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digital magazine | gennaio 2014 | n. 111

Il rock ai tempi della metropoli


sommario tune in – p. 4  Warpaint   Mario Bajardi   Ones to watch 2014   Jon Hopkins   Amanda Palmer   Mike Donovan   Migliori album del 2013  Burial

drop out – p. 48   Lou Reed

recensioni – p. 52 rubriche – p. 110


#111 gennaio

Direttore Edoardo Bridda Ufficio Stampa Alberto Lepri Coordinamento promo Gaspare Caliri, Stefano Pifferi Art director Nicolas Campagnari A questo numero di Sentireascoltare hanno contribuito: Alessandro Liccardo, Gabriele Marino, Stefano Pifferi, Riccardo Zagaglia, Stefano Solventi, Diego Ballani, Fabrizio Zampighi, Nino Ciglio, Marco Braggion, Edoardo Bridda, Daniele Rigoli, Giulio Pasquali, Marco Boscolo, Giulia Antelli, Tommaso Iannini, Francesco Augelli, Ilario Galati, Filippo Bordignon, Andrea Forti, Gaspare Caliri, Antonello Comunale, Antonio Pancamo Puglia Copertina Lou Reed Guida spirituale Adriano Trauber (1966-2004)

SentireAscoltare // online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Copyright © 2014 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare.


Abbiamo cercato di indagare più a fondo le ultime novità in casa Warpaint, scambiando due chiacchiere telefoniche con Stella, intenta a cucinare una colazione a base di caffè nero e plum cake e a risistemarsi lo smalto delle unghie dei piedi. Lo abbiamo fatto ascoltando in anteprima l'album omonimo in uscita il 24 gennaio per Rough Trade e fissando nella mente il contrasto accesissimo fra i colori del deserto e la frenesia di Los Angeles. Testo di Nino Ciglio

Warpaint Love Is To Dance

All’incrocio fra il deserto del Mojave e il deserto del Colorado, sorge il parco di Joshua Tree, monumento nazionale americano dal 1936 e Parco Nazionale dal 1994. La California è decisamente lo stato più interessato dal parco, oltre ad essere anche lo Stato più interessato dai deserti, dai metallari e dai surfisti. Più di 173.890 ettari del Parco sono definite “zona selvaggia”, che tradotto vuol dire “lasciate ogne speranza voi ch’intrate”. Che interpretato vuol dire: Warpaint Allo-

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wed. Il caldo, il secco che scorre sotto la pelle appiccicosa, sono il leitmotiv di chiunque abbia voglia di sperimentare l’ambiente. Ma chi ne ha veramente voglia? Di certo l’aria rarefatta e i respiri spezzati sembrano dolci a chi vuole cose estreme, a chi ha voglia di prendersi una vacanza senza abbandonare l’adrenalina della vita on the road. Le quattro Warpaint sembrano rispondere alla descrizione: sono amiche, hanno fatto il botto con il loro esordio nel 2011, sono stanche


dopo un tour infinito, ma mai dome. Joshua Tree sembra proprio il luogo ideale per loro. All-female band (ma guai a definirle così in loro presenza), sulla cresta dell’onda all’epoca della American Invasion del 2008 – la stessa dalla quale sono usciti anche The Drums, Beach Fossils e Wild Nothing -, le Warpaint hanno deviato su binari più interiorizzati, più sperimentali rispetto ai cugini dell’East Coast. Già all’epoca dell’EP Exquisite Corpse (2008), Theresa Wayman, Emily Kokal e Jenny Lee Lindberg avevano saputo mettere a punto un sound particolarmente dreamy, ipnotico, frutto di una rumoristica ben strutturata che aveva fatto rizzare le orecchie al buon John Frusciante (non a caso dietro al mixer). Con il primo full length The Fool (2010) è venuta fuori tutta la potenzialità destrutturante della band, quella spessa e schizofrenica dei Cocteau Twins o This Mortal Coil, quella teen-oriented dei Cure o di Siouxsie, quella rabbiosa e genuinamente femminile di Pj Harvey o Cat Power. E in fondo si sapeva che le Nostre avevano innescato il giusto marchingegno, da quando in line up era passata gente del calibro di Josh Klinghoffer (anche lui un Red Hot) o Shannyn Sossamon (passato e presente hollywoodiano immortalato dal personaggio di Lauren in Le Regole dell’Attrazione). Anzi, spesso si è fatto tanto, troppo, rumore sul fatto che la loro notorietà fosse dovuta all’entourage terribilmente mainstream, che avrebbe fornito loro i giusti agganci al momento giusto. Certo è che la Lindberg ha saputo rendere i suoi “contatti” incredibilmente proficui in un’ottica a lungo termine: il suo matrimonio con il grande Chris Cunningham, oltre a procurargli una vita presumibilmente felice, ha portato alle Warpaint spunti e ispirazioni (molti, come è ovvio, sul versante del visual) degni di nota. Torniamo a Joshua Tree, luogo eletto come ere-

mo dalle quattro (già, perché nel frattempo è entrata in line up la batterista Stella Mozgawa) al fine di raccogliere energie, prima di rimettersi in studio. Per chi ha la musica nel sangue, un luogo così lisergico e suggestivo come il deserto della California non può lasciare indifferenti. Ed ecco che le prime gocce di materiale inedito vengono stillate dall’aridità della Yucca Brevifolia (pianta nativa del posto), in un clima mistico e stregato. Il tutto passando attraverso interferenze RnB e hip hop. Abbiamo cercato di indagare più a fondo, scambiando due chiacchiere telefoniche con Stella, intenta a cucinare una colazione a base di caffè nero e plum cake e a risistemarsi lo smalto delle unghie dei piedi. Lo abbiamo fatto ascoltando in anteprima l’album omonimo in uscita il 24 gennaio per Rough Trade e fissando nella mente il contrasto accesissimo fra i colori del deserto e la frenesia di Los Angeles. Quanta Los Angeles c’è nelle vostre canzoni? Vi trovate a vostro agio nel clima della città? Non credo che siamo una band classicamente losangelesiana, ma non so più cosa sia una band losangelesiana. C’è sicuramente una sorta di nuova era nella musica di LA, che non combacia esattamente con se stessa. Dico questo per dire che noi e le Haim, ad esempio, siamo diversissime, anche se proveniamo dallo stesso posto ed esploriamo diversi aspetti della città. Penso che ci sia moltissima musica in questa città, ma non credo che esista necessariamente un sound caratteristico come era una volta. Può essere definito il lato oscuro, quello che esplorate voi? Si, ma direi che si tratta più di un’ispirazione interna, con tutto ciò che riguarda il vivere in una città in cui si sentono le solite cose, tipo: “Oh, cacchio, è una palla guidare la mia macchina” o “la gente è falsa” o cose così. Ha a che vedere con la musica, le cose che vengono dall’interiorità, al modo in cui reagisci ad esse, anche se è tut-

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to basato su cose esteriori. Penso che il discorso abbia a che vedere con il modo interiore con cui reagiamo alle cose esteriori. Pensi che il vostro stile di vita o quello della città sia cambiato dal 2010 di The Fool ad oggi? Ad essere sinceri, non credo. Sono piuttosto sicura che la vita non è cambiata. Non sicuramente in modo da avere abbastanza soldi per comprarci grandi abitazioni o fare sette bambini o cose così. Siamo più o meno le stesse persone di allora, abbiamo solo un po’ di consapevolezza in più in quello che facciamo. Il secondo album è il più difficile, soprattutto dopo che il primo è stato ben accolto ovunque. Quale era il vostro scopo e quali sono state le vostre più profonde preoccupazioni quando avete scritto il nuovo materiale? Una delle preoccupazioni maggiori è stata quella di stare attente ai suoni che non avremmo potuto replicare dal vivo. Molte canzoni di The Fool hanno avuto questo destino e ci dicevamo: “Wow, c’è così tanto che dobbiamo tagliare”.

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Così, ci siamo sentite semplicemente un po’ più consapevoli di quello di cui avevamo bisogno, nel processo di realizzazione di un album: non si trattava di fare quello che volevamo, di aggiungere suoni e poi trovarsi in difficoltà nel momento di eseguire quei brani dal vivo. Questa è stata la cosa su cui abbiamo discusso di più, ma a parte questo, credo che fossimo solo eccitate di tornare a suonare in studio di nuovo insieme, dal momento che siamo state in giro così a lungo. Volevamo scrivere nuovo materiale: è quello che succede quando suoni le stesse canzoni quasi ogni sera per due anni e mezzo. A proposito di questo, mi chiedevo come fosse andata la scrittura del nuovo materiale… Warpaint è stato scritto al parco nazionale di Joshua Tree nel giro di un mese. Molte cose che sono finite nel disco, sono state pensate lì, durante quel viaggio… o vacanza lavorativa, comunque tu la voglia chiamare. Molto è nato dai demo che abbiamo composto. Sostanzialmente, il disco è una combinazione di due cose: il lavoro individuale che ognuna di noi ha portato all’in-


terno della band, trasformato poi in qualcos’altro; il materiale nato dalle sessioni a Joshua Tree: anche questo materiale è cambiato ed è diventato qualcosa di nuovo. Abbiamo suonato alcune di queste canzoni live e sono risultate ulteriormente diverse rispetto alle versioni poi finite sul disco; questo è stato davvero d’aiuto. È vero che questo disco è più ambient, più minimalista rispetto a The Fool? Non credo fosse il nostro obiettivo primario, non so come sia successo, ma è veramente interessante sentire quello che le persone dicono al riguardo. Alcuni dicono che le canzoni sono più piene, altri che sono più minimaliste. Penso solo che ognuno abbia la sua opinione su quello che rappresenta veramente un album. Volevamo solo esprimere le nostre idee nel modo migliore possibile, piuttosto che essere confusionarie e dire cinque cose diverse in una sola canzone. Eravamo forse un po’ più concentrate. Però è vero che ci sono più synth nel disco… Sì, è vero [ride, ndr]! Quindi magari risulta ambient anche per questo… Beh se si intende questo per ambient, allora sì è vero! [ride, ndr] Ho letto da qualche parte che siete state fulminate dal rap e dall’RnB, che ultimamente è una cosa piuttosto indie, a quanto pare… Mi rendo conto solo ora di quanta sincronia si sia creata fra queste due realtà negli ultimi due o tre anni. Senza parlare del fatto che se guardi le Top 10 in America, moltissimi album sono hip hop. Penso che sia inevitabile avere una sorta di influenza… Influenza eh… Beh, non proprio influenza. Spesso amiamo quel tipo di musica, ne siamo attratte e la ascoltiamo insieme ed ecco che esce fuori un gusto che ci accomuna. Voglio dire, non abbiamo mai fatto una canzone hip hop o RnB, non abbiamo neanche mai provato ad andare in quella di-

rezione. Non abbiamo mai provato a fare una canzone che suonasse come un’altra canzone o come un’altra band, ma credo che le cose vengano spontaneamente al di sotto della tua pelle. Si tratta di decisioni che devi prendere mentre scrivi un brano: “come deve essere questo sound?, deve essere minimale o massiccio?” sono domande che ti fai, anche se vieni influenzato in maniera subdola dalla musica che ascolti. Non è una cosa cosciente: prendi una piccola parte di una canzone e ti accorgi dopo: “Oh, ma suona come i Cure!” o robe così. Warpaint è prodotto da giganti come Nigel Goldrich degli Atoms For Peace e Flood. Come sono nate queste collaborazioni? Questo disco ha decisamente più a che fare con Flood che con Nigel. Nigel è incredibile, ha prodotto e missato due canzoni (Love Is To Die e Feeling Allright) e noi siamo ovviamente sue grandi fan, ma in termini di impatto sul disco, lui c’entra poco. La gente si attacca ai grandi nomi, la stampa ne parla con espressioni del tipo: “Wow, Flood e Nigel Goldrich producono il nuovo album delle Warpaint!”, cosa che non è affatto vera. Rispettiamo Nigel e amiamo il suo lavoro sul nostro disco, ma è stato un contributo che ha fatto sì che quelle due canzoni prendessero vita, non ha avuto niente a che vedere con il processo creativo di Warpaint. Giusto per essere chiari. Love Is To Die, Love Is To Not Die… e non è la prima volta che si cita l’amore e il turbinio delle passioni in una delle nuove canzoni. C’è per caso un tema comune? Sì, non ce ne siamo accorte finché non abbiamo riascoltato tutte le canzoni, in fase di definizione della tracklist. Solo lì mi sono accorta come ogni canzone abbia a che fare con l’amore. È qualcosa che probabilmente succede solo perché siamo tutte innamorate, in qualche modo: che sia un’idea o una persona, fa poca differenza. Ci sono così tanti modi di esprimere quel tipo

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di sentimento. Non volevamo fare un concept album, ma mi accorgo che l’amore è il tema che attraversa il disco. Dall’altro lato, però, ci sono canzoni come Biggy o Go In che sembrano uscite da un film horror, come è successo anche ad Elephant. Dico questo perché ho avuto come la sensazione di assistere a un rituale mistico che volesse evocare qualcuno che non c’è… Oh, this is soooo true! Go In è la prima canzone che ho scritto con la band. L’ho scritta a Joshua Tree e riguarda una persona molto specifica, un momento molto specifico. È assurdo che tu abbia detto questo, perché nell’esatto momento in cui scrivevo, mi sentivo così. Ero sola in quella casa a Joshua Tree e fuori il vento infuriava: abbiamo messo quel suono all’inizio della canzone perché sembrava che la casa fosse infestata, in qualche modo. È stato particolarmente intenso, un’esperienza spirituale, e non lo dico come lo direbbe una cazzo di hippie! Con Biggy è andata più o meno allo stesso modo, come una sorta di

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seduta di meditazione e come se si stesse suonando non tanto con i muscoli, quanto con la mente e i sensi. Penso che buona parte dell’album sia nata da situazioni come queste, in cui vai verso la parte di te stessa un po’ infestata, un po’ spettrale. E’ una supposizione corretta, quindi… Beh, è cool che tu abbia detto questa cosa del film horror, perché ci piacerebbe fare qualcosa sul genere, magari, un giorno… Mi parli un po’ del documentario che sta per uscire su di voi? Regia di Chris Cunningham, mica male! Chris è il marito di Jenny. E’ stato con noi a marzo, quando abbiamo scritto il disco a Joshua Tree. Ha avuto l’idea di raccogliere tutto il girato e ha intenzione di remixare e re-immaginare molte canzoni del disco con i samples che gli abbiamo fornito e che non sono finiti sull’album. Farà una reinterpretazione di quel periodo di tempo, di quelle canzoni, di quell’esperienza. Non so dirti molto perché non ho ancora visto niente. Ho visto solo spezzoni e mi piace tenere


tutto inedito finché Chris non avrà intenzione di farcelo vedere tutto. Uscirà poco dopo la pubblicazione del disco a gennaio, dobbiamo solo capire come [ride, ndr]! Beh, avrà fatto un gran lavoro con due anni di riprese a disposizione! Sì, anche se non ha registrato ogni singolo momento, ovviamente. Ha iniziato a girare due anni fa, a marzo 2012, poi è venuto con noi in qualche data, è stato alla sessione di registrazione e di missaggio. Ma non è stato uno stalker che ti osserva mentre fai colazione o cose così! Non abbiamo dovuto vestirci in un certo modo solo perché Chris Cunningham stava girando un documentario sulle Warpaint; non era certo un vecchietto inquietante che ci spiava. Ha solo vissuto i momenti e raccolto quelli più significativi. È un amico, parte della famiglia, quindi ci gira attorno un bel po’. Ultima domanda difficile: vi sentite una band psichedelica, come si dice in giro? Mh, domanda interessante… Credo che le ragazze, quando hanno iniziato, non volessero essere niente in particolare, non hanno mai avuto discussioni sulla direzione che stavano prendendo. So solo che quando qualcuno che potrebbe essere mio zio mi chiede che musica faccio con la band, la prima cosa che mi viene in mente e che può avere senso per lui è: “suono in una band psichedelica”! E’ musica un po’ bizzarra, le canzoni durano un po’ di più rispetto alla media, è piuttosto sperimentale. Ma so bene che “sperimentale” dovrebbe magari riferirsi a persone che fanno musica tipo John Cage o Moondog. Credo che definirci “psichedeliche” serva solo ad essere chiari con le persone che non hanno mai sentito il genere. Ma non so neanche cosa siano le classiche band psichedeliche: Pink Floyd o simili hanno un sound particolare che molte persone definiscono psichedelico. Non credo che abbiamo quel tipo di psichedelia.

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Prima dell’imminente secondo EP del musicista elettronico siciliano, abbiamo fatto il punto sulla sua carriera. Mario Bajardi ci rivela come l’artigianalità del compositore non sia morta e sepolta con l’elettronica. Il suo percorso artistico ci parla di un made in Italy da esportare e imitare. Testo di Marco Braggion

Mario Bajardi Sculture sonore

Di Mario Bajardi avevamo parlato qualche anno fa in occasione dell’uscita del suo primo disco Archives. Da quell’esordio sulla lunga distanza ne è passato di tempo. Il violinista e compositore siciliano ha iniziato a collaborare con una software house americana per la realizzazione di una libreria di suoni, che sta usando per comporre il suo nuovo EP in uscita il prossimo gennaio. In più ha iniziato a sonorizzare spot e

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a comporre musiche premiate in manifestazioni e festival di contemporanea in giro per il mondo. Abbiamo parlato di tutto questo con lui via e-mail. Puoi parlarci un po’ di te, del tuo percorso artistico e professionale? Sono un violinista, compositore e sound designer. Le mie produzioni si muovono nell’ambito elettronico/soundtrack/elettroacustico. Insegno


musica elettronica al Liceo Musicale e Sound Design all’Accademia di Belle Arti di Palermo. Tra percorso formativo e produttivo, ho avuto modo di partecipare a diverse manifestazioni, festival, anche di natura prettamente accademica nazionale ed internazionale (Pierre Schaeffer nel 2001 e scelto come compositore italiano all’International Computer Music Conference del 2002, Luigi Russolo), ma anche di autoprodurre un album nel 2001 (Overture Arcaica). Dal 2011 ho firmato un contratto editoriale con la Iter-Research, che ha poi portato alla pubblicazione sulla label Onde dell’album Archives, seguìto da un Glass Orchestra EP nato dopo aver composto e prodotto il brano omonimo per lo spot Sound of Vine Tasca D’Almerita (che ha raggiunto circa 250mila visualizzazioni su YouTube). Quali sono le caratteristiche della tua musica? Ti consideri un artista elettronico? È il suono che mi ispira a creare; più che farmi seguire un genere in particolare, il suono mi suggerisce come trasformare le mie sensazioni in musica. Insegno tecnologie musicali e sound design e parlo spesso del suono. Il suono è legato all’ascolto. Quanti di noi ascoltano davvero? Tratto molto spesso questo argomento con i miei allievi. Parlo anche del fatto che i mass media non sono i soggetti che divulgano il nuovo. La curiosità è il primo passo da compiere per conoscere la bellezza del suono. Dopo il Glass Orchestra EP mi dicevi che stai completando un nuovo lavoro. Quando uscirà? Ce ne puoi parlare? Sto chiudendo in questi giorni il successivo EP, che uscirà nei primi mesi del 2014, sempre su Onde. Lo sto curando in ogni dettaglio, divertendomi ad orchestrare il design sonoro attraverso alcuni processi compositivi che fanno parte ormai del mio workflow. In particolare, dopo l’esperienza lavorativa per la produzione

della libreria Metamorph recentemente rilasciata dalla Twisted Tools [music software house americana, ndSA], ho avuto modo di affinare e incrementare la fase di definizione del suono attraverso l’uso del software Kyma (molto usato in campo cinematografico e videoludico), col quale ho aggiunto alcuni elementi timbrici che speravo di poter inserire nelle mie composizioni, e di questo infatti sono molto contento. Il mio obiettivo è offrire un suono senza doverlo cucinare con ricette prestabilite, per cercare di sorprendere il gusto del fruitore. Che cosa hai usato a livello di software e tecniche compositive? Sto cercando di convogliare diverse tecniche compositve legate al mondo del sound design, utilizzando sia il violino, che nuovi i suoni creati per la Twisted Tools. A questo scopo uso il già citato Kyma della Symbolic Sound, un software che mi permette di elaborare il suono con estrema qualità e accuratezza. Parto spesso dal suono del violino e da diversi oggetti con cui eccitare le corde, pizzicarle, strofinarle, o anche grattarle, per poi elaborare la registrazione con uno degli strumenti a mio avviso più interessanti del software, ovvero Tauplayer, un tool che consente un intervento davvero definito su frequenza, ampiezza, forma d’onda e formati. In uno step successivo associo alcuni parametri base ad un iPad o a una tavoletta grafica, mezzo espressivo che mi consente di fatto di creare, di volta in volta, uno strumento musicale. Ci puoi parlare nello specifico della tua collaborazione con la software house americana Twisted Tools? Lo scorso ottobre è stata pubblicata la libreria Metamorph per la Twisted Tools, azienda americana che licenzia e vende librerie di suoni e software in tutto il mondo. L’azienda si è dimostrata interessata ai miei suoni di violino e alla loro successiva eleborazione. Ho comple-

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tato la folta mole di file in collaborazione con Paolo Bigazzi (presente col progetto Komplex) e ho concentrato i miei sforzi sulle tecniche di registrazione del violino prima, di processing poi attraverso le risorse di Kyma, ed infine di espressione ed esecuzione. Metamorph è una libreria ricca di moltissime soluzioni timbriche credo inusuali per uno strumento così classico come il violino, suddivisa poi in categorie e cartelle, nonché di una splendida interfaccia (M16) già mappata per controller touch screen, ideata e realizzata dal grande Antonio Blanca. La Twisted infine ha curato ogni aspetto di ottimizzazione dei file, nonchè una successiva fase di elaborazione, operando poi un grande sforzo promozionale con un video teaser sonorizzato ovviamente con i suoni della libreria da Richard Devine, sound designer che non ha certo bisogno di presentazioni [musicista e produttore americano che ha pubblicato, tra le altre cose,

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anche un disco su Warp nel 2000 intitolato Lipswitch, ndSA]. Ci siamo divertiti molto nel programmarla e credo che sarà la prima di una lunga serie, dato che ho intenzione di realizzarne altre, per temi o strumenti da indagare con queste tecniche. Ma chi usa questo software? E perché è così importante? Ormai l’industria della produzione dei media, ma anche musicale (penso sempre all’immenso lavoro fatto da Amon Tobin con il suo Isam), necessita di un apporto qualitativo e distintivo del linguaggio e della forma che di certo non può escludere quello del sound design. Avere una libreria che permetta di definire con una certa immediatezza un mood, o caratterizzare un personaggio (Wall-E è praticamente solo sound design), per poi armonizzarlo con il resto dell’environment visivo, è importantissimo. Sia nel workflow post-produttivo (noi dell’audio, in


generale, siamo i più sfigati; arriviamo alla fine dei processi produttivi, con tempo e soldi praticamente finiti), che nella fase promozionale, molti progetti hanno bisogno di una definizione del territorio sonoro, con qualità altissima (anche perchè spesso è il suono che salva un montaggio approssimativo o un movimento di camera poco attraente), e non sempre si hanno budget e tempo necessari per svilupparla. Inoltre una libreria che abbia di per sè un certo carattere, ha la possibilità di essere comunque elaborata nuovamente per un matching specifico. Penso al sound design per i videogames, ma anche all’universo App. Quindi sia i sound designer che i music supervisor, potranno essere interessati a ottenere una licenza della libreria per la sonorizzazione del videogioco di turno o App, o come spesso ormai capita anche nel rapporto con le agenzie pubblicitarie, per sound logo o marchi importanti nell’audio brand identity. Ad esempio: dopo aver sentito il suono di avvio di un Mac, ti serve che la macchina da presa lo inquadri per farti percepire il messaggio? Nella produzione musicale, poi, credo che si possa davvero gustare l’intero pacchetto, anche all’ interno del software Reaktor, naturale controparte dei tools… M16 infatti è uno strumento musicale de facto… e confesso che lo sto usando proprio per il mio nuovo EP.

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Siamo pronti per iniziare una nuova annata discografica in cui, tra grandi ritorni di veterani e attese conferme, ci sarà anche spazio per una serie di esordiendi pronti a conquistare fette più o meno grandi di pubblico. Ve ne proponiamo quindici, teneteli d’occhio. Testi di Marco Braggion, Nino Ciglio, Riccardo Zagaglia, Edoardo Bridda

Ones To Watch 2014 Dopo il successo dell’articolo dello scorso anno, tra una classifica un editoriale di fine anno, torna l’appuntamento con ones to watch, la nostra personale scansione dei probabili nomi caldi per la prossima stagione discografica. Alcuni sono già da mesi sulla bocca di tutti e presenti anche su altre liste similari (non troverete però FKA Twigs o MØ, già inseriti negli ones to watch dello scorso anno), altri invece sono vere e proprie scommesse sulle quali abbiamo puntato seguendo l’istinto. Di seguito trovate la nostra lista degli ones to watch 2014 corredata da foto, descrizione e ascolto consigliato, quest’ultimo scelto tra le tracks presenti su Soundcloud, Spotify o tra i brani di EP pubblicati di recente (vedi anche la compilation “Tracks from EPs 2013”). Diciassette artisti di varia estrazione, dal pop (più o meno da classifica), al r’n’b-soul, passando per le ultime tendenze elettroniche, senza – ovviamente – dimenticare le chitarre. Rejjie S now

Provenienza: Dublino, Irlanda // File-Under: 90s hip-hop Alex Anyaegbunam, 20 anni, conosciuto come Rejjie Snow, ha tutte le carte in regola per essere il grande outsider del 2014. Nato e cresciuto a Dublino, ha vissuto un paio d'anni negli States diplomandosi ad Atlanta, prima di tornare in madrepatria e concentrarsi esclusivamente sull'attività musicale. Dopo aver pubblicato nel 2013 l'EP Rejovich, Rejjie Snow rilascerà nel 2014 il mixtape Dear Annie, anticipato dal singolo Black Pancakes. Parole d'ordine: old school, slow-flow e timbro alla Tyler, The Creator. Banks

Provenienza: Los Angeles, CA, USA // File-Under: artpop/electropop Già lanciatissima e forte di un EP piuttosto chiacchierato (London EP) contenente brani prodotti da nomi quali Totally Enormous Extinct Dinosaurs, SOHN e Jamie Woon, l'americana Banks sembra essere una delle alt-diva con le maggiori possibilità di fare il botto anche a livello mainstream durante il prossimo anno. Nonostante le premesse ci siano tutte, mentre scriviano non è stata ancora ufficializzata la pubblicazione dell'album di debutto.

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RY X

Provenienza: Angourie, Australia // File-Under: singer/songwriter Australiano con una smodata passione per il surf, RY X, dopo aver fallito il tentativo mainstream a nome Ry Cuming, ci riprova voltando le spalle all'insipido pop da classifica con un cantautorato malinconico e sofferto che in alcune occasioni può ricordare l'operato del suo grande idolo Jeff Buckley. Berlin EP è stato un buon biglietto da visita e la titletrack è stata utilizzata come jingle pubblicitario. Attendiamo conferme nel 2014. A stral Pattern

Provenienza: London, UK // File-Under: dream-synth-kraut-pop L'about della pagina Facebook recita "Kosmische musik", "germany" e "Kraftwerk! Neu! Can! Cluster! Amon Duul II! La Dusseldorf!", tuttavia gli Astral Pattern non sono un gruppo kraut tedesco ma un progetto London-based riconducibile al giro TOY/Horrors/Rachel Zeffira e nato dalle ceneri dei defunti S.C.U.M. La voce di Melissa Rigby, che era la batterista della band di Again Into Eyes, si insinua e accarezza tappeti di synth e atmosfere dream pop. Until The Ribbon Break s

Provenienza: Cardiff, UK // File-Under: dystopian-pop Pete Lawrie Winfield/Until The Ribbon Breaks ci ha messo del tempo per trovare la propria formula e ci è riuscito facendo convivere la propria passione per il cinema (è visual artist e film-maker) e gli esordi come remix-maker. L'EP di debutto A Taste Of Silver EP, caratterizzato da ambientazioni e testi di matrice distopica, ha inoltre mostrato un interessante gusto melodico che potrebbe regalargli spazio radiofonico durante il 2014.

RY X

U nt i l T he R i b b o n Bre a k s

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Luca M ortellaro

Provenienza: Berlino, Ger // File under: techno Donato Dozzy, in un'intervista di qualche mese fa, ci aveva parlato di una collaborazione con Lucy per il suo nuovo album. Luca Mortellaro esce il 17 febbraio con un sophomore sulla sua Stroboscopic Artefacts, etichetta di culto per la techno-ambient-drone di eccellenza. Il disco si intitolerà Churches Schools And Guns e sarà preceduto da un remix EP di tracce prese dal full length (i nomi sono: il già citato Dozzy, il produttore della Opal Tapes Shapednoise, il veterano della techno berlinese Milton Bradley e infine Eomac, metà del gruppo Lakker, che milita sempre su Stroboscopic). Luca non è proprio un neofita, ma siamo sicuri che nel 2014 se ne sentirà parlare molto. Mortellaro ha già suonato al Berghain, al Sonar, al Time Warp e al Club2Club. Il secondo album seguirà il debutto del 2011 Wordplay for Working Bees. L'uomo è stato uno dei pochi musicisti elettronici ad aver partecipato al prestigioso Rossini Opera Festival. Lo attendiamo con interesse. Kwabs

Provenienza: Londra, UK // File-Under: r'n'b Già apprezzato dal gotha del new soul internazionale (Jesse Ware, Laura Mvula e Joss Stone fra gli altri), Kwabs esordirà all'inizio dell'anno sulla prestigiosa Atlantic Records. Il suo approccio si accosta molto a James Blake, ma la voce è più profonda e calda, vicina alle radici africane/R'n'B/ gospel. Due i singoli che hanno fatto salire le sue quotazioni: Spirit Fade, scritta con Dave Okumu (The Invisible / Jessie Ware) e Last Stand, prodotta dal viennese SOHN. Il londinese Kwabena Adjepong potrebbe stupire. Rey Pila

Provenienza: New York, USA // File Under: glam pop rock I Rey Pila sono Diego Solorzano, Rodrigo Blanco, Albert Hammond, Jr. e Andres Velasco. Originari di Mexico City (a parte il terzo), da un po' di tempo sono diventati newyorchesi a tutti gli effetti. Musicalmente parlando sono stati notati da Julian Casablancas degli Strokes, che li ha scritturati sulla sua Cult Records. Hanno già affiancato in tour Interpol, Muse, TV On The Radio e Ariel Pink. Dopo il primo singolo Alexander (con la cover della hit anni '80 Lady In Red sul lato B), si attende il full length a base di synth pop-rock che nelle vocals richiama David Bowie. Niente di nuovo, ma molto ascoltabile. Quando funziona, funziona.

K wa b s

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Re y P i la


Rainer

Provenienza: Londra, UK // File-Under: Future pop Duo R'n'B londinese formato da Rebekah Raa (vocals) e Nic Nell (composizione). Il loro sound non è così distante da quello di Kelela, ma va anche a parare su un pop nordico che quadra il cerchio delle spigolature da club. I ragazzi hanno già pubblicato un doppio A side (Girls/Money) e un EP intitolato Hope/Satin/Glass/Dreams. Prima di debuttare con il duo, lei ha partecipato alla breve carriera degli Stricken City (gruppo sciolto un paio di anni fa, con sonorità a cavallo fra post-punk e new wave), mentre Nic Nell ha prodotto con il nome d'arte di Casually Here e suonato negli Young Colossus con Orlando Weeks dei Maccabees. Con il singolo giusto potrebbero togliere lo scettro al tormentone Lorde. O cea á n

Provenienza: Manchester, uk // File-Under: Soul, Chill Se cercate una voce blues soul da panico l'avete trovata. Oliver Cean viene da Manchester ed è un ibrido fra Antony e James Blake. Ha all'attivo remix per la cantante danese MØ, per i Woman's Hour e per gli Swim Deep, qualche singolo postato su Soundcloud fra chillwave e atmosfere sensuali che sicuramente sbancherà in un full length d'effetto. Non sono ancora previste date di pubblicazione. M N EK

Provenienza: Londra, UK File-Under: Soul, Chill Uzoechi Osisioma Emenike, in arte MNEK, nel 2014 dovrebbe uscire finalmente con un album. Il ragazzo londinese (classe 1994) fa il produttore, il cantante e pure il compositore. Anche se ha solo vent'anni ha già una carriera di tutto rispetto. Ha collaborato con A*M*E, Duke Dumont (suo il singolo dance bomba del 2013 Need U, peraltro nominato pure al Grammy come migliore canzone dance dell'anno), Rudimental, Gorgon City e molti altri. In mano ha un contratto con la Virgin/ EMI e una voce che si adatta alla disco, al soul e al funky. Ultimi remix e refix per Duran Duran, Disclosure, Jennifer Lopez e Bastille. Drake trema.

R a i ner

MNEK

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DA R LIA

Provenienza: Blackpool, Uk // File under: guitar-rock Tenuti sott'occhio dal Guardian e da NME, i Darlia di Blackpool, sulla carta, rappresentano l'ennesimo trio di rock revival, alla stregua di Vaccines, Palma Violets o Superfood. La verità è che Knock Knop Ep, pubblicato l'anno scorso, è un intenso condensato di post-grunge, rock in stile Placebo, indie-something in stile Arctic Monkeys, risultando comunque orecchiabile come solo un disco degli Oasis sa essere. Non a caso dietro al mixer c'è quel Cam Blackwood che ha lavorato con Florence And The Machine e London Grammar. Si aspetta con ansia il debutto previsto per il 2014. Á L AUDA

Provenienza: Uk // File Under: soft electro pop L'aura di mistero che nasconde quest'artista – come spesso accade – crea il giusto terreno per il salto nel mondo dei grandi. Di Alauda è attivo solo un soundcloud e una pagina Facebook: due brani in tutto, entrambi sorretti da una voce incredibilmente delicata, da una manciata di synth sofficissimi e da piccole ritmiche ossessive. Si intuiscono sullo sfondo i lavori migliori di 4AD (Cocteau Twins e This Mortal Coil), il fascino stralunato di Bjork, le coordinate psichedeliche delle Warpaint. Aspettiamo che quest'artista sveli finalmente le sue carte, per poter celebrare questi intensi e interessantissimi suoni. T H E C OURTN EYS

Provenienza: Vancouver, Ca // File Under: noise-rock L'EP, uscito in giugno, era riuscito a fare il giro del mondo, raccogliendo consensi, in particolare in Gran Bretagna. Le Courtneys, all-female band di Vancouver, hanno la stoffa dei Pavement, la possanza dei Dinosaur Jr e, soprattutto, una grande fascinazione per i Sonic Youth di Kim Gordon. A suon di voce rauca spiegata, con accenni di chitarroni fuzz e 4/4 compulsivi, le tre ragazze si scagliano contro il mondo delle celebrità, le serie TV pseudo-adolescenziali (un loro brano si chiama 90210), la società delle banche. Nell'EP c'è anche spazio per piccole deviazioni sulla strada di band come Organ e Dum Dum Girls, ma con quel pizzico di rabbia in più che, ci auguriamo, le renderà a brevissimo migliori.

Á L AU DA

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THE C O URTNE YS


T ei Shi

Provenienza: Brooklyn, USA // File Under: mermaid music Synth pop estremamente elegante, quello di Tei Shi, artista nomade che, prima di fermarsi a New York è passata da Bogotà e Vancouver. L'EP di novembre 2013, dal titolo Saudade, è un concentrato di nostalgia, purezza d'animo e passione. Musicalmente e vocalmente vicina al soul e all'RnB, il sound di Tei Shi è del tutto originale, rituale, come un canto di sirene. Non c'è l'ufficialità su un album nel 2014, ma sarà un nome sicuramente chiacchierato. Rabit

Provenienza: Houston, USA // File Under: new eski Avvistato come guest nel Cold Mission di Logos, già presente nella compilation fondamentale della Keysound This Is How We Roll, e discreto buzz su Fact e Dummy Mag, il grime producer Rabit da Houston (!) si è fatto conoscere lungo il 2013 con un distillato essenziale del montante fermento new eski. Le sue produzioni, vedi gli ep Sun Showers e Double Dragon EP, pubblicati per l'irlandese Glacial Sound (ma anche #feelings e Diskotopia), sono progressioni lineari di suoni ultrafreddi che rimandano tanto al giappone antico quanto alle soluzioni sintetiche forgate dal primo Wiley e ricontestualizzate secondo un'estetica tra basalità Jam City e ritmiche sparse à la Logos. Nel 2014 ci aspettiamo interessanti novità da lui ma anche da molti dei protagonisti della nuova ondata di grime strumentale. WEN

Provenienza: Margate, UK // File Under: grime, 130 black Wen è il vero culto del giro UK del 2013 e la sue Commotion e Spark It sono diventate in questi mesi dei veri anthem sotterranei. Ciò che lo distingue Owen Darby dalla maggior parte dei giovanissimi producer in circolazione è la grande padronanza nel plasmare UK funky e eski sound, i ritmi a 130 bpm della famiglia Keysound e magnifiche voci campionate. Al suo attivo, nel 2013, tra le altre cose, un eppì sulla neozelandese Egyptian Avenue in combutta con il suo boss Epoch, il famoso 12" Commotion, e la presenza nella compilation curata da Dusk + Blackdown This Is How We Roll, all'interno della quale è presente anche con una traccia programmatica intitolata New Wave, composta a sei mani assieme a Visionist e Beneath, altri due volti pronti per i riflettori dei media elettronici che dovrebbero dare parecchie soddisfazioni.

T ei Sh i

WEN

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In occasione della nuova edizione dell’Amore Music Experience, abbiamo fatto una breve chiacchierata con Jon Hopkins. Il produttore è visto da molti come l’artista dell’anno grazie a un Immunity che ha riletto l’epica post-rave su fosche pagine ambient. Testo di Daniele Rigoli

Jon Hopkins Respira quest’aria

A poche ore dalla fine del 2013 arriva il momento di tirare le somme, e così tra le certezze che hanno segnato l’annata, è impossibile non dedicare un capitolo a Immunity di Jon Hopkins. Il

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consenso delle grandi testate musicali, esibito orgogliosamente nell’immagine di copertina del profilo Facebook, è stato quasi unanime trovando nel disco l’ideale collante tra gli ascolti


della nicchia più esigente – pubblico dal quale Hopkins ha sempre tratto linfa vitale – e l’urgenza di chi cerca nella musica la scorciatoia per il divertimento senza fronzoli. Brian Howe di Pitchfork, giudicando l’album come “Best new Music”, ha scritto: “Molta musica elettronica ha creato il proprio mondo ermetico, ma qui Hopkins ha trovato l’ingegnosa maniera di lasciarsi il mondo alle spalle, creando un calore che fugge dalla perfezione digitale a favore di una sintesi analogica di suoni originali fisici ed elettronici. Un lavoro viscerale e sensuale che assorbe dall’inizio alla fine, e che catapulta Hopkins verso la celebrità”. Uno dei magazine preferiti dagli elettrofili, Resident Advisor, ha invece dato un secco 9/10 scrivendo dell’opera come di “Un viaggio da gustare e da ripetere ogni volta, con la consapevolezza che ogni volta riemergerà qualcosa di totalmente nuovo”. XLR8R ha parlato di “un lavoro registrato magistralmente, che sposa una precisa scultura sonora con un’aggraziata musicalità”, mentre Consequence Of Sound descrive Immunity con toni epici: “la prova che la tecnologia può essere uno strumento per la nuova era dell’esistenza collettiva umana”. Pur consapevole di un successo annunciato già qualche settimana prima dell’uscita del disco, il nostro Edoardo Bridda è stato uno dei pochi a tenere un profilo leggermente più basso, augurandosi una conferma autoriale definitiva nel prossimo futuro. Abbiamo deciso di intervistare Jon Hopkins soltanto ora, così da captare alcune opinioni a mente fredda al termine di un periodo più che mai fecondo per il musicista – forse il migliore di sempre – accompagnato da svariate esibizioni come nome di punta in molti festival. Portando sulle spalle una fama già acquisita grazie ai vari sodalizi con Brian Eno – vero padre putativo del britannico, come è evidente soprattutto nei primi lavori (Contact Note del 2004, su tutti) e per la sua presenza alle tastiere in Small Craft

On A Milk Sea, l’esperienza nel supergruppo Pure Scenius e la co-produzione di Viva la Vida or Death and All His Friends dei Coldplay – e a live set energici che, come può testimoniare chi era al RoBOt Festival quest’anno, non hanno timore di costruire ponti con l’EDM statunitense tracciando linee di congiunzione tra ambienti raver e clubber, Immunity consolida un successo apparso prima d’ora sempre vicino ma mai pienamente raggiunto: il punto di svolta della carriera del producer londinese. La formula vincente viene forgiata con la rielaborazione del tocco ambient e atmosferico dei precedenti dischi, un suono che riesce a rendere una materia sofisticata e di nicchia come l’IDM più universale e alla portata di tutti (o quasi). Alla fine si tratta di un connubio tra produttore e fruitore della musica: il lato uptempo del disco, che trae ampio respiro dalla techno-electro più ballabile, trova il climax nella cavalcata killer di Collider e nelle umbratilità di Breathe This Air. Al contrario, la seconda parte dell’album è il continuum della discografia di Hopkins, tra il delicato pianoforte di Abandon Window e la title track accompagnata dalla voce di King Creosote, songwriter già al lavoro con il producer in Diamond Mine. Dell’album è stato detto tutto ciò che era possibile dire, sviscerando a fondo ogni minimo particolare e così, al voltar dell’anno – con la nuova edizione dell’Amore Music Experience alla Nuova Fiera di Roma, un appuntamento che vedrà in cartellone, oltre al Nostro, anche Ricardo Villalobos, Sven Väth e Ben Klock – abbiamo raggiunto telefonicamente Hopkins, che ci ha raccontato di drop, Spotify e colonne sonore. Non sei nuovo della scena italiana e dei festival nostrani. Hai suonato al Club 2 Club di Torino e al RoBOt Festival di Bologna. In più sarai a Roma per Capodanno assieme a prime donne del dancefloor come Sven Vath e Ricardo Villalobos. Molte cose sono cambia-

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te da quando hai iniziato a suonare: pubblico differente e, rispetto al tuo background, un approccio più fisico e un uso di software e macchine diverse. Durante i set, non sei intimorito nell’utilizzare certi drop, in un momento in cui molti artisti sono critici nei confronti del movimento EDM americano? Cosa pensi di tutto questo? Beh, penso che solo perché esistono generi musicali che non piacciono ai musicisti, ciò non significhi che questi generi non possiedano

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aspetti importanti e non abbiano ruoli determinanti nel mondo della musica. Quando preparo le scalette, che poi probabilmente convergeranno sul dancefloor, non tengo conto di quello che fanno gli altri, né cerco di evitare ciò che la gente pensa che non sia figo. Non mi preoccupo di quello. Voglio solo regalare forti emozioni a chi mi sta ad ascoltare. Voglio dire, cosa si può chiedere di più di un build up e di un drop, fintanto che sono di buon gusto? Se qualcuno sente che quell’idea può inquinare il suono, beh, è un vero


peccato, perché non c’è niente che ti impedisca di metterla in pratica. Hai ascoltato molta musica quest’anno? No, non ne ho ascoltata molta, perchè ho impegnato il mio tempo lavorando e non ho avuto proprio occasione. Non ho notato nessun album particolare, ma so che ce ne sono stati alcuni davvero brillanti. Non ho avuto il tempo di ascoltarli, comunque. C’è oggigiorno una grande discussione su Spotify. Thom Yorke e Godrich stanno so-

stenendo un boicottaggio del servizio, accusando la compagnia di non ridistribuire equamente i profitti agli artisti meno famosi. Recentemente Moby ha paragonato il leader dei Radiohead a un “anziano che grida contro i treni ad alta velocità”. Qual è la tua opinione su Spotify? Non paga i musicisti il giusto e credo che ci siano molte persone diventate piuttosto ricche grazie a esso. In più non si preoccupa realmente delle persone di cui usa il materiale, quindi al momento non credo sia un buon mezzo, anche se per il consumatore è fantastico. Credo che l’idea di fondo sia la speranza di avere, un giorno, talmente tanti iscritti da potere ridistribuire il dovuto. Se le cose andranno davvero così, sarà fantastico, ma al momento la situazione non è per niente a favore dei musicisti. E’ stata recentemente pubblicata l’Extended Version di Immunity. C’è un interessante remix di Pangaea e la curiosa presenza del producer scozzese Lord Of Isles. Sei un fan della Hessle Audio? I remix sono stati commissionati dall’etichetta ed adoro il remix di Pangaea, credo sia fantastico, e sono davvero orgoglioso dell’Extended Edition che è stata rilasciata. Hai partecipato a How I Live Now, film diretto da Kevin MacDonald. In che modo comporre una colonna sonora si differenzia dal tuo normale processo creativo? In realtà penso che ci sia molta meno pressione. Quando scrivi per un film, la storia è già stata raccontata e stai solo aiutando qualcuno a dirla, quindi non c’è lo stesso livello di tensione che puoi avere quando lavori sulle tue cose. E’ come se stessi raccontando la tua storia, e tu sei il protagonista, gli attori e tutto ciò che sai, quindi in un certo senso è un bel cambiamento per me.

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In occasione della sua data italiana, abbiamo incontrato l'ex cantante dei Dresden Dolls, da anni dedita ad una carriera solista con la quale si è affermata come artista di culto. In nome della libertà artistica, ha infatti da tempo mollato le etichette discografiche, producendo i suoi ultimi dischi grazie al fundraising via web. Il buon successo ottenuto ha confermato lo status raggiunto. Testo di Giulio Pasquali

Una giornata con Amanda Palmer

Incontriamo Amanda Palmer di passaggio a Milano per le battute finali del tour di Theatre Is Evil, il suo disco del 2012, ma anche a ridosso della pubblicazione del nuovo An Evening With Neil Gaiman Amanda Palmer, un triplo album che testimonia un ciclo di serate ancora in corso tenuto insieme al suo celebre marito, tra letture, canzoni nuove, duetti dal tono confidenziale. La cantante, dopo la fine dei Dresden Dolls

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(l’altra metà del duo, Brian Viglione, è entrato a luglio nientemeno che nei Violent Femmes), ha intrapreso una carriera solista fatta di album veri e propri (Who Killed Amanda Palmer?, 2008), live con brani nuovi (Amanda Goes Down Under, 2011), EP più o meno giocosi (uno dedicato a cover estemporanee dei Velvet Underground, l’altro composto di hit dei Radiohead suonate all’ukulele) e il progetto Evelyn Evelyn tra mu-


sica teatro e fumetto. Una carriera caratterizzata sempre da una personalità artistica netta e originale (pregio non da poco e non così diffuso), che negli ultimi anni si è mossa per vie indipendenti dopo la rottura con la Roadrunner Records, grazie all’ampio sostegno dei fan attraverso il sito di raccolta fondi Kickstarter. L’intervista è un’occasione – nonostante il soundcheck incombente ci abbia costretti a lasciare fuori qualche tema – per guardare al passato (le influenze musicali, l’ultimo album), al presente (il dibattito via web su donne e spettacolo, cui ha contribuito con un bel post sul suo blog) e al futuro (quello immediato del nuovo disco, ma anche oltre). Iniziamo dal nuovo album, una raccolta di poesie, duetti, e soprattutto canzoni. È un disco nuovo a tutti gli effetti, non il tipico live da greatest hits. Cosa puoi dirci della scelta di pubblicare i brani in questa forma e, in generale, del disco? Ne sono molto contenta (ride). E’ diverso da un disco nuovo da studio, è tutto dal vivo, e le canzoni che ho messo dentro sono perfette perché non sarebbero state bene su nessun disco canonico; sono davvero canzoni live, canzoni buffe, canzoni intese per essere suonate davanti alle persone. Perciò è bello avere finalmente un luogo in cui metterle. Nel disco hai lasciato anche gli errori.. Sì, qualcuno… Si sente una certa differenza tra An Evening… e il precedente Theatre Is Evil, che avevi fatto con la Grand Theft Orchestra e nel quale era presente, almeno in alcune canzoni, una spinta più rock rispetto al solito. È un episodio isolato o costituisce una nuova direzione musicale che hai intrapreso? Ma no, guarda: in realtà non era programmato. Ho scritto queste canzoni nell’arco di vari anni e, ascoltandole, mi è apparso ovvio che, ad esempio The Killing Type, Want It Back, Lost, suonas-

sero come canzoni che richiedevano un gruppo. Così l’ho preso. Non ho deciso prima di prendere un gruppo, mettendomi poi a scrivere canzoni per una band. In queste nuove canzoni (ma in particolare in quelle del disco precedente), accanto alle tue classiche tematiche, sembra di cogliere un’attenzione per il tema delle città: parli di Berlino, della tua città natale, dell’amore per la vita nelle metropoli… C’è un piccolo fraintendimento: Massachusetts Avenue, che è una canzone su un posto specifico, parla di odio nei confronti di quel posto, di quella strada (ride). Mentre Berlin in realtà non parla della città, ma della persona: era il mio nome d’arte quando ero una spogliarellista, quindi è più una canzone su uno strip-club, in particolare di Boston. Non ha nulla a che vedere con Berlino. Un po’ come Lou Reed, che intitolò Berlin un disco che in realtà parla di una storia d’amore… a proposito, come hai vissuto la morte dell’ex Velvet Underground? Ho letto le storie di tanti altri al riguardo e ho scritto anche un post sul mio blog. Sono stata molto toccata da ciò che ha scritto Laurie Anderson su Rolling Stone, l’ho trovato veramente bello. Sono una sua fan da tanto tempo, almeno da quanto lo sono di Lou Reed, e ho trovato veramente toccante e illuminato il suo approccio verso la relazione che aveva con Lou: non sentimentale o romantico, ma molto puro. Suoniamo una canzone di Lou Reed a ogni data, per rendere omaggio. Lou Reed è stato una delle tue, non vorrei usare la parola, “influenze”… (nel nuovo disco, a un certo punto, ci scherza su, ndSA)? Oh no, usala pure! È stato effettivamente una forte influenza. Ho iniziato ad ascoltare i Velvet Underground quando avevo 14-15 anni, poi ho preso Berlin, New York, poi tutti i VU. Lì per lì non ti rendi conto che una certa cosa ti sta

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influenzando, hai bisogno di guardare indietro e dire “ah, ecco, questo probabilmente mi ha condotto lì e là” e rimetti insieme i pezzi. Comunque Lou Reed è stato un ingrediente fondamentale per me. Ho anche scritto una canzone sul primo disco solista, Blake Says, che cita canzoni da Berlin: Blake Says come Caroline Says e tutto il filone “says” di Lou Reed. Quella canzone è una sorta di omaggio diretto a lui. Ho letto il tuo post sulle performer femminili e sulla questione Miley Cyrus e Sinead O’Connor e l’ho trovato molto interessante, perché in effetti, a volte, certo femminismo, pur nella giustezza delle sue battaglie, può

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rischiare di cadere nel moralismo (come peraltro sostengono alcune tra le stesse femministe). Mi è sembrato che anche tu abbia detto questo, di fare attenzione a non prendere quella piega… Sì. Penso che se vuoi dare alle donne maggior potere, devi concedere loro più opportunità, non meno, e tra queste anche l’opportunità di esplorare. Nel caso di Miley Cyrus, sarà anche “prostituzione” o quello che vuoi, ma il campo deve includere ogni possibilità. Per questo non ero d’accordo con Sinead O’Connor, che voleva escludere alcune possibilità: io invece credo che si debba ampliarle ed educare.


Credi che, forse, il suo essere irlandese…? Forse… (ride). Credo tuttavia che siano state più le sue esperienze personali. Sinead O’Connor è sì irlandese, ma da un’irlandese non ti aspetti, per esempio, che vada al Saturday Night Live a stracciare una foto del Papa. Ma forse è irlandese in un modo particolare… È una persona molto fiera. Intendevo dire che forse le sue origini hanno influito, nel senso che se cresci in un paese molto cattolico, a un certo punto per reazione puoi arrivare a fare un gesto come quello… Sì, esatto. Comunque, ciò che posso dire è che tutta questa storia ha portato molte persone in più a parlare di femminismo: sentivo che negli ultimi anni eravamo tornati indietro, in molti ambiti, ora è il momento di un cambiamento in direzione positiva. Ho visto che sul tuo piano c’è scritto il nome di Kurt Weill, un musicista che nomini fin dai tuoi inizi con i Dresden Dolls: è ancora presente, in qualche modo, nelle tue nuove canzoni? Direi proprio di sì. Nel nuovo disco, ad esempio, c’è in canzoni come Berlin, che hanno un’aria di dark cabaret. Vedi, anche quando Kurt Weill non è presente come influenza musicale, lui, Hanns Eisler e Brecht lo sono a livello psicologico. Erano punk (ride). Beh sì, immagino che scrivere una canzone d’amore come Tango Ballad, la storia tra una prostituta e il suo protettore, a suo modo lo sia, in effetti. Cambiando discorso, potrebbe suonare sciocco chiederti delle tue future direzioni musicali nel momento in cui stai per pubblicare un nuovo disco; ma An Evening… è stato registrato circa un anno fa, se non sbaglio: stai lavorando a qualcosa di nuovo? Sto per mettermi a scrivere un libro, questo è il mio prossimo progetto creativo. Poi voglio scrivere un’opera teatrale. Dopo, probabilmen-

te, tornerò a questo tipo di cose. Vedi, sono su questo disco e queste canzoni da due anni, ora è finita: siamo al terzultimo concerto dell’intera tournée. Però le canzoni arrivano, di solito, per conto loro, le idee vengono anche se decidi di dedicarti ad altro: stanno arrivando? Sì, arrivano ogni giorno, ma le lascio andare via. Ho imparato a lasciarle andare molto tempo fa. Una volta mi facevano soffrire, mi lasciavano tagli metaforici su tutto il corpo, se non le finivo. Ora le lascio semplicemente andare. Se ne arriva una proprio buona registro l’idea, ma tanto non ci torno mai su, dunque… Erano davvero buone? Sì, lascio andare buone idee in continuazione, saperlo fare è un’abilità. Magari se erano davvero buone poi tornano… No, non tornano mai. Ma va bene così. La sera, il concerto parte confermando quanto detto nell’intervista: dopo un breve set a base di ukulele e pedali di Jherek Bischoff, bassista della Grand Theft Orchestra, salgono sul palco gli altri due musicisti e si parte a pieno regime col set della Palmer. Il trio, dall’aspetto piuttosto composito (il batterista Michael McQuilken è un hippy, il chitarrista Chad Raines sembra uscito dal film Velvet Goldmine, e poi c’è l’elegantone Bischoff ), suona a piena potenza le prime canzoni del disco e, aiutato occasionalmente dal pianoforte della cantante, lascia presupporre una serata all’insegna dell’aspetto più energico della poetica palmeriana, qui dalle parti di un glam rock particolarmente sfacciato (a partire dai fuseau dorati della musicista). E se la cover di Smells Like Teen Spirit, filologica nell’arrangiamento ma che mette in mostra le notevoli qualità vocali della Palmer (per niente smentite dalle 2-3 sbavature, peraltro prevedibili visto lo slancio), sembra rafforzare l’impressione, subito dopo arriva la brusca frenata di Missed Me, dal repertorio dei DD, le cui cadenze weilliane


segnano un netto cambio d’atmosfera. Da qui in avanti, infatti, il concerto abbandona il monolite glam-rock-punk iniziale, per vagare tra le varie anime della cantante. Da una parte torna il rock con Want It Back, con l’altro ripescaggio DD di una frenetica ed esplosiva Girl Anachronism e con la seconda esecuzione della suddetta cover dei Nirvana (su cui torneremo) – durante la quale Amanda indossa un mantello-lenzuolo di svariati metri quadrati col quale si butta nel pubblico facendosi portare un po’ in giro sulle mani degli spettatori. Dall’altra c’è spazio per l’annunciato omaggio a Lou Reed con una sommessa Walk On The Wild Side, per esempio, o per l’ukulele con cui suona Map Of Tasmania

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sostenuta dai cori di un pubblico attento (oltre che abbastanza numeroso): di quest’ultima dice che”non la suonano per radio”, e a vedere il video si capisce se non altro perché non passi in TV. Un airplay maggiore però lo meriterebbero le notevoli ballad The Bed Song e Bottom Feeder (prima della quale, nel clima generale di scherzo, ci scappa un accenno al tema di Twin Peaks), che potrebbero ottenere anche buoni riscontri. E a proposito di intimismo, dopo una serata certo diversa dall’aria confidenziale dell’album imminente ma nella quale la Nostra non manca di dialogare col pubblico, l’ultimo bis è una intensa e raccolta cover di Hallelujah, (testo della seconda versione, quella riletta da


John Cale e Jeff Buckley), a conferma della nota, efficace, vocazione per le cover. Alle 22:30 circa il concerto finisce: del resto il Factory prevede una serata danzante (che notoriamente porta maggiori incassi), dunque stop. Ci sono, tuttavia, un paio di epiloghi. Il primo è opera di una ragazza livornese venuta con il suo ukulele per farselo autografare che, nell’attesa della cantante, si mette a suonare un po’ di sue canzoni coinvolgendo un altro fan attrezzato con lo stesso strumento e armato delle stesse intenzioni. Quando la Palmer arriva, i due sono passati a suonare Anyone Else But You dei Moldy Peaches, la cantante li sente, si avvicina, poi chiede in prestito lo strumento e, arrampicata su una transenna, regala un piccolo aftershow eseguendo Creep (perché oltre a dedicare allo strumento una notevole Ukulele Anthem, oltre a musicarci i “tweet più divertenti dell’anno” agli Shorty Awards, lo ha usato anche per registrare il suddetto EP di cover dei Radiohe-

ad), con tanto di coinvolgimento nei ritornelli dei fan presenti. Il secondo è, al momento dei saluti, un’ultima domanda: Perché avete eseguito due volte Smells Like Teen Spirit? E’ una cosa di Chad, il chitarrista: lui ha il potere, durante i concerti, di suonare quella canzone quando vuole. Certe volte lo fa tre o quattro volte volte in una serata. Si chiude così una giornata che tra sfacciataggine e intimismo, ukulele e piano, coscienza femminista e humor, Weill e Cobain, ci ha mostrato tutti i volti di un’artista in forma, sostenuta da un seguito solido e senza hype che – vedi il suddetto successo del fundraising, ma anche la buona affluenza di stasera - continua a premiare le sue scelte di indipendenza. Parafrasando il titolo del suo primo album solista, che riprendeva la celebre tag-line della sunnominata Twin Peaks: e chi l’ammazza Amanda Palmer?

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Neanche il tempo di rottamare i Sic Alps che il leader Mike Donovan torna in scena con un album solista intimo e minimale. E' solo un tassello della sua peculiare reinterpretazione della tradizione o l'inizio dell'agognata maturità? Testo di Diego Ballani

Intervista a Mike Donovan

Sembra strano parlare di Mike Donovan come di un pioniere, eppure nel fall out di sonorità weird e lo-fi che dalla metà dello scorso decennio ha trovato asilo nella Bay Area, il suo è stato un ruolo di primo piano. I suoi Sic Alps sono stati una delle più virulente mutazioni del germe neo garage, in virtù di un sound, quello immortalato in album come Pleasures and Treasures e A Long Way Around to a Shortcut, assolutamente anarchico e deragliante. Un autentico

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ricettacolo di efferatezze sonore a cui è difficile ricondurre il composto cantautore che oggi pubblica a suo nome, Wot, disco per lo più acustico e intimista, in cui la tradizione d’oltreoceano viene abbracciata senza riserve. C’è da dire che nel mezzo ci sono stati i più miti consigli di Napa Asylum e dell’omonimo Sic Alps, che pur illuminati dalla luce fioca e distorta della psichedelia barrettiana, normalizzavano il sound della band in un folk rock decisamente


più commestibile. Poi, improvvisamente, nell’aprile di quest’anno, Donovan ha messo fine alla vicenda Sic Alps, e San Francisco si è scoperta un po’ più povera. Anche per questo lo abbiamo intervistato: per cercare di capire qualcosa in più circa questa repentina decisione. Cos’è successo con i Sic Alps e cosa ti ha fatto decidere di realizzare il tuo primo album solista? Diciamo che la band ha raggiunto quello che ho sentito essere il suo punto più alto. Quel punto lo abbiamo documentato con il nostro ultimo EP, uscito quest’anno (il 12’’ She’s On Top, ndSA) e registrato praticamente dal vivo. Quella è la band al naturale, quella in cui io, Barrett Avner, Douglas Armour e Tim Hellman ci siamo evoluti. Ero incredibilmente felice di quel risultato, così mi è sembrato il momento migliore per chiudere quel capitolo. Ma i Sic Alps non potevano già essere considerati una sorta di tuo progetto solista? No. Io sono stato il leader di fatto per un paio di anni, e poi sono sempre stato quello che scriveva i pezzi. Ma a parte un paio di cose (ad esempio l’EP Vedley, in cui ero veramente da solo), i Sic Alps sono sempre stati una vera e propria band, con tonnellate di aiuto esterno. Negli ultimi otto anni hai prodotto parecchio materiale e sei diventato una specie di figura centrale nella scena garage lo-fi di San Francisco. Sei consapevole di questo? Certo, sono felice di tutto quello che i Sic Alps hanno rappresentato. In realtà con Ty Segall e i Thee Oh Sees ci si è influenzati reciprocamente. So che abbiamo avuto un ruolo importante anche se non ci è stato spesso riconosciuto. D’altra parte facciamo un tipo di musica che non è destinata ad essere molto popolare. Secondo te cosa rimane oggi di quella scena? Credo che dipenda tutto da cosa intendi per scena. Personalmente sono sempre stato più attratto da quello che accade prima e dopo una

“scena”. Magari è un modo troppo romantico di vedere le cose. Ad ogni modo, mi sembra che ora siamo nel “dopo”, per questo le cose dovrebbero iniziare a farsi interessanti. Ci sono nuove e interessanti realtà in città? Certamente. Ad esempio c’è un gruppo che si chiama CCR Headcleaner (una psycho sludge band che quest’anno ha pubblicato l’ottimo debut album Lace the Earth With Arms Wide Open, ndSA). Non sono esattamente nuovi, ma sono musicisti incredibili. Secondo Ty Segall, che mi è capitato di intervistare recentemente, un sacco di gente sta lasciando San Francisco perché lì la vita è troppo costosa. Cosa ne pensi? È la sola ragione? La ragione è quella, con tutto quello che ne consegue. Ormai è tutto orientato alla convenienza. C’è una vita a misura di smartphone. Non c’è gente matura e in gamba, hanno tutti atteggiamenti giovanilisti e senza carattere. Molte delle persone che avevano qualcosa da dire sono state costrette ad andarsene. Quello che adesso va di moda e viene considerato interessante, per me è solo grigiume. Puoi raccontarci qualcosa riguardo alla realizzazione dell’album? Lo abbiamo registrato insieme io ed Eric Park. Eric ed io ci conosciamo da tempo. In passato abbiamo suonato insieme in una band chiamata Yikes! Quando l’ho contattato, la mia idea era di mettere insieme una band per suonare qualcosa di completamente diverso da quello che avevo fatto prima. Ma poi, quando ci siamo trovati in studio a provare, era tutto un: “Ehy proviamo a fare questa cover di Dylan”. Così alla fine i pezzi hanno preso una direzione completamente diversa e molto tradizionale. Volevamo comunque fare qualcosa che suonasse immediato, che si potesse suonare dal vivo in studio. Ci è voluto un po’ per prendere confidenza con le canzoni in modo da poter suonare le chitarre insieme,

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nello stesso momento, mentre stavamo registrando. È così che è successo, ed è per questo che il disco suona molto più compatto della maggior parte del repertorio dei Sic Alps. Tutte le sovraincisioni sono state semplici e puntavano solo a rinforzare alcuni elementi delle canzoni. C’è più tradizione e meno psichedelia rispetto ai dischi dei Sic Alps, soprattutto gli ulti-

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mi… Sì, è vero. Ma la ragione è che le cose cambiano in continuazione e a me non interessa ripetermi. Ho già iniziato a pensare al prossimo album…in realtà non so ancora esattamente come sarà, ma di certo sarà qualcosa di diverso. Che mi dici dei testi? C’è un tema centrale alla base di Wot? In realtà non ho composto i brani con l’idea di


farne un concept o qualcosa di simile. È stato solo a posteriori, riascoltando il disco, che mi sono accorto di quella inclinazione anti-tecnologica che lo pervade. C’è anche il tema della semplicità che ritorna in molti brani. L’aspirazione alla semplicità in un momento caotico come questo. Guardando la copertina, mi sono chiesto se ci sia qualche significato particolare dietro la bandiera americana annerita e se, più in generale, ti interessi di politica… Dovresti chiederlo a William Keihn (colui che ha realizzato anche molte delle copertine dei Thee Oh Sees, ndSA), che oltre ad essere un artista, è il tipo che suona la batteria nei nostri live set. È lui che ha disegnato la copertina. Per quanto mi riguarda, sono interessato alla politica, ma non ai politici e a tutto il loro baraccone. Sull’album sei quasi sempre tu con la tua chitarra. Come cambiano le cose dal vivo? Nei live set siamo io, Eric Park e le nostre chitarre acustiche, come su disco. In più c’è la batteria di William, che dà alle canzoni dal vivo un’impronta più rock’n’roll, visto che usa anche il rullante. In studio, invece, non lo abbiamo usato molto. Suonerai anche qualche brano del repertorio dei Sic Alps? C’è un brano, che suonavamo dal vivo con gli Alps e che probabilmente finirà sul mio prossimo disco. Ma il resto è tutto preso da Wot. Nessuno dei brani di Wot era già stato provato prima con la band? Nessuno a parte Do Do Ya?, che avevamo provato a registrare senza successo. Wot rappresenta definitivamente il sound della tua maturità o ci dobbiamo attendere un ritorno ad un sound più elettrico? Tranquillo, ci sono parecchie chitarre elettriche in vista. Come ti dicevo, sto già lavorando al prossimo album. Ci sono già alcuni pezzi pronti. Barrett Avner è venuto a casa mia qualche

tempo fa e in una settimana abbiamo registrato un po’ di materiale che finirà sul disco. Sarà qualcosa di molto grezzo e minimale, essenziale come un disco acustico, ma con i suoni dei vecchi Sic Alps.

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Si avvicina la fine dell’anno e per molti, visto l’andazzo del mercato discografico di quest’ultimo mese, i giochi sono praticamente fatti. Sta di fatto che la Classifica SA varia a seconda del voto di redazione e staff e tutti noi abbiamo bisogno ancora di un po’ di tempo per recuperare gli album dell’annata ed anche per ricalibrare i giudizi sui dischi da noi stessi recensiti. Eccovi una lista di papabili candidati per i primi posti della classifica 2013. Testo di Edoardo Bridda

Migliori album del 2013 I candidati

Daft Punk – Random Access Memories A ben otto anni di distanza da Human After All, anticipato dal singolo Get Lucky con feat. Pharrell Williams e Nile Rodgers, Random Access Memories segna, assieme a quello di David Bowie, il ritorno più atteso dell’anno. Le tredici tracce pubblicate tramite Columbia Records / Daft Life Limited, vedono il duo parigino esplorare tutto un immaginario pre-house tra disco music e memorabilia moroderiana. Ad ascoltar-

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lo in anteprima per noi Gabriele Marino che, direttamente dagli studi della Sony, ci racconta che “Thomas e Guy-Manuel tributano ancora una volta i propri miti, fanno ancora una volta i compiti a casa, studiano i grandi per scoprire cos’è che fa ancora battere il cuore e girare il mondo, si mettono davanti alle loro Gioconde e copiano come sanno. Solo che stavolta, invece di mimare ed evocare, i miti li convocano proprio fisicamente“.


David Bowie – The Next Day E’ sicuramente il ritorno discografico più atteso degli ultimi anni, quello del Duca Bianco. Pubblicato a marzo in versione originale e il 5 novembre in edizione extra, The Next Day mantiene le promesse e rinfocola il mito del cantante britannico. Per Stefano Solventi è un grande album senza mezzi termini. “È rock confezionato calando sul piatto una gragnola di espedienti, schegge citazionistiche comprese. Eppure non sembra mai un gioco gratuito, e per il più semplice dei motivi: le canzoni hanno forza, reclamano senso e urgenza, arrivano al punto sulla spinta di una lucidità rinnovata“.

Kanye West – Yeezus A tre anni di distanza da My Beautiful Dark Twisted Fantasy, l’album che lo ha consacrato presso la critica internazionale, Kanye West cerca di cambiare rotta con un disco radicalmente differente. Chiamando a sé una girandola di producer, tra i quali spiccano anche i Daft Punk, il rapper allarga l’indagine mainstream hip hop su terreni altri quali l’acid house, glitch, techno, EDM e l’industrial di marca Nine Inch Nails. Luca Falzetti riporta nella recensione: ” la strategia di non-promozione utilizzata che sposa uno stile spoglio e oscuro, una sottrazione (anche dal pubblico) data dall’assenza di artwork, singoli o video di lancio, affidata soltanto “a 66 proiezioni di brani su edifici sparsi in varie città del mondo“.

Arcade Fire – Reflektor Se David Bowie e Daft Punk rappresentano i ritorni più attesi a livello di mitologia contemporanea del 2013, gli Arcade Fire, con Reflektor, confermano il loro status di ambiziose rockstar planetarie. Un album ricco di riferimenti e citazioni ma soprattutto un caso discografico che, a livello di promozione, fa praticamente storia a sé. Il campo d’azione della tracklist del resto è

enorme: si va dalla disco di marca DFA di James Murphy (produttore del disco) al classico wave rock per il quale lo stesso Bowie si è innamorato di loro dieci anni fa. Non stupisce pertanto sentirlo nei cori del brano omonimo. “Più che un semplice “reflector”, dunque, il quarto disco degli Arcade Fire sembra una stanza degli specchi da cui è quasi impossibile uscire“, afferma Fabrizio Zampighi nella recensione più letta dell’anno.

Flaming Lips – The Terror Prodotto da Dave Friedmann, The Terror - se si escludono collaborazioni e progetti di varia natura – segna il ritorno dei Flaming Lips dai tempi di Embryonic. Alla domanda retorica “Perché avremmo creato una musica del terrore?”, Wayne Coyne ha dichiarato di “non volere veramente sapere la risposta”. Stefano Solventi lo riassume così: “The Terror resta un’altra tappa importante del patafisico percorso flaminglipsiano verso la loro personalissima idea di pop assoluto“.

The Knife – Shaking The Habitual Shaking The Habitual, pubblicato l’8 aprile 2013, segna il ritorno del duo The Knife a sette anni di distanza da Silent Shout. L’album, anticipato dai due singoli – e relativi videoclip Full Of Fire (27 gennaio) e A Tooth for an Eye (8 marzo), è un concept che affronta temi come la sessualità, il potere e la gerarchia. Nelle parole di Edoardo Bridda rappresenta “un banco di prova considerevole, anche solo per il coraggioso minutaggio e la lunghezza complessiva del lavoro“, mentre proprio dalla viva voce dei gemelli Dreijer – contattati al telefono da Massimo Rancati – apprendiamo che l’obiettivo dichiarato dietro al disco si concentra su alcune strategie per creare musica politica oggi.

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Disclosure – Settle Anticipato dai singoli You & Me, White Noise e When A Fire Starts to Burn, e pubblicato su Universal il 3 giugno, Settle sigla il fulminante esordio del duo britannico Disclosure. L’album fonda il suo successo su una serie di killer track per il dancefloor a base di garage house e soul, anche grazie a una serie di ospiti che si avvicendano al canto tra cui Jessie Ware, Aluna George e London Grammar. “Il bipolarismo garage tra intelligence inglese e istintività statunitense permea tutto il disco“, afferma Dario Moroldo nella sua recensione.

Akkord – Akkord Se la Houndstooth è sicuramente l’etichetta dell’anno per quanto riguarda la ricerca elettronica tra ritmi e ambienti – ne abbiamo parlato approfonditamente in uno speciale lo scorso ottobre – il duo di Manchester Akkord è sicuramente la sua punta di diamante. Non solo: il lavoro omonimo è un affascinante viaggio nei continuum reynoldsiani – leggi: techno, dubstep, jungle – tra i più intensi di quest’anno, anche a livello internazionale. Nella recensione, Edoardo Bridda ne parla nei termini di una “bestia oscura, innamorata tanto delle geometrie arcane, quanto di speleologiche discese negli abissi“. Akkord è un album che non è stato pensato per il club, ma che dal dancefloor esala amianti, cadaveri, mostri e navicelle spaziali.

Fuck Buttons – Slow Focus Primo album completamente prodotto in casa da Andrew Hung e Benjamin John Power, nel loro Space Mountain Studio, Slow Focus è il seguito di Tarot Sport, nonché il terzo disco del duo britannico. La formazione ha dichiarato (in un’intervista telefonica concessaci la scorsa estate) di essersi semplicemente resa conto di approcciare la musica dal punto di vista della produzione e che “cercare suoni e ritmi, è produzione anch’es-

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sa“. Con gli album precedenti, il duo ha acquisito tutte le conoscenze tecniche necessarie per registrare un disco in proprio. “Eravamo finalmente pronti per farlo“, ci hanno detto i Fuck Buttons. In sede di recensione, Gaspare Caliri parla del gruppo nei termini di un duo che conosce bene i trucchi del mestiere ed oggi vive nei dettagli, più che nelle impennate noise.

Vampire Weekend – Modern Vampires Of The City Copertina del nostro magazine di maggio, i Vampire Weekend, con Modern Vampires Of The City, siglano il loro terzo lavoro. Un album che può essere riassunto come il classico disco della maturità, l’ideale terzo episodio che segue l’omonimo debutto del 2008 e Contra del 2010. Alessandro Liccardo lo descrive come “un viaggio dell’anima, un album “rotondo” in cui tutti gli elementi sono collegati tra loro e operano in simbiosi“. Dopo l’intervista con il portavoce della band, Rostam Batmanglij, Alberto Lepri ci ha riportato che la formazione e, in particolare, Ezra e Rostam “non hanno mai lavorato così a lungo e così a stretto contatto“, con quasi un anno trascorso solo scrivendo e impostando le recording session per ogni canzone.

M.I.A – Matangi Pubblicato il 5 novembre via Virgin, e successore di Maya, Matangi è il quarto attesissimo lavoro di M.I.A. L’uscita del disco è stata anticipata da tre singoli piuttosto diversi tra loro: Bad Girls, Bring The Noise e Come Walk With Me. Al lavoro sull’album, infatti, c’è una schiera di producer, tra i quali un David Taylor (Switch) già al lavoro con la cantante. “…ci troviamo di fronte a un album senza troppi compromessi, fatto di tanti spigoli e che quando vede un ostacolo non lo evita, bensì ci si schianta contro per poi tornare in retromarcia sui detriti“, racconta Luca Falzetti in recensione.


Savages – Silence Yourself

Zomby – With Love

La descrizione che Antonio Laudazi dà del fenomeno Savages nella sua recensione è la più appropriata per iniziare il discorso. “Talvolta un prodotto musicale somiglia a una formula alchemica; combinazione più o meno casuale, nella quale, ad un certo punto, alcuni elementi instabili si miscelano dando luogo all’ultimo fragoroso hype del momento“. L’esordio di queste quattro ragazze inglesi è un condensato di convincente post-punk pubblicato in un anno dove il genere sembrava non poter più stupire con nuovi eroi ed eroine.

Terzo lavoro e sintesi di un percorso artistico, per il misterioso producer britannico ora di stanza a New York che risponde la nome di Zomby. With Love è una sorta di selected ambient works aphexiano per gli anni 10, “un lavoro sospeso tra ritmi da continuum raynoldsiano e atmosfere“, scrive Edoardo Bridda in sede di recensione. Un album che trova la propria antemica, l’hook melodico in negativo (If I Will) o il piacere di una traccia jungle.

Chvrches – The Bones of What You Believe

Dopo aver pubblicato un album con il folkster scozzese King Creosote (Diamond Mine), Jon Hopkins, collaboratore di lungo corso di Brian Eno e Coldplay, pubblica il quarto disco, Immunity, ispirandosi all’arco temporale di un’epica nottata. Il disco sperimenta le più aggressive ritmiche dancefloor utilizzate finora dal musicista, al fine di acquisire stati di euforia tramite la musica. Il successo era annunciato, come si legge nella recensione di un Edoardo Bridda che lo promuove con qualche piccolo riserbo.

Un vincente misto di indie, elettropop e synthrock per il trio di Glasgow all’esordio, che capitalizza il successo dei singoli usciti a partire dal maggio 2012 e raddoppia con nuove killer track sotto una produzione cesellata anche grazie all’aiuto di Iain Cook-Rich Costey, già al lavoro con i Nine Inch Nails. Massimo Rancati, nella recensione, afferma: “Godiamoceli senza mezzi termini questi Chvrches, finché durano, ovvero finché le canzoni non si rovineranno per i troppi ascolti. È il loro anno“.

