digital magazine | novembre 2013 | n. 109
Psychedelic Techno from (Elect)Roma
sommario tune in – p. 4 Massimo Volume Houndstooth
drop out – p. 12 Suede Melvins David Lynch Donato Dozzy The Smiths
recensioni – p. 82 rubriche – p. 146
#109 novembre Direttore Edoardo Bridda Ufficio Stampa Alberto Lepri Coordinamento promo Gaspare Caliri, Stefano Pifferi Art director Nicolas Campagnari A questo numero di Sentireascoltare hanno contribuito: Nino Ciglio, Marco Braggion, Stefano Pifferi, Fabrizio Zampighi, Alessandro Liccardo, Tommaso Iannini, Stefano Solventi, Enrica Selvini, Giulia Antelli, Stefano Gaz, Riccardo Zagaglia, Daniele Rigoli, Marco Boscolo, Massimo Rancati, Edoardo Bridda, Marco Masoli, Luca Falzetti, Giulia Cavaliere, Alessandro Rabitti, Ilario Galati, Antonio Pancamo Puglia, Gaspare Caliri, Gabriele Marino, Alessia Zinnari, Teresa Greco, Giulio Pasquali Copertina Donato Dozzy Guida spirituale Adriano Trauber (1966-2004)
SentireAscoltare // online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Copyright © 2013 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare.
Un ottimo ritorno, quello dei Massimo Volume, con un Aspettando i barbari che rafforza il loro status di band di culto. Abbiamo incontrato Vittoria Burattini, Egle Sommacal e Stefano Pilia per farci raccontare il presente e ricordare il passato. Testo di Fabrizio Zampighi
© Francesca Sara Cauli
Massimo Volume Lontano dai barbari
L’appuntamento è sul soppalco di Semm, negozio di dischi bolognese di via Oberdan particolarmente attivo sul fronte delle iniziative musicali cittadine. E’ lì che incontriamo verso sera i Massimo Volume per l’intervista che leggerete di seguito, realizzata pochi minuti prima della presentazione ufficiale del nuovo disco Aspettando i barbari. Al piano di sotto è un mescolarsi di persone compresse nella metratura non troppo generosa dei locali – ma piena, vivaddio,
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di CD e soprattutto di LP in vinile – e stipate nel portico esterno al negozio. Tutte con gli occhi puntati sulla vetrina, dove Emidio Clementi, Vittoria Burattini, Egle Sommacal e Stefano Pilia si accomoderanno di lì a poco per far ascoltare ai presenti la loro ultima fatica discografica. C’è una certa attesa, nell’aria, conferma ulteriore di quanto l’immaginario del gruppo sia ben radicato in una Bologna che lo ha visto nascere e che alla fine ci è pure finita dentro, ma anche
dell’affetto che circonda i Nostri da sempre. In parallelo ci viene in mente il Giovanni Lindo Ferretti che abbiamo visto qualche tempo fa, sempre a Bologna, in occasione della presentazione del film autobiografico Fedele alla linea: anche lì, stessa attesa, stessa ressa, stessa voglia di partecipare a evento piccolo ma con un grande significato per molti. Sembra quasi che, al di là dei meriti innegabili degli artisti citati, essi rappresentino quasi dei punti fermi, delle ancore in alto mare figlie di un’epoca irripetibile, a cui appendere il cuore in tempi caratterizzati da un fast food dell’informazione (musicale e non) che non ammette distrazioni e in cui forse, molti, non si ritrovano. I doveri promozionali e uno sfortunato accavallarsi di eventi impediranno a Clementi di partecipare all’intervista, sostituito egregiamente dal resto del gruppo. Quanto segue è il resoconto di una chiacchierata amichevole sul nuovo disco e sulle dinamiche che regolano il lavoro all’interno dei Massimo Volume, con qualche polaroid sbiadita dai ricordi ad arricchire il tutto. Tema libero: Aspettando i barbari… Egle Sommacal: Siamo soddisfatti del risultato. Siamo anche a un punto della nostra carriera in cui il giudizio degli altri può incrinare poco le scelte che facciamo per un disco. E’ chiaro che se il disco riceve buoni riscontri, ci fa piacere, ma allo stesso tempo non ci preoccupiamo più di tanto del caso contrario. In generale, Aspettando i barbari è un disco che rifaremmo. Per quanto riguarda il titolo, ti posso dire che personalmente lo leggo come un’attesa dei tempi scuri, tempi scuri che, a dirla tutta, mi sembrano arrivati già da un po’. Vittoria Burattini: Il disco ha un’atmosfera abbastanza cupa. Credo che il titolo indichi, comunque, questa attesa, questa atmosfera. La stessa atmosfera che, a mio modo di vedere, si ritrova anche nei testi delle canzoni Rispetto a Cattive Abitudini, Aspettando i
barbari mi è sembrato un disco più integrato in quello che potremmo definire “l’immaginario più classico” dei Massimo Volume. Cosa ne pensate? ES: Le nostre intenzioni, in realtà, erano un po’ diverse. Volevamo allontanarci dallo stile classico del gruppo, rimanendo al tempo stesso comunque al suo interno. E’ vero però che questo disco, soprattutto per quel che riguarda le voci, il cantato e i testi, potrebbe richiamare un po’ Stanze. C’è forse il ritorno di un recitato che è più vicino al cantato, cosa che Emidio, nel corso degli anni, sembrava avere sempre più abbandonato. C’è anche il ritorno a una metrica del testo che è più vicina alla forma canzone, piuttosto che a una forma narrativa. Forse è il passaggio che era mancato a Club Privè, in cui si era cercato un cantato che alla fine si è rivelato, probabilmente, non del tutto a fuoco. Qui mi pare che Emidio abbia fatto un grosso lavoro, da questo punto di vista. VB: Anche nella composizione dei pezzi, forse, c’è un ritorno a Stanze. I brani, in generale, mi sembrano più arrangiati, più compatti. Cattive abitudini mi era sembrato un po’ un allentare l’ortodossia stilistica dei Massimo Volume, quasi per vedere dove si sarebbe potuti arrivare. Episodi molto più lenti del solito, come se fosse in atto un gioco di equilibri tra di voi. In fondo era il disco della “ripartenza”… ES: Alla fine queste cose sono sempre molto casuali, credo. Stefano Pilia: Quel che ricordo io, è che finito Cattive Abitudini avevamo preso la decisione di fare, con il disco successivo, qualcosa di più claustrofobico, di duro. VB: In effetti Aspettando i Barbari è un po’ il negativo di Cattive Abitudini. SP: Credo che i due dischi si siano materializzati in due modi completamente diversi. Per Cattive Abitudini abbiamo lavorato molto sulla compo-
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sizione dei brani, ognuno per le sue parti ma in maniera corale, e poi abbiamo registrato praticamente in diretta cercando il giusto equilibrio. Qui invece ognuno ha registrato separatamente e tutto il processo è stato fatto passo per passo. E cambiato qualcosa nella strumentazione? SP: Abbiamo inserito altri elementi timbrici, ad esempio i sintetizzatori; Vic Chesnutt ha al suo interno due bassi. In generale, però, la concezione del suono è rimasta praticamente la stessa. Com’è interagire all’interno dei Massimo Volume? L’impressione dall’esterno è che ognuno di voi abbia un portato molto personale e diverso da quello degli altri. Come lavorate di solito? VB: Di solito iniziamo improvvisando in sala prove; qualche volta c’è un riff interessante da cui partiamo per sviluppare insieme il lavoro. In generale il procedimento è questo. SP: Alla fine c’è tantissima selezione sul materiale che suoniamo e spesso lo stesso materiale viene lavorato e rivisitato più volte. In qualche caso viene buttato via qualcosa che potenzialmente potrebbe essere molto bello, ma che non convince tutti quanti. ES: C’è stato un lavoro molto lungo di selezione, per questo disco. Un processo che, alla fine, si è rivelato anche logorante. Sono nate prima le musiche o i testi? ES: Emidio ha tratto ispirazione per i testi dalle musiche, dalle atmosfere. In realtà, quando poi sono arrivate le parole, abbiamo modificato nuovamente le musiche per adattarle alla parte vocale. Nonostante lo si sia registrato in maniera separata, il lavoro è stato comunque collettivo. Qualche brano ha cambiato completamente volto, tipo Dio delle zecche, ad esempio. E’ stato un disco dalla genesi molto “combattuta”, per certi versi. Il risultato finale, comunque, ha soddisfatto tutti. VB: Che io ricordi, il nostro iter di lavoro è
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sempre stato un po’ “sofferente” in questo senso. Ognuno, ovviamente, si attacca a quello che ama e quindi le dinamiche decisionali sono sempre delicate. Questo dipende sia dal portato musicale, che da quello caratteriale. Poi quando si suona dal vivo, si dimentica tutto. Siamo un po’ come quelle coppie che hanno un ottima intesa sotto le coperte e litigano quando vanno a fare la spesa. Come gruppo avete una storia ormai ventennale. Quale disco, per i Massimo Volume, ha rappresentato il passaggio più importante verso la maturità? Che ricordi avete legati al periodo in cui lo avete inciso? ES: Non saprei risponderti. VB: Anche se per Lungo i bordi provo molto affetto, credo che sceglierei Da Qui. Mi pare che dal punto di vista creativo, per il lavoro svolto in studio, per i personaggi coinvolti (Steve Piccolo, ad esempio), Da qui rappresenti un po’ quel momento. Di quel periodo ricordo l’atmosfera che c’era in studio, le ore notturne passate a suonare, il fatto che il rapporto tra di noi quasi non tenesse conto dell’esterno. Dopo, come è normale che sia, sono arrivati gli orari, le famiglie e via dicendo, quindi le cose sono un po’ cambiate. Scendendo nello specifico, ho un ricordo di un brano, Manhattan di notte, registrato proprio nelle ore notturne; mi è sempre sembrato che la notte che avevamo intorno, il silenzio, fossero entrati in qualche maniera all’interno del brano. SP: a me piacciono molto i primi tre, anche se Lungo i bordi ha forse qualcosa della freschezza di Stanze, pur iniziando a definire qualcosa di nuovo. Se doveste fare un bilancio della vostra storia? ES: Quando arrivi alla nostra età, cambiano un po’ i valori rispetto a quando si è giovani. Magari la musica non è più al primo posto, per quanto rappresenti, comunque, la nostra vita. Entrano in gioco anche altri fattori, altre variabili.
Ora, se saliamo sul palco e uno di noi è nervoso o magari sbaglia, tendiamo a vedere tutto in maniera molto più rilassata, rispetto al passato. Adesso quello che ci interessa è ricoprire bene il nostro ruolo all’interno della band. Per quanto mi riguarda, ho una visione molto disincantata. Per assurdo, potrei anche pensare che un giorno la musica diventi solo una cosa personale mia, privata. Credete che la band sarebbe stata la stessa se non fosse nata in un contesto cittadino come Bologna? ES. Alla fine credo che la vita sia solo un insieme di contingenze, di casualità. Una variabile può
anche cambiare tutto quanto. Quanto vi ritrovate in una contemporaneità musicale in cui esiste una grande interconnessione tra i generi e i suoni? SP: Siamo dei freak, in questo senso. Ci scambiamo anche ascolti, informazioni. Siamo molti aperti. ES: In realtà non siamo molto legati al nostro passato musicale più tradizionale. Musicalmente siamo onnivori; ascoltiamo musica classica, jazz, di tutto. Sul fatto che noi si sia o meno buoni musicisti, si può discutere, ma in generale siamo ottimi ascoltatori.
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Houndstooth Testo di Edoardo Bridda
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Dallo scorso febbraio ad oggi, Houndstooth, la nuova label del Fabric condotta da Rob Booth, ha saputo cogliere alcuni segnali importanti dalla scena elettronica condensandoli in una manciata di pubblicazioni di assoluto pregio, pregio che ha riguardato anche il mastering fisico dell’intero catalogo vinilico, affidato a Matt Colton. Booth del resto non è stato scelto a caso dai ragazzi del famoso locale che da quattordici anni ha imposto un legacy di tutto rispetto a Londra e in Gran Bretagna tutta. A partire dal 2007, il suo incessante lavoro sul podcast website – anche label – di sua proprità Electronic Explorations ha monitorato costantemente le uscite da un ampio spettro di produzioni con un taglio sempre attento alla techno, alla dubstep e al suo post- e ai talenti emergenti. Dal 2012, l’AandR agent si è unito alla squadra di Charterhouse St e questo gli ha permesso di mettere in luce alcuni producer a lungo monitorati come Akkord o Call Super. Proprio quest’ultimo, alias di David Seaton, è il primo protagonista e opener della label con The Present Tense, un 12” stampato in vinile 180 grammi (proprio come i successivi) che ha inaugurato la serie di lavori curati da Colton (famoso per aver lavorato ai fatidici album di Blake e Stott). Quest’ultimo è l’ingegnere dietro la seconda uscita sull’etichetta del producer, l’eppì Black Octagons pubblicato a settembre, un mini anche migliore del precedente in grado di bilanciare le traiettorie tra la Downwards di Regis e co. (omaggiata, peraltro, in un podcast celebrativo per i vent’anni dell’etichetta su Electronic Explorations) e la Berlino di gente come Objekt e Pantha Du Prince sotto il segno degli ultradettagli sonici da ascolto immersivo in cuffia. La seconda uscita dell’etichetta è in verità una doppietta di House Of Black Lanterns con un EP (Truth And Loss) e un doppio LP (Kill The Ligths). Il progetto rappresenta una nuova pelle per Dylan Richards, l’unico “uomo cattivo” su
Ninja Tune, un cupissimo stepper sulla falsariga delle produzioni più scure di Kevin Martin noto con gli alias di King Cannibal (ricordiamo anche il buon Let The Night Roar) e Zilla. Richards, partito come un revisitatore industrial delle produzioni dancehall nei primi Duemila, dipinge con Kill The Ligths un dantesco affresco cross-genere tra techno, electro, iconografia lato grime della dubstep ridotta a spari, coltelli, asce e spade (fate conto un misto tra Matrix e Blade), sintetici smalti 70s-80s (il solito Blade Runner), footwork e fetido trap (Truth and Loss), che non rinuncia neanche a trascuarbili ballad (Shot You Down). Poco male, l’album regge benissimo soprattutto dopo ascolti ripetuti (occhio ance all’EP You, Me, Metropolis con il remix di Unsubscribe) e, del resto, sotto la coordinata industrial, Houndstooth non sbaglia, in particolar modo, con il progetto più rappresentativo della label, Akkord, duo composto da Synkro e Indigo, produttori di Manchester e appasionati di matematica e arcane geometrie. Navigate EP è ancora un’esplorazione di confine tra industrial e techno, ma dal un punto di vista più amato dai ciruiti degli IDM lovers, ovvero nel solco della oramai lunga tradizione britannica dell’elettronica d’ascolto (che ha radici appunto nella techno e nei continuum reynoldsiani). Che Akkord diventi sinonimo di nuovi Autechre post-dubstep? Lo vedremo. Presto recensiremo il debutto lungo in separata sede, qui ci basti sapere che all’ottima traccia omonima seguono altre tre chicche da comprare senza esitazioni. Altro strike per Booth: ospitare Dave Clarke in duo con Jonas Uittenbosch sotto il nome di Unsubscribe con un abrasivo 12” intitolato Spek Hondje. Dopo i remix della coppia si tratta della prima produzione dopo oltre sette anni di silenzio per il famoso producer e la traccia omonima, in tre versioni è, manco a dirlo, è un un affondo circolare, compatto e profondo nella darkside che più ci piace.
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Diversa storia – ma non colore – per Snow Ghosts, duo composto da Hannah Cartwright (Augustus Ghost) e il bass producer Ross Tones (Throwing Snow) che la scorsa estate ha ricevuto vari attestati di hype presso il Guardian e oltre. A Small Murmuration affonda le radici in magiche, quanto nere, folktroniche ballad circondate da chitarra acustica, violoncello, synth gotici, spore sintetiche, stepping post- ecc. Una produzione forse eccessivamente laccata (vedi anche Lykke Li e compagnia goth svedese) che rappresenta finora l’unico episodio di questo tipo nel roster dell’etichetta. Con Alec Storey / Second Storey e il 12” Margosa Heights si ritorna dalle parti degli Akkord con una techno frattale, cinematica e cibernetica di grande dettaglio, altra preziosa uscita da annoverare in catalogo, mentre con Special Request, prima con l’eppì (Hardcore EP) e poi con l’album lungo (Soul Music), si entra nel vivo del trasversale revival junglista che ha caratterizzato questi mesi di produzioni e live set (vedi alla voce Zomby, Andy Stott, Demdike Stare, Raime, Four Tet…). Tra accelerazioni breakbeat e ovvie citazioni ai rullanti liberi periodo pre-d’n’b, Paul Woolford si concentra proprio su questo: compone e scompone gli Amen break trattando chilurgicamente l’inserto junglista, più che liberarlo nel suo classico, euforico, uso pro-speed. Special Request è un appassionato viaggio nelle false memorie del continuum (come le chiama lui), tracce ricche di voci soul Uk garage, tipico uso del basso della 303, citata iconografia grime che ritorna anche qui, a tutta una serie di trick riprodotti rigorosamente con vintage hardware. Ogni pezzetto di passato nelle sue mani rivive creativamente senza perder giri, neanche nei remix che troviamo nel secondo CD (c’è anche Ride di Lana del Rey), fatto salvo qualche automatismo da non stigmatizzare. Ultima menzione della carrellata per l’EP And
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The World Was Gone di Snow Ghosts, dove troviamo tre interessanti remix dell’omonima traccia, uno di Roly Porter (che già conosciamo bene), una della vecchia volpe d’n’b di Belfast Calibre e infine quello di Kahn, giovane producer di Bristol attivo sul versante dubstep (e oltre) già avvistato e monitorato sulle pagine di BlowUp e senz’altro tra quelli più sulla rampa di lancio come next producer sotto i riflettori (vedi 20,000 followers su Soundcloud per credere e ascoltare Kahn EP per apprezzare). Non occorre chiosare ulteriormente. Houndstooth è probabilmente la migliore tra le nuove etichette elettroniche uscite sul mercato. Potendo mettere mano al portafogli, nessuna di queste uscite andrebbe trascurata. Consigliabile naturalmente partire dagli album e non farsi scappare i 12” di Akkord, Unsubscribe e Call Super.
SUeDe Breaking down barriers (pt. 1) Tutta la storia della band inglese, dal prorompente esordio del 1993 al ritorno con "Bloodsports", passando per successi, fallimenti, amore e veleno, scissioni e reunion, con lo sguardo rivolto anche ai principali progetti paralleli, alla carriera solista di Brett Anderson e alle collaborazioni. Testo di Alessandro Liccardo
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A new generation calling
“The best new band in Britain”, li definì il Melody Maker. I Suede arrivarono in copertina sui principali magazine d’Oltremanica prima ancora di pubblicare il loro primo singolo, e nel 1993 il debutto omonimo si piazzò subito al primo posto in classifica, con un hype che il Regno Unito non conosceva da Welcome To The Pleasuredome dei Frankie Goes To Hollywood. Erano gli anni del brit-pop, dell’ennesima british invasion, che questa volta avrebbe pescato a piene mani dal romanticismo glam, dalla melodia dei Fab Four e dei Kinks, dalla rabbia grezza del punk e dall’indie-pop degli Smiths e di Lloyd Cole and the Commotions: era la risposta allo strapotere del grunge di Seattle, uno scatto d’orgoglio che a tratti sembrava nascondere un nazionalismo di fondo (si ricorderà proprio Brett Anderson, l’androgino leader dei Suede, sulla copertina di Select con la bandiera inglese e una headline che lascia poco spazio all’immaginazione, “Yanks Go Home”). Erano gli anni di The Drowners e di Animal Nitrate dei Suede, così come di Popscene dei Blur, degli Stone Roses, dei Pulp che si reinventano con intelligenza, dopo un decennio di attività con scarsi riscontri commerciali. Più tardi sarebbero arrivati i litigiosi fratelli Gallagher, a conquistare una new generation a suon di richiami che vanno da George Harrison agli Stones, passando per i T-Rex di Marc Bolan citati in Cigarettes and Alcohol e il Burt Bacharach che si scorge sulla copertina della loro opera prima, Defi-
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nitely Maybe. Ma i Suede sapevano come distinguersi dalla massa. E lo fecero cambiando le carte in tavola in un mondo, quello del rock e del pop “da classifica”, che reagiva all’ondata restauratrice di appena pochi anni prima. Se nel 1985, infatti, Annie Lennox e Aretha Franklin intonavano un inno all’emancipazione e alla solidarietà tra donne, Paddy McAloon liquidava Springsteen come un affare di “automobili e ragazze” e decantava la donna come angelo del focolare (The Venus Of The Soup Kitchen) e il trio Stock Aitken Waterman faceva cantare a Kylie Minogue il testo di Better The Devil You Know, con la cantante decisa a perdonare, con sottomissione, il partner infedele; nel 1988 Sarah Jane Morris, che due anni prima era arrivata al primo posto della Singles Chart con i Communards e un’indovinata cover di Don’t Leave Me This Way, inciampò nella censura della BBC, accusata di aver fatto diventare Me and Mrs. Jones di Billy Paul un lesbian anthem (nessuno si scompose, quindici anni prima, quando Bryan Ferry cantò It’s My Party di Lesley Gore cantando del “suo” Johnny pronto a tradirlo con Judy alla festa del suo compleanno!). All’inizio dei Nineties molti idoli del decennio precedente erano in difficoltà: i Duran Duran, per esempio, consegnarono il peggior album della loro carriera, Liberty, e gli Human League confezionarono un disco che suonava già vecchio al momento dell’uscita (Romantic?). I sintetizzatori e le drum machine sarebbero presto passate di moda a scapito delle chitarre, e la stessa MTV avrebbe avuto un ruolo da protagonista nel cambio della guardia con la sua fortunata serie Unplugged. Anche gli archi tornarono prepotentemente in evidenza, negli anni Novanta, grazie a Dog Man Star dei Suede ma anche ad Everything Must Go dei Manic Street Preachers, questi ultimi in studio con Mike Hedges e gli stessi musicisti che supportarono Marc Almond nella realizzazione di due album e dell’EP di cover Some Songs To Take To The Tomb Volume One (stavolta però lasciando davvero il segno), giocando con affettuose citazioni spectoriane come l’attacco di Be My Baby delle Ronettes. Si tornava anche ad ascoltare lo Scott Walker dei primi album solisti, come dimostrano The Wild Ones dei Suede ma anche i dischi dei My Life Story e dei Divine Comedydi Neil Hannon. T here’s a song playing on the radio…
Brett Anderson è l’uomo giusto al momento giusto, una delle figure chiave della brit-pop revolution. Fisico esile, viso pallido ed
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efebico, voce immediatamente riconoscibile, artefice di una proposta che mette insieme, con successo, i lustrini del David Bowie glam e il mal de vivre di Steven Patrick Morrissey, il crooning walkeriano e la provocazione intellettuale del Marc Almond post-Soft Cell (ma tra i suoi artisti preferiti, anche Kate Bush, i Talk Talk di Spirit Of Eden e quei Sex Pistols che amava ascoltare a tutto volume, a dieci anni, con sommo dispiacere di un padre che voleva invece nutrirlo a pane e musica sinfonica). Se William Blake è l’ispirazione letteraria più frequentemente dichiarata dal Nostro, non mancano quei Camus e Bret Easton Ellis “scomodati” in Obsessions. Un alieno romantico, non esattamente il tipo di artista che vorremmo incontrare in un pub dopo una partita di calcio – in contrapposizione con il machismo sbracato di altri protagonisti del filone. Bernard Butler, il Johnny Marr della situazione, non ha mai amato il fatto che i riflettori fossero tutti puntati sul leader, specialmente dopo le sue confessioni sui tabloid (Kurt Cobain dichiarò qualcosa di molto simile, durante la promozione di In Utero dei Nirvana, e poco tempo dopo anche Billie Joe Armstrong dei Green Day ammise di essere potenzialmente attratto da persone
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di entrambi i sessi e di essersi sempre sentito così, eppure la frase “sono un uomo bisessuale che non ha ancora avuto un’esperienza omosessuale” riuscì a fare scalpore) e a causa delle sue movenze sul palco e all’immaginario di cui sono intrisi i videoclip del gruppo (uno dei quali, So Young, sarà diretto da Derek Jarman). Una personalità complicata, quella di Brett: cerca di catturare l’attenzione, ma è anche sempre alla ricerca di un momento di tregua, con la scrittura delle canzoni che diventa un atto estremamente intimo da affrontare spesso nudo, sul letto, come la figura nella copertina di Dog Man Star. Anderson nasce il 29 settembre del 1967, l’anno della Summer of Love, in cui esce Sgt. Peppers’ Lonely Heart Club Band. Sebbene ami raccontare di essere originario di Haywards Heath, in realtà la sua famiglia è di Lindfield, una località limitrofa; suo nonno è un militare e suona la batteria, il padre Peter fa un mestiere diverso ogni settimana (chef, gelataio…) prima di diventare un tassista e la madre, Sandra Farrow, è una pittrice amante di Gustav Klimt e di Frida Kahlo. “Eravamo spesso in ristrettezze economiche, spesso facevamo cose come andare nei campi e raccogliere i funghi per farci la zuppa. Forse proprio
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questa continua mancanza di soldi mi ha reso ambizioso”, racconta Anderson a David Barnett, autore della biografia autorizzata Love and Poison del 2003. Eppure, se c’è una cosa che non manca mai a casa sua, è l’arte: ci sono foto di Aubrey Beardsley sui muri e un giradischi acceso con dischi di Berlioz, Tchaikoskij e Franz Liszt (un’ossessione per il padre di Brett, che sceglie il nome Blandine per la primogenita perché così si chiamava la figlia del compositore ungherese). “Fortunatamente il mio nome venne scelto da mia mamma”, dichiara il cantante, che nasce il giorno del compleanno di un altro eroe di suo padre, il Visconte Horatio Nelson. E’ la sorella Blandine a trasmettergli l’amore per la musica: quando se ne va di casa a quindici anni gli lascia i suoi dischi dei Beatles, degli Sweet e di Elton John. A tredici anni Brett inizia a suonare la chitarra e a quindici compra la sua prima Westone elettrica rossa per quaranta sterline. A scuola è il primo della classe, anche in educazione fisica. I suoi compagni di classe immaginano per lui un futuro da scienziato piuttosto che da rockstar, ma già ai tempi il Nostro nutre una cura maniacale per il look: da adolescente si pettina come il David Bowie di Let’s Dance e, nonostante i ragazzi lo apostrofino come queer, ha successo con le ragazze (ce ne sono parecchie, più o meno stabili, prima di Justine Frieschmann). Le sue prime avventure nel mondo della musica sono con l’amico Mat Osman in band come i Suave and Elegant – nome che riaffiora anche in seguito – i Pigs e i Paint It Black. Mat detesta i Beatles, ed è invece fissato con Lou Reed e i Talking Heads; Brett ancora non si presenta come lead singer, ruolo a un certo punto assegnato a un Gareth Perry con cui presto nascono divergenze (se da una parte Brett e Mat iniziano a seguire con maggiore attenzione la scena indie/ alternative, gli Smiths e gli Housemartins, lui ha gusti molto più mainstream). Introducing the band
Nel 1986 Brett si iscrive all’università di Manchester per studiare Urbanistica, mentre Mat si iscrive alla London School of Economics. Per mantenersi durante gli studi il primo lavora in alcuni locali come DJ, alle prese con i dischi soul del momento. Nel 1988 Anderson si trasferisce a Londra per raggiungere Mat e incontra Justine Frischmann, figlia di un rifugiato ebreo ungherese che perse l’intera famiglia ad Auschwitz ma che divenne un brillante architetto; in un primo momento la ragazza non sa bene se si tro-
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va di fronte un lui o una lei, poi le cose iniziano a diventare serie e i due decidono di vivere insieme. Verrà anche coinvolta nei progetti musicali di Brett, anche se non sembra interessata a far parte di una band; “aveva solo dischi di Joni Mitchell, Astrud Gilberto e Van Morrison: era chiaro che non li avremmo mai ascoltati”. Via, quindi, con una cura ricostituente a base di Happy Mondays. Il 28 ottobre del 1989 Brett Anderson scrive un annuncio sul New Musical Express: “Cerchiamo un giovane chitarrista per la nostra band, di base a Londra. Smiths, Commotions, Bowie, Pet Shop Boys. Niente musos, certe cose vengono prima dell’abilità. Chiedi di Brett”. Rispondono in due, un “ragazzo che aveva una chitarra” e un diciannovenne, Bernard Butler, il cui primo album è Parallel Lines dei Blondie. E’ il nome “Smiths” nell’inserzione a far scattare la scintilla, ma Bernard ama anche i Pet Shop Boys (Bowie, confessa, non lo segue più di tanto). Brett e Justine rimangono particolarmente impressionati dal ragazzo, che durante il provino si esibisce in una fedelissima cover di What Difference Does It Make? di Morrissey e Marr. La partnership tra Brett e Bernard dà subito buoni frutti: il primo si occuperà dei testi e delle linee melodiche, il secondo degli accordi e delle parti chitarristiche. Eppure, i primi esperimenti dei Suede hanno un sapore troppo marcatamente baggy e le recensioni delle performance live non sono entusiastiche. Nel 1990 ha inizio una serie di tensioni tra Brett e Justine, quando i ragazzi si esibiscono a Brighton come supporter dei Blur il giorno dopo la pubblicazione del singolo She’s So High e ha inizio una liaison tra la compagna di Brett e il leader Damon Albarn. La band si rende inoltre conto di non poter andare avanti con una drum machine e decide di ingaggiare un batterista: è il tempo di un altro annuncio, stavolta sul Melody Maker. Il primo a presentarsi alle audizioni è il diciottenne Justin Welch e poi accade l’impensabile: al telefono si fa vivo addirittura Mike Joyce, il batterista degli Smiths. “Mi spiace, purtroppo siamo di Londra”, “Non è un problema, ho già lavorato con band londinesi… in fondo bastano un paio d’ore di treno”. “Ah, e con chi hai suonato?” “Una band chiamata The Smiths. Sono Mike Joyce”. Silenzio di tomba. “Ok, ti manderemo il nostro materiale”. I Suede inviano a Mike dei demo registrati con Justin e lui rimane stupefatto. Soprattutto da Bernard, che poi durante l’audizione non resiste e suona alcuni riff degli Smiths. “Incredibile, suona più Johnny di Johnny stesso”, dichiarerà in seguito Mike. Quest’ultimo vivrà il tutto come un break dalle ultime collaborazioni, come quella con
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Sinéad O’Connor, ma deciderà poi di mollare perché i ragazzi non hanno ancora una personalità definita e non vuole influenzarli. “Ci avrebbero chiamati Mike Joyce featuring Suede e la cosa non avrebbe fatto bene a nessuno”. Il batterista definitivo diventa Simon Gilbert, attivo in alcune band sin dall’età di quattordici anni. I Suede sono il suo tredicesimo gruppo. Col tempo viene fatta una cernita del materiale scritto ed emergono brani che saranno destinati al primo album, Suede, mentre altri finiranno nelle B-side dei singoli. Justine smette di suonare nel gruppo e, nel dicembre del 1991, la band si esibisce con la formazione definitiva all’Underworld di Camden. Sarà proprio Damon Albarn, in un’intervista concessa al New Musical Express, a indicare i Suede come band da tenere d’occhio l’anno successivo. Dopo diversi demo e tentativi, la band firma un contratto con la Nude Records grazie a Saul Galpern, inizialmente per soli due singoli e con un budget di poco più di 3000 sterline. Il primo show, dopo la firma del contratto, risale al 28 febbraio 1992; Brett Anderson è nervoso perché tra il pubblico ci sono Kirsty Maccoll e Morrissey.
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Sì, proprio quel Morrissey che prenderà nota delle parole di My Insatiable One (erroneamente intesa come canzone omoerotica, spiega Brett, in realtà è cantata dal punto di vista di una donna). L’11 maggio esce il primo singolo dei Suede, The Drowners, subito eletto “singolo della settimana” nei principali magazine d’Oltremanica: poco importa che a malapena entri nella Top 50. L’acrimonia con Damon Albarn (la cui Popscene si rivela un flop in classifica), nel frattempo, cresce sempre di più. Nel 1992 i Suede partecipano, insieme ad altri nomi illustri dell’alternative rock inglese, alla compilation Ruby Trax che festeggia i quarant’anni del New Musical Express. Insieme a cover degli Inspiral Carpets (Tainted Love), degli Aztec Camera (If Paradise Is Half As Nice, traduzione della hit Il paradiso di Patty Pravo scritta da Lucio Battisti e Mogol), dei Tin Machine di Bowie (Go Now) e dei Manic Street Preachers (Suicide Is Painless, tema di M.A.S.H.), c’è anche la loro insolita rilettura di Brass In Pocket dei Pretenders. H ave you ever tried it that way?
Il mensile Q, nel 1993, scommette sui Suede: saranno loro la band dell’anno? Intanto, Suede (l’opera prima di Brett Anderson and co.) si rivela un bestseller immediato e raggiunge il primo posto in classifica a marzo. Prodotto da Ed Buller, il disco contiene otto nuovi brani e tre già pubblicati come singoli: The Drowners, Metal Mickey – con un mix di influenze mica da ridere: se il brano richiama volutamente The Shoop Shoop Song, ripresa proprio in quegli anni da Cher, il video (didascalico, a tratti, ma conturbante) sembra invece riportare ai peep show di Non Stop Erotic Cabaret dei Soft Cell (ma il drag king rimanda a Melancholy Rose dell’Almond solista) – e Animal Nitrate, che esce poche settimane prima dell’LP e fa riferimento al nitrito di amile, più comunemente chiamato popper, in un testo crudo che mette in evidenza una sessualità ambigua e sfuggente. Fa discutere anche la copertina, con il bacio tra due donne androgine (in realtà un particolare di una foto di Tee Corinne estrapolata dal libro Stolen Glances: Lesbians Take Photographs). Sebbene più di una canzone abbia velati riferimenti alla fine della relazione tra Brett e Justine, non ci troviamo di fronte a testi autobiografici. Anderson viaggia spesso con l’immaginazione, mentre a molti critici suonano francamente strane le parole di Butler quando dichiara di aver ascoltato a malapena Mick Ronson (i paragoni con il chitarrista di Bowie saranno molto frequenti,
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non solo sulla stampa inglese). Undici canzoni energiche e malinconiche, inglesi che più inglesi non si può, spesso crepuscolari, oblique. I Suede sono il gruppo che molti stavano aspettando. Brett Anderson ammette che, col senno di poi, sarebbe stato meglio includere My Insatiable One e To The Birds in scaletta, magari al posto di Moving e Animal Lover (considerati, forse a torto, del semplice riempitivo). Tra Suede e il successivo Dog Man Star esce un singolo per ammazzare temporaneamente l’attesa dei fan. Stay Together è un brano epico, drammatico, non molto amato dai suoi autori (com’era già accaduto in passato con altri non-LP singles, come My Foolish Friend dei Talk Talk e a The Way You Are dei Tears For Fears), che troverà posto nella raccolta Singles del 2003 (in una versione accorciata) e nella ristampa deluxe di Dog Man Star pubblicata nel 2010 dalla Edsel. Per Brett e Bernard un brano interlocutorio, per tutti gli altri un antipasto della sterzata dell’album successivo, più cupo, con tinte più fosche. I rapporti tra i due membri della band peggiorano, e ci sarà giusto il tempo di finire svogliatamente le registrazioni di alcune parti di chitarra prima della dipartita di Butler, decisione presa dopo la morte del padre malato di cancro. Dog Man Star (1994) non ha lo stesso successo di pubblico del predecessore, e anche i singoli si piazzano in classifica in posizioni più modeste (We Are The Pigs, New Generation, The Wild Ones). Dog Man Star è anche il titolo di un film di Stan Brakhage del 1964, e la copertina raffigura un uomo nudo su un letto in una foto di Joanne Leonard – un ennesimo riferimento agli Smiths, o alla condizione stessa di Brett, che desiderava un’immagine che riflettesse tristezza e sensualità. Tensioni a parte, il sophomore dei Suede si rivela ambizioso, ma nonostante ciò, più a fuoco del precedente disco, anche se necessita di molti ascolti per essere compreso. Nelle più recenti interviste, Anderson ha affermato che certa pomposità che si riscontra nei testi è dovuta alle droghe che assumeva mentre li scriveva; in più c’era una volontà precisa di discostarsi da tutto ciò che potesse sembrare riconducibile al brit-pop, movimento che i Suede contribuirono a far nascere ma che già li stava disgustando. Pertanto, a Morrissey e al Duca Bianco si sostituiscono gradualmente, come fonti di ispirazione, Prince (per la sensualità delle immagini) e lo Scott Walker più magniloquente e claustrofobico, e al posto di William Blake si fa prepotente l’influenza di Lord Byron (“She walks in beauty like the night”, da Heroine). Nel pantheon dei Suede del 1994, tuttavia, c’è posto anche per i
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Joy Division, Marc and the Mambas e Berlin di Lou Reed. Butler resta ancora oggi molto critico nei confronti della produzione di Ed Buller, a suo parere inadeguata soprattutto in brani come The Asphalt World. Still Life
Le strade di Anderson e Butler si interrompono, ma per i Suede non sarà la fine. A rimpiazzare Butler arriva Richard Oakes, ingaggiato appena diciassettenne, mentre Bernard dà vita a un duo insieme al vocalist David McAlmont, precedentemente nei Thieves. Il singolo di lancio di The Sound Of McAlmont and Butler (1995), Yes, ha sapori glam che incontrano il muro del suono di Spector e marcate influenze Motown, anche grazie alla voce calda e molto particolare di McAlmont. L’idillio però ha presto fine, e i due arrivano ad accusarsi a vicenda sui giornali anziché lavare i panni in casa (Butler viene anche tacciato di omofobia dal nuovo compare): così, dopo l’uscita del secondo singolo You Do che figura nella Top 20 inglese e quella dell’album, l’attività del duo si interrompe. Sarà Bernard a riavvicinarsi a David anni dopo, con l’intenzione di tornare a lavorare insieme. Il secondo parto discografico del duo, Bring It Back, esce nel 2002 e raggiunge la diciottesima posizione in classifica, trainato dal buon singolo Falling. In seguito ci sarà una cover di Back For Good dei Take That per la compilation War Child dell’NME, ma le registrazioni del terzo album non vengono mai completate, a causa del progetto Tears di Brett Anderson e Bernard Butler dopo anni di gelo. Nel 2006 esce il singolo Speed, ma i migliori risultati commerciali saranno raggiunti da David (in veste di backing vocalist) e Bernard (come musicista e co-produttore) con l’album Rockferry di Duffy e con il primo lavoro solista di Sharleen Spiteri dei Texas. David McAlmont, già collaboratore di Craig Armstrong e di David Arnold (incisero insieme una cover di Diamonds Are Forever di Shirley Bassey, con l’artista en travesti nel video promozionale), finirà in sala di registrazione prima con Gabrielle e Paul Weller e in seguito con Michael Nyman per l’album The Glare. Nel 2011, insieme a Guy Davies, dà vita a un nuovo duo, i Fingersnap, più votato a un solare e leggero soul/pop (I Wanna Rise). Dopo l’abbandono dei Suede e la prima parentesi di McAlmont and Butler, Bernard diviene un sessionman e produttore richiesto, e lo troviamo nei crediti di dischi di Neneh Cherry, Edwyn Collins, i Libertines, Sophie-Ellis Bextor, i Cribs, i Veils, Fyfe
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Dangerfield dei Guillemots e, più di recente, dei Texas e dei Frankie and the Heartstrings. Incide anche due lavori solisti, People Move On (1998) e il meno fortunato Friends and Lovers (1999). Nel 2005 l’inaspettata reunion con Brett Anderson si concretizza con l’album Here Come The Tears, pubblicato dall’etichetta Independiente e promosso con il singolo Refugees. I critici si rivelano generosi nelle recensioni, anche se ammettono che il lavoro ha più elementi in comune con gli ultimi Suede che non con quelli di Suede e Dog Man Star, fatta eccezione per il sapore glam di Two Creatures e della space-ballad Fallen Idol, vagamente Roxy Music. La storia dei Suede va avanti fino al 2002, incontrando un sempre più inesorabile declino. Ci vorranno anni affinché Brett Anderson ritrovi la propria ispirazione, dopo un paio di dischi solisti piuttosto introversi e altri due in cui torna a muoversi verso direzioni più interessanti. Nel 2010 Bernard e Brett collaborano per la compilazione di un doppio best of dei Suede e, nel 2011, supervisionano le ristampe della Edsel, tutte corredate da un bonus disc con lati B, provini e brani da compilation di artisti vari. Poi, nel 2012, con Richard Oakes…
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MelviNs tre stronzi geniali L'esperienza Melvins giunge all'impensabile traguardo del trentennale e si autocelebra con un ritorno alla formazione originale. Uno sguardo d'insieme che ci aiuta a capire il portato della band feticcio del grunge...e di molto altro Testo di Stefano Pifferi
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Tre stronzi. Si intitola così, con la solita dose di puntuta autoironia, il nuovo lavoro dei Melvins. Quel riferimento al numero tre, tuttavia, dovrebbe far scattare la lampadina nei fan più fedeli, abituati da anni ormai a considerare i Melvins roba da doppia coppia coi due Big Business. Inoltre quel “tre” rimanda, in un modo tutto loro, ovvio, alla celebrazione del trentennale di attività della band di Aberdeen, Nord-Ovest degli States e luogo dal profondo disagio – vi dice nulla Kurt Cobain? – sperso tra boscaioli gretti e pioggia per almeno 300 giorni l’anno. Trent’anni di Melvins, ovvero tre volte il tempo trascorso dall’avvento di Facebook o Twitter, significano solo poche e nette cose: una caterva di dischi, una serie di collaborazioni e cambi di line-up da far spavento, una qualità media da mettere i brividi vista la longevità e i rari cali di tensione, un rispetto illimitato guadagnato sul campo a suon di concerti in ogni dove – con la formazione Melvins-Lite, ossia King Buzzo e Dale Crover in pista col bassista Trevor Dunn, riuscirono nell’impresa di suonare 51 concerti in 50 giorni in ognuno
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degli stati americani, dall’Alaska alle Hawaii, tanto per dire – e, infine, poco o nessuno spazio per atteggiamenti da rockstar viziate. Ora Tres Cabrones segna un ritorno alle origini, chiudendo un cerchio iniziato in qualche sperduto garage di una piovosa cittadina della provincia americana. Non tanto per il riferimento al numero tre, visto che un paio di trilogie nel corso degli anni le hanno pure buttate fuori – quella in omaggio-parodia ai Kiss d’inizio Novanta (tre 12” con iconografia identica) e quella che inaugurava il legame con la Ipecac, costituita da The Bootlicker, The Maggot e The Crybaby – così come una trentina sono gli album pubblicati (ma si va per difetto, ovviamente) in un trentennio, quanto perché a registrare Tres Cabrones è una formazione a tre “storica”. A rientrare in line-up è, infatti, Mike Dillard, batterista degli esordi e sostituto dei vari sostituti che si sono avvicendati in una formazione che, volenti o nolenti, è praticamente da sempre affare personale di King Buzzo (nato Roger “Buzz” Osborne una cinquantina d’anni fa, testa matta dalla chioma fluente e il vocione baritonale) e Dale Crover (sguardo torvo e tipo poco raccomandabile, batterista che siede dietro le pelli dei Melvins dal 1984, proprio in sostituzione del rientrante Dillard). Bel casino vero? Aggiungete anche la “bassist morgue”, la pagina internet che tributa il doveroso omaggio ai numerosissimi bassisti che si sono avvicendati nel trio, ed ecco che la storia dei Melvins è quasi completa. Quasi, perché per star dietro alle vicissitudini della band di Buzzo non basterebbe una enciclopedia, così come per ricostruire l’albero genealogico dei Melvins e delle band che dai Melvins hanno tratto giovamento – non ispirazione, proprio giovamento, come successo per i Nirvana, pronti a superare, da buoni allievi, i propri cattivi maestri – non sarebbe sufficiente una foresta. Soundgarden, Mudhoney e Nirvana sono solo le band più famose nate, ispirate, consigliate, aiutate ecc. ecc. dai Melvins. I primi, parola di Thayil, trassero di peso le accordature ribassate di Buzzo per garantirsi un trademark sonoro. I secondi beneficiarono dell’abbandono di Matt Lurkin – primo storico bassista (c’è lui nell’esordio Glue Porch Treatment) e primo della lista nella “bassist morgue” – avvenuto al momento del trasferimento di Buzzo e Crover in quel di San Francisco. Piccola nota a margine ed ennesima testimonianza della stortura dei Melvins: a subentrare a Lurkin, per durare lo spazio di un paio di album o poco più (Ozma, Bullhead, il mini Eggnog e poco altro), fu Lori “Lorax” Black, nientemeno che figlia di Shirley “riccioli d’oro” Temple!!!
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Con i terzi ci fu un rapporto talmente stretto che verrebbe da definirlo genetico, sostenuto da un Cobain in fissa coi Melvins al punto da formare la prima band insieme a Crover (i Fecal Matter) mentre, stando alla vulgata made in Azerrad, fu Buzzo a presentargli prima Novoselic e poi, dopo Bleach, Grohl. Inoltre furono proprio i Nirvana a portarsi in tour i Melvins – in quel tour che segnò la fine dei Nirvana – esponendoli al pubblico ludibrio dei propri fan, anche se, vox non populi, furono i Melvins a convincere di più live.
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La storia dei Melvins comincia dunque trenta anni fa, e nemmeno ad Aberdeen, ma a Montesano, nome che evoca, per noi italiani, comici nemmeno troppo comici ma che per gli americani significa l’ennesimo buco di culo da pochissime migliaia di abitanti in uno stato tra i più piovosi d’America. Lontani da ogni centro propulsore del rock – in tutta sincerità, dello Stato di Washington ci saremmo accorti solo coi Nirvana, dato che per decenni Washington aveva senso solo per i suffissi DC e per l’hardcore – i non ancora Melvins rispettarono appieno la tradizione del r’n’r. L’essere andati a scuola insieme ha significato per Buzzo, Lurkin e Dillard unire i propri disagi, rinchiudersi in un qualche garage, rubare il nome al collega più odiato del lavoro post-scuola – Melvin, ça va sans dire – e cominciare un percorso che dura ancora oggi. E come etichette
Ad un certo punto bisognerà etichettare i Melvins. Metterli in qualche scomparto, in una sezione che, in un immaginario catalogo musicale di tutti i tempi e tutti i luoghi, ci permetta di carpirne immediatamente l’essenza ultima. Beh, in bocca al lupo al temerario che dovesse cimentarsi nell’opera, dato che quell’etichetta, nonostante una trentina di album e migliaia di parole spese in trent’anni su di loro e sulle loro musiche, continua a sfuggirci. I Melvins sono i Melvins, punto e basta. E allora per ripensare la loro carriera, un suggerimento ce lo danno altre etichette – da intendersi come label discografiche – che ne hanno supportato le gesta. C/Z, Tupelo, Boner, Slap A Ham, Alchemy da un lato, la Atlantic dall’altro e in mezzo Alternative Tentacles, AmRep e Ipecac ci dicono molto della storia del Melvins. E non solo della “naturale” evoluzione di una band partita dai sottoscala e arrivata a un contratto major poi imploso sotto la spinta di troppi input ingestibili per a/r incravattati e businessmen incapaci. Il percorso dei Melvins è trasversale e unico proprio come la musica. Cominciato nel sottobosco indipendente negli anni ‘80 con etichette piccole e agguerrite come C/Z e Tupelo, pronte a setacciare la scena del Nord-Est americano ma non solo (i fantastici Steel Pole Bath Tub, oltre a Pain Teens, 7 Year Bitch, Engine Kid non sono che una parte delle misconosciute band del roster) e arrivato sulle dorate spiagge della major di turno dopo il fall-out di Nevermind. Nello specifico, è la Atlantic ad accaparrarsi il power-trio (notizia nella notizia, c’è Cobain dietro al mixer) e immediatamente a pentirsi per la pubblicazione di Houdini, copertina decisamente scorretta
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e sound macilento – vedi i dieci minuti di cacofonia di Spread Eagle Beagle –, di proposito strafatto e al solito immolato a un mood sabbathiano in modalità (quasi) hardcore. Il legame dura giusto il tempo dei tre album previsti (Stoner Witch del ‘94 e Stag del’96), anticipati, tanto per gradire, dall’album sperimentale Prick, un disco che segna l’esordio per AmRep e che viene pubblicato a nome SNIVLEM per evitare problemi legali con la major. È però nel giusto mezzo che i Melvins trovano la loro “sede” ideale, ovvero l’Ipecac. Indipendente ma con un certo tiro, sperimentale ma capace di farsi rispettare in territori “mainstream”, gestita da uno spirito affine – amico, prima ancora che collaboratore del gruppo – come è Mike Patton, l’Ipecac segna la più duratura esperienza discografica dei Nostri e pure una sorta di “rinascita” post-Atlantic. Una quindicina di album, escluso Tres Cabrones, tra lavori originali (dalla trilogia d’inizio millennio all’ultimo, la citata collezione di cover Everybody Love Sausages), live album (Sugar Daddy Live), riproposizioni di album in sede live (Houdini Live 2005 (A Live History Of Gluttony And Lust)), sperimentazioni a metà tra il live e l’estemporaneo (Colossus Of Destiny), compilation di ine-
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diti d’epoca (Mangled Demos From 1983, unica testimonianza a tutt’oggi del trio originale con Lurkin e Dillard) e collaborazioni decisamente strane (l’album con Lustmord, Pigs Of The Roman Empire), ci dicono, in sostanza, che l’Ipecac è ormai la casa adorata dalla coppia di fatto(ni) Buzzo-Crover. S come suono
Se immaginassimo la cronologia rock come una linea retta di progresso (o regresso, a seconda dei punti di vista), dovremmo considerare i Melvins come l’anomalia di sistema, come il bug che zigzagando inframezza generi e scene, taglia trasversalmente come una scheggia impazzita tre decenni abbondanti di rock indipendente e soprattutto fa della propria, fiera, per certi versi ottusa indipendenza, una cifra stilistica sempre riconoscibile, pur non assomigliando a nient’altro che a se stessa. Metal e soprattutto hard-rock (di quello bello cafone), punk e hardcore in forme idealizzate, lentezze pachidermiche da Sabbath in disarmo e apertura mentale a dir poco devastante: vi dice nulla l’album di cover Everybody Loves Sausage? Della serie, va bene essere strani, ma infilare in un disco rielaborazioni di Queen e Bowie, Roxy Music e Throbbing Gristle, Divine e Venom è un andare decisamente oltre.
Tutto, poi, nell’immaginario made in Melvins, è sempre condito da una sprezzante (auto)ironia in bilico tra sberleffo e caustica cattiveria, politicamente scorretto e soprattutto menefreghismo verso tutti i trend, cliché et similia. Suonano o non suonano praticamente la stessa roba da sempre? Eppure provate a trovare un gruppo d’area underground e dal suono “pesante” che non ne tessa le lodi. Che non li riverisca in virtù proprio del sound che nel corso degli anni i due – sì, che alla fin fine i Melvins sono loro due – hanno affinato e perfezionato: una chitarra lenta e pesante come un carro armato e una batteria pestona e primitiva spesso prodotta come se fosse stata registrata in fondo a un pozzo. Che siano le derive sperimentali del disco con Lustmord o quelle di Prick, album-manifesto del rifiuto dell’ideologia major (“Il disco perfetto da buttar fuori tra due dischi per una major”, dice Buzzo. All’Atlantic impazzirono per quell’informe ammasso di rumore, tentarono di bloccarne l’uscita, da qui il nome Snivlem, e il disco vendette 10mila copie: “Diecimila copie? Io sarei stato contento di venderne due di copie. Però così facemmo i soldi per registrare il successivo”), che si prenda il rifforama hard-sabbathiano impantanato in una melma sludge piena di miasmi o le lentezze pachidermiche al limite della sopportazione fisica che sarebbero diventate una caratteristica di certa avanguardia underground (vedi alla voce Earth o Sunn O)))), che lo si interpreti come una sorta di noise-rock atipico che mischia l’atteggiamento senza compromessi dell’hc con quello revivalistico pre-grunge, una sola è la certezza: il suono dei Melvins è solo dei Melvins.
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I come influenz a
Per farsi una idea del rispetto che la scena musicale indipendente ha avuto ed ha nei confronti dei Melvins, o semplicemente per comprendere come il suono del duo sia un tritacarne onnivoro e abbia influenzato band tra le più diverse, si può controllare la lista dei partecipanti al tributo We Reach: The Music Of The Melvins: post-hardcore apocalittico (Mare e Isis), metal in forme industrial (Strapping Young Lad), ibride (Dillinger Escape Plan) o sfattone (Mastodon, High On Fire), sludge (EyeHateGod), grind duro e puro (Pig Destroyer) non sono che alcuni degli ambiti in cui si riscontra l’influenza dai Melvins. Potremmo aggiungere anche tutte le band che dichiaratamente o meno hanno tributato il giusto omaggio ai capelloni di Aberdeen scegliendo dalle loro canzoni il nome per la propria band, vedi alla voce Boris, tanto per fare un nome lontano, geograficamente, dai nostri. O ancora, potremmo tirare in ballo tutta la scena grunge che conta(va), pronta a prostrarsi ai piedi del “primeval god of grunge”, King Buzzo, le cui accordature – Kim Thayil dixit, spalleggiato da Mark Arm – avrebbero “inventato”, e di conseguenza insegnato a coloro che avrebbero poi codificato – se di codifica si può parlare –, il senso ultimo del suono “grunge”. Suono di cui i Melvins sono a tutt’oggi, seppur distanti per eterodossia e approccio, riconosciuti universalmente come i padrini. O infine, si potrebbe tirar fuori l’argomento Cobain sulle cui influenze Melvinsiane, tutto o quasi è stato detto da Azerrad: bipolarmente parlando, l’introverso leader dei Nirvana ondeggiava tra il timore di sembrare “una copia dei Melvins” e la più totale ammirazione per Buzzo Osborne (“Era tutto quello che volevo in quel momento”), ma tenendo sempre bene in mente il rispetto doveroso per coloro senza i quali nulla dell’epopea Nirvana sarebbe mai successo. E qui si potrebbe inserire un bel discorso da “what if” fantascientifico, se non fosse che non se ne uscirebbe più. L come legami
Di legami ce ne sono tantissimi nell’epopea Melvins. Cominciamo dalla fine, evitando di tirare di nuovo in ballo Dillard. Prima del suo rientro, e cioè a partire da (A) Senile Animal e per quattro album, a raddoppiare la sezione ritmica hanno pensato i Big Business Coady Willis e Jared Warren, annessi all’interno della libera repubblica melvinsiana per affinità senza divergenze. Facile immaginare la potenza di fuoco del neo-quartetto, specie in sede live. Non ce ne vogliano i due onesti Big Business, ma la carriera
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dei Melvins è costellata di collaborazioni più o meno estemporanee con personaggi di primissimo livello. Non consideriamo nemmeno l’aspetto split, perché ciò significherebbe riferirsi ad una pletora di uscite “minori” e fare una lista di nomi di band che comprenderebbe oltre ai Nirvana del tributo ai Velvet, anche Unsane e Butthole Surfers, Jon Spencer e Brutal Truth, Redd Kross e Hammerhead; per non parlare, poi, della serie di 12” Sugar Daddy Live Split Series in cui i nostri spalmano in tredici uscite le tracce di Sugar Daddy Live e le “splittano” con amici e spiriti affini del calibro di Napalm Death, Fucked Up, Off!, Necros, Killdozer ecc. Anche limitandosi alle collaborazioni fattive con musicisti, la lista risulta piuttosto ampia. Qualche nome? Kevin Rutmanis, già dei blues-noisers Cows, ennesimo bassista depennato dalla lista per problemi di droga e inaffidabilità, visto che fece perdere le sue tracce al momento di partire per un tour europeo; il citato Trevor Dunn (Mr. Bungle, Fantomas) a supporto della formazione estemporanea Melvins-Lite; il padrino dell’elettronica più am-
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bient ed esoterica Lustmord, col quale i nostri pubblicarono Pigs Of The Roman Empire nel 2004; la big band Melvins + Fantomas di Millennium Monsterwork 2000, con Mike Patton amico prima ancora che collaboratore ed editore. Ma la collaborazione che più di tutte rappresenta una sorta di benedizione per i Melvins è quella con Jello Biafra. Il padrino del punk californiano, non nuovo a tastare terreni molto diversi tra loro, si è unito a Buzzo e Crover per un paio di album lunghi, Never Breathe What You Can’t See e Sieg Howdy!, entrambi su Alternative Tentacles. Nella sua carriera, Biafra ha collaborato con molte realtà e ciò ha sempre significato, per chi ha bene in mente il ruolo del fondatore dei Dead Kennedys nelle sorti di un certo underground, l’ingresso in una specie di gotha fatto di rispetto personale e integrità, prima ancora che di dettagli musicali. M come metal?
Esiste il metal? O meglio, ha ancora senso parlarne oggi, prima
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decade del post-2.0? E ancora, è o non è il metal una sorta di stato della mente, un periodo formativo, un rito iniziatorio più che un suono? Beh, potremmo continuare ancora con le domande retoriche, ma ci fermiamo su una, quella definitiva: ha senso parlare di metal per un gruppo che proviene da tutt’altri lidi e che viene celebrato dall’ambiente “alternative” come padrino del grunge? Sì, ha senso, semplicemente perché sono loro due a parlarne. Non solo a parlarne, a dire il vero, bensì a lodare il metal, ad affermare che senza metal non avrebbero mai cominciato a suonare, ad ispirarsi ai Kiss non per sbeffeggiarli ma per tributare il doveroso omaggio, ad avvicinarsi agli ZZ Top (altezza Stoner Witch, Buzzo dichiarava: “non ascolto più i Kiss come facevo un tempo. Ora il mio gruppo preferito sono gli ZZ Top, anche se non mi dispiace riascoltare i Kiss ogni tanto”), a portare il solito Cobain a definirli “le più classiche caricature dei metallari sballati che si potevano immaginare” o Kim Thayil a dire “The fuckin’ Melvins are slow as hell!”, ricordando un concerto del 1984. Fu allora che per la prima volta ci si rese conto di quanto andavano controtendenza, con una mossa che li portò ad essere non la band più punk in città, ma quella più heavy, lenta, depressa e da trip. Insomma, da qualsiasi parte li si prenda, i Melvins sono invischiati fino alle caviglie nel metal. E il metal esce fuori sistematicamente nei loro album. In forme aliene e alienate, ovvio, se si pensa al doom, allo sludge e ai pantani di note catacombali che ne hanno fatto le fortune, presi di netto dall’epopea dei primi Sabbath e calati in situazioni non ortodosse; oppure a quelle ibridate con hardcore, come avveniva per certi act fondamentali nell’evoluzione dei Melvins, come i Black Flag; o anche in forme più “pure”, come certi passaggi strumentali di Revolve da Stoner Witch o Oven da Ozma (la lista, ovviamente potrebbe essere infinitamente più lunga, e converrete che quello che state ascoltando è metal, seppur non suonato da metallari). Non è casuale, dunque, che nell’Encyclopaedia Metallum i Melvins siano oggetto di una lunga e dettagliata trattazione, e considerati “similar to” a molte band dichiaratamente heavy metal o hard rock. N come noise
Noise. Rumore. Fastidio. Seppur non in senso etimologicamente “rock”, i Melvins incarnano l’essenza ultima dei gruppi noise. Un po’ come gli EN o gruppi d’area grigia, hanno sempre scelto la strada peggiore. Hanno sempre deciso di sorprendere, ma non per una scelta fine a se stessa, per qualcosa di sensazionalistico,
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bensì solo per andare controcorrente. Si pensi a quando aprirono il live conclusivo del tour di Badmotorfinger dei Soundgarden in quel della Seattle Arena: introdotti col poco consono “Ladies and Gentlemen…The Melvins” suonarono per quindici interminabili minuti una sola nota! E soltanto perché la recensione del live precedente li accusava di aver suonato soltanto una nota. Oppure a quando i giovani fan dei Nirvana li presero a male parole, dopo che i tre li avevano seppelliti non col grunge annoiato e annacquato dei loro beniamini, ma con una colata lavica fatta di statiche visioni post-metal. Non che i Nostri, a livello discografico, si siano mai esentati dal produrre brutture al limite del rumorismo come in Prick, ambient malefica con il lavoro con Lustmord o sperimentazione folle come quella in Colossus Of Destiny – unica traccia da quasi un’ora con cinquanta e passa minuti di performance rumorosa a introdurre l’unica canzone del disco. È però l’intera epopea melvinsiana ad essere pervasa da un senso di irridente fastidio, di rifiuto di ogni regola, di sberleffo quasi dadaista che i due+1 sbattono continuamente in faccia all’ascoltatore. Specie quando a venire esaltata è l’ala più iconoclasta e insieme visionaria della formazione, quella che non scende a compromessi con niente e nessuno e che si manifesta in forme che vanno oltre la mera produzione discografica. Non è un caso che Osborne rispondesse ad una provocatoria domanda sull’hype cresciuto a dismisura intorno ai Melvins (“A questo punto i Melvins potrebbero pubblicare qualsiasi cosa. Se registraste il drum kit di Dale spinto giù per le scale e lo pubblicaste in vinile verde, venderebbe lo stesso”) con un serafico “Considero quello che facciamo non troppo distante dalla performance d’arte. C’è soltanto una dose di umorismo infinitamente superiore rispetto a ciò che la gente pensa. Ci siamo chiamati Melvins, quanto potete prenderci sul serio?”. Infatti. Si può prendere sul serio qualcuno che si professa “a heavy metal band with Captain Beefheart”? Sì, si può e si deve. V come vantaggi?
Vantaggi? E quali? Stando a ciò che si legge in giro, a Buzzo e Crover basta suonare, registrare dischi e andare in tour (“Non ho mai capito come sia possible impiegare così tanto tempo per registrar un disco. [...] È musica, non neurochirurgia”, parola di Buzzo). Se ne fregano altamente dello (ehm) star-system. Sono (auto)ironici fino al midollo. In grado di farsi intervistare da due ragazzine di 12 anni e stare al gioco, illustrare le loro cover di un immaginario
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cartoonesco, prendersela un po’ con tutti, specie se quel “tutti” sono presunte mega-star dell’ex underground come Rob Zombie, creare una fan-base di duri e puri denominata ironicamente Melvins Army, con tanto di badge di riconoscimento e chissà cos’altro. Dopotutto, è la band che ha contribuito massicciamente a far nascere il grunge e la Seattle nuova mecca della musica. E nonostante ciò, è stata la prima band a fuggire da Seattle, prima ancora che divenisse il centro dell’hype mondiale, esportando in tutto il globo terracqueo l’orripilante accoppiata camicia di flanella/jeans sdrucito. “Non è che ci lasciassimo dietro un granché, andandocene, dice Buzzo. Quando lasciammo Seattle, il cachet più alto che avevamo preso era 160 $ [...] Non credo che la nostra carriera abbia avuto delle ripercussioni dal trasferimento a San Francisco, così come non credo che non avremmo fatto qui quello che avremmo fatto in qualsiasi altro luogo”. Nessuna invidia, nessuna presunta rivincita. I vantaggi ci sono stati eccome – “Sarei pazzo ad affermare di non aver avuto vantaggi da successo di Nirvana o Soundgarden. Siamo stati molto aiutati e infatti vendiamo sempre più dischi ad ogni nuova uscita” – ma sono del tutto meritati. Dalla riconoscenza eterna da parte di band dal disco di platino facile fino agli attestati di stima da parte di chi sa riconoscere un suono come caratteristico (si pensi al Buzz Box, pedale che dovrebbe permettere di replicare il suono gonfio della chitarra di Osborne ma che quest’ultimo definisce qualcosa come “il suono di un aspirapolvere intasato”), la lista è lunga. Dopotutto, nella loro infinita autoironia, i Melvins hanno trovato la chiave per l’eterna giovinezza. E l’hanno trovata in cinque semplici mosse: quelle dettate da Crover in una intervista intitolata non a caso “Top five tips for keeping a band together 30 years” e cioè “Non avere una hit”; “Tieniti lontano dai personaggi subdoli”, “Caccia via qualcuno dalla band”, “Inonda il mercato” e, last but not least, “Non ti sciogliere”. Lapalissiano, no?
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David lynch There's Always Music in the Air Chi ha seguito la carriera di David Lynch sa che i due dischi pubblicati a suo nome sono il compimento di un percorso che lo ha visto trattare il suono e la musica come un elemento essenziale del suo cinema, fino a interessarsene anche al di fuori del grande schermo. Testo di Tommaso Iannini
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La novità è che David Lynch è diventato musicista? No, David Lynch incide dischi da solista. Questa è la vera novità, ma è anche il punto d’arrivo coerente di un percorso che lo ha visto sempre più consapevole dei mezzi sonori del cinema, dei loro aspetti espressivi e infine anche di quelli tecnici. Perché un po’ musicista lui lo è sempre stato. È un musician director e un musicians director, che ha lasciato tracce importanti nell’immaginario della musica pop e rock. David Bowie, Henry Rollins, Chris Isaak e Marilyn Manson hanno recitato in suoi film. I Pixies hanno realizzato una cover di In Heaven, il brano scritto da Peter Ivers per Eraserhead, la stessa canzone che i Modest Mouse hanno inserto nella loro Workin’ On Leavin’ the Leavin. I Fantomas hanno incluso una versione del tema di Fuoco cammina con me in Director’s Cut, mentre band di estrazione musicale molto diversa come Fear Factory, Mr. Bungle e Green Day hanno inserito nelle proprie canzoni estratti dei dialoghi di Blue Velvet, un film che ha ispirato anche Rollins Band e Anthrax. Lynch è uno dei registi che non hanno mai trattato il suono come accessorio dell’immagine, ma come elemento paritario. Per questo si è interessato alla colonna sonora in tutti i suoi aspetti, alla musica come ai rumori. E per questo ha acquisito una conoscenza tecnica che gli ha permesso di diventare prima sound designer, poi produttore discografico, compositore e cantatutore. S ometimes a Wind Blows
Si usa l’espressione latina genius loci per indicare l’insieme delle peculiarità di un ambiente o di una città, il suo carattere, la sua “aura”. Non sono mai stato a Missoula, nel Montana, e probabilmente non ci metterò mai piede in vita mia. Ma mi rimarrà probabilmente la curiosità. Ho sempre pensato che debba avere qualcosa di davvero particolare. C’è un motivo. Casualmente o meno, Missoula ritorna nelle biografie di due artisti, due tipici prodotti della provincia americana e allo stesso tempo due dei suoi più violenti eversori, che ne hanno raffigurato meglio di altri il lato oscuro. Parlo di David Lynch e di Steve Albini. Se i testi dei Big Black hanno descritto con crudo realismo l’alienazione della vita di provincia, il surrealista Lynch ha fantasticato su quella stessa realtà portata ai suoi estremi: una cornice idilliaca sotto cui si nasconde un brulicare di pulsioni sotterranee inconfessabili, l’incubo nella normalità del cuore dell’America media. È tutto lì, magnificamente riassunto nella prima sequenza di Velluto Blu: istantanee di una città da cartolina, e la cinepresa che s’infila rasoterra tra i ciuffi d’erba per scoprire la lotta di un nugolo di scarafaggi. Missoula è forse un luogo talmente normale da straniarti. Ma Lynch non dovrebbe nemmeno ricordare Missoula. L’America profonda sì. La sua infanzia è trascorsa in città di provincia tra il Midwest e il Nordovest. Figlio di un biologo ricercatore che si spostava spesso per lavoro, da bambino solo nei continui trasferimenti con la famiglia ha visto increspare la superficie di un’esistenza tranquilla e spensierata. Addirittura idilliaca, a giudicare dai suoi ricordi. Non aveva una città da raccontare, Lynch, e non è nato con una cinepresa in mano. Il suo primo amore è stata la pittura, che ha voluto “completare” dandole il movimento, il tempo e il suono. Il suo primo cortometraggio (Six Men Getting Sick) era un film di animazione da proiettare in loop su uno schermo scolpito; a tutti gli effetti, un’installazione. Il secondo, The Alphabet, e il mediometraggio The Grandmother, sono un connubio tra disegni animati e riprese dal vero con attori (alcune riprese per singoli fotogrammi, come se fossero vere animazioni). Tutto nasceva da un’epifania avuta alla scuola d’arte. Lynch si è accorto che il quadro sul cavalletto non gli bastava più. Voleva “sentire il vento”. Ecco quindi l’idea di diventare regista e un primo suo-
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no lynchiano, uno dei suoi preferiti: un bordone simile a un soffio di vento. Lo abbiamo ascoltato più volte nei suoi film e lo aveva probabilmente in testa già allora. Il regista dei Rumori
«Adoro il suono e sperimentare con il suono. […] Mi ha sempre interessato anche se non sono affatto un musicista. Ma i suoni tendono verso la musica e amo quell’area di confine in cui posso danzare sempre più vicino alla musica con gli effetti sonori». Queste poche parole, estratte da un’intervista al sito The Red Alert, descrivono un aspetto fondamentale dell’estetica di Lynch: l’uso degli effetti sonori e dei rumori d’ambiente con una sensibilità musicale. È uno spazio borderline che il regista ha esplorato fin dagli esordi, e che veicola buona parte dell’atmosfera dei suoi film, a partire dal cult movie con cui debuttò alla fine degli anni ‘70, quando era ancora soltanto uno degli studenti dell’American Film Institute. Non si può dire, però, che l’autore di Eraserhead non sappia suonare o non abbia avuto una formazione come musicista. Da bambino David Lynch suonava la tromba. «Adoravo suonarla, prima di andare alla high school, dove hanno forzato tutti quelli che suonavano nell’orchestra ad unirsi alla marching band; è stato allora che ho lasciato perdere». Una decina di anni fa, non si sapeva molto di questa sua passione giovanile. C’erano però un paio di immagini molto indicative. In una foto pubblicata nel libro di interviste Lynch on Lynch di Chris Rodley (Lynch secondo Lynch, Baldini e Castoldi) si nota il piccolo David con una tromba in mano in una foto di famiglia scattata davanti all’albero di Natale dove compare insieme ai suoi fratelli minori, John e Martha. Il nipote di un suo ex compagno (sic) di scuola di Boise, nell’Idaho, ha postato in una pagina Internet il programma di uno spettacolo scolastico del 1958, nel quale il dodicenne Lynch (è nato il 20 gennaio del 1946) figurava in un trio e presentava persino un assolo. Non doveva poi cavarsela tanto male. Più interessante è un’altra foto contenuta nel libro di interviste di Rodley, in cui il regista, in un momento di pausa durante le riprese di Eraserhead, suona la tromba insieme a un violoncellista (Lynch sembra guardare davanti a sé come se leggesse uno spartito). Il violoncellista della fotografia è Alan Splet, l’ingegnere del suono con cui David Lynch ha collaborato costantemente da The Grandmother fino a Velluto Blu. Lynch lo ha conosciuto a Philadelphia, dove Splet lavorava da un anno e mezzo come fonico
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per lo studio Calvin DeFrenes. La colonna sonora di The Grandmother, un film di fantasia in cui un ragazzino terrorizzato dai genitori si “coltiva” una nonna che lo possa rassicurare, è incredibilmente sofisticata e per i valori ritmici e timbrici si avvicina alla musique concrète, erodendo il confine tra rumore e suono musicale per creare uno spazio acustico “atmosferico”, oltre che narrativo. Il suono «tende ad amplificare quello che si vede sullo schermo, per rendere più intense le immagini o per interpretarle. Il suono può anche non corrispondere con i movimenti sullo schermo, per creare invece uno stato d’animo, un’atmosfera. Non sono un granché come tecnico» raccontava Splet, che in realtà era un creativo, come Lynch. Il lavoro a due sulla colonna sonora (non intesa come score, ma come l’intero audio della pellicola) di The Grandmother si è protratto per due mesi – due mesi per un film di mezz’ora. Basta a dare l’idea di quale accuratezza e densità abbia sviluppato. Il regista e il fonico hanno creato gli effetti sonori partendo da zero, senza ricorrere ai nastri preregistrati (come si fa nella maggior parte dei film). Dal punto di vista registico, Lynch è uno degli autori che hanno
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rivalutato il ruolo del rumore nella colonna sonora, emancipandolo da un uso puramente utilitario e figurativo. Nel suo campo di appartenenza, il suo ruolo si può paragonare a quei compositori d’avanguardia e rock che si sono serviti del rumore come materia musicale, sfidando i codici e le convenzioni. Nel primo lungometraggio di una lunga carriera, l’oscuro e impegnativo Eraserhead, Lynch e Alan Splet hanno creato con i rumori textures ambientali che vanno ben oltre la sonorizzazione di uno spazio realistico. Un film dove si ascoltano pochissimi dialoghi, e che non ha uno score originale (a parte il pezzo di Peter Ivers, In Heaven, si ascoltano brani di Fats Waller suonati da un giradischi), è avvolto però in un flusso di suoni che procede addirittura in modo quasi autonomo, indipendente dal racconto e dall’azione scenica, ma intimamente legato alla sua dimensione lirica, emotiva, subconscia, come se appunto si trattasse di una partitura musicale. Per far capire quanto la componente sonora sia importante nel suo cinema, Lynch è arrivato a definirsi un soundman più che un regista. In un’intervista pubblicata sul numero 482 dei Cahiers du Cinéma, al critico che gli faceva notare come la colonna sonora di Eraserhead fosse simile a un brano di musica, lui rispondeva: «Ma è già un disco! Non tutta la colonna sonora ma dei grandi estratti. Per me è come una sinfonia. Quando un film raggiunge l’astrazione, la banda audio può essere considerata come un’opera musicale». Eraserhead è la storia di un personaggio kafkiano che vive in una periferia industriale da incubo, di Henry che scopre di aver messo incinta la sua ragazza ed è costretto ad allevare suo figlio, una creatura mostruosa. Ma è anche, e soprattutto, un film-ambiente, un’esperienza in cui il sonoro si impone come l’elemento più originale. Lynch e Splet immergono le immagini in una sorta di cacofonia delle sfere composta da rumori industriali, soffi di vento e suoni di macchine in azione, che non hanno un referente visivo immediato; non sono quindi semplici suoni realistici ma una presenza di confine, tra il rumore di fondo e quello spazio “altro” definito tecnicamente “extradiegetico” che di solito compete alla musica di commento. E come la musica questi suoni sono spesso modulati e impiegati in modo “astratto” oltre che narrativo. Lynch e Splet usano i drones come i compositori di musica ambient o psichedelica, stratificano i rumori come se fossero strumenti, e concepiscono una forma – possiamo dire, latente – di musica industriale un anno prima che i Throbbing Gristle pubblichino The Second Annual Report. Qualche critico si è spinto fino a
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sostenere che Lynch e Splet abbiano inventato il genere. A tanto non arriviamo, però è curioso notare come personaggi all’apparenza agli antipodi come Genesis P. Orridge e David Lynch abbiano sviluppato ricerche parallele e contemporanee che li hanno condotti in zone quasi limitrofe. The Elephant Man (1980) e Dune (1984) contengono tracce dello stesso immaginario sonoro di Eraserhead, anche se le musiche di questi due film sono molto più convenzionali: classica e impeccabile per il primo (John Morris), tronfia e fuori luogo per il secondo (i Toto). T he Bad A ngel
Dopo il fiasco di Dune, si apre per il regista una seconda fase creativa, nella quale raggiunge la maturità artistica e un inedito successo di pubblico, aprendo nuove strade al cinema d’autore. Tra la metà degli anni ‘80 e l’inizio dei ‘90, il mondo di Lynch cambia polarità. Vengono meno i riferimenti “industriali”, sostituiti da un
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fascino nuovo per il paesaggio e la cultura popular americana; e dopo il rumore e il nero, elementi lynchiani per eccellenza diventano anche il colore e la musica. Come per i suoni aveva trovato in Alan Splet il collaboratore tecnico e artistico in grado di tradurre nel concreto le sue idee, Lynch ha bisogno di un’altra spalla per dare una svolta personale alla musica dei suoi film. Durante le riprese di Velluto Blu (1986), Lynch incontra il partner in grado di rendere materia viva la sua immaginazione musicale: si tratta del compositore, arrangiatore e direttore d’orchestra Angelo Badalamenti. «Angelo mi ha introdotto al mondo della musica; non mi ero mai reso conto di quanto desiderassi entrarci finché non capitò davvero» (Lynch secondo Lynch). Il sodalizio con il musicista italoamericano segna un punto di svolta per la carriera del regista. La musica di Badalamenti verrà utilizzata addirittura già sul set e scritta prima delle riprese (anziché essere aggiunta in post-produzione come fanno molti nella catena di montaggio di Hollywood). Ed è la musica in generale, anche quella preesistente, che per Lynch diventa traccia guida del processo creativo, diffusa ad alto volume durante le prove per dare un punto di riferimento agli attori, o addirittura in fase di ripresa nelle scene senza suono diretto; persino durante le riprese con dialoghi, il regista la ascolta in cuffia, mentre dirige. Quando lavorano insieme, Lynch si comporta come un direttore d’orchestra che dirige verbalmente Badalamenti; e mentre la musica si traduce in elementi visivi, la stessa messa in scena diventa musicale. In Velluto Blu le canzoni Blue Velvet, In Dreams (Roy Orbison) e Love Letters diventano un sottotesto e organizzano direttamente non solo il montaggio o la regia; dal dietro le quinte irrompono in proscenio, e arrivano a strutturare situazioni narrative in maniera visionaria ed estremamente personale, come l’indimenticabile sequenza in cui Dean Stockwell canta In Dreams. Di formazione classica, ma a suo agio anche con il jazz e la musica pop, Badalamenti è convocato sul set dai produttori per lavorare con Isabella Rossellini, che nel film interpreta una cantante da night club. L’arrangiamento di Blue Velvet, l’hit degli anni ‘50 da cui Lynch ha preso spunto per creare il suo capolavoro, è talmente convincente che Angelo finirà per comporre tutte le musiche originali del film, dimostrando tutta la propria versatilità tra un’ouverture sinfonica ispirata da Sostakovic, musica atonale per archi che ricorda le partiture di Bernard Herrmann per Hitchcock, strumentali jazz e una canzone nuova di zecca.
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Mysteries of Love, parole di Lynch e musica di Badalamenti, va a sostituire la versione di Song to the Siren dei This Mortal Coil che Lynch avrebbe voluto inserire nel film. Il regista scrive testi senza metrica, suggerendo a Badalamenti di comporre una musica che somigli «al vento». Ancora, il vento. Mysteries of Love sviluppa una melodia semplice su un tappeto di sintetizzatori; l’interprete femminile, Julee Cruise, ha una voce d’angelo modulata (e trattata) in modo simile a quella di Liz Fraser. Il successo della serie televisiva Twin Peaks fa conoscere Lynch in tutto il mondo, e rappresenta uno dei punti più alti della sua collaborazione con Badalamenti. Il tema principale, sviluppato nella canzone Falling, è la creazione più famosa del compositore. Brano sentimentale e misterioso, che oscilla tra tonalità maggiori e minori, inizia con un semplice riff grave e qualche pennellata di sintetizzatore, su cui si innesta una melodia dolcissima, che sale per gradi congiunti fino al momento dell’acuto e ricade dolcemente nell’arpeggio del basso sintetico. Lo stesso tipo di movimento – dal registro cupo a quello lirico e dal minore al maggiore (con ritorno al minore) – si ascolta con modulazioni più sorprendenti nel tema di Laura Palmer, dove la melodia principale è affidata al
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pianoforte. Il terzo motivo più importante, Audrey’s Dance, è un blues notturno e sofisticato sviluppato su un riff di basso e vibrafono. Le canzoni firmate da Lynch e Badalamenti, con il regista nel ruolo di paroliere, per Twin Peaks e il film Fuoco cammina con me (1992), sono l’asse portante dei due album di Julee Cruise, Floating into the Night (1989) e The Voice of Love (1993). Lo stile di entrambi i dischi è trasognato ed etereo, sul modello di un dream pop contemporaneo mescolato con uno slow anni Cinquanta (l’età dell’oro nell’immaginario del regista) reso più astratto e sublime. Il registro di Lynch come autore di testi attinge ai temi chiave del suo immaginario registico: vento, fuoco, fluttuare, oscurità, con un vocabolario abbastanza ristretto e composto di parole e concetti che ritornano come piccoli mantra. Lo stesso trio – Lynch, Badalamenti e Cruise – è il protagonista dello spettacolo Industrial Symphony n. 1, in cui le canzoni fluttuano sul palcoscenico tra citazioni dell’immaginario lynchiano e altre trovate surreali. Dal sound design al canto
Il coinvolgimento tecnico di Lynch nel suono dei suoi film arriva a un punto di svolta con Fuoco cammina con me (1992), la sua pellicola più bistrattata, dove per la prima volta si accredita come sound designer e firma un brano musicale. Il pezzo composto dal regista, The Pink Room, è un rock lento e martellante, sviluppato su un potente giro di basso sul quale entrano e si riverberano dei mesmerici accordi di chitarra elettrica. Molto semplice nella sua
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struttura, la musica risulta di grande effetto nel complesso della scena a cui detta il ritmo e la costruzione (quella in cui Laura Palmer si prostituisce in una sordida discoteca), suonata tra l’altro a un volume talmente alto che la versione originale del film inserisce i sottotitoli per rendere intelligibili i dialoghi senza snaturare la colonna sonora. Il regista si avvicina al rock contemporaneo in Strade Perdute, la cui formula narrativa è essa stessa “musicale”, più incline alla struttura di una fuga che a un plot classico. Il co-sceneggiatore, Barry Gifford, lo definisce un intreccio che «musicalmente parlando, inizia in un punto, se ne allontana, e torna là dove era iniziato». Il sound designer Lynch si permette di manipolare le immagini con la stessa libertà con cui un ingegnere del suono rallenta o accelera le tracce audio (alcune riprese sono effettuate a 4, 6, 30, 48 e 96 fotogrammi al secondo, invece dei tradizionali 24, o addirittura al contrario); sfrutta la forza immaginifica delle canzoni per creare effetti visivi (splendida I’m Deranged di
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Bowie sui titoli di testa) come aveva fatto già in Cuore Selvaggio (1990) con i riff metal dei Powermade, e devia questa volta la musica verso l’effetto sonoro, usando anche gli archi per sinistri toni d’ambiente e registrando un’orchestra attraverso dei tubi. Le musiche del film, oltre alle orchestrazioni “astratte” di Badalamenti, ospitano brani di Barry Adamson, Trent Reznor, Marilyn Manson, Rammstein, Lou Reed, Smashing Pumpkins e, finalmente, Song to the Siren dei This Mortal Coil. Reznor ha creato Diver Down su input del regista che nella scena finale voleva il suono di una «scatola da cui saltano fuori dei serpenti che ti sibilano sulla faccia». Nel 1998 Lynch collabora al disco della violinista e cantante Jocelyn Montgomery Lux Vivens – The Music of Hildegard von Bingen, dedicato alle composizioni musicali della religiosa Ildegarda di Bingen, mistica medievale vissuta nel XII secolo. Lynch si occupa della produzione, creando con i suoi soundscapes il tappeto sonoro per la voce della Montgomery.
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Il sound design è di David Lynch anche nei film successivi, il bucolico The Straight Story (1999) e il capolavoro Mulholland Drive (2001), il suo film “definitivo”, in cui è Lynch stesso a manipolare le tracce orchestrali di Badalamenti per creare effetti pieni di mistero e suggestione. Il regista e il compositore firmano a quattro mani alcuni brani strumentali, in cui i temi musicali sorgono da un fondo oscuro di pedali e rumori. L’altra grande novità sono i brani del progetto Blue Bob (2001), che vede Lynch, nell’inedito ruolo di chitarrista, affiancare l’esperto John Neff. Il regista suona in modo volutamente naif, più interessato a trarre suoni interessanti dalla chitarra, non possedendo alcuna tecnica. La nuova sorpresa di INLAND EMPIRE (2006), girato in digitale e ancora più complesso e astruso sotto il profilo narrativo, è che Lynch non solo scrive Ghosts of Love e Walking in the Sky, ma le canta. La sua voce è riconoscibile per quanto stravolta dagli effetti. La colonna sonora del film contiene anche Polish Poem, cantata da Chrysta Bell, il brano più emozionante tra quelli firmati dal regista come compositore. Una melodia sublime per un’interprete più intensa, vibrante, matura della voce d’angelo un po’ zuccherosa della Cruise. In INLAND EMPIRE non compare più la musica di Badalamenti, segno di come il regista abbia emancipato la propria anima musicale e sia pronto per un salto di qualità. C razy C lown T ime
Che il regista di Eraserhead, Velluto Blue e Mulholland Drive faccia sul serio come recording artist si evince anche dal contributo al disco di Danger Mouse e Sparklehorse Dark Night of the Soul, dove Lynch compare nel brano Stars Eyes (I Can’t Catch It). Due anni dopo esce il suo primo vero LP “solista”, registrato nel suo studio: Crazy Clown Time (2011). Come ci si aspetterebbe da Lynch, le atmosfere non possono che essere scure e sottilmente minacciose, inquietanti, morbosamente suadenti. Non si tratta però di colonne sonore per film immaginari, quanto di vere canzoni, sempre con quella voce distorta dagli effetti che vogliono evidentemente renderla più liquida e onirica, ma anche celare i difetti d’intonazione (non ci riescono sempre, vedi la title-track). Dal punto di vista compositivo, è il trionfo del suo genere preferito quando scrive musica: un rock dark e lento tinto di (moody) blues, dai groove ripetitivi e ipnotici e dalle chitarre fantasmatiche, perfetti per agganciare l’ascoltatore, lasciarlo distendere e fluttuare abbandonandosi alle atmosfere oniriche. Si distanziano
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i brani più sperimentali (Strange and Unproductive Thinking) o i più elettronici e ballabili (Good Day Today, Stone Gone Up); ci sono però anche variazioni sul tema, come la ritmica incalzante di Pinky’s Dream, cantata da Karen O con voce roca quasi alla Kim Gordon. The Big Dream (2013) continua sulla stessa falsariga, entrando con due piedi ancora più nel blues (Star Dream); un blues rarefatto come in The Ballad of Hollis Brown ma sempre riconoscibile. Quando non scivolano nell’autoparodia (Sun Can’t Be Seen No More), se dobbiamo trovare una pecca ai due dischi solisti di David Lynch è il fatto che soffrano della ripetitività di schemi e arrangiamenti. Per non parlare della voce. Gli episodi che fatalmente si finisce per ricordare sono quelli dove compaiono due vere cantanti: Pinky’s Dream in Crazy Clown Time e I’m Waiting Here con Lykke Li in The Big Dream. Non per niente, il disco di Chrysta Bell, This Train (2011), di cui Lynch è il produttore e il principale compositore, ha una marcia più ed è l’episodio più significativo di questa sua “seconda vita” da musicista. Alla già nota Polish Poem il disco della cantante e modella americana aggiunge altre dieci canzoni. La voce di Christa non è un ornamento per i brani di Lynch. Angel Star, Friday Night Fly, Real Love, Bird of Flames risentono dell’impronta del suo stile anche nelle linee compositive, per questo acquistano personalità e non suonano incompiuti come molte creazioni del Lynch cantautore. Perché, pur difendendosi bene in un campo delicato come la musica, è come creatore di cinema che il buon David ci manca. E lo aspettiamo.
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Donato Dozzy Psychedelic Techno from (Elect) Roma Abbiamo ripercorso la carriera di Donato Dozzy, musicista e DJ romano che qualche mese fa è uscito con uno dei dischi piÚ importanti nel panorama elettronico techno ambient internazionale. Ci ha raccontato la sua storia partendo dagli anni '90 e i suoi progetti futuri. Made in Italy da esportare. Testo di Marco Braggion
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Donato Dozzy ha confezionato quest’anno uno degli album più interessanti del panorama electro/techno/minimal internazionale. Plays Bee Mask è un’omaggio all’amico Chris Madak, musicista americano di ambient sperimentale che da anni pubblica le sue visioni soniche su Spectrum Spools, una sussidiaria della Mego. Il disco prende come pretesto il singolo Vaporware del musicista di Philadelphia e costruisce una simbiosi tra ambient, minimalismo ed electro, assemblando una piccola grande bomba per capacità di arrangiamento, cura del suono e coinvolgimento emotivo. Ascoltandolo ripetutamente ci siamo chiesti da dove provengano
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questa maturità e consapevolezza dei mezzi. Il DJ romano era già balzato in top l’anno scorso con il progetto Voices From The Lake, in collaborazione con l’amico Giuseppe Tillieci. A capire un po’ con chi abbiamo a che fare, ci aiuta il podcast numero 200 della label romana Electronique.it. Il mix di un’ora, curato dallo stesso Dozzy, mette in sequenza capisaldi dell’elettronica della capitale che hanno influenzato la sua palette sonora. Nomi storici come Enrico Simonetti, Zappalà, i Goblin, Leo Anibaldi, Lory D, Max Durante, Lerosa, Marco Passarani. Viene quindi da pensare che l’uomo faccia parte della generazione rave romana, quella che per un magico istante è riuscita ad accostarsi a Londra e Detroit, scomodando pure la Rephlex di Aphex Twin. Non è così. I primi passi Donato li muove invece in solitaria, assiste poco ai rave e viaggia su una dimensione più intima, privata. Mette su musica per far contenti gli amici, si fa le ossa suonando ogni sera maratone di ore in club minori, sperimentando e crescendo. Man mano che passa il tempo, diventa un nome e sbanca sulle consolle del Brancaleone capitolino. Poi il viaggio a Berlino. È resident al Panorama Bar. Torna in Italia e continua la sua carriera fra club, ascolti e ossessione per la musica psichedelica tagliata con la techno. Moltissimi i 12” (dal 2004 ad oggi), composti in solitaria o in collaborazione con amici; tra gli altri Giorgio Gigli della Zooloft, Brando Lupi – che ha collaborato anche alla colonna sonora de La solitudine dei numeri primi -, i berlinesi Exercise One (Ingo Gansera e Marco Freivogel), Manuel Fogliata aka Nuel con cui divide la gestione della label Aquaplano. Nel 2010 esce il primo full K, sull’americana Further Records: ambient techno di classe, che conferma la statura dell’uomo. E da lì la strada è tutta in discesa. La sua è una di quelle storie artigianali che oggi non siamo abituati più a sentire. Il successo di un musicista o di un DJ è molte volte legato al marketing o alla marchetta. Quello di Dozzy è invece un viaggio prima di tutto mentale, organico, ancorato come radici agli anni ‘90 ma sempre attento al domani e pure al passato psichedelico. L’abbiamo sentito via Skype, in pausa fra un set e l’altro, e ci è piaciuto molto parlare con lui. Ci è sembrato di stare seduti comodamente nel salotto dell’Artificial Intelligence della Warp. Robot, relax, ritmo e anima. Questo, in poche parole, è il mondo di Donato. Quando hai iniziato eri già dentro alla scena rave romana o eri più giovane rispetto ai DJ che suonavano negli anni ‘90? Io sono leggermente più piccolo o coetaneo di quelli che fan-
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no parte della generazione precedente. L’unica volta in cui ne ho parlato in maniera più approfondita è stato in occasione del podcast di Roma (uscito su Electronique.it). In quell’occasione ho ben specificato di essere stato uno spettatore all’epoca, ero un DJ da festa privata, ascoltavo tanta musica con i miei amici, l’andavo a comprare nei negozi dove c’erano i DJ forti di Roma, quelli che per me e per altri erano un’ispirazione. Compravo i loro dischi e immaginavo quello che succedeva. Anche perché sono stato a un solo grande rave che risale alla fine dell’89, il famoso rave di Borgo Sabotino. A parte quello, non ho né fatto parte della scena, né ho fatto serate relative a quella scena. Ero semplicemente un grande fan. La vita mi ha portato in seguito a relazionarmi con alcuni di questi “eroi”. Anche per il fatto che la mia attività [di DJ, ndSA] è diventata più seria. Negli anni ‘90 ai rave e nei locali in cui veniva proposta questa musica c’erano sonorità sia commerciali che di ricerca, tipo Warp. Tu da cosa sei stato più ispirato? Ovviamente sono stato ispirato più da cose ricercate, però all’epoca, visti anche i canali a disposizione… non c’era internet… insomma: la situazione era diversa. Dovevi andare in negozio, procedere attraverso il filtro del commesso di turno. Erano pochi quelli che potevano permettersi di viaggiare in altre città e comprare dischi. Quindi mi sono sempre un po’ arraffato tutto quello che potevo, anche perché all’epoca, semplicemente, dovevo fare esperienza e cercare di capire come fare questo lavoro. Per cui mi sono trovato a comprare dischi di commerciale, dischi di rock, di pop, dischi di qualunque tipo. Naturalmente anche dischi di techno. E questo è successo mano a mano che i canali a disposizione sono diventati più approfonditi. Su questo sono stati fondamentali alcuni amici della mia infanzia e l’avvento di Re Mix, il negozio specializzato di Roma [lo storico negozio di techno e di elettronica della capitale, ndSA]. Io andavo a Disfunzioni Musicali. Poi l’hanno chiuso… Sì, Disfunzioni era più a 360 gradi. È stata una cosa che ho imparato più tardi, quando ero all’Università. Nei primissimi tempi il mio primo vero rapporto con i dischi di una categoria è stato Re Mix. Poi è normale che con l’aumentare della conoscenza e della curiosità sia arrivato a Disfunzioni. All’inizio della tua carriera hai gravitato prevalentemente nell’ambiente romano quindi. Sì e no. Tra l’86 e l’88 d’inverno facevo delle feste che potevano essere per amici, qualunque cosa capitasse. Dal ‘90 ho comincia-
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to a fare il DJ al Nautilus, un locale di San Felice Circeo, dove mi trovo adesso, che chiaramente non esiste più. Nel ‘91 andai a fare la stagione come resident in un club che si chiamava Number 2 a Capri. Lì è stata una cosa fondamentalmente da turisti, però aver fatto così tante serate, aver preso la responsabilità di mandare avanti un club, naturalmente mi ha insegnato tanto. Con il procedere dei miei studi all’Università sono entrato in contatto con persone diverse, e con ambienti diversi. Ed è lì che è nata l’intenzione collettiva, con i miei amici, di cominciare ad organizzare feste un po’ più specifiche. Poi sei andato anche per un periodo a Berlino e hai suonato al Panorama Bar… Sì, questo in un periodo successivo. Durante il periodo delle feste ho continuato a studiare e solo nel momento in cui mi sono laureato sono entrato al Branca. Questo succedeva nel ‘99. Ho fatto il servizio militare, ho finito tutto, ero proprio arrivato al momento in cui potevo decidere il da farsi. E proprio lì arrivò la possibilità di lavorare al Brancaleone. È lì che le cose sono diventate “serie”. Pochi anni dopo – nel 2003 – sono andato in avanscoperta a Berlino, per poi trasferirmici nel 2004. Ho iniziato avendo una residenza al Panorama Bar, tipo un paio di volte al mese, forte dell’esperienza molto intensa del Brancaleone. Lì suonavo ogni sabato, avevo la possibilità di suonare sia in sala grande, che nella saletta dove potevo sperimentare tutto ciò che volevo. Come dire, devo un’eterna riconoscenza sia al Brancaleone, che alle persone che vi fanno o che vi hanno fatto parte. Parlando invece di Plays Bee Mask, mi puoi dire qualcosa dell’incontro con Chris Madak? Lo conoscevo per via dei suoi dischi, che comunque già collezionavo. In particolare le pubblicazioni su Spectrum Spools, etichetta di cui ho l’intero catalogo. Quindi prima di tutto sono stato un suo fan, e ignoravo tutto ciò che potesse essere un’eventuale conoscenza da parte sua. Non sapevo nemmeno che faccia avesse, anche perché lui si mostrava con i capelli lunghi davanti alla faccia, quindi ero proprio curioso. Una volta incontrato al Labyrinth [il festival giapponese dove si sono incontrati, ndSA] ho scoperto comuni origini meridionali, legate alla città di Bari, da cui proviene anche la mia famiglia. Lui ha dei parenti lì. Questa è stata la prima cosa che mi ha abbastanza sconvolto. Suonare insieme è stata, in realtà, una vera e propria rivoluzione per entrambi, anche perché ci siamo trovati a livello umano. Suonare “uno in faccia all’altro” è stata un po’ una rivelazione per entrambi. Infatti
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dopo il festival, oltre ad essere rimasti in contatto, è partita una sorta di collaborazione che avrebbe anche potuto rimanere in sordina, nel senso che lui mi aveva chiesto un remix. Non sapevamo che la cosa sarebbe andata a sfociare in un album… ma è anche un po’ il bello dei rapporti che ti sorprendono sempre, no? Dal punto di vista pratico come hai lavorato sul remixing? Considera che Chris mi ha mandato 3.2 Gigabyte di materiale per una traccia. Visto che erano tutte cose molto belle, mi sono concentrato su un elemento alla volta. È un modo di fare le cose che mi piace. Caratterialmente, tendo a non accumularne mai una sopra all’altra. Mi piace sempre affrontare un problema alla volta. Quindi ho semplicemente trasposto e fatto quello che più mi sembrava naturale in quel contesto. Ho dedicato un giorno a remix, quindi una settimana in totale per la fase compositiva. Poi mi sono dedicato al mixaggio e alle calibrazioni. Di comune accordo con Chris, abbiamo deciso di coinvolgere Neel [di Voices From The Lake, ndSA], che ha curato la fase del pre-master. Ho voluto seguire una pratica che veniva usata fino a qualche tempo fa, diciamo a livello di produzione negli studi, cioè affidare il missaggio a qualcuno di esterno alla composizione. In questo caso mi ha fatto molto piacere coinvolgere Neel, anche perché pure lui ha un rapporto di amicizia con Chris. L’abbiamo ben specificato sul disco, per far sapere che è stato un lavoro di gruppo. Quindi non è una cosa solo tua, riguarda anche i Voices From The Lake… No, rimane una cosa mia. Quello che Neel ha fatto è stato prendere tutte le parti che avevo registrato, ha seguito il modo in cui le avevo assemblate e ha ottimizzato ogni componente a livello ingegneristico. Ascoltando quel disco e anche altre cose tue, mi piace molto il tuo approccio, perché ci metti molto ad entrare nel sound. Questa cosa mi ha ricordato anche la Cosmica di Daniele Baldelli. Poi tagli anche con delle cose tribali… Diciamo questo: io per Baldelli ho una grandissima ammirazione. Punto. Non ho altro da aggiungere. OK, ma DJ come Steve Aoki o altri che suonano un genere completamente diverso dal tuo, mi sembra che abbiano un’attitudine un po’ più “veloce” nell’arrivare al punto. Mettono su due pezzi, poi fanno il drop per far saltare la gente. Invece quello che fai tu mi sembra più una cosa di ambiente, di atmosfera, anche se poi la tensione sale comunque. Mi pare che sia un po’ più organico il tuo discorso. Tu senti que-
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sto, quando prepari i set? È una cosa che ha a che vedere con la sensibilità di ognuno di noi. Per accontentare la mia di sensibilità devo essere così e non altrimenti. Poi l’importante è che ognuno trovi il modo per essere contento con ciò che fa. Per quanto mi riguarda, non potrei che avere quest’approccio. Poi cerco di evolverlo e cambiarlo, stravolgerlo continuamente proprio per una questione di soddisfazione personale, oserei dire di terapia personale. Ogni volta che si fa qualcosa, dev’essere un passo successivo. Non c’è niente da fare. Più invecchio e più sento che è così. Dal tuo primo disco K mi sembra che tu abbia cambiato approccio. Che cosa mi dici di questa mutazione? Ogni disco è una storia a sé. Io dico sempre che la staticità uccide, almeno nel mio caso. Una volta finito il lavoro per i dischi tendo a non ricordare il modo in cui l’ho fatto. Non sono uno che salva i pattern o i suoni costituiti. Si chiude una baracca e se ne apre una nuova. Cerco costantemente di cambiare le mie tecniche e i modi di lavorare. Sono una persona curiosa e mi piace tentare nuove strade. Lo stile è legato allo stato d’animo che hai in quel momento. Dopo tutti questi viaggi, se devi comprare musica per i tuoi set, preferisci musica di Berlino, italiana o qualcosa di londinese? Non ho una preferenza in particolare. Dev’essere tutto ciò che mi stimola l’appetito. Sono anche appassionato di world music, quin-
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di vado a pescare ovunque le mie papille gustative mi stimolino. Mi piace comprare dischi dell’usato, dischi africani, dischi inglesi… dev’essere tutta roba che “ci sta” con quello che cerco. Nella recensione ho scritto che mi sembrava di sentire qualche colpetto di minimalismo americano, quello classico. Conosci quella tipologia di musica? Il minimalismo m’interessa. Focalizzare l’attenzione su elementi nudi, che però abbiano una tale ricchezza da non necessitare di altro intorno. Su quel punto sicuramente gli americani hanno fatto la loro scuola, come del resto ogni nazione. Mi piace l’approccio minimalista alla musica neoclassica/classica contemporanea, il minimalismo applicato alla techno e all’ambient. Ho rispetto per le persone che riescono in questi termini. Significa che sanno sfruttare al massimo il poco che hanno. Non in senso di scarsezza di risorse, è una questione di decidere su cosa focalizzare la propria attenzione. Anche su questo non mi sento di evidenziare qualcuno in particolare, è più l’approccio che mi interessa. Dai Voices From the Lake sta arrivando qualcosa di nuovo? O il progetto è in stand-by per adesso? No, è un progetto sempre attivo, anche perché riguarda un rapporto di amicizia prima di tutto. Se l’amicizia è attiva, anche il progetto non può che esserlo. Anche se fisicamente per tot mesi non facciamo nulla, in realtà qualcosa facciamo sempre. Magari non è la mera composizione, ma ci prepariamo tecnicamente, anche con gli ascolti, a qualcosa che succederà più in là. Al momento è stata compiuta una bella onda, è stato detto qualcosa. Noi stiamo continuando a parlare tra di noi. Il momento in cui uscirà qualcosa di nuovo sarà perché non possiamo trattenerlo. La collaborazione va al di là del nome. Io e Giuseppe facciamo sempre “cose”. Invece dal punto di vista personale, dopo Bee Mask, hai qualcosa nel cassetto che esce a breve? Sì, ci sono una serie di collaborazioni, di qui a un po’. Una riguarda un remix per Mike Parker su Prologue, non so esattamente quando uscirà. Un’altra è una collaborazione con Lucy, che uscirà sulla sua etichetta Stroboscopic Artefacts, un remix per il suo nuovo album. Sto mettendo insieme un po’ di idee per un lavoro mio, personale, magari un album, più in là. Sto raccogliendo un po’ di materiale, vedremo quello che esce. Anche una seconda parte dell’EP uscito per Electronique.it, per estrapolare qualche altro singolo dal podcast. In più uscirà su Spectrum Spools The Aquaplano Sessions, un album che riunisce i due EP Aquapla-
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no che ho composto con Nuel fra il 2007 ed 2008. I vinili sono esauriti e la gente li richiede da tempo. Per finire uscirà anche un remix per gli Exercise One, più in là. Artisti con cui ti piacerebbe o ti sarebbe piaciuto lavorare? Uno è sicuramente Claudio Rocchi nel suo periodo cosmico. Ho una venerazione totale per quest’uomo. Questo è sicuro. Produttori che ti ispirano, con cui ti piacerebbe collaborare? Uno è Chris Carter (Chris and Cosey, Throbbing Gristle). Poi Peter Zinovieff e David Cockerell, i due fondatori sopravvissuti della EMS che sono più un’ispirazione che altro. Ho la fortuna di collaborare già con persone che amo profondamente: Mike Parker, Peter Van Hoesen, Dasha Rush, Rabih Beaini ed altri. Tre dischi che ti son piaciuti ultimamente? Uno che mi è piaciuto tantissimo è l’album di Rashad Becker (Traditional Music Of Notional Species Vol. I, uscito quest’anno su Pan). Un disco che mi ha aperto in due è poi Head di Nik Pascal. Ho imparato di questo artista tramite John Elliot, il proprietario della Spectrum Spools; mi ha raccontato che questa è una registrazione del ‘68 che poi è uscita nel ‘70 su Buddah Records [l’etichetta di Safe As Milk di Captain Beefheart, ndSA], ed è un disco pazzesco. Sono basi di psichedelia. Un altro disco è Nommos di Craig Leon. Questo pure è un discone pazzesco. Uno è nuovo, due sono vecchi. Quello nuovo è di Rashad Becker, che secondo me è uno dei pochissimi che nel panorama mondiale, insieme a Mika Vainio e Morphosis, ha una creatività… sono tutte menti che vanno al di là del concetto di techno. Qui si parla di musica psichedelica con approccio da gran musicista. È quello a cui aspiro tutti i giorni. Sono tantissimi i dischi del passato che vengono riscoperti e pochissimi gli artisti contemporanei che riescono a tenere il passo con quelli di un paio di generazioni fa, per non dire tre.
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Gli Smiths, la band pi첫 influente e meno originale degli anni Ottanta, si calano magnificamente in un contesto storico difficile, popolato da figure controverse come Margaret Thatcher o animali da classifica come i Frankie Goes To Hollywood. Qui si racconta la loro storia senza fronzoli, cercando di buttare sempre uno sguardo al presente e uno ai sentieri pericolosi dell'animo di Steven Patrick Morrissey, l'ultima popstar. Testo di Nino Ciglio
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A Mystical Time Zone pt. 2
Of a shyness that is criminally vulgar Cavalcando l’onda positiva del 1984, gli Smiths provano a completare i sogni di una vita. In particolare, la premiata ditta Morrissey-Marr, tenta il tutto per tutto con un mito del loro background: Sandie Shaw. Alla Shaw, working class hero del 1947, stella del pop per poche intense hit (la più famosa fu Long Live Life del 1965), i due giovani del nord spediscono un nastro con incisa I Don’t Owe You Anything, spronandola a riprendere in mano le redini di una carriera che si era perduta negli anni Settanta, poco dopo la pubblicazione del singolo Heaven Knows I’m Missing Him Now (sì, il buon Moz si è impegnato in una lodevole e omofona citazione in Heaven Knows I’m Miserable Now). Cordialmente, la Shaw rifiuta, perché stanca dello star system e della luce appannante dei riflettori. Ma Morrissey non demorde e si reca direttamente a casa di Sandie per incontrarla. A quel punto, lei ne rimane affascinata: “i testi di Morrissey – dirà in un’intervista – dicono che non c’è niente di sbagliato ad essere normali. Gli Smiths ti fanno capire che non importa chi tu sia o cosa faccia, purché tu dica cose sincere”. Il sodalizio è sancito: la Shaw registrerà Hand In Glove, I Don’t Owe You Anything e Jeane in un singolo che entrerà nella top 30 e si guadagnerà l’apparizione a Top Of The Pops. Sandie stringe legami con la nuova leva di artisti e all’album solista, Hello Angel (pubblicato da Rough Trade nell’1988), prendono parte, oltra a Morrissey e Stephen Street, anche i fratelli Reid dei Jesus and Mary Chain.
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Ma l’84 è l’anno della creatività e delle sorprese. Gli Smiths vanno e vengono dai Matrix Studios con John Porter e registrano brani che avevano già cominciato a suonare in qualche data del tour di The Smiths. A maggio, mentre è ancora fresca l’esperienza con la Shaw, viene pubblicato Heaven Knows I’m Miserable Now, manifesto del miserabilismo e dell’etica anti-lavoro morrisseyana (“Cercavo un lavoro e l’ho trovato/sa il cielo se sono infelice ora”). La leggenda narra che nella primavera dell’84, Billy MacKenzie, leader degli Associates, esca da casa di Morrissey a Londra con sotto braccio un prezioso libro su James Dean del frontman degli Smiths. Steven, inizialmente perplesso, scriverà una canzone per rassicurarlo che, in fondo, non si tratta di nulla di grave: William, It Was Really Nothing. Per rimanere ancorati al reale (nulla si sa su una presunta relazione fra Moz e MacKenzie – che nel 1993 scriverà un brano di risposta intitolato Stephen, You’re Really Something), William è un brano ispirato a Billy il bugiardo, capolavoro del Free Cinema diretto da John Schlesinger nel 1963. Alla base del brano, ritorna il discorso anti-matrimonialista (“Come puoi stare con una ragazza grassa che ti dirà: Ti va di sposarmi? E se vuoi comprami l’anello”), tanto che, in una memorabile performance a Top Of The Pops, Morrissey, all’apice della canzone, si toglie la prima di una serie infinite di camicie che nella sua carriera regalerà al pubblico, rivelando, sul petto, scritta con il pennarello, la frase: MARRY ME. La storia divertente di William, però, non è finita qui. Come lato B del singolo, destinato ad un imperituro successo, è scelta How Soon Is Now?, probabilmente il brano più famoso degli Smiths, eseguito con regolarità sia da Moz che da Marr nei propri tour autonomi. La vicenda discografica è disastrosa: pubblicata prima come lato B di William, la canzone viene poi inserita in Hateful Of Hollow e infine, di nuovo come singolo, rilasciata poco prima dell’uscita di Meat Is Murder e compresa nell’album. How Soon Is Now? è la cifra stilistica dello strapotere chitarristico di Marr che, unito ad una produzione impeccabile, alla collaborazione infallibile di Rourke e Joyce e a una session a base di hashish e improvvisazioni, coglie nel segno. Tremolo, riverbero, slide e harmoniser: tutto in multitracking, tutto perfettamente equilibrato. E Morrissey, avvertito solo a canzone finita, stenderà le parole destinate a sancire l’emancipazione definitiva del loser, il testamento spirituale di tutti “i figli di una timidezza criminalmente volgare”, “gli eredi di niente in particolare”. Dopo un ritornello che ci rincitrullisce con le frasi fatte (“Sono umano ed ho bisogno
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di essere amato, proprio come chiunque altro”), ecco l’outro che ci riporta nel club dei cuori solitari, nella palude sterile di un Godot trepidante di amore non corrisposto: “C’è un club se vuoi andarci/ potresti incontrare qualcuno/che ti ama veramente./Allora vai e te ne stai in disparte/ed esci da solo,/vai a casa, piangi e vuoi morire./ Quando dici che accadrà ora, quando intendi esattamente?/Perché ho già aspettato troppo/e tutta la mia speranza se n’è andata”. Quando sarà rièpresa dalle t.A.T.u. nel 2002, Morrissey commenterà così: “E’ fantastica. Assolutamente. Però non ne so molto di loro”. E il giornalista: “Sono adolescenti, russe e lesbiche”. “Beh, non lo siamo tutti?”. A conti fatti, Hateful Of Hollow – così come alcuni anni dopo The World Won’t Listen/Louder Than Bombs – è qualcosa in più di una semplice raccolta di B side. Se si guarda alla tracklist, si scovano tesori inestimabili: These Things Take Time, Accept Yourself, Girl Afraid, This Night Has Opened My Eyes (che sarà anche il titolo di un bellissimo romanzo di Jonathan Coe, grande fan degli Smiths) e, soprattutto, Please, Please, Please Let Me Get What I Want, i centodieci secondi più famosi degli Smiths, destinati a stracciare cuori su cuori con le proprie meditazioni sul tempo e sulla volontà.
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A death for no reason is murder
Nel 2011 alcune proteste studentesche investono Londra in maniera violenta. Una giovane manifestante – ciuffo biondo in vista – viene fotografata mentre sovrasta una barricata che la separa dalle forze dell’ordine. Sullo sfondo un cielo limpido e il Big Ban. Sulla t-shirt della ragazza è stampata la copertina di Hateful Of Hollow. Johnny Marr – che al tempo aveva imbastito una polemica con il premier britannico Cameron intimandogli di non nominare più gli Smiths invano – non crede ai suoi occhi. Al suo cospetto, la foto appare photoshoppata. Ma è tutto vero. È tutto vero perché dal 1985 di Meat Is Murder in poi, come scrive Diego Ballani, “indossare una t-shirt degli Smiths non significa semplicemente mostrare il proprio apprezzamento verso una pop band: diventa una scelta di campo, un gesto politico contro l’ipocrisia borghese di una generazione stanca, che finge di non accorgersi di aver costruito una società fondata sulla prevaricazione sistematica”. Restano da capire i motivi di questa svolta, che svolta non è in termini assoluti, ma rappresenta un passaggio importante della carriera degli Smiths. Con Meat Is Murder (pubblicato in febbraio 1985), la violenza, la cupezza, le barbarie, l’ipocrisia, la politica, l’alimentazione, tutto diventa argomento di disputa. Morrissey e i suoi capiscono che non è più tempo di autocompiacimenti di fama, e che possono sfruttare la loro popolarità dando voce a opinioni, coniando nuovi termini di lotta e non rinunciando al compiaciuto vittimismo che contraddistingue la penna di Moz. Con le sue denunce dei soprusi e degli sfruttamenti e con quello humor nero tipicamente northern che non è mai mancato al quartetto mancuniano, Meat Is Murder è l’album più cupo della band. E così come gli Smiths non hanno più paura di sbandierare (con la malizia che li contraddistingue) le proprie opinioni, non temono nemmeno recuperi musicali bizzarri, andando a ripescare generi e artisti di trent’anni prima, dal rockabilly in salsa skiffle (Rusholme Ruffians) al quasi-metal (What She Said), dalle ballate (That Joke Isn’t Funny Anymore, Meat Is Murder) al rock d’autore (The Headmaster Ritual). Tutto coincide con il momento di massima fama europea della band, tanto che l’album sarà il primo e l’unico degli Smiths a scalzare Bruce Springsteen (Born In The U.S.A.) dalla prima posizione. Questo perché, nel frattempo, il pubblico smithsiano si è fatto più attento e preparato. La maggior parte di esso è costituito dal popolo degli studenti middle class, che trovano vita facile ad identificarsi con gli interrogativi sollevati dai testi degli Smiths,
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così come con quel senso di non appartenenza, di disequilibrio, di incompletezza, che la band di Manchester decanta nei propri versi. D’altro canto, cambiati i tempi e cresciuto il pubblico, è necessario che cambino anche le fonti. Allontanandosi (ma non abbandonando) le ambientazioni del kitchen-sink drama, Morrissey riscopre le idee di Elvis, di Victoria Wood (esponente di spicco della stand-up comedy inglese), di Elisabeth Smart (scrittrice canadese, segretaria e amante di George Baker). Ma il ruolo decisivo lo ricopre il passaggio di mixer da Porter a uno Stephen Street che assiste i quattro nel loro momento chiave. La copertina – come sempre nella discografia degli Smiths – è la chiave di volta per i contenuti dell’album. Si tratta di un fotogramma del documentario The Year Of The Pig di Emilie de Antonio e ritrae un soldato che porta sull’elmetto la scritta “Meat Is Murder”, che rimpiazza l’originale “Make Love Not War”. È un accenno pacifista, anche se poi nell’album sarà la violenza a fare da padrona: “Personalmente ho un carattere incurabilmente pacifista. Ma dove porta tutto questo? Da nessuna parte. Si è costretti ad essere violenti”. Certo, fin da The Headmaster Ritual si avverte quest’aura opprimente di sopraffazione, con cui, attraverso ricordi della scuola e dell’adolescenza (la terribile Saint-Mary), Morrissey declama e denuncia il martirio delle torture che molti giovani come lui hanno dovuto subire (“Il signor preside ti colpisce sulle ginocchia/Ti dà ginocchiate nell’inguine/Gomitate in faccia…”). E le torture, per dirla con Pirandello, iniziano nel clima falso e ingiurioso della famiglia. Lo sa bene Morrissey, che inserisce nella tracklist Barbarism Begins At Home, in cui le tematiche di The Headmaster Ritual vengono sdoppiate e riproposte fra le pareti domestiche, il luogo dell’ipocrisia per eccellenza (“Una botta in testa/è quello che ottieni se non fai domande”). Allo stesso modo Rusholme Ruffians intesse un black tale da far rabbrividire i fan di Tim Burton. Ancora una volta sono i ricordi d’infanzia a venire in aiuto alla vena poetica di Moz: nei pressi dell’autoscontro di Stretford Road un tizio gli venne addosso dandogli una testata gratuita (“E la brillantina fra i capelli/del ragazzo dell’autoscontro/è tutto ciò di cui ha bisogno un cuore tremulo”). Il commento è cupo e amaro, si dipinge una Manchester degna del peggior angolo del Bronx newyorkese, si ammicca al suicidio dettato dalla disperazione e dal disagio (“Quanto ci metterei a morire/Se saltassi dalla cima del paracadute?”). Lo stesso suicidio che, a quell’altezza cronologica, molti fan degli Smith minacciano di compiere a causa delle mancate risposte alle lettere che Mor-
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rissey riceve. Lo stesso suicidio che sarà oggetto di discussione perpetua fra Morrissey e la stampa, una stampa che lo incalza in continuazione sul tema, asserendo di scovare nei sui testi riferimenti costanti all’argomento. Certo, i riferimenti non mancano. Ci sono in What She Said, che sembra stata scritta per rispondere alle lettere sul suicidio che vengono recapitate a Moz: è un campionario di atteggiamenti fanatici (“Fumo perché spero in una morte prematura”) che si sono materializzati dal nichilismo del punk in su e che qui vengono quasi banalizzati, un po’ per ricordarci che essere delle icone pop è un peso che non tutti riescono a sopportare. E Morrissey ci deve – suo malgrado – fare i conti. Sulla lunghezza d’onda della foto commentata da Marr sugli scontri del 2011, c’è un altro fenomeno (per certi versi molto più vasto) che sottolinea l’influenza sociale degli Smiths sull’Inghilterra degli anni Ottanta. Si tratta del vegetarianesimo e della conversione di molti giovani ad esso, a seguito dell’ascolto dei brani degli Smiths o delle dichiarazioni del loro frontman. L’argomento, si sa, è arcinoto. Ancora oggi, Morrissey pretende che ai suoi concerti non siano venduti cibi a base di carne o abbigliamento in pelle. E ancora oggi i suoi fan lo seguono come se fosse il profeta di una religione alimentare. Sia valido, dunque, il consiglio di non portarsi da casa panini al prosciutto ai concerti di Morrissey. La tematica del vegetarianesimo, dalla quale trae spunto il titolo dell’album, è sentenziata lapidariamente nella titletrack di Meat
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Is Murder. Le tecniche della ballata che chiude il disco sono momenti di altissimo contagio spirituale: si va dalla campionatura del rumore dei macchinari da macello ai pianti straziati dei vitelli sul patio. Si snocciola del sentimentalismo spicciolo (“Questa bella creatura deve morire”), si pontificano frasi da graffitare sui muri (“Una morte senza motivo si chiama delitto”). Poi, dal momento che la tematica dominante del disco è la violenza, non ci si risparmia in descrizioni raccapriccianti (“Il sangue sfrigolante e blasfemo fetore del delitto”). Morrissey sostiene l’Animal Liberation Front nelle sue campagne animaliste e boicotta senza freni Boots e, soprattutto, McDonald’s. Meat Is Murder verrà spesso accompagnata (anche nel tour del 2012) da immagini violente di mandrie mandate a morire nei mattatoi. Il resto della band è trascinata nel turbinio del vegetarianesimo. Il catering dei concerti è assolutamente vegano (a volte Marr e Joyce si concedo del pesce), ma Rourke, stanco di dover sopportare questa dieta, abbandona la crociata. Con la prima posizione in classifica, pure senza un singolo apripista, Meat Is Murder segna anche i primi dissapori fra Smiths e Rough Trade. È proprio la scelta del singolo ad essere terreno di disputa: Morrissey propone Meat Is Murder, ma la lentezza del brano, unita ai testi molto spinti, determina il “no” di Geoff Travis. Anche il jangled pop fresco di I Want The One I Can’t Have viene bocciato, a causa dell’inesperienza di uno Street che lascia passare una stonatura nel mix. La mediazione più semplice è rappresentata da That Joke Isn’t Funny Anymore, che rimarrà l’unico singolo di questo disco e, forse, la canzone più sottotono dell’opera. E infatti, non avrà un grosso successo. Una nota a parte merita Nowhere Fast, che deve il titolo al secondo libro della Delaney. Il brano introduce – come Still Ill alcuni anni prima – la tematica antimonarchica, che sarà alla base dell’album successivo. Il testo recita senza timore: “Vorrei abbassarmi i pantaloni davanti alla Regina/Ogni bambino di buon senso ne capirebbe il significato”. Nell’85 di Meat Is Murder, però, un altro progetto, pseudo-politico sta prendendo piede: il Band Aid di Bob Geldof. Morrissey, da bravo aizzatore di cuori impavidi, non ci sta: “Il presupposto era quello di salvare la popolazione etiope, ma a chi chiedevano di salvarla? A una tredicenne di Wigan! Gente come la Tatcher o la famiglia reale potrebbero risolvere i problemi dell’Etiopia in dieci secondi. Ma Band Aid si guarda bene dal dirlo: per l’amore del cielo, si rivolgono direttamente ai disoccupati”. Inutile sottolineare che gli Smiths sono esclusi dal Live Aid
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di Geldof e si guadagnano facilmente la fama di band snob. Long life and prosperity. E ngland is mine and it owes me a living
Notting Hill è un posto che per certi versi unisce linee differenti della storia del tempo, in particolare della storia della lotta. Non solo: a unire i fili del tempo pensano anche due periodi storici criminalmente simili come gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta. Non è un caso se da Happy Days in su, dai giubbotti in pelle, dalla musica rockabilly alle balere, ovunque si sentisse una necessità di ritornare a quegli anni di boom. Anni di boom, certo, ma non solo. L’Inghilterra deve fronteggiare le rovine lanciate dalle bombe tedesche e, soprattutto, fare i conti con l’integrazione e il multiculturalismo che fanno seguito allo smantellamento dell’Impero. Per molti, l’Inghilterra è finita con la seconda guerra mondiale. Per molti, la monarchia non ha senso di esistere, se non esiste più un Impero. Rimangono memorabili, quindi, gli scontri di Notting Hill nel 1958, che saranno duplicati dalle rivolte del 1976-77 sempre a Notting Hill; e il pugno di ferro nelle Falklands, condito qualche anno più tardi dalla politica autoritaria della Thatcher, che tenderà ad annientare il concetto di classe e a rendere impossibile la vita di milioni di giovani della working class. Le tensioni si fanno più palpabili perché cozzano contro il nichilismo di una generazione che ha già fatto i conti con i limiti dell’ideologia socialista e non ha alternative da proporre. La rabbia spopola, ma quando entra nel giro di accordi di God Save The Queen dei Sex Pistols (quasi rovinando il giubileo di Elisabetta), è ancora una rabbia espressamente antimonarchica, anarchica, autodistruttiva, autoreferenziale: un regime fascista. Nei piani degli Smiths, The Queen Is Dead (realease: 16 giugno 1986) è l’ideale prosieguo del brano dei Pistols, ma con qualcosa in più: Morrissey parla di sé, non c’è solo politica d’opposizione; c’è il senso di inquietudine personale, l’instabilità sentimentale che poi è sempre politica, la riflessione sui comportamenti naturali come comportamenti politici. Morrissey guarda la monarchia (e di conseguenza l’Inghilterra) come il poeta decadente guarda, ammira e piange le rovine classiche. “Sono entrato nel palazzo/con una spugna e una chiave a ganascia arrugginita”. Quando un disoccupato irlandese chiamato Michael Fagan fa irruzione a Buckingham Palace, Morrissey ha già le antenne tese e un pugno di ideali da portare avanti. Il fatto è straordinario: è il 7 luglio 1982 e Fagan supera la sicurezza reale,
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si arrampica su una grondaia ed entra nelle stanze di Elisabetta. Per più di dieci minuti avrà un colloquio con Sua Altezza Reale, che dormiva serena nel suo baldacchino pomposo, in vestaglia di seta. Solo dopo, la polizia interverrà per incolparlo (la violazione di domicilio non era ancora un reato, ma solo un illecito) di aver rubato una bottiglia di vino quando un mese prima aveva già forzato la sicurezza del Palazzo. Morrissey legge la vicenda come la realizzazione dei sogni della working class: un disoccupato, emigrato, a piedi nudi, sporco, se la prende col potere immobile della nobiltà. Per Morrissey, è inspiegabile come il popolo inglese possa ancora avere questo tipo di devozione incondizionata verso la famiglia reale: lo legge come una specie di sindrome edipica. Il ristagno dell’Inghilterra, dirà Simon Reynolds, è dovuto alla sua dipendenza dal grembo materno, a un cordone ombelicale mai reciso. Ecco, infatti che nella titletrack che apre il terzo disco degli Smiths, spunta fuori l’immagine del principe Carlo travestito da drag queen, con coordinata dipendenza freudiana regina-madreinghilterra-figlio: “Charles, non ti viene mai voglia/di comparire sulla prima pagina del Daily Mail,/con addosso un velo nuziale di tua madre?”. Dal punto di vista delle fonti, The Queen Is Dead è l’album che più risente dell’influenza del Free Cinema inglese degli anni Sessanta. Già in apertura, si sente un inno di propaganda della Prima Guerra, Take Me Back To Dear Old Blighty, che sarà ripreso dal film The L-Shaped Room (1962) di Bryan Forbes. Nel frattempo, gli Smiths scoprono che esiste qualcuno che sta facendo un percorso artistico per certi versi parallelo al loro. Si tratta del regista Derek Jarman, che, poco dopo l’uscita del disco, concepisce un trittico video basato su The Queen Is Dead, There’s A Light That Never Goes Out e Panic, mettendo insieme alcune immagini particolarmente potenti (fra cui scritte sui muri, bambini in abito da sposa, angeli, Union Jack profanate). Jarman, devoto anche lui al Free Cinema, è uno dei registi più interessanti degli anni Ottanta: lavora con Pet Shop Boys, Bryan Ferry e altri. Non solo: il triplice videoclip fornisce a Jarman il materiale per un lungometraggio dal titolo The Last England, in cui, fra riflessioni di disagio personale (aveva scoperto di essere sieropositivo), raccoglie immagini di famiglia girate rigorosamente in Super 8, si scaglia senza remore contro la famiglia Windsor e la politica thatcheriana. Non è un caso che il disco, che condivide molte analogie con il film, si debba inizialmente chiamare Margaret On The Guillotine (poi sostituito dal titolo che tutti conosciamo, che è anche il nome di
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un racconto di Last Exit To Brooklyn (1964) di Hurbert Selby Jr). Il primo dei tre singoli a vedere la luce è The Boy With The Thorn In His Side (1985), una ballata malinconica sul desiderio sessuale dietro la quale, però, si cela una velata critica a una stampa che vuol fare luce a tutti i costi sulla vita personale e sulle contraddizioni di Morrissey. La spina nel fianco del titolo è proprio l’industria musicale in genere, che continua a supporre l’incoerenza e la falsità del personaggio-Moz (“Come puoi guardarmi negli occhi/e non credermi?”). L’arrangiamento, che Marr concepisce come un recupero del sound shuffle dei Freak Party, è ispirato agli Chic di Neil Rodgers, con quel beat d’origine africana a far prendere un tocco d’aria pulita a un disco che rischiava di essere ancora più cupo di Meat Is Murder. Il brano è anche il primo della band a finire su un videoclip. Sempre schivi verso questo tipo di pubblicità, gli Smiths hanno dovuto cedere. Ma a modo loro: “Abbiamo detto: Ok, se volete filmarci, venite nello studio, perché noi non ci spostiamo. E portate parecchio vino rosso. Era orribile, così ci siamo ubriacati”. Prima dell’uscita definitiva, viene pubblicato un altro singolo a base di chitarre ruggenti, un altro brano destinato ad essere fra i più conosciuti degli Smiths: Bigmouth Strikes Again. Incentrato sulla chitarra percussiva di Marr, il brano contiene alcune particolarità: la Ann Coats (tra l’altro, quartiere di Manchester) a cui vengono accreditati i cori, non è altro che una duplicazione la traccia vocale di Morrissey; la Giovanna d’Arco evocata nel chorus (simbolo del martirio mediatico cui deve sottostare Moz) è stata saccheggiata da Kimberly di Patti Smith o da O Dreamland, documentario Free Cinema. In ogni caso, a sdoganare l’identificazione di Morrissey con Giovanna d’Arco pensano le parole stesse della canzone: “mentre le fiamme salivano/sul suo naso aquilino/e il suo apparecchio acustico iniziava a sciogliersi”. Destinata ad un infelice successo discografico (arriverà solo ventiseiesima posizione, nelle classifiche), Bigmouth è uno dei brani più influenti degli Smiths: contribuirà a convertire Bernard Butler dei Suede al suono delle chitarre infiammate; contaminerà Brian Molko dei Placebo che ne farà una bella versione per il disco omaggio The Smiths Is Dead, in cui il “walkman” che si scioglie nel ritornello è diventato un “discman” (lettore cd portatile), salvo poi diventare un’”Ipod” nei concerti di Morrissey del 2006. C’è un libro diventato di culto e da cui è persino stato tratto un film. Si chiama Crash di J.G. Ballard (pubblicato nel 1972, mentre la versione cinematografica di David Cronenberg è del 1996) ed è la storia dell’ossessione per gli scontri automobilistici, di come
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i sentimenti si infrangano e restino bloccati soltanto nella purezza dello schianto. Uno degli incidenti più amati dal protagonista del libro è – guarda caso – quello di James Dean, trapassato dal volante della sua Porsche 550 Spyder. All’epoca di The Queen Is Dead, anche Morrissey scrive la sua personale dedica alle catastrofi, coperte da un leggero velo di opportunità: una luce che non si spegnerà mai, There’s A Light That Never Goes Out. Figlia di una session prolifica a casa di Marr (da cui nasceranno anche I Know It’s Over e Frankly Mr. Shankly), There’s A Light è il brano più famoso degli Smiths, è il brano che vanta più cover e più lacrime ai concerti, è il brano dell’innamoramento di Tom e Summer in 500 giorni insieme, ma anche il brano dell’innamoramento di tutti noi. Buffo perché Morrissey ce lo dice chiaro e tondo: non c’è modo di fissare i movimenti dell’anima, se non nella morte. E la luce, che rimane negli occhi della persona amata anche dopo essere morti. Musicalmente ispirato a Hitch Hike di Marvin Gaye (ma nella versione dei Rolling Stones), il pezzo avrebbe dovuto contare su un orchestra completa, ma i limitati mezzi economici di Travis smorzano l’idea sul nascere. Le letture – come osserva Ballani in Murderous Desire – sono molteplici: chi ci vede una vena di profezia (il “darkened underpass” sarebbe quello in cui è morta Lady Diana nel 1997 e il fatto che il singolo fu il solo pubblicato in Francia fra quelli della band, rende la
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vicenda piuttosto curiosa…); chi una vena di religiosità nel rapporto fra il terreno (“Voglio vedere gente, voglio vedere le luci”) e l’ultraterreno racchiuso nel titolo. A chiudere il cerchio degli inni malinconici c’è naturalmente I Know It’s Over, le cui parole rimangono sconosciute a chi deve curare gli arrangiamenti fino a canzone completata: si tratta di un metodo di lavoro particolarmente frustrante, secondo Rourke, che col tempo contribuirà a creare attriti nel quartetto. Fatto sta che, però, il gioco di prestigio, in questo caso, funziona alla perfezione. La voce narrante invoca la madre perché contribuisca alla risalita dalla terra in cui è sepolto il protagonista del brano; la sposa è abbandonata prima ancora che inizi la relazione; il finale – come in There’s A Light – è la triste riflessione sull’inafferrabilità dei sentimenti: “è così facile ridere/è così facile odiare/ci vuole forza/per essere gentili e cortesi/l’amore è una cosa naturale e reale, ma non per te e per me, amore mio, non stasera”. La matrice ironica e scherzosa di The Queen Is Dead è però particolarmente nutrita e riporta il discorso delle fonti sul Free Cinema. È infatti Billy Liar (1963) di John Schlesinger a ispirare Frankly Mr. Shankly. Sotto forma di lettera di dimissioni (quