digital magazine | maggio 2014 | n. 115
Ouvertures e Uber-Werk
sommario tune in – p. 4 the Horrors Riccardo Sinigallia Band Of Skulls Joan As Police Woman Una nuvolaglia di buzz Yakamoto Kotzuga Zomby Slint
drop out – p. 36 AtomTM Swans Skiantos
recensioni – p. 72 rubriche – p. 142
#115 maggio Direttore Edoardo Bridda Ufficio Stampa Alberto Lepri Coordinamento promo Gaspare Caliri, Stefano Pifferi Art director Nicolas Campagnari A questo numero di Sentireascoltare hanno contribuito: Enrica Selvini, Alessandro Pogliani, Sebastian Procaccini, Matteo Trevisan, Andrea Murgia, Tommaso Iannini, Giulio Pasquali, Teresa Greco, Stefano Solventi, Fabrizio Zampighi, Christian Panzano, Nino Ciglio, Alessandro Liccardo, Lorenzo Costa, Stefano Gaz, Giulia Antelli, Filippo Bordignon, Daniele Rigoli, Stefano Pifferi, Elia Galli, Edoardo Bridda, Marco Frattaruolo, Marco Braggion, Gaspare Caliri, Riccardo Zagaglia, Marco Boscolo, Emiliano Santoro, Alessia Zinnari, Diego Ballani, Lalic Asmir, Andrea Macrì, Luca Falzetti Copertina Swans Guida spirituale Adriano Trauber (1966-2004)
SentireAscoltare // online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Copyright © 2014 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare.
Il 5 maggio 2014 esce il quarto album di The Horrors, Luminous, a tre anni di distanza da Skying, pubblicato nel 2011. Abbiamo parlato con Joshua Third (chitarre) e Rhys Webb (basso) per farci raccontare il nuovo disco e il presente della band Testo di Enrica Selvini
The Horrors Come un treno che non si ferma mai
Il 5 maggio 2014 esce il quarto album dei The Horrors, a tre anni di distanza da Skying, pubblicato nel 2011. Luminous: è questo il titolo di quello che si presenta come un disco dalle sonorità meno cupe, energico, che ha impiegato oltre un anno a prendere forma in una ridefinizione dei suoni sicuramente attuale e probabilmente più accessibile al grande pubblico. L’al-
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bum, registrato con la co-produzione di Craig Silvey, vuole raggiungere e superare il successo già ottenuto da Skying (secondo NME il miglior disco del 2011) ed è stato anticipato da una performance live della traccia I See You uscita lo scorso febbraio che ha visto il gruppo suonare con Thurston Moore (chitarrista nei Sonic Youth). Joshua Third (chitarre) e Rhys Webb
(basso) ci parlano di come è cambiata la band, della crescita inevitabile e della necessità di presentare un album che fosse, prima di tutto, lo specchio della voglia di sperimentare nuove vie, allontanandosi da quell’attitudine garage punk che aveva caratterizzato i primi dischi, Strange House (2007) e Primary Colours (2009). Dieci tracce che, si augurano i ragazzi, incendieranno i dancefloor di tutto il mondo. Quindici mesi per registrare il nuovo album Luminous… Rhys: sì, all’incirca questo il tempo che ci è voluto, è stato un periodo piuttosto lungo e confuso. Essenzialmente è stato lungo perché ci abbiamo lavorato senza sosta finché non siamo stati contenti del risultato finale. Non c’era motivo di avere fretta e nel frattempo ci sono stati altri concerti e festival estivi. Come nei precedenti album, così in Luminous ci sono diverse fonti di ispirazione e abbiamo sperimentato molto prima di trovare la giusta direzione. Trovarla velocemente non è facile, inoltre nella band non ci sono soltanto una o due persone che scrivono o presentano le idee, lavoriamo tutti insieme e le cose evolvono dall’inizio alla fine. Pensa a tutto quello che si perde nel rivedere, nel ri-lavorare i suoni, le melodie. In sostanza ci siamo fermati solo quando siamo stati felici del risultato. E’ stata dura? Vi siete divertiti oppure, come ho anche letto in qualche anticipazione del disco, avete avuto momenti di sconforto durante le registrazioni nel vostro studio privato a Londra? R: A volte… ovvio c’è sempre il divertimento e l’eccitazione quando le cose funzionano e si lavora su un pezzo che ti piace moltissimo, ma anche frustrazione, tensione, intensità. Siamo in cinque e di solito andiamo sempre d’accordo, non c’è davvero astio o paura del confronto, ma capita che si discuta l’uno con l’altro, in un modo molto “sensibile”. A volte è molto stressante, perché si lavora per qualcosa di importante che
deve essere fatto bene. Luminous dà una virata completamente nuova al vostro modo di fare musica, l’avete definito un album più ballabile, più divertente e felice… R: Ci piaceva l’idea di fare un album più orecchiabile, non abbiamo pensato di farlo necessariamente più allegro, ma volevamo che alcune canzoni facessero scaturire gioia, portassero buonumore, lo stesso sentimento che si prova quando si ascolta della buona musica dance o elettronica. Pensa alla dance in un locale, il lavoro del dj (Rhys è anche un dj, NdSA) è quello di tenere su il morale, di fare muovere le persone; abbiamo ritenuto interessante l’idea di lavorare alle canzoni con questo spirito. In passato abbiamo scritto dischi molto “scuri”: Luminous - e si chiama così per questo – doveva invece essere semplicemente potente, più che ispirare gioia o tristezza. Questo album è speciale: diverso il modo in cui Faris canta, le tastiere profonde, le chitarre si confondono spesso con lo stesso synth. Sono cambiati i gusti, gli interessi musicali, della band? R: Ci piace soltanto la buona musica, in generale, ma questo non può essere tutto. Non possiamo suonare sempre come se fossimo in una festa rock anni ’50, come facevamo sette anni fa. La nostra naturale espressione era essere rumorosi, confusi, veloci, arrabbiati, punk, così come sono tutte le giovani band che suonano insieme per la prima volta. Le cose cambiano, i tempi cambiano, si è più consapevoli delle proprie idee col passare del tempo. E’ proprio come quando si impara a dipingere, non devi soltanto disegnare linee. Non è soltanto l’influenza della musica che ascoltiamo, siamo noi che cambiamo, che proviamo dei sentimenti. Parlatemi un po’ dei brani che preferite in Luminous… R: Mi piacciono tutti, sono molto diversi, gli uni
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dagli altri. The First Day of Spring è come un treno che non si ferma mai, va sempre avanti, in un continuum. Changing Shadows è la traccia più elettronica di tutte. Le percussioni prendono ispirazione della house music di Chicago, le classiche vecchie drum machines, Joe suona i congos dal vivo, in un modo “elettronico”. Dal nostro punto di vista Luminous non è un album inaspettato. Skying sembra il preludio di questa evoluzione. In questo album pensate di aver dato molto di più rispetto ai precedenti? R: Penso che Strange House ci rappresenti come band in quel preciso momento, dà proprio l’idea del fare qualcosa che stai imparando, qualcosa che ami veramente, anche se non eravamo del tutto consapevoli del potere che avevamo mentre suonavamo. E’ l’inizio della storia di una band. Volevamo essere una band garage. Eravamo ragazzini garage, punk, volevamo suonare la chitarra alla maniera di Poison Ivy, che è ancora oggi una delle migliori chitarre di sempre. Credo
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che ogni nostro disco sia sempre più vero, onesto, ci mettiamo alla prova nell’ottica di crescere, di migliorare. Diventa sempre più semplice esprimersi quando si è consapevoli, a proprio agio. Le persone si aspettano cambiamenti da noi. Il cambio non può avvenire forzatamente, ma onestamente. Cosa pensate delle altre band che suonano, a loro modo, psichedelia, vedi i Tame Impala o i Temples?. Rispetto al vostro modo di suonare, credete che questo sia il nuovo trend? Joshua: Penso che ci stiamo muovendo in quella direzione. Ma è il nostro quarto album. Molte band vanno e vengono, alcune pubblicano un solo disco buono, altre suoneranno ancora tra dieci anni. Ci piacciono molto i Tame Impala, suonano da diverso tempo e diventano sempre migliori; altre band probabilmente si scioglieranno presto. Kevin Parker è un grande musicista, posso immaginare facilmente che il suo prossimo disco prevederà dei cambiamenti. Lentamente, perché le persone si sono abituate a
quei suoni, e un cambio radicale sarebbe troppo strano. Lui è Tame Impala: quando li ascolti, ascolti una persona. E lui è l’esempio perfetto del musicista e della persona vera, spontanea, onesta. Non potrebbe esprimersi altrimenti se non nel modo in cui si sente. Qual è la band più sottovalutata del momento? Rhys e Joshua: Forse…Connan Mockasin dalla Nuova Zelanda. Ha scritto un album meraviglioso, Caramel. Viene molto spesso a Londra, è psichedelico ma non segue la moda del momento, non è consapevole di questo trend. Devi assolutamente ascoltarlo, ti piacerà senza dubbio. Ci sono libri o film che hanno ispirato l’ultimo album? Rhys: Per quanto riguarda me, assolutamente no. Mi ispirano i sentimenti. Joshua : Sì, evocare i sentimenti. Dal punto di vista musicale ci piace davvero musica molto diversa, ma ci piace anche sperimentare per noi stessi, niente viene ispirato da sentimenti che
provengono da fonti esterne a noi stessi. Quali sono le vostre aspettative per questo album? Rhys: Non lo sappiamo. Non vediamo l’ora di essere in tour per suonarlo dal vivo. In questo modo, possiamo dare alle canzoni il tempo di evolversi ulteriormente. Alla fine di un tour una canzone può diventare completamente diversa da quella dell’album. Agli NME AWARDS abbiamo suonato il nostro singolo I See You per la prima volta, e Thurston Moore ci ha accompagnati alla chitarra. E’ stato fighissimo. Non lo avevamo mai incontrato di persona, prima di quel momento. E’ nato nel 1958, ha tantissime storie da raccontare, come quando da giovanissimo si è trasferito a New York, usciva con Sid Vicious, suonava a volte insieme ai Television. E stato molto interessante; quella sera, prima degli Awards, abbiamo provato la nostra canzone per tre volte e poi ha detto: ok andiamo a bere al pub di fianco! Ci sentiamo molto fortunati. Quando suonerete in Italia? Rhys: Suoneremo quest’estate in un festival a Milano, insieme ad altre band come The Dandy Warhols. Magari faremo insieme un dj set! Venivo a Milano a mettere i dischi sette anni fa al London Loves (una delle serate di punta del club Plastic, ndSA). Era un po’ come il Junk Club a Londra. Il vostro primo concerto in Italia è stato al Rocket di Milano, eravate proprio una novità e dopo quella volta tutti hanno iniziato a vestirsi e a pettinarsi come voi… Rhys: (ride, ndSA) allora la prossima volta che ci vedremo, ricorderemo il nostro passato bevendo birra nel backstage. Grazie mille, è stato un piacere. A presto. (Intervista di Antonia Ciancaglini e Enrica Selvini)
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Un'amabile chiacchierata con Riccardo Sinigallia, in cui si è parlato del nuovo disco, di progetti di vita e della partecipazione all'ultimo Festival di Sanremo. Testo di Sebastian Procaccini
Riccardo Sinigallia Intervista
Ci sono piccoli imprevisti che a volte migliorano il risultato di quello che si sta facendo. Ad esempio, questa intervista a Riccardo Sinigallia non doveva avvenire tramite skype, come invece è successo. Colpa dei numerosi impegni di Riccardo e di alcune difficoltà logistiche. Parlare con Riccardo mentre si trova a casa con la compagna (Laura Arzilli, sua partner anche nella musica) e figli, ci ha dato modo invece di trovarci di fronte un interlocutore rilassatissimo
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e ben disposto, come di rado accade. Questo è il resoconto della nostra conversazione, realizzata quasi a ridosso della partecipazione del musicista al Festival di Sanremo. Non giriamoci attorno e partiamo subito dalla domanda più impegnativa e scontata: come quasi tutti sanno, sei stato a Sanremo e la tua partecipazione è stata segnata da un’esclusione dalla gara, a seguito della segnalazione di qualcuno relativa a una tua esecu-
zione live di Prima di andare via precedente alla competizione. Senza soffermarci sulle modalità della tua squalifica e sul regolamento, mi viene da chiederti qualche impressione su tutta l’esperienza, a partire dalla partecipazione al Festival per arrivare alla tua improvvisa uscita. Tenendo anche conto di come per te Sanremo non fosse completamente una novità, data la tua partecipazione passata coi Tiromancino e con Marina Rei… Beh, è stata ovviamente un’esperienza “importante”, per me. Presentarmi finalmente come Riccardo Sinigallia è stata davvero un’altra cosa, rispetto al passato. Sono molto grato a chi ha fatto sì che questa cosa accadesse, penso a Fabio Fazio, a Stefano Senardi che mi ha presentato alla commissione, a Mauro Pagani e a tutti gli autori per avermi preso. E’ stata una cosa che ha cambiato la prospettiva del mio lavoro e ha permesso che il lavoro di questi anni godesse di una nuova visibilità. Da questo punto di vista, sono stra-felice di essere stato a Sanremo, una manifestazione che tutti amano criticare ma che nessuno potrebbe non considerare una vetrina fondamentale per chi non fa musica di nicchia o di genere, come death metal o rap… Oddio, direi che il rap non se l’è passata male quest’anno a Sanremo… Beh, sì, in effetti hai ragione, ma sai di cosa parlo, mi riferisco al rap non da classifica. In ogni caso, essere a Sanremo, come ti ho detto, è stato molto emozionante. Riguardo all’uscita improvvisa, è scontato dire che mi sia dispiaciuto, mi è sembrata la conseguenza di un’azione che non mi sembra giusto definire “una scorrettezza”. Mi è capitato di fare il brano di fronte a folle di venti persone, come tu stesso hai avuto modo di vedere (un concerto in quel di Chiaravalle, paesino marchigiano, NdSA), e poi ho scelto di farla in un’occasione con più persone, troppe persone, e il resto è cronaca. Senti, appurato che ti sia dispiaciuto, puoi
dire che la squalifica ti abbia davvero danneggiato, in tempi come questi dove non importa che si parli male o bene di qualcuno, purchè se ne parli? Mah, è una cosa che purtroppo potrò dire solo tra un po’ di tempo, lo capirò negli anni. Mi spiace che sia successo, perché questa parola, “squalificato”, uno rischia di portarsela dietro anche per molto tempo. Tuttavia, in questi 25 anni di attività, io squalificato mi ci sono sempre sentito almeno un po’, sono sempre stato al di fuori di certe cose, credo che sia ormai parte integrante della mia proposta. In fondo, questo Paese ha spesso squalificato persone che si sono mosse in modo corretto e viceversa qualificato persone il cui operato è stato più discutibile. Relativamente al brano con cui hai partecipato, Prima di andare via, l’impressione è positiva soprattutto per un fattore: sei riuscito a presentare una canzone che è sicuramente riconducibile alla tua cifra stilistica, eppure al contempo perfettamente a suo agio nel contesto sanremese. Come capita spesso, il guaio di un brano sanremese (e per “brano sanremese” intendiamo ormai un vero e proprio genere) è quello di avere un arrangiamento orchestrale fin troppo invasivo, e qui mi sembra che non ci sia, e credo che ci sia stato parecchio impegno su quel versante. É un’impressione con cui concordi? Sì concordo decisamente su questo aspetto. In realtà è un lavoro che ho fatto, con una fortissima volontà, su tutti i brani, affinché potessero essere capiti da tutti (da cui, in effetti, il titolo). Sono stato molto attento a non dileggiarmi e autocompiacermi troppo, a non perdermi nella solita ricerca di psichedelia e affini, ho tentato di convogliare quello che un tempo era un lavoro tutto rivolto alla ricerca sonora, all’architettura dei brani, su una semplificazione delle canzoni, cercando di confrontarmi con il Paese in cui viviamo e dove io faccio questo lavoro.
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Trovi offensivo o riduttivo l’essere considerato più un ottimo artigiano, specie in relazione a questo nuovo lavoro? Guarda, è un termine che usano in tanti da un po’ di tempo, anche nei miei riguardi. No, non lo trovo offensivo, da una parte lo trovo lusinghiero, anche se a volte magari è un termine un po’ abusato, ma rientro pienamente nella definizione, sono una specie di pittore o artigiano, appunto, che fa lavori in maniera autonoma, innanzitutto con passione e gioia. Lo prendo come un complimento e ti ringrazio, aggiungendo che la figura dell’artigiano andrebbe decisamente rivalutata. Parliamo del tuo ultimo disco e specificatamente del primo brano, E invece io. É un titolo piuttosto enigmatico, quella congiunzione rimanda a un periodo del passato che ti limiti solo ad accennare. Nelle tue canzoni è una cosa che ogni tanto riaffiora, questo guardare al passato. Come mai hai posiziona-
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to proprio quel brano in apertura e che peso gli dai nell’economia del disco intero? Beh sì, un discorso in sospeso c’è, anche se non è una cosa così programmata. Sentivo semplicemente il dovere morale di traghettare i miei ascoltatori più affezionati, oserei dire inspiegabilmente affezionati dal momento che non sono uno di quelli ossessionati dal comunicare con gli ascoltatori attraverso le varie piattaforme. Dicevo, il brano nasce appunto per loro, per spiegare che c’era un discorso da finire e di cui la canzone è l’ideale proseguio. In realtà la canzone parla anche della connessione tra le nostre zone fisiche e quelle più spirituali, è il frutto di un’importante esperienza che ho avuto seguendo un seminario dedicato alle radici della voce, tenuto da un produttore israeliano, circa tre anni fa. Appena terminato il seminario mi sono messo a scrivere E invece io. É un pezzo che in qualche modo può essere affiancato a Finora, presente in Incontri a Metà Strada. É
ovvio che questo sia da considerare come l’ultimo capitolo di una trilogia iniziata con il primo album, sicuramente più autoreferenziale, poi proseguita con il secondo e infine con questo Per tutti, che già dal titolo vorrebbe aprirsi al maggior numero possibile di persone. Il singolo sanremese: Prima di andare via. Ho ascoltato il brano con qualche mese di anticipo, in una tua esibizione live, in versione acustica con solo te alla chitarra e Laura (Arzilli) al basso. Lo trovai un ottimo brano, e appena seppi della sua inclusione tra le canzoni di Sanremo, ebbi molta paura che venisse fagocitato dalle esigenze di arrangiamento, che il noto Festival di solito vuole particolarmente pomposo. Poi tutto questo non è successo. E’ stato difficile operare in questa direzione? La decisione, in questo senso, è una cosa interamente attribuibile a te? Sì, devo dire che è stato difficile. La richiesta di spettacolarità musicale e di radiofonicità era forte, ma sono riuscito a raggiungere un ragionevole compromesso. É un po’ come quando ti invitano a una festa di una ragazza di cui sei innamorato, ma vieni a sapere che c’è un certo codice di abbigliamento. La cosa più scontata da fare è organizzarsi e vestirsi decentemente… Magari con un bel paio di scarpe logore per distinguersi… Sì esatto. In ogni caso il risultato non è frutto dei miei soli sforzi, malgrado abbia seguito tutti i vari step della lavorazione, anche i più piccoli. Mi sento di citare con piacere Andrea Pesce, Vittorio Cosmo (con Riccardo anche nel progetto Deproducers, NdSA), Filippo Gatti, Fabio Patrignani, Marco Rovinelli, Bob Angelini, Alfonso Bruno e insomma, tutte le persone che hanno reso il brano così com’è venuto fuori. Il rapporto con Filippo, co-autore di tre dei brani, va poi oltre la semplice collaborazione, visto che ci conosciamo da tantissimo tempo. In particolare, mentre scrivevo alcuni brani, ho avuto
modo di leggere una mail di Filippo che conteneva molte di quelle che sarebbero diventate le parole di Prima di andare via, ed è da lì che è iniziato il rapporto, che poi è continuato anche per i brani Una rigenerazione e Le ragioni personali. In effetti, gli ultimi due brani che hai citato sono leggermente meno personali di quelli scritti solo da te. Mi sono sembrati vendittiani, e con Venditti mi riferisco al suo periodo più pop, non a quello della militanza e della povera gente. Concordi? Il Venditti di cui parli, quello di Sotto il segno dei pesci, è quello che preferisco, in particolare ritengo quel disco un capolavoro. Da ragazzino mi entrò nella vene nella maniera più pura possibile, ricordo più o meno tutti i brani con piacere. Sbaglio, o questo disco è più biografico di altri? In realtà tu sei biografico un po’ ovunque, ma credo che in brani come Che non è più come prima tu ti apra moltissimo rispetto al passato. E così? Sì, in quel brano in particolare faccio riferimento tanto al mio travagliato percorso come musicista professionista, quanto al mio rapporto con la figura paterna. É un dialogo in cui ho mio padre come interlocutore, lui ha sempre avuto questo ruolo, nel bene e nel male, come in quasi tutti i rapporti tra padre e figlio. Sono persino stato tentato di levare la parola papà dal testo, in quanto troppo rivelatrice e quasi scontata. A proposito dei brani relativi alla tua vita di musicista, tratti l’argomento anche in Per tutti, una delle canzoni che mi sembra convincano meno. Affidare alla title track un messaggio quasi di sfida è una scelta particolare… Beh no, non lo vedo come un vero e proprio assalto. É più da considerare come una sorta di assoluzione per tutti, un prendere atto del fatto che ci siamo scannati e lo abbiamo fatto con
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ragioni comprensibili da entrambi la parti, e che ormai è possibile andare oltre… Ma in particolare a quale “voi” ti riferisci? Il voi, così come il noi, lo uso in maniera piuttosto ingenua e lo inserisco in un flusso di coscienza molto libero. Ma direi che mi riferisco a diverse persone che fanno parte del mondo musicale in maniera limitrofa, quelle figure che determinano molto dell’andamento culturale in Italia (giornalisti, critici e via dicendo). Nel corso degli anni ho visto la situazione degenerare verso un eccessivo peso per tutte queste figure. É questo il motivo per cui sono molto grato a Fazio dell’invito a Sanremo. La canzone è sicuramente uno sfogo nei confronti di un ingiustificato ostracismo nei confronti di tanti bravissimi
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colleghi. Io e Franchino è invece un brano molto riuscito. É dedicato a Zampaglione, nel senso di Francesco (fratello di Federico), persona con cui hai condiviso moltissime esperienze. Parlamene un po’ e magari dimmi qualcosa del significato alla base del brano… Io e lui condividiamo una ricerca musicale comune dall’89; abbiamo lottato molto assieme e le cose sono descritte in maniera abbastanza esaustiva nel brano. Le strade ora si sono separate ma era doveroso scriverne. Quanto al significato, non saprei bene qual è. Credo che di solito ogni canzone possa avere un suo significato a seconda di chi la ascolta, perciò non mi sento di dirti che senso ha avuto per me.
Come ti poni nei confronti del concetto di “scena”? É palese come tu sia una figura ibrida tra l’ascoltatore di musica mainstream e di quello di nicchia, come vivi questa cosa? La vivo come un dato di fatto che ho dovuto accettare, e va detto che ho fatto un po’ di tutto anche io per non essere collocato da nessuna parte. E’ una cosa che mi è venuta in maniera più o meno naturale. C’è anche da dire che la catalogazione di questo o di quel fenomeno ha subito uno scossone dai vari social network e youtube. Soprattutto il web ha inserito una modalità diversa di promozione, rendendo più aggressivi i toni e facendo spesso ricorso al “fenomeno” da creare a tavolino, indipendentemente dalla sostanza artistica. Ci sono realtà che purtroppo non beneficiano di questa cosa, mi vengono in mente lo stesso Filippo Gatti o Francesco Di Bella (24 Grana, NdSA).
Impegni nell’immediato? Sicuramente gestire un live che non preveda una line up di sola chitarra e basso e che comprenda dunque tutte le anime del disco e dei miei lavori precedenti. Al di là di Laura al basso, ci saranno Andrea Pesce alle tastiere, mio fratello alla chitarra elettrica, Francesco Valente alla chitarra e Ivo Parlati alla batteria. Sarà un approccio diverso, ci stiamo lavorando individualmente con grande intensità. Stai avendo una maggior esposizione mediatica. Come la vivi? A parte il fatto che in realtà non è stata una vera e propria esplosione, mi trovo abbastanza a mio agio. Il mio desiderio, come già detto, è che questo disco arrivi veramente a tutti, come mai prima d’ora.
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Viaggio verso la vetta dell'Himalaya, tra Marc Bolan, Jimi Hendrix e i "Pan del Diablo". Testo di Andrea Murgia
Band Of Skulls La lunga scalata verso il successo
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Freschi di pubblicazione del nuovo Himalayan, i Band Of Skulls, tra una data e l’altra del tour promozionale che toccherà anche l’Italia il 10 e 11 aprile 2014 a Milano e Roma, hanno trovato il tempo per scambiare due chiacchiere con SENTIREASCOLTARE. Sintetico ma esaustivo, Russell Marsden ha risposto a tutte le nostre domande, raccontandoci del nuovo disco e delle sue ispirazioni in fase di registrazione. Sono trascorsi cinque anni dal vostro debutto, Baby Darling Doll Face Honey. In questi anni avete suonato un numero esagerato di live e molte delle vostre canzoni sono state utilizzate per videogiochi, serie TV e film. Come vivete la pressione della popolarità? Beh, noi non la sentiamo tanto la pressione. È molto più difficile non riuscire a raggiungere il pubblico, ma conosciamo bene il problema. La cosa importante è che ci piace quello produciamo. Sono sicuro che faremmo questo lavoro anche se nessuno ci conoscesse. Cosa c’è dietro il nuovo album Himalayan? Ci abbiamo lavorato per l’ultimo anno, registrando tutto il materiale a Londra in due mesi con Nick Launay. Siamo sempre noi, solo che Nick ha aggiunto montagne al nostro suono. Penso che il cambio dietro il bancone del mixer, vi abbia dato più muscoli, potenza e un suono ancor più definito. Come è stato lavorare con Nick Launay? Ogni produttore porta in studio il suo stile in fase di registrazione. Nick ci ha messo a nostro agio e ci ha aperto a nuove idee e direzioni. Il fatto che fossimo fan degli stessi suoni e dischi, ci ha sicuramente aiutato.
riti di mio padre! Come nasce un vostro pezzo? Seguite un metodo? Nessuna metodo. Nessuna regola. Nessuna Pietà. Come è stato passare da suonare nei piccoli club alle grandi arene in compagnia di band come Muse e Queens Of The Stone Age? È una crescita personale sicuramente, ma è allo stesso tempo come suonare il tuo primo concerto nella tua città. C’è solo molta più gente e pressione. Cosa state ascoltando ultimamente? Pan del Diablo (Il Pan del Diavolo?, NdSA). L’album che ha cambiato la tua vita? Electric Ladyland della Jimi Hendrix Experience.
Uno dei brani più riusciti del disco è, a mio avviso, Hoochie Coochie, che mi ricorda certe sonorità di Marc Bolan e dei suoi T.Rex. Quanto è stata importante la sua musica per voi? Hai indovinato! Bolan è uno dei musicisti prefe-
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Soul, raffinatezza e un nuovo inizio per il ritorno della Police Woman americana. Sembrano del tutto spariti i tormenti del passato e Joan Wasser torna a sorridere, alla ricerca della canzone perfetta. Testo di Teresa Greco
Joan As Police Woman The Golden Girl
Joan Wasser risplende in ogni senso. E’ sin troppo facile accostare la copertina dell’ultimo album, The Classic, che la ritrae ricoperta d’oro alla Goldfinger, al periodo positivo che
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la quarantenne artista americana conosciuta come Joan As Police Woman sta attualmente vivendo. Periodo in ripresa evidenziato già dal penultimo lavoro, The Deep Field, pubblicato
nel 2011, nel quale i musicisti non a caso sono i medesimi di oggi e in cui era già palese la virata più decisa verso sonorità soul e solari, a dispetto delle tormentate torch song del passato. Arrivata alla tappa importante del quarto album in carriera, Joan As Police Woman si libera dei fantasmi tormentati del passato (due dolorose scomparse come quelle della madre e del compagno Jeff Buckley hanno lasciato pesantemente il segno), per riscoprirsi finalmente libera e serena, nel pieno delle sue possibilità espressive. The Classic esplora allora fino in fondo la sua voglia di intimità e gioia di vivere, con in più il bagaglio portato dall’esperienza, alla ricerca di personali e perfette classic songs. Con la discrezione e l’understatement che la caratterizzano da sempre. Un tour acclamato in corso, che l’ha portata poco tempo fa anche in Italia , ci fornisce l’occasione per ripercorrere con lei presente e passato, parlando del nuovo disco e di molto altro. Ciao Joan, come è nato The Classic e chi ha collaborato con te? L’album parte da dove mi ero fermata. In The Classic sono presenti infatti tutti i musicisti che avevano suonato nel precedente The Deep Field, me compresa (vale a dire Tyler Wood, Parker Kindred, Oren Bloedov, Steven Bernstein, Briggan Krauss, Doug Wielseman, Nathan Larson, Joseph Arthur, Toshi Reagon, Michele Zayla, Stephanie Mckay) con in più Reggie Watts (nel rap finale di Holy City e al beatboxing della title track), che ho avuto la fortuna di poter avere come guest. A proposito, come è stata questa collaborazione con il comedian americano Reggie Watts? Volevo qualcuno che cantasse a quel modo alla fine di Holy City e che facesse il beatboxing su The Classic, e volevo proprio Reggie; un amico comune ci ha messi in contatto, ci siamo incontrati in un coffee shop, ha ascoltato i pezzi,
ha tolto le cuffie e mi ha detto subito:”Quando registriamo?”. I sogni si realizzano. Il soul è stato quasi sempre presente nei tuoi album, questa volta però in modo più marcato, una vera e propria dichiarazione d’amore. Come è avvenuta questa scelta stilistica? Questa musica è venuta naturalmente sin dal disco precedente, non avevo di certo in progetto di fare un altro album soul, il tutto è fluito naturalmente senza sforzo ed eccoci qua. Perché hai scelto questo titolo? Quali sono i “classici” per te? Beh, con un nome come Joan As Police Woman, dovevo avere un titolo altrettanto coraggioso per l’album! In effetti, The Classic calzava bene come titolo, più di qualsiasi altro. Nella title track, canto al mio amore: “Tu sei l’archetipo, sei il classico”, confessando in modo grandioso il mio amore per una creatura così fantastica. Sono sempre alla ricerca della canzone perfetta, del classico. Continuerò a cercare la mia personale Tears Of A Clown o Isn’t She Lovely. Nel finale della canzone fai uno spell di CLASSIC… come Aretha Franklin aveva fatto in RESPECT… Già! Nel pezzo ci sono molti riferimenti a pezzi rock and roll e soul, come You’re All I Need To Get By di Marvin Gaye e Tammi Terrell, Rock and Roll Is Here To Stay di Danny and The Juniors… Io ho aggiunto le mie parole: “…and this song we’ve been singing, feels like it’s always been sung”, “questa canzone che abbiamo cantato, sembra essere cantata da sempre…” Quali sono state le tue principali ispirazioni soul? Tante… Stevie Wonder, Nina Simone, Al Green, Sly and the Family Stone, Ann Peebles, Dusty Springfield, Marvin Gaye, Betty Davis, Curtis Mayfield. I generi che hai attraversato, classica, rock, punk, new wave e poi soul: quali sono i punti di contatto secondo te?
Amo tutta la musica che è legata alle emozioni, mi fa sentire viva e porta sensibilità nella mia vita. Tornando all’album, Holy City è ispirata alla tua visita a Gerusalemme, ci puoi dire di più? Ho fatto un concerto a Tel Aviv e sono rimasta lì per una settimana; mentre visitavo la Città Vecchia a Gerusalemme, sono stata al Muro del Pianto e ho visto la gente in estasi. Estasi che per mia formazione non posso riferire alla religione, ma posso accostare alla musica e all’amore. La canzone parla di trovare un amore che è come la Città Santa, il mio Dio è l’amore.
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Nell’album si respira un senso di serenità, anche musicale, come se finalmente i fantasmi del passato fossero distanti…. Come mi sembra di cogliere dal testo di Witness, pieno di consapevolezza e risveglio, dalla title track, da Good Together in cui dici di non voler essere nostalgica per qualcosa che non è mai stato, dal bel video di The Classic girato a NY con tutti i contributors… Serenità che mi ha ricordato molto le atmosfere di Stevie Wonder… Che bel complimento, grazie! Mi sforzo di scrivere canzoni aperte ma non leggere, Stevie
Wonder infatti è bravissimo nel fare questo: creare canzoni che parlano di gioia e dolore restando positivo. E’ questo il senso di essere più maturi no? Immaginare come vivere in un modo più sereno senza perdere il passato, ma integrandolo in una sorta di saggezza giocosa, una danza. Nella cover dell’album risplendi. Mi ha ricordato un immaginario alla Ziggy Stardust… Wow, sono una grande fan di David Bowie, questo è certo, ma in questo caso non mi sono riferita consciamente a Ziggy, onestamente mi piaceva moltissimo l’idea della cover dorata. Hai iniziato da piccola a suonare uno strumento, nello specifico il violino, e poi hai studiato musica classica: come sei arrivata, poi, al rock e al punk? Sono sempre stata interessata alla musica, non solo la classica. Rock, art rock, punk e new wave mi sono sempre piaciuti e non ho mai pensato fossero poi così differenti dalla musica classica. Hai suonato con tanti musicisti: come sei arrivata a un certo punto alla carriera solista? Mi piace suonare in gruppo, collaborare con gli altri, ma quando ho capito che ero in grado di scrivere le mie canzoni e ho iniziato ad abituarmi alla mia voce e alla fine a farmela piacere, la carriera solista è stata una scelta naturale. Ho sempre pensato che il nome scelto per il tuo gruppo fosse fantastico, e quando poi ho scoperto da dove provenisse, beh… sono una fan di Angie Dickinson e la sua serie TV Police Woman, ricordo di averla vista negli anni ’80 qui in Italia (trasmessa con il titolo Pepper Anderson Agente speciale). C’è tutto un immaginario di protagoniste forti femminili riferito agli anni ’70 di TV e cinema che è stato poi mitizzato… Police Woman è stata il primo film TV con protagonista una donna; Angie Dickinson aveva 40 anni quando ha iniziato a girare la serie, nessuna era più in gamba di lei!
Di recente hai partecipato alla riedizione dell’album degli Afterhours, Hai paura del buio, Remastered and Reloaded, uscito proprio nello stesso periodo del tuo disco, rifacendo la canzone Senza finestra. Ci puoi dire come è avvenuto l’incontro e come ti sei trovata a lavorare con Manuel Agnelli e con il gruppo? Abbiamo un’amica comune che ha fatto in modo, conoscendo entrambi e la nostra musica, che ci incontrassimo e lavorassimo insieme. Mi sono fidata di lei e del suo istinto, è stata un’esperienza molto positiva lavorare con Manuel, gli sono grata per aver apprezzato subito le mie idee e siamo arrivati a fare il pezzo senza sforzo. Tutte le collaborazioni dovrebbero essere come questa! C’è il fortunato tour che ti sta portando in giro per il mondo… ho visto un video promozionale al piano della tua esibizione al Café Trussardi a Milano dello scorso febbraio, veramente incantevole. Sono canzoni che sembrano nate per essere suonate in solitaria, prima che con la band… Ho la band più fantastica di sempre: Parker Kindred alla batteria, Eric Lane a tastiere, keys, sax tenore Matt Whyte alla chitarra, e io al canto, chitarra, keys e violino, abbiamo creato nuovi arrangiamenti per i live, mi sto divertendo moltissimo. Il divertimento si sente, traspare un senso di riconquistata armonia, per un ritorno colmo di grinta e raffinatezza, una rivisitazione di un genere adattato alle sue corde, mai sopra le righe, ma con tanta anima. Bentornata Police Woman.
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Le Real-Time Charts di Billboard e Twitter sono frutto dei tempi, fuffa 2.0 o un tentativo di riprendere il controllo della situazione? Testo di Stefano Solventi
Una nuvolaglia di buzz Lo scorso 28 marzo abbiamo pubblicato una news riguardo la partnership tra Billboard e Twitter. In sostanza, un algoritmo traccerà i tweet a tema musicale sul social network producendo dati che Billboard – storica autorità in materia di classifiche – elaborerà secondo propri parametri realizzando così delle Real-Time Charts. Di primo acchito, sono stato tentato di considerarla come la versione 2.0 dell’antico precetto “bene o male, purché se ne parli”. Poi me ne sono abbastanza disinteressato, in attesa di capire se e come un tale cambio di paradigma potrà influire sul modo di produrre, creare, distribuire e casomai retribuire musica. Ora, dovete sapere che attorno ai vent’anni sono stato un lettore accanito di Alberto Savinio. Fratello del celebre pittore metafisico Giorgio De Chirico, era anch’egli pittore ma prima ancora scrittore e compositore, dotato di una cultura vastissima e di una sensibilità poetica condita di errabonda ironia. In uno dei suoi topos ricorrenti era solito individuare una recondita volontà nei frequenti errori della macchina da scrivere, come se la tastiera – surrealisticamente senziente – intendesse suggerirgli qualcosa. Che dire,
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certe letture giovanili ti lasciano segni indelebili, vere e proprie tare mentali. Tanto che quando nel giro di poche ore mi sono imbattuto in altre due notizie (grazie al postino che mi recapita puntualmente ogni settimana Internazionale) ricollegabili in qualche modo a quella suddetta, non ho potuto fare a meno di vederci la volontà di un qualche “fantasma nella macchina” che battendomi il ditino sulla spalla mi sussurrava di rifletterci un po’ sopra. La prima news proviene dall’autorevole periodico britannico New Scientist, e riguarda il sostanziale fallimento del progetto Google Flu Trends. Lanciato nel 2008 con lo scopo di prevedere i picchi influenzali, ha fornito fino ad oggi dati sostanzialmente errati. Alla base del progetto c’è un’idea abbastanza semplice, ovvero il “setaccio” in rete delle ricerche effettuate con parole chiave riconducibili alla presenza di sintomi influenzali (termini tipo “febbre”, “tosse”, “brividi”, “diarrea” eccetera), producendo quindi una fotografia in tempo reale della diffusione dei virus. Tali dati, opportunamente elaborati, avrebbero dovuto prevedere il numero delle visite mediche e dei medicinali necessari con evidenti vantag-
gi per l’organizzazione logistica. Ma le stime si sono rivelate inaccurate, con una netta tendenza a sovrastimare i numeri. Lo scorso anno ad esempio erano state previste un numero doppio di visite rispetto a quelle che si sono effettivamente verificate. L’altra notizia ci riguarda da vicino, perché – riportata dallo statunitense The Atlantic – mette nel mirino soprattutto l’Italia evidenziando i clamorosi esiti di uno studio condotto su Facebook durante la campagna elettorale del 2013. Studiando i commenti e i like degli utenti alle notizie provenienti da fonti diverse e diversamente attendibili, si è appurato infatti che l’attenzione suscitata da una notizia è indipendente dalla sua veridicità. Ad un tratto si è addirittura scatenato un putiferio sulla presunta “legge Cirenga” appena approvata in Senato, che avrebbe istituito un fondo di 134 milioni di euro per i parlamentari rimasti disoccupati alla fine del mandato. Non solo la notizia era falsa, inventata di sana pianta, ma neanche esiste un senatore Cirenga. La conclusione dell’autore dello studio, Walter Quattrociocchi della Northeastern university di Boston, è che “le affermazioni infondate (…) continuano a diffondersi tanto quanto le altre notizie”, dimostrandosi anzi un fenomeno pervasivo dei social network e incoraggiando una sorta di “ingenuità collettiva”. O, se preferite, una vera e propria “disinformazione digitale”, quella che in un rapporto dello scorso anno il Forum economico mondiale ha definito come “uno dei rischi principali per la società moderna”. E’ chiaro che non è il caso di essere tanto drammatici se ci limitiamo a parlare di classifiche di vendita, però alla luce di questo è lecito almeno farsi venire qualche dubbio sull’attendibilità della faccenda Billboard-Twitter. La sensazione è che siamo nel campo della speculazione pura, dove la residua autorevolezza delle classifiche – sappiamo come fin dall’origine del fenomeno
pop siano state sottoposte a turbative d’ogni tipo, dalle case discografiche che fanno incetta di dischi alla semplice distorsioni delle cifre di vendita – evapora in una nuvolaglia di buzz con nessun appiglio ad una qualche situazione reale (di quantità d’ascolti, di gradimento, di diffusione e distribuzione). La smaterializzazione del circuito musicale compie un ulteriore passo negando un altro pezzo di realtà, quello del numero effettivo di utenti finali, uno dei più scomodi e difficilmente gestibili, per dislocare la motrice motivazionale del profitto nel campo astratto della popolarità social. Quest’ultima sì manipolabile o comunque giocoforza il terreno nel quale si fronteggiano a forza di algoritmi gli attori del nuovo mercato. E qui il punto si fa particolarmente critico. A proposito dell’epic fault di Google Flu Trends, Evan Selinger del Rochester institute of technology di New York fa notare come esista un problema di neutralità degli algoritmi, concepiti – ovviamente – con lo scopo di generare profitto. Il fatto è che nessuno sa come funzionino. “Sempre più decisioni che ci riguardano sono basate su processi a cui non abbiamo accesso”, sostiene Selinger. La situazione diventa particolarmente grave quando da certi codici possono dipendere le coordinate che guidano un drone verso l’eliminazione fisica di un presunto terrorista, non certo con le Real-Time Charts di Billboard e Twitter, rispetto alle quali possiamo permetterci di alzare il sopracciglio e lasciare semplicemente perdere. Almeno finché non acquisteranno un peso tale da distorcere significativamemente i flussi di un mercato alla canna del gas, premiando il dozzinale e mortificando il virtuoso più di quanto già non accada. Allora, magari, potremmo anche parlarne male. Molto male.
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In attesa dell'album d'esordio con La Tempesta Dischi, abbiamo intervistato il producer veneziano Yakamoto Kotzuga, che ci ha parlato di progetti futuri e di una nascente scena elettronica italiana. Testo di Matteo Trevisan
© Milos Costantini
Yakamoto Kotzuga Intervista
Yakamoto Kotzuga è giovane, ma non sprovveduto. A vent’anni ha già avuto modo di sperimentare sulla propria pelle esperienze non poco rilevanti (dalla collaborazione nel mixtape Aspetta un minuto di Ghemon fino al recentissimo opening act per Forest Sword al Node Festival, per non parlare della partecipazione al Felina Ep di Capibara e Dropp), che lo hanno portato ad affermarsi come una tra le giovani promesse del panorama elettronico nazionale. In questa intervista si racconta in modo diretto e sincero, svelandoci le sue considerazioni (e le sue speranze) su quel microcosmo di produttori ed etichette che piano piano sta emergendo in Italia. Raccontaci come è nato il progetto Yakamoto Kotzuga, qual è il suo percorso evolutivo, quali le sue influenze, l’ immaginario e le tematiche che vuole esprimere…
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Il progetto Yakamoto Kotzuga è nato in modo molto naturale. Dopo un primo approccio alla musica attraverso la chitarra, mi sono avvicinato all’elettronica e ai primi software, incuriosito dall’incredibile gamma di possibilità che offrivano. Dopo un periodo di puro divertimento (cosa che vale ancora oggi, in realtà) ho iniziato nel 2013 a lavorare più seriamente ad alcune tracce ed ho prodotto il mio primo EP, edito successivamente dalla netlabel Bad Panda Records. Gli artisti che mi hanno influenzato, in particolare nei primi tempi, sono stati Shlohmo, Baths, Nosaj Thing, Shigeto, James Blake, Mount Kimbie, Four Tet, Dream Koala e molti altri. La musica che faccio è molto personale, è la trasposizione di sensazioni ed emozioni che ho vissuto. Cerco di cambiare sempre, anche se di base credo di avere un’ attitudine abbastanza malinconica. A volte però ho solo voglia di fare
qualcosa che rilassi la gente, che la faccia sentire amata. Come e dove produci?I tuoi dischi sono caratterizzati dalla forte presenza della chitarra. Qual è il tuo approccio live? Da vero bedroom producer le mie uscite fino ad ora sono state interamente prodotte nella mia stanza, dopo il tramonto o di mattina. Solo recentemente sono riuscito a ricavare uno spazio dove produrre, fuori casa, una sorta di studio (niente di troppo professionale). Il fatto di andare in un posto in cui dedicarsi solo alla musica e senza internet mi ha reso molto più produttivo e attento, e poi finalmente in camera riesco a spostarmi senza inciampare in una chitarra o in altro. Per quanto riguarda l’uso della chitarra, per l’appunto è lo strumento che ho sempre suonato e con cui mi sento più a mio agio. Ho sempre notato, forse avendo un background musicale non puramente elettronico, che la mancanza di uno strumento suonato dal vivo può rendere la performance meno coinvolgente e quindi sto cercando di attenermi almeno in parte a questo ragionamento, per quanto riguarda i miei live set, che svolgo con Ableton, controller e chitarra. Come vedi la scena elettronica emergente in Italia? Sta nascendo, da un po’ di anni a questa parte, un buon numero di vivai discografici indipendenti che riescono a lanciare artisti con esponenziali margini di miglioramento. Credi sia possibile, nel nostro Paese, la creazione di una rete di etichette che porti alla nascita di una vera e propria scena, come all’estero? Mi sorprendo quasi ogni giorno di quanti veri talenti ci siano in Italia e di quanto, la maggior parte delle volte, non abbiano l’attenzione che meritano. C’è veramente un sacco di gente che spacca, penso a Godblesscomputer, Capibara, Dropp, Go Dugong , HLMNSRA, (per citarti i primi che mi vengono in mente) o a miei coe-
tanei Furtherset o Machweo. C’è un sacco di gente che si dà da fare e lo fa bene (l’ultima compilation di White Forest Records credo ne sia un buon esempio), forse quello che ancora manca è un pubblico solido e aperto. Si sa che qui in Italia ci si mette un po’ prima di digerire qualcosa di “nuovo”. Mi auguro, visti comunque i passi avanti, che la scena cresca e porti alla luce una realtà solida seguita anche all’estero. Il talento sicuramente non manca. A proposito, cosa ne pensi dei nuovi modi di fruizione e condivisione musicale derivanti dalla rivoluzione web 2.0? Il tuo primo lavoro, Rooms of Emptiness, è uscito via Bad Panda Records, una netlabel con licenza Creative Commons che ha avuto il grande pregio di darti visibiltà. Può essere considerata un’arma a doppio taglio? Chiaramente il web gioca un ruolo fondamentale, sia per quanto riguarda i social, sia per quanto riguarda la possibilità di entrare in contatto con tutti. Per quanto riguarda il mio primo EP sono molto contento che sia uscito per Bad Panda (un’etichetta che seguo e apprezzo da sempre). Sono convinto che una libera circolazione della musica sia fondamentale, soprattutto per un artista emergente e considerando che comunque i soldi non si fanno più con i dischi. Le licenze Creative Commons hanno giocato un ruolo fondamentale in questo, la musica scaricabile gratuitamente circola molto di più e ha spesso più visibilità. Quali saranno i tuoi prossimi passi? Hai in programma nuove uscite? Attualmente sto lavorando al mio album d’esordio che uscirà per La Tempesta Dischi - probabilmente in autunno – e verrà anticipato da un singolo questa estate. Sono molto felice di riuscire a lavorare con un etichetta che in Italia è un’istituzione e che opera così bene. Parallelamente cercherò di lavorare sul mio live set.
zomby Dietro la maschera Testo di Edoardo Bridda
Non capita tutti i giorni di poter spaziare tra eventi come questi a Bologna, in particolare quando si svolgono tutti nella stessa nottata. LiveArtsWeek è il nuovo contenitore artistico/ musicale/performativo organizzato dallo stesso team – Xing – che qualche anno addietro presiedeva il festival Netmage, una rassegna in scala ridotta riposizionata da Palazzo Re Enzo in tre location, di cui la più importante è L’Ex Forno del Pane / Mambo di Via Don Minzoni 14. Occasione da non perdere anche solo per l’esibizione di una piccola leggenda come Porter Ricks. Poi c’è Decibel Presents, primo appuntamento di una manifestazione che intende unire sperimentazioni elettroniche, visual show e location ripensate ad hoc, che in questa prima nottata porta nel capoluogo emiliano-romagnolo ospiti
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quali Zomby, Kyle Hall e Pearson Sound, tre tra le realtà più interessanti dell’elettronica UK appoggiate a due delle label più stimolanti per il suo continuo divenire, Hyperdub e Hessle Audio. Infine XXLink 1994 – 2014, la due giorni di festeggiamenti attivata per celebrare il ventennale del Link, un party ispirato alle atmosfere musicali e visive della prima, indimenticabile, sede del locale in via Fioravanti a Bologna. Un pezzo di Storia della città che ancora arde di ricordi vivi e di ormai mitologiche serate che, tra l’altro, il sottoscritto ha vissuto in prima persona (leggi alla voce Swans, Orb e Aphex Twin). Inizia così la maratona, con un set per doppio laptop (più mixer) dei ritrovati Porter Ricks, ovvero Thomas Köner e Andy Mellwig. Un live che sulla carta intende ripercorrerne la carriera dal semi-
nale Biokinetics – di cui avevamo recensito non troppo tempo fa la ristampa – fino agli inediti di un nuovo lavoro atteso quest’anno su Raster Noton. Al contrario di ciò che ci si poteva aspettare, l’approccio del duo si capovolge. Domina l’ambiente sull’ambient, i campioni e la stratificazione sonica degli album in solo di Köner sovrastano il 4/4 e le sporadiche ritmiche di un Mellwig che preferisce lavorare di bassi. L’approccio aereoacquatico applicato alla dub techno degli inizi trova un’incursione geologica in quello stesso mondo, un flusso compatto di frequenze modulate altezza sterno con un altro fascio di suoni piazzato poco più sopra a circondare orecchie e cervello, nulla che sia sufficientemente insidioso da far vibrare lo scheletro ma neanche qualcosa di così docile (qualche presente si sottrae al magma sonoro mettendosi le mani sulle orecchie). La musica dei Porter Ricks del resto, con i tappi nelle orecchie, non funziona. E questi Porter Ricks, che si sono lasciati alle spalle i giri di bassi e che hanno ridotto i refrain elettronici al minimo, operano più che mai sulla stasi, apportano stratificazioni piuttosto che variazioni, tengono fisso l’obiettivo sull’insieme e non sui dettagli. Il set, tranne qualche appiglio techno, è volutamente inesplicabile, fatto di superfici di pari importanza, musica che finisce senza che vi siano tracce o ricordi particolari, un senso di inizio o fine. Nascosta ma presente, la mano invisibile di un duo capace di dominare l’uomo con l’ambiente. Partiamo alla volta del TPO, poco lontano dalla sede del Mambo, dove in ballo, innanzitutto, c’è un’intervista a David Kennedy meglio noto come Pearson Sound e Ramadanman. Il ragazzo è già salito in consolle da un pezzo e il set sta praticamente finendo. Tempo di ascoltare l’avvicendamento tra lui e Zomby, ed è già intento a far armi e bagagli e di domande non ne vuole sentire parlare. Trovo ugualmente il tempo di fermarlo anticipandogli che, in occasione del Dancity, ci sarà senz’altro modo e tempo di
imbastire un’intervista, e gli racconto che ho trovato interessante il suo avvicinamento a certa narrativa grime nei suoi ultimi EP, Starburst EP e Raindrops, oltre a scusarmi per non aver assistito al suo set per “colpa” dei Porter Ricks. “Chi?” mi fa lui, “il duo techno dub che esordì sulla Chain Reaction dei Basic Channel la stessa label dove ha inciso anche Monolake, hai presente?”, gli dico io. “Mmm, no”. “Ricordi quel Biokinetics ristampato due anni fa dalla britannica Type?”. Il boss di Hessle Audio, ragazzo per nulla parente di quel pischello che si vede nelle foto press, mi guarda onestamente dal suo metro e ottantacinque, sorride e mi stringe la mano; non sa chi siano i Porter Rocks e ce ne facciamo entrambi una ragione, anche perché il live di Zomby è iniziato da una decina di minuti ed è doveroso, per entrambi, studiarci il mascherato producer nei panni di music selector. Mi avvicino al palco con qualche dubbio sull’esito della serata. Tutto uno storico di annullamenti improvvisi, risse e bisticci vari non parlano a favore di questo ragazzo mingherlino, quasi anoressico, che viene da una serata romana durante la quale, da quanto mi racconta il nostro Daniele Rigoli, nel solo minutaggio del set (circa un’ora) si è fatto una bottiglia di champagne posizionata in bella vista accanto al laptop e una riga di lattine di birra, oltre a un numero imprecisato di splif. Come se non bastasse, durante il suo set, organizzato da RebelRebel, la pista del Warehouse si è svuotata per via del contemporaneo – e più hypato – set di John Talabot. L’umore di Zomby potrebbe non esser dei migliori, date le premesse, ma ci sbagliamo. Il londinese, vestito con la stessa divisa anni ’90 del giorno precedente - air jordan bianche ai piedi, pantalone a tubo corto nero, giaccavento Stone Island (!) e capello alla Scottie Pippen – si ripresenta impassibile davanti alla consolle, la maschera alzata a mezzo solo per tragugiare un po’ di prosecco. Alla gente curiosa di scoprire
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chi sia veramente e a chi vuol saperne di più sul suo lato dj o – pardon – live con Ableton, Zomby propone una selezione con molte intersezioni tra le due nottate e una buona dose di banger per il dancefloor da esportazione UK, roba peraltro, anche non recentissima che abbiamo già ascoltato abbondantemente – ultimamente – nei set di Pinch. All’interno di eventi del genere, del resto, con set di un’ora e avvicendamenti rapidi, non è certo una sorpresa trovarci davanti a un po’ di formati e regole tacite. Come affermava Rob Ellis in una recente intervista, ci si adatta all’audience, si batte l’attenzione bassissima del pubblico con cambi di generi e di ritmo, si mettono più produzioni note che non il contrario e, dunque, nulla che il sensore della famosa doppia C concatenata (Shazam), attiva nelle mie mani come un tricorder, possa temere. Sotto il controllo di Shazam, Zomby si rivela un discreto intrattenitore con qualche buona zampata fuori dai radar. Le verità del digitale nulla hanno tolto a un live set onesto, con qualche bel momento e, in generale, una buona funzionalità alla pista. Nulla che scomodi la sensibilità ai vinili del popolare “riconoscitore di musica”, dato che l’output è tutto digitale ma anche la riprova di una forbice piuttosto allargata d’ascolti e buon gusto. All’inizio lo street dandy scalda la fiammella con qualche ritmo old school house tagliato IDM, con l’ottimo mix di Actress della Elementz of Houz Music di Legowelt, poi si butta nelle buone mani di Boddika e Joy Orbison con una generosa – ok, anche comoda – dose di Nonplus Records, dalla celebre Mercy (nel Boddika VIP) (del 2012) a andFate, da Warehouse, alla rara Big Room Tech House Dj Tool – TIP!, comunque già avvistata nel Rinse22 di Kode9, e così via per circa 20 minuti, per poi toccare, come nella data romana, un nucleo di coriacea jungle. Qui ci si esalta con Shy Fx in combutta con Uk Apache. Il
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pezzo è Original Nuttah, traccia che nel 1994 era finita nella pop album chart britannica siglando – parole di Discogs – il più noto Ragga-Jungle anthem di sempre (e sì, negli anni ’90, oltre al britpop, in top 10 ci finivano anche queste schegge impazzite). A seguire, una serie di oscuri rullanti rigorosamente ’94-’95 ed, infine, una coda di defilato – e laterale – hip hop: ben due produzioni di Young Thug, ovvero Jeffrey Williams, del giro 1017 Brick Squad Records (The Blanguage, Danny Glover) e un pezzo di un rapper svedese, tale Yung Lean, con note serpentine trap e un buon tiro. Scatta l’oretta di programmazione e Zomby fa segno ai ragazzi dietro le quinte che è ora di dare il cambio al detroitiano, e compagno d’etichetta Hyperdub, Kyle Hall, mentre sul monitor c’è la sua Tear In The Rain che lampeggia. Partita la traccia i due si avvicendano e l’uomo va dritto nel camerino. Decido di raggiungerlo e di sedermi accanto a lui. Scatta un’improbabile chiacchierata di ben un’ora con uno dei personaggi meno avvicinabili del panorama elettronico UK, un incontro che si rivela inedito, divertente ed anche istruttivo. Sedata qualche preoccupazione per il suo laptop e per la maschera, che quasi gli schiaccio sedendomi sul divano (“Hey ma ti vuoi sedere proprio su tutto tu eh?”), e bevuta qualche birra, le chiacchiere con il producer, insospettabilmente lucido e beffardo, prendono il volo. Io: “Senti ma sai che Shazam ora becca anche le cose di Juno vero?”. Zomby:“Ah si davvero? Lo hai usato durante il mio set?”. Io: “Certamente, ho rintracciato un po’ di brani, tra cui quello di Shy Fx, gran mossa quella!”. Zomby, che ha gli occhi iniettati di sangue e ogni tanto stoppa tutto e va a toccarsi i capelli davanti allo specchio, è uno che se la ride parecchio, un mattachione sì, ma è serissimo quando si tratta di musica, di più quando la gente gli parla alle spalle. E se gli tocchi il grime, ecco che lì, scattano le scintille e l’uomo s’infiamma letteralmente.