Chance The Rapper – Acid Rap Secondo mixtape dopo 10 Days, Acid Rap è l’album con il quale Chancelor Bennett, ribattezzatosi Chance The Rapper, si è fatto conoscere al mondo, tanto da finire in molte liste di fine anno. Il Nostro è un ragazzo appena ventenne, che dimostra personalità nonché un’innata sensibilità romantica e un flow di livello dalle molte sfaccettature black, ci racconta Davide Nespoli nella recensione. All’interno della nuova generazione di rapper che, in un modo o nell’altro, è cresciuta con il mito o la presenza ingombrante della Odd Future, Bennett è una promessa e forse qualcosa in più.

Jon Hopkins – Immunity

My Bloody Valentine – MBV Dopo eterni rimandi, il 2013 segna un altro grande ritorno, quello dei My Bloody Valentine. “Mbv sembra il secondo disco della sigla MBV, quello che non è mai esistito, tra Isn’t Anything e Loveless“, afferma Gaspare Caliri nella recensione, ed è forse questo il miglior sunto di un comeback che non tocca i vertici artistici della carrirera di Kevin Shields e co., ma si dimostra all’altezza del mito che la band si è costruito negli anni, sia discograficamente, sia tornando a calcare i palchi.

King Krule – 6 Feet Beneath the Moon Archie Marshall ha incantato per anni la blogosfera sotto gli alias di Zoo Kid e Kid Krule.

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6 Feet Beneath the Moon è l’atteso debutto lungo, una conferma per il giovane (classe 1994) ma già maturo cantautore, sospeso tra jazz, suggestioni elettroniche e coltri di fumo notturno. “C’è qualcosa di incredibilmente misterioso nelle linee vocali dall’accento cockney” di Marshall, afferma Riccardo Zagaglia a proposito di un disco davanti al cui universo testuale-sonoro “non si può rimanere indifferenti“.

Danny Brown – Old Il rapper nativo di Detroit consegna il terzo album in studio con la produzione di A-Trak e la partecipazione di Schoolboy Q, Purity Ring, Rustie, Charlie XCX, Freddie Gibbs, A$AP Rocky e Ab-Soul. Gianluca Carletti ce ne parla come di “un personaggio frutto di un’alchimia rara, […] non solo il perfetto esempio di weirdo rap che piace ai lettori di Pitchfork, ma anche l’unico rappresentante di un discorso che non si riduce a essere un semplice hipster wanna-be Ghostface“.

Boards Of Canada – Tomorrow’s Harvest “Nel 2013, vederli tornare dopo le colorate incursioni di The Campfire Headphase e Geogaddi con un videoclip da deserti dopo bomba H e un titolo come Reach For The Dead, dà l’impressione che tutto, attraverso un movimento ellittico durato tutti i Duemila, torni all’idea iniziale, a quest’enigma di diciassette episodi, come ai vecchi tempi“. Con queste parole Edoardo Bridda accoglie un altro dei grandi ritorni dell’annata, una conferma decisa di un duo entrato nella storia ma che ancora riesce a suonare vivo e scartarsi rispetto a uno stile tra i più influenti della musica elettronica degli ultimi anni.

Blixa Bargeld, Teho Teardo – Still Smiling Nei dodici brani in scaletta, l’imponenza mit-

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teleuropea è la prima cosa che salta all’occhio, secondo Fabrizio Zampighi. Still Smiling rappresenta il prevedibile ma in un certo senso inaspettato successo per la coppia formata dall’ Einstürzende Neubauten Blixa Bargeld e il soundtrack maestro (ma non solo) Teho Teardo. “L’attualità discografica non potrebbe essere più lontana“, leggiamo in una recensione che definisce questo disco come qualcosa che “suona come quasi più nulla è in grado di suonare“. Nell’intervista concessa a SA, dopo l’uscita dell’album, Bargeld ha parlato a ruota libera di “canzoni che seguono le leggi della logica aristotelica” ma anche di un “creare vocalizzi, come se fossero overdub“.

Machinedrum – Vapor City Dopo le collaborazioni (Jimmy Edgar e Praveen Sharma per Jets e Sepalcure), Machinedrum, ovvero Travis Stewart, dà seguito al fortunato Room(s) con quello che è finora il suo album produttivamente più riuscito. Vapor City condensa Hip Hop targato LA, garage, footwork, jungle, in una formula impeccabile ed accessibile. Nella recensione, il passaggio più rappresentativo potrebbe essere questo: “[il producer] fa il suo e lo fa ancora di più pensandosi come un Burial americano in controluce (Dont 1 2 Lose U, Vizion), un Holy Other a Venice Beach o uno Scuba in fregola Om Unit“

Colin Stetson – New History Warfare Vol. 3: To See More Light Nelle parole di Stefano Pifferi, Colin Stetson è un musicista “che ha dimostrato da sempre un eclettismo, oltre che una padronanza dello strumento – anzi, sarebbe meglio dire degli strumenti (sassofoni, flauti, clarinetti, french horn ecc.) – che ne ha fatto un punto di riferimento per un range di artisti e ascoltatori molto ampio“. New History Warfare Vol. 3: To See More Light lo


presenta alle prese con “un lungo ed estatico solo di sax in grado di offrire uno spaccato completo e pressoché perfetto dell’artista“.

James Blake – Overgrown Il secondo album firmato James Blake, Overgrown, atteso seguito del fortunato disco omonimo, non stravolge la formula che ha reso famoso il suo autore, ma ne cementa il songwriting e la classe. Gabriele Marino lo cattura, nella recensione, attraverso queste parole “Ancora canzoni ridotte all’osso, ancora qualche tocco di piano, qualche tastiera fuzzata e satura, sottili scheletri elettronici, […] la sensazione è quella del ritornello infinito; del loop vocale, anche se cantato; dell’a cappella, anche laddove non c’è la voce sola […], una cifra autorale e interpretativa cristallina, sempre a un passo dallo sdilinquimento, ma mai oltre“.

Oneohtrix Point Never - R Plus Seven

tore dei Coral) e Pete Thomas, già batterista della band di Elvis Costello, AM rappresenta un traguardo invidiabile per la band britannica che fonde, in una cifra stilistica matura, le tradizioni rock sia del Regno Unito che americane. “L’istantanea di una band che, a spallate, si sta facendo largo tra i grandi classici dei nostri tempi, intelligente e furba quanto basta per saper piacere senza svendersi” chiosa Luca Falzetti nel suo articolo.

Tim Hecker – Virgins Seguito del già fortunato Ravedeath 1972 del 2011 e registrato live nell’ultimo anno tra Reykjavik, Montreal e Seattle, Virgins rappresenta un nuovo traguardo artistico per il noise designer Tim Hecker. “L’operazione di Hecker non è punto intellettuale. Va comunque alla pancia, o a quella parte del cervello che ha bisogno di un sostegno passionale” afferma Gaspare Caliri in sede di recensione.

Annunciato già giugno 2013 ma pubblicato il 30 settembre, il debutto Warp di Daniel Lopatin sotto l’alias Oneohtrix Point Never ha fatto molto discutere. Nella nota stampa si faceva riferimento a un lavoro vicino, a livello compositivo, alla struttura canzone tradizionale ma, al tempo stesso, ricco dei consueti elementi della produzione di Lopatin. L’album in verità si rivela un progetto ambizioso e massimalista. “Lopatin si asciuga ulteriormente dell’enfasi gotica e dei tic new-age […], adottando semmai tecniche più vicine al minimalismo, come naturale evoluzione della rincorsa all’essenza“, afferma Gaspare Caliri in una delle recensioni più lette e discusse dell’anno.

James Holden – The Inheritors

Arctic Monkeys – AM

Pubblicato il 30 settembre su Polydor, dopo tre fortunati singoli – Falling, Don’t Save Me e Forever -, il debutto delle sorelle di Los Angeles HAIM le conferma autrici pop dall’otti-

Prodotto da James Ford e con ospiti importanti come Josh Homme dei Queens Of The Stone Age, Bill Ryder-Jones (membro fonda-

Ad oltre sei anni di distanza dal precedente The Idiots Are Winning, James Holden torna con un sorprendente album di “psychedelicsynth-garage” che si rifà alla lezione dei corrieri cosmici tedeschi. “Chi vince qui non è l’idiota che si ritrova di nuovo accessibile l’intelligent dance music, ma il robotico che gode dei motorik e dell’alternanza tra quattro quarti e l’incedere da Klaus Dinger, tra i trucchi per far salire la scimmia house e l’ipnosi controllata della psichedelia”, afferma Gaspare Caliri nella sua recensione.

Haim – Days Are Gone

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mo potenziale. Secondo Andrea Forti, l’album “convince in personalità” confermando un trio capace di “vivere il momento senza badare tanto alle apparenze“.

Laura Marling - Once I Was An Eagle Bisogna semplicemente prenderne atto, afferma sicuro Marco Boscolo “questo quarto album spinge prepotentemente Laura Marling verso i piani alti del cantautorato folk-rock“. Once I Was An Eagle, di fatto, è sia l’album di una cantautrice che non ha rivali nella sua generazione, sia uno dei lavori più solidi dell’anno a livello di songwriting.

Mount Kimbie – Cold Spring Fault Less Youth Pubblicato il 28 maggio via Warp, il seguito di Crooks & Lovers (2010), che vede per la prima volta il duo al canto e King Krule ospite in due brani, è la “prova istantanea di maturità e salto di qualità“, ci racconta Massimo Rancati nella sua recensione. Non solo il duo abbandona la cameretta per lo studio di registrazione, ma rivoluziona anche la formula dalle fondamenta, concentrandosi su un approccio suonato e su una variegata palette di riferimenti e soluzioni arrangiative.

Darkside – Psychic Pubblicato l’8 ottobre, Psychic, debutto dei Darkside - il producer newyorkese Nicolas Jaar e il chitarrista Dave Harrington – è il risultato di un felice connubio tra disco, house psichedelia e musica cosmica. La chiave del successo della loro formula, nelle parole di Edoardo Bridda risiede “nelle jam blues psichedeliche dei live del 2011 formalizzate magari secondo fascinazioni nu (The Asphodells riferimento per Golden Arrow) e naturalmente aperte a variegate influenze, dai Flaming Lips più abbacinati dal sole agli Air delle

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vergini suicide (Metatron) e, perché no, il Chris Rea marittimo“.

Kurt Vile – Wakin On A Pretty Daze Conferma a tutto tondo quella di un Kurt Vile che con Wakin On A Pretty Daze concretizza le idee contenute nel già ottimo Smoke Ring For My Halo. La sua è una delle attuali massime espressioni di un cantautorato rock americano che affonda le proprie radici nella tradizione e classicità seventies. Un limbo mentale da domenica mattina tra pigrizia slacker, voglia di non alzarsi dal letto e ritorni psichedelici della serata precedente, citando Luca Falzetti l’album è il “compendio di quello che Vile può e riesce ad essere, l’icona moderna di un crooning senza età.”.

Chelsea Wolfe – Pain Is Beauty Pain Is Beauty è l’album della consacrazione per l’ex reginetta degli abissi Chelsea Wolfe. Un lavoro che, secondo Stefano Pifferi, la smuove dal “pantano dell’underground “goth” virato folk più melmoso e declinato di volta in volta in forme doomy, apocalittiche o catartiche“, per avvicinarla ad “una elegante forma di rock virato noir“. Ormai sul trono, sempre inquieto e in movimento, delle dark ladies del rock, Chelsea Wolfe ha scalzato nel cuore degli ascoltatori Zola Jesus, con un lavoro sperimentale ma elegantemente popular.

Primal Scream – More Light Annunciato da Bobby Gillespie a BBC Radio 6 già a febbraio e pubblicato il 14 maggio, More Light sigla il ritorno dei Primal Scream nel pieno della forma. Non siamo ai fasti di Screamadelica, ma di sicuro il nuovo lavoro non ha nulla da invidiare a XTRMNTR, disco peraltro analogo per tensione politica e propensione all’invet-


tiva. Tommaso Iannini, in sede di recensione, ne è entusiasta, anche solo per la forza con la quale la formazione rivendica e attualizza la parola “crossover”. “Non capita così spesso di trovare in questo stato di grazia un gruppo con venticinque anni di carriera alle spalle“.

In sintesi, riesce ancora a “smuovere anima e testa“, attraverso parole e atmosfere mai banali. Dream River, è cresciuto nei mesi come un piccolo classico della canzone folk. Non stupisce, pertanto, trovarlo tra i candidati a miglior album del 2013.

The National – Trouble Will Find Me

Julia Holter – Loud City Song

Il sesto disco della band dell’Ohio trapiantata a New York sublima la fama e il carisma della formazione capitanata da Matt Berninger. Immediatezza e visceralità, i concetti chiave dietro i testi; complessità, invece, per quanto riguarda gli arrangiamenti. L’alchimia, ancora una volta, funziona alla grande. Se Boxer rappresentava la conferma del potenziale espresso già con Alligator e High Violet è stato il tentativo di raggiungere un pubblico più numeroso con brani più catchy, Trouble Will Find Me sancisce la piena maturità artistica della band, afferma Andrea Forti nella recensione.

Cover story di settembre, Julia Holter si dimostra abile condensatrice di estetiche passate (una delle ispirazioni principali dell’album è Gigi, il musical girato nel 1958 da Vincente Minnelli e musicato da Frederick Loewe) e presenti (il riferimento costante a Laurie Anderson) in un lavoro che, a detta di Marco Boscolo, è “modellato sapientemente, coerente… …ha il pregio di mostrare ancora una volta gli immensi spazi che il pop può ancora esplorare“.

Daughter – If You Leave L’esordio della indie folk band capitanata da Elena Tonra sbaraglia ogni dubbio sulle capacità di scouting di nuovi talenti da parte dell’etichetta 4ad, dopo le prove non folgoranti di Inc. e Indians. Secondo Marco Masoli il tratto caratteristico più importante dei Daughter sono i testi “splendidi e caratterizzati da un male di vivere radicato ed evidente che rende If You Leave un quasi-concept già a partire dal titolo, con l’angoscia dell’abbandono che guida le canzoni dall’interno“. La strofa chiave? Quella contenuta in Youth: “If you’re in love, then you’re the lucky one. Cause most of us are bitter over someone”.

Bill Callahan – Dream River Nelle parole di Nino Ciglio, Bill Callahan è “diventato ormai simbolo del cantautorato lo fi e del malinconico picchettato sulla sei corde“.

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Facciamo il punto sulla figura del produttore sud-londinese, riassumendone il mito, la strategia di (non)comunicazione, la musica, il suono, tra ricostruzione storica, analisi stilistica e interpretazioni speriamo non troppo azzardate. A partire dall’ultimo EP, mentre scriviamo, non ancora pubblicato ufficialmente. Ma già nelle orecchie e sulle bocche di tutti... Testo di Gabriele Marino

burial Emotion Dealer

Burial, con questa storia che non si fa vedere e non parla, si affida totalmente alle mani di chi ne amministra la musica (e che fortunatamente fa tutto tranne che spremerlo, vista la parsimonia discografica del nostro) da una parte, e alle orecchie (e al cuore) di chi lo ascolta (e che a questa parsimonia risponde con attese e accoglienze da messia) dall’altra. Una musica, la sua, che potrebbe giungere da un’epoca remota, in cui i musicisti non stanno 24/7 su Twitter, ma dicono, romanticamente, solo per mezzo di essa. La potenza comunicativa di Burial sta tutta qui:

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nell’avere scelto di tutte le strade quella più coerente – negarsi – per amplificare l’evocatività del proprio discorso musicale: che infatti prende le immagini sfocate di cui si nutre da un tempo altro, un tempo passato, della memoria, da cui non possono arrivare che eco lontane. Questo suo negarsi così didascalico – consapevole o meno che sia – ha fatto di Burial un totem sovraesposto: difficilmente, altrimenti, ogni sua mossa (indiretta, peraltro), diciamo meglio, ogni suo avvistamento (come col mostro di Lochness), farebbe tanto rumore. Perché si cerca dispe-


ratamente di carpire e capire l’uomo dietro la musica. Dopo essersi fatto assaggiare con una manciata di interviste (tutte molto simili tra loro, con le parole sempre addensate attorno a due soli grandi monoliti: Londra come alienante dormitorio di cemento eppure dispositivo dal fascino ipnotico e la musica come conforto) e poi, nel 2008 (quando ha praticamente smesso di proferire parola), con quella misera fotina su Myspace e la rivelazione – prima interposta persona, poi diretta e sempre su Myspace – del proprio nome, le cose sono andate sempre più in questa direzione. Così, se Flying Lotus dice incidentalmente che sì, lui l’ha incontrato Burial, e che è forse l’unico altro uomo sulla terra oltre a lui a vestirsi ancora con una tuta nera Adidas da capo a piedi, la cosa viene riportata, perché è l’ennesima sparuta prova di S. Tommaso. Burial c’è, vive in mezzo a noi. Burial è inevitabilmente diventato un mito, in un’epoca di generalizzata sovraesposizione e di comunicazione come spamming, ma con tutte le mitogenesi incontrollate del caso: lui stesso dice in una vecchia intervista come gli sia capitato di parlare con qualcuno in un club che diceva di avere incontrato Burial e che Burial era così e cosà; quando FlyLo, sempre lui, ha caricato su Myspace (parliamo solo di quattro anni fa, ma sembra di maneggiare reperti archeologici) una traccia dove si sentiva del Burial-suono, si è scatenato il putiferio, tutti (noi compresi) sognavano una produzione a quattro mani (che non c’era); c’è poi – o meglio, non c’è poi – il Dj Kicks, annunciato, rimandato, sconfessato, smaterializzatosi nelle nebbie di qualche press sheet ancora reperibile sul web. E così via. Se di mito si tratta, propendiamo per l’ipotesi che sia un po’ quello di un Re Pescatore, di uno che c’è finito dentro un po’ per caso, per quanto in qualche modo predestinato, prescelto, un ragazzo che magari esce da lavoro – magazziniere, commesso, banconista, ce lo immaginiamo – a

notte fonda, che torna a casa col bus attraversando la città, fantastica ascoltando ossessivamente El-B e A Guy Called Gerald, armeggia con Soundforge perché vuole mimare le stesse emozioni che prova ascoltando quelle cose e, anche se è tutto tranne che uno scienziato dei suoni (diversamente da tanti futuri colleghi, citiamo per comodità Scuba o Shackleton), ha un tocco capace di servire nel modo giusto – in un modo speciale – il più essenziale, persino banale, dei discorsi della e sulla musica: quello emozionale, appunto. Will Bevan cerca e trova pezzi che lo emozionino, e cerca e riesce a produrne. Cerca informazioni sull’hardcore, sulla UK garage, sul 2-step, e trova il sito del progetto Hyperdub, non ancora label (siamo probabilmente nel 2003), e ne contatta il mastermind Steve Goodman (già Kode9). A fine 2004 il suo nome – “Burial” – sarà già spottato nelle playlist che accolgono il visitatore sulla home del sito (adesso offline in quella versione, praticamente un magazine militante, di taglio post-strutturalista, che mappava i fermenti dopo-rave dell’elettronica inglese e dove scrivevano Goodman, il suo prof. Kodwo Eshun, Simon Reynolds, Dave Stelfox – l’autore dell’articolo che ha sdoganato il termine “dubstep”, su “XLR8R” #60, estate 2002 – e altri). Il resto è storia. Anzi forse, appunto, mito. Burial si nasconde (e dopo le crociate del “Sun” e tabloid simili, con tanto di ricompensa, lanciate per appurare chi fosse, c’è anche da capirlo) e ha gli occhi di tutti – armati di lenti deformanti – puntati addosso. A poche ore dall’uscita del leak di Rival Dealer su “Reddit” (un terzo del minutaggio totale, due minuti per brano), accade così che i frammenti sono già caricati su Soundcloud, che Hyperdub ha già caricato i brani per intero su Youtube, che i fan hanno già trovato i sample fonte (una versione a cappella, fatta da una youtuber, di More than Anyone di Gavin DeGraw; Jimi Hendrix; una canzone pre-

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sa dalla OST dell’anime Spriggan) e che “FactMag” ha già dedicato al disco – che ancora deve uscire ufficialmente – un instant-articolo in cui si prende per il culo l’agiografia del fandom burialiano (composto da sinistri gremlins che si incazzano se Skrillex copia il sacro crackling sound) e si sintezza, tagliando divertitamente con l’accetta, il percorso del produttore: “Burial’s spent his post-Untrue years feeding catnip to kittens and watching them start Christmas number one campaigns”. Il che è vero, ma solo in parte, come abbiamo cercato di mostrare parlando di Truant | Rough Sleeper: Burial resta sempre fedele a se stesso, è vero, ma senza mai rifarsi alla lettera. Anzi, una delle sue cifre è proprio riuscire a rendere ricco e stratificato un impianto che di base è molto povero, tendenzialmente monocromo, ridotto all’osso com’è. “FactMag”, come tutti, cerca di leggere al microscopio la musica di Burial, per estrapolarne indizi che possano in qualche modo aprire una

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breccia sulla personalità dell’uomo. E qui, tra molti riferimenti azzeccati (alcuni li riprenderemo), le ipotesi, anche se un po’ azzardate, sono davvero interessanti. Rival Dealer è l’ennesima – ma qui forse particolarmente esplicita – dichiarazione di appartenenza, di identità (“This is who I am, that’s what I happen to be”, riecheggia più volte) del nostro. L’atmosfera è quella che ormai sappiamo, da macerie periferiche, illuminate da luci fioche dalla centrale elettrica: è la distant light che puntella ossessivamente la strada di Burial e ne segna il percorso. Il suono è un soundscape confuso e disturbato, da broken radio, con pezzi di storia del continuum hardcore della musica elettronica inglese che emergono in forma di lacerti: è un passato che non c’è più, ma che non è ancora andato via, non del tutto (è questa, testuale, la definzione di hauntology, che k-punk/Mark Fisher mutua da Derrida e


che tanto successo critico – l’ha ripreso anche Reynolds, e in qualche modo la retromania ne è una declinazione – ha riscosso). Il Burialsuono è un ritaglio di suoni irregolari e sporcati, inframmezzati da voci che non si sa se interiori o di penati protettori, i cui stop’n’go sono tutto fuorché dance, e anzi hanno già costretto – onde evitare reclami di sorta – a specificare che “The skips and cut outs on the track ‘Ashtray Wasp’ are intentional”. C’è forte odore di rave, di anni Novanta (“Fact” cita oculatamente Neil Landstrumm), concentrati in un profilo ritmico che esaspera quello di Street Halo e lo rigira in un breakbeat che – per quanto non esagerato, non intricatissimo, non esasperato – è già jungle. Fino al chill out cosmico, beatless, del finale della traccia. Il chill out continua nel secondo brano, Hiders. Anzi, la seconda canzone. Introdotta da un piano da ballad (siamo in una epica pop non lontanissima, visto che comunque lontani lo siamo a prescindere, dai Coldplay), non potendo sfuggire al legame luce-speranza, prorompe estatica in un “You are the sunlight: the sunlight has come”. Stacco, un vuoto colmo di pathos, e si riprende col piano, con una musica mai così solare. E’ una trovata, un effetto, in fondo, ma funziona meravigliosamente. A metà esatta del pezzo, su un “You don’t have to be alone” (“alone” è la parola burialiana per antonomasia), ecco innestarsi su questa struttura già così nuova per lui la prima vera grande sorpresa di tutto quello che stiamo ascoltando: parte la ritmica secca e uptempo di un (electro-)pop anni Ottanta, con tanto di passaggi su rototom o comunque tom plasticosi. La forma è quella, e Burial la fa sua filtrandola con una resa sonora un po’ appannata e un po’ malferma – come se stessimo ascoltando da una vecchia musicassetta, e certamente non in cuffia – non lontana dalla naïveté un po’ ebete, un po’ drogata, di un Ariel Pink o di un Dean Blunt. Ma resta, forte, la

luce. La speranza che si annunciava timida nello scampanellio di Moth prima e in Rough Sleeper poi è finalmente – per quanto ammaccata – arrivata? “Fact” azzarda una risposta affermativa, ma secondo noi non è dato sapere, se il tutto dura giusto qualche giro, e poi si risprofonda in un soundscape decisamente poco solare (Robert Christgau, a suo tempo, questo soundscape lo aveva definito senza mezzi termini illbient). A Burial piace cercarsi, trovarsi, e poi riperdersi. La traccia successiva, l’ultima, Come Down to Us, si apre proprio con la voce di qualcuno sperso che chiede indicazioni su dove poter prendere il bus. Ed è un Burial scopertamente emo quello che segue, a metà tra adulterazioni Imogen Heap (che non è assurdo pensare riaffiori qui filtrata da James Blake) e sinuosità androgine The Weeknd (che “Fact” cita per la canzone precedente), attraversate difatti da suggestioni arabeggianti-orientaleggianti. La ritmica è quadrata, hip hop, né jungle, né step qui: è forse un trip hop sgranato. Prima che si torni al silenzio imperfetto del crackling sound burialiano, c’è il secondo e ultimo picco pop del disco, per il quale “Fact” azzarda che non sfigurerebbe nella OST di Una pazza giornata di vacanza (scanzonata storia di affrancamento dai genitori e, quindi, crescita) e in cui noi sentiamo un’eco del world-pop patinato di Enya. Il disco si chiude, ed è il secondo colpo di teatro dopo le due epifanie pop di cui sopra, con quanto di più intellegibile ed esplicito finora mai utilizzato da Burial a livello di materiali lirico-testuali, insomma di parole: è un sample da un discorso pubblico di Larry/Lana Wachowsky, in cui il regista di Matrix, sul cammino della trasformazione transgender, parla di come ci si sente a sentirsi impossibilitati a essere amati, a non essere accettati dagli altri e, forse, ancora prima da se stessi. Ma anche di come tutto questo si possa superare. Un elogio della diversità, della singolarità, un messaggio di resistenza, di speranza?

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“XLR8R” lo ha definito un “unexpectedly political sample” e “Fact” è andato oltre, azzardando, è il caso di dirlo, un’ipotesi: che questa sia come una cripto-lettera di Frank Ocean per Burial. A noi la cosa interessa fino a un certo punto, ma resta comunque interessante come il disco chiuda proprio con questo riferimento, peraltro impaginato così “in chiaro”, risultando assertivo, affermativo, testuale, più che atmosferico o allusivo (ricordiamo sempre Bob Xgau chiedersi come mai nessuno si sia posto il problema – questo prima della comparsa delle foto del nostro: ma Burial è maschio o femmina?). “FactMag” e “Stereogum” si sono già spellati la lingua, parlando di brani che finiranno nelle top di fine anno e di un disco che sarebbe il più importante di Burial dai tempi di Untrue. Le quali cose sono in qualche modo vere: quelle voci così sole, così lontane, così evocative, che si stagliano, ferite e vivide, su tappeti rave, trip hop o su accordi di un piano romantico, restano. E se Kindred segnava già una discontinuità forte (ma ci teniamo a ribadire che tutti gli elementi di discontinuità o anche solo variazione, in Burial, covano sotto la brace già delle sue primissime produzioni), e Truant | Rough Sleeper la ribadiva con un equilibrio e una godibilità di ascolto impeccabili, qui siamo oltre: c’è il soundscape, c’è il field recording (dove il campo è la strada), c’è la memoria del continuum, ma ci sono soprattutto canzoni-canzoni, per quando sbrindellate, come forse il Nostro non ne tirava fuori proprio dalla anthemica Archangel (che era strutturalmente molto più compatta). Il taglio e le intenzioni sono però completamente diverse. Lì si settava uno standard, si innovava quello che per comodità chiamiamo dubstep in maniera paradossale, andando a pescare a piene mani nella sua tradizione pre-genere, nel 2-step, nella jungle, nel trip hop: per andare avanti si tornava indietro. Qui tutto questo è dato come per scontato, è metabolizzato, riassorbito in tra-

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sparenza in una visione metastorica, romantica di canzone, così strapazzata, così ingenua, che fa quasi tenerezza nella sua ostentata imperfezione. Insomma, qui si apre forse proprio un altro discorso. Burial, da mito, ma in questo andando oltre il mito, sancendo anzi la propria statura di produttore, è riuscito a imporci la massima attenzione per la più piccola increspatura della sua musica, che (ci) sorprende come sorprende un movimento più accentuato o anomalo, per quanto statisticamente irrilevante, quando si guarda un virus al microscopio. Sorprende per i campioni così ultra-pop usurati da diventare underground marci, mettendo assieme rumori di accendini, rapper tamarri, indie e superstar patinate. Sorprende per la capacità di attivare emozioni pur – e, anzi, forse proprio – lasciando intravedere nella sua musica un così grande vuoto. Burial è pieno di strati, che sono pieni di polveri, di detriti, di forme da sbozzare perché da ricostruire: di frammenti di passato. E proprio per questo, al di là dei silenzi solitari e notturni, è soprattutto pieno di vuoti, (ci) piace perché almeno metà della sua musica siamo noi a metterla, con la nostra memoria, la nostra storia musicale (e non). Con la nostra voglia, insomma, di colmarlo questo vuoto, di ricostruire quel passato di cui lui ci fornisce i frammenti: anni fa Kode9 suggeriva come il dubstep possa essere considerato il fantasma della jungle, e come in questo senso spinga l’ascoltatore a farsi completare mentalmente, ad aggiungere quello che manca a certe figure ritmiche, accennate ma mai del tutto conchiuse. A questo punto, ora che peraltro le increspature della sua musica si sono fatte massime e non minime, Burial potrebbe anche solo essere un pretesto per scervellarsi su un busillis di per sé insignificante, eppure così fascinoso e attraente, ineludibile, e stare fermi ad ascoltarsi.



Lou reed Il rock ai tempi della metropoli (prima parte) 48


Oltre la leggendaria stronzaggine, attraverso la stagione dei Velvet Underground, malgrado i passaggi a vuoto, un viaggio intorno ai molti aspetti che hanno reso Lou Reed una figura fondamentale per il rock nella sua espressione pi첫 piena. Testo di Stefano Solventi

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Trascorsa l’onda di piena emotiva seguita alla morte, possiamo tornare a parlare di Lou Reed. Innanzitutto per controbattere a chi ha giudicato eccessive le manifestazioni di cordoglio e stucchevole il fiorire di tributi: se esiste un novero di artisti rock la cui scomparsa dovrebbe autorizzare simili dimostrazioni di lutto collettivo, Lou ne faceva parte. Senza se e senza ma. Perché è stato tra i pochi a far diventare il rock quella cosa indefinibilmente grande, intensa e spietata nella quale ci è capitato di imbatterci durante gli ultimi quarant’anni (abbondanti). Grazie anche all’opera di Reed, il rock è cresciuto. A balzi. A scossoni. In momenti e modi diversi. Per la densità cruda dei testi. Per la determinazione di certe strutture essenziali o sofisticate, violente o languidissime. Prima di ogni altro ha esposto il rock al contagio della realtà. Ne ha fatto appendice poetica, ricusando filtri e parafrasi, guardando negli occhi il degrado e la spietatezza della strada, descrivendo l’esaltazione tossica come un’evenienza diffusa, correlata allo stato delle cose. In molti – semplici appassionati ma anche illustri addetti ai lavori – hanno pensato di riba-

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dire cinguettandone (e coccodrillandone) la morte, sottolineando quanto fosse pessimo il suo carattere. Non sono mancati aneddoti senza risparmio di particolari. Il tenore era, “ok, Lou è stato un grande, ma anche un enorme egocentrico e uno stronzo irrecuperabile”. Dovendo qui scrivere a proposito della musica di Lou, si potrebbe anche soprassedere. Ma in realtà non è possibile. Difatti l’asprezza del personaggio, quel porsi al centro delle cose con tracotanza da bullo e piglio ruvidamente vanesio, faceva parte di una strategia espressiva organica al discorso artistico. Lou non poteva che comportarsi così perché la sua musica e i suoi testi erano il frutto finale di una filiera di atteggiamenti, punti di vista e weltanschauung. Il leggendario caratteraccio partecipava attivamente del Lou rocker, lo integrava e caratterizzava come un’angolazione peculiare sul modo di esprimere attraverso gli altrettanto proverbiali tre accordi del rock. Lou si è sempre sentito, a torto o a ragione, un accerchiato. E la strategia che ha messo in atto quasi sempre – quando le forze e la lucidità gliel’hanno consentito – è stato attaccare. Con l’asprezza – ebbene sì – tipica degli stronzi. Nella polpetta tossica del suo ego invasivo, in virtù del quale ha soverchiato dignità artistiche e integrità miracolose – arrivando a manipolare dischi già pronti per la stampa solo per farli più propri (il terzo, omonimo dei Velvet Underground) e fare fuori compagni di viaggio come se fossero turnisti (John Cale in primis) – c’erano però sempre pietre preziose, gemme dal taglio scabro e fulgido come lo sguardo di un cecchino. Intendo dire che un artista in genere e un rocker in particolare deve spesso fare i conti con situazioni che non consentono un approccio sereno alla materia espressiva. Lou era in rotta di collisione con la vita. La sua formazione letteraria (studente di Delmore Schwartz alla Syracuse University) gli aveva maturato uno sguardo alieno sulla quotidianità, anzi uno sguardo da alieno terrorizzato. Le sue liriche fin dall’inizio sembravano soggettive da uno scranno teso allo spasimo nei confronti della vita, al punto da apparire cinico, crudele. Il messaggio di base era: vivere in questo stato di cose ti disumanizza, ti schianta, ti sfilaccia dentro. La decadenza, la perversione, il cinismo, l’autolesionismo sono conseguenze necessarie, strategie di sopravvivenza, manifestazioni della scorza che ti permette di sopportare (o di accettare) le scudisciate. Il rocker come testimone attendibile della malattia del tessuto sociale urbano all’epoca delle metropoli – animaletto aggressivo sperso nella città per eccellenza della seconda metà del ventesimo secolo – non poteva permetter-

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si debolezze. Lou Reed iniziò come giovane musicista mestierante scrivendo canzonette su commissione per la Pickwick Records, doo wop per i juke box di bocca buona, un pugno di dollari e una buona occasione per farsi le ossa. Adorava Carver e Burroughs, quel loro modo di portare allo scoperto l’inconfessabile che si annida sotto le convenzioni. Cresceva insomma vivendo sul lato precario della strada artistica, sperimentandone il volto meno generoso. Con The Ostrich arriva però il primo pezzo che rivela una certa personalità, ritmo ipnotico/ossessivo e coretti ebbri, un errebì distorto ai limiti del grottesco per registrare il quale gli viene messo a disposizione il gruppo dei The Primitives nel quale militava un certo John Cale. Quel Cale che – benedetta fatalità – seguiva le linee guida dell’avanguardia minimalista di La Monte Young. I due sulla carta sembrano ben poco compatibili (lo saranno a lungo in effetti, sia caratterialmente che dal punto di vista degli obiettivi artistici), ma succede qualcosa di formidabile, scatta un chimismo prodigioso. Quando formano i Velvet Underground – correva il 1966 – Reed è un chitarrista poco versatile, non troppo

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dotato, con l’attitudine delle melodie spietate sul numero minimo sindacale di accordi, la voglia di colpire duro, allo stomaco, alla base del ben pensare: giusto quello che ci vuole. La Factory di Andy Warhol fu un terreno di coltura che spostava il baricentro sul’aspetto avanguardistico e performativo della questione. Non era solo rock’n’roll, Warhol catturò nel proprio vortice creativo la band, ne fece la propria emanazione in chiave rock, li rese soggetto e oggetto di situazioni cinematografiche e teatrali. Da questo punto di vista, è senz’altro Cale il più attivo, quello che sembra possedere le chiavi del diorama avanguardistico. La basale Tucker ed il compassato Sterling Morrison sono attori perfetti per completare una quadratura rock straordinaria, ma non possiedono abbastanza personalità, sono elementi indispensabili ma si tengono alla larga dal timone. Lou, invece. Lou possiede lo sguardo che spella la pellicola utopistica dalle congetture floreali del e sul rock psichedelico. E’ quello che getta lo sguardo nel buco della serratura del boudeoir scandaloso. È, in un certo senso, la controparte stringata, aspra, disincantata del Re Lucertola californiano. Laddove difatti Jim Morrison e i Doors instillavano – con l’omonimo debutto del gennaio ‘67 – il virus del tracollo nel sound della west coast, lo smarrimento di un’intera generazione convinta di poter gettare le basi di un’era informata ai dettami del peace and love, Lou stava già passeggiando sul lastricato grigio dell’inferno. I Velvet fanno la loro comparsa discografica due mesi più tardi, marzo 1967, e già aspettano il demonio all’incrocio tra Lexington e la 125esima, l’uomo che porta loro la dose di deliziosa dannazione quotidiana. Waiting For My Man ti getta subito nel ventre della sconfitta, nella città-leviatano che ti divora ogni giorno. Un arrangiamento da garage compresso, senza l’escapismo rabbioso (tanto frustrato quanto liberatorio) degli “urlatori” folgorati dalla british invasion. Chitarre e basso-batteria formano un impasto nevrotico e spiccio come una camminata sul marciapiede di un quartiere ostile. Alla ribellione fa posto una specie di rassegnazione assieme feroce e disperata. Ma non si tratta di opporre distopia a utopia: Reed sembra volerti piantare un dito sul petto e dirti “ragazzo, è così che vanno le cose, eccoti la faccia vera dell’esperienza”. Qualcuno si è impadronito del quartiere che sta oltre le porte della percezione e lo ha trasformato in un luna park desolato e crudele. È una piccola tignosa canzone rock ma fa crollare di colpo il castello colorato della summer of love. Chi potrà più

