un disco realizzato appositamente per rappresentare al meglio tutti i clichè della folk-mania. I The Lone Bellow - come i The Lumineers - sono un trio formato da due uomini (Zach Williams, Brian Elmquist) ed una donna (Kanene Pipkin) orginari del sud e successivamente approdati a New York. Guardi la copertina e le foto promozionali e capisci subito quel che ti aspetta: esasperato tradizionalismo. Zach ha iniziato a scrivere prima su carta e poi in musica - in seguito all’incidente quasi mortale che ha colpito sua moglie qualche anno fa, con un po’ di cinismo si potrebbe dire che questa volta abbiamo anche la storia commovente di fondo. A rendere il tutto ancora più struggente ci pensano le tematiche principali dell’album: i sentimenti, la bontà d’animo e l’attaccamento alle origini. Fermi tutti però, nel caso dei The Lone Bellow è bene superare il negativo impatto iniziale tutto casa&chiesa e lasciare che siano le canzoni a parlare. Il campo di gioco è il punto di congiunzione tra l’indie-folkpop da classifica (Bleeding Out, Tree To Grow) ed un certo roots-country (You Don’t Love Me Like You Used To) venato di southern-soul (You Never Need Somebody) e di un balladry toccante che riporta alla mente gli Swell Season (Two Sides Of Lonely): per intenderci siamo molto più vicini a certe cose dei The Civil Wars che alle scampagnate danzanti degli Of Monsters and Men. Chitarre acustiche, mandolino (in mano 90
a Kanene), armonie corali emozionali (pur sfiorando lo stucchevole) ed una grande varietà di strumenti diretti dall’esperta produzione di Charlie Peacock accompagnano brani mediamente ben composti. The Lone Bellow mette in scena un conservatorismo sonoro e concettuale che è l’esatto opposto del progressismo musicale che, giustamente, si è portati a sostenere. Gli amanti del classicismo però non faticheranno ad affezionarsi a queste undici tracce. (6.1/10) Riccardo Zagaglia
The Ruby Suns - Christopher (Memphis Industries, Gennaio 2013) Genere: pop Ruby Suns vuole dire Ryan McPhun, e perciò anche la sua vita, le esperieze, i viaggi. Il californiano trapiantato in Nuova Zelanda si era portato appresso (o gli era rimasta addosso, attraverso i continenti) una capacità di lavorare sul sincretismo, di meticci are le forme canzone e i ritmi. Con Fight Softly, era pura esplosione di quell’abilità, anzi era lasciar sgorgare all’esterno quanto interiorizzato, contestualmente alla consapevolezza di non poter fare a meno di essere influenzato dal proprio percorso. Si diceva quindi che Fight Softly fosse il linguaggio proprio di Ruby Suns, capace di comprimere in una canzone tutte le tentazioni eccentriche altrove esplorate in un brano alla volta. Ora, prendete quei brani, togliete il brio di lasciarsi andare. Ripulite tutto, con una produzione sciacquata da acqua fresca - ma capirete che l’effetto dura poco. Ryan si è fermato, come sembra tra le righe ammettere, e ha scritto un disco che pare sia venuto fuori dalla gelida permanenza vicino a Oslo, nell’inverno norvegese. Chi legge forse penserà all’indie-pop nordico, ma Christopher non parla quel linguaggio. È un synth pop che passa - duole dirlo - senza lasciare traccia. Spersonalizzato, forse per un calcolo ludico, come chi cita i B-movie e spera che l’ipertesto generi il capolavoro, ma poi si ritrova con un B-movie. Non c’è pop-sploitation ma semplicemente il pop che guarda alle pillole indorate in Desert Of Pop, Futon Fortress, Jump In. Funziona come se a Fight Softly avessero tolto l’imprevedibilità, i cambi di struttura, quel poco di sporcizia che iniettava ironia. In effetti pesa e moltissimo il contributo di Chris Coady, ingegnere del suono newyorkese con cui Ryan ha mixato - ultra-professionalmente - il quarto album di Ruby Suns. Tutto è lucido, dinamico, estremamente cristallino, ma solo a volte (Boy, In Real Life) il lampeggìo è avvincente. Manca di fatto la penna, non si trova, dietro i lustrini. Un passo in avanti sarebbe ripartire forse di lì, posto che
ogni ricordo di disinvoltura lo-fi / DIY è lontano e passato. (5.8/10) Gaspare Caliri
Tosca - Odeon (!K7, Febbraio 2013) Genere: downtempo Ok, Tosca è una cosa anni ‘90, un pezzo di storia per vecchi che amano crogiolarsi sui divanetti del Buddha Bar, perché le serate in discoteca sono un lontano ricordo, causa figli, famiglia, lavoro e problemi da almost 40 che incalzano. Il duo formato da Richard Dorfmeister e da Ruper Huber non può più stupire, e di questo ne siamo ben consapevoli. Sarebbe come a dire che ci aspettiamo qualcosa di nuovo dal nuovo disco degli Iron Maiden. Tosca è vincolata al suono electro adult che in Vienna ha trovato la sua ragion d’essere. La capitale austriaca è simbolo sia di un decadentismo che tende alla depressione, sia di una voglia di innovare che nel tempo si è mantenuta orgogliosamente attaccata ad un suo stile, mai contaminato con altri mondi, a parte qualche puntatina verso i suoni della bossa nova. La Vienna della G-Stone è un po’ come la Parigi della Ed Banger, un tunnel per amici e fan che stanno sempre e comunque su quelle tonalità calde, che non vogliono sentire altro, perché hanno già sentito tutto. Una controrivoluzione su cui molti hanno marciato e continuano a millantare novità. L’undicesimo (!) disco del duo parte da questo background mitteleuropeo e propone una revisione delle sonorità downtempo in versione dark/black. La maturazione di cui dicevamo in apertura si applica quindi anche al sound dei due non più ragazzi e spinge verso tonalità à la Bowie/Depeche Mode (vedi il bel featuring di J. J. Jones in Jayjay), a meditazioni che ricordano ancora una volta le ineguagliabili K&D Sessions (Rodney Hunter in Heatwave), a spiagge pop baleariche (Sarah Carlier in What If), e ai già citati rimandi sudamericani (Luca Santtana che canta in portoghese sul buon beat di Stuttgart). Odeon è il teatro da cui il gruppo ha svolto i suoi concerti lo scorso ottobre, proponendo i nuovi pezzi al pubblico viennese (in edizione limitata c’è pure il live). Una cosa tutta fatta in casa, con amici e collaboratori dalla suburbia viennese. Tosca si chiude in sè e fa bene quello che sa fare. Se volete ancora downtempo, andate sul sicuro con questo stiloso nuovo album. Per le novità, cambiate capitale. (6.3/10) Marco Braggion
Unknown Mortal Orchestra - II (Jagjaguwar, Gennaio 2013) Genere: psych pop Il trio guidato da Ruban Nielson non è certo una di quelle band che cerca di nascondere le proprie influenze, ma al contrario, te le sbatte diritte in faccia senza troppe remore. Il passaggio da Fat Possum a Jagjaguwar non stravolge le scelte stilistiche dell’esordio, mantenendo una qualità di produzione vicina al lo-fi vintage e appiccicoso, chiaro segnale della volontà di essere sempre e comunque below the line. From The Sun, che apre, sembra uscire direttamente dal catalogo dei Beatles dell’era Sgt. Pepper, Opposite of Afternoon ricorda invece le melodie dei primi Small Faces, mentre One At The Time è un quasi-omaggio al Jimi Hendrix di Are You Experienced. Insomma, l’ossessione degli UMO per i 60s è talmente sfrontata che li si riesce anche a perdonare velocemente, una volta abbandonati al loro psych-pop morbido ed istantaneo. II rinuncia alle trovatine freak del primo album e si concentra su strutture scarne, molto semplici ma efficaci. La formula sembra funzionare discretamente bene, almeno per buona parte del disco. I vocals di Nielson, continuamente high-pitched, quasi lisergici, vanno di pari passo con i testi senza spigoli profumati di black humor (“Isolation, it can put a gun in your hand”) e con le velleità distaccate e fuori dal mondo di compari quali Ariel Pink e Tame Impala. Anche non aggiungendo nulla di straordinario al lungo filone revival, gli UMO trovano sicuramente più continuità e spessore degli inconsistenti Foxygen. Tra le dieci mellow jams di II, l’episodio più eclatante sembra essere So Good At Being In Trouble, che ricorda proprio la bella Baby di Ariel. Entrambe strizzano l’occhio all’oldschool r’n’b, mentre di soppiatto infilano un chorus killer estremamente contagioso. Il passato power-pop dei Mint Chicks di Nielson torna ad affacciarsi in No Need For A Leader, in quella che sembra essere l’unica eccezione di un disco altresì fortemente coeso e che sa esattamente dove vuole andare: a ritroso. (7/10) Luca Falzetti
Vanity - Occult You (Church Independent, Gennaio 2013) Genere: goth-wave A giudicare dal debut Occult You, dischi dei Depeche Mode come Music For The Masses o Black Celebration devono essere rimasti in cima alle playlist dei Vanity (formazione multietnica in bilico tra Italia, Palestina e Svizzera) per un bel po’. Assieme alla discografia migliore dei Nine Inch Nails, al post-punk/wave dei Joy Division, 91
