Sa 114 aprile

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digital magazine | aprile 2014 | n. 114

nada Piccolo spazio umano


sommario tune in – p. 4   Gang of Ducks   Kevin Drew   Le belle bandierine  Lucy  Liars  Motorpsycho   Kurt Vile

drop out – p. 28  Afterhours  Nada

recensioni – p. 48 rubriche – p. 116


#114 aprile Direttore Edoardo Bridda Ufficio Stampa Alberto Lepri Coordinamento promo Gaspare Caliri, Stefano Pifferi Art director Nicolas Campagnari A questo numero di Sentireascoltare hanno contribuito: Tommaso Iannini, Andrea Napoli, Stefano Pifferi, Marco Boscolo, Enrica Selvini, Stefano Solventi, Sarah Venturini, Fabrizio Zampighi, Edoardo Bridda, Teresa Greco, Massimo Rancati, Alessia Zinnari, Nino Ciglio, Giulia Antelli, Andrea Murgia, Stefano Gaz, Alessandro Liccardo, Marco Braggion, Alessandro Pogliani, Giulia Cavaliere, Riccardo Zagaglia, Luca Falzetti, Marco Masoli, Gaspare Caliri, Giulio Pasquali, Daniele Rigoli, Valentina Ziliani, Ilario Galati, Andrea Forti, Matteo Trevisan Copertina Nada (foto Silva Rotelli) Guida spirituale Adriano Trauber (1966-2004)

SentireAscoltare // online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Copyright © 2014 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare.


Una delle label piÚ interessanti per la musica elettronica underground è la milanese Gang Of Ducks. Abbiamo parlato con un misterioso portavoce in seguito al nuovo Notch EP del loro pupillo Haf Haf. Testo di Marco Braggion

Gang of Ducks Vaghe Stelle

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Strano a dirsi, ma una delle label più innovative degli ultimi tempi in ambito elettronico la troviamo da noi, proprio in Italia. Stiamo parlando del gruppo di artisti che sta sotto l’ombrello Gang of Ducks. Il genere professato dallo stormo è quello dell’elettronica misto industriale che viene a patti con anni di culti witch e che si mantiene nell’anonimato più oscuro e impenetrabile. Dopo che la loro nuova uscita Notch EP di Haf Haf ha scaldato i cuori di centinaia di fan di simbologie arcane, suoni sporchi e pestati, diavolerie numerologiche in bassa fedeltà, affini sia alla techno ipercinetica che all’ambient anni ’90, ci siamo incuriositi e li abbiamo contattati per un’intervista via mail. Il loro nome – ci dicono – deriva dal fatto che il gruppo è “in continua migrazione e in giro starnazziamo come pochi, come delle papere“. Ma guardacaso, se volessimo declinarlo solo con l’accezione giocosa, non coglieremmo l’acronimo usato nei numerosi mixtape e file in free listening sulla rete. Il più delle volte si firmano infatti un po’ provocatoriamente come G.o.D. Divinità di che culto? “Siamo legati al mondo primitivo-esoterico e abbiamo deciso di prendere spunto da religioni pagane per creare un nostro alfabeto di segni e simboli da usare sulle nostre cover. Ogni cover ha un suo significato e se le analizzi vedrai che molti elementi si ripetono con una loro logica, di release in release“. L’avventura sulla label è iniziata nel 2013 e in così poco tempo lo stormo aumenta di giorno in giorno. Di G.o.D. ad oggi fanno parte i già citati Haf Haf (“artista al debutto assoluto su cui abbiamo voluto scommettere e a cui abbiamo già prenotato il secondo disco“), Traag, Shape Worship, My Panda Shall Fly, Sudden Infant e Vaghe Stelle (al secolo Daniele Mana, torinese già nei Nice Guys con Cristiano Toffei, ex Red Bull Music Academy e già visto al Club To Club). Il mondo sonoro spazia dall’ambient cupa alla techno, dal cut up all’industrial, dall’hip-hop

spastico alla trance. Insomma, tutto quello che avreste potuto chiedere all’elettronica del nuovo millennio e che avevate già sentito in Demdike Stare, in molte cose della techno di nuovo conio di questi ultimi tempi, sempre più vicina all’ambient, e di qualche influenza witch. La politica di uscita dei formati è perseguita al 100% sull’analogico. I ragazzi si sentono dei veri e propri artigiani: “Ci sentiamo assolutamente makers. Vogliamo che chi acquista il nostro prodotto possa averne uno unico e irripetibile, per questo fino a oggi abbiamo stampato a mano in xilografia le copertine dei nostri vinili. Per la release di Haf Haf abbiamo preso tutte le cover di cassette con il peggio della musica italiana e le abbiamo riciclate mettendoci dentro la nostra cassetta e timbrandole a mano con la nostra grafica“. Della ragione per cui si nascondono (tattica usata da moltissimi) ci dicono: “noi lo facciamo perché non esponendoci in prima persona ci sentiamo più liberi a livello creativo e di poter osare di più“. Finché son così poche le uscite, prendetevi un pomeriggio per ascoltare la discografia completa di questi brutti anatroccoli. Ne vale la pena. Per il futuro i Nostri prevedono una nuova uscita del progetto One Circle (Vaghe Stelle, Lorenzo Senni e A:RA). Se siete amanti del suono Demdike Stare e ogni tanto riascoltate qualche disco dei This Heat, dei Suicide o dei Coil, allora fateci un pensierino.

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Abbiamo raggiunto Kevin Drew dei Broken Social Scene al telefono, per un'intervista in esclusiva per il web. Il risultato è una chiacchierata densa e confidenziale, dove il musicista canadese si racconta senza filtri. Testo di Giulia Antelli

Kevin Drew Intervista esclusiva

Kevin Drew dei Broken Social Scene è un personaggio molto interessante. Prima di concederci quest’intervista, ha rimandato due volte, senza dare alcuna spiegazione o garanzia che l’intervista poi ci sarebbe effettivamente stata. Finalmente, dopo vari ripensamenti, lo abbiamo raggiunto al telefono: Drew si trovava a Berlino, nella sede della Arts and Craft, l’etichetta attraverso cui lo scorso 18 marzo ha pubblicato Darlings, il suo primo disco solista dopo l’esperimento corale Broken Social Scene Presents: Spirit If… del 2007, uscito ancora sotto l’ala del

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gruppo di provenienza. Esperimento perché, come ci confermerà lui stesso nel corso della nostra chiacchierata, Darlings è il vero esordio solista di Drew, un album “che mi rappresenta moltissimo, totalmente onesto. Lo aspettavo da anni”. Quello che non ci aspettavamo, dunque, è l’estrema disponibilità del musicista canadese: ci troviamo davanti a un uomo pronto a raccontarsi in maniera totalmente sincera e a tratti torrenziale, e il risultato è un resoconto indispensabile per capire il percorso futuro dell’altra metà di


una delle band più influenti degli ultimi dieci anni. Oltre al disco, infatti, Drew ci ha raccontato molto di sé, della sua vita come uomo e come artista, ma anche dei temi che gli stanno più a cuore, ovvero l’amore, il sesso, la vita e le dinamiche che muovono la società contemporanea. Una riflessione densa e spontanea che fotografa l’artista a 360 gradi, e che il Nostro ha concesso a Sentireascoltare in esclusiva per il web italiano. Hai dichiarato che Darlings è un album incentrato sulla celebrazione dei ricordi, sull’ascesa e caduta dell’amore e del sesso nella tua vita e nella società. Potresti dirci qualcosa di più a riguardo? Con Darlings ho cercato di indagare i vari aspetti che concernono l’amore e il sesso nella società e nelle relazioni di oggi. Abbiamo un’intera industria che gira attorno a queste due cose, ed in più un accesso illimitato al mondo del porno. Il porno ha cambiato l’idea dell’amore, ed è un meccanismo che coinvolge sia le generazioni più vecchie che quelle di adesso: penso che i ragazzini, oggigiorno, possano sapere in ogni momento cos’è il sesso e da dove derivi, in una maniera che a livello storico non ha precedenti. La ragione che mi ha spinto a registrare Darlings, dunque, è che volevo che fare il punto su queste mie idee, per arrivare ad una riflessione più ampia: ho avuto questi pensieri in testa per molto tempo, e/ a un certo punto ho sentito l’esigenza di concretizzarli, in qualche modo. È così che sono nate le canzoni del disco. Riguardo ai temi, penso che questi siano tempi in cui le informazioni girano molto velocemente, e spesso ne siamo talmente sovraccaricati da non riuscire più a distinguerle. Quando ero ragazzino io, se volevi procurarti un video porno dovevi andare a prenderlo in negozio, con tutta l’attesa e l’imbarazzo che questo comportava; adesso, grazie ad internet, non esistono più barriere, e anche se per molti versi è un bene, credo che si

sia persa molta della spontaneità che c’era prima. In generale, sono preoccupato che i giovani non conoscano né loro stessi né l’amore. In questo senso, infatti, credo che Good Sex sia uno dei brani più importanti… perché hai scelto di pubblicarlo come primo singolo? Beh, Good Sex rappresenta il punto di partenza, è il nucleo attorno a cui gira tutto il disco. Anche durante il mio percorso con i Broken Social Scene ho sempre cercato di indagare sulle dinamiche dell’amore e del sesso, e Good Sex rappresenta l’arrivo di questa specie di ricerca. Volevo scrivere qualcosa che parlasse della pressione che c’è attualmente nel sesso, e allo stesso tempo esprimerne anche tutte le ansie e i meccanismi emotivi. Credo che siano le ragioni per cui poi i rapporti non riescono a durare nel tempo: ho avuto diverse relazioni nel corso della mia vita, e sono stato fortunato, perché ho incontrato per lo più persone splendide, che in qualche modo hanno contribuito a farmi diventare l’uomo che sono oggi. Sai, c’è anche un po’ di tristezza in tutto questo: ho 37 anni, e sto ancora cercando una storia che funzioni. Il motivo per cui ho voluto pubblicarlo come primo singolo, comunque, è che volevo far uscire qualcosa che ribaltasse gli aspetti negativi del sesso di cui ti parlavo prima, senza le ansie, le pressioni e gli imbarazzi che ci sono di solito. Nella nota stampa c’è scritto che Darlings è il tuo vero primo disco solista mentre Spirit If…, invece, era ancora presentato dal gruppo. Come spieghi questo cambiamento? Sette anni sono un periodo di tempo abbastanza lungo, e suppongo che siano successe diverse cose da allora… Adesso sono più concentrato sulle canzoni, ed in più ho lavorato con due grandi produttori come Dave Hamelin e Graham Lessard. Avere loro alla produzione del disco mi ha dato quella spinta e quella curiosità di cui il disco aveva bisogno, anche se l’energia è la stessa che ave-

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vo con i Broken Social Scene. Anche se la vera differenza è che sono invecchiato. Invecchiando, impari a conoscere meglio te stesso, e se sei fortunato sai anche esattamente chi sei: con il passare degli anni, ho capito che tipo di persona voglio essere, e quali modi ho per farlo. Essendo un artista, ho sempre pensato che i miei pensieri, le mie sensazioni e le mie emozioni rischiassero di diventare soltanto un business da condividere con qualcun altro. Per quanto mi riguarda, con i Broken Social Scene ho raggiunto molti obiettivi e risultati, ma c’è sempre il rischio che una volta arrivati in cima la discesa poi possa essere troppo ripida, perciò ho sempre cercato di tenermi con i piedi per terra. Essere un artista ti dà tantissimo sotto tutti i punti di vista, ma ti dà anche molte responsabilità: a volte capita di scrivere canzoni di cui non hai la minima idea di cosa parlino, e il rischio è che diventino il simbolo di qualcosa di sbagliato. Io so chi sono: sto ancora imparando, sto invecchiando, ho ancora tante cose da fare, da completare, anche da migliorare, e in questo senso Darlings mi rappresenta moltissimo, sono io al cento per cento. Era il disco che aspettavo, e credo che sia totalmente onesto. Non sto dicendo che è un disco perfetto, ma l’ho fatto con grande passione, e ho impiegato anni prima di arrivare al risultato che volevo. Ecco, a questo proposito c’è un’altra frase che mi ha colpito: “spero che il mio disco vi piaccia, e se non sarà così datelo a qualcuno a cui piacerà”. Credo che l’obiettivo di Darlings sia proprio quello di esprimere completamente te stesso, e questa affermazione mi conferma che l’intenzione era proprio di registrare un album onesto e viscerale. È così? Sì, assolutamente. Non ho niente da dimostrare, né da perdere, e capisco che le persone possono odiare o amare qualcosa. Ovviamente mi auguro che il mio disco piaccia alla gente, perché Dar-

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lings è davvero la cosa più onesta che potessi fare, e come ho detto, se non piacerà a qualcuno spero che piaccia a qualcun altro (ride, NdSA). Ma è semplicemente la nostra natura, una cosa la si odia o la si ama. Cambiando argomento, il testo di Good Sex mi ha fatto pensare ad un’idea differente di libertà: tutti ne abbiamo bisogno, ma spesso ci sentiamo a disagio con essa, in particolare nei versi “Good sex never makes you feel hollow/ good sex never makes you feel clean” (il buon sesso non ti fa mai sentire depresso/ il buon sesso non ti fa mai sentire pulito). Nel ritornello, però, canti “But I’m still breathin’ with you, baby” (sto ancora respirando insieme a te, bambina), e penso che questa frase dia un effetto liberatorio a tutto il brano, e che si ritrova ad esempio anche in Body Butter o Mexican Aftershow Party… Quei versi sono un simbolo, rappresentano l’idea di disagio e sporcizia con cui alcuni concepiscono il sesso, mentre “I’m still breathin’ with you, baby” è l’opposto, è l’invito a godersi il momento, e non soltanto l’atto. Tutta la canzone si basa sulla connessione tra esseri umani, in tempi in cui il nostro istinto animale è stato assolutamente represso. Ci hanno abituato che ogni pulsione del nostro corpo è qualcosa di cui vergognarsi, qualcosa di pornografico, mentre ci dimentichiamo che il sesso nasce dal fatto che ci piace una persona. Vogliamo guardarla negli occhi, sentire il suo respiro nelle orecchie: il sesso è questo, anche se vogliono farci credere che sia qualcosa di sbagliato. Anche Body Butter e Mexican Aftershow Party parlano della stessa cosa, del fatto che il sesso è una cosa intensissima, un momento in cui cerchi di dimenticare te stesso e in cui ti lasci andare completamente. È un momento di pace, e quindi sì, anche di libertà. Infatti mi sembra che tutti brani abbiano una nota di speranza, anche se parlano di argomenti molto profondi ed universali..


Beh, diciamo che credo che sia importante parlare delle cose, e soprattutto che sia importante parlare delle nostre sensazioni e delle nostre emozioni. Tutto quello che scrivo è personale, ma allo stesso tempo parlo di aspetti che riguardano la vita di tutti, come appunto il sesso e l’amore. Credo che le persone tendano a chiudersi in se stesse per non essere ferite, ma anche per non essere oggetto della compassione degli altri, direi. Cerchiamo in ogni modo di non mostrare le nostre debolezze, e molte mie canzoni parlano di questo, di come non vogliamo sembrare vulnerabili nonostante tutti gli uomini lo siano, in un modo o nell’altro. Per quanto mi riguarda, tutti gli errori che ho fatto e tutte le esperienze che ho vissuto mi hanno aiutato ad essere più forte. Ti faccio un esempio: quando una storia va male, tendiamo a cancellare tutti i ricordi, a voler eliminare in ogni modo la persona che ci ha feriti, convincendoci che facendoci del male quella persona non deve più far parte della nostra vita. Ovviamente è una reazione normale, ma ora che sono più vecchio ho capito che tenersi stretti i propri ricordi è l’unico modo che abbiamo per capire che anche se ci ha fatto del male, abbiamo comunque amato quella persona.

Alla fine questo è ciò che conta, è così che si va avanti ed è per questo che sono convinto che sia importante parlare delle cose. Tutto sparisce troppo velocemente, siamo portati a condividere qualsiasi lato della nostra esistenza, attraverso i social network tutti sanno tutto di noi e viceversa, ma sono convinto che non è così che possiamo davvero conoscere gli altri, né essere delle brave persone. La parola d’ordine è stimolare, stimolare e ancora stimolare, ma che cosa? Stimolarci a far vedere cosa abbiamo mangiato a pranzo o a commentare di continuo argomenti insulsi? Non credo che questa serva a farci stare meglio, e non voglio essere polemico nè sembrare retrogrado, ma trovo che ci sia una scissione forte tra chi siamo in realtà e come invece appariamo su Facebook, Instagram o Twitter, ed è abbastanza inquietante: per le generazioni di oggi la realtà è inevitabilmente connessa alla sfera virtuale, al punto che non si capisce più dove comincia l’una e dove finisce l’altra. Semplicemente, non è buon modo di vivere. C’è bisogno di prendersi un momento per noi stessi, per ammettere cosa c’è di giusto e sbagliato in noi, e soprattutto di essere grati nei confronti di ciò che abbiamo.

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Da La grande bellezza agli exploit di Brunori SAS e Le luci della centrale elettrica segnali di un utilizzo marginale o marginalizzato delle icone rock. Testo di Stefano Solventi

Le belle bandierine segnali di uso, disuso ed abuso dell’iconografia rock

Il giorno dopo la sbornia sciovinista dell’Oscar a La grande bellezza (che tutto sommato ha reso felice chi scrive, ma questo è un dettaglio), i media si sono impegnati a tenere caldo l’argomento triturando gli avanzi. Opinioni, scazzi e

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cazzeggi as usual. Curioso quel che è accaduto ai ringraziamenti che Paolo Sorrentino ha rilasciato appena afferrata la statuetta. Per gli smemorati, ricordiamo che il regista partenopeo ha citato tra le sue ispirazioni “Fellini, Marado-


na, i Talking Heads e Scorsese” (applausi). Ora, se diamo un’occhiata a come le edizioni online dei quotidiani hanno trattato la notizia, salta agli occhi una evidente disparità di trattamento. Ad esempio, sul Corriere.it troviamo l’immancabile slide di fotografie di cui quattro dedicate a Fellini, altrettante a Maradona, una in meno a Scorsese e solo due ai TH. Ebbene, quelli di via Solferino si meritano un applauso a scena aperta, perché altrove le cose vanno peggio, molto peggio. In un analogo articolo su Repubblica.it infatti il regista di The Wolf Of Wall Street (uno stracazzo di filmone pieno di spirito rock’n’roll, signori miei: altro trascurabile dettaglio) e la band di Byrne vengono bellamente snobbati, sia nel titolo – “Sorrentino ringrazia Fellini e Maradona” – che nel pezzo. Il Messaggero, La Stampa e Quotidiano. net fanno più o meno lo stesso, casomai recuperando le teste parlanti nell’occhiello e senza curarsi di spiegare chi siano stati, manco tre parole in croce, e non certo perché i loro lettori siano scafatissimi sull’argomento. Anzi, il problema sta proprio nella mancanza di connessioni dirette coi nervi dell’immaginario popolare. Dici Talking Heads e boh, chi cazzo sono, chi se ne fotte. Potremmo proseguire addentrandoci nel folto delle webzine e nei siti delle agenzie, ma solo per rendere più chiaro un concetto già lampante: il rock, persino la sua parte più ricca di ricadute (e i Talking Heads lo sono fuori da ogni ragionevole dubbio), dalle nostre parti ha fallito l’aggancio con i gangli della cultura diffusa, non attiva circuiti né catene di significati, non interessa un granché alla massa cliccante se non nelle sue manifestazioni più scandalistiche, a meno che non si tratti di riciclare mollicaniamente le solite cinque icone (che appunto significano in quanto icone, segni di riconoscimento, tag for dummies, decurtate casomai del nocciolo rock originario). Poi, siccome siamo un Paese curioso,

più o meno nel momento in cui si consumava questo malinconico episodio sono arrivati due input di segno (apparentemente) contrario da parte del cosiddetto nuovo cantautorato. Due canzoni: Kurt Cobain e I Sonic Youth, rispettivamente di Brunori SAS e Le Luci Della Centrale Elettrica, i quali con l’ultimo lavoro sembrano essersi staccati in souplesse dalla cosiddetta leva degli anni Zero, riuscendo ad emergere dalla palude alternativa per conquistare attenzioni e feedback di livello quasi mainstream (dalle pagine intere sui quotidiani nazionali alle trasmissioni dedicate sui canali satellitari, senza contare il costante sold out dei concerti). Nella loro sostanziale diversità, le canzoni in questione sembrano fare perno similmente su due icone rock per segnare un punto di origine sulla mappa, quasi a volervi collocare una data di (ri)fondazione, l’avvio con nuove premesse di un discorso che assume in sé un retaggio culturale rock, più iconografico nel caso di Brunori (che difatti mette sullo stesso piano del leader dei Nirvana la mitologia di Marilyn Monroe) e invece più musicale in senso quasi storiografico (o forse generazionale) nel caso di Brondi, che difatti cita espressamente l’album del 2002 Murray Street. Come era prevedibile, abbiamo assistito all’alzata di scudi dell’intellighenzia alternativa, che li ha a grandi linee accusati di sfruttare l’appeal rockista di Cobain e Sonic Youth come puro espediente per catturare l’airplay (alternativo), senza cioè una apprezzabile giustificazione poetica né corrispondenza in termini di attitudine e contenuto. D’altro canto, viste dalla sponda del grande pubblico, canzoni come quelle (titoli come quelli) sembrano concepite per evocare il fascino residuo della “cultura alternativa”, sono vaghi segnali di disallineamento (rispetto alla terzapagina emolliente alla Mollica, appunto) che garantiscono la giusta dose di “stranezza” espressiva, ad un millimetro appena dai teatrini

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del “premio della critica” sanremese ma senza (ancora) lo sputtanamento del rassegnone nazionalpopolare. Comunque la si pensi, l’utilizzo del segno rock in questi due pezzi è funzionale alla canzone, perciò in questo senso efficace e persino azzeccato. Però: non comunica in termini rock. Il rock come cultura sedimentata e viva (perché qui si dà per scontato che sia viva) resta fuori dall’inquadratura. E’ quel mondo ignoto (e ignorato) che si agita dietro la linea dell’orizzonte su cui stanno piantate come bandierine l’angelocadavere di Cobain (e Morrison, e Hendrix…) e lo slancio diversamente sensibile/intellettuale dei Sonic Youth (o dei Talking Heads). Il Brondi e il Brunori avranno le loro responsabilità, ma più ancora il problema va individuato nell’humus culturale in cui sono immersi, da cui sono sbocciati e a cui (legittimamente) si sono rivolti. Laddove infatti il codice rock è moneta corrente e (ormai) patrimonio genetico (in UK e negli States certo, ma non solo), pronunciare nomi come quelli appena citati basta ad innescare una catena di situazioni e modalità espressive, di in-

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tuizioni, eventi, ricadute politiche e di costume, di melodie e strutture armoniche, di emozioni, dimensioni estetiche e poetiche insomma con le quali ti puoi confrontare proprio perché parte profonda e attiva del “vocabolario” collettivo. Alle nostre latitudini invece sono al più una curiosa vibrazione tipografica. Tutto ciò dal punto di vista artistico/espressivo comporta la perdita di parecchie occasioni, basti pensare a quanto il cinema ricorra all’immaginario musicale non come semplice accompagnamento ma per tipizzare sequenze o intere trame (il succitato Scorsese in primis). Oppure si pensi a come da noi una serie tv come Glee rischi di sembrare solo una specie di musical frivolo dal taglio liberal, cosa che in effetti è se non riusciamo a cogliere la ricca trama di riletture e riarticolazione dei tòpoi pop-rock, da noi mai realmente vissute come vicende periodizzanti e generazionali. Per una serie di circostanze avverse ben ramificate nel complesso retroterra storico, in Italia la cultura rock non ha mai preso davvero cittadinanza, ma solo un permesso di soggiorno per motivi di distrazione. E neppure di massa.


Intervista a Lucy aka Luca Mortellaro, musicista palermitano residente a Berlino e head dell’etichetta techno Stroboscopic Artefacts. Abbiamo fatto il punto sul suo ultimo ed emozionante album Churches, Schools and Guns. Testo di Marco Braggion

Lucy Scuole, chiese e pistole

Sono molto contento di sentire su Skype Luca Mortellaro, noto ai più come Lucy. Il suo nuovo album Churches, Schools And Guns ci è piaciuto molto e ultimamente – anche grazie al lavoro di Donato Dozzy – un certo sentire techno sembra emergere a livello internazionale. Più recensioni, più scambi di opinioni nei forum, più commenti su facebook e più serate ai festival di elettronica. Il suo percorso interseca la techno con l’industrial e il field recording: tutto ciò viene professato dalla label berlinese Stroboscopic Artefacts con maniacalità puntigliosa e una visione estetica che riunisce un gruppo affiatato

di personaggi interessanti. Fra i nomi troviamo ovviamente lo stesso Mortellaro, poi i Dadub, il duo di elettronica-mitdub formato dagli italiani Daniele Antezza e Giovanni Conti, il produttore Dario Tronchin aka Chevel, che proprio questo mese pubblica un nuovo EP di techno, Xhin (pronunciato “sheen”), musicista di Singapore che suona bordate techno dark da incubo metropolitano, l’uomo techno industrial più chiacchierato del momento Perc (di cui abbiamo recensito ultimamente The Power and The Glory) e altre menti dal pianeta della musica “fatta con le macchine”.


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L’etichetta esiste dal 2009, ma prima di fondarla hai cambiato diverse città ed esperienze. Ce ne puoi parlare brevemente? Vivo da sei anni a Berlino, ma prima di venire qui ero a Parigi, dove sono stato per altri tre anni. Prima di Parigi ho abitato a Siena per altri tre anni. Ho lasciato Palermo da tanto tempo, da quando avevo diciott’anni, appena finita la scuola. Il trasferimento a Berlino da Parigi ha rappresentato un distacco da un modus vivendi: avevo finito l’Università e a un certo punto ho avuto un rifiuto per tutta una serie di cose, anche musicali. Lo spostarsi a Berlino è stato dettato anche da quello. Avevo in testa di fondare una piattaforma mia, cercando di fare qualcosa di un po’ più collettivo e di riunire una serie di belle teste per dire qualcosa di sensato. A Berlino sarebbe stato tutto più facile. All’inizio, semplicemente per un discorso economico: la vita qui costa un quarto rispetto a Parigi, anche se ora le cose stanno cambiando. Sei anni fa era così. E poi perché immediatamente ho trovato braccia aperte in questa città. La città ti dice: “Hai nuove idee? Benissimo, sei ben accolto”. A Parigi già facevi il DJ, producevi cose tue? Produco cose mie da quando ho quindici anni. Mentre ero a Parigi ho fatto uscire per la prima volta un disco, anche se era tutto estremamente amatoriale, nel senso che lo facevo a tempo perso, come un piccolo hobby. Poi le release hanno cominciato a uscire sempre più seriamente. In seguito mi sono trovato a un reset, in cui mi sono detto: “in questo momento sto facendo uscire cose che faccio più o meno dove capita. Non so se sia il caso di continuare così, perché la produzione musicale, nella mia vita, sta cominciando ad assumere molta importanza”. Ho pensato dunque che avrei dovuto pilotare il modo in cui il mio profilo si presentava al pubblico. Quindi, in quel momento, è cambiata la prospettiva. Mi sono deciso a fondare una piattaforma che permettesse a me e a tutta una

serie di persone musicalmente molto importanti di esprimersi in una certa maniera e di cambiare certi fattori che nell’industria musicale non ci piacevano. Ed è quello che è successo con la nascita di Stroboscopic Artefacts nel 2009. Un’altra cosa che ho notato è che tendi a fare una produzione di qualità, non solo dal punto di vista del suono e della ricerca sonora, ma anche per quanto riguarda tutto il management dell’etichetta: dal logo alle confezioni dei vinili, e via dicendo. Mi sembra che sia un progetto a 360 gradi, il tuo… Ovviamente quando cominci a pubblicare qualcosa che per te è così importante, come espressione profonda di te stesso, a quel punto cominci a fare davvero molta attenzione a tutto quello che concerne il medium che usi. Fare uscire l’album non è solo curare la musica che è contenuta nell’album, è l’artwork, come lo presenti, è un titolo (che è il frame dentro il quale fai muovere il pubblico, ancora prima che ascolti il disco), è tutta la storia dell’etichetta intorno, che permette a un album di essere percepito in una maniera e non in un’altra. Per garantire questa “storia” dell’etichetta devi stare attento ad ogni passo. È ovvio che gli album sono la gemma massima della storia dell’etichetta, lo sforzo più forte che fai, è un lavoro gigantesco rispetto a un EP o a dei singoli, però se non prepari il territorio nella maniera giusta, il risultato non è lo stesso. Non sarebbe lo stesso anche con la stessa musica, anzi probabilmente la musica non sarebbe la stessa, perché gli artisti che producono su Stroboscopic vengono fortemente influenzati dal resto dell’output dell’etichetta. Quindi, dopo la nascita di Stroboscopic, anche il tuo stile è cambiato… Sì, c’è stata una pausa di produzioni di un anno e mezzo e poi, quando mi sono spostato a Berlino, il primo anno (2008-2009) l’ho passato tutto per costruire la struttura dell’etichetta e per ricostruire anche me stesso musicalmente, cerca-

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re di capire in quale palude mi muovevo meglio a livello espressivo. E ho trovato una casa nella techno. Rispetto a Churches, il tuo primo album mi sembrava che fosse più vicino ad atmosfere industrial, con suoni orientati più al “rave”… Tra i due dischi sono intercorsi 3/4 anni di vita e di storia personale e altrettanti di storia dell’etichetta, che mi hanno influenzato notevolmente. Anche a livello di influenze musicali sono cambiato molto. Rispetto a quattro anni fa mi trovo ad ascoltare molta meno techno in generale e a preferire cose un po’ diverse, influenze che risalgono agli early Seventies: la dub giamaicana, il rock psichedelico inglese e il krautrock tedesco. Durante la composizione dell’album, questi fattori influenzano molto la maniera in cui lavori il suono in studio. In una recente intervista hai dichiarato che il titolo descrive bene l’America, invece io avevo pensato all’Italia… Forse non l’ho neanche scritta io, l’ha scritta il giornalista. In realtà ci sono varie dinamiche, che a me interessano molto e che ho studiato, che sono tipiche della cultura occidentale: la religione, l’educazione e la violenza. È ovvio che in America tutto è estremizzato: purtroppo il nostro sistema in gran parte è un’imitazione di quello. Queste dinamiche sono più generali e applicabili a tutta la civiltà occidentale, per me. Prima dell’uscita dell’album ho visto che hai fatto uscire un remix, cosa che è strana, perché di solito si fa il contrario. Tra gli artisti c’erano Donato Dozzy, Shapednoize, Milton Bradley ed Eomac. Ci puoi dire perché hai scelto questi quattro artisti? La scelta dei remix è sempre molto delicata, su Stroboscopic, nel senso che non so se hai notato ma non ci sono release miste, cioé i remix escono sempre a sé, non nella release originale. Questo perché mi piace dare la massima risonanza

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ad entrambi gli sforzi creativi, sia al remix che all’originale. Interpreto il remix non come un aiuto di cui ha bisogno l’originale, ma semplicemente come un’altra importantissima prospettiva su quell’output. In tutta la storia di Stroboscopic, i remix sono usciti sempre prima degli album. Questo perché quando esce un album voglio che lasci davvero traccia, e che l’audience non venga distratta da un altro step. Uscito l’album, di solito tre mesi dopo si pubblicano i remix, come se ci fosse questo continuo bisogno di ravvivare il fuoco. Se un album vale, non c’è bisogno di soffiare sul fuoco. Per questo i remix rappresentano un’altra prospettiva sull’album. Umanamente parlando conosco tutti i remixer molto bene, personalmente. Ho sentito che erano quelli che secondo me potevano interpretare al meglio quello che ho fatto nell’album. Dare al materiale un’altra luce, abbastanza diversa dalla mia, ma non tanto diversa da svuotarlo di significato. Quei quattro artisti rappresentano per me quattro cardini delle sonorità techno attuali. Cosa hai usato per comporre le canzoni? Hai usato più software di sintesi o più macchine analogiche? Principalmente macchine, nel senso che il mio studio è basato soprattutto su macchine analogiche. La parte digitale rappresenta il passo finale, in cui è soltanto una questione di sequencing e arrangiamento. I suoni vengono al 95% da synth analogici o da modi di processare l’audio particolari, ma comunque analogici, cioè su nastro o su particolari tape delay, da riverberi a molla e anche da field recording, registrazioni di audio casuale fatte per strada. Poi il suono viene trattato e riassemblato in maniera da ricadere nella mia volontà espressiva. Il fattore digitale rappresenta più l’impacchettamento finale, ma la sorgente sonora è assolutamente analogica. L’album mi sembra molto caldo, anche se è stato composto a Berlino. Mantieni sempre una specie di gusto melodico mediterraneo,


anche dentro la techno. E’ così che vedi la tua produzione? La differenza enorme è il fatto che io vivo qui, ma sono cresciuto da un’altra parte, in mezzo al Mediterraneo, sono siciliano, quindi ho sicuramente radici che vanno verso i mondi arabi, più che verso quelli nordici. Trovo che sia un bellissimo matrimonio, molto stimolante come frizione. È nella diversità che trovo la creatività. È sempre così. Quando due correnti vanno una contro l’altra si formano ghirigori che non ti aspetti. Ci sono stati artisti a cui ti sei ispirato per il disco? Ho sentito molto l’influsso di Aphex Twin, in un certo senso dei Boards Of Canada, anche se sono musicisti che suonano molto diversi da come suoni tu, oltre alla presenza di Drexciya, soprattutto per la parte “liquida” e techno. Vivendo a Berlino, avrai contatti con artisti o realtà underground che magari qui non conosciamo… Per me la Warp Records dei primi anni Novanta è stata sempre un modello, anche nel modo in cui gestisco l’etichetta, pur essendo un modello abbastanza remoto. Ultimamente i miei ascolti si sono spostati molto su situazioni come Can, Roedelius, Brian Eno, Cluster. E’ lì che trovo le grandi ispirazioni, oltre che nella fortissima esperienza del club, non solo qui a Berlino ma anche in giro per il mondo, col fatto che viaggio tantissimo per suonare, ogni week-end. Fare queste esperienze influenza notevolmente la tua maniera di interpretare il ritmo, cosa esso rappresenti per un pubblico, cosa significhi sensualità e calore nella musica. Persino nella musica techno. Penso di avere una visione abbastanza larga del genere. Sono molto lontano dalla techno più classica. È proprio nella contaminazione che trovo la bellezza. Ripetere dei dogmi non è assolutamente un mio interesse. Riuscirai a promuovere l’album dal vivo con un live set suonato con strumenti?

Non per adesso. Nei DJ set ultimamente mi trovo molto bene a tradurre il mood dell’album in qualcos’altro. L’album è una realtà che tu produci quando sei completamente da solo, isolato nel tuo studio, mentre quando suoni, la differenza è enorme. Hai un pubblico davanti che reagisce immediatamente, non è più mediato il rapporto. Questo è un fattore che trovo molto interessante e su cui al momento sto sperimentando. Se lo spazio cambia, cambia anche l’interazione dello spazio con te e cambia anche il risultato. Su questo gioco di traduzioni, mi sto trovando bene a suonare. L’album è un prodotto finito, mentre quello che cerco in un club è un’altra cosa: tradurre in un altro contesto quelle spinte e pulsioni che hanno portato a produrre quei suoni. Tre dischi di artisti contemporanei che ti sono piaciuti particolarmente? Più che di artisti ti parlerei di etichette. Ci sono label che hanno avuto un output molto interessante. Sicuramente The Trilogy Tapes, Honest Jon’s e poi… uno vecchio te lo devo mettere per forza [ride, ndSA], ed è il Live alla Coventry Cathedral dei Tangerine Dream (1975), che ho ascoltato veramente molto durante la produzione dell’album. Infatti c’è anche un po’ di ritorno al krautrock… Assolutamente. Ho sentito anche cose molto lontane da me che risuonavano in modi diversi. Stavo pensando, ad esempio, all’ultimo album di James Holden. Per quanto l’estetica sia molto diversa dalla mia, ho trovato influenze simili. Puoi darci qualche anticipazione sulle prossime uscite Stroboscopic? Ci sarà un revival italiano. I prossimi due EP che escono sono entrambi di artisti italiani: uno sarà di Chevel (One Month Off ), uno dei più interessanti newcomer per me, e l’altro sarà di Donato Dozzy.

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Il 24 marzo è uscito l’ultimo album dei Liars, Mess, un disco che ha scatenato non pochi malumori e dubbi tra fan e critica. Per risolvere questi dubbi, abbiamo approfittato di un'illuminante chiacchierata con Aron Hemphill. Sono emerse molte cose interessanti... Testo di Alessia Zinnari

Liars More mess, less stress

Il 24 marzo è uscito, a meno di due anni da quel capolavoro che è stato WIXIW, l’ultimo album dei Liars, Mess. La sua pubblicazione è stata da subito accompagnata da una critica non troppo entusiasta. Tanto gli addetti ai lavori quanto i fan, specialmente quelli di vecchia data, si sono riscoperti parzialmente o totalmente delusi da un lavoro che sembra portare con sé ben poco

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del bagaglio culturale, intellettuale e artistico dei primi dischi della band newyorkese. Forse non eravamo pronti a un prodotto meno raffinato e all’apparenza più fruibile (in quanto quasi interamente ballabile), o forse, ancora una volta, fatichiamo ad accettare il fatto che una band possa crescere in direzioni diverse da quelle che ci saremmo aspettati affezionandoci ai suoi


primi album. Ai Liars, si sa, le etichette e le divagazioni pseudo-dotte sui generi di appartenenza non piacciono motlo, e nella nostra piacevole chiacchierata con Aaron Hemphill ce ne siamo tenuti alla larga. Abbiamo invece parlato di altro, come del loro approccio emotivo e tecnico alla produzione di Mess, o delle loro aspettative sulle reazioni del pubblico all’ascolto. Abbiamo scoperto inoltre cose piuttosto curiose, come il fatto che in Italia hanno suonato in salotti di case private pieni di entusiasti avventori o che in realtà la parola “mess” non ha un significato preciso, ma può essere qualsiasi cosa vi venga in mente quando la pronunciate. Sono passati meno di due anni da WIXIW, il vostro ultimo album. Mess si presenta come la naturale prosecuzione di un percorso nel complesso mondo della musica elettronica e dance. Volendoci soffermare sulle tracce contenute in questo nuovo album, possiamo considerarle come il risultato di un’epifania post-WIXIW, oppure si tratta di qualcosa che aveva già preso forma durante la produzione del disco precedente? Mess è esattamente come lo hai definito, la continuazione di un percorso all’interno di un genere. Ci siamo sentiti in un certo senso più esperti nel maneggiare programmi e strumenti che ai tempi di WIXIW ci erano sembrati difficili da gestire, e il tutto è confluito in una maggiore sicurezza e immediatezza al momento della produzione di Mess. Non possiamo dire che ci fosse già un’idea di Mess mentre lavoravamo a WIXIW, in quanto si tratta di due manifestazioni autentiche della nostra crescita nella composizione e nell’utilizzo di strumentazioni digitali. Certo non sarebbe stato possibile, durante la composizione di WIXIW, avere lo stesso approccio rilassato che abbiamo avuto con Mess. Nonostante sia passato poco tempo tra un album e l’altro, si tratta di due periodi molto diversi per

noi, sia dal punto di vista personale, che da quello pratico. Ai tempi di WIXIW stavamo appena imparando ad utilizzare queste nuove strumentazioni. WIXIW e Mess sono quindi due facce della stessa medaglia? Volendo disegnare il movimento che separa un album dall’altro, lo potremmo immaginare più come un moto circolare o rettilineo? Non credo ci sia realmente un modo giusto o sbagliato di vedere la relazione fra i due album, ma la tua analogia è interessante. Per quanto riguarda la seconda domanda, penso che entrambe le figure che hai suggerito descrivano bene ciò che è avvenuto. Il moto rettilineo rappresenta la nostra crescente competenza nell’utilizzo della nuova strumentazione di cui ci siamo dotati, mentre quello circolare si potrebbe riferire a questo ritorno ad un approccio mentale alla composizione più istintivo e immediato. Continuando con i parallelismi, cosa mi dici a proposito della vostra scelta di dividere l’album in due parti, la prima interamente ballabile e dalle ritmiche frenetiche, e la seconda più introspettiva, quasi dark? In passato avremmo organizzato la sequenza dei brani in maniera nettamente diversa, alternando i brani più intensi a quelli meno d’impatto. In Mess volevamo che il tutto fosse più lineare, un viaggio di sola andata. Speravamo che questo potesse riflettere in qualche modo una maggiore sicurezza: se penso all’ordine delle tracce di Mess penso a qualcosa di ben strutturato e accuratamente ragionato. Pensi che anche chi ascolterà l’album si dividerà tra chi preferisce la prima metà e chi invece si ritrova di più nella seconda? Potrebbe essere una sorta di esperimento antropologico… Davvero interessante! È difficile dirlo… a me piace pensare che la stessa persona possa sentirsi attratta da un lato o dall’altro del disco, in

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base a come si sente. Il lato A e il lato B dell’album sono più da pensare in relazione al mood della giornata, piuttosto che in relazione ad una tipologia precisa di persona. Credo che questo si rifletta anche nel nostro modo di essere quando componiamo: non c’è il musicista “in levare” o quello più introspettivo, ognuno di noi possiede entrambe le caratteristiche, ma in momenti diversi. Ciò che è importante è garantire all’altro fiducia e libertà di esprimersi per come si sente in quel momento, e di riuscire a tradurre questo in musica. Se c’è questa libertà, le canzoni si completano a vicenda, a prescindere dal loro impatto sonoro. È questo livello di espressione più profondo che permette alle persone di interagire con la musica, attraverso il proprio stato d’animo. Quindi, niente baita in mezzo al bosco per queste registrazioni? [ride, NdSA] No, niente baita stavolta. Ci eravamo abituati a stabilire un periodo preciso per comporre e registrare un disco, durante il quale ci focalizzavamo solo su questo. Della serie: “ok, questo anno lo dedichiamo a produrre questo album”. Prima di prendere quest’abitudine, semplicemente scrivevamo i pezzi quando volevamo. Con Mess siamo ritornati a questo metodo e devo dire che ci siamo evitati la pressione che genera di solito un “periodo di composizione” più strutturato. Volevamo semplicemente creare nuovi pezzi per il gusto di farlo, ed è stato molto meno stressante. Ci siamo divertiti molto e siamo riusciti a tirare fuori delle idee che probabilmente sotto pressione non sarebbero mai saltate fuori. Come è cambiato il vostro rapporto col palco durante questi anni, e come si modificherà, se lo farà, dopo l’uscita di Mess? Che ci crediate o meno, ancora adesso siamo nervosi prima di ogni live! Per Mess, abbiamo suonato dal vivo un numero considerevole di

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brani, prima della loro release, il che ha reso l’album unico. Non lo facevamo dai tempi di Drum’s Not Dead. Suonare i nuovi pezzi live ci ha permesso di analizzarli e di capire cosa andava bene e cosa modificare, e ci ha anche illuminati su cosa mettere in risalto e cosa no. Can’t Hear Well ne è un buon esempio: già prima di suonarlo live era uno dei pezzi che preferivamo, ma dopo esserci resi conto dell’impatto che questo aveva dal vivo, lo abbiamo posizionato in modo diverso all’interno dell’album. Questo non sarebbe successo senza sperimentare il tutto sul palco. Per il resto, penso che il rapporto col live sia sempre stato uno degli aspetti fondamentali del nostro percorso artistico: ci permette di approfondire il legame con il materiale prodotto e allo stesso tempo permette a chi ascolta di godere della nostra musica in modo molto diverso da quello che è l’ascolto del disco. A maggio dell’anno scorso vi ho visti suonare a Torino, alle OGR (un ex centro di riparazione di locomotive costruito nel XIX secolo). L’atmosfera post-industriale del luogo si prestava benissimo alla vostra performance. Quale potrebbe essere la venue perfetta per un live di Mess? Parlando dell’Italia, devo dire che è davvero difficile battervi. Abbiamo suonato in moltissimi luoghi, sia belli che pessimi; abbiamo suonato in location storiche come in salotti di case private stracolmi di gente! So che potrà sembrare una risposta noiosa, ma quello che abbiamo imparato è che non è la venue che rende lo show perfetto: quello che conta è il mood del pubblico. Con questo presupposto, posso aggiungere che un pubblico italiano che si trova nell’umore adatto è praticamente imbattibile. Che ne pensate di producer electro/techno/ post-dubstep, ecc.. quali Joy Orbison, Jon Hopkins e Burial? Ho ascoltato solamente Burial, e mi piace molto quello che fa. Non siamo troppo preparati


sui nuovi artisti nel campo dell’elettronica, ma facciamo del nostro meglio. Una delle cose più belle delle interviste che seguono l’uscita di un album, è che riceviamo un sacco di spunti su nuovi artisti da cercare e ricominciamo ad ascoltare musica. Quando siamo in fase compositiva, facciamo di tutto per lasciare la musica prodotta da altri fuori dal nostro ambiente creativo, e questo non perché pensiamo che il nostro lavoro non debba essere paragonato a quello di altri, ma, al contrario, perché non vogliamo farci influenzare, in modo che la produzione dell’album sia totalmente naturale e guidata dal nostro istinto in modo incontaminato. Ci piace moltissimo il fatto che chi ci ascolta faccia collegamenti con altri artisti, è una dimostrazione del fatto che le persone stanno cercando di capirci e di comunicare al prossimo come percepiscono la nostra musica. Detto ciò, andrò subito ad

ascoltare gli altri artisti che hai citato. Le arti visive giocano un ruolo importante nell’estetica dei Liars, e così anche la loro diffusione attraverso i social, come ad esempio Facebook. Dimmi qualcosa al riguardo… I social media possono essere utilizzati dalle band in molti modi. Noi li vediamo come un’altra piattaforma creativa per condividere idee che possono andare di pari passo con la musica che facciamo. Angus è sicuramente quello più preparato in materia, la maggior parte delle idee che appaiono sui social sono sue. Con Instagram ha ricominciato a fare foto, e penso che sia una cosa fantastica: è un fotografo eccezionale. Qual’è la prima cosa che ti viene in mente se dico “mess”? 1. Lavoro 2. Filo 3. Pulito


Abbiamo raggiunto telefonicamente Hans Magnus Ryan, in arte Snah, per farci raccontare l'ultimo disco Behind The Sun e una carriera che, nonostante abbia raggiunto i venticinque anni, non smette mai di stupire. Testo di Andrea Murgia

Motorpsycho viaggio verso la faccia oscura del Sole

Approfittando della recente uscita di Behind The Sun, ventiseiesimo lavoro in studio (!), abbiamo raggiunto telefonicamente Hans Magnus Ryan, padre fondatore e colonna dei Motorpsycho. Una chiacchierata in cui abbiamo affrontato di tutto, dalle collaborazioni con Ståle Storløkken e Reine Fiske, alla cover di Theme de Yo-Yo realizzata con i Jaga Jazzist (apparsa su In The Fishtank) – che gli ha garantito la

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stima di uno dei suoi autori, Roscoe Mitchell – passando per la spinosa faccenda della qualità audio e di quella che viene definita Loudness War. Un’intervista diversa dal solito, insomma, che ci ha permesso di conoscere l’uomo oltre al musicista che tutti abbiamo modo di apprezzare. Affabile e dalla risata contagiosa, Snah ha risposto cordialmente a tutte le nostre domande dimostrandosi, oltre che un grande musicista,


anche un buon conoscitore del mondo vintage hi-fi. Venticinque anni di carriera e un numero incredibile di pubblicazioni e di concerti: una lampante dimostrazione di prolificità e passione per il vostro lavoro. Qual è il vostro segreto? Molto semplicemente: la musica. La musica è energia, forza motrice di tutte le nostre azioni quotidiane, una potenza senza limiti. Siamo dipendenti da questa sostanza chimica che è la musica. Per noi fare musica è come espletare funzioni fisiologiche: è come mangiare, respirare e fare all’amore. È diventata per noi la cosa più naturale da fare. Ci siamo dedicati totalmente a quella cosa che consideriamo alla stregua di una divinità, e se ti metti a sua piena disposizione, l’ispirazione e la prolificità possono davvero essere senza limiti. Solo un anno separa Behind The Sun da Still Life With Eggplant, e anche nel vostro ultimo lavoro si possono facilmente individuare sonorità e citazioni del progressive rock, soprattutto inglese, anni Settanta. Quanto è stato importante per voi questo genere musicale che non sempre ha riscosso il favore della critica di settore? Non ci siamo prefissati nessun genere o stile musicale, ma abbiamo cercato di suonare sempre al meglio delle nostre capacità. Siamo partiti come una band ispirata tantissimo dai lavori degli Hawkwind e, nonostante il progressive rock sia una delle nostre influenze maggiori, non abbiamo forzato la mano per suonare questo tipo di musica. È semplicemente arrivata, senza pressioni e in maniera naturale, come se fosse scontato per noi suonare prog. Behind the Sun è semplicemente stato uno step successivo nel nostro percorso, iniziato anni fa con Little Lucid Moments. È un peccato che questo genere musicale che noi tanto apprezziamo, abbia subito uno stop evolutivo a fine anni Settanta;

naturalmente l’esplosione del punk ha avuto grande responsabilità, ma quando l’attenzione del pubblico e dei media di settore venne a mancare, purtroppo, si spense la fiamma che teneva in vita il prog-rock. Free-jazz, post-rock, math-rock e country: la vostra è una musica totale, capace di muoversi liberamente e senza steccati, sfuggendo alle sopracitate etichette. Come nasce? Il nostro processo compositivo è in realtà molto volubile, non ha schemi e ci basiamo molto sulle emozioni che un riff o un testo ci comunica. Bent porta in studio la maggior parte dei riff e dei testi e a volte può capitare che queste bozze siano talmente accurate e definite da venire registrate al primo colpo, quasi senza modificarle. Altre volte il processo è più elaborato, e ci possono volere addirittura anni prima di chiudere un pezzo. Penso a Gullible’s Travails, che ha mutato innumerevoli forme prima di essere registrato e pubblicato su Heavy Metal Fruit. È un processo lunghissimo, a volte totalmente pazzo, ma ti permette anche di vedere come lavoravamo anni fa e come ci siamo evoluti. Sono due processi creativi molto diversi. I Motorpsycho hanno sempre dimostrato di essere una grande famiglia, come anche documentato dal video su The Tussler Society. Com’è stato suonare con uno “straniero” come Reine Fiske? Reine Fiske, nonostante non sia un nostro collaboratore di lunghissima data (collabora con i Motorpsycho solo da Still Life With Eggplant), per me come un fratello. Non abbiamo bisogno di parlare, né di spiegare, quando suoniamo assieme, non un consiglio tecnico, basta solo uno sguardo. Si è creata tra noi una sintonia incredibile, tanto che sembra che lui faccia parte dei Motorpsycho da sempre. Ci siamo conosciuti anni fa, fine anni Novanta credo, ad un nostro concerto a Stoccolma. Non ci disse di essere un

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chitarrista, né di un essere un musicista: in realtà era il chitarrista dei Dungen (prog-rock band svedese) e me ne accorsi solo tempo dopo guardando alcune foto della band. Non ci disse nulla perché non voleva tirarsela oppure vantarsi di essere un chitarrista famoso in Svezia. È stato incredibile il suo apporto durante le sessioni di registrazione di Behind The Sun e, nonostante il suo stile chitarristico sia così lontano dal mio, Reine completa il nostro sound dandoci più profondità e spessore. Spero proprio che la liason artistica con lui duri molto a lungo. Ho apprezzato il vostro atteggiamento nei confronti dello spinoso argomento della Loudness War. Quali possono essere le soluzioni per cercare di superare questa situazione? Noi ci stiamo confrontanto con questo problema da anni ormai e credo che i più grandi responsabili di questa situazione siano le etichette discografiche e le stazioni radio che comprimono il suono per renderlo più alto possibile, a discapito naturalmente della qualità sonora del prodotto finale. Si è persa la pluridimensionalità e la dinamicità del suono e credo che i danni maggiori siano quelli che si compiono in sede di mixaggio e di mastering, in cui i produttori utilizzano plug-in per stravolgere il suono e per rendere, naturalmente secondo il loro punto di vista, il prodotto più professionale. È un grande problema questo, la gente comune per comodità ascolta gli mp3 con una qualità tremenda, super compressa, e ha perso il contatto con la vera qualità del suono. Spero che in futuro si possa arrivare a un livello di compressione il più possibile fedele al formato originale. C’è tanto da lavorare ancora e noi metteremo sempre il massimo impegno per cercare di dare il nostro contributo… In Italia i ragazzi ascoltano la musica dalle casse dei propri smartphone… Ah sì? Non è il caso del nostro Paese, per for-

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tuna. In Norvegia c’è più attenzione verso la qualità e ultimamente moltissimi giovani stanno acquistando giradischi e vinili. Sono cose che fanno ben sperare per il futuro. Cosa hai ascoltato ultimamente e quanto questi ascolti hanno influenzato Behind The Sun? Behind the Sun raccoglie tracce scritte negli ultimi cinque anni e accantonate momentaneamente durante le registrazioni di The Death Defiyng Unicorn, sessioni che hanno occupato ben due anni delle nostre vite. The Death Defying Unicorn era diventato il nostro dogma, la nostra più grande ambizione. Nonostante tutto, dalle sue sessions uscirono altre venticinque tracce, alcune finite su Still Life e altre sul nostro ultimo disco. Naturalmente in un lasso di tempo così lungo gli ascolti personali sono cambiati. Ho ascoltato un po’ di tutto, sinceramente, dagli impressionisti francesi come Debussy e Ravel, Satie, a tantissima ambient music. Parallelamente ho scoperto, soprattutto negli ultimi sei mesi, i Grateful Dead, di cui ho letteralmente divorato Sunshine Daydream. Lo mettevo nell’autoradio e lo ascoltavo per ore mentre guidavo: meraviglioso. Devo dire che le sessioni di The Death Defiyng Unicorn sono state molto stimolanti e fruttuose, lavorare con Ståle Storløkken, un vero maestro della musica contemporanea, è stato molto importante per noi e credo che ci abbia aiutato a crescere. Credo e spero che questa crescita musicale e personale si senta in Behind The Sun. I dischi che ti hanno cambiato la vita? Una domanda da un milione di dollari. Sicuramente Universal Consciousness di Alice Coltrane , Third dei Soft Machine, Yessongs degli Yes, On Stage dei Rainbow - che credo sia il disco che ho ascoltato di più nella mia vita – e una raccolta di Elvis Presley che avevo registrato su cassetta e di cui non ricordo più il titolo…


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In occasione dell'unica data italiana del 3 aprile al Biko di Milano, Andrea Tabellini, conduttore di Afternoon Tunes in onda sulle frequenze di Radio Città Fujiko, ha intervistato Kurt Vile Testo di Andrea Tabellini

Kurt Vile Take It Easy

Se l’espressione Take It Easy potesse prendere forma, sicuramente avrebbe le sembianze di Kurt Vile. Non solo per l’ intervista che andrete a leggere ma per il suo modo di fare musica. La voce mai troppo alta e i riff di chitarra elaborati ma mai invadenti, testimoniano che l’artista di Philadelphia percorre una strada che potrebbe portare il nome di Easy Going Avenue. Lontano comunque dall’esser pigro, Kurt è arrivato a farsi conoscere con un must have album che porta il nome di Smoke Ring for My Halo e il successivo Wakin On A Pretty Daze ha consacrato la sua notorietà nelle classifiche di Best Album del 2013 di mezzo mondo.

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Il suo talento nasce come One man band, la raccolta dei suoi primi arrangiamenti God Is Saving This to You… ne e’ la prova. Con i primi album Constant Hitmaker e Childish Prodigy Vile esplora le vie di un territorio folk contaminato dalla psichedelia. Successivamente l’attitudine lo-fi lascia il posto a canzoni più melodiche e elaborate che lo faranno uscire dalla sua Philadelphia fino a portarlo a suonare nei Festival più blasonati. Il concerto del 3 Aprile al Biko di Milano dove Kurt suonerà da solo, potrebbe essere un’occasione per scoprire le origini della sua musica. Il 3 aprile verrai a Milano per un tour in so-


litaria. Come mai non ci saranno i Violators con te questa volta? Solo per cambiare. Abbiamo già girato USA, Europa e UK un milione di volte per quest’album, e quindi questa volta suonerò in posti più piccoli dove con la band abitualmente non suoneremmo. Sarà anche un modo per ritrovare le mie origini. Sono fondamentalmente un solo artist, e, di solito, durante i miei set suono acustico. È semplicemente un modo per arrivare alle mie radici e dare qualcosa di più spontaneo al pubblico, con dinamiche diverse, e nuovi interessi. Poi, certamente, tornerò a girare con la band… non è che ci siamo sciolti o ci siano dei problemi. Avrai di spalla Pall Jenkins dei Black Heart Procession. Vi conoscete già? Conosco la sua musica ed abbiamo alcuni amici in comune. Sono piuttosto entusiasta di andare in tour con lui. Di sicuro sarà divertente. È indubbiamente un’ottima line-up. Ti ho visto suonare al Primavera Sound un paio di volte. La prima volta, nel 2011, hai suonato su un palco secondario, lo Jaggermeister Vice, la seconda su un palco principale. La tua populartià sta crescendo, come ti fa sentire questa cosa? La prima volta è stato molto divertente, me lo ricordo! E poi è innegabile che, album dopo album, la mia popolarità sia cresciuta. A proposito dei festival, quest’estate suonerai all’ATP in Islanda dove ci sarà Neil Young. Inoltre, avrai anche l’opportunità di dare un’occhiata all’isola… Non vediamo l’ora! Aspetto da una vita di andare in Islanda e porterò addirittura tutta la famiglia. Vedremo Neil Young e i Crazy Horse la notte prima. Ho già visto Neil varie volte ma mai con i Crazy Horse, quindi l’Islanda sarà davvero un posto squisito in cui vederli suonare. Per quanto riguarda l’Isola, sarà un’occasione unica e quindi ne approfiterò per fare una vacanza con la famiglia.

Ci sono band islandesi molto popolari come Björk, Múm e Sigur Rós. Segui qualcuna di loro? Cosa pensi della loro musica? Certo. Apprezzo molto la loro musica. Devo ammettere che non ascolto i Sigur Rós. Li conosco ma non li frequento ecco. I Múm sono un tipo di famiglia à la Animal Collective, mi ci ero affezionato. Più di tutti amo Björk. Parlando di Neil Young, che ne pensi del suo nuovo Pono device? E’ una buona idea. Anche se sono completamente disconnesso dal mondo digitale, se ci saranno file digitali per l’hi-fi, sarà un concetto figo e potrei cominciare ad interessarmici. Ad essere onesto, compro ancora CD e vinili e copio le cassette. Alla fine tutto diventa statico, se hai disponibilità di ogni cosa. E poi non ci sono proprio portato per Internet. Detto questo, aspetto comunque il Pono con curiosità, rispetto le idee di Neil, questo è certo. Ho conosciuto la tua musica tramite l’album Smoking for My Halo e ho notato che è un album più melodico rispetto ai precedenti… Non lo so, penso di aver sempre avuto tendenze melodiche, e ora, migliorando tecnologia e registrazione questo aspetto emerge di più assieme alla maturazione che ho avuto come artista. Ho optato per una strada più classica a cui stavo comunque mirando. Penso di aver semplicemente sintonizzato il mio stile. L’album Wakin on a Pretty Daze è rientrato, in alcune classifiche, come miglior album nel 2013. Immaginavi che avrebbe avuto un successo così grande? Aspiravo a un successo per questo disco. Non si dovrebbe mai peccare di presunzione, ma in sostanza era quello il mio scopo. (Andrea Tabellini è conduttore di Afternoon Tunes in onda sulle frequenze di Radio Città Fujiko Sabato h 16.30)

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after hours

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Abbiamo incontrato gli Afterhours a Milano, in occasione della conferenza stampa per la presentazione di "Hai Paura del buio? (Remastered and Reloaded)". Quello che segue è quanto è emerso, con in appendice un'intervista al batterista del gruppo, Giorgio Prette. Testo di Fabrizio Zampighi

Il buio del nuovo millennio La sala Fontana del Museo del Novecento di Milano è una specie di angolo di Paradiso in Terra: luminosa e circondata da vetrate altissime, offre una vista sul Duomo che toglie il fiato. E’ qui che gli Afterhours hanno deciso di presentare alla stampa (più o meno una quarantina di cronisti in tutto, noi compresi) l’edizione Remastered and Reloaded di quel Hai Paura del Buio? (da qui in poi, HPDB?, NdSA) pubblicato ormai diciassette anni fa. In un museo che raccoglie le avanguardie pittoriche e scultoree del Novecento ci troviamo dunque a interagire con una band che, pur non potendosi definire d’avanguardia, ha certamente segnato in maniera indelebile – tuttora lo fa – il rock italiano degli ultimi anni. La conferenza stampa si rivela un botta e risposta costruttivo tra la platea di giornalisti e gli Afterhours presenti al completo, oltre che una buona occasione per riflettere sul percorso artistico della formazione milanese. Attraverso l’inevitabile turbine di ricordi che nasce dalle parole dei diretti interessati, riemerge un mondo che sembra lontano anni luce e invece risale solo al 1997. A parlare è Manuel Agnelli: «in quel periodo avevamo tutti dei lavoretti con cui ci arrabattavamo e di cui ovviamente non eravamo contenti. Musicalmente, dopo aver provato molte cose, siamo passati a cantare in italiano; avevamo avuto fino a quel punto un sacco di pacche sulle spalle, buone recensioni, ma nessuno che economicamente credesse nel nuovo disco, anche perché il master stesso di HPDB?, dopo averci lavorato sopra per molto tempo, era diventato troppo costoso. In più, in quel periodo c’era stato il boom dei Litfiba, per cui i discografici cercavano dei Litfiba bis, e noi forse eravamo un po’ troppo monelli per ricoprire quel ruolo. Forse ci mancava – e ci manca tuttora – anche il talento per entrare in un certo tipo di logiche. Poi arrivò Valerio Soave con la sua etichetta, la Mescal, a toglierci dall’impiccio, anche se ci fece un contratto capestro per sette dischi. Eppure fu Mescal a contribuire al nostro rilancio, e in questo senso ricoprì un ruolo assolutamente positivo nello sviluppo del progetto Afterhours. Tra l’altro in Mescal, ai tempi, si viveva una situazione artisticamente molto fertile: la label di Soave era una sorta di Factory di provincia, molto intelligente a livello manageriale. Soave stesso è stato uno dei manager italiani più lucidi e innovativi. HPDB? per noi è stato un atto di coraggio. In quel momento non avevamo niente da perdere e così abbiamo

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deciso di fare quel tipo di disco» Un anno e mezzo di lavoro in sala di registrazione fatto di cura per i dettagli, sovraincisioni, ripensamenti, idee folli, che si trasforma in un disco di ben 19 brani con un titolo inquietante ma veritiero. Sorta di autoanalisi in forma di domanda, la “paura del buio” a cui ci si riferisce è il timore di scoprire chi siamo veramente, di fare i conti con le nostre aspirazioni – un richiamo diretto alla situazione che stava vivendo il gruppo in quel momento –, oltre che una metafora della voglia di osare in musica. Quel quid di inedito e di “avventuroso” che definisce, alla fine, la personalità di un artista. Il disco è una mutazione genetica di Germi, con un suono che riprende certe chitarre elettriche del dopo-grunge mescolandole al post-punk, filtrandole con “rumorismi” sperimentali, per trovare infine una formula originale: «Per HPDB?», rivela Xabier Iriondo, «siamo stati moltissimo in studio, sperimentando il più possibile, magari anche sbagliando. Abbiamo cercato di andare oltre l’utilizzo classico dei timbri messi in campo fino a quel punto. In quel periodo abbiamo forse identificato quelli che poi sono diventati i marchi di fabbrica della nostra musica. Si è cercato di caratterizzare ogni brano del disco con suoni diversi, dandogli un’ossatura personale attraverso timbri che ai tempi le band rock più dure non avevano». Da un lato la musica, figlia di una sintesi sulla carta impossibile tra avant, pop, punk/hardcore, rock; dall’altro i testi di un Manuel Agnelli volutamente irriverente, loro pure destinati a diventare un modello per le band a venire, con quel taglia e cuci di significati così peculiare. E’ il diretto interessato a certificarne la genealogia: «Ho cominciato a lavorare col cut up per caso, grazie a un libro su Burroughs che mi fece avere Giacomo Spazio. Facevo quattro o cinque versioni dei brani e poi sceglievo quella che mi sembrava migliore, aggiustando il testo per dargli un senso. E’ stata una cosa che mi ha liberato moltissimo dalla pesantezza dell’ispirazione, oltre ad aiutarmi tecnicamente nell’accostare l’italiano al rock. In seguito, quell’esperienza è diventata in qualche maniera un cliché e quindi l’ho abbandonata.». Quando esce, il disco suggella lo stato dell’arte della band, ma è anche il parto più noto di quella scena milanese che a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta – assieme a quella torinese – diviene il punto di riferimento per un movimento musicale nostrano sempre più agguerrito. La “new wave” del rock indipendente in italiano, apparecchiata per la generazione X anche da espe-

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rimenti televisivi sfrontati come la gloriosa Videomusic, ha il nome di La Crus, CSI, Karma, Ritmo Tribale, Marlene Kuntz, Mau Mau, Casino Royale e di tantissimi altri, e fa credere per un attimo che la “rivoluzione” sia vicinissima. E invece, a sentire Agnelli, tutto si rivela un’occasione persa, un po’ per l’incapacità dei musicisti di comunicare i contenuti a livelli più “popolari”, un po’ per le responsabilità di una stampa specializzata che dopo essersi bruciata negli anni Ottanta puntando su band poi rivelatesi fallimentari, nei Novanta non investe come dovrebbe sui nomi nuovi, accorgendosi di loro solo quando la scena ha già i numeri per auto-sostentarsi. L’ambiente musicale attuale invece, a sentire Agnelli, riserva qualche buona sorpresa, anche se non è tutto oro quel che luccica: «Ci sono stati molti cambiamenti. Dal punto di vista dell’attenzione che la scena musicale riesce ad attirare, credo che le cose siano cambiate in positivo. Testimonianza ne è anche lo spazio concesso ora dalle grosse testate giornalistiche a un certo tipo di musica, spazio che una volta non c’era. Dal punto di vista della qualità tecnica dei musicisti, anche qui le cose sono migliorate. Tutti suonano molto meglio di come suonavamo noi al tempo, le produzioni stesse sono diventate più accurate. La

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comunicazione globale ha aiutato molto, siamo molto meno provinciali. Dal punto di vista creativo, invece, non mi sento di dire che le cose siano migliorate. Agli esordi anche noi eravamo molto provinciali, con punti di riferimento forti, a livello musicale, che cercavamo di emulare. La nostra fortuna è stata il non esserci mai riusciti, tirando fuori invece una forma ibrida e più personale di musica, che è poi diventata la nostra strada. Ora come ora molte band fanno più fatica a suonare personali; sono copie accurate di quello che si sente in giro, con una paura fottuta di essere dei diversi, di sbagliare nel mettere le virgole, e questo a discapito dell’originalità. E poi in giro ci sono meno freak, meno artisti strani, inclassificabili. In parte tutto questo probabilmente è dovuto anche al web, che è un mezzo fantastico, ma che da un certo punto di vista ha anche livellato molto la creatività, annullando la cultura dell’interscambio tra le persone e anche la protesta sociale» Del resto la “scena” è sempre stata, per Agnelli e soci, un organismo ambivalente: da un lato rifugio ideologico e strutturale in cui autodeterminarsi e crescere, dall’altro gabbia piena di regole non scritte ma stringenti, con cui la band non è mai scesa a compromessi troppo volentieri. Il tutto nonostante quel Tora! Tora! Festival organizzato dallo stesso Agnelli nella prima metà dei Duemila per dare visibilità ulteriore a buona parte di quel mondo musicale indipendente. Tanto che nel 2009, quando sono ormai un organismo pensante senza più radici da estirpare, gli Afterhours scendono a patti col “Diavolo”, ovvero il festival di Sanremo. E’ ancora il leader della band milanese a parlare, ricordando le ragioni che hanno portato il gruppo a quel gesto: «Ho sempre vissuto i limiti della cosiddetta scena indipendente molto male. Mi sono sempre sembrati un peso, in rapporto alle possibilità creative o alle esperienze di vita che può fare un musicista. La partecipazione a Sanremo è stata un atto liberatorio, in un certo senso. E poi ne abbiamo approfittato per fare una cosa secondo me sensata, ovvero l’operazione Il paese è reale, dando rilievo più al progetto in sé, che al marchio Afterhours. E’ un po’ il principio che regola il lavoro di artisti come i Flaming Lips, band che alla fine è diventata una scusa per mille progetti diversi. In questo senso, vorremmo che gli Afterhours diventassero una sorta di megafono per situazioni artistiche che ci interessano». E siamo al presente, ovvero l’edizione Remastered and Reloaded di HPDB?. La parte più curiosa di tutta l’operazione è ovviamente la seconda, ovvero il disco di cover in cui artisti come Mark Lanegan, Afghan Whigs, Damo Suzuki, Luminal, John Parish,

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Il teatro degli Orrori, Eugenio Finardi, Edoardo Bennato, Bachi da pietra, Le luci della centrale elettrica (e molti altri) danno una propria interpretazione dei brani originali del disco. Riletture a volte sorprendenti, che aggiungono un senso in più e una motivazione forte a quella che, alla fine, è inevitabilmente anche un’operazione commerciale: «con quel disco abbiamo organizzato una piccola festa. Pensavamo che non sarebbe venuto nessuno e invece alla fine si sono presentati tutti e abbiamo finito le tartine. A parte le battute, gli artisti coinvolti hanno risposto alla chiamata con entusiasmo e la cosa ci ha reso molto felici, al di là del risultato musicale. Il fatto che questi musicisti si siano messi in gioco cantando in italiano canzoni di un gruppo non certo noto, non era così scontato. Tra l’altro sono tutti personaggi che hanno fatto la storia della musica molto più di noi, e questo ci rende ancora più orgogliosi. Abbiamo cercato di contattare persone con cui avevamo collaborato nel tempo, senza stare a pensare a chi sarebbe potuto essere più bravo a interpretare i brani del disco». L’appendice alla nuova edizione di HPDB? è ovviamente un tour dedicato che dal 14 marzo 2014 (data zero al Vox di Nonantola lo scorso 7 marzo) toccherà un po’ tutta l’Italia. Curioso e sui generis anche quello, dal momento che i concerti saranno incentrati sulla riproposizione fedele della scaletta del disco originale, con tanto di chitarre, amplificatori, arrangiamenti e suoni dell’epoca. Una sorta di spettacolo teatrale in forma di live a cui parteciperà sporadicamente qualche ospite e che dimostra ancora una volta come la band milanese abbia mantenuto, nel tempo, una certa ironia di fondo e la voglia di osare: «abbiamo sempre cercato di fare dischi», dice Manuel Agnelli «pensando a cosa avremmo voluto fare come musicisti e non a quali avrebbero dovuto essere le nostre urgenze professionali. Da questo punto di vista, io non mi sono mai pentito» Intervista a G iorgio P rette

Nel pomeriggio, sempre durante la nostra trasferta milanese, abbiamo avuto modo di chiacchierare per una ventina di minuti con Giorgio Prette, batterista degli Afterhours. Uno scambio proficuo da cui sono emersi ulteriori dettagli relativi al periodo in cui la band pubblicò HPDB?, oltre a qualche riflessione a ruota libera. Che musicisti e che persone eravate ai tempi di HPDB?? La situazione della band era abbastanza particolare. Venivamo da Germi, il primo album cantato in italiano, in seguito al quale ave-

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vamo visto i primi segnali positivi, anche in termini di interscambio con il pubblico. Eravamo molto motivati. A livello personale, invece, era un periodo di crisi e di scelte radicali. Ai tempi vivevamo in un limbo, in cui eravamo costretti a fare qualsiasi tipo di lavoro per stare a galla, pur essendo anche musicisti. E quindi abbiamo dovuto scegliere, con tutti i rischi del caso. Tutto questo, però, ha avuto un ruolo determinante nella genesi di quel disco. In questo senso, la multilateralità dei suoni e dei generi musicali di HPDB? è dipesa anche dal fatto che dentro quel disco avete voluto mettere tutto quello che eravate in quel periodo? Questo sicuramente. In più non c’era un’idea iniziale per l’album. HPDB? Ha avuto una fase germinale e di elaborazione molto lunga, quasi un anno e mezzo di lavoro, e le cose sono venute fuori poco alla volta. Nei Novanta venivate definiti come un gruppo indipendente/ alternativo. In generale, pensi che la definizione abbia ancora un significato oggigiorno? E cosa voleva dire, allora, essere definiti in quel modo? Non credo che oggigiorno quella definizione abbia ancora un significato. Quando abbiamo iniziato, posso dirti che c’era un circuito di persone accomunate da un certo tipo di attitudine e che non aveva paura di fare, nel senso che l’energia che aveva dentro non era indirizzata al diventare “famosi”. Ci si prendeva sul serio, ma più per un’esigenza interiore, che con l’aspettativa di una carriera vera e propria. Nel corso degli anni poi c’è stata un’evoluzione della scena, a partire dalle case discografiche indipendenti, passando per la stampa specializzata, i tecnici e le agenzie di booking, che forse ha portato un po’ tutto a cristallizzare e, soprattutto oggi, a guardare molto anche all’immagine. Del resto non essere influenzato dal contesto in cui vivi è molto difficile, soprattutto se sei un musicista giovane. Ai tempi di HPDB? da che tipo di musica eravate influenzati? L’idea che ci si fa guardandovi dall’esterno è che ognuno di voi avesse un proprio percorso, a cominciare dagli interessi in campo avant di Xabier… Tuttora il denominatore comune della band è la tradizione rock americana e anglosassone, anche se poi ognuno di noi, soprattutto all’inizio, aveva un retroterra musicale tutto suo. Io, per dire, ascoltavo i Police e a quindici anni fui fulminato dai Kiss e da tutta l’ondata New Wave Of British Heavy Metal dei primi anni ’80. Manuel aveva un percorso molto diverso, in origine, legato maga-

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ri più ai Velvet Underground e a Lou Reed. Io ero più vicino al punk, lui invece apprezzava di più il post punk. Crescendo, credo che gli ascolti comuni siano aumentati, come è naturale che sia. HPDB? è stato un disco che vi ha cambiato un po’ la vita. Vi ha anche dato la possibilità di lavorare con più tranquillità al successivo Non è per sempre, un album che, personalmente, ho sempre ritenuto più compiuto, a livello musicale… Sono d’accordo con te. E quello che dici è confermato dal fatto che mentre HPDB? ha avuto una gestazione molto lunga, Non è per sempre lo abbiamo chiuso, in mezzo a un tour, in cinquesei mesi e avendo già le idee chiare. Di certo HPDB? ci ha dato i mezzi per fare le cose con più serenità… Come giudichi il percorso della band fino a questo punto? Avete realizzato le aspirazioni che vi animavano in quei giorni? Da un certo punto di vista, ti posso dire che le abbiamo realizzate al di là di ogni aspettativa. Dall’altro lato, mi pare che il percorso che abbiamo fatto sia stato molto naturale, tanto che non cambierei niente. In realtà ho sempre avuto molta paura di una crescita di consensi improvvisa per la band, mi è sempre parsa una cosa controproducente. Anche perché di solito una crescita rapida significa acquisire un pubblico di massa che però, in molti casi, è fatuo. La storia del rock invece insegna che chi dura, lo fa perché riesce a crearsi una fan base fedele e con un buon ricambio generazionale. Male di Miele viene definita da molti come la Smells Like Teen Spirit italiana. Che lo sia o meno, ricordi da dove è venuto fuori il riff di chitarra elettrica? [ride, NdSA]. Dalle sue mani [indicando Manuel Agnelli, seduto lì vicino, NdSA]. Non ricordo aneddoti particolari a riguardo… Afterhours, Massimo Volume, ma anche l’ex CCCP Ferretti – solo per citare alcuni musicisti – sono icone anni Novanta che continuano a raccogliere consensi anche oggi. Credi che in un periodo di caos e di sovrabbondanza musicale come è quello che stiamo attraversando, voi possiate rappresentare, per qualcuno, una sorta di punto di riferimento stabile? Il fatto di rappresentare un punto di riferimento può far piacere, soprattutto se il discorso riguarda la sfera più emozionale delle persone. Quando qualcuno viene a dirti che la tua musica ha rappresentato qualcosa in un periodo della sua vita, è molto gratificante. D’altra parte, abbiamo sempre cercato di rifuggire dall’essere icone, perché non ci sentiamo tali. Non siamo una re-

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ligione, né una forma confessionale. E’ chiaro che in molta parte del pubblico c’è questo desiderio inconscio di cercare la ripetizione di quello che hai già fatto. Noi abbiamo sempre cercato di non ripeterci, invece, anche per rispetto nei confronti del pubblico e della nostra musica. Ovviamente la cosa ci ha sempre creato problemi. Prima citavi Non è per sempre (successore di HPDB?, NdSA): nei primi mesi successivi all’uscita del disco abbiamo ricevuto in mailing list una valanga di insulti; dopo quattro mesi, tutti avevano cambiato idea sull’album. Pensi che il CD Reloaded della nuova edizione di HPDB? possa aiutarvi a imporvi sul mercato discografico estero? In fondo avete coinvolto personaggi di primo piano a livello mondiale… Non lo so. Ti posso dire che nel realizzare quel disco, non ci abbiamo pensato. Quello del mercato estero è un discorso molto complesso… Milano nei Novanta è stata un faro per la musica indipendente italiana, con molti gruppi importanti. Quale credi sia la situazione, al momento? Credo che oggigiorno sia difficile che possano ripetersi situazioni di quel tipo, forse perché nel frattempo è proprio cambiato il mondo. Ora l’emergere di buoni gruppi è molto meno legato a caratteri geografici specifici.

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Nada Š Silva Rotelli

Piccolo spazio umano

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Ormai è ingeneroso e fuori luogo ricordarla per "Ma che freddo fa" e "Amore disperato", visti i risultati raggiunti in una carriera nella canzone d'autore iniziata pienamente nel '99. Un'intervista alla cantante su presente e anche un po' di passato. Testo di Giulio Pasquali

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In occasione dell’uscita del nuovo album Occupo poco spazio, abbiamo intervistato la cantante livornese per parlare un po’ del disco realizzato insieme al produttore Enrico Gabrielli e a un gruppo di musicisti appartenenti al giro dell’indie (e dintorni) italiano. Un giro nel quale la Nostra risiede ormai stabilmente fin da quando nel ’99, con Dove sei sei, diede inizio a una nuova fase della sua carriera – passata per L’amore è fortissimo e il corpo no (2001), Tutto l’amore che mi manca (2004), Luna in piena (2007) e Vamp (2011) – che da allora l’ha vista in equilibrio tra Sanremo e canzone d’autore (con quel disco andò anche al Festival), tra indie e melodia, a guadagnarsi una stima crescente da parte dei musicisti che, ora come nei dischi precedenti, suonano con lei. Partiamo dal nuovo disco in uscita, e partiamo proprio dal titolo: avevo letto che Luna in Piena (2007) volevi intitolarlo Mi dondolo in disparte: questo Occupo poco spazio mi sembra simile, c’è un’affinità… Sono molto coerente (ride, NdSA). Ti sei presa una rivincita, hai detto “stavolta lo intitolo come voglio”? No, no (ride, NdSA), non è così. È perché, sai, ho 300 milioni di idee, poi magari le persone che mi stanno vicino mi danno consigli e a volte forse hanno anche ragione, io sono un po’ troppo esagerata. Luna in piena era comunque un titolo che mi piaceva, altrimenti non l’avrei messo. Ma appunto, Occupo poco spazio è proprio coerente. Se è per questo, ho anche cantato “sono un oggetto senza valore” (Tutto l’amore che mi manca, 2004, dall’omonimo disco, ndSA), quindi c’è un percorso tutto in un certo senso… Infatti vedo proprio un percorso del genere, da “lei non parla mai, lei non dice mai niente” (Senza un perché, 2004) ad altre… Beh sì: al di là di un po’ di ironia, che ci vuole sempre, le cose hanno dietro un loro perché, no? Il mio modo di pormi, il mio carattere, il mio modo di essere, di muovermi, di fare, insomma mi sento così. E però devo dire che da quando mi sento così, mi sento anche meglio, perché se uno è consapevole di occupare un piccolo spazio in questo grande caos generale che è il mondo, quello spazio diventa molto importante. Cominci a curare proprio tutte le cose che hai, le piccole cose, le persone, il lavoro, tutto quello che è il tuo mondo, perché in un piccolo spazio c’è un mondo intero. E poi, curando tutto questo, so che sono nel mondo, collegata con il resto, però consapevole che in fondo siamo comunque una piccola cosa…

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© Silva Rotelli

C’è questo, dietro ai ritratti femminili che stai mettendo insieme da molto tempo, forse già da Dove sei sei o forse anche da prima? Mi pare che ci sia un percorso coerente. Anche nei tuoi libri, vedo uno stare ai margini che non so se sia solo femminile o se, in generale, sia proprio di una certa attitudine verso il mondo. In parte mi hai già risposto… Mah, queste sono le cose che mi vengono, che scrivo, che sento, che fanno parte un po’ del mio modo di essere nel mondo, di vivere: non solo la musica, ma tutto il resto. Che poi nella musica entrano tutte le altre cose, anche se per me il lavoro è molto importante, mi prende, fa parte della mia vita. Non dico che sia l’unica cosa, ma insomma è molto, perché questo è un lavoro che io faccio in prima persona su tutto, che mi piace, che mi appassiona, quindi è il mio mondo, il mio piccolo mondo, però per me è grande. Da questo nascono un po’ tutte le cose: i miei pensieri, le mie storielle – al femminile, naturalmente, perché chiaramente essendo io una donna, è il mio punto di vista, e poi comunque mi viene più naturale. Anche quando scrivo i miei libri mi dicono sempre che sono storie di donne, eccetera…ma io a questo penso

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sempre dopo, non mentre scrivo, perché di solito non mi do un tema che sono così brava a svolgere: quando scrivo, le cose escono come un fiume, un’urgenza, qualcosa che ti viene, e che è bello, appassionante. Però, ripensandoci, credo che la figura femminile forse mi permetta di raccontare più cose: noi siamo esseri un po’ complessi, tutto sommato, noi vogliamo guardare… quando la cosa è finita noi vogliamo andare un po’ più in là, cerchiamo sempre qualcosa più in là, non ci accontentiamo. E questo forse mi dà la possibilità – senza nulla togliere all’uomo, eh, per carità – di raccontare così, a livello intimo, di percorsi, di dubbi, di ansie, di un sacco di cose. E queste storie di Occupo poco spazio sono tutte storie molto dirette, anche crude, senza girare intorno alle cose. Ma perché a me piace così. Penso che in una persona la cosa interessante sia quello che realmente è quella persona, anche nelle difficoltà, anche nella ricerca, anche nella sofferenza, nell’ansia, nel dubbio; perché di solito, specialmente in questi tempi, uno si deve sempre nascondere dietro alle cose, deve sempre essere bello, perfetto. Io che non sono così ma invece da sempre, dicono i miei amici, sono disordinata, incasinata, non curo mai magari un certo tipo di aspetto, voglio cercare nelle

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persone e nelle cose la verità, che è la cosa più bella e più forte, una cosa che ti arricchisce e che ti fa stare bene. Allora anche le mie storie, queste donne, le metto a nudo senza paura di raccontare le fragilità, le debolezze, le difficoltà. E quindi ecco che vengono fuori queste storie un po’ così… Senza gentilezze ma con verità, come dicevi in Guardami negli occhi (1999)… Eh sì, “non voglio gentilezze solo verità”. Vedi, (ride, ndSA), già da allora. Alla fine è così… Insistevo su questo discorso del femminile perché, appunto, l’ho visto nei dischi, l’ho visto nei libri, ho visto un’analisi che culmina in quel testo che nel libro si chiamava Rosario e che come canzone è diventata Le mie madri… È il mio pensiero, peccando un po’ d’immodestia (ride, ndSA). È questo, quindi racconto così. Il nuovo disco ha questa particolarità del gruppo che ha suonato tutto insieme. Rispetto al disco precedente, che era un disco più “toscano” per luogo di registrazione e musicisti, questo pesca da tutta Italia. Cosa mi puoi dire della decisione di come registrarlo, di far suonare il gruppo praticamente live? La particolarità non è stata registrarlo insieme, perché anche Tutto l’amore che mi manca l’ho registrato in studio con il gruppo: abbiamo fatto prima le prove, poi abbiamo registrato. E anche Luna in piena. La particolarità sta nella formazione, questa piccola orchestrina che suona con arrangiamenti un po’ sinfonici, un po’ punk, un po’ rock, un po’ classici, questo misto di strumenti, di sonorità: questa piccola orchestra che interagisce con la canzone, che diventa parte della storia, del racconto, delle emozioni, delle visioni che ti dà e che ti evoca una canzone. È questa la cosa particolare. E questi musicisti, tra l’altro, li conosco tutti, perché ci si incontra: facciamo parte dello stesso giro musicale, per cui si fanno i concerti negli stessi spazi. Li ho incontrati mille volte e a loro piace molto quello che faccio, lo conoscono tutti quanti, e mi hanno sempre detto che avrebbero voluto fare qualcosa con me. E allora, quando è arrivato il momento, li abbiamo chiamati, con Gabrielli, che è un arrangiatore, un musicista vero, completo, che conosce la musica: tutti i tipi di musica. È questa la cosa bella, perché il mio disco non è un disco classico, pur essendoci un’orchestra. Però non può neanche essere chiamato un disco rock: c’è un po’ un misto di cose che nasce da Gabrielli. Lui è uno che sa quello che fa, che conosce anche la

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musica punk, che riesce a dare questi colori, queste sferzate. L’esigenza è nata da me, mentre scrivevo le canzoni, perché sentivo che queste storie avevano bisogno di strappi, di suoni, di rumori, di cose un po’ diverse: un pochino più ricche, ma non troppo. E allora, poiché scrivevo anche frasi musicali che accompagnavano la canzone e ne facevano parte, mi sono messa a fare qualche prova un po’ da me. Ho buttato giù tante frasi, tante cose, poi quando ho chiamato Enrico, l’idea gli è piaciuta, ha capito bene il progetto e si è messo a lavorare in questo senso. Abbiamo fatto un lavoro molto lungo (è durato un anno), per riuscire ad arrivare a una sintesi del genere. Però è stato bellissimo, come fare un film: montavamo, smontavamo, spostavamo, ci passavamo la palla in continuazione. Poi quando è arrivato il momento, abbiamo pensato che l’unico modo fosse quello di entrare in studio e di verificare tutto lì, ascoltando. Facendo cose al computer, parlando, ti sembra di arrivare a un risultato, però finché non verifichi sul campo… Non è stato come negli altri dischi, in cui si poteva fare una prova con chitarra basso e batteria col computer e realizzarla. Qui c’è proprio tutto un intreccio di arrangiamenti e di strumenti. Dopo questo lasso di tempo abbastanza lungo, siamo andati in studio e lì abbiamo capito che l’impostazione era giusta, che era quella che io cercavo. Enrico ha capito benissimo, anzi, ha migliorato il tutto, facendo un lavoro veramente eccezionale. Le canzoni comunque le avevi già finite quando hai contattato Enrico o lui è in qualche modo coautore? Sì, le avevo finite tutte: un paio le ho tolte, ne ho fatta un’altra, ma il progetto era tutto chiaro in testa. Avete lavorato un po’ in pre-produzione e poi siete andati a suonare, dunque… Sì. Abbiamo anche ascoltato tanta musica, ci siamo mandati reciprocamente tante cose: non per copiare, ma per cercare di capire da che parte andare. E questa è una cosa che a me piace tantissimo, questa ricerca, quando incontri un altro te e tutto diventa un rapporto umano, bellissimo, che ti aiuta a capire altre cose: è un lavoro molto interessante… Stilisticamente, nelle melodie del disco, ho sentito qualcosa della tua fase precedente, a volte gli anni ’60, a volte gli anni ’80. Proprio nella composizione, più che nell’arrangiamento. Vista da fuori, la tua carriera sembra divisa in due parti, più o meno da Nada Trio (il disco del ’96 registrato con Fausto

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Mesolella e Ferruccio Spinetti degli Avion Travel in cui Nada rileggeva in una nuova veste alcuni suoi classici, ndSA). È una semplificazione: sono sicuro che tu vedi molta più continuità tra le due fasi, non questo stacco netto. Eppure da lì in poi, soprattutto dal ’99, è come se fosse iniziata una nuova identità: forse qualcosa c’era già in L’anime nere (1992), però da fuori sembra che Nada Trio sia stato lo spartiacque. E mentre nelle canzoni dell’ultimo disco ritrovo qualcosa della prima parte della tua carriera, mi pare che la seconda fase della stessa abbia un prodromo in Ho scoperto che esisto anch’io (il disco del 1973 scritto da Piero Ciampi, ndSA)…. Esatto. Lo stavo dicendo. Diciamo che a parte i miei esordi, che ormai si conoscono bene, ho ricominciato con il disco di Piero Ciampi. E lì ho preso un po’ coscienza di quello che stavo facendo, di quello che ero (ride, NdSA), della musica: con Ciampi si è aperto un mondo e da lì ho cominciato, ho fatto cose più o meno giuste, sempre alla ricerca di qualcosa, anche se non era facile per me riuscire a fare quello che volevo dopo aver avuto un successo come quello che ebbi agli esordi, dopo quello che ero diventata nell’immaginario dei discografici e degli addetti ai lavori. Abbattere certe cose è stato piuttosto difficile. Il mio percorso, però, è cominciato lì. Poi sicuramente da L’anime nere, che ho faticato a fare, perché nessuno mi credeva. In più ero anche una donna e così quando scrivevo, raccontavo e mi mettevo in gioco, ci sono sempre state maggiori difficoltà. Non è che voglio fare un discorso femminista, però è la verità. A un certo punto, diciamo da Dove sei sei in poi, ho cominciato ad essere finalmente quello che volevo essere. Forse ancora non c’ero riuscita, dal punto di vista espressivo ma anche della fattibilità. Poi da lì in poi ci sono sempre stata fino in fondo, in tutti i sensi. Quindi mi prendo tutte le responsabilità (ride, NdSA). Un breve accenno al discorso “femminile”: come ha fatto Ciampi a scrivere quei testi, così efficaci e belli nel dare un ritratto di donna? Che poi il ’73 era un periodo particolare, di cambiamento, nei rapporti tra i sessi ma anche nella morale comune. Un processo che era cominciato qualche anno prima, ma che negli anni ’70 era in pieno svolgimento… Quando me lo presentarono io non lo conoscevo; e quando qualcuno ebbe l’idea… Ennio Melis? …esatto; quando ebbe l’idea di farci incontrare per fare qualcosa insieme, la prima cosa che disse Ciampi fu: “io devo stare con que-

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sta persona”. Non fisicamente, dal punto di vista sessuale, ma nel senso di “devo stare un periodo con questa persona, devo conoscerla, devo sapere chi è per vedere se…”. Quindi, prima che lui scrivesse quelle canzoni, siamo stati insieme così, come amici e come vita in comune, per più di un anno. Lui si identificava molto, un po’ come faccio io. Come ti ho detto, mi piace vedere le cose dal di dentro, proprio quelle cose che uno tende a nascondere inconsapevolmente (o a volte anche consapevolmente) per cercare di non essere un peso, di essere migliore agli occhi degli altri, perché così si deve essere, perché così è più semplice. Lui proprio scavava in me, in un momento che per me era il momento della ribellione, della scoperta della vita e delle cose: avevo neanche 19 anni, quando ho conosciuto Piero. E quindi lui ha scavato in quel mio mondo, in quel mio carattere, e ha scritto cose che per una ragazza di quell’età erano abbastanza forti, abbastanza universali. Però era il suo modo, di vivere, di vedere le cose, di sentirle. Per me è stata una scuola fondamentale. E’ da lì che ho cominciato a dire: “o faccio le cose fino in fondo o non le faccio”. Ti può capitare, in genere, di cantare una bella canzone di qualcun altro. Un conto, però, è così, un conto è proprio scavare, sperimentare, scrivere, conoscere. Farlo, ti dà modo di conoscerti, di comunicare con gli altri, è tutta un’altra storia. Trovo che Confiteor, tra la tua performance, l’arrangiamento e l’esecuzione, sia un manuale per aspiranti musicisti. Grazie, ma era Marchetti il genio. Però incontrasti ostilità per quel disco… Sì, al momento in cui uscì sì. Poi nel tempo è stato un disco importante, molto rivalutato, anche dalla gente. Nel momento in cui uscì fu preso proprio male, mi dicevano “ma che stai facendo?”. Gli addetti ai lavori, i colleghi…? Sì, un po’ dal mondo della musica, e infatti non arrivò nemmeno alla gente, perché sai deve comunque passare attraverso di loro, non puoi andare porta a porta. Ora mi muovo in questo modo, però ai tempi no. E ai tempi non fu preso bene, era uno stacco piuttosto netto con quello che avevo fatto, e le cose drastiche, ecco, non sono per questo nostro Paese… A proposito di richiami, nel nuovo singolo, L’ultima festa, riprendi quasi letteralmente il testo di Asciuga le mie lacrime (2004), col suo discorso sulla musica come funerale di un certo tipo di umanità, ma chiaramente da un punto di vista diverso: cos’è cambiato in questi anni tra le due canzoni, tra i due punti di vista?