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credere ad un menestrello speranzoso, ad un entusiasta del jingle jangle? Ma in realtà l’epoca flower power già stava cantando l’implosione della spinta propulsiva in una nuvola tossica e scura. Potevi sentirlo nel balzo in avanti elettrificato di Bob Dylan, nel crogiolo iperblues di Jimi Hendrix, nei deliri interstellari dei primi Pink Floyd. Perciò è riduttivo individuare nell’assunzione di un’ottica realista il maggior contributo di Reed ai modi di concepire rock. Molte più conseguenze avrà la messa in pratica di nuovi equilibri tra forme schiettamente rock e dimensione letteraria, quest’ultima tanto ambiziosa quanto innestata nel presente. Fin da subito lo stile lirico di Lou sembra unire l’agilità diretta dello slang blues alle perifrasi visionarie della beat generation. Non cambia solo la prospettiva del rock, ma anche il modo e le possibilità di raccontare attraverso il rock, la sua attinenza spietata con la realtà. Reed ricorre con brutalità ad una sorta di transfert della realtà nella canzone (rock), si pone al centro di ciò che racconta senza accomodamenti né filtri, ti serve nel piatto proprio quel che resta intrappolato nella rete, come un reporter gonzo dal pianeta tossico che si inietta eroina per narrarti la botta nelle vene, la sensazione e l’effervescenza emotiva che ne consegue. Il “peso” del giudizio finisce così per sbilanciarsi sull’ascoltatore: prendi una Heroin, altro pezzo-cardine che chiede moltissimo a chi l’ascolta, ti scomoda prese di posizione etiche e una scomodissima empatia. Perciò lo status di canzone folk-rock viene messo pesantemente in dubbio, la struttura ritmica vacilla, ondeggia, accelera e collassa sbattuta dalle onde alterne dell’esaltazione e della fragilità. Quando sei anni più tardi Lou mimerà la pera durante i live, oltre la sua innegabile e ricercata scandalosità il gesto va interpretato proprio come l’eccedere della realtà rispetto all’epifania della canzone. Ovvero, la canzone che si fa talmente carico della realtà da eccedere se stessa. Di quei primi Velvet non si finirebbe di sottolineare gli aspetti rivoluzionari, ma anche solo se ci limitiamo al modus operandi compositivo di Reed è evidente che si tratta di uno step fondamentale verso una maturazione del rock come categoria espressiva autorevole, anzi capace come poche altre di restituire il grip con la realtà ad altezza marciapiede. A ciò va ad aggiungersi il lirismo accorato e assertivo, fatto di metafore calde e concrete che danno vita a canzoni come I’ll Be Your Mirror: affidata a Nico nell’epocale omonimo debutto dei Velvet, è un delicato folk-erre-

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bì che dietro un appassionato proclama d’amore cova la consapevolezza del disagio, la disperazione profonda di chi ripone nella tenerezza l’ultima speranza contro il male di vivere. Parole come “When you think the night has seen your mind/That inside you’re twisted and unkind/Let me stand to show that you are blind/Please put down your hands/’Cause I see you” sembrano scritte sulla lama di rasoio che separa la dolcezza dalla nevrosi, la devozione dalla disperazione. Il tono minimale e dolciastro gioca ad alludere uno spleen dissimulato, che palpita letteralmente sotto la pelle da ballatina garbata: questa sorta di sfasamento espressivo, di ricercata ambiguità, la capacità insomma di modulare la doppiezza come uno strumento narrativo è un espediente da arte matura come il pop-rock nel ‘67 stava iniziando ad essere, sulla scorta dei grandi autori di estrazione folk (ovviamente Dylan, ma anche Fred Neil, Paul Simon, Tim Hardin…). La particolarità di Reed sta appunto nell’ambizione per nulla velleitaria – anzi poggiata su solide basi letterarie – innestata su una concezione musicale del tutto “rockista”, seppure innervata di nutritive attitudini blues-folk e inclinazioni jazzy. Se il 1967 è da considerarsi l’anno del passaggio all’età adulta del rock, Reed ne è stato sicuramente tra le cause principali, malgra-

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do il trascurabile riscontro commerciale di quei primi lavori. E ancora più rock sarà la proposta di White Light/White Heat, cui corrisponderà eguale (leggi scarsissimo) esito al botteghino. Un disco di cui tante volte abbiamo detto l’importanza per il futuro filone “rumoroso” del rock, disco che Reed – dopo aver allontanato Nico dal gruppo – manipolò scientemente per mettere in risalto la propria chitarra e la voce, con grave scorno di Cale (che anche per questo abbandonerà la band poco dopo). Su questa smania di protagonismo deprecabile, che nel lavoro successivo targato Velvet – il terzo album omonimo – sfocerà in uno scellerato remissaggio all’insaputa degli altri membri (il celebre “closet mix”), si è scritto molto e non si vuole certo qui alambiccare giustificazioni “agiografiche”. La meschina grandeur di Reed può risultare comprensibile solo alla luce di ciò che è accaduto dopo e se inserita in un contesto di strisciante instabilità psicologica: con modi da paranoico arrivista, sembra quasi che avvertisse l’importanza di ciò che faceva e di come fosse necessario farlo arrivare a livelli alti, altissimi, a costo di offuscare l’operato dei pur rilevanti (Cale altrettanto geniale, Nico interprete considerevole, Tucker e Morrison più defilati ma non certo trascurabili) compagni di

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viaggio con pratiche a dir poco scorrette. Probabilmente Lou avrebbe voluto che i Velvet fossero per lui ciò che la Band era per Dylan, una backing band dalla spiccata personalità, incisiva e talentuosa. In essi vedeva la prosecuzione di se stesso come compagine rock, la sperimentazione e la performance erano valori aggiunti cui si prestava ben volentieri ma che finirono col sembrargli intralci lungo la strada della piena espressione cui andava approdando. Occorre tornare a sottolineare il curriculum di Lou, quel suo farsi le ossa componendo canzonette a pronta presa radiofonica. I tre accordi di chitarra ritmica su cui faceva girare i suoi pezzi – che pure sembravano proprio non aver bisogno d’altro – erano il frutto di un’attitudine smerigliata da anni di pratica del mezzo, un intercalare profondo, una calligrafia emotiva. Che in qualche modo contrastava con l’inquietudine profonda addomesticata dalle molte letture (anche filosofiche) producendo una colluttazione poetica in bilico su un equilibrio tanto precario quanto tenace, forte, stordente. In ragione di ciò, il terzo album omonimo dei Velvet Underground del marzo 1969 – con Doug Yule inserito al posto di Cale – può essere considerato il prodromo del Reed solista. Da lui scritto interamente – che non a caso viene messo al centro dell’immagine di copertina (lo scatto è del warholiano Billy Name), l’unico dei quattro con lo sguardo (accomodante) nell’obiettivo – è un disco di canzoni cui non manca un eccellente potenziale radiofonico, ferma restando un’intensità sempre più raffinata e ambigua, con una concessione sperimentale – The Murder Mistery – certo apprezzabile ma più elemento di curiosità che altro, messo lì come a dimostrare la persistenza della dimensione arty malgrado la fuoriuscita di Cale. Per il resto, il Reed compositore si esalta con ballate splendide come Candy Says e Pale Blue Eyes, la prima dedicata al trans Candy (che incontreremo di nuovo in Walk On The Wild Side contenuta in Transformer) e l’altra ad un indimenticato amore giovanile: delicate e indolenzite, tracciano la via ombrosa del power pop che farà la fortuna di gruppi come Badfinger e Big Star. Proprio come What Goes On, Some Kinda Love e Beginning To See The Light sembrano incarnare il lato più sbrigliato della faccenda, un ventaglio di situazioni rock che aspetta solo di germogliare in new wave e glam. L’ennesimo fallimento commerciale fu il motivo per cui accadde tutto ciò che accadde nei mesi successivi, ovvero Loaded – un album volutamente commerciale, ovvero “carico” di potenziali successi – ed il crollo di Reed, che

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abbandonò la band dopo aver contribuito a farne qualcosa di così somigliante alle proprie ambizioni da non appartenergli più. Detto questo, Loaded sarà forse il disco meno “interessante” – per soluzioni sonore e peculiarità compositiva – della parabola Velvet Underground, ma ha comunque il merito di contenere almeno tre pezzi che delimitarono le coordinate del campo d’azione pop-rock per molti anni a venire. Se Rock’n’Roll è già il glam che sbatte sulle barricate new wave, e se Oh! Sweet Nuthin’ sembra cantare tutta la languida implosione del folk psych nel desolato scenario metropolitano, Sweet Jane è pura quintessenza rock: la carburazione adrenalinica del riff, la sordida ironia del testo, l’insolenza dell’interpretazione che culmina in un chorus accusatorio/liberatorio, i risvolti dolciastri del bridge che lasciano intuire tutto il bisogno di rivoluzione interiore come sottotesto alla critica sociale. Per molti aspetti è la rock-song perfetta, ricalcata innumerevoli volte e più o meno consapevolmente nei

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decenni successivi. Per questo di Loaded possiamo dire che si tratti di un passo in avanti dal punto di vista dell’equilibrio tra impatto sull’immaginario collettivo e densità di contenuti (sonora e lirica). Di certo rappresentò lo schianto dell’avventura Velvet per Lou Reed, che abbandonò dopo un ultimo concerto al Max’s Kansas City di New York, nell’agosto del 1970. Se a quel punto Reed avesse mollato, se si fosse rassegnato a fare – chessò – il dattilografo come effettivamente iniziò a fare, sistemando i tumulti sentimentali con un fidanzamento stabile e conseguente matrimonio (come effettivamente fece), non sarebbero comunque mancati buoni motivi perché gli venisse assegnato un posto nell’empireo dei grandi del rock. Tuttavia, probabilmente non staremmo qui a citare il suo nome ogni cinque minuti appena qualcuno butta giù un pezzo rock più cinico, lucido, ambiguo, crudelmente ambizioso del solito. Neppure per quel primo album solista con cui si convinse a rientrare nello shobiz, zeppo di buone canzoni (alcune ottime, come Ocean e Wild Child) in parte recuperate dall’ultimo periodo Velvet, però azzoppate da una produzione (la RCA lo fece volare a Londra affidandolo alle “cure” di Richard Robinson) sbagliata fin dalla scelta dei musicisti (si segnala tra gli altri la presenza di Steve Howe e Rick Wakeman degli Yes!). Ne uscì quindi un lavoro poco convinto, sfocato, perciò destinato ad un inevitabile flop di critica e commerciale. Poi, vabbè, entrò in scena David Bowie, appena reduce dal primo salvataggio miracoloso della carriera (i Moot The Hoople, di cui nella primavera del ‘72 aveva prodotto il celebre All The Young Dudes). Assieme al fido chitarrista Mick Ronson, Bowie riuscì nell’impresa di rimotivare un frustrato Reed che affrontò Transformer col piglio di una star (in effetti Bowie – fan della prima ora dei Velvet – lo adorava), senza timori reverenziali rispetto alla musica che girava attorno (perlopiù il glam). Già Vicious è assieme apoteosi e pietra tombale di un genere che appallottolava decadenza e lussuria in una sfera di sfavillante teatralità, col suo incedere sordido e beffardo, quel gioco di ammiccamenti e acidità sprezzante per il coté gay (e trans) in cui si trovava immerso. La poetica di Reed si realizza con potenza inedita, sembra che osservi la tela degli struggenti squallori metropolitani da una distanza ravvicinatissima, raccontando per fotogrammi indimenticabili e impietosi rigurgiti di memoria, straniandosi in qualche modo come uno che sa di non poter partecipare al barnum melodrammatico e fracassone, perché non disposto ad ingannarsi sulla durezza della

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situazione. Reed piove su Londra e New York come l’angelo nero del glam, quello che ti sbatte in faccia le cose e allo stesso tempo non ti lascia via d’uscita, devi viverla perché è questa la realtà, l’unica in cui puoi sentirti vivo. Nei palpiti nostalgici e spettrali di Perfect Day, nelle sincopi sornione di Andy’s Chest, nella marcetta civettuola di Make Up e ovviamente nell’affresco blues-jazz di Walk On The Wild Side si muovono figure tragiche e leggere, ovvero tutta la tragica leggerezza di un occidente spaesato nel profondo, uno sconcerto di cui l’ambiguità sessuale è forse solo un aspetto, il più evidente, folcloristico, accidentale. Non si fa fatica a credere alla storia che in quel tardo autunno del ‘72 potevi sentire le canzoni di Transformer (e Walk On The Wild Side in particolare) per le strade di New York, come se d’improvviso la grande mela avesse trovato la propria colonna sonora. Ma il punto di forza, il mordente di queste canzoni non era – non poteva essere – il loro realismo. Non è così che funziona con certa musica, cinema, arte figurativa o letteratura. Va ricercato semmai nella tenacia con cui questo sguardo sulla realtà si ostina a vederci una possibilità di bellezza, anche nel più devastato squallore, anche nella perdizione senza sbocchi o nella durezza più cinica. La forza di queste canzoni sta nel contrasto tra la crudezza del memoir reediano – anche quando pennella quadretti innocui o sciorina un rosario di stati d’animo – e la fiducia nella bellezza dell’espressione, qualunque sia l’oggetto del rappresentare. Come certi spietati film di Scorsese o le implacabili disamine dei De Lillo. Questo filtro di fiction organizzata come un processo che rivela lo strato insostenibile del quotidiano, è la premessa metodica del capolavoro Berlin, un concept ambientato nella metropoli tedesca contesa tra i due blocchi perché spanda sulla vicenda un pregnante senso di dissidio, sottofondo esistenziale prima che ambientale. Il produttore Bob Ezrin ha buon gioco ad allestire un teatrino sonoro brechtiano che fa immerge ogni pezzo in una stordente inquietudine mitteleuropea. Il “plot” incentrato sullo sgretolarsi della relazione tra Jim e Caroline è fin troppo chiara metafora del contemporaneo problematico rapporto tra Lou e la prima moglie Bettye, ma la struttura a vampe mnemoniche, modulata tra tenerezza nostalgica e cronaca sprezzante, tra abbandono indolenzito e fatalismo bieco, con gli arrangiamenti marezzati di ugge jazzy e spunti bandistici, ne fanno un capolavoro art rock con pochi precedenti ed epigoni.

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Malgrado contenesse canzoni stupende, alcune persino dall’apprezzabile appeal melodico come Sad Song o la meravigliosa Caroline Says II, si trattava chiaramente di un suicidio commerciale annunciato, tenuto conto soprattutto del periodo che vedeva avvicendarsi nelle posizioni alte dell’immaginario rockista i colpi di coda del glam (Aladdin Sane), i prodromi wave (For Your Pleasure) e le bordate hard rock (Raw Power). Purtuttavia tracce come Oh Jim e How Do You Think It Feels possiedono eccome quel senso di irrequietezza malsana da glam avariato che avrebbe potuto e dovuto colpire nel segno. Forse però la potenza drammatica quasi insostenibile di The Kids, la sofisticata malinconia di The Bed e la cinematica inquietudine della title track (con le sue ricercate propaggini jazz e l’impostazione teatrale) chiedevano troppo all’ascoltatore dell’epoca. Fatto sta che Berlin si guadagnò perlopiù indifferenza e persino disprezzo (è celebre la stroncatura che gli riservò Rolling Stone). Quarant’anni più tardi, col vantaggio del senno del poi, non sembra altro che l’apice di un percorso che dai primi (già grandi) passi coi Velvet aveva condotto la sensibilità aspra, spietata e “diversamente pietosa” di Lou Reed a riposizionare la canzone rock rispetto alla realtà, o meglio alla sua capacità di restituire una narrazione della realtà che se da una parte rifiutava la formattazione edulcorante della mitologia rock, dall’altro la cavalcava come un grimaldello per squarciare il velo dell’indicibile. Berlin comportò un duro prezzo da pagare. Ma Lou si sarebbe dimostrato un abile mercante dei propri talenti. A costo di scendere a patti con la propria integrità.

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Genere: ambient, techno, downtempo Nel mondo dell'elettronica l'utilizzo dell'anonimato o di una maschera per coprire il volto durante i set non è certo una novità: dal mistero/non mistero Burial all'inflazionato camuffamento di V Per Vendetta targato Zomby, passando per il manufatto tribale di SBTRKT, il rebus sull'identità ha spesso fruttato, a livello di hype. Non fa eccezione questo ragazzo di Bristol – città da sempre laboratorio artistico in costante fermento -, deciso a gettare un velo di oscurità sulla propria figura preferendo la maschera di Topolino e il moniker A Sagittariun e spiegando l'arcano in questi termini: "Non sento il bisogno di spiegare chi sono, da dove sono venuto e qual è la mia storia. Vorrei essere conosciuto come A Sagittariun, il nono segno". A chi, come il sottoscritto, non è avvezzo alla lettura dell'oroscopo e dell'astrologia, basterà sapere che una delle caratteristiche del sagittario, segno di terra, è la nobiltà, caratteristica qui tradotta musicalmente in dinamicità ed energia. Pubblicato a tre anni da The Circle Stops Somewhere, a cui sono seguiti altri EP, tra cui l'ultimo Rapid Ear Movement rilasciato proprio qualche mese fa, Dream Ritual è il disco d'esordio del producer: un lavoro concepito in tre anni cercando di far propri modi e modalità del sentire elettronico di inizio Novanta. Ci si trova dentro l'IDM techno pensata più introspettivamente che non d'istinto, la pura elettronica da viaggio in poltrona, l'house, l'elettro o il dub, una palette piuttosto genero-

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sa, ben fatta, spesso immediata nei riferimenti, ma nondimeno ispirata e senza riempitivi, il che non è poco. Dodici tracce che fanno convergere in un unico punto certe atmosfere dei club di nicchia e attenti ascolti solitari: si passa dal techno pop dei Kraftwerk al frullatore (funk) di Year Of The Ox, alla vibrante microhouse di The South Node, passando per Trine, pura IDM degli esordi e dunque puro contatto con Detroit. I battiti sono lineari e puliti, come anche veracemente analogici e funk; intervallano momenti jazz con dialoghi à la Orb (Mind Has No Time) a incursioni breakbeat con ricordi ravey à la Orbital (Conquering Lions), dub à la Two Lone Swordsmen (Seven Locks (In dub)) o tocchi di 303 e traxismo ben cesellato con sensibilità ambient house britannica (Network Restoration). A Sagittariun estrae dal cilindro eleganti sfumature che vanno a confluire nelle pulsazioni di V4641 – ancora i citati Orbital -, negli aggraziati synth di A Lucid Dream o nel punto più alto della tracklist, l'intraprendente cavalcata di Crystallisation, con uno Skip McDonald alla chitarra che si muove con disinvoltura in complesse architetture ambient che rimandano al James Holden del recente The Inheritors, accompagnate da geometrie ritmiche profonde e viscerali. Un disco trasversale ma compatto, mai pretenzioso, perfetto da ascoltare in cuffia mantenendo gli occhi chiusi e cullandosi in questo esplodere d'IDM. Dietro la tattica di A Sagittariun di non mostrarsi fisicamente al pubblico, non c'è solo un'astuta strategia commerciale; al

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A Sagittariun - Dream Ritual (Elastic Dreams,2013)


contrario, vengono fortificate le qualità e i pregi di un'artista che vuole far parlare esclusivamente le produzioni. Essere contro apparenza. 7.2/10 Daniele Rigoli

Genere: folk Il 29 settembre 2013, all'età di 88 anni, è morto Norman John Gillies, l'ultima voce di St Kilda, come l'ha ricordato la stampa britannica. Gillies era l'ultimo abitante di questo piccolo arcipelago delle Ebridi esterne che fu completamente fatto evacuare negli anni Trenta del Novecento, quando il governo ritenne che le condizioni di vita sulle isole fossero troppo dure. La storia di Gillies è un po' quella di tutti coloro che furono forzati ad abbandonare la loro piccola patria per adattarsi, spesso senza riuscirvi, a una vita molto lontana dalla condivisione forzata a cui spingevano le estreme condizioni su Hirta e le altre isole dell'arcipelago. La storia di St Kilda e dell'esodo è materiale perfetto per un altro viaggio nella memoria che Alasdair Roberts intraprende in compagnia del poeta Robin Robertson. Dopo la collaborazione con Mairi Morrison, e il recente A Wonder Working Stone in compagnia di friends, realizzati in studio, Hirta Songs è registrato dal vivo, fatto che restituisce tutto il fascino dell'evento. A brani vicini alla tradizione scozzese, cantati ora in inglese, ora in scozzese, si aggiungono due letture di poesie dalla viva voce di Robertson stesso. Qui la chitarra di Roberts è poco più che un tappeto discreto sul quale, in particolare nell'intensa Leaving St Kilda, il poeta gioca con le intonazioni, le allitterazioni e gli accenti, tanto che gli oltre nove minuti non sono un limite per la godibilità del brano. Oltre a dover segnalare il prezioso lavoro di Tom Crossley alle percussioni e di Corrina Hewat all'arpa, accanto a

Marco Boscolo

Arancioni Meccanici - Nero (Seahorse Recordings,2013) Genere: rock, psych Il secondo disco degli Arancioni Meccanici – band milanese con all'attivo un omonimo esordio del 2010 – è un buon ibrido di chitarre elettriche sferraglianti e psichedelia a grana grossa. Sembra di trovarsi di fronte un incrocio da laboratorio tra David Bowie e i Black Rebel Motorcycle Club, l'elasticità strutturale tipica del progressive e un'attitudine hard rock, il glam e il nostro cantautorato anni '70. Detta così non suona un gran che bene, eppure Nero è un disco che, nonostante qualche ingenuità (perdonabile) soprattutto nei testi, offre un bello spaccato su uno stile musicale originale, benché confinato in un sobborgo estetico ampiamente frequentato. E' il caso di una Anni 70 che suona un po' come il manifesto culturale della band, col suo groove potente, certe chitarre ledzeppeliniane in controtempo e una batteria pomposa e tecnica, ma anche di una Rnr tutta riff e assoli lancinanti in bilico tra Primal Scream, Giorgio Canali e una punta di cantautorato versante Cramps (l'etichetta).

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Alasdair Roberts - Hirta Songs (Stone Tape Recordings,2013)

collaboratori abituali come Stevie Jones e Rafe Fitzpatrick, la grande sorpresa è la presenza di Robin Williamson, uno dei fondatori dell'Incredible String Band. Qui suona una particolare versione del violino – l'hardanger fiddle, utilizzato soprattutto nella musica folk nordica – e la sua presenza è la realizzazione di un sogno per Roberts, che più volte aveva espresso la volontà di collaborare con il grande vecchio. Hirta Songs non sarà forse uno degli album importanti della carriera di un Roberts che si sta ritagliando uno spazio importante nel folk europeo, ma è un gustoso complemento perfettamente coerente con il suo percorso. Prezioso. 7.3/10

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Genere: ambient, techno, house, elettronica C'è questa definizione della musica di Actress che ha dato Lisa Blanning nel numero 316 di Wire (giugno 2010). "E' una nuvola tangibile di elettricità nata dall'amore per le circuiterie degli '80 e per il fuzz fisico derivante dalla vibrazione dei coni degli speaker, la modulazione dello spazio, l'estasi house, la merviglia dei suoni elettronici, il tamburellare della techno, l'arroganza dell'rnb e del pop miscelati in sfumature e pacata eleganza". Non credo ci sia miglior premessa per racchiudere buona parte dello spettro immaginativo ed evocativo di Darren Cunningham, producer ma anche label manager di Werk, uno che chiama la sua musica "rnb concréte". Il progetto Actress si nutre da sempre di un'enigmatica trasparenza. Nasce come creatura laboratoriale, naturale nei predominanti riferimenti detroitiani ma anche in quelli chicagoani – i tocchi techno di Juan Atkins o Robert Hood e il lato house di gente come Theo Parrish o Adonis – evidenti fin dall'esordio del 2008 Hazyville, e così, di pari importanza, nelle dominanti intime, istintive, attente alla post produzione e al ripensamento (il debut ci mette ben quattro anni ad uscire). Cunningham traffica libero, casual, ma anche meditabondo, pensoso, macinando tanto le stecche tecnologiche di Oval quanto gli sguardi del Burial concreto; si lancia a piacimento in ricordi rave ma attinge anche osmoticamente da produzioni che hanno fatto il successo della sua label e che lo hanno influenzato (Zomby in primis). Il cuore dell'opera complessiva è sempre stato sfuggente quanto centrato, e come per gente come Bevan, Laurel Halo e Four Tet, la lettura rifugge sistematicamente le trovate produttive d'accatto, per una camaleontica e personale catarsi sonica fatta di sensi unici, dead end, trastulli della mente, volute slabbrature, stati in dormiveglia che possiamo ricondurre senz'altro all'Aphex ambientale o a quello emotivo (Our) ma che producono un'impronta ben precisa, distinta e unica. Ghettoville, che esce in contemporanea con la ristampa dell'esordio, re-immerge il tratto vago e nebbioso (Hazy appunto) dell'Actress degli esordi sui binari di un artigianato di bottoni e leve (emblematica Rims, ed ecco il ghetto), riprendendo la materia primigenia e tornando a respirarci dentro, consapevole che molte, troppe, correnti di oggi vanno in tutt'altra direzione (il ghetto in Gaze diventa anche scudo, fierezza), anche a livello di consapevolezza e libertà d'azione. Tolti gli smalti chamber e gli incanti nipponici di R.I.P., il presente di Actress mette le lenti sull'industrial dalle parti della Hospital (Forgiven) quanto sulla wave di Forest Swords (Contagious), 4/4 che piacciono a Andy Stott e alla Modern Love (la citata Rims, Birdcage), nuovi richiami r'n'b che assumono i tratti sia di producer americani come Machinedrum o Kingdom, sia di 80s/90s lover come Blood Orange (Rap, Rule). Eppure, come sempre, ogni nuova coordinata viene e va, nasce e muore nella polvere, si mescola ai passati prossimi e remoti, in qualcosa che sta tra la Mille Plateaux e le storiche etichette techno come paradigma produttivo, ma con un approccio anti-laptop assolutamente urgente e contemporaneo (vedi la Halo) come allora lo era per Hazyville (che di fatto precorreva i suoi tempi). Una polverosa Frontline, penultima in scaletta, con gli snare a brillare nel buio e le spirali di

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Actress - Ghettoville (Werk Discs,2014)


techno e industrial, chiude in bellezza quello che è, stando alle amare dichiarazioni della press autografa ("The scripts now carry tears, the world has returned to a flattened state, and out through that window, the birds look back into the cage they once inhabited"), il lavoro conclusivo a tinte fosche (Skyline, Time) di una tetralogia che può dirsi compiuta a molti livelli, alcuni sicuramente ancora da analizzare e scoprire. Actress si consegna alla Storia. E per quanto riguarda il futuro, vedremo se la creatura Thriller (in combutta con Lukid) inizierà a produrre cose tra grime e Zomby, come dichiarato tempo fa. La differenza principale tra l'autore di With Love e Cunnigham? Dove il primo gioca tra maschera, vestito e carne, il secondo è lo sguardo nudo sui circuiti, la materia e il mondo. 7.5/10

E' tutto un subodorare richiami e immaginari, in questo Nero, senza tuttavia trovarsi mai a combattere con quella piattezza e i toni involuti che si ascoltano, talvolta, in produzioni sul genere. Tanto che anche la cover della Slave to Love di Brian Ferry funziona a dovere, almeno quanto una Sport Life a metà strada tra punk rock e Rocky Horror Picture Show e una L'ultima notte che sembra citare i Ride. 6.9/10 Fabrizio Zampighi

Bachi Da Pietra - Festivalbug (CORPOC,2013) Genere: rock Il vinile come oggetto d'arte? Che il futuro della musica stia nell'impreziosire artisticamente e artigianalmente il medium? Chiacchiere in libertà o forse no. Innegabile che la "rinascita" del vinile, certificata da dati di vendita non eclatanti ma tutto sommato in netta controtendenza con quello che è il trend negativo da almeno un decennio (se non due) del mercato musicale, passi anche attraverso la "personalizzazione" dell'oggetto in forme varie. Serigrafia e limited edition numerate sono tra le più utilizzate.

I due EP in oggetto rientrano appieno nella categoria, grazie soprattutto al lavoro di una Corpoc che li valorizza entrambi con serigrafie d'alto livello. I Bachi da Pietra rilasciano un 12" contenente estratti dalle session di Quintale che tutto sembrano tranne che outtakes di quell'album. Zero irruenza e un procedere sottotraccia, quasi in punta di strumento (al basso Favero, all'elettronica Rico Gamondi, con Dorella al piano e Succi a sussurrare), per una sensuale Tito Balestra al solito racconto d'alta scuola su terre lontane e mari a far da distanza. Sempre marittime, nel senso delle distanze, le atmosfere di Madalena, bluesaccio della solitudine sempre soffuso e sofferto. A chiudere, Baratto Resoconto Esatto (Settembre 2013), revisione/consuntivo dell'esperimento portato avanti ai tempi di Quintale con la bonus track del disco (qualcosa in cambio della musica dei Bachi). L'altro 12" è sempre single-sided e serigrafato, ma prodotto in collaborazione con Boring Machines. Il disco vede Alessio Gastaldello a.k.a. Mamuthones in splendida solitudine ricamare una suite ambiental-rituale in attesa del nuovo lavoro lungo. La title track consiste in un quarto d'ora di distese haunted tra lonta-

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ne percussioni, gamelan dell'oltretomba, echi di frequenze radio sperdute nel vuoto delle profondità astrali e carillon alieni che sembrano posizionare il culto delle maschere pagane sarde in qualche lontano pianeta di un remoto sistema spaziale. Ovvio, per ciò di cui sopra ma soprattutto per il contenuto musicale, consigliare entrambi i dischi ai feticisti del vinile. 7/10 Stefano Pifferi

Genere: electro, techno, house, dance Alex Ridha, in arte Boys Noize, è una macchina da consolle, il classico DJ che usa la tecnica per far divertire. Uno che sa fare il suo mestiere da buonissimo artigiano teutonico. In questo Fabriclive, lo sentiamo al 100% focalizzato sulla sua formula house-techno da divertimento. L'uomo tenta di concentrare in 70 minuti i set ben più lunghi del suo normale lavoro: "Ho tentato di riassumere due ore in 70 minuti. I miei set di solito comprendono stili diversi e ogni tanto mixo anche brani veloci. Qui suono un po' di jackin' house e techno con pezzi energetici e pazzi, per poi tornare indietro al dub o anche all'electro classica e ai break. Il mio scopo era di combinare tutti gli stili ma rendere la compilation anche ascoltabile. Penso che questo mix sia abbastanza senza tempo, pieno di colori e felice". Una dichiarazione che taglia la testa al toro e che descrive bene il set. Si parte con il classico tech-house (Mr. Oizo feat. Marilyn Manson in Solid), per poi passare alla house stile Roulée (Starwin dello stesso Boys); si pesta con savoir faire French (ottimo Warehouse di Surkin), si va a parare sull'inimitabile clubbismo sciccoso di Four Tet (For These Times) e si va giù duri con Gesaffelstein (Aufstand), in un crescendo che alla fine esplode con filtraggi in aperture Ftouch (Motor di Tracques), la disco più classi-

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Boys Noize - Fabriclive 72 (Fabric,2013)

ca di Dave Clarke (The Compass) e addirittura un remix dei Chemical Brothers per gli XTC (rivisto sempre da Ridha). In chiusa, l'estasi di Apparat (epos Arcadia in rx Boys Noize). Altro approccio al clubbismo, molto più inquadrato, è quello di Ben Sims, che nella collana madre del Fabric parte in accelerazione con un trip pesante e senza aperture. Il DJ è uno che si muove nella scena da trent'anni e per molti è un faro, un tecnico (definito, per la precisione e per l'uso di tre giradischi in contemporanea, "The Machine"), già coinvolto in ben nove label e nella conduzione delle serate Machine (insieme a Kirk Degiorgio). Il 73mo volume monografico del club inglese include ben 44 pezzi tra mostri del calibro di Robert Hood e Marcel Dettmann e nomi relativamente più giovani (L-Vis 1990, Gingy and Bordello), insieme ovviamente a brani propri, siano essi in originale o in remix. La cosa che piace di questo trip, è il ritorno alle atmosfere anni '90, la sapienza nella costruzione della tensione techno con cavalcate e tagli inaspettati, tracce velocissime, spunti con l'unico scopo di immergersi nella notte e nell'oblio. Le clip durano meno di un minuto in media, ma il flow è lineare, sembra di essere tornati indietro di vent'anni, quando tutto era semplice, quando bastava indossare una maglietta con lo smile. Ben Sims rinnova il miracolo con una sequenza velocissima che stupisce per gusto e ritmo, per varietà e stile. Ovviamente senza tregua per l'ascoltatore. Per i non avvezzi sarà un colpo al cuore, ma l'acido a poco a poco tenderà a corrodere anche le cuffie più solide. Effetti collaterali assicurati. In chiusura segnaliamo anche una buona prova di Breach aka Ben Westbeech su DJ Kicks. Il tiro è meno movimentato e più da ascolto, come ultimamente sono state le compilation di !K7. Cambiamento dell'orecchio di chi ascolta compilation o mossa necessaria alla vendita? Lasciando perdere le questioni di marketing,


Marco Braggion

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Burial - Rival Dealer (Hyperdub Records,2013) Genere: breakbeat, elettronica Esce il nuovo, ennesimo, EP di Burial e ci si ritrova ad avere a che fare con tutto il portato social e la solita, conseguente, dialettica pro o contro scatenatasi puntuale. Come ha recentemente detto il nostro Gabriele Marino, Will Bevan è un totem sovraesposto, un personaggio che ha scelto l'anonimato e si è trovato suo malgrado al centro di una mitologia. Mitologia che s'incastra a pennello con l'ultimo dei generi a venir incastonato nella Storia, e perciò storicizzato, il o la dubstep. Il gender mettetelo voi; di sicuro quella del segreto peggio custodito della Hyperdub è materia al femminile, il calore tiepido stagliato sulle ombre d'asfalto della solita Londra, mito nel mito, perenne analogon del concetto più intimo di urbano. Rival Dealer è il ritorno in EP – o sotto forma di mini album, siamo al limite di formato, ventisette minuti – a dodici mesi dal prezioso e anch'esso pre-natalizio Truant | Rough Sleeper. Lì lo scarto rispetto alla cifra stilistica maturata in Untrue era un trattamento elettroacustico della materia, espediente che aveva permesso a Burial di giocare e andare a fondo nel ricordo, avvalendosi di tanti concretismi e, in generale, di un impianto slacked radio switch come lo descriveva sempre Marino nella recensione. Qui c'è la solita osmosi inversa dei ritorni o re-innesti elettronici di oggi applicata a quel paradigma, come dire che se Street Halo e Kindred raddrizzavano il ritmo assorbendo techno e poi house quando fuori c'erano le metamorfosi post- di, tra gli altri, Untold, Pangaea, Scuba, nelle nuove tracce troviamo muscolarità breakbeat early 90s ad inserirsi nella forbice ormai larghissima dei nuovi "junglisti" (da Special Request a, tra poco, Lee Bannon), quando non un'analogica paranoide darkside e smalti orientali parenti di

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il disco suona bene, pompando in abbondanza su bassi e medi, sculettamento assicurato da cocktail e stile come al solito sopraffino. Il montaggio della scaletta fila via bene e varia di poco, restando su atmosfere da pre-dancefloor. In questo sono comunque ottimi il ripescaggio di Pedestrian (Hoyle Road), che ricorda i Telefon Tel Aviv, il pezzo dello stesso Breach inedito per la compilation (Beroving ha uno stomp tribal notevole) e il lato meno pesante di Dopplereffekt (Z-Boson). Ottima la chiusura con il ricordo à la Capricorn di Winx (How's The Music) e l'omaggio a C.J. (Nightdrive To Bolland di Sabre). Tre modi di vedere il dancefloor, uno complementare all'altro. Boys Noize è più ecumenico, e in questo più vicino alla sensibilità francese, anche se le sue origini sono teutoniche. Ben Sims è più squadrato e ortodosso, "darkissimo" e minimal. La sua è la storia della black techno inglese che risorge, quasi con un piglio detroitiano/Underground Resistance. Senza scampo. Stanze e corridoi nerissimi, Sims si muove in una dimensione che più che inglese è da sentimento mittel; il confine si sposta sul macchinico, tagliando pure con qualche doveroso apprezzamento chimico. Insomma più che UK, Belgio. E infine il sapore più mediterraneo/balearico di Breach. Differenze di età che si fanno sentire anche nelle proposte di due dei capisaldi del clubbismo da ascolto casalingo. Fabric più scafato e continentale, !K7 più aperta al giovanilismo e alle spiagge mediterranee. Dei tre, il migliore ci pare Sims. Tecnico, disperato, senza possibilità di replica. La sua è l'arte che descrive il disfacimento del clubbing da dentro. La techno diventa arte che descrive la rovina. Un magnifico decadentismo black. Gli altri due stanno una spanna sotto. Da sentire, comunque, magari per i party di fine anno. 7.2/10

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Genere: cantautori E questi sono i fatti quotidiani/ con qualche strana storia surreale/ di ieri di oggi e di domani/ all'interno d'un discorso musicale./ Il disco che avete fra le mani/ si chiama Tradizione commerciale/ e per la legge di mercato è il paragone/ di quanto si può fregare le persone. Si apre così, a metà strada tra un manifesto d'intenti e un'invocazione alla musa, Tradizione commerciale, terzo lavoro di Andrea Lovito, in arte Ance, dopo Lavoretto a catena del 2008 e Professionisti nel campo del 2011. Ad accompagnarlo, i Fatti quotidiani, ensemble formata da Daniele Bianconi al basso, Dario Gozzini al piano, Michele Trentacosti alla batteria, Massimiliano Lami al sax soprano, ed infine Federica Amato al flauto traverso e ai cori. Una formazione variegata e poliforme, perfetta per accompagnare un cantautore che si definisce trasversale. Lo stesso termine che potremmo applicare a questo EP, che in soli sei brani riesce ad esprimere e riassumere la ragione sociale del progetto portato avanti da Lovito. Se infatti il punto di partenza è quello di una canzone d'autore classica, che prende spunto soprattutto dalla pungente ironia di De Andrè – inserendosi, di fatto, all'interno di una formula nota e largamente consolidata -, quello che colpisce è un uso sapiente della parola, che rende ogni brano una piccola ma acuta istantanea sulla nostra realtà, sul nostro vivere quotidiano. Una poetica che comincia dall'apparente banalità delle piccole cose, per giungere ad un'analisi né scontata, né superficiale, dell'attualità, attraverso lo sguardo obliquo e vivacissimo di Ance. In altre parole, un ritorno al ruolo e alla funzione del cantautore, quella del racconto, con l'ombra beffarda e sorridente di Gaber a vegliare su un artista che dimostra non soltanto di avere molte cose da dire, ma anche e soprattutto di possedere i mezzi espressivi per farlo. A partire dalla sopracitata Introduzione, appare chiaro che l'intento dell'album è quello di rendere ogni brano parte di una narrazione più ampia, ovvero una lucida ma divertente descrizione di un'Italia da Bar Sport, in cui crisi e partite di pallone si mescolano tra caffè, amari e partite a carte. Ma attenzione, siamo lontani da una certa retorica nostalgica e adolescenziale à la Vasco Brondi, così come dal romanticismo retrò di un Dario Brunori. Le parole di Ance, senza contenere velleità di polemica o denuncia, evitano tanto la trappola del siparietto quanto quella di un'eccessiva seriosità, facendo della leggerezza, anche musicale, il loro punto di forza. La stessa che ritroviamo nel languido incedere jazz/tango di A pancia piena, degna del Capossela più suadente: atmosfere che ben si accompagnano alla brillante irriverenza della successiva title-track, che sintetizza i motivi e i suoni ricorrenti del disco. Ance tratteggia il ritratto di una società – la nostra – caduta nella rete di una tradizione commerciale che ci rende dipendenti in primo luogo dalle illusioni, nella quale il consumo è la moneta di scambio da usare per poter convincersi "di esser tutti Peter Pan, fino a farsi i calli con un joystick o ingoiar schifezze dentro un bar". Una tenue amarezza subito ribaltata da Il dittatore, una girandola zigana nella quale il Nostro ha riadattato l'omonima filastrocca di Gianni Rodari: un bell'esperimento che mostra le numerose influenze, non solo musicali, ma anche letterarie, a cui la scrit-

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Ance e i Fatti Quotidiani - Tradizione Commerciale (Almost Musique,2013)


tura di Lovito fa riferimento. Il maggior pregio di Tradizione commerciale, infatti, è quello di aver saputo costruire un paradigma cantautorale perfettamente inserito nella tradizione e, allo stesso tempo, ben riconoscibile. Portatore sano di una scrittura personale ed innovativa, Ance si conferma un autore immerso nel presente, ma con l'occhio rivolto ai grandi prima di lui, ché far rivivere il passato "è romantico e non è consumismo e tantomeno nostalgia". 7.2/10

un ritrovato interesse (nella scena) per il sino grime (vedi il mix di Kode9 del 2012) e l'eski sound (sentitevi quei caricatori). E' tutto nella prima omonima traccia e un po' nella terza. Ed è vero, queste sono considerazioni a lato (e da nerd) di un disco che se è l'ennesima conferma del talento e della sensibilità del suo misterioso autore, non è certo per i meri arrangiamenti, quanto per la capacità del londinese di tenere viva una metafisica del ricordo. Dicevamo che Burial è il segreto peggio custodito della Hyperdub non a caso. Questa musica, la sua coerenza di fondo, il suo muoversi, apparentemente, autorefereziale dentro un frame preciso, autosabotante, eppure in continuo scambio con l'ambiente urbano e la tradizione britannica, dovrebbe appartenere soltanto ai cultori e al cuore. A loro spetta ascoltarla. Fuori dal noise mediatico e da ogni sterile affondo su promesse non mantenute. Bevan stesso si è negato al mondo per poterla produrre in pace, da ragazzo qualunque che continua a vivere la propria vita e a registrare la propria musica nel formato più comune tra i producer elettronici. Che sia vestito in tuta Adidas nera a strisce bianche, come spiffera Flying Lotus, o che vada fiero del suo outfit Margiela come Zomby, a noi importa unicamente nei termini di un romanticismo di cui – è verissimo – ci nutriamo, tutti con il proprio mito e i propri anti-eroi, ma tenendo anche ben

presente che questa musica – una traccia, la più pop, la più 80s mai scritta, Hiders – rapisce anche senza tutto ciò, anche senza Burial stesso e il suo ingombrante mito. Questa è una musica di culto, fragile, marginale, una missiva accorata agli outsider di tutto il mondo (vedi anche il sample di Larry/Lana Wachowsky). Musica che si nega al mondo per abbracciare come non mai lo spirito natalizio, nella gioia, nella nostalgia e nel dolore, senza negarsi un (fugace) conforto. Ora più che mai, Come Down to Us. (sabato 14 dicembre, durante la trasmissione di Mary Jane Hobbes su BBC Radio 6, Burial rompe un silenzio di oltre un lustro e manda un messaggio alla popolare conduttrice "Ci ho messo il cuore in questo nuovo EP e spero che piaccia. Ho voluto che queste tracce fossero anti-bullismo e potessero aiutare qualcuno a credere di più in sé stesso, a non essere spaventato, a non arrendersi e a sapere che c'è chi, là fuori, è interessato a lui. Dunque, sono come l'incantesimo di un angelo che protegge contro le persone sgarbate, i tempi scuri e i dubbi che abbiamo su noi stessi") 7.2/10

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Genere: cantautori, rock Dopo il discreto sophomore I gatti se ne fanno un cazzo della trippa, Cuori e parole in piccole botti di legno ci ripresenta il cantautore siracusano Carmelo Amenta alle prese con una canzone d'autore in salsa rock-blues, la stessa che aveva caratterizzato gli album precedenti. Sempre debitore verso il songwriting scuro ed essenziale del conterraneo Cesare Basile, la scrittura di Amenta si avvale ancora di elementi musicali diversi tra loro, come ben dimostrano le prime due tracce del disco, Nero e Estate: la prima sporcata da un rock sferzante e veloce, la seconda arricchita da atmosfere languide ed intime, le stesse che – declinate qua e là in accenti folk e jazz – rendono la matrice blues la vera essenza dell'album. Quest'ultimo, infatti, si inserisce nella lunga fila del panorama cantautoriale italiano, con il pregio, però, di prendere le distanze da un paradigma che dopo la lezione del lirismo battistiano/mogoliano, ha generato fin troppe imitazioni. Quello che infatti resta impresso nell'ascoltatore è la ricerca di una formula che spazi tanto dai maestri di lunga data come il già citato Basile - oltre a De Andrè ed Edoardo Bennato - a spiriti affini come Nick Cave e Tom Waits, portatori di quel germe noir e cavernoso che ispira tutti i brani, rendendoli buoni esempi di un cantautorato ombroso e crepuscolare, polveroso e scarnificato. Il tutto unito a testi che sommano un'irriverenza lucida e beffarda (Due becchini da due soldi, Portate fiori non opere di bene) a storie d'amore e fallimento, cinismo e speranza (Ci troveranno svegli, Una canzone d'amore). Rispetto al disco precedente, è evidente una maggiore maturità nei testi, con una scrittura sempre personale e sicuramente più a fuoco, in grado di rendere coesi brani accomunati da una grazia sghemba ed agrodolce. Manca forse

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il mordente che aveva caratterizzato le prove passate, con gli sberleffi ancora pungenti ma ammorbiditi in favore di un mood più intimista, anche se sempre in grado di presentarci un Amenta del tutto a suo agio nei panni di menestrello. 6.5/10 Giulia Antelli

Corrections House - Last City Zero (Neurot,2013) Genere: hardcore, sludge, doom Le nuove musiche estreme sono appannaggio dei vecchi. Una constatazione che ovviamente può immediatamente essere disattesa, se si pensa a nuove band come i nostri Meteor o The Secret, i fantastici Liturgy e True Widow o i prediletti dell'hipsteria più extreme Deafheaven col loro acclamato Sunbathing. È però altrettanto innegabile che la classe, quando c'è, non invecchia, o se invecchia lo fa in maniere spesso molto apprezzabili, come nel caso di questo supergruppo. Dietro la sigla Corrections House si celano infatti nomi noti e grossissimi del panorama estremo mondiale. Scott Kelly (Neurosis), Mike IX Williams (EyeHateGod), Sanford Parker (Nachtmystium) e Bruce Lamont (Yakuza) sono un quadrilatero di ferocia in midtempo, cupezze post-industriali, destabilizzanti sonorità apocalittiche e oscuramente metalliche, e Last City Zero è la perfetta risultante di ciò che i singoli addendi mettono in gioco. Un marasma che dalle lande più melmose del doom/ sludge (l'iniziale, disperata e lucida Serve Or Survive) passa per l'urgenza dell'hardcore straight in your face (Bullets And Graves), per ripiombare poi su midtempo funerei e malsani (Party Leg And Three Fingers) o su sabba cyber-tribali da futuro prossimo (Dirt Poor And Mentally Ill), o acquietarsi su una epica noir-folk straziante (Run Through The Night)

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Carmelo Amenta - Cuori e parole in piccole botti di legno (Altipiani,2014)


o su litanie da dopo-bomba (Hallows Of The Stream) che verrebbe da definire quasi chiesastiche o mistiche, se le musiche del quartetto non fossero di una urgenza evidente e di una materialità nervosa. Musiche in b/n sgranato, ossessive, imperturbabili, che sono lo specchio di questi plumbei e smarriti tempi moderni, oltre che la perfetta dimostrazione di ciò che si affermava sopra: quando si ha qualcosa da dire – i testi sono ispirati allo scritto "Cancer as a social activity: affirmations of world's end" dello stesso Williams – e si sa bene come dirlo, il resto vien da sé. 7.2/10 Stefano Pifferi

Genere: rock, psych Le luci al neon della copertina di B Room possono forse confondere, ma il suono che esce dalla porta dello studio è ancora una volta verace, vivo, quasi sempre spontaneo, caldo quanto basta, con appena un po' di sporco di fuliggine e qualche impronta di stivali sul pavimento negli episodi più marcatamente folk. Alla settima prova discografica, la terza sotto contratto con l'etichetta Anti-, i Dr. Dog si confermano (come già li definimmo) lo slow food dell'indierock, in quanto musicisti che sanno suonare per davvero e scrivere buone canzoni, ma ancora una volta c'è qualche ingrediente che sfugge. Qualcosa che non riesce ancora a permettere loro, dopo oltre dieci anni di carriera, di giocare il campionato di serie A. Si parte con un omaggio esplicito allo storico sound di Philadelphia, tra gli Stylistics e Harold Melvin (The Truth), per poi virare verso territori Arcade Fire nel divertito – e divertente – singolo Broken Heart e subito dopo competere con i Black Keys più rilassati in Minding The Usher. Il resto dell'album è un saggio di recuperi nobili, e dalle teche emergono

Alessandro Liccardo

Dum Dum Girls - Too True (Sub Pop,2014) Genere: pop, indie, dream A fronte del nuovo che avanza (Savages, Haim) e del vecchio che ritorna (Warpaint), le Dum Dum Girls hanno percorso un cammino spigoloso, fatto di dubbi, ripensamenti e leggeri cambiamenti di sound per andare incontro ai gusti sofisticati di critica e pubblico. Appurata un'immagine estetica ormai codificata, si può rimproverare alle quattro ragazze di Los Angeles la mancanza di quel tocco di coerenza artistica in più che le avrebbe rese una band fondamentale. Così non è stato, fin dai tempi dell'eppì che seguì l'acclamato I Will Be o, per fare l'esempio più clamoroso, con End Of Daze (poco più di un anno fa), quando i segnali di decadenza diventarono pressoché inequivocabili e la band – almeno su queste pagine – rischiò di essere liquidata come pop-noise di genere. Il 2014 di Too True avrebbe dovuto rappresentare una svolta. Chiamati a raccolta Richard Gottehrer (Blondie, The Go-Go's) e Sune Rose

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Dr. Dog - B-Room (ANTI-,2013)

le copertine logorate dal tempo della Band di Bob Dylan in Distant Light e del Mungo Jerry di Long Way Down, passando per un country caro ai più giovani Lumineers (con i quali la band di Scott McMicken e Toby Leaman ha di recente condiviso il palco) ma più polveroso in Phenomenon e nella conclusiva Nellie; si pasticcia con riferimenti alla psichedelia di Syd Barrett e dei Moody Blues in Twilight e ci si sposta su un indie rock più attuale e convenzionale quando attacca Rock and Roll. Tutto ciò rende B Room un disco gradevole ma prescindibile, spesso fuori fuoco, che distrae con la sua palese assenza di una direzione artistica precisa e che osa meno di quanto potrebbe e dovrebbe. 6.2/10


Genere: pop, cantautori E' un disco che gioca al rialzo, BettiBarsantini. Marco Parente e Alessandro Fiori avrebbero potuto lavorare di pop, limitandosi semplicemente a unire le forze per scrivere, senza troppa fatica, un manifesto nobile e ammicante ai rispettivi universi; e invece l'esordio omonimo del progetto musicale che li accomuna non si accontenta proprio. Anzi, infila dieci brani capaci di arrivare a bersaglio solo dopo qualche ascolto, tale è la ricchezza strumentale contenuta al loro interno. E' quasi come se musica e parole – comunque riconducibili alla generica categoria di "cantautorato" – si scambiassero i ruoli, con la prima tanto dettagliata da aggiungere ulteriori significati ai testi e le seconde impegnate ad arricchire il quadro melodico anche oltre il loro tipico ruolo da traghettatrici. Fondamentale, in questo senso, il contributo in termini di produzione artistica di Asso Stefana, bravo a co-definire un universo di suoni sospeso, narrativo, peculiare. A suo modo anche ironico, almeno quanto lo è il DNA dei musicisti coinvolti nel progetto (ad esempio, in una Puzza di sangue che sembra citare i Gaznevada o nella wave amaramente divertente di Dissocial Network), e capace di un eleganza delle piccole cose: i contrappunti tra synth e parte ritmica in Le parole, il beat sintetico minimale, gli archi e i pianoforti appena accennati di Amleto, i toni sognanti di La Terza Guerra Mondiale, le cadenze surreali di una Il linguaggio in bilico tra Mariposa e il Marco Parente dei tempi di Trasparente o magari gli spazi vuoti del Fiori malinconico in Dalla. Siano o meno gli XTC, i Talk Talk – come affermano le note stampa allegate – o chissà quali altri, i numi titolari di BettiBarsantini, poco importa: il qui presente rimane un disco raffinato senza essere spocchioso, divertente e a suo modo complesso, melodicamente ricchissimo e da assimilare senza fretta. Insomma, un album di grandi canzoni. 7.2/10 Fabrizio Zampighi

Wagner (The Raveonettes) per produrre il lavoro, Dee Dee e socie hanno provato a lanciare un segnale di svolta, rimescolando nuovamente gli ingredienti e puntando a recuperare il sound perduto di quei primi due lavori che avevano garantito loro l'attenzione del grande pubblico. Il tutto, sotto la nuova effigie di Sub Pop. Non solo: stando alle dichiarazioni, Dee Dee ha vissuto mesi di turbinio estatico, presa, nel suo appartamento newyorkese, dalle letture di mostri sacri della letteratura: da Rainer Maria Rilke a Anais Nin, da Rimbaud a Verlaine,

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Baudelaire e Sylvia Plath. Il tutto studiando anche referenti musicali di non poco conto: Patti Smith e Lou Reed ("who like many, considero i miei genitori spirituali") su tutti, ma anche qualcosa di Nick Cave. Il filo tematico di Too True, come ha dichiarato Dee Dee, è il manifesto surrealista del desiderio. Il desiderio è la musa primaria, la fonte d'ispirazione; la vita è il ring sul quale sperimentare la passione e apprendere dai fallimenti. Parole cucite su misura per la band che si riaffaccia sulla scena con questo album.

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BettiBarsantini - BettiBarsantini (Malintenti Dischi,2014)


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pur non riempiendo mai la casella mancante. Ancora una volta tocca dire che, persi di vista l'obiettivo primario, i suoni sporchi e d'assalto, il grezzo colorito di I Will Be, le Dum Dum Girls di Too True sono una band che si accontenta. Di essere incompleta, di essere caricatura di se stessa, di essere "carina", di essere ascoltabile, di essere quello che migliaia di altre band sono: una buona formazione con qualche brano efficacie. Si deve e si può pretendere di più. 5.8/10 Nino Ciglio

Echologist - Storming Heaven (Prologue Music,2013) Genere: techno Dopo aver spiazzato addetti ai lavori e semplici fruitori con due degni episodi (Mechanics of Joy per Prologue e Geographic sotto la nostrana M_REC LTD) necessari per mettere nero su bianco la recente svolta intrapresa, il prolifico produttore sudafricano – ma trapiantato nella Big Apple – Brendon Moeller dà alle stampe questo ambizioso Storming Heaven, terzo album sotto il moniker Echologist e decimo in carriera (considerando anche i full length usciti a proprio nome e come Beat Pharmacy). Conclusione dei due citati EP, quest'ultima produzione completa idealmente il trittico e si pone come netto spartiacque rispetto alla precedente fase artistica legata all'omologante (e invalidante) comfort zone dub techno. Nonostante la copertina non lo dimostri affatto, vista la rara bruttezza che la contraddistingue (oltre al fatto di non essere minimamente legata al filo conduttore dell'LP stesso), l'imperativo moelleriano dietro alle nuove tracce è scuotere, far uscire la propria arte dal binario morto in cui si trovava, mettere in rilievo una struttura sonora in grado di giostrarte un caleidoscopico di variegati elementi sonici. Spicca la com-

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Musicalmente, tutto questo definisce un sound scialbo, adagiato su stilemi già sperimentati dalle Dum Dum Girls (e da molte altre band), più concentrato sulla forma canzone, forse anche più melodico rispetto al passato. La figura di Dee Dee spadroneggia sul trono di tutte le dieci tracce, ma scivola via troppo velocemente, senza imprimere un vero marchio. Stimabile ma debole il tentativo di riportare alcuni suoni un po' più indietro, in area seventies: Cult Of Love e Evil Blooms potrebbero benissimo essere brani dei compianti The Organ, mentre Are You Okay e Under These Hands sono pop banale, piatto, visibilmente già sentito, di quelli che, se le ragazze non avessero una carriera abbastanza consolidata, le avrebbe portate in pochi anni ad esplorare la (de)riva triste dell'indie(?) folk alla Mumford And Sons. Poi ci sono i casi di curiosa pomposità, quella tagliata per le grandi arene (brucia ancora la ferita del caso - Editors?): parliamo di Too True To Be Good, ma soprattutto del singolo Lost Boys And Girls Club. Quest'ultimo un brano riuscitissimo, che fa scorgere picchi di new wave e persino di Depeche Mode, ma rovinato dalla posizione in tracklist, tra la faciloneria in pieno stile indie-rock di In The Wake Of You e Little Minx - un tentativo mal riuscito di tingere tutto di nero e riportarci dalle parti di Siouxsie e i Cure di Faith. Si salva Rimbaud Eyes, con voci e chitarre spiegate e il ritornello monolitico e ossessivo, sebbene la scoperta dei poeti decadenti potesse verificarsi anni prima, come per tutte le adolescenti del mondo. La Trouble Is My Name che sigilla l'album è una buona dimostrazione di brano lento, anche se mal digerisce i Velvet Underground e soprattutto la versione di Song To The Sirens dei This Mortal Coil. In definitiva, "immaturità" è il middle-name di queste quattro ragazze, musiciste che arrivano sempre dalle parti di un completamento totale,


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mesi fa ha visto il chitarrista dei Bud Spencer Blues Explosion cimentarsi con un folk intimo, basale e "primitivista" nell'accezione di John Fahey. E' su questo tipo di terreno che i due imbastiscono la zona franca per lo scambio di codici e sensibilità, questione di timbriche acustiche sguinzagliate ad esplorare le possibilità estreme e profonde della melodia di turno, che diventa la tela per pennellate ad alto contenuto emozionale. In ragione di ciò, alle pur buone composizioni originali (su tutte, la vibrante Persi) risalta il lavoro di rilettura di classici blues e nuovi standard pop rock: titoli come At the Dark End of the Street (che rimanda alla versione dell'amato Ry Cooder) o Sitting on Top of the World da un lato, dall'altro una deliziosamente spampanata Nothing Compares To You, la toccante You Never Wash up After Yourself (frutto non troppo noto dei primi Radiohead) e una Black Hole Sun ricondotta al suo germogliare bluesy, assieme eterea e potente. Tutto molto bello e appagante, salvo avvertire a tratti la sensazione che i due si specchino nel rispettivo patrimonio di espedienti, o che rispettino fin troppo le consegne del progetto col rischio di sfiorare l'accademia (vedi la mancanza di slanci di una piuttosto evitabile King Of Pain). Restiamo comunque vigili in attesa degli annunciati sviluppi. 6.9/10 Stefano Solventi

Francesco Augelli

Enzo Pietropaoli - Futuro Primitivo (Parco della Musica Records,2013) Genere: blues, folk, jazz A leggere il nome di Adriano Viterbini assieme a quello di Enzo Pietropaoli – contrabbassista storico, tra i più quotati della scena jazz italiana e internazionale – verrebbe da saltare sulla sedia, se non fosse per quel Goldfoil che pochi

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Facciascura - Stile di vita (Cabezon Records,2013) Genere: rock Registrato da Luca Tacconi presso lo studio Sotto il Mare di Povegliano (VR), Stile di vita è il secondo album dei Facciascura, band veronese capitanata dai fratelli Carlo e Francesco Cappiotti. A distanza di tre anni dal disco di debutto intitolato Quanti Ne Sacrificheresti?,

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ponente nostalgica e ossessiva da post-trip (il titolo dell'album è un evidente omaggio al libro di Jay Stevens sull'LSD) sulle vecchie istanze deep più placide e rassicuranti che tendevano ad emulare fin troppo le soluzioni messe egregiamente in pratica dai Basic Channel, dalla fucina di talenti Chain Reaction (Moeller in passato ha collaborato con Paul St.Hilaire, NDR) e dalla Deepchord. Confrontare questo lavoro con i precedenti Explorations n.1 e Subterrean, o con gli EP usciti per Rekids, Ann Aimee, Pomelo, Echocord, Mule, Electric Deluxe e Nite Grooves, ci aiuta a comprendere quanti pochi punti di contatto ci siano con il passato: si rintracciano giusto negli spaccati metropolitani di Goodbye, nei borbottii dub che si tramutano repentinamente in scatti isterici (in Guilty Pleasures) e nel tribalismo che di tanto in tanto fa capolino in 77, traccia conclusiva all'album. Per il resto, il disco fila via tra ruvidità (M13+ DPO e Down the rabbit hole), papabili outtakes da compilation Panorama bar (Even if and especially when) e celestiali spunti tech-funk (Lost). Evidente lavoro di transizione, Storming heaven non si attesta su posizioni particolarmente decise, nonostante le buone intenzioni di fondo. Brendon è uomo d'esperienza (e mestiere), gli episodi validi non mancano, eppure incertezze e soluzioni ancora in fase di definizione non possono essere taciute. 6/10


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dunque, è di uccidere un po' di idoli e di affrancarsi da modelli ingombranti: esercizio, questo, che nel rock'n'roll ha sempre portato a grandi risultati. 6/10 Ilario Galati

Gabriel Saloman - Soldier's Requiem (Miasmah,2013) Genere: avant, elettronica Uno se ne va verso lande "techno", mortificando l'ascoltatore con la sua idea di elettronica che non può prescindere da una certa aberrazione sonora. L'altro inizialmente se ne sta sulle sue, ma poi comincia a macinare una musica che molto ha a che vedere con il dark-ambient, anche se la definizione di genere può suonare riduttiva. Insieme ci saturavano le orecchie a furia di harsh noise tremebondo; da soli brillano come non si fossero mai divisi. Quello della "techno" è Pete Swanson, questo dell'ambient mefitica è Gabriel Saloman; insieme si facevano chiamare – prevalentemente, ma non sempre era così – Yellow Swans. Lasciati gli orizzonti del duo, Saloman si cimenta in una sorta musica visionaria priva degli eccessi del (ex) compare e che piuttosto sembra vivere di una sorta di classicità umbratile e oscura. Che siano il percussivismo reiterato di Marching Time (sorta di doppio al nero della melvinsiana Spread Eagle Beagle), le lande dilatate da suite ambientale vissuta al crinale tra requiem pianistici, soffusi soffi d'archi a tratteggiare suggestioni romantiche, il pulviscolo statico e il crescendo da post-rock in negativo di Mine Field (18 minuti di epica catarsi) o le sospensioni della coscienza di Boots On The Ground (accordi di chitarra appesi ad asciugare, un fluttuante gorgoglio di fondo, una marcia militare ad memoriam, malinconia in overdrive a tratteggiare una composizione astratta e di ampio respiro), aleggia sempre l'e-

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la band ci riprova con un lavoro che mantiene il suo baricentro ancorato al rock italiano di matrice alternativa. Del resto i Facciascura sono attivi sin dalla metà degli anni '90, e il sound generale di Stile di vita celebra proprio quel decennio. Forse un po' troppo, viste le profonde influenze di band quali Afterhours (non a caso, in produzione troviamo Andrea Viti), Scisma e Ritmo Tribale. Le novità forse più interessanti provengono dalle ospitate, tutte importanti e funzionali all'economia del disco: in Uragano, troviamo alla voce un Paolo Benvegnù assolutamente a suo agio in un pezzo che sembra scritto per lui, mentre in New Songs Are No Good c'è nientemeno che Shawn Lee, cantante, polistrumentista e producer, tra le altre cose collaboratore di Jeff Buckley. Il pezzo in questione è tra i più interessanti, probabilmente perché le influenze travalicano i confini patri per finire direttamente tra le braccia di Queens of The Stone Age e simili. Belle, in maniera differente, Alaska, ballad intensa ed elettrica che dimostra abilità di scrittura non comune, e VJ, pezzo tiratissimo scelto come singolo. Altrettanto convincenti lo stoner rock del brano che dà il titolo al lavoro e la spigolosa Intercapedine, che ricorda molto da vicino gli Scisma più arrabbiati. A chiudere il lotto c'è la riuscita cover doorsiana di Maggie M'Gill, con alle percussioni un Alessandro "Pacho" Rossi turnista d'eccezione già in forze ai Karma (una delle band alle quali i Facciascura devono forse di più). Ben prodotto e ben suonato, Stile di vita non manca di ottime intuizioni: la sostanza c'è tutta, e i testi non banali rappresentano un breviario convincente per combattere il malessere dettato dal conformismo imperante. Ma il lavoro difetta inevitabilmente di originalità. Fosse uscito anni fa, sarebbe stato di sicuro una piccola pietra miliare della nostra scena alternative. Quello che consigliamo ai Facciascura,


Genere: rnb Togliamo subito di mezzo i numeri, che sono sempre la cosa più noiosa quando si parla di musica. Anche se per Queen B – la regina Beyoncé, Bey, Ms. Carter o in qualsiasi altro modo la vogliate chiamare – è inevitabile avere a che fare con le cifre (e spesso cifre pazzesche), quando fa uscire un nuovo album. In questo caso, la mossa a sorpresa (l'album eponimo è uscito senza nessun preavviso, il 13 dicembre 2013, su iTunes Store) poteva trasformarsi in un suicidio mediatico, proprio come la svolta dei Radiohead con In Rainbows avrebbe potuto segnare la fine della loro epoca. È inutile sottolinearlo: tanto Beyoncé quanto la band di Oxford sono tuttora leggende viventi; nel caso della musicista americana, lo stratagemma dell'album a sorpresa si è trasformato in un successo planetario, a prescindere da quali motivazioni l'abbiano spinta ad attuarlo. Cifre, dicevamo: 617.213 copie digitali in tre giorni significa numero uno per Billboard 200 e significa cinque album su cinque della carriera solista della regina di Houston che debuttano primi in classifica nella prima settimana dalla release. Non è il caso di far confronti, forse, ma la situazione è significativa: a fronte di un 2013 costellato di ritorni discografici di dive e divi (in ordine sparso: Lady Gaga, Miley Cyrus, Katy Perry, Britney Spears, Kanye West, Jay Z, Justin Timberlake, Drake), Beyoncé ha stracciato tutti in termini di velocità di vendita, conquistando il podio femminile. La tattica dell'effetto sorpresa, in un anno che ha visto alternarsi campagne mediatiche fin troppo pompose come quelle di Daft Punk o Arcade Fire, ha colto nel segno, dando di Beyoncé un'immagine genuina e affezionata. Non solo: l'artista ha saputo sfruttare appieno l'impulso mediatico delle "feste natalizie" con un album (visual) ben poco natalizio. E, infine, ha creato dei bei grattacapi alle redazioni giornalistiche internazionali, che s'impegnavano proprio in quei giorni a redigere le tanto caldeggiate classifiche di fine anno. A quanto pare, la Nostra si è trovata a riflettere (o l'hanno fatta riflettere) sulle politiche distruttive del business musicale, tutto orientato alla mercificazione del prodotto-singolo o, peggio, del prodotto-videoclip. Poco importa se lei stessa (e la combriccola che ha creato questo disco) è stata una delle principali promotrici di questa filosofia, in passato. Da qui, la decisione di non licenziare un vero e proprio "singolo", ma rendere disponibile il disco solo ed esclusivamente nella sua interezza e, soprattutto, accompagnato da 17 videoclip, come a negare l'esclusività e la sacralità del singolo, impacchettato per MTV. Con Beyoncé, si vuole restituire alla musica la solennità di un tempo. Tutto questo è stato possibile perché la Knowles ha (avuto) effettivamente qualcosa da dire. Innanzitutto la maternità, con la nascita di Blue Ivy nel gennaio 2012, che, a quanto pare, ha restituito una nuova sensibilità alla Regina: tutti i trofei, tutti gli affanni della vita (come spiega magnificamente in questo video) non sono nulla se confrontati col sentir cantare la propria bimba e guardare il proprio marito negli occhi con l'intesa dell'imperfezione. Questo, certo, ma anche, come spesso accade, una crisi non indifferente che finisce nei testi di Beyoncé. Catalogato alla voce depressione post-parto, questo sentimento genera di solito maggiore franchezza e sincerità e accomuna molte pop star (leggere qui al riguardo). Bey lo porta alla schiettezza assoluta quando in Mine canta "I'm not feeling like myself since the baby".

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Beyoncé - Beyoncé (iTunes,2013)


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C'è poi un altro punto da non sottovalutare. Beyoncé è un album musicalmente diverso rispetto ai precedenti. Forse consigliata dalla sorellina Solange (o dalle tendenze del pop mondiale), Queen B sta (finalmente) abbracciando la strada di un trap sperimentale, che collide con una galassia di generi: dal PBRandB (qualunque cosa significhi) all'hip hop, dal new soul al post-dubstep, fondato su testi diretti, spesso recitati da una voce incredibile, che, a differenza di quanto accade con le altre popstarz (e diversamente delle fasi precedenti della carriera dell'artista), non calca la mano, non forza, sa trattenersi in un velo di perfezione immaginifico. L'album, dunque. Anzi, il visual-album. Già perché al team-Beyoncé (anche qui, in ordine sparso: Timbaland, Jay Z, JT, Terius Nash, Hit-Boy, Drake, Frank Ocean, Pharrell, Noah "40" Shebib, Boots) non è sfuggito niente, neanche il fatto che nel 2013 il visual fa il 90% del prodotto finale. Ed è un visual che, da una parte ricalca le tematiche (sessualità, [post]femminismo, maternità, amore) dell'album, dall'altra riproduce la coralità del 2.0 con giochi di neon, immagini straniate e stranianti o semplici virtuosismi dei corpi. Proprio il capitolo sulla sessualità e sul corpo svolge un ruolo essenziale nel disco. Beyoncé, fin dai tempi delle Destiny's Child, è stata marchiata come "animale sensuale", come oggetto-popstar. Non c'è (e non ci può essere) un rifiuto di questo, ma solo una presa di coscienza esplicita nell'avere confidenza con il proprio essere. E lo si evince dalle registrazioni dei concorsi canori (con le sconfitte e le vittorie) che spuntano qua e là come samples nel disco. Il messaggio dell'album, come dice lei stessa, è trovare la bellezza nell'imperfezione. Non si può sempre vincere nella vita, anche quando si è creati per questo, anche quando si è una "figlia del destino", è la morale di Pretty Hurts e degli altri tredici brani. Diverse tracce riassumono quanto già veniva fuori con 4 e Rund The World (Girls) in particolare: quel Superpower femminile (o femminista o post femminista) con un tocco di Spice Girls (sul piano pop) e di post-Sessantotto (sul piano intellettuale). Non è un caso che la scrittrice nigeriana femminista Chimamanda Ngozi Adichie abbia deciso di prestare la sua voce a ***Flawless, un brano forte, che richiama qualcosa dello Yeezus di K West, con un lungo monologo della Ngozi sulle aspettative e gli obiettivi che deve perseguire il genere femminile nella società mascolinizzata. O ancora: il trap wave in stile M.I.A./RnB di concepimento Justin Timberlake di Yoncé/Partition, che si conclude con il monologo "Feminists Love Sex" in francese di Julianne Moore nel Grande Lebowski. Non è vero che le femministe odiano il sesso, anzi: that's the message. Lo stesso alla base di Rocket, che racconta "il sesso secondo Beyoncé" su una base RnB molto classica, che non nasconde la zampata di JT. Ci sarebbero da citare ancora i destini trip-hop (quasi alla Burial) di Haunted, il disco funk di Blow (concepito a tavolino dal buon Pharrell), la vapor wave del classico duetto moglie sexy – marito consenziente di Drunk In Love, il Rap'n'B impreziosito dalle incursioni di Frank Ocean di Superpower, le (quasi)ballate (ma nulla a che vedere con Halo!) No Angel e soprattutto Heaven, ma anche facendolo non si renderebbe appieno l'equilibrio magico alla base di questo lavoro trasversale, vera summa artistica dell'artista di origini texane. Complice la capacità di fare incontrare la fruibilità del pop con un certo gusto ragionato, mirato, soppesato, Beyoncé ha azzeccato la carta vincente. La consapevolezza e la maturità materna le hanno fatto forse il miglior regalo, come quello di una Blue (accreditata a Blue Ivy) che chiude il disco con la voce della piccola che prova ad imitare la madre: "Hold on to me", dice. E non può che farci sorridere. 7.6/10


Genere: avant, industrial, vecesola Se l'espressione "canto tradizionale sardo" vi fa venire in mente i Tenores de Bitti, diciamo che siete vicini ma nello stesso tempo lontanissimi dalle atmosfere create in Nhuk dalla cantante sarda Dalila Kayros. Vicini perché c'è dietro la stessa, forte e marcata impronta di ricerca quasi antropologica in una tradizione che ha fatto della sfera vocale uno dei suoi punti forti; dall'altro, però, l'approccio alla materia musicale della Kayros è molto più affine a dimensioni da area grigia o a sperimentazioni d'area avant, che a panorami che definiremmo "popolari" o patinatamente "world". Per dare una idea, potremmo definire la Kayros un incrocio tra Diamanda Galàs e ?Alos, se non fosse che alla lista dei riferimenti dovremmo aggiungere altre stelle del mattino del calibro di Meira Asher e Patrizia Oliva aka Madame P. L'impegnativo quadrilatero, però, non intimorisce affatto questa sperimentatrice/chanteuse dai lunghi capelli corvini: armata di poco o nulla – qualche ammennicolo elettronico, il supporto di Antonio Zitarelli (Neo, Mombu) in sede di composizione e per qualche percussione tradizionale, e quello di Gianluca Becuzzi al mastering –, la Kayros gioca sullo stesso piano dell'esoterismo iconoclasta Galàsiano e della (semi)demonica e altamente poetica visionarietà di ?Alos, con una padronanza della voce che è un perfetto mix di impostazione accademica e ferina autoricerca e un utilizzo dell'elettronica sofferente e viscerale come non lo sentivamo da Spears Into Hooks della Asher. Vocalizzi d'estrazione colta e gorgoglii elettronici, materico industrial alla primi Einstürzende Neubauten e atmosfere haunted, lente e sinuose ambientazioni notturne (come nel capolavoro sospeso Hacab) sono il terreno – fangoso e ostile – prediletto dalla sarda. Ma è un pezzo come Strix ad essere emblematico dell'onnicomprensivo sistema di valori di Nuhk: convulsioni elettroniche in bassa battuta come un trip-hop ferino e post-atomico e selvaggi vocalizzi da posseduta che si mischiano a fraseggi vocali da "suonare la voce", tensione sempre sul punto di esplodere, assalti industrial-dance da posseduta e sciamaniche presenze assiepate in una voce sola che sgretola e riassembla la lingua sarda. Sì, perché è il lavorio sulla voce e sul linguaggio attuato dalla Kayros a segnarne l'originalità e a dimostrare quanto forte sia il legame con quella terra antica inscenato da artisti quali il giro Trasponsonic, MSMiroslaw e dalla qui presente Dalila Kayros. Ultima solo in ordine di tempo e autrice, se non si fosse capito, di uno dei dischi più belli, intensi, sofferti, profondi e ricercati di questo 2013. 7.8/10 Stefano Pifferi

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Dalila Kayros - Nuhk (Den Records,2013)


legante tocco e la sensibilità visionaria del suo autore. Come una colonna sonora per l'ultimo uomo sulla terra, il Requiem del soldato Saloman è musica "for modern decay and melancholy". 7/10 Stefano Pifferi

Genere: rock L'unica cosa che dispiace è che quasi tutti, fra tg, quotidiani e riviste patinate che in questi giorni stanno dedicando inchiostro ai Giuda, lo facciano incuriositi dal legame con il calcio, che pure c'è e costituisce uno degli elementi fondanti del loro suggestivo immaginario, ma che non dovrebbe prevalere sulla qualità della musica. Calcio e musica: una follia tutta britannica che noi Italiani, portati piuttosto a buttarla in politica, non capiremo mai. Eppure i cori delle curve e quelli del lad rock, fanno parte della solita festa, e quella di Let's Do It Again è la più grande festa rock'n'roll che si sia celebrata nel nostro stivale. Una cosa che, per tutti quelli che hanno sempre patito la seriosità del rock italico o la sfigatissima ironia autoreferenziale dell'indie nostrano, è davvero una boccata d'aria fresca. E allora ben vengano i gargantueschi cori alla Slade di Yellow Dash e lo sculettamento bolaniano di Hold Me Tight. Ben vengano i riferimenti ad un'epoca e a band per cui il rock'n'roll era la cosa più importante e meno seria del mondo. Soprattutto ben venga questa solidissima raccolta di brani chiassosi e adrenalinici, che supera persino il fantastico esordio. Perché è vero che i Giuda hanno azzeccato la formula e hanno affinato la mimesi con le band glam e power pop dei 70s (gente come Jet, Hector, Jook e altri nomi che non troverete in nessuna guida ufficiale del pop), ma è anche

Diego Ballani

Jordi Savall - Esprit des Balkans (Alia Vox,2013) Genere: world_etnica, classica, folk Cogliere uno spirito variegato come quello che caratterizza una tradizione musicale polimorfa come quella balcanica, può sembrare un'impresa impossibile. Ma se a provarci è un gigante dello scavo nella musica tradizionale e antica come Jordi Savall, il progetto appare un po' meno irrealistico. Come oramai gli capita da trent'anni, il Nostro si avvale degli Hespèrion XXI, cui però manca il carisma e il talento della moglie Montserrat Figueras, scomparsa nel 2011. L'assenza di canto per tutte le 19 tracce che compongono il CD è quasi un silenzioso omaggio alla musa scomparsa, mentre di esplicito c'è l'elegia per viola da gamba composta dallo stesso Savall e posta in chiusura del programma: è dedicata a una ragazza di un villaggio che se n'è andata e non è più tornata. Tra danze, lamenti tzigani, musiche per i giorni di festa, Jordi Savall e il gruppo multietnico di