a certe cadenze doom/dark rubate al metal e magari anche a un esoterismo di riciclo in stile witch-house. E’ più o meno tutto qui l’immaginario alla base delle dieci tracce del disco. La bravura della band sta nel rimodellarlo, calcolarne gli equilibri, renderlo mai troppo l’una o quell’altra cosa. L’approccio giusto per evitare di scadere nella macchietta o nella replica a oltranza e al tempo stesso confezionare una musica evocativa, piuttosto brillante e, soprattutto, “targetizzabile”. Se ne sono accorti quelli di Rough Trade che hanno deciso di distribuire il CD fuori dall’Italia, ce ne accorgiamo noi ascoltando brani come The Wanderer o Sleeping Tears: wave che parte dalle stesse premessi di migliaia di altre band col medesimo DNA, riuscendo tuttavia a sviluppare una personalità credibile e adulta grazie anche alla produzione per nulla “all’italiana” di Lorenzo Montanà (Tying Tiffany, Simona Gretchen). Una cover splendida, un artwork quasi total black e brani tra l’angoscioso e l’oscuro come Under Black Ice fanno il resto, consegnando ai posteri un ottimo disco di genere. (6.8/10) Fabrizio Zampighi
Veronica Falls - Waiting For Something To Happen (Bella Union, Febbraio 2013) Genere: jangle-pop Un quasi impercettibile fine-tuning in produzione; il cantato di Roxanne Clifford che si fa più sciolto, espressivo e quindi vicino alle timbriche di genere degli 80s/ early-90s (tra Pam Berry dei Black Tambourine e Andrea Lewis dei Darling Buds?); la passione per i distillati di romanticismo gotico che viene limitata ad un solo episodio (Buried Alive) lasciando piuttosto spazio agli eterni twentysomething twee e al loro corredo di amori non corrisposti (Teenage), sarcasmo (title track) e mancate appartenenze (Everybody’s Changing). Stanno tutte qua le variazioni apportate dal sophomore Waiting For Something To Happen a quanto già fatto vedere dai Veronica Falls. Piccole cose che possono far piacere, ma che ovviamente nulla spostano in quanto ad equilibri e valori. Sarebbe d’altronde stato quantomeno utopico, dopo il successo tout court del debutto omonimo (2011), chiedere una qualunque sorta di svolta. Non è sempre così in ambito indie-pop? Ritroviamo dunque le armonizzazioni uomo/donna, l’incedere incalzante della sezione ritmica tutta tamburelli, le cavalcate jangle tra C86 e velvetiane memorie, le varie deviazioni surf (My Heart Beats), folk (Everybody’s Changing), noise-pop brezzato Slumberland-shoegaze (Last Conversation) o dal taglio 50s (So Tired), nonché fortunatamente - il medesimo orecchio per melodie che 92
più catchy non si può. Nonostante sembrino passati eoni dall’ondata UK DIY che ha visto i nostri emergere come “next big thing”, la formula funziona di nuovo ed egregiamente. Ci fossero poi ancora dubbi riguardo alla personalità sofferta e acquisita dal marchio Veronica Falls, è questa stessa tracklist a vederli dissipati, se è vero che gli unici scorci in qualche modo attaccabili sono proprio quelli che lasciano il selciato: lo pseudo-grunge a battiti rallentati di Shooting Star e la giocata in sottrazione Daniel. Sotto con il prossimo. (6.8/10) Massimo Rancati
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Gimme Some Inches #34
Rimaniamo in Italia questo mese (o quasi) e girovaghiamo tra edizioni digitali e tapes. Con Calcutta, Giani Giublena Rosacroce, Von Datty, Plutonium Baby, The Piano Machine, Matteo Moca and so on... Mentre una parte sempre più consistente dell’underground (italiano ma non solo) sembra perdersi in sterili polemiche sul crowdfunding o sulla integrità da diy - noi, non c’è bisogno di dirlo, parteggiamo per la seconda - c’è sempre più gente che si sbatte in silenzio per far circolare la propria musica. La romana Geograph, giovane label gestita in solitaria da Antonio aka Grip Casino, sarebbe facilmente inseribile nel calderone onnicomprensivo del borgata bordo per frequentazioni e stortume. Ma i suoi confini, geographici e non, ci dicono di una entusiastica ricerca di “campioncini” off che spaziano con nonchalance tra deliri e deliqui, tra noise e sporcizia, rimanendo però sempre sintonizzati sulla forma canzone. In un catalogo che si va facendo sempre più corposo, le ultime uscite sono Calcutta e Kawamura Gun, ennesime perle di un rosario di stramberie made in Grip Casino, Eva Won, Harmony Molina e 94
Trapcustic. Forse, primo passo per il solo-act from Latina Calcutta, è un disco di quelli che difficilmente passerà inosservato e altrettanto difficilmente si toglierà dalla testa di chi avrà la fortuna di ascoltarlo. Un lavoro denso di sfattume oppiaceo e “deurbanizzato” applicato al folk deviante virato 60s, tropicàlia, tradizione popolare, cantautorato “colto” italiano anni 70 che ci fa venire in mente delinquenziali fusioni alla Bugo intimista meets Sic Alps e che mangia in testa a tutte le Luci del mondo. E lo fa a forza di ragazze incontrate a Pomezia, amori all’odor di Arbre Magique, amori finiti a Cisterna, sarcasmo surreale e (dis)ordinaria follia. Genialità e disagio da Latina. Applausi a scena aperta. Da ancora più lontano arriva Kawamura Gun, ragazzone nippo trasferito da tempo a Roma, zona Pigneto ovvio, e ben calato nella surrealtà di zona se intitola Brutiful il suo esordio. Siamo sempre dalle parti della forma canzone latamente folk o
rock, ma Gun ci mette quell’esotismo che spesso fa rima con weird quando si coniuga in giapponese. Il cantato in lingua madre suggestiona, certo, ma è il senso generale degli arrangiamenti decisamente bizzarri che tracimano la follia di qua e di là degli oceani a farsi notare tra gusto folkish stars&stripes e schizofrenie nippo, tradizioni infrante a più non posso, melodie fanciullesche e exotica sixties alla Pizzicato Five de noantri. Altro nome da segnalare è The Piano Machine, sigla dietro cui si celano Antonello Raggi (Satan Is My Brother) e Francesco Campanozzi più una bella messe di ospiti. Progetto nato in casa e con una miriade di strumenti per un pop sofisticato e ricercato che si muove agile tra attitudine da Beta Band controllata e Canterbury pop, aperture postpop cameristico, cinematiche visioni e docile psichedelia visionaria da folk britannico. Finendo col lambire territori electro limitrofi al french touch. The Bicyle ep, The Train ep e The Airplane ep sono, come deducibile, le tre parti di un concept album incen-
trato sui mezzi di trasporto come metafora del musica in movimento. E di luoghi ne toccano eccome i due, dimostrando di nuovo la bontà di un panorama italiano che vive della propria passione e che spesso tira fuori piccoli gioielli. The Piano Machine è uno di quelli. Ancora vogliosi di nomi validi sul versante del faccio tutto da solo? Ecco a voi. Il romano Von Datty si muove sul filo del cantautorato ma lo fa in maniera storta e notturna, alternando filastrocche, rumorismi, nenie, limpidezza esecutiva, retroterra cinematografico, esotismo popolare in un breve lavoro (Diavolerie) che è un bell’esordio, personale e lontano da soluzioni (vocali e strumentali) facili. Meglio di molti più celebrati cantastorie, perciò “Baffi al vento”. Sempre su base acustica si muove Apash 2012, seppur adagiato su una forma “classic-rock” più riconoscibile e pacificata, tranne che in alcune eccezioni (i beats sintetici di All In o il downtempo spacey di Jealousy). A risaltare e a venir premiata in Blacker è però la cruda nettezza con cui si manifesta la passione del
suo autore, fieramente fuori moda e sentita fino al midollo. Infine, il fuoriuscito dai Fauve! Matteo Moca che se ne esce con un album di musica liquida, La Premiere Plainte, in cui dimostra di essere al pari della statura raggiunta dalla ex casa madre. Paesaggi liquidi, noise bianco, elettroacustica disturbata, etno-soliloqui, dubboni cosmici e smaterializzazioni varie sono pane per i denti di Moca e questo primo passo in solo, nutrendosi di “fantasmi e hauntology, Cioran e Proust” è un ottimo viatico per il futuro. In chiusura torniamo alla tangibilità del mezzo di diffusione con un paio di cassette appena uscite. Entrambi ritorni di nomi passati su queste pagine, hanno storie diverse. La prima tape è La Mia Africa (pubblica la romana No=Fi Recordings) di Gianni Giublena Rosacroce. Mr. Isaia ritira fuori la sigla esoterica con la quale aveva dato inizio ala saga La Piramide Di Sangue con un mini in cui ci trasporta nuovamente in quelle lande senza tempo che caratterizzavano l’esordio di un anno fa: effluvi mediorientali, spiritualità “altra”, trascendenza etno,
devianza psichedelica e umoralità altalenante tra momenti più mossi e dilatate visioni. Tutto, come al solito, fatto in (quasi) totale solitudine, se si eccettuano interventi dei fratelli (Dedalo666, Vernon, Jena) e le voci recitanti di due ragazze tuareg intente a declamare i versi di GGR nel linguaggio fula. Della serie, cosa vogliamo dirgli? L’altra tape invece è il rientro dei Plutonium Baby, trio romano misto che avevamo incrociato un anno fa nello split con Margaret Doll Rod. Ora è il momento di tirare le fila del tutto e così arriva la cassetta fucsia e limitata per Welcome in the Shit Records in cui outtakes, improvvisazioni e esperimenti casalinghi si muovono sempre sul crinale del garage-wave a forti tinte crampsiane. Doppia voce, echi cavernosi, synth reiterati e batterie sconclusionate per una botta di vita di insano rock’n’roll. Stefano Pifferi
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The
Clash L’unica band che conta 96
I Clash hanno definito un canone estetico intramontabile, un invito a guardare musicalmente oltre l’euroamerica sia nello stile che nell’attitudine. Come pionieri, sono arrivati sul terreno quasi vergine del punk-reggae melodico e hanno piantato la loro bandiera. Chi è venuto dopo, è con loro che si è dovuto confrontare. Testo: Giulio Pasquali
“Credo che i Clash abbiano un cervello da quattordicenni. Parlano di marxismo senza sapere chi fosse Marx. È come il culto del fallo nelle popolazioni primitive” “Quando arrivarono i Sex Pistols per me fu come una liberazione. Che non sapessero suonare per il momento non aveva alcuna importanza, finalmente quattro ragazzi che arrivavano e in venti minuti scatenavano un gran casino: a chi poteva fregare di subire tre ore di merdose suites degli Yes?” Domanda: tra il cantante di un noto gruppo punkreggae e quello di una raffinata band soul-pop, chi ha pronunciato la prima frase e chi la seconda? Altra do-
manda: tra l’arbiter elegantiarum Bryan Ferry e il punk Joe Strummer chi è figlio di un fattore e chi di un funzionario diplomatico? Le risposte non sono così scontate: quello snob è uno Sting che disprezza l’impegno di Strummer e soci (lo stesso Sting che si dichiara socialista per poi scrivere History Will Teach Us Nothing, ma il cui botta e risposta con Strummer si trasformerà negli anni in un mutuo rispetto) e per il quale il punk reggae è una scelta estetica e non di barricata; l’altro è un sorprendente Mick Hucknall dei Simply Red che si esalta, almeno inizialmente, per la rivolta 77ina contro la presunzione del prog e quel divismo che qualcuno definirà nazista, per il suo mettere 97
il virtuoso dello strumento su un piedistallo davanti a masse sottomesse e adoranti. Ed è Ferry che porta le aspirazioni all’eleganza del proletariato (già dei mods) ad eccellenza assoluta, mentre Strummer rifiuta agi e ricchezze andandosene a vivere nelle comuni. Dal lavoro del padre, che imponeva frequenti spostamenti nel mondo, quest’ultimo prende la capacità di guardare oltre i confini della pur cosmopolita Londra, nonché l’esperienza diretta dei disagi delle zone più povere del pianeta (e in quanto a eleganza proletaria e attenzione allo stile, i Clash ne svilupperanno una tutta loro). Nessuno stupore: la storia artistica e umana del gruppo ha sempre viaggiato su contraddizioni, come se lo stesso nome della band fosse stato scelto non solo dopo aver notato la sua frequenza sui giornali ed aver pensato che fosse efficace, ma anche intendendo “scontro” in senso lato come “contrasto” o, appunto, “contraddizione” (nell’accezione, tra gli altri, del sunnominato Karl Marx), per raccontare la continua tensione tra istanze diverse che ha movimentato storia e attività dei Nostri, talvolta efficacemente, talvolta meno. Di contraddizioni, in questo senso, se ne possono annoverare molte: quella tra lo status di indipendenti, l’ideologia alternativa e il fatto di incidere per una major; quella tra l’amore per la tradizione glam e r’n’r, anche 98
USA, e la tabula rasa che il punk si riprometteva di fare (e che il lato B del singolo d’esordio proclama nel verso “No Elvis, Beatles or The Rolling Stones in 1977”); gli scontri veri e propri del Carnevale di Notting Hill del 1976 e quelli in generale con l’establishment; la dialettica tra Londra come centro del mondo - e scenario privilegiato - e la tensione mondialista (sia per le musiche che per le cause difese) che va a incrociare quella tra un movimento punk nato come situazionista e in genere libertario e il razzismo che vi serpeggiava all’inizio (prima che Strummer si mettesse di buzzo buono a sturare le orecchie al pubblico sul tema). E ancora: la dialettica tra gli anarchici-nichilisti Sex Pistols e i “marxisti” Clash; quella tra un Mick Jones che scriverebbe anche canzoni d’amore e Strummer che dichiarerà “se anche ci provo, al terzo verso me la sto già prendendo col presidente degli Stati Uniti”; quella tra l’adesione sincera e totale a certe istanze e l’ingenuità con cui a volte si aderiva; quella tra la proclamata necessità di essere lucidi per combattere il sistema e le droghe a cui facevano ricorso alcuni membri della band (in particolare Jones e Headon); quella tra l’amore per certo immaginario americano, soprattutto cinematografico, e la denuncia dell’imperialismo, anche culturale, statunitense. Per finire con i contrasti umani tra gli stessi mu-
sicisti e con l’amico-manager Bernie Rhodes. Contraddizioni, certo, ma spesso superate o sfruttate in maniera feconda grazie al talento e alla sincerità con cui i Nostri se le assumevano traendo forza dalla confessione delle proprie debolezze: uno dei motivi che ha fatto guadagnare loro l’appellativo di “l’unico gruppo che conta”. Nomignolo che inizialmente, però, era uno slogan coniato da un creativo della CBS: a proposito di contraddizioni...
I - Lo ndo n ’s burn in g wit h h at e and wa r E che può fare un povero ragazzo, se non suonare in una rock’n’roll band? Perché nella sonnacchiosa Londra non c’è proprio posto per un combattente di strada Rolling Stones, Street Fighting Man (1968) Non c’è un vero big bang di tutta la storia, ce ne sono vari che danno l’avvio e il segno al tutto. Innanzitutto lo storico concerto dei Ramones a Londra il 4 luglio del 1976, con la futura aristocrazia del punk presente tra il pubblico a prendere ispirazione e coraggio. L’origine USA del punk, dal garage 60s passando per Stooges, New York Dolls, MC5 e un po’ di negatività VU fino a Patti
Smith e contemporanei è nota: c’entra anche il glam, e parecchio, ma Bolan in quel momento è fuori dal quadro e David Bowie è a Berlino dove sta già inventando il post punk (e Ziggy sembra ancora più lontano della città tedesca). Di base, il verbo della nuova semplicità r’n’r arriva da oltre l’Atlantico e i nostri sono tra i primi discepoli dei quattro newyorchesi. Secondo, ma di qualche mese precedente, un altro concerto: quello in cui i Sex Pistols fanno da spalla ai 101’ers di Strummer. Il quale ha una folgorazione: basta con il pub rock, basta suonare mendicando l’attenzione di chi ne ha solo per la birra. L’impatto con i Pistols che tirano avanti col loro spettacolo fregandosene se il pubblico apprezza o meno, gli fa capire che è necessario un altro approccio (e appropriatamente, di lì a qualche giorno, verrà invitato da Jones e Simonon nel loro gruppo). Terzo: i già ricordati scontri al Carnevale di Notting Hill dell’agosto ‘76, che spiegano definitivamente ai nostri che “peace and love” era il sogno degli hippies ‘60 e “odio e guerra” erano invece la realtà dei giovani dei ‘70. Strummer, Simonon e Bernie Rhodes ci sono in mezzo e oltre alla consapevolezza, dall’esperienza traggono il punto di partenza per una delle questioni centrali della loro storia: il rapporto con lo straniero e con la sua cultura, dalla contaminazione musicale alla realtà dell’immigrazione,
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la cui durezza mette a dura prova la solidarietà che i loro ideali vogliono (non vorrebbero: VOGLIONO). E poi il botto finale: i Clash, uno dei migliori e più amati gruppi della nascente e già ricca scena punk, firmano per una major (opera di Rhodes, il gruppo non aveva nemmeno capito con quale major stesse andando ad accordarsi). La “caccia al gruppo punk” delle grandi case discografiche (evidentemente non scottate da Mc Laren) era cominciata e il gruppo non era di quelli da deliberata strategia del caos come nel caso di Rotten & co. Semmai c’è la vecchia idea marxista di sfruttare tutti i mezzi offerti dal Capitale al fine di combatterlo. La mossa non è indolore e divide gli osservatori tra chi si rammarica dell’impulso che avrebbe dato al circuito indipendente un singolo dei Clash e chi, come Luca Frazzi, ringrazia Virgin e CBS senza le quali difficilmente l’appello di Londra sarebbe arrivato ai suoi destinatari nelle periferie mondiali (tra l’altro il manager che li ingaggia affronta pure qualche contrasto con la dirigenza). Lo stesso singolo d’esordio è un botto: sul lato B il manifesto su riff kinksiano di 1977, sul lato A la furia di White Riot, ode alla capacità dei neri di rivoltarsi al contrario dei bianchi rammolliti, con l’auspicio di una scossa che porti anche loro a ribellarsi contro una decadente contemporaneità fatta di conformismo, oppressione e noia (quella di cui brucia Londra, come dirà un altro celebre inno contenuto sul primo LP). Ci scappa pure l’equivoco iniziale, con gruppi di estrema destra che interpretano come pare a loro il concetto di “rivolta bianca”: ci pensa Strummer a chiarire dal palco, non risparmiandosi a combattere le vaghe tendenze destrorse di certo primo punk e predicando la solidarietà di classe. E il primo album, l’epocale omonimo The Clash, andrà anche oltre. Il disco, allontanatosi il futuro PIL Levene e con Terry Chimes ancora nel gruppo ma di fatto già in partenza, mostra un grande talento melodico unito a energia esplosiva, la capacità di trarre il massimo da quattro accordi + una melodia cantabile + aggressività, nonché il talento lirico necessario a dipingere un ritratto vivido e immediato del quotidiano disperato e violento della capitale (la noia del lavoro nell’incipit killer di Janie Jones, l’autoproclama Garageband, la droga in Deny, la disoccupazione in una Career Opportunities che ahimè non invecchia mai) iniziando anche ad alzare lo sguardo al mondo (I’m so Bored with the U.S.A.), in un mix che fa di questo uno dei vertici assoluti del punk classico e uno standard inossidabile per i decenni a venire del genere (dal revival formale - e commerciale - degli anni ‘90 di Green Day e Offspring fino agli Wombats). Sempre a proposito di cantanti soul pop, nel documentario Joe Strummer: The Future is Unwritten Roland Gift dei 100
Fine Young Cannibals spiega: “all’inizio pensavo che il punk fosse una cosa per bianchi; poi i Clash fecero la cover di Police & Thieves e allora capii che era anche per i neri, anche per me”. Un gesto che in un paese ad altissimo tasso di immigrazione aveva implicazioni di portata enorme e che parla di un’epoca in cui il rock ancora incideva sulle vite quotidiane delle persone. Tempi in cui bastava una cover perché qualcosa si smuovesse anche nella realtà o perché almeno nelle mode giovanili cominciasse a cadere qualche barriera. Tra l’altro, azzardando anche un trattamento musicale in stile punk ad alto rischio, che invece inizia a mettere in evidenza il talento di arrangiatore di Mick Jones (e anche il punk viene in qualche modo sfidato, coi sei minuti di durata della versione). Riguardo alle mode giovanili, va registrato en passant che la dialettica con i padrini Who, la già ricordata cura per il look e l’interesse per la musica che gli immigrati specie caraibici portavano nei quartieri londinesi, indica più di una vicinanza col mondo mod, benché il titolo di mod post-77 per eccellenza sia nell’opinione comune appannaggio di Paul Weller. Come per Never Mind The Bollocks, il fatto di uscire per una major fa sì che il suono non sia proprio quello grezzo e spontaneo che il punk predicava, a beneficio dell’efficacia e della potenza: un funzionario dirà “siamo alla CBS, i dischi siamo abituati a farli in un certo modo” e comunque per loro non è abbastanza, come vedremo. L’album infatti non viene pubblicato oltreoceano perché troppo rozzo a livello sonoro e perché Strummer, ahimè, non lo si capisce benissimo quando canta: dopo esser diventato però il disco di importazione più venduto, la CBS USA decide (è già uscito Give’em Enough Rope) di pubblicarlo ma, come negli anni ‘60, cambiando canzoni e scaletta con brani presi dai singoli (perfino da quelli usciti dopo il secondo disco). Del resto non manca il materiale: c’è Complete Control, epica risposta alla casa discografica che aveva pubblicato Remote Control come singolo senza il consenso del gruppo e comprensiva anche di presa in giro dei virtuosismi chitarristici di moda nel rock da baraccone (nonché della leggenda del reggae Lee “Scratch” Perry dietro al banco del mixer); c’è l’altro autoproclama Clash City Rockers (riff Who, stavolta, che inizia a far cadere l’embargo antipassatista nominando nel testo Bowie e Gary Glitter); soprattutto c’è White Man In Hammersmith Palais. Singolo tra i più amati del gruppo, quest’ultimo mostra che con l’arrivo di Topper Headon i quattro ormai sono una macchina da guerra capace di allargare i propri confini stilistici: stavolta il reggae lo suonano davvero, proseguendo nel percorso di saldatura musicale coi neri. Per la coesione sociale, invece, le cose sono più difficili:
il testo racconta di una serata di gruppi reggae e della delusione del protagonista nello scoprire che sul palco si suona del soul leggerino e non del roots. Per la serie: la saldatura non è automaticamente dettata dal comune disagio. I Nostri continueranno a cercarla, ma con qualche altro problema.
II - Sa f e Euro p e an Ci v i l War Lee “Scratch” Perry e Bob Marley ] avevano tutto il diritto di dire “Senti un po’, bello mio, l’hai rovinata questa canzone!”. Ma erano abbastanza scafati da sapere che avevamo portato la nostra musica alla loro festa. Joe Strummer, su Police And Thieves È stato davvero fantastico trovare Topper Headon. C’è una regola fondante del rock che dice che sei bravo quanto lo è il tuo batterista. [..] Niente lo scalfiva. Sapeva suonare il funk, il soul, il reggae. È lui il motivo per cui i Clash sono diventati un gruppo musicale interessante. Joe Strummer Nel 1978 il punk, che sta andando incontro a trasformazioni, evoluzioni e scioglimenti, registra il naufragio più eclatante con la crisi finale dei Sex Pistols durante una tournée americana che porta a far definitivamente esplodere le tensioni tra band e manager. Già, il manager: figura capace di portare un gruppo alle stelle (Brian Epstein) o di spaccarlo del tutto quando, nella media-
zione tra volontà della band e volontà dei discografici, comincia a inserire la propria (vedi Steve Sesnick con i VU), magari mettendo i musicisti uno contro l’altro. Bernie Rhodes, inizialmente amico di Mick Jones, era stato fondamentale per entusiasmo e iniziativa nel percorso che aveva portato i Clash dov’erano, ma la tendenza a mettere il gruppo davanti al fatto compiuto, a muoversi senza informarli, nonché a tentare di intervenire dove non doveva (mostrando una sindrome da musicista mancato che più avanti emergerà clamorosamente), porta al suo licenziamento a giugno di quell’anno, a vantaggio di un management tanto professionale quanto privo di “entusiasmo” (Strummer). Prima di giugno, Rhodes aveva mandato Strummer e Jones in vacanza in Giamaica, un po’ come premio, un po’ per scrivere. Il risultato? Simonon, che era quello che in un quartiere multietnico era cresciuto e che avrebbe davvero voluto fare il viaggio, se ne ha a male e trova il modo di farsi arrestare insieme a Headon per aver sparato a dei piccioni viaggiatori dal tetto della sala prove. I “giamaicani” rimediano invece un trauma anche peggiore di quello dell’Hammersmith Palais. Sull’isola, infatti, scoprono che la povertà e il disagio hanno partorito un livello di criminalità e violenza che spaventa perfino chi non era davvero cresciuto nell’idillio di un tranquillo borgo delle colline toscane (benché in realtà Simonon avesse in effetti passato parte dell’infanzia vicino Siena): si legga il resoconto del viaggio in Giamaica di Lester Bangs, per averne un’idea (e anni dopo ci sarà il bis du101
rante le sessioni di Sandinista!). La solidarietà è su un piano di estraneità, di lontananza, e dal terrore viene fuori la confessione di Safe European Home, che apre con fragore di classico il sudato secondo album Give’em Enough Rope. Sudato perché la CBS vuole un suono più USA e allora appioppa al gruppo il produttore Sandy Pearlman, già al lavoro con Blue Oyster Cult e altra musica piuttosto lontana dai Clash. L’idea è, tra le altre, far capire meglio le parole di Strummer, esperimento che riesce solo in parte: più che altro Pearlman potenzia chitarre e batteria (con grande gioia del nuovo arrivato Topper Headon). Detto questo, sono ingiuste le accuse di “metal” e di americanizzazione che i puristi rivolgono al disco, il cui problema, semmai, è in parte quello di essere stretto tra l’epocale esordio e il disco dell’anno successivo e in parte di sembrare un prolungamento del primo quando tutti gli altri dischi costituiscono ognuno una tappa evolutiva di un percorso. In realtà il disco funziona. Dopo l’apertura col botto delle Holidays In Giamaica (con tanto di chitarre in levare sul finale a ribadire l’argomento) il secondo brano, English Civil War (modellata sul traditonal americano Johnny Came Marching Home) è un altro potente singolo che sembra dire “safe un cazzo: in modo diverso ma anche da noi l’aria è di piombo”, come indicano le metafore militaresche e i continui riferimenti alle armi contenuti nei titoli (per tacere di look e pose sul palco, che mettevano 102
in scena un’idea di conflitto permanente). Vedi, oltre a quest’ultima, anche il singolo Tommy Gun, cui Headon aggiunge una rullata-mitragliata che è il tocco finale su uno dei pezzi migliori del repertorio e una Guns on the Roof che nel titolo richiama la figuraccia dei piccioni ma poi passa a descrivere la violenza indotta (e praticata) dal potere (ma anche il r’n’r di Drug Stabbin’ Time, che affronta la questione/contraddizione droga all’interno del gruppo, dove stab significa anche “accoltellare”). Tra una Last Gang In Town che celebra sia il gruppo stesso, sia le etichette indipendenti dell’epoca, la critica alla commercializzazione di quella scena della conclusiva All The Young Punks, la risposta alle polemiche di Cheapskates e l’elegia urbana di Stay Free, esce un solido disco di punk rock che di americano ha giusto un piano qua, un sax là e poco altro. Non il successo, che invece gli arride in UK nonostante le rinnovate accuse di essersi venduti: ma anche quelle, inferiori rispetto a quelle che verranno col disco successivo.
III - To t he fa raway towns: t he g uns of Lond on . Suonavamo al Palladium di New York e c’era molta tensione [..]. Verso la fine del concerto sentivo che nulla era completo, non mi sentivo soddisfatto [..]. Mi sentivo vuoto, e per la rabbia ho buttato giù il basso e l’ho percosso, per-
ché non c’era stata nessuna interazione con il pubblico [..]. Pennie Smith ne ha fatto una foto. Paul Simonon Eravamo arrivati a un punto in cui il punk si stava restringendo sempre più, in termini di ciò che poteva ottenere e dove poteva andare. Si stava cacciando in un vicolo cieco, mentre noi volevamo fare di tutto. Mick Jones In realtà volevo che Guns of Brixton fosse un pezzo un po’ più rock, ma la mia incapacità musicale rese difficile comunicarlo agli altri. Paul Simonon Intanto, dalle sessioni americane con Pearlman i nostri hanno portato in dote una scoperta: I Fought The Law, un vecchio pezzo del Bobby Fuller Quartet che ben si sposa con la mitologia romantica del fuorilegge cara alla band (Jail Guitar Doors e, in futuro, Bankrobber, per dirne due). Avendo ormai raggiunto altissimi livelli di coesione e di sicurezza nei propri mezzi, i Clash prendono quella vecchia canzone americana e la trasformano nella sfrenata corsa di una mandria di bisonti annunciata da una rullata lontana, che arriva ad esplodere in un inno fiero anche nella sconfitta: una di quelle cover che tanto sono state assorbite e felicemente elaborate dalla poetica di chi le realizza, da diventare dei classici alla pari col repertorio autografo. Il resto dell’EP The Cost Of Living (maggio 1979) continua sul rock passando dall’annuncio dell’era Tatcher di Groovy Times alle insolite chitarre acustiche (e strofa Stranglers) di Gates Of The West con buona ispirazione, anche se la cover è una spanna sopra. Chiude Capital Radio 2, remake più grezzo dell’originale (nonostante l’intro, anche qui di chitarra acustica) Capital Radio pubblicata solo su un flexi del NME. Un anno avaro di singoli, ma i Clash stanno preparando il botto di fine anno: l’unico altro 45 giri infatti, London Calling, esce a dicembre - una settimana prima dell’album cui dà il titolo - e da solo vale una carriera. Per capire meglio singolo e album, però, bisogna guardare intorno a un anno cruciale innanzitutto per il post punk ma non solo: mentre il prog appassiva tra scioglimenti, aridità artistica definitiva e svolte chart friendly (Genesis, ma anche Yes), mentre le menti di Bowie (con Lodger), Eno (specie insieme a Byrne e gruppo) e Gabriel lavorano a una deoccidentalizzazione del rock ben più ampia delle fascinazioni indiane del ‘67 (e che i nostri raccoglieranno, a modo loro, dall’anno successivo), mentre il punk saluta qualcuno (i Buzzcocks, ad esempio) e accoglie gli Stiff Little Fingers (che tanto devono sia ai Clash
che a Shelley e co.), i gruppi inglesi più o meno legati al ‘77 scrivono il futuro, uscendo anch’essi dal “vicolo cieco” di cui parla Jones.È infatti questo l’anno di svolta del cosiddetto post punk, in cui nomi di una certa entità esordiscono su album (Cure, Pop Group, Simple Minds, Joy Division) o su singolo (Bauhaus) e altri cambiano o iniziano a cambiare suono. Quel che accade a Siouxsie & the Banshees e ai Magazine, ma anche a quelli che erano stati associati al punk per un’esuberanza iniziale che ora in parte viene abbandonata, in favore di tratti stilistici più caratterizzanti (vedi il classicismo pop di Costello e XTC o dell’esordiente Joe Jackson); per tacere infine delle svolte epocali che allontanano definitivamente dal punk il suono di chi ne aveva scritto le regole come PIL e Wire, i quali ora contribuiscono a definire quelle di una nuova onda (che tra l’altro accoglie anche la Marianne Faithfull di ritorno dagli inferi di Broken English). Strummer e soci, invece, vanno in tutt’altra direzione: innanzitutto, niente ripiegamento esistenziale nell’intimo da riflusso; poi, se accuse di americanismo devono essere allora siano, ma come dicono loro e con la mano ormai sicura. Si guardi, in questo senso, la cover di Armagideon Time, tesa ed epica come da testo (lato B del 45 giri) nel mostrare la padronanza raggiunta anche col dub (grazie alla collaborazione con Mikey Dread); si veda il lato A, inno definitivo ai disperati del mondo che mescola con nonchalance andamento boogie e chitarre reggae risultando totalmente e classicamente rock. Perché la scelta è questa: Londra al centro con lo sguardo cosmopolita che le è proprio, ad appropriarsi non solo del reggae ma anche della tradizione e della cultura (soprattutto musicale) degli USA. In un’operazione che smussa il punk e accoglie altro, per ridefinire il canone del rock classico dall’interno e da fuori, dalla capitale UK e dalle faraway towns del primo verso: da qui in avanti il punk-reggae, pur andando oltre, partirà sempre dai Clash (la naturalezza con cui tanti considereranno naturali gli inserti ska è appena un passo avanti). Così, tra il rockabilly della cover Brand New Cadillac, il reggae gioioso di quella di Revolution Rock, l’omaggio al muro di suono spectoriano di The Card Cheat (che ricorda certo Springsteen coevo) e quello swing-big band a Montgomery Clift di The Right Profile; tra classici di punk rock melodico come Hateful (di nuovo la droga), Clampdown (la repressione) o Spanish Bombs e la presa in giro della boriosità guerrafondaia in Death Or Glory; tra il Bo Diddley virato reggae di Rudie Can’t Fail, la quasi disco di Train In Vain (registrata all’ultimo e per questo non scritta in copertina), il rock sospeso di Lost In The Supermarket, lo swing da bassifondi di Jimmy Jazz, il rock nell’autoproclama di Four Horsemen e l’alzata d’orgoglio di I’m Not 103
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Down, esce un nuovo canone e un gruppo che l’esame del terzo disco lo passa in carrozza. E c’è spazio anche per Simonon il quale, all’esordio come autore, butta lì un inno del reggae-rock come l’epica The Guns Of Brixton, unico altro pezzo del disco dal tono drammatico oltre alla title track il cui giro di basso assassino verrà campionato per Dub Be Good To Me dei Beats International del futuro Fatboy Slim (ma ricordiamo anche Dove te ne vai, cover in italiano ad opera dei livornesi Ottavo Padiglione con un testo che sostituisce Brixton con l’emarginazione in provincia). Il suono, come già nel precedente, può risultare un po’ troppo pulito: il gruppo non ha vinto la battaglia per pubblicare le canzoni così come le aveva registrate nella sala prove Vanilla e ha chiamato Guy Stevens (che aveva prodotto un insoddisfacente demo della band agli esordi e la cui follia è testimoniata da un’abbondanza di aneddoti). I Vanilla Tapes usciranno nella ristampa del 2003 e a sentirli meglio così: il lavoro di Stevens è eccellente e un suono così ecumenico ben serve le intenzioni di sintesi di una band che pure si attira critiche feroci da parte dell’ortodossia punk e non solo. Valga ad esempio il nostro Red Ronnie, che del disco pubblica una recensione doppia: nella prima loda la capacità dei Clash di andare oltre il proprio stile scrivendo una classicità nuova, nella seconda li dichiara venduti al sistema e all’orecchiabilità, per poi concludere “scegliete voi la recensione che preferite: per me sono giuste entrambe”. È più o meno la stessa divisione che c’è nel pubblico, ma sia l’ingresso del disco nel pantheon delle opere fondamentali del rock che l’infinito amore riscosso nel tempo, dimostrano che alla fine il gruppo vince su tutta la linea. Anche sui discografici, visto che l’opera esce doppia (la prima volta per un gruppo punk) al prezzo di un album singolo, gesto filoproletario che dice più di qualche levigatezza sonora.
IV: Fro m t h e far away town s : t h e mag n i f i c ent par a de . Eravamo un gruppo punk, ma non per questo bastava dire “Uno Due Tre Quattro” e iniziare ogni pezzo così. Sapevamo fare cose diverse. Mick Jones Ho discusso parecchie volte con la gente su cosa dovevamo metterci e cosa no, ma adesso, ripensandoci, non riesco a separare le canzoni. È come gli strati della cipolla: ci sono pezzi stupidi e altri bellissimi. Più ci penso, più sono felice di come è venuto. Joe Strummer, su Sandinista!
Non contenti di un doppio storico, per l’anno nuovo i “quattro cavalieri” rilanciano: l’idea è quella di un singolo al mese per tutto l’anno, ma stavolta i discografici dicono niet: uscirà solo Bankrobber (altra incursione nel dub ma senza la tensione drammatica di Armagideon Time), che però grazie a una efficace melodia pop sarà un successo, oltre a segnare l’inizio della collaborazione con Mikey Dread (la canzone verrà ripresa a fine anno in Black Market Clash, piccola antologia su 10” che renderà disponibili un po’ di rarità da singolo, ampliata poi nel 1993 con un Super in più nel titolo e quasi tutti gli altri lati B). Persa la battaglia del singolo mensile, però, i Clash ne vincono un’altra, anzi altre due: concluso il tour con alcune date a NY, riescono a farsi pagare tre settimane agli Electric Ladyland Studios e con l’aiuto di Mickey Gallagher, di Dread e altri, buttano giù tutti gli esperimenti che vengono loro in mente, senza confini di genere. Seconda, e più importante: pubblicano tutto il materiale in un triplo album, anche stavolta a prezzo ridotto. Per farlo devono rinunciare ai guadagni delle prime duecento mila copie, ma così facendo riescono almeno a non far svenare il proprio pubblico. Sandinista! esce a dicembre del 1980 ed è insieme seguito e negazione di London Calling: dove infatti il doppio sintetizzava le contaminazioni in uno stile coerente e controllato da una mano ormai disinvolta, il triplo esplode in mille direzioni ampliando le fonti di ispirazione senza preoccuparsi più di tanto di amalgamarle né dell’eterogeneità del risultato. La lunga raccolta parte facendo subito la Storia già in apertura: The Magnificent Seven è il primo pezzo rap inciso da bianchi su major, ritratto lucido e al tempo ironico della quotidianità lavorativa di milioni di persone ispirato al curiosissimo Mick Jones dall’ascolto dei padrini del rap Grandmaster Flash and The Furious Five e basato su un giro di Norman Roy-Watts, bassista dei Blockheads di Ian Dury. E l’interesse per il funky-rap prosegue in Lightning Strikes! (e, senza rap, nel circo caotico della Ivan meets G.I.Joe di Headon), con un passaggio da Kingston a New York analogo al percorso di ricerca di Serge Gainsbourg. Si prosegue poi esplorando ulteriormente il dub nella asciutta e suadente The Crooked Beat (ancora Simonon), nella simile The Equaliser, nei vari remix del terzo vinile o in One More Time (che il dub mix ce l’ha subito dopo), mescolandolo al funk nello strano singolo The Call Up o arrangiando il meta-canto di rivolta in 3 / 4 con bella melodia di Rebel Waltz. Né mancano il calypso-funk in Let’s Go Crazy - altro centroamerica nella Washington Bullets che snocciola accuse planetarie tra cantabilità leggera e apparente distacco -, reggae melodici dalla bella scrittura come Corner Soul o dalla vena sperimentale come If 105
The Music Could Talk, a fianco di classici come la cover di Junco Partner. Poi lo spiritual ateo di The Sound Of Sinners e lo stranissimo folk rock di Lose This Skin (scritta e cantata dall’amico busker Tymon Dogg). C’è perfino il rock, anche se non sembra: arioso in Somebody Got Murdered, accorato nel ritratto di decadenza con arrangiamento da musical americano in Something About England, frenetico nella satira anti-tabloid di The Leader, notturno appunto in The Midnight Log. Per il fragore innodico dei vecchi tempi, invece, ci vuole una cover a metà scaletta, Police On My Back degli Equals di Eddy Grant (lo stesso che negli anni ‘80 nasconderà un appello anti-apartheid dietro l’hit scioccherella di Gimme Hope Jo’anna), affine per stile e tematiche al punto da sembrare autografa anch’essa; o tutt’al più Up In Heaven. C’è spazio pure per un frammento di The Guns Of Brixton per piano e bimba di cinque anni, per una cover di Career Opportunities anche questa cantata da bambini (con ulteriore amara ironia), per un altro sguardo agli USA con il fumo e il whisky di Broadway e per una Charlie Don’t Surf che si pone al crocevia tra Apocalypse Now! da cui prende il titolo, Charlie fa surf dei Baustelle che
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fa lo stesso e la Everybody Wants To Rule The World che prende il titolo proprio dai Clash (Strummer racconta di essersi fatto dare sempre più, in termini di ciò che poteva ottenere e cinque sterline da Roland Orzabal per il “furto” quando l’ha incontrato in un ristorante..). Con ulteriore trasformazione (e gioco di parole) in Everybody Wants To Run The World per l’iniziativa di beneficenza Sport Aid nel 1986 (c’è anche il tempo per una nuova disavventura giamaicana, con i Clash a Kingston a registrare Kingston Advice che si ritrovano a scappare tra le pistolettate perché, contrariamente agli Stones che erano venuti a registrare poco prima, non avevano distribuito denaro in giro per calmare le acque..). Nell’anno in cui Remain In Light apre una porta definitiva ed eccelsa all’Africa, i Clash aprono a tutto, benché, come accennato, senza che ne risulti una nuova sintesi sonora. Altri infatti mescoleranno tutto ciò che i quattro introducono nel rock bianco (non necessariamente per primi assoluti), traendone un nuovo suono (vedi i Mano Negra): i nostri si “accontentano” di indicare la via di un eclettismo terzomondista che, pur nella prevalenza del reggae o del dub, raccoglie mille spunti dal mondo, uno alla
volta. Per definire un disco del genere si ricorre spesso ad aggettivi come ipertrofico, eccessivo, caleidoscopico, sovrabbondante, abusati come il commento che questo disco sarebbe stato meglio come doppio o addirittura singolo (ma sull’eventuale scelta probabilmente non ci sono due ascoltatori concordi). Benché non tutto sia a fuoco o imperdibile (all’altezza del terzo vinile affiora la fatica), il bello è proprio nel suo caos senza freni, nel viaggio tra mille luoghi e umori. Una sfacciata affermazione di salute creativa con pochi eguali.