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Ma guarda, mi verrebbe da dire proprio quel che dico nella canzone: “questo mondo che sta morendo”. Allora era solo un po’ nell’aria, perlomeno avevamo solo una leggera percezione, mentre adesso ci siamo proprio dentro. Questa canzone probabilmente mi è uscita anche per questa ragione, perché siamo circondati da drammi, da una vita complicata, anche se io personalmente sono fortunata; però le cose le sento, le vivo, le vedo, mi toccano, mi fanno male. E allora quando uno si trova a scrivere, anche se non è proprio il mio stile scrivere canzoni di protesta o smaccatamente sociali, può succedere che escano canzoni così. Anche se poi il brano ha sempre una visione poetica, comunque. Io direi che sarebbe ora che questo mondo morisse veramente per rinascere. Ecco, in fondo è una canzone di speranza (ride, NdSA). Per concludere: andrai di nuovo in tournée coi Criminal Jokers? Sì, con loro e con altri musicisti: una viola, un trombone, per fare appunto il disco, per renderlo così, come è. Diciamo formazione del tour di Vamp con in più qualche aggiunta… Esatto. E quando parte? Il 22 marzo, con una fase iniziale in club e teatri. Ci vediamo lì.

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Genere: rock Non vi parleremo del disco originale di Hai Paura del Buio?: per quello c’è lo speciale che qualche tempo fa Stefano Solventi dedicò su queste pagine agli Afterhours (con tanto di trattazione singola degli album). Vi basti sapere che per chi c’era, in quel 1997, il disco rappresentò un punto di svolta, un’epifania inaspettata e violenta, la conferma definitiva per la “generazione x” dei Novanta che la lingua italiana poteva essere abbastanza malleabile per farsi rock “alternativo”, elettrico, sperimentale. Fu anche altro, quell’album. Ad esempio l’involontario vessillo di un indie nostrano allora emergente ma voglioso di confrontarsi ad armi pari (in questo caso, avendo le carte in regola per farlo) con la scena musicale mondiale. Il grunge era appena sfiorito e Agnelli e soci riuscirono a sintetizzare in quei diciannove brani così diversi tra loro, molti degli stimoli propagandati da Seattle (Male di miele divenne per tutti, a ragione o meno, la Smells Like Teen Spirit italiana), seppur filtrati da una sensibilità sarcastica, forse anche “provinciale”, eppure musicalmente coraggiosa. Di quel suono i Nostri diedero una versione personale, posizionata ai confini dell’Impero (estetico e stilistico), ma proprio per questo degna di essere indagata e forse persino innovativa. Per la band, HPDB? fu un turning point anche in termini di notorietà, con il successivo Non è per sempre a decretare una compiutezza sonora ancora

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maggiore e il precedente Germi – già ottimo di suo – reso suo malgrado obsoleto, se non nella sostanza, di certo nella forma. Senza alcun dubbio un disco di culto, che meritava un trattamento speciale. Trattamento che gli Afterhours gli riservano col solito mix di strategia e intelligenza, affiancando all’edizione “ripulita” del CD un secondo disco contenente i brani dell’album interpretati da altri artisti. Ennesima declinazione di quel ”tradirsi con rispetto” – in fondo l’usanza delle edizioni rimasterizzate rimane soprattutto un’operazione commerciale – di cui la band aveva già dato prova in occasione della partecipazione al Festival di Sanremo nel 2009, quando sfruttò il momento “scomodo” agli occhi dei fan più intransigenti per dare visibilità alla scena indipendente con Il Paese è reale. Intelligenza e strategia, dicevamo: la prima testimoniata dalla cura riservata alle riletture dei brani comprese in scaletta, un modus operandi che certifica la voglia di andare oltre l’autocelebrazione spicciola; la seconda esemplificata da un parco ospiti che in epoca social non può non far parlar di sé, vuoi per la presenza di prime donne internazionali (Mark Lanegan, Afghan Whigs, Joan As Police Woman, Piers Faccini, Nic Cester, John Parish), vuoi per il contributo di personaggi nostrani notoriamente lontani dalle cronache “indipendenti” (Piero Pelù, Edoardo Bennato, Negramaro, Eugenio Finardi). Queste le premesse. Nella sostanza, il CD Reloaded è tutt’altro che una semplice operazione di marketing. E’ invece un coacervo di spunti a volte riuscitissimi, a volte interessanti, a volte

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Afterhours - Hai paura del buio? (Remastered and Reloaded) (Universal,2014)


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dischetto. NB: il voto è riferito all’ “operazione remaster” e non prende in considerazione il disco originale. 7/10 Fabrizio Zampighi

American Authors - Oh, What A Life (Island,2014) Genere: pop “Plastificato ottimismo, bombastici cori alla Imagine Dragons, retorica all’americana, Glee-rock, ripugnanti laccate da spot-tv” sono solo alcune delle caratteristiche evidenziate nel descrivere gli American Authors all’interno della recensione del loro omonimo EP d’esordio uscito lo scorso anno. Avevamo lasciato i quattro “più conformisti dei Mumford and Sons“, riflettendo sul concreto rischio che potessero approdare al grande successo. A quattro mesi di distanza, il rischio sta lentamente trasformandosi in realtà, dato che in questi giorni la loro Best Day of My Life ha iniziato a scalare posizioni in classifica sia in USA che in UK. Dopotutto la loro è una formula infallibile nella più becera ottica radiofonica in cerca del motivetto fischiettante di turno. Oh, What a Life, l’album d’esordio post-The Blue Pages della band formata da Zac Barnett (voce), James Adam Shelley (banjo, chitarra), Dave Rublin (basso) e Matt Sanchez (batteria), eredita tutte e cinque le tracce contenute nell’EP – Believer, Best Day Of My Life, Luck, Hit It e Home – contornandole con una cornice se possibile di valore ancora inferiore. Sei tracce spudoratamente wannabe-hit: il singolo Trouble non è deplorevole nella strofa, ma perde ogni minima credibilità appena attacca il chorus “I knew she was trouble from the first kiss” su di un abusato veloce giro di banjo; Think About It stagna su coordinate fun.-pop sorrette dal classico e urticante drumming festaiolo; Love è semplicemente comica; l’ac-

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interlocutori. Qualche esempio: per una Punto G dei Bachi da pietra ribollente di uno stoner in fibrillazione (forse il brano migliore del pacchetto, assieme a Der Maurer + Le luci della centrale elettrica in una Simbiosi evocativa e arrangiata ai confini con la musica contemporanea) e un Damo Suzuki free e implacabile nell’iniziale Hai paura del buio?, c’è un Bennato ironico ma forse non perfettamente a suo agio in 1.9.9.6.; per dei Luminal senza timori reverenziali nel rivoltare come un calzino Elymania con un sound ossuto e malato e dei Fuzz Orchestra luciferini ben condotti dal theremin di Vincenzo Vasi in Questo pazzo pazzo mondo di tasse, ci sono un Sangiorgi dei Negramaro che poco aggiunge a Rapace e dei I Ministri didascalici in Sui giovani d’oggi ci scatarro su. Tra gli ospiti stranieri, le note di merito vanno a Nic Cester (Jets) per una Veleno quasi più potente ed efficacie rispetto all’originale (compito davvero arduo) e un John Parish al solito elegantissimo, chiamato ad arrangiare (magistralmente) lo strumentale Terrorswing; per gli altri, forse troppa disciplina in un cantato in italiano che non nobilita i brani scelti, eccezion fatta forse per il solo (e irriconoscibile) Mark Lanegan di Pelle. Le vere sorprese del disco, tuttavia, sono Eugenio Finardi (capace di “finardizzare” a dovere una Lasciami leccare l’adrenalina voce e pianoforte) e Piero Pelù (sì, proprio lui, bello comodo e al solito teatrale in una Male di Miele che lo veste a puntino), e non se la cavano male nemmeno Il teatro degli Orrori in una Dea naturale destinazione per la band di Capovilla e dei Marta sui tubi elettrici in Musicista contabile. Impossibile citare tutti i contributi. Alla fine dei giochi, comunque, l’operazione ci pare fondamentalmente riuscita. Va da sé che chi scoprirà Hai paura del buio? comprando questo doppio CD, troverà tutto quel che gli serve (e che ci pare davvero essenziale) già nel primo

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Genere: hiphop “Common sense, common knowledge and confidence“, ovvero quello che più è venuto a mancare nel mondo dell’hip-hop, dalla sua entrata nel music business. Quasimoto (aka Madlib), di certo, non è stato il primo a lanciare moniti, ma in ben pochi sono riusciti a mantenere quell’integrità morale e professionale tanto glorificata. Non è solamente questione di soldi o puttane, puoi riuscire a parlarne tranquillamente senza risultare ridicolo o in qualunque modo, idiota. Non è neanche una questione di provenienza, dove è altrettanto facile scadere nello sciovinismo di quartiere (quello spicciolo) quando si vanno a esaltare le proprie origini, soprattutto per chi confonde la contea di Coahoma per il Queens o Compton. In Piñata, il dualismo tra essere e appartenere è ben decifrato. Freddie Gibbs, dopo aver chiarito il concetto di g-life tra i suoi primi EP e Mixtapes, riporta in studio ciò di cui non si è mai pentito nella vita. Senza andare a citare i tre EP che hanno preceduto l’uscita di quest’ ultimo album (Thuggin’, Shame e Deeper), il rapper ha avuto modo di farsi conoscere nell’ultimo decennio grazie al suo flow sciolto e il tono imperativo, capace di riportare in auge quel g-funk andato perso negli anni Duemila, e che in tanti riconducono allo scomparso Tupac Shakur. Ed è proprio grazie alle caratteristiche vocali dello stesso Gibbs, che Otis Jackson (Jr., sempre Madlib), ha deciso di attivare la collaborazione. Poche persone riescono a sposare la propria voce sulle sue poliedriche basi, che per quanto multiformi, non sono affatto accessibili a chiunque (il capolavoro in Madvillainy, con MF Doom, risiedeva proprio in questo). Lungo le diciassette tracce che compongono il lavoro, c’è questo nostalgico quanto polveroso ritorno alle origini. La mano – ma soprattutto il campionatore – di Madlib si sente, anche perché come al solito riesce ad inserire in un contesto prettamente gangsta hip hop (dal punto di vista testuale), una moltitudine di generi, citazioni e breaks che variano tra atmosfere psych space (Bomb ft. Raekwon), struggenti re-interpretazioni prog high-pitched (Uno e Thuggin’, campione di quel che in origine proveniva dai Rubba e pezzo nel quale il rapper stesso non risparmia niente e nessuno, dove più di ogni altra traccia rende chiaro il concetto di gangsta-Gibbs) e quel soul tanto dreamy quanto melodico (Robes ft. Earl Sweatshirt and Domo Genesis, Deeper). I testi, d’altro canto, riportano a concetti auto-referenziali e già sentiti, ma il contesto – e soprattutto il background del personaggio – giustifica di per sé ogni esternazione. Si rimane confinati nei limiti di un uomo e nel suo modo di atteggiarsi, una sorta di Barry Gordy delle strade (rubando la citazione a chi ha poco merito al riguardo) che parla del suo rapporto con il verde (High ft. Danny Brown), delle ex amicizie (il diss rivolto a Young Jeezy, Real) o del modo d’affrontare le situazioni presenti e passate della vita (Shame ft. BJ The Chicago Kid, Knicks). A rafforzare l’album, infine, ci sono le collaborazioni: spaziano tra la vecchia scuola (Raekwon, del Wu Tang Clan) e la nuova (Danny Brown, Earl Sweatshirt, Domo Genesis, Casey Veggies, Mac Miller e diversi altri). Stupisce l’apporto di Domo Genesis, che conferma le capacità e l’inventiva emerse nelle sue precedenti uscite. Più che evidente il fatto che, presi singolarmente, i componen-

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Madlib - Piñata (Madlib Invazion,2014)


ti di Odd Future rendano decisamente di più che in branco, con Earl Sweatshirt e Casey Veggies (altri due esempi presenti in questo album) a confermarcelo. Lasciamo stare ogni scetticismo: Piñata è un’ottima alternativa per chi è stanco di doversi affidare al passato. La concretezza delle sue parole non logora le classiche basi alle quali siamo abituati da ormai vent’ anni, bensì le re-interpreta, rinvigorendole. 7.5/10

coppiata formata da Heart Of Stone e Ghost ci riporta alle peggiori meteore del teen-rock americano di inizio millennio, mentre la meno esasperante titletrack riconcilia l’ascolto su binari di un patinato trad-folk corale. Al netto dei singoli brani è facile inquadrare un disco come Oh, What a Life all’interno di una lunghissima schiera di prodotti USA and getta da dare in pasto a ragazzini aderenti ai più banali stereotipi da telefilm ambientati nelle high school americane. Gli American Authors né sono i primi, né saranno gli ultimi artefici di questo continuum culturale – in arrivo i Bad Suns di Cardiac Arrest e Bleachers con I Wanna Get Better – ma hanno l’aggravante di giocare talmente a carte scoperte da risultare detestabili fin dal primo impatto nel loro unire due dei flagelli della discografia odierna (i cori da stadio applicati al pop e gli ultimi risvolti della Age of Folk Prostitution) ad una banalità compositiva-melodica di difficile riscontro tra i colleghi di airplay. 2.6/10 Riccardo Zagaglia

Appaloosa - Trance44 (Black Candy,2014) Genere: psych, avant Il percorso degli Appaloosa è davvero ammirevole: in cinque dischi la formazione livornese ha perfezionato un suono strumentale ubria-

cante e vigoroso, mutuato in parti uguali sia da una dimensione live in cui la band eccelle – dimostrazione ne sono anche le numerose date dal vivo collezionate all’estero -, sia da un lavoro in studio ricco di stimoli diversissimi tra loro. Il quinto album della formazione fa forse quello che nessun disco prima aveva fatto, ovvero razionalizzare questi stimoli, cercando di cavarne fuori un mood coerente e riconoscibile, prima che destabilizzante. Un processo probabilmente influenzato anche dalla dimensione “intima” da cui è nato il tutto, con i soli Niccolò Mazzantini e Marco Zaninello a lavorare in pochi mesi sul materiale. Il denominatore comune, in questo caso, è rappresentato dai concetti di “trance” e psichedelia esplicitati dal titolo e dalla bellissima copertina del disco, un’ispirazione che snellisce il suono del precedente The Worst Of Saturday Night facendolo convergere verso un groove fumato, reiterato e senza troppe vie di fuga. Acido, come potrebbero essere un Gonjasufi ventimila leghe sotto i mari (Amigo Mio, Jerry), dei Chemical Brothers vagamente industrial (Barabba (Lu Re)) o magari un punk-funk muscolare evangelizzato da un Oriente sempre più vicino (la Deltoid con il feat. di Rico di Uochi Toki). Si respira un’aroma etnico sui generis, negli undici brani dell’album, con le poderose e ipnotiche linee di basso della band perfettamente integrate in una sorta di raga

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post-industriale (Trance44) imponente e magnetico, terreno e lisergico al tempo stesso. Considerata tutta la produzione della band, Trance44 si candida paradossalmente a probabile entry level per tutti quelli che vogliono avvicinarsi a questi suoni – di certo, ci pare il disco più “comprensibile” e omogeneo tra tutti quelli pubblicati – non perdendo, tra l’altro, un grammo del fascino legato al marchio Appaloosa. 7.2/10 Fabrizio Zampighi

Genere: elettroacustica, concreta, fieldrecordings, elettronica, experimental Le sleeve notes recitano “Recorded on Earth, 1987-2013”. E c’è effettivamente il mondo dentro questa complessa, impegnativa ma affascinante opera (uscita per le sofisticate Editions Mego, prolifica etichetta austriaca dal cui catalogo occhieggiano Fennesz, Russell Haswell, Prurient, Oneohtrix Point Never), ultimo frutto della collaborazione di lunga data tra due luminari della scena elettronica tedesca, Atom™ e Marc Behrens. Atom™ è il moniker principale di Uwe Schmidt, solo uno degli oltre cinquanta alias (con Señor Coconut tra i più fortunati) a cui il musicista di Francoforte trapiantato a Santiago del Cile ha fatto ricorso nella sua lunga e prolifica carriera (nel suo sito si contano 226 produzioni dal 1990 ad oggi), ma al quale si affida quasi esclusivamente negli ultimi anni per firmare le sue eclettiche produzioni. Solo per rimanere nel 2013, come Atom™ Schmidt ha fatto uscire per Raster-Noton lo splendido HD, neokraftwerkiana ode alle macchine e all’elettricità, la maestosa dilatazione wagneriana di Tristan Chord Studie, i due 12” contenenti i Radetzky Loops, decostruzione del valzer di Strauss

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Atom™ and Marc Behrens - Bauteile (Editions Mego,2014)

utilizzata per un’installazione artistica, e l’EP di minimal techno Physik 1 (Ostgut Ton) in coppia con Tobias. Marc Behrens è nome meno noto, ma anch’egli con una lunga storia di sperimentazioni sonore alle spalle, soprattutto in ambito field recordings e musica concreta. Amico e compagno di merende techno-acid francofortesi di Uwe Schmidt negli anni novanta, nel 1997 pubblicano insieme (come Atom Heart and Eyephone) l’album di abstract ambient Micropossessed. I due rimangono in contatto e, condividendo la stessa visione (“Noi postuliamo che ogni struttura musicale esista in una sorta di assenza di gravità storica e stilistica, e che quindi possa andare alla deriva attraverso le epoche”), continuano a collaborare (Behrens è nei credits di HD come additional programmer). Frutto di 26 anni di condivisioni, appunti, frammenti, Bauteile era stato originariamente trasmesso dalla radio di stato tedesca in versioni ridotte nell’ottobre 2012 e nel novembre 2013. La versione definitiva è ora presentata in un’unica traccia, lunga più di settanta minuti, che per essere indagata obbliga ad un ascolto attento e continuo, senza possibilità di skippare. Non si tratta tuttavia di un monolite uniforme: in esso si possono chiaramente riconoscere parti distinte (le “parti componenti” del titolo), spesso organizzate in vere e proprie songs (come ad esempio dimostrano i due estratti ascoltabili via Soundcloud sul sito Mego), collegate da un flusso narrativo che nel concatenare oggetti e frasi sonore del tutto disparate si esprime in un vero e proprio sincretismo pansonico. Bauteile è ambient non nel senso di musique d’ameublement, ma proprio come ambiente a sé stante, un’ecosistema grande quanto il mondo. E se il mondo è la tavolozza, i colori si trovano ovunque nello spazio-tempo. Domina una cosciente libertà d’azione nel processo


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suoni del mondo naturale, elettronico, musicale: un continuum di risonanze glitch, field, free jazz, swing, dub reggae, industrial metal, un moog debussiano alla Tomita, synth pad trance, drum machines, un’anziana suonatrice di cetra, l’elettroacustica sperimentale degli anni ’60, un basso slappato funky. Sipario. Navigazione a briciole di suoni: un flusso narrativo di puri significanti senza significato, affastellando registri ipercolti e popolari senza intenti enciclopedici. Bauteile è opera importante, che merita attenzione ed è in grado di appagare le orecchie più esigenti. Astenersi perditempo. 7.5/10 Alessandro Pogliani

Avey Tare’s Slasher Flicks - Enter the Slasher House (Domino,2014) Genere: pop, folk Ricordo che la prima volta che ascoltai gli Animal Collective pensai: gli animali sono gli strumenti, che di dimenano. Era un sottobosco strumentale che dava un senso collettivo e animalesco. In realtà non era un disco propriamente a nome Animal Collective: si trattava di Spirit They’re Gone, Spirit They’ve Vanished, inizialmente accreditato a Avey Tare e Panda Bear. Dave Portner da allora ha attraversato quasi tre lustri, in un certo senso ha anche visto consumarsi la vitalità del sottobosco, che ha avuto continuamente bisogno di rigenerarsi con i lavori solisti dei due Collective. Oggi prova a dare nuova linfa con una band vera e propria, grazie alla collaborazione con le corde (specialmente basse) di Angel Deradoorian (ex Dirty Projectors) e le pelli isteriche di Jeremy Hyman (dai Ponytail). Una coppia di certo non pacifica, che si accorda in maniera a volte pregevole (come senso di complementarità) con il talento da songwriter fanciullesco di Portner.

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di assemblaggio, che si sviluppa per libera disassociazione di idee. Proviamo a farne la radiocronaca? Il suono della puntina sul microsolco segna l’incipit. L’introduzione è ambient alla Steel Cathedrals di sylvaniana memoria, ma già a 1’30” le voci trattate e l’accordion spostano il tiro, ponendoci in territorio di confine tra Fluxus e Nurse With Wound: a 3’20” tra i frammenti emerge per qualche secondo anche il cha-cha-cha di Señor Coconut. Qualche minuto di noise ricorrenti organico-elettronici e intorno a 7’30” comincia a prendere lentamente forma la prima suite chiaramente Atomistica, culminante a 12’50” in una voce femminile che canta straniante e dadaista “I can go strange / but I can’t go wrong / ’cause my reason why / I’m singing this song / is you, oh you, just you, la la la”. Da 15’20” una serie di distorsioni larsen preannunciano l’allucinato hip hop “Copyright / Copyleft” (autoironico riferimento al coinvolgimento di Schmidt nell’ormai defunto progetto MACOS – Musicians Against Copyrighting Of Samples) e contenente un trip-interludio dominato dai suoni dell’armonica e dell’organo e interpuntato da effetti industrial e reminiscenze etno. A 23’50” comincia una nuova sezione, dove frasi di musica seriale post-dodecafonica (ospite il violinista portoghese Carlos Zingaro, grande improvvisatore d’avanguardia) passano attraverso hardcore e kraut (!), si risolvono in un improbabile valzer, per poi dissolversi nei suoni della natura (il bosco, lo stagno, gli animali), nella zona dei field recordings dove Behrens eccelle. E siamo solo a metà strada!Da 35’32” comincia a prendere forma una traccia industrial techno a 120 bpm, che nel suo procedere a singhiozzo trascina con sé disparati detriti noise. A 44’18” parte un nuovo Bauteil, incentrato su un folle indie-rock che mette insieme i Faust e i Dandy Warhols (“We are born that way”). A 48’34” si rompono tutti gli schemi, ed è la festa di tutti i

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Genere: rock, wave, folk Prima di parlare di Darlings, il nuovo album di Kevin Drew dei Broken Social Scene, occorre fare un po’ di cronologia. L’ultimo disco della band madre, Forgiveness Rock Record, risale al 2010; gli esperimenti Broken Social Scene Presents… sono da collocarsi ancora più indietro, con Spirit If… dello stesso Drew registrato nel 2007 e il successivo Something For All Of Us di Brendan Canning nel 2008. Poi, alcune dichiarazioni che hanno messo fine (anche se non in maniera definitiva) all’avventura del collettivo, a cui si sono succedute un paio di reunion dal vivo, nonché varie partecipazioni a progetti estemporanei. Tutto questo serve per chiarire che Darlings, nonostante la solita carrellata di ospiti e colleghi illustri – Charles Spearin e Ohad Benchetrit (Do Make Say Think, Broken Social Scene), Dean Stone (Apostle of Hustle), giusto per citarne un paio -, è il primo album nominalmente solista di Kevin Drew. Una premessa affatto trascurabile, vista la natura ubiqua e poliforme che da sempre caratterizza la formazione canadese: un disco che serve presumibilmente a fare il punto sul percorso compiuto fino ad ora, così come ad inaugurare una nuova identità – seppur ancora indissolubilmente legata al passato – di musicista e autore. Darlings si concentra infatti sulla scrittura, focalizzandosi su aspetti che riguardano la memoria, il tempo, la società, la vita: dodici canzoni che spaziano dall’auto analisi a descrizioni macro-sociali, con particolare attenzione a temi quali la libertà individuale e l’amore. Perno di tutte le tematiche, così come sintesi dei suoni e della direzione generale del disco, è senz’altro Good Sex, scelto non a caso come singolo di lancio. Un brano che, metodologicamente parlando, riprende per filo e per segno l’estetica del collettivo d’appartenenza (i già citati ospiti, l’esperienza aperta e slegata da qualsiasi imposizione), e che, in più, porta ad un livello successivo la stessa attitudine post, quella che ha reso la parabola dei Broken Social Scene una realtà musicale fondata su ricerca e sperimentazione. Good Sex è dunque un manifesto synth-wave che contiene in egual misura solennità e candore, magniloquenza pop-rock e stupore indie. L’approccio mischia sapientemente atmosfere e umori, alternandoli a grandi episodi di puro pop – ad esempio nei languori glam-soul di It’s Cool o nel robotico refrain di Mexican Show Party - a tappeti electro-wave, come dimostrano il crescendo irresistibile di You Gotta Feel It e le ritmiche leggere di First In Line. Quest’ultime evidenziano al meglio la facilità impressionante con cui Drew riesce a scrivere vere e proprie hit, rendendo l’album non solo incredibilmente coeso, ma anche pieno di potenziali singoli (Bullshit Ballad, Body Butter). Il tutto unito a melodie epidermiche e cura maniacale per gli arrangiamenti, anche se il vero valore di Darlings è un altro, ovvero la capacità di descrivere la realtà attraverso i testi, fotografando con le canzoni attimi di riflessione non soltanto personale e privata, ma anche psico/socio/sessuale. Il risultato? Brani in perfetto equilibrio tra forma e contenuto, plastici, sintetici, ma soprattutto liberi da ogni banalità e concessione al mainstream. A fine ascolto, quello che colpisce maggiormente è la sensazione di avere a che fare esattamente con il disco che Drew aveva in mente: in altre

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Kevin Drew - Darlings (Arts and Crafts,2014)


parole, un album complesso e leggero al tempo stesso, onesto e fortemente voluto. Darlings è “una celebrazione di ricordi, un’epopea dell’amore e del sesso, della crescita e della crisi, nella mia vita e nella società attuale. […] Spero che vi piaccia e se non sarà così datelo a chi potrebbe apprezzarlo”. 7.3/10

Un trio pop pieno di guizzi di nervi, come dice il nome della band. Niente a che fare con il guizzo calviniano, che dà senso a una situazione. È semmai il contrario, come fossimo in una sala d’aspetto di un manicomio, dove tutti e tre i pazienti fanno gesti ossessivi e compulsivi, senza una coerenza d’insieme. Gli animaletti sono insomma ancora gli strumenti, che regalano fascino non-sense. Peccato che la maggior parte delle scelte di scrittura vadano verso l’ostentazione del catchy, che non sempre riesce a reggere il peso del carrozzone. Più che scrittura verrebbe però da dire sceneggiatura, dato che Enter the Slasher House è una sorta di concept di pop psichedelico da horror movie. A partire dalla presentazione online: un sito web come si facevano una volta, pieno di flash, un sito-mondo fatto di kitch psichedelico, che si auto-distruggerà presto come i fogli dell’Inspector Gadget. Il parossismo che sembra seguire Avey Tare raggiunge vette pop con Little Fang, dove Portner sembra imitare Ariel Pink e i suoi “temi (per nulla) maturi”. Qui il catchy funziona e forse fa ancora meglio quando lascia spazio alle continue scariche di Jeremy Hyman (The Outlaw, praticamente come se i Talibam! facessero canzoni pop) o quando il basso di Deradoorian va in primo piano (Your Card). L’associazione a Pink ci porta a una considerazione, finale ma generale. Avey, così come Ariel, trova una via all’ipnagogico che si risolve in un pop-rock artificiale e modaiolo, pren-

dendo i due aggettivi senza connotazioni. Così come il glam nei Settanta nei confronti del rock da mass culture, oggi il rock più capace di non prendersi sul serio reagisce alla cultura hipster mainstream come fosse il glam del millennio inoltrato: guizzando come fanno gli Slasher Flicks. 7/10 Gaspare Caliri

Band Of Skulls - Himalayan (Pias,2014) Genere: rock, blues Proprio bravi i Band Of Skulls. Arrivati al terzo album in meno di cinque anni, la band inglese, con Himalayan, conferma tutte le belle cose fatte vedere con il precedente Sweet Sour, andando a migliorare praticamente sotto tutti i punti di vista. Blues rock fatto come si deve, quello della cricca dei teschi, che se in parte può richiamare la proposta dei Black Rebel Motorcycle Club degli esordi, ha in realtà come pilastro portante il martello degli dèi Led Zeppelin e lo stoner creolo dei Queens Of The Stone Age, a cui i Nostri strizzano l’occhio (Brothers and Sisters) senza scimmiottamenti o paraculaggine. Il cambio di produttore – si è passati dall’ottimo Ian Davemport all’ancor più bravo Nick Launay, già dietro ai mixer di Arcade Fire, Yeah Yeah Yeahs e Nick Cave and The Bad Seeds – ha dato alla band ulteriore spinta, donando a un sound già bello quadrato e robusto ancor più muscoli e nervi, che si sa non

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guastano mai. Il muro sonoro eretto dal trio di Southampton è veramente notevole, capace di resistere alle spallate di brani come Toreador, Asleep At The Wheel – scelto come singolo apripista – e Hoochie Coochie che, anche se non brillano per originalità, portano in dote riff e ritmiche caustiche e distruttive. Scusate se è poco. Anche le ballad Cold Sweat e Nightmares, dominate dalla voce della sempre brava Emma Richardson, convincono in pieno, dimostrando una maturità compositiva invidiabile. Album migliore della discografia del gruppo, Himalayan è granitico e impervio proprio come la catena montuosa da cui ha preso il nome. Se i Band Of Skulls continueranno a percorrere questi sentieri anche nei prossimi lavori, ne sentiremo ancora delle belle. 7.3/10 a p r i l e

Barzin - To Live Alone In That Long Summer (Ghost Records,2014) Genere: cantautori, folk Giunto al quarto album in oltre dieci anni di carriera, il cantautore canadese Barzin si ripresenta con To Live Alone In That Long Summer, disco che arriva a cinque anni di distanza dal precedente Notes To An Absent Lover. Barzin torna sulla scena senza aver cambiato una virgola della cifra stilistica che lo contraddistingue dagli esordi, ovvero un cantautorato pop-folk dolce e melanconico, teso, per sua stessa ammissione, alla creazione della canzone d’amore perfetta. Anche se ci troviamo di fronte ad un artista pressoché uguale a se stesso, dobbiamo ammettere che la formula continua a funzionare: una ricetta che, pur non facendo dell’originalità la propria carta vincente, è in grado di restituire all’ascoltatore brani ben costruiti, basati sull’intreccio di piano e chitarra acustica, e accompagnati da melodie tenui ma non banali, con in

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Giulia Antelli

Bottega Glitzer - Ding! (Leave Music,2014) Genere: jazz I Bottega Glitzer arrivano al disco d’esordio dopo l’Ep del 2010 Oh Baby, con un suono retro’ non privo di fascino. Anni ’40, jazz e dintorni e la voce della italo/svizzera Nadja Maurizzi a dare continuità a questo diario in stile Teche Rai. Si passa da atmosfere fifties americane mescolate ad arrangiamenti rocka-

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Andrea Murgia

più una voce convincente nell’interpretazione. Se i modelli di riferimento sono ancora il folk lento e introspettivo à la Mark Kozelek, oppure il pop onirico e ovattato in aria Mazzy Star, le canzoni appaiono più come appunti d’amore, piccole storie di speranza e delusione, racconti brevi e sospesi nella memoria. Ogni brano porta con sé un’atmosfera lieve ma densa d’intimismo, con testi lirici e personali, che, pur senza variare di molto, riescono a conferire all’album una grazia semplice ma suggestiva. Più che dai singoli pezzi, si rimane colpiti dalle atmosfere: difficile rimanere indifferenti di fronte al trasporto dell’opening All The While, così come al romanticismo solitario di Without Your Light. Episodi simili, ma comunque interessanti, in cui l’esperienza d’ascolto diventa un’occasione per lasciarsi andare al mood soffuso del disco, come dimostrano la pacata dolcezza di Stealing Beauty o l’incedere delicato di It’s Hard To Love Blindly. Il tutto può apparire come fin troppo romantico e perfino stucchevole, ed in fin dei conti, lo è. Ma anche senza sentirne il bisogno, lasciamoci cullare dalla grazia di un cantautore che ha fatto dello struggimento amoroso il suo punto di partenza, senza però rinunciare al buon gusto e alla capacità di scrivere gradevolissime canzoni. 6.6/10


billy da frontiera (Baby) a riletture del ragtime delle origini in salsa Trio Lescano (Tutte queste cose), da valzer minimali cantati in tedesco (Geh Nicht Fort) a certe atmosfere sognanti della prima St. Vincent (Abba), dall’Ornella Vanoni più sudamericana (Vieni qui) a certi tremolo ruffiani e domestici (Garden Of Cotton Hearts). Chitarra, contrabbasso, fisarmonica, batteria spazzolata, tromba e tutto quello che vi potreste aspettare da un disco come questo, contribuiscono a dar forma a uno sguardo musicale tanto elegante quanto fuori dall’attualità. Produce Fabio Balestrieri. 6.7/10

Cloud Nothings - Here And Nowhere Else (Wichita Recordings,2014) Genere: rock, indie A volte per svoltare basta la giusta idea unita ad una maggiore consapevolezza della direzione sonora da prendere. I Cloud Nothings ci sono riusciti con Attack on Memory assemblando le schegge disordinate dell’omonimo disco e fondendole con la fondamentale produzione di Steve Albini e con influenze indie-midwest emo di scuola Cap’n Jazz e The Van Pelt. Dylan Baldi e compagni però non ne hanno fatto solo una questione di stile ma soprattutto di canzoni: brani anthemici come Wasted Days, Stay Useless e Fall In o mezzi capolavori di genere come No Future/No Past non nascono se alla base manca l’ispirazione compositiva. Due anni più tardi, in un periodo di pieno emorevival (alla compilation 2013 andrebbero aggiunti i recenti lavori di The Hotelier, Sport, Modern Baseball e You Blew It!), la creatura di Baldi torna ad attrarre su di sè tutte le attenzioni mediatiche e gli apprezzamenti del proprio variegato target con Here and Nowhere Else, un nuovo otto tracce che conferma

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Fabrizio Zampighi

– nonostante l’assenza di Steve Albini in regia, sostituito da quel John Congleton già al lavoro sull’ultimo di St.Vincent – quanto di buono avevamo ascoltato in Attack on Memory (dal quale eredita anche l’artwork lo-fi in bianco e nero a sfondo architettonico). Anticipato dal dinamico uno-due formato da I’m Not Part Of Me e Psychic Trauma, Here and Nowhere Else rivela fin da subito (l’iniziale Now Hear In) una natura che, rispetto al disco precedente, predilige le accelerazioni all’urgenza emotiva. Funziona? Eccome: quando si ha un equilibrato binomio formato da velocità (resa possibile dallo sconsiderato drumming di Jayson Gerycz sulla sua minimale batteria) e melodia (Baldi conosce perfettamente il trucco per scrivere hook immediati) è difficile fallire, anche quando si è diventati un power trio a causa dell’abbandono del chitarrista Joe Boyer. Nella mezz’ora di suonato si lambiscono territori punk con l’attitudine slacker dei primi ’90, tagliata di volta in volta con l’alternative americano dei tardi eighties (il grandioso chorus di Quieter Today, ad altezza Hüsker Dü), l’indie sguaiato dei tempi che furono, abrasivo quanto fruibile post-hardcore (Giving Into Seeing), cambi di tempo (Psychic Trauma), finali di canzone spesso potenziati dalla ripetitiva intensità grungey e momenti di pura estasi quale l’ending assolutamente fuori controllo di Pattern Walks. Talvolta si scorgono minime dosi di autocitazionismo (la linea melodica di No Thoughts) e alcuni momenti in cui l’ottimo lavoro in studio sulle chitarre non sopperisce al 100% all’assenza di Boyer, ma per il resto, dopo il grande breakthrough di Attack on Memory, i Cloud Nothings non si sono lasciati scappare l’opportunità di essere non solo uno dei migliori gruppi da dare in pasto ai ragazzini punk degli anni Dieci (al Beacons, due anni fa, le prime due file