“Questa scena nu eski non è un po’ figlia tua?” gli sbotto così dal nulla. “A me piace Visionist, Fatima Al Qadiri, poi, hai presente Wen, quel ragazzo spacca davvero”, gli faccio gasato. Zomby: “Sai che c’è, Visionist l’ho sentito ultimamente, non è male, ma sai …anche Fatima, sono tutti ‘internet artist’, quella non è la vera ‘shit’… … hai presente la N.A.S.T.Y Crew e gli So solid Sundays”. Io: “So Solid Crew?”. Zomby: “No, no, N.A.S.T.Y Crew quelli sono la real shit, non puoi capire, se li ascolti tu ti innamori, te lo posso assicurare. Hai presente il vero grime? Sono massimo 10 persone in una stanza. Ragazzi che se non li mettono dentro prima fanno della roba che spacca tutto. C’è anche quel fratello della mia ragazza che fa musica e poi oh questi ragazzi di oggi, no veramente, spaccano. 15, 17 massimo 18 anni. Non ce n’è per nessuno. Tu hai vissuto la musica da fuori. Vedi la punta di un iceberg, alla base c’è un movimento sotterraneo, ed è quello che mi eccita oggi come allora. Molti di questi producer che mi citi fanno ora le stesse cose che facevo io tre anni fa. Quando un pezzo va su Rinse.fm è già mainstream, man”. “Credi che internet abbia un po’ cambiato le carte in tavola?”, gli faccio pacato. “Internet è la cosa più bella che sia mai potuta accadere alla musica”, mi dice lui. (Nel mentre gli mostro la pagina di Discogs della famosa Crew. Affermativo. Sono loro. Continuamo). Io: “Tu come Kyle Hall siete nel roster Hyperdub e siete presenti nell’ultima compilation Hyperdub 10.1 di Kode9, uno scozzese con l’occhio davvero lungo. Credo che il maggiore accento posto nella tracklist sul filo rosso di questa ghettotech globale – vedi anche la footwork – sia significativo e possa riassumere molte fila di quello che mi hai detto finora, non credi?”. Zomby mi guarda e risponde “Credo di sì“, mentre dalla porta entra gente in camerino. “Hey senti, tu mi ricordi un prete”, sbotta lui dal nulla “No davvero a Roma, ed era la prima volta che visitavo la città, c’erano tutti
questi vestiti con la tonaca, pazzesco, tu mi ricordi di uno di loro”. Risata generale. E lesto, lo riporto ai temi caldi. “A proposito, ma cosa è successo quella sera al Koko con Hudson Mohawke?”. Zomby scoppia a ridere beffardo, si ferma un attimo, si aggiusta la nuvoletta alla Scottie Pippen e attacca ruspante “C’è gente che mi parla dietro,’ Zomby è un cretino’, ‘fa shit’ ecc. Bene questi mi stanno rovinando l’immagine e visto che ci sono soldi in ballo non mi faccio prendere per il culo. Hudson andava in giro a dir male e così quando ho potuto l’ho inchiodato al muro e i buttafuori mi hanno fermato. Poi il mio manager ha parlato con il suo. Gli ha ripetuto il concetto. E ora è tutto a posto. No, davvero, non sopporto questi che sparlano. E lui non è il solo”. Il londinese mi fa altri due nomi (che non rivelo …sai mai) anche se pare che il ragazzo – siamo sulla trentina circa, come età – non faccia nessun mistero della cosa e non abbia peli sulla lingua quando si tratta di difendere la legacy. Quel che più conta è che la sua versione, di fatto, mi convince. Non abbiamo visto Zomby nelle produzioni di nessun grande rapper. Colpa della 4AD? Colpa sua? Non è dato sapere, ma il Nostro non è affatto quel montato spaccone che dalla provincia è passato ai piani alti. E’ un po’ mitomane magari, ma non il ragazzino che dopo il co-co-feat da Kanye West in Yeezus ora cammina a due metri da terra. Finiamo la nostra chiacchierata parlando di New York – “Sei lì ancora per quanto?” “Ho un visto per tre anni e non mi rimane molto tempo, sto già pensando di tornare a Londra” -, ma a quel punto cambia discorso e sente il bisogno di dirmi quanto l’alias Zomby si sia gonfiato e sia cresciuto a dismisura in questi anni. “In maniera quasi incontrollabile”, mi dice. Mi confessa che vorrebbe produrre con un alias nuovo e fare cose diverse. Staremo a vedere. Nel frattempo, sono le 5 passate. Ci salutiamo e lui mi lascia dicendo: “Nasty Crew mi raccomando, ascoltali”.
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Il 15 aprile è uscita una ristampa rimasterizzata in un cofanetto lussuoso (e costosissimo) di una delle opere cardine degli anni ’90, con l’aggiunta di un bonus disc di brani rari e di un documentario in DVD. Proviamo a tracciare il percorso storico di questo spartiacque dell’indie rock americano, il disco che più di tutti – e non solo nell’immaginario collettivo – ha trasportato un genere e accompagnato una generazione, da un retaggio hardcore trasfigurato verso un orizzonte inesplorato e avventuroso. Testo di Tommaso Iannini
Slint Spiderland
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Premessa doverosa. Definire il filone musicale degli Slint oggi è fin troppo facile, basta dire post-rock. In realtà Simon Reynolds nel suo famoso articolo su The Wire non si riferiva a Spiderland ma a una genia di gruppi britannici (tra cui gli Stereolab) ispirati dai progressi di hip-hop e techno, più spostati verso una contaminazione elettronica o tecnologica che agli Slint, obiettivamente, manca. Questo nulla toglie all’originalità del complesso del Kentucky e non mette in discussione la sua influenza sulla scena musicale. Leggendo il testo di Reynolds, datato 1994 (e inserito all’interno di Hip-hop-rock, edizione ISBN), ci s’imbatte in una definizione di postrock impostata sulla prevalenza del «timbro/ tessitura/cromatismo rispetto a riff e sezione ritmica» e sull’idea di «usare strumenti rock per scopi non rock: la chitarra, per esempio, come fonte di timbri e tessiture più che di riff e power chords». Queste caratteristiche andrebbero contestualizzate nell’ambito di un gruppo che ha radici nel punk e nell’hardcore (o addirittura nel metal), che non usa i trucchi di studio (la produzione “documentale” di Brian Paulson è più vicina al lavoro di Spot o Steve Albini, non certo a Brian Eno) ma che ha saputo superare i suoi generi di riferimento. Invece di riff di sapore blues, sequenze di power chords, assoli, canto urlato, abbiamo moduli sonori che privilegiano la composizione strumentale usando in maniera diversa i riff, gli accordi, gli arpeggi, la sezione ritmica e la voce. Un rock “altro”, astratto e intellettuale, con una forma che non si piega alle coordinate della canzone o di altri schemi ricorrenti e neppure alla logica dei tre accordi punk o dei virtuosismi esibiti in stile metal; preferisce un accostamento di blocchi tematici e non il solito strofa-ritornello; abbassa il ritmo dell’indie rock in un andamento pausato, giocato su crescendo, passaggi piano/ forte e sfumature, oppure molto geometrico
(pre-math); aggiunge un lavoro di concetto sui timbri (anche noisy: gli armonici di Pajo) e un interplay tra le due chitarre che privilegia le trame flessibili e gli intrecci creativi agli schemi armonici più risaputi; trasforma il ruolo della voce a fill o complemento ritmico/narrativo. Suonare rock con un approccio post. La dicotomia tra Joe Carducci e Brian Eno, i due poli della riflessione reynoldsiana, superata da un ensemble post-punk (che forse sarebbe la definizione più adatta, se storicamente non indicasse già un’altra cosa) a cui l’etichetta post-rock è stata applicata in modo irreversibile. E comprensibile. *** «Sfortunatamente Spiderland è il canto del cigno degli Slint, che come tanti gruppi non hanno saputo resistere alle pressioni interne tipiche della vita di ogni band. Ma è un disco fantastico, che chiunque sappia ancora farsi coinvolgere dalla musica rock non dovrebbe perdere. Tra dieci anni sarà una pietra miliare e bisognerà fare a botte per comprarne una copia. Battete tutti sul tempo». Quando Steve Albini scriveva di suo pugno la profetica recensione da ten fucking stars per il Melody Maker, la sua levata di scudi così perentoria era una rarità nel contesto di quegli anni. La voce del produttore (di Tweez) e mentore del quartetto del Kentucky non era fuori dal coro. Di più. Era fuori dal mondo, una perorazione convinta gridata al vento in pieno deserto. Il 33 giri che ci appare oggi come un manufatto intoccabile e perfetto in fondo cos’era se non il parto di una band di provincia che aveva messo insieme sì e no una trentina di concerti in quattro anni, dopo aver debuttato dal vivo in una chiesa durante una messa! E per di più si era praticamente già sciolta al momento dell’uscita del disco, mai promosso con un tour o in altro modo. Un album registrato di notte nel corso di due weekend da un complesso che per un po’ ave-
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va dovuto vivere nelle vacanze e nei momenti liberi lasciati ai suoi giovani componenti dagli impegni universitari – prima di cogliere l’occasione dell’accordo con Touch and Go e ritagliarsi alcuni mesi di tempo per prove serrate, in attesa di mettere piede in studio e dare corpo al proprio capolavoro. Il tutto nei tempi di una normale release indipendente dell’epoca, cioè maledettamente brevi, se non ti chiamavi Kevin Shields o giù di lì. Solo il tempo, finalmente galantuomo, ha riconosciuto la portata epocale di quella materia sonora, un concetto che ora diamo per acquisito. Basta pensare che il precedente Tweez, inciso nel lontano 1987 – prima ancora che lo stesso Albini diventasse un’istituzione del mondo indipendente anche nel ruolo di produttore – era rimasto in naftalina per due anni e aveva visto la luce solo nel 1989 per un’etichetta messa in piedi grazie al sostegno finanziario di un’amica del gruppo, stampato peraltro in pochissime copie. I più lo hanno ascoltato sulla ristampa Touch and Go, di due anni successiva all’uscita di Spiderland. Segno ulteriore che gli Slint non hanno mai fatto la storia “in diretta” ma sempre con il senno di poi (degli altri, il loro era in anticipo e di parecchio). Il riconoscimento ufficiale al di fuori di chi aveva le antenne sintonizzate su una realtà così marginale e diversa da sembrare aliena – e tanto di cappello a lui o a lei per questo –, al di fuori di una cerchia stretta di amici e della scena di Louisville, la loro città natale, è arrivato a posteriori, e in differita è stato anche costruito il loro mito. È il destino di chi precorre i tempi al punto da sembrare calato da Marte o da chissà quale strano pianeta. Uscito nell’anno di grazia 1991, Spiderland – insieme ai suoi creatori – è stato per un po’ uno dei segreti più preziosi e meglio custoditi della scena indipendente americana. E aveva tutto per esserlo, da una confezione spartana con le note ridotte al minimo, criptica e senza testi, a
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una musica altrettanto enigmatica in controtendenza con tutto, indifferentemente, che si trattasse dell’alternativa istituzionalizzata come pure di gran parte dell’indie rock coevo made in USA. Nei mesi in cui un’altra creatura della provincia sonica a stelle e strisce – un trio di Seattle, geograficamente quasi agli antipodi rispetto al Kentucky – esplodeva su una major dopo essere passata dalla Sub Pop, il secondo album degli Slint iniziava un’opera di lento irraggiamento nelle scene di Louisville e Chicago e poi nel mondo delle vecchie (Touch and Go) e nuove indies (Kranky, Constellation, Thrill Jockey), favorendo un ricambio/riflusso generazionale e stilistico in seno all’underground statunitense, dopo che i suoi vecchi punti di riferimento erano quasi tutti passati in orbita multinazionale. I nuovi punti di riferimento prendono le distanze dall’onda punk-hardcore che ha generato tutto il movimento, inaugurando o riaprendo vie battute tuttalpiù da pochi pionieri. In questo Spiderland non è poi quel monolite isolato; è anzi in buona – anche se sparuta – compagnia, nel tratteggiare i contorni di un nuovo indie rock, disegnarne il futuro più o meno immediato, insieme a una maniera diversa di intendere la musica popolare per chitarra elettrica, basso e batteria. I Codeine di Frigid Stars (1990) sondano scansioni lente fino alla staticità, rarefazioni e dilatazioni nel tessuto sfrangiato di fatalistiche ballate, nenie psichedeliche e depresse, l’anticamera dello slow core. Su un versante più saturo, l’avant-grunge post-core dei Bitch Magnet di Ben Hur (1990) propone un hard rock “matematico”, di un virtuosismo la cui misura non è più l’onanistico assolo di chitarra ma l’impervia e rigorosa geometria di gruppo, dove insieme alla compattezza granitica dell’hc, ai riff fragorosi e alle distorsioni stridenti, figurano cambi di dinamica e ritmo, partiture e combinazioni strumentali – di cui è sancita la preminenza sul-
la parte vocale – che danno una nuova declinazione e un nuovo senso al termine “progressivo” (preparando il terreno per i Don Caballero e il math come genere). Un passo prima si fermano i Bastro di Sing the Troubled Beast (1991), due terzi degli Squirrel Bait (Grubbs e Johnson) con l’aggiunta di futuri Tortoise (John McEntire e Bundy K. Brown) intenti a suonare hardcore evoluto con una sezione ritmica arrembante e sincopata tra funk e jazz e i cui successivi sviluppi si sono potuti apprezzare solamente nel live postumo Antlers (in direzione di un posthardcore a guida strumentale più cerebrale e tecnico, virtuosistico e formalista). Rarefazione, potenza, sincopi: gli Slint trascendono tutto. Suonando con strumenti rock ne ribaltano i canoni o perlomeno rifuggono gli schemi più risaputi, per ridefinirne l’estetica all’interno delle proprie composizioni. Saranno loro gli unici ad assurgere a culto di massa (sic) e a essere indicati come progenitori del postrock degli anni ’90. Come è nata questa storia del post-rock? Leg-
gendo la bella monografia di Scott Tennent per la collana 33 1/3 di Continuum, qualcuno potrebbe pensare che tutto risalga a una sera del 1985. Gli Squirrel Bait suonano l’unico concerto con Britt Walford alla batteria. Walford era già stato sul punto di unirsi al gruppo di Brian McMahan (con cui era amico dalle elementari e aveva formato i The Languid and Flaccid) e David Grubbs, ma era rimasto nei Maurice, che il nuovo innesto David Pajo aveva contribuito a far crescere musicalmente portando elementi della sua musica di riferimento di allora: il metal. Quella sera gli Squirrel Bait dovrebbero aprire per i Meat Puppets, ma il cantante Peter Searcy e il batterista Ben Daughtrey li hanno piantati in asso all’ultimo momento. L’occasione di aprire per il trio dei fratelli Kirkwood però è troppo ghiotta. Reclutato Walford per la batteria, McMahan, Grubbs e il bassista Clark Johnson eseguono le canzoni degli Squirrel Bait come strumentali mentre Grubbs, scrive Tennent, invece di cantare «racconta storie», in pratica ci parla sopra. La nascita di un modus operandi?
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Dalle avventure armoniche di quello che sostanzialmente oggi chiameremmo emocore, ancora immerso in un clima post Hüsker Dü-Replacements-Minor Threat, McMahan e Grubbs si sarebbero mossi verso la stessa direzione: Grubbs nei Bastro per poi approdare su lidi ancora più astratti e sperimentali nei Gastr del Sol, il suo sodale chitarristico McMahan appunto nei nostri Slint. Eppure chi volesse cercare i prodromi degli Slint negli Squirrel Bait dovrebbe aggrapparsi in verità a pochi appigli: lo spoken word di Kid Dynamite, l’intro jazzata di Choose Your Poison o la ritmica fratta di Kick the Cat (da Skag Heaven, un ottimo album al di là di tutto). Bisogna allargare il discorso ai Maurice. E più che al loro tortuoso punk-metal – di cui rimane testimonianza solo in un demo registrato per farlo ascoltare a Glenn Danzig, prima che l’ex Misfits decidesse di assoldarli come spalla per i Samhain –, semmai all’intesa tecnica nata tra Britt Walford e David Pajo, alla comune passione per le partiture complicate che segnò lo scioglimento del gruppo: quando i due avevano presentato un nuovo pezzo durante le prove, con le chitarre pulite, un’inclinazione jazzy e la tendenza a risolversi per intero nell’andamento strumentale, il cantante Sean “Rat” Garrison aveva capito che non c’era più posto per la sua voce e i Maurice si erano separati. Il brano in questione sarebbe diventato Pat, di fatto la prima composizione dei futuri Slint. Spiderland è diverso dal suo predecessore Tweez. Gli mancano la vena anarcoide, la contorsione, una certa apparente estemporaneità che rendeva imprevedibile il debutto, la stessa naïveté in studio (in cui Steve Albini aveva messo del suo, quando non era ancora un documentarista integrale) che aveva contrariato il primo bassista Ethan Buckler al punto da allontanarlo dalla band. Con il nuovo innesto Todd Brashear il gruppo aveva intrapreso – o ripreso, se è vero che il suono di Tweez non rispecchiava
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del tutto lo stile del quartetto – la strada della composizione più studiata. Lo dimostrerà – naturalmente, a posteriori – il singolo registrato con Steve Albini a cavallo tra i due LP e pubblicato da Touch and Go solo nel 1994. Il lato A, lo strumentale Glenn, supera l’idea di una giustapposizione un po’ imprevedibile sul modello di Tweez e invece perfeziona il senso del crescendo nella dinamica e le simmetrie interne tra figure armoniche, che esulano dall’ambito della canzone e anche degli strumentali rock guardando a partiture più sofisticate, inedite per un gruppo di estrazione punk e lontane anche dal virtuosismo muscolare del jazz-punk made in SST (a quello si rifaranno, piuttosto, i complessi math). Nel suo ritorno ossessivo su un reiterato arpeggio Glenn potrebbe ricordare il minimalismo di un Terry Riley applicato all’organico di un quartetto rock che di rock mantiene appunto l’organico – quello strumentale – mentre la forma mira a un suono che è un rivolto del punk: ne mantiene come nota fondamentale l’essenzialità un po’ spigolosa (niente inutili assoli di chitarra) e ne ribalta gli altri assunti elevandolo concettualmente e trasformandolo. È schivo, lento, cerebrale, distaccato, atmosferico. Complesso. Rispetto a Tweez, Spiderland è sì più classico. Nel senso di colto. Composizioni e arrangiamenti sono più forbiti e lineari. Di classicamente rock, però, non c’è quasi nulla, al limite qualche scampolo trasfigurato. L’aspetto più eclatante, da questo punto di vista, è la voce. In quattro brani su sei i pezzi sono solamente recitati (Breadcrumb Trail, Nosferatu Man, Don, Aman, Good Morning Captain) e siamo anni luce, che so, dalla Rollins Band: quello di McMahan (più spesso) ma in un caso anche Britt Walford è uno Sprechgesang, un recitativo, un semplice parlato, abulico, un ruminare parole appena intelligibile sullo sfondo, persino in una produzione scarna e con pochi strumenti
(non certo un wall of sound stile My Bloody Valentine). Ascoltandolo si nota più la musica del filo conduttore narrativo e si è portati ad assimilare la voce a uno strumento ritmico. Dal punto vista compositivo gli Slint presentano già sviluppati i caratteri principali del post-rock chitarristico del decennio a venire, quelli che faranno la fortuna di molte band successive, dai Rodan, ai June of 44, ai Mogwai: la prevalenza strumentale, il (non) canto parlato, gli arpeggi, i crescendo e le escursioni dinamiche (il loud/ quiet/loud isolato come forma strumentale, astraendola dall’alternanza strofa-refrain cara a Pixies e Nirvana), le metriche complesse, gli aspetti progressivi e sperimentali rivisitati in chiave post-punk (e viceversa) o “post indie rock”. I quattro di Louisville tessono una ragnatela stilistica che dalla musica da camera arriva fino ai nervi scoperti del post-hardcore. Il primo pezzo, Breadcrumb Trail, si sviluppa in una forma tripartita dove l’inizio e la fine corrispondono al tema lento e ipnotico – due armonici seguiti da due arpeggi incrociati in terzine su un ritmo di 7/4 – e il corpo centrale è tutto occupato da un duetto tra chitarre pulite e distorte che descrive in musica e parole un viaggio sulle montagne russe, con figure che si dividono tra armonici (Pajo) e arpeggi (McMahan). Siamo esattamente a metà tra una forma sonata e una forma canzone, un ibrido che può rimanere benissimo irrisolto e anzi contribuire al fascino della composizione. Che, almeno al sottoscritto, ricorda nobili progenitori: i Can. Nosferatu Man è un brano destrutturato e avventuroso di chiara matrice post-hardcore, genere di cui conserva la tensione ma la cui potenza risulta irretita in una gabbia formale di matematico virtuosismo. I due riff di chitarra che si incrociano sulla strofa sono in 5/4, tre colpi di batteria precedono il ritornello in 3/4 e un altro cambio di tempo – in 12/8 – introduce la parte finale, una girandola di accordi in con-
trotempo su battute di lunghezze diverse che scalano di continuo tra metri inconsueti (15/8, 9/8, 10/4, stando alle trascrizioni più comuni). Sperimentare con i tempi composti non è certo l’approccio tipico di un gruppo punk rock, e anche se in ambito hardcore non era una novità (chiedere a Minutemen, Black Flag e No Means No), qui siamo in una dimensione più concettuale che anticipa la deriva math rock. Don, Aman è quasi un monologo di un Britt Walford che ha scritto testo e musica, ricopre il ruolo di voce recitante e suona una delle due chitarre. Un altro racconto, un piccolo psicodramma con un protagonista sociopatico. Senza basso né batteria, il pezzo suona inizialmente di una pacatezza disturbante. In apertura c’è un riff di scarni accordi di chitarra, una frase disadorna e cantilenante cui subentrano pochi arpeggi di raccordo e quindi una sequenza minimale di accordi ritmici sulla quale si sviluppa tutta la parte centrale. Quest’ultima si elettrifica con l’aggiunta di una chitarra distorta che doppia l’armonia, ritorna al punto di partenza e infine modula nel tema iniziale ripreso per il finale, come in Breadcrumb Trail. Vicina allo slow core, Washer ha invece le caratteristiche di una ballata più tradizionale, con l’esempio più chiaro di canto melodico contemplato nell’album e anche l’assolo più riconoscibile. For Dinner… al contrario è l’unico strumentale tout court, con i suoi crescendo e i pianissimo al confine con il silenzio, una lezione sull’utilizzo delle sfumature, dei toni trattenuti, anche se un po’ interlocutoria nell’insieme dell’album. L’ultima traccia, Good Morning Captain, ritorna alla modalità della narrazione in musica per seguire un andamento da call and response tra una strofa e un refrain strumentale su un ritmo squadrato di 4/4, rimarcato da un ipnotico giro di basso e dagli incroci delle due chitarre, in cui non cessa per un attimo di montare la tensione. Un break composto da un arpeggio e da una
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sequenza di accordi ascendenti irrompe una prima volta per anticipare e una seconda per introdurre il gran finale, in un vortice di dissonanze e distorsioni, con gli armonici delle chitarre e l’eco di quell’urlo – «I miss you» – che non smette di risuonare nella testa anche dopo che la puntina si è sollevata dal giradischi o il laser del lettore CD si è fermato. Indimenticabile. Nella registrazione curata da Brian Paulson sono presenti pochissimi overdub (David Pajo disse di ricordarne solo uno): gli Slint avevano lavorato su poche composizioni nei minimi dettagli per poterle poi registrare in tempi così brevi, anche con le aggiunte e modifiche dell’ultim’ora. Una band che aveva in mente una precisa idea di suono da cui è scaturita una progenie di emuli e affini. Steve Albini aveva ragione. Per fortuna non serve fare a botte per Spiderland. Una copia si rimedia con facilità, il disco rimane stabilmente in catalogo ed è stato ristampato con regolarità anche su vinile (dove filologicamente andrebbe ascoltato secondo le indicazioni in retro di copertina). C’era da mettere mano al portafoglio – e anche con una somma importante – per non lasciarsi sfuggire la mega reissue allestita da Touch and Go. Box limitato in 3138 copie numerate (ci sarà sotto la cabala?) già esaurite. Edizione rimasterizzata corredata di brani rari, provini e qualche inedito. Pezzi pregiati? L’outtake Pam, non a caso un rough mix, è un post-hardcore midtempo-veloce tra due brani arpeggiati. Ha la struttura, ma non il grado di raffinatezza dei brani finiti. Glenn, anch’essa definita un’outtake di Spiderland, è un po’ più dura e spigolosa della versione pubblicata sul singolo postumo, e non è un vero inedito. Todd’s Song e Brian’s Song sono due brani non finiti, la prima fatta di blocchi strumentali che non si fondono ancora appieno, la seconda all’apparenza più improvvisata intorno a un pattern ritmico (sembra una drum machine) con trame scarne di chitarra. Dai provini strumentali e vocali, tra
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cui le registrazioni di Walford e Pajo al college durante la scrittura dei brani, emergono dettagli su un lavoro che fu comunque certosino. Il pezzo più spiazzante, paradossalmente, è la cover abbastanza rispettosa di Cortez the Killer di Neil Young dal vivo, ricondotta su binari più consoni al gruppo di Louisville senza stravolgerla nel profondo. La novità più ghiotta è invero il documentario di Lance Bangs, passato in alcuni cinema americani ma non ancora dalle nostre parti (si spera in qualche festival illuminato). Questa ristampa “esagerata” è segno comunque dei tempi in cui anche le indie una volta più creative si piegano alla logica (politica?) di far ricomprare i dischi vecchi per venderne di nuovi. Ora usciranno altre due versioni, con un semplice e più abbordabile LP + DVD e CD+DVD… Due curiosità per finire. La chiesa in cui gli Slint suonarono il primo concerto durante una funzione domenicale era la Thomas Jefferson Unitarian Church di Louisville, frequentata dai genitori del primo bassista, Ethan Buckler. Immaginare Ron, Darlene e Charlotte durante una messa è un bell’esercizio per la fantasia. Altro che tu sei la mia vita… Un altro aneddoto merita di essere raccontato. Leggendo le scheletriche note di copertina dell’edizione originale salterà all’occhio l’annuncio per cantanti femminili che il quartetto aveva inserito, non si sa quanto seriamente o con quale progetto in testa. Per quanto potesse sembrare ironico leggere una cosa del genere in un disco finito, alcune aspiranti vocalist scrissero agli Slint per candidarsi. Una di queste, nientemeno, era PJ Harvey. Voi immaginate un po’… Sarebbe un bel capitolo in un libro dedicato all’ucronia rock, tra le collaborazioni ventilate e mai realizzate di Jimi Hendrix con Miles Davis o tra Michael Stipe e Kurt Cobain. In fondo, approfittando della terza reunion degli Slint – 2005, 2007, con tanto di strumenti venduti su eBay, e oggi – questo sogno potrebbe anche uscire dai reami del what if e diventare realtà…
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Una lunga chiacchierata con Uwe Schmidt, non-tedesco e non-cileno, dove si parla dei progetti passati, recenti e futuri di Atom TM, ma anche di Kraftwerk, Bach, Bergson, McKenna, memoria, flussi di incoscienza ed extrambientalismo. Testo di Alessandro Pogliani
Ich bin meine maschine Abbiamo fatto una lunga chiacchierata con Uwe Schmidt, aka AtomTM, in occasione del concerto tenutosi il 4 aprile 2014 a Soliera (MO), anteprima della prossima edizione del Node Festival. Lo spettacolo che presenti stasera si chiama HD+. In cosa si differenzia dal tuo show dell’anno scorso? Mi riferisco in particolare al set visto al Sonar, che personalmente considero come il migliore visto nell’edizione 2013 del festival di Barcellona. L’anno scorso (a parte lo show del Sonar, che ho dovuto necessariamente ridurre a 45 minuti), HD durava circa 1 ora e 15 minuti. Ora ho aggiunto un nuovo video e cambiato qualche cosa. E’ sempre basato sull’album omonimo, ma ci sono un paio di pezzi che ho preso da A/V, il mio precedente set. Direi che è composto per l’80% da HD e il restante 20% da altre cose. Nel comunicato stampa che accompagnava l’album HD si parlava di un lavoro “spirituale, musicale e scientifico”. Erano parole tue o del press agent? Le ho scritte io. Quando devi promuovere un album hai il problema di aggiungere parole a qualcosa che hai fatto proprio perché non avevi parole per esprimerlo. Si fa musica proprio perché si vuole esprimere sensazioni, emozioni, o comunque qualcosa che non ha nulla a che fare con le parole. Quando mi è stato chiesto di scrivere qualcosa su HD, sapendo che se non l’avessi fatto io l’avrebbe fatto peggio qualcun altro, ho provato a riassumere. Ma non mi trovo mai a mio agio nel farlo: è sempre una seconda lettura. Qualcosa di sovrapposto… Sì. In un certo senso distorce ciò che è la musica. A me non interessa scrivere di musica: non voglio spiegare le cose, lo trovo abbastanza equivoco. In questo caso ho preferito essere il più conciso e preciso possibile: ho pensato all’ispirazione per HD, e quei tre temi costituivano il centro dei miei interessi nel periodo in cui stavo realizzando l’album. Ha a che fare con la scienza: c’è un approccio scientifico nel sound design e in altri dettagli tecnici. Un altro aspetto che continua ad affascinarmi, e che incrocia l’ambito scientifico con ciò che io chiamo “spirituale”, è ciò che avviene quando improvvisamente un certo suono, cioè qualcosa di fisico, produce qualcosa di metafisico. E’ un campo vastissimo del quale non volevo dare ulteriori spiegazioni: sicuramente quei tre concetti non basta-
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no per spiegare tutto, ma credo sia più importante che il pubblico che ne sia venuto a conoscenza tragga le proprie personali conclusioni. E probabilmente la stessa cosa vale per il titolo, HD, che per te significa Hard Disk, per me High Definition… Corretto. Il progetto era nato 5 anni fa come Hard Disk, poi il format è mutato in HD, ma già prima avevo scoperto alcuni floppy disc chiamati High Density, in certe aree si parla di Heavy Duty, eccetera. Ciò che mi piace di HD è che può essere considerato come un semplice segno: vedi HD e pensi “wow!”. E chiunque può immaginare qualsiasi cosa al riguardo. Inoltre, dato che sono solo due lettere, si possono pronunciare in ogni lingua, spagnolo, francese, tedesco, inglese, ed è sempre corretto. HD è universale, non è un titolo in inglese o in tedesco difficile da capire e da pronunciare. Hai applicato qui lo stesso principio del nome/brand Atom™, ma spesso hai utilizzato anche un approccio radicalmente diverso: vedi ad esempio “1i3835tra3um3”, il titolo dell’album del 2010, composto da lettere e numeri, ma da leggersi Liebesträume (“sogno d’amore”, con riferimento alle opere di Liszt – ndSA). Sì. Mi piace giocare con il concetto di accessibilità. Ho fatto tanti dischi criptici, che devono essere digeriti prima di essere completamente apprezzati. Con HD ho voluto fare un album con influenze pop, con una superficie più accessibile, ma contenente all’interno altri tipi di frizioni. I principali, immediati, riferimenti dell’album, oltre a Prince (I Love U, like I love my drum machine) e agli Who (la glitch cover di My Generation), sono i Kraftwerk, un soggetto che hai più volte toccato nella tua carriera… Non direi che nella realizzazione di HD i Kraftwerk siano stati per me un riferimento conscio. I Kraftwerk sono più parte della mia “tradizione”, del mio DNA musicale. Con HD volevo tornare ad una sorta di purezza negli arrangiamenti, nelle strutture armoniche, nelle melodie, nelle lyrics. Tutto gira intorno al concetto di riduzione: comporre una canzone e poi ridurla ai basics. Che in un certo senso è un’idea kraftwerkiana, ma che volevo portare oltre. Realizzando l’album volevo fare musica elettronica pop essenziale: se hai questo obiettivo e sei tedesco non ci sono tanti altri riferimenti. E’ per questo che viene facile fare il confronto con i Kraftwerk. Nell’album ci sono altre citazioni meno imme-
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diate, perché l’ambito in cui ho lavorato è più ampio: funk, black music, soul, in parte anche il blues, che in fondo è musica semplice, un altro aspetto dei concetti di riduzione e semplificazione a cui miravo. HD raccoglie tantissime e disparate ispirazioni, come gran parte delle cose che ho fatto. Quando comincia a prendere forma un pezzo, improvvisamente saltano fuori tante connessioni, alcune più ovvie e altre più oscure, che diventano parte della composizione al punto tale che dopo un po’ ne dimentico l’origine. Da sei anni circa i tuoi lavori si confrontano spesso con l’eredità musicale romantica europea, in particolare tedesca: Liszt, Schubert, Strauss, Wagner… Anche questi sono riferimenti inconsci? In tutto ciò che faccio la parte inconscia ha un grande ruolo. Ci sono cose, che possono venire da ovunque (la storia musicale tedesca, un quadro, un CD…), che a un certo punto misteriosamente si collegano a qualcosa a cui sono in quel momento interessato, si attraggono tra loro, formano connessioni e cominciano a formare un “campo di elementi”. Di solito non so spiegare questo processo, non c’è un significato: sono semplici risonanze. Prendiamo HD, per esempio: c’è stato un momento in cui il progetto consisteva solo in un “brodo primordiale” di cose, e poi ad un certo punto tutto ha cominciato a prendere posto, come le tessere di un puzzle. E non ho idea del suo significato. Se qualcuno mi chiede quale sia il significato di una canzone io rispondo “il significato sta nel fatto che l’ho realizzata”. Una parte interessante del mio lavoro è quella di essere una sorta di attrattore di elementi che, attraverso il tempo e lo spazio, possono costituire un mondo, un’estetica a sé stante, come in un quadro. Ciò che dici mi porta a Bauteile, la tua ultima release in collaborazione con Marc Behrens: una sequenza di oggetti sonori in una sorta di “flusso di in-coscienza” lungo settanta minuti… E’ interessante che tu citi Bauteile in questo contesto. Una delle ispirazioni che da parte mia ha portato alla realizzazione dell’album è stato l’ascolto delle fughe di Bach. Mentre ascolti per la prima volta una fuga al clavicembalo non sai cosa stia per accadere. Non è come una canzone, né come un’improvvisazione jazz: non c’è un tema a cui puoi fare sempre riferimento. Non c’è una spiegazione: è uno svolgimento continuo al quale, ti piaccia o no, devi in qualche modo abbandonarti, e che alla fine ti lascia una sensazione. Non ha senso skippare, o ascoltarne solo un pezzo:
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devi seguirla dall’inizio alla fine. Mi sono molto interessato ai concetti di fuga e di ornamento. Circa sei anni fa ho composto Muster, un pezzo lungo cinquanta minuti, senza possibilità di skip o stop, molto astratto. Non c’è alcuna spiegazione possibile, sono le sensazioni di chi ascolta che danno valore al brano. Ho inviato la composizione a Marc, e lui ha apprezzato molto l’idea di una track molto lunga che si sviluppa passando attraverso vari accadimenti sonori. Se dividi Bauteile in frammenti non funziona più, diventa inutile e senza senso. Devi sederti, ascoltarlo nella sua interezza e arrenderti al momento presente. Richiede attenzione, cosa che oggi è sempre più difficile avere a disposizione… Infatti. Scegliendo questo format forzi l’ascoltatore ad agire in un determinato modo. Con una sola traccia di settanta minuti, la composizione automaticamente seleziona chi includere e chi escludere dalla sua fruizione. Eravamo coscienti che questa scelta avrebbe tenuto fuori tante persone: molti non hanno tempo o voglia di digerire un pezzo così lungo. Se invece si accetta di seguire questo flusso di incomprensibili informazioni, si passa da un’immagine all’altra, senza sapere mai cosa potrà venire dopo, con alcune cose che si ripetono, altre no… Quando il pezzo è finito non puoi ricordarne la melodia o l’armonia, ma ti lascia con la sensazione di avere avuto un’esperienza, irrazionale e astratta. Bauteile è basato sulla memoria. Frasi, frammenti, a volte un singolo suono, per esempio un kickdrum o un accordo di synth, che richiamano determinati periodi o stili musicali ma mai in modo preciso, utilizzati sempre a “gravità zero”, come puri significanti emotivi… Esattamente. Io credo che la musica, ma più in generale quasi tutto ciò che facciamo, abbia a che fare con la memoria, con le informazioni che abbiamo raccolto ovunque nel corso della nostra vita, senza sapere poi esattamente da dove provengano, frammenti che formano un mix di differenti realtà. Sto leggendo in questi giorni un libro molto interessante, “Materia e memoria” di Henri Bergson, nel quale si afferma che tutte le esperienze che facciamo sono mescolate con i nostri ricordi, e che la memoria completa le nostre esperienze in maniera molto maggiore di quanto pensiamo, e attraverso modalità misteriose. Noi pensiamo di sapere perché agiamo o pensiamo in un certo modo, ma in realtà, se ci si pensa, spesso non ne abbiamo idea. E questo accade anche a chi, come me, lavora con stili, linguaggi, codici o referenze diverse: io
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stesso mi rendo conto che non so da dove esattamente provengano i contenuti che elaboro. Il mio lavoro come Señor Coconut ha avuto molto a che fare con questa idea. In Bauteile questa azione misteriosa della memoria è evidente. Parlando di memorie, dall’anno scorso hai cominciato a mettere le mani sulla tua vastissima discografia, ripubblicando e rieditando tue produzioni del passato sotto la nuova etichetta di catalogo Atom™ Audio Archive. Come sta procedendo il lavoro? Visti i numeri coinvolti (attualmente la discografia ufficiale di Uwe Schmidt ammonta a 226 produzioni, ndSA), per far sì che questo lavoro non sia soverchiante, occorre focalizzarsi: invece di seguire un criterio cronologico sto adottando un processo più artistico, concentrandomi sulle release che di volta in volta mi
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ispirano e mi incuriosiscono di più. Dovendo affrontare tutti i dettagli tecnici per i remastering, per ogni produzione che affronto mi occorre un giorno o un giorno e mezzo per un ascolto completo. E da questi esami molto attenti vengono fuori situazioni interessanti: ricordi distorti, cose di cui hai ormai dimenticato le motivazioni o le circostanze… E’ come rileggere vecchie lettere che avevi scritto tanti anni prima, anche se con la musica il processo è ancora più astratto. Ora molte cose che ho fatto anni fa mi sembrano stupide: so che non è un punto di vista oggettivo, ma è il parere di una persona completamente diversa da quella di allora. E’ una sorta di psicoterapia personale. Tra i tuoi prossimi progetti c’è una nuova label, chiamata “No.”, gestita insieme a Andre Ruello, aka Material Object, anche lui già musicista collaboratore di Pete Namlook e graphic designer della FAX… Material Object è mio amico da tempo. Entrambi ci siamo resi conto che non c’era in giro un’etichetta in grado di produrre le
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cose che avevamo in mente di fare. Mi mancava la spontaneità e la libertà d’azione che avevo con Rather Interesting (sublabel FAX gestita da AtomTM e stoppata nel 2012 a seguito della morte di Namlook, ndSA), dove potevo uscire con le mie produzioni quando volevo, senza dover sottostare ad alcuna altrui valutazione di opportunità. Anche Andre aveva le mie stesse necessità, oltre alla volontà comune di produrre anche cose di altri artisti. La nostra prima release, una collaborazione tra me e Material Object a nome No.Inc., uscirà il primo di maggio. In un podcast realizzato qualche anno fa hai inserito una frase di Terrence McKenna che parlava di “extraenviromentalism”: sentirsi sempre, in qualunque posto, come uno straniero, un outsider, come “il gatto che cammina da solo” della favola di Kipling. Ho la sensazione che tu ti consideri un “extrambientalista”: è così? Assolutamente sì. Non vivo in Germania da quasi vent’anni, ma in Sudamerica, a Santiago del Cile dove risiedo, mi sento e mi sentirò sempre in una condizione di outsider. Molti anni fa mi sono reso conto che più stavo lontano dalla Germania e meno mi interessava integrarmi in Cile. Inoltre viaggio spesso, e questo rafforza questa sensazione di essere un alieno ovunque. E’ una situazione che non mi dà problemi, anzi mi ci trovo benissimo. Ho scelto coscientemente di pormi in una “prospettiva aliena”: come essere in orbita e guardare il mondo da fuori. La tendenza umana è quella di cercare l’integrazione con la realtà che ci circonda: è più sicuro, semplice e veloce. Così come la tendenza a giustificarsi prendendo come scusa la propria cultura: siamo latini, non possiamo farci niente, questa è la Germania, da noi è così, ecc. E’ sorprendente come la gente tenda, beatamente ma in maniera inconscia, ad arrendersi alla propria cultura. “Culture is not your friend” diceva McKenna. Se ti liberi dal peso del background della tua tradizione, e contemporaneamente ti astrai dalla realtà culturale in cui ti trovi in un dato momento, sei libero: puoi decidere di non rispettare le regole, di comportarti male se ti va di farlo. Ho cominciato ad adottare questa “prospettiva aliena” come una sorta di esperimento personale, che ho trovato e trovo ancora divertente, ma sempre più mi sono reso conto del potere liberatorio di assumere volontariamente questa posizione: ti consente di liberarti da ogni sovrastruttura e di concentrarsi sulle cose essenziali della vita, “the simple basics of life“.
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Š Jennifer CHurch
Ouvertures e Uber-Werk 44
Abbiamo incontrato Michael Gira al Bloom di Mezzago in occasione del suo tour solista per parlare anche dell’ultima fatica degli Swans, “To Be Kind”. Davanti a una birra e con un sigaro in mano, rilassato ma sempre pronto alla risposta tagliente, Gira ha ribadito che la nuova avventura del suo gruppo vuole essere un viaggio in territori inesplorati, non gli interessa ricalcare nostalgicamente il passato e che degli Swans è il compositore, il direttore d’orchestra e il líder máximo – se mai qualcuno avesse nutrito dubbi in proposito… Testo di Tommaso Iannini Michael Gira visto da vicino è come te lo immagini. Alto, massiccio, emana carisma inossidabile e un po’ intimorisce, nonostante i modi cortesi da superuomo texano – che poi texano non è –, con quel cappello da cowboy calato sulla testa che rende buffa ma non smorza più di tanto la spigolosa austerità della sua figura. Seduti a un tavolino con The God of the Fuckin’ Land - per la cui storia rimando alla bella monografia di Antonello Comunale – al Bloom di Mezzago, prima del concerto, parliamo anche del suo tour acustico in solitario. Parliamo però, soprattutto, degli Swans, una delle poche rentrées odierne che non guarda al passato per operazioni nostalgiche (nei concerti, anzi, praticamente lo azzera) e nemmeno tanto a un presente chiamato To Be Kind, ulteriore conferma di una rinnovata vena creativa, prolifica e intransigente: già adesso il musicista americano sembra proiettato nel prossimo futuro. L’ultimo parto sonoro della band è un disco massimalista, un opus magnum (o un Uber-werk, direbbe lui in una specie di tedesco trasfigurato) con cui, a due anni di distanza dall’altrettanto ponderoso The Seer, è quasi un’impresa misurarsi in tempi di streaming distratti e veloci. Tra blues sfibrati e sfibranti (Just a Little Boy), cantilene funky che sanno di PIL (A Little God in My Hands), suggestioni cinematografiche (Kirsten Supine) e una pièce de résistance di mezz’ora che corrisponde al nome di Toussaint L’Ouverture, la sfida del wall of sound quasi wagneriano e
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della sua vertigine dissonante continua a livelli parossistici degni dei trascorsi antichi e recenti di un gruppo rinato, in tutti i sensi. Del resto, l’idea fissa di Gira sembra quella di mettersi alla prova, continuamente. Nelle interviste dà risposte secche, e ti anticipa quasi con il suo modo di arrivare dritto al punto che gli interessa. Professionale ma deciso, a volte laconico, quasi sempre caustico. Anche qui, all’altezza della sua fama. Come hai avuto l’idea di questo tour acustico prima dei nuovi concerti con gli Swans? L’ho fatto per tenermi impegnato. È una cosa che mi riesce bene e che mi diverte, e mi permette di continuare a lavorare.
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© Matias Corral
Come hai scelto le canzoni? Ho scelto quelle che suonano meglio [in acustico, NdSa]. Ci sono canzoni degli Swans; non ho preso ovviamente i pezzi in cui il suono è più importante delle parole, ma i brani che suonano meglio per la mia voce. Suonare in acustico con la sola chitarra è una cosa che ho imparato a fare dopo aver sciolto gli Swans nel 1998. Ho cominciato allora, sono migliorato e continuo non appena ne ho la possibilità. Suoni anche un pezzo nuovo degli Swans, Oxygen… Sì ma non la suono come con gli Swans. È molto diversa da com’è sul disco. Ho scritto il pezzo per l’album su una chitarra acustica,
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ma in questi concerti non ha senso rifarla nello stesso modo, non mi interessa ripeterla dal vivo con lo stesso disegno ritmico, per cui l’ho cambiata. Hai parlato spesso dei concerti come di un’esperienza molto fisica. Con i concerti acustici esplori tutta un’altra dimensione… Con gli Swans la cosa più importante è il suono, è trovarsi all’interno di questo sound che è più grande di noi, che apre una porta nel cielo da cui possiamo accedere al Paradiso. Quando mi esibisco da solo il suono è sempre al centro, ma è qualcosa di molto più semplice, come battere due sassi e cantarci sopra. È il modo più diretto di cercare qualcosa di autentico sul momento, qui, ora. Una sensazione completamente diversa… Sì, certo. Immagina la musica che puoi fare battendo tra loro due pietre e pensando a come cantarci sopra; c’è qualcosa di più nei miei concerti da solo, ma non tanto [ride, NdSA], la mia chitarra suona molto semplice. La direzione che avete intrapreso con il nuovo album degli Swans rimanda a quella di The Seer, con brani molto lunghi… Sì ma dal punto di vista del sound non suona affatto nello stesso modo. Forse solo in alcuni punti. Ci siamo più interessati ai groove e ai ritmi, ci sono momenti più tranquilli, abbiamo usato gli archi, la texture è molto diversa. Quando scrivete pezzi come Toussaint L’Ouverture, che dura più di mezz’ora, pensate più in termini di struttura, come una sinfonia… Già altri mi hanno detto che i nostri pezzi somigliano a brani sinfonici. Non perché io sia un musicista classico, ma per i movimenti e l’andamento del suono, all’opposto di quello che può essere un ritmo statico. Bring the Sun è un brano che dopo due anni di tour si è evoluto e modificato concerto dopo concerto. Lo abbiamo portato in studio nello stesso modo in cui lo eseguivamo dal vivo, ma poi ho aggiunto delle cose e ne abbiamo cambiate altre. È stato un pezzo molto improvvisato ma in cui ho diretto l’improvvisazione. Avete cambiato modo di comporre rispetto al passato? Dipende. Una buona metà dei brani di questo disco è stata provata prima a lungo in concerto, e può essere che quando abbiamo iniziato a eseguirli un paio di anni fa i pezzi fossero completamente diversi da come li abbiamo registrati e li ho orchestrati in studio. Altri li ho scritti su una chitarra acustica – una cosa che faccio da molto tempo, da metà degli anni ’80 – e ci abbiamo
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costruito sopra delle orchestrazioni lavorando in diversi modi. In ogni caso guardo sempre alla prima registrazione in studio come a un inizio da cui cercare qualcosa di nuovo. Provare semplicemente a catturare il suono di una rock band è una cosa che non mi interessa. Scrivi da solo o con la band? Molte canzoni le scrivo prima da solo. Alcuni pezzi, come ho detto prima, sono composti sul palco, davanti a un pubblico. Entro con un riff o un groove e insieme suoniamo cercando di capire come andare avanti, ed è così che li sviluppiamo. Improvvisate insomma… Sì è un’improvvisazione, ma io la guido. Questo tipo di scrittura presuppone molto work in progress: i brani nascono in concerto, e alcuni sono incisi nei dischi dal vivo – che state pubblicando abbastanza di frequente – prima di arrivare in studio… Sì, c’è una canzone in questo disco, Just A Little Boy, che abbiamo suonato dal vivo in maniera totalmente diversa. Quando l’abbiamo provata in studio, non appena abbiamo iniziato a suonarla, abbiamo capito che registrarla così non aveva senso, quindi l’abbiamo cambiata completamente. Perciò è rimasta una specie di base, pronta a essere cambiata e manipolata per trasformarla in qualcos’altro. E adesso continuate a manipolare queste idee suonando di nuovo dal vivo… Sì, quando saliamo sul palco non cerchiamo più di suonare i pezzi come sul disco. È un processo creativo che non è mai chiuso, che continua all’infinito… Sì, penso che debba essere così. Le canzoni continuano a cambiare forma… Certo, non siamo una pop band che suona canzonette. Ci interessa continuare a crescere in un contesto in cui da un momento all’altro il terreno ti può franare sotto i piedi, credo che sia più eccitante così. Immagino che suonare con questo approccio sia il frutto di anni di esperienza e anche un traguardo non indifferente… Sì, è una gran cosa. Sei soddisfatto del nuovo disco? Penso di sì, l’ho ascoltato così tanto di recente, lavorandoci per centinaia e centinaia di ore, che non riesco più a sentirlo, ma direi che mi piace.
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Nel tour con la band suonerete anche degli inediti? Sì, ho settimane intere per scrivere nuove canzoni e ho già qualche idea, è una cosa a cui tengo, o almeno proveremo a prendere il materiale registrato e a farne qualcosa di nuovo, non ho voglia di rifare lo stesso tour, è una cosa che non mi interessa. Sul palco hai quasi l’atteggiamento di un direttore d’orchestra, come se usassi la chitarra al posto della bacchetta. In studio ti comporti allo stesso modo? Oh, peggio [ride]. Peggio, addirittura? Sei un po’ il band leader ma… Sì, è il mio ruolo e tutti lo sanno. Voglio che tutti siano creativi, intendiamoci, ma sono io che decido la direzione in cui ci muoviamo. Se qualcosa non mi piace non lo suono e se al contrario mi piace lo incoraggio, a volte da un errore trovo uno spunto interessante e allora proseguiamo su quella linea. Di qualunque cosa si tratti, voglio che sia potente e urgente. Come hai scelto gli ospiti? Ho fatto sesso con tutti una notte. Tutti insieme. Ah ah [ride sonoramente, NdSA]. No, no. Conosco Little Annie da anni, avevo scritto una canzone per cui volevo anche una voce femminile perché la mia non era sufficiente. Lei ha una voce molto bella e potente, e ho creato un essere umano con due voci mettendo insieme la mia e la sua. Conosco bene anche Annie Clark, la rispetto molto, e tra l’altro aveva già lavorato con John Congleton che è stato il nostro ingegnere del suono per questo disco. Ha un’abilità musicale sorprendente. Per le sue parti vocali volevo quasi un canto operistico, con queste lunghe note “pure”, e lei era perfetta, è stata straordinaria, sempre intonata, in trenta take non ha sbagliato una nota. Davvero brava. È una cosa che non si sente molto ma con la voce crea delle armoniche superiori [overtones] simili a quelle che ottieni con il riverbero di una chitarra, in uno studio di solito non c’è abbastanza spazio per creare questo genere di suoni, per quello mi servo di una voce femminile. I famosi overtones di cui parlava Glenn Branca. È uno dei musicisti che ti ha influenzato? Quali sono i tuoi punti di riferimento per la musica che suoni ora con gli Swans? Per la musica di adesso? Non saprei. È una cosa a cui davvero non penso. Non ho musicisti che guardo come fonte d’ispirazione per il fatto di voler essere come loro. Li considero soprattutto dal punto di vista iconico, persone che hanno raggiunto qualcosa di importante. Glenn è un esempio. Non ho lo stesso tipo di approccio, per certi versi il mio è l’opposto del suo, non credo nemmeno
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© Sebastien Sighell
di capire la sua musica, intellettualmente parlando, ma tanti anni fa la apprezzavo per la sua forza, per quanto era potente. Quello che mi ha colpito di lui è la sua volontà… la sua abilità nel mettere insieme tutte queste forze e tante persone, comporre una sinfonia, provarla per tre settimane – in una delle sue sinfonie ho anche suonato – e combinare tutto fino a raggiungere vette celestiali, con suoni a cascata che salgono verso il Paradiso. Questo mi ha davvero ispirato, non il pensiero di suonare come Glenn, come hanno fatto i Sonic Youth o qualcun altro, che ha usato le sue accordature, ma l’idea di creare una sorta di Uber-werk. Per il resto, posso dire gli Stooges, i Pink Floyd, o per altri versi Bob Dylan, ma non ho mai voluto suonare come nessuno di loro, non ho voluto prendere niente, semplicemente mi hanno insegnato che tutto è possibile. In effetti non suoni come nessuno… Beh, ma nessuno suona come nessun altro. Just a Little Boy (For Chester Burnett) è un tributo a Howlin’ Wolf? Non la canzone in sé, ma incidendola mi sono reso conto che il mio registro era simile, anche se lui è più musicale di me, i suoi
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toni vanno dai più bassi allo yodel nella stessa frase, è così sorprendente e ha una voce così bella. A modo mio stavo facendo lo stesso. E poi nella sua voce sento molto l’Id, in senso psicologico [il termine è un sinonimo di Es, la voce degli istinti secondo la teoria freudiana, NdSA], una cosa che ritrovo anche in me stesso. A Little God in my Hands ha un groove quasi funky. Questa sperimentazione sui ritmi può portarvi in nuove direzioni? Sicuramente. La cosa che più mi interessa ora sono i groove che continuano all’infinito. Penso che svilupperemo questo aspetto nel prossimo tour. Molti dei vostri nuovi pezzi hanno una qualità quasi cinematografica. Qualcuno vi ha mai proposto di scrivere una colonna sonora? No. Se dovessi farlo, con quali registi ti piacerebbe collaborare? Lars Von Trier. Dicono che sia uno stronzo, ma tanti grandi artisti sono degli stronzi. Una canzone del nuovo disco, Kirsten Supine, l’ho scritta proprio dopo aver visto Melancholia; si ispira alla scena in cui Kirsten Dunst danza nuda. È una scena cosmica ma anche molto sensuale, una combinazione che mi ha ispirato. Penso che Von Trier sia un grande regista, come anche Gaspar Noé. Qualche regista americano? Non saprei. Scorsese, anche se lui tende a pensare le colonne sonore come un juke-box. Non sono sicuro, ma i primi a cui ho pensato sono loro. Come hai scelto il titolo del nuovo disco? To Be Kind è il nome di una canzone e penso che sia il miglior titolo anche per l’album perché riassume in sé l’ambiguità e l’intento di questo disco. Non siete il primo gruppo storico dell’indie rock a riunirvi ma siete tra i pochi ad aver portato la vostra musica a un nuovo livello, con la reunion… Sì, hai ragione. Il suono che avete creato ora lo avevate già in mente prima di iniziare di nuovo a registrare? Sin da quando abbiamo ricominciato, ho pensato che avrei potuto comportarmi da essere umano solo se avessi lanciato a me stesso una nuova sfida, invece di limitarmi a fare stronzate nostalgiche. E così è stato. Cosa pensi di chi ripropone per intero i vecchi dischi nelle scalette dei concerti? Penso che sia una cosa incredibilmente stupida e che non trovo di
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alcun interesse. È come dire: «Scusate, posso avere i vostri soldi?». Non hai tutti i torti… Non mi interessa fare soldi, ma voglio sfidare me stesso e creare musica che assomigli a un’esperienza religiosa. È questo che sto cercando. Coward è uno dei pochi vecchi pezzi, se non l’unico, che suonavate di recente… Sì, nello scorso tour, ma ora non la suoneremo più. Come mai l’avevate scelta? Era come un blues, molto basica, molto semplice da suonare, con in più un aspetto degradato e umiliante nel canto che mi piaceva. Come avete avuto l’idea di scrivere canzoni dedicate a pagamento? È andata così, mi sono seduto a pensarci e ho detto: «Devo farlo». Speravo andasse bene e l’ho fatto. Non è facile per niente. Non ho scritto canzoni serie ma brani da salotto, anche se ho cercato di realizzare comunque un’opera d’arte per chi era stato tanto amichevole da darci una mano. Immagino avrete visto molti cambiamenti nel vostro pubblico… Sì. Ora le persone non si incazzano. Una volta i pochi che venivano a vederci ci odiavano e pochissimi apprezzavano davvero la musica. Poi nel tempo abbiamo creato un nostro pubblico. Ora sembra che la gente venga a vederci per l’esperienza di trovarsi “dentro” il nostro sound, insieme a noi. Mi piace l’idea che scoprano il nostro suono in concerto e che possiamo elevarci tutti insieme. Poi, è bello vedere tanti ragazzi giovani. È davvero fantastico. Ci sono anche molte belle ragazze, e fa piacere quando sei sul palcoscenico… Qualche ora dopo, vedo salire Michael Gira sul palco del Bloom. Tranquillamente seduto ma sempre con i suoi modi perentori, esegue da cantautore solitario e in chiave unplugged brani di Swans, Angels of Light e suoi – tra una Power and Sacrifice, una Love of Life e la nuova Oxygen. Senza l’impressionante muraglia di suono eretta dall’ultima incarnazione del gruppo, ipnotizza lo stesso il pubblico con l’intensità del suo baritono espressionista, vibrante e un po’ gutturale. Qualcosa al passato lo concede; almeno nella scaletta, non poteva farne a meno. Con gli Swans sarà un’altra musica. Anche rispetto al nuovo disco.
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Sbagliando nota. Parte prima 54
In occasione della scomparsa di Freak Antoni riprendiamo e aggiorniamo, pubblicandolo a puntate, il libro digitale realizzato nel 2006 con interviste originali ai membri del gruppo (Giulio Pasquali - "Sbagliando nota. Storia degli Skiantos e del rock demenziale") : una retrospettiva dedicata a un grande personaggio della musica italiana. Testo di Giulio Pasquali “ascolto tutti quelli che parlano, e parlano di te[...] qualcuno piange ed è difficile ascoltare.Non credo ti sarebbe piaciuto, ci avresti scherzato su:avresti reso tutto più facile, avresti detto: «domani sarò fumo»”Lou Reed, Goodbye Mass, 1992 “Tutto ciò che è assurdo e bizzarro insieme, non eroico, non retorico,non modaiolo, non istituzionale [...] un cocktail di pseudofuturismo, dada,goliardia, improvvisazione, [...] provocazione con ironiad’avanspettacolo, poesia surreale soprattutto cretina” Roberto “Freak” Antoni, definizione di “demenziale”, da Badilate di cultura, 1995 “Alberto Sordi [...] si è inventato il personaggio di un italiano vile,sopraffattore, inaffidabile, pronto a qualsiasi bassezza, insommadi un italiano immondo con cui gli italiani si sono divertitifollemente. Come mai? Perché pensavano che fosse una cosa chenon gli corrispondesse, ma sotto sotto ne sentivano il richiamo.All’estero Sordi non lo possono vedere. Si chiedono: macome fa a divertire questo essere immondo? Cosa c’è da ridere?”Mario Monicelli, Il mio cinema fra Mussolini, Sordi e Gorbacëv, Micromega 5/201
Tra i mille luoghi comuni messi alla berlina nel corso della sua opera, c’era stata anche la morte, in canzoni come appunto Devi morire (1999), riflessione filosofica sulla grande livellatrice fatta con un geniale campione del noto coro da stadio, o come Sanissi-
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mo (2005), o una vecchia poesia in cui scherzava – ma non troppo – sul fatto che, in quanto grande artista, anche a lui sarebbe toccata una rivalutazione postuma come a tanti predecessori. Certo, a Roberto “Freak” Antoni, poeta, cantante e agitatore culturale da Bologna, non è toccato morire “sanissimo”, come il maniaco della salute satireggiato nella canzone citata: era malato da un paio d’anni almeno, e aveva rischiato parecchio (“porto i capelli lunghi perché i medici mi hanno praticamente salvato prendendomi per i capelli”, diceva nelle date di Ironikontemporaneo, riferendosi alla prima crisi della sua malattia). E nemmeno “ricchissimo” come un altro personaggio dello stesso brano, vista la sua poetica poco incline a cercare facili consensi, con conseguenti difficoltà con discografici ed editori. Ma una rivalutazione postuma sarebbe doverosa nei confronti dei quasi 40 anni di lavoro satirico in musica e nei testi sui luoghi comuni del linguaggio, sul conformismo, sulle idee facili e automatiche. Al riguardo, ha iniziato Piergiorgio Paterlini nel suo epitaffio, sostenendo che è limitativo ricordare Antoni solo per l’inven-
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zione del rock demenziale (che invece, per Cilìa e Guglielmi del Mucchio, è l’unico contributo italiano veramente originale alla storia del rock) e definendolo un grande degno di stare accanto a Fellini e Flaiano (ma ci starebbero anche i citati Monicelli e Sordi) per l’intelligenza corrosiva con cui ha raccontato l’Italia: se esagera ce lo dirà il tempo, intanto è un inizio. Delle differenze tra i vari modi di ridere, e del fatto che ridere possa essere una cosa serissima, abbiamo già scritto, e quella di Freak non era comicità di bassa lega: la sua cretineria era militante, specchio distorto e grottesco delle tante demenze quotidiane contro cui si ribellava con “odio mosso da amore” (per dirla come i 99 Posse e come ha confermato sua figlia Margherita in un discorso funebre di toccante maturità, per una quindicenne) e con le armi dell’ironia e della satira. Perché per lui e per gli Skiantos ridere era satira e sovversione, provocazione e attacco alla banalità; risata punk come quella beffarda, oltraggiosa e irriverente di Johnny Rotten all’inizio di Anarchy In The UK, fatta col gusto di mostrare l’idiozia di qualcosa ritenuto serio o di una menzogna
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da quieto vivere; punk, perché la potevano fare tutti (all’epoca si pensava che chiunque potesse essere creativo: la differenza la fanno l’intelligenza e il gusto, il che significa anche il cattivo gusto deliberato), ma anche situazionista, nel senso di gesto mediatico clamoroso volto a scuotere le coscienze. Cercheremo di raccontare la storia di questo sghignazzo d’assalto, che negli anni ha trovato alleati e nemici, ha visto vittorie e ritirate, sotto la scomoda bandiera dell’ironia intelligente – o deliberatamente cretina, quando “intelligenza” diventa il nome del realismo furbetto e opportunista. “Una risata vi seppellirà”? Magari no, ma tirerà il maggior numero possibile di palate di terra (se va bene, altrimenti invece che terra potrebbe essere qualcos’altro…). I. Il brodo di coltura : Premesse
Il rock demenziale non poteva che nascere nel fervore della Bologna degli anni 70, leggendaria fucina di controcultura (pardon, KontroKultura), di forme creative di opposizione al potere, di fantasia antisistema e follia pura (si narra che durante gli scontri con la polizia, mentre si aspettava la carica, poteva capitare di vedere qualcuno che sulle barricate suonava il pianoforte); ma
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anche di carri armati per reprimere le manifestazioni, di scontri durissimi, uno specchio esasperato di quello che era il clima politico italiano dell’epoca. A Bologna la militanza politica dura e pura si era fusa con la creatività in un magico intreccio che nel ’77 già si dividerà di nuovo nei due tronconi d’origine, prima che nel giro di pochi anni quattro cavalieri dell’Apocalisse chiamati Eroina, Terrorismo, Repressione e Riflusso spazzino via il Movimento, la maggior parte della sua cultura e la mentalità che lo aveva animato. Ma di quegli anni, che nel bene e nel male hanno definito e preparato l’Italia di oggi, non rimangono soltanto macerie bensì anche notevoli frutti culturali: fu una stagione infatti nella quale, tra le altre cose, si sperimentava la fusione tra discipline diverse, tutte in grande fioritura anche singolarmente, come il teatro, la musica, il fumetto, il cinema (e le radio indipendenti, come l’ormai storica Radio Alice). E mentre crescevano le barricate contro la polizia, si abbattevano quelle tra cultura “alta” e cultura “bassa”, come dimostra l’assoluta eterogeneità degli argomenti della Bibbia dell’epoca, la rivista Frigidaire, parto di Stefano Tamburini e del gruppo che con lui già aveva imperversato sulle altre riviste, Cannibale e Il Male. Intermezzo: Freak – Bologna nel ’ 77 e i contatti con le altre discipline .
“Noi siamo sempre stati figli del movimento studentesco che a Bologna era potentissimo nella seconda metà degli anni 70 in particolare. Poi nel ’77 si spaccò, e andò poi scemando fino all’’80. E dall’’80 in poi iniziò il famoso “decennio del riflusso”. Ma certo gli Skiantos erano in qualche modo figli degli Indiani metropolitani, dell’ala cosiddetta creativa del movimento studentesco. Quando nel ’77 si spaccò ci fu l’ala creativa, gli Indiani metropolitani e la parte artistica, e dall’altra parte i duri, puri, irriducibili delle P38, dunque le BR e simili: due spezzoni assolutamente diversi del movimento, due tendenze completamente opposte. Ognuno ha seguito la propria strada, gli Skiantos erano nella parte dei creativi, erano dalla parte della conquista della nuova arma del movimento cioè la satira, cioè la fine della politica ideologica obbligatoria e schematica e la conquista di un nuovo linguaggio che passava attraverso la satira, il sarcasmo e l’ironia soprattutto. Gli Skiantos fanno le prime prove in cantina nel ’75 poi esplodono nel ’77, quando scoppia il movimento studentesco in tutta la sua virulenza. Sono figli di quel periodo, un periodo assolutamente irripetibile: creatività molto generosa, molto istintiva, assoluta-
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mente a perdere, non monetizzante, non capitalizzatrice delle sue possibilità e della sua produzione. In quel periodo si pensava che si potesse fare musica anche senza essere particolarmente virtuosi dello strumento, si potesse e si dovesse fare arte senza possederne le basi accademiche, ci si potesse approcciare a un’arte per la voglia di fare, perché si aveva qualcosa da esprimere. Così come si scoprivano i cosiddetti scrittori illetterati, in Italia, che erano molto più significativi nella loro sgrammaticatura di scrittori o poeti laureati molto formalmente ineccepibili, ma molto meno interessanti dal punto di vista della comunicazione, della passione e del temperamento. Ed ecco che il movimento cavalcò onestamente, molto sinceramente questo tipo di tensione: tutti possiamo fare tutto, ogni essere umano è in potenza assolutamente creativo, basta solo la sua volontà, la sua voglia di esprimersi. E gli Skiantos furono fino in fondo figli di quel modo di pensare, di quella forma mentis. E questo poi è costato loro molto. Noi prendemmo spunto e suggerimenti dal Living Theatre, per esempio. Io poi sono un vecchio amico personale di Andrea Pazienza, con lui abbiamo spesso immaginato diverse copertine di dischi degli Skiantos; poi non se n’è più fatto nulla perché lui quando avrebbe dovuto iniziare a lavorarci se ne andò da Bologna e poi, poco dopo, se ne andò definitivamente. Alcuni di noi poi, io in particolare, collaborai con la rivista Frigidaire, che era il passo successivo a Cannibale, dopo Il Male. Tra l’altro la prima trasferta fuori Bologna, a Milano, gli Skiantos la fecero in sostegno della neonata rivista Il Male, che è stata l’antesignana di tutte le riviste satiriche in Italia. Ci piace ricordare che gli Skiantos fecero il primo concerto in trasferta a Milano a sostegno de ‘Il Male’”. Era un periodo turbolento, non solo a Bologna: se gli Squallor avevano sdoganato un turpiloquio facile ma, nel contesto, liberatorio, molte altre cose erano possibili e si muovevano. Le suggestioni internazionali venivano rielaborate con una personalità oggi più rara (Faust’o e il primo Ivan Cattaneo o, in altri campi, gli Area e i Krisma) e non solo l’underground fremeva, non solo proliferava accanto a quelli classici una serie di cantautori matti quali Enzo Carella, Fanigliulo o il più illustre di tutti, Rino Gaetano, ma anche nel pop regnava una certa follia: altrimenti non sarebbero venuti fuori personaggi pazzerelli come Amanda Lear, Donatella Rettore, Renato Zero – che, prima della svolta commerciale, l’underground lo aveva bazzicato – o, per dire, figure ineffabili quali Maria Sole o le Figlie del vento. E sempre
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nel pop, anzi nella dance, si affermava una scuola italiana ancora considerata, come conferma l’omaggio a Moroder nell’ultimo Daft Punk (o un Lou Reed che, quando gli chiedono cosa conosca della musica italiana, risponde ridendo “la dance”). La canzone comica, d’altra parte, esisteva da sempre nella tradizione popolare, e anche nel 900 gli esempi erano stati numerosi (Freak Antoni qualche anno più tardi ne studierà la storia col progetto Beppe Starnazza e i Vortici), anche in quegli anni: c’erano i dischi dei comici (tra cui uno notevole di un Pippo Franco - ebbene sì, proprio lui, sicuramente al punto più alto della sua carriera – che in certi momenti potrebbe quasi essere considerato
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un precursore del genere); il cabaret dei Gufi e Nanni Svampa; a Milano, il giro di Jannacci, Gaber e Fo cercava strade nuove per il teatro, la canzone e la loro commistione nel nome dell’irriverenza, e d’altra parte la goliardia da autogrill degli Squallor (non priva qua e là di qualche lampo felice, comunque) contava già svariati dischi al suo attivo. Ma per l’appunto si trattava di comicità, non di demenza – quella, tutt’al più, era comparsa in certe canzoni di Alberto Sordi e nella triade Clem Sacco, Ghigo Agosti e Ritz Samaritano a fine anni ’50 (anche se con velleità sovversive decisamente più blande), quando aveva incontrato interesse limitato e ostracismo: ora, nel contesto generale del periodo e di una città particolarmente creativa, trova le condizioni per fiorire definitivamente. G li anni d’oro I: S i comincia : uno -due - sei-nove!
In comune col punk i Nostri avevano, come detto, anche il fatto di presentarsi come non-musicisti. In effetti, tra i dieci che inizialmente gravitavano intorno al progetto messo su da Freak Antoni e che si ritrovarono una sera in studio a registrare Inascoltable, di non-musicisti e non-cantanti ce n’erano parecchi (come si sente dalle registrazioni, peraltro). Alla fine Antoni era riuscito a organizzare una sessione, il gruppo andò in sala con solo i testi pronti e in una notte creò e registrò queste canzoni. Racconta il cantante: “I musicisti non si conoscevano bene tra loro, e i testi erano assolutamente una sorpresa per loro stessi, erano stati tenuti all’oscuro dei vari testi, fu un esperimento”. Dandy Bestia: “Dunque, mi ricordo che siamo arrivati lì tutti dopo cena, verso le 9 e mezza, le 10. Soltanto io avevo letto qua e là dei testi che Roberto, Stefano e Andrea avevano scritto fino a lì. Qualcosa mi aveva fatto leggere Roberto, ma per esempio la maggior parte delle cose che aveva scritto Stefano, anche se poi erano poche, una o due, non le avevo mai sentite prima, e neanche quelle di Andrea. Ma questo era voluto, siamo entrati in studio volutamente per fare un esperimento totalmente fuori: vediamo cosa succede a mettere insieme in uno studio sette-otto musicisti, o pseudo tali, con dei cantanti anche loro assolutamente improbabili, all’epoca, come Andrea Setti (Jimmy Bellafronte), per esempio. Già Freak è uno che ha la voce roca, che urla forte, è intonato, quindi è un cantante vero, allora era un cantante un pochino più probabile degli altri, comunque nessuno sapeva nulla di quello che sarebbe successo. Poi
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ascoltando il risultato ti accorgi della differenza con una cosa molto preparata, ma certo ancora ad ascoltarla oggi ti accorgi che è molto viva, molto più fresca. A volte una cosa improvvisata, quindi non studiata, risulta per forza molto più potente. Ecco, mi ricordo questo, mi ricordo che ci mettevamo d’accordo sui tempi, il batterista diceva “come lo intendi questo, questo riff che stai facendo, lo intendi shuffle?” , dicevo “guarda, non lo so assolutamente, lo sto facendo in questo momento”, “sì cazzo, però così è un casino, sai, così non arriverò mai alla fine”, “ma no dai, andiamo avanti, tu fai quello che ti senti qua sopra e io magari cambio intanto che tu cambi”… insomma è nata così la cosa. Bello, un bell’esperimento, io me lo ricordo molto volentieri, nel senso che mi fa piacere aver partecipato a questo, anche se non è un disco che poi ha venduto moltissimo, però è stato bello come esperimento”. È chiaro fin dai primi secondi della prima canzone che ci troviamo in terre inaudite: “Uno-due-sei-nove” al posto del classico “One-Two-Three-Four” e una falsa partenza lasciata sul nastro. È Permanent Flebo, il primo dei loro classici, costruito su un giretto punk-rock semplice semplice e un testo che sembra composto secondo il procedimento della rima casuale, ovvero verso buttato
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lì, poi la prima rima che ti viene in mente (meglio se assurda), e poi si lascia così com’è uscito. In pratica un ready-made poetico, dunque un altro richiamo a certe avanguardie d’inizio secolo. Non c’era neanche, così, bisogno che i testi fossero pronti prima… E il seguito non cambia: poesia dell’errore, culto dell’imprecisione, apoteosi della sgangheratezza (i Velvet Underground, in confronto, sembrano i Pink Floyd… ma nemmeno troppo), trionfo dell’informale; vecchie banalità musicali suonate come gruppetti nelle cantine alla prima prova (quello che, più o meno, erano), qualche stecca orribile, rimasticamento di giri presi dal manuale del rockettaro e bluesettaro alle primissime armi, agghiaccianti cori belluini dove l’armonia è trattata da orpello inutile… il tutto per canzoni dai titoli mai sentiti come Makaroni, Io vi odio tutti, Ti spacco la faccia (dal vivo), Lieve affranto, Blues Ba Ba Lues, ecc… (e la superflua dichiarazione di Sono rozzo sono grezzo: si sente), nei cui testi confluiva per la prima volta nella storia della canzone il linguaggio stradaiolo-movimentista del periodo. Se i dischi successivi segneranno passi avanti nell’affilamento delle armi espressive, Inascoltable rimarrà l’esempio più puro ed estremo della loro poetica, nonché una novità vera nel panorama italiano.Pochi infatti avevano, nella terra del bel canto, sfoggiato una vocalità aggressiva e beffarda come quella di Freak, mentre Stefano “Sbarbo” Cavedoni scimmiottava lo stile più sentimentale e svenevole, Jimmy Bellafronte si alternava tra i due registri, e i vari Dandy Bestia, Frankie Grossolani, Andy Bellombrosa e Leo “Tormento” Pestoduro davano al Belpaese quel rock cui non erano giunti né i suoi gruppi beat dei 60 né il suo ricco filone prog dei 70. Già, il progressive: l’atteggiamento verso questo genere era lo stesso dei cugini punk inglesi, ovvero suonare grezzo e con tecnica approssimativa (o nulla) come rifiuto della magniloquenza e degli ostentati virtuosismi tecnici in cui si era sterilmente trasformata una corrente musicale che era stata anche molto interessante. Ma un rifiuto che vedeva anche qualche solidarietà: mentre Fripp e Hammill simpatizzavano coi debosciati inglesi, a Bologna Fariselli degli Area prestava una chitarra a Dandy Bestia che se le era dovute vendere tutte… F reak : sui concerti
“Il nostro concerto dal vivo lo abbiamo elaborato anche inconsciamente guardando il Living Theatre, che in quegli anni passava da Bologna: anche Stefano Sbarbo, innamorato del teatro, che faceva il DAMS insieme a me, te lo potrà confermare. Abbiamo sempre
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amato molto il Living Theatre, lo abbiamo visto in azione a Bologna, dove alcuni giovani di passaggio, studenti di Piazza Maggiore (quando piazza Maggiore era il punto di riferimento e di incontro della città) erano stati scelti per fare carabinieri e poliziotti e altri erano stati scelti per essere gli studenti manganellati. Ecco, noi vedemmo molte performance del Living Theatre, e questo coinvolgere la gente, questo rompere la barriera che c’è tra artista che sta sul palcoscenico e il pubblico che sta in platea è sempre stata una delle nostre ingenuità preferite, perché è difficilissimo in realtà realizzarlo, ma è sempre stato uno dei nostri obiettivi. Per questo abbiamo iniziato a tirare la verdura al pubblico, per coinvolgerlo in un gioco collettivo molto attivo, dove si confondevano gli attori con gli spettatori: gli spettatori diventavano attori protagonisti, e gli attori si confondevano con gli spettatori. Era un’utopia teatrale molto forte, che il Living Theatre portava avanti, e cioè trasformare gli spettatori in attori lavoranti, viventi. Non più il pubblico che lancia oggetti all’artista che reputa cane ma l’artista – anche mediocre, perché no? – che si prende la rivincita sul pubblico e gli lancia qualsiasi cosa: noi gli abbiamo lanciato di tutto e abbiamo ricevuto altrettanto sul palco, della serie “chi semina vento raccoglie tempesta”. Prima di fare i concerti noi passavamo, nelle città in cui ci si trovava a fare il concerto, dai mercati ortofrutticoli, oppure ci si portava nel furgone da Bologna della verdura possibilmente non troppo contundente, però insomma verdura da lanciare sul pubblico, e quella certo che è una provocazione, molto futurista. I futuristi tiravano i pomodori al pubblico, noi abbiamo tirato anche i pomodori ma anche di tutto. Poi abbiamo smesso perché il gioco diventava risaputo, e dopo un po’ finiva tutto in una gazzarra che non accontentava nessuno. Ogni bel gioco deve durare poco, e ci siamo concentrati su altri lanci, tipo i lanci dei vermi da pesca. Che nella provincia e nella città di Bologna si chiamano bigatti: “bigatto” è qualsiasi cosa che assomiglia a uno spaghetto. A Bologna facemmo questa performance tirando i vermi da pesca e dicendo al pubblico “Fate il vostro grande gesto creativo! Liberate la vostra fantasia! La vostra creatività! Fate il vostro grande gesto! Fate il vostro BIG- ATTO!”. Lo abbiamo fatto proprio all’ultimo bis, dopodiché abbiamo lasciato il palco velocemente dopo aver sentito le prime urla e gridolini delle ragazze inorridite, le prime urla di schifo e di disapprovazione: dico la verità, non siamo rimasti lì a discutere, anche perché la provocazione era davvero molto forte, quindi ce la siamo data a gambe. Oltre ai vermi da pesca e alla verdura abbiamo tirato crackers,
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biscotti secchi, gallette, abbiamo tirato caramelle, preservativi; e ci è arrivato di tutto sul palco, compresa una zucca sul proscenio, che è stata lanciata o messa lì da un fan particolarmente prestante, che con le braccia è arrivato sul proscenio e ha tirato lì questa zucca. Una volta anche un melone, una volta anche un cocomero”. II. Fatti questo slego
Inascoltable era uscito come cassetta autoprodotta, su vinile sarà stampato un paio d’anni più tardi. Per il pubblico, presso il quale degli Skiantos cominciavano a far scalpore i concerti, l’esordio discografico del gruppo avverrà col singolo Io sono un autonomo/ Karabigniere Blues e con l’album Mono Tono (Cramps, 1978), che arriveranno dopo una sfoltita dei ranghi (ma ben altre ne seguiranno in futuro). Ora gli Skiantos suonavano davvero, sia pure un genere sporco e grezzo come il rock, col chitarrista Dandy Bestia sugli scudi; e qualche recensore attento, pur perplesso dal progetto generale, se ne accorse e lo disse negli articoli dell’epoca. Sia il singolo che l’album, in effetti, sono due pietre miliari. Il singolo raccoglie due canzoni peculiari e potenti già dai titoli: in Io sono un autonomo si compendiano in salsa punk frasi e atteggia-
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menti d’epoca (col leggendario attacco “Andate a lavorare, teppisti!”), mentre la pigra Karabignere Blues diventerà un classico anche perché inaugura un filone di satira sulle forze dell’ordine che avrà lungo seguito, non solo nei dischi degli Skiantos. Né sono meno memorabili le canzoni di Mono Tono, già dall’introduzione con i dialoghi accelerati: dialoghi da fattoni, va da sé, mica Ibsen, il quale non ha mai iniziato un dramma con la frase “Ma che cazzo me ne frega” (le voci apparentemente casuali sono una costante del disco, come se fossero rimasti accidentalmente su nastro i commenti volanti – e oltraggiosi – di qualcuno che passa o assiste mentre il gruppo suona). E il resto mantiene le promesse: dalla ripresa in versione più potente dell’attacco di Permanent Flebo per Eptadone, alla rilettura di Satisfaction che diventa Pesto Duro, al manifesto di Diventa Demente (la kultura poi ti kura) coi suoi spericolati cambi dall’hard rock al beguine e nel cui finale vengono trucidati i concetti di “coro”, “voci armonizzate” e “andare a tempo insieme” (mentre risuona la frase “la cultura è una verdura”, che probabilmente durante i concerti dava inizio al lancio della stessa sul pubblico). Stessa fine fanno la canzone d’amore classica in Vortice e in Io ti amo da matti (sesso e karnazza), e la modestia in Io sono uno skianto: Vortice è una parodia assassina con epici inserti punk del lentone lamentone da innamorato, con grande performance alternata Bellafronte-Antoni; Io ti amo da matti è invece uno splendido dance rock su cui regna Stefano Sbarbo, mentre la sbracata Io sono uno skianto annovera alla fine della penultima strofa il più bel tentativo abortito di acuto (e non manca la voce che commenta “basta!”). Anche il tradizionale rapporto col pubblico fa una brutta fine nella loureediana Largo all’avanguardia, un altro manifesto (“Largo all’avanguardia, pubblico di merda, tu gli dai la stessa storia tanto lui non c’ha memoria”, “io vado controcorrente perché sono demente, sono un ribelle c’ho l’urlo nella pelle”). In Io me la meno (“con un pieno di fieno io divento più scemo”, “se patisco mi sveno non posso farne a meno”) abbiamo anche la presa in giro del classico assolo di batteria prog, inserito quasi a caso in mezzo a un pezzo punk (e le solite voci infatti invitano il batterista a smetterla) mentre l’inaudito incipit di Panka rock (“brucia le banche, bruciane tante / calpesta le piante”) segna un’autentica rottura con quanto cantato fino a quel momento in Italia (se si eccettuano vecchie canzoni sovversive nelle quali si diceva che con la pelle dei preti sarebbero state fatte mutande e simili). Finale con altri dialoghi accelerati che testimoniano il linguaggio
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giovanil-alternativo dell’epoca, e il twist, o giù di lì, di Ehi, ehi, ma che piedi che c’hai. Ma accanto alla pars destruens c’è anche una pars construens, di cui abbiamo detto: la nascita di una musica nuova, almeno per l’Italia, che in questo disco viene messa in risalto dall’ottimo lavoro di produzione di Allan Goldberg (un fonico che successivamente ha lavorato con gli Yes di Big Generator e, in Italia, con PFM, Fossati e Carmen Consoli – è lui che le ha dato il soprannome di “cantantessa”) con la supervisione di Oderso Rubini. I due conoscevano bene il loro mestiere e diedero un suono potente e compatto a un gruppo che rischiava di passare come una follia di poco conto (d’altronde “l’Italia è un paese dove nulla si fa sul serio ma guai ad aver l’aria di scherzare”, come scrisse il succitato Ennio Flaiano), suono che fa di questo un grande disco di punk rock. Duole dirlo, ma anche se le pagine memorabili del gruppo
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saranno ancora molte e i dischi brutti pochi o nulli, uno compiuto e riuscito come questo non lo faranno più. Ma ciò non vuol dire che avessero esaurito le munizioni, tutt’altro. Nel frattempo, come dicevamo, questo tipo di canzoni inaudite e i concerti-happening fanno scalpore, e attirano seguaci ma anche critiche e scandalo (riguardo ai concerti, la versione live di Sono rozzo sono grezzo, contenuta nella ristampa 2003 del successivo Kinotto, può dare un’idea non solo del suono Skiantos dal vivo, ma anche di ciò che poteva succedere nei concerti degli anni ’70, nonché del clima assolutamente informale sia sul palco che tra cantanti e pubblico: un piccolo, interessante frammento d’epoca). F reak e la nomea
“Questo marchio è rimasto agli Skiantos: gli Skiantos sono inaccettabili perché possono fare tutto e il peggio di tutto, è un marchio d’infamia che ci portiamo avanti. Così come “non sapete suonare”: nel corso degli anni gli Skiantos hanno certamente imparato a suonare ma la gente non se n’è accorta, per la gente noi siamo ancora come eravamo nel ’77, non c’è verso di modificare la testa all’immaginario collettivo del pubblico, noi continuiamo a rimanere il gruppo d’assalto, i cialtroni d’assalto che nel ’77 lanciavano la verdura sul pubblico e suonavano una scopa. Questo siamo per il pubblico italiano. Quindi anche i dischi che facciamo recentemente la gente a volte li vede con sospetto: “ma suoneranno loro?”. Sì, suoniamo noi, anzi non vogliamo grosse interferenze: a volte ospitiamo musicisti che appunto sono ospiti, ma lo dichiariamo nei crediti, non abbiamo bisogno di nasconderci. Però per il grosso pubblico, ripeto, siamo i cialtroni d’assalto che eravamo nel ’77”. Ma comunque già nel ’78 suonavate parecchio, perché se uno ascolta bene Mono Tono, quello è un grande disco di rock… “Sì ma la gente dubita che quel disco sia nostro. Noi avemmo anche un’enorme fortuna in quell’anno, nel ’78, perché registrammo negli studi Sascia di Rozzano, e avevano di passaggio un certo tecnico australiano Allan Goldberg, innamorato della musica rock, il quale sentito che eravamo dei rocchettari, ed essendo lui di formazione mentale anglosassone dunque particolarmente aperto alla musica rock, ci registrò quel disco come disco di rock, alla anglosassone e non all’italiana. Per cui i suoni sono talmente particolari che poi la gente non ha trovato di meglio da dire che “non erano loro che suonavano”, “in quel disco chissà chi ha suonato”, mentre Dio o chi per lui ci è testimone che nei nostri dischi abbiamo sempre suonato noi.
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A volte ci siamo avvalsi di turnisti, perché nel periodo della Targa Bollicine il produttore Roberto Casini ci voleva rendere più appetibili dal punto di vista radiofonico, ma sono state ospitate molto casuali, noi abbiamo sempre preteso di suonare e di cantare nei nostri dischi. Laddove c’è qualcun altro, lo abbiamo segnalato nei crediti, in questo ci picchiamo di essere molto onesti. Era questo che volevo dirti: che quando poi gli Skiantos suonano con una certa grinta, la gente dice “ah, ma non erano loro”. Dandy e il suono
“Allan Goldberg, un fonico bravissimo, per l’epoca molto avanti, credo che lo sia anche adesso perché è uno di quelli che non smettono mai di studiare. Veramente una potenza, lui ha registrato con dei gruppi inglesi grossissimi, non credo di sbagliarmi se parlo addirittura di Hendrix. Comunque quando sentì come suonavamo… anche perché ci tengo a sottolineare questo, cosa che Freak non fa mai, eh eh, che gli Skiantos sono stati una rivoluzione prima di tutto musicale perché è stato il primo gruppo di rock duro mai sentito in Italia, prima non c’erano. C’era rock, pop-rock elaborato, di gruppi progressive anche
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duri come i New Trolls o come la PFM già un pochino più spostata sul jazz, ma non un vero gruppo di rock duro, come sono stati in Inghilterra o in America gruppi come i Sex Pistols stessi – quelli poi erano già punk, noi non facciamo esattamente il punk, noi facciamo il rock duro – più i Lynird Skynyrd, o come i Led Zeppelin, ecco la nostra principale ispirazione musicale sono stati gli Zeppelin. E in quel periodo ci stanno anche i Pistols, perché io poi venivo dall’Inghilterra, c’ero stato un anno intero e li avevo visti dal vivo due volte, son rimasto sconvolto per un paio d’anni, mi ha segnato per un paio d’anni aver visto i Pistols dal vivo. E quindi tornai in Italia che ero completamente invasato di loro, e si sente da Mono Tono ma anche da Inascoltable”. Dandy Bestia esce dal gruppo
“Ero intrattabile, veramente… un po’ per le cose che assumevo, droghe, alcool e compagnia bella ero veramente diventato una sorta di ducetto insopportabile, per cui alla fine m’han sbattuto fuori, e han fatto bene. Poi mi sono riavuto. Prima nelle stesse condizioni mi chiamò a fare le prove Vasco Rossi, che ancora non era nessuno, ma io ci arrivai in quelle condizioni lì e si guardò bene dal prendermi, giustamente. Ma non per incapacità musicale, perché comunque ero abbastanza bravino, ma proprio perché ero intrattabile. Poi mi sono ripreso, moderato, e sono andato con Ron, Orietta Berti, Lucio Dalla, ho fatto un po’ il chitarrista “di servizio”.
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Genere: cantautori, post-punk Il concetto di “personalità” non è un dato relativo, ma qualcosa di oggettivo. Vuol dire staccare da tutto quello che ti gira intorno, in questi tempi di selfie anche quando sei sul water, e aggrapparsi con le unghie esclusivamente al far musica. E’ un processo di aggiustamento faticoso e antisociale, un piallare continuo che scoperchia lo scheletro, un buttar via molto e trattenere poco, affinché quello che hai tra le mani – nel nostro caso, sette brani – suoni il più possibile autobiografico. Simone Perna (già batterista di Viclarsen e Affranti), ovvero 3 fingers guitar, in Rinuncia all’eredità maneggia un “cantautorato” in salsa post punk come lo avrebbero pensato i Fall: colleziona testi taglienti e ridotti all’osso, li impasta con certi deragliamenti Birthday Party (Riproduzione), li impacchetta in sbandate noise e blues (la title track, Fuga) in bilico tra strutture circolari e aperture strumentali periferiche (un L’unica via che non sarebbe dispiaciuto a Ian Curtis). Non ci sono regole stilistiche certe, in un gioco tra le parti in cui le dissonanze delle chitarre pasteggiano con una voce scorticata, le percussioni – di Simone Brunzu, co-responsabile degli arrangiamenti – giocano a stanare la teatralità inconsapevole del declamato (una P. che fa pensare a certe cose del miglior Capovilla). Chitarra elettrica, loop, voce, batteria e pochissimo altro, danno vita a un disco disarmate e talmente essenziale da rimandare, nell’indole più che nello stile, a
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realtà altrettanto oblique, affascinanti e minimali come i Venezia. Si parla di eredità, nel titolo e nel concept alla base – il disco «ripercorre la vicenda di un padre e di un figlio e dell’eredità umana ed esistenziale che il primo ha lasciato in dote al secondo» -, e a quella vogliamo infine ricondurre la nostra analisi: il lascito del terzo album (il primo in italiano) di Simone Perna è un fardello di non poco conto, che parla di potenzialità enormi in parte messe in mostra, in parte ancora da esprimere. Come se la tensione accumulata nella mezz’ora o poco più di programma non riuscisse sempre a deflagrare, congestionando invece il “traffico emotivo” generato dai brani in un collo di bottiglia stilistico non abbastanza affilato. Le premesse sono comunque intriganti, il punto di osservazione ottimo e c’è di che essere fiduciosi. 6.9/10 Fabrizio Zampighi
Allan Glass - Magikarp (Nova Feedback Records,2014) Genere: pop, psych, post-punk, electro Piemontesi da Pontecurone, gli Allan Glass sono un duo all’esordio su lunga distanza ma con piglio e padronanza di chi ha le idee già molto chiare (a partire dal titolo ispirato ad un pokemon, circa i quali confesso la mia vasta e irrimediabile ignoranza). Dediti ad un art/ punk acido, matematico e rumoroso, mettono in mostra un approccio intellettuale e selvatico assieme, nel quale sembra anzi che il cerebrale produca la furia, una regressione raziocinante
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3 fingers guitar - Rinuncia all’eredità (Neverlab,2014)
Stefano Solventi
Altre di B - Sport (Gente Bella,2014) Genere: rock, indie Già il nome bastava ad inquadrare gli Altre di B nell’universo sportivo, nel mirabolante sogno nostalgico di Tutto il calcio minuto per minuto,
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di Sandro Ciotti e del Totocalcio al Tabacchi sotto casa. Serie A, Serie B e… Altre di B. Ma poi, indomita, dopo un fortunato esordio – dal comico titolo There’s a Million Better Bands -, la band è tornata con un intero concept dedicato allo sport, che ha il merito di rinfrescarci la memoria su una lista di personaggi ed occasioni storiche. Si va dall’alpinista Sherpa Tenzing (il primo – autentico – sull’Everest) a Dino Zoff (il primo con la Word Cup nelle mani dopo la guerra), dallo stregone degli scacchi, il sovietico Kasparov, alle biciclette Shimano, dal Subbuteo al Roland Garros. E tutto è tenuto insieme da un college rock fancazzista, armato di ingenuità adolescenziale anni Zero, fra cavalcate di chitarre melodicissime a colpi di synth accennati. Il collettivo bolognese sguazza in un territorio felicemente fertilizzato, in un passato non troppo lontano, dai residui del brit pop, ma soprattutto da molto surf e indie-rock americano. Non sorprende, dunque, che la sincerità della band – formazione che suona quello che probabilmente ha ascoltato crescendo – è fuori discussione. In soli nove episodi, le trame dei brani prendono principalmente due direzioni: quella (per così dire) in salsa Peter Bjorn/Cut Copy/Architecture In Helsinki che emerge nei lunghi e ricamati tappeti di synth di 1998 o Slalom e quella che si ritrova nel sound caraibico e afro-indie di Vampire Weekend (Kasparov, Shimano), nel post-rock di Tokyo Police, Two Door Cinema o Bombay Bicycle Club (Subbuteo, Zoff). C’è molta America West Coast e la intuiamo in Roland Garros, che nel suo patetismo sfiora i Killers di Las Vegas (non un vero complimento, actually) e in Sherpa ricorda i Weezer di Los Angeles. È un lavoro di cuore e di gusto, questo Sport: un lavoro che ha le potenzialità per portare lontano gli Altre di B, perché suona fresco, spontaneo e diretto. Ma, visti da questa parte
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al tribale come reazione all’assedio dell’assurdo/cinico/crudele contemporaneo. I testi – sorta di haiku scritti da un nevrastenico – sono letteralmente sommersi dalla trama sonica convulsa, sembrano letti da un catalogo di invettive patinate come una chiosa a quello che la musica già esprime con generosità, ovvero una farneticante battaglia tra ragione e alienazione. Ora pescando dall’immaginario rock icastico à la Nirvana (vedi il riff di Betulle) e ora bazzicando leggerezze popadeliche (i R.E.M. col vibrione Oneida di Palloncini e pavoni), ti tendono agguati nerd che spostano continuamente l’asse di simmetria introducendo vie di fuga psych o digressioni wave-noise, brume shoegaze e farragini jazzy. Le due parti di L’estate non conta svariano da un crogiolo visionario anarchico (quasi i cugini patafisici dei Verdena) ad una fregola hip-hop tra pantani dreamy (come dei Beastie Boys ipnotizzati MBV), mentre Plastic Bubble In The Mystic Place è una specie di mini-suite devoluta che comprime in neanche due minuti vampe surf, scaglie noise, ruggini grunge, ciarpame wave, coliche doom e chissà cos’altro. Detto che Nell’ora della nostra morte chiude la scaletta con risvolti gotici (poteva essere altrimenti con un titolo così?) colti ad un qualche crocicchio kraut, il qui presente sembra proprio uno di quei dischi che annunciano qualcosa di più grosso di quanto un album solo possa fare. A dire il vero non sempre è garanzia di sviluppi interessanti, ma non possiamo fare a meno di restare sintonizzati con attenzione. 7.2/10
Genere: cantautori Non so se è il caso di definirlo un sophomore. In effetti, l’album d’esordio di Ben Watt risale a oltre tre decadi fa, ovvero a quel North Marine Drive che, nel 1983, metteva in scena quadretti acustici obliqui e intensi di chiara ascendenza Nick Drake e Tim Buckley, tanto che oggi potresti dirlo precursore del NAM se non fosse che all’avvento del new acoustic movement mancavano ancora quasi vent’anni. Prima c’erano state collaborazioni interessanti – su tutte quella con Robert Wyatt – ma subito dopo sarebbe iniziato il sodalizio artistico con la compagna Tracey Thorn, conosciuta alla Hull University, che avrebbe imposto un drastico punto e accapo. Chiaro che il successo degli Everything But The Girl giustifica abbondantemente l’accantonamento della carriera solista di Watt, ma il qui presente Hendra ha il merito di farci un po’ rimpiangere ciò che non è stato. Ovvero, ti fa sospettare che il folk-rock abbia perduto un interprete intelligente e sensibile, non uno di quelli che cambiano i parametri ma che ti garantiscono un livello minimo di qualità e – di conseguenza – un certo numero di canzoni che meritino d’essere ricordate. Le dieci in scaletta di questo nuovo lavoro sono state scritte sulla cupa scia emotiva provocata dalla morte improvvisa della sorella di Ben, ma lungi dall’essere luttuose svariano attorno a temi di accettazione e rinascita. Prendi la mestizia speranzosa di Spring, sorta di power pop di stampo McCartney altezza Wings, o ancora una Young Man’s Game che smista ugge sornione Gram Parsons svisando il chorus con fregole jazzy quasi Steely Dan. C’è una sorta di attitudine alla chiarezza, alla riconoscibilità dei segni, alla voglia di arrivarti al cuore senza fare giri contorti, non solo nei momenti più sbrigliati come la cavalcata Jackson Browne di Forget o il southern motoristico di Nathaniel (didascalica come il Chris Rea di The Road To Hell, ma con tutt’altra sostanza), nei quali si compie la voglia di acidità su sei corde del guest star Bernard Butler. C’è immediatezza anche nei passaggi più crepuscolari, come in una Golden Ratio che manovra foschie bossa col tocco felpato di John Martyn, o in quella The Heart Is A Mirror che ammicca soul jazz col garbo denso dei tardi EBTG (e chissà cosa ne uscirebbe con la voce di Tracey). Giusto in un paio di circostanze la natura letteraria del Nostro (che ha appena pubblicato il secondo romanzo) prevale, rastrellando solennità nel rapimento elettroacustico della title track e in una The Levels che si spella il dolore dal cuore con l’assistenza alla slide di David Gilmour nientemeno. Nel complesso è un disco che media tra lieve e profondo con disinvoltura accurata, una prassi espressiva cui negli anni – seppure in forme e modalità diverse – Ben Watt ci ha abituati. Bontà sua. 7.3/10 Stefano Solventi
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Ben Watt - Hendra (Caroline International,2014)
del muro, è facile accorgersi che manca ancora quello spunto decisivo (melodie nuove? originalità?) che, ai tempi supplementari, poco prima dei fatidici rigori, faccia alzare la coppa. 6.7/10 Nino Ciglio
Genere: psych, hardrock, prog, punkjazz Appianate a quanto pare le divergenze che avevano portato a metà del 2013 i The Mars Volta allo scioglimento, Cedric Bixler-Zavala e Omar Rodriguez Lopez tornano ad unire le chiome sotto il criptico nome Antemasque. Sbucato dal nulla ad inizio aprile con un teaser promozionale di 18 secondi scarsi e con il singolo 4Am, il nuovo supergruppo – tra le file ci sono i vecchi amici David Elitch, batterista della fase finale dei The Mars Volta, e Flea, che ha collaborato su alcuni brani - ha scatenato il popolo della rete, che ha preso letteralemente d’assalto le pagine facebook e bandcamp ufficiali “costringendo” la band a rivedere i propri piani e a rilasciare a tempo di record il mini album che abbiamo tra le mani. Antipasto di quello che sarà l’omonimo full length previsto per luglio, Singles si muove in territori diametralmente opposti rispetto ai Mars Volta ma simili a quelli degli At The Drive In era Vaya, con cui i Nostri condividono la stessa freschezza e velocità. Lo si intuisce sin dalle prime battute di 4Am, frenetica cavalcata scandita dal drumming feroce di un Elitch sugli scudi. Drown All Your Witches richiama invece i Led Zeppelin di III e qualcosa del folk psichedelico anni Settanta, mentre Hunging In The Lurch – la migliore del lotto – ha il tiro giusto, quello che lascia intuire quali direzioni potrà prendere la band in futuro. Seppur non sufficienti per trarre già conclusioni definitive, le quattro tracce contenute in Singles lasciano ben sperare sul prodotto finito
Andrea Murgia
Archive - Axiom (Cooperative Music,2014) Genere: pop, rock, prog Dopo innumerevoli cambi di formazione e una discografia abbastanza corposa, il collettivo sud-londinese degli Archive, già alfiere di un trip-hop progressive, ritorna con un progetto ambizioso, un nuovo album accompagnato da un film da 40 minuti. Detto che il gruppo non è nuovo alle contaminazioni visuali (ha finora realizzato alcune soundtrack), il cortometraggio è stato realizzato dagli spagnoli NYSU, con la direzione di Jesus Hernadez. Il carattere narrativo influenza il disco, prodotto da Jerome Devoise – già con la band nel precedente With Us Until You’re Dead (2012) – , evidenziando la cinematicità degli Archive. “E’ qualcosa che abbiamo sempre voluto fare, mettere insieme la nostra musica e realizzare un film. I nostri album suonano come colonne sonore e così abbiamo voluto veramente farne un film”, nelle parole di Darius Keeler, uno dei fondatori della band insieme a Danny Griffiths. Un concept (Axiom è un’isola da qualche parte, dove esiste una città sotterranea dominata da una campana, che decide della sorte dei suoi abitanti) è alla base dell’album, che procede per narrazione atmosferica, mixando al solito progressive, rock, elettronica e soul. Enfasi e pathos, che funzionano laddove è stato possibile vedere musica e immagini insieme (come nel trailer e nel clip di Distorted Angels). 6/10 Teresa Greco
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Antemasque - Singles (Nadie,2014)
che potremo ascoltare a luglio. Per ora sono un buon biglietto da visita. 6.5/10
Genere: techno, deep, elettronica, idm Woods è il primo lavoro ufficiale di Davide Albiero, in arte Barks, emergente producer nostrano già noto alle cronache per aver sfilato al Barrakud davanti ad artisti del calibro di Paul Kalkbrenner. La produzione nasce (non a caso) alla Tapewave Mastering, sotto la supervisione artistica di Francesco D’Abbraccio degli Aucan, ed è veicolato dalla label Milanese MagmatiQ Records, che prima fra tutte ha avuto l’accortezza di prendere sotto la propria ala protettrice un producer che, date le circostanze, presenta esponenziali margini di miglioramento. Woods è un lavoro di sole tre tracce, calibrate in modo coeso e semanticamente appropriato, per asservire ad un immaginario scuro, caratterizzato da cadenze distese che dipingono paesaggi sfumati e inafferrabili, come se venissero visti attraverso il finestrino di un treno senza direzione. Una marcia ansiogena che si snoda tra patterns spediti e sottofondi riverberati, inabissati in se stessi. Nessuna via d’uscita, solo tensione costante e meccanica, sfacciatamente ripetitiva. La title track introduce subito l’ascoltatore nel mondo Barks, senza vie di mezzo e senza compromessi, prendendolo per mano e accompagnandolo lungo un percorso spiralizzato pregno di distanze e riavvicinamenti, di cavità e di compensazioni, in una linea interpretativa resa solida da una sezione di drums che trova fondamento nella propria semplicità. Il lavoro di fino sta tutto nel gioco di riverberi, che emerge come sovrastruttura regalando profondità al fraseggio di vocals e sintetizzatori: un fraseggio reiterato e fluido, che immerge in un paesaggio dal forte odore post. In Slough, al contrario, l’andamento ondulatorio del synth definisce un continuo saliscendi emozionale che spezza
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quella sensazione di eterno e ripetitivo correre verso un dove non bene identificato. Una sorta di pausa riflessiva, piena di perché e di dove, il punto più chiaro in cui è possibile identificare e riconoscere l’anima Barks. A concludere il lavoro, la drittissima Nest, sincero gusto deep techno e nessuna pretesa megalomane, un suono che ricorda il sapore delle notti berlinesi capitanate da mostri sacri quali Dettmann e Ben Klock. Woods EP è quindi un disco che delimita sapientemente i propri punti fermi, ponendoli come base del proprio essere, con una consapevolezza non comune che permette a Barks di tenere i piedi per terra e, al tempo stesso, di creare spazi propri ed aperture personalissime. 7/10 Matteo Trevisan
Black Submarine - New Shores (Kobalt,2014) Genere: brit, psych, synthpop Archiviata l’ennesima reunion, i Verve sono tornati nel limbo. Puntuali come sempre – scorrendo a ritroso la loro carriera – le incomprensioni tra Richard Ashcroft e NickMcCabe sono (ri)emerse prepotentemente anche dopo Forth, l’ultima fatica licenziata dalla band di Wigan nel 2008: quattro dischi e tre separazioni a suggellare l’impossibile convivenza tra le due anime della band di Bittersweet Symphony. Rispetto al main project, New Shores, ultimo atto di un’avventura nata nel novembre 2008 (prima come Black Veils, nome cambiato dopo che l’omonima formazione americana ha reclamato la paternità della sigla) è un caleidoscopio di stili differenti, un campionario che spazia dal dark pop di Here so Rain - con l’ottima prova della cantante Amelia Trucker – al brit dei Verve (ricordate le Thaw Sessions, antipasto del loro testamento sonico, uscito qualche mese più tardi?) riproponendo e attualizzando la lezione di Bristol.
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Barks - Woods EP (MagmatiQ Records,2014)
Lorenzo Costa
Blonder - Radio EP (Mia Cameretta,2014) Genere: rock, psych, indie, shoegaze, lo-fi, noise, garagerock
E’ questione di aria. Di come l’aria diventa quando la sottoponiamo a certe pressioni e
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vibrazioni. Cambia la densità, la temperatura, la luce. Il peso. A volte il rock è una questione atmosferica. Elettrochimica. Non c’è bisogno di essere grandi o perfetti. E’ sufficiente essere quelli che arrivano a portarti un suono che è uno stato d’animo, un modo di vedere le cose e starci in mezzo. O volerne scappare. Dei Blonder mi piace proprio questo – e mi piace molto. Di questo loro Ep d’esordio, più che le canzoni – peraltro robuste e melmose, sorrette da un dinamismo fosco e urticante – a convincermi è l’angolazione dell’impatto. Sono un trio chitarra-basso-batteria che sembra spuntare dal nulla dopo aver preso decisioni definitive in merito alla direzione da seguire. Sono sbrigativi e intensi, acidi e stradaioli. Attaccano i jack e riempiono di tumulto le membrane, roba che lo zio Steve Albini ne andrebbe fiero. Dalle parti di Miacameretta – che si sta rivelando label sempre più occhiuta – citano i Radio Birdman quali riferimenti principali, ed il piglio tirato di Hawaii giustifica l’accostamento. Ma non si può ignorare la bruma shoegaze che staziona dietro l’impianto garage-noise, come un sipario da cui spunta una ridda d’inquietudini sparse. In More Drugs Blue Sky t’immagini lo spirito sornione di Iggy Pop che punta una pistola (finta?) alla schiena dei My Bloody Valentine, mentre And Feathered Clouds è melma garage sbilanciata grunge che esala acidità nera. Se il termine grunge non vi garba, considerate quanta vena garage punk incendiasse – così per dire – i Mudhoney, ai quali il riffarama schiacciasassi di Transistor potrebbe pure far pensare. In tutto ciò, se il canto di Lorenzo Vermiglio non sempre pare all’altezza della situazione, più che il punto debole della faccenda ne rappresenta il certificato di autenticità. Si attendono sviluppi gustosi. 7.1/10 Stefano Solventi
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McCabe, assieme al bassista Simon Jones (anch’egli ex Verve) ha dato vita ad un supergruppo composto dall’italiano Davide Rossi (“tuttologo” polistrumentista e arrangiatore per Coldplay e Goldfrapp, tra gli altri) e dall’ex Portishead, Michele “Mig” Schillace. Deciso passo in avanti rispetto all’EP di debutto, Kurofune (uscito nel 2011), New Shores è stato prodotto tra Danimarca e Regno Unito, tra il 2012 e il 2013. A dispetto di curriculum vitae talmente diversi, l’esperimento funziona, un risultato mai scontato quando musicisti con esperienze così composite si trovano in studio. Per essere apprezzato appieno New Shores necessità di più ascolti, utili per andare oltre le impressioni iniziali – comunque positive – e considerarlo per quello che è: un bel compendio degli ultimi 20/30 anni di musica inglese. I Black Submarine partono con il groove d’assalto post industrial della title track, e proseguono con gli Stone Roses, omaggiati negli arpeggi rarefatti di di Just a Second Away, scegliendo di spiazzare ancora tra percezioni umbratili e sfuggenti (Starling) e le suggestioni roots di Move Me a Mountain, in cui le chitarre acustiche costituiscono un corpo alieno rispetto al tenore complessivo del disco. A fare la differenza tra miliardi di pezzi chitarra e voce, la partitura d’archi “cinematica” di Schillace, cuore pulsante del progetto (Together) e trait-d’union tra gli slow dei primi Verve, con la chitarra spettrale di McCabe sullo sfondo a scandire i freddi battiti di questo disco. 6.5/10
Genere: elettronica, jazz, freejazz, experimental Sodalizio artistico che dura da ormai quasi vent’anni, quello tra Rob Mazurek e Chad Taylor è sicuramente uno dei più indissolubili legami che il jazz contemporaneo ricordi, forgiato da decine di collaborazioni (Isotope 217, Exploding Star Orchestra su tutte) e concerti in tutto il mondo. Nuovo episodio sotto il monicker Chicago Undeground Duo, Locus arriva a distanza di due anni dall’ottimo Age Of Energy, sparigliando ancora una volta le carte in tavola e colpendo per freschezza, originalità e buongusto, caratteristiche rare di questi tempi. Unico erede dell’eclettismo musicale del mai troppo compianto Don Cherry, il cornettista di Chicago, proprio come il padre dell’Organic Music, ha intrapreso il periglioso percorso della ricerca sperimentale, andando a flirtare in questo ultimo lavoro con l’elettronica – una sua vecchia passione, basti ricordare le collaborazioni con Stereolab e Tortoise -, la musica tradizionale dell’Africa più nera e il Tropicalismo, già masticato e destrutturato nel progetto São Paulo Underground. La costruzione dei temi di Mazurek merita un capitolo a parte: solide impalcature su cui poter spaziare e improvvisare, le sue strutture non sono mai banali ma ricercate e rotonde, dotate di una pluridimensionalità che rende il genio dell’Illinois uno dei più grandi musicisti sul genere. Impressionante il lavoro dietro le pelli di Chad Taylor, capace di passare da ipnotici pattern (Yaa Yaa Kole) e secchi breakbeat (la title track Locus) a sfuriate post-hardcore (Boss) con una facilità imbarazzante. Monumentale. Prodotto da John McEntire (già dietro le pelli dei Tortoise and The Sea And Cake e dietro il mixer di Jaga Jazzist, Broken Social Scene e, ultimamente, Yo La Tengo), Locus è uno dei migliori lavori della discografia dei Chicago Undeground Duo e della carriera tutta di Mazurek. Sicuramente uno dei migliori dischi di questo 2014 arrivato quasi al giro di boa. 7.5/10 Andrea Murgia
Bo Ningen - iii (Stolen Records,2014) Genere: rock, punk I Bo Ningen sono un combo giapponese di stanza a Londra che arriva alla prova del terzo album, iii per l’appunto, perdendo gran parte del fascino che aveva reso interessante il precedente Line The Wall. Erano una hard psych che si poteva riferire a Motorhead, Amon düül, Acid Mothers temple, mentre adesso ce li ritroviamo evirati in quasi tutte le componenti, a trastullarsi con vocalizzi inutili e un’art
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rock di cui ci si può stancare ancora prima di arrivare in fondo. Hanno scelto di piacere alla gente (compaiono anche le prime parole in inglese) e di tentare una strada pop; nulla di male in questo, ma il cambio di direzione non ha funzionato e a nulla è servito quel paio di ospiti buoni per far parlare un po’ di sé, ovvero Roger Robinson dei King Midas Sound per le frange di pubblico più seriose e Jehnny Beth delle Savages per quelle emo. E’ una miscela che non scalda,
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Chicago Underground Duo - Locus (Northern Spy Records,2014)
intestardita su geometrie math e chitarre post rock, tanto che quasi è sparita del tutto la matrice psych. I Nostri si salvano in corner con la frenesia di Cc e Slider, ma appena il ritmo cala, l’indifferenza regna sovrana, vedi gli otto lunghissimi minuti di Mukaeni Ikenai. Poco altro da segnalare, dunque saluti e alla prossima. 5.4/10 Stefano Gaz
Genere: pop Ancora l’inverno, ancora il rincorrersi delle stagioni come base del concept dell’ultimo album di Chris Garneu, intitolato programmaticamente Winter Games. Il cantautore di Boston – ma cresciuto, e questo lo sapevamo già, a Parigi – continua a proporre una scrittura debitrice tanto al folk americano quanto al romanticismo mitteleuropeo, attraverso 10 brani soffusi di grazia malinconica e tenuità chamber. Tuttavia, rispetto ai precedenti lavori, Garneu si muove ora intorno ai territori dell’electro-pop, tralasciando maggiormente la matrice folk del passato. Anche se le canzoni sono ancora costruite sull’intreccio tra piano, archi, harmonium, il musicista mescola l’enfasi decadente di Antony And The Johnsons con melodie plastiche ed accattivanti, smettendo i panni del giovane Werther che lo avevano caratterizzato agli esordi. La novità di Winter Games, infatti, risiede nell’amalgama elettronico presente in tutti i brani, attraverso un’interpretazione vocale – in cui ancora si fa sentire il fantasma di Jeff Buckley – votata al pop più scintillante e sofisticato: basterebbero i rintocchi kraut di Oh God per ricordarsi il nome del cantautore, un super pezzo che non sfigurerebbe in jingle e pubblicità, costruito su una linea melodica in grado di intercettare l’attenzione in una manciata di
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Chris Garneau - Winter Games (Cloud Hill,2013)
secondi. La stessa formula presente in Danny, altro esempio di languori ambient e immediatezza pop, che sottolinea la facilità del Nostro nello scrivere pezzi audaci e allo stesso tempo leggeri, senza resistere al fascino delle classifiche né rinunciando alla voglia di esplorare nuovi territori. Non mancano però nemmeno gli echi chamber del passato, riproposti nella solennità orchestrale di Our Man o nel dittico di Winter Song 1 e 2, quest’ultime costruite su un gioco di opposizioni speculari: una ballata pallida e invernale la prima, un crescendo emotivo e romantico la seconda, dove ricorre tutta la sacrale maestria del già citato Antony. Gli altri brani, pur confermando le doti autoriali di Garneau, non aggiungono molto di più al giudizio complessivo sul disco: un lavoro equilibrato e sicuramente riuscito, che risulterà gradito tanto agli amanti del pop quanto ai cultori di un songwriting barocco e ricco di suggestioni, la cui unica pecca è forse la mancanza di un’”anima” ben definita. Ancora indeciso tra un passato da chanteur dolente e maledetto e un presente da autore colto e sofisticato, il giovane Chris finisce per non essere né l’uno né altro, non sfruttando al meglio potenzialità già visibili ma non ancora completamente a fuoco. Un’instabilità che, a proposito del precedente El Radio, vi dicevamo celarsi dietro la sicurezza da cantautore e da arrangiatore, il che andrebbe anche bene, se l’obiettivo non fosse quello di un pathos sincero e inafferrabile, e perciò non facilmente raggiungibile. 6.9/10 Giulia Antelli
Claudio Rocchi - In alto (Cramps,2012) Genere: cantautori, rock, prog, avant, kraut Terzultimo album da studio prima della morte prematura nel giugno 2013, In alto figura senz’ombra di dubbio tra le prove più riuscite del cantautore milanese, paragonabile per in-
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Demetrio Stratos - Concerto all’Elfo (Cramps,1978) Genere: impro, contemporanea, experimental, vecesola
Più che un concerto, un “concerto-lavoro”, più che un “concerto-lavoro”, un “concerto per voce solista”. Ma forse quest’album del solo
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Demetrio Stratos e della sua voce maiuscola è principalmente una dimostrazione. Un campionario sulle acquisizioni recenti e meno recenti compiute fino ad allora dal Nostro, nell’utopico tentativo di liberare la voce dalle gabbie in cui essa sarebbe costretta. Un soliloquio per pubblico intellettualizzato, compiuto grazie a doti vocali prodigiose, esercizio estenuante e voglia di superare i confini teorici e pratici del mezzo vocale. Sotto il profilo musicale, dunque, assistiamo all’esposizione di episodi presenti nell’allora fresco di stampe Cantare la voce, che insieme al precedente Metrodora rappresenta la coppia di lavori imprescindibile e indivisibile per gli appassionati della Musica Seria e dell’ex-cantante degli Area. Le esecuzioni non si discostano di molto dalla versione originale: cambiano più che altro la durata e l’aggiunta di alcune introduzioni parlate del buon Demetrio, le quali permettono di inquadrare con precisione ciò che si andrà ad ascoltare e danno al tutto un’ulteriore patina inevitabilmente “scolastica”. Brani relativamente inediti: lo scioglilingua greco O tzitzeras o mitzeras (in realtà già registrato in occasione dell’antologia Cramps Futura: Poesia Sonora), Tema Popolare (che altro non è se non una versione a cappella della splendida Cometa Rossa degli Area) e il commovente Canto dei Pastori. Un album certamente difficile, senza concessioni, del quale disquisirebbero volentieri per ore glottologi, etnomusicologi, logopedisti ecc. lasciando uscire dal cavo orale una quantità d’aria tale da convincere, magari per sfinimento, anche il più scettico degli ascoltatori. 7.8/10 Filippo Bordignon
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tensità a quel Volo magico n. 1 che negli Anni ’70 lo rivelò al pubblico underground in tutta la peculiarissima visionarietà di uno stile ancor oggi inimitato. L’album ripristina brevemente il rapporto con Cramps osando ben oltre le pur pregevoli uscite A Fuoco e Non Ce N’è Per Nessuno licenziate dall’etichetta ai tempi di Gianni Sassi. Gli undici episodi in scaletta riassumono le tante facce di Rocchi: rocker cosmico, cantautore acustico sulla scia di Roy Harper, sperimentatore solitario come e talvolta meglio del Peter Hammill solista. Vi è poi l’approccio spirituale del Nostro, spesso frainteso al pari di un manierismo tardosixties che invece fu coordinata imprescindibile nella sua ricerca musicale e culturale. Un esempio esaustivo di tanta elevazione è forse Gesù si gira, mistura di folk e tradizione indiana nativa con innesti di elettronica alla Julian Cope e un testo di grande ispirazione. Ma, più generalmente, è questa una delle occasioni in cui Rocchi si concede di tutto, anzi concede all’ascoltatore esattamente ciò che presume sia necessario al di là dei trend, delle aspettative e delle esigenze del mercato discografico. È questo un viaggio fra i generi accomunato dai profumi di una religiosa psichedelica, reso emozionante dal talento di un artista spontaneamente originale che in troppi, anche tra gli estimatori di freak folk e revival acustici affini, ahinoi, continuano a ignorare. 8/10
Genere: rock, wave, 80s A distanza di cinque anni da The Fountain, Ian McCollough (con Will Sergeant) torna con un nuovo album, prodotto da Youth, bassista dei Killing Joke. “Meteorites è quello che gli Echo and The Bunnymen dovrebbero essere: intoccabili, celestiali, belli e reali. Questo disco mi ha cambiato la vita”, mette le mai avanti Ian, promettendo i fasti passati. Tra evocazioni Coldplay (o è il contrario?) – non a caso Chris Martin era guest nel precedente album –, tentazioni tardi U2, brandelli del proprio passato (voce emozionale compresa), Ian si dibatte, perché Meteorites è a tutti gli effetti un suo album solista (di recente Will Sergeant ha dichiarato che ha semplicemente suonato sui pezzi finiti di Ian). Potrebbe tirar fuori le unghie, il liverpooliano, mettendoci più carattere, invece resta in una indistinta medietà, da cui solo a tratti emerge (le melodie di Lovers On The Run, Market Town e qualche altro numero sparso). Insomma come in The Fountain, il punto è che sono essenzialmente le canzoni a venire a mancare. Mc Collough è sempre prigioniero del proprio passato ’80 e della rock star che è stata e continua ad essere. Peccato. 5.8/10 Teresa Greco
Elektro Guzzi - Observatory (Macro Recordings,2014) Genere: tech-house La visione degli Elektro Guzzi – chitarra elettrica, basso e batteria da Vienna – è quella di una techno suonata dal vivo, necessariamente sperimentale nell’esplorazione sonora, fortemente legata alle tradizioni mitteleuropee. Nell’intezione di sembrare techno anche quando il paradigma techno non era lo sfogo ideale,
i lavori del gruppo austriaco si sono però fin qui concessi al generalismo simil-minimale di scuola tedesca. Generalismo valido, accettabile, tenuto in piedi da un’onestissima ricerca della pasta sonica perfetta, ma in quanto tale non abile a proiettare segni di futuro, perchè della techno ha solo la pelle e non il cuore. Con Observatory, terzo album in studio del trio, qualcosa cambia. Le abitudini di quella scena techno-house di metà anni Zero si dilatano, emergono sprazzi house meno referenziali, e lì si inverte la prospettiva. Prospettiva che, con premesse simili, Brandt Brauer Frick riprende con taglio jazz-orchestrale, e che gli Elektro Guzzi declinano a modo loro, da rock-band a cassa dritta, con pedaliere spinte all’estremo. Trojan Robot e Atlas ripescano i generalismi di cui sopra, reminescenze dei giochi di inviluppo marcati Booka Shade. Acid Camouflage e Threshold People, figlie della rivoluzione electroclash di inizio Duemila, sono pieno territorio Poney 1 targato Vitalic, climax di effettistica e detuning seriali. C’è spazio anche per un take subacqueo (Atlas Flip), ricordo sfocato delle hydro-theories dei Drexciya. Poi Undulata e The Grist, numeri che segnano il cambio di scena. Il primo, una sorta di exotica in wildpitch, manda in loop tre corde di basso in un crescendo di percussioni, delay e riverberi. Nel secondo, funk tropicale, il basso si scioglie fluido e articolato, le chitarre prima improvvisano riff dal sapore afro-beat, poi si trasformano in marimbe di cristallo. Ribaltamento non da poco, soprattutto quando le note stampa parlano di techno-tanzband. E per quello che vale, non si è più così certi che si stia discutendo di techno. Prodotto in collaborazione con Patrick Pulsinger, figura storica dell’Austria elettronica, Observatory ha il merito di cercare, almeno in un paio di occasioni, una via d’uscita rispetto alla tipica discografia Elektro Guzzi. Disco che
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Echo and the Bunnymen - Meteorites (429 Records,2014)
Genere: folk È strano come un artista con più di vent’anni di onorata carriera alle spalle, debba avere ancora bisogno di conferme per dimostrare la sua grandezza. Il caso di Damon Albarn è emblematico: nonostante il nome dei Blur sia ormai impresso nelle stelle del firmamento musicale, il Nostro è quasi sempre riuscito a far rimpiangere il suo immenso talento nei progetti laterali (supergruppi come Rocket Juice and The Moon), nei numerosi lavori nell’amato continente nero come il recente Africa Express o Mali Music, e anche nelle colonne sonore da opera, vedi Journey To The West. Lavori usati spesso e volentieri più come divertissement e valvole di sfogo di una creatività troppo spesso dispersa, di cui francamente ci eravamo anche un po’ stancati. Proprio per questo il debutto da solista (se non consideriamo lo schizzo di bozze di Democrazy) Everyday Robots – che in maniera paradossale era nato inizialmente come l’ennesimo supergruppo - diventa la prova del nove, quella del “non ci sono più scuse” e tanto meno motivazioni che possano reggere un eventuale passo falso, una dimostrazione che Damon deve a se stesso, più che a noi. Co-prodotto con il boss di XL, Richard Russell, il disco, a detta dello stesso autore, è il più intimo dell’intera discografia. Premere il tasto play ti fa salire su un autobus che ti porta in viaggio nelle tappe più importanti della vita di Albarn: quell’adolescenza passata a Leytonstone con il brusco trasferimento 60 km più in là, in quella Colchester senza amicizie e dei “3 pub e 18 case”, passando per le sbronze del Britpop e la dipendenza dalla droga. Un percorso in cui il delicato folk-soul – dimensione in cui Damon si trova più a suo agio, basta ascoltare i lavori Blur post 1997 – di cui è pervasa l’intera opera ti prende con forza ma senza strattonarti, raccontando, come recita il titolo, i rapporti umani all’interno dei processi della tecnologia moderna, non senza una vena polemica e soprattutto mettendo da parte l’anima più pop del musicista. La title track, primo singolo pubblicato, è un riassunto dell’Albarn modus operandi: un sample del comico Lord Buckley fa da apripista a ficcanti archi su un tappeto oscuro che ricorda i tempi di Think Tank, scandito da un leggero pianoforte in cui atmosfere Gorillaz e etniche accompagnano un testo che recita “We’re everyday robots in control, in the process of being sold”. Lonely Press Play, il cui videoclip è stato girato dallo stesso artista durante il recente tour con i Blur, mantiene le stesse caratteristiche etno-africane nelle percussioni, con la voce al top di Damon Albarn che sovrasta l’elegante e mai invadente pianoforte, quasi si trattasse della sorella minore di Under The Westway. Come dichiarato dallo stesso protagonista, nel corso degli anni è venuto a mancare il “vizio” di nascondere messaggi dietro i testi, a favore di una spontaneità più accentuata: in You And Me il riferimento alla dipendenza da eroina, nel periodo successivo alla fama del Britpop e per ammissione quello artisticamente più fecondo, viene esplicato con una frase che non lascia certo spazio a dubbi, ovvero “carta stagnola e accendino, la nave va da una parte all’altra”. L’immersione nella malinconia dei ricordi è totale, e in Mr Tembo c’è anche quel Leytonstone City Mission Choir che Albarn restava ad ascoltare estasiato (“mi sfiorava l’anima”) davanti alla chiesa ogni domenica mattina durante le numerose scorrazzate in bicicletta: il pezzo è una dolce dedica al piccolo
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Damon Albarn - Everyday Robots (Warner Music Group,2014)
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Tembo, un cucciolo di elefante cresciuto in Tanzania da un uomo particolarmente religioso e innamorato della canzone corale, con orecchiabilissimo motivo gospel accompagnato dallo scanzonato ukulele, per l’ennesimo tributo all’Africa. The History Of Cheating Art è pura classe con le raffinate pennellate su chitarra acustica in cui ci sembra di vedere il musicista bambino appoggiato a quell’albero nel bosco, utilizzato come in principio come luogo di “fuga” e successivamente diventato immagine di terrore: da piccolo Albarn era solito nascondere oggetti particolari alle radici della stessa pianta, fino a quando un giorno non trova, proprio attorno a quell’albero, l’immagine di un pentacolo (“Fu un’immagine scioccante, e tuttora non capisco del tutto cosa significasse. Quell’emozione è come sparpagliata all’interno del disco“). La malinconica e ricercata Hostiles si mantiene stretta a quel folk pastorale in zona Dr Dee, mentre Hollow Ponds (a detta di Damon, il “momento catalizzatore” del disco) racconta la famosa Londra del 1976, che visse l’estate e la siccità più grande che i britannici ricordino, quando molti ragazzi si rifugiavano dall’afa correndo in campagna per rinfrescarsi alla rive del lago: due classiche ballad che risultano tra gli episodi eleganti del lotto. C’è anche spazio per le collaborazioni eccellenti: se la presenza di Bat For Lashes in The Selfish Giant è quasi impercettibile, con il timido canto nel ritornello di Natasha Khan appena udibile in sottofondo, Brian Eno, già collaboratore di Albarn in Africa Express, è protagonista nell’episodio migliore del disco nonché traccia finale: Heavy Seas Of Love è trainata da un epico coro spiritual e un singalong difficilmente trascurabile, in cui i due artisti riescono a bilanciare il proprio ruolo senza oscurarsi a vicenda, miscelando un brano di notevole carica emozionale e mostrando l’alto livello di songwriting da sempre marchio di fabbrica: “When your soul isn’t right / And it’s raw to the night / It’s in your hands / When the traces of dark come to fade in the light / You’re in safe hands“. Everyday Robots riesce a ripagare le lunghe attese senza strafare e senza lasciarci capolavori ma mantenendo una costanza qualitativa non indifferente. Il disco ci consegna un musicista che finalmente riesce a staccarsi da quell’immaginario eternamente incompiuto che troppo deve all’eredità dei Blur e alla perfetta amicizia/rivalità con la nemesi Graham Coxon, quello del “può e deve fare di più”, lasciando spazio ai ricordi e alle emozioni di una vita passata tra eccessi e solitudine, dimostrando di saper estrarre dal suo genio la carta vincente al momento opportuno, mettendosi a nudo come autore, ma soprattutto come persona: “Devo sempre afferrare gli istanti per conto mio e lavorare a nuove cose, è una strada solitaria e disciplinata. La melodia di base solitamente è qualcosa che sistemo per conto mio, non molto diverso da ciò che ho sempre fatto nella mia vita“. 7.5/10 Daniele Rigoli
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prova a liberare nuovi scenari dopo gli esordi saturi di techno-house di maniera, innestando elementi di discontinuità su pezzi altrimenti fermi al buon artigianato. 6.6/10 Elia Galli
Genere: rock, blues, country Per la serie “donne sole al volante”, ecco da due opposti capi del mondo, due one-girl-solo big band show in nome del blues più oscuro, del country più puzzolente e dell’atteggiamento più sensualmente selvaggio che vi possa venire in mente. Da una parte, Elli De Mon, vicentina col piglio giusto che si arma di chitarra, sitar, qualche percussione e voce ferina come una ammaliante chanteuse arrochita dal troppo fumo e dai troppi stravizi. Pubblicato da una sempre artisticamente attenta CorpoC in vinile + CD-R, l’esordio self-titled della semi-omonima padrona cattiva dei fantomatici dalmata è una fuga verso il country più polveroso e il blues degli albori, quello del delta, con casse suonate coi piedi e chitarre stropicciate con amore atavico. Groove mai domo, slide a cascata, voce incantevole, piede che batte il tempo in continuazione di qua e di là dallo stereo, per un disco che è oro colato per chi cerca la tradizione sporca e ruvida. Dall’altra parte dell’oceano, ma pubblicata da una sempre dirompente e ferocemente DIY Voodoo Rhythm – se non conoscete almeno di fama l’etichetta di Reverend Beat-Man, beh, fate mea culpa – risponde Becky Lee, moretta tutto pepe dall’Arizona che ci regala insieme al suo fedele Drunkfoot un 10” da mezzora registrato nel 2008, “after playing guitar for 2 months”. Comprensibili le atmosfere: crude, tecnicamente approssimative, disossate ma terribilmente appassionate e appassionanti,
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EMA - The Future’s Void (City Slang,2013) Genere: cantautori, art, alt C’è un senso di nemmeno troppo celato disagio nelle musiche di EMA, al secolo Erika Anderson, già nota per i suoi trascorsi in quella splendida e sfortunata realtà che furono i Gowns e donna al nero già approfonditamente trattata su questi lidi qualche anno addietro. Quel senso di alterigia che toccava l’esordio Past Life Martyred Saints diventa ora, non tanto nelle musiche quanto nelle pieghe della vocalità di EMA, un qualcosa di altro, un indizio o poco più: legato ad un aspetto pubblico, messo in pubblico, centrato sul pubblico e non più sofferto, trattenuto, represso come avveniva al tempo. Future’s Void è un disco meditato e costruito, voluto e composto non fuoriuscito grondante dalle vene aperte di una poco più che ventenne americana, “fiction” nella stessa misura in cui era sanguinoso disco-veritè il precedente. Meno sofferente, di sicuro, o per lo meno in una forma diversa, relegata all’ambito della sensazione: certe screziature della voce, come nell’opener Satellites o in Smoulder, o alcune scelte strumentali, come nelle struggenti
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Elli De Mon - Elli De Mon (CORPOC,2014)
tra sing-a-long che sono dichiarazioni d’amore (l’opener Old Fashioned Man), fiammate improvvise tra tradizione e iconoclastia (Waterfalls), strette al cuore in punta di plettro e di voce (The Boat And The Horse) o pura e semplice poesia scandita da un piede che batte il tempo e trascina in un passato atavico (Big White Van). Due lavori che, con le dovute differenze, ci fanno tornare in mente una versione scarnificata della Matana Roberts del primo disco in solo, specie per la passione che trasudano e i paesaggi che ci fanno immaginare. Non da poco. 7/10
Stefano Pifferi
Brian Eno - Someday World (Warp Records,2014) Genere: elettronica, experimental Karl Hyde ci perdonerà se in questa collabo-
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razione tendiamo a vederlo più o meno come una spalla di lusso per innescare l’attitudine più segnatamente pop di Brian Eno. I due si sono incontrati tre anni fa azzeccando a quanto pare un’intesa perfetta, e se da un lato la cifra techno mainstream degli Underworld – band di cui Hyde è socio fondatore – poteva farlo presagire, dall’altro mancavano forse a quest’ultimo i presupposti di complessità ed espansione mentale a garantire sufficiente compatibilità. Voglio dire, con tutto il rispetto, Hyde non è certo Byrne. Il problema però non si pone, perché in questo Someday World l’approccio di Eno si trasforma definitivamente in enismo, una specie di marchio sonico assieme strutturato e ammaliante, un “protocollo” che sfocia in una trama auditiva stimolante, composita, incantevole. Ma in ciò oramai piuttosto prevedibile. Il risultato è una parata di chimere trepide e pulsanti frutto di calcolatissime intuizioni ritmiche e timbriche, pigolii esotici e spigoli funky, vampe di ottoni (si segnala la presenza di Andy Mackay tra gli ospiti), levitazioni atmosferiche e sfrigolii cosmici. E’ più una questione di strutture che altro, finisci per ammirare l’ingegneria degli arrangiamenti più che il carico emotivo, eppure il gioco funziona perché in Eno spesso i due aspetti si sovrappongono, finendo per coincidere: si tratti della tensione obliqua diversamente blues (da qualche parte tra Radiohead e Depeche Mode) di Mothers Of A Dog o del magic bus iperbarico di The Satellites (i Roxy Music liofilizzati New Order). Se con Strip It Down e To Us All torna alla mente il pop accorato e radiante del progetto Passengers – ai limiti dello stucchevole ma comunque ben innestato nello spirito dei tempi – e Man Wakes Up col suo funk etnico e androide si aggiudica la palma di episodio che più si avvicina ai fasti della modalità Eno/ Byrne, d’altronde la ricerca della gradevolezza
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note di piano di 100 Years che riprendono quel discorso di via crucis pubblica. Eppure rappresenta un passaggio ulteriore nella concezione di EMA (non Erika Anderson come persona fisica, ma proprio EMA come entità “altra”, pubblica, moniker distinto e distante) come se la catarsi di Past Life Martyred Saints, già dal titolo pregno di evidenti rimandi biblici, avesse sortito l’effetto voluto e fosse servita per liberarsi e aprirsi al mondo: in maniera piena, totale e per certi versi anche pretenziosa (si pensi al voluto retrogusto distopico/post-cyberpunk di cui è ammantato l’intero lavoro) ma capace di catturare, pur nella estrema diversità sonora dell’insieme. Una eterogeneità che sa di grunge e riot grrrls, molto anni ’90 nelle scelte degli arrangiamenti, terribilmente “pop” nelle modalità cyber (i NiN degli esordi sono più di una fonte) e che ci restituisce il prototipo della (semi)reginetta di un underground che non c’è più, soppiantato da una dimensione ibrida, “socializzante” e mista. È insomma, per dare una coordinata immediata, una PJ Harvey che scuote la testa (e scuote via i propri demoni) in un marasma post-The Downward Spiral, la EMA targata rinascita. Lascerà a bocca asciutta chi, come noi, era rimasto estasiato dal dolore che colava a fiotti da quella separazione forzata; incuriosirà ascoltatori che nemmeno si sarebbero sognati di avvicinarsi a quelle lande da passione cristiana; esalterà molti rockers fuori tempo massimo o neofiti incuriositi dal latente revival 90s. In definitiva, un disco su cui si parlerà molto e in cui c’è molto da ascoltare. 6.5/10
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Genere: wave, avant Chissà per quanti sarà un ritorno atteso, quello di Todd Rittman, uno che ha speso la carriera al soldo dell’avant rock con risultati importanti a partire dall’esperienza U.S. Maple, che sul finire degli anni ’90 ha segnato un tassello importante nel decostruzionismo rock assieme agli Old Time Relijun. E oggi i Dead Rider altro non sono che la prosecuzione di quell’idea beefhartiana di intendere la musica, di scomporre e ricomporre, di sincopare un groove fino alla sfascio. Soprattutto in questo nuovo Chill On Glass. Cè voluto del tempo (i precedenti due album) per assorbire l’unico vero scarto operato negli anni, ovvero il cambio di strumentazione: gli U.S. Maple demolivano rock e blues ma erano comunque una rock band, basso chitarra e batteria. L’impalcatura dei Dead Rider invece è computerizzata, lavora sui synth, sui fiati, con relativa libertà nel raggio di azione. E al terzo tentativo l’equilibrio è quello giusto. Chills On Glass è un lavoro di personalità, che trova qualche corrispondenza esterna (vedi gli ultimi Battles o i Buke And Gase) ma si misura sempre all’interno del percorso di Rittman, nella ricerca di un suono inafferrabile a cui piace giocare a nascondino tra funk (pare che il disco sia ispirato anche dagli Sly and The Family stone), smagliature free (Sex Grip Enemy) e un’idea alt-rock fatta di pattern e incastri fuori tempo da digerire ascolto dopo ascolto. Ok, forse c’è ancora qualche imperfezione, ma non si deve guardare il pelo nell’uovo: se i Battles o i Liars fossero usciti con un disco così, sarebbero finiti dritti nelle top list di fine anno. Con i Dead Rider ci sarà molto meno chiacchiericcio, ma Chill On Glass rimane uno scrigno pieno di tesori preziosi. 7.5/10 Stefano Gaz
rischia di scivolare in un territorio grossolano, vedi il comodo approdo gospel di Who Rings the Bell (una versione fumettistica del Peter Gabriel più ecumenico) e quella Daddy’s Car che incalza marpiona tra vampe e languori tropicali lambendo pericolosamente gli Wham! di Club Tropicana. Disco appagante quindi, non privo di situazioni interessanti, ma visti i nomi in ballo siamo dalle parti del minimo sindacale (patinato). 6.3/10 Stefano Solventi
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Evian Christ - Waterfall EP (Tri Angle,2014) Genere: hypnagogic Prima Kings and Them (Tri Angle), febbraio 2012, repertorio trap a bassa battuta, drum machine in secca e malinconie sintetiche. Poi, la chiamata di Kanye West, e l’ingresso prepotente nei crediti di un disco che, secondo Hudson Mohawke (scuderia LuckyMe, anche lui arruolato da Kanye), ha già un suo posto nella storia (pop) e verrà riscoperto, tra una decina d’anni, come pietra miliare. Questo è
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Dead Rider - Chills On Glass (Drag City,2014)
Elia Galli
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Fargas - Galera (Snowdonia,2014) Genere: cantautori Guardate Luca Spaggiari aka Fargas, in posa come in un ritratto di Manet. Un personaggio bukowskiano, a dire il vero: “Fargas si alza, si gratta le natiche e poi trangugia un caffè amaro. Luca Spaggiari canta, non balbetta. La sua musica è una pisciata dentro al cocktail.Via quegli occhiali da stronzo, scollati dalle orecchie quelle cazzo di cuffie giganti, stai dritto con La schiena, cazzo!”. Perciò perché parlare di Fargas – che fa gruppo, ma passatemi la metonimia – come di un cantante? Semmai dovremmo ascriverlo all’happening, al recitar cantando o ad una sbornia bruciata nell’immondizia quotidiana. Ma dicendolo, sbaglieremmo, o meglio non centreremmo il cocktail. Fargas non è per niente originale, ma la sua silhouette inserita nell’oggi ripieno di “cuffie giganti” può significare un bel respiro di dominante dentro un mare magnum di sciatteria. Richiamando un sentito slowcore velvettiano che ricalibra in rock à la Gaetano (Chiusura), country fra Neil Young, De Gregori e Brega (Pubblica nudità demo version, Stelle rotte), hard rock limitato soft prog, fra Bad Company e il primo Vasco (Tu qui, Pubblica nudità, Apertura, Mentre io entravo nelle tue ossa) e voce pop narcotizzata à la Luca Carboni – che dopo un po’ stanca e snerva -, Fargas rischia di esporsi un po’ troppo e di cadere nello spleen indie. Chiamatelo pure limite di un uomo senza retta via, ma quello che dice non vola, rimane coi piedi per terra e annienta una generazione intera di hipster 2.0. Nell’incipienza di certo scazzo, Fargas ha buone qualità per poter comunicare qualcosa, convogliare grammi di scontentezza e risolvere alcuni problemi a qualche indigesto e distratto ascoltatore. Fosse solo così com’è, si meriterebbe sufficienza e oltre, è la barba che gli fa perdere qualche punto. Scherzi a parte, Galera
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stato il rollercoaster di Evian Christ, ventiquattrenne dal Merseyside, Regno Unito. Dalla famigerata camera da letto a Yeezus. La stessa parabola ascendente che avevano vissuto altri giovani Tri Angl-ers prima di lui, come il Clams Casino che nel giro di 12 mesi passa dallo spam su Myspace alle produzioni di A$AP Rocky, Soulja Boy, Lil B. Waterfall EP, missato da Pusha T e Noah Rubin (Wu Tang Clan), è la nuova uscita di Christ, sempre via Tri Angle. Sulla label newyorchese, oltre al già citato Kings And Them, anche il monolite Duga-3, venti minuti di ambient colossale. In questo lavoro, Evian Christ sposta il suo obiettivo dalle aperture sognanti di stringhe vellutate alle spinte nevrotiche di un freddo post-industrialismo. Dalle drum machine che si sciolgono con un soffio ai breakbeat distorti tra gli acidi. Il cambio di passo dal precedente Kings And Them è repentino. Salt Carousel è un vociare pitchato all’estremo, sono schegge impazzite che si vanno a piantare sullo step aridissimo. Fuck Idol è il reprise, le schegge si dilatano, così la ritmica, ancora secchissima di TR-808, e i drum-fill slegano solide bombe da balera. Con Propeller siamo in piena zona TNGHT, ma quello che Mohawke e Lunice vedono come happy-gabba da bordello qui è prosciugato di ogni rotondità. In chiusura Waterfall, traccia che titola il disco, riassunto di tutta la pasta sonica mangiata fin’ora, variazione aggressiva sul tema The Haxan Cloak, rilascio di tensioni latenti e finale con scariche di rullanti. Waterfall EP è una dose di rumore bianco che segna la deviazione temporanea dal sentiero musicale che Evian Christ aveva tracciato in origine. Quattro pezzi che esplorano un’idea, e la saturano con piglio bellicoso di risonanze e distorsioni. 6.7/10
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Genere: dark, avant, drone, industrial, ambient Partiamo paradossalmente dalla fine per introdurre questo Everything Collapse(d) e nemmeno dalla traccia conclusiva, quanto dalla ghost track, usanza che credevamo ormai abbandonata ma che in questo caso assume un senso: a comparire alla fine dell’album è Failure, rendition della swansiana nenia rilasciata da Michael Gira in White Light From The Mouth Of Infinity qui affidata alla voce profonda e misterica di Daniele Santagiuliana. Unico pezzo cantato, Failure rende però appieno le atmosfere che Deison e Mingle – il primo non nuovo a collaborazioni di un certo livello, a volte anche spiazzanti (da KK Null ai vari nomi coinvolti nel recente Night Sessions); il secondo noto a queste altezze per i suoi bellissimi lavori in solo – sono stati in grado di catturare facendo confliggere i propri mondi di partenza, in apparenza distanti l’uno dall’altro ma accomunati in questo disco da una sensibilità simile. Da un lato quella para-industriale di Deison, tra fruscii, disturbi elettrostatici, screpolature del suono; dall’altro quella pianistica, cinematica, sognante e malinconica di Mingle; in mezzo quella affidata a Everything Collapse(d): inquietante e notturna, paranoica e a tratti sognante, visiva e visionaria ma tremendamente desolante. Dotata di quel romanticismo malsano e urticante che fu ed è degli Swans, e qui si chiude un primo cerchio, e di un amore per la soundtrack music più oscura e gloomy – giocate anche voi ad associare film o registi alle 8 tracce dell’album e mi saprete dire –, la musica creata dai due denota uno spirito avventuriero ma tendenzialmente monocromo, adagiato su una tavolozza da piena grey-area, segno di una maturità compositiva e di un immaginario di riferimento ben delineato. Non ci si stanca dell’ascolto, anzi ci si perde spesso sia nei minutissimi dettagli coi quali i due infarciscono le proprie composizioni, sia nel fluire equilibrato dei vari, evocativi, flussi sonori (ambient, droning, avant…). L’album è il volume numero 4 di una delle più interessanti collane sperimentali di questi tempi: la Rev.Lab. Serie, collaborazione tra la Aagoo e il laboratorio di grafica Rev. Lab (a.k.a. dietro il quale si cela l’olandese Bas Mental, che si pone l’obbiettivo di indagare l’interazione tra “graphic translation of the music and its physical output”). In questo caso, come nel resto della serie, bersaglio centrato. 7.5/10 Stefano Pifferi
è un disco da ascoltare e da tenere in bacheca. 6.5/10 Christian Panzano
Fenster - The Pink Caves (Morr Music,2014) Genere: pop
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A volte abbiamo la necessità di andare alla ricerca di canzoni che siano capaci di ricondurci all’essenza delle cose e alla natura. È come se si desiderasse di essere avvolti da quelle combinazioni di note, suoni e rumori che sono in grado di riprodurre ciò che ci sta attorno. Ecco, allora, arrivare i Fenster. Formatosi nel 2010
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Deison - Everything Collapse(d) (Aagoo Records,2014)
Marco Frattaruolo
Fujiya and Miyagi - Artificial Sweeteners (Yep Rock,2014) Genere: pop, disco, elettronica Anticipato dal singolo Flaws - che suonava come le prime hit dei Depeche Mode mescolate ad un sentire krauto progressive à la Tangerine Dream – e Tetrahydrofolic Acid - più in linea con il sound elettronico degli Hot Chip tagliato con strumenti analogici primo Aphex -, arriva il sesto album per Fujiya and Miyagi. Il gruppo (duo solo nel nome) di Brighton non sembra essersi scrollato di dosso le polveri dei Can e solo in parte propone singoli minimali, aspri, in linea con la freschezza dell’esordio del 2002, Electro Karaoke in the Negative Style. Gli
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ingredienti kraut con cui si sono guadagnati la notorietà ci sono ancora, vedi i loop tastieristici di Rayleigh Scattering, le tastiere vintage della title track e i tunnel colorati di Vagaries Of Fashion. Ma queste mosse suonano un po’ stinte, arrugginite, quasi come se i Nostri avessero pescato tracce incomplete da qualche fondo di hard disk. Le puntatine ’80 potrebbero essere più convincenti rispetto alle sciccoserie di Little Stabs At Happiness e il rock di Daggers ricorda un po’ troppo la lezione dei Rapture. Eravamo rimasti in attesa di qualcosa di nuovo, con il precedente Ventriloquizzing, ma il nuovo non è arrivato. Non si è fatto, insomma, il salto di qualità da “gruppo di nicchia” a “piccolo grande classico”. Un disco che non aggiunge nulla a quanto già detto e che soddisferà solo i fan del gruppo. Occasione mancata. 5/10 Marco Braggion
Furtherset - How To Be You (Bertrand Tapes,2014)
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tra Stati Uniti, Germania e Francia, il gruppo di Jonathan Jarzyna, JJ Weihl, Rèmi Letournelle e Lucas Chantre, dopo l’ottimo esordio Bones, torna a calcare la scena indipendente europea con le dodici tracce di The Pink Caves. Il disco riparte dai dettami stilistici che avevano fatto dell’album di debutto una sintesi quasi perfetta tra suoni folk-pop e strutture minimali. Un suono caloroso ed essenziale che ora viene arricchito da curati passaggi elettronici (In The Walls, True Love), capaci di rendere il mondo lirico dei Fenster ancora più suggestivo. Già da l’avvio di Better Days si finisce quindi per essere risucchiati dal vortice di suoni eterei e dalle narrazioni oniriche venate di malinconia cantate dalla splendida voce della Weihl. Fantasmi e presenze spettrali ci accompagnano lungo i 43 minuti, tra le cavernose Cat Emperor e The Light e alcuni momenti più frizzanti (Mirrors, Hit and Run), per poi darci il saluto sulle note a mo’ di ninna nanna dell’outro di Creatures. Lasciarsi trasportare dai suggestivi passaggi di The Pink Caves è cosa piuttosto facile, e certamente non ve ne pentirete. 6.5/10
Genere: dream, elettronica Tommaso Pandolfi aka Furtherset, discografia ampiamente raccontata sulle nostre pagine, fa il suo esordio sulla lunga distanza nel 2013 con Holy Underwater Love (Concrete Records). In precedenza, una manciata di EP, ma soprattutto apparizioni live di livello al Club 2 Club (Torino) e al TPO (Bologna). Sulla neonata Bertrand Tapes, esce ora con il suo secondo album, registrato tra settembre e dicembre dello scorso anno. How To Be You segue la traccia segnata da Holy Underwater Love. Elettronica fredda, che si apre ai grandi spazi con riverberi infiniti, umorale nel suo continuo spostamento di focus tra shoegazing digitali e spaccati astratti. Poi gli innesti vocali, sempre presenti, nascosti dai sintetizzatori o mandati in loop con inconsapevole attitudine punk. Una visione rarefatta,
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Genere: elettronica, grime Per chi aveva l’orecchio lungo nel biennio 2012-2013, Fatima Al Quadiri non ha segreti. La sua synth music, praticamente senza campionamenti, fredda e solitaria, sensuale ma al calor bianco, street virtuale e virtualizzata, parente del grime strumentale d’inizio Duemila eppur svuotata di ogni traccia di machismo, aveva goduto di un discreto culto sia tra gli osservatori della svolta vaporosa e ancarco-capitalista dell’hypnagogic pop (vedi l’ottimo articolo di Dummy Mag), sia tra le fila di chi amò la “svolta fredda” della Fade To Mind, sia anche tra quelli che l’osservavano all’interno del dedalo di rimandi e interconnessioni della scena nu eski a partire dallo strategico feat. nell’EP di Visionist, I’m Fine. A seconda del punto d’osservazione, che fosse prettamente newyorchese (e quindi concettuale) o britannico (e quindi narrativo) – il BODYGUARD di James Ferraro che portava sulla strada il suo Far Side Virtual, o il famoso mix tape di Kode9 -, Fatima è sempre stata un personaggio terribilmente seducente, eminentemente contemporaneo, senza contare il contorno. Nata in Senegal, cresciuta in Kuwait e, infine, residente nella grande mela dopo una serie infinita di spostamenti tra Europa e USA, la ragazza è attiva da qualche anno come giornalista presso DIS Magazine con l’inside blog Global Wav, ha formato con il Lit City Trax J-Cush (che l’ha introdotta al grime in modo sistematico) e Nguzunguzu (altri fieri paladini dello scacchiere Fade To Mind con Kelela) il gruppo alt r’n'b Future Brown, ha cantato a mo’ di Residents inni religiosi musulmani come Ayshay (Warn-U pubblicato da Tri Angle nel 2011) e, non ultimo, ha tenuto lecture al MoMA. Asiatisch, pubblicato sulla Hyperdub di Kode9 (e tutto torna), è il suo concept sulla percezione dell’Asia da parte di un Occidente “internettaro”, interconnesso eppure solitario e individualista, setting angoscioso in cui la ragazza è stata immersa completamente negli ultimi anni e lente con la quale Fatima ha osservato terzi e quarti mondi vissuti in prima persona. Il disco rappresenta il naturale sbocco di una ricerca tra un globale post-tutto e un virtuale dominante, intrapresa con videoclip come Vatican Vibes (contenuto nell’EP Genre-Specific Xperience pubblicato dalla newyorchese ONO) o apocalittiche/virtualizzate tracce come Ghost Raid (contenuta nell’EP concept sulla Guerra del Golfo, Desert Strike). Contestualmente possiamo anche immaginare il disco in un dopo rispetto ai paradigmatici R Plus Seven di Oneohtrix Point Never e Cold Mission di Logos, eppure Asiatisch - decisamente più potabile e melodico – non è, in primo luogo, un lavoro concettuale, piuttosto una raccolta di composizioni legate da un tema comune. Rimane un po’ fuori luogo la cover in (finto?) mandarino della Nothing Compares To You della O’Connor (Shanzhai, scritta per la biennale dell’omonima città con il feat. di Helen Fung), mentre nel resto di una tracklist variegata e coerente, ritornano, più solide che mai, overture à la Aphex Twin già tentate e tutto un portato di futuristica vertigine (Shanghai Freeway), enigmatiche essenzialità à la Rabit (Jade Stairs) e la consueta manciata di quadretti glossy ai quali Fatima ci ha abitutati fin da Genre-Specific Xperience, pennellando felpati hook melodico-strumentali su rintocchi sinogregoriani (Szechaun, Szechuan) o apparecchiando scenari a poligono parenti di Bloom e della Glacial Sound.
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Fatima Al Qadiri - Asiatisch (Hyperdub Records,2014)
Disco che seduce, Asiatisch più per un gioco di timbriche, incastri e capacità evocativa che per la composizione delle tracce in sé. Eppure la cifra di Al Quadiri (Shenzehn) sta proprio qui, giocata tra pennellate a vuoto di synth e delicata marzialità, un om sintetico che trova i suoi spazi in virtuali ritualità da nippon plaza. Nulla che le orecchie attente non ascoltassero già all’indomani di Far Side Virtual, eppure un qualcosa di valido con una sua specificità e coerenza. 7.2/10
destrutturata e meno scientifica dello scientismo sonoro degli Autechre da Incunabula in poi, prima ancora di certe affinità alla saga Plaid che Pandolfi aveva meglio declinato nel suo Old Quantum Theory EP (Techowagon Recordings, 2011). Breakbeat plastici (Sleep), rincorse in overdrive verso il nulla (Be Someone Else), affondi di basso in una marea di field recording (Miroir): How To Be You è un disco che riflette tutta la libertà di manovra tipica delle menti non ancora sporcate dalle rigidità accademiche. Qualche sintesi scomposta, eccessi sinceri di quell’assenza di strutture ben dosata nel resto del lavoro, ma anche pezzi che rimettono ordine, austeri, luminosi, come Nothing. Nove immagini nelle quali si riconosce l’ipotesi di un disegno di fondo, una sorta di impronta caratteristica, preferita dallo stesso Furtherset rispetto alle estemporaneità dei numeri da extended-play. 6.8/10 Elia Galli
Gentless3 - Things We Lost EP (Viceversa,2014) Genere: rock, alt, folk Poco più di un anno è passato dal buon Speak To The Bones che confermò la bontà dei presupposti ravvisati nell’esordio I’ve Buried
Your Shoes Down By The Garden, ed ecco che i Gentless3 tornano con un EP che ribatte sul tasto del folk rock grave e accorato. Se la bussola resta pur sempre – a spanna – tra Willard Grant Conspiracy e Black Heart Procession, Carlo Natoli e compagni sono bravi a non trascurare l’aspetto più evocativo della faccenda, vedi la filigrana resinosa (quasi Yo La Tengo) di My Name o la struggente Pay My Dues (come un Grant Lee Phillips slowcore), in ciò accordandosi ai risvolti narrativi dei testi, come accade ancora meglio nella splendida Mercenary coi suoi palpiti valzer a cuore nero. Quanto alla opening Death Row Information, s’inclina dalle parti Nick Cave – opportunamente, del resto il tema è quello degli ultimi momenti dei condannati a morte – avendo cura di dare vita a turbini desertici un attimo prima di restare imprigionata in una falsariga forse limitante rispetto al resto. Buon lavoro quindi, arricchito da ospitate eccellenti (Fabrizio Cammarata, Fabio Parrinello – aka Black Eyed Dog – e Luca Andriolo dei Dead Cat In a Bag) nonché da un poker di bonus-track (per chi acquista la versione in CD) che vedono il trio all’opera con cover di Pixies (Waves Of Mutilation) e Cohen (Suzanne) tra le altre. 7.2/10 Stefano Solventi
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Edoardo Bridda
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Ian Anderson - Homo Erraticus (Kscope,2014)
Genere: rock, psych, stoner Dopo il fortunato esordio Earth Measure datato 2012 che li ha fatti conoscere ed apprezzare, gli scozzesi Holy Mountain tornano a seminare terrore e distruzione con Ancient Astronauts. Tanto ispirati dalla poetica di Alejando Jodorowsky (il nome della band è chiaramente ispirato dall’omonimo libro del maestro cileno) quanto dai monumentali riff dei Black Sabbath, i tre scozzesi, in questo nuovo episodio, pestano e sperimentano ancor più che nel predecessore, macinando riff granitici e ritmiche serratissime. Sintesi perfetta del loro pensiero è l’iniziale LV-42666 (citazione che arriva dritta dritta da Alien di Ridley Scott, LV è infatti il nome del satellite su cui atterra la Nostromo di Ripley), due minuti scarsissimi di muscoli e nervi, dimostrazione della forza bruta di un power trio assolutamente in palla. Space rock coi fiocchi è quello che si ascolta in una Luftwizard che strizza l’occhio alla produzione dei Motorpsycho di Heavy Metal Fruit, mentre in Ancient Astronauts, più vicina agli Sleep, emerge deciso un drumming grasso e ampio di matrice tipicamente bonzoniana, offrendo spunti interessanti sviluppabili in psicotiche e fuoriose jam in sede live. Traccia cardine del disco è Tokyo, spartiacque possente e assoluto tra i vecchi Holy Mountain e i nuovi. Suonato con perizia, furia e tecnicismo, Ancient Astronauts è il miglior album che gli Holy Mountain potessero scrivere. La speranza è che la maturazione della band iniziata con Earth Measure ed esplosa definitivamente in questo episodio, non si fermi al secondo gradino ma continui verso nuovi livelli e direzioni. 7/10
Genere: rock Di tutti i baroni prog, il sessantasettenne Ian Anderson è quello che mi sta più simpatico. Un tipo pane al pane, che non tenta di spacciare per avanguardia una proposta tanto periodicizzata, anzi elargisce al pubblico esattamente ciò che ci si aspetta da lui: una baldanzosa apoteosi dell’idioma folk/prog Jethro Tull con solerti pennellate del celebre flauto traverso (sostenendosi su una gamba sola nei passaggi più estrosi, of course). E’ un gioco talmente scoperto da permettergli di riallacciarsi direttamente al capolavoro Thick As A Brick, come è avvenuto col sequel Thick As A Brick 2 di due anni orsono e col qui presente Homo Erraticus, nel quale torna il personaggio di Gerald Bostock ad animare un concept infarcito di eventi allegorici che coprono un arco temporale vertiginoso, dal neolitico al presente passando ovviamente dal medioevo. La calligrafia Jethro sprizza con dinamismo rinnovato dal canovaccio traditional folk, ribollendo di chitarre hard (quasi heavy) e tra ritmiche sparigliate con padronanza algebrica, senza mai perdere la brillantezza ed il piglio teatrale/umoristico. Insomma, stiamo parlando di una parata di soluzioni, espedienti, cliché, mestiere e pertinenza al servizio di un talento già esplorato a tempo debito, tanto da costituire una fiera dell’inessenziale, una realtà sonica accessoria che ha il non trascurabile merito di fermarsi un attimo prima di scadere nel caricaturale. E’ un carosello prettamente autoreferenziale che, pur rivolgendosi dichiaratamente a fan ed appassionati (con buone probabilità di soddisfarli), potrebbe avere qualche chances anche con i simpatizzanti semplici. 6.5/10
Andrea Murgia
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Holy Mountain - Ancient Astronauts (Chemikal Underground Records,2014)
Genere: avant Promemoria: diffidare dalle press release. Nel presentare il nuovo album di Christian Fennesz, atteso dal 2008 (ma solo se non si considerano le relativamente frequenti uscite di live, EP, soundtrack per film e coreografie, e i tanti progetti collaborativi paralleli che si sono succeduti in questi ultimi anni), le Editions Mego puntano su una supposta esclusiva continuità con il prodotto di punta del raffinato catalogo della label, quell’Endless Summer che aveva portato alla ribalta internazionale il musicista austriaco. Ridurre Bécs a “follow up concettuale” del capolavoro del 2001 significherebbe ignorare tutto il lavoro di ricerca e sviluppo che Fennesz, tra i principali protagonisti di quell’electroshifting che ha segnato il passaggio dal XX al XXI secolo, ha continuato a portare avanti. Sarebbe quanto meno limitata una valutazione che non prendesse in considerazione i lavori usciti nel frattempo per Touch, da Venice (2004) a Black Sea (l’ultimo vero e proprio album, 2008) fino ai più recenti Seven Stars (2011) e AUN (2012). Anche parlare di un “ritorno a meccanismi pop” risulta fuorviante, senza dare il giusto peso alle esperienze di maggior visibilità, e in un certo senso più accessibili, frutto delle collaborazioni di Fennesz con nomi come David Sylvian, Ryuichi Sakamoto o Mike Patton, mentre, nel frattempo, proseguivano le sue sperimentazioni più audaci, ad esempio con il collettivo Fenn O’Berg. Il suo ambito di azione è sempre stato ampio e difficilmente inquadrabile in una sola dimensione, al punto tale che anche le puntate più inattese (come nel caso della cover del 2008 di Hunting High And Low degli A-ha, o il recentissimo incontro con il pop singer alternativo Autre Ne Veut, protegé di Daniel “Oneohtrix Point Never” Lopatin) non risultano mai fuori luogo. Bécs rappresenta la sintesi perfetta della carriera di un artista che ha sempre cercato un suo spazio personale tra gli interstizi, verso un punto d’incontro tra i presunti opposti di melodia e rumore: nell’album si ritrova la commistione tra organico e sintetico, tra la purezza del suono e la distorsione, tra la chitarra e il laptop, ma soprattutto la passione reverenziale di Fennesz per due tra i Brian più importanti della musica dell’ultimo secolo: Wilson e Eno. E anche di questo suo sincretismo Endless Summer non rappresenta né la prima né l’unica testimonianza: se ne trovano segnali già in Hotel Paral.lel, il primo album del 1997 in piena rivoluzione glitch (in particolare la traccia Aus), o ancora più nella programmatica cover di Don’t Talk (Put Your Hand On My Shoulder) del 1998. Tutta la più recente produzione esclusiva a nome Fennesz procede verso questi ambiti di ricerca: melodia più noise, dove entrambi gli elementi acquistano forza e senso dal confronto reciproco e dalla compenetrazione. Il glitch non ha mai rappresentato un puro vezzo né una posizione oltranzista e critica (quell’”estetica dell’errore” post-digitale teorizzata nel 2000 da Kim Cascone e ormai disinnescata: ora non occorre più mandare in crash i campionatori, basta un plug-in VST per “sporcare” digitalmente i suoni): “non uso il rumore per scioccare, o perché è divertente, o strano. Lo uso perché lo trovo bello” (da un’intervista del 2002 a Pitchfork). Occhio alle press release, pur quando contengono informazioni e chiavi di lettura ulteriori. Si
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Fennesz - Bécs (Editions Mego,2014)
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scrive Bécs, ma ci viene suggerito che si pronuncia “Baeetch” e che vuol dire Vienna in ungherese: un richiamo criptico alle origini magiare di Fennesz e alla sua città. Dedurre che si tratti di un album che contiene memorie e riflessioni private e personali rischierebbe peraltro di banalizzare ulteriormente il risultato finale: sette tracce evocative ed astratte, ognuna in grado di esprimere un lato del multisfaccettato mondo dell’artista. L’album si apre con inauditi tuoni elettroacustici (drums più elettronica), dai quali prende il via un sylvaniano giro armonico di chitarra, attorniato da un invalicabile wall of sound di risonanze e distorsioni: alla decentrata forma-canzone di Static Kings danno man forte la batteria free di Martin Brandlmayr e il basso di Werner Dafeldecker (cioè la metà dei Polwechsel, con i quali Fennesz aveva già costituito un interessante trio per il premonitore Till The Old World’s Blown Up And A New One Is Created, uscito nel 2008). Il pezzo, pensato originariamente per ospitare la voce di Mark Linkous (il titolo è un omaggio agli Static Kings Studios del compianto leader degli Sparklehose, con cui Fennesz aveva in più riprese collaborato, vedi in particolare l’ultima release In The Fishtank) si conclude con uno straniante arpeggio kraut, che l’echo box rende circolare e senza via d’uscita. Seguono le atmosfere dark di The Liar: tiratissima e stravolta marcia funebre per chitarra elettrica supereffettata e layer di synth disturbati, scandita da rintocchi noise. Il collegamento di Liminality con Seven Stars non è solo nominale: nei 10 minuti della composizione si riprende e si sviluppa parte della melodia di Liminal, con cui si apriva l’EP del 2011 (e spesso ripresa nei live degli ultimi anni). Qui la chitarra di Fennesz diventa epica richiamando landscapes alla Neil Young, impreziosita dal contributo alla batteria dall’amico Tony Buck, maestro di improvvisazione: i due, insieme a David Daniell, avevano già dato prova di potenza espressiva nel live registrato nel 2009 a Knoxville (e indirettamente torna il ricordo di Linkous, che proprio nella città del Tennessee si suiciderà l’anno successivo). Una coltre di effetti analogici amalgama, irrudividisce e aggiunge pathos. I più recenti droni ambient sono quindi ormai accantonati? Tutt’altro: lunghissimo fade out, silenzio, e passiamo dalla terra all’oltremondo. In Pallas Athene il frangersi di lunghe ondate di synth è figlio di Apollo, di enoiana memoria, ma con una consapevolezza nuova: l’incrocio delle risonanze crea dissonanze, che lentamente emergono dalle profondità e prendono il sopravvento. Con il brano che dà il nome all’album Fennesz gioca ancora più a carte scoperte. L’intenzione è evidente: indagare gli effetti psicoacustici provocati dal trattamento estremo del suono proveniente da fonti organiche. Il rumore copre e al tempo stesso esalta la melodia ciclica à la Harold Budd, invitando l’ascoltatore a tuffarsi dentro i suoni per andare a ripescare le perle. Chi scrive ha immediatamente trovato nel fa diesis effettato dell’attacco di Bécs un diretto riferimento al fa iniziale di Aitsi, programmatico pezzo per piano amplificato dell’ultimo Giacinto Scelsi (1974), alla ricerca del superamento dei limiti tonali dello strumento. In Fennesz c’è forse meno rigore metafisico, ma la stessa passione del compositore italiano nell’inseguire e snidare la bellezza in luoghi inesplorati. E la press release si ostina a parlare di “pop”… Sav, vertice atmosferico dell’album, lavora sul rapporto vicino-lontano degli elementi sonori. Metalli, scricchiolii e altri microsuoni compenetrano pattern cosmici ancora provenienti dalla lezione ambient di Eno, per uno sviluppo libero da forma e puramente emotivo. Il pezzo vede la partecipazione e l’influenza di Cédric Stevens, qui accreditato anche come coautore: attivo in ambito techno come Acid Kirk, il belga Stevens nel 2012
ha pubblicato una bellissima antologia di sue composizioni sperimentali del periodo 1997-2005 a nome The Syncopated Elevators Legacy (con remix vari, anche di Fennesz), assolutamente da recuperare (disponibile su Spotify e Deezer). Nei 3’37” finali di Paroles troviamo il Fennesz più lirico di Laguna (Venice) o Grey Scale (Black Sea): la linea melodica tratteggiata alla chitarra acustica, lambita dai graffi e dalle scariche elettriche marchio di fabbrica, è pronta per essere armonizzata da Brian Wilson. E finalmente qui, ma solo qui, ha senso parlare di atmosfere da “estate senza fine” per un album multilivello ed eterogeneo (quindi meno compatto rispetto alle altre uscite di Fennesz, ma ciò non è necessariamente un difetto) che merita più di un ascolto. 7.5/10 Alessandro Pogliani
Genere: pop, indie Matteo Dainese è uno a cui, semplicemente, non stai dietro. Se provi a inquadrarlo, resti spiazzato, hai la sensazione di “leggere l’orario del tram”, tanto per parafrasare un verso che capita di sentirgli cantare. Produttore, fondatore e boss dell’etichetta Matteite, lo abbiamo ascoltato e apprezzato come parte attiva di Dejligt, Elio Petri e recentemente Il Mercato Nero, salvo poi ritrovarlo coinvolto a vari livelli nei lavori de Il moro e il quasi biondo, Margaret e Criminal Jokers, tra gli altri. Tra i tanti progetti insomma, quello denominato Il Cane diventa oggi il suo più importante, dal momento che col qui presente Boomerang può vantare tre album in repertorio (dopo Metodo di danza del 2009 e Risparmio energetico del 2012). Si tratta di un para-cantautorato che si muove per bozzetti arguti, sketch emotivi e sentimentali, frammenti di quotidiano saturi di paraculismo e trepidazione che dribblano il distacco sloganistico, l’astrazione twitterata ed il ghigno catastrofista di troppi Anni Zero. L’ironia è il lenitivo che ancora una volta ci salva dal disincanto definitivo, ed è presente
a partire dal timbro beffardello e indolenzito di Matteo, un po’ quello che la voce di Tom Barman fa per i dEUS, band alla quale ci si rifà spesso anche riguardo le forme sonore, in bilico tra ibridazioni bizzarre e slanci accalorati. Si veda soprattutto Sguardo perso con le sue divagazioni dub e la tromba, una Panico che si protende acida e fibrosa per poi distendersi malinconica (con qualcosa dei tardi Yuppie Flu), o la opening Vero col piglio agro al servizio di un’amarezza disarmata (come una versione pimpante di Riccardo Sinigallia). Altrove è palpabile la filiazione dall’idea pop-rock evoluta dei Notwist, come dimostra l’invettiva a dente avvelenato de Il premio o i tempi dispari illanguiditi di Al tuo tempo. Si aggiunga la disinvoltura lucida e capricciosa di stampo Blur (Alla grande, Maledizione) e una certa attitudine cameristica che potremmo dire quasi Giardini di Mirò (Sconosciuti), per tratteggiare un’idea sommaria ma non certo esaustiva di un lavoro ricco di dettagli e implicazioni, malgrado la leggerezza intrigante dei pezzi. Nutrita, come di consueto, la presenza di ospiti/amici, un vero plotone nel quale spiccano i nomi di Enrico Berto dei Sick Tamburo, Ilaria
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Il Cane - Boomerang (Matteite,2014)
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D’Angelis degli …A Toys Orchestra ed il sempre ottimo Egle Sommacal. 7/10 Stefano Solventi
Genere: psych Titolo speranzoso e insieme illusorio, per l’ennesimo segreto ben custodito d’Italia. Gli Inutili - nome che sembra mutuato da qualche gruppo beat anni ’60 (ma non lo è) – sono una formazione di Teramo “scoperta” da una lungimirante Aagoo, label che sta sempre più allungando lo sguardo sull’underground del Belpaese, dato che a scorrere le ultime pubblicazioni della label americana troviamo anche i Father Murphy e l’accoppiata Deison and Mingle. Buon segno in generale ma anche in particolare, dato che questo 12” – in apparenza un mini-album consistente in due sole, ma lunghissime, tracce – si pone sullo stesso piano di molte “hard-psych” band di prim’ordine, in virtù di un suono magmatico e in certi momenti tellurico, dilatato e drogatissimo, seventies nelle fondamenta ma contemporaneo per applicazione e riuscita. Fry Your Brain, come da titolo, è un invito al friggersi il cervello per quasi venti minuti a base di giri di basso che dire ipnotici è poco e su cui si stratifica una architettura di suoni in libertà tra slanci cosmici, psych che si slabbra in deliqui free e tribalismo invasato e incessante. Risponde sul lato opposto la gemella diversa Drunk Of Colostro, piegando le stesse dinamiche verso lidi funk-70s guidati da basso rotondo e wah wah perenne, in un’orgia che sale e scende, accelera e rallenta, si fa sensuale e poi ruvida. Inutili? Magari tutti i dischi lo fossero in questo modo. 7/10 Stefano Pifferi
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Genere: elettroacustica Uscita di grande interesse musicologico per Sub Rosa (come spesso accade): Early Electronic and Tape Music riprende, grazie alla ricerca, alla dedizione e alla precisione filologica (soprattutto dal punto di vista dei dispositivi / strumenti) del Langham Research Centre, le prime sperimentazioni per nastri di John Cage. Non è un caso se il primo brano è Fontana Mix (With Aria), opera aperta che a distanza di cinquantacinque anni mette in imbarazzo la decisione di qualsiasi musicista – che si trova davanti alla sua esecuzione il cervello di Cage, più che una notazione. E’ evidente, durante le sei tracce – altrettante milestone, nel decennio ’52/’62, della storia della musica elettronica – il radicalismo di Cage, la sua versione del chance imagery: una versione prettamente novecentesca, eppure già sufficientemente dimenticata dalle forme odierne di sperimentazione con l’improvviso. I membri del Langham Research Centre scelgono una strada forse didascalica ma sensata, ossia quella di lavorare sulla meticolosa aderenza alle “intenzioni” dell’autore – anche se forse non dell’opera – attraverso l’impeccabile ricerca e scelta della strumentazione dell’epoca. L’effetto è di sicuro impatto, e ci lascia di fronte a timbri che non avevamo mai sentito così netti. Splendida la narrazione di Variations I, lascito-firma, con tanto di voci con inequivocabile accento britannico, del Langham. Parafrasando, un modo di rendere memorabile e in un certo senso geografico il contributo all’eterna interpretazione delle composizioni di Cage. 7/10 Gaspare Caliri
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Inutili - Music To Watch The Clouds On A Sunny Day (Aagoo Records,2014)
John Cage - Early Electronic and Tape Music (Sub Rosa,2014)
Genere: pop, rock, art, elettronica, experimental Tedianti polemiche da bar relative all’esibizione al Super Bowl a parte, l’universo Red Hot Chili Peppers negli ultimi anni si sta obiettivamente sbriciolando sotto l’eccessivo peso di un brand che ha perso prima la piena credibilità (da By The Way in poi) e successivamente (vedi il flop di I’m With You) quell’appeal che lo ha reso uno dei tre o quattro di maggior successo nel periodo 1990-2010. L’impressione è che la questione RHCP si sia ormai tramutata esclusivamente in una sorta di burocrazia aziendale da mandare avanti svogliatamente: Frusciante ha nuovamente abbandonato la nave per concentrarsi sui suoi – vari – progetti, il suo sostituto e amico Josh Klinghoffer continua a non perdere i contatti con la realtà – minore e principalmente locale – dalla quale proviene (è prevista una nuova release targata Dot Hacker) e Flea si è concesso una ampia parentesi in formato solista (l’avant dell’Helen Burns EP), con gli Atoms for Peace e ora con il progetto Antemasque. John Frusciante, dal canto suo, non è mai stato agli antipodi della sua (ex)main band come negli ultimi tempi, dato che ora più che mai è artisticamente libero da qualsiasi meccanica legata al music business e le coraggiose ultime uscite a suo nome (da PBX Funicular Intaglio Zone ad Outsides EP dello scorso anno) lo testimoniano ampiamente. Il problema semmai è che l’arte di Frusciante è veramente di difficile decifrazione e se è vero che lo è stata fin dall’esordio solista – Niandra LaDes and Usually Just a T-Shirt, croce e delizia cantautorale all’ennesima potenza – ultimamente riuscire a comprendere pienamente le idee musicali di John è diventata una sorta di mission impossible, basti pensare all’assurdo alter ego Trickfinger dietro al quale si è na-
scosto per mesi e al recente lancio del progetto Kimono Kult in compagnia del suo compare Omar Rodriguez Lopez e di Teresa Suárez Cosío. Da questo caos nasce l’undicesimo album Enclosure che, stando alle dichiarazioni del Nostro, rappresenta il compendio della ricerca sonora che lo ha tenuto occupato negli ultimi cinque anni (compresa l’intera produzione di Medieval Chamber della formazione hip hop Black Knights. Come nel predecessore, PBX Funicular Intaglio Zone, il newyorkese sembra ancora una volta essere in fissa pesa per le – un po’ superate – sperimentazioni glitch-pop sporcate drumandbass, tentando però di riabbracciare la chitarra elettrica e un approccio melodico che non sia il semplice frutto di una funzione random. Nove tracce all’insegna dei più classici “capolavori mancati” di un Frusciante che ha da sempre la capacità di inserire una melodia clamorosa in un contesto mediocremente caotico o, viceversa, rovinare potenziali pezzi da novanta con soluzioni che sembrano avere un senso esclusivamente nel suo microcosmo mentale. Enclosure è di conseguenza un susseguirsi di patterns di drum-machine che giocano con effetti assortiti e poliritmie al limite del cacofonico, di richiami – più evidenti rispetto a PBX Funicular Intaglio Zone – agli eighties e di improvvissazioni strumentali. Tra i bani manifesto abbiamo senza dubbio Fanfare (poco più di due minuti che racchiudono tutta l’alienazione compositiva del nostro), Stage (probabilmente l’episodio più “normale” del lotto e vicina a certo synth-pop mid-80s) e Sleep, quest’ultima il passaggio ritmicamente più interessante e l’unico che può vantare un chorus vagamente assimilabile. Enclosure ha il suo pregio nella sua maggiore concretezza (per quanto minima) rispetto alle ultime uscite, ma rimane un disco con stampa-
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John Frusciante - Enclosure (Autoprodotto,2014)
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Genere: ambient, techno, 2-step, ukgarage_futuregarage, dubstep, elettronica, idm Steve Goodman, ovvero Kode9, boss di Hyperdub, quest’anno festeggia il decimo anniversario della sua creatura, una delle etichette out elettroniche più lungimiranti che il Regno Unito (almeno) possa contare. E usiamo il prefisso out proprio per indicare un distacco rispetto all’idea di musica elettronica come prodotto catalogabile e chirurgicamente distinguibile per generi e sottogeneri, pratica legata al mercato che questo tipo di musica produce da sempre. Goodman, del resto, che non è un londinese doc ma viene da Glasgow, un po’ out lo è sempre stato. E nel senso più nobile del termine. Out nel senso di fuori dal luogo comune, fuori dalle facile etichette, a partire da quella che più lo ha identificato. Sempre lui è la figura di riferimento che un giovane Pinch ascoltava al FWD, e sempre davanti ai suoi piatti – vedi anche la contemporanea serata Hyperdub 130 – il crocevia di influenze e tendenze che daranno vita alle serate DMZ di Mala e Coki, e dunque alla nascita del dubstep come genere. Sulla base di queste esperienze paradigmatiche uno come Logos inaugurerà in tempi recenti il Boxed, una notte che non è soltanto un evento, ma un’autentica fucina di creatività con suoni, spazi e ritmo, godimento mai scontato e, dietro, una cultura, percorsi, continuum, una matrice di riferimenti e influenze in continuo divenire. Kode9, di reti e incastri, ne sa parecchio. E’ anche un filosofo, un accademico, ma con la testa sempre ben poggiata sulle spalle. Sonic Warfare: Sound, Affect, and the Ecology of Fear, il suo finora unico libro pubblicato per MIT Press, indagava gli effetti del suono su individui e società, con particolare riguardo agli aspetti legati alla gerarchia e al potere. Per scriverlo Goodman adotta e sviluppa il concetto di Black Atlantic di Paul Gilroy, una teoria, non africano-centrica, per studiare la diffusione di ritmi, suoni, musica, a partire dalla diaspora del continente nero. Di suo, lo scozzese individua un trittico di traiettorie con le quali ha convissuto fin dal primo contatto con le correnti elettroniche UK: l’afro futurismo, l’ardkore continuum reynoldsiano e il gettotech globale, percorsi che si applicano allora come oggi al network di rimandi e influenze di un’etichetta come Hyperdub. Del resto, non porsi confini tra musica e suono, nord e sud, Africa e Occidente, struttura e basso, è alla base delle scelte di quest’uomo, di questo mondo sonico, e dunque della compilation, che come la precedente è una foto scattata al presente per chi lo sta vivendo e una al futuro per chi a tutte le sfaccetature di questi percorsi arriverà soltanto tra qualche anno, tra un lustro o mai. 5 Years Of Hyperdub, partiva da un concetto supersonico di dub, in sintesi della sintesi, un portato di tribalità passate nel tubo catodico futurista. Allora non era un caso che ad inaugurare le danze ci fossero i King Midas Sound di Kevin Martin / The Bug, altro Maître à penser del dub, della mutazione, della musica senza confini più scura. Ma questo è soltanto uno degli aspetti di un mosaico sempre complesso e mai unidimensionale che univa/e unisce la trasfigurazione Uk Garage di Burial alla dubstep di Mala, il massimalismo wonky di Flying Lotus e della scuola di Los Angeles, i ritmi trainati dalla melodica sintetica di Joker (l’autoproclamato purple sound) alla post-rave post-grime di Zomby, gli 8bit trasversali di Quarta 330 e Ikonika fino al Uk Funk e la
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Burial - Hyperdub 10.1 (Hyperdub Records,2014)
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soca degli LV. Nella nuova compilation, in un presente che ha occultato la dubstep e visto esplodere la bolla massimalista, il più marcato dei tre percorsi goodmaniani è quello del ghettotech globale. E dunque se in 5 Years Of Hyperdub il presente/futuro guardava all’america del wonky e la circuitava nel purple sound britannico, questa tracklist, divisa tra inediti e “dimostrate hit da ballo“, mastica, rimpalla e trova nuova spinta ed energie nei due fenomeni più virali di questi anni: il juke / footwork e la trap, due facce di un’unica medaglia che trova in certi luoghi dell’urbano l’equivalente del tribale, del comunitario e del primitivo. La footwork è una sorta di grado zero house, e quindi un ibrido tra maschie tessiture hip hop passate nel tubo catodico di complesse ritmiche per il ballo; la trap, nel suo portato contemporaneo di astrazione e suoni alieni, rappresenta il lato più mistico e sinistro del ghetto. Naturalmente, poi, c’è tutta la complessità e la continuità di casa Hyperdub: il dubplate di lungo corso di Mala che debutta “in chiaro”, Expected, ovvero la traccia che Benga in questo momento non è in grado di darci, l’afrofuturismo nel classico vocal della casa (Spaceape), le collisioni footwork / trap apparecchiate da Kode9 (Xing Lu nell’Helix remix). E poi le promesse già mantenute, ovvero il detroitiano Kyle Hall con la tribale, frattale e cubettosa Girl U So Strong, e una serie sguardi hip hop americani in controluce (e di rimbalzo grime): Kuedo in fregola glacial sound e filo Zomby (Mtzpn), la coppia di producer Taso e Djunya che rispondono alla missiva rave trap dei disciolti TNGHT (Only The Strong Survive), Morgan Zarate e Flowdan che affondano sincopi in atmosfere d’asciutto thrilling (Kaytsu e Ambush con Footsie). Infine il compatto micro set dei chicacoani, con DJ Spinn (All My Teklife), Dj Taye (Get Em Up), Dj Earl (I’m Gonna Get You), Heavee (Icemaster) e Dj Rashad (con Gant Man in Acid Life), a completare il primo CD d’inediti in bellezza. 7.5/10 Edoardo Bridda
to a caratteri cubitali l’avviso “solo per i fan”. Come da copertina, con questo disco si chiude un cerchio discusso e discutibile che nel migliore dei casi verrà rivalutato tra un paio di decenni e questo, tutto sommato, non può che consolarci. 6.4/10 Riccardo Zagaglia
KK Null - Incognita (Aagoo Records,2014) Genere: industrial, noise, ambient Quattro lunghe se non lunghissime tracce di
“ambient” spesso minacciosa, incupita e devastante rappresentano il frutto di questo lavoro a sei mani: da un lato il nippo noise-master KK Null, dall’altra i fratelli messicani Israel (in realtà berlinese d’adozione) e Diego Martinez, con quest’ultimo travisato sotto la sigla Lumen Lab, a scambiarsi visioni e file via email. Il risultato è questo Incognita, fratello gemello dell’edizione vinilica intitolata Terra Incognita che a quanto pare contiene tracce lievemente diverse: un lavoro in cui l’equilibrio tra l’elettronica rumorosa di Null, i droni possenti e scuri di Lumen Lab e i field recordings di Israel
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Martinez si tramuta in quattro suite dense di particolari, sfumature e generico lavoro di cesello – microfratture glitch, battiti analogici in secondo piano, spunti di energia elettrostatica, sfumature di field recording trasfigurati, ecc. – su un substrato che oscilla tra il dark-ambient e il droning più materico e claustrofobico. Un lavoro dunque ostico per durata (siamo intorno all’ora di musica ripartita tra le quattro tracce untitled) e atmosfere (dal nero pece al grigio industriale, a voler identificare una tavolozza ideale) che si fa apprezzare per la grana dei suoni. 6.5/10 Stefano Pifferi
Genere: kraut Non sbagliano più un colpo, i Kreidler. Dopo vent’anni, dopo tante convincenti prove e dopo aver dimostrato due annetti fa con l’ottimo Den di essere in totale stato di grazia, tornano con il dodicesimo album in studio. Sei tracce per 36 minuti scarsi (anche il predecessore si assestava sui 40 minuti), ABC dimostra che la band capitanata da Klein ha raggiunto un equilibrio e una sintesi lessicale invidiabile, in cui le lungaggini verbose sono bandite in favore di una silhouette snella e agile, che garantisce appetibilità e longevità al disco. Oscuro e ipnotico, ABC si muove nei territori già esplorati dai Kreidler nei passati episodi, pigiando più sull’ossessività e sulla claustrofobia – l’iniziale Nino e la conclusiva Tornado sono palesi esempi – lasciando spiragli di luce quasi danzerecci in Alphabet e Destino. Vent’anni e non sentirli, insomma, per una band su cui nel 1994 pochi avrebbero scommesso. Registrato a Tbilisi con l’ausilio di musicisti locali (il cantato iniziale in Alphabet e in Nino sono opera di membri del coro di Tbilisi), ABC è un album pieno, che si lascia ascoltare
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Andrea Murgia
Legowelt - Crystal Cult 2080 (Crème Organization,2014) Genere: techno La discografia di Legowelt è un’armoniosa autarchia techno. Techno primitiva, perchè esplora l’idea di un altrove imminente, atteso, conseguenza sacrale del lavoro congiunto tra uomo e macchina. Suggestioni tipiche della fine del secolo scorso, non di oggi, tempo in cui una poetica così delineata sembra ormai scappata di mano. Però Danny Wolfers ha trovato la sua via d’uscita. Non sempre ha lasciato segni indelebili, ma in ogni caso ha mantenuto il gusto di chi, alla fine del Novecento, era già presente. Crystal Cult 2080 è un disco compatto: dieci pezzi (dodici nella versione digitale), niente riempitivi. E’ un disco che concede qualcosa all’apparenza retro-futurista, complice il modus operandi legoweltiano fatto di drum machine che scandiscono ritmiche elementari e massiccio utilizzo di pezzi da collezione datati ’80 e ’90. Un’apparenza che, comunque, non si risolve mai nel ricordo vuoto di sostanza. Ci sono gli LFO e gli 808 State al netto degli steroidi, i pad cosmici che entrano ed escono effimeri, gli abbondanti richiami melodici tipici di un territorio italo-disco già ampiamente battuto con l’alias Squadra Blanco. L’incipit di How I Live è Robert Hood in slow-motion, ma quello che segue è massimalismo sintetico. When The Spring Comes Again è un ibrido a cassa dritta tra acid-house sul velluto, stringhe leggerissime e sample vocali lanciati nel vento. Cyberspace Is Happenin’ For Real, confusione di delay sopra il basso fiero e galoppante, si riempie di colori e consolida l’integralismo di Wolfers, che pensa questo album quasi uni-
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Kreidler - ABC (Bureau-b,2014)
con piacere e ha il pregio di risultare sempre fresco e mai banale. 7/10
Elia Galli
Loop Therapy - Opera prima (Irma Group,2014) Genere: hiphop, jazz “A Gil Scott Heron per l’ispirazione e l’esempio”, si legge tra le dediche di Opera prima, mentre in copertina campeggiano un contrabbasso e un synth. Tutto questo per mettere in chiaro dove si andrà a parare con l’esordio dei Loop Therapy, un disco che parla di hip hop e funk ma che non è il solito disco di hip hop e funk. Trattasi invece di contaminazione, ma di quella alta e che gioca di sponda, tra sassofoni, piani elettrici, contrabbassi, percussioni, trombe, ma anche scratch: una sorta di jazz prestato al funk e al rap, che tuttavia trattiene la raffinatezza sonora del primo, più che la botta energetica e la settorialità lessicale del secondo. Ad agire da collante tra un nutrito gruppo di musicisti “canonici” aggiunti (Domenico Mamone, Raffaele Kohler, Francesca Barone) e gli ospiti illustri prestati dal mondo dell’hip
hop (Bassi Maestro, Turi e Colle Der Fomento, chiamati a rappare negli unici tre brani non strumentali dell’album), ci sono Cesare Pizzetti, Fabio Visocchi e Matteo Mammoliti, musici con un passato di ascolti ed esperienze trasversali che rispecchia i gusti sonori espressi dal disco. Da questa improbabile koinè emerge un lavoro pulitissimo ma con un groove irresistibile, ampio nelle soluzioni armoniche ma capace anche di chiudersi a riccio su ritmiche quadrate e metronomiche, con gli ottoni a disegnare un mood “fusion” anni ’70 che indirizza il progetto verso immaginari riconoscibili ma non scontati. Belli gli equilibri, ma anche l’impasto di un suono curatissimo e mai sbracato, in cui le inclinazioni hip hop entrano lineari in un tessuto strumentale che offre loro lo spazio che si offrirebbe a un musicista aggiunto in sede di interplay jazzistica. Tanto che il flow dei rapper chiamati a collaborare finisce per riflettere proprio sul concetto di “musica”, come se si trattasse di uno strumento aggiunto agli altri del disco e non di un “cantato” comunemente intesto. Nota finale dedicata al remix ad opera di Ice One di Per non dire basta, cesello di un album notturno e davvero intrigante. 7/10
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camente su un vecchio Roland JV-2080. Poi le collaudate fascinazioni esoteriche e sci-fi (Ancient Ruins Demoni Mundi, Excalibur R8MK2), sorelle dei più minacciosi fermenti capitolini targati MinimalRome, Heinrich Dressel e Alessandro Parisi in testa. Tutti elementi che sono stati – e sono ancora oggi – marchio di fabbrica Legowelt. Crystal Cult 2080 poteva precedere l’album del 2012, The Paranormal Soul, oppure venire rilasciato tra cinque anni. L’universo di Wolfers non conosce un prima e un dopo, è troppo legato alle immagini che descrive, e queste immagini non sono mai così diverse da giustificare l’introduzione di nuovi stilemi. L’olandese con gli occhiali non sente lo zeitgeist. E la sua musica, anche quando sembra persa tra umori nostalgici, sta puntando verso altre galassie. 6.8/10
Fabrizio Zampighi
Lucrecia Dalt - Syzygy (Human Ear Music,2013) Genere: avant In copertina, due mani appoggiate su una parete bianca, contorte e quasi in procinto di scivolare via: la musica di Lucrecia Dalt, da qualsiasi angolo la si guardi, pare sempre sfuggente e intima al tempo stesso, minimale ma anche piena di angosce. Una dicotomia che in Syzygy viene accentuata, resa ancora più instabile da colori musicali che gocciolano, si inseguono, frantumati e nel medesimo istante in relazione
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Islaja - SUU (Monika Enterprise DE,2014)
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Teresa Greco
tra loro, ma anche lontani dalla “forma canzone” del precedente Commotus. Le “congiunzioni” del titolo (questa la traduzione, in senso lato, di “Syzygy”) sono una sorta di hub semantico a cui ricondurre vari elementi: dalla biografia di una Dalt che ai tempi della scrittura del disco vive in un “non luogo” mentale sfociato poi nel trasferimento fisico da Barcellona a Berlino, al fatto che la musica di Syzygy si ciba di ambienti parassitati dalla cinematografia più illustre (ad esempio in Vitti, brano dedicato alla Monica Vitti di Deserto Rosso) per risputarli in forma di fusione di suoni angolari e claustofobici, fino alla lavorazione che ha caratterizzato le registrazioni di Syzygy. Queste ultime portate a termine nell’appartamento della musicista nell’unico momento libero dai rumori della vicina metropolitana, ovvero alle prime ore del mattino.