V: No future i s wr i tt en Penso che avremmo dovuto prenderci un anno di pausa, ma allora non ragionavamo in questi termini. Se avessimo ricaricato le pile, il gruppo forse esisterebbe ancora oggi. Joe Strummer Salire praticamente subito dagli squat allo stardom (alternativo, ma pur sempre stardom) e poi passare cinque anni tra tournée lunghissime, droga, occasionale carcere, polemiche, creatività sfrenata, conflitti con pubblico e manager, revisioni anche dure dei propri valori e della propria poetica, a un certo punto chiede il conto, anche a dei poco più che ventenni. Così l’81 passa con la pubblicazione di un solo singolo (quattro versioni di This Is Radio Clash, altro inno con aggressività punk e stile dub-funk in piena linea col disco dell’anno prima), i soliti tour infiniti e il lavoro sul nuovo album. La tensione nel gruppo è inversamente proporzionale al livello di dialogo: Jones è intrattabile e cerca di spingere ancora di più la direzione black del triplo, gli altri sono d’accordo solo relativamente, Headon ha problemi d’eroina e, non ultimo, Rhodes è di nuovo il manager. Quello che però i Clash non hanno sono problemi di creatività: si rischia infatti un altro doppio che dovrebbe chiamarsi Rat Patrol From The Fort Bragg e che dovrebbe produrre Jones. Gli altri però non apprezzano, lui stesso viene a capo di poco e così le mani di un altro Jones, l’esperto Glyn (già con Who e Stones nei ‘60) riducono il tutto ai dodici brani di un album singolo. Se in Sandinista! sembrava mancare il rock, overpowered by funk reggae e tutto il resto, qui si provvede subito già dal titolo (così efficace da dare il nome a un genere, benché sintetizzi più il discorso generale della band che non un album variegato come questo) e dalla traccia d’apertura, nonché primo singolo: Know Your Rights, riesce ad essere insieme scarna e devastante, drammatica e ironica, nell’elencare i diritti mancati delle vittime del potere e dello sfruttamento, con tanto di altro slogan efficace scritto sulla copertina del 45 (The future is unwritten). E
non è finita: riff killer stile Stones, alto volume di fuoco, testo una volta tanto non ideologico, Jones alla voce guida, spensieratezza r’n’r ed ecco Should I Stay Or Should I Go, sul podio delle due-tre canzoni più famose del gruppo. Classico negli anni e singolo bomba che all’inizio era sul lato B di Straight To Hell e che, per nemesi, arriverà al n. 1 circa otto anni dopo perché usato per uno spot. Il disco non è un ritorno alle origini, piuttosto una sintesi del precedente: sia nella conclusiva Death Is A Star, elegante e notturno saluto sulla scia di Broadway, sia nelle ormai collaudate escursioni funk (l’efficace Overpowered By Funk, appunto) o reggae e dub: la trattenuta e beffarda Atom Tan, una sospesa e malinconica Ghetto Defendant con partecipazione di Allen Ginsberg a recitare versi, e il gioiello Straight To Hell, reggae sommesso e minimalista con un bel lavoro alle percussioni di Headon e un riff di chitarra sul quale M.I.A. costruirà Paper Planes (e quindi parte importante delle sue fortune). E se quest’ultima come singolo non funziona tanto, lo fa invece Rock The Casbah: buttata giù una sera in studio da Headon solo, che registra batteria basso e riff di piano, viene pubblicata con la sola aggiunta di chitarre, voci e qualche effetto: funk rock rabbioso ed efficace, centra ancora una volta il bersaglio, ovvero mandare in classifica l’incazzatura e il racconto dei soprusi, nella fattispecie quelli della censura (anche se nel ‘91 le toccherà l’ingrato destino di essere adottata come slogan dai marines nel Golfo). L’ennesimo centro, però, è anche l’inizio della fine: Headon viene estromesso dal gruppo a causa della sua tossicodipendenza e l’unità dei quattro, già messa a dura prova dai dissapori interni nonché dalla scossa di un singolo in Top 5, subisce il colpo che avvia il processo di dissoluzione.
VI: Cut the C l ash Quando Topper fu licenziato fu la fine, non è più andata bene dopo quel momento. Avevamo scombinato il quartetto originale. Dal momento in cui Topper fu licenziato, il quartetto ha zoppicato fino alla morte. Senza speranza. [..] Se scombini il gruppo, non funziona più. Joe Strummer L’ultima parte della storia vede svolgersi tra l’83 e l’85 le tappe che portano all’epilogo. Richiamato Terry Chimes, seguono altri tour sfiancanti, altri dissapori, finché Rhodes non coglie l’occasione di una bega contrattuale per mettere definitivamente Strummer e Simonon contro Jones, che viene infatti estromesso dal gruppo. Nel frattempo, nemmeno Chimes reggeva più le tensioni e se n’era andato anche lui. Falliti i tentativi di richiama107
re Jones, il quale nel frattempo ha fondato i Big Audio Dynamite (coi quali svilupperà la sua idea di rock contaminato, tra alti e e bassi ma anche parecchie buone intuizioni), Strummer e Simonon rispondono rilanciando: il gruppo ora è a cinque (sono stati reclutati due chitarristi nuovi, Nick Sheppard e Vince White), ma senza più la tetragona intesa dei quattro originari a contrastarlo, il manager ha via libera nel suo disegno di riportare il gruppo alla natura punk semplice e stradaiola delle origini. Idea balzana e fuori tempo massimo, per il contesto ormai mutato anche grazie agli stessi Clash, e che spreca il fondamentale impulso innovativo del gruppo. I nostri comunque ripartono in tour, provano brani nuovi e alla fine dell’84 annunciano un disco che esce l’anno dopo. Le premesse di un fallimento c’erano tutte e Cut the Crap le rispetta in pieno: registrato a Monaco praticamente dal solo Strummer (che Rhodes ha isolato dagli altri per manipolarlo meglio e prendere il complete control dell’album), il disco raccoglie registrazioni del cantante “prodotte” dal manager a suon di batterie elettroniche e tastieracce 80s fuori luogo (per tacere dei fiati di Movers And Shakers..). Il problema non è che su tre parole del titolo ce ne sono “due di troppo” (Il Mucchio Extra, 100 dischi da evitare), ma il fatto che di tagli ne sono stati fatti parecchi: un compositore e arrangiatore come Jones, la maggior parte delle canzoni che il gruppo aveva approntato e anche suonato live, un produttore degno di tal nome, perfino il resto del gruppo stesso (chiamato solo alla fine e soltanto per registrare qualche chitarra e cantare i ritornelli in stile curva da stadio) e di conseguenza anche la possibilità per la nuova formazione di sbagliare e dimostrarsi inferiore all’altra, ma almeno giocandosela. Le composizioni di Strummer, che già accusavano la mancanza del vecchio partner di penna, crollano così sotto una produzione che non ha un decimo del senso (inteso sia come significato che come direzione) che sapevano e sapranno dare a elementi anche simili i B.A.D. di Jones: la drum machine può folleggiare simpaticamente nell’iniziale Dictator, le composizioni qua e là non mancano di vitalità ed energia - Cool Under Heat e altre potevano anche funzionare - ma l’autoproclama di We Are The Clash è decisamente fuori luogo (peggio come testo che come musica) e il disco sembra il risultato del lavoro di un gruppo di emuli bravini ammazzato da un produttore delinquente (e in questo senso perde di parecchio il confronto, non solo col gruppo dell’examico, ma pure con la prima fase dei nostri The Gang, ancora debitrice verso i nostri ma animata da ben altra ispirazione: qualsiasi fan dei Clash scambierebbe senza esitazione questo disco con Barricada Rumble Beat o perfino col mini d’esordio Tribe’s Union, e a ragione). 108
C’è solo un momento in cui scocca davvero la scintilla: This Is England, non a caso il singolo, dove i difetti rimangono ma vanno a costituire lo sfondo dell’ultima accusa di Strummer, incedere amaro e beffardo che trova nella stanchezza e nella rassegnazione la forza per un ulteriore strale foraggiato dal malanimo sia personale che politico risultato dell’era Tatcher. “This is England, this knife of Sheffield steel, this is England, this is how we feel”. Finisce così, male ma con un ultimo lampo, una storia nobile durata otto anni a tavoletta. Segue qualche altro concerto e un disconoscimento dell’ultimo disco che chiude ufficialmente la parabola.
VII : Epiloghi. Quando suonavamo, non usavamo basi su nastro, quindi potevamo fermarci, e sembrerà una piccola cosa, ma quando vedi qualcuno che viene preso a calci da altri trenta bulli, devi fermarti e farli smettere. Joe Strummer Mi sono sentito male per essere sopravvissuto a Joe Strummer. Pete Townshend. Così come vari erano stati gli inizi, vari sono stati i seguiti e vari gli epiloghi possibili. La storia infatti è andata avanti tra antologie e documentari, Strummer che produce il secondo dei B.A.D. scrivendone anche qualche pezzo con Jones, gli Havana 3am di Simonon, il disco solista di Headon, Strummer attore e compositore di colonne sonore nonché voce per un paio di tour dei Pogues, i suoi non imprescindibili Mescaleros (come pure il suo disco solista Earthquake Weather), Simonon coinvolto da Damon Albarn nei The Good The Bad and the Queen e poi insieme a Jones nel terzo dei Gorillaz, i due live tra cui quello allo Shea Stadium la sera in cui dividevano il palco con gli Who, i progetti ambientalisti di Strummer, i Carbon/Silicon, le offerte danarose e sempre rifiutate per una reunion, l’introduzione nella R’n’R Hall of Fame e infine la morte di Strummer che chiude il discorso il 22 dicembre 2002. O forse no, come dimostra l’eredità di chi ha fissato alcuni fondamenti di un genere capace di un proselitismo diffuso (nello stile o nell’attitudine, vedi alla voce Rage Against The Machine). Mai un revival specifico, però, di cui appunto non c’era bisogno (perché non sono mai stati dimenticati) e che difficilmente poteva esserci nei post-ideologici anni zero, decennio che guardava anche troppo al post-’77 ma dove l’indie si comportava da major e l’idea di un gruppo major che mantiene un’etica indie era piuttosto lontana.
Per chiudere la storia, tuttavia, gli epiloghi migliori forse sono altri. Ad esempio l’omaggio dell’americanissimo Springsteen che pubblica un video live registrato a Londra e intitolato London Calling che si apre con una versione furiosa e imprecisa d’entusiasmo della storica canzone. Oppure l’episodio riportato da Frazzi in I Wanna Riot, ovvero la scelta geniale del dj Gionni Paludi di suonare alla prima serata fatta dopo la morte di Joe la versione strumentale di The Magnificent Seven, come a dire a un pubblico che aspettava l’inizio del cantato che quella voce se n’era andata definitivamente. O magari la statua eretta a Strummer quest’anno nella Grenada nominata in Spanish Bombs.