Genere: punk, noise C’era molta attesa per questo esordio lungo (se così si può chiamare un lavoro di otto tracce per un totale di 23 minuti scarsi) dei Perfect Pussy, gruppo dal nome assolutamente provocatorio di Syracuse catapultato sotto i riflettori di blog e webzine già dall’annuncio della firma con Captured Tracks. La domanda che tutti gli addetti ai lavori si posero qualche mese fa verteva, infatti, su cosa avesse trovato l’etichetta – storicamente più affine a band con suoni di ben altro tipo (Wild Nothing, Beach Fossils e DIIV) – di così eccezionale da scritturarli. Al momento della pubblicazione del disco esisteva solo il demo I Have Lost All Desire For Feeling che raccontava del – definiamolo così – tiro mancino della (ex) migliore amica della cantante che, in barba ad ogni remora morale, regalò una fellatio a quello che fino al giorno prima era ancora il suo fidanzato. Dopo un ascolto sommario del disco è abbastanza ardito tracciare un quadro entusiasta del prodotto, e per molte ragioni: la qualità del suono, che – si suppone per precisa scelta – rimane quasi del tutto simile all’impianto lo-fi della prima uscita su cassetta; Meredith Graves sembra una versione più aggressiva di Karen O degli Yeah Yeah Yeahs senza la componente melodica del suo repertorio; il suono non aggiunge nulla di quella miscela punk-hardcore che band come gli Hüsker Dü prima e poco più tardi i Fugazi già facevano, differendo al limite per un maggior affinamento in velocità e tecnica (si ascoltino i numerosi cambi di tempo in Bells). Fermarsi a un’analisi di questa risma, però, potrebbe essere un errore. La vera forza del disco risiede nei testi della Graves: taglienti, carichi d’acredine e frutto di una vita – la sua – fatta di pochi alti e tantissime cadute, passando attraverso eventi che hanno forgiato una tempra dura, in cui è difficile far breccia (e il titolo è in questo senso un grido disperato). E se nella traccia di anteprima, Interference Fits, si scopre come la causa di tutto ciò sia una storia finita male che le ha fatto sviluppare una sorta di pessimismo affettivo cosmico (in the same way a bulldozer studies an orchid / yes, i am a student of the teachings of love), negli altri brani l’autrice compie uno dei meno indulgenti percorsi di autocritica e di punizione mai messi in note finora, sia sul piano mentale (I have a history of surrender / part of a certain set of choices / found among the many paths / forged by lies i told myself, racconta in Driver), che su quello fisico (I’m young again, / consumed in bed by silks and pills / I’m twenty one again / not yet concerned with men, le parole tratte da Work). Questo quadro contribuisce a fare della leader un’eroina femminista atipica ma attuale, lontana da qualunque tipo di canone o stereotipo da prima pagina dei giornali (il riferimento è chiaramente rivolto alle Pussy Riot) ma certamente più legato alla quotidianità; una sorta di Kurt Cobain dei nostri tempi, con le dovute differenze. Say Yes To Love rappresenta così un manifesto preciso della maggior parte delle situazioni che una donna – ma non solo – vive in questa società dalle relazioni liquide che sono prerogativa della generazione under trenta. Per tutto ciò, con la traccia (cantata) finale Advance Upon The Real, è proposta la più nichilista, atarassica e immediata delle soluzioni: farsi da parte, rinunciare ad amare, sapendo dal principio come andrà a finire. Eppure – data la totale disaffezione per il genere

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Perfect Pussy - Say Yes To Love (Captured Tracks,2014)


maschile, visto come totalmente anaffettivo – perché non provare a vedere fin quanto può durare? In mezzo alle sue parole (e rimenzionando il titolo) si scorge comunque la volontà di cambiare idea, anche se è ben nascosta. 7.3/10 Andrea Forti

avevano un’età media di sedici anni), ma anche i credibili eroi di tutti gli adulti affetti da una forma più o meno intensa di sindrome di Peter Pan. 7/10 Riccardo Zagaglia

Genere: avant, funk, elettronica, fusion Nomi conosciuti e apprezzati dagli appassionati di quella che viene a volte erroneamente etichettata come avanguardia, Colin Edwin e Lorenzo Feliciati uniscono le forze in Twinscapes. Entrambi bassisti – il primo ha legato il suo nome alla formazione inglese dei Porcupine Tree e il secondo a Naked Truth e Berserk! –, i due musicisti si districano tra funk, jazz e ambient, sintetizzando la loro proposta in una sorta di fusion quasi cinematografica, spogliata in questo caso di inutili virtuosismi ed orpelli. Accompagnati dagli ottimi Nils Petter Molvaer, David Jackson (Van Der Graaf Generator), Andi Pupato (Ronin) e Roberto Gualdi (Premiata Forneria Marconi), Feliciati e Edwin si mostrano ben affiatati, come nel caso di una Breath Sketches in cui duettano senza pestarsi i piedi e senza smanie di protagonismo. Coordinati in sala di registrazione da Bill Laswell – versatile titano del basso, centinaia le sue collaborazioni -, i due bassisti sfornano un buon prodotto il cui demerito maggiore è

Andrea Murgia

Dan Sartain - Dudesblood (One Little Indian,2014) Genere: garagerock A suo tempo sopravvalutai un pochino Too Tough to live, ottimo disco Ramones ma a detta dello stesso Sartain catalogabile come falso d’autore, episodio a cui un paio di mesi fa ha fatto seguito un altro divertissement, He Touched Me, acustico di sole cover uscito lo scorso gennaio e disponibile in formato digitale. Ora però è il momento di tornare a fare sul serio. Esce ancora per One little indian Dudesblood, reintroducendoci a quell’eclettismo musicale che continua a essere la miglior caratteristica di Dan. Un esempio su tutti? Marfa lights, un country western in salsa space age in cui troviamo alla marimba il batterista degli X Dj Don Bonebrake. Va bene che gli X erano i punkers più rockabilly dell’epoca, ma l’accostamento ha comunque una certa inventiva. Poi si prosegue. In dieci tracce c’è: anarco punk inglese, trash garage, l’hardcore figlio degli Hot Snakes più synth, l’Elvis di Moonlight Swim rivisto con gli

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Colin Edwin and Lorenzo Feliciati Twinscapes (RareNoise,2014)

forse una certa prolissità – una forma più snella sicuramente avrebbe giovato all’ascolto – che però non intacca la bontà di un progetto in cui si rilevano ottimi spunti (la già citata Breath Sketches, ma anche i-Dea e Shaken) utili per capire in che direzione andrà una certa fusion del futuro. 7/10

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occhi di Burt Bacharach, per finire con l’amore noir di Pass this on, cover dei The Knife che giunge un filino in ritardo per la colonna sonora di True Detective. Insomma, tante maschere dietro le quali si cela la solita capacità di centrare il giro perfetto e magari anche il suo vero volto, quello di un cowboy con la passione del lo-fi e del rock’n'roll che spunta fuori in Rawhide moon, episodio che si riallaccia al passato di Drama Queen confermandosi luogo privilegiato in cui tornare e sentirsi a casa. Ma non fraintendete, il punto qui non è togliere i veli, quanto farsi ammaliare dal trasformismo di un vero outsider della musica contemporanea. 7.3/10

De Lux - Voyage (Innovative Leisure,2014) Genere: pop, wave, disco Tutto diresti, tranne che i De Lux vengano da Los Angeles. Da New York, magari, per quel modo di sbiancare le poliritmie afro alla maniera dei Talking Heads, o più recentemente, dei Rapture. Oppure dalla Francia, per la leggerezza con cui trattano il funky o semplicemente perché Sean Guerin e Isaac Franco sono un duo che sa costruire pop song garbate e accattivanti. Voyage, da questo punto di vista stupisce per la naturalezza con cui sciorina brani dance fluidi, che rielaborano gli Chic con fare robotico, senza bisogno di maschere e ospiti di lusso. A proposito, c’è anche l’englishness degli Hot Chip. La si scorge soprattutto nell’opener Better At Making Time. In quell’electropop gommoso, nel cantato ironico, sopra le righe e vagamente surreale. Il punto, in casi come questi, è sempre dove si ferma il namedropping e dove inizia la personalità dell’artista. Perché è indubbio che talvol-

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Diego Ballani

Dead Cat In A Bag - Late For A Song (Viceversa,2014) Genere: rock, dark, blues, folk Tre anni fa l’esordio Lost Bags ci fece un po’ l’effetto di un’aspirina scaduta nel bicchiere di whiskey: qualcosa di stordente e improbabile ad un tempo, un intruglio che bevevi sulla spinta di motivazioni intrinseche e di un fascino insidioso, cupo, difficilmente catalogabile. Sembravano allora uno spaghetti western girato su pellicola ammuffita in un baule mitteleuropeo, con tutto il corollario di angosce letterarie ed estro balcanico. Col qui presente sophomore Late for a Song lo sembrano ancora, la calligrafia anzi è più incisiva, affondata nel solco tra astrazione cinematica e realismo sanguigno. Il quintetto torinese (con l’aiuto di un pugno di ospiti tra cui Valerio Corzani e Davide Tosches) dà fondo all’armamentario di banjo, contrabbasso, moog, lap-steel, armonium, violino, pianoforte, vibrafono, organo a pompa, fisarmonica, sega ad archetto e fiati vari per un viaggio che – sulla scorta del canto cavernoso e vibratile di Luca Swanz Andriolo – disloca il cinematico nel geografico e viceversa. Un carosello di fantasmi trepidi e ghignanti lungo quindici tracce dispersive e furibonde, crepuscolari e incendiarie.

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Stefano Gaz

ta il già sentito sia inevitabile: i De Lux hanno assorbito come spugne tutta la disco wave degli ultimi tre lustri e non mancano di farcelo capire. A volte però è come se tutte queste influenze si sovrapponessero in brani dalla personalità poliedrica. E’ qui che nascono ibridi psichedelici come Make Space, in cui i sensi si sovraccaricano, sollecitati da accesi cromatismi anni ’80 e da un citazionismo forsennato (si spazia dalla DFA ai MGMT) che finisce per farsi cifra stilistica. 6.7/10


Stefano Solventi

Dean Wareham - Dean Wareham (Sonic Cathedral,2014) Genere: pop, dream Prima ci sono stati i Galaxie 500, poi i Luna, Dean and Britta e ora, finalmente, dopo trent’anni di carriera, il primo vero album a nome Dean Wareham. Un eponimo, come a ribadire che un filo sottile ma evidente teneva e tiene insieme i progetti del musicista di origine neozelandese. Riconoscibilissimo, Dean, nelle canzoni di questo primo LP solista a tutti gli

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effetti. Appena una traccia in più rispetto all’EP Emancipated Hearts dello scorso anno e prodotto da Jim James dei Morning Jacket, Dean Wareham – l’album, e con esso il suo titolare – riesce con un’ottima percentuale di successo (quasi al cento per cento…) nel distillare l’essenza di un cantautore, dispiegando un ventaglio amplissimo di influenze e assonanze, di richiami a tutte le sue esperienze precedenti (il dream rock impressionista dei Galaxie 500, l’indie pop velvettiano dei Luna, i paesaggi sonori di Britta and Dean), e ricordando allo stesso tempo le caratteristiche uniche del suo stile: la voce, il tocco inconfondibile sulla chitarra, le abilità di melodista e la scrittura. Appunto, la scrittura, che non solo la produzione e il lavoro della band rendono in tutte le sue molteplici sfaccettature. A partire da Dancer Disappears, chitarra jangly gentile gentile e melodia semplice che sanno di un abbraccio tra gli anni ’60 dei Velvet e dei Byrds e gli anni ’80 dei Cure e dei New Order e, naturalmente, dei Galaxie 500 (per arrivare ai ’90/2000 dei Notwist). Melodie brillanti nella loro limpidezza e linee armoniche di un candore trascendentale risaltano, più ancora che nelle strutture, nelle sfumature, nel twist inaspettato che imprimono pennellate come l’assolo psichedelico di Beat the Devil in un’atmosfera pastorale da Mercury Rev, il finale jazzato di Heartless People, il volo alla Pink Floyd gilmouriani di Love Is Not the A Roof Against the Rain (quando l’inizio sola voce e chitarra ricorda piuttosto Nick Drake e Neil Young), l’altro solo di chitarra nervosa di Only Pattern (che più Galaxie 500 di così si muore), o la reverie pop di Babes in the Woods. A metà tra indie e classic rock, un mélange musicale a tinte pastello con la qualità dolcemente onirica che abbiamo apprezzato in tutta l’opera di Wareham. Esattamente ciò che

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Detto di una The House of the Rising Sun che accompagna gli Animals su una frontiera esausta e squamosa, capita di sentirli mestare psicosi Nick Cave in un immaginario amniotico Calexico (la rarefatta Silence Is Not Pure), oppure incendiare sabbia paisley tra acidità dinoccolate Tom Waits (Ravens At My Window), o ancora farsi cogliere da una spossatezza d’anima che mastica malinconia a bassa fedeltà (quella All Those Things che sembra una outtake triste di Nebraska). Altrove incalzano in levare balcanico come dei cuginastri derelitti dei Gogol Bordello (Wanderer’s Curse), tra fatamorgane circensi che modulano il registro su malanimi impressionisti (la toccante Za póno na piosenk, la milonga a cuore nero di Once at Least) e pièce che rivoltano la solenne guittezza Cohen in nevrastenia Xiu Xiu (Old Shirt). Nè tradizionalisti né sperimentali, i Dead Cat In A Bag fanno musica che sembra esalare dalle ferite nascoste, dai viottoli dimenticati, dalle bettole in cui non entreresti, dai romanzi coperti di polvere, dalle emozioni per cui non sono state inventate parole, dalle vite che accadono dietro l’ombra dello spettacolo quotidiano. Suonano come se fossero la faccia scura del nostro scontento profondo. Il loro percorso si sta facendo interessantissimo. 7.3/10


Genere: indie Bisogna cambiare tutto per non cambiare niente. Non possiamo sapere se Martin Courtney abbia mai letto il Gattopardo, certo è che la celebre frase del capolavoro di Tomasi di Lampedusa si adatta perfettamente alla natura derivativa e circolare dei Real Estate, ed in particolar modo ad Atlas, terza prova con cui la band torna sulle scene dopo i tre anni passati da Days. Al terzo album, nulla è cambiato dall’esordio eponimo: le canzoni avanzano placidamente lungo i binari di una summer indie/pop/rock ormai diventata marchio di fabbrica dei tre del New Jersey. Una formula largamente consolidata e qui riproposta senza cambiamenti o evoluzioni di sorta, con il sospetto lecito e pertinente – per chi ascolta e per chi scrive – che i Real Estate siano giunti al capolinea in quanto a idee e ispirazione, riproponendo ancora e ancora la stessa versione, solo leggermente diversa, del debutto. Un debutto che, grazie alla solita spinta di “mamma” Pitchfork, li aveva peraltro lanciati nell’iperuranio dell’hype, generando attenzione e curiosità da parte dei magazine di mezzo mondo, tra cui anche il nostro. Dunque, tutto è rimasto uguale a prima, e per fortuna, verrebbe da aggiungere: i Real Estate continuano a fare quello che gli viene meglio, ovvero scrivere piccole perle di pop/folk semplice e minimale, placido e legato allo scorrere del tempo. Un tempo tutto personale e strettamente connesso alla memoria, ricorsivo ma quanto mai gustoso, lo stesso che Courtney celebrava in Younger Than Yesterday (da Days): “If it takes all summer long/ just to write one simple song/ there’s too much to focus on/ clearly there is something wrong.” Qualcuno obietterà che è troppo facile riproporre all’infinito la solita estetica di felicità e piccole cose, il medesimo quadretto di giorni spensierati e pomeriggi passati a suonare sulle spiagge del Jersey. Invece, basta ascoltare le sognanti chitarre retro-sixties delle iniziali Had To Hear e di Past Lives per accorgersi che un disco può funzionare semplicemente così com’è, senza alcun bisogno di orpelli e nuovi trucchi: Atlas è infatti la prova che i Real Estate hanno ormai raggiunto la maturità per capire cosa sono e cosa vogliono. Parliamo di una band il cui unico scopo continua ad essere quello di immergersi nella musica che più ama, riproponendo un spettro di riferimenti che, al solito, omaggia i Beach Boys e tutta la spensieratezza del surf-pop degli anni ’60, il rock della Bay Area e quell’estetica geek che aveva fatto già la fortuna dei Weezer. Tutto può sembrare derivativo e fin troppo citazionista, eppure le placide armonie di Talking Backwards, così come il mood post-adolescenziale di Crime, evocano alla perfezione quell’amarognola nostalgia che già si era vista con i primi due dischi, portandola però ad un livello successivo. Atlas è il disco di una band consapevole che scrive brani sull’ineluttabilità delle cose (il folk riverberato di How Might I Live, o il quieto refrain di Navigator), che guarda a un passato tenue, malinconico, a tratti sbiadito con la dolcezza e il distacco della maturità. La conferma di una cifra stilistica autentica e riconoscibile. 7.3/10 Giulia Antelli

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Real Estate - Atlas (Domino,2014)


ci si aspettava, ma nondimeno impeccabile. 7/10 Tommaso Iannini

Genere: house, 2-step Cresciuto tra Leeds e Manchester, a Huddersfield, DJ Q è uno di quei classici brit kid prodigio immersi nell’humus culturale-musicale UK fin dall’adolescenza. A 12 anni Q viene introdotto alla UK garage, a 16 anni entra nel giro dei party e appena va fuori casa, al college, firma le prime produzioni. Nel 2004 è il più giovane dj a presenziare a un programma su BBC Radio 1Xtra per sponsorizzare quello che è il suo credo, la bassline house (poi nota anche come 4/4), ovvero quella nascente scena che, in continutà con Uk e speed garage, e di sponda tra grime e dubstep, sta iniziando a promulgare quel classico sound trainato dai bassi che diventerà presto per le autorità sinonimo di gang culture, droga e violenza. Al tempo in cui il Nord dell’Inghilterra è in fiamme e la sua Hacienda è il Niche, Q cavalca l’ondata di queste produzioni, che non subiranno arresti durante tutti i noughties, sbucando e sbancando puntualmente nel mainstream UK. Il Nostro si inserisce nello streaming sia con il culto underground Love Like This, del 2004, sia con l’hit radiofonica You Wot! (del 2008, con MC Bonez), spaziando anche tra affini produzioni grime e house e pubblicando sempre in formato EP o singolo. Ineffable, lo dice già il titolo, è DJ Q che si misura, per la prima volta, con la prova della maturità, suonando alla generazione dei Disclosure e degli Aluna George uno sfavillante e lussuoso sound radicato nella spina dorsale della UK garage di quasi tre lustri. Ne viene fuori un disco di grande classe, una produzione da maestro e una varietà di stili (con richiami anche a french touch, MJ Cole e Todd

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DJ Q - Ineffable (Local Action,2014)

Edwards) che si confà ad un lavoro architettato con calma, il giusto respiro e gli ospiti giusti (la collaboratrice di lungo corso Louise Williams, la vocalist svedese Kassandra, Kai Ryder, Jayjayborn2sing e il grimer MC Discarda). Basta ascoltare l’opener Get Over You per capire quanto Q sia in grado di confezionare delle hit muovendosi tra passato e presente, house, bassline, lallazioni vocali, come dire dai 90s ai 10s e ritorno. Poi ci sono i tocchi produttivi: micidiale la bottiglia che s’infrange a terra e apre al giro di serpentine drum machine e synth (Two Faced) o il tocco french in Let The Music Play. E non dimentichiamo tutta la malinconia/nostalgia brit che taglia il disco come una mela, vedi Let The Music Play e Closer dalle parti di Katy B, con le guest Lousie Williams e Kassandra, oppure ancora Jassie, con Discarda and Jayjayborntosing su altre latudini ancora tra grime e ragga. Disco che non può mancare nella discografia di chi ama tutto un portato culturale UK garage britannico. 7.3/10 Edoardo Bridda

Eels - The Cautionary Tales of Mark Oliver Everett (E Works,2014) Genere: pop, rock Mark Oliver Everett, come tutti gli autori iper-produttivi (Woody Allen, Mark Kozelek, ecc.), deve saper tenere a bada la penna, fare i conti con i corsi e ricorsi storici e, soprattutto, confrontarsi con la possibilità concreta di sbagliare e di fare piccoli buchi nell’acqua. Ma il leader degli Eels lo sa fin troppo bene e, anche se almeno dai tempi di End Times (2009) i suoi dischi non sono più quelli di una volta, anche se l’acido solforico di Novocaine For The Soul non fa più rima con i Cautionary Tales di questo nuovo millennio, Mr. E riesce sempre a comunicare il suo sofferto vissuto come pochi altri.

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Genere: post-hc Praticamente c’è voluta una congiuntura astrale per vedere il debutto sulla lunga distanza degli Storm{O}. Nove anni di gestazione (la band nasce nel 2005), nove etichette a coprodurre il disco, un tipetto come Alan Douches al mastering già al soldo di Converge, Cannibale Corpse più un altro centinaio di gruppi, e un artwork d’artista curato da Luca Rento. Mancava solo il passaggio della cometa di Halley. Scherzi a parte, Sospesi nel vuoto bruceremo in un attimo e il cerchio sarà chiuso è un lavoro pienamente maturo, un possibile punto di riferimento in una scena post-hc nostrana che di questi tempi sta riscoprendo una certa vivacità (vedi Lantern o Marnero). L’idea è riannodare le fila dell’hardcore in due semplici mosse: punto primo e fondamentale, ritrovare l’isteria dei Converge, vomitare i riff di Kurt Ballou e restituire quella fisicità da sempre centrale nell’hardcore tutto. Punto secondo, innestare lo screamo/post- ’00 degli Envy riducendo al minimo gli orpelli, le partiture post rock (l’incipit evocativo di In volo è un fuoco di paglia), il minutaggio dei singoli brani, per spingere ancora sull’accelleratore con partiture math frenetiche sempre pronte al cambio di passo. Il risultato – come da titolo – manca di stabilità e di terra sotto i piedi. Si procede per spasmi, un susseguirsi di squarci violenti aperti e richiusi nel giro di pochi secondi – a dimostrazione che qui pesantezza e frenesia convivono benissimo – più intermezzi in cui prendono il sopravvento le angoscie emo, come in Perché la bambina cade. Per la cronaca, l’emo è del tipo tempo ed attimi mi scivolano tra le mani, cerco di afferrarli, stringo la presa. Sono come carta vetrata ed ottengo solo cicatrici e tendini sempre più evidenti. Continuate a chiedermi di far parte di qualcosa, l’intera mia vita il manifesto del vostro fallimento. Roba che sarebbe piaciuta anche ai Flipper. 7.3/10 Stefano Gaz

Undicesimo album in studio per gli Eels, The Cautionary Tales Of Mark Oliver Everett porta in sé l’immagine e il nome del titolare di un progetto decennale che si è nutrito della sua intensa vena espressiva (apparecchiata da un vissuto lacerante), pur risultando, in alcuni periodi, debitore verso alcuni fattori esterni non trascurabili. Ci riferiamo all’attività live che ha scosso la pausa post 2010 e ha contribuito a far maturare i sapori blueseggianti di Wonderful, Glorious, o anche alle velleità letterarie (a dire

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il vero, azzeccatissime) filtrate nel famoso libro di memorie. Elementi che, per forza di cose, hanno ridistribuito l’attitudine dello scrivano della Virginia. Questi Cautionary Tales, però, remano un po’ in acque burrascose. Recuperati dalla pattumiera degli scarti di Wonderful, Glorious (edulcorando il tutto, Mr. E parla di “process unconfortable” riguardo alla prima fase del progetto), questi tredici brani galleggiano più vicini alle atmosfere rilassate di End Times,

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Storm{O} - Sospesi nel vuoto bruceremo in un attimo e il cerchio sarà chiuso (Shove,2014)


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di una sterilità emozionale e di una ripetitività degli schemi, sminuirebbe la portata di un lavoro tutto sommato onestissimo. Non c’è l’acclamazione, ma moltissimo mestiere: la musica è fatta anche di questo. 6.7/10 Nino Ciglio

Elbow - The Take Off And Landing Of Everything (Polydor,2014) Genere: pop, rock Strano il mio rapporto con gli Elbow. Non li ho mai particolarmente amati, trovando sovraccarica la loro cifra espressiva e soprattutto limitata ad un mood grave che ne circoscrive drasticamente il campo d’azione. Insomma, non è una band da cui mi possa aspettare qualcosa di sorprendente, però è una situazione che ho accettato di buon grado. Ovvero, ho finito per rispettare la loro coerenza, la sincerità nell’insistere a fare quello cui evidentemente sono più portati. Diversamente non sarebbero stati credibili, perché il loro gioco si sostiene fintanto che riescono a tenere alta la temperatura del lirismo, una pozione a base di malinconia, atmosfera, inquietudine e vaga animosità. Tuttavia in tempi recenti ho piuttosto gradito la raccolta di b-side e rarità Dead In The Boot, forse proprio per la sua natura di compilation benedetta da una evidente disinvoltura rispetto ai loro standard, pur rimanendo Elbow-sound fino in fondo. Sarà per questo strascico favorevole che il nuovo lavoro The Take Off And Landing Of Everything – album numero sei a tre anni dal predecessore Build A Rocket Boys! – continua a sembrarmi apprezzabile. Di certo non si raggiunge l’intensità dei primi lavori, però ci sono meno pastoie stilistiche e maggiore agilità. L’impressione è che con la maturità le giunture si siano allentate, irrobustendo la consapevolezza che tenere premuto il gas ad oltranza può essere alla lunga contro-

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più che nelle vicinanze dei fuzz dei Novanta o del groove di Tomorrow Morning e Wonderful, Glorious. Quello che lascia un po’ spiazzati, a dire il vero, è trovare alcune derive musicali incredibilmente tradizionali, giocate tutte sulla ballad, su pochi accordi di chitarra o a volte di piano, con un sofficissimo backing di archi o fiati. Questo non significa che l’intimismo soffuso non sia una prerogativa di Mr. E, tutt’altro: il Nostro è da sempre un magnifico inventore di ninnananne, di atmosfere, di piccoli affreschi struggenti. È quello che succede in buona parte del disco, con un punto cruciale sul finale, quando Mistakes Of My Youth racchiude il senso intero dell’album: “I can’t keep defeating myself/I can’t repeating the mistakes of my youth”. È la natura stessa del problema ontologicoesistenziale che porta Mr. E a cautelare i suoni, a farsi riflessivo e poco o per nulla irreverente come un tempo. La ricerca di risposte si fa incessante: “è il mondo o sono io il problema”? Answers recita lenta e struggente la consapevolezza di trovare un significato alla più insignificante delle epoche della vita, anche se, aggiunge nel chorus, permetterà di far entrare tutti e tutti saranno i benvenuti: così si ottengono le risposte. E poi c’è il tema della perdita, che per uno come lui (padre, madre e sorella morti in tragiche circostanze), non può che essere portante in ogni lavoro. Qui la perdita pare volontaria, una perdita che causa rimorso e pentimento: “Everyday I live in regret and pain/You just don’t let that get away” (Kindred Spirit). In linea, forse, con la recente manipolazione del cantautorato di progetti come Beck, The National o l’ultimo Cave, The Cautionary Tales Of Mark Oliver Everett è un lavoro incredibilmente sofferto, che sconta un duro prezzo forse proprio a causa della sua sincerità. Nella lacerata dichiarazione a cuore aperto, il rischio

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Genere: pop La creatura musicale di Taylor Kirk è da sempre una realtà difficilmente catalogabile, uno strano mostro dai contorni indefiniti e dai mille occhi. Hot Dreams, il quinto album in studio dopo l’ottimo successo di Creep On Creepin’ On, riconferma la natura aliena e poliforme dei Timber Timbre, e il punto di partenza è ancora un cantautorato atipico che scava e ricostruisce nella tradizione americana. La strategia del gruppo è dunque una fortissima personalizzazione degli standard del pop, quello classico e senza tempo che da Elvis e Sinatra in poi ha creato un genere e un immaginario a sé stanti, un mondo parallelo e ultra decadente che i Nostri dimostrano ancora di maneggiare alla perfezione. Il lavoro di Kirk e compagni si concentra infatti sulla rivisitazione della propria nostalgia, e il risultato, anche se non perfetto, colpisce nel segno: i rintocchi incombenti di Beat The Drums Slowly introducono a un viaggio intenso e a tratti inquietante, immersi, ancora una volta, in quell’estetica notturna e immobile che da sempre caratterizza il suono dei Timber Timbre. Il tono è confidenziale, strisciante, a volte perfino claustrofobico: è, insomma, la cifra stilistica a cui siamo abituati, ovvero un pop derivativo e citazionista, ma del tutto spontaneo, che si concretizza soprattutto in sonorità black e soul, ma anche disco, come mostra Curtains?, pezzo che sembra ripescato dalla colonna sonora di un poliziesco degli anni ’70. Ma è soprattutto il crooning l’elemento più riconoscibile dell’album, declinato ora nell’organo sofisticato di Bring Me Simple Man o nell’orchestrazione fumosa di This Low Commotion, ora nello standard softcountry di Grand Canyon, debitore verso la classicità del miglior Roy Orbison. Una menzione speciale va alla title-track, un pezzo in grado di rendere Hot Dreams un disco comunque importante, e non soltanto un discreto intermezzo: accompagnato dal sassofono struggente di Colin Stetson, Hot Dreams non è solo la canzone migliore dell’album, ma un autentico capolavoro, che conferma come la scrittura dei Timber Timbre sia ancora in grado di evolvere verso qualcosa di nuovo ma allo stesso tempo profondamente classico. A dimostrarlo, chitarre avvolgenti, arrangiamenti cinematici, atmosfere seducenti e il fosco baritono di Kirk, per un brano che trasuda anima e desiderio, romanticismo e una sottile minaccia, “voglio seguire, seguire attraverso tutte le mie promesse e minacce per te, bambina”. Un’inquietudine sotterranea ma invitante, per un pezzo atemporale e definitivo, semplicemente splendido, emblema di un’intelligenza musicale sofisticata ed altamente evocativa. Se tutti gli altri brani fossero stati all’altezza di Hot Dreams, avremmo avuto uno dei dischi più belli degli ultimi anni. Anche se non è così, vale la pena ribadire l’alta qualità di questa prova, a testimonianza dell’enorme fascino che i Timber Timbre sono ancora in grado di esercitare. 7.5/10 Giulia Antelli

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Timber Timbre - Hot Dreams (Full Time Hobby,2014)


Stefano Solventi

Eloisa Atti - Penelope (Brutture Moderne,2014) Genere: cantautori, jazz L’odissea di Omero è il grande archetipo finito nelle mani di Eloisa Atti, che nell’occasione, mentre in copertina Penelope finge di tessere l’improbo sudario, appronta uno stile di canto teso sulle coloriture d’agilità del formato canzone(tta) pop(ular). Dopo le esperienze

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con Sur, in duo col fedelissimo Marco Bovi e al netto di progetti tuttora in campo che toccano i suoni del sud America da una parte (Acerocielo) e il jazz di Billie Holiday dall’altra (E.Atti jazz 4tet), la cantante emiliana debutta in solo per ragione sociale, cedendo terreno al disporsi serafico della sua voce e al fiorire della partitura affidata ai soliti eccellenti noti: troviamo Francesco Giampaoli al basso e in veste di produttore artistico, lo stesso Bovi alla chitarra, Antonio Gramentieri su slide guitar e suono, Enrico Farnedi su tromba e ukulele, Bocchini dei Granturismo alle percussioni e Marco Frattini alla batteria, solo per citarne alcuni. Le tracce vanno a braccetto con la diegetica che apre su Penelope e chiude sempre su di lei, e questa sorta di circolarità in salsa country padano-mediterranea trova riscontro nell’interpretativo musicale. C’è questa destrezza piena portata avanti con giudizio, gioco funky blues (Argo) e lucentezza vitrea del suono e delle cadenze (Barbabianca e Punto di vista, forse in simbiosi con l’analessi di Odisseo), che fa da contraltare all’opalescenza di strumenti come il clarinetto basso di Mendicante, brano di fede caposseliana che non teme il finale di coda belligerante, o il fagotto pastoso di Sogna grano. Eppure, e qui la scuola Sacri Cuori mette lo zampino, le luci non sempre sono riflettenti; il basso preme sui singoli battimenti e la slide indugia evocando fondali e orogenesi, il violoncello sostiene una telepatia ante-litteram del poreia (Il roseto) e i cori trattengono prima e rispondono poi alla tracotanza punita da Poseidone ed Eolo in Scilla e Cariddi. Forme e formule fisse dell’epos vanno così a farsi friggere nel brano più levantino del lotto (Circe), dove il gesto sfuso riconduce su acciotolati di terzine e botticelle di Sangiovese. Come rielabora il mito Eloisa? A suo modo, e cioè intimo e femmineo; ponendosi dal cono d’ombra occupato da Penelope, prova a diffe-

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producente. C’è un tempo per ogni cosa insomma e adesso per Guy Garvey e compagni sembra essere arrivato quello per decantare e variare sul tema, procedendo ad una sapiente velocità di crociera. Le dieci tracce si presentano quindi un pizzico più rilassate, libere di porre maggiore attenzione alle particelle elementari (il valzer lunare a base di contrabbasso jazzy e tastierina Radiohead di The Blanket Of Night, l’aspersione pop-soul tutta tamburelli, organo e chitarra di This Blue World) e d’inseguire l’insolito (il drumming robotico scosso da brontolii gospel di Honey Sun, l’ibrido errebì su striminzita drum machine di Colour Fields), azzardando talora ambiziose alzate d’ingegno (i capricci incandescenti di chitarra ed il bailamme di fiati di Fly Boy Blue/Lunette, il crogiolo luccicoso e i ricami rapsodici della title track, come un Canterbury surriscaldato Beta Band). Se la tensione noir di Charge spinge il ben noto impeto fino ai limiti del gotico, con New York Morning e Real Life (Angel) le antiche scorie Peter Gabriel tornano preponderanti ed aumenta il senso di cliché, un po’ come in quella My Sad Captains che pure condisce la portata con vampe gospel e toccanti pennellate di tromba. Insomma, non sarà per dischi come questo che gli Elbow saranno ricordati, però non siamo neppure alla frutta. 6.8/10

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renziare i contesti per poi farsi trascinare inevitabilmente dagli accadimenti e, negli intenti come nel risultato ultimo, il suo è un lavoro egregio e a dir poco persuasivo. 7/10 Christian Panzano

Genere: classica, contemporanea C’è un una dimensione “romantica” tutta italiana, in questo disco di Fabrizio Paterlini. La si coglie, oltre che nella musica, anche nei titoli dei brani (My Piano, The Clouds, Empty Room, Conversation With Myself, If Melancholy Were Music, Wind Song) ma soprattutto nel modo in cui l’album è nato. Otto tracce conseguenza diretta di un’iniziativa dello stesso Paterlini, che nel 2012 chiede ad alcuni amici di spedirgli qualcosa che simbolizzi il concetto di “malinconia”. Gli arrivano immagini, frasi, pensieri, a cui lui pensa bene di ispirarsi per comporre The Art Of Piano. Le differenze rispetto al passato sono minimali e risiedono tutte nel fatto che questa volta il musicista si affida esclusivamente al pianoforte, senza appoggiarsi agli archi che avevano caratterizzato il precedente Now. Poco male, perché le melodie strumentali che il mantovano riesce a cavar fuori rimangono qualcosa di così personale e al tempo stesso immediato, da non avere bisogno di molto altro. Le potremmo definire chill-out o ambient, ma così facendo ci parrebbe quasi di far torto a una musica che invece respira a pieni polmoni la lezione di Chopin, Erik Satie, Yann Tiersen ma anche di un Ludovico Einaudi, pur restando, nel suo minimalismo, qualcosa di davvero peculiare. Nel peggiore dei casi, dischi come questo stanno in una forbice tra il supponente, l’intellettuale gratuito e la copia carbone di altri dischi,

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Fabrizio Zampighi

Fragil Vida - Papà ha detto che la vostra musica è schifosa (La Fabbrica,2014) Genere: cantautori Puntano sulla musica d’autore e su una componente teatrale di sicuro impatto, gli emiliani Fragil Vida, attivi da quindici anni con numerosi concerti alle spalle e giunti al traguardo del quinto disco in studio. Papà ha detto che la vostra musica è schifosa rappresenta dunque la nuova tappa di questo percorso cominciato alla fine degli anni ’90 attorno alle iniziative del vivace circolo musicale “Lato B” di Finale Emilia in provincia di Modena, sorta di “aggregatore” per i sette componenti della band. Chi aveva apprezzato i Fragil Vida per quell’originale mistura di cantautorato rock moderno e naturale propensione alla commedia dell’arte, preponderante nei loro show dal vivo, ritroverà questi elementi anche nel nuovo lavoro, forte di quindici tracce sospese tra irruenza e nostalgia. Peraltro, il nuovo album prende le mosse da un evento drammatico come il terremoto che ha colpito nel 2012 quella porzione di Emilia Romagna nella quale il gruppo ha il suo quartier generale: anche se non esplicitamente

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Fabrizio Paterlini - The Art Of Piano (Autoprodotto,2014)

proprio perché veicolano la personalità del titolare del progetto senza troppi filtri (e non è sempre un bene) o abbracciano un mercato di massa fin troppo accondiscendente: nel caso di Paterlini – autore ben accolto più all’estero, che in patria, viste le uscite discografiche in Giappone, le citazioni su alcuni magazine specializzati americani e inglesi e le date live in Oriente e in Russia – la sensazione è di trovarsi di fronte a un compositore sensibile, acuto e capace, astratto da una contemporaneità fugace ma ben calato in una musica che ha già i crismi del “classico”. 7/10


Genere: pop, elettronica Sapevamo che prima o poi Todd Terje avrebbe stampato il primo album della sua carriera. Conveniva? Vediamo. La sua carriera da musicista parte nel 2004 con Eurodans, un singolo debordante che lo porta al successo immediato sia fra gli hipster che fra i puristi del dancefloor. La sua disco nordica sta bene infatti sia nelle feste d’appartamento che nelle balere estive. La stoffa non nasce comunque dal nulla. Prima di quella hit c’erano stati remix importanti per gli Chic, Chris Rea, Brian Ferry (che canta qui una cover strappalacrime dell’evergreen di Robert Palmer Johnny And Mary) e molti altri. Su questi pezzi il norvegese si è fatto le ossa a livello di arrangiamento e da qui ha costruito la base per il suo successo. La moda del remember dei Settanta è partita qualche anno fa con le visioni degli Air, si è poi consolidata con il sophomore dei Justice e poi ovviamente con RAM dei Daft. Ma non è solo in quegli anni che nuota la proposta di Todd. Il suo sound è imbevuto di cheesyness che ricorda le proposte dei film di serie B, le colonne sonore del commissario Monnezza (Bruno Canfora, Franco Micalizzi) e qualcosa di soft porno all’italiana (Ennio Morricone, Piero Umiliani). Il gusto per il kitsch viene poi alimentato anche dalla storica scuola di tastierine analogiche che Stereolab, Broadcast e tanti altri gruppi hanno saputo costruire con un suono basato sulla memoria di qualcosa di passato e nel contempo virtuale. Fra le altre fonti (ovviamente l’elenco non è esaustivo) non possiamo non ricordare pure il padrino di tutta la scuola nordica (Lindstrøm, Prins Thomas) Bjørn Torske (di cui nel 2012 lo stesso Terje guardacaso ha remixato il singolo Oppkok) e il suono cosmico di Daniele Baldelli. Di Todd non sai mai con precisione se ci è o ci fa. Non sai mai se sta scazzando troppo o se è serio. Il disco risponde al dilemma: dopo qualche ascolto capisci infatti che l’uomo è al livello di un Moroder dei giorni nostri. Oltre alle hit, Giorgio ha scritto centinaia di pezzi – soprattutto durante i primi anni della carriera – che non hanno mai fatto il botto, cose per film di serie B, colonne sonore mai sentite e tappabuchi per sbarcare il lunario. Questa estetica della manualità compositiva è alla base anche dell’artigianalità dei pezzi di Terje. Il paragone non è azzardato. Todd crea soluzioni ottimali con poco, riusa materiali noti, non punta all’effettistica, bensì al classico, alla pura essenza pop con qualche tocco disco. Leisure Suit Preben è una bella suite che introduce il discorso, con arpeggiatori d’antan e tanta lounge, Preben Goes to Acapulco è il continuo con variazioni blues jazz 007-meets-Tenente-Colombo, Svensk Sas la risata sudamericana à la Lino Banfi, Strandbar usa una base con synth ciccioni in fotta prog, Delorean Dynamite è la risposta norvegese a Kavinsky, Alfonso Muskedunder è il nuovo eroe del cocktail party a base di coretti stat e robottismi disco, Swing Star e Oh Joy punzecchiano Giorgio e Inspector Norse chiude il quadro con dei riff da paura. Todd Terje. Impossibile resistere. 7.5/10

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Todd Terje - It’s Album Time (Olsen Records,2014)

Marco Braggion

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Genere: dubstep, grime Nel luglio del 2012, quando Blackdown lo intervistò sul suo blog, Wen era il più sconosciuto tra i nuovi producer orbitanti attorno alla sua scuderia. Assieme a Beneath e Visionist, stava preparando una traccia paradigmatica, New Wave, brano poi trasmesso per la prima volta a settembre di quell’anno, durante l’immancabile osservatorio su Rinse (dove il label manager di Keysound fa coppia fissa con il sodale Dusk). Quel pezzo, oltre a rappresentare una delle punte dell’iceberg della 130 family, lo mette sulla mappa, ma già quell’estate il giovane producer può vantare una traccia in streaming soundcloud che da sola racconta di lui e di quel che avverrà, ovvero Commotion. Commotion è un crocevia nell’oscurità e le strade che portano a Wen coincidono con le più fresche tendenze del dopo dubstep, del dopo half step, di un dopo tutto che è tinto del nero più nero. All’inizio, Owen è uno dei tanti kit che serializza bassi su tempo half step. Avrebbe continuato per quella strada chissà per quanto se quel giorno fatidico l’hard disk non si fosse bruciato e tutti i suoi sample non fossero andati in fumo. La sua storia inizia quel giorno. Rinasce, compatto e in velocità, catalizzando segnali precisi in un periodo di ascolti massicci. Lo troviamo sulla neo zelandese Egyptian Avenue di Epoch in un versus 12” con lui in area nu eski, Hydrulics; nel frattempo, nelle orecchie ci sono i segnali della Keysound, con i quali trova un viatico tra quelle fascinazioni strumentali, i sample degli speaker radiofonici e un lavorio ritmico che scava negli scuri scenari londinesi di inizio Duemila. Se, tra le nuove leve, gli amici declinano techno (Beneath) o su ancor più glaciali eski beat (Visionist e Logos), il ventiquattrenne Owen Darby è il signore degli anthem per frammenti di declamato, synth austeri come arcaiche orchestrazioni grimey, battute spezzate e bassi spugnosi. Un firma avvincente che colpisce non solo come producer, ma anche all’interno di missati in dj set che inizia a proporre in giro per l’Inghilterra e l’Europa (il 26 settembre 2013 lo abbiamo sentito e conosciuto alla N3XT Clubsteppin’ night presso il Locomotiv Club di Bologna. Sentite come plasma una sua visione dentro uno stream di tracce sue e di altri producer in questo mix per Trap Magazine). Accade così che, tra una dub war e un’agenda che inizia a diventare impossibile da gestire con un lavoro diurno, Wen diventa richiestissimo, i ragazzi iniziano a copiarlo, noi lo additiamo tra gli Ones To Watch 2013 e il suo nome finisce stampato sulla copertina della prima grossa produzione Keysound del 2014. Signals, mantiene tutte le promesse e le attenzioni che gli appassionati di elettronica hanno riposto in questo prodigio. E’ un esordio sorprendentemente maturo, misurato. Da una parte, la tracklist cede sul lato anthemico cavalcato nell’EP Commotion dello scorso anno per un approccio più morbido che sperimenta, uno a uno, i tratti di più sintetici del grime; dall’altra, resiste alle nuove ondate Boxed, ai venti sino grime e new eski, dosando il retroterra wileyano con un ottimo ventaglio di fascinazioni ritmiche. Signals è un lavoro di un hardcore fan di radio pirata che, dopo anni di devozione, ha deciso di spedire qualche segnale indietro. E questi segnali di fierezza UK parlano chiaro, Wen li accende come luci, li fa brillare per istanti precisi. Ascoltate Galactic, paragonabile ad Akkord per precisione e sfumature, oppure Lunar, con il feat di Bleakdown che introduce cinematiche trame am-