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Giuda - Let's Do It Again (Damaged Goods,2013)

vero che il tutto si risolverebbe in una baracconata se non ci fosse la giusta convinzione e una prepotente predisposizione all'anthem, quello che ti fa cantare a squarciagola e ti fa camminare a un metro da terra. Non tutti ne sono capaci. Let's Do It Again, ne è pieno. A partire da quell'efficacissima scheggia proto punk di Wild Tiger Woman, per continuare con la galoppata boogie di Rave On, fino a quella Get On The Line giocata tutta di pancia su un riff fenomenale. Appena dieci brani, che meriterebbero una citazione a parte per come vellicano i nostri istinti più puerili e la nostra voglia di lasciarci intrattenere. I Giuda lo hanno fatto ancora e mai come in questo caso il loro è un bel gioco che si vorrebbe durasse per sempre. 7.4/10

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Genere: folk Giunto all'undicesimo album in diciassette anni di carriera, Damien Jurado è ormai diventato una garanzia all'interno del panorama alt-folk statunitense. Brothers And Sisters Of The Eternal Son, dunque, lo aspettavano in molti: un disco chiamato a confermare i risultati dell'ottimo Maraqopa uscito due anni fa e in grado di approfondire ulteriormente il cammino fin qui percorso dal musicista, nonché di rinnovare una credibilità oltre i modelli di culto Nick Drake ed Elliott Smith. Se Maraqopa ha infatti rappresentato il disco della definitiva consacrazione – avendo avuto l'onore e l'onere di elevare il songwriter di Seattle all'altezza dei grandi nomi della scena -, stavolta la sfida era non soltanto non deludere le attese, ma anche consolidare il proprio status al di sopra della sterminata quantità di produzioni che da sempre affolla il cantautorato a stelle e strisce. Una sfida per nulla semplice e che Jurado ha deciso di affrontare a modo suo, scrivendo un album che rappresenta il continuum del viaggio cominciato con Maraqopa: proseguendo lungo i binari del medesimo concept, Brothers And Sisters Of The Eternal Son racconta "il sogno di un uomo che decide di scomparire e poi cerca di trovare di nuovo se stesso" rappresentato forse dalla cupola/ isola che campeggia in copertina, meta e destinazione di un itinerario intrapreso nuovamente con l'amico e collaboratore di lunga data, Richard Swift. A cominciare dall'apertura psych/blues di Magic Number, appare chiaro che i sentieri battuti sono ancora quelli di un folk contaminato da più generi, in cui l'anima acustica convive con gli spasmi del blues così come con l'onirica visionarietà della psichedelia sixties, spaziando inoltre tra jazz, soul e rock. Brani irrequieti, sempre diversi tra loro, come ben mostrano le percussioni leggere di Silver Timothy, pezzo che si tinge della polvere crepuscolare del Laurel Canyon diventando un sigillo perfetto di quel mood hobo presente tutto il disco. La stessa essenza di viaggio esemplificata da Return To Maraqopa e Metallic Cloud, brani che sintetizzano l'anima di Brothers And Sisters Of The Eternal Son: l'incedere solenne della prima a contrappunto della quiete acustica della seconda, come a voler dimostrare che il songwriting di Jurado è in fondo un crocevia tra folk e psichedelia, l'arcana dolcezza dell'uno e il gioco di echi e riverberi dell'altra. Gli stessi elementi che ritroviamo nelle code elettrificate di Silver Donna e Silver Malcom, un mix dilatato e imprevedibile che annuncia la chiusa del disco, affidata all'allegra marcetta beatlesiana di Suns In Our Mind. Un brano quest'ultimo che sottolinea una scrittura autentica e trasversale in bilico tra passato e futuro. Un ritorno tra i più interessanti dell'anno appena cominciato, che ci mostra un Damien Jurado in ottima forma eletto finalmente tra i grandi del folk contemporaneo. 7.4/10 Giulia Antelli

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Damien Jurado - Brothers and Sisters of the Eternal Son (Secretly Canadian,2014)


Marco Boscolo

I Break Horses - Chiaroscuro (Bella Union,2014) Genere: pop, dream "My only aim when starting to write this al-

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bum was to ignore any possible second album expectations": così Maria Lindén ha presentato il nuovo lavoro targato I Break Horses. A parole, ma anche nei fatti, la svedese sembra infatti avere abbracciato un nuovo approccio alla scrittura (le composizioni di Chiaroscuro sono nate infatti quasi tutte al pianoforte) che si discosta da quello del precedente e discontinuo Hearts, ancora legato agli stilemi gaze, benché raffreddati dai winter beats di stampo scandinavo. Una svolta sci-fi epica evidente fin dalla traccia di apertura, You Burn, dove i layer di synth (Vangelis non è troppo distante) introducono l'etereo timbro della Lindén, mai così limpido e definito. Sulle stesse coordinate anche l'apoteosi synthoramica di Ascension e i sette minuti di Medicine Brush, evocativo punto di incontro cinematico tra John Carpenter e uno 007 ambientato tra i ghiacci. L'estremizzazione di questo mix tra ultimo M83 e School of Seven Bells rallentati, è il viaggio interstellare in slow-motion della conclusiva Heart to Know. Chiaroscuro (chiamato così in quanto contiene sia i brani più tristi, sia i brani più spensierati mai usciti dalla penna di Maria) è principalmente incentrato sulla catarsi synth-centrica dei brani appena citati, ma non disdegna i passaggi meno ambientali e maggiormente upbeat di Faith, secondo singolo estratto dall'album. Denial, il primo singolo, è invece l'unico punto di sintesi e centralità pop dell'intero lavoro (Disclosure lo è solo in parte): se l'obiettivo è quello di muoversi a metà strada tra le regole della pop music e le imponenti aperture elettroniche, quello che ancora manca è un istinto melodico che sappia trasformare la maestosità del reparto strumentale in piccoli classici dei nostri giorni da tramandare ai posteri. Maria Lindén e Fredrik Balck si confermano quindi solidi manipolatori di atmosfere, nonostante la classica quadratura del cerchio si

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musicisti che lo accompagna hanno ricostruito una geografia dei Balcani che va oltre l'idea comune che ne abbiamo. Ricorda infatti lo stesso Savall, nel corposo libretto che accompagna il CD (e che è tradotto in 13 lingue), che quest'area dell'Europa potrebbe ragionevolmente essere una delle culle culturali del continente: troppo spesso dimenticata e troppo spesso martoriata dalla violenza. Ecco allora fare capolino, tra tradizioni sefardite, rumene, serbe, croate, bulgare, rom e macedoni, anche quella greca, quella turca e quella curda. Con una sua idea tipica, Savall suggerisce che i confini delle musiche non coincidono con quelli delle nazioni, per cui due popoli che oggi si guardano in cagnesco, come quello greco e quello turco (per un certo periodo anche accumunati dalla dominazione ottomana), in realtà condividono tradizioni musicali con radici più profonde delle guerre e delle divisioni. Se vi avvicinate a questo disco con nelle orecchie quella musica (presunta) balcanica che sta diventando quasi un tormentone parodistico, vi troverete spiazzati. Non che manchino gli uptempo per ballare o i ritmi in levare, tutt'altro. Ma accanto a una perizia musicale superba, troverete anche il gusto intellettuale per la filologia musicale, la passione per sfumature più variegate dello spettro musicale, la capacità non comune di intravvedere fili rossi tra brani scritti a secoli di distanza, il rispetto per trasformazioni storico-culturali lunghe millenni. Non è pret-a-porter, ma è tra le proposte più vitali che si possano incontrare nel solco delle tradizioni. 7.9/10


debba ancora concretizzare. Ciò non toglie che le novità introdotte in Chiaroscuro siano dotate di un grande fascino che rievoca i panorami fantascientifici osservabili digitando su Google Immagini "ice planet wallpaper". 6.9/10 Riccardo Zagaglia

Genere: prog, art, avant In L'enfant Et Le Ménure c'è molta della sperimentazione che piaceva agli Area, comprese certe coloriture mediorientali (ad esempio, La torre più alta); ci sono cover trasfigurate (tra cui Venus in Furs dei Velvet Underground, Song To The Siren di Tim Buckley, Warszawa di Eno/Bowie); ci sono testi tratti da opere di Federico Garcia Lorca e dai sottotitoli in italiano di Twin Peaks; ci sono il progressive, la musica sacra, la lirica, ma anche cadenze ambientali piuttosto contemporanee (Medina); c'è l'abbondanza spropositata garantita da 18 tracce articolate e distribuite in due CD; c'è un sfilza di collaboratori – per l'esattezza sessantadue – che comprende Pat Mastellotto, Paolo Tofani, Elliott Sharp, Ivan Cattaneo, Dieter Moebius e Trey Gunn. Più che un disco, insomma, un bazar, o per meglio dire una sorta di opera contemporanea che sembra quasi volersi spingere oltre la musica, col suo essere "un concept audio-libro sull'infanzia e il potere dell'immaginazione". Tanto che alcuni brani dell'album sono finiti a far da colonna sonora per progetti legati alla Biennale di Venezia nel 2011 e alla Exhibition Of Contemporary Art di Mosca nel 2005. Tutto questo è materia degli InSonar, al secolo Claudio Milano (studioso preparato e virtuoso della voce in fissa con Demetrio Stratos, oltre che cantante nei Liir Bu Fer e, a tempo perso, collaboratore di Ondarock) e Marco Trup-

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Fabrizio Zampighi

Michael Yonkers - Borders of My Mind (Drag City,2013) Genere: rock, psych Michael Yonkers, classe 1947 da Minneapolis, è balzato agli onori delle cronache musicali nel 2003, quando Sup Pop Records rimise in circolazione il suo capolavoro psych-rock Microminiature Love datato originariamente 1969. Il disco, che per trent'anni ha girato solo in copie carbonare, complice una Sire Records un po' distratta, fece tornare a parlare di uno sperimentatore della sei corde dallo sguardo sghembo, che crebbe con un'idea di musica molto vicina a quella delle Mothers of Inventions. Di tutto questo, tranne qualche atmosfera psichedelica, non c'è traccia nei brani di questo Borders of My Mind accreditato 1974. In realtà, il disco è stato registrato in casa qualche anno prima, almeno prima di quell'infame 1971

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InSonar - L'Enfant et le Ménure (Lizard,2013)

po, duo capace di dar vita a un'opera tutta da interpretare. Scendere nel dettaglio di un tale maelström di stimoli sarebbe davvero arduo: ci limitiamo a constatare una maggiore propensione per l'anima progressiva (ma prendete la definizione con le molle, perché dentro c'è davvero di tutto, compresa una ricchezza strumentale ubriacante) nel CD intitolato L'enfant e suoni più legati ad atmosfere sospese/ambientali in Ashima. Nonostante l'ottimo livello di tutto il lavoro, le nostre preferenze vanno al secondo disco, meno "frammentario" e forse più opera a sé stante. Appurato comunque che per una volta, progressive significa davvero mettersi in gioco, senza accasciarsi su richiami stilistici metabolizzati e francamente fuori dal tempo. Ambizione, ricerca e ricchezza di dettagli fanno il resto, consegnando ai posteri un disco senza compromessi, free, ma al tempo stesso sorprendente. 7.1/10


Genere: psych, prog, hypnagogic, elettronica Come molti altri generi, la New Age, dopo il boom degli anni '80/'90, è caduta nel dimenticatoio o nella nicchia per fan e accoliti. Oggi la tag è associata di solito ad una musica trompe l'oreille da usare nelle sedute di massaggio, durante le meditazioni di yoga o nei centri benessere. Ma che cos'è stata veramente, prima di diventare commerciale/industriale (vedi alla voce Enya, Kitaro o ultima Windham Hill)? Questa compilation cerca di rispondere alla difficilissima domanda con una scelta di brani di artisti americani che hanno contribuito a creare la sensibilità verso musiche al di là della psichedelia anni '70, utilizzando il suono come mezzo per stabilire contatti con divinità oscure o entrare in stati di trance, senza inutili slogan propagandistici. Qui si punta sulla qualità e bisogna dire che l'obiettivo è raggiunto in pieno. Il tutto, poi, è ancora più interessante, perché il materiale non è mai stato stampato da nessuna major. I pezzi di questa compilation sono stati scovati infatti tra centinaia di nastri, compact disc, o altre uscite interamente autoprodotte e circolate con modalità non mainstream. Fra i mostri sacri segnaliamo Laraaji (scoperto da Brian Eno per la famosa serie Ambient, suo il terzo volume Days Of Radiance a fianco del primo e più noto Music for Airports), Daniel Emmanuel (icona di una pletora di musicisti drone ambient noise contemporanei), un pezzo di Gail Laughton (Pompeii 76 A.D.) utilizzato nella colonna sonora di Blade Runner, Iasos e Steven Halpern. I suoni vanno dalla ricerca più sperimentale, all'ambient meditativa e con la faccia rivolta ad oriente, passando per classici field recordings con suoni naturali e contemplativi, immergendosi in chitarre con wah wah cosmici o in echi subliminali. Il fatto che una raccolta del genere esca proprio nel 2013 non è un caso. Negli ultimi anni sono infatti spuntati come funghi musicisti che dalla New Age hanno attinto a piene mani, vedi Daniel Lopatin (aka Oneohtrix Point Never), James Ferraro, Ariel Pink, tutta la scena vaporwave e molti altri. Questi over 35 hanno utilizzato i suoni degli anni '80 (quello che forse ascoltavano i loro genitori) per parlare di un passato cristallizzato, utilizzandolo per ricoprire la loro proposta di una patina di polvere postmoderna, che tra le altre cose ha dato origine a tutto il movimento glo-fi. Il ritorno della New Age professato in questo triplo vinile non è (solo) nostalgia. L'operazione serve a fare il punto su un falso mito, che ha relegato il genere al rango di pura musica d'arredamento. Grazie alla playlist certosina dell'etichetta di Seattle scopriamo invece che il genere esiste ben da prima degli anni '80, e che anch'esso ha proliferato nel sottobosco più deep e underground, come la techno, l'indie rock e altri generi poi tramutatisi in pop. Un documento strepitoso, per riscoprire artisti e luoghi della mente da troppo tempo nell'oblio. Fra le più belle compilation dell'anno. 8.5/10

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Laraaji - I Am The Center: Private Issue New Age In America, 1950-1990 (Light In The Attic Records,2013)

Marco Braggion

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Genere: avant, elettroacustica, post-rock, ambient Dapprima Like Little Garrison Besieged, in formula a tre, che dispiegava l'armamentario e cominciava a porre i paletti nel recinto sonoro del gruppo; poi una intensa attività live che ha rodato l'impostazione libera delle composizioni dei Luminance Ratio, allargando con l'ingresso di Sigurtà e Mauri le potenzialità e gli orizzonti sonori della formazione; infine il riconoscimento internazionale e di alta caratura, in particolare nei due split 7" condivisi, il primo con Steve Roden, e il secondo – uscito da qualche mese – con Oren Ambarchi. Luogo di confronto ad armi pari, il secondo volume della Seven Inch Series, con l'australiano che sorprendeva grazie a un droning sospeso di chitarra sommato a evocativi corrispettivi vocali – con un Curfew che diventa una sorta di rituale pagano – e i Nostri a tenere egregiamente il confronto dimostrando di aver gettato le basi per una psichedelia (tra)sognante e sfuggente a base di free-form folk e suoni sgocciolanti. Ora i tempi sono maturi per l'album nuovo, Reverie, che è un incredibile balzo in avanti rispetto al percorso di crescita segnalato sopra. Un lavoro che tiene fede al titolo scelto, per quelle dinamiche oniriche che sembrano trainarlo ora affogate in masse di rumore, ora posizionate in quiete lande di panorami quasi statici: l'intro affidata a Before The Dawn e al suo carillon di suoni e frequenze "sfasate" rivendica sommessamente ma in maniera ferma il patto con l'ascoltatore: abbandonare ogni remora della coscienza lasciandosi guidare dal flusso sonoro, così da entrare nell'alveo di un disco che è onirico fino al midollo. Un territorio di confine tra coscienza e incoscienza a cui corrisponde una trasposizione sonora borderline che sfiora i generi sperimentali più trafficati degli ultimi decenni – il post-rock in ogni sua salsa, la psichedelia più avant, i generi di confine come ambient, noise ed elettroacustica – senza mai farsi tentare in maniera troppo netta dall'uno o dall'altro e rimanendo sospeso in un non-luogo sonoro sfumato, sfuggente ma riuscito. Specie se si considera la capacità dei quattro di sintetizzare quella sensazione di "reverie" apertamente ricercata in tutto il lavoro. Improvvisati panorami jazz, deliqui estatici, frattali sonori avant-classical, tetra soundtrack music, elettroacustica, polverosa e notturna sono le infinite forme con cui i Luminance Ratio riescono a trasformare e far vibrare una atmosfera sospesa ed eterea. Inutile dire che Reverie è uno dei migliori tre album prodotti in Italia in questo 2013. 7.8/10 Stefano Pifferi

che registrò l'incidente che spezzò la schiena a Yonkers. La registrazione sembra più una semplice documentazione di un pomeriggio di cazzeggio con Jim Woehrle (cui sono accreditati praticamente tutti i brani), compagno di vecchia data

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di Yonkers e amico con il quale il Nostro ha condiviso gli esordi musicali pre-Microminiature Love. Il mood generale è quello di un folk poco meno che tradizionale, con ampi riferimenti anche a Johnny Cash, a David Crosby e al Neil Young West Coast. Molti i riempitivi

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Luminance Ratio - Reverie (Bocian,2013)


e i brandelli di risate che testimoniano il divertimento dei due, ma ciò non impedisce a qualche gemma che lascia intendere il talento di Yonkers e Woehrle, di emergere: i due minuti di Placed Called Home sono un compendio dell'estetica musicale di Woody Guthrie e del folk prewar, la titletrack è intrisa di una levità contagiosa che fa venire in mente la slackness di marca 90s, intenso il lirismo degli otto minuti e rotti di Lovely Lady Companion. Non il disco ideale per iniziare l'esplorazione del mondo musicale di Yonkers, ma sicuramente un documento prezioso di una stagione creativa fervente che solo il destino ha fatto naufragare nell'oblio. 6.4/10

John Newman - Tribute (Universal,2013) Genere: pop, mainstream, soul Ha ventitré anni e una voce poderosa, graffiante, da vero soulman d'altri tempi: John Newman è un ragazzone di Settle, North Yorkshire, alto circa due metri, che si è imposto all'attenzione del grande pubblico grazie a due collaborazioni con i Rudimental (Feel The Love, che ha raggiunto il primo posto in patria, e Not Giving In, con la partecipazione di Alex Clare) e con uno dei singoli più irresistibili dell'intero 2013, Love Me Again, che per un attimo ha fatto immaginare ai non più giovanissimi che cosa potrebbe accadere se i Fine Young Cannibals si decidessero a tornare in studio portandosi dietro Mark Ronson. Un successo, quello dell'esordiente inglese, tutt'altro che scontato vista la nutrita e agguerrita concorrenza di conterranei con il soul nell'anima: la lista di competitor è lunga, e va da Joss Stone a Rebecca Ferguson, fino a Maverick Sabre, senza dimenticare per strada il rapper Plan B. Newman, insieme a Steve Booker (vincitore

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Marco Boscolo

di un Ivor Novello Award per aver composto Mercy di Duffy), Mike Spencer (produttore di hit come Spinning Around di Kylie Minogue e Runaway dei Jamiroquai, nonché co-autore di Heaven di Emeli Sandé) e Ant Whiting (M.I.A.) ha scelto di puntare tutto su canzoni accattivanti, spesso con un notevole potenziale anthemico, che al tempo stesso suonano moderne e impregnate delle più nobili influenze Motown e northern soul. Si gioca a carte scoperte sin dall'introduzione della title-track, che però oltre ad Ike e Tina Turner e Gloria Jones, non dimentica Elvis Presley e i Kings of Leon, a dimostrazione della varietà degli ascolti del cantante. Tribute, come il "precedente illustre" 21 di Adele, è un disco che parla di sentimenti e nasce dall'esigenza di raccontare in musica la fine di una storia d'amore. Eppure non c'è spazio per l'autocommiserazione, e c'è un solo episodio che potremmo definire intimista (Out of My Head, l'unico che si accosta senza forzature allo stile dell'interprete di Someone Like You e Chasing Pavements), mentre il resto del lavoro esorcizza l'amarezza e il malessere mettendolo al servizio del ritmo e delle melodie, con sezioni di fiati, percussioni, cori, archi e vivaci arpeggi pianistici. Sarebbe fuorviante schedare Newman come un artista retrò che si rivolge agli orfani di Amy Winehouse - sebbene sia facile pensarlo, all'inizio -, perché è molto di più: non c'è solo la nostalgia per il rhythm 'n blues di Otis Redding e dei Temptations nelle undici canzoni del lavoro (che diventano quattordici nella consigliata edizione deluxe), ma anche quelle felici commistioni tra musica disco e piano house che tanta fortuna portarono vent'anni fa agli M People (non risulta difficile immaginare proprio la grintosa Heather Small alle prese con Try). Se i primi Simply Red o i FYC di Roland Gift puntavano sul delicato connubio tra il recupero del soul e del

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Genere: avant Il comeback made in Northern Spy di Rhys Chatham, 61enne prime mover delle scena no-wave newyorchese e compositore sempre pronto a sperimentare e a sorprendere, arriva dopo l'ottimo Outdoor Spell e racchiude tre composizioni inedite elaborate dall'americano in e per situazioni differenti. In primis la title track, mastodontico pezzo che dà il titolo all'album: 22 minuti di una composizione per 6 chitarre più basso e batteria presentata per la prima volta al Palais de Tokyo a Parigi e che rappresenta un ritorno alle origini dopo le composizioni per ensemble ampi se non ampissimi. Lo stesso Chatham ricorda, nelle esaustive e precisissime note all'album, di essere ritornato al suo ensemble elettrico per la prima volta da Die Donnergötter del 1987. In soldoni, un estatico crescendo di stratificazioni chitarristiche dalle minime variazioni ma dall'impatto mobile e mai scontato, come nel break che a metà pezzo parte "funkettone" e declina le stesse reiterazioni su panorami in apparenza nuovi. A seguire, l'altro mastodonte Harmonie De Pontalier: The Dream Of Rhonabwy. Altrettanti minuti della title track ma atmosfere e dinamiche completamente diverse, dato che si tratta della colonna sonora per un documentario in cui un ensemble francese composto da 70 musicisti – prevalentemente fiati e percussioni – apprende e realizza una piece di musica contemporanea: proprio quella commissionata a Chatham dal regista del documentario Blaise Harrison e creata pensando alla saga arturiana (il sogno del cavaliere Rhonabwy, appunto). Una ferale marcia anch'essa in crescendo che si fa via via festiva e sensuale, rituale ed epica, con inserti e rimandi all'immaginario filmico di un Kubrick neo-classico, slanci mediorientaleggianti, alternanze pieno/vuoto e impeto massi-minimalista. A concludere, Drastic Classicism Revisited, ritorno al passato no-wave. Il pezzo fu originariamente composto nel 1981-82, con una incursione tutto stomaco e nervi per n chitarre (appannaggio di David Daniell), altrettante trombe (a carico di Chatham) e la batteria di Ryan Sawyer. Un assalto all'arma bianca tra accenti no-wave, reiterazioni cicliche e brutalità noise-rock come non se ne sentono spesso. Lavoro da podio di fine anno, indubbiamente. 7.7/10 Stefano Pifferi

blues e precisi messaggi politici (She'll Have To Go dei primi, Blue dei secondi), qui si sceglie di non giocare la carta del commento sociale e di farsi forza unicamente su materiale autografo, piuttosto che cercare il colpaccio con la cover indovinata. John Newman dimostra di possedere il pas-

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separtout per entrare nel cuore del teenager, così come del trentenne-quarantenne, specie in episodi appassionati come Easy e Running (con sonorità non troppo dissimili da quelle sfoggiate in Daddy della Sandé e di Naughty Boy); Eg White non è della partita, eppure c'è il suo marchio di fabbrica nel singolo Cheating

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Rhys Chatham - Harmonie du Soir (Northern Spy Records,2013)


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Alessandro Liccardo

Jules Not Jude - The Miracle Foundation (Urtovox,2013) Genere: indie Tre anni d'attesa dopo un disco di debutto sono insoliti, in un mondo frenetico del pop (mainstream, indie o alternative che sia) abituato a battere il ferro finché è caldo e attento a non spiazzare troppo, a mantenersi coerente al punto tale da produrre copie carbone sbiadite. Complici un'intensa attività live in Italia e all'estero e cambi di line-up, i bresciani Jules Not Jude hanno piacevolmente spiazzato la platea ripresentandosi con una scrittura leggera ma non impalpabile, e soprattutto ricca di sfumature nuove. I due EP usciti tra il debutto e questo The Miracle Foundation (titolo preso in prestito da un'associazione americana che si occupa di orfani in India), vale a dire Wonderful Mr. Fox e Tuesday?, già facevano immaginare una virata verso uno stile meno succube

dell'amore per le atmosfere beatlesiane e che guardasse anche al rock e agli Stati Uniti, quelli di ieri ma anche quelli di oggi – in particolare Local Natives e Grizzly Bear. Prodotto da Pierluigi Ballarin (The R's) e masterizzato da Jon Astley (ingegnere del suono di fiducia di Tori Amos e di Pete Townshend), il disco contiene otto canzoni, come molti 33 giri degli anni '60 e '70, scritte da tutti i membri della band (ovvero Simone Buffoli, vocalist e polistrumentista, la new entry Andrea Buffoli che prende il posto di Mirza Sahman alle chitarre e la sezione ritmica di Mauro Parolini e Daniel Pasotti), che hanno come filo conduttore il disagio, l'abbandono e che trasmettono, al tempo stesso, una positiva voglia di cambiamento. Ottimo il lavoro dei quattro, musicisti questi ultimi forti di background musicali molto diversi che si amalgamano con successo; il singolo apripista Perfect Pop Song parte subito con una melodia fresca, che getta il cuore oltre l'ostacolo e abbraccia coscientemente sonorità internazionali (Simone dimostra di aver studiato sui testi giusti e sfoggia una pronuncia inglese molto sopra la media). Si sente l'impronta di Enzo Moretto degli A Toys Orchestra – compagni di scuderia (Urtovox) – in Raise The Hood, mentre altrove fanno capolino tentazioni psichedeliche (Hazel), divertissement degni dei Blur più kinksiani (Waiting For A Lover When Your Lover Is Another) e guizzi bowiani (ci sono echi, pur non smaccati, di The Man Who Sold The World nella highlight Martha). La strada per raggiungere questo punto sarà pur stata lunga, ma il risultato è di certo appagante: bravi i Jules Not Jude, brava e audace la Urtovox (casa anche di Beatrice Antolini, Cesare Basile e Alessandro Fiori) a guardare oltre i confini senza complessi d'inferiorità. 6.6/10

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e in Gold Dust, brano che non sfigurerebbe nel repertorio di Tiziano Ferro (che sia possibile un duetto bilingue tra i due?). Ascoltando con attenzione, ci si accorge persino di un accenno leggero di No Son Of Mine dei Genesis nel coro di Goodnight Goodbye, altro gioiello scintillante della collezione. Eppure non c'è confusione, nulla è messo a casaccio in scaletta: il disco è omogeneo, solido, un vero tour de force privo di veri e propri riempitivi, che non si regge sulla forza di sole due o tre canzoni come troppo spesso accade nel mondo del pop. Debutto che convince e conquista, pur non inventando nulla di nuovo, Tribute è il frutto di un team che, con intelligenza, neppure si accontenta di seguire alla lettera le stanche indicazioni del "manuale della hit perfetta". Sorprende di rado, ma quando ci riesce lascia il segno. Non resta che imparare ad amarlo. 7/10

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Genere: punk Fuori dai Paesi di lingua anglofona, certi sottogeneri non hanno attecchito come sperato dai loro presunti alfieri. L'Italia, si sa, nei seventies fu terra fertile di ghirigori progressive, complice l'amore insito in barocchismi e complicazioni della nostra tradizione europea Classica e, di riflesso, popolare. Col punk si trattava di esprimere molto con poco. E in pochi appunto, a conti fatti, riuscirono nell'intento. Quando negli States e in Gran Bretagna svastiche e sputi battevano cassa, da noi si viveva l'apogeo della prog-mania. Giocoforza, raggiunti al traguardo del punk alla fine del decennio, i musicisti del Bel Paese ne imbastirono una versione già stilizzata dai primi venti della new-wave. Il punk italiano zoppiccò a partire dai suoi primi passi, appesantito dalla smania di denunciare una società corrotta, genitori bastardi, ragazze troppo facili e metropoli invivibili. Una serie di luoghi comuni insomma che, riletti a trent'anni di distanza, incutono un misto di tenerezza e vergogna come ne provavano i primi rocker ascoltando "dinosauri" della musica leggera quali Orietta Berti o Claudio Villa. Approcciarsi al full length dei Kaos Rock è più che altro un'occasione per riconoscere una volta in più la lungimiranza della Cramps; l'etichetta milanese infatti, dopo essere divenuta il primo esempio davvero indipendente in Italia e aver forgiato alcune delle più preziose espressioni di prog e jazz rock tricolore, tentò pure di affrontare l'incognita punk, con risultati evidentemente inferiori ai precedenti. In questo W.W. 3, testi e musiche di Gianni Muciaccia (per intenderci, l'attuale regista di Tv Moda, programma condotto dalla compagna, l'ex-Kandeggina Gang Jo Squillo), più che dipingere le scene di un ipotetico terzo conflitto mondiale, sono l'esempio evidente di

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un'estetica che mal si adatta alla nostra lingua, naufragando dopo pochi minuti in un oceano di manierismi. Il guaio è che cantando versi come "Keccha maledetta!", "Solo smog da gustare con il piscio del mio cane" o "Fumetti colorati sporchi di merda" il povero Cesare Pedrotti sembra l'attore mediocre di una partitura che non gli appartiene; nessun senso di urgenza nelle quattordici canzoni qui raccolte, ma un tentativo suonato con perizia (è un vantaggio?) che testimonia un periodo storico in cui la canzone italiana provò a spogliarsi di alcuni suoi orpelli, sognando una rivoluzione che non siamo mai riusciti ad attizzare. 6.4/10 Filippo Bordignon

Kozminski - Il primo giorno sulla terra (New Model Label,2013) Genere: cantautori, psych, art, wave Tenere la barra salda in mezzo alle diverse forze d'attrazione stilistiche (volendo semplificare all'estremo, tra art-wave e folk-pop) non era affare da poco, ma al netto di qualche scivolone provocato dalla smania di mettere troppa carne sul fuoco (vedi il quasi pasticcio di Roma), bisogna dire che i Kozminski se la sono cavata piuttosto bene. In questo secondo lavoro lungo che si avvale tra gli altri di Amerigo Verardi alla produzione, il quintetto milanese porta a compimento la vena assieme tesa, visionaria e cantautorale che avevamo apprezzato nell'omonimo esordio del 2009. Il baricentro espressivo sembra ubicato da qualche parte tra il pathos etereo di Riccardo Sinigallia, l'emotività scostante degli Intercity e l'estro del peraltro amato Lucio Dalla, con l'accortezza però di tradire spesso e volentieri l'imprinting italico per una potente duttilità di stampo british (tipo il Badly Drawn Boy più sofisticato). Certo, non siamo di fronte a dei fenomeni, ma

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Kaos Rock - W.W.3 (Cramps,1980)


le buone intuizioni e l'entusiasmo non mancano, tanto da riuscire a sembrare sempre più volenterosi che velleitari, concedendosi picchi di scrittura di tutto rispetto come la malinconica Elliott (dedicata ad Elliott Smith), la vibrante Aspettare il mattino o l'amniotica Granularia. Meriti di fronte ai quali spiccano e dispiacciono ancor più alcune mancanze, su tutte la discontinuità dei testi (inspiegabile la piattezza di Grande Hotel Il Castello) e la poca incisività del canto. La sensazione comunque è che possano lavorare. E crescere. 6.6/10 Stefano Solventi

Genere: elettronica, hiphop, jungledrumnbass Chi segue da vicino le traiettorie del boom bap, aveva già avvistato Lee Bannon tra le fila della Pro Era di Joey Bada$$ come producer (figura tra i nomi dietro al suo mixtape Summer Knights) e tour dj, ma a suo nome circolavano anche fumatissimi cut up album – tra la Stones Throw più drogata e l'eccentricità del primo Lesser – come Fantastic Plastic (su Plug Research, 2012), un paio di lavori su Bandcamp a bazzicare dungeon trap e smalti ambient pop (Caligula Theme Music 2.7.5, Never/Mind/ The/Darkness/Of/It) e un valido singolo con feat. di Rokamount dalle parti del Kanye più dark (Y.G.e.A). Poi succede che il producer firma per Ninja Tune (il 10 ottobre) e le sue quotazioni impennano di pari passo con una sbandierata conversione jungle. Esce un free EP Place/Crusher, in pratica una traccia unica costruita a collage da cui, oltre al sostrato hip hop, sbucano trick di produzione tipici del neo compagno d'etichetta Machinedrum (che poco prima ha sbancato con Vapor City). Niente rullanti però, niente amen break. Per quelli il Nostro si sfoga nei remix che escono a ridosso,

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Lee Bannon - Alternate/Endings (Ninja Tune,2013)

dove s'improvisa come una sorta di Special Request californiano. Remissa Bound 2 di Kanye West, brano assolutamente nelle sue corde sia per la produzione stripped down sia per i tagli sul mix; la traccia, rinominata Bound 3, diventa un playground di jungle piuttosto canonica sospesa tra lo stretch melodico del chorus dell'originale e serpendine di hi hats. Stesso trattamento spetta alla Without dell'astro nascente Sampha, voce di SBTRKT, un altro che per il 2014 ha quotazioni piuttosto alte. E dunque arriva il tempo di Alternate / Endings, lavoro lungo previsto per dicembre ma slittato (giustamente, per via delle classifiche ma anche per capitalizzare i trend) a gennaio che lo presenta nei panni di un sorprendente play maker di produzioni jungle adulte, se non proprio direttamente drum'n'bass. Bannon sembra molto a suo agio nel mescolare hip hop e jungle senza passare dalla footwork o dalla Juke, piuttosto buttando un occhio alla WordSound e masticando un immaginario che va dal Goldie di Timeless alle cose di 4 Hero circa '95, passando per la Droppin Science. Non sarà difficile trovarci un po' di 90s shit ad ampio spettro sotto lo sguardo slack che da sempre lo caratterizza, dove non mancano spezie soulfull e ambient, pop subliminare e synth wave, il tutto dominato da una vena onnivora (e fumata) alla Madlib. Quando gli elementi sono ben dosati, come in 216 (brano apripista proposto in streaming con piano griffato illbient, svolazzi di voci e un flipper felpatissimo tra 808, ambient cinematica e jungle), i risultati sono piuttosto gustosi, ma non sempre la tracklist tiene banco allo stesso modo, alternando interludi casual à la Djinji Brown e splendide cattedrali ritmiche à la Danny Breaks (quello di Volume 2 per intenderci). Di sicuro, la drillata trap infilata nella rullata jungle rappresenta uno di quei trick che sentiremo probabilmente in molte produzioni

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Genere: psych, punk, garagerock, beat E poi, quando già pensavamo di aver sentito il meglio del 2013, ecco arrivare questi cinque ragazzoni da Salerno che menano il garage per l'aia come se fosse la cosa più ovvia, persino inevitabile. Che poi sono le solite cose del garage, appunto: chitarre che sgranano la rogna, drumming ruspante, bassi slabbrati e canto in erezione. Formula risaputa, eppure quello che ti arriva non è il lezzo della nostalgia ma la botta adrenalinica di una festa a sorpresa, quella che ti sbottona i bottoni giusti e allunga il cocktail col fulmicotone. Possibile? Certo. E' il mistero più semplice che c'è: col suo avvamparsi di asprezze beat, premonizioni psichedeliche e ghigno atavico errebì, il garage è tutto quello che il rock non ha mai smesso di essere mentre andavano in scena tutti i generi e stili che gli abbiamo visto incarnare da un mezzo secolo a questa parte. Il nocciolo rovente. Il DNA esplosivo. L'alfa/omega visionario. Attenzione però: soltanto se si cala sul tavolo la giusta attitudine. Che i The Bidons, nel loro piccolo, professano senza riguardo né timori reverenziali. Ci danno dentro. Gettano il cuore oltre i provincialismi e i complessi di auto-castrazione. Con ironia e sacrosanta ferocia. Un anno dopo Granma Killer!!! sfornano questo Back To The Roost omaggiando tra un frizzo e un lazzo gli idoli The Sonics, Fuzztones e compagnia fumigante. Particolare non da poco, stavolta i pezzi sono tutti originali, dieci episodi scritti con istinto lucido e polso deciso, tutti devoti al verbo ma in ognuno un senso peculiare. Ora avverti quel piglio da sfera rugginosa che sfreccia sul piano inclinato, come nelle notevoli Hell Yeah e (Shout It Out) Burn Down!, altrove spunta un'armonica malandrina a razzolare tra radici folk-blues (nella scellerata Damn! e nella title track), capita persino di annusare particelle surf psicoattive e insidiose, come in una Grinning Feeling che riesce d'amblé a scomodare memorie Jon Spencer Blues Explosion. Soprattutto, lo senti che si divertono come teppistelli in un salotto letterario. Che si esaltano nel tentativo di farci saltare dalle sedie. Per tutto ciò, sono cosa preziosa. Teniamoli nella giusta considerazione. 7.6/10 Stefano Solventi

del 2014. Questo è uno di quei lavori che lottano ambiziosamente per stare al posto giusto nel momento giusto. Un meccanismo che ripagherà. 7.1/10 Edoardo Bridda

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Lily and Madeleine - Lily and Madeleine (Asthmatic Kitty Records,2013) Genere: pop, folk Ci si avventura ormai da anni alla ricerca del retrò-folk. I gruppi femminili, in particolare, ne hanno subito una costante fascinazione, perché il genere esalta le caratteristiche vocali delle voci di donna, un tempo relegate

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The Bidons - Back To The Roost (Area Pirata,2013)


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Germano, Okkervil River, ecc.), regge bene la baracca, pulsando languore da tutti i pori, ricreando atmosfere armoniche incredibilmente delicate e forse fin troppo fragili. Non manca nel disco il clima natalizio, a metà fra il riflessivo e l'emozionato in ballate come Sounds Like Somewhere o Spirited Away. Si gioca quasi tutto su ritmi bassi, salvo episodi significativi come Nothing But Time e I've Got Freedom, con tanto di handclapping e rimembranze gospel. Gioca a favore del gruppo la grazia di un'intonazione divina, di un gioco d'armonizzazioni ben eseguito in tutti i brani, anche in quelli più complessi stilisticamente (ma anche più belli) come Devil We Know. A voler sprecare citazioni, si potrebbero scomodare i Low in And Tonight, i Mazzy Star in You Got Out, ma è più facile – data la pulizia estrema delle tracce – inserire Lily and Madeleine in un filone melodico che affonda le radici nel songwriting di Paul Simon, Leonard Cohen o anche Lennon-McCartney. Caldamente consigliato ai brokenhearted, agli amanti dei film con Renée Zellweger, dei cup cake, delle coperte di pile con cioccolata calda annessa, il qui presente è, in fin dei conti, un buon disco di cantautorato, che, se ascoltato nella giusta situazione, può anche riuscire nell'intento di non annoiare già alla terza canzone. 6.2/10 Nino Ciglio

Mazes - Better Ghosts (Fat Cat,2013) Genere: rock, indie Mini album di appena dieci canzoni (più intro e outro) per un power (?) trio di base londinese che si dichiara proveniente dal pianeta Terra e appartenente anche ad altre formazioni attive. Il sound ruvido dei Pavement risuona, come negli album precedenti, sullo sfondo di tutte le tracce, solo che qui è macchiato da uno spe-

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tutt'al più ai falsetti di Simon and Garfunkel. Nel filone s'inseriscono band come le svedesi First Aid Kit, le inglesi The Staves o le sorelle Jurkiewicz di Indianapolis, in arte Lily and Madeleine. La loro storia è, in realtà, abbastanza interessante. Uscite precocemente dall'adolescenza, le due ragazze, da perfette very normal people, hanno cominciato a caricare video emulativi su Youtube: dai Fleet Foxes ad Adele, in un turbinio di suoni (chitarra una e pianoforte l'altra) che lasciava intuire qualcosa di grosso. A giugno 2013, poi, è arrivato il grande passo con la pubblicazione di un EP che le ha lanciate persino oltreoceano. Per due ragazze della provincia americana di soli sedici e diciotto anni, possiamo solo immaginare cosa abbia significato. Il debutto in full length, poi, diventa "album of the month" per Rough Trade UK (lo shop non l'etichetta): una consacrazione indie in tutto e per tutto. Indie, già, anche se il confine con i riflettori (che hanno accecato band non troppo distanti dal genere, come i Mumford and Sons) del mainstream è davvero molto labile. Innanzitutto perché questo tipo di sound, come detto, vive un'ondata di riflusso particolarmente intensa, pur godendo del benestare di orde di fan; poi perché le due Jurkiewicz son giovani, attraenti e hanno un sound incredibilmente facile, che spesso fa rima con banale. Lily and Madeleine è un album che mira dritto al cuore. E lo fa con dodici brani melensi, al confine con la nausea. Dodici brani in delicato fingerpicking, con un tocco di viola qua e là, una batteria appena accennata: una direzione che, se da una parte semplifica l'emotività contorta dei teen-something rendendola accattivante e decisamente fruibile, dall'altra appiattisce il risultato, generando più una monotonia (di suoni e di sentimenti) che la polifonia ricercata. Resta insindacabile, però, che la produzione, affidata a Paul Mahern (già con Iggy Pop, Lisa


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Mogwai - Rave Tapes (Rock Action,2014) Genere: post-rock Diciamo la verità: questo ottavo album in studio dei Mogwai non era nato da ottime premesse, perlomeno per chi scrive. I proclami su twitter della band che incitavano i fan a trovare un nome al lavoro, i titoli che – loro assicuravano – non avevano alcuna attinenza coi brani associati, per arrivare all'anteprima, Remurdered, a cavalcare un synth effetto tastierina 8-bit e suoni da consolle anni '80: segnali che potevano apparire come nefasti presagi, o meglio, come una deriva più ludica che necessaria per chi poteva tranquillamente permettersi questo e altro. L'opener Heard About You Last Night – melliflua, minimale, ovattata – scombina le carte in tavola e riporta alla mente l'ultimo Les Revenants, colonna sonora dell'omonima serie tv francese. Si arriva a Hexon Bogon, spuntano gli echi dei delay e la memoria ti trascina a Killing All The Flies, da quel loro vecchio capolavoro che è Happy Songs For Happy People; partono le prime note al piano di Blues Hour e la mente fa un passo indietro di ben tre lustri, all'anno 1999, altezza Cody: suoni che il combo di Glasgow aveva per lunghi tratti trascurato nel suo recente passato, decisamente più rock che post (e di tutto questo rimane traccia solo in Master Card). E' bello rilevare che c'è anche qui una certa coerenza di fondo: quello che sentiamo è materia propria, scevra da influenze esterne – se escludiamo in parte una Deesh che fa il verso all'ultima deriva sintetico-epica dei 65daysofstatic – arrivando addirittura alla parodia di uno degli stilemi cardine del genere, il recitato, punto fondante di colleghi come i Godspeed You! Black Emperor. Accade in Replenish, dove al posto delle classiche registrazioni di conversazioni radiofoniche o a qualche aulica narrazio-

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rimentalismo interessantissimo, fatto di voci rauche, accordi monotoni, chitarre stiracchiate e sovraincisioni. Pubblicato da Fat Cat, Better Ghosts è il terzo album della band. E' un album che, sulla carta (e in riferimento al brano Hayfever Wristband), avrebbe potuto configurarsi come l'ennesimo esperimento indie rock con ben poca originalità e tantissimi "già sentiti", ma mai fermarsi alle apparenze. Scorrendo nella tracklist, ci si addentra sempre di più in savane psichedeliche che fanno pit stop nelle zone di certa Summer Of Love Sixties (Donovan), nei visionari paesaggi musicali degli Slint (Cicada), nelle escursioni fluide ma schizzate dei British Sea Power. Basta ascoltare Higgs Boson o Notes Between FandE per accorgersi che l'estro creativo del trio non si ferma ad una ricostruzione passiva degli stilemi del genere. I Nostri vanno a fondo con competenza, contaminandosi col kraut (Ephemera), con il cantautorato d'oltreoceano (il titolo Horgan Harvest è chiaramente una citazione del capolavoro di Neil Young), col noise pienamente Nineties (anche quello più melodico in versione Smashing Pumpkins di Sand Grown). C'è da stare attenti, però, quando si gioca col fuoco. Non sempre operazioni di questo tipo riescono felicemente e lo stesso Better Ghosts è recepito tutt'al più come un album interessante, sicuramente in crescita rispetto al precedente Ores and Minerals (ma forse non rispetto al melodico e brit A Thousand Heys) ma nulla di più. Perché la qualità dei referenti è alta e difficile da eguagliare: nell'improbabile caso in cui i Mazes volessero sbilanciarsi in un tentativo di competizione, ne uscirebbero obiettivamente sconfitti. Lungi dall'esplorare un terreno stantio, Better Ghosts immette il gruppo sulla strada giusta e noi aspettiamo con ansia ulteriori sviluppi. 6.3/10


ne, compare una comica trattazione complottista del messaggio satanico che Stairway To Heaven dei Led Zeppelin trasmetterebbe agli ascoltatori. Chiamatelo blasone o più semplicemente mestiere, ma pare proprio che per i Mogwai sia difficile sbagliare una mossa, anche quando l'ispirazione lascia il posto al pilota automatico o a qualche flashback per nostalgici. Del resto, chiedere una rivoluzione copernicana a vent'anni dall'inizio della loro carriera sarebbe oltraggioso, perlomeno con in mano un'opera di questa fattura. 7/10 Andrea Forti

Genere: rock, crossover Per i Mutation vale lo stesso identico discorso fatto per i Corrections House. Vecchie volpi del panorama estremo che si riuniscono in una nuova casa solo per dare giù alle nuove generazioni. Non come i vecchi "umarels" nostrani però, fissati con una nostalgia di facciata e una continua disapprovazione di una contemporaneità spesso incomprensibile; i vecchioni qui presenti sanno bene cosa fare e come farlo, e se nel caso del citato supergruppo di casa Neurot i panorami sono più o meno quelli delle band di riferimento, quelli toccati in questo Error 500 dal collettivo guidato da Shane Embury (Napalm Death), Ginger Wildheart (Wildhearts), Denzel (Young Legionnaire) e Jon Poole (Cardiacs) – più una serie di ospiti tra cui Mark E. Smith (Fall) e Merzbow – sono un pot-pourri di sonorità schizoidi e schizzate che traggono sì, dalle esperienze dei singoli, ma si mischiano anche in un calderone a volte ben riuscito ed eccitante, altre apparentemente senza capo né coda. Divertissement fine a se stesso o programma-

Stefano Pifferi

Amanda Palmer - An Evening With Neil Gaiman and Amanda Palmer (Self Released,2013) Genere: cantautori, indie, goth, spokenword_reading Con una copertina che richiama l'Inghilterra di inizio '900 e le illustrazioni a ombra di Arthur Rackham (opera invece della controversa artista Cinthya Von Buhler, anche concittadina della Palmer e già ai disegni del progetto Evelyn Evelyn), evocando un tranquillo pomeriggio di chiacchiere tra amiche, il disco dichiara subito il tipo di atmosfera che lo contraddistingue. Registrato durante alcune date del 2011, questo triplo live racconta gli spettacoli tenuti dai due celebri alt-coniugi all'insegna dello scherzo, dei racconti, delle ospitate, dell'ironia, col tono confidenziale di un the nel loro salotto di casa. Dopo un primo CD in cui Gaiman recita alcuni suoi scritti (un paio di racconti editi, più altri pezzi rari o inediti), gli altri due vedono qualche canzone nota (Map Of Tasmania, Ukulele Anthem), qualcosa dai singoli (Do You Swear…), brani nuovi, cover, introdotte da presentazioni riguardanti la genesi delle canzoni, quest'ultima spesso legata al rapporto tra i due o con l'ospite che viene a suonare il brano. Nell'intervista che ci ha concesso, Amanda

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Mutation - Error 500 (Ipecac Recordings,2013)

tica follia (c'è in previsione una trilogia, di cui questo Error 500 sarebbe la seconda parte) non è dato sapere, ma di sicuro un nome tutelare che aleggia a più non posso sulle 10 tracce dell'album è quello dei Mr. Bungle: cambi di tempo, svolte a gomito, approccio ludico-lucido ad una materia in cui confluiscono slanci prog, hardcore evoluto primi 90s, tecnicismi a go-go, metal in ogni sua forma, destabilizzazione, nichilismo sonoro e iconoclastia. Senza però che questo lasci traccia oltre un paio di ascolti. 6/10

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dei Death Cab For Cutie dedicandola a una fan morta durante le manifestazioni Occupy. E lo scherzo non è da meno: Ukulele Anthem si conferma un pezzo geniale, specie per il testo, mentre il tono generale del disco è estremamente piacevole. Il rischio vero è però un altro e riguarda il pubblico non anglofono: se non si conosce bene l'inglese, infatti, si rischia di non comprendere le introduzioni, i dialoghi, e, senza i testi sott'occhio, anche buona parte dello spirito delle canzoni (e qui si ribadisce la natura sostanzialmente "per fan" del progetto). Giudizio positivo, comunque, anche perché alla fine, con un po' di impegno e nonostante tutto, si gode di un disco fondamentalmente riuscito (pur con avvertenza). 7.2/10 Giulio Pasquali

Nils Frahm - Spaces (Erased Tapes,2013) Genere: ambient, classica Nils Frahm – classe 1982 – è un bravo performer dei giorni nostri, e per tutti. È ben posizionato, ossia conosce benissimo l'arte del posizionamento, così come ce la insegna il marketing. C'è un buco e lo riempio con il mio carattere. Chi arriva dopo, somiglierà a me, cioè a chi ha coperto per prima il buco. Il mondo dei pianisti – o dei compositori mainstream per pianoforte – è nutrito, e sembra che il discorso appena avviato sia palesemente falso. Eppure Nils non è solo un pianista: è abbastanza giovane ma non troppo e piacente (anche di quelli ne abbiamo un po'); è tedesco ma sensibile; esegue i propri brani e ci fa entrare tutti in uno spleen pret-a-porter, come i Pink Floyd definiti da Julian Cope in apertura di Krautrocksampler come "mantra da soggiorno"; e però mette un pizzico di novità: l'elettronica, i loop, la porta di ingresso alla musica

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spiega che queste canzoni avevano bisogno di un pubblico e della sua risposta immediata: un pezzo come Makin' Whoopee, per esempio, era live anche in occasione della sua precedente apparizione (in Amanda Goes Down Under); qui, in duetto con Gaiman, mostra meglio il duplice punto di vista della canzone, e in entrambe le versioni si sente che effettivamente il pubblico rende il tutto più vivo. Altre, come Electric Blanket, spiegano ancora meglio il senso dell'operazione: per l'occasione sale sul palco Jason Webley e questa delicata ode alla termocoperta, scritta e interpretata come la più romantica delle canzoni d'amore, viene apprezzata meglio dal pubblico dopo un'introduzione in cui i due raccontano l'aneddoto alla base del titolo/incipit del brano (il tour fatto insieme durante il quale una Palmer, infreddolita sul tour bus, a un certo punto riceve un regalo: la termocoperta, appunto). Ci sono un paio di rischi che un'operazione e un disco del genere, inizialmente solo per fan, comportano: il primo è quello di dare l'impressione di trovarsi a una festa di matrimonio, una festa in cui gli sposi sono anche quelli che si esibiscono (dopo che Gaiman legge una Poem For Amanda e lei Poem For Neil, c'è anche il momento in cui i due rispondono alle domande del pubblico). Ma l'autocelebrazione/autoesposizione zuccherosa, per una coppia che sembra fatta apposta per stuzzicare un certo tipo di pubblico – a grandi linee dark o ex-tale – viene evitata appunto dallo spirito arguto e dal livello artistico della proposta: quando parte Broken Heart Stew, con le sue atmosfere Laurie Anderson, si fa sul serio, e anche la Poem For Neil, dopo lo scherzare dell'introduzione, risulta suggestiva, come pure la I Google You che Gaiman (inaspettatamente a suo agio anche come cantante) dedica alla consorte. E c'è un momento davvero toccante quando lei esegue la cover di I Will Follow You Into The Dark


Gaspare Caliri

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Pangaea - FABRICLIVE 73 (Fabric,2014) Genere: elettronica Pangaea, ovvero Kevin McAuley, che dal 2007 co-dirige Hessle Audio assieme a David Kennedy (Pearson Sound, Ramadanman) e Ben Thomson (Ben Ufo), è stato, assieme ad Untold, uno dei volti di quella transizione che ha portato i protagonisti della scena dubstep ad abbracciare il dancefloor techno, oltre che uno dei primi a produrre musica sulla label. A livello di scelte, la sua non è stata l'unica praticabile a cavallo della decade; altri sono montati sul carrozzone house (diventato poi dominante), altri ancora hanno recuperato la dark garage per puntare su uno scurissimo post- a 130 bpm (Keysound), e la stessa Hessle si è piazzata un po' al centro delle correnti di quegli anni fondando una propria legacy sulla scienza (poli) ritmica (Pearson Sound, Joe) e su limitate ma solide produzioni. Arrivando a noi, McAuley si presenta all'appuntamento del fabriclive con una cassetta di dischi che fanno un po' da amplificatore di possibilità produttive intraprese nel mini LP Release, debutto sulla lunga distanza sempre sulla fida Hessle che, nel frattempo, salvo un Kennedy un poco in stallo, ha dato buone soddisfazioni - in combutta con Livity Sound - con le prove di Peverelist e Kowton (Pev and Kowton), boss della label assieme ad Asusu, e qui presenti nel mix con la zampata di techno sci fi liquido di End Point. Con una calcolata distensione nella parte centrale (Stenny and Andrea - SEA (The Time Gate) su Ilian Tape, Psyk – Arcade su MoteEvolver, Mumdance and MAO - Truth su Keysound), il set si divide sostanzialmente in due parti, la prima nell'intorno ritmico Hessle tagliato su tribalità secche e funzionalità dancefloor e la seconda su robustezze di scuola Hawtin (quello 90s però). Con le solide produ-

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contemporanea senza che necessariamente debba essere "colta". Il posizionamento funziona ancora meglio dal vivo. Da cui, questo Spaces è perfetto per comprendere la strategia e lasciarsi andare alla tavola imbandita da Frahm. La dimensione dal vivo di Spaces è un effetto di senso, ossia potrebbe non esserlo ma grazie al pubblico (che si sente spellarsi le mani alla fine dei brani) aggiunge coinvolgimento al coinvolgimento. Ci dà un prezioso accesso al momento irripetibile e romantico del concerto. Brani come Says tengono il crescendo emozionale, che è un invito per l'ascoltatore a farsi trascinare. Non c'è nulla da capire, niente da mettere in discussione. La manipolazione di loop e la ripetizione di temi, l'insistenza sui tasti, sono solo superficialmente minimalisti. Il minimalismo (almeno quello più vicino a Terry Riley) infatti non fa sentire la "battuta". Il loop è spesso un momento avventuroso, raramente ripetizione emozionale. In composizioni anche avvincenti (Hammers) ci troviamo comunque a contare: uno, due, tre e quattro. Meglio invece Improvisation for Coughs and a Cell Phone, titolo che nulla dice del contenuto, in realtà una composizione per pianoforte solo, di estrazione più jazzistica che classica. Diretta e onesta. Resta una domanda: è possibile che la musica classica e contemporanea per essere mainstream debbano essere accessibili da un punto di vista solo emozionale? Non ci sono altri canali? Diciamo così: se anche esiste una via alternativa – formativa, diciamo, oppure creativamente laterale – di rapporto con un pubblico ampio, non è certo quella percorsa da Nils Frahm. 6.5/10

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Peggy Sue - Choir Of Echoes (Wichita Recordings,2013) Genere: folk Se dessimo retta soltanto al titolo, Choir Of Echoes, l'ultima prova dei Peggy Sue sembrerebbe solo l'ultima nella marea di uscite

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discografiche che attingono a piene mani dai migliori esempi del folk pop di prima e ultima generazione, con brani che preannunciano la ripresa di una formula fatta di cori, voci soavi e melodie eteree. Una formula, questa, diventata ormai il punto di partenza di molti gruppi, che porta inevitabilmente ad immaginarsi – anche se, fortunatamente, solo prima di ascoltare – ulteriori emuli della scena alternative folk degli ultimi anni. Grazie al fatto che i tredici brani del disco si presentano ripuliti da quella patina sixties debitrice al sound bucolico e visionario del british folk più classico, tuttavia, si coglie nel disco un afflato maggiormente rock, dove il suddetto coro di echi si realizza in un sound che cita dream e wave, incanalato in una forma canzone tradizionale ma mai troppo attenta ai limiti e alle imposizioni. E così salta alla mente il nome della songwriter più illustre della Terra D'Albione, quella PJ Harvey la cui presenza – anche se mai esplicitamente dichiarata – rimane costantemente a guardia del trio, quest'ultimo non a caso composto per due terzi dall'anima female-rock di Rosa Slade e Katy Beth Young, oltre che dal batterista Olly Joyce. Il risultato sono pezzi divisi tra atmosfere folk, in cui le voci femminili si intrecciano fino a tessere quel già citato gioco di cori ed echi, e perturbazioni wave/blues, il tutto unito da un'ottima capacità nel costruire melodie di facile presa, pop nella forma ma genuinamente indie nella sostanza. Sembra che il trio abbia voluto abbandonarsi alla leggerezza e all'improvvisazione, in un interessante ibrido di generi che pesca simultaneamente dai Sonic Youth – ad esempio nella vena elettrificata di Figure Of Eight ed Esme – come da Fleet Foxes e First Aid Kit, come ben mostrano How Heavy The Quiet That Grew Between Your Mouth And Mine e Idle: episodi che evitano di imitare a tutti i costi la pace bucolica dei suddetti, sostituendola invece con un'inedita

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zioni di Hodge, MGUN e Mystica Tribe – ovvero il giapponese Takafumi Noda su SD Records – e l'ottimo inedito dallo stesso McAuley (Recreational Slumming) a fare il loro dovere, e le gloriose 909 sui locked groove nell'orbita stilistica della Plug8 a infiammare il dancefloor (e il sottoscritto). Non è un caso, infatti, che ad inaugurare il blocco di tracce più febbrili, scaldate dal bordone di Kobosil Osmium, sia un classicone come Something For Your Mind di Speed J nell'exposure remix del 1991, traccia che trova via facile nelle recenti 37ml di Bleaching Agent su Mira – label legata alla Avian di Shifted e Ventress (Shifted è presente a inizio scaletta con Untitled B2 sempre su Avian) -, nel manicomio di bleep di Marco Shuttle ovvero Marco Sartorelli (I Wanna Dance… In Outer Space sulla personale Eerie), in un altro bel bordone di memorabilie hard dancefloor dei 90s - Disturbance (Pfirter Remix II) di Drumcell sulla tedesca CLR di Chris Liebing – e nell'acida PTR di Alex Falk su Proper Trax (fondata da Will Azada). Con dalla sua un coerente ventaglio di scelte stilistiche sullo spettro techno, Pangaea si gode il buon status acquisito come dj e producer. Niente da obbiettare sull'architettura del set, compatto e generoso, anche se forse nella prima mandata, quella che più s'identifica con la recente storia di McAuley, avremmo voluto più emozioni, energie e magari anche missaggi più coraggiosi. 7.1/10


verve rock. Altrove, è il pop rumorista e sperimentale in aria Cocorosie a costruire l'essenza dei brani, ben evidente in Two Shots (uno degli episodi più riusciti) ed Electric Light. I Peggy Sue mostrano buone capacità nel dosare influenze e riferimenti senza cadere nella trappola del puro citazionismo, con l'unico rimprovero dell'assenza di un paio di singoli che siano in grado di catturare l'attenzione al primo ascolto. 6.8/10 Giulia Antelli

Genere: soul, elettronica Sasha Perera abbandona per un attimo le istanze bass-dub-breakbeat del gruppo madre Jahcoozi e le esperienze da DJ (Mother Perera), per tuffarsi senza remore nel primo disco solista della carriera. Le cose cambiano e non poco rispetto al passato, se è vero che Everlast – licenziato sotto il moniker Perera Elsewhere, un'associazione di termini che, a sentire la diretta interessata, "suona grandiosa in italiano" – raccoglie dodici brani spettrali e minimalisti. Tutto il disco ruota attorno alla voce riverberata della Perera e somma certi Morcheeba fuori fuoco (Drunk Man) a chitarre acustiche al confine col trip-hop (Bizarre), briciole di elettronica morbida (Shady) a sussurri al pianoforte (Light Bulb), derive etnico-indigene (Ebora) a certi Portishead decontestualizzati (Dreamt That Dream). Potremmo definirlo un blues millenario e al tempo stesso robotico, corrispettivo del progetto estetico che coinvolge la musicista, quest'ultima nelle mani dello stilista tedesco Hugo Holger Schneider e dei suoi abiti in bilico tra etnico, M.I.A., "truzzo" anni '80, digitale, patchwork multietnico e chi più ne ha più ne metta (date un'occhiata alle foto). "Voglio che

Fabrizio Zampighi

Plastic Made Sofa - Whining Drums (Autoprodotto,2013) Genere: rock Pop psichedelico di qualità, con una buona propensione melodica e arrangiamenti molto sixties. E' questa la formula messa in campo dai Plastic Made Sofa, band bergamasca che aveva esordito due anni orsono con Charlie's Bondage Club e che oggi ripropone quella stessa formula, arricchita però da nuovi elementi e con una messa a fuoco più accurata. I nove brani che compongono questo Whining Drums si reggono su intuizioni interessanti e trovate di prim'ordine, a partire da arrangiamenti sempre variegati e talmente sovrabbondanti che a più riprese ci si trova a chiedersi con che musica siano mai cresciuti i cinque componenti della band. Dalle massicce dosi di Oriente che si respirano in questi solchi e dai tanti altri elementi in ballo, si è indotti a pensare ad un corredo sonoro ricchissimo che va dai sempiterni Beatles del George Harrison "intrippato" con Ravi Shankar, a cose più inti-

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Perera Elsewhere - Everlast (Friends Of Friends,2013)

la mia immagine sia futurista ma anche con un senso della Storia", dice lei, e l'assunto si riverbera inevitabilmente anche nella musica. Un melting pot urbano (prima Londra poi Berlino, città in cui la musicista risiede al momento) di epoche e zone geografiche diverse (l'artista stessa ha radici nello Sri Lanka) che ha come denominatore comune il gusto per l'imperfezione, un certo-lo-fi ricercato, un'affezione per le associazioni stilistiche strampalate; fuor di metafora, il mood fumato e ricercatamente ruspante di un Gonjasufi non a caso presente nei crediti di Giddy (e, idealmente, non solo in quelli). Disco laterale e periferico, ma assolutamente vivo. 7/10

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nazioni e ad altre culture. Una musica immaginata per viaggiare con la mente attraverso spazi lontani e incontaminati. In questo senso, la scelta di volare nel deserto del Mojave per girare il video del primo singolo non è certo un caso. Tra le rocce bianche e le dune di Kelso, la musica dei Plastic Made Sofa scorrerà a meraviglia. 6.9/10 Ilario Galati

RY X - Berlin EP (Dumont Dumont,2013) Genere: pop, cantautori, alt Due cantautori, entrambi australiani, entrambi in procinto di trovare il successo internazionale, entrambi predisposti agli spot TV, ma profondamente diversi a livello stilistico: RY X e Vance Joy. RY X, contrariamente a Vance Joy, non è un vero e proprio esordiente: nel 2010, infatti, pubblicò a suo nome (all'anagrafe è Ry Cuming) un omonimo e poco fortunato album per la Jive Records: un prodotto discografico modellato a tavolino a metà tra Jack Johnson (anche Ry ha la passione per il surf ) e patinato pop-rock da talent-show. Troppo poco per un ragazzo cresciuto ascoltando – e suonando – i classiconi dell'aggro-rock anni '90, prima di rimanere folgorato da Grace di Jeff Buckley e di abbracciare un'attitudine randagia (per un po' ha frequentato le spiagge della Costa Rica armato di chitarra acustica e surf ) che l'ha portato fino a Los Angeles, sua attuale dimora. Con Berlin EP, pubbicato per la Dumont Dumont, Ry inizia un nuovo percorso – non troppo dissimile dalla recente svolta di V V Brown – di allontanamento dal piattume pop: per un "child of the sun" (così si definisce nella titletrack), ripartire dalla fredda Berlino è una dichiarazione d'intenti che si concretizza in venature decisamente più melodrammatiche

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miste ma sempre lisergiche come Syd Barrett, passando per materiale più recente e prescindibile, tipo Kula Shaker. Fatto sta che Whining Drums è una sorpresa continua, anche perché, traccia dopo traccia, è in grado di spiazzare persino l'ascoltatore più avvezzo. L'apripista We're Just Changing mette subito le carte in tavola, puntando su una melodia circolare ed eterea e su un modo di scrivere che convince per originalità: intendiamoci, i Plastic somigliano a un mucchio di altre band, ma hanno dalla loro un modo tutto internazionale di rileggere il verbo rock, tanto da risultare pressoché unici nel nostro panorama. Farebbero la felicità del buon Stanis di Boris, tanto sono "poco italiani". Ascoltare il singolo Lizards on a Wire per credere: ritmiche serrate, fraseggi chitarristici speziati d'Oriente, un sound esoterico. O la magnifica elegia pianistica di Try To Be a Woman, un frammento di quiete lo-fi davvero troppo breve, che quasi ti metti ad imprecare contro il quintetto per averla fatta durare solo due minuti. O ancora la conclusiva title-track, riff pesante imbastito su una scala frigia a cui fanno da contraltare arabeschi zeppeliniani, voce filtrata e una potente fuga melodica. Praticamente un pezzo perfetto nel suo irresistibile incedere e nel suo suono caldo ed avvolgente. A conti fatti, è proprio il sound edificato dalla band a fare la differenza. Un sound stratificato, giocato sui chiaroscuri e sull'elettroacustico, ma che conosce impennate notevoli quando si pesta sull'acceleratore. Sempre ipnotico, comunque. E poi c'è la varietà dell'offerta a rendere Whining Drums un vero piacere all'ascolto. Tutto è molto coerente con l'idea di base, ma i pezzi vivono di vita propria e sono pressoché tutti potenziali singoli. Qui, dunque, "indie" e "alternative" sono etichette davvero poco consone, se non nell'attitudine. Il nocciolo dell'album è un rock aperto alle contami-


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Clinic – l'Australia ha già in tasca un 2014 in cui non faticherà a riconfermarsi come quinto polo-musicale a livello internazionale. (voti: 6.8 a Berlin EP, 6 a God Loves You When You're Dancing). Riccardo Zagaglia

Ryoji Ikeda - Supercodex (Raster Noton DE,2013) Genere: glitch Partiamo da una frase storica di Cage, parafrasandola: quando non prestiamo attenzione ai rumori, essi ci danno fastidio. Quando li ascoltiamo, ci affascinano. Questa affermazione, che da sola basta a dare il la e a garantire la tenuta di sessant'anni di musica concreta, in realtà funziona anche per la musica glitch e per tutte le derivazioni, compreso il suono dei dati di Ryoji Ikeda. Il fascino di un errore che diventa musica – e dunque suono – vale come eterno ritorno e ricordo dell'ascolto aurorale: il primo suono "sbagliato" che alla nostra mente si rivela come musica, perché lo eleviamo di status. Il messaggio di Ryoji Ikeda è che l'ascolto aurorale può diventare ipnosi. Nel terzo e ultimo capitolo della trilogia dei dati-suono / suono-dati, prevale la ricorsività e l'insistenza di un pattern di codice-rumore, in maniera ancora violenta (cioè diretta al corpo anche quando si vogliono usare solo le orecchie) ma anche musicale. La "musicalità" (Supercodex 10) non è certo una regola ma la chiusura di un cerchio, che arriva alla centocinquantesima uscita RasterNoton e alla fine di una saga che fatichiamo a immaginare cosa possa ancora generare. Il gioco delle differenze minime tra un album e l'altro vale dentro il concept che ha prodotto Dataplex e Test Pattern (prima di Supercodex), ma non sembra possa reggere per il futuro. Per adesso l'accostamento fa notare una certa ridondanza, una minore smania di andare

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e apparentemente più sincere. Un timbro che rievoca Justin Vernon (non quanto quello del connazionale Tim Bettinson/Vancouver Sleep Clinic) e Matt Corby (altro belloccio aussie atteso al debutto lungo), cori di scuola Fleet Foxes e un arpeggio su di un tappeto cathedral sono gli ingredienti che rendono magica Berlin (molto più di un videoclip da high-rotation). Altrove, a turno, è la chitarra a donare una marcia in più al songwriting di RY X (l'altrettanto affascinante e malinconica Shortline dalla coda Buckleyana), il piano perennemente riverberato (Wanderlust) o gli unici accenni ritmici dell'EP contenuti in Vampires. Tutt'altro mondo invece quello di James Keogh aka Vance Joy, nato a Melbourne e capace già di scalare le classifiche – per il momento locali – con il brano Riptide. Il progetto – che live prende sempre più le sembianze di una vera e propria band – ha un baricentro stilistico che ruota principalmente attorno alla tradizione, avvicinandosi più volte a quel pop-folk venato country (The Lumineers o Of Monsters And Men, per i quali ha aperto in madrepatria) che ha dominato le classifiche americane nell'ultimo biennio. Non mancano le melodie disimpegnate, i modi da bravo ragazzo dall'animo profondo – lo testimoniano testi tutt'altro che banali – e un funzionale intuito strumentale (suona l'ukulele), ma lungo le cinque tracce dell'EP di debutto God Loves You When You're Dancing si avverte l'assenza di qualche sussulto emozionale e di un tratto distintivo evidente. Tutto è molto bilanciato, forse troppo. Oltre alla potenziale hit mondiale Riptide, spiccano gli azzeccati passaggi strumentali di Snaggletooth, brano in cui il Nostro si avventura in acuti che ci obbligano a citare nuovamente Jeff Buckley, tra l'altro rintracciabile anche in un altro cantautore pronto al successo, il francese Talisco (si ascolti Mustang Blood). Con RY X, Vance Joy – e Vancouver Sleep

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Gaspare Caliri

nonostante la produzione sia di prestigio – con l'aiuto di ospiti come Ed O'Brien e Phil Selway dei Radiohead e Eric Pulido e McKenzie Smith dei Midlake - e la grafica di copertina affidata al vecchio artigiano 4AD, Vaughan Oliver, sembra sempre di ascoltare la versione cheap degli autori di Victorialand. Lo spettro vocale della Dosen, seppure notevole, non tocca le vette della Frazer e il disco si ferma alla forma della ballad eterea con scheletro al piano, di cui il primo singolo Porcelain rappresenta l'episodio migliore. Fa piacere rivedere il buon vecchio Simon riaffacciarsi alla ribalta, visto che rispetto a Robin Guthrie era rimasto molto più defilato, ma Snowbird, per come è stato concepito, è un progetto che non si toglierà mai di dosso i paragoni con i Cocteau Twins. E sul loro terreno, questi ultimi restano irraggiungibili. 6.5/10 Antonello Comunale

Snowbird - Moon (Bella Union,2014) Genere: rock, dream Simon Raymonde ritorna a dare musica al sogno etereo che fu dei Cocteau Twins, con il nuovo progetto Snowbird. Il tempo sembra riavvolgersi immediatamente. Dove eravamo rimasti? Eravamo all'altezza di quel piccolo capolavoro di effettistica da studio che era Milk and Kisses. I Heard The Owl Call My Name, il primo brano di Moon, si riallaccia direttamente a quel disco, prendendone in qualche modo il testimone. La vocalist non è però Liz Frazer, nonostante a tutti gli effetti sembri di ascoltare lei. La voce, invece, è quella di Stephanie Dosen, cantautrice del Wisconsin, che aveva già recitato la parte della Frazer nel tour dei Massive Attack del 2008. Il destino del progetto Snowbird, quindi, si chiarisce già qui. Un canovaccio pregevole e gradevole nelle sue fragranze post Cocteau, ma del tutto inutile. Il songwriting d'effetto latita e

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Sonic Daze - First Coming EP (Autoprodotto,2013) Genere: psych, garagerock Pare che il sud italiano sia afflitto, tra le altre cose, da una selvaggia epidemia garage-rock. Come se fosse il frutto della voglia incontenibile d'imbizzarrirsi, di concedersi lo spasmo vitale che elargisca le giuste frustate alla cappa della crisi. Bene così. Anche perché band come i Sonic Daze riescono a farne un intercalare più che plausibile, probabile valvola di sfogo per lorsignori e provvida gragnola di scapaccioni elettrici per chiunque si sintonizzi. Il quartetto pugliese, fondato nel 2010 e qui al debutto con un EP prodotto in benedetta autarchia e "totally analogic", esprime genuina devozione al verbo eccitante e sgarbato di Fleshtones, MC5 e Flamin' Groovies con sei pezzi originali nei quali capita altresì di avvertire una certa attitudine per l'irruenza melodica

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a pescare tutte le possibilità del mezzo – e il completo controllo delle variabili. Se pensiamo ai titoli di Test Pattern, ci accorgiamo che il disco era un tentativo di "esaurire" un linguaggio: da #0000 a #1111. Nel caso di Supercodex, si va semplicemente da uno a venti. Il punto di partenza e il punto di arrivo non sono confini rigorosi ma creativi, anche se in una certa misura concettuali. La prima traccia ha un sound tipicamente Ikeda-iano – digitalissimo. L'ultima è invece un ruggito che scimmiotta la potenza e la pasta analogica. Nel mentre, le tracce si alternano come un flusso, senza picchi considerevoli o soluzioni di continuità drammatiche. La pratica funziona. Potrebbe continuare all'infinito. Ma attendiamo un cambiamento, che conservi l'ineccepibile rigore a cui Ikeda ci ha abituati. 7/10


dei Kinks più basali (soprattutto nella opening Hear Me Calling). Una travolgente Amorality e la speziata So Many Colours (dedicata ai surfgaragisti Barracudas) sono gli altri momenti clou di una scaletta concisa e godibilissima. Che ti lascia col sospetto che sia appena saltato il tappo di un vaso pieno di cosucce eccitanti. 6.8/10 Stefano Solventi

Genere: rock, indie Questo è il sesto album che Malkmus sforna insieme ai Jicks. In sé non sarebbe una grande notizia, se non calcolassimo che con l'altra band ne aveva incisi soltanto cinque (non contate la raccolta Westing By Musket And Sextant, non vale). Se la musica fosse aritmetica, domani dovremmo ricordare il buon Stephen come leader di questa band, il che equivarrebbe un po' a dire che Paul McCartney era il cantante dei Wings. E cosa ci sarebbe di male? Tanto più che, tra le parole usate nel succinto comunicato stampa dal Nostro per indicare le influenze di queste nuove canzoni – insieme a voci come "inattività ", "vita casalinga negli anni '10″, "Weezer e Chili Peppers immaginati da Stephen Malkums" (sic) – figura proprio … "Pavement". Erroneo comunque pensare che Wig Out At Jagbags sia la cosa più vicina a Crooked Rain, Crooked Rain da un po' di tempo a questa parte, è "soltanto" uno dei migliori – se non il migliore, concedeteci l'azzardoso entusiasmo dei primi ascolti a caldo – dei Jicks. E per chi scrive non è poco, considerato che il predecente Mirror Traffic, griffato Beck, aldilà delle aspettative e di qualche suggestione non aveva poi prodotto chissà quali miracoli, laddove qui l'impressione è che a una scrittura agile, leggera e particolarmente sbrigliata si accom-

Antonio Pancamo Puglia

Sumie - Sumie (Bella Union,2013) Genere: folk Sorella di Yukimi "Little Dragon" Nagano, l'artista svedese Sumie arriva all'esordio eponimo tramite Bella Union, label inglese gemella di Sub Pop (basti pensare a un roster che comprende, tra gli altri, Beach House e Fleet Foxes), da sempre garanzia nell'ambito indie folk europeo. Paesaggi musicali distanti da quelli della sorella, dove non troviamo più tappeti synth/soul/electro, ma un tenue e misurato songwriting. Il lavoro di Sumie, infatti, si colloca all'interno del folk più tradizionale, con rimandi che vanno dalla quiete crepuscolare e tutta british di un Nick Drake, passando per le atmosfere oniriche e sospese del Tim Buckley di Starsailor. Quello che però colpisce di questo debutto è il saper giocare con ambientazioni che spaziano da sonorità anglo-giapponesi in aria David Sylvian a composizioni più aperte che rendono i dieci brani del disco piccole perle folk/avant. Se infatti la prima parte è tutta dedicata ad una forma canzone classica costruita sull'arpeggio dell'acustica intrecciata alla tenue voce di Sumie – che ricorda una Laura Marling leggermente più profonda (Spells You, Never Wanted To Be o Hunting Sky) -, nella seconda la musi-

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Stephen Malkmus and The Jicks - Wig Out At Jagbags (Domino,2014)

pagni felicemente quella irrefrenabile voglia di pastiche stilistico sempre abbozzata e forse mai realmente compiuta. In termini più semplici, la felice quadratura tra l'anima pop dell'omonimo esordio del 2001 (sembra una vita fa: lo è) e le proverbiali aperture proggy del successivo Pig Lib, in un set di canzoni in perenne – eppur solidissimo – bilico tra slack adolescenziale e musica adulta. Il solito Stephen, insomma, soltanto meglio di come ve lo ricordavate l'ultima volta. 7/10

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Giulia Antelli

Synkro - Lost Here (Apollo,2013) Genere: ambient, soul, beats Un 2013 da incorniciare quello di Indigo e Synkro, giovani (ma non troppo) producer di Manchester che poche settimane fa hanno finalmente pubblicato l'agognato album d'esordio del progetto Akkord, dopo il promettente EP Navigate dello scorso marzo e una campagna marketing degna dei grandi act elettronici di questi anni. Dietro ad Akkord, ricordiamolo,

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c'è una delle etichette protagoniste del 2013, la Houndstooth diretta da Rob Boothe, che abbiamo seguito con attenzione e che in questi giorni ha pubblicato HTH vs HTH, remix album celebrativo dove il duo mette egregiamente le mani su Lockjaw di Special Request, altro protagonista dell'annata per via di un rinnovato fermento jungle nella scena elettronica internazionale. Sempre di dicembre le pubblicazioni in EP soliste di Liam Blackburn (Indigo) e Joe McBride (Synkro), rispettivamente Storm su Samurai Red Seal e Lost Here su Apollo; l'occasione ideale per coglierne traiettorie e percorsi alla luce di sei anni di produzioni, con Indigo - avvistato lo scorso anno sempre su Apollo, con Celestial - a rappresentare il più fedele ai dettami di oscurità techno e jungle di Akkord, e il più dreamy Joe McBride (Synkro) – fresco di un album, Acceptance, pubblicato a inizio anno, ancora sulla stessa label – a coronare un percorso intimista su traiettorie post-soul, tra mood randb, spazi ambient, reminscenze house e garage e, ricordiamolo, un remix 2 step di Night Time degli XX. Balza subito all'orecchio l'ottima qualità dei due lavori e quanto entrambi gli artisti siano maturati anche grazie alla collaborazione sulla lunga distanza. Pur distante dai territori di Akkord, ora negli amen break della Fading Lights di Synkro (fate conto un Machinedrum ad un afterparty a Ibiza) ci senti la scentificità di marca Indigo. McBride, del resto, continua in coerenza un percorso solista fatto di texture innamorate e ambient di tradizione Apollo (Night Of Pleasure), tocchi 80s e malinconie XX (vedi In My Arms con la suadente voce del vocalist greco Robert Manos), quando l'amico Blackburn nelle 4 tracce di Storm produce tutto ciò che ogni fan del progetto comune vorrebbe veder realizzato. Il nuovo EP del producer approfondisce una variante più junglista, dub e minacciosa del

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cista dà prova di una scrittura convincente e, soprattutto, non banale. Abile nel tessere giochi sonori in cui intrecciare le armonie della chitarra e la voce, il miglior pregio di quest'album è quello di fotografare l'anima dell'artista, concentrandosi su brani leggeri ed aggraziati, immersi in quel bagliore invernale e nordico che ne costituisce la vera essenza. Ne è un ottimo esempio l'inquieto crescendo in chiaroscuro di Show Talked Windows, pezzo quasi pop per l'immediatezza con cui la melodia si insinua nelle orecchie dell'ascoltatore, o anche Speed Into You, in cui è la voce soave di Sumie – delicata, senza essere sfuggente – la vera protagonista, perfettamente dosata nel contrappunto con la chitarra. Sailor Friends, sicuramente uno dei brani più riusciti, si avvale della presenza del pianoforte per rileggere e interpretare il tema della lontananza, incorniciandolo in un mare cupo e malinconico che suggella e sintetizza il focus emotivo di tutto il disco: canzoni dagli arrangiamenti curati e impeccabili (grazie anche alla misurata produzione di Dustin O' Halloran dei Devics), brani che fanno della semplicità la loro carta vincente, riuscendo a condurre chi ascolta nelle gelide brume di una Svezia opaca e sognante. Un bel debutto, per una cantautrice che in futuro avrà sicuramente altro da dire. 7/10


Edoardo Bridda

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The Dirty Feel - Truth Be Told (Tummy Touch,2013) Genere: rock Avrebbe potuto intitolarsi "Ten Years Too Late" il disco d'esordio degli inglesi The Dirty Feel. E, a ben vedere, sarebbe stato un titolo molto azzeccato, dato che il power-trio inglese ha suonato per un decennio buono prima di giungere a realizzare questa prima incisione. Inoltre, dietro la vitalità del rock-blues di matrice british si nasconde una tragedia, visto che il chitarrista, cantante e principale compositore della band, Nick Hirsch, è morto nel marzo 2012 per una grave malattia del sangue che lo aveva colpito in tenera età. Dunque, Truth Be Told è un disco postumo a tutti gli effetti, che nasconde altre curiosità di non poco conto. Ad esempio, dietro le pelli dei Dirty Feel siede il produttore e dj Virgil Howe, figlio dello storico chitarrista degli Yes, Steve. Ma con questo esordio, Virgil e soci realizzano un disco che è quanto di più lontano dai barocchismi e dall'estetica progressive. Un disco vigoroso, a dispetto della tragedia che ha colpito il gruppo, perché sembra un compendio di rock-blues come se ne suonava in terra d'Albione una quarantina d'anni fa. Riff a profusione in stile Led Zeppelin, r'n'b caldo e avvolgente, ritmiche funky. Insomma, non certo di un disco d'avanguardia, ma un distillato di stili suonato alla grande da chi ha bene in mente che, se revival deve essere, è bene che sia fatto al meglio. A partire dal sound, aspro e coinvolgente, con le chitarre che suonano magnificamente. Sin dalla prima traccia, Far Gone, ci si cala nella platea di un caldo e fumoso pub di periferia, e la temperatura sale via via che si va avanti: le ritmiche infuocate della title-track sembrano essere figlie degli Stones più latini (siamo nei pressi di Can't You Hear me Knocking, per intenderci), mentre l'attacco di Done Dance e la ritmica spezzata di Keep On

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sound di sintesi espresso da Akkord e i risultati sono sorprendenti. Volta, l'opener delle quattro tracce, proseguendo con assoluta fermezza il cammino buio e tenebroso della prova lunga, spara crude fucilate tra tocchi humour sottoforma di amen break, frustate post-garage, robustezze HH, sub bassi e horror ambience preso direttamente dalla jungle più asfittica e deragliata (viene in mente il Digital amato da Logos, per dirne uno imprescindibile nel 2013). Spirit Of The Winds, con Versa vocal guest, è un altro laboratorio, questa volta più caotico ma non meno eccitante. Tra i furiosi amen break, i poliritmi della jungle più coriacea, si staglia un'ambient inquieta dalle voci e dalle fascinazioni arabeggianti, nonché dai richiami Basic Channel. E' un filo rosso diretto nelle mani di Synkro, come dire che i due si possono parlare anche a distanza e in un modo tutto personale. Storm torna in ricognizione su Akkord, ma questa volta sul lato più riduzionista: ricompaiono i bordoni di cadaverico dub e con essi il lato Pinch più torbido. Il pezzo si sviluppa poi nel solito sopraffino gioco di ritmi e percussioni, crepitii e scintille nel buio, sibili da sottomarino e field recording di tempeste in lontananza. E' un altro piccolo capolavoro prima del congedo marittimo di Condition con ancora Basic Channel versante Maurizio, tra techno dub, house e ambient, battuta sotto i 120bpm à la Andy Stott, vocione nero che racconta svagato, hi hat e synth in seduzione. Indigo e Synkro non sono solo Akkord ma due produttori che, specie in questo momento, forti dei grossi riscontri avuti dalla stampa e dalla blogosfera, si muovono solidi anche nelle rispettive prove soliste. Il più eccitante è chiaramente il primo. Due delle 4 tracce del suo Storm sono tra gli episodi di elettronica più ispirati ed esaltanti di quest'anno. No joke. 7.3/10

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Ilario Galati

The Sleeping Tree - Painless (La Tempesta International,2013) Genere: cantautori, folk Dietro al nome The Sleeping Tree si cela Giulio Frausin, friulano, classe 1986. Assieme all'esperienza come bassista nella formazione reggae dei Mellow Mood, il giovane musicista porta avanti dal 2008 il progetto parallelo a nome The Sleeping Tree, con alle spalle un album - Leaves and Roots, pubblicato dalla netlabel tedesca 12rec.net – e un EP (Stories), fino ad arrivare al qui presente sophomore Painless tramite La Tempesta International. Distante dai suoni della band di provenienza,

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Painless è un album di cantautorato folk, che guarda ai modelli di riferimento americani e inglesi di prima e ultima generazione, e che dunque richiama una tradizione che parte da Crosby, Stills, Nash and Young e The Band per arrivare a Bon Iver e Iron and Wine, passando per i numi tutelari Nick Drake ed Elliott Smith. I dodici brani del disco si presentano come esempio di uno storytelling interessante e ben costruito, con la voce intima e vibrante a far da contrappunto all'ottimo fingerpicking della chitarra, ad esempio in un'iniziale Jah Takes My Soul che affonda le radici in quel panorama acustico/cantautorale di cui sopra, pur riprendendo anche la solarità e i temi dell'altro genere di riferimento, il reggae. Un aspetto comune a buona parte del disco, come a sottolineare la doppia natura di una scrittura incentrata su atmosfere pacate ed essenziali, proprie del folk più classico, ma che non rinunciano a una certa vena di ottimismo, come mostra bene una Heart As A Ghost esempio di intreccio tra chitarra e armonia vocale. Convince anche la grazia malinconica di Going Nowhere, cover del già citato Smith, che si qualifica come uno dei pezzi migliori del lotto, in perfetto equilibrio tra dolce melodia e crescendo vocale, arricchita in questa versione dalla presenza dei cori e dell'organo. Il resto dell'album percorre i binari del folk più minimale ed intimista, ad esempio in canzoni come Ulysses' Disciple o Wings costruite su un intreccio di acustica e percussioni (debitrici verso le radici roots e reggae), culminando nel blues corale di una Jah Guide che chiude l'album con una nota di delicata speranza. Painless, che fin dal titolo ipotizza una canzone classica e inquadrata nei propri riferimenti, non cade mai nelle grigie atmosfere del folk più standardizzato. Il pregio maggiore dell'album è infatti quello di rispettare la formula tradizionale del songwriting, evitando la ba-

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proiettano immediatamente alla mente il folk psichedelico di Led Zeppelin III. E il gioco di rimandi prosegue con Cream, Ten Years After, Who, ma anche con qualcosa di più contemporaneo e di meno british, come nel caso di un The Threadbare Excuse vicino a sonorità e ritmiche tipiche dello stoner. Il tutto, comunque, è innaffiato da abbondanti dosi di negritudine, a volte evidenti, come nel caso di Lovin' You, a volte solo accennate ma sempre e comunque ben presenti nella voce, nelle ritmiche, nel sound complessivo. Mentre la conclusiva Spanish Silver lascia intravvedere anche altre potenzialità, come un piglio sperimentale che sembra essere tenuto a freno nelle altre tracce. Truth Be Told, in definitiva, è solo un disco nostalgico, revivalista e passatista, ma ha dalla sua un'immediatezza e un'autenticità che di solito difetta a progetti di questo tipo. Già solo scriverne, a conti fatti, è esercizio un po' artificioso. Perché, davvero, è solo rock'n'roll. Ma qui e ora, ci sembra che svolga alla perfezione il suo compitino: suonare alla grande, far sudare e assestare massicce dosi di energia nelle membra e nella zona pubica. Cosa chiedere di più? 6.9/10


nalizzazione di tematiche e suoni attraverso canzoni che riescono a mostrare tutte le doti di un autore già maturo e credibile. 7/10 Giulia Antelli

Genere: avant, impro, concreta, fieldrecordings, jazz Il taglio è di quelli belli sperimentali – in bilico tra contemporanea, free, avanguardia, musica concreta e un pizzico di jazz -, come del resto la strumentazione: Martin Hopkins si occupa di tapes, dubs ed effetti, Niccolò Rufo è all'SP303, Raffaele Amenta si destreggia col clarinetto; poi ci sono Matteo Tagliavini (fondatore della Marmo, etichetta responsabile della pubblicazione) e Herve Atsé Corti ai synth modulari. Insieme formano i Tru West, collettivo nato un anno fa su alcuni sample "rippati" di vinili. Il gioco iniziale si trasforma in un suono improvvisato, atemporale e per nulla spaventato da eventuali contributi strumentali non convenzionali (la band è una sorta di cantiere aperto), in bilico tra modernità e anticaglie, destrutturazione e artigianato nostalgico. Portato che si esplicita nella concezione (quasi filosofica) di una musica minimale, ripetitiva, ma al tempo stesso free, soprattutto in certe soluzioni strumentali in cui la manipolazione umana diventa parte fondante del flusso sonoro. L'operare dei musicisti è contingente e analogico almeno quanto le macchine coinvolte nel processo, ma anche il ruolo richiesto a chi approccia l'LP The Dowc Part 1 ha a che fare con una soggettività attiva. L'ascoltatore viene chiamato in causa, ad esempio, da una The Decline Of Western Civilization in cui una modifica fisica al vinile trasforma l'ultima parte della traccia in un loop infinito, lasciando all'utente il compito di sancire la fine del brano.

Fabrizio Zampighi

Fluxus - Tutto Da Rifare – Un omaggio ai Fluxus (Mag-Music,2013) Genere: rock Marnero, Majakovich, Chambers, Avvolte, Titor , Nient'Altro Che Macerie e altre ancora sono alcune delle più vive realtà musicali italiane. Accomunate dal suono aggressivo e dal cantato spesso in italiano, dal vivere in quella zona borderline in cui musica e impegno, diy e passione ideologica si mischiano cancellando i confini. Inoltre, quasi tutti i partecipanti a questo tributo all'epoca in cui i Fluxus – storica band torinese d'inizi '90 – incendiavano palchi e scuotevano coscienze unendo cantato in italiano e sonorità urgenti figlie di rock duro, punk-hc e noise vibrante, non erano che in età puberale o poco più. È così benvenuta l'operazione congiunta di V4V e Mag-Music che "riesuma" la band di Franz Goria, Luca Pastore e Roberto Rabellino, perni intorno a cui ruotò una formazione inquieta e in continua evoluzione: una delle più incisive – e "commercialmente" sfortunate, bisogna dirlo – formazioni di "rock italiano" mai apparse sulla scena dei 90s. Musica durissima, che spesso sfruttava l'irruenza del punk mettendola al servizio di un noise-rock fatto di stratificazioni strumentali e crescendo circolari dall'impatto devastante,

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Tru West - The DOWC Part 1 (Marmo,2013)

Tre tracce in tutto (oltre a quella citata, ci sono il friggere free jazz di It Looks Like Plastic e il drone spacey/industrial di This Is The True West) e un lato B affidato a un remix dei primi due episodi del lato A ad opera di un DJ Sotofett che riporta tutto a un tribalismo da giungla quasi sciamanico. Per un lavoro che vorrebbe sancire il declino delle tradizioni musicali occidentali, tendendo nel contempo verso qualcosa di ancora sconosciuto, oltre i generi. Obiettivo raggiunto, a quanto pare. 7/10

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Stefano Pifferi

Ron Morelli - Spit (Hospital Productions,2013) Genere: techno Nuove trasmissioni di guerra da Hospital Productions. Per Vatican Shadow è arrivato il momento di fare il punto della situazione.

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Fermarsi un attimo, standardizzare la proposta e battere cassa per quel minimo che gli consente ormai l'alone di culto raggiunto. Remember Your Black Day è il primo album vero e proprio e fotografa lo status attuale di Vatican Shadow che, a dispetto del marketing guerrigliero, su un piano prettamente musicale, è fermo a un palo, totalmente bloccato, senza capacità di evolversi. I mid tempo continuano ad essere imitazioni di Muslimgauze: Tonight Saddam Walks Amidst Ruins, Muscle Hijacker Tribal Affiliation, Jet Fumes Above the Reflecting Pool; gli episodi più in tiro sull'asse techno sono abbastanza incolori (Contractor Corpses Hung Over the Euphrates River, Remember Your Black Day, Not the Son of Desert Storm, But the Child of Chechnya); anche l'industrial di riporto di brani come Enter Paradise, non riesce a smuovere un muscolo. Staremo a vedere come Fernow si muoverà d'ora in avanti, anche se la natura stessa del progetto Vatican Shadow va intesa come un unicuum continuo senza grandi mutamenti di sorta. (6.5) Di diverso tenore il discorso per Ron Morelli, che pur non eccellendo nella sua house-industrial da club, questa volta mostra un vigore ben più selvaggio di quello di Fernow. Contattato da quest'ultimo, con la proposta di fare un album per Hospital, Morelli è il manager della L.I.E.S., label specializzata nel coprire il vasto reticolo di produzioni house (ma anche techno) dell'attualità americana, e da qui la compilation di culto L.I.E.S. presents. Per il primo album a suo nome (e mettendo da parte i progetti Two Dogs In A House e Bad News), il producer si dedica ad un programma teso e brutale, privo di elementi melodici e dall'umore opprimente. Niente di nuovo sotto il sole, ma il dancefloor maligno di brani come Modern Paranoia, Crack Microbes e No Real Reason è quello che ci vuole per risvegliare dallo scon-

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visto che si univa a testi fortemente ideologizzati che probabilmente, anche nel decennio del presunto "impegno", furono il reale discrimine per quel mancato riconoscimento. Relegando i Fluxus - decisi già dalla scelta del nome a porre un limite di fronte all'ascoltatore e a richiedergli attenzione e assunzione di responsabilità – al tanto spesso utilizzato, ma altrettanto abusato, ruolo di band di culto. E la dimostrazione di quanto lo fossero sta proprio nell'impegno, insieme al rispetto e all'abnegazione, al timore reverenziale e all'ammirazione, con cui i "giovani" musicisti trattano i "vecchi", tentando di mostrare, ognuno con le proprie caratteristiche, tendenze e peculiarità, l'attualità di quelle intuizioni. Non che ve ne sia bisogno, visto il portato dei testi e l'incisività delle musiche, ma il senso del tutto sta proprio nel risvegliare quella materia Nel rimetterla in circolo. Nel reinserirla in quel circuito dov'era nata e in cui tentava di essere elemento destabilizzante, fuori fase, "asincronia inceppatoria". Riuscendovi in pieno, tanto per essere chiari. Non ce ne vogliano i partecipanti, ma per chi quei dischi li ha consumati e considera Vita In Un Pacifico Nuovo Mondo uno dei vertici di un certo tipo di "musiche pesanti in italiano", mai e poi mai si riuscirà a ricreare quella tensione nervosa; roba di pancia e di testa all'unisono, figlia di tempi ormai andati. Nonostante queste remore iper-personalistiche, ci sarebbe Tanto Da Rifare di questi tempi: il qui presente omaggio, di sicuro, va benissimo così com'è. 7/10


forto dell'hype un underground newyorchese che un decennio di copertura mediatica ha reso inoffensivo come il latrare di un cane chiuso in gabbia. 7/10 Antonello Comunale

Genere: pop, psych, indie Da una vacanza lavorativa al parco nazionale di Joshua Tree, California, possono venir fuori strani presagi: mostri, amori perduti, amori ritrovati, ma soprattutto un bel po' di materiale su cui mettere le mani. Cosa è successo alle Warpaint dopo The Fool, l'album acclamato su larga scala e accolto positivamente quasi ovunque? È successo che la vita le ha catapultate on the road, accanto a mostri sacri della musica, licenziandole indipendentemente, forse, svincolate dal giogo di essere tutte e quattro legate allo star system (chi ha sorelle hollywoodiane, chi ha mariti ingombranti…). Dopo due anni e mezzo di tour, eccole rincasare in questo posto magico, fatto di deserti e strane sensazioni: il parco di Joshua Tree. È lì che si crea il substrato musicale di questo nuovo, eponimo, album. È lì, certo, ma non bisogna dimenticare che le Warpaint sono una band terribilmente radicata nel tessuto urbano di quella Los Angeles che tanto ha dato e continua a dare alla musica di un certo tipo. Non è un caso che fenomenirivelazione come le Haim abbiano LA come casa base. E non è un caso che tanto le Haim esplorano i tessuti superficiali e non con piglio scanzonato e pop, quanto le Warpaint penetrano nelle viscere delle arterie stradali, dei semafori penzolanti, del caos urbano della città degli angeli. Dopo aver ispezionato in profondità le radici di un gusto psichedelico, introspettivo e dreamy, le Warpaint hanno la consapevolezza giusta per aggiungere qualche ingre-

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Warpaint - Warpaint (Rough Trade,2014)

diente al loro buon prodotto. Innanzitutto, da brave americane, l'RnB e l'hip hop scorrono loro in vena e Warpaint risente in più punti di quell'approccio (non ultimo, nell'uso dei vocalizzi della Kokal, fan dichiarata di Mariah Carey et similia). Secondariamente, la scelta di alcuni suoni che – come ci hanno confermato – le rendono più libere di eseguire i brani dal vivo: questo vuol dire meno sovraincisioni, meno strumenti che non si possano trascinare su un palco, in una parola, "minimalismo". Minimalismo che, in questo caso, fa rima con ambient. Un ambient calibrato e tenuto a bada dai tappeti di synth che riecheggiano nelle retrovie di quasi ogni canzone. C'è infine un argomento non trascurabile: la produzione. Fermo restando che Nigel Goldrich è figura tanto evanescente quanto determinante dietro ai mixer di questo disco (ha prodotto infatti solo due brani, ma i migliori: Love Is To Die e Feeling Alright), Flood ha uno strapotere artistico sulle quattro ragazze. Le manipola facendole suonare come dei New Order col pizzo (Disco//very), le fa rivoltare su se stesse rivedendo le cose migliori dei Garbage (Hi), le rende lisergiche e languide come degli Atoms For Peace nel girone infernale degli U2 di Pop (Biggy). Certo, il rischio di voler strafare è dietro l'angolo perché, seppure nel suo minimalismo, Warpaint rappresenta una svolta rispetto a The Fool. Più mantrico, più spirituale, moderato e consapevole rispetto al precedente, questo lavoro è veramente il segno di un ritrovato interesse verso la sperimentazione. Con la differenza che mentre The Fool applicava piani soffusi, di leggero malessere autunnale e nostalgie psichedeliche, Warpaint è più inquadrato, più limato sul profilo generazionale, più incisivo. Questo per dire, per esempio, che non mancano episodi di pop (ma ricordate gli Smashing Pumpkins post Siamese Dreams?) eclatanti:

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Keep It Healthy e, soprattutto, Feeling Alright non avrebbero mai trovato posto in The Fool, ma quadrano alla perfezione in questo disco, con i contraltari elettronici e le tinte Depeche Mode (alcuni direbbero anche The XX) a surrogare il tutto. Portandosi dietro un clima ipnotico e un'atmosfera cinematografica non indifferente (ricordiamo che Chris Cunnigham ha appena finito di girare un documentario sulla band), le Warpaint hanno trovato il giusto equilibrio sperimentale filtrato da una corale introspezione di sé che, senza troppi scossoni, riesce a farsi genuinamente pop. 7.4/10 Nino Ciglio

Genere: rock, psych Dai e dai alla fine i Wooden Shjips ci sono tornati, sulla terra. Non che il loro suono fosse così cosmico come quello di certi compagni d'etichetta, ma rimaneva sempre ammantato da quelle velleità spacey che ora questo Back To Land abbandona quasi del tutto. Anzi, la transizione verso un sound più corposo e seventies, materico e spesso, sembra segnare un ritorno alle origini del progetto, vedi alla voce Wooden Shjips. Sempre reiterazioni folli di matrice quasi Suicide (Ghouls, In The Roses) infilzate lungo lo scheletro della psichedelia dura inglese anni '80, così come una notoria predilezione per i crescendo circolari alla Spacemen 3 (Ruins) seppur sporcati di sabbie desertiche e deliqui acidi da tardo-hippies (specie la propensione "melodica"). La componente seventies emerge, ad esempio, nella tradizionale ballatona inacidita (ma non troppo) di These Shadows (presente, in una versione acustica che ne accentua il portato, anche nel 7" bonus allegato all'album) o in quella malinconicamente romantica che chiude l'album

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Stefano Pifferi

The Zen Circus - Canzoni contro la natura (La Tempesta Dischi,2014) Genere: cantautori, rock Lo "schierarsi politico" degli Zen Circus prevede un sistema di comportamenti preciso, un'etica da working class vicina al punk – più che quello inglese di fine Settanta, l'indie/postpunk americano tra Ottanta e Novanta –, una quotidianità in cui la sopravvivenza diventa valore sociale condiviso. Quello che cantano gli Zen Circus, insomma, non è troppo diverso da quello che probabilmente gli Zen Circus sono. Questo modo di intendere musica e vita è confluito, nel tempo, in brani intransigenti e basali, ma soprattutto in un rapporto con il pubblico che non nasconde nulla. Anzi, cerca manifestamente di scendere dal palcoscenico, di giocarsi il tutto per tutto su una musicalità dal realismo mai gretto, nostalgico o borioso. Dimostrazione più recente in questo senso, il video di Viva (primo singolo estratto dal nuovo disco), in cui la band arriva a condividere con i fan fotogrammi della propria biografia, quasi a sancire il superamento del confine una volta per tutte. Andate tutti affanculo e Nati per subire sintetizzavano tutto questo in un songwriting sui generis e in italiano, capace di tracciare un percorso in bilico tra cantautorato e scazzo, dimensione popolare e impegno,

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Wooden Shjips - Back To Land (Thrill Jockey,2013)

(una Everybody Knows veramente atipica per i canoni del quartetto californiano), oppure negli umori da summer of love che riempiono l'opener Back To Land. Cosa, questa, che smarca lievemente i Wooden Shjips dal calderone del revival "cosmico" o psichedelico; tutto sta nel vedere quanti se ne accorgeranno e quanto reggerà questo ripiegamento. Per ora, l'album più 70s dei quattro si fa ascoltare senza infamia e senza lode. 6.5/10


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band), sull'empatia che a distanza di anni dagli esordi i Nostri riescono ancora a trasmettere. In Canzoni contro la natura c'è tutto questo e per noi è più che sufficiente. 7/10 Fabrizio Zampighi

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come di consolidare uno stile musicale finalizzato all'invettiva contro le bassezze umane. Poco a che vedere con l'antagonismo fine a se stesso, comunque, semmai una denuncia consolatoria, rassegnata e col gusto dell'ironia. Canzoni contro la natura prosegue sullo stesso binario: elimina i produttori artistici, sceglie un suono che possa "inscatolare nella maniera più fedele possibile l'energia e la naturalezza" dei live della band, riprende l'immaginario di cui si diceva poc'anzi pur spostando leggermente il baricentro. La "natura", quella che campeggia nel titolo, non è facile ecologia, bensì una variazione sul tema "ipocrisie del popolino": un cinismo obbligato che esalta la sostanza e la vitalità di un ambiente esterno (Canzone contro la natura) che alla fine potrebbe essere davvero l'unico Dio possibile (l'ottima Albero di Tiglio). Si parla di rispetto delle diversità, di leggi del mondo lontane anni luce dai futili sofismi "umanocentrici", con un Ungaretti posto in chiusura di title track che ribadisce amabilmente il concetto. Nel disco ci sono poi gli Zen Circus più noti: quelli "cazzoni" e punk-folk di Vai Vai Vai!, quelli più cinici della già citata Viva (un anthem tagliato sui concerti), quelli più affezionati al cantautorato de L'anarchico e il generale (sorta di De André in chiave combat-rock), quelli da frontiera centroamericana di Dalì. Come al solito lucidi, ficcanti e amaramente divertenti. Appino, Karim e Ufo sono questi. Aspettarsi da loro cambi di rotta sorprendenti, volerli avanguardisti, innovatori o sperimentali, vuol dire far finta di non conoscere l'ambito di riferimento, il songwriting solido e con pochi vezzi, il sostrato musicale da cui provengono. L'attenzione si sposta allora sulle buone canzoni, sulla qualità dei testi e delle musiche, su quei piccoli aggiustamenti utili a tradirsi con rispetto (come certe code strumentali inaspettate o alcune geometrie poco consuete per la

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Il giro mensile sui formati strani inaugura l’anno con cassette, dodici pollici e cd-r tra i tributi alle canzoni d’amore di This Is Not A Love Song, gli split che non t’aspetti di The Great Saunites e Attilio Novellino, gli scatafasci sono made in Sincope di Vetro Steinebach Grizzly Imploded e l’ultima prova per i neozelandesi Orchestra Of Spheres

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Nell’era della riproducibilità dell’arte, riuscire ad essere se non originali per lo meno non banali è cosa da pochi. Riuscire a dimenarsi nel marasma delle uscite discografiche, più o meno “arty”, più o meno elitarie, più o meno ricercate almeno come oggetto artistico o riuscite dal punto di vista del packaging è sempre più difficile, così come è difficile riuscire a proporre qualcosa di “nuovo” in un panorama che rischia il soffocamento. This is not a love song ce l’ha fatta e in maniera relativamente originale. Unendo cioè musica, canzone d’amore (e di conseguenza, d’artista) nello specifico, e immagini curate da illustratori, grafici e fumettisti in accostamenti a volte lineari, altri decisamente bizzarri. Qualche esempio? Akab che illustra Are You Lonesome Tonight di Elvis virandolo verso la sua consueta oscurità cromatica, Massimo Pasca che ripensa psichedelicamente e in toni di grigio Boys Don’t Cry dei Cure o la bravissima Virginia Mori che sfuma a colpi di bic Just Like Honey dei Jesus And Mary Chain. Nulla di nuovo? Solo gioia per gli occhi? No, ma la prospettiva cambia e ci incuriosisce se le orma data a questa unione è quella di una “musicassetta” vera e propria, con tanto di copertina e custodia di plastica. A curare il tutto New Monkey e To Lose la Track che per l’occasione pubblicheranno in formato fisico “reale” le compilation col “meglio di”. Disponibili già sul bandcamp e a breve in formato cassetta tangibile, il volume 1 e il 2 mettono in fila il meglio dell’underground italiano: Nubilum che smostra Luna degli Smashing Pumpkins, Il Buio che sfreccia sulle note tese di Rend It dei Fugazi, i Gazebo Penguins che se la prendono con Gigantic dei Pixies, le calligrafie nirvaniane dei Cosmetic su Drain You, le dilatazioni elettroniche di VRCVS su Fade Into You dei Mazzy Star o la follia in congrega Pop X/Calcutta sulla Je T’Aime… Moi Non Plus della coppia d’oro Birkin-Gainsburg non sono che piccoli esempi di una creatività debordante e di una idea a dir poco geniale. Non sarà una canzone d’amore ma per ora è un gran bel colpo. Passando al caro e vecchio vinile non possiamo che ri-sottolineare ciò che dicevamo per i mini di Bachi Da Pietra e Mamuthones, non a caso entrambi opera di CorpoC. Ora il laboratorio bergamasco non pubblica – responsabili sono Discreetrecords e Manza Nera – ma mette la propria firma impreziosendo per Radicalisme Mècanique, lavoro a sei mani tra il duo The Great Saunites e Attilio Novellino, un disegno curato da Vivaultra e impaginato


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da Terracava. Un lato come al solito serigrafato su vinile giallo con tema diremmo davinciano; l’altro con una composizione di 12 minuti in modalità “remote impro session” in cui la psichedelia del duo lombardo si fonde con l’elettronica di Novellino per tentare ipotesi di revisione dei canoni del free-jazz e della psichedelia più heavy. In soldoni una lunga suite di fusione a caldo tra le varie anime degli autori, con un crescendo epico e insieme minaccioso. Pollice altissimo. A 45 giri va invece l’apripista – termine ignobile, ma si fa per capirsi – di Vibration Animal Sex Brain Music, nuovo lavoro per gli invasati neozelandesi Orchestra Of Spheres. Registrato anch’esso come le session del full length, nel nostro Outside Inside, Fingerweg/Lost Days vede la luce per l’omonima label e ci mostra l’ottimo già noto della band: una furia multicolore e priva di qualsiasi inibizione, ipervitaminizzata e declinata verso lande ironiche e giocose di post-punk funkettoso disco 70 alieno, alienato e per di più clamorosamente psichedelico. Il tutto in vinile (anche) rosso. Su versanti decisamente più ostici si muove la laziale Sincope records, piccola ma tenace etichetta che si sta ritagliando uno spazio sempre crescente all’interno delle macro-aree noise e avant ma non solo. Questo mese segnaliamo tre uscite recenti degne di nota, tutte in cd-r. In primis, Rapido Sguardo Dialettico dei Vetro, trio ruvido come (non) da nome, autore di un acuminato hc sgraziato e cantato in italiano, memore della lezione primigenia di Dischord e Ebullition ma dotato di una sua personale revisione in chiave noisy e genuinamente arty (vedi alla voce, il video-collage incluso a fornire una trasposizione per immagini dell’album). A seguire Derotation di Steinebach, di nome Martin, musicista d’area grigia attivo ormai da un paio di decenni come Coscentia Peccati. Per questo lavoro Steinebach va di manipolazione di musica vinilica proveniente dalle più svariate fonti (musica classica, per cori, per bambini, ecc.) ricreando flussi di suono a volte freddamente minimali, altre in continuum asincroni, sempre pronti alla frattura e alla frantumazione, altrove in magma montanti di droning oscuri e minacciosi. A suo modo, cullante. Infine, il lavoro migliore del lotto: il comeback dei napoletani Grizzly Imploded, gente del giro napoletano più frantumato e meno incline all’ortodossia, sia essa jazz, noise, avant (vedi alla voce A Spirale, Aspec(t) et similia). Il trio formato da Maurizio Argenziano, Francesco Gregoretti e Sergio Albano va di impro radicale partendo da presupposti rock (la strumentazione doppia chitarra/batteria, innanzitutto) e affrontando la prova con la foga dei noiser e il cesello degli sperimentatori. Spasmi e dissonanze, variazioni ritmiche e asincronie per questa formazione libera, mentalmente e come organico, ennesima dimostrazione della spregiudicatezza di certe isole di creatività nascoste ai più. Stefano Pifferi

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Bauhaus

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In The Flat Field (Beggars Banquet,1980)

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Prima delle riunioni di rito che hanno portato al live Gotham e al deludente Go Away White, la parabola artistica dei Bauhaus coincideva pressappoco con il periodo storico più autentico della new wave. Dagli esordi nel 1978 allo scioglimento nel 1983, il gruppo di Northampton ha prodotto quattro album e alcuni singoli importanti, oggi raccolti in un unico boxset per la gioia dei neofiti completisti che vogliono più o meno tutto in un colpo solo. Tra le pagine più belle del quartetto assurto a simbolo della scena gothic è da considerare sicuramente il primo 33 giri, un gioiello ancora grezzo e per questo più energico e vibrante rispetto ai lavori successivi. Per spiegarlo occorre fare un passo indietro. Quando i Bauhaus non erano ancora i Bauhaus ma fratelli, amici e compagni di scuola, li accomunava la passione per il glam rock. Peter Murphy adorava Bowie e i fratelli David J e Kevin Haskins passavano ore a provare cover di T-Rex e Gary Glitter; artisti a cui la stessa band avrebbe reso omaggio con le cover di Ziggy Stardust e Telegram Sam. Il retaggio glam virato in un bianco e nero espressionista non poneva le basi solo per l’estetica dei primi Bauhaus ma ne spiega il feedback immediato presso il popolo nerovestito che dal trucco, dalle luci, dalle pose e dai testi del quartetto prenderà l’ispirazione per auto-determinarsi. Come ha detto Peter Murphy: «C’erano delle band che in seguito sono state identificate con un movimento chiamato gothic rock. Ma a quel tempo eravamo semplicemente gente che ci si è ritrovata dentro. Facevamo un casino bellissimo e vivevamo le nostre fantasie di… qualsiasi cosa». Una di questa fantasie riguardava l’attore di origine ungherese che intrepretò Dracula in un film del 1931. Due anni e mezzo prima che aprisse il Batcave, la culla del movimento goth (o dark, come si chiama qui in Italia), il 45 giri Bela Lugosi’s Dead ne diventava, volente o nolente, il manifesto. Il lato A dura ben nove minuti ed è una sceneggiatura dell’orrore tradotta in musica; le figure inquietanti della batteria, il riff sepolcrale di tre note di basso e il geniale arrangiamento di chitarra di Daniel Ash, un capriccio di scricchiolii orrifici, chop strokes e arpeggi perforanti, tradiscono curiosi influssi reggae e dub nell’incedere sinistro di un brano che Murphy canta con voce da oltretomba. Il rock non era nuovo ad atmosfere horror; vero è che rispetto a Black Sabbath, Alice Cooper o Cramps, i Bauhaus aggiungevano una patina di serietà intellettuale mitteleuropea: in copertina e sul retro comparivano due fotogrammi del Gabinetto del Dottor Caligari, caposaldo del cinema muto espressionista, e lo stesso nome della band rimandava alla cultura della Repubblica di Weimar. L’album rinuncia a quel brano trainante, lasciato per gratitudine alla Small Wonder, e si incaponisce felicemente in un hard punk teatrale e melodrammatico dai tratti però assolutamente moderni, in sintonia con il post-punk claustrofobico di Banshees e Joy Division, la


death disco dei PIL, le contaminazioni elettroniche dei Killing Joke, il sound apocalittico dei Birthday Party e molta della new musick che in quegli anni cambia il volto del rock: la pesantezza rumorosa di Double Dare, la ritmica nervosa e la chitarra vetrificata della titletrack, il funk al cerone di Dive, gli effetti elettronici di The Spy in the Cab, i tom-tom tribali di St. Vitus Dance sono lì a dimostrarlo. È qui che la sensibilità protodark diventa un marchio impresso sulla scena (marchio che presto si trasformerà in cliché per mano altrui), e la musica di In the Flat Field - meno elegante di Mask, meno raffinato di The Sky’s Gone Out – definisce l’archetipo di un genere, di un look e, perché no, anche di uno stile di vita. 8/10

classic

alb u m

Tommaso Iannini

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digital magazine | gennaio 2014 | n. 111


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