Anche se quello che dà il senso a tutto è forse altro. Nello specifico, il concerto dei Mescaleros in sostegno a uno sciopero dei pompieri tenutosi due settimane prima della morte di Strummer e durante il quale Jones sale sul palco per suonare tre canzoni con l’amico (per la prima volta dal 1983). Niente reunion-evento, quindi, niente tour retromaniaco-miliardario, niente celebrazione ingessata a beneficio dei media con riduzione dell’impegno a cartolina innocua: i Clash, se si riuniscono, lo fanno così, estemporaneamente, sullo stesso fronte di sempre e regalando l’evento a quelli che hanno sempre difeso. D’altronde l’avevano detto subito chiaro: We’re a garage band...
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classic album
Rage Against the Machine Rage Against The Machine (Sony, Novembre 2012)
«Sì, conosco i miei nemici, sono i maestri che mi hanno insegnato a combattere contro me stesso, il compromesso, il conformismo, l’omologazione, la sottomissione, l’ignoranza, l’ipocrisia, la brutalità, l’élite dominante. Tutti questi sono sogni americani, tutto questo è il sogno americano». Il 1992, un po’ (in piccola parte) come il 1977, è stato uno dei pochi anni in cui un disco con questi contenuti poteva uscire per una multinazionale e vendere milioni di copie. Potenza del post-Nevermind. Bisogna risalire più o meno ai tempi dei Clash per trovare un adeguato termine di paragone, un’altra band così radicale che esordisce direttamente per una major. Se i Clash hanno comunque un’evoluzione estetica che da White Riot li porta a London Calling e a Sandinista, i Rage Against The Machine debuttano con un suono talmente definit(iv) o da essere già in qualche modo cristallizzato. In Evil Empire e The Battle Of Los Angeles avrebbero girato intorno agli schemi - geniali - di questo esordio, ma non li avrebbero mai veramente superati. Un suono già formato che le prove di Zack De La Rocha come cantante degli Inside Out o di Tom Morello nei Lock Up difficilmente avrebbero fatto intuire. Zack De La Rocha, Tom Morello, Tim Commerford e Brad Wilk non sono i primi a combinare il rock con l’hip-hop. Esempi in precedenza sono già arrivati da entrambe le parti: da un lato i Run DMC o i Beastie Boys, dall’altro i Faith No More e i Red Hot Chili Peppers, o prima ancora i Suicidal Tendencies di Institutionalized (per la cronaca, citiamo anche i duetti tra gli stessi Run DMC e gli Aerosmith o tra gli Anthrax e i Public Enemy). Non una novità assoluta, quindi. Ma i Rage sono in compenso i più efficaci, grazie a un suono più squadrato se in confronto, per esempio, agli edonisti Red Hot o ai progressivi Faith No More. Rispetto ad altre band hanno un messaggio che colpisce e un suono che, anche se in maniera paradossale, rimane dentro gli schemi del rock, guadagnandosi quindi una più ampia fetta di pubblico potenziale. 110
Dove gli altri si divertono, i Rage “spaccano” per usare un tipico, esecrabile neologismo anni ‘90. Hanno capito che per dare voce agli indignados dell’epoca e colpire le masse bastano una chitarra, un basso e una batteria. Niente altro. Una vera e propria politica degli strumenti, di cui i nostri andavano tanto fieri da sbandierarlo nelle note di copertina: «in questo disco non abbiamo usato nessun sample, nessun sintetizzatore e nessuna tastiera elettronica», come se l’elettronica fosse una sorta di peccato originale neocapitalista. Per l’accoppiata tra medium e messaggio, ergo tra contenuto e forma, vengono in mente i Gang Of Four, che con i RATM hanno almeno tre elementi in comune; ovvero il marxismo, il contratto con una multinazionale e un esordio a 33 giri che ha creato un suono diventato immediatamente la quintessenza di un intero genere: il disco funk-punk per eccellenza contro il monolito rap-metal. In tema di crossover, proprio l’approccio del quartetto di Los Angeles era, coincidenza singolare, molto più rigido di altri gruppi coevi: niente dj come gli Urban Dance Squad, niente elettronica, niente fiati come i Fishbone. Solo un inossidabile trio strumentale a fare da base per il rap militante di Zack De La Rocha. In realtà non serve un dj per i RATM, perché Tom Morello si comporta già da campionatore umano. Per scratchare friziona con una mano le corde all’altezza dei pick-up e con l’altro muove su e giù lo switch, mentre la leva del tremolo è il braccio del suo giradischi a sei corde, con cui, per il resto, spara fuori dalle casse citazioni che sanno di sample suonati (ditemi voi se il riff iniziale di Wake Up non ricorda Kashmir) e crea cadenze sincopate con il muting che ricordano l’andamento delle basi di un combo di rap (Know Your Enemy). Tutto replicabile dal vivo, e tutto, o quasi, in analogico. La chitarra elettrica diventa una biblioteca audio da cui tirare fuori l’impossibile: la sirena della polizia (Fistful of Steel), il congegno elettronico o il puro rumore modulato. Ma sempre di una chi-
tarra si tratta. Il sound è molto più spartano di quanto si possa immaginare. Il vocabolario di base parte da una grammatica hard blues mandata a memoria e stilizzata, con il vecchio call and response tra voce e chitarra che diventa il confronto tra il rapper e il chitarrista-dj: Killing In The Name è un’escalation di questo serrato botta e risposta, e anche per questo uno dei brani più efficaci dell’album. Con una manciata di effetti usati in maniera espressiva - di preferenza wah wah, whammy, delay, tremolo/vibrato - e frasi secche e percussive, Morello fa quello che vuole, concentra i riff bassi di Tony Iommi, il fraseggio di Jimmy Page, le escursioni soniche di Hendrix e il tapping di un Van Halen cresciuto alla Def Jam in un unico stile. Basta per fare di lui il chitarrista alt rock più originale dei primi anni ‘90. Poi c’è la sezione ritmica, muscolosa e nervosa ma sempre piuttosto dosata, più simile al duo Eric Avery/Stephen Perkins dei Jane’s Addiction (Settle For Nothing) che agli istrionici Flea e Chad Smith (proprio Perkins è l’unico ospite del disco, insieme a Maynard James Keenan dei Tool). Wilk e Commerford forniscono le sincopi hip hop (Bullet In The Head) e il robusto funk (Take The Power Back) su cui si appoggiano le invenzioni della chitarra e la voce. Tutto infatti ruota intorno ai testi di Zack De La Rocha, alla sua esuberanza lirica e alla potenza delle sue frasi. La musica è la molla per quei proclami di rivolta. “Anger is a gift”, da Freedom, sembra aggiornare proprio un vecchio adagio dei Clash. Del resto, negli anni ‘90 non ci sono più Beatles né Stones, gli del rock se ne sono andati da un pezzo ma, se non altro, restano gli arrabbiati. Bombtrack, Killing In The Name, Know Your Enemy e Freedom sono anthem fatti per esplodere, dovunque vengano suonati, dal centro sociale allo stadio; non hanno frasi veramente cantabili, sono pura materia incendiaria rock. Come è quadrato dal punto di vista sonoro, il senza titolo dei Rage Against The Machine non ha pezzi superflui. Quasi tutti i brani sono potenziali singoli. A pensarci bene, ho conosciuto questo disco prima ancora di aver-
ne una copia fisica, proprio grazie al suo potenziale radiofonico: avevo già mandato due o tre pezzi a memoria dalla radio. Poi, l’esibizione al Sonoria del 1996 è rimasta uno dei concerti che più ricorderò dell’adolescenza. Mi permetto di mischiare ricordi personali alle considerazioni storiche per quello che è un anniversario con tutti i crismi. Il primo album del gruppo rock più politicizzato della sua epoca (anche se continuo a considerare i Fugazi la band più politica), con il bonzo che bruciava in copertina, ritorna in edizione rimasterizzata e allargata in occasione dei vent’anni dall’uscita. Anche gli zapatisti, quindi, vogliono le loro strenne natalizie. Il box esce in diverse versioni, dal semplice disco con bonus, al doppio CD con DVD, fino al supercofanetto con due CD, due DVD e il vinile. I dischi ospitano versioni live e demo, alcuni dei quali sono di brani rimasti sostanzialmente inediti (Auto Logic, Mindset’s A Threat, Clear The Lane, Darkness Of Greed, The Narrows). I demo dimostrano che le novità dei Rage Against Machine c’erano già tutte in fase di composizione e che solo il necessario è stato aggiunto in produzione. Freedom per esempio ha un testo diverso (provvisorio) ma i riff sono identici, Bombtrack è quasi quella definitiva e Killing In The Name sembra addirittura più “asciugata” e spigolosa nella versione finale di studio rispetto al provino. Delle rarità, la più curiosa è Mindset’s A Threat, se non altro perché si sente un’influenza ragamuffin che non ha riscontri in altri pezzi, o meglio un’influenza dei Bad Brains, i padri di tanto rock meticcio. I DVD contengono un intero concerto del 2010 e una miscelllanea di videoclip, filmati e altri spezzoni di concerto. Per i completisti c’è di che godere, il voto è strettamente per l’album. Tommaso Iannini
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