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Wen - Signals (Keysound,2014)


bientali in bianco e nero su bassi spugnosi e sotto, ovunque, lo stepping di Darby; oppure ancora la wobblista Swingin’ – nel mix di LDN – dove si torna dalle parti di Commotion in grandissimo stile, con le voci che oramai dici-Wen-e-fai-prima e l’ottimo tocco in balistica garage e house. Singal poi è la killer track del disco. Parata secca per drum machine, la solita vociona sampelizzata e pitchata, i soliti affondi ochestrali di marca grime. Trame che s’ingrossano alla perfezione, che pompano con ottima La gestione dello spazio rappresenta il vero spessore qualitativo di questo esordio. A fine scaletta, Wiley, campionato, spara il nome di Wen al cielo. Owen lo manda in loop nella notte. Poi , in un finale con i fiocchi, arriva quel Riko che nell’ambiente grime è una leggenda. Giro d’archi persiani e giù di flow raggatronico. Disco senza slabbrature, senza passi falsi né esitazioni. Album di purezza stepping britannico. Da avere ad ogni costo. 7.7/10

menzionata, la vicenda ha inevitabilmente inciso in maniera preminente sul mood generale di queste canzoni, per quanto, più che il sisma, ad emergere nelle composizioni è quell’apertura necessaria alla rinascita e al rinnovamento come risposta al dramma stesso. Canzoni che raccontano piccole storie di vita ordinaria utilizzando il veicolo consueto di un pop-rock raffinato, ma che non disdegnano alcune incursioni in territori meno battuti, grazie all’utilizzo massiccio e sapiente di fiati e all’impiego di ritmi sghembi e stranianti, che hanno apparentemente poco a che fare con la tradizione cantautorale. A conti fatti, dunque, è proprio questo eclettismo a rappresentare il valore aggiunto delle nuove canzoni dei Fragil Vida. Brani che, per gli arrangiamenti non banali, per l’utilizzo delle due voci e per la costruzione artigianale di testi e musica, si distaccano dall’ordinario, per piazzarsi vicino ad entità più trasversali e di spessore come ad esempio i lariani Sulutumana, con i quali i Nostri hanno in comune un approccio autentico alla materia musicale. Nessuno stravolgimento di sorta, sia chiaro, ma

uno standard compositivo decisamente alto e alcune interessanti scorribande in altri suoni, come nel caso del funky di La Storia di Mustafà, della quieta e circolare Barattando Monete o della bandistica e moderatamente in levare Zoppo di Madre. Degne di menzione anche la jazzistica e quasi strumentale Cul Mat, le intense Buono il Mattino e Davvero le Mani, la teatrale e “multilinguistica” Siamo Sempre in Giro, anche se più in generale è la narrazione complessiva di Papà ha Detto che la Vostra Musica è Schifosa ad essere convincente, poiché improntata su contenuti di valore senza la pesante zavorra retorica che si coglie in altre produzioni sul genere. 6.7/10 Ilario Galati

Frankie HI-NRG MC - Essere umani (Materie Prime Circolari,2014) Genere: pop, hiphop Street o ribelle, Frankie non lo è mai stato. Probabilmente non si è mai sporcato le mani con lo spray per graffitare i cavalcavia della suburbana, né si è mai imposto come esponen-

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Edoardo Bridda


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sparirono i sorrisi, le frasi col vicino divennero scortesi, nervi troppo tesi, tasse tutti i mesi, i soldi peggio spesi, i soldi sempre attesi” dice con fare un po’ canzonatorio in Essere umani), il disco assume un buon tiro. La grande capacità del Di Gesù di creare storie non si ferma, per fortuna, a quella ciclistica di Pedala, ma investe anche Atteso Imprevedibile, storia di due amici bruciati dal gioco d’azzardo e condizionata da un chorus di voci raddoppiate in pieno stile Battiato. Bella. Essere umani come essere Elefanti, dice il Nostro nel pattern cadenzato della canzone sull’immigrazione e sul genere umano in generale, con uno sguardo certo intenso, ma forse meno tagliente di un tempo. Anche perché (forse è lecito pensarlo) un rapper come Frankie (che si prende, ad esempio, il lusso di fare un album da sette canzoni dopo sei anni di silenzio), è anche un rapper rassegnato. E non solo per colpa di un mondo lurido e malconcio come quello in cui viviamo, ma soprattutto a causa di un universo hip hop che probabilmente non ha più posto per nostalgici pensatori come lui. Che non valga come giustificativo per un disco tutto sommato riuscito a metà, ma… come si fa a non comprenderlo? 6.3/10 Nino Ciglio

Füsch! - Mont Cc 9.0 Third Act (Jestrai Records,2014) Genere: shoegaze, post-rock Li abbiamo seguiti lungo tutto il percorso che un anno fa avevano intrapreso con Mont Cc 9.0 First Act. I Füsch! ci sanno fare. Fautori di un ritorno elettrico alle muraglie di suono, fra chitarre distorte e ritmi asfissianti, la band bergamasca non ha lasciato nulla al caso, equalizzando pulsioni di varia natura: dal post-rock chitarroso di My Bloody Valentine, Swans, Fugazi alla psichedelia terrosa di Kyuss e Brian Jonestown Massacre, dai mostri sacri

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te di posse o cricche di rilievo, quali, ai tempi, Colle Der Fomento, Sangue Misto e via dicendo. Frankie si è posto, piuttosto, come mente (ben)pensante di un hip hop intellettuale e intelligente, anche se spesso questo ha significato fare troppe (a volte mal riuscite) aperture al mondo luccicante e abbagliante del soubrettismo televisivo. Essere umani, il quinto album di inediti dell’artista torinese, arriva dopo l’esperienza sanremese, di uno dei Sanremo peggio riusciti della Storia. Non ha stupito la presenza del rapper (tra l’altro già presente nel 2008 con Rivoluzione) perché, in questa Italia costruita a immagine e somiglianza di Fabio Fazio, il tocco di qualità non sarebbe dipeso da brani come Pedala o Un uomo è vivo, che, infatti, non avevano questo intento. Sono brani ben costruiti per il Sanremo della sinistra democristiana, sono impegnati senza inneggiare allo sconvolgimento, sono adagiati (anche musicalmente) su uno stantio levare l’una e sulla sonata rap l’altra. Non a caso, più che sembrare il padre, Frankie finisce col rappresentare il figlio: da una parte quel Jovanotti, che è sempre stato un po’ il suo contraltare più frivolo, e dall’altra quel Caparezza che è stato, per qualcuno, persino fonte della sua riscoperta recente. Essere umani è un album troppo umano, forse, per uno come Frankie che ci ha abituati a grandi cose, anche se, superato lo scoglio del palco dell’Ariston, suona più fresco e originale di quanto ci saremmo aspettati. Gli altri brani, infatti, pur continuando a usare ritmiche e partiture terribilmente sterili e superate e pur affidandosi, as always, ai mezzi sbagliati per dire le cose giuste, si salvano parzialmente: quando le rime si moltiplicano e i toni smettono di essere quelli da sagra di paese (leggi Festival di Sanremo) con trombe, fanfare e quant’altro, tingendosi piuttosto di urbano e lasciando fuori la sicurezza del mondo (“Poi venne la crisi,


Nino Ciglio

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Future Islands - Singles (4AD,2014) Genere: pop, indie, synthpop I Future Islands hanno appena raggiunto l’apice della carriera e lo hanno fatto principalmente attraverso due precisi step: firmando il contratto con la storica 4AD e soprattutto sfruttando nel migliore dei modi l’opportunità di suonare al David Letterman Show, ammaliando il pubblico con una delle più memorabili esibizioni mai viste nei trent’anni del talk show americano. Dall’esordio del 2008 – Wave Like Home – ad oggi la band di Baltimora si è sempre contraddistinta per la rigida impalcatura geometricamente lineare di derivazione new wave costruita attorno a pulsanti basslines, tappeti di synth e ad un preciso drumming. L’unico componente curvilineo è sempre stato l’apporto vocale di Samuel T.Herring, imprevedibile ed istrionico performer dotato di un timbro che spazia – anche all’interno dello stesso brano – da tonalità impregnate di crooner-romanticismo sfacciatamente piacione ad exploit gutturali che farebbero invidia a parecchi colleghi metallari. Ascoltando Singles, la quarta fatica dei Future Islands, si ha l’impressione che il trio abbia capito le motivazioni per le quali, a dispetto del buon seguito tra gli addetti ai lavori, fino ad oggi non fossero riusciti a compiere il grande passo: di band synth-wave che a testa bassa si nascondono dietro a malinconie b/n ce ne sono fin troppe; sono veramente poche, invece, quelle che sanno divertire (con grande naturalezza, peraltro). Nasce così un disco più colorato e positivo rispetto a In Evening Air e On The Water, con una verve compositiva mai così nitidamente pop. L’uno-due iniziale formato dal grande manifesto Season (Waiting On You) e dalla new-wavey Spirit mette subito le cose in chiaro, unendo sensibilità uptempo all’estrema teatralità melodica di un Samuel T. Herring formato-meme.

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del rock come Led Zeppelin e Deep Purple al “polizziottesco” in stile Calibro 35. Con il terzo e ultimo atto di Mont Cc 9.0, la band ci regala forse il tassello definitivo. Third Act è infatti capace di sintetizzare in sé i pregi dei due precedenti lavori, mettendone in quarantena i difetti. Se la partenza è affidata al thriller sincopato di Iuston, le qualità migliori emergono quando la dilatazione della trama lirica raggiunge lo spessore del wall of sound: Il Gran Sasso e La stanza dei funghi, in particolare, equilibrano bene queste risorse, l’una con una corsa asfissiante di synth e chitarra in quattro minuti tiratissimi, l’altra con l’inquietante e solenne intreccio di piano e corde. Spazio anche per i giochi di stile, ben costruiti sulle note di Quadrifornia Lemon, più morbida rispetto alle altre e più orientata sul caleidoscopio dei Tame Impala, per dire un nome; oppure la chitarra acustica di L’Ines atto finale, che suggella in bello stile il disco. Pochi sono invece gli episodi cantati. Quando emerge il cantato in italiano, la voce è come al solito incastonata nel suono più grande, è sovrastata dalle entità rumorose che l’attorniano e la stordiscono; ma succede di intuire qua e là bei versi come “visione astratta/di un mondo sommerso/visione banale/di una vita sociale/visione confusa di miti ed eroi/visione virtuale di una rete antisociale”. Da segnalare, infine, il recupero di un brano del maestro Battiato: non uno qualunque ma La Convenzione, datato 1972, in un periodo in cui (e i Füsch! fanno bene a ricordarcelo) il cantautore catanese era una spanna sopra tutti i suoi colleghi. Creatività a valanga e una padronanza dei registri unica: questo è quello che fa una buona band, che, anche senza esporsi particolarmente, riesce a lasciare il segno. Nella speranza che la trilogia sia solo il primo tassello di un puzzle più grande. 7/10


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dono la padronanza agile e prodiga di implicazioni di chi è in primo luogo e davvero poeta, ma hanno il merito di non rubare la scena, anzi d’incastonarsi tra le trame elettroacustiche e le pulsazioni digitali. Cinque i pezzi in scaletta che funzionano nell’insieme e singolarmente, tratteggiano nevrosi accorate e atmosfere brumose (una Sterminate che sembra stemperare Japan e Royksopp), trepidazioni garbate (la malinconia agrodolce à la Notwist di Distanza, venata di feedback e coretti) e le arguzie ciber-pop (una Fiori non distante dal Battisti panelliano). Detto della già citata opening Berlino, nella quale la compenetrazione tra istanze sintetiche e tradizione cantautorale raggiunge forse l’apice, tocca ad Accorgetevi la palma del pezzo migliore, col suo crescendo emotivo (il testo – stupendo – è riadattato dalla poesia Quante parole non ci sono più di Mario Benedetti) e la wave accalorata da nipotino gentile dei Depeche Mode. Che si tratti di una parentesi o di un nuovo corso, pare comunque cosa buona. E promettente. 7/10 Stefano Solventi

Riccardo Zagaglia

Giovanni Peli - Specie di spazi EP (Ritmo and Blu,2014) Genere: cantautori, wave, synthpop Anticipato dal singolo Berlino, che ne preannunciava la svolta in senso elettronico, ecco Specie di spazi, un EP che due anni abbondanti dopo il buon Tutto ciò che si poteva cantare ribadisce la vena diversamente cantautorale di Giovanni Peli. Se nel suo primo album ufficiale, infatti, Peli si muoveva con disinvolta intensità tra pop-rock e folk, stavolta si posiziona su una intelligente linea di confine tra wave e folktronica, per trovare nuove collocazioni emotive al consueto lirismo. I suoi testi possie-

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Go!Zilla - Grabbing a Crocodile (Black Candy,2013) Genere: rock, psych Sulla fan page facebook dei Go!Zilla si leggono nomi come Count Five, Music Machine, Howlin’ Wolf, Syd Barrett, Black Lips. Aggiungiamo alla lista delle influenze anche l’Iggy Pop più lercio (I’m Bleeding), giusto per non farci mancare nulla, consapevoli che Luca Landi, Fabio Ricciolo e Mattia Biagiotti non se ne avranno a male. Del resto, come l’“iguana” scorticava il “Nuggets sound” a suon di amplificatori distorti e cantato biascicato, così fa la band fiorentina, in un disco d’esordio che è un concentrato di chitarre elettriche acide e batte-

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Contagioso, fuori dalle righe e assolutamente lontano da qualsiasi stereotipo, Herring continua ad essere il valore aggiunto della proposta dei Future Islands riuscendo, in un paio di occasioni, a galvanizzare brani un po’ insipidi (Sun In The Morning e la nostalgica Back In The Tall Grass). Tra le dieci tracce di Singles trovano posto anche reminiscenze a cavallo tra David Bowie e Roxy Music anni ’80, rispettivamente Like The Moon e la calda ballata A Song For Our Grandfathers. Lo spettro del duca bianco si ripresenta, nella sua versione elegantemente austera, anche in Fall From Grace, traccia decisamente maestosa. Alcuni pattern calcati un po’ troppo frequentemente (gli “yu-uuh”di Herring) e una tracklist che non si mantiene con continuità sui livelli di Season (Light House e A Dream of You And Me ci provano, senza riuscirci pienamente) frenano lievemente quello che poteva essere il pop masterpiece dell’anno. Poco male: i Future Islands hanno imboccato una strada che regalerà – sia a loro che a noi – parecchie soddisfazioni e non possiamo che esserne felici. 7/10


Fabrizio Zampighi

Gouton Rouge - Carne (V4V Records,2014) Genere: indie I Gouton Rouge sono un quartetto da Busto Arsizio al debutto sulla lunga distanza con Carne, produzione a cura di V4V-records in collaborazione con S3x Netlabel. L’idea del combo è in fondo la stessa dei Soviet Soviet o dei Be Forest: scavare nelle pieghe del revival alla ricerca di un suono amato e riportarlo in auge mirando alla perfezione della forma e all’immediatezza, come traspare dai titoli secchi delle otto tracce qui presenti. In

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questo senso l’operazione è riuscita. Carne è un disco godibile e schietto, i cui tratti sono facilmente identificabili: passaggi da gioventù sonica (più Verdena che Sonic Youth), scrittura pop appresa da J Mascis, trame post-punk con ritmiche uptempo e malinconia mai troppo depressa. Tasselli che si incastrano con naturalezza, andando a formare un buon mattoncino da cui partire per ulteriori sviluppi. Poi ci sono i testi: Carne si ispira al Pavese de La luna e i falò, forse per il rapporto tra un presente (deludente) e un passato (tormentato ma nostalgico) costantemente in conflitto. Benissimo. Però può essere fuorviante tirar fuori il neorealismo quando il tema è l’amore post-adolescenziale. 6.6/10 Stefano Gaz

Hartal! - Hartal! (V4V Records,2014) Genere: rock, psych, post-punk, garagerock Si può (tentare di) costruire una carriera su di una ossessione. Specie se quella ossessione ha un nome ed un immaginario ben definito. Non è dato sapere se i cinque Hartal! siano realmente ossessionati dai Velvet Underground e filiazione tutta – che vuol dire ben poco, o forse troppo, cioè 40 anni almeno di musiche rumorose – ma di sicuro c’è che quel drumming lì, quello sgraziato e primitivamente elementare inventato da una forse inconsapevole Moe Tucker, che ha attraversato tutto un mondo fatto di psichedelie più o meno dure, shoegaze, dream-pop, noise e chissà quant’altro nelle musiche degli Hartal! ha un ruolo predominante. Diviene infatti l’architrave, insieme ad un basso rotondo, circolare, grasso e ipnotico, su cui si inerpicano le chitarre ora desertiche, ora loopiane e una voce che è insieme scazzo e abuso di quelle “droghe prese per fare quelle musiche per prendere la droga”. Il recinto è quello e i cinque ne sono consapevoli. Non sgarrano un attimo, non guardano

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ria caciarona. Un EP omonimo del 2012 alle spalle, una cartina geografica dell’Europa appesa in camera e piena di bandierine (più di 250 concerti in due anni), un suono – a quanto pare registrato su nastro, mixato in analogico e masterizzato da Patrick Haight in California – che è una botta terrificante, nella sua semplicità: in fondo la formula è sempre quella, ed è fatta soprattutto di scazzo adolescenziale e irruenza rumorosa. Eppure la band riesce a veicolare, nel disco lungo d’esordio, una freschezza che sa di personalità, si parli di certe linee melodiche “stoned”, dei riverberi psichedelici onnipresenti o in generale di un’estetica consapevolmente in bilico tra il disfacimento e la genialità, il caos (con i piatti della batteria e le chitarre elettriche registrati sopra a tutto) e l’efficacia. In alcuni frangenti sembrano emergere certe cadenze à la Black Rebel Motorcycle Club (la title track) o magari una versione dei 13th Floor Elevators più sbrindellata e punk rock (See Me Hear Me), ma è solo un ritorno di fiamma: il fuoco vero rimane nascosto e brucia a più non posso. Disco dello scorso anno, da recuperare. 7.1/10


Stefano Pifferi

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pianista che non usa il piano normale ma preparato ci sia retorica o un’effettiva preferenza in base all’obiettivo acustico ricercato. Preferire un prepared piano per fare cose tradizionalmente modali, diremmo restauratrici (da Restaurazione), ci porta a un bivio: o si cerca di entrare in un discorso avanguardistico per dare il medium come messaggio, altrimenti si cerca un effetto diagonale dalle corde pinzate fuori misura dello strumento. La seconda possibilità si manifesta in un paio di occasioni, in Abandoned City (Pripyat, che da sola quasi tiene in piedi tutto il disco, e Thames Town). Altrove, nonostante la perizia, Hauschka estrae temi (a volte banali, vedi Agdam) che non hanno lo spessore di rivendicare un primo piano, nelle ambientazioni che vogliono costruire – dato che Abandoned City è un concept album che dà corpo acustico a città fantasma, scheletri urbanistici abbandonati. Quella purezza e quella ondata emotiva che Volker rivendica per l’album (un disco che pare essere stato scritto di getto, dopo la nascita del figlio), non arrivano quasi mai. Forse abbiamo noi gli argini troppo alti. 5.5/10 Gaspare Caliri

Hauschka - Abandoned City (Temporary Residence,2014) Genere: contemporanea Volker Bertelmann è un virtuoso del piano preparato Cage-iano: non è una novità. Neppure il fatto che usi il piano preparato come dispositivo emozionale per portarci lungo composizioni con temi prendibili e a volte dolcemente travolgenti – ossia come la maggior parte dei pianisti a effetto che troviamo in circolazione. Nel caso di Abandoned City, persino il missaggio coincide con l’esecuzione: è di fatto un disco registrato in casa come fosse dal vivo. Resta da capire se dietro la missione di un

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Heterotic - Weird Drift Poemss - Poemss (Planet Mu Records, 2014) Genere: synthpop E’ noto che a Planet Mu non si pubblica soltanto musica elettronica (vedi Solar Bears, John Wizards); se c’è un filone che sta particolarmente a cuore al boss Mike Paradinas, è quello delle fascinazioni synth e dream pop. Dopo aver battezzato sulla lunga distanza, con Love and Devotion, il progetto in condivisione con la moglie Lara Rix-Martin, troviamo Paradinas già alle prese con il seguito, disco anticipato dall’ottimo singolo in collaborazione con il

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nemmeno fuori. Manco ci provano. Se la giocano invece tutta dentro al campionato della psych hard e ne escono alla grande, con un lavoro che sbatte in faccia tutti i suoi riferimenti e referenti senza un minimo di vergogna o travisamento. E questa esplicita dichiarazione d’intenti sortisce l’effetto contrario facendo di Hartal! subito un “classico” che non ha un minimo di cedimento, che funziona dall’inizio alla fine, che è ipnotico e pesante, circolare e intrippante, che ha un suono perfetto come un bignami degli episodi migliori di VU, Loop, Spacemen 3 e consanguineità tutta. E poi hanno un capolavoro, almeno. Quella Old Chicken Makes Good Broth che guarda caso ha una batteria che pare suonata dallo scimmione di Kubrick mandato in fast forward. E poi ha un giro di basso eterno, di quelli che se durassero veramente una eternità non ci si stancherebbe mai di scuoterci la testa. E mille rivoli e arzigogoli di chitarra. E una voce che ti manda in loop. E, di fondo, un senso generale di ipnosi così marcato e funzionale che se riuscite a staccare prima della fine avete dei problemi. 7/10


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validissime canzoni come Triumph e Florence. Disco che magari non tiene il livello dei migliori episodi lungo la tracklist, eppure il risultato è più che discreto (7.1). Diversamente da Paradinas e consorte, il duo Joanne Pollock e Aaron Funk, che ha inciso l’esordio poco dopo essersi conosciuto cercando di infondere nel disco proprio quel senso di freschezza, ha preferito misurarsi su certo folk à la Popol Vuh, con il filone più “cantautorale” e sinfonico di Aphex Twin (Ancient Pony), ma soprattutto con un asciutto goth pop per il crooning di lui e la posa eterea di lei (Heads On Heads, Losing Meaning). Ipnotico e suggestivo il carillon con batterie in echo di Bedtime, ottima intro Ancient Pony o la cinematica 70s synth di Think Of Somewhere Nice sul lato strumentale, sufficiente ma non eccezionale il songwriting e l’interpretazione canora in generale (discreta Moviescapes, debole il ritornello di Gentle Mirror), comunque funzionale a un mood complessivo senz’altro da sviluppare ma già promettente e con i suoi momenti preziosi. 6.8/10 Edoardo Bridda

Hozier - From Eden EP (Columbia Records,2014) Genere: pop, soul, blues, gospel Andrew Hozier-Byrne nasce ventiquattro anni fa a Bray (Irlanda) ed inizia la carriera musicale una volta spostatosi venti chilometri più a nord, a Dublino, per studiare al Trinity College. Lì si distingue rapidamente all’interno della Trinity Orchestra, prima di collaborare con l’Universal e di entrare a far parte dell’ensemble corale Anúna sia live, che in studio (sul disco Illumination). La fama, non solo locale, è arrivata però grazie all’EP d’esordio a nome Hozier (Take Me To Church), del quale vi abbiamo parlato lo scorso dicembre, includendo anche la titletrack all’interno della playlist SA

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cantante francese Vezelay (che già aveva inciso per la label a suo nome un paio di anni fa). Non solo: a sorpresa, a febbraio abbiamo trovato su queste coordinate anche un’altra formazione tra sintetizzatori e vocalizzi eterei, i Poemss, ovvero la music artist canadese Joanne Pollock e un inedito Aaron Funk (noto come Venetian Snares, l’uomo dietro a una delle carriere drill’n'bass più furenti e avvincenti della scorsa decade). E’ vero, sia Paradinas (in particolare nell’ultimo MuZiq Chewed Corners), sia Funk (con il progetto Last Step, e in special modo con Sleep), hanno percorso strade parallele alle rispettive prove in duo. Immergendosi nei sintetizzatori e nelle drum machine analogiche, i due producer hanno cercato possibilità inespresse tra synth music, musica cosmica, synth pop, techno e house, e sperimentato fascinazioni, nostalgie e, perché no, interrogativi esistenziali profondi. Trovarli a capo l’uno di un dream pop duo tra agrodolci synth e sporadica slow mo house, e l’altro alle prese con un inedito folk duo per sinfoniche tastiere, non rappresenta quindi una rottura con il passato. Ad entrambi è sembrato naturale contemplare la ricerca come scoperta dell’altro da sé, come confronto con il femminile e da lì lo sguardo all’esterno, agli interrogativi di base che ancor oggi i sintetizzatori, con la loro vibrazione e forza evocativa, riescono a veicolare. Abbiamo già affrontato il campo d’azione degli Heterotic nella recensione di Love and Devotion; Weird Drift, in perfetta continuità, vede la coppia maturata ma anche meno legata, nel trasporto e nel cesello, al vocalist di turno, in questo caso il francesce Vezelay – ovvero Matthieu Le Berre – presente in 7 dei dodici brani in scaletta. Da segnalare l’ottimo singolo Rain, 80s dream song in stato di grazia, le serpentine in richiamo trap di Boxes, i bassi e gli arpeggiatori che fanno da sfondo ad altre due


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mentali di cui dispone. Il rischio che il potenziale venga bruciato dall’hype addirittura prima della pubblicazione dell’album d’esordio esiste (come esiste per Vance Joy e George Ezra), ma per il momento c’è da essere fiduciosi, consci del fatto che uno come Hozier non cambierà mai le sorti della musica. 6.4/10 Riccardo Zagaglia

Humpty Dumpty - Dissipatio H.D. (Autoprodotto,2014) Genere: psych, avant, folk, freak_weird Se non mi sono perso qualcosa nel frattempo – e non lo escludo – fanno tre anni dal buon Humptamatic. In quell’occasione Humpty Dumpty si cimentava in inglese e abbozzava una sorta di psych wave forse mai tanto ambiziosa e definita, ferma restando la bassa fedeltà fisiologica e ideologica come segno evidente della distanza che il Nostro ritiene di dover porre tra sé e la “professione”. Perché, come chiosa egli stesso, l’arte va sottratta al capitale, “senso critico, cultura e buona volontà sono assai più importanti dei grandi investimenti”. Concetti che lungi dal rappresentare un’introduzione folkloristica alla musica di Humpty ne sono invece l’angolazione poetica, equamente distribuita tra la fibra sonora ed i testi (ermetici, visionari e febbrili, in perenne conflitto con la carezzevole narcosi del quieto vivere). Che difatti ritroviamo alla base di questo Dissipatio H.D., album prodotto in perfetta autarchia (e distribuito in rigoroso free download) col quale il cantautore messinese torna all’italiano raccogliendo tredici pezzi onirici e agrodolci, insidiosi e suadenti, scabri e visionari. Anche quando la forma si stabilizza dalle parti della ballad acustica (Stupida davvero, La voce) c’è sempre un punto di dissesto nevrotico e di scuro fatalismo come residuo fisso del sottosta-

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Presents: Tracks from EPs 2013. Take Me To Church – il brano – è stato un ottimo biglietto da visita capace di raccogliere riscontri positivi su più livelli, grazie ad un testo intelligente che sfrutta la metafora della chiesa per parlare d’altro, a un videoclip di grande attualità e soprattutto a un giusto mix di furbizia melodica e credibilità artistica. Pochi mesi più tardi troviamo l’irlandese alle prese con un nuovo EP intitolato From Eden, con il compito di dimostrare che Take Me To Church non è stato il tipico fortuito pezzo da novanta che storicamente trasforma le potenziali star nelle più classiche delle meteore. Fortunatamente Hozier pare possedere l’innato talento di quei songwriters a cui riesce tutto facile: muovendosi tra pop, blues e soul moderno (non tanto per strumentazione, quanto per senso ritmico) l’irlandese si impone come una versione aggiornata della tradizione blue-eyed soul irlandese (Van Morrison), attraverso canzoni che non hanno bisogno di particolari o innovative ricerche sonore per farsi apprezzare. Anzi, a ben vedere, uno dei tratti distintivi più evidenti dell’Hozier-sound è un ripescaggio delle radici della black music, alleggerite però di quella stucchevole e spesso ostentata patina retrò. Grande spazio, quindi, per soluzioni che flirtano con il gospel, arricchite da un sagace uso della chitarra che parte da partiture pseudojazzy e finisce ad altezza Jeff Buckley. Esemplare in questo senso il vincente equilibrio pop della titletrack, ma meritevoli sono anche le successive Work Song e Arsonist’s Lullabye. La prima è un concentrato di calore black che trasuda umiltà, mentre la seconda si muove tra tributi a Knockin’ on Heaven’s Door e mantriche atmosfere da deserto. Come Take Me To Church EP, anche From Eden si conclude con una traccia live, To Be Alone, nella quale il Nostro mette in mostra le doti canore e stru-


Stefano Solventi

Ilaria Viola - Giochi di parole (Lapidarie incisioni,2014) Genere: cantautori, jazz Ottima prova quella di Ilaria Viola, cantante romana al suo esordio per Lapidarie incisioni. Giochi di parole, otto brani otto affondi, unisce l’affetto per certe sembianze peninsulari con l’autorale italiano più colorato. Il timbro,

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nell’uso che se ne fa sul canto, scopre le lenzuola su lumi minimi e però prodighi, su foglie di rimedio indocili da spiantare che rimandano a Petra Magoni, a Mina o a Gabriella Ferri. In più il disegno d’accompagnamento, tra ricami e spirali d’ombra, concorre con la voce ad un uso concreto del fraseggio pop, senza quindi che l’interplay si carichi di nozioni vintage o cupe sovraincisioni. Ilaria ha un grande senso pratico, sentitela: “a volte quando si scrive un testo ci si prende troppo sul serio, si esagera nel credere di avere in mano una propria verità. Sono solo punti di vista e così mi sono divertita a giocare con le parole per vedere dove mi portavano. Ho iniziato dalle forme per acciuffare un significato delle cose”. Ma il disco è da sentire capovolto, di modo che Visti da lì, brano in chiusura di lotto, possa sembrare la traccia più saudade: due monologhi come due linee parallele, no giochi di specchi che permettano toni netti o esodi fenomenali. L’arrangiamento ricorda, per via del mandolino forse, un huapango in ternario di una viella o, meglio, di un charango ravveduto e in arpeggio aperto, senza aggiunte o accordi alti di ottave. Ci sono odori di mediterraneo (Fino alla fine del mondo) in cui le chiavi di lettura si palesano strada facendo fra anemoni e fil di ferro: “se sento il gorgoglio di una moka e voglio raccontarlo, penso subito al caffè, nulla di onirico o poetico”. Caute fasi di nistagmo folk avant-garde e riscrittura un filino trip-deandreiana (La strega e il capitano), ellenica mimetizzata nei terzinati (Era), arriere-pays circensi (Samba di amor facil) o manouche per un son jalisciense (Le buone intenzioni) s’addossano con palpito e precipizio di note dietro finte autoctone. Forse un pizzico d’innocenza, in fondo già passata. 7/10

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re alle convenzioni, un filo di squilibrio sonoro speculare al dissesto etico. Ci si muove quindi con determinazione scanzonata Hitchcock nello sconcerto caldo di L’assente (cantata assieme a Giulia Merlino), si attraversa una cortina d’insanità Faust’O (in una bruma di effetti ed espedienti ritmici) nella incalzante Condominium, si pesca gravità flemmatica tra De André e Mario Castelnuovo nel valzer inacidito di Samurai, s’insegue radiante tensione psych-wave ne Il vuoto vuole (azzeccato il ritornello di madreperla e tossine, tra angoscia illuminata Julian Cope e cuore in ambasce Depeche Mode). In questa sorta di implosione nel golfo mistico della cameretta da dove partono tutti i treni che si possono sognare, il carnet espressivo si rivela insospettabilmente vario e strutturato, si tratti delle nuance flamenche che stiepidiscono la sordida I corvi, del trasporto cosmico marezzato di riverberi setosi de La corrente (qualcosa tipo Barrett in un esercizio di levitazione Eno) o di quella Svegliami che sciorina tremori decadenti a due voci (l’altra è di Valeria Alfieri) un po’ come il Battisti di Due mondi col virus John Cale. Se Alessandro/Humpty voleva sbatterci in faccia uno scarto cubitale tra le potenzialità espressive ed i pochi mezzi a disposizione, la missione può dirsi compiuta. Consideratelo insomma un disco buono in sé, ma anche un messaggio che più politico non si può. 7.3/10

Christian Panzano

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Jamaica - Ventura (Pias,2014)

Genere: psych, crossover, funk, folk Una koiné avventurosa e folle che parte dal dialetto siciliano, incontra certe cadenze di un crossover/funky anni ’90 in salsa etnica, riscopre le melodie e i colori musicali terzomondisti grazie anche a strumenti musicali come didjeridoo, marranzano, balafon, djembe, sangban: loro sono gli IpercusSonici, e no, non vi trovate davanti alla solita comune di frikkettoni scoppiati e in fissa con la ganja. Un’autoproduzione nel 2005 portata in giro per l’Europa un po’ ovunque, un Tutti pari pubblicato da Finisterre tre anni dopo che li spedisce direttamente in Inghilterra al Womad di Peter Gabriel (in cui vengono presentati come “the adventurous new sound from Sicily”) e un terzo disco, il qui presente Carapace, che è un tripudio di psichedelie tribali (Cincu) in viaggio dal Medioriente all’Africa, all’Australia, all’America del blues della cover di On The Road Again. Nulla di stereotipato nel suono della band, anche quando il cantato in saliscendi di Alice Ferrara ricorda la Meg post-99 Posse; piuttosto, un approccio free e senza confini alla materia world, per nulla prevedibile eppure in qualche modo calato nell’ottica di genere. Vengono in mente gli Honeybird and The Birdies, anche se la band sicula in realtà, pur mostrando lo stesso input glocalizzato nei suoni, è meno compatibile con un immaginario rustico, giocoso e agreste. Il tutto anche per un’ideologia “politica” comunque presente, come dimostra la Mururoa ceduta a Greenpeace nel 2011 in occasione del referendum contro il nucleare in Italia. Carapace è un bellissimo esempio di originalità, oltre che un disco con un “tiro” tutt’altro che disprezzabile. Materia destinata non solo ai fanatici del djembe e delle feste afro: relegarlo a quell’ambito, sarebbe un errore. 7.1/10

Genere: pop Alle volte, il miglior pop è semplice, diretto e senza fronzoli. Il duo francese Jamaica prende la nozione un po’ troppo alla lettera però, in quello che è il suo secondo disco dopo l’esordio No Problem del 2010. L’accoglienza allora era stata tiepida e lo stesso si può dire per questo Ventura, che ne ricalca le strutture in 4/4 ripetute all’infinito, il sound che, seppur più scarno, ricorda da vicino quello che Thomas Mars e soci hanno fatto con i Phoenix (sopratutto nell’approccio vivido alla strumentazione), il timbro vocale e l’ampio uso di mezzi elettronici. Una sorta di Two Door Cinema Club in versione transalpina, dunque, con ritmi sempre elevati e ballabili (Hello Again, ma anche tutto il resto) e durata per brano rigorosamente intorno ai tre minuti. Prodotto da Peter Franco (Random Access Memories) e Laurent d’Herbécourt (Phoenix), Ventura sembra voler ricalcare con squadra e righello lo stereotipo pop-rock da classifica, al punto da perdere quel poco di sapore che una proposta del genere potrebbe avere. Ogni canzone inizia e finisce alla stessa maniera, le variazioni sono minime e tutto sembra trascinarsi per le dodici tracce senza sussulti, tanto che si ha quasi la certezza di cosa accadrà nell’istante successivo. L’ascolto, verso la seconda parte di disco, si fa quasi tragicomico, con la band che prova a infilare in scaletta la ballata Rushmore, con risultati a dir poco allarmanti. Se chiedeste a un bambino di quattro anni di chiudere gli occhi ed immaginare come potrebbe suonare una canzone rock, probabilmente fischietterebbe il ritornello di 2 On 2. Forse è proprio questo l’uso pedagogico che si può trarre da Ventura, un piccolo e innocuo manuale rock per bambini. O forse no. Meglio non rischiare. 4/10

Fabrizio Zampighi

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IpercusSonici - Carapace (Viceversa,2014)


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Johnny Foreigner - You Can Do Better (Alcopop!,2014)

Genere: rock, indie Arrivata al traguardo importante del quarto album, la statunitense Joan Wasser mette in mostra ambizioni già ampiamente rivelate con il precedente The Deep Field, risalente al 2011. “Sono nel momento più bello della mia vita”, afferma, e The Classic riflette molto questo personale stato di serenità. Trattasi di soul r’n'b rivisitato e reinterpretato secondo le sue corde, dove all’irruenza richiesta al genere si sostituiscono interpretazioni piuttosto raffinate.The Classic carbura sulla lunga distanza, venendo fuori meglio sui pezzi più corposi e articolati (Good Together, Get Direct, New Years Day ballata intensa con coda strumentale), piuttosto che nei brani veloci e più soul (Witness, Holy City, la title track alla maniera dei gruppi vocali femminili, con una linea doo wop cantata da Joseph Arthur e il beat box del comedian Reggie Watts). Joan la poliziotta riesce al meglio, però, quando cerca di smarcarsi fondamentalmente dalle gabbie imposte dal genere, si vedano soprattutto la metafisica e lunare Stay in odore del migliore Bowie soul e la blues e intensa What Would You Do, che sembra uscita direttamente da una colonna sonora sixties. Ascoltando il disco possono venire in mente Aretha Franklin, Diana Ross, Marvin Gaye e Tammy Terrell, piuttosto che Stevie Wonder, mentre la musicista si diverte in fondo a giocare con le sue rivisitazioni postmoderne. In realtà si finisce poi per percepire la Joan più autentica quando lascia andare diretta voce e anima, al di là di tutto l’impianto sonoro curatissimo. In sostanza il disco vive di un continuo gioco di rimandi, dove la Nostra lascia la sua personale impronta ed eleganza, senza i tormenti passati. Un ulteriore passo avanti. 7.2/10

Genere: pop, rock, psych, indie, lo-fi, noise Ascolto i Johnny Foreigner e mi rivedo in un negozio di dischi, in un momento imprecisato fra il ’93 e il ’96, a cercare qualcosa che suoni come Pavement o Sonic Youth e, in tutta risposta, farmi rifilare dischi di Superchunk o di qualche noise pop band di Chapel Hill. Gruppi che soddisfacevano superficialmente quel desiderio di incanto e obliquità senza parlare veramente al cuore. L’impressione, almeno inizialmente, è la stessa, ovvero che al netto delle scorribande soniche, delle accordature bizzarre, delle distorsioni calde e delle melodie informali berciate in modo stridulo, ci sia poco da addentare. Un ascolto più attento conforta sulla qualità del lavoro. Anche perché i JF non sono dei novellini. Al loro quarto album hanno lasciato da parte le ingenuità del passato, optando per un songwriting affilato e coinciso (il counter si ferma sui 34 minuti). Sanno far tesoro di un affiatamento conquistato sul campo, che si rivela nei brillanti stop'n'go di Le Schwing, e in generale in quella nonchalance nel dissimulare le proprie capacità tecniche. A garantire una maggior rifinitura e un impatto più ottundente si è aggiunto il nuovo membro, Lewes Herriot, il cui chitarrismo deragliante marchia a fuoco brani come Shipping e The Last Queen Of Scotland. Attenzione poi: i quattro sono inglesi. Il che significa che sotto la scorza di feedback nascondono un’anima twee. In particolare, ricordano i primi Delgados (soprattutto nelle dinamiche fra voce maschile e femminile) o piccoli oggetti di culto come i Bearsuit (per le ritmiche febbricitanti e le esplosioni emotive). In pratica, i Nostri hanno un’effervescenza e una malizia pop che rendono You Can Do Better rinfrescante come una bibita ghiacciata. Da

Teresa Greco

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Joan As Police Woman - The Classic (Play It Again Sam,2014)


consumarsi tutto d’un fiato, senza preoccuparsi troppo della data di scadenza. 6.5/10 Diego Ballani

Genere: pop, brit Nonostante sia del tutto inutile, credo che si debba ritenere almeno ammirevole il tentativo dei Kaiser Chiefs di cercare di tenere la testa fuori dall’acqua. Quinto disco in studio – il primo senza Nick Hodgson, batterista e primo paroliere della band – Education, Education, Education and War naviga nel mare della mediocrità, proponendo strutture e soluzioni trite e ritrite. Niente di nuovo, quindi, rispetto a The Future Is Medieval, anzi un ulteriore passo indietro soprattutto a livello compositivo, ambito nel quale in passato, soprattutto per merito di Hodsgon, la band aveva fatto vedere qualcosa di lodevole. Qualche sussulto nel “piattume” più totale si avverte solo in The Factory Gates (chiaro tentativo di tornare a quel sound delle origini che li aveva sparati in classifica), un brano che offre spunti curiosi e qualche idea interessante, e in una Coming Home che alla fine è una buona ballad radiofonica. Proprio come i compari di merende Maxïmo Park con cui avevano condiviso tante gioie agli albori dell’esplosione del fenomeno indie brit-rock, i Kaiser Chiefs hanno imboccato quel tunnel di stasi creativa da cui, salvo sconvolgimenti epocali, non usciranno mai più. 4.5/10 Andrea Murgia

Kekko Fornarelli Trio - Outrush (Abeat Records,2014) Genere: elettronica, jazz, fusion C’è un quid incolmabile tra il jazz ed il pop-

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Kaiser Chiefs - Education, Education, Education and War (Universal,2014)

rock. E’ una questione di angolazioni estetiche e poetiche, una scelta di campo che – tolta la stagione formidabile della fusion – poche volte ha saputo produrre una sintesi fruttuosa tra le due (spesso avverse) sponde. Il musicista jazz che cerca nel dettaglio timbrico e armonico il codice della propria espressività, e quindi nel dominio di questo la propria pienezza artistica, si muove su un piano radicalmente diverso dal musicista pop-rock. Dimensioni inconciliabili, che talvolta provano abboccamenti e interazioni ma che non s’incontrano mai davvero, rivelandosi al più cordiali suppellettili l’uno per l’altro. Esistono però le eccezioni. Esiste chi riesce a maturare un punto di vista mediano ma non mediocre, tale che alla fine preveda più vantaggi che rinunce, e soprattutto un taglio forte, personale. In questo senso, ascoltando il nuovo lavoro del Kekko Fornarelli Trio – piano (e sintetizzatori), contrabbasso e batteria – la bella sorpresa viene da come la componente jazzistica resti sullo sfondo, metabolizzata come padronanza del linguaggio ma non utilizzata come vessillo per marcare un territorio. I puristi jazz la penseranno diversamente, ma la sensazione di affrancamento – di serenità di approccio e libertà di movimento – è palpabile e pare un valore aggiunto non da poco. In continuità con l’ottimo predecessore Room Of Mirrors, il pianista pugliese mette in mostra una solida propensione melodica (da buon seguace di Michel Petrucciani) che organizza in strutture spiccatamente atmosferiche/cinematiche che sembrano sbocciare nel giardinetto del rimpianto E.S.T. (la toccante Drawing Motion), altrove nei pressi di certo camerismo post-post-rock (Reasons), dimostrandosi a proprio agio anche nei momenti più mossi, quando le sincopi bop carburano fino all’orlo del breakbeat in una rumba diversamente malinconica (la title track). La compattezza e l’interplay


della band è di tutto rilievo, come è chiaro fin dalla opening The Big Bang Theory, volo libero e radente tra mood e modi che spiccia swing e latinerie con ugge contemporanee, quest’ultime intrinseche un po’ ovunque e soprattutto nelle arguzie circospette di What Kept You So Late. Fornarelli si conferma quindi come uno dei prospetti più interessanti del panorama musicale italiano, grazie ad una scaletta resa ancora più preziosa dal gioiello anomalo Don’t Hide – è l’unico pezzo cantato, per la voce languida e deliziosamente sdrucita di Roberto Cherillo -, sorta di modern-soul asperso di trasalimenti jazz come sarebbe piaciuto a Jeff Buckley buonanima. 7.3/10