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Un dormiveglia biologico che si trasforma in strutture sonore sfilacciate ma nel contempo ipnotiche, come accade in una introduttiva Glosolalia in cui si inseguono suoni percussivi e disturbi in crescendo, in una successiva Inframince in cui sembra di ascoltare dei For Carnation minimalisti o in una Vitti che pare mescolare Badalamenti e Oneohtrix Point Never. La Dalt sta sempre lì, tra l’intellettualismo fine a se stesso e il soundscape, assorta in un’indagine interiore, prima che musicale, quasi fosse una Grouper minimale e atomizzata che di volta in volta gioca con l’ambient, i droni, l’avant, senza mai abbonarsi a uno stile preciso (in Edgewise sembra addirittura di ascoltare la lezione di Ligeti). Uno stile che è un non stile, insomma, e che presumibilmente, nella sua “instabilità formale”, trae linfa anche da un fattore strettamente
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Genere: pop, dance-pop, wave, 80s, synthpop Con SUU (bocca), la finlandese Islaja (alias Merja Kokkonen) arriva al sesto album e al cambio di etichetta (la berlinese Monika Enterprise), dopo aver pubblicato in precedenza per Fonal ed Estatic Peace. Proprio la città tedesca, dove Merja si è stabilita da un po’ di tempo, e le sue atmosfere scarne permeano questo nuovo album, che segna il passaggio dal folk pop freak originario, a un elettro wave piuttosto minimale. La voce calda ma anche spettrale e le timbriche scarne fanno la differenza, in un suono sintetico, che diventa irreale in più di un’occasione. Vengono in mente spesso le atmosfere marziali di Nico (Siren Call), mentre qua e là si sentono echi di Bjork, e Laurie Anderson sembra essere di casa insieme a Danielle Dax e Siouxie Sioux (See No Sun). Wave ’80, synth pop, destrutturazione, e su tutto, come da titolo dell’album, la voce a giocare sdoppiandosi (Music Is Mine), frammentandosi (Chaos Pilot), inseguendo i ritmi, ondulando (Shit Hit The Fan), facendosi melodia. La reinterpretazione di un genere e di un’atmosfera che Islaja fa sua, giocando meravigliosamente e fino in fondo con la voce e l’espressività. 7.4/10
tecnico, nello specifico gli strumenti elettronici che il padre della musicista (ingegnere) costruisce per lei. Un elemento di imprevedibilità e di indagine ulteriore, che si somma a un approccio musicale da sempre ai confini ma non per questo meno affascinante. 6.9/10 Fabrizio Zampighi
Genere: pop, cantautori, electro “Fin dall’inizio tutto sta finendo”: con queste emblematiche parole si apre l’atto conclusivo della tetralogia pop-grammatica di Alessio Luise aka Luisenzaltro, se non il capitolo più brillante senz’altro quello più equilibrato, nel quale cioè l’aspetto sonoro trova compimento (in varietà e intensità) a livello della formidabile giocoleria dei testi. Di base è pur sempre un caleidoscopio letterario azionato da un automa nostalgico del sound 80s con la missione di destrutturare i simulacri di senso appesi alle formule verbali quotidiane. Sembra spesso, insomma, di assistere ad uno stordente mashup tra Alessandro Bergonzoni e i Bluvertigo, se mi passate l’approssimazione, ma l’approccio synth wave stavolta espande il raggio d’azione dall’arguzia robotica all’atmosferico inquieto, concedendosi soul a cuore bigio (la pena d’amore sminuzzata di Piccoli esercizi di schiettezza) e pungoli funky col virus new romantic (la titile track, Annullato), passando dalle brume industrial di La mia strada (la mia astratta). In Passeggero sembra persino di avvertire l’influenza dei primi PGR, dove la solennità ferrettiana è graziaddio stiepidita in un crogiolo di giravolte ironiche, mentre Non c’è laccio che non stringa abbozza addirittura uno pseudo hip-hop che straccia di diverse lunghezze il chiacchierume poseur dei tanti troppi ragazzini neo-rapper (ma invero
Stefano Solventi
Luke Vibert - Ridmik (Hypercolour,2014) Genere: house, elettronica, acidjazz, jungledrumnbass
Non si può mai prendere sottogamba Luke Vibert, anche quando, tutto sommato, non stupisce più e gioca di esperienza come in questo Ridmik, atteso ritorno di uno dei nomi cardine dell’elettronica degli ultimi vent’anni. L’amicone di Aphex Twin, con il quale condivide le origini Cornish, la militanza nello squadrone Warp e il senso dell’humor (anche se su versanti opposti, con Vibert più leggero e sorridente e Richard D. James più tagliente e sulfureo), ha negli ultimi anni diradato le produzioni: l’ultima uscita sulla lunga distanza firmata con nome e cognome, l’ottovolante hip hop acid di We Hear You, è datata 2009. Le sue più recenti fatiche (il piacevolissimo Toomorrow a nome Wagon Christ, il 12” disco-funky Kerrier District 3, la collezione di lost tracks drum and bass dei ruggenti anni novanta Back On Time pubblicata sotto lo storico moniker Plug, il volume 3 della compilation di pepite cosmic Luke Vibert’s Nuggets) ne confermano comunque l’estrosa creatività e l’alimentazione onnivora. Pubblicato dall’eclettica label Hypercolour, Ridmik è incentrato sui suoni analogici, e in particolare sulle linee pastose e squelchy della
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Luisenzaltro - Non vedo l’ombra di vedere la luce (Autoprodotto,2014)
non ci voleva molto). Al solito si esce dall’ascolto col rimpianto di ciò che avrebbe potuto essere con una produzione più robusta, ma è vero che in questa dimensione DIY l’estro di Luise sembra sguazzare nel proprio elemento, libero anche di inciampare in passaggi meno ispirati (Cagnolina) ma che ti regalano comunque quel po’ di foga di pancia di cui magari c’era bisogno. 7/10
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Alessandro Pogliani
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Lykke Li - I Never Learn (LL Recordings,2014) Genere: pop, indie, dream La prima cosa che salta all’occhio è la concisione: il terzo album dell’artista svedese comprende nove brani condensati in poco più di mezz’ora di musica. I sociologi diranno che, in un era di frammentazione digitale come quella che stiamo vivendo, è un segno del tempo che i musicisti più vicini al mainstream puntino di più su uscite brevi (anche un singolo brano o un remix) rilasciate, però, al momento opportuno, perché la promozione possa sostenerle in modo adeguato. E questo ragionamento porta ad un primo punto fermo: quell’avvicinamento a un mercato più ampio (possibile) che si adombrava con la parziale sterzata del precedente, fortunato, Wounded Rhymes è del tutto compiuto. Senzientemente, verrebbe da pensare, visto il crescente hype che ha circondato Lykke Li in tutto il mondo. Se il primo disco faceva intravvedere una personalità ombrosa ma complessa, alle prese con elettroniche e folk che si amalgamavano in traiettorie originali, il secondo sforzo era già del tutto sedato verso il pop-rock. Certo, c’era la rabbia, l’angst, usata per raccontare un amore finito, che avevano liberato anche la voce di Lykke Li, traghettandola in territori che erano stati esclusi dall’esordio. C’era un certo fascino oscuro e drammatico, quello che ha colpito – probabilmente – un David Lynch che le ha aperto la strada verso molti fan. Per I Never Learn la produzione è sempre in mano a Bjorn (di Peter Bjorn And John), ma il focus è spostato interamente sul concetto di ballad. Non nel senso Cave-iano delle Murder Ballads, piuttosto in quello del pop da MTV Hitlist. Riappare qua e là qualche trama elettronica a sostenere la voce e il pianoforte. Il lavoro sui suoni è davvero elegante e curato, con una “forza orchestrale” ottenuta in studio che
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mitica Roland TB-303, macchina di cui Vibert è indiscutibile virtuoso. Dici 303 e pensi subito acid house, ma qui Chicago è solo uno dei tanti luoghi della memoria mostrati dalle undici diapositive che compongono l’album. Certo, stiamo parlando del tale che nel 2003 ha firmato uno dei più citati omaggi diretti a quel mondo (“I love Acid for the way it makes me move / I love Acid it’s the sound you can’t improve (…) I love Acid TB-303 romance / I love Acid it’ll put you in a trance”), ma l’album è assolutamente svincolato dai generi, per una ri-esplorazione di tecnologie ormai vintage ma ancora con possibilità inespresse. Poca nostalgia comunque, e molto savoir-faire. Il controllo sul mezzo è disarmante, al punto tale da subodorare in certi momenti l’uso del pilota automatico. Con la title track subito si svela il gioco: non interessa il rigore filo-analogico (la cowbell sintetica della 808 è campionata e trattata digitalmente), ma il puro gioco di riflessi. La sincopata Stabs Of Regrets e le triplette di Six Eight ci portano nelle atmosfere scanzonate delle graphic adventures di Leisure Suit Larry (territorio ora battuto, ma in maniera più ricca, anche da Todd Terje nel suo coevo primo album): l’epitome è Acage, dallo swingante e kitschtronico incedere in levare. In Acid Jacker la 303 torna a fare quello per cui era nata: la linea di basso pastosa e instabile. Acrobot è un ritorno sbilenco alle origini electro-funky-house, con finale a sorpresa. Overstand Me e cs303 sono demo perfette per mostrare le funzioni di accento e portamento della box Roland. La linea di Proper Gander sta al sequencer come l’arpeggio di Stairway To Heaven alla chitarra. Double Dipped Acid rimembra passati kraftwerkiani. Vortek riassume le tesi di fondo di un album impeccabile ma di maniera. Niente di nuovo sotto il sole della Cornovaglia, ma almeno non piove. 6.3/10
Genere: pop, 80s I tre album realizzati dalla giamaicana Grace Jones a inizi anni ’80, la cosiddetta Compass Point Trilogy prodotta da Chris Blackwell e Alex Sadkin su Island Record e registrata alle Bahamas (Warm Leatherette, 1980, Nightclubbing, 1981 e Living My Life, 1982) rappresentano a tutt’oggi un classico dello stile ’80, con il loro caldo mix di new wave, reggae rock, dub, funk, disco, arricchiti dalla personalità arty strabordante dell’artista icona di stile, ritornata tra l’altro di recente, a distanza di più di 20 anni, con un altro bel disco (Hurricane, 2008). Nightclubbing, quinto album in studio dell’ex-modella, esce ora rimasterizzato in doppio CD Deluxe Edition con remix e versioni 12” di Pull Up The Bumper (in diverse versioni, compreso uno strumentale, Peanut Butter, e il raro Party Version del 1981), Demolition Man, Feel Up e I’ve Seen That Face Before, la “long version” di Use Me già uscita sulla compila Private Life: The Compass Point Sessions e la versione in spagnolo di I’ve Seen That Face Before (Esta Cara Me Es Conocida), più due inediti (la cover di Me! I Disconnect From You dei Tubeway Army e If You Wanna Be My Lover). La celebre cover, dipinta dall’artista a partire da una foto di Jean Paul Goude, resta un modello di androginia, con la sua immagine maschile a base di giacca Armani e sigaretta sulle labbra. Nightclubbing rappresenta la sintesi migliore dello stile crossover di Grace Jones, che come negli altri due album della “trilogia” rilegge e fa suoi i brani, in questo caso Walking In The Rain (Flash and the Pan), Use Me (Bill Withers), Nightclubbing ( Iggy Pop e David Bowie), I’ve Seen That Face Before (Astor Piazzolla), Demolition Man (Sting), I’ve Done It Again (Marianne Faithfull), mentre tre pezzi sono co-scritti da lei (Feel Up, Art Groupie, Pull Up The Bumper). Il secondo CD ha il merito di raggruppare organicamente una serie di versioni sparse, mentre l’inedito If You Wanna Be My Lover è un reggae dub in perfetto stile con il resto, e lo stesso trattamento è riservato all’altro inedito, la cover dei Tubeway di Gary Numan, Me! I Disconnect From You. 7.5/10
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Grace Jones - Nightclubbing Deluxe Edition (Universal,2014)
Teresa Greco
non era presente nei lavori precedenti. Manca però qualcosa: il tocco personale di Lykke Li, sia in Wounded Rhymes che in Youth Novels - al di là delle scelte produttive -, la rendeva riconoscibile all’interno di percorsi già battuti da altri musicisti. Ma Just Like A Dream non sembra l’outtake di un album di Adele? Heart of Steel non potrebbe essere affidata a una Mariah Carey anni 2000? Dal punto di vista complessivo, però, il percor-
so si completa. Un disco originale (l’esordio) che fa alzare il sopracciglio alla critica e al pubblico più attento. Un disco energico (il secondo) che conquista palchi più rock e – potenzialmente – dà grande soddisfazione in versione live (vedi alla voce: festival). Un terzo che punta direttamente al mainstream senza più nascondersi. Si parlerà di evoluzione artistica, che di sicuro non sarà mancata, ma noi parleremmo anche di attente valutazione commer-
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ciali. Sì, stiamo assistendo al consolidamento di una popstar. 6.5/10 Marco Boscolo
Genere: juke_footwork, jungledrumnbass Il Machinedrum pre-2011 sembra uno dei tanti, uno destinato a cavalcare all’occorrenza le più svariate correnti elettroniche. Poi, nell’estate di quell’anno, densa di fermenti footwork in seguito alla compilation Bang and Works (Planet Mu), esce Room(s). Un album che – in un decennio che cerca nuovi riferimenti dopo quelli dubstep – riesce a levigare i purismi ghetto dei vari Dj Rashad, Spin, Nate, Diamond, e muoverli verso le suggestioni soul post-James Blake. Due anni più tardi arriva Vapor City, meticcio tra jungle e l’onda di rullanti secchi che torna a popolare i dancefloor inglesi, ricognizioni hip-hop (Friends Of Friends, Fade To Mind) e fascinazioni soulstep (Burial e compagnia). Fenris District è la mossa successiva, e Travis Stewart deve fare i conti con tutta una serie di sguardi, compresi quelli di coloro che hanno capito il suo gioco. Back Seat Ho e gli altri due inediti sono un ritorno al ghetto di Chicago. Un paradigma che viene sondato in diverse direzioni, vuoi con le bordate sintetiche della traccia d’apertura, vuoi con le ritmiche spezzate di classica 808 e pixel in cascata di marca Zomby (On My Mind). Anche in Neujack, niente di eccessivamente forward-thinking, ma c’è tutta la padronanza di cui Travis Stewart è capace. Poi i due remix. Rustie, che ha avuto un ruolo non secondario nel ritorno trap, sfoltisce Back Seat Ho da tutte le deviazioni post-ghetto e ci restituisce un footwork essenziale. Adrian Sherwood e Pinch rallentano i bpm di Eyesdontlie, singolo dell’anno scorso, e dispensano con perizia le
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Elia Galli
Magellano - Calci in culo (Garrincha Dischi,2014) Genere: pop, synthpop Viviamo in tempi isterici, irriverenti, si sa. A volte la musica ci riconcilia con mondi lontani, a volte con noi stessi, altre volte ci parla del mondo, dei tempi isterici, irriverenti, altre volte – ed arriviamo al caso dei Magellano – riproduce fedelmente l’isteria e l’irriverenza del nostro tempo. D’altronde chi conosce la storia del Pernazza (Ex-Otago, Chiambretti Night) lo sa: i suoi progetti sono fondati sul suo ego istrionico, sulla sua agitazione, sull’ansia esistenziale filtrata nelle sue rime. E i Magellano non sono da meno, con il loro electro pop in salsa reggae/dub, su cui si innesta quasi sempre quel “rap sbilenco”, che, se nei tempi degli Ex-Otago era tenuto a bada da una sostanziale melodia, ora è totalmente fuori controllo. Il secondo disco dei Magellano si chiama Calci in culo. E sembra di star dentro a qualche spring break della East Coast in cui, fra tipe, mare e fluorescenze, Skrillex e reggaeton, la cosa migliore che puoi fare per goderne, è farti di qualcosa. A loro vantaggio gioca una produzione irriverente, affidata all’LNRipley AleBavo, che fa suonare ogni pezzo come un estratto da Stomp, con bidoni di metallo e tamburi che incidono sull’avanzata. Al limite del mal di testa. Consci che l’obiettivo perseguito dalla band è proprio mirare alle sinapsi, rimane tra le mani un prodotto spiazzato e spiazzante, un
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Machinedrum - Fenris District EP (Ninja Tune,2014)
loro maniere ragga-dancehall (il primo) e postgarage (il secondo). Fenris District è l’esercizio di uno stile certificato. Machinedrum confeziona un EP che viaggia su binari già ampiamente battuti. Lavoro di transizione, ma transizione solida e di sostanza. 6.8/10
Nino Ciglio
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Management del Dolore PostOperatorio - McMao (Martelabel,2014) Genere: rock, art, indie, wave Dai tempi dell’esordio Mestruazioni – fanno ormai cinque anni – la band di Lanciano non si è evoluta granché, semmai sembra essersi concentrata a rendere sempre più tosto il tiro e riconoscibile la calligrafia, di per sé d’altronde già un bel mostriciattolo a base di punk rock abrasivo col vizietto wave/dance, frutto tardivo degli anni Zero, che all’imbronciamento generazionale d’un Vasco Brondi preferisce lo sdegno caustico di Zen Circus ed il disincanto senza appello d’un Paolo Zanardi, magari conditi con l’hybris chimica dei !!!. Cinque anni però non te li metti dietro le spalle come se niente fosse, c’è da fare i conti con la maturità, la stanchezza, l’esperienza, il logoramento delle intuizioni. Insomma: c’è da fare i conti. In questo senso l’opera terza McMao non si tira certo indietro. La formula viene riproposta e consolidata, il piglio è allo zenit, però forse le manca lo scatto in avanti decisivo, non c’è nulla cioè che nel sophomore Auff!! i MaDe DoPo non avessero affrontato con maggiore brillantezza e intensità. E’ buona Oggi chi sono, con quel modo svenevole di affrontare dandysmo decadente per material boys degli anni Dieci, così come quella Hanno ucciso un drogato che stempera gravità e voglia di riempire gli altoparlanti con soluzioni sonore più raffinate del solito (da qualche parte tra Notwist e Yuppie Flu, col fantasma di Rino Gaetano a mettere dita nel culo alla solennità). Niente male anche la cover di Fragole buone buone, che spennella di amarezza spigolosa e acidità sintetica la trepidazione sorniona dell’originale firmato Luca Carboni. Altrove, tuttavia, le tessere non vanno tutte a posto. In particolare, episodi come Il cantico delle fotografie e James Douglas Morrison sono buone idee che avrebbero meritato svi-
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ottovolante di suoni metropolitani da ascoltare in qualche block party clandestino, veloce, troppo veloce per essere goduto. Come un calcio in culo. Gli ospiti abbracciano i mondi delle sonorità dei Magellano: Raphael (personalità di spicco nel panorama reggae) accompagna il singolo Calci in culo, che fra Bomfunk MC’s e rime ossessivo-compulsive si addice (come forse consiglia la copertina) ad un clima da tagadà o autoscontro; meglio, a questo punto, la base jazzata e un po’ swing (che nel precedente Tutti a spasso faceva pensare a qualcosa dei Gorillaz) de Il terzo pezzo, con tutta la solita cascata di rime che solo Pernazza può concepire; così come cabarettistico e circense risulta essere il feat. della Swingalong Electro Arena in una ambigua e divertente Cerchi nel grano. Piccolo salto nel folk, con il kit del cantautore “indie”, scritto e redatto insieme a L’orso in La canzone dell’Okulele: fuori luogo è dir poco, ma per lo meno si ride. Forse i momenti migliori sono in apertura e in chiusura. Benvenuti/E se Einstein avesse ragione e Terminal, rispettivamente feat. Escobar e GnuQuartet, riescono a tradurre l’agitazione interiore in un mix veramente schizofrenico, in cui violini e melodie si scontrano con la finezza delle rime e l’ingenua (in senso buono) “tamarraggine” delle basi. Calci in culo alla fine diverte, malgrado si faccia non poca fatica ad arrivare alla fine senza schiacciare ogni tanto lo skip. Ciò non toglie che il passo indietro rispetto a Tutti a spasso rimane palpabile. Il primo era, infatti, un disco tenuto in qualche modo a bada dalla forma canzone (oltre che dall’idea del concept sul viaggio), questo Calci in culo raggiunge un’indomabilità che si fatica a concepire. 6/10
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Genere: cantautori, folk Quest’ultimo disco di Paolo Saporiti, edito per Orangehome records, è prima di tutto una sfida. Lo era stato già il disco precedente, L’ultimo ricatto, la cui minaccia era soprattutto rivolta a Paolo Saporiti da Paolo Saporiti. Ma ora, più che una scommessa sulle proprie – ormai indubbie – capacità artistiche, la nuova sfida è l’italiano. Con questo non vogliamo insinuare che il Nostro non l’abbia mai saputo parlare, anzi, ma prima l’italiano, nei suoi dischi, c’era e non c’era, era più ospite che padrone di casa. Ma proporsi così, sgombro dalla cantabilità dell’inglese, vuol dire farsi nuovo ai suoi occhi e ai nostri. L’avevamo lasciato alle prese con Teho Teardo – e chi lo recensì all’epoca fece bene ad approfittare dell’accoppiata per augurarne longevità – che poi però andò via, verso altri lidi. Successivamente Paolo ha incontrato Xabier Iriondo con cui ha stretto un sodalizio artistico molto proficuo e, a ben vedere, anche questo suo omonimo deve molto al chitarrista degli Afterhours, sia in termini di lavorazione che in termini di resa sul prodotto finito. In questa dozzina di brani, molto ruota attorno ad un’idea di polarizzazione i cui estremi sarebbero il minimalismo da una parte (Il vento dice addio alla luna) e l’orchestrazione dall’altra (Erica, canzone scritta a 18 anni, dove le estensioni ricordano Buckley e il fuzz lo fa subito dimenticare). Nel mezzo, il rumore e il canto diventano protagonisti. L’approccio progressivo nel canto di Paolo si trasforma leggermente col passare dei minuti e la sua dose di dolore si acuisce sempre più nel raccontare storie che hanno un peso e una fine (Cenere). L’autore prova ad andare oltre il cantautorato, si potrebbe tirare in ballo Brassens o De Andrè, ma parleremmo della causa e non dell’effetto: il lavoro di Iriondo sui field recordings crea, intorno al canto finissimo, ambienti e prospettive su cui poter tornare in futuro, magari spulciando percezioni ed echi lontani (Sangue, il brano più bello). Ma la produzione sposa bene le misure, parliamo quindi di eleganza e stile: l’accento posto a sensore di un romanticismo jazz attraverso le note dolci del Sax di Stefano Ferrian (L’effetto indesiderato di una violenza), l’intuito vocale di Paolo che gioca con speech level, senza esagerare col craft (Ho bisogno di te) e il ritornello così pulito e dal singalong grazioso (In un mondo migliore, Caro Presidente) vanno a comporre un mosaico di sogni nel cassetto. Oggi una pazienza, un rispetto per gli obiettivi e un’idea ben precisa di attesa circondano il Saporiti che ha tanto da esprimere e che forse ha assorbito il caldo e il freddo più di tanti altri nell’ambiente. 7.5/10 Christian Panzano
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Paolo Saporiti - Paolo Saporiti (Orange Home Records,2014)
luppi meno grossolani, vedi quei ritornelli che sembrano progettati per confezionare innodia sloganistica da palco. Da qualche parte tra la drammaticità cannibale di Requiem per una madre (con l’emotività gridata in versi quali “mi fanno schifo le cose belle perché non le puoi vedere tu“) e il malanimo dolciastro di La rapina colettiva (“ce la puoi fare amico, è come quando ti svegli col tuo stesso russare“) c’è il cuore di questa band, che non è ancora stata apprezzata per ciò che vale, e che forse proprio per questo rischia di svalutarsi cercando la pronta presa di groove arguti come Coccodé (ospite Lorenzo Kruger dei Nobraino) o il divertissement bandistico de Il cinematografo. 6.1/10
Mick Harvey - Intoxicated Man / Pink Elephants (Mute,2014) Genere: pop, rock, indie Scorrendo una delle varie antologie di Serge Gainsbourg, a un certo punto ci si imbatte in una sequenza che comprende Rock Around The Bunker, la cui intro col piano percosso a seguire la batteria si ritrova in tanti pezzi del primo Nick Cave, e poi Je Suis Venu Te Dire Que Je M’En Vais, il cui testo è accompagnato da una voce che singhiozza analoga a quella che si sente in The Kindness Of Strangers dello stesso Cave nel best seller Murder Ballads. L’anno prima Mick Harvey, che con Cave ha lavorato per due decenni, aveva pubblicato Intoxicated Man, il primo dei suoi due dischi dedicati al grande autore francese, rivelando così un rapporto di assonanze musicali che i toni della poetica dell’australiano, decisamente meno misurati rispetto a quelli pur spesso bizzarri dell’autore di Je t’aime…, avevano messo in ombra. Ma il senso dell’operazione non era rivelare come dietro al prezioso lavoro di arrangiatore e musicista di Harvey ci fosse qual-
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Stefano Solventi
cos’altro oltre al folk oscuro, al blues disperato e alla new wave più fragorosa, e nemmeno si trattava semplicemente di celebrare un amore con un tributo. Il disco infatti affrontava implicitamente la questione della poca disponibilità del pubblico anglosassone ad ascoltare chi cantava in un’altra lingua (e una certa sfiducia nei francesi come autori pop/rock), portando Harvey alla decisione di tradurre quelle canzoni per diffonderle come meritavano. Operazione tutt’altro che facile, visto che la poetica dell’autore era quella del gioco, del distacco, dei trucchi verbali, di un’espressione del sentimento filtrata sempre attraverso i virtuosismi linguistici e i riferimenti pop. Per di più, il buon Serge aveva l’abitudine di scriverli all’ultimo momento, in nave mentre andava a Londra a registrare i suoi album, e la fretta lo faceva sentire autorizzato a buttare dentro le canzoni qualsiasi idea gli passasse per la mente: Harvey infatti premette nelle note del disco che molte rime e finezze sono andate per forza di cose perdute (vedi le arguzie di L’anamour, perdute nella Non-affair di Pink Elephants), e “for this I make no apology”. Quel disco pone anche un altro paio di questioni. La prima è la varietà stilistica del buon Serge, sempre disposto ad esplorare strade nuove (dagli inizi chansonnier, al jazz, al periodo “percussion”, al funky con gli archi, fino i due dischi reggae registrati in Gamaica a fine ’70 e quelli funky-rap newyorchese degli anni ’80), varietà verso cui Harvey mostra chiaramente le sue preferenze. Se infatti era difficile immaginarsi Initials B.B. o Bonnie and Clyde senza quell’incedere ritmico e quegli archi che svolazzano incalzanti, in generale l’ex-Bad Seed lascia più o meno intatti gli arrangiamenti originali dei pezzi più classici (dalla title track a Ford Mustang e altre), definendo un suo approccio semmai in un suono tra un Cave senza frenesie e ansie e dei Calexico che ogni tanto
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delle onomatopee cantate da B.B. con effetti sonori veri. Per cui, vista la natura dei dischi come capitoli di un unico discorso, la ristampa in doppio era doverosa. 7.2/10 Giulio Pasquali
Moodymann - Moodymann (Mahogani Music,2014) Genere: house Paladino house della città dei motori, un tempo figura sfuggente e misteriosa, oggi riconoscibilissimo anche grazie all’harem che lo accompagna: Kenny Dixon Jr., seconda golden generation di Detroit, ritorna su Mahogani Music con Moodymann, album intitolato come il suo storico pseudonimo. Un disco che, in pieno stile dixioniano, raccoglie l’eredità della musica dei padri, e con questa racconta le storie di négritude nelle città di oggi. Abituato all’intransigenza vecchia scuola della stampa esclusiva su vinile, questa volta Moodymann opta per l’ecumenico rilascio nei più diversi formati, compreso quello digitale. Ed è proprio su quest’ultimo supporto, assieme a quello CD, che Dixon farcisce il suo lavoro di intermezzi, spezzoni, skit radiofonici e televisivi, tutti tesi a circostanziare ogni traccia. Siamo a Detroit, quella del ghetto, e queste cose nascono da qui. Rosa Parks, Martin Luther King, resoconti di ordinaria criminalità urbana, immagini di decadenza post-fordista. Un’esaltazione di tutto il disagio, presente e passato, delle generazioni nere motown. Non a caso il disco si chiude con Sloppy Cosmic, tributo ai Funkadelic, autentico lamento blues dalle periferie, emozionante simbolo di resistenza mista a rassegnazione (“don’t walk so smooth, things don’t seem to have changed that much / don’t walk so smooth, they’ve rearranged as such”) in una vita fatta di miserie. Il rimpian-
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jazzano; interviene invece su quelli dal periodo reggae in poi, regalando leggiadria da ninna nanna dream pop al carillon a Overseas Telegram, originariamente spedita da Kingston, ma anche a Lemon Incest, spogliata della maniera synth-funk ’80s-deteriori che caratterizzava l’originale. L’altra questione è quella che riguarda la difficoltà di stabilire compiutamente una “discografia di S.G.”, vista la pratica consueta di scrivere arrangiare e produrre canzoni e dischi interi per altri, in particolare donne, dalla compagna Jane Birkin, a Bambou, alla celebre, appunto, Brigitte Bardot: la ripresa di Harley Davidson fa riferimento alla versione incisa da B.B., cui era destinata in origine, visto che l’unica discograficamente a nome Gainsbourg è la versione reggae del live del 1980. Qui e negli altri brani con voce femminile, Harvey si affida ad Anita Lane, da sempre nel giro Cave – Harvey (che le ha anche prodotto i due dischi da sola), e che proprio insieme a Nick si cimenterà in un duetto per Je T’aime Moi Non Plus, la più famosa delle originali ma non la più riuscita tra queste cover (i due non si avvicinano nemmeno un po’ alla tensione erotica di Serge e Jane, limitandosi a giocarci). Quest’ultima faceva parte di un gruppo di canzoni avanzate dal disco e finite come b-side sue o della Lane: due anni dopo, Harvey le recupera unendole a quei pezzi rimasti incompleti di cui parlava nel booklet di Intoxicated Man, brani che completa da solo senza gli archi di Burgalat che avevano impreziosito il primo disco, mettendo così insieme un secondo volume che, contrariamente al modo in cui è stato assemblato, non risulta neanche raffazzonato: semplicemente chiude il discorso, tra le bellezze, ad esempio, di una The Ticket Puncher (Le poinçonneur de lilas) di cui mantiene il piglio (e non era facile) e qualche piccola caduta, vedi una Comic strip banalizzata dalla sostituzione
Elia Galli
My Sad Captains - Best Of Times (Bella Union,2014) Genere: indie Giunti al decimo anno di attività, i londinesi My Sad Captains arrivano al terzo album Best Of Times con Bella Union, label da sempre sinonimo di buona musica nell’ambito dell’in-
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die europeo e non solo. Un traguardo foriero di diverse aspettative, in primis quella di affermarsi in un panorama – quello dell’odierno altpop – già di per sé molto affollato e non sempre all’altezza degli standard di riferimento. Parliamo, infatti, di un disco che deve molto al minimalismo synth-wave degli anni ’80, in cui si intrecciano tastiere ed economie ambient, malinconie dreamy e chitarre elettriche: una formula a tratti abusata e resa spesso banale, ma che Ed Wallis e compagni dimostrano di saper rivisitare con buoni mezzi tecnici. In altre parole, la musica dei My Sad Captains cita, seziona e ricostruisce la magia sospesa tipica dei Cocteau Twins, affiancandola al cantautorato indie-rock in aria Elbow, con brani dove si mescolano coerentemente parole e atmosfere, suoni e suggestioni diverse fra loro ma niente affatto incompatibili. A cominciare dalla Goodbye che apre il disco, dominano irrequietezze e romanticismo wave che si ritrovano lungo tutto l’ascolto, declinate ora nelle pulsazioni electro-folk di Wide Open (arricchito con un falsetto alla Justin Vernon), ora nel quieto crescendo di In Time. Altri episodi portano alle dilatazioni shoegaze di All Times Into One, così come ad un songwriting intimista e prettamente acustico, ad esempio in All In Your Mind. Pezzi simili tra loro (a volte fin troppo), che rendono il mood dell’album sì coeso, ma a tratti monotono: anche se siamo di fronte ad un artigianato pop di buon livello, i My Sad Captains eccedono forse nella prudenza, laddove scrivere canzoni d’impatto significa (anche) aver voglia di esplorare i propri limiti e le proprie ossessioni. Per dirla meglio, Best Of Times è un disco formalmente impeccabile, in perfetto equilibrio tra acustica ed elettronica, dove si fondono elegantemente differenti tessuti musicali: quello che manca è semmai il coraggio di andare oltre un’ineccepibile moderazione.
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to di quello che poteva cambiare, però, trova spazio solo nei dodici minuti che riprendono i versi di George Clinton. Il nucleo dell’album, una decina di pezzi, è un continuo richiamo, venale e disincantato, alle suggestioni che hanno segnato la giovinezza di Dixon. Ci sono le impressioni funk sfumate jazz di Hold It Down, Ulooklykicecreaminthesummertyme e Desire, le aperture disco-music di I Got Werk e Come 2 Me, le deviazioni dancefloor a tinte cupe di No e Sunday Hotel. I numeri meno riusciti, come il rework di Born To Die di Lana Del Rey, o gli atteggiamenti simil-pop a bpm accelerato di Lyk U Use 2, pesano meno qui rispetto ad una loro ipotetica collocazione sulla distanza breve. Moodymann poggia la sua azione su fondamenta solide, sonda terreni già esplorati, non esita ad usare la sua voce, prima per inscenare rivendicazioni machiste, poi per affrancarsi dal resto del mondo in quanto local detroiter. Con la maggior parte delle tracce intorno ai quattro minuti di durata, ma senza velleità di formacanzone, siamo di fronte ad un album che può suonare eccessivamente frammentato (anche se, sul 12″, con la scrematura di tutti gli sketch e dei pezzi più incerti, le cose migliorano). Bisogna quindi considerarlo per quello che è, una raccolta sparsa di istantanee, tagli, intuizioni, sulla falsariga degli LP del collega di Chicago, Felix Da Housecat. Fotogrammi in sequenza dal cuore pulsante del Michigan. 6.9/10
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L’approccio del gruppo, infatti – per stessa ammissione di Wallis -, è “dare alle canzoni spazio e tranquillità per permettere loro di svilupparsi da sole, prendendo strade e deviazioni secondarie”, senza però, diciamo noi, trovare un vero focus in grado di alzare il piglio dell’album, così come di metterne in risalto la connettività emotiva. Nel complesso, dunque, gli ingredienti per una buona riuscita ci sono tutti – suoni, scrittura, voce -, anche se manca ancora quella dose necessaria di personalità in grado far emergere il vero potenziale di un gruppo discreto, ma non ancora buono. 6.6/10 Giulia Antelli
Genere: cantautori, indie Nella amata-odiata scena del “neocantautorato”, Carnesi è quello che sta un po’ più scomodo. Certo, ci rientra a pieno titolo, non solo perché i suoi brani nascono probabilmente chitarra, biro e voce, ma anche perché ha quel tocco un po’ naif, amoroso-malinconico, timido e soprattutto presuntuosamente ironico. Ma è il più giovane e forse quello che sente meno il peso di Battisti sul groppone; è il più aggiornato e forse desideroso di scrollarsi di dosso l’etichetta di triste cantautore intimista e vecchio stile. Lo aspettiamo al varco, sapendo che, passo dopo passo, ce la potrà fare, assumendo un songwriting un po’ meno ruffiano e provinciale, forzando su quelle tecniche synthpop che già si sentivano nel primo Gli eroi non escono il sabato e che in questo Ho una galassia nell’armadio irrompono a metà. Soprattutto se l’intento (come ha dichiarato) è quello di tagliar corto sui propri moti interiori, sul proprio vissuto e guardare piuttosto al mondo fuori con approccio poetico e universale; analizzare universi paralleli e reazioni complementari
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Nicolò Carnesi - Ho una galassia nell’armadio (Malintenti Dischi,2014)
nelle corde di questi di dieci brani; sublimare la fisica quantistica e i massimi sistemi nel pop, manco fosse Battiato. Eppure il disco parte forte, fortissimo. Sarà la produzione di Tommaso Colliva, le ritmiche dei Selton, il piglio di Dimartino, gli archi di Rodrigo D’Erasmo o la multiforme esperienza di polistrumentista del cantautore di Palermo; sarà un mese di ritiro a New York o il trasferimento dall’arida Palermo alla piovosa Milano; saranno decine e decine di concerti al fianco di Brunori, Dente, Lo stato sociale, ecc… ma Ho una galassia nell’armadio e Il disegno suonano veramente fresche. L’una, con lo spessore dei synth in salsa anni ’80, la voce moderatamente tenuta a bada, la struttura equilibrata e una coda che quasi sembra venire fuori dagli Scisma, è un discreto aggiornamento italofono del french touch di Phoenix et similia. L’altra, che come Ho poca fantasia inizia citando spudoratamente i Drums, ha un piglio new wave, sicuro e determinato, con la batteria che macina chilometri sotto le armonizzazioni. Peccato che questi fortunati episodi si ripetano solo altre due volte: in La grande fuga di Alberto e Gli eroi non escono il sabato, che, fra Phoenix e Air, Einstein, materia antigravitazionale e vita sociale, tengono alto il morale lirico e strumentale del disco. Già perché, malgrado lo sforzo, malgrado le strategie dei testi sempre ben costruite sull’infrazione emozionale, sul fraintendimento, sull’effetto sorpresa (“Fra il dire e il fare c’è di mezzo un mare di cazzate”), gli altri brani non sono all’altezza. Come se il carburante antiomologante (al cantautorato intimista, all’indie, al resto del mondo) fosse finito. In L’ultima fermata e Numeri, il pronome personale “io” torna ad imperare con consequenziale appiattimento della trama e degli arrangiamenti, scialbi e un po’ noiosi. Delle due, meglio il retaggio di This Must Be The Place di Proverbiale, che,
seppure semplice, almeno diverte col suo piglio tropicale. Sempre e comunque preferibile a La rotazione, ennesimo omaggio a Rino Gaetano, di cui, onestamente, non si sentiva proprio il bisogno. In definitiva, Ho una galassia nell’armadio ha tutta l’aria di essere (per chi – come chi scrive – ci spera ancora) un album di transizione, che, non potendo sacrificare del tutto i padri che l’hanno generato, tenta soluzioni momentanee di distaccamento, finendo, pur con alcuni episodi validissimi, un po’ disperso. 6.5/10 Nino Ciglio
Genere: psych, ambient Nino Bruno come i British Sea Power? Potenza della casualità: la band inglese usciva a fine 2013 con From the Sea to the Land Beyond, colonna sonora dell’omonimo film dedicato alle coste inglesi, e il nostro Bruno pubblica a febbraio 2014 Posidonia. I fondali della metropoli, soundtrack ufficiale dell’omonimo documentario di Marcello Anselmo dedicato alla linea costiera, emersa e sommersa, prossima alla città di Napoli. Banalmente, una coincidenza, che tuttavia sottolinea ancora una volta quanto gli ambienti “marini” siano da sempre un carburante nobile per la musica, e in particolare per quella più avventurosa. Tanto più quelli di Anselmo, che nello specifico raccontano “il rapporto viscerale che lega l’elemento marino e la città attraverso la narrazione (auto)biografica di Claudio Ripa, storico subacqueo partenopeo, profondo conoscitore dei fondali metropolitani e già campione del mondo di Apnea nel 1959. La voce di Ripa accompagna il pubblico attraverso lo spazio emerso e sommerso della città a partire dall’area portuale passando per San
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Nino Bruno - Posidonia. I fondali della metropoli (Autoprodotto,2014)
Giovanni a Tedduccio e Bagnoli, le due zone urbane che hanno vissuto dapprima l’industrializzazione e negli ultimi anni un devastante fenomeno di deindustrializzazione e desertificazione”. Chiamato a musicare, Nino Bruno fa quello che gli riesce meglio, ovvero valorizzare il tutto con un mix di psichedelia pinkfloydiana in scala ridotta (soprattutto altezza A Saucerful Of Secrets, ascoltatevi Pacchetto magico), ambienti minimali in linea con il Dogma 8 – in cui rientra anche l’uso di registratori a bobina, sia in fase di ripresa che di missaggio, e quindi una dinamica del suono ormai introvabile nell’attuale era della pessima qualità audio -, vaghe rimembranze da pioniere cosmico tedesco, spauracchi beat dalla produzione passata del musicista disciolti in brume soffici (Una moneta in tasca una corona in testa). Il tutto col consueto taglio artigianale, un po’ “vecchio stile” ma non nostalgico, fuori dall’attualità più inconsistente e distante da ogni supponente dichiarazione di appartenenza stilistica. Nel caso specifico, si tratta di fare ambient senza essere strettamente del mestiere; generalizzando, il lavoro di Bruno è quello che distingue un musicista da un abile replicante bisognoso di follower. Questo disco, col suo sedurre senza forzare la mano ma anche senza mostrare timori reverenziali, ne è in tutto e per tutto una prova. 6.9/10 Fabrizio Zampighi
Ninos Du Brasil - Novos Mistérios (Hospital Productions,2014) Genere: techno, world_etnica Dopo l’esordio, è sempre difficile mantenere alta la guardia; la proposta si lega al nome e cambiare può essere un rischio anche per i più scafati. Come pure possono esserlo l’ortodossia e il link al proprio stile in via di codifica. I Ni-
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Noxagt - Brutage (Drid Machine,2014) Genere: rock, noise Non fai in tempo a darli per dispersi che si ripresentano non con un album, bensì con due. I Noxagt, trio scandinavo che si è fatto apprezzare per un sound duro e senza compromessi, torna dopo uno iato che ormai consideravamo perenne e dopo un cambio di formazione che vede l’avvicendamento del chitarrista: John Egre dei Jazzkammer, altra congrega non propriamente di educande, al posto di Anders
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Hana (già Ultralyd e con la sua chitarra baritono a suo tempo sostituta della viola di Nils Erga), va a supportare la sezione ritmica dei fondatori Kjetil Brandsdal (basso) e Jan Christian Lauritzen (batteria). Nessun terremoto, comunque, dato che il magma sonoro del trio non si sposta da ciò che era stato sapientemente condensato in Noxagt, ultimo domicilio conosciuto e garantito dal marchio Load. Dopo una breve intro noise che mette già sui giusti binari, quattro estenuanti tracce di noise materico: spossante e opprimente come dei Melvins infilati in una catena di montaggio (You Were Followed By A Man From The Station To Your House), vorticante come un jet impazzito e prossimo al collasso strutturale (Someone Calls You Every Night But Says Nothing. You Can’t Sleep), su midtempo che grondano acciaio fuso (A Colleague Came To Your House And Punched You. Your Room Became Very Messy), per placarsi con una conclusiva A Drunken Person Kicked You At The Station And You Had To Go To The Hospital che è una nenia ancor più opprimente del maelström sonoro delle precedenti tracce. Da notare, l’innata simpatia e la ventata di ottimismo dei titoli delle tracce, in linea con lo humour scandinavo. In Collection I, invece, i tre compilano un po’ di materiale sparso e unreleased del periodo 20112004 con più di qualche cicchetta, e la cosa si fa insieme più interessante e più varia, data la presenza, all’epoca, della viola impazzita di Nils Erga. Pezzi da Peel Sessions (Titanic), live on stage (una Thurmaston/Karsk My Bitch Up piena di sadismo ironico, una Powerchild che è pure monocromo pachidermico, Mek It Burn, Gravy and Blood) o alla radio (Piranha catturata alla KFJC radio di L.A.), qualche inedito dall’abortito album d’esordio Saemon Box (l’opener noise di Love Transfusion e la bellissima AbdelWahab, tra umori mediorientali e sconquassi
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nos sembrano rimanere attaccati alla proposta tribale dell’esordio Muito N.D.B., ma il collante non è poi così ingombrante. Certo, l’effetto sorpresa non colpisce più al cuore come due anni fa, ma l’energia nelle tracce sembra esplodere in un carnevale che ricorda la lezione delle fanfare di Ricardo Villalobos, tagliando il tutto con uno spirito sudamericano meno pronunciato dell’esordio. Il disco dei Ninos – stampato sull’etichetta newyorchese di Dominick Fernow / Prurient – viaggia quindi ancora sull’onda della ‘wave’ tribale che sta animando l’underground italiano (Essenghelo Tropical, Miragem, Sepultura), ma diventa più interessante quando si stabiliscono legami più forti con la minimal (l’eredità pesante di Richie Hawtin in Legiões De Cupins) e con certe infatuazioni rave Novanta à la Orbital (Sombra Da Lua). Togliersi di dosso la tag tribal sarà impresa lunga e non è detto che il gruppo necessiti della svolta al 100%, ma da quello che sentiamo, una maggior attenzione ai suoni da club puro potrebbe portare i due artisti veneti al botto non derivativo (vedi le esplorazioni psichedeliche nella conclusiva titletrack e l’annunciata collaborazione per un 12” con la DFA). Aspettiamo i prossimi sviluppi. 6.5/10
sonici) e la splendida chicca finale con Billy Anderson a mettere la voce nel devasto di Acasta Gneiss, ci dicono di una band agli esordi sempre rocciosa e ostica ma meno monolitica rispetto alle successive evoluzioni. 7/10 Stefano Pifferi
Genere: hiphop Onyx ancora. #WakeDaFucUp (Mad Money, 2014). Sticky Fingaz, Sonny Seeza e Fredro Starr, MCs hardcore rap del Queens, N.Y., segnano gli anni ’90: tre dischi su Def Jam, Bacdafucup (’93), All We Got Iz Us (‘95) e Shut ‘Em Down (‘98), primi due miliari e terzo meno in tiro; arrivano alla notorietà, partecipando alla colonna-sonora seminale, che conciliava scena metal/alt-rock e hardcorerap; la pellicola era Judgement Night, thriller sottotono diretto da Stephen Hopkins, anno ’93: in tracklist, assieme al versus tra Onyx e Biohazard, gli House of Pain in combutta con gli Helmet in Just Another Victim, Kid / solo una vittima in più, ragazzo. Pezzo senza/oltre confine. Tornano, a undici anni da Triggernometry, ed è la quinta uscita. Sticky Fingaz riassume il passato: as far as I can ‘member I’ve been on the wrong path / da quando posso ricordare, sono stato dalla parte sbagliata. La produzione del disco è a cura Snowgoons, crew-tedesca di produttori (Det, DJ Illegal, Sicknature e J.S. Kuster) in attività dal ’99. È la conferma che la Germania anni ’00 e ’10 è territorio cardine della scena underground di produttori hiphop per livello tecnico e visione complessiva (vedi Melting Pot, etc.). #WakeDaFucUp è stato fatto senza Sonny Seeza, non una mancanza da poco, ma Sticky Fingaz e Fredro Starr fanno il loro dovere anche senza di lui. Al mic
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Onyx - #Wakedafuckup (Mad Money,2014)
chiamano su We Don’t Fuckin Care A$AP Ferg, membro del collettivo di Harlem N.Y. A$AP Mob. Sullo stesso brano anche Sean Price, MCleggenda ancora di N.Y., ma di Brooklyn. It’s New York to the fullest, we don’t bow / Questa è New York al massimo, noi non ci inginocchiamo: è il concetto-base del confronto tra la No-York di ieri – Onyx -, che ha altro da spiegare, e di oggi – A$AP Ferg -, che ha molto da vomitare, il tutto con la mediazione – Sean Price – di chi ha vissuto tre decadi: anni ‘90 [ascolta: Heltah Skeltah e For The People (1997) dei Boot Camp Clik], anni ’00 [ascolta: Monkey Barz (2005)] e ‘10 [ascolta: Random Axe (2011) dei Random Axe]. Poi ci sono anche Reks (check-one 4 da team! / check-one per la squadra!), Papoose (“Let’s take it back to The Tunnel! / Torniamo indietro al Tunnel!”), Snak the Ripper (rappin’ with the Onyx, niggas back with the force / rappando con gli Onyx, niggas indietro di forza). La produzione è relativa: gli Snowgoons creano un suono nuovo per Onyx, su cui il flow scivola. La claustrofobia cresce dietro i samples: i beats si ritorcono su se stessi e rimangono come inespressi appieno, invece di aprirsi. Questo aspetto è alla base del clima di sospetto-tensione di #WakeDaFucUp; la tensione sale ogni traccia di più. Le batterie calpestano e sono secche, chiudono i versi con cassa e rullante. Gli scratches massivi sono su Boom!, Hustin Hour (feat. Makem Pay) e The Tunnel (feat. Papoose and Cormega), è tecnica philadelphia-na, stile Premier. Disco a livello omogeneo: no apici, no cadute. Nessun attimo di respiro/morbidezza: crudo e rauco, procede avanti, senza sosta. È hardcorerap, scuola anni ’90. Testi g-rap (“Hip Hop purists, prestige lyrical flow gods / hip-hop puristi, del flusso lirico di prestigio Dei”). Violenza horrorcore per risvegliare la scena, Sticky Fingaz è fuori controllo: “my face the last thing you see
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Genere: psych, art, punk, wave Tutto nato fra Pontassieve e Pelago, forse in un camminamento medioevale che giunge ad una collina – quello di Nipozzano nella fattispecie – da cui fuoriescono chimerici i capricci sonori di Jacopo Andreini, polistrumentista attualmente dietro le pelli di L’Enfance Rouge, ma poi agitatore di tante belle realtà, nuclei e situazionismi. Il progetto in questione prende il nome di Squarcicatrici e ha già seminato, lungo la via, morti e feriti fra la transumanza indiana cantata, suonata e scritta. Esordio calmierato nel 2006 con un album in proprio, chè già il titolo la diceva lunga o breve, ditemi voi: Bossa storta. Sophomore, tre anni dopo, con moniker e titolo identici – Squarcicatrici per l’appunto – dove non erano più solo avvisaglie le ritmiche deviate, l’incrocio di scale e modi, il tempo bizzarro, ma certezze e, per dirla fuori dai denti, ci si affrancava dal Mediterraneo per un più bastardo jazz a scansioni afro-punk (o chiamatele come volete), giro Les Negresses Vertes o, meglio ancora, Les Hurlements d’Leo. Molta Francia, verrebbe da dire, o molto di ex colonie francesi, ma l’approccio parafrasa, per usare un eufemismo, l’etnoworld, sfanculandolo alla bisogna. La terza lancia in faccia arriva sempre da quella collina, un po’ sospesa nei dirupi o indecisa, dipende dai punti di vista, fra cassero e valle dell’Arno. Andreini l’ha battezzata Zen Crust, che traslato dice rabbia zen, tanto per confondere di più le carte in tavola. 14 brani in cui la prima vittima sembra essere la melodia – tagliuzzata, poi ricomposta, resa sostenuta e poi nuovamente sbuffata al vento – per poter inarcare le armonie con graffi di mondi distanti. Pare un curriculum vitae. Molto è già bello che scritto nel progetto francese dell’Enfance, ma l’animo di Jacopo, almeno in terra natia, non è irruento come quello del suo amico chitarrista Francois Cambuzat. È un lavoro di impasti molto concentrati, quello dell’ormai ensemble capeggiato dal toscano, dove l’agogica viene spesso serragliata da una concatenazione di frasi che sgozzano la sintesi. Avant sì, ma fatto di sillabe globaliste. Lo si stana nel prologo di Bilaa Jawaaz Safar, nel kolo free di Apopse Pethainei o Fasismos, nella melopea furtiva e lignea di Fremente e in tanto altro, spiluccando bene nell’ora scarsa. E come era scontato che fosse, in ogni traccia sono mondi che emergono, belli da risentire. Album di tinte e sensazioni. 7.5/10 Christian Panzano
besides my strap – birth take 9 months, but with a 9 mill’ you die like that / vedi la mia faccia, ultima roba oltre la mia cinghia – nove mesi prende la nascita, ma con una 9 mill’ tu muori così”, e Fredro Starr intima: “the kickback from the pistol will break ya wrists – then I’ll put you six-feet in the ground and take a piss / il contrac-
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colpo della mia pistola ti romperà i polsi - poi ti sotterro, sei-piedi sotto il suolo e piscio”. Il senso del ritorno degli Onyx è una lezione di street-rap: pulsazione violenta contro la contaminazione pop-mainstream. Il principio è: non accettiamo l’evoluzione della scena, troppo morbida, ora la risvegliamo noi. La scena del
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Squarcicatrici - Zen Crust (Escape From Today,2014)
Queens anni ’90 sente il puzzo della presunta decadenza, si risvegliano Havoc e Prodigy, vedi The Infamous Mobb Deep, citati da Fredro Starr in soccorso su Tunnel (“as soon as they play Shook Ones / appena loro suonano Shook Ones”). Il disco funziona, la lezione purista si accetta, a Onyx è concesso questo e altro. Bacdafucup e All We Got Iz Us rimangono parecchio lontani e gli Snowgoons complici della distanza. 7/10 Emiliano Santoro
Genere: post-punk, post-rock Quartetto formato da Matt May (tastiere), Ben Stidworthy (basso), Tim Keen (batteria, violino) e Tim Beeler (voce, chitarra) gli Ought sono una piccola mosca bianca nel recente catalogo Constellation. Corposi e materici rappresentano la versione 2.0 del classico gruppo indie, ben distanti dalle solenni architetture o dagli scarti in avant-i che molti colleghi di etichetta – dai GY!BE a Stetson, da Matana Roberts a A Silver Mt Zion – hanno portato a compimento negli ultimi 12-24 mesi. Otto tracce ben eseguite ed elaborate nel tentativo di riprodurre una cosmogonia di riferimento indie-pendente che, se guadagna in freschezza e coinvolgimento, perde in originalità e compattezza, vista la eccessiva eterogeneità del lavoro. Un bignamino, in buona sostanza, di stralci Sonic Youth di mezzo (Around Again potrebbe appartenere a Experimental Jet-Set, Trash And No Star), filigrane Talking Heads (con Habit siamo quasi al livello dell’outtake), slanci oltre-punk made in The Ex col basso a guidare le danze (Pleasant Heart), riflessioni introspettive in modalità post-rock dei tempi che furono con tanto di crescendo e catarsi alla Lungfish (la semi title-track Today, More Than
Stefano Pifferi
Philos - Interno 3 (A Buzz Supreme,2014) Genere: rock Un quarto di JoplinandBig Brother, un altro di Canned Heat, mezzo Bennato e il resto è gioia sincera che ricorda Giorgia o Libera Velo. In sintesi, country pop, più pop che country. Interno 3 è il terzo album dei Philos. Vi si possono trovare ricami à la Vince Gill (Passato di una piccola città, Ambaradan), saltimbanco bubblegum rockabilly (Non servono soldi) revival canzonetta (Cambia vita) senso orchestrale à la Delta V e tanto Sanremo (Pallottole d’argento), scuola romana vecchia e nuova (Manca un’ora, Non c’è bisogno) e prog-black (Le tentazioni di S.Antonio). La voce di Sara Piaggesi, lucida e dinamica, non sbaglia mai, anche se tende a non rischiare più di tanto; i testi sono ironici e denotano una bravura rara oggigiorno nel condire temi personali e collettivi (Apriamo un bar). I brani più costruiti, quelli dove le ridondanze vengono esaltate, devono molto forse a Vittorio Descalzi, oltre che ad una personale capacità tecnica di Michele Malasoma alla batteria, ma il resto spreca poco e dà forma ad una bella identità. Interno 3 è il salto di qualità che ci si aspetta dopo album quali Ask e All Things Philos, e guarda caso tutto questo coincide con la scelta, onestissima, di cantare in italiano, accantonando, magari solo pro tempore, l’inglese di tutti, di troppi. Meno di tre quarti d’ora che, senza
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Ought - More Than Any Other Day (Constellation Records,2014)
Any Other Day), una spruzzata di post-punk primigenio inglese (Clarity!), intarsi di chitarre alla maniera dei migliori Television e via discorrendo, che si fa ascoltare ma non aggiunge né toglie nulla al già noto, scivolando verso la terra di mezzo dell’inutilità. Uno spreco, a dirla tutta, viste le possibilità. 6/10
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inventare poi chissà cosa, scivolano via che è una bellezza. 6.8/10 Christian Panzano
Genere: rock, folk Con Get Back i Pink Mountaintops arrivano al quarto disco, ed è segno che Stephen McBean ci crede davvero in questa carriera solista lontano dai Black Mountain. Stavolta poi il Nostro ha fatto le cose in grande, con una manciata di ospiti importanti (a partire da J Mascis) e una nuova immagine da offrire al suo pubblico, ridefinita nel mare magnum dell’indie lo-fi; in questo senso possiamo leggere le dichiarazioni di Jagjaguwar, pronta a giurare che North Hollywood Microwaves è la canzone più sporca mai registrata a casa loro (ma loro registrano sempre con la colf, mica sono la Siltbreeze) e i video in salsa d.i.y. che vanno a ripescare l’immagine in VHS. L’operazione lo-fi è perlopiù un fuoco di paglia ma non intacca il valore di Get Back, ennesimo disco indie rock infarcito di risvolti psichedelici che pare ancora più ludico dei suoi predecessori. Si ha quasi l’impressione di assistere alla sindrome di Peter Pan del 45enne McBean, un viaggio a ritroso verso l’adolescenza con parecchi episodi teen (Through all the worry o Shakedown), amore per il rock’n'roll (la famosa North Hollywood microwaves, che segue il filo giocoso della Dot wiggin band) e immancabili piccole malinconie, come la cavalcata spruzzata di western che è Wheels. Ed è questa voglia di gioventù, in fondo, la peculiarità di Get Back, al netto delle scrittura psych sempre molto variegata che spazia dal motorik di Ambulance City ai classici seventies americani. Certo, non è un disco che farà Storia, perché si trova qualche passaggio a vuoto (Sixteen) e non
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Pixies - Indie Cindy (Self Released,2014) Genere: rock C’è sempre stata almeno una goccia di veleno nel cocktail cazzone e scellerato dei Pixies, una nota di angst esistenziale che lo rendeva inquietante nel momento stesso in cui ti caricava a pallettoni, solleticandoti il lato liberatorio della ferocia. Un gioco da cui uscivi felicemente stremato e con qualche livido invisibile con cui fare i conti per un pezzo. Non stupisce che Cobain ne fosse così innamorato. Il che ci offre il destro per una domanda retorica facilona: a Kurt buonanima piacerebbero i Pixies di Indie Cindy? C’è di che dubitarne. Un po’ come chiedere ad un appassionato di tequila di convertirsi al bacardi breeze. Voglio dire, il caro Frank non ha perso il vizio di sfornare incastri melodici killer, una ricetta basale che ti si appiccica come il bostik ai circuiti neuronali. Infatti nella dozzina di pezzi nuovi si possono pescare tre o quattro potenziali hit (la psicosi asprigna di Magdalena, la schizofrenia accomodante della title track, l’uggia dolciastra di Greens And Blues e fors’anche una Another Toe In The Ocean che chiama i Foo Fighters a carezzare tessiture vocali quasi – sottolineo il quasi – Beach Boys), però manca tutto il resto, cioè il rovello di chi cova un’ombra nel cuore, una spina nell’anima, un mostro nello stomaco. Queste canzoni sembrano scritte, suonate e cantate da una band di discreti imitatori dei Pixies che nel frattempo si sono ascoltati una paio di volte di troppo gli Smash Mouth. Ca-
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Pink Mountaintops - Get Back (Jagjaguwar,2014)
c’è un vero salto di qualità rispetto al passato. L’impegno profuso da McBean per aggiornare la formula Pink Mountaintops, comunque, ha dato frutti assolutamente apprezzabili. 7.1/10
paci oltretutto e ovviamente di un paio di cadute davvero rovinose, come la caciara AC/DC di Blues Eyed Hexe o una Jamie Bravo scritta col piede mancino. I Pixies del 2014 sono un baraccone tridimensionale senza sceneggiatura. Così inutilmente catchy che non riesci neppure a detestarli. 5/10 Stefano Solventi
Genere: techno Ripensando al 2011, Scintilli è stato un grande ritorno per il duo londinese capostipite, assieme a Boards Of Canada, Autechre e Aphex Twin, di un suono dalle radici techno ma capace, in particolare nel loro caso, di trasfigurare in un mutante e colorato massimalismo. La cifra stilistica dei Nostri, del resto, la conosciamo bene e tornare a riavvolgere il nastro fin alle origini della loro storia, ai tempi in cui Ed Handley e Andy Turner si firmavano Black Dog con Ken Downie, non può che essere una salutare conferma di un sound mai meno che incantevole e di un percorso che da allora a oggi non ha tradito la missiva iniziale, ovvero concatenare melodia e ritmo secondo le simmetrie, le logiche e le influenze più disparate. Reachy Prints, pubblicato a distanza dall’ultimo lavoro su commissione (la colonna sonora The Carp And The Seagull), prosegue il cammino sonico dei due con un approccio più di sintesi, come se i Nostri ripartissero dal dopo split con Downie da un’angolazione maggiormente slacciata rispetto all’estetica techno (e al suo portato futurista), a favore del quadretto melodico. Rispetto a Scintilli, sono dei Plaid più focalizzati nella descrizione dell’attimo, del momentum, intenti a catturare scene di vita, quasi volessero dare una risposta folktronico/ suburbana al senso di catastrofe imminente
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Plaid - Reachy Prints (Warp Records,2014)
degli ultimi Boards Of Canada. All’incrocio tra suonato e sintetico della precedente prova si affaccia in Reachy Prints un sound di strumenti più camuffati elettronicamente; agli smalti orientali e al portato di fascinazioni legate al balletto, si oppone una tracklist più compatta, magari in convergenza parallela rispetto a certo stepping sincopato a sostegno, certamente più aerea, ricca di polveri di stelle e vocalizzi simulati alle tastiere. E, soprattutto, non mancano i colpi da maestro: quella Hawkmoth che è puro rapimento, già storia, l’iniziale Oh dove delicatezza e nervi sottopelle incontrano alcuni raffinati smalti latini mimati sul finale, un dittico a livelli eccelsi che il resto della scaletta contrappunterà con esperienza e cuore, con altre emozioni tra le pause e le note ascensionali di Nafovanny, tra le lande bucoliche Liverpool St. e Wallett o nei passi nella notte di Ropen. Infine ritroviamo alcuni tagli synth pop, una discreta Slam con pensieri e notti stellate dipinti con la solita classe o una traccia più quadrata e spiritosa come Maritn Lunaire. 7.2/10 Edoardo Bridda
Prizeday - Apps Will Grow Like Feathers (ByeByte,2014) Genere: brit, rock Edito per Bye byte, il disco è l’esordio del quartetto, per metà di stanza a Londra e per l’altra a Milano, capitanato da Vittorio Tolomeo aka Quarry. L’album segue una serie di live importanti in giro per il Regno Unito, base fondante di questo debutto. Tutte le tracce sono velate da un un senso plastico del rock; resa climatica brano dopo brano e uniformità d’intenti fanno il resto e spesso denotano una cura molto tattica dei dettagli. Tanti gli stimoli, geograficamente ben localizzate le influenze: Bowie, U2, Depeche Mode, Suicide, tutto dentro una
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Genere: rock, psych Sembra, a giudicare dalle distanze di questo To Be Kind, che Michael Gira e soci ormai non si scomodino nemmeno se non per tirare fuori due ore di musica. Triplo vinile e doppio CD il precedente The Seer, identico formato – 10 tracce per due ore di musica – per questo ennesimo monolite e identiche pure le atmosfere, tanto dilatate quanto oppressive, che fecero di quel disco uno dei più acclamati del 2012. Mettiamoci anche che le composizioni sono state sviluppate, ammissione sempre del vecchio col cappello, durante il tour dell’album precedente – sorta di rodaggio on stage che ultimamente fa parte della pratica Giriana – ed ecco che viene facile pensare ad un album gemello (seppur diverso). A venire duplicate, in quella che sembra ormai a tutti gli effetti la nuova era degli Swans – la terza? la quarta? l’ennesima? – sono, infatti, anche le atmosfere e l’immaginario evocato: imponenti ed epiche le prime, quanto soffocante e intrinsecamente swansiano il secondo, senza però mai cedere alle tentazioni più ferinamente cupe e violentemente nichiliste del passato. Ad avvalorare la tesi del disco gemello, poi, la centralità del monolite Bring The Sun / Toussain L’Overture che per durata (34 minuti) e peso specifico, gioca lo stesso ruolo paradigmatico della title track nel precedente. L’alternanza, cioè, delle aperture più ossessivamente e reiteratamente noise, tribali, acide e dilatate che lì erano l’architrave del pezzo e specchio dell’album tutto, con momenti più (ehm) riflessivi ed una non celata preferenza per una sorta di “endless groove”: una sciamanica nenia si materializza nella parte iniziale da una nebulosa noise alla maniera di cui sopra (come degli Om che guardino all’Inferno più che al Paradiso), ossia sognante e trascendente, per poi risalire vertiginosamente in un maelstrom violentissimo, riacquietarsi, trasfigurarsi in un delirio stregonesco e infine esplodere in una sorta di white noise del dopo-bomba. Sulla falsariga di questo canovaccio – accomunate da un saliscendi umorale in cui le “classiche” dicotomie swansiane alto/basso, pieno/vuoto, trascendente/immanente, spirituale/carnale and so on trovano la loro compiutezza – si muovono le restanti tracce. Tra cavalcate in crescendo (Nathalie Neal, con chiosa intimista da brividi), crooning malato e devasto noise (la title track, piccola summa Giriana tra insanità Angels Of Light e escrescenze noise), “blues” catacombale d’impatto (Just A Little Boy (For Chester Burnett)), stomp rock malatamente circense (A Little God In My Hands), noise-rock circolare e reiterato (Screen Shot), reminiscenze dell’età di mezzo (una She Loves Us!, monumentale nella sua ossessività) è come al solito l’insieme del tutto a dare un senso ai dettagli e ai singoli pezzi. È ormai acclarato come sia proprio questa idea “totalizzante” – che unisca, cioè, performance live e riduzione discografica, assieme alla perenne ricerca di una “heavyness” ideale più che materiale, disturbante piuttosto che apertamente violenta – la chiave di volta per introdursi in questa nuova era degli Swans. In cui Gira è ormai il santone/padre-padrone (ma lo è sempre stato, no? leggete l’intervista su questo numero per fugare ogni dubbio) cui interessa poco essere kind o meno, accondiscendente o meno, ed in cui è il moloch ad essere posto al centro di tutto. Il sacrificio di chi ascolta è la via per la sua personale catarsi. Cosa resta se non abbandonarsi? 7.3/10 Stefano Pifferi
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Swans - To Be Kind (Mute,2014)
Christian Panzano
Progetto Panico - Vivere stanca (Tirreno Dischi,2014) Genere: rock I Progetto Panico sono una di quelle testimonianze che sottolineano come l’autoproduzione abbia ancora senso di esistere. Formatosi a Spoleto nel 2010 e autodefinitosi “paraculpunk” (il che, parliamoci chiaro, la dice già lunga), il trio ha all’attivo un EP autoprodotto nel 2011 e due lavori in studio. Il primo, Maciste in paranoia, è anch’esso il frutto un’apprezzabile etica DIY. Uscito appena un anno fa, questo album ha giocato il fondamentale ruolo di apripista alla
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scena alternativa italiana dura e pura. Il merito è sicuramente della costante attività live che ne ha accompagnato la pubblicazione e che ha visto Enrico Carletti (chitarra e voce), Luca Benedetti (basso), Leonardo Mariani (batteria) sul palco accanto a nomi quali 99posse, Lo Stato Sociale, Rumatera e Il Pan del Diavolo. È proprio durante questo susseguirsi di live che i Progetto Panico vengono notati dal loro attuale angelo custode, Karim Qqru (The Zen Circus), che si propone come produttore artistico del nuovo full-length, iniziando così una preziosa collaborazione. Il risultato, dal titolo Vivere stanca, è stato registrato al Green Fog di Genova insieme a Mattia Cominotto (Meganoidi) ed è in distribuzione dal 20 Marzo 2014 per la Tirreno Dischi/ Superdoggy music. Vivere stanca, a dispetto del titolo, è un disco carico di energia coinvolgente, da collocare a metà tra il “cazzeggio” estremo di matrice non tanto punk quanto pop à la Stato Sociale and Co. (è il caso di Luigi, che ha tutte le carte per diventare un tormentone, come anche Riviste e Oh mamma) e l’attitudine rock-stoner da pogo forsennato alla festa del liceo (Frankie Monocchio e Anni’90, il cui attacco – e solo quello purtroppo – rievoca Toxicity dei SOAD, per eccellenza la canzone del pogo alle feste del liceo). Tante, forse troppe, le citazioni che strizzano l’occhio al panorama alternativo italiano e non, e che contribuiscono ad appesantire un prodotto che risulterebbe altrimenti più efficace, qualora tendesse a testi meno densi. Detta in modo più sintetico: o fai cantautorato o fai punk. 5.9/10
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cornice che altalena synth wave sentimentalistico e agit rock. L’amalgama che se ne trae non si palesa con la medesima foia dei padri putativi: ad esempio in Be Out Of This World, War Zone, Cross Of Summer Light e Punk Singer For A Night In Berlin si concentrano “tenorismo” à la Gahan/Orzabal e falsetti à la Bono, cori e rifferama oi core-rock e post punk paradigmato new romantic, in cui balzano alla mente sempre gli U2 di metà anni ’80, fra fuoco e deserto. Paradise coglie wah wah e freddure techno, facendo sospirare un po’. Tutto ineccepibile, ma tutto un po’ troppo derivativo. Per dire, in Civil Rights, brano caricato su un falso no-fi e teso nelle parti ritmiche, girato e rigirato quanto si vuole si fa dimenticare troppo facilmente. Prism ricorda i Tuxedomoon di Desire, ma solo nel primo minuto, per poi concedere alle ascendenze di cui sopra – in particolare gli anti-climax vocali – ancora troppa libertà di manovra. I Prizeday sarebbero forse pronti per calcare qualsiasi palco di fronte a diecimila persone a sera – e glielo auguriamo – ma questo lavoro sembra lasciare veramente poco di nuovo a futura memoria. 6/10
Alessia Zinnari
Purling Hiss - Purling Hiss – Dizzy Polizzy (Drag City,2014) Genere: psych, indie, lo-fi, freak_weird Punto di riferimento della scena DIY di Philadelphia già da primi anni 2000, Mike Polizze
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degli autori più scandalosamente sottovalutati del DIY a stelle e strisce. 7/10 Diego Ballani
Roy Davis Jr. - Destroy And Rebuild (Mile End Records,2014) Genere: house Roy Davis Jr. lo mette nero su bianco, con Destroy and Rebuild vuole tornare a quelle sensazioni house che caratterizzavano la Chicago delle origini. Ed è chiaro che il produttore californiano, poi trasferitosi in una windy city in fermento, può dire la sua sulla questione. Una discografia infinita, prima sotto l’egida del maestro DJ Pierre, poi da solo e con i Phuture, tra soul electric e significative deviazioni acide e wild-pitch. Roy Davis Jr. è la faccia religiosa e devota della rivoluzione elettronica di Chicago, fratello nello spirito di Robert Hood, asceta del minimalismo di stampo detroitiano. Con le premesse del revival, sempre problematiche da gestire, Destroy And Rebuild rimane a metà strada tra apprezzabili spunti house, evocativi delle suggestioni dei tempi che furono, e qualche rielaborazione un po’ troppo forzata. No Justice No Peace è il motto messianico d’apertura del disco: bassi profondi e articolati, arpeggi sintetici, cassa dritta d’ordinanza. Hands Of Love introduce Terry Dexter alla voce, gli arpeggi sono spruzzati d’acido in un lapsus freudiano dei trascorsi Phuture, la situazione è quella piano-house inequivocabilmente 90’s. A chiusura del sermone, In God We Trust, dove quello che sembra un giro di basso si trasforma in ossessiva professione di fede. Le tre tracce iniziali sono giaculatorie con le quali, anche se in maniera scolastica, Davis ci offre uno spaccato molto lucido della faccia soul di Chicago. E soprattutto sono pattern ricorrenti dell’album, che si ripresentano in Slide (laser e tastiere raggianti sulla voce del leggendario Robert
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compone e pubblica musica sotto il moniker Purling Hiss da circa dieci anni. Un avatar, il suo, che nel 2013 gli ha fruttato il bel Water on Mars, punto di arrivo di un songwriting forgiato sui canoni del garage psichedelico acido e noisy di matrice texana, ma anche del più fine cantautorato folk pop, illuminato da cangianti bagliori West Coast. Vista l’attenzione suscitata da quella raccolta, Drag City ristampa ora le sue prime composizioni, registrate fra il 2004 e il 2007 in un lo-fi primitivo e, ahimé, un po’ penalizzante. Dizzy Polizzy è in tutto e per tutto un salto nell’estetica shitgaze e no-fi che ha rivoluzionato l’underground americano degli ultimi anni. Molti di quegli aristi, dai Woods ai Crocodiles, da Dum Dum Girls a The War On Drugs, oggi hanno abbandonato lo stile informale per abbracciare una musicalità rotonda e compiuta, che mette a frutto le rispettive influenze cercando di proiettarle verso il futuro. La differenza, rispetto ai gruppi che al tempo furoreggiavano su Woodsist, Zoo Music, HoZac e Captured Tracks è che quello di Mike Polizze era un songwriting già maturo, dal sapore classico, con tanto di assoli languidi e potenti, e canzoni che sarebbero state la crema di ogni stazione FM americana dagli anni 70 ai 90. Rispetto alle produzioni seguenti c’è una ricerca della perfetta ballad psichedelica, della melodia abbacinante dal pastoso sapore altcountry. Ce ne sono di indolenti e beckiane (Headlight), oppure delicate e acustiche come nel repertorio più toccante di Mark Everett (Sifting Through My Hands). Tutte incastonate fra contagiose filastrocche garage rock (Don’t Wanna Sueaky Fromme) e memorie paisley (Preface). Talvolta, si diceva, la qualità sonora è così bassa da mettere alla prova anche chi, come il sottoscritto, grufola nel lo-fi come un maiale nel fango. Un recupero, tuttavia, era doveroso. Anche solo per rendere merito ad uno
Elia Galli
Samaris - Silkidrangar (One Little Indian,2014) Genere: folk Inutile evidenziare per l’ennesima volta come una nazione con lo stesso numero di abitanti di Bari, ovvero l’Islanda, sia stata capace negli ultimi venticinque anni di ritagliarsi una posizione di assoluto rilievo all’interno del panorama musicale internazionale. Una spinta artistico-mediatica che non sembra attenuarsi in questi anni Dieci: basti pensare ai riscontri
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commerciali fuori scala degli Of Monsters and Men o ai ciclici prospetti in formato next big thing, da Sin Fang ad Asgeir, passando per i giovanissimi Samaris. Il trio composto dai poco più che maggiorenni Jófríður Ákadóttir (voce e già parte delle Pascal Pinon), Þórður Kári Steinþórsson (comparto elettronico) e Áslaug Rún Magnúsdóttir (clarinetto) ha iniziato a farsi conoscere fuori dai confini nazionali lo scorso anno grazie all’omonimo album-compilation che raccoglieva i brani contenuti nei primi due EP, Hljóma Þú (ottima la titletrack) e Stofnar Falla. A qualche mese di distanza i Samaris completano il definitivo lancio attraverso le dieci tracce che compongono l’album di debutto, Silkidrangar, pubblicato da una One Little Indian come sempre attentissima alla scena islandese (Ólöf Arnalds, Björk, Asgeir, ecc…). Rispetto agli esordi si scorge una maggiore attenzione verso l’aspetto ritmico – probabilmente influenzato dai numerosi remix che hanno coinvolto alcuni brani delle precedenti release – ma rimane intatto il concetto alla base della formula stilistica del trio, ovvero un gioco freddo-caldo che miscela gli stilemi evocanti i gelidi avamposti nordici con il tepore spesso associato a certe sonorità chillout. L’iniziale Nott sintetizza piuttosto bene il concetto (tra l’altro rintracciabile anche a livello estetico) con un beat dritto, soluzioni a cavallo tra new age e downtempo anni ’90 e un timbro, quello di Jófríður, non troppo distante da quello di Björk. Chill-music che si muove sottopelle e che riesce a conquistare grazie all’importante apporto fornito da un clarinetto spesso protagonista. Silkidrangar prende spesso una piega per certi versi esotica: è il caso di Ég Vildi Fegin Verða, sospesa tra battute ad altezza Enigma o Deep Forest ed infiltrazioni trip-hop, o di una Lifsins Stjarna che punta diritta alle coordinate
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Owens) e My Nation (meno convincente, ancora con la brava Terry Dexter). Lights come down, spostamento del focus dall’italo-house più spensierata alle sensazioni di matrice afroamericana, è un funk di synth gocciolanti sopra un beat scheletrico. Il disco è però appensantito da qualche salto nel vuoto. Tracce che, nell’intransigenza di una visione house segnata da confini molto ristretti, non riescono ad emergere. Ci sono gli autotune esagerati di Let It Go (Sunshine di Dance Nation tredici anni dopo, e senza quell’innocente vena anthemica), i ritornelli kitsch di Forever Summer, cose come Bang Bang che non trovano una loro direzione. Ready, almeno nelle intenzioni, è il pioniere che omaggia i discepoli, ma si rivela un tentativo impacciato di rimodellare il proprio suono secondo gli stilemi dettati dai fanatici filtered-house da Roulé in poi. Un album che doveva essere valvola di sfogo della creatività di Roy Davis Jr., ma – fatta eccezione per alcune rispettabili intuizioni – troppo spesso si risolve in un semplice viaggio indietro nel tempo in salsa digitale. C’è differenza tra celebrazione autoreferenziale e ricordo costruttivo di un passato glorioso. Non sempre, su Destroy And Rebuild, questa differenza si riesce a percepire. 5.5/10
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targate Gotan Project infarcite da effetti (rintracciabili anche in Hrafnar) presi in prestito dall’universo reggae/dub. A controbilanciare queste suggestioni abbiamo comunque punti di contatto con i landscape islandesi, dalle melodie legate alla tradizione nordic-folk ai testi (divisi tra natura e malinconia), presi letteralmente in prestito da poesie locali del 19° secolo. Il progetto Samaris è già ben delineato e riconoscibile; quello che certamente ancora manca è il fattore esperienza in grado di concretizzare un’intuizione stilistica forte e, tutto sommato, vincente. 6.8/10 Riccardo Zagaglia
Genere: rock, indie, folk Faccia a faccia con il quarto disco lungo, Sharon Van Etten non ha più le sembianze della vagabonda scribacchina che fra i night club da Brooklyn al Tennessee declamava, con attitudine da navigata folksinger, le sue pene d’amore e le sue rivalse sulla vita. Non è più sola, anche se è perfettamente in grado di camminare con le proprie gambe. Se decisivo fu, all’alba della sua carriera, l’apporto di Kyp Malone dei TV On The Radio o, nei pressi del suo disco più apprezzato – Tramp –, l’aiutino di Aaron Dessner dei National a cui piacque un po’ plasmare il sound della Van Etten verso lidi di malinconiche melodie (eredità che Sharon si porta ancora dietro), per il nuovo Are We There, la songwriter del New Jersey sembra masticare bene la lingua, regalando, al solito, brani pregni di orecchiabilità e con un pizzico di mestiere in più. Prodotto dal maestro Stewart Lerman, Are We There non ci risparmia ospiti di lusso che riconducono l’opera nei ranghi di un folk estremamente delicato, fragile come le melo-
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Nino Ciglio
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Sharon Van Etten - Are We There (Jagjaguwar,2014)
die che la Van Etten intona con voce flebile al microfono. Un folk allo stesso tempo temperato e maturo, perché lievemente spostato di qualità rispetto alle produzioni tradizionali, pur lontano dal gradino che lo avvicinerebbe a Wye Oak o Antlers. La vena creativa e l’ispirazione della folksinger sono frutto, a quanto pare, di una vita realmente vissuta ai margini; una vita che la Nostra, dopo aver ispezionato gli angoli remoti della propria spiritualità negli album precedenti, ci mostra dall’inquadratura più spigliata, ma non meno emozionale. Se I Love You But I’m Lost – la classica ballad piano e voce di estrema finezza compositiva ma decisamente boring – è un po’ la summa dell’opera omnia della cantautrice, non sono rari i casi (Taking Chances, You Know Me Well, Every Time The Sun Come Up) in cui, con il solito incedere massiccio delle percussioni e della profondità della sua voce, la Van Etten molla un po’ la presa dando respiro al disco, pur risultando felicemente intensa. Questa sarebbe (diciamo “sarebbe” perché non rimane costante) la formula giusta per il disco. Ma se c’è da trovare un difetto in questo quarto LP della ragazza del New Jersey, è proprio il rischio di prendersi troppo sul serio. Se già la sua carriera l’ha vista sostare sotto riflettori importanti (grandi festival, serie televisive, colonne sonore) con seri rischi di sopravalutazione, la sua indole da “beniamina di Pitchfork” rischia di compromettere l’enorme qualità del suo potenziale. D’altronde l’apporto ad Are We There di gente come Torres, Shearwater, Lower Dens non fa che sottolineare i suoi attributi adeguati. Lo dimostrano un cocktail di melodie (ascoltare Break Me per credere) che farebbe invidia ai migliori e una proprietà di scrittura che, fra National e Julianna Barwick, Antlers e Wye Oak, riesce a suonare del tutto originale. 6.8/10
Genere: rock, folk Questo album è quanto di più lontano da quello che potreste immaginare leggendo il nome dell’autore, che nulla ha a che vedere con santoni indiani o fondali del Brahmaputra. Al secolo, Shiva Bakta è Lidio Chericoni, uno che manco a farlo apposta ci dice già lui, sempre dal titolo (Third), a che punto dell’opera siamo, anche se non è dato sapere dove sia finito il secondo disco, che si dice effettivamente registrato ma mai pubblicato, finito magari in qualche scantinato spezzino. Stranezze a parte, questo lavoro è proprio un gioiellino di pop folk in slow core (Sunday Turns Into Heaven), radio-friendly (My Weakness) e all’occorrenza anche western (Dog). Si dà spazio ai cori e ai voicing di chiara matrice America(na); intro che indugiano su cavalcatine dreamy – dissolvenze finali comprese nel prezzo – e trip hop, che sincronizzati fanno ripigliare fiato dopo alcune ridondanze (Baktism 1 e 2). Ma dove l’esser colto e un po’ vintage post-lo fi fa perdere le tracce dietro piccoli orpelli glam (Magic Sun), un pop perfetto sa riprendersi quella fetta di modernariato che giusto giusto mancava (Smart Drug e You Should Be Happy) e che fa venire in mente Kimya Dawson. Sono brani che difficilmente si dimenticano Mushroom, Homeless e Goodbye: nascono, durano e muoiono con tocchi pregevolissimi confinati in setting acustico-orchestrali pieni di rinascimentale luccichio e forza evocativa. Siamo proprio sicuri che il Nostro sia italiano? Misteri del rock, ma qualche dubbio lo abbiamo. 6.8/10 Christian Panzano
SJ Esau - Exploding Views (fromSCRATCH,2014) Genere: rock, indie Samuel Wisternoff è SJ Esau, suo progetto dal 1999. È compositore avant-pop – tra i tanti, ma con un senso proprio – di base a Bristol, anche se no, non fa trip-hop. Nel 2007 è su Anticon e il titolo del debutto è Wrong Faced Cat Feed Collapse: niente scenari left-field, niente suono Anticon, non è musica per l’avanzamento dell’hip-hop; SJ Esau suona folk-tronica. Gaspare Caliri, sulle pagine di SENTIREASCOLTARE, conclude la sua recensione progettando possibili evoluzioni del progetto: «ci sono margini per una crescita, ma nondimeno non possiamo escludere una appiattimento futuro». L’anno dopo, nel 2008, esce il secondo disco sotto Anticon, Small Vessel: niente pretese, è indie-rock e pop vagamente sperimentale. Sempre Gaspare Caliri: «forse non diremmo sperimentale, ma raramente banale». Anno 2014, SJ Esau incide Exploding Views. Samuel raccoglie drum machines, chitarre, sintetizzatori, piano, percussioni, mentre Sean Talbot completa sedendo su uno sgabello dietro il set di batteria. In più, ci sono le comparse e le numerose collaborazioni, che arricchiscono di voci e colori il disco: Yoshino Shigigara, Matt Jones, Francois Marry, Joseph Howard Grounds, Ruth Recell, Emma Revell, Kathy Hinde, etc. L’album esce per From Scratch Records. La continuità è lì: Anticon è patria dell’avanguardia hip-hop U.S.A., FromScratch è crocevia delle stravaganze della scena avantpop italo-europea. Quadra tutto. Il mutamento di label giova per la crescita. Exploding Views è un congegno pop e le ragioni per cui suona tanto bene sono varie. La struttura dei brani è elaborata: gli schemi compositivi di un pezzo non si ripetono e la stratificazione delle suggestioni sj-esauiane sporca il cantautorato; il talento melodico è paradossale
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Shiva Bakta - Third (Gente Bella,2014)
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Emiliano Santoro
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SOHN - Tremors (4AD,2014) Genere: elettronica, downtempo Ci vuole coraggio per lasciare la città natale (Londra) proprio nel momento in cui sembra che l’area in cui vivi (South London) stia diventando il principale polo artistico e mediatico di tutto ciò che ruota attorno alle ultime tendenze elettroniche modellate su voci pop-soul, ovvero il tuo mondo. Toph Taylor in arte SOHN (e non S O H N, come da lui confermato via Twitter ) quel coraggio lo ha avuto: ha preferito tagliare i ponti con la frenesia della city intraprendendo una sorta di seconda vita lontana dagli stereotipi UK e abbracciando la tranquillità – e la maggiore concentrazione – che una città come Vienna è in grado di donare. Messo sotto contratto dalla prestigiosa 4AD dopo un solo EP baciato da un discreto buzz mediatico (The Wheel del 2012) e rinvigorito l’anno successivo dal singolo Bloodflows (vedi anche SA Presents: Tracks from EPs 2013), SOHN fino ad oggi si è fatto conoscere soprattutto per la sua attività di producer che lo ha portato a collaborare con astri nascenti quali Banks e Kwabs e a remixare tracce targate Lana Del Rey e Rhye. Se non bastasse la cristallina produzione di Waiting Game (Banks) a mettere nero su bianco l’indiscusso talento di SOHN nel riuscire a muoversi a metà strada tra ricerca e concretezza, ci pensano gli undici brani del debutto lungo Tremors a togliere ogni tipo di dubbio, evidenziando una delle caratteristiche peculiari della sua produzione, ovvero la capacità di alternare – e se necessario unire – sample vicini a certi elementi della world-music, microblips, glitch e beat di grana grossa (Lessons ne è un esempio). Di post-Blakers celati dietro ai più enigmatici moniker ne abbiamo ascoltati a decine negli ultimi tre anni, ma in molti si sono fatti notare più per le doti canore che per una reale matrice
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nelle discordanze voce-strumenti, quindi il paradosso della melodia nella dissonanza; la sezione synth-batteria è un tappeto percussivo primitivo, apparentemente in secondo piano, e costituisce uno dei punti forti del suono; il meccanismo dei brani è un gioco logico-naif o di schizofrenia pop: Sam e Sean contaminano gli stimoli – psych-folk, dream-rock, postpunk, art-punk, synth-noise, avant-rock, etc. – e la cifra di SJ Esau ingloba l’onnicomprensivo; l’intreccio trans-genere delle tessiture vocesynth-chitarra ha una propria propulsione ed è una trappola magistrale. Il corpo-brani è amalgamato nel suo scorrere senza intoppi. Il pensiero-base è (perché non divertire?): pirotecnie auto-ironiche e sbalzi umorali (euforia vs. tedio). È cantautorato e l’attitudine è verso la parodia. La materia di Exploding Views si riscatta e si inorgoglisce, quando anche SJ Esau raggiunge la consapevolezza del proprio intento, che è parodico e cela uno spirito pop-olare. Si supera lo stadio della parodia come intrattenimento, si raggiunge il livello della parodia come analisi-studio. SJ Esau studia la musica per creare nuova musica propria, analizza strutture vecchie e ne formula di nuove. Per questo la maniera di intendere la composizione è trasversale. Un esercizio di stile che si tramuta in creazione: raccogliere stimoli, emulare, mescolare e ottenere nuovi spunti. SJ Esau è originale, perché l’operazione che fa è pensata. È provocazione, che non è scandalo, ma nemmeno fine a se stessa. SJ Esau supera lo stadio del gioco, abbandona le sembianze del buffone e vomita note-blu. Non è pop musik, non c’è auto-commiserazione in Exploding Views, ma quel qualcosa di personale che ognuno potrebbe ritrovare, prima o poi, in SJ Esau. 0/10
Riccardo Zagaglia
Sorry, Heels - Distances EP (Autoprodotto,2014) Genere: indie, wave, dark, shoegaze, noise Nati sulle ceneri gotiche dei molto apprezzati (pare) Chants Of Maldoror, i Sorry, Heels hanno scelto di seguire strade più composite in un’ottica indie disposta ad aggirarsi tra wave
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brumosa e slanci hard-psych disinvolti, come dimostrava il buon ep d’esordio Wasted dello scorso anno. Il rischio in questi casi è farsi prendere dalla fregola di tagliare i ponti col passato e finire far sembrare questa versatilità una mascherata, enfatizzando la devozione ai modelli di riferimento senza valorizzare una cifra espressiva propria. Ma i quattro frusinati hanno dalla loro un asso di briscola: il suono. Una fibra scura e selvatica, impetuosa e ipnotica, abbastanza diretta da non perdere la fragranza e la durezza da impatto (quasi) live. Perciò, pur nella varietà spiccata delle cinque tracce in programma, la proposta appare unificata da una stessa tensione, che attraversa l’inquietudine desertica tra vampe dark di Where The heart Is e agita la tempesta hard psych in coda a Longing For Distance, strattona la tagliente The Lapse (come una fuga in avanti uterina dei Joy Division o un orgasmo cupo delle Hole) e scuote il dream pop arrugginito riot grrrl di Secretly Done, mentre in A Song From Below è la vibrazione sotto la filastrocca insidiosa da Siouxsie narcotizzata shoegaze. La sensazione è che col tempo possano soltanto guadagnarci in disinvoltura e intensità. Per conferme non resta che attendere l’album di debutto, al quale stanno già lavorando.
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sonora facilmente identificabile e in grado di apportare forti integrazioni evolutive nella scena. SOHN va oltre, imponendosi prima di tutto come grande manipolatore di tempi (addomestica la poliritmia con grande facilità) e di atmosfere e, in secondo luogo, come interessante cantante fluttuante tra randb, soul e pop. Lo fa ricordando a più riprese quel Jamie Woon del quale, feat. con i Disclosure a parte, abbiamo un po’ perso le tracce (Light, Lessons) o un Thom Yorke svuotato della componente algida (la subacquea Paralysed). Gli ultimi Radiohead sono inoltre un’influenza piuttosto evidente anche nei contesti ritmici di brani come Tremors, così come un certo modo freeform di intendere l’art-pop non troppo distante dalle idee di Björk, mentre melodicamente non siamo ancora a livello di eccellenza, anche a causa di qualche veniale concessione ad eccessi zuccherosi (Veto, tra Sting e Simply Red). Ennesimo e non ultimo (a brevissimo uscirà anche il debutto di Chet Faker, mentre in UK sul trampolino di lancio c’è Jamie Isaac) incrocio tra elettronica e voce black di questi anni Dieci, SOHN ha in mano il passaporto per una carriera di rilievo su entrambi i fronti di sua competenza: come producer il mainstream gli sta ormai alle calcagna ed è facile che entro breve collabori con qualche big, mentre a livello di songwriting ha già trovato – anche nei risvolti nichilisti dei testi – una sua più che convincente strada. 6.9/10
7/10 Stefano Solventi
Spidergawd - Spidergawd (Crispin Glover Records,2014) Genere: rocknroll, psych, stoner Non riescono a stare fermi, Bent Sæther e Kenneth Kapstad, che, dopo aver rilasciato poche settimane fa Behind The Sun con l’astronave madre Motorpsycho, tornano sotto il monicker Spidergawd con un nuovo lavoro. Ispirato dal brano omonimo contenuto nell’esordio so-
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Andrea Murgia
Squarepusher - Music for Robots (Warp Records,2014) Genere: idm “For me there has always been something fascinating about the encounter of the unfamiliar with the familiar”, dichiara Tom Jenkinson, in occasione del rilascio di Music for Robots. In questo caso, unfamiliar sono i virtuosismi di cui solo macchine a 72 dita sono capaci, e fami-
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liar gli strumenti da queste suonati. Le macchine, Z Machines, sono il medium con il quale Squarepusher cerca di capire se anche l’ingegneria musicale di una live band totalmente automatizzata riesce a restituire qualcosa a livello emozionale. Stunt pubblicitario, o sperimentazione all’avanguardia, nel 2013 un ensemble artificiale si esibisce in terra nipponica tra una folla di festanti consumatori Zima (bevanda alcolica, venduta unicamente in Giappone). Immagini che risultano meno stucchevoli solo se ricordiamo che a servirsi di questi robot è uno che, quasi vent’anni fa, diceva: feed me weird things. Music for Robots, per chi conosce il percorso di Squarepusher, non è però cosa strana. Scansando i proclami promozionali di rito – costruiti nel tentativo di caratterizzare un disco che di caratterizzazioni non avrebbe bisogno – rimane lo spessore tipicamente jenkinsoniano delle celebrali avventure fusion-jazz. Aperture progsinfoniche, fantasmi di Buddy Rich, polifonie mandate in cortocircuito. Tutta quella serie di rimandi, di allusioni, che hanno segnato nella buona e nella cattiva sorte la carriera del produttore di Chelmsford. Non c’è il gusto analogico di Music Is Rotted One Note, il basso ossessivo in slap è messo da parte, le tracce sono pulite, algide, e si scaldano solamente quando le linee melodiche virano di netto in cervellotici fuoripista. Venti minuti di jam session, sempre giocati sull’essenzialità chitarra-bassotastiere-batteria, che si vanno ad aggiungere ad una discografia chilometrica. 6/10 Elia Galli
Sycamore Age - #1 Remixes/Reworks (Santeria,2014) Genere: prog “C’è sicuramente la magia ancestrale del miglior prog anni ’70 (anche italiano) nel modo
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lista del Grateful Dead, Jerry Garcia, Spidergawd si colloca musicalmente a metà strada tra i Motorpsycho era Barracuda e i Blue Cheer di Vincebus Eruptum: un vorticoso mix di stoner, r’n’r e psych insomma, in cui i quattro musicisti di Trondheim si trovano assolutamente a proprio agio. I musicisti designati per accompagnare “la sezione ritmica più veloce della Norvegia” sono due loro amici di lunga data: il primo è Per Borten, voce e chitarra degli storici Cadillacs e dei The New Violators, e il secondo è Rolf Martin Snustad, sax degli Hopalong Knut, band di culto della scena rock norvegese. Molte le tracce degne di nota del disco: si va dalla citazione dei Blue Cheer in Blauer Jubel (il titolo non è altro che la traduzione tedesca del nome della band di San Francisco), all’urticante stoner di Master of Disguise, passando per i 14 minuti di jazz-prog di Empty Room, introdotti dallo straziante solo di sax di Shustad. Chiude i giochi il blues senza titolo di Per Borten, norvegese di nascita ma con il cuore e la testa orientate al delta del Mississipi. Nato come divertissement e con la scusa di riunire un gruppo di amici che non suonavano da tempo assieme, Spidergawd è un lavoro sincero e che non promette più di quanto possa offrire: 45 minuti di rock scritto e suonato come si deve. 7/10
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bientale (ma tutto sommato con poche sorprese) una Binding Moon in origine profondissima e fondamentalmente folk, mentre i secondi centrifugano in stile Chipmunks il cantato di Heavy Branches, mettendolo ad asciugare su certi terzomondismi in stile M.I.A. Tolto il rework di How To Hunt A Giant Butterfly ad opera degli stessi Sycamore Age (ennesima declinazione di quella voglia di cambiare abito ai brani già espressa dalla band in dimensione live), a chiudere il disco pensa un inedito (In A Blink Of An Eye) che non sposta di molto il baricentro stilistico dei Nostri, rispetto al passato. Antipasto utile a quietare le aspettative di critica e pubblico nei confronti di un secondo album che ci auguriamo all’altezza delle buone cose messe in mostra dal gruppo nel brillante debutto. 6.9/10 Fabrizio Zampighi
Teebs - E S T A R A (Brainfeeder,2014) Genere: glitch, downtempo Per osservare questo giovane californiano non dovremmo soltanto soffermarci sulla musica, bensì considerare anche elementi che ne hanno caratterizzano la vita artistica. Una volta entrato nelle fila di Brainfeeder, l’etichetta di Steven Ellison (Flying Lotus), non è stato difficile inquadrare il futuro di Mtendere Mandowa da un punto di vista squisitamente musicale. Abbiamo avuto un album (Ardour, 2010), seguito da un LP d’inediti ed estensioni (Collections, 2011) e diverse altre collaborazioni attraverso singoli e mixtapes, tra le quali ricordiamo quelle con Daedelus e Jeremiah Jae o il più recente progetto Sons of the Morning con Prefuse 73 (dal quale è nato un EP, Speak Soon, Volume One, improntato su una scenografia ambient/ downtempo e uscito su Warp Records). La musica non è la sola forma d’arte in cui Teebs ci cimenta, c’è anche la pittura. I dipin-
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di concepire la melodia, di gestire gli spazi, nelle fascinazione per i temi onirico-fantastici e simbolici, così come nei radicali cambi di atmosfera tra i vari capitoli dell’opera e all’interno degli stessi brani”: così scriveva Antonio Laudazi sulle nostre pagine nel 2012 a proposito dell’omonimo disco d’esordio dei Sycamore Age, delineando inconsapevolmente anche la ragion d’essere di questo successivo album di riletture. Sì perché “gestione degli spazi” e “fascinazioni” sono concetti ben presenti anche in #1 Remixes/Reworks, interpretati da un parco ospiti illustre che si fa carico, in primis, di lasciare inalterato il pathos della musica della band aretina (o, in qualche caso, addirittura di accentuarlo), pur dandone un’interpretazione personale. Gli spazi di cui parla Teho Teardo nella sua versione di Dark And Pretty Part Two, ad esempio, hanno a che fare con una dinamica degli archi e del suono allentata e altolocata, figlia di pulsazioni lignee corpose e da togliere il fiato. Un Teardo che paradossalmente gioca in casa, riuscendo a impreziosire e a rendere “adulto” un brano già in partenza notevole e non troppo distante dalla sua poetica. Gli Akron/ Family agiscono analogamente sulle armonie vocali e la psichedelia “casinista” di Happy!!!, riportando il tutto a quell’immaginario freak che abbiamo imparato a conoscere nei dischi della formazione americana. Il trittico dei manipolatori imparentati con l’albero genealogico stilistico dei Sycamore Age si chiude con i Julie’s Haircut, questi ultimi perfettamente a loro agio nel confezionare una How To Hunt A Giant Butterfly già krautrock alle origini ma qui resa ancora più glaciale (e minimale). Dall’altro lato, Aucan e Vadoinmessico optano per uno stravolgimento (comunque in linea con il loro approccio) dei brani scelti, un atto di coraggio che forse non viene premiato del tutto dai risultati: i primi colorano di una electro am-
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Lalic Asmir
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Terrence Parker - Life On The Back 9 (Planet E,2014) Genere: house A quindici anni di distanza dall’ultimo album, Life On The back 9 segna il ritorno sulle scene del boss Terrence Parker, nome di punta della scena house di Detroit anni ’90 capace di rilasciare più di cento produzioni (raggiungendo la top 20 con singoli quali Love’s Got Me High e The Question) e premiato al “Department Of African American Music And Culture” dell’Università dell’Indiana e al Museo “History of Techno International Exhibit” di Detroit, famoso inoltre per essere chiamato “Telephone Man” a causa del particolare utilizzo del telefono al posto delle cuffie. Come suggerito dal titolo, l’opera, in uscita sulla Planet E di Carl Craig, ha a che fare con una metafora sul golf pronunciata dal padre di Parker che esortava il producer a non mollare durante i momenti più bui: “Se pensi alla tua vita come il gioco del golf, forse il front 9 non è andato come speravi, ma non arrenderti, perchè hai ancora il back 9!”. Seppur sia difficile per un pezzo da novanta come il Nostro tornare a mettere le mani su un genere che negli ultimi anni, nel bene e nel male, ha subito grandi cambiamenti, l’ampiezza di movimento tipica di chi ormai non ha nulla da dimostrare è comunque una spinta a lavorare senza particolari pressioni, per una totale libertà di azione. Quasi fosse un manuale da sfogliare con calma, troviamo nel disco dodici tracce di classica house vecchio stampo, tutta bassi e tastiere (Spiritual Walfare, Saved Forever) e voci cool femminili, per una bella spolverata di soulful (Finally Baby Me Mine), senza ovviamente lasciarsi scappare la carta deep di Pentecost, quest’ultimo uno degli episodi più convincenti di un album che, seppur a tratti statico, riesce comunque a mostrare l’anima incontaminata
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ti sulle copertine dei suoi dischi sono i suoi e, come artista, il Nostro ha inaugurato alcune mostre non solo a L.A. L’animo non traspare solamente dal punto di vista metaforico nelle sue rappresentazioni artistiche visive o musicali, ma già dalla semantica dei nomi utilizzati per intitolare gli album, tra cui l’ultimo, E s t a r a. Se nel primo lavoro, Ardour, era evidente la personalità in subbuglio e in disordine dell’artista (l’allora recente morte del padre influì non poco), nell’ultimo disco si viene accolti da uno stato di quiete e sicurezza quasi innaturale ed astratto, come la musica che compone la tracklist. Bruciate le trovate ad effetto, Mtendere (che richiama, nel proprio nome, il significato di pace) si lascia trasportare dalle emozioni più pure, sentimenti che si legano al significato di estara (che oltre all’”essere”, de facto, si riferisce a dove una persona si trova, fisicamente e mentalmente, in un preciso istante). L’album è caratterizzato da ritmiche più lente ed astratte rispetto ai dischi precedenti, e questo per espandere il più possibile un senso di tranquillità e di pace. Teebs si è lasciato andare a tenui arpeggi e sonagli (Wavxxes, ft. Lars Horntveth, oppure nella soporifera Shoouss Lullaby) o a fievoli riverberi vocali (Holiday, ft. Jonti), il tutto sempre coperto da questa patina di distensione. La monotonia, per gli ascoltatori abituati ad un hip-hop sì astratto ma più marcato (o tradizionalista), è sempre dietro l’angolo, ma qui parlare di hip-hop è fin troppo riduttivo. Non c’è bisogno di scendere in categorie più “complesse” per giustificare un album puramente espressivo, proprio come i quadri di Mandowa. E in questi termini andrebbe apprezzato. 7/10
del genere espressa dalle note di uno dei mostri sacri. Uno che anche ad anni di distanza dall’epoca d’oro del genere, ha ancora il coraggio e la forza di dire la sua. 6.6/10 Daniele Rigoli
Genere: rock, rocknroll Quando pensiamo a Glasgow, ci viene in mente un mare di musica: dalla scena anni ’80 capitanata dagli Aztec Camera, ai Franz Ferdinand, dai Camera Obscura ai Primal Scream, dai Mogwai ai Belle And Sebastian, CHVRCHES e Glasvegas. Ma mai, forse, avremmo pensato che la città scozzese avrebbe potuto produrre un debutto così. Horror punk, psychobilly, garage, hardcore, rock and roll, dark ballads: il primo album degli Amazing Snakeheads è una scarica di adrenalina, urlata al mondo, disordinata e brillante. Scritturati da Domino quasi un anno fa, il power trio scozzese si presenta con Amphetamine Ballads, avendo raccolto già un po’ di consensi nel Regno Unito, dove la gente non si scatena ai loro concerti, ma rimane sbalordita dall’impatto sonico. Facile a credersi dal momento che l’LP è un museo degli orrori fra sesso, violenza, vampirismo e incubi notturni. Basta sentire I’m A Vampire per entrare nel clima: accordi buttati qua e là e una linea di basso che pian piano viene su a dare portamento alla struttura. Ma è la voce di Dale Barclay che lancia l’urto: urla come un dannato che Iggy sembra quasi un principiante, è cupo e solenne come Nick Cave, è schizofrenico come Ian Curtis. A dire il vero Glasgow ce l’aveva una scena hardcore / horror punk, alla voce Uncle John and Whitelock, ed è da lì che probabilmente deriva la vena surf, garage, massiva e di-
Nino Ciglio
The Body - Christs, Redeemers (Thrill Jockey,2013)
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The Amazing Snakeheads Amphetamine Ballads (Domino,2014)
struttiva degli Snakeheads. Da lì, certo, ma anche dal piglio goticheggiante dei Birthday Party (Swamp Song, Every Guy Wants To Be Her Baby) che si fa Nick Cave con una Tiger By The Tail che, come da titolo, richiama le Murder Ballads del cantastorie australiano. C’è molto di psychobilly alla Cramps (Nighttime, Where Is My Knife), di gotic-rock alla Christian Death (Heading For Heartbreak) o semplicemente di post punk (Here It Comes Again). In definitva, Amphetamine Ballads è un album che tira, sobilla e scompiglia. Pur non aggiungendo nulla, riesce benissimo a farsi apprezzare e addirittura a divertire. Merito di una qualità e di una rabbia che in un mondo forse troppo appiattito dall’indie-something starebbe davvero bene. 7/10
Genere: noise, black, metal Tra i generi estremi – spesso tacciati a ragione di una sorta di conservatorismo duro a morire, specie tra i die hard fan – il “black-metal” (virgolettato non a caso, dato che si parla più di “immaginario” che di vero e proprio suono) sembra essere quello che meglio ha assorbito il passare del tempo e con esso contaminazioni e modificazioni genetiche. Locrian, Deafheaven, Wolves In The Throne Room, Liturgy, tanto per spaziare a destra e a manca in quella terra di mezzo tra iper-underground e (semi) mainstream, hanno dimostrato come le istanze black possano essere sviluppate in nuove ed eccitanti forme, senza perdere in nuce le dinamiche di partenza. Non sfuggono a questa “riscrittura” i The Body, al secolo Chip King e Lee Buford, originari di Providence (per i meno attenti, luogo deputato del rumore degli
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Stefano Pifferi
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The Faint - Doom Abuse (SQE,2014) Genere: electro Assenti da ben sei anni dalle scene – l’ultimo Fasciinatiion è infatti del 2008, una vita fa in pratica – i The Faint tornano con Doom Abuse, continuando il personalissimo viaggio di ricerca cominciato nel precedente lavoro discografico. Azzerata la voglia di rock espressa nel controverso Wet From Birth e spinta da una irrefrenabile urgenza comunicativa già evidenziata in Fasciinatiion, la band capitanata da Todd Fink si butta a capofitto nel post-punk e nel synth-pop degli anni Ottanta, andando a pescare a piene mani dalla produzione dei maestri del genere Gary Numan e Killing Joke, maghi sintetici della sperimentazione. Un back to the roots ai ruvidi esordi di Blank Wave Arcade palesato sin dalle prime battute dei singoli apripista Evil Voices e Help in The Head, fucilate in cassa dritta e basso iper-distorto, ingredienti base della dieta servita dalla band da Omaha, Nebraska. Mental Radio fa il verso ai già citati Killing Joke mentre Animal Needs – la traccia migliore del disco – richiama il canuto leader degli ex-Tube Army, Gary Numan. I titoli di coda sono appannaggio di Damage Control, che tra echi di The Cure era Disintegration chiude i giochi. Forte e ruvido al primo impatto Doom Abuse, nonostante la buona riuscita, perde nerbo sulla lunga distanza, risultando sempre meno appetibile con il passare degli ascolti. 6.4/10 Andrea Murgia
The Horrors - Luminous (XL,2014) Genere: wave Luminous è al tempo stesso il quarto album del quintetto ed nuova tappa dell’evoluzione verso un pop di classe, che coniuga una certa immediatezza con una ricerca estetica che fa del dettaglio la proprio fiore all’occhiello. Il sal-
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anni ’00) e attualmente ricollocati a Portland. Autori di un black metal che flirta col doom e la psichedelia più inacidita, i due hanno dalla loro una grossa energia come d’ordinanza, ma anche una certa spigliatezza nel creare lande sonore inusuali, tanto che a firmare le due ultime uscite sono label di una certa apertura mentale come Thrill Jockey e Rvng International. In Christs, Redeemers – quasi 45 minuti di coltre scura come la notte in cui l’unico barlume di speranza assume i toni disperati della malinconia estrema – a risaltare è la fusione tra certi slanci “atipici” (campionature di musiche classiche, atmosfere filmiche, attenzione all’avanguardia, ecc.) e scatafascio black/doom/ sludge imputridito da parti vocali in falsetto fastidiosissime (come un piccolo Alan Dubin, per capirsi) e da disagio strumentale da tabula rasa, tra ralenti e grumi di pauroso rumore. Della serie, altro che redenzione. In I Shall Die Here, invece, complice la collaborazione con Bobby Krlic aka Haxan Cloak (che ha generato anche un film ispirato all’album, regista Jason Evans, titolo At The Mercy Of It All), le ambientazioni si fanno se possibili più scure e maleodoranti, virando dal doom verso una melma dronica di ambient sfatta e malata. Emerge così il lato forse meno viscerale ma non per questo meno alienato e alienante del suono dei due, tra disturbi elettronici ed elettrostatici, scorie industrial, sporcizia varia da elettronica povera. Una aura di morte pervade l’intero lavoro, in cui il ruolo di Krlic è quello di catalizzatore del suono eruttante dei The Body in un percorso che è esattamente descritto dalla press: una sorta di “minimalist evocation of the afterlife”. Pollice su, seppur six feet under. 7.4/10
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I nodi che Skying lasciava intravedere, ma in qualche modo nascondeva sotto le sue forme dilatate, oggi vengono drammaticamente al pettine. Ancor più dello scorso album, infatti, questo si presta alla liturgia del pop, nel senso che, al netto delle vaporose intro cinedeliche e delle mirabolanti code strumentali, pur sempre di verse-chorus-verse si tratta. Ed è qui che gli Horrors falliscono. In un songwriting che non funga da mero pretesto per edificare affascinanti costrutti sonori. L’impressione, insomma, è che spogliate dei loro fantasiosi arrangiamenti, le canzoni di Luminous semplicemente non esisterebbero. O si lascerebbero dimenticare in fretta a causa della sconcertante banalità. Lo si era intuito dal primo singolo I See You, di cui si skippava volentieri la parte cantata per godere del lungo outro in crescendo. La stessa cosa accade nella già citata First Day Of Spring, il cui momento migliore resta il cambio di tonalità e la conseguente coda strumentale. Appena meglio fa Jealus Sun (uzz song dai contorni evanescenti come nei frammenti più ispirati di Primary Colours) e la conclusiva Sleepwalk, che non a caso ha l’incedere solenne di Still Life. Per il resto Luminous è come un fiore coloratissimo che si sbriciola fra le mani, tanto più si cerca di sfogliarlo. Un problema dei nostri tempi, quello della vacuità splendidamente confezionata. E purtroppo anche sotto questo aspetto i cinque si dimostrano decisamente all’avanguardia. 6.5/10
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to rispetto a Skying non è disorientante quanto quello che separava Primary Colours dall’esordio, ma la definizione di un sound peculiare prosegue, nella consapevolezza del ruolo di corazzata del nuovo pop britannico che intanto gli Horrors sono andati a ricoprire. Dietro ci sono nuove leve che premono (gente agguerrita come TOY, Temples e Telegram). Dunque a Luminous spetta l’arduo compito di ribadire il primato artistico di Badwan e soci. Ci riesce? Andiamo con ordine, partendo proprio dallo spilungone che guida il gruppo e che sta progressivamente abbandonando il tono tenebroso che costituiva l’ultimo legame con gli esordi horrorifici. Il risultato, quando lo si sente cantare disteso su Sleepwalk, è di suonare ancora più artefatto e monocorde. Per fortuna non sta certo nelle sue corde vocali il piatto forte della formazione londinese, quanto piuttosto nelle visionarietà acida di Rhys Webb. In quel modo che il gruppo ha di appropriarsi dei frutti più maturi del synth e del guitar pop degli ultimi trent’anni, applicandovi un paradigma sperimentale (quello del freakbeat e del krautrock) fatto di reiterazioni, lunghe parti strumentali e dolci deliqui psych. Se tutto questo su Skying aveva condotto ad una fortuita assonanza con i primi Simple Minds, oggi gli Horrors sembrano svincolati da riferimenti diretti. Volendo parcellizzare i singoli brani, vi si riconoscono le rotondità digitali dei Kraftwerk (So Now You Know), la wave barocca dei primi Ultravox (Jealous Sun) ed echi della Manchester danzerina (un po’ ovunque ma soprattutto su In And Out Of Sight e nell’opener Chasing Shadows), ma tutto ciò si scorge appena fra le complesse stratificazioni elettroniche, gli ipnotici giri di basso e i fini affreschi shoegaze. Il risultato è un paesaggio sonoro lussureggiante, coloratissimo e multitesturale che si osserva ammirati, ma che difficilmente colpisce al ventre.
Diego Ballani
The Ministry of Wolves - Music from republik der wölfe (Mute,2014) Genere: folk I Ministry Of Wolves altro non sono che una versione rimescolata dei Crime and the City Solution. Tre su quattro sono passati di lì: Alexandre Hacke, sua moglie Danielle De Pic-
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Stefano Gaz
The Pains Of Being Pure At Heart - Days Of Abandon (Yebo,2014) Genere: pop, alt, noise Tre anni or sono, dopo aver scombussolato la
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blogosfera con l’acclamato omonimo album di debutto, i The Pains of Being Pure at Heart riuscirono in quello che per il 90% dei gruppi (soprattutto inglesi, ad essere onesti) si traduce in un fallimento, ovvero dare un degno seguito al fragoroso esordio (nel loro caso composto da piccoli classici come Come Saturday e Young Adult Friction) con un secondo capitolo di livello. La band di New York guidata da Kip Berman andò oltre con un secondo album, Belong, che non solo eguagliava il numero di instant-classic dell’esordio (la titletrack e Heart in Your Heartbreak, solo per citarne due) ma mostrava un ben accolto ispessimento delle dinamiche twee-pop in una direzione tipicamente rock (non a caso, un nome spesso citato era quello degli Smashing Pumpkins): in quel memorabile 2011, forse nessuno più di loro riassumeva in tre minuti i principali movimenti revivalistici e indie-hip di quel periodo. Le prime avvisaglie di un futuro meno roseo sono arrivate lo scorso anno con un nuovo brano, Until The Sun Explodes, pericolosamente vicino a Just Like Heaven dei Cure (vizietto che i Nostri hanno comunque sempre avuto, vedi My Terrible Friend-In Between Days) per poi accentuarsi con l’abbandono della tastierista Peggy Wang, la quale ha preferito dedicarsi alla sua attività di “DIY editor” su BuzzFeed. Il primo grande step incerto si conclama però con il terzo lavoro Days Of Abandon, figlio di una scelta ben precisa messa in atto da un Berman – “I didn’t want to make Belonger” – intenzionato più che mai a lasciare da parte le atmosfere meno solari che caratterivvanao Belong a favore di soluzioni più spensierate. Nulla di male nella verve sunshine del lato più Belle and Sebastian dei The Pains of Being Pure at Heart ampiamente sbandierato in Days Of Abandon, ma l’impressione è che con Belong la band avesse realmente trovato la sua strada, e, di conseguenza, una riparten-
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ciotto e il vecchio amico Mick Harvey. L’unico nuovo è Paul Wallfisch, direttore musicale del teatro di Dortmund che avrà certo detto la sua negli arrangiamenti di questo Music From Republik Der Wölfe, disco ispirato alle favole dei fratelli Grimm, o meglio, alle poesie di Anne Sexton (Transformations) che a loro volta si ispiravano alle favole Grimm. Il linguaggio usato è quello del folk e non poteva essere altrimenti: queste fiabe sono folk, racconti popolari tradotti per l’infanzia ma con interpretazioni molto più complesse del semplice e obbligatorio lieto fine. I Ministry Of Wolves, complice il lavoro della Sexton, decidono di sondare il lato dark della materia, di mettere in scena l’abbandono di Hansel and Gretel, l’amore negato di Raperonzolo o il mondo ingannevole di Cappuccetto Rosso, puntando forte sul fattore fiabesco (può essere letta in questo senso la scelta di privilegiare il pianoforte sulle chitarre) ma con arrangiamenti scarni e per la verità senza molte sorprese. I tasselli sono comunque al posto giusto: musicalmente si viaggia tra retaggi Crime and the City Solution, sonorità folk est europee stile Ralfe Band (Cindarella) e accenni waitsiani da Rumpelstiltskin a Snow White, confermando un gusto teatrale (non per niente è la colonna sonora dello spettacolo teatrale Republik Der Wölfe di Claudia Bauer) e spesso recitativo che ben indaga l’intrigo simbolico lasciato aperto dai Grimm. Ne consegue un bell’esperimento, capace di ritagliarsi uno spazio di rilievo anche nelle carriere di Hacke e Harvey al di fuori di Neubauten e Bad Seeds. 7.1/10
Riccardo Zagaglia
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Skull Defekts - Dances In Dreams Of The Known Unknown (Thrill Jockey,2014) Genere: rock, psych, art, avant Nati come combo noise-experimental, gli scandinavi Skull Defekts non hanno mai nascosto apertura mentale, animo libero e spirito collaborativo, in un tentativo di non fossilizzarsi in un recinto musicale troppo definito. Dopo In Zaire, CM Von Hausswolff, Pan Sonic, Mats Gustafsson, sotto la sigla attuale o in individuale libera uscita, Daniel Fagerström, Henrik Rylander, Jean-Louis Huhta e Joachim Nordwall, già noti nell’underground svedese per aver trafficato a vario titolo con Union Carbide Productions, Kid Commando, Anti Cimex e altri ancora, hanno da qualche tempo unito le forze con mister Daniel “Lungfish” Higgs. In questo Dances In Dreams Of The Known Unknown l’uno lascia da parte i meditativi soliloqui della sua carriera in solo per riprendere il filo della narrazione made in Lungfish, mentre i quattro ceffi che vi si accompagnano “normalizzano” il proprio sound anche rispetto al precedente Peer Amid, adagiandolo su stilemi noise-rock anni 90s urticanti il giusto e destabilizzanti quanto basta. Ne esce un disco tirato, ipnotico, circolare ed eccentricamente vagabondo tra la New York d’inizi Novanta e le lande più underground e industrial-noise della perfida Albione dello stesso periodo, che si gioca belle carte come lo stomp di The Fable (sorta di GvsB imparanoiati), la nenia post-grunge It Started With The Light, l’industrial made in Trance Syndicate di King Of Misinformation, l’hypno-blues futuristico di Known Unknown. Menzione speciale per la conclusiva Cyborganization, sette minuti di vortice ipnotico che diventa a breve trascen-danza apocalittica come non se ne sentiva da tempo. Ottimo lavoro, se non si fosse capito, che non è mero revival noise-rock quanto il tentativo riuscito di una
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za lontana da quei lidi non può che spiazzare, soprattutto se la componente cheesy aumenta ulteriormente nel doppio intervento in solitaria al microfono di Jen Goma (A Sunny Day in Glasgow), dove – nonostante una trama pop di alto livello – i punti di riferimento vengono un po’ a mancare. Accade in Kelly – in cui la questione Cure lascia spazio alla questione Smiths – e in Life After Life, due dei brani che vedono anche la partecipazione di Kelly Pratt (Beirut, Arcade Fire) ai fiati. Lungo i dieci passaggi di Days Of Abandon si cerca chiaramente la cristallizzazione della formula in una sua versione forse eccessivamente polite, ripulita come è di distorsioni e feedback. In fin dei conti, però, ai Pains si perdona anche questo, non solo perché è impossibile non volergli bene, ma anche perchè scrivere pezzi indie-pop così incredibilmente immediati e piacevoli è una qualità da apprezzare tout court, soprattutto in un periodo storico in cui si abusa di distorsioni e feedback per sopperire a mere mancanze compositive. Fortunatamente, invece, il songwriting di Berman è ancora quello che tutti conosciamo, composto da dolci melodie e da quel candido approccio alla musica da eterno bravo ragazzo, sognatore ed introverso… un pure at heart. La ricetta guitar-pop, cementificata su strumming acustici e linee di tastiera, regala sempre soddisfazioni (Eurydice), così come gli intrecci jangle ad altezza Marr di Masokissed e pure i due inediti passaggi più riflessivi, Art Smoking e The Asp in my Chest. Si fatica a rintracciare nuovi grandi anthem in grado di competere con gli inni passati e in alcune occasioni si scorgono le prime autocitazioni, due fattori che sommandosi agli altri precedentemente elencati rendono Days Of Abandon inferiore ai primi due capitoli, per quanto funzionale al suo obiettivo. 6.7/10
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sua attualizzazione sonora. Pollice su. 7/10 Stefano Pifferi
Genere: jazz “Prendi il mondo allegramente, sempre sorridente e felice sarai tu” si canta in La gelosia non è più di moda. Chissà se la Tintinette Swing Orchestra ci crede davvero. Certo è che il disco d’esordio della formazione, Resistenza è amore…amore è resistenza, il buon umore te lo cuce addosso. La ricetta è molto semplice: un pugno di brani notissimi risalenti agli anni ’30/’40/’50 italiani e americani, un’orchestrina minimale fatta di contrabbasso, ukulele/banjolele e kazoo e l’ironia di Annamaria Tammaro alla voce. Il cantato è forse l’elemento che più rimane impresso: con la sua andatura ammiccante e ruvida al tempo stesso, racconta piccole storie del Novecento come farebbe una tromba con la sordina. E così tra ragtime, blues e swing, si passa dalla Piccolissima serenata di Teddy Reno all’evergreen Mille lire al mese, da Maramao a Why Don’t You Do Right, da Un bacio piccolissimo a Baciami piccina, dalla Summertime di Gershwin alla I Put A Spell On You di Sceamin’ Jay Hawkins. Tra gli altri brani presenti in scaletta, c’è anche una Sweet Dreams degli Eurythmics posizionata a mo’ di ghost song a fine corsa, forse l’episodio più particolare di tutto lotto. Cosa distingue la Tintinette Swing Orchestra da altri progetti “sul genere” ultimamente piuttosto diffusi, pensiamo ad esempio ai Sugarpie And The Candymen e, in parte, anche ai Bottega Glitzer? Probabilmente la sobrietà ricercata degli arrangiamenti e soprattutto l’interpretazione della front girl, quest’ultima capace di donare alle musiche una dimensione
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Tune-Yards - Nikki Nack (4AD,2014) Genere: pop, experimental “Grazie per la pazienza che avete dimostrato durante la cottura di questo pollo!”, dice tUnEyArDs a pochissimo dall’uscita di nikki nack, il terzo album, in arrivo tre anni dopo w h o k i l l. Non poteva più contenersi, e si è lasciata scappare un “Megamix” pubblicato il giorno del suo compleanno. Dopo un anno e mezzo di tour per w h o k i l l e la fase di scrittura e produzione, il suo immaginario è sempre più colorato, perde forse di purezza (siamo distanti dall’abbagliante talento senza mezzi di BiRdBrAiNs) ma guadagna in seduzione. In realtà questa nuova tendenza ammaliatrice non è lontana dalla black-music mainstream (Real Thing), a cui di certo è stata avvicinata anche dalla collaborazione con produttori come Malay e John Hill (i due, singolarmente, hanno lavorato con Alicia Keys – il primo – e, non a caso, Rihanna e M.I.A.). Il che vuol dire sapere come dosare le provocazioni e soprattutto l’autenticità. Dimentichiamoci l’ukulele e l’apparecchiatura casalinga, ma anche l’approccio della novizia allo studio che comunica l’entusiasmo della scoperta. Accettiamo, anzi, i campioni “rubati” alla M.I.A. (Left Behind). Per fortuna, la differenza sta sempre nella Nostra: Merrill Garbus può fare quello che vuole, con la voce, con la fantasia, con le melodie (con una bellissima, imprendibile delicatezza e astrazione in Look Around, che sembra uscita in alcuni passaggi dalla penna di Robert Wyatt): ogni arrangiamento è un’avventura etno-funk (tranne caricature come Stop That
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Tintinette Swing Orchestra - Resistenza è amore…amore è resistenza (Autoprodotto,2013)
visiva nostalgica ma a suo modo paradossalmente realistica. Sembra, insomma, di ascoltare la buona vecchia radio in un giorno non ben identificato tra le due Guerre Mondiali. 6.9/10
Gaspare Caliri
Wallis Bird - Architect (Rubyworks,2014) Genere: pop, art Quello irlandese è un popolo intriso di cultura musicale e l’adagio vuole che tutti suonino e cantino perché è scritto nel DNA degli abitanti di quell’isola: non ne possono fare a meno. La premessa è d’obbligo per introdurre il quarto album di una figlia d’Irlanda e del suo folk come Wallis Bird. Nonostante i consensi ottenuti all’estero con il precedente album omonimo (che non ci ha convito allora e continua a non convincerci oggi) e le più che incoraggianti
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vendite anche in patria, Wallis Bird non ha fatto scattare la scintilla d’amore tra la sua musica e gli irlandesi, che la guardano con rispetto ma anche con una certa gentile freddezza. Freddezza che non crediamo questo quarto disco – scritto dopo l’accasamento a Berlino (lontano, quindi, dalle verdi colline irlandesi: sarà un caso?) e dopo il più classico dei periodi di difficoltà personale – potrà aiutare a sciogliere. La vita non è certo stata semplice per la Bird, che ha cominciato da piccolissima a suonare la chitarra, ma che un incidente con un tosaerba quando aveva 11 anni ha lasciato con la mano sinistra profondamente compromessa in quanto a mobilità. Lei, mancina, non si è data per vinta e ha sviluppato una peculiare tecnica chitarristica per cui suona da mancina con le corde montate per una destra. Fatto interessante, ma che nell’arco delle canzoni arrabbiate che la piccola irlandese compone, non influenza minimamente, nel bene e nel male, il risultato finale. Detto che il techno pop 80s di Gloria non meritava la luce della pubblicazione, anche l’electro/disco dell’iniziale Hardly Hardly (già singolo che anticipava il disco) e I Can Be Your Man, giocata su suoni quasi hip hop, sono corpi avulsi rispetto alle radici folk della Bird: non crediamo che i fan apprezzeranno. Ma non saranno nemmeno brani sufficienti ad aumentarne il numero. Il resto è melina, tra l’incazzato à la Ani DiFranco, l’indie folk rock che piace anche al mainstream (zona Florence and the Machine) e l’intimismo voce e chitarra. Di questi brani, nessuno spicca per qualità compositiva, nonostante – come suo costume – il folletto irlandese non risparmi l’energia e l’impegno. Semplicemente, se è vero che tutti gli irlandesi suonano e cantano, è vero anche che non tutti diventano grandi artisti. 6/10
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Man), così come succedeva ai Talking Heads, che poi – attenzione – si sono ritrovati mangiati dalla loro stessa superficie (produttiva). L’energia e la vitalità che permette al crescendo di Water Fountain di essere credibile è la stessa che poi fa chiudere la canzone come era iniziata. Non ci sono climax nella musica di tUnEyArDs, non ci sono direzioni uniche e passaggi di stato, sta tutto dentro le bolle dell’effervescenza di Merrill, l’eterna mamma-bambina. Episodi come Time of Dark – e il basso dub che cosparge di Giamaica londinese tutto nikki nack – ci ricordano le Slits di Cut, con un sospetto, ossia che ciò che allora era approssimazione per manifesta giovinezza (e retorica punk), qui è calcolo di complessità. Una versione evolutissima e etno-esplosiva della messthetics che tra Settanta e Ottanta sconvolse le chart non mainstream inglesi. Garbus conosce il segreto del filo del rasoio, che separa – e taglia quando si preme – l’equilibrio dall’esagerazione. Nel complesso, sa ancora evitare di farsi del male. E sa farci venire la pelle d’oca – come in un canto femminile delle Isole Salomone – quando la voce riprende il sopravvento in Rocking Chair. 7.1/10
Marco Boscolo
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Genere: punk, hardcore Si parla spesso, per il Keith Morris leader e cantante di Off!, di una seconda giovinezza. Un giudizio forse di comodo per indicare un ritorno dell’ex-frontman dei mitici Circle Jerks e vecchia gloria dell’hardcore della prima ora, alle sonorità dure e pure. La verità è che Keith Morris ha sempre suonato questo. Forse la spiegazione del giudizio di cui sopra è un’altra, e cioé che Morris sta semplicemente suonando la musica che ha sempre suonato ma supportato dal giro giusto, come la label dietro alla band (Vice Records, sancta sanctorum dei consumatori hipster di oggi). Forse per questo agli Off! viene concesso più spazio di quello che riceve una hardcore band normale al giorno d’oggi. Spazio che, tradotto in visibilità, non è paragonabile all’infinitesimale frazione data, ad esempio, all’ultimo album dei Black Flag, per dire di un’altra band legata a Morris. A pensare male sicuramente si fa peccato, ma gli Off! si difendono bene da queste accuse, perché dietro all’hype la sostanza c’è, in questo Wasted Years. Quello della band, infatti, è un punk con tutti i crismi suonato benissimo: dietro a Morris, ci sono membri di band come Burning Brides, Hot Snakes e Redd Kross e che fanno bella figura. Gli stop’n'go sono tutti al posto giusto, l’impianto sonoro e la velocità trascinanti (Hypnotized), la voce di Morris rabbiosa e tagliente come sempre. Tra i Circle Jerks altezza Wild in the Streets e alcuni sapori metallici stile Void (Legion of Evil), gli Off! portano avanti la formula cristallizzata dell’hardcore della California. Non fanno avanguardia, anche perché il genere è quello, e modificarne la semplicità è impegno ormai quasi impossibile. E gli Off! sembrano interessati a tutto tranne che alla ricerca del suono originale/innovativo.
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Difficile, alla fine di questa cavalcata di 17 brani tutti attorno al minuto di durata (compresa bonus track), tracciare una linea di differenziazione tra questo album e le precedenti uscite della band. Se prima a prevalere era il sapore di novità di una band guidata Keith Morris dopo più di un decennio dall’ultima volta, ora gli Off! si trovano di fronte al problema di non ricalcare sé stessi, problema che per ora non sembra affliggerli. Lo testimonia un disco che non aggiunge nulla ma che per gli amanti del genere sarà un divertimento assicurato. 6.5/10 Andrea Macrì
We Have Band - Movements (Naive,2014) Genere: pop, indie Il titolo, a qualcuno con i capelli brizzolati, ricorderà un ben noto disco firmato New Order. Movements, terzo album del trio britannico basato a Londra, ha radici diverse, ma ai suoni oscuri del decennio Ottanta si rifà in più di un’occasione, vedi i calchi Depeche Mode di Please e Look The Way We Are. Per i We Have Band l’asse è decisamente più sbilanciato verso il dancefloor, come si evince dalla Modulate messa in apertura, con il suo inizio in medias res e un’atmosfera che fa Cliff Martinez. Dicevamo all’epoca del secondo disco del 2012, Ternion, che era facile indicarli come la next big thing targata UK, con il loro electropop innervato di Human League, di Talking Heads, di TV On The Radio, perfetto sia per le cuffie che per il club. Rispetto a due anni fa, la formula non è cambiata un granché: si va a cercare di ricoprire la nicchia ecologica che un LCD Soundsystem distratto ha smesso di presidiare, ma non si rinuncia alla matrice english, quella che aveva fatto alzare il sopracciglio per i Metronomy. Compito riuscito e portato a casa con una discreta classe.
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Off! - Wasted Years (Vice Records,2014)
Però questi We Have Band ti fanno arrabbiare, perché con la già citata Modulate, con gli incastri melodici in falsetto di Someone, con il tiro di Save Myself, fanno capire che potrebbero osare di più. Invece, paiono ancora una volta sospesi, come se il cuore andasse in una direzione ma fosse frenato dalla necessità di accontentare istanze più facili, immediate, tirate vie. Peccato. 7/10 Marco Boscolo
Genere: rock, spokenword_reading Un disco da leggere o un libro da ascoltare. Si vince facile quando appare quella sigla in cinese lì e anche se stavolta non si sfogliano pagine, obbligatoriamente riciclate, quelle “storie come asce di guerra da disseppellire” riemergono ancora. Il braccio armato del collettivo di scrittori ex-Luther Blissett – i due Wu Ming presenti sono il numero 2, un passato nella band hc Frida Fenner, e il numero 5, già coi Nabat, più Cesare Ferioli e Yu Guerra – inscena un disco-racconto in cui sono i personaggi reali e fittizi, più o meno romanzati, di sicuro affascinanti a prescindere dal patto col lettore, a far da traino alle musiche. Senza però che si ritorni alla modalità “reading” standardizzata, ovvero “scrittore che legge i suoi testi + musicisti che suonano i loro strumenti”, quella messa in scena in Bioscop è una sorta di cosmogonia di riferimento per la band il cui nome scelto è un omaggio all’album collettivo Wu Liao Contingent, pubblicato nel 1999 dalle quattro principali band cinesi oi! punk. Vicini e lontani geograficamente o temporalmente, ma idealmente centrali negli sviluppi della band (e non solo), scorrono le minibiografie del “portatore di luce” Ho Chi Mihn (Uno Spettro) e Vittorio Arrigoni (Stay Hu-
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Wu Ming Contingent - Bioscop (Woodworm,2014)
man), il calciatore socialista Socrates (la traccia omonima) e l’uomo qualunque che diventa eroe Bradley Manning (Soldato Manning), quel Peter Norman, terzo “comodo” nella più evidente delle proteste della storia delle Olimpiadi – 1968, pugni chiusi, capo chino, avete presente no? – o il Juan Manuel Fangio “miracolato” dai rivoluzionari anti-Batista nella Cuba pre-Castro (La Notte Del Chueco), Robespierre (Cura Robespierre), John Frum eroe “liberatore” di Vanuatu (Dio Vulcano!), l’archeologo spaziale Peter Kolosimo (Italia Mistero Kosmiko), per finire con la libera interpretazione del classico made in Gil Scott-Heron The Revolution Will Not Be Televised, già innalzato a anthem dai Disposable Heroes Of Hiphoprisy (La Rivoluzione (Non Sarà Trasmessa Su Youtube)). Un bel viaggio che si sviluppa sulle coordinate di un rock teso e vibrante, metà punk (nell’animo), metà wave, citazionista ma in maniera (pro)positiva, memore di ascolti classici e ben storicizzati così come di una urgenza comunicativa che ben si adatta al messaggio dell’album. Menzione particolare per l’opener Soldato Manning e i suoi echi Fluxus, la freefunk-wave di Italia Mistero Kosmiko, il (pop) punk 77 revisited alla maniera dei Television di La Notte Del Chueco e la fourth worldish Uno Spettro. Pollice su, in attesa del secondo volume, dedicato per giusta par condicio alle figure femminili. 7/10 Stefano Pifferi
Wye Oak - Shriek (City Slang,2014) Genere: folk “Subito dopo il tour di Civilian siamo stati separati per un po’, e questo periodo di tempo si è rivelato molto utile durante la fase di scrittura di Shriek: la lontananza ci ha infatti permesso di sperimentare nuove modalità di scrittura e di arrangiamento”. Dopo tre album insieme – il
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disco), dove si fondono le forme patinate del female pop più impegnato – da Kate Bush ed Annie Lennox, passando per Bat For Lashes e St. Vincent – e derivazioni art e ambient. Un gioco di suoni ribadito dalla title-track, altra dimostrazione di quel futurismo squisitamente plastico e fluorescente declinato all’oggi, e per molti versi “ammansito”, dall’ottima voce di Jenn Wasner, vera anima del disco. Nel complesso, Shriek rivela lo spirito di un gruppo con molta voglia di guardare avanti, con un occhio puntato alle classifiche, pur senza rinunciare a personalità e coerenza: un equilibrio giocato tra hype e creatività, per un ritorno di tutto rispetto. 7.2/10 Giulia Antelli
Yann Tiersen - ∞ (Infinity) (Mute,2014) Genere: minimalismo, experimental L’artista francese di origine bretone torna, a distanza di tre anni dal precedente Skyline, con un disco registrato in Islanda e sull’isola di Ouessan in Bretagna. Prodotto dallo stesso Tiersen, ∞ (Infinity) è permeato di atmosfere locali, e infatti sono presenti al suo interno collaborazioni con artisti madrelingua per i brani parlati e cantati in bretone (Ar Maen Bihan), faroese (Grønjørð) e islandese (Steinn). Per certi versi, l’album non si discosta dalle sonorità tipiche del Nostro: strumentali atmosferici, i suoni giocattoli degli esordi, minimalismo e trame trasognate, con i pezzi che seguono grossomodo la stessa struttura, sospesi tra archi e coralità sparse. La scelta dei suoni giocattolo è un richiamo ai primi lavori, il tutto manipolato elettronicamente e con l’aggiunta di strumenti acustici manipolati anch’essi (e così via…). Ne viene fuori un disco che potrebbe essere la colonna sonora di un documentario a carattere naturale, in cui il Tiersen che si
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debut If Children risale infatti al 2007 -, era naturale che i Wye Oak (al secolo Jenn Wasner e Andy Stack) avessero voglia di percorrere nuove strade. Quello che dunque non ci aspettavamo è che il duo di Baltimora, fino ad oggi orientato a sonorità folk/rock, abbia deciso di buttarsi a capofitto su sentieri electro/avant, molto lontani da quel songwriting tipico e tradizionale che ne aveva caratterizzato i precedenti lavori. A scavare un po’, si scopre però che la nuova veste dei Wye Oak è semplicemente la conseguenza naturale della carriera solista intrapresa recentemente da Wasner: un altro duo (stavolta electro-pop) sotto il moniker Dungeonesse, con un album omonimo all’attivo, di cui la singer-songwriter sembra aver ripreso suoni, calore ed energia per la scrittura di Shriek. Quello che ci troviamo davanti è un lavoro disimpegnato ma al tempo stesso curato nei minimi dettagli, diviso tra l’orecchiabilità disco/dance delle melodie e l’approccio cantautoriale dei testi: un mix che mette in mostra personalità compositiva e stratificazioni sonore, dove sono i synth – e non più le chitarre – a disegnare il quadro complessivo delle canzoni. Quest’ultime caratterizzate da una fortissima attitudine pop, tuttavia combinate ad arrangiamenti sperimentali e densi di influenze, in grado di arricchire lo spettro di suoni che la coppia aveva proposto fino a qui. A dover fare qualche nome, vengono in mente le dissonanze eighties del miglior Peter Gabriel, ad esempio in The Tower e I Know The Law, così come la schizofrenia sintetica dei Talking Heads, come dimostrano Glory e Sick Talk. Quello che però il gruppo mostra di saper far meglio è lasciarsi andare al gioco facile del puro pop, dove per “facile” s’intende la capacità di costruire brani melodicamente impeccabili e di sicuro effetto: ne sono prova le atmosfere distorte e scintillanti di Before (uno degli episodi migliori del
conosce viene fuori a tratti, preferendo lasciar parlare soprattutto le trame sonore corali e alleggerendo il tutto per lasciare respiro alla musica, dopo i barocchismi che appesantivano alquanto gli ultimi lavori. Un intelligente cambiamento di rotta quindi, che rende ∞ (Infinity) omogeneo e leggero. 6.9/10 Teresa Greco
Genere: fieldrecordings Ogni traccia di Positions prende il nome da una codifica che ha qualcosa di geografico, qualcosa di temporale, molto di archivistico. Sono nomi documentali, che introducono le fotografie acustiche del vinile di ZimmerFrei. Positions è un lavoro di selezione, di taglio. Le tredici tracce derivano dall’archivio di registrazioni fatte in Europa e Stati Uniti da Massimo Carozzi dal 2005 a oggi. La scelta non è lontana dalla decisione sul punto di osservazione della macchina da presa. I documentari di ZimmerFrei, del resto, sono più antropologici che sociali. E l’antropologo ha un enorme problema, ossia decidere quando inizia e quando finisce il testo che ha di fronte, il materiale da analizzare. Ogni field recording è un punto di partenza per narrazioni: sapientemente, ZimmerFrei sottotitolano le tracce con un accenno contestuale, qualche dato qualitativo, descrizioni solo apparentemente distratte che soppesano la precisione del dato quantitativo. Un esempio: nella iniziale N 52° 21’ 38.669” E 4° 52’ 10.313” il sottotitolo recita Hotel de Filosoof, room 218. Something is humming. Viene in mente la Stanza 218 di El Muniria, progetto a cui prese parte anche Carozzi (il lato acustico-musicale di ZimmerFrei), ma anche – ovviamente – il caleidoscopio oscuro legato al numero della
Gaspare Caliri
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ZimmerFrei - Positions (Autoprodotto,2014)
stanza. Di fatto, all’opposto della musica concreta che coglie il pretesto del suono raccolto per fare una grammatica musicale (vedi Variations pour une porte et un soupir di Pierre Henry) o “comporre”, in Positions si chiede un lavoro attivo all’orecchio dell’ascoltatore, che processa e individua nelle tracce un proprio incipit. Parafrasando il “quasi nulla” di Luc Ferrari, qui c’è già quasi tutto, basta volerlo. 7/10
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Be My Delay, BraBraBra, Heroin In Tahiti, OvO, Clay Rendering, Amph, Forza Albino,
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Cominciamo dai nastri, questo giro di Gimme Some Inches a dimostrazione che quella delle cassette non sembra essere una moda passeggera. Ce lo ricorda BeMyDelay che con Company Devine inaugura il catalogo della neonata Kitchen Leg, label di stanza a Berlino e gestita da un altro nome della allargata famiglia Boring Machines, ovvero DuChamp. In realtà prima di BeMyDelay c’erano state le BraBraBra trio multietnico all-female basato in quel di Berlino di cui, guarda caso, fa parte la padrona di casa. Progetto da cameretta, Mango, uscito sul finire dello scorso anno, è un concentrato di piccole gemme minimalpop, tra coretti e chitarrine acustiche, Shonen Knife e riot grrrls in cattività, stortume postpunk, indie in divenire e chi più ne ha più ne metta: quando si dice un gioiellino. Tornando a BeMyDelay, la tape va inquadrata un po’ indietro nel tempo, collocandosi tra l’esordio e il ripiegamento folkish di Hazy Lights. Il nastro riprende infatti tracce registrate presso la Cripta747 di Torino nel 2011 e vede Marcella accompagnata da due Eternal Zio (Rella e Roberto Maggioni). Perciò forme arcaiche di blues-folk in modalità minimal-ipnotica, ma anche sensibilità psych spesso arrembante e acida, pronta a sprizzare effluvi di lsd d’antan (Morning After Night), pagana e sognante, con tanto di cover di Nightfall della Incredible String Band. In una parola, eccelsa. Passando ai formati concentrici, due segnalazioni per due grossi calibri dell’underground italiano. In primis il 7” che segna il ritorno degli Heroin In Tahiti e che dovrebbe anticipare un nuovo, per dimensioni “monolitico”, album. Peplum (in uscita per la benemerita Yerevan) ripropone le atmosfere “spaghetti wasteland” che avevano segnato l’esordio Death Surf ma ci regala qualche apertura ancor più laterale. Se la title track sul lato A reitera quel “surf” da dopo-bomba, morriconiano e insieme retro-futuribile, che è marchio di fabbrica, Alo sul lato opposto inasprisce le atmosfere aprendo squarci negli abissi di un suono cinematico alla maniera dei Demdike Stare citati dalla press. Non è un caso che la traccia sia stata usata dai due per contribuire all’installazione dell’artista inglese Phil Collins. Musica come visione, al solito. Salendo di giri, tocca all’“altro deciso passo nell’oscurità abissale”, ovvero il 12” one-side Averno/Oblio degli OvO. Curato da CorpoC, non è una appendice di Abisso, ma sua parte integrante, tra oblungazioni ferine e noisey che si pongono in scia a Gnaw e Khanate, alternando doom haunted (Averno) e dilatazioni mefitiche (Oblio) con notevoli inserti di elettronica che ci ricordano ancora una volta la collocazione degli OvO nell’Olimpo delle
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musiche estreme. Atteso e gradito ritorno quello dei Clay Rendering dei coniugi Connelly. Ex Wolf Eyes ed Hair Police lui, the Haunting e The Pool at Metz lei, Mike e Tara avevano già catturato il nostro interesse in occasione del primo 12” Vengeance Candle. E aveva visto bene la Hospital di Dominick Fernow perché la coppia più tetra dell’underground statunitense torna in grande stile con un nuovo EP per la medesima label. Quattro pezzi compongono questo Waters Above the Firmament, con l’omonima traccia iniziale che stende un velo nero sul presente del gruppo e dell’ascoltatore; sei minuti per organo processato e dilatazioni ascensionali in stile Burzum altezza Hvis Lyset Tar Oss. L’umore è chiaro (cioè no, è scurissimo), le capacità del duo altrettanto e quindi ecco le voci neniose e i timpani industriali di Temple Walking, quasi un incontro tra i Godflesh e Ättestupa, i beat simil-EBM di The Pest ed infine spoglia desolazione della conclusiva Myrrh is Rising, momento intimista e meditativo che pone una pietra tombale in attesa dell’immancabile ritorno. C’è qualcosa di estremamente cinematografico nell’oscurità che i due riescono a creare a nome Clay Rendering e l’attesa per il primo full-length comincia a farsi sentire. Addentrandoci ulteriormente in territori impervi di harsh e compagnia abbruttita, spicca per merito l’ultima tape di Amph, duo svedese composto da Andreas Malm (già nei kosmische Skeppet) e Peter Henning (tenutario della piccola ma lodevole etichetta Sprachlos Verlag). Due i brani per la partenopea Joy De Vivre che fanno di Hudson una delle uscite più interessanti del gruppo. Nove minuti per lato a base di loop devastanti, feedback di sottofondo, echi, rimbombi e rumoracci di ogni sorta, ma senza mai eccedere nella violenza fine a se stessa. Un lavoro tanto fine quanto terribilmente inquietante, come una minaccia fuori dalla finestra che non ti entra mai in casa ma che non se ne va neppure. Chi invece fa un uso smodo e intenzionale della violenza fine a se stessa sono i danesi Forza Albino. Conosciuti anche grazie all’hype che monta intorno a Posh Isolation e soci, i tre predatori sonori tornano con un secondo 12” dopo il primo Infestation del 2012. Niente sconti e nessuna velleità in questo Black Dog, solo badilate di malessere, odio prêt-à-porter, urla belluine testi a dir poco sconvenienti (“I kill when I fuck, my weapon is my cock. HIV Provider”). Volete mettere alla prova la vostra sopportazione del rumore? Siete arrivati nel posto giusto: gustatevi la suite Bareback Violence/HIV Provider e se le orecchie non vi sanguinano c’è sempre il lato B Two Shades Of Grey. Esce su Freak Animal in cassetta e in vinile per dare assedio agli amanti di entrambi i formati. Ultima legnata in testa, la compilation su nastro Slutstationen edita di recente dalla Styggelse di Kristian Olsson (noto come oscuro signore in solo e anche per essere l’efebico dei due nei famigerati Alfarmania). Novanta minuti di distruzione totale alla quale partecipano nomi ben conosciuti come Brighter Death Now e gli stessi Alfarmania, così come tante nuove leve della scena nordica noise/harsh/industrial. Non è certo possibile (né sarebbe sensato) fare un resoconto dettagliato, ma è doveroso citare almeno i promettenti Vit Fana e Puce Mary, così come gli svedesi Händer Som Vårdar e Arv & Miljö, già noti almeno ai pochi che sono soliti addentrarsi in queste terre dismesse. Molto bello anche l’oggetto in sé, con packaging curato dalla copertina foldout all’artwork a collage di immagini oscure e evocative di palazzoni e ferrovie, foreste e pratiche rituali, in perfetto stile Alfarmania. stefano pifferi, andrea napoli
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Aztec Camera
classic
alb u m
High Land, Hard Rain (Domino,2014)
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“Che cosa aggiungono al mondo gli Aztec Camera? Beh, occasionalmente aggiungono un po’ di magia. Di alchimia, di trasporto e concentrazione di tutte le emozioni di base – la felicità, la tristezza, la rabbia, il disprezzo, il disgusto, la paura, la sorpresa – in un’unica, piccola cosa”. Aveva le idee chiare già allora, l’appena diciannovenne scozzese Roddy Frame che nel 1983 pubblicava il suo primo album. Le canzoni di High Land, Hard Rain nascono ancora prima, quando da adolescente il Nostro marina la scuola in quel di Glasgow (per la precisione nel sobborgo East Kilbride) all’inseguimento dell’ispirazione; nel 1981 sono due i singoli che entrano nella classifica indie britannica – Just Like Gold e Mattress of Wire - grazie all’interessamento della Postcard, etichetta di culto che aveva sotto contratto gli Orange Juice di Edwyn Collins e i Josef K. Ma, come si dice in questi casi, il meglio doveva ancora arrivare. In sala d’incisione c’è la prima formazione di una band di cui Frame, negli anni a venire, sarà l’unico membro stabile: Campbell Owens al basso, Bernie Clarke (produttore del disco insieme a John Brand) alle tastiere e Dave Ruffy, un tempo nei Ruts, alla batteria. L’etichetta stavolta è Rough Trade, label che già aveva preso in prestito la loro We Could Send Letters per la compilation C81 abbinata al New Musical Express, acquistabile utilizzando due coupon e aggiungendo una sterlina e mezza. Una partenza folgorante per una carriera che di lì a poco avrebbe spaziato con nonchalance da un jangle-pop primitivo e con pochi fronzoli a proposte più levigate e adatte alle hit parade (se il successivo Knife vede ai posti di controllo un nome ingombrante come quello di Mark Knopfler dei Dire Straits, per il terzo album, Love, Roddy è al lavoro con Tommy LiPuma per giocare con il soul e seguire le orme del collega ed ex compagno d’etichetta Green Gartside), recuperando poi grinta e carattere in Stray (tra i singoli, anche un duetto con Mick Jones dei Clash, ovvero Good Morning Britain). Che Roddy Frame non sia un artista prevedibile lo dimostra anche la collaborazione con Ryuichi Sakamoto, nel 1993, per Dreamland, ma dopo Frestonia per gli Aztec Camera (già di fatto un progetto solista) cala il sipario una volta per tutte. Quel che resta oggi, è un cantautore elegante che si prende lunghe pause e ci propone un pop fatto in casa con l’aiuto di un Mac, come in Western Skies, ma la nuova ristampa del debutto High Land, Hard Rain è la giusta occasione per riassaporarne la freschezza e notare, dopo trent’anni, quanto gli anni Ottanta non siano affatto stati una fucina di sole video stars, tra rock da FM e synth-pop in ogni sua variante, e di pettinature discutibili. La magia è intatta, a distanza di trent’anni. Basta far partire il disco e lasciarsi trasportare dalla commistione di chitarre acustiche, ritmi quasi latineggianti (rintracciabili anche in Release, settimo brano in scaletta) e i cori di scuola Motown di Oblivious, che come singolo
arriva senza troppa fatica in Top 20 e ci si ricorda per un istante che oltre al new romantic nel biennio 1983-1984 si faceva strada un pop colto, ricco di riferimenti Sixties (qualche critico di allora scomodò i Love di Forever Changes e il Neil Young dell’era Buffalo Springfield), diretto ed esuberante; lo stesso Johnny Marr ammette di aver scritto This Charming Man pensando a Walk Out To Winter, un brano frizzante che tradisce ancora una volta ascolti diligenti dello storico repertorio Motown (c’è un’eco di Ain’t No Mountain High Enough, classico della coppia d’oro Ashford and Simpson portato al successo da Marvin Gaye e Tammi Terrell, e fatto conoscere a una nuova generazione grazie al sample usato da Amy Winehouse in Tears Dry On Their Own), così come Back On Board, in affettuoso debito con i Temptations di My Girl e Just My Imagination. Roddy Frame non voleva proprio saperne, dell’appellativo enfant prodige che cercavano a tutti i costi di affibbiargli, e qui si dimostra già un autore maturo, forbito e piuttosto ambizioso. Strano a dirsi, ma una delle fonti d’ispirazione per Oblivious è My Head Is My Only House Unless It Rains di Captain Beefheart, mentre The Boy Wonders parafrasa Love Comes In Spurts di Richard Hell and the Voidoids; il resto è un susseguirsi di stati d’animo tra joie de vivre e malinconia, voglia di compagnia e riflessioni sulla separazione (We Could Send Letters), proiezione verso il futuro e attaccamento ai ricordi (Down The Dip). Il pop di High Land, Hard Rain è più asciutto e assai meno “grandioso” del coevo North Of A Miracle di Nick Heyward, con il suo tripudio d’archi e fiati, e spiana semmai la strada a due gioielli come Rattlesnakes di Lloyd Cole and the Commotions e Swoon dei Prefab Sprout, con un Paddy McAloon che già scalpita tra citazioni letterarie (nel singolo Don’t Sing) e la volontà di far proprie le lezioni del pop aulico di Burt Bacharach in un momento storico in cui andava di moda tutt’altro. Piace pensare che anche due scozzesi come Stuart Murdoch dei Belle and Sebastian e David Scott dei Pearlfishers, a un certo punto, abbiano messo sul piatto il 33 giri di debutto degli Aztec Camera anche quasi fino a consumarlo, perché l’ipotesi – ascoltando parte del loro output – è tutt’altro che peregrina. Meno imbronciato e più autoironico di Morrissey (lo ha dimostrato la bizzarra cover di Jump dei Van Halen ai tempi di Knife, quasi antesignana di altre spiazzanti riletture, da Antony che canta Beyoncé a Glen Hansard e Scott Matthew che fanno propri brani di Britney Spears e Whitney Houston) e meno prolifico di Paul Weller, ma con la stessa curiosità che ha portato quest’ultimo a nuove sfide, nuovi interessi e virate del tutto inattese, Roddy Frame è riuscito a imporsi tanto tra gli indie fans quanto tra gli spettatori di Top of the Pops, anche se non necessariamente per gli stessi motivi e con le stesse canzoni. High Land, Hard Rain è stato ristampato in occasione del trentesimo anniversario della sua uscita, e la reissue corregge alcuni errori dell’edizione della Edsel del 2012 (non autorizzata dall’artista). Frame è oggi il proprietario dell’opera registrata e si è affidato a Domino per la sua ripubblicazione: la deluxe edition contiene un CD aggiuntivo con b-side, BBC sessions, remix più o meno noti, ed è un bel sentire anche per chi non è un fan di strettissima osservanza. Alessandro Liccardo
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TRA I TANTISSIMI IN ARRIVO! 29 MAGGIO 2014: LOREDANA BERTE' 03 GIUGNO 2014: BOMBINO 05 GIUGNO 2014: CLOUD NOTHINGS 07 GIUGNO 2014: MULATU ASTATKE 11 GIUGNO 2014: ESTRA 22 GIUGNO 2014: PIERS FACCINI 24 GIUGNO 2014: MASSIMO VOLUME 26 GIUGNO 2014: CALIBRO 35 03 LUGLIO 2014: LEVANTE 07 LUGLIO 2014: NEW YORK SKA JAZZ ENSEMBLE 15 LUGLIO 2014: JOHN BUTLER TRIO 16 LUGLIO 2014: GORAN BREGOVIC 18 LUGLIO 20143: BANDABARDO' 22 LUGLIO 2014: PAOLA TURCI 24 LUGLIO 2014: WILLIAM FITZSIMMONS 27 LUGLIO 2014: EASY STAR ALL STARS 03 AGOSTO 2014: NOFX Via Granelli 1, Sesto San Giovanni (MI) www.carroponte.org Prevendite disponibili sui circuiti TicketOne e VivaTicket