Kelis - Food (Ninja Tune,2014) Genere: pop, alt, hiphop Nel 2010, dopo il deludente Flash Tone, con le produzioni-impiastro dei vari David Guetta, Benny Benassi e Boys Noize, Kelis aveva quasi deciso di ritirarsi dal mondo della musica, dedicandosi alla sua seconda passione, la cucina, conseguendo un corso all’istituto Le Cordon Bleu di Parigi e divenendo chef. Ha quindi senso che il suo nuovo album, pubblicato dall’avventurosa Ninja Tune, si chiami Food ed abbia titoli come Breakfast, Jerk Ribs, Friday Fish Fry e Cobbler. Non ci troviamo di certo di fronte ad una capitolazione, piuttosto ad un disco sorprendentemente buono; classico nel sound e moderno nella scrittura. L’album segna difatti una sorta di rinascita nel percorso artistico dell’artista newyorchese che, come una fenice, risorge dalle sue ceneri per infondere nuova linfa alla sua carriera. Interamente prodotto da Dave Sitek dei TV On The Radio, Food rappresenta in modo organico e funky la raggiunta maturità artistica dell’autri-

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Stefano Solventi

ce. Passata la sbornia electro-disco pacchiana che ha caratterizzato le ultime uscite, ci troviamo di fronte un lavoro pieno di pulsazioni e di vita, che mescola gospel e afrobeats, percorsi di crescita e forti legami sentimentali. Un’inaspettata rifioritura per una navigata popstar che dopo il successo di album come Kaleidoscope quindici anni fa e la club-banger Milkshake che l’ha portata sui piatti più caldi dei DJ di tutto il mondo, era in netto declino. Food è decisamente fatto di un’altra pasta ed ha un altro tono, rappresentando il chiaro scarto artistico tra quello che è stato e quello che potrà essere il futuro di Kelis. Un disco che, anche nei testi, non guarda ai fallimenti passati con acredine ma riscopre una nuova alba in instrumental croccanti e pieni di soul, sui quali la Nostra lascia il suo marchio con una vocalità che, più che una noiosa perfezione, ricerca l’espressività e l’interpretazione. Riuscendoci. Un approccio al futuro ottimista caratterizza le atmosfere di tutto il disco, come nel singolo Rumble, senza sotterfugi pseudo-intellettuali ed inutili orpelli. Ci sono le pulsazione electro sullo sfondo di Forever Be, i cori contagiosi di Breakfast, i ritmi afrobeat di Cobbler e la vocalità soul di Biscuits ‘n’ Gravy, tutti numeri che farebbero impallidire le recenti produzioni della x-popstar di turno. Un graditissimo ritorno. 7.2/10 Luca Falzetti

King Of The Opera - Driftwood EP (A Buzz Supreme,2014) Genere: psych Secondogenito dei King of the Opera, nati come prosecuzione del percorso artistico di Alberto Mariotti aka Samuel Katarro, Driftwood EP si presenta come un’opera di poco meno di 20 minuti per soli tre brani capaci di creare un unico, ipnotico flusso, tra il visionario e il cinematografico, in scia all’esordio Nothing

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Enrica Selvini

Kylie Minogue - Kiss Me Once (Parlophone,2014) Genere: pop Dodicesimo disco della regina del pop australiana. Dopo la débâcle Aphrodite, Kylie Minogue decide di cambiare rotta e di unirsi alla Roc Nation di Jay Z, aggiungendo per la registrazione i produttori norvegesi Stargate (quelli di Ne-Yo, Beyoncé e Rihanna, per dirne tre), will.i.am., Darkchild (produttore di Justin Bieber, The Black Eyed Peas e molti altri), Brooke Candy (la rapper americana che si vede nel video di Grimes, Genesis), MNDR e pure Enrique Iglesias. In più anche una punta mainstream bass (la collaborazione con la cantante e compositrice australiana Sia Furler, che fa pure da executive producer), e la manina produttiva di Ariel Rechtshaid (We Are Scientists, Sky

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Ferreira, Major Lazer, Charli XCX e Grammy per la produzione di Modern Vampires of the City dei Vampire Weekend). Kylie si ripara in copertina dietro un vetro con le gocce che scendono e oggi – che ha quasi raggiunto i 46 anni – non può che utilizzare come scudo antirughe questo muro di produttori e makers del suono now. Le canzoni in parte funzionano (Feels So Good, I Was Gonna Cancel, Sexy Love fanno il loro lavoro, esaltando la voce pop della cantante), in parte sono un po’ troppo influenzate dal “pompaggio” EDM americano (Sexercize) e da un “vocoderismo” (Les Sex) mescolato con l’autotuning che non esalta più (Million Miles). Il risultato è un tentativo di riciclaggio di un’immagine iconica distante anni luce da Can’t Get You Out Of My Head, che trasforma la cantante in un manichino pop perfetto. Kylie Minogue è il nuovo cyborg, la voce dentro il robot, il mezzo senza il messaggio. A differenza di Madonna e Lady Gaga, che restano sempre e comunque corpi, Kylie si trasforma in una farfalla sempre più virtuale. In questo senso, questo disco vale la pena di essere ascoltato. Kiss Me Once rappresenta l’unica possibile rinascita di Kylie, decadente regina spodestata del pop. 6/10 Marco Braggion

Laibach - Spectre (Mute,2014) Genere: industrial Era dal 2006 che i Laibach non si presentavano con materiale nuovo, da quel Volk che rivisitava i canti popolari di mezzo mondo e dunque anche lì non era tutta farina del loro sacco. Per trovare un disco di inediti vero e proprio bisogna tornare indietro al 2003, a WAT, lavoro a cui Spectre si riallaccia se non altro per la pochezza musicale di queste 14 tracce. Non che sia un disco sconclusionato, ma la formula industrial pop degli sloveni è ormai

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Outstanding, targato 2012. La band si allontana dal blues dagli echi barettiani che contraddistingueva il progetto Samuel Katarro per avventurarsi, a partire dall’iniziale e sussurrata Coulor and Lights, tra atmosfere più delicate ed eteree figlie dei Mercury Rev di Deserter’s Songs e sorrette da una linea di piano che ricorda da vicino le intenzioni di Angelo Badalamenti della O.S. di Twin Peaks. La seconda traccia, Remember Something, sembra invece figlia tanto dei Tortoise di TNT quanto di certo post rock a la Mogwai, tra riverberi e feedback sapientemente miscelati su cui, a tratti, si stende come un velo l’ombra lunga dei primi Pink Floyd. Counting Shadows, ultimo brano dell’EP, è un mare sonoro che cresce, solcato da un giro di pianoforte ossessivo, in una ricerca di suoni e stili che pare essere l’inizio di un percorso, solo un assaggio di ciò che, non ci sono dubbi, è destinato a crescere in una futura release. 7/10


Stefano Gaz

Le luci della centrale elettrica - Costellazioni (La Tempesta Dischi,2014) Genere: rock, indie Con Costellazioni Vasco Brondi ci tira per la

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giacchetta, raccoglie le critiche di “immobilità stilistica” che gli sono piovute addosso ai tempi del secondo disco e ci spiattella in faccia la sua voglia di fare musica, imponendoci peraltro un giudizio netto. Lo fa rischiando in prima persona e confezionando un lavoro intrigante e suicida al tempo stesso, tanto che i delatori più talebani si divertiranno un mondo a impallinarlo senza pietà. Un errore, a nostro avviso. Perché se è vero che Costellazioni non è un disco perfetto, è vero anche che Brondi non è mai stato tanto musicista come in questo album, con tutti gli annessi e connessi del caso. L’idea che ci si fa alla fine dei quindici brani in scaletta (forse troppi, considerata la qualità di alcuni) è che il Vasco nazionale dell’indie nostrano abbia margine per uscire da quel format stilistico che tutti conosciamo, e questa è una buona notizia. Fedele compagno del Brondi di Costellazioni è un suono furbescamente evocativo, grasso e in molti casi sognante a base di synth e timbri avvolgenti, che soprattutto negli episodi iniziali – a nostro avviso, tra i migliori del lotto – “vitaminizza” i testi a ruota libera del musicista ferrarese con un mood ad uso e consumo dei fan. Eppure ci pare che non sia quello lo scopo principale delle scelte stilistiche, quanto piuttosto dar vita a una forma canzone per certi versi inedita, abbastanza malleabile da adattarsi all’occorrenza, in qualche caso coraggiosamente confusionaria. Si parla di una confusione che nasconde una buona vitalità, sia chiaro, in bilico tra amori giovanili (i CCCP più post-punk-wave che fanno capolino in Ti vendi bene), citazioni trasversali (la spoken word in stile Massimo Volume della vaporosa e malinconica Macbeth nella notte), evoluzioni naturali di uno stile riconoscibile (la vendittiana/brondiana Le ragazze stanno bene). Per buona parte dell’album il titolare riesce a fare quello che raramente gli è riuscito in

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usurata. Ci sono buoni episodi, specie quando i Laibach flirtano con l’EBM (l’hit dancefloor The parade, Eat liver con qualche ricordo della teatralità di Foetus) o con il marziale, vedi la marcetta pop di Whistleblowers che prova a coniugare industrial e Adam and the Ants, però arrivano anche tamarrate piene di synth bombatissimi come No History, roba che potrebbe remixare Skrillex e che segna qualche skip di troppo in scaletta. Ok, il fascino dei Laibach non è mai stato prettamente musicale ma legato al discorso politico, però anche qui le cose cambiano, non necessariamente in meglio. Se negli anni ’80 e ’90 l’attenzione e l’estetica del gruppo era fortemente incentrata sui temi dell’ideologia e del totalitarismo, con relativo cortocircuito mediatico nella natale Yugoslavia che li ha spesso equivocati come filo nazisti, ora l’approccio alla materia politica è più diretto, di protesta. Si va dalla resa del sogno europeo (Eurovision) alla glorificazione dei nuovi eroi digitali Snowden, Assange and co. passando per le speranze di una nuova politica e di un mondo migliore (No History e Korean), argomenti certo condivisibili ma affrontati con toni un po’ generalisti e con discreto ritardo sul pezzo (della serie occupy Wall Street and judge the intentions of those we don’t trust). Arriveranno in Italia ad aprile per alcune date live. Forse quello è il momento giusto per capire se i Laibach hanno ancora benzina in corpo o se, come suggerisce Spectre, si è accesa la spia della riserva. 5.4/10

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Fabrizio Zampighi

Linda Perhacs - The Soul Of All Natural Things (Asthmatic Kitty Records,2014) Genere: psych, folk La storia è nota, non foss’altro perché se ne è parlato per il terzo album di Julia Holter, ma è bene ripassare. Nel 1970 un’igienista dentale dell’area di L.A. pubblica un disco, Parallelograms, che è un piccolo/grande capolavoro di psych-folk al femminile. Grande, perché la tecnica di registrazione, con strati e strati vocali

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che si addossano creando un mondo fantasmagorico coloratissimo, e la qualità dei brani che contiene lo porrebbero di diritto tra i dischi migliori del genere. Piccolo, perché le copie che circolano sono poche e mal distribuite. Risultato: Linda torna a fare l’igienista dentale e di lei non si sa più nulla fino al 2010. Forza di internet, retromania incalzante e snobismo arty fanno sì che un gruppetto di musicisti losangelini, inclusa la già citata Julia Holter, riesumino quel disco e lo pongano come oggetto di culto nella loro discografia personale. La Holter, come abbiamo raccontato, suonerà anche nella backing band del tour della Perhacs, tanta è l’attesa che la community spera di veder soddisfatta. E come nella migliore tradizione di questi anni (vedi alla voce Sixto Rodriguez), c’è lo spazio per un ritorno anche alla forma disco, con un album che è stato meditato a lungo. La voce non ha più lo smalto di un tempo, ma il tono sopranile riesce ancora a incantare per brevi istanti. Quello che manca a questo secondo disco è solamente la freschezza di allora, l’urgenza comunicativa e compositiva, le cose da dire. I richiami a una vita meno frenetica, più in contatto con la natura e meno determinata dai consumi erano pane quotidiano della cultura della West Coast degli anni Settanta; oggi sanno un po’ di stantio e di new age andata a male. Ciò non toglie nulla alla penna di una signora non più giovanissima, capace di scrivere ancora buonissimi brani da mandare in FM. C’è stata anche un’evoluzione, con l’accoglimento di accenti latini nel proprio sound, ma con tutto l’affetto per il disco di allora e la simpatia per l’artista di oggi, The Soul of All Natural Things rimane intrappolato nel passato. 6.7/10 Marco Boscolo

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passato, ovvero lavorare di sintesi con le parole per privilegiare l’aspetto musicale; tant’è che quando non va in questa direzione – la prescindibile Una cosa spirituale – o quando, al contrario, si lascia troppo andare inseguendo ipotetiche esplorazioni pop – la pseudo jovanottiana Questo scontro tranquillo, sinceramente nemmeno passabile -, i risultati non sono all’altezza. Brondi funziona “in mezzo”, ovvero quando trova un corrispondente musicale capace di lavorare in simbiosi col suo cut up, come nella springsteeniana – altezza Streets Of Philadelphia – Punk Sentimentale, nella minimale 40 km o nel folk popolare di Blues del Delta del Pò. Popolare, appunto, come poi è sempre stata – anche orgogliosamente, da un certo punto di vista – la canzone brondiana: in questo disco, a ribadirne la natura pensa un approccio che, tolti tutti i colori degli strumenti, rimane in qualche maniera “punk” e poco attento all’ortodossia. Piaccia o non piaccia, anche in Costellazioni la musica de Le luci della centrale elettrica resta qualcosa da spendere in ascolti individuali, sede privilegiata di una catarsi (o di un odio feroce, a seconda) che ognuno plasmerà a propria immagine e somiglianza. Per quanto ci riguarda, un convinto pollice in alto, pur senza certe tempeste ormonali da teenager in fissa. 6.8/10


Genere: art, folk Delle radici nelle mixtape e nei vinili della collezione paterna, avevamo già detto all’epoca dell’esordio, altezza 2011, con un O, Devotion che faceva ripensare ai fasti del 2007, quando ventiquattrenne, la Nostra vinse il concorso di Glanstonbury come miglior artista emergente. Lì, tra dischi di Elton John, Bob Dylan e Karen Dalton, aveva trovato la strada verso un folk jazzato dalle tinte fortemente pre-war. A distanza di due anni abbondanti – è una che non ha fretta, per fortuna – la sua voce baritonale ritorna per un altro giro di valzer nelle sonorità che già abbiamo imparato a conoscere, dove alla sensibilità folk d’Albione sapeva (e sa) coniugare un amore tutto suo per il vaudeville, il jazz, le torch song, sempre mantenendo alta la vena ironica. Si aprono le danze con un’accoppiata solo cantato e banjo (Battle) di cui bisogna sottolineare la cura nel trattamento della voce: un’eco sapiente che dà l’atmosfera necessaria a un brano che si regge tutto sull’interpretazione. La stessa cura che troviamo in tutto il disco, perché se è vero che le atmosfere sono spesso quelle d’antan, è vero anche che lo sono quasi con chirurgica ricostruzione. Non che la mancuniana giochi al passatismo (o non solo: vedi il video del primo singolo). Liz Green non si lascia tirare per la giacchetta verso facili lidi radiofonici o hipster intrapresi da altre folksinger. Preferisce riproporre una formula personale, solo più collaudata e solida, per navigare le acque del genere. Impressiona il controllo nel già citato primo singolo (Where The River Don’t Follow, con l’intro The River Runs Deep) che rimanda (anche per le immagini) a quel mondo tra fien de siècle e Belle Époque che evidentemente tanto affascina la sua interprete. Buone Penelope e Empty Handed Blues: non ci troverete dentro nulla di nuovo,

ma sono scritte, cantate e suonate egregiamente. Basta l’interpretazione a fare l’artista? Forse no, ma è un bel sentire e lasciarsi trasportare verso altre epoche. 7.1/10 Marco Boscolo

Mac DeMarco - Salad Days (Captured Tracks,2014) Genere: pop, indie A volte si può cogliere molto di un disco dalla copertina, e la discografia di Mac Demarco si presta molto a un’analisi del genere. Rock’N'Roll Night Club, con Mac in posa col rossetto, era un omaggio al glam, i toni sexy da crooner della title track andavano esattamente in quella direzione. Nel secondo disco, 2, vero esordio sulla lunga distanza, lui sta in copertina con la chitarra allacciata altissima tipo Costello, il cappellino ridicolo in testa e il segno di vittoria fatto con la mano, e infatti il disco rispecchia una miscela indie-pop suonato come se fosse jazz. In pratica, la brillantezza melodica dell’esordio che incontra un certo scazzo slacker. Salad Days, ancora su Captured Tracks, questa volta lo mostra sbilenco, tra luce ed ombra, quasi combattuto tra un lato spensierato e uno più emotivo. Ancora una volta la musica gli fa perfettamente il paio. Sul versante più pop, sembra di ascoltare i Weezer che registrano un demo con Ariel Pink (Let Her Go). In generale, e in continuità con la discografia del Nostro, in primo piano c’è sempre la sua chitarra lucente, una voce che si è fatta più versatile (Threat Her Better) e la solita brillantezza della casa. Altre volte affiora la volontà di approfondire certi toni romantici: nella bellissima Brother, ad esempio, Demarco sveste i panni di “scazzato” ed indossa quelli di un Mink DeVille onirico, disegnando una parabola lieve, carezzevole. Niente male per un artista che pareva fino a ieri

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Liz Green - Haul Away! (Play It Again Sam,2014)

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interessato allo sberleffo pop (la canzone dedicata alle sigarette Ode To Viceroy da 2). Sporadicamente spuntano l’acustica e percussioni tenui a cesellare una torch song (Let My Baby Stay), altrove emerge un’elettronica gentile lavorata sulla sezione ritmica e sui suoni sintetici che ricorda i Prefab Sprout (Chamber of Reflection, l’electro-pop di Passing Out Pieces). Brani fatti di niente, votati a un chitarrismo praticamente privo d’effetti, alternati a episodi che ampliano timidamente lo spettro sonoro (Johnny’s Odyssey). Disco godibile, senza manierismi né noia. Non una svolta, ma sicuramente una buona prova. 7/10 Andrea Macrì

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Genere: pop, elettronica Che ormai tutto fosse lecito per Diplo, l’avevamo capito con il precedente Free The Universe. Dalla disinvoltura dell’esordio (Guns Don’t Kill People… Lazers Do, 2009) alla spudoratezza del secondo episodio, il passo è stato breve quanto significativo e questo ulteriore EP, a distanza di nemmeno un anno, cambia di pochissimo la cifra stilistica di un progetto arrivato ormai a lambire i contorni più molesti e allo stesso tempo docili del genere. Un grosso frullatore di Dancehall digitale pressoché piatta, priva di veri e propri groove e che trova la propria ragion d’essere nelle collaborazioni messe insieme per l’occasione. Quale scusa migliore per pubblicare materiale se non un singolo d’apertura con l’ormai onnipresente Pharrell, che in Aerosol Can sembra in combutta con Diplo nel voler ricreare l’effetto contagioso di Blurred Lines? Sfortunatamente l’alchimia non si ripete ed il risultato è abbastanza anonimo, seppur a tratti divertente. Gli episodi successivi, in cui viene rispolvera-

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Luca Falzetti

Metronomy - Love Letters (Because,2014) Genere: pop, indie Chi ha adorato il precedente The English Riviera, non rimarrà sicuramente deluso o sconvolto dal sound della quarta fatica di Joseph Mount, che, seppur con le dovute modifiche del caso, sembra aver ormai trovato la classica quadratura del cerchio. Abbandonati gli spigoli electro-punk dell’esordio e gli anthem indie-disco del successivo Nights Out (2008), la band del Devon continua a disegnare piccoli quadretti pop dal forte sapore Seventies, con la leggerezza dei Fleetwood Mac di Rumours in sfondo perenne ma anche un delicato bilanciamento verso un suono dichiaratamente moderno. Synth profusi e tastiere ormai riconoscibilissime fanno dei Metronomy una delle realtà electro-pop più brillanti in circolazione, che probabilmente trovano la loro controparte statunitense nell’art-rock d’autore di St.Vincent.

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Major Lazer - Apocalypse Soon (Mad Decent,2014)

to perfino Sean Paul, sono invece la versione ulteriormente annacquata del suono Jamaicanroots trapiantato nei club di mezzo mondo e riproposto da Diplo senza particolari alterazioni. L’introduzione solare di Sound Bang promette forse più di quanto effettivamente la canzone sappia offrire, mentre la martellante Lose Yourself, con RDX e Moska, non ha scusanti e risulterebbe tediosa in qualsiasi club e a qualsiasi ora. Le note positive di questo maxi singolo sono poche purtroppo, considerando che Recess di Skrillex ha più spunti e coerenza artistica di ogni singolo pezzo presente qui (basta metter su Ragga Bomb per chiarire la storia); la sensazione è che la data di scadenza di questo progetto sia passata da un pezzo. 3.5/10


Luca Falzetti

Millie and Andrea - Drop the Vowels (Modern Love,2014) Genere: techno Mancuniani entrambi, Millie (ovvero Miles Whittaker dei Demdike Stare) e Andrea (Andy Stott) si scambiano file da diversi anni, ormai. Il primo 12” firmato dalla coppia, Black Hammer / Gunshot (Stripped), inaugurava nel 2008 sia una label personale (Daphne), sia un

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metodo di lavoro epistolare che diventa quasi subito prassi, dati gli impegni crescenti delle parti coinvolte. I due vanno in libertà. In generale, alcuni degli ingredienti basali di Andy (techno dub e house) vengono spediti alle cure di Whittaker, che farcisce a piacimento con tocchi dub, breakbeat, grime e altri smalti sonici rispediti poi all’amico chiamato a fare altrettanto (e viceversa) Ora che Stott ha raggiunto la notorietà con Luxury Problems e Miles Whittaker, trasferitosi a Berlino, ha intensificato l’attività solista e con i sempre benvoluti e attivissimi Demdike Stare, per i producer di casa Modern Love un album lungo e un tour significa oggi sia una boccata d’ossigeno, sia un occasione per sperimentare nuove soluzioni attraverso una modalità lavorativa consolidata negli anni. A sentirne più il bisogno, quell’Andy Stott che in un set al Locomotiv dello scorso febbraio e soprattutto in una recente intervista concessa a Thump, ha mostrato una spinta ad evolvere anche, a detta sua, in territori più luminosi e pop. Il producer cita Lil B e Jai Paul, due personaggi che a suo modo di vedere hanno accesso alla luce e al melodico mantenendo comunque un buono strato di bizzarrie produttive, suoni compressi e tocchi sabotanti. Gli arrangiamenti di Corrosive che hanno anticipato la pubblicazione dell’album, tra trap e collisioni ambientali di casa Modern Love, sono esattamente quel tipo di variazioni che il producer, coadiuvato da Miles (che ha fornito il drone), sta cercando ora, come è evidente che le aperture melodiche per timidi synth di Stay Ugly vanno nella direzione delle produzioni alternative r’n'b del demo di Paul. Altrove i due, già all’attivo con casse rullanti nei rispettivi live set degli ultimi mesi (e più), provano un range di possibilità jungle (scomposto e riassemblato) piazzandole su antemiche techno rave (Temper Tantrum, la seconda parte di Corrosive), mimetizzande su

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Entrambi hanno saputo trovare la propria strada espressiva guardando al passato (Talking Heads per la Clark, Kraftwerk e Fleetwood Mac per Mount), risultando allo stesso tempo irrimediabilmente al passo coi tempi, tempi in cui il digitale imita l’analogico e l’elettronica si mescola a tastiere vintage e appastellate. Moderna è la produzione impeccabile, I’m Aquarius su tutte, ma anche l’approccio al songwriting che, a metà tra romanticismo e disincanto, ci regala un’istantanea perfetta sull’idea di amore di Mount: un folle declino, un mistero irrisolvibile, un eterno ultimo ballo prima dell’addio finale. Insomma, Love Letters è un po’ la cartolina amorosa che gli abitanti della English Riviera dei decenni d’oro userebbero per scambiarsi la corrispondenza. Tinte tenui, che in The Upsetter si colorano di blues nel finale, oppure si caricano di fiati e cori Sixties nell’energica title-track, per poi farsi più malinconiche nella seconda parte: “we can get better, we can get better”, ripete Mount con tono dismesso in Call Me, in vista di un desolato break-up, che in Reservoir si è già trasformato in nostalgia. I Metronomy, concisi come al solito, fanno i bagagli già alla decima traccia, Never Wanted, chiudendo un quarto album che, seppur poggiando fortemente sulle basi gettate nell’LP precedente, non delude affatto le aspettative. 7.2/10

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solidi binari house (l’ottima Spectral Source), oppure ancora ancorandole a manti corrosivi (l’omonima Drop The Vowels). E la jungle si sposa perfettamente con la natura laboriatorale – e in divenire – di un progetto non indispensabile ma vivo e costruttivo, tanto per le parti coinvolte quanto per l’ascolto. Di classe anche il finale à la Basinski (Quay), con Whittaker alle prese con effetti e note sospese prese da epoche lontane. 7/10 Edoardo Bridda

Genere: post-punk, funk, blues Arriva dalle valli bergamasche il progetto Moostroo -“monstruosus trio”, come si autodefinisce la band- formato da Dulco Mazzoleni, Francesco Pontiggia e Igor Malvestiti sotto la produzione artistica di Stefano Gipponi di Le Capre a Sonagli. Un disco che suona vero e viscerale, grazie anche a un lavoro di post-produzione molto scarno, a un suono quasi primitivo e a parole al vetriolo che si scagliano contro l’ipocrisia della morale comune. Un flusso di pensieri, a tratti geometrico e a tratti affogato nel caos, che sacrifica il proprio senso nel nome della perdita d’identità e della difficoltà legata a una reale realizzazione personale. Moostroo è un delirio consapevole, a metà strada tra un blues esangue e ridotto all’osso (parente alla lontana di quello di revival band à la Black Keys e in questo vicino agli italianissimi Pecore Elettriche e Venus In Furs) e il suono rozzo e pulsante dei primi Stooges, con l’ombra lunga e salmodiante dei CSI a tracciare la via. In questo senso, non mancano le declamazioni in stile ferrettiano (Valzerino di provincia), gli sfoghi punk sulle mostruose quotidianità che ci circondano (Silvano pistola, Mi sputo in faccia) ed episodi più vicini alla

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Enrica Selvini

Motorpsycho - Behind The Sun (Rune Grammofon,2014) Genere: rock, prog Raggiungere il traguardo dei venticinque anni di carriera non è roba da tutti, ma quando ci arrivi senza scendere a compromessi, senza mettere un freno alla tua libertà artistica e attraversando generi musicali e sconvolgimenti di line-up, allora l’impresa assume i caratteri del miracolo. I Motorpsycho sicuramente rientrano in questa categoria di band. A meno di un anno di distanza dal buon Still Life With Eggplant, la formazione norvegese, capitanata da Bent Sæther e Hans Magnus Ryan, torna con Behind The Sun, andando a ricalcare quei territori che aveva già esplorato nei precedenti Heavy Metal Fruit, The Death Defying Unicorn e Little Lucid Moments e chiudendo un’ipotetica tetralogia dedicata al prog-rock. Un

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MOOSTROO - Moostroo (Autoprodotto,2014)

canzone d’autore italiana (l’opening Lps e Bacio le mani). Gli unici dubbi vengono da un mixaggio che lascia forse troppo “in faccia” un cantato a tratti monocorde, su testi che alternano ottime trovate a un uso della rima che rischia di rendere il tutto un po’ troppo “ordinato”, scostandosi da quelle che sembrano essere le reali intenzioni della band. Moostroo lascia comunque una traccia forte, anche se non necessariamente piacevole, nell’ascoltatore. Che i tempi siano maturi per un’indignazione più concreta e per una reale presa di posizione è ormai chiaro, e Moostroo sembra proprio voler veicolare il malessere odierno nel tentativo di ribellarsi alle messinscene pubbliche e private, mettendo a confronto il nostro io più torbido con l’ipocrisia dei tempi, in una lotta senza vincitori né vinti. Da ascoltare con attenzione. 6.9/10


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Muscoloso e ispirato, Behind The Sun è tra i migliori album di una band ancora lontana dal nadir della propria carriera. 7.5/10 Andrea Murgia

MØ - No Mythologies to Follow (Chess Club,2014) Genere: pop, electro Karen Marie Ørsted, in arte MØ (“vergine”), è una giovane danese classe ’88 dalla treccia bionda e dall’aria apparentemente innocente, cresciuta a pane, Spice Girls e Sonic Youth. In verità, la sua carriera inizia cinque anni fa all’insegna del rap, quando la ragazza canta strofe tipo When I Saw His Cock che sembrano venire dirette dall’abecedario di Peaches. Nel 2012 esce il singolo Maiden, che vede un’orecchiabilissimo giro di chitarra elettrica, poi, ad ottobre dello scorso anno, arriva l’EP Bikini Daze, che traccia il solco del primo LP con due canzoni su quattro presenti in entrambi i lavori. Spicca la delicatissima e malinconica Freedom (#1), tutta ugola e pianoforte: uno dei pezzi migliori dell’artista che purtroppo non rientra in No Mythologies To Follow. Nato in collaborazione con il produttore Ronni Vindhahl - conosciuto in patria per essere parte del duo di Copenaghen No Wav. e fondatore del collettivo Boom Clap Bachelors, a cui si deve il campionamento presente in Bitch, Don’t Kill My Vibe di Kendrick Lamar -, il disco di debutto viene circondato da una discreta dose di hype, con il profilo Facebook di Karen che tocca quota 100.000 fan. Senza girarci troppo attorno, è un debutto efficace, una bella boccata d’aria fresca che giustifica le attese. Merito di una gran voce, delicata, aggressiva e sognante a seconda del momento, e di un’estetica azzeccata e mai invadente che riesce a bilanciare una produzione di stampo hip hop con vocalizzi debitori tanto verso l’r'n’b attuale,

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viaggio di sola andata verso la faccia oscura del Sole, in cui i tre di Trondheim macinano riff e ritmiche con mestiere e classe, dimostrando ancora una volta di sentirsi pienamente a loro agio con un genere musicale che ha scritto sia pagine importanti di musica contemporanea, sia pacchianate di dubbio gusto. Superfluo dire che i Motorpsycho hanno preso il meglio dal prog, sintetizzando in maniera impeccabile la lezione impartita dagli Yes e dai Genesis, e arricchendo il vocabolario di un linguaggio che a fine Settanta aveva già finito benzina e idee. Ottimi gli episodi del disco: si va dalla ballad in tipica salsa Motorpsycho, Ghost (bravi Ole Henrik alla viola e Moe Kari Rønnekleiv al violino), alla marmorea The Promise - sicuramente uno dei pezzi più ispirati, non solo dell’intero disco, ma anche dell’ultima produzione della band -, passando per la suite strumentale di 7 minuti Kvæstor, che al suo interno racchiude l’infernale galoppata Where Greyhounds Dare, scelta come traccia apripista del disco. Hell, part 4-6: Traitor/The Tapestry/Swiss Cheese Mountain e Hell Part 7: Victim Of Rock, quasi a sottolineare la chiusura di un cerchio, completano la suite cominciata nel precedente Still Life With Eggplant con Hell, part 1-3. Tra i segreti di una prolificità che ha pochi eguali (ultimamente solo Ty Segall e i Thee Oh Sees, seppur in ambienti diversi, sembrano toccati dallo stesso sacro fuoco) ci sono sicuramente le collaborazioni con musicisti esterni, alcuni dei quali talmente apprezzati e chiamati di frequente da diventare membri della band a tutti gli effetti. Il caso di Reine Fiske è sicuramente il più significativo: chitarrista degli svedesi Dungen, Fiske si è inserito negli oliati meccanismi del gruppo, sintonizzandosi perfettamente sulle stesse frequenze chitarristiche di Snah e portando in dote in sala di registrazione – e su questo lavoro si sente, eccome – concretezza e una ventata di freschezza.


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L’impronta di Fridmann si fa notare, vedasi la title track con il grandeur psych-pop della coda, Impressions, Divebomber, la Gabriel-iana White Lies And Alibis e, in generale, nel fornire un ulteriore tocco al songwriting del neozelandese. Finn comunque tiene ben strette le redini del disco, che si muove nei territori pop più cari al Nostro; canzoni ispirate che oscillano tra malinconia e solarità, psichedelia, soul e pop puro. La meraviglia cinematica di Divebomber paga il suo tributo alle armonie dei Beach Boys (con falsetto alla Wayne Coyne compreso), mentre Flying In The Face Of Love e Impressions richiamano Paul McCartney. L’attitudine in stile “Macca” alla contaminazione è peraltro presente da sempre nel lavoro di Finn, uno dei continuatori più sagaci del liverpooliano, melodie e ballad comprese (Lights Of New York). Finn non si smentisce e accompagnato dalla family band (con la moglie Sharon al basso e alle armonie, i figli Liam e Elroy a chitarra e batteria) produce un ritorno godibilissimo, in cui si fondono passato e presente. 7.3/10

Daniele Rigoli

Genere: indie, folk Ben Chasny dei Six Organs Of Admittance è uno di quei musicisti che non riescono mai a stare con le mani in mano. A dimostrarlo, non solo la carrellata di album che, dal 1998 in poi, il Nostro ha dato alle stampe con la band madre (l’ultimo, Ascent, risale al 2012), ma anche vari progetti e avventure tra le più disparate, come le collaborazioni con Comets On Fire, Rangda, 200 Years. Il duo dei New Bums (a voi la traduzione del nome) è dunque da considerare come l’ennesimo tassello nella carriera sterminata di Chasny, e stavolta ad accompagnarlo c’è Donovan Quinn degli Skygreen Leopards,

Neil Finn - Dizzy Heights (Kobalt,2014) Genere: pop, cantautori Un cantore pop raffinato come Neil Finn non avrebbe bisogno di tante presentazioni (l’esordio negli ’80 con gli Split Enz, poi i Crowded House fino al 1996, due dischi solisti, tra le tante collaborazioni quella con il fratello Tim, il progetto 7 Worlds Collide, il ritorno dei Crowded nel 2007…). Con Dizzy Heights arriva al terzo album solista, con la scintillante coproduzione di Dave Fridmann (Flaming Lips, Tame Impala, Mercury Rev).

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Teresa Greco

New Bums - Voices In A Rented Room (Drag City,2014)

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quanto verso il girl pop dei ’50. Si passa dal synth-pop di Slow Love agli ammiccamenti delle ultime Cocorosie di Red In The Grey, passando per lo squillante electropop sul tappeto post-trap di XXX 88 che vede la presenza dell’amico Diplo. L’hip hop è un po’ il grande amore di MØ - lo si nota nei campionamenti di Pilgrim - ma la ragazza spazia e in Dust Is Gone sembra cantare Lana Del Rey, con tanto di ovattato e lamentoso andamento da sensualona. Never Wanna Know è uno degli episodi più convincenti, con la Nostra che canta una storia d’amore ormai conclusa e un ritornello che, per quanto non sia il massimo a livello di songwriting, ti entra facilmente in testa (“I never wanna know the name of your new girlfriend”). C’è anche spazio per il tributo alle eroine di gioventù: a dispetto del titolo, Don’t Wanna Dance è uno dei pezzi più divertenti e ci catapulta negli anni d’oro di Geri Halliwell e compagne (rilette anche nella recente cover di Say You’ll Be There). Una prima prova più che convincente, che non inventa nulla ma riesce a imitare e rielaborare con un taglio attuale concetti già ampiamente esplorati, definendo MØ come una delle figure più invitanti della scena pop contemporanea. 7/10


Giulia Antelli

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N_Sambo - Argonauta (Cappuccino Records,2014) Genere: rock, elettronica Il viaggio di Nicola Sambo – in arte N_Sambo – prosegue con Argonauta, disco che arriva a tre anni di distanza dalle prime due prove, rispettivamente Sofà Elettrico e Suspended. Stavolta, il musicista livornese ha deciso di cominciare da una storia, che racconta “un’evasione, di un viaggio in mondi e personaggi immaginari, attraverso un concept album suddiviso in 13 tracce”. Già dal titolo, infatti, Argonauta suggerisce il continuum di un percorso che affonda le radici nell’elettronica, ma che finisce per diventare un ibrido tra pop e dilatazione psichedeliche, come se la forma-canzone, rigorosamente imposta entro i limiti del cantautorato classico, avesse avuto la possibilità di svilupparsi solo al proprio interno: in altre parole, una scrittura che segue strade, rotte e collisioni sonore sempre diverse da loro, ma ancora inserita e legata, nell’aspetto, alla tradizione italiana. Il risultato sono brani dalla forte eterogeneità, accomunati tutti da una grande voglia di sperimentare e di spaziare tra i vari generi: si va dalla sofisticatezza pop à la Franco Battiato – sicuramente una delle influenze più riconoscibili -, ad esempio nei paesaggi lunari della title-track, a declinazioni krautrock, come dimostrano gli echi stranianti di Nella rete o Ruderi alieni, due brani che sembrano scritti dai migliori Bluvertigo. Esempi che ribadiscono ulteriormente il legame di Sambo con la nostra canzone d’autore, sottolineato anche da L’incontro, traccia a cui partecipa Simone Lenzi dei Virginiana Miller e in cui riecheggia il fantasma di Fabrizio De Andrè, anche se riconvertito a quell’estetica spaziale e fantascientifica che domina tutto il disco. Altrove, è forte la presenza di elettronica, rock e psichedelia, quest’ultima riconoscibile soprattutto nell’approccio alle melodie, sempre sviluppate

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altri discepoli di quell’acid/psych-folk che ha spesso caratterizzato la discografia dei Six Organs Of Admittance. Il risultato è Voices In A Rented Room, un album che, a sentire il duo, è stato messo insieme nell’arco di cinque anni, tanto per sottolineare ulteriormente la natura estemporanea e occasionale del progetto. Quello che i due musicisti non rivelano è che le canzoni suonano tutt’altro che come ritagli o prove esterne dai gruppi di riferimento: a partire dallo standard folk-blues dell’opening Black Bough – fingerpicking, voce dolente e melodia fumosa -, appare chiaro che la coppia fa sul serio. Pur con la leggerezza di spirito che soltanto un divertissement potrebbe avere, ci troviamo di fronte a un disco perfettamente a fuoco, coeso e convincente nella sostanza delle singole canzoni, brani che spaziano dalla dark ballad in aria Waits e Cave ai dettami del folk americano più polveroso e oscuro, ad esempio nella malinconica rassegnazione di pezzi come Your Girlfriend Might Be A Cop e Cool Water, o nell’intimismo alt.country di Sometimes You Crash. Paesaggi e immaginari tipici della New Weird America che si concretizzano al meglio nel riuscito spaghetti western di The Killers And Me, senza dubbio il brano più bello del lotto: una traccia che sottolinea l’appartenenza di Chasny e Quinn ad un songwriting tradizionale, antico ma non vecchio, ribadito anche dalla ruggine bluesy di Your Bullshit, altro esempio di quel crepuscolarismo on the road proprio di Gomez e Calexico. Nel complesso, Voices In A Rented Room riesce a convincere l’ascoltatore non soltanto per la qualità di molti brani, ma anche per quell’attitudine lo-fi che lo rende sporco, ruvido e semplicemente affascinante. In altre parole, il giusto esordio per una coppia dall’ottimo potenziale. Bravi. 7.2/10

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in maniera aperta e interconnessa: elementi ricorrenti negli arpeggi radioheadiani di Milky Way o nel lungo esplodere trance/noise di Supernova I e II, così come in Tutto può cambiare, altro pezzo dal sapore pop decisamente italiano, e in cui figurano gli amici Appaloosa. Visto e considerato il percorso fin qui svolto da N_Sambo, Argonauta risulta essere la terza prova di un approccio ancora sperimentale e atipico: nel complesso, un lavoro che, grazie anche a soluzioni interessanti e spesso diversificate, ha il merito di confermare il musicista livornese come una tra le figure più originali all’interno del panorama cantautoriale italiano. 6.9/10 Giulia Antelli

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Genere: rock, indie, post-punk, country, garagerock Nell’era dell’iper-comunicazione è ancora possibile che un disco impieghi quasi un anno per salire alle cronache? Sì: un esempio è l’esordio ufficiale dei Parquet Courts, tentativo (l’ennesimo?) di risposta alla ricerca di senso che il punk ha intrapreso da un po’ di tempo. Non è un vero e proprio esordio: una cassetta del 2011 intitolata American Specialities era già stata pubblicata, ma in quel caso parliamo di una distribuzione puramente carbonara. I Parquet Courts sono Andrew Savage (già nei funk-miniaturizzati Fergus and Geronimo) alla voce e alla chitarra, il fratello Max alle pelli, Austin Yeaton all’altra sei corde e Sean Yeaton al basso. Senso al punk, si diceva. Perché se da un lato, ormai, quasi tutti i musicisti indie-rock parlano di fedeltà a quell’attitudine ma non alla sua sostanza, dall’altro la risposta dei Parquet Courts è tutta nel suono. La rabbia è tenuta sotto controllo, l’originalità-a-tutti-i-costi è bandita, lo sviluppo è fatto principalmente puntando sull’energia. Come a dire: buttiamo via l’hype,

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Andrea Macrì

Peregrines - Proximi Luces (Autoprodotto,2014) Genere: pop, folk Non è mai un bene quando, anche dopo ripetuti ascolti, un disco continua a ricordarti altra musica. È anche peggio se il disco in questione

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Parquet Courts - Light Up Gold (What’s Your Rupture?,2012)

recuperiamo il sudore. Un’idea che, chi ha visto on stage la band, confermerà facilmente. Pubblicato dalla newyorchese What’s your Rupture?, Light Up Gold è una staffilata di grinta e vitalità depurata, da un lato, dai sentori angoscia(n)ti/disperati di gente come gli Iceage (altra band con le chitarre al centro del proprio codice sonico, il cui esordio negli Stati Uniti era stato ristampato dalla stessa etichetta dei Parquet Courts) e dall’altro dalla teatralità mastodontica dei Fucked Up. Organizzato sapientemente su una tracklist che pone al centro e a fine corsa i due momenti più lievi (N Dakota – sorta di nenia scanzonata e agreste retta dal basso – e l’eterea Picture of Health), il disco esibisce 15 pezzi tra il punk e l’indie-slacker di scuola pavementiana. Il tutto usando chitarre secche che in alcuni frangenti sembrano un incrocio tra i Meat Puppets più punk e meno bislacchi e il nervosismo dei Fall, con un cantato spesso altissimo (come nella bella Yonder is Closer to the heart) e con ritmica e chitarre che di tanto in tanto viaggiano all’unisono. Canzoni che si susseguono rapide, battenti, sanguigne, ma senza mai essere negative o frivole, poco arty e molto artigianali (lo-fi è il termine che viene in mente, ma non per l’incuria sonora, bensì per una genuinità di fondo). Con questo disco i Parquet Courts si presentano come una promessa robusta in grado di mischiare cura melodica e carica adrenalinica senza cadere nelle trappole delle pretese di originalità o dell’immobilismo da slogan. 7.4/10


Giulia Antelli

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Pharrell Williams - G I R L (Columbia Records,2014) Genere: pop, rnb, funk Che il personaggio Pharrell, a queste latitudini, sia arrivato un po’ distorto, ci pare assodato. L’abbiamo preso per rapper vacuo, senza corona e senza sostanza, catena al collo, meteoritico e, forse, persino improduttivo. Così è stato quando è arrivata di striscio l’ondata hip hop dei Neptunes, quando coi N*E*R*D passava della strana psichedelia funky su MTV, ma anche, quando, il suo (discutibile esordio) In My Mind veniva sostanzialmente e giustamente snobbato da molta stampa e pubblico. Non che in America le cose fossero andate meglio, ma il ragazzotto (ormai ne ha 40) ha zigzagato, raccolto gusti, ispirazioni e molti amici importanti, ed è giunto ad essere – lo diciamo senza mezzi termini – il produttore più influente del pop contemporaneo. Non c’è da stupirsi, dunque, se fra il misconosciuto esordio e il nuovo G I R L siano passati ben otto anni. Otto anni per riprendersi dalla batosta del flop, certo, ma otto anni anche per creare il mito di una generazione di canzoni che odorano inconfondibilmente di lui. La facilità e la felicità con cui – da producer – concepisce i ritornelli è già storia, una storia che il Nostro sente finalmente il bisogno di cucirsi addosso, libero dal fardello dell’interpretazione. Il tempismo è perfetto, naturalmente: il 2013 è stato il suo anno di grazia, coronato dai due cardini essenziali del pop della passata stagione: Get Lucky e Blurred Lines, entrambi in qualche modo debitori della sua grande personalità, oltre che della sua curiosissisima vocalità, ma soprattutto entrambi hit planetarie uscite in tempo brevissimo l’una dall’altra, dalla sua stessa penna. Quanti altri ci riescono? Di G I R L – se ne possono accorgere tutti – si deve dire che poteva essere un disco maiuscolo (come suggerisce la grafica), ma gli impegni

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rimanda a un genere che, a livello geografico e culturale, non fa esattamente parte del nostro DNA musicale: parliamo di folk, una scena che, abbiamo ripetuto spesso, pretende determinate attitudini, suoni e immaginari, e che negli ultimi anni ha purtroppo generato troppi prodotti e, spesso, cloni. Ahinoi, questo è anche il caso dei Peregrines, giovane band comasca alle prese con Proximi Luces, debutto lungo autoprodotto che li vede cimentarsi con l’indie folk americano più celebre e inflazionato, ovvero gli indispensabili Fleet Foxes, e tanto, troppo, di quello all’acqua di rose dei Mumford and Sons. Nonostante le ottime intenzioni – estrema cura per gli arrangiamenti, buona produzione e innegabile tecnica -, tutti i brani del disco faticano a distinguersi da quelli dei modelli di riferimento. Modelli che, spesso, vengono citati – forse pure inconsciamente – in maniera fin troppo evidente, tanto che potremmo aggiungerne altri: Iron and Wine, Noah and The Whale, un pizzico di Coldplay, Bruce Springsteen. Il sospetto è che i Peregrines si siano ispirati alla scena sbagliata, ovvero a quel calderone generalista buono per le classifiche tirato su da Marcus Mumford e soci, tralasciando di buono tutto quello che il “vero” folk ha generato negli ultimi anni, in primis la musica. Così, non bastano le armonie vocali, né la pace arcadica di montagne e paesaggi incontaminati, né l’aggiunta di un violino, per evitare l’immagine più stereotipata del nu-folk. A fine ascolto, l’impressione è quella di trovarsi di fronte a un band ancora giovane, con mezzi tecnici interessanti ma poche idee. E anche se possiamo giustificare l’ingenuità di certe scelte, nel complesso Proximi Luces presenta una generale mancanza di ispirazione e, soprattutto, un’impronta autoriale ancora incerta e fin troppo legata alle proprie influenze. 5/10

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un’idea definita di quello che avrebbe voluto fare con la sua “morale”: “Le donne sono la forza fondamentale del mondo e la pietra angolare dell’esistenza”. L’aspettativa riposta in Pharrell e nelle sue doti da musichiere contemporaneo viene velatamente delusa da G I R L, album che preferisce appoggiarsi sulla tradizione, sul facile, piuttosto che tentare di spostare l’asticella. È giusto rammaricarsi, così com’è giusto godere di un disco fresco e divertente. 6.5/10 Nino Ciglio

Plymouth - Plymouth (RareNoise,2014) Genere: avant, impro, jazz, freejazz Già in passato complici negli Slobber Pup, Jamie Saft e Joe Morris tornano ad unire le forze nel nuovo progetto, sempre targato RareNoise Records, Plymouth. Sintonizzati sulle frequenze free-jazz di scuola newyorchese, Saft e Morris si fanno accompagnare in questa nuova avventura dagli ottimi Chris Lightcap, Gerald Cleaver e la giovane promessa e allieva di Morris, Mary Halvorson, protagonista nell’edizione 2013 di Ai Confini Tra Sardegna e Jazz di uno dei live più interessanti dell’intera kermesse. Con tre tracce per sessantadue minuti scarsi, Plymouth non si discosta dalle passate produzioni dei due leader – entrambi sono da anni nel giro Knitting Factory e Rogue Art – mostrando piena padronanza di linguaggio e affiatamento, soprattutto su un’asse Morris-Halvorson che costruisce pattern robusti e mai scontati. Ispirato tanto da Cecil Taylor quanto da Jon Lord, Jamie Saft imbastisce tappeti sonori di altissima fattura alternandoli a momenti di estrema follia sonora – in alcuni passaggi l’hammond ha veramente volumi lancinanti – risultando lo snodo principale di tutti i passaggi del disco. Onnipresente. Bello ed estrema-

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(presumibilmente) e una sorta di “ti piace vincere facile?” (più plausibilmente), lo rendono il tripudio del derivativo. Fermi tutti: non è certo un male. Stiamo parlando di un coloratissimo collage di post–Michael Jackson (forse più Jackson 5), di Motown allegrotta, di Prince, di Talking Heads e di Blondie. Il punto è che si poteva e si doveva pretendere di più, date le premesse e dato soprattutto il singolo sul quale si basa il disco: Happy, già colonna sonora di Cattivissimo Me 2, candidata all’Oscar e, soprattutto, gustosa cavalcata black in levare e falsetto potentissima. I fior di collaboratori, ancora una volta, non mancano: oltre all’amico/rivale Justin Timberlake, con il quale il musicista fonde le note alte nel funk di Brand New, compare Miley Cyrus (dalla trasversalità di Pharrell non avremmo potuto aspettarci di meglio) nella versione aggiornata di Blurred Lines, che, percussioni alla mano, si intitola Come Get It Bae; Gust Of Wind è un affresco barocco di melodie per archi, che, non a caso, è anche un featuring con quei Daft Punk che con Pharrell condividono l’idea di un rilancio della qualità anche sotto gli spotlight; Know Who You Are (ft. il vocione di Alicia Keys) è un reggae urbano che, come Hunter, chiama in causa Tom Tom Club, Blondie e un po’ di scena newyorkese di fine anni Settanta. Dieci potenziali singoli, i brani di G I R L; dieci ritagli perfetti che ascolteremo molto, troppo, tanto da calcificarsi nella nostra “linea del fastidio”, un po’ come ha fatto Get Lucky. Tanto più che nel disco c’è persino il tentativo di far emergere un messaggio di femminismo universale in risposta alle feroci critiche di sessismo scagliate a Blurred Lines. Il problema è che qui (a differenza, ad esempio, dell’omonimo disco di Beyoncé), il femminismo fa rima con Hunter, con donne and motori o, peggio ancora, con Marilyn Monroe e, Pharrell, neanche lui ha


mente complesso, Plymouth è un disco che ha bisogno di tanti ascolti prima di essere apprezzato completamente. Come le altre produzioni RareNoise, non è assolutamente un album per tutti; per gli appassionati del genere, invece, tanta sostanza su cui buttarsi. 7.4/10 Andrea Murgia

Genere: pop Caroline Polachek, la musa dei Chairlift, uno splendore multisensoriale che coinvolge udito e vista come un unico sinuoso flusso. A due anni di distanza da quello che è stato uno dei migliori esemplari pop del 2012, ovvero Something, Caroline ha scelto di eseguire qualche passo di danza in solitaria, preferendo l’introspezione alle dinamiche eighties della main band. Un nuovo percorso artistico nato dall’esigenza di riordinare le idee partendo proprio da una delle varie identità utilizzate durante alcune delle sue solo-performance: Ramona Lisa. Di recente ammirata nel suggestivo video girato in Messico per Dazed Visionaries e sui dischi di Blood Orange e Delorean, Caroline ha iniziato a modellare il progetto Ramona Lisa durante un soggiorno all’interno della suggestiva cornice di Villa Medici a Roma, rifinendolo – pur mantenendo l’attitudine lo-fi – nei ritagli di tempo, tra una data e l’altra del tour dei Chairlift. Arcadia, così si intitola l’album, è un lavoro dal sapore antico, un viaggio onirico che di volta in volta passa attraverso la post-new age dei rigogliosi giardini in cui regna l’eterea ed eterna tranquillità (la titletrack, Dominic, I Love Our World), fumosi ed oscuri vicoli abbandonati (la strumentale Hissing Pipes at Dawn) e spiagge solitarie (Izzit True What They Tell Me, dagli orizzonti quasi latin). Il fil rouge di Arcadia è

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Ramona Lisa - Arcadia (Pannonica,2014)

la voglia di voltare momentaneamente le spalle alle regole del pop (per quelle ci sono Beyoncé e la main band, apparentemente sulla via del ritorno) sperimentando con il proprio laptop, privilegiando l’astrazione – l’evocativa Wings Of The Parapets ne è un esempio – alla concretezza melodica (comunque presente in piccoli gioielli quali Avenuer e Dominic). Ed è proprio quando il progetto si espone nella sua versione più esoterica, ambientale e per certi versi ancestrale, che guadagna di spessore, tanto che il conclusivo passaggio free-strumentale I Love Our World può essere visto come un ipotetico manifesto dell’universo sensoriale targato Ramona Lisa. Laddove il contesto si fa maggiormente ordinario (Backwards and Upwards, Lady’s Got Gills) si ha invece l’impressione di essere davanti a brani nati con connotati vicini al repertorio dei Chairlift, stravolti in un secondo momento per meglio amalgamarsi alle tonalità eclettiche del side-project. Arcadia è un disco intimo, personale, ermetico e poco propenso alla facile assimilazione; ciò nonostante il nostro inconscio finisce, a nostra insaputa, per rimanere inevitabilmente sedotto dalla voce – mai così celestiale – di miss Polachek. 6.6/10 Riccardo Zagaglia

RATKING - So It Goes (XL,2014) Genere: rap I Ratking tornano dopo “Wiki93”, EP del 2012 sempre su XL, e dopo il mini-documentario in bianco e nero di Ari Marcopoulos (fotograforegista di Amsterdam) per Pieces of Shit. So It Goes” (XL, 2014) è black music, pop, post-industrial, avant. Suono anni Dieci, con il left-field che perde eversione e il rap che assume in corpo noise musik d’inerzia. Il rumore è strumento di ridefinizione del linguaggio hip-

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cordings e RATKING che diventano un tassello del sentiero intrapreso dalla scena hip-hop per rinnovare se stessa, lontano dagli stilemi avanguardistici troppo astrusi e dalla nostalgia, e per evitare l’inabissamento. Partecipano alle tracce di questo debutto, King Krule su So Sick Stories, Wavy Spice su Puerto Rican Judo e Salomon Faye su Take: lanciano RATKING in attacco massivo. So It Goes è il disco giusto al momento giusto per XL, il disco di tendenza. Nulla di definitivo, ma è roba che sembra pulsare di luce propria, al di là di tutte le coste. Perché in Puerto Rican Judo balla il piede sul beat di Sporting Life e Wavy Space è rap grinzoso Wu-Tang vs. rap crudo di Hak. RATKING è complesso e investe in pieno volto, narrando l’inquinamento radioattivo su asfalto dei lampioni elettrici di N.Y.; una narrazione stanca, la malattia della noia, che è quotidiana rassegnazione. C’è poco sentimento, tanta posa rivoltosa. L’hip-hop smarrisce il battito, si spalanca la porta del museo e il rapnoise soccombe stiloso e modaiolo, materiale però che non ammazza dentro. RATKING potrebbe essere moda, ma probabilmente non lo è: i Nostri sono abbastanza veri da fare un disco cattivo e indipendente, quantomeno nei suoni. E’ roba che, giunta a maturazione, potrebbe svoltare su deviazioni inaspettate. “Pompano” intimismo “senza scuola”, anche se in fondo la scuola è la consapevolezza. Se il rap è morto, i RATKING non sono la soluzione, ma va bene lo stesso. 7/10 Emiliano Santoro

Rick Ross - Mastermind (Maybach Music Group,2014) Genere: rap, hiphop Rick Ross arriva al sesto disco, e il nuovo Mastemind - prodotto da DJ Khaled e Sean Combs a.k.a. P. Diddy a.k.a. Bad Boy Records –

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hop. Il morbo patologico di una scena mainstream in disorientamento arriva a uno Yeezus del “dio” West che coglie il punto del linguaggio death-gripsiano mettendoci il marchio Roc-a-fella (2013) – con pulsazioni soulfully dalla sua produzione classica in maschera – ma anche verso un Krak Attack 2: The Ballad of Elli Skiff di CX KiDTRONiK che ha esasperato la sostanza imprimendo stimmate Stones Throw (2012). RATKING sono figli del parto west-iano più di quanto certamente siano disposti ad ammettere, ma molto meno del collettivo di Sacramento, con cui nel 2013 hanno condiviso anche palco e date. In loro non c’è la rottura D.I.Y. e la fisicità dei Death Grips. L’autoproduzione? No, non è roba per RATKING. E picchiare col microfono a petto nudo sugli amplificatori? Nemmeno. Invece arriva in circolo molto senso estetico in stile Kanye West, e quindi quel tatto soul straniante (vedi * e Take) di cui già sopra, con una buona dose di narcisismo autocelebrativo. Wiki, Hak e Sporting Life scrivono hip-hop anni ’10, suonano New York. Impulso soul, con il flow di Wiki che scorre liscio, tondo e circolare, chiudendo le strofe sul beat in pulizia. Un Hak riottoso taglia il rap e irrigidisce la punteggiatura, le strofe si spezzano in affanno, mentre Sporting Life è batterie sintetiche da rinascita G-funk era, e il beat tech-noise: patterns caldi e samples in allucinazione sonora, un ampliamento dei territori di genere. RATKING, ovvero un suono sulla cui evoluzione da Wiki93 – lavoro appuntito, con ottime intuizioni e incerte soluzioni formali – si insinua lo spettro di Young Guru (DJ ai piatti nel tour Watch the Throne di Kanye West e Jay-Z). È una scena in fermento: il tentativo di filtrare rap e noise, la lezione Bomb Squad prima di tutte. Le etichette tentano di seguire la tendenza, Sub Pop rapisce alla Deathbomb Arc i Clipping e li mette sotto contratto, con XL Re-


Emiliano Santoro

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S. Carey - Range Of Light (Jagjaguwar,2014) Genere: folk È difficile parlare di Range Of Light, sophomore di S. Carey – ovvero il batterista, percussionista e seconda voce di Bon Iver -, senza pensare a Justin Vernon. È ancora più difficile immaginarsi il primo senza il secondo, ma non il contrario. Come a dire: può un ottimo turnista riuscire a eguagliare, se non superare, l’anima del gruppo? In questo caso, l’impresa è ardua, e senza voler scadere nelle solite banalità, ve lo riveliamo subito: Range Of Light è un bel disco, S. Carey è un bravo songwriter, ma i due lavori a firma Bon Iver sono di un altro livello. Non si tratta di pregiudizi, ma di realtà oggettiva. D’altronde, il rischio maggiore nel pubblicare un album che per riferimenti, genere e immaginario è in tutto e per tutto uguale al sound del gruppo di provenienza, è proprio quello di finire per sembrare la copia sbiadita di quest’ultimo. Un rischio di cui Carey sembra essere del tutto consapevole, evitato grazie alla registrazione di un disco non banale, personale e molto voluto. Siamo ancora dalle parti di un folk gelido e solitario, di nuovo debitore verso le foreste del Wisconsin – Carey vive infatti ad Eau Claire, la stessa cittadina di Vernon: troviamo tuttavia anche stratificazioni ambient e suggestioni trip hop, unite ad un lirismo intimo e comunicativo. In primo piano, rimangono le tenui atmosfere dell’acustica, anche se declinate per lo più in costrutti alt-pop: nonostante l’appartenenza ad un genere ben preciso, Carey mostra infatti di avere un’impronta autoriale tutt’altro che scontata. Il pregio maggiore di Range Of Light è quello di aggiungere nuovi elementi ad un genere basilare e canonizzato come appunto il folk americano, grazie a soluzioni in grado di dare carattere ad ogni brano: lo dimostrano, ad esempio, gli ovattati rintocchi di Glass/

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parte bene: beat trionfale su Rich Is Gangsta, a firma Black Metaphor, che campiona l’Average White Band, e il rapper che tiene il battito dei colpi di cassa e rullante, senza sbrodolare i suoi vagheggiamenti narcisisti, anzi sfogliando nel mucchio due-tre rime crude che significano, in sintesi, quella peculiarità che non ti aspetti. Il resto è uno scempio egotista con il flow che crolla in affanno, da sorbirsi tutto in una volta e senza pietà. Mafia Music III ha ancora un tiro e una ragione, mentre Ross rapisce dai WuTang Clan una “shame on a nigga who tried to run game on a nigga”. E poi? L’inconsistenza del giro strumentale si sgretola col passare dei secondi, subendo metamorfosi da intuizione a brodaglia. The Devil is a Lie è il secondo beat illuminato grazie a Major Seven più K.E. on the Track. Qui Ross teologizza e Jay-Z prende il controllo. Non è Watch The Throne, ma è meglio di nulla. Concettualmente, – “io ho soldi, sono qualcuno!, stai attento Jay-Z!, prendo e costruisco un impero più grande del tuo” – il denaro è l’idea portante, unica, di Mastermind, tema che il rapper porta avanti con il più rozzo, amorale e machiavellico dei modi, ostentando posizioni politiche anti-Obama. Bisogna farsene una ragione: se è andata così, è andata male. Provi a credergli e ti auguri che continui a fare soldi, perché leccarli è la sua unica ragione di vita. Un ascolto di pietà e compassione per un disco cattivo. Soldi, presunti complotti ai suoi danni e tanto affanno dietro il mic. Il Nostro sillaba e crolla a terra senza fiato. Riesce a coinvolgere nel suo putiferio Big Sean, di per sé non Raekwon, e Kanye West: burattini su uno strumentale di noia reazionaria che stona persino su Mastermind. Una produzione nostalgica anni ’90. Sempre troppo oltre o troppo poco. No rap, tanto marketing: sei quello che sei Rick! 4/10

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Film, costruita sull’intreccio tra fingerpicking, tromba e piano, quest’ultimo presente anche in Fire-scene, uno degli episodi più bucolici e tradizionali. Arpeggi e rullanti, umori delicati ed emozionali in cui si fanno spazio anche venature elettroniche, come mostra Fleeting Light, uno dei brani più riusciti e atipici: falsetto, chitarra lieve e ritmiche sullo sfondo, che rimandano, come anche Crow The Pines, allo stesso cantautorato intenso e visionario della band madre. Nel complesso, ci troviamo di fronte a un album riuscito su tutti i fronti, in primo luogo dal punto di vista delle canzoni: voce, melodie e arrangiamenti equilibrati, per un songwriter maturo e consapevole, con il solo difetto di essere cresciuto all’ombra di un artista più grande di lui. 7.1/10 a p r i l e

SaffronKeira - Cause And Effect (Denovali,2014) Genere: avant, classica, minimalismo, colonnasonora, jazz

L’italian assault al palazzo d’inverno della Denovali assume le sembianze di tre progetti (quasi) in solo caratterizzati da una certa estetica malinconica, cupa e sfumata. Partiamo dal meno “in solo” SaffronKeira, al secolo il sardo Eugenio Caria, che per questo Cause And Effect si avvale della collaborazione di Mario Massa, trombettista suo conterraneo, abile nell’arricchire di cinematica visionarietà l’elettronica a tinte fosche del primo. Glitchismi vari a screziare le atmosfere, dilatazioni tra post-rock sognante, avant-classical e dark umorale, il jazz più noir e sporco che si possa immaginare e un polveroso immaginario western sono (alcune) delle architravi su cui questo lavoro pretenzioso ma perfettamente riuscito, si fonda. Replicare le ottime intuizioni del doppio A New Life sarebbe già stata una ottima prova, ma qui l’in-

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Stefano Pifferi

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Giulia Antelli

terazione tra i due animi affini crea un lavoro di genere di grandissima classe. Federico Albanese, compositore e musicista milanese trapiantato a Berlino, segue invece la via malinconica attraverso un percorso prevalentemente pianistico infarcito di elettronica lieve, in battuta bassa e sporcato di glitch non invadenti, elaborando tessiture immaginifiche e sognanti. Anche qui a trainare è un senso generale di soundtrack music essiccata secondo i dettami di Satie e sognante ed evocativa come da regolamento, su un asse che genericamente parte dal citato francese e arriva fino a tentazioni popular come Tiersen o Einaudi. A farsi apprezzare è però la classicità e la austera leggiadria con cui Albanese ammanta le proprie struggenti composizioni, in grado di catturare l’attenzione per l’intera durata del disco. Non da poco. A chiudere, quello che personalmente riteniamo il lavoro più coinvolgente del lotto: Selaxon Lutberg è la sigla dietro cui si cela Andrea Penso, personaggio tanto schivo quanto conosciuto nell’ambiente (non ultima, l’esperienza con Black Moss Records) intento ad intarsiare piccoli affreschi di memorie personali e peregrinazioni interiori – di cui i Simboli Accidentali cui fa riferimento il titolo non sono che i vari turning point – resi sotto forma sonora a suon di dilatazioni ambientali spesso ingrigite da slanci drone. La ricercata poetica dell’artwork – sfumature, distanze, isolamento – rende appieno l’essenza ultima del lavoro: una struggente ricostruzione di minimi recuperi memoriali – alla maniera della abusata madeleine proustiana – tradotti musicalmente come fossero “luoghi della mente”, ora minacciosi, ora cullanti, sempre terribilmente struggenti. Tre ottime prove, con Selaxon Lutberg a spiccare di un mezzo punto, a dimostrazione della fertilità della scena italiana. 7.3/10


Genere: hiphop Nello sviluppo-rinascimento di scena westcoast anni ’10, è inutile chiedersi se sia stato marginale il ruolo svolto dall’HBK Gang, di base a Richmond, California, perché è autoevidente. Sage The Gemini debutta in solo con Remember Me, attorno al quale il vociare/attesa è fomentato nel 2013 dai singoli Gas Pedal, con feat. di IamSu! – fondatore dell’HBK, di cui sopra -, e Red Nose. Il primo brano gira su un hook rauco dentro a un suono spettrale, minimalismo strumentale, colpo di cassa flemmatico e Sage che tesse la metafora automobilistico-sessuale del twerk: slow down, grab the wall – wiggle like you trying to make yo ass fall off – hella thick I wanna smash ‘em all – now speed up, gas pedal; il secondo si addentra nel pop-rap con rullante sintetico, con colpi di cassa sordi, e ancora la metafora dello scuoti il culo più velocemente, via con strofe stile and she gon’ shake it, like a red nose – li-li-li-li-like a red nose. La mono-mania del twerk riesce ad alzare il livello al rap di un Remember Me che, non brillando particolarmente, verrà ricordato da pochi. Tre soli i pezzi notevoli: i già citati Gas Pedal, Red Nose e Don’t You, che scocca su ho-ho-ho-ho-holy shit – e avanza di parlato biascicato a crudo, sussurro corposo sul mic, clapping legnoso su battito pieno e tondo di cassa, strumentale soffuso-ultra-chimica, senza melma dolciastra né riempitivi barocchi. Senza sentimento Sage parla a genio (they want it bad and you know it don’t you – but you know I got cash to put on it don’t you – BITCH!), ma scompare quando lo si colloca assieme al suo debutto nella scena delle pubblicazioni hip-hop recenti, anche solo quelle della Costa Ovest. Oxymoron di Schoolboy Q (del collettivo Black Hippy), Doris di Earl

Sweatshirt (del collettivo: Odd Future), etc., sono dischi con cui Sage non compete, sia in termini di produzione (buone intenzioni che si ripetono – vedi Gas Pedal e Down On Your Look feat. August Alsina, tramutandosi in ossessione), che di flow (non illuminato o misero, che annoia/stona – ascoltare Mad at Me feat. Jay Ant e IamSu!), che per mancanza di gusto nel ritornello (troppo miele, poco graffio, poca sporcizia, e non sei Frank Ocean – ascoltare Go Somewhere feat. IamSu!). Il problema di Sage The Gemini e HBK Gang è lo stesso: rimangono dietro alle crew di Lamar e Tyler, the Creator, Black Hippy e Odd Future, appunto, perché sono dietro il linguaggio hip-hop della nuova scuola west-coast, fondato sul compromesso della qualità underground su piglio mainstream, del piglio mainstream sulla qualità underground. E Sage sa calibrare molto saltuariamente la formula: flusso-rap lento-lento-lento e qualità tecnica, che cela la carestia di contenuti. Da qualche parte riesce a dare l’impressione del parlato puro, senza tagli bruschi, chiudendo il verso, sciogliendo le rime con distacco, senza coinvolgimento, ma nel complesso il risultato è scarno. La cifra è palpabile: con una produzione più veggente e meno richiami forzatamente mainstream, il Nostro potrebbe toccare vertici, finendo per venire ricordato davvero. 5.5/10

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Sage The Gemini - Remember Me (Republic Records,2014)

Emiliano Santoro

Sisyphus - Sisyphus (Asthmatic Kitty Records,2014) Genere: hiphop Personaggio dotato di una sensibilità musicale raffinatissima, Sufjan Stevens si è sempre distinto per la sua natura eclettica e nomade, che gli ha permesso di districarsi tra generi ed etichette con una facilità comune solo ai predestinati e ai geni. Non fa eccezione il nuovo pro-

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Andrea Murgia

Skrillex - Recess (Owsla,2014) Genere: elettronica Quando si cerca di parlare della musica di Sonny Moore è sempre molto difficile discernere tra il reale valore della sua frammentata discografia e la percezione che abbiamo del fenomeno mediatico Skrillex, dagli esordi del 2010 ad oggi. E’ innegabile che la sua formidabile ascesa da icona web per nativi digitali a dj superstar che riempie le arene, passando per Grammy e collaborazioni che spaziano dall’alternative americano (Korn) all’ hip hop mainstream tout court (A$ap Rocky), ha distolto completamente l’attenzione di critica e ascoltatori di nicchia

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rispetto a ciò che realmente ha realizzato Moore con la propria musica. Quale occasione, se non l’uscita di Recess, primo vero e proprio LP a firma Skrillex, può essere migliore per capire definitivamente la cifra stilistica del Nostro? Diciamo subito che per la prima volta Moore ha dato prova di non essere schiavo della dittatura del drop, ed è riuscito pure a ridimensionare quell’ingombrante ascendente brostep che, da scettro di conquista, si è fatto velocemente trappola stereotipante in termini artistici. Per l’appunto, tralasciando la paradigmatica apertura di All Is Fair In Love And Brostep, ed altri due episodi schiaccia sassi come Try It Out e Ragga Bomb, il disco sembra esser furbescamente concepito per colpire una platea di ascolti molto più trasversale rispetto ai soliti range made by Skrillex. Suonare in giro tra un continente e l’altro, spesso back to back con tutto il carrozzone Mad Decent di Diplo, ha lasciato sicuramente il segno e Recess, in effetti, sembra un disco pensato secondo il modello stilistico Major Lazer: frullare tutto ciò che è ballabile entro i confini delle più recenti tendenze urban ma strizzando sempre l’occhio al pop più appiccicoso sulla piazza. Esemplare, in questo senso, è la tripletta composta da Dirty Vibe, (in cui lo stesso Diplo, assieme a C-Dragon e CL, prende parte ad una frenetica sassaiola ghetto-tech ) e da iperboli in salsa trap come Recess (feat. Kill The Noise and Fatman Scoop) o Stranger (feat. Killagrham and Sam Dew); da notare come Moore non si limiti solo a cavalcare genericamente generi a lui poco affini, ma anzi li faccia suoi attraverso caratterizzazioni wobble qua e là ed inedite andature up-tempo che riconfigurano anche le basse battute in stile Baauer. Esauriti i paragrafi brostep e trap, Recess concede spazio anche a momenti meno autoreferenziali ed inaspettati, come la singolare rivisitazione in chiave UK di Fuck That, futuristica

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getto Sisyphus che, nato come estemporaneo sotto commissione della Walker Art Center e dalla The Saint Paul Chamber Orchestra per la Liquid Music e poi formalizzato con l’aiuto dei due producer Serengeti e Son Lux, si muove in quei territori hip hop che il musicista di Detroit aveva già calcato nel precedente ed ultimo The Age of Adz, datato ormai 2010. Con un nome mutuato dalla mitologia greca (Sisifo è stato il primo re di Corinto e il figlio del Titano Prometeo), gli ex s/s/s giocano e sperimentano, mostrando piena padronanza delle leggi e delle regole che disciplinano il genere. Introdotto dai video delle martellanti Calm It Down e Alcohol, Sisyphus regala piacevoli sorprese per tutta la sua durata, come una I Won’t be Afraid che odora di Peter Gabriel sotto cannabinoidi o una Rhythm of Devotion che ha conquistato l’enfant prodige Lorde, già collaboratrice di Son Lux in Easy (Switch Screens). Sincero e diretto, Sisyphus, che era nato quasi come divertissement per i tre protagonisti, è tra gli episodi più ispirati della carriera di Stevens. Consigliato. 7.1/10


Dario Moroldo

Sophie Ellis-Bextor - Wanderlust (EBGB’s,2014) Genere: pop Prima o poi sarebbe accaduto. Dopo quattro album di chiara impronta dance-pop e una serie di singoli che, nonostante l’abbondanza di ritornelli a presa rapida e la collaborazione con nomi quali Armin Van Buuren e i Freemasons, non le hanno sempre garantito di volare nelle zone più alte delle classifiche, Sophie EllisBextor sorprende tutti (o quasi) e cambia rotta

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con Wanderlust, un disco cantautorale finalmente in grado presentarla al pubblico come un’artista “credibile”. Un’esigenza che vent’anni fa sentì anche la collega Kylie Minogue, quando si accasò alla deConstruction per due lavori accolti bene dalla critica e meno bene da chi si reca nei negozi, e che di tanto in tanto hanno avvertito anche i veterani Pet Shop Boys con Behavior, Release ed Elysium, e che qui porta a un risultato persino più estremo dei casi citati: a tirare giù dal dancefloor e a uccidere il groove ci ha pensato un partner in crime come Ed Harcourt, che nella quinta fatica in studio della cantante inglese figura come produttore, arrangiatore e co-autore di tutte le undici canzoni – già questa è una grande novità, se si ricordano le sfilate di ospiti e produttori dei dischi precedenti, da Alex James dei Blur (Move This Mountain) a Gregg Alexander dei New Radicals (Murder On The Dancefloor), da Moby (Is It Any Wonder?) a Calvin Harris (Off and On) passando per Eg White e Fred Schneider dei B 52’s. Né la svolta né l’incontro sono stati casuali: prima di Read My Lips Mademoiselle EB aveva inciso un disco brit-pop con i Theaudience (con scarsa fortuna) e negli ultimi tempi l’avevamo sorpresa a duettare con i Feeling – il gruppo in cui suona il marito Richard – in Leave Me Out Of It, in più Harcourt aveva già composto per lei Cut Straight To The Heart, finita nell’album Make a Scene. Nel tempo tra i due artisti è nata una solida amicizia (Ed è padrino di battesimo del terzogenito della cantante, Ray Holiday Jones) ed è maturata l’idea di incidere una serie di canzoni tenute insieme da un concept, con una coerenza inedita, senza rinunciare all’eclettismo di fragranze che passano dalle reminiscenze degli storici girl-group del singolo Runaway Daydreamer (saccheggiati volentieri da tutti in passato, in Inghilterra, dalle Spice Girls di Stop! ai Saint Etienne di

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jam tra Nightcrawlers e Azzido Da Bass, o la malatissima Doompy Poomp, dove si può quasi sentire il fiato di Mr. Oizo in sottofondo. Che dire poi di una gemma pop come Coast Is Clear in cui il giovane Chance The Rapper appare come un nuovissimo Andre 3000? Bisognerebbe dire che, come già successe con Make It Bun Den, fortunato singolo del 2012 con Damien Marley, quando Skrillex incontra il pop i risultati sono quasi sempre eccellenti, anche se poi all’interno del disco troviamo contraltari trash come Ease My Mind, pezzo ideale per chiudere un set dentro un’arena ma che fa accapponare la pelle nel fondere una certa idea di pop nordico con l’irruenza terzomondista alla M.I.A. Siamo arrivati così ai titoli di coda e, per concludere, non si può certo scrivere che Recess sia un capolavoro rivoluzionario; certo, con una tracklist così varia e ben dosata sicuramente il disco possiede il pregio di farsi ascoltare senza troppi skip o sbadigli ma, soprattutto, potrebbe finalmente permettere al proprio autore di scostarsi dallo scomodo ruolo di alfiere del giovanilismo brostep. Nel dubbio, ascoltatevi la conclusiva Fire Away che con il suo junglismo introspettivo lascia quasi aperti degli sviluppi “intelligenti” nel suono del giovane produttore americano. 6.5/10

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Onibokun e suo fratello Alex (italiani di origini nigero-venezuelane), accompagnati da Valentino Teodori, sono un prodotto made in Italy, di quelli di cui ogni tanto possiamo andare fieri. Attivo dal 1998, il trio di Fabriano debutta sulla lunga distanza soltanto oggi grazie a Seahorse Recording. Astonishment è la sintesi di circa tre decenni di musica e rappresenta una navicella fluttuante che a bordo trasporta un’allegra “compagnia” formata, tra gli altri, da Pink Floyd, Alice in Chains, Nirvana e Porcupine Tree. E ci mette poco a decollare. La strumentale Lena rappresenta difatti un ottimo preludio a ciò che di lì a poco è destinato a venire. La base del debutto della band sta tutta in un possente hard-rock a tinte psichedeliche che, guidato da pesanti chitarre diluite in acidi assoli, osa spingersi sino a territori grunge e avantmetal. Meritano quindi di essere citate, tra le altre, la ballata strumentale Grandparents, le più melodiche e dark Loneliness e Brain in Brine, l’acida DiscoRat, e l’esplosiva Astonishment. Se è vero che queste undici tracce hanno richiesto ben sedici anni di gestazione, è vero anche che il risultato finisce per ripagare appieno questa lunga attesa. 6.5/10

Alessandro Liccardo

Genere: psych, garagerock Orfani degli (a quanto pare) appena sciolti Thee Oh Sees, state sereni: l’elaborazione di un lutto che non si sa quanto corrisponda al vero (l’album Drop è infatti fissato per aprile…) durerà lo spazio di mettersi alla ricerca dell’esordio di questo trio italiano su casa americana e in un battito di ciglia i Sultan Bathery riempiranno il vuoto lasciato nei vostri cuori. Garage sound sixties oriented, variopinto e psichedeli-

Soundsick - Astonishment (Seahorse Recordings,2013) Genere: psych, hardrock Non fatevi depistare dalle possenti chitarre post-grunge e dai diluiti suoni psichedelici che questo Astonishment vi offre, né tanto meno dai paesaggi desertici e aridi che i Soundsick, con la loro musica, riescono a disegnare: Ilario

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Marco Frattaruolo

Sultan Bathery - Sultan Bathery (Slovenly,2014)

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You’re In A Bad Way) ai suggestivi echi esteuropei di Cry To The Beat Of The Band (coro bulgaro incluso). A un primo ascolto superficiale dell’apripista Youngblood si potrebbe pensare che Sophie abbia ascoltato molto Born To Die di Lana Del Rey, eppure la produzione del disco ha un respiro squisitamente europeo, con episodi british che più british non si può come The Deer and The Wolf, accostabile agli ultimi Keane, e Wrong Side Of The Sun, intrisa di malinconia. Non mancano i colpi di scena: la strana ma interessante 13 Little Dolls è un esperimento di fusione dei mondi lontanissimi di Sandie Shaw e dell’Iggy Pop di Lust For Life (non dovrebbe funzionare, e invece…), mentre Love Is A Camera è una favola dark a passo di valzer. La voce di Sophie Ellis-Bextor, con il suo inconfondibile accento, ben si sposa con questo materiale; seduce ancora, sebbene altera e sempre un po’ snob, e non soffre nemmeno quando sconfina nel sussurro, giocando fino in fondo con coscienza la carta dell’espressività. Tolti due, forse tre passaggi a vuoto, Wanderlust si dimostra un buon disco che spiazzerà i vecchi fan ma che la aiuterà a trovarne di nuovi (e il buon piazzamento nelle charts inglesi a poche settimane dall’uscita sembrerebbe dimostrarlo). Ed Harcourt ha modellato per Sophie dei soundscape che la fanno sentire a proprio agio, lasciando la propria impronta senza rubarle la scena. Non succede così spesso, nel mondo del pop. 6.7/10


Stefano Pifferi

Sun Araw - Belomancie (Drag City,2014) Genere: psych, avant E alla fine venne il bad trip: questo sembra suggerire l’ultimo disco di Cameron Stallones, in arte Sun Araw. Quella che un tempo era una mistura psych-dub (si veda The Inner City), ora si sposta decisamente su territori più ostici: è l’aspetto avant a farla da padrone. In questo Belomancie, pubblicato da Drag City, l’ex-Magic Lantern sembra voler spezzare ed allo stesso tempo allungare il suo suono, fare un passo in più per uscire dall’alveo dub-ipnagogico del passato.

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Se l’obiettivo è spingersi verso paesaggi sonici più astratti, il risultato è però incerto. Si prendano ad esempio i due brani d’apertura, Scrim e Curtis: qui delle influenze dub non c’è che uno spettro, con l’assenza della voce e con architetture che sembrano voler andare da più parti senza, alla fine, prendere mai una svolta. Il primo pezzo, addirittura, impiega quasi metà del minutaggio per mostrarci una serie di inserti sonori privi di una vera funzione, della voglia di coinvolgere l’ascoltatore. Infatti, tolta la componente ritmica dub, quel che resta è una psichedelia poco efficace. Superato questo ostico uno-due, il disco recupera, facendo venire fuori qualcosa di meno vaporoso e più carnoso (Huff ). Sun Araw sembra fare il verso agli Animal Collective senza averne né la giocosità (i contrappunti a più voci gioiose), né la profondità sonora. I brani sono spesso suite a ritmo lento (Flote), dove in primo piano va sempre l’armamentario di Stallones, tutto chitarre distorte, keyboard bislacche, inserti glitch, voce filtrata. Rispetto ai dischi precedenti, Sun Araw pare non voler riempire lo spazio sonoro con echi e riverberi: l’intenzione sembra quella di isolare i singoli suoni, dando ad ognuno pari dignità (Solo Wallet Shuffle, One After One) all’interno dell’arrangiamento. In altri momenti, il dub sembra tornare, nascosto dietro pieghe cosmiche: sono i momenti migliori, come in Remedial Ventilation. Ma si tratta giusto di fantasmi. I paradossi che emergono sono due: da un lato l’allungamento della durata dei brani, cui non corrisponde un ampliamento della densità sonora, ma una sua riduzione a scheletro. Dall’altro, il contrasto tra aspirazioni e risultati: nonostante la coraggiosa intenzione di spingersi oltre rispetto al passato, l’esito non sempre è all’altezza della bontà della scelta. 5.9/10

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co, un po’ a tinte cupe goticheggianti e/o orrorifiche, melodico ed energico da non riuscire a fermare le chiappe, condensato in una serie di piccole perle da un paio di minuti che non vi scollerete più dalla testa. Della serie, ecco la via italiana (ma giusto d’origine) al revival sixties che a vario titolo veicola la band di John Dwyer, ma anche tutto ciò che tocca il caro Ty Segall – Fuzz inclusi, ovviamente – o Mikal Cronin, certe lande care ai Black Lips dei tempi andati e in generale tutto il nuovo San Francisco sound che spesso e volentieri abbiamo incrociato a queste altezze. In piccole gemme come l’iniziale Satellite, nello stomp selvaggio di Spring Of Youth, negli interstizi goth-garage di Flowers Of Evil che manco i Fuzztones, vive lo stesso amore per le melodie vocali, per i riverberi e le distorsioni, per i mid-tempo incalzanti e per le fantasmagorie visionarie e coloratissime di un sound che non innova, ma trascina come pochi al mondo. Gli anni ’60 sono tra noi e i Sultan Bathery ne sono degni rappresentanti, soprattutto perché, narra la leggenda, sono i portavoce di alcune divinità indiane. E si sa che con le divinità è meglio non discutere. 7/10

Andrea Macrì

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Genere: house Visto al Flow dello scorso anno, il suo è stato il set migliore del festival finlandese. Un’altalena di proteici beat inondati di teutonico romanticismo sospesi tra house e stoccate techno, grande passione per il mix ed altrettanta esperienza nel dosarlo. Tensnake non è un giovincello. Vero nome Marco Niemerski, è nato ad Amburgo nel 1975 e da metà Duemila si è imposto per una house tinta disco e citazioni 80s tanto influenzata dalle produzioni scandinave e dai Junior Boys, quanto dai classici Romanthony e Masters of Work. Le sue tracce hanno finito per trainare altre produzioni europee a venire, non ultimi i Tiger and Woods, che recentemente hanno remissato la sua Need Your Lovin. E se il singolo top si chiama Coma Cat, già all’altezza del 2006, attraverso la label personale Mirau attivata con alcuni amici, il producer incideva tracce come Around The House e I Say Mista, Congolal e soprattutto In The End (I Want You To Cry), mettendo le mani su tutto un tessuto pulsante di tendenze fine 00s, dai rimandi 70s à la Lindstrøm alla balearica, dalle evoluzioni indie dance in zona DFA a quella che poi sarà la nu disco dell’inizio dei 10s. Il tutto ben dosato, condito da un approccio felpato, aperture colorate, retrogusti malinconici (Keep Believin’) e qualche smalto tech. Con le cose più garage e newyorchesi (Something About You e Mainline, Need Your Lovin, See Right Through) che aggiornano la palette sonora di Niemerski al giro di Hercules e Azari and III (di questi remissa abilmente Reckless With Your Love) ma anche a Bicep e Maya Jane Coles e co., le produzioni di Tensnake si sono fatte via via più radiofoniche, a partire dal sodalizio con la vocalist berlinese Fiora, creando un inevitabile stacco nei follower del producer tra un prima e un dopo. Glow, prima produzione major e primo album

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lungo del tedesco, tenta il personale Random Access Memories a partire dalla presenza in due brani di un session man di lusso come Nile Rodgers, già al lavoro con i parigini nell’oramai paradigmatico album di Get Lucky e qui ad aggiungere liquida funky a un paio di produzioni d’impeccabile aggiornamento generalista alla disco per le radio FM di ogni decade e grado (Love Sublime e Good Enough To Keep). Sempre a proposito di feat., non poteva mancare Jamie Lidell, reduce dal non proprio riuscito album omonimo, che firma una dimenticabile Feel Of Love, un’altro tassello di un mosaico di possibilità r’n'b funky tra i soliti 70s e primi synth-centrici 80s. Un’operazione tutt’altro che criticabile, dal punto di vista formale, che tuttavia si rivela, ascolto dopo ascolto, un lussuoso dispendio di energie lungo almeno metà della scaletta. Tensnake è abile nel sparpagliare le carte e variegare il più possibile una formula curata in ogni dettaglio. Gli interludi sono strategici e anche interessanti, vedi il richiamo a Moby di No Colour, una First Song dalle parti dell’ultimo Illum Sphere, oppure ancora una Things Let to Say che nel catalogo Permanent Vacation starebbe benissimo. Eppure, all’ennesimo chorus, all’ennesima spiaggiata ibizenca, non c’è tocco, dettaglio o campionamento, strizzamenti d’occhio a questo o quello che va di moda quest’anno che tengano: Geremy Glenn in Selfish non è Pharrell, Fiora non è Katy B. Glow sembra irregimentato, imbalsamato in un’idea generalista di house-da-parati che funziona soltanto secondo questa coordinata, ammettendone raramente delle altre. L’eccezione di rilievo, No Relief (dagli smalti electro e soulfoul malinconia) è la conferma che il marchio di fabbrica di Tensnake risulta più autentico sul lato dancefloor, piuttosto che su quello pop. 6/10 Edoardo Bridda

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Tensnake - Glow (Virgin,2014)


Genere: rock Non è una reunion come tutte le altre nella misura in cui Greg Dulli non ha mai smesso di agitare il fantasma degli Afghan Whigs durante tutti questi anni. Però lo è, nel senso che dopo il disbanded avvenuto nel lontano 2001, Dulli non ha fatto altro che svicolare, dissimulare, sottrarsi alla presa con variazioni sul tema della sua calligrafia, quel tanto che bastava da non sembrare mai una riedizione degli “ingombranti” Whigs. O almeno non del tutto. Perciò oggi, a sedici anni dal lussurioso ma blando 1965 e a due dalla resurrezione della creatura per imbastire apprezzatissimi live show, ecco tornare un nuovo album di inediti. Pur zeppo di collaborazioni, amici che hanno voluto metterci lo zampino (da Alain Johannes a Joseph Arthur, da Van Hunt a Johnny “Natural” Najera…), è però sostanzialmente colpo di coda di una band mai seppellita dagli eventi (al contrario di molti pesi massimi coevi), che non a caso decide di chiudere questo cerchio rientrando nel roster Sub-Pop. Una delle caratteristiche tipiche e migliori degli Afghan era la capacità di imbastire canzoni che sembravano perdersi, avvitarsi nel tormento con le idee annebbiate da furia e passione, per poi cavarne le gambe in virtù di un vitalismo crudo e disperato assieme. Ecco, se il lungo excursus di Dulli attraverso i progetti Twilight Singers e Gutter Twins lasciava parzialmente insoddisfatti era proprio per l’eccessiva quadratura delle forme, per la fregola di esplorare limiti e attitudini (soul, rock, blues, psych) tracciando mappe fin troppo chiare. Allo stesso modo oggi, ascoltando la febbricola androide di The Lottery o le brume mediorientali di Matamoros, potresti pensare che dell’antica formidabile avventatezza sia rimasto solo un marchio omeopatico, e che la dimensione

più attuale si compia invece nel radiofonico tex-mex intelligente di Algiers (sorprendentemente scolpito tra ugge Calexico e baluginii R.E.M.). Ma le cose non stanno propriamente così. Al netto di un palpabile mestiere che fa aprire il programma col languore graffiante e avariato di Parked Outside, questo disco sa regalarci echi convincenti dell’antico muoversi erratico, vedi l’irrequieta processione a cuore nero di Lost In The Woods con le sue vampe rigogliose e lo sparso affanno di fiati e wurlitzer, vedi il piglio motoristico, le sviolinate sulfuree e l’animo indolenzito di Royal Cream, oppure quella These Sticks che sviluppa un’idea sonica quasi prog tra struggimenti pensosi e un bailamme immaginifico (fiati, chitarre, percussioni, tastiere) sigillate da una enigmatica sordina davisiana. Il buon Greg canta come se gli fosse rimasto un filo di voce nel serbatoio dopo una notte di tormenti, da quel buio pieno di diavoli e delizie che è la sua anima. E tanto ci basta per farci accettare melodie non eccelse come ottime occasioni per averci di nuovo a che fare. Del resto, forse la scrittura non è mai stata il suo forte. Ma tutto il resto sì. 7.1/10

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The Afghan Whigs - Do To The Beast (Sub Pop,2014)

Stefano Solventi

The Soul Sailor and the Fuckers - Multicolour Brain (Urban Records,2014) Genere: rock, psych, folk Sta cominciando a diventare un caso, quello dei Soul Sailor and the Fuckers, band perugina attiva da oltre sette anni e con alle spalle ben cinque album interamente autoprodotti, di cui sino ad oggi si è sentito parlare poco. Le gesta del gruppo capitanato da Simonfrancesco diRupo, songwriter e vero e proprio “guru” per i suoi Fuckers, sono rimaste sempre piuttosto anonime e di fatto, se non per l’edizione dell’A-

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musicista a tutto tondo (Crime and The City Solution, tanto per fare un nome); la chitarra è quella urticante e destabilizzata di Duane Denison, maggior responsabile di quella macchina da guerra che furono i Jesus Lizard e perno dei Tomahawk; alla batteria, infine, troviamo Brian Kotzur già con Silver Jews, Imaad Wasif e altri ancora. Usavamo il condizionale poche righe sopra per il semplice motivo che questo disco, frutto di session metà improvvisate, metà composte, avvenute nell’isola felice della dimora di Denison a Nashville, lascia un po’ di amaro in bocca per quel che avrebbe potuto essere e quello che è in realtà. Lasciando all’immaginazione di ognuno cosa avrebbero potuto partorire menti insieme così diverse e folli, accontentiamoci di ciò che il proverbiale elefante ha prodotto: un coacervo di sonorità eterogenee, di gran classe ma troppo varie e disarmoniche, elaborate su canovacci “crossover” di stampo quasi 90s su cui scorrono reminiscenze Faith No More, passaggi oscuri e dubbosi com’era di moda a Bristol, alternative rock spesso troppo “freddo”. L’album vorrebbe narrare le sensazioni di un viaggio verso l’ignoto ma nelle tracce “composte” non si fa ricordare; in quelle di matrice impro l’esito è invece più che apprezzabile. 6.2/10

Marco Frattaruolo

Stefano Pifferi

The Unsemble - The Unsemble (Ipecac Recordings,2014)

Theo Parrish - 71st and Exchange Used To Be (Sound Signature,2014)

Genere: rock, crossover, impro The Unsemble, ovvero quando la somma non fa il totale. A giudicare dalla line-up di questo nuovo, crediamo estemporaneo, progetto made in Ipecac, ci sarebbe da attendersi una bella summa di quanto di più rumoroso e urticante trenta e passa anni di rock hanno prodotto: al basso c’è quell’Alexander Hacke di Neubauteniana memoria, eclettico e squilibrato

Genere: house Anche con la prospettiva di un album in uscita tra qualche mese, anticipato sul web da un teaser che riprende il tòpos tipicamente motown dello sprawl urbano, la vena creativa di Theo Parrish non conosce sosta. Produzioni incessanti, a partire dal 1995, anno nel quale duettò con un Moodymann ancora in fase introversa. Nel mezzo, l’esordio in long-playing con First

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rezzo Wave Umbria vinta lo scorso anno, non sono mai riuscite a raggiungere la risonanza mediatica che avrebbero meritato. Che con Multicolour Brain sia la (s)volta buona? Sin dagli esordi, il marchio di fabbrica che ha contraddistinto il suono dei SSatF è stato il mix di sonorità tipicamente sixties, northern soul e folk di inconfondibile stampo inglese. Multicolour Brain non si allontana troppo da queste ispirazioni, andando a proporre dieci apprezzabilissime tracce in cui un sudatissimo psych-rock a tinte soul finisce per essere risucchiato da schitarrate britrock, suadenti ritmi northern soul e per finire da un ricercatissimo folk barocco. Elementi stilistici che, sommati all’ottima vena compositiva di diRupo, rappresentano la perfetta sintesi delle influenze sopracitate. I SsatF dimostrano quindi di aver pochissimo da invidiare a menestrelli di ultimissima generazione, vedi Jacco Gardner o gli inglesi Temples, e brani come la beatlesiana Sad But True, le kinksiane ballad She Came To Me Singing La La La e Democracy is Just an Old Illusion, la scintillante In The Game Of Loving e il romantico duetto di Move Over, rendono questo Multicolour Brain una piccola gemma di musica psych-pop. Svolta o no, i SsatF fanno centro. 7/10


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mette sul piatto della bilancia quella miscela di maniere musicali che ha sapientemente raccolto durante il suo vagabondaggio sull’asse Washington – Chicago – Detroit. Richiami old-skool, impressioni jazz, soul dal sapore etereo. Tutto questo, mantenendo una cifra stilistica più che riconoscibile. Un EP di livello assoluto, ennesimo capitolo di una discografia esemplare. 7.4/10 Elia Galli

Thievery Corporation - Saudade (ESL Music,2014) Genere: electro, triphop, bossanova Dopo essere passati attraverso numerose mutazioni, quali la chill-out, la psichedelia, il break, lo stile da passerella, l’hip-hop, il pop, il tango tagliato con l’electro e molto altro (pure qualche canzone di protesta), oggi Rob Garza ed Eric Hilton, ovvero i Thievery Corporation, tornano al loro amore di sempre, e cioè la musica sudamericana. Il folk latino tagliato con beat elettronici è stato il catalizzatore del loro successo nel loro album d’esordio del 1997 Sounds from the Thievery Hi-Fi, in particolare con il featuring sensuale e ricco di suggestioni di Bebel Gilberto, figlia del più noto caposcuola João Gilberto. Poco importa che oggi l’eredità latina sia cantata in portoghese o francese: caratteristica fondamentale del nuovo album è l’essere proiettato completamente sul pianeta relax, l’essenza di un pop uberlight, da ascolto disinteressato, uno dei loro apici considerando le ultime produzioni abbastanza interlocutorie. È nel ritorno alle atmosfere degli esordi (la fine anni Novanta del post-chill rappresentata al meglio dalla compilation di remix Abductions and Reconstructions e dal DJ Kicks su !K7) che il duo di Washington DC sguazza con savoir faire e stile. Non sarà la grazia jazz di Nicola Conte, non saranno i divani soffici e di design della

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Floor su Peacefrog Records, la pietra miliare Parallel Dimensions e un esercito di suggestioni house sull’ammiraglia Sound Signature. Ed è ancora su Sound Signature, questa volta in collaborazione con l’outfit londinese Trilogy Tapes, che Parrish rilascia 71st and Exchange Used To Be, trittico solidissimo che conferma il suo estro visionario. Il disco si apre con la title-track. Caos tribale di percussioni, surrogato tropicale di tastiere sintetiche, valanghe di drum machine mandate in tilt. 71st and Exchange Used To Be è la visione aristocratica dell’exotic sound di Gary Martin, che nella Detroit di vent’anni fa confezionava stomp in cassa dritta flirtando prima con il cosmo, poi con la savana. Qui non servono sviolinate, neanche quelle veramente sincere di Martin, fatte di continui rimandi onomatopeici. Il futuro e l’Africa nera ci sono già, sono nella musica, e si viaggia dall’uno all’altra in sette minuti e mezzo. L’incipit dell’EP ci restituisce quindi un Parrish minimale nelle strutture, diretto nelle intenzioni, preciso nel suo disegno house. Conosciamo però anche il suo lato più grezzo, sporco, fatto di bordate evanescenti. Un lato che ha trovato ampio spazio in Sketches (i bassi crudi e l’andamento marziale di Black Mist, il delirio venusiano di Kites On Pluto) e che si ripresenta su questo lavoro con Petey Wheetfeet, stravagante corsa jazz, zig-zag virtuoso tra un crescendo di staccati e distorsioni, sfregi improvvisi, affondi abrasivi. Ma quello che può sembrare frutto di schizzi, intuizioni estemporanee, è invece grande lavoro di ingegneria. E’ nella natura di Parrish, meticolosa e militante, la volontà di non lasciare niente al caso. L’ultimo numero, Blueskies Surprise, è il ricordo malinconico dei motivi immaginifici d’inizio disco, momento di distensione dopo un uno-due travolgente. Funk pacifico, quadretto pastorale di una wilderness contemporanea. Con 71st and Exchange Used To Be Theo Parrish

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Marco Braggion

Tobias. - A Series Of Shocks (Ostgut Ton,2014) Genere: electro, dance, deep, elettronica Se si dovesse tracciare una mappa infografica della scena elettronica berlinese, il nome di Tobias Freund sarebbe al centro di una importante rete neurale di contatti. Per lungo tempo rinomato ingegnere del suono e produttore (tra i credits non solo Function, Dettmann o Ellen Allien, ma anche Milli Vanilli e Meat Loaf!), dai primi anni novanta comincia a sfornare produzioni in ambito acid house e techno sotto vari pseudonimi (Phobia, Metazone, Zoon), per poi stabilizzarsi utilizzando i nomi Pink Elln e il proprio (per lungo tempo scritto in minuscolo e chiuso, con vezzo teutonico, da un punto). Prolifico collaboratore, Freund lo troviamo ad esempio spesso in coppia con l’amico Uwe Schmidt aka Atom™ (vedi per esempio l’EP di acid techno Physik 1 o il bizzarro live recording improvvisato di Grand Blue, dove i

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suoni di sottofondo diventano inattesi protagonisti) o con Max Loderbauer (per il progetto sperimentale nsi., ospitato, insieme ad altri ostici esperimenti, presso la sua label Non Standard Productions). E sono tanti i remix sfornati negli ultimi dieci anni: Miss Kittin, Alex Under, Efdemin, Ricardo Villalobos (e da questi ultimi due ricambiato) tra i tanti.Lavorare come sound engineer ha dato a Freund la possibilità di sviluppare un totale dominio del suono elettronico: in tutte le sue produzioni questa sua attenzione alla purezza e alla pulizia emerge e si impone come tratto caratteristico, sia per le uscite aventi come obiettivo il dancefloor che per le sperimentazioni droneambient collaterali.Questo secondo album a firma Tobias. (stavolta con la T maiuscola) è rilasciato, come già Leaning Over Backwards del 2011 e vari altri 12’, per la berlinese Ostgut Ton, il braccio armato creato dal Berghain per diffondere il verbo minimal nel mondo. Il riferimento bowieano (il titolo cita un verso di Up The Hill Backwards, tratto da Scary Monsters) è solo una personale associazione d’idee: nelle intenzioni dell’autore A Series Of Shocks è un album di “raw and dark techno”. E se con la dark techno ci siamo, per quanto riguarda il concetto di “raw” occorre tararsi sullo standard purista e rigoroso di Freund. Il disco comincia con l’eccezione che conferma la regola di un album dominato dal 4/4: con Entire, realizzata con il supporto di Loderbauer, la minimal diventa minimalistic, riecheggiando direttamente le sperimentazioni di LaMonte Young e i sequencer kosmische del primo Edgar Froese (l’astratto video curato dalla moglie artista Valentina Berthelon ne sottolinea la forza ipnotica). Heartbeat sincronizza i battiti del cuore sui naturali 120 bpm (che torneranno poi in The Scheme Of Things): techno da manuale, con microvariazioni che dimostrano piena padronanza del mezzo. Per il resto rimania-

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Vienna di Kruder and Dorfmeister, che proprio nelle Sessions di culto avevano inserito un loro brano, ma la Thievery riesce con pochi ingredienti a mantenere un livello dignitoso di coolness; ovviamente la proposta non stupisce, ma piace constatare come il duo sia una delle poche band ad essere sopravvissuta dopo tutto quello che è successo in questi anni di elettronica e dopo che la bolla buddha bar è – per fortuna – esplosa. La selezione di standard di bossa, di musica francese e di psichedelia yè yè anni Sessanta è interessante, ma il punto di forza del lavoro sta nel pop. Saudade è un buon ritorno sui propri passi che si fa ascoltare ripetutamente, mantenendo la guardia alta contro i capelli bianchi e contro la malinconia per il tempo che passa. Da sorseggiare lentamente. 6.6/10


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Alessandro Pogliani

Tying Tiffany - Drop (Trisol,2014) Genere: pop, electro A scapito di una certa incostanza che l’aveva caratterizzata in passato, Tying Tiffany, l’ex suicide girl, arrivata al quinto album in studio, appare come un’artista matura, certamente supportata da un lavorio intenso e raffinatissimo nella produzione di questo Drop. Era dunque necessario uno sforzo in più per l’artista padovana, un passaggio quasi obbligato a un rito di conoscenza interiore che non poteva infrangersi nei ritmi un po’ electro punk, un po’ sopra le righe dei dischi precedenti o delle Suicide Girls. Ora è un’altra storia, una storia che l’ha vista sbarcare in America nel 2013, con un Ep (One), l’ha vista maturare un massiccio sound elettronico, sempre cupo e dark wave, ma con ragionevoli aperture IDM, dream,

witch, chill out, equilibrate e decise. Inutile dire che è stato un passaggio un po’ obbligato, dal momento che alcune cose della sua precedente carriera sono apparse fin troppo derivative: dall’electro teutonica ai Knife. E questo non è piaciuto a tanta critica. Le dieci tracce che compongono questo intenso monologo interiore affondano le proprie radici oltre che nell’intimissimo mondo della psiche di Tying Tiffany, soprattutto nel pantheon referenziale di certo ambient anni Novanta, che, passando per Ladytron, Röyksopp e i Depeche Mode di Songs Of Faith And Devotion, arriva a trovarsi contemporaneo in alcune derive alla Cold Cave o, perché no?, Bonobo, Holy Other, ma anche Daft Punk. C’è molto, forse troppo, cantato, tanto che a volte non permette la fruizione piena di questi muri di synth, di queste profondissime percussioni riverberate (così Eighties…), glaciali nel loro essere pop, ma è un’operazione altresì comprensibile, vista la voce adatta al ruolo. C’è molto, forse troppo, clima ruffiano, e la Tiffany tratta l’IDM un po’ come una madre farebbe con un biscotto troppo duro da dare al piccolo neonato. Ma Drop è tutto sommato un disco maturo, abbastanza lontano dai suoi più recenti predecessori. Non c’è più irriverenza, né strafottenza, il clima è serio, solenne, pur sfiorando a volte il ballabile. Succede in A Lone Boy, quasi un’eco della Morr di Lali Puna e Notwist, in One Second, rituale depurativo di stampo Death In Vegas, in Neon Paradise, che sembra quasi di sentire i Disclosure o, molto più semplicemente, la sana acid-house dell’Hacienda. Ma succede anche che brani come One Place, Deap Blue River o Dissolve chiamino in causa un felice ricordo della Bristol dei Portishead, quella più fumosa e sintetica. Sorridiamo e prendiamo atto. Drop è un disco riuscito, godibile, per certi versi, anche se arriva in un punto avanzato della carriera dell’ar-

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mo in territorio 126-128 bpm, affrontati in via poliritmica e sincopata in Testcard, e altrimenti dritto per dritto. It’s Roland time, con le storiche macchine analogiche maneggiate con cura e rispetto. Il tutto è assolutamente (troppo?) sotto controllo: techno pura, senza sussulti, dove lo shock maggiore è l’assenza di shocks. Anche le punte più acide (Instant, Ya Po e He Said), dove il kick drum quasi-saturo detta il ritmo per arpeggi kraftwerkiani (e, pronunciato e ripetuto come un mantra, “He Said” suona come l’anagramma di “acid”), o il brumoso dub di If non spostano il baricentro di un album ben piantato nella tradizione techno berlinese, in questo caso forse meno adatta al dancefloor e più da ascolto meditativo fuori club. L’ultima traccia (Fast Null), con la sua cowbell marchio di fabbrica 808 e le brevi sequenze synth in loop concentrici, riassume l’estetica rigorosa di un album che rispetta le attese ma non le supera. 6.8/10

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tista. Senza troppi proclami, continuiamo a tenerla d’occhio. 7/10 Nino Ciglio

Genere: rock, avant, post-rock Ci avevano lasciati col De’ Metallo qualche anno fa, preparandoci ad un disco gemello che, in tutta sincerità, davamo ormai per perso, così come davamo per persi i quattro romani amanti di decostruzione e improvvisazione. In realtà, qualche vagito qua e là c’è pure stato in questi anni – l’apparizione in coda all’esordio di Spam and Sound Ensemble di quell’Ivan A. Rossi che registra il tutto o l’esperienza Routine che vede due dei quattro Vonneumann – mentre ora, un po’ a sorpresa, ce li ritroviamo con una piccola rivoluzione copernicana. Il De’ Blues è infatti il primo album, coevo alle registrazione del “gemello”, ad essere pensato, elaborato e composto, piuttosto che improvvisato tra sala prove e studio, e che però riesce a non tradire l’anima decostruttiva e ricombinatoria del progetto. Nelle trame dopo-rock delle sette tracce, al solito impreziosite da titoli tra il calembour, il dadaismo e la trovata geniale, scorrono frammenti di molta storia del “rock” meno allineato passato per i nostri stereo negli ultimi decenni. Il post-rock, innanzitutto: quello più cerebrale e matematico – il nome scelto varrà per lo meno un tributo? –, sporcato di jazz, rifratto nelle ritmiche, frastagliato negli intarsi chitarristici che una traccia come l’iniziale Pensiero Di Katiocs mostra poter esistere in natura. Tutto e il contrario di tutto, riferimenti e citazioni sparsi qua e là non a dimostrare pedigree di ascolti, quanto conoscenza come fonte di indagine. Si parla pur sempre di scienziati, non dimentichiamolo. Poi il blues, asse portante del lavoro sin dall’ar-

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Stefano Pifferi

WhoMadeWho - Dreams (Darup Associates,2014) Genere: pop, electro Non ci sono mai piaciuti, questi WhoMadeWho. Del resto c’è da dire che a forza di insistere su una formula sempre più pop e potabile, forti di tour su tour, live imponenti ed esperienza globale come musicisti attenti alla contaminazione e alle mode, qualcosa di buono è saltato fuori dalle parti delle precedenti prove Knee Deep e di Brighter. Ma cosa può succedere nel momento in cui un trio danese che non ha mai fatto la differenza negli ambiti in cui si è cimentato (vedi il funk punk elettronico degli esordi, che chiamava in ballo tutto un giro di riferimenti come Talking Heads, Wall Of Woodoo, Kraftwerk, motorik vari, l’house di New York, Jimmy Somerville al synth pop e la disco dell’ultima fase), già tacciato da più parti di mestiere nel confezionare canzoni appetibili per un pubblico sempre più vasto, chiede attenzione su una formula ridotta all’essenziale e dunque spoglia di tutti i trick arrangiativi che hanno indorato la pillola finora? Accade che la performance con Arisa all’Ariston faccia da premessa all’album più smac-

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Vonneumann - Il De’ Blues (Retroazione Compagnie Fonografiche,2014)

caica scelta del titolo. Blues da intendersi non tanto come genere, quanto come concetto, come musica della tradizione che i Vonneumann hanno l’urgenza di ripensare, modificandola attraverso il prisma del proprio sentire musicale. Mai attento a nient’altro che non sia la propria visione, il quartetto romano riesce a rendere sempre appetibile e nuova una materia masticata in migliaia di dischi. Cosa non da poco, vista l’attenzione sulla “musica di qualità” di cui troppo spesso blateriamo a destra e a manca senza una direzione. La bussola, volendo, c’è. 7.5/10


Edoardo Bridda

Yellow Moor - Yellow Moor (Prismopaco,2014) Genere: rock Introdotto da un artwork molto efficace ed elegante, il primo disco degli Yellow Moor è un lavoro che cresce sulla distanza, potendo contare su una elevata carica persuasiva, intrinseca alle canzoni che lo compongono. E non è casuale, visto che dietro il nome della

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band si nasconde un personaggio non propriamente esordiente come Andrea Viti, che i più ricorderanno come bassista degli Afterhours dai tempi del celebrato Hai Paura del Buio? e sino a Ballate per Piccole Iene, ma che negli anni ’90 ha avuto anche il merito di fondare un gruppo seminale come i Karma. Accanto a lui in questa avventura c’è Silvia Alfei, con la quale Andrea ha dato vita ai Dual Lyd prima di approdare al progetto Yellow Moor. Che, chiariamolo subito, merita attenzione, dato che si segnala prepotentemente come una novità artistica di spessore nel panorama del nostro rock, poiché le canzoni che lo compongono sembrano impermeabili a mode effimere e a tendenze magari buone solo per una stagione. Al contrario, l’aspetto più stimolante del progetto di Andrea e Silvia risiede in un approccio universale fatto di composizioni che narrano storie di vita quotidiana e che si reggono su un equilibrio invidiabile tra vari estremi: l’elettrico e l’acustico in primis, ma anche la luce e l’oscurità, la quiete e il rumore, la canzone folk e il rock più aggressivo. Le dieci canzoni di Yellow Moor sono efficaci sia dal punto di vista della scrittura, mai banale anche se chiaramente ispirata a modelli d’oltreoceano che prediligono atmosfere cupe come Greg Dulli e Mark Lanegan, sia da quello del sound, stratificato e ricco di sfumature. In 35 minuti netti di durata, dunque, il duo infila una manciata di pezzi potenti che sfruttano molteplici registri espressivi e che, pur non essendo scevri da alcuni difetti, vantano uno standard compositivo molto alto. Elettriche e distorte, senza però che il loro vigore soffochi mai la melodia, le tracce di Yellow Moor non perdono infatti il contatto con la forma canzone, ma anzi prediligono la linearità compositiva e l’immediatezza: poca sperimentazione, quindi, e molta sostanza fatta di linee melodiche indovinate che crescono per

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catamente radiofonico della discografia della band. Fortuna che lo slogan dichiarato a ibizavoice era del tipo “lascia o raddoppia”, perché qui parliamo, se va bene, dei Klaxons meno ispirati che si massaggiano il petto con qualche falsetto su basi disco, sbilanciati magari su chitarrine aeree simil Depeche Mode. Altro che ajurvasca, e le droghe che provarono i londinesi all’altezza dell’album Surfing The Void, gli WhoMadeWho prodotti dal batterista Tomas Barfod fanno persino venir voglia di ascoltare i London Beat di I’ve been thinking about you, tanto è evitato il confronto frontale sia con i discorso pop, che con la dance, qualsiasi inclinazione essa possa prendere, indie o disco. Del resto, non esageriamo: va rispettata la scelta della band di cercare il distillato, il sogno e l’emozione in una balistica essenziale tra melodia e arrangiamento di ottantume serissimo e innamorato. Lo ottiene a livello di airplay radiofonico, di studiata funzionalità rispetto ai cliché pop del caso, fallisce a livello canoro e di scrittura. The Morning, Hiding In Darkness e Right Track che dovrebbero essere i cavalli di battaglia, hanno gli abiti giusti ma sotto il vestito solo deboli strofe e scialbi ritornelli. Del resto, la riprova sulla tenuta del songwriting l’abbiamo nelle pieghe intimiste (vedi Your Better Self ), è li che il gruppo si dimostra più inadeguato. 5/10

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pre sufficientemente rodati intrecci vocali, ma si tratta di peccati veniali, poiché è la sostanza delle composizioni e le atmosfere che queste sono in grado di ricreare ad essere il fulcro attorno al quale gira questa opera, a tutti gli effetti tra gli esordi più significativi dell’anno nell’ambito del nostro rock indipendente 6.9/10 Ilario Galati

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poi deflagrare in refrain dall’innegabile effetto catartico, grazie anche a un uso delle voci, oltre che degli arrangiamenti, che dona ai pezzi sfumature sottili e a volte sinistre. Seven Lizards, posta a metà scaletta, rappresenta per certi versi la pietra angolare dell’intera opera, racchiudendo un mood parzialmente opprimente e saturo di energia elettrica che trova sbocco nell’epicità del suo incedere. Altrove emerge invece una certa classicità, sempre legata più a modelli americani che anglosassoni, come in Ghost o Out Of The City; in altri casi - vedi Supastar - il tributo maggiore lo si paga ad alcune band stoner provenienti da Palm Desert e dintorni, senza per questo ricalcare in maniera scontata le inevitabili ispirazioni. E a riprova della varietà di questo disco, pur in un contesto solidamente unitario, si prenda anche l’iniziale Castle Burned – peraltro brano scelto come singolo promozionale – dove prevalgono suoni lo-fi, mentre il pulsare della ritmica sposta su un piano più sensuale tutta la faccenda. La ballata elettrica di Covering Things e la riflessiva e suadente Inside a Kiss segnano altri due centri pieni, mentre Across This Night è l’unico episodio del disco a stringere in un abbraccio ideale il folk americano più outsider suonato da gente come Howe Gelb, pur con qualche cedimento troppo melodico nel refrain e nel solo di chitarra. In conclusione, Yellow Moor è un progetto seducente, con una serie di elementi di sicuro interesse per chi ha a cuore un certo rock, a cominciare dall’elevata fattura delle canzoni che lo compongono. Qualche intoppo emerge in alcune esecuzioni, in particolare nei non sem-


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Dal vinile 12" all'impalpabilità dell'mp3 passando per 45 giri e nastri, torna la nostra ricognizione mensile sui formati minori. Questo mese parliamo di Stefano De Ponti, Maria Violenza, Gianni Giublena Rosacroce, Staer, Horatio Pollard, AV-K, Prolife, Dark Blue, Hand Of Dust, King Dude, Chelsea Wolfe

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Inauguriamo il mese con l’ennesimo pezzo d’arte vinilica targato Father Murphy. Come se nulla fosse accaduto nel recente passato – la perdita del batterista Vittorio Demarin che ha significato un ripensamento delle dinamiche interne all’ormai duo – e in scia al concettuale lavoro svolto su Pain Is On Our Side Now – un doppio vinile 10” da ascoltare singolarmente e in sovrapposizione – tornano ora col supporto di CorpoC, sempre più realtà lodevole e da incitare in questa scelta di valorizzazione del vinile. Registrato ancora in trio, il 12” single-sided e serigrafato Nozze Chimiche – unica traccia da 10 minuti e 10 secondi – è una perfetta commistione di musica e arti visive, oltre che ennesimo tassello nella ricomposizione di un immaginario sempre più intrigante: sorta di sonorizzazione delle 18 incisioni opera di Veronica Azzinari e ispirate dalla “Chymische Hochzeit Christiani Rosencreutz Anno 1459” (“Le nozze chimiche di Christian Rosencreutz”) inserite nel book illustrato, testo anonimo e manifesto della Confraternita dei Rosa Croce, la traccia è una specie di collage in cui confluisce molto del mondo del reverendo così come dell’immaginario della Azzinari. Un senso di inquietudine atavica che si snoda tra loop minacciosi, accartocciamenti di suoni trovati, malinconiche deviazioni pianistiche d’antan e squarci cameristici d’inquietante atmosfera. L’ennesima conferma per i Father Murphy ma anche per il prezioso lavoro di CorpoC. Su tutt’altri lidi si muove invece Safe In Their Alabaster Chambers, il three-way split tra Empty Vessel Music, Apash Twenty Twelve e Magnetic Poetry pubblicato dalla Under My Bed in splendida edizione assemblata a mano tra trasparenze, sovrapposizioni e carta velina che svelano molto ma non tutto del contenuto. Ispirata dalla poesia della Dickinson che la intitola, questa raccolta affida due “canzoni”, che in realtà sono interpretazioni, a gruppo ma in realtà sembra realmente vivere dello stesso humus, sonoro ma soprattutto come immaginario e atmosfere. Malinconia a nastro, strimpellare di chitarre acustiche, ora sognanti ora più emotivamente instabili e rotte da incursioni rumorose, disturbi elettrostatici, pulviscolo sonoro, voci cristalline nel loro far trasparire una disperazione di fondo (penso all’americana Jenninfer Jo Oakley in arte Empty Vessel Music) in un piccolo gioiellino che si rifiuta di aprirsi al mondo preferendo rimanere in penombra, in una stanza d’alabastro.


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Una montagna di releases nero pece invece sono quelle che la Angst, etichetta un tempo nota come Sometimes e ora di stanza tra Roma e Berlino, rilascia già da qualche tempo. Nomi spesso sconosciuti e dediti alle peggiori efferatezze sonore condite da referenti filmico-letterari di un certo livello e spesso con incursioni extra-musicali come quella nel mondo delle care e vecchie fanzine autoprodotto in modalità “xerox” con il numero (finora) unico “Ansia”. Harsh-noise di matrice industriale e Pasolini nel senso dell’intellettuale ma anche dell’immaginario – popolare, romanesco, sanguigno, nello specifico – che un nome del genere sa evocare, sono il pane con cui si nutre A Happy Death, responsabile di un lato dello split condiviso con Autocancrena. Se quest’ultimo va più di basse frequenze e riprende anch’esso l’estro del poeta friulano esaltando più il versante cinematografico, al solito disturbante e profetico, con tre tracce tra cannibalismo in loop, larsen stordenti, senso di disagio generalizzato e tappeti harsh mai troppo invadenti, il collega di nastro propone asperità e frattaglie sonore decisamente più rumorose e malsane. L’altra tape è appannaggio di Urna, solo-project anch’esso made in Italy e pronto a perpetuare la ben nota tradizione industrial italica a forza di sfuriate ambient-noise stordenti tra esplosioni di rumore bianco, esoterismo di risulta e modalità rituali – esemplare in questo senso Offering To The Vultures – che non avrebbero sfigurato affatto nel recente festival made in Dal Verme “Roma La Drona”. Tutt’e due le tapes sono prodotte in collaborazione threesome con altre lodevoli realtà del sottobosco come Scorze e Suicide. E se, come suggerivano eoni fa gli Starfuckers, “scegli il rumore”, caro lettore preparati all’offensiva di primavera targata Angst. Su versanti decisamente più digeribili si muove l’altra tape del mese: Cold Cold è il passo numero due di Tucano, al secolo David Starr, personaggio fulcro delle Marche marce che già si era fatto notare con Homeless Mandingo. Tra elettronica minimale, approccio anarcoide e free-form, distorsioni ovunque e vocals trattate, slanci etno-groove malandati, afflato post-punk industrial della prima generazione Tucano confeziona un dischetto ossessivo e ossessionante come potrebbe essere quello di un cantautore del dopobomba. Firma il tutto la benemerita Bloody Sound Fucktory con l’avallo della belga Jus Des Balles. Pollice su, ovvio. Ultima, meritoria segnalazione per l’immateriale lavoro che il multiforme artista e polistrumentista veneto Mauro Sambo sta portando avanti col progetto 6’27”: fornire una canzone originale ad una serie di collaboratori sparsi per il mondo, in solo o in gruppo a seconda delle evenienze, per testarne le infinite possibilità assimilatorie e di riproduzione e ricreazione della stessa materia musicale. Nella pagina ufficiale del progetto (http://project627.altervista.org/index.html) così come nella pagina soundcloud (https:// soundcloud.com/project-627) dedicata è possibile seguire in divenire le varie declinazioni con le quali Edoardo Marraffa, Chris Silver T., Francesco Calandrino, Marcello Magliocchi, Paolo Sanna e molti, molti altri donano “vite” ad un unico stesso pezzo. Ponendo l’ascoltatore di nuovo di fronte alle molteplici sensibilità che una rilettura personale – siamo pur sempre in ambiti impro, jazz libero e elettroacustica – può generare.

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The College Dropout (Def Jam Recordings,2004)

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“Siamo in guerra. Siamo in guerra contro il terrorismo, contro il razzismo. Ma sopratutto, siamo in guerra contro noi stessi.“ Partiva con questa affermazione, Jesus Walks, quarto singolo estratto da The College Dropout (un anno dopo l’invasione in Iraq da parte dell’amministrazione Bush), segnando così l’inizio di uno dei percorsi pop più trasformisti e controversi del nuovo millennio. Nonostante la carriera di West come producer fosse già ampiamente lanciata grazie a lavori per conto di Talib Kweli, Lil’ Kim, ma sopratutto Jay-Z, con The Blueprint, il ragazzo stentava a farsi accettare anche come MC. D’altronde, come puntare su un rapper che, contro tutti i trend da bad boy dominanti del periodo, quali 50 Cent ed Eminem, parlava di religione e si vestiva da orsacchiotto? Ma forte era la voglia di essere preso sul serio. “Penso che risplenderà un momento nel tempo in cui sarò l’artista rap numero uno“, diceva West in un’intervista a The Source nell’Aprile 2004, e bisogna dare atto al ragazzo che la testardaggine e la determinazione lo hanno ampiamente ripagato. Da outsider dell’hip-hop a forza trainante e trendsetter di un’intera generazione, la sua attitudine artistica è sempre stata quella di rompere le barriere che gli venivano erette attorno: da produttore a rapper consacrato, raggiungendo poi con Graduation (2007) lo status di popstar tout-court collaborando con Coldplay e riadattando i Daft Punk, fino alla sua più recente ambizione di divenire il nuovo Steve Jobs del design e sfondare nel mondo dell’alta moda. Kanye West si sentiva un rapper anche quando non riusciva a salire sui palchi più importanti accanto a Jay-Z, che a sua volta aspettava il momento giusto per lanciare il suo protegee senza bruciarlo. Un notevole passo avanti arrivò con il successo del singolo apripista Through The Wire, che sfoggiava sample dal calore soul inconfondibile, ma sopratutto conteneva tutti i tratti autobiografici di un personaggio peculiare. Il secondo singolo, la rilassatissima e appassionata Slow Jamz, con i feat di Twista e Jamie Foxx, non fece che confermare la bravura di West nel modellare i sample che hanno definito il classico sound Roc-A-Fella. Una cartolina dalla Chicago dei ritmi e delle rivoluzioni sociali che la hanno scossa durante tutto il ventesimo secolo, della quale Kanye si proclama figlio virtuoso e affamato. Ma il disco non è assolutamente una rivoluzione di genere: Never Let Me Down Again, dall’impasto R’n’B da classifica, era la norma del periodo, mentre Breathe In Breathe Out strizzava forte l’occhiolino a southern sound portato già al successo da Ludacris e OutKast. La vera forza di The College Dropout si trova nei singoli atipici come All Falls Down, con la cantante R’n’B Syleena Johnson, e arriva da quella capacità di unire la critica sociale (la confessione/attacco al consumismo) all’espressività personale di molti degli episodi


del disco per creare una proposta inter-genere. Two Words ne è forse la dimostrazione più lampante, ricca com’è di strumentazione live, coro, arrangiamento d’archi e le collaborazioni di due artisti totalmente differenti come Mos Def e Freeway. Un prodotto autobiografico che testimonia l’ascesa al successo e che già la celebrava nella finale Last Call, lungo pezzo jazzy diluito in 12 minuti nel quale West ripercorre tutte le vicissitudini – tra inizi, incidenti e relazioni professionali – che l’hanno portato a pubblicare il suo primo album. Una sorta di titoli di coda che celebrano con un brindisi il suo successo e quello di chi lo ha supportato. Un bello sfoggio di self-confidence, per un disco di debutto. Luca Falzetti

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Half-Mute (Ralph Records,1980)

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Visto che definirli è un’impresa improba, perciò abbastanza sterile, tanto vale qualificare i Tuxedomoon per allusioni. Girar loro attorno, guardarli di sbieco, sparare colpi traccianti che definiscano una sagoma approssimativa, una vaga zona d’influenza. Anche così però la faccenda è complessa. Ogni volta che riprendi Half-Mute, l’esordio lungo dell’allora trio californiano per la Ralph, storica etichetta dei Residents, sei destinato a rivivere lo stesso senso di straniamento, di centrifuga e dissipazione. Ascoltarlo è un’esperienza che elude i confronti. Per pensarlo te ne devi allontanare. Allora inizi ad intravedere contorni via via più nitidi, sempre però soggetti a volatilizzarsi appena provi ad appuntarli come farfalle nella cornice: la wave dark meccanica e glaciale, il prog aeriforme e patafisico del Canterbury, il misticismo terrigno del free jazz, la fucina allucinata e allucinante di Captain Beefheart, i deliri diversamente punk dei Pere Ubu. Ma c’è dell’altro. La musica è una piattaforma, lo spigolo di un volume mutevole che esiste solo nella tensione spaziale di immagini, coreografie, movimenti, reminiscenze e scorie culturali. La possibilità di un tutto che interviene a dare senso al potenziale nulla. Non sai cos’aspettarti, né è chiaro quel che di momento in momento avviene. Più erratica che rapsodica, la musica dei Tuxedomoon – perché appunto parliamo di musica, alla fine, malgrado tutto – è una sfida elusiva alla prassi del limite su cui è formattata la musica industriale, cui anche le più volenterose realtà alternative si rifanno organizzandosi in generi e stili – appunto – alternativi. “Aliena rispetto a cosa?”, ribatte il Bowie berlinese al giornalista che ha appena apostrofato la sua calligrafia. Ecco. Appunto. Half-Mute esce nel 1980, da Low sono passati tre anni appena, e già quel senso di “mai sentito” sembra essere stato setacciato ed esaurito dai volenterosi sperimentatori della new wave. Tuttavia, Steven Brown, Blaine Leslie Reininger e Peter Dachert hanno dalla loro versatilità (polistrumentisti, studiavano musica elettronica al San Francisco City College) e agilità mentale sufficienti per capire l’importanza dei passi indietro e dello sguardo rivolto altrove. Sembrano fare musica senza pensare alla musica, una conseguenza di ossessioni eccedenti, di fascinazioni troppo profonde, di deliri così sottili da confondersi con la vita passando però da una sua ricodificazione teatrale. Filtrandone la dimensione oscura, l’ombra della luce, il gotico quotidiano. Alle tastiere e alle macchine (il “generatore di suoni”) lasciano che si affianchino i fiati (clarinetto, sax), il violino, le chitarre, il pianoforte, occasionalmente la voce. Ma è uno spiovere non necessario. Un accadere. La provvisorietà come “fantasma nella macchina” del sistema prende tenacemente il centro della scena, ne costituisce il vortice poetico. E’ teatro, è jazz, è cinema (i loro live saranno vere e proprie installazioni multimediali), è musica colta


e avanguardia come residuo fisso della macina motorizzata kraut-wave. E’ il cabaret spettrale e guizzante di Fifth Column, col romanticismo ipercinetico del violino inglobato nella forma mentis androide, che diventa dramma tetro in 7 Years e capriccio grottesco in 59 To 1, come potrebbe un Brian Eno alle prese con marionette malsane (stranamente Eno non li apprezzò affatto: non è dato sapere se nel frattempo abbia cambiato idea). Se episodi come Volo Vivace sembrano voler enfatizzare i retaggi colti con evoluzioni febbrili e cupe alla Tartini, con Tritone (Music Diablo) questa attitudine soggiace alla serializzazione stolida à la Joy Division, testimoniando che l’idea di avanguardia pop dei tre lunatici non mira all’isolamento ma è determinata a stare nel bel mezzo del qui e ora. La loro forza è proprio questa, non ritirarsi in snobistico eremitaggio ma infrangere i tabù metodologici e concettuali dall’interno: digerire il free come percorso emotivo necessario per decodificare il presente (i geroglifici coltraniani di clarinetto tra emulsaioni sintetiche in Nazca, le folate radianti di sax raggelate Devo/Kraftwerk di Loneliness), plasmare la materia cinematografica come se il visibile partecipasse dell’invisibile (i rumori ambientali ed il tumulto ciclico nell’omaggio al regista horror James Whale – uno dei primi gay dichiarati in ambito hollywoodiano – e la visionaria suite conclusiva KM/Seeding The Clouds, dove sembra di assistere alla riesumazione cibernetica del Jim Morrison mitteleuropeo). Mentre quando si misurano su forme apparentemente più canoniche se ne escono con un pezzone ossessivo e onirico come What Use?, il post-punk contagiato di retaggi squinternati psych, un senso di squilibrio eniano nei riff simultanei di sax e tastiere. Senza contare quella Dark Companion che non entrò a far parte della scaletta ma fu allegata come 45 giri nella prima edizione europea dell’album, un congegno micidiale di piano, synth e chitarre effettate che ti fa pensare ad una versione siderale e flemmatica dei Wire. Quella dei Tuxedomoon era una proposta coraggiosa quindi, per non dire rivoluzionaria, che però sapeva e voleva toccare le corde giuste. Prevedibilmente tuttavia negli States non riuscirono ad ottenere il riscontro meritato. Perciò fu una conseguenza quasi naturale trasferirsi nel vecchio continente dove durante il tour avevano raccolto tributi che sorpresero per primi loro stessi. Stabilitisi in Olanda, incisero a Londra il successivo Desire, album che per molti versi li consacrò anche se la forza dell’esordio non verrà più eguagliata. Ma un confine era stato tracciato ed oltrepassato. Un gesto che non smette di scompaginare le nostre indebite certezze. Stefano Solventi

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digital magazine | aprile 2014 | n. 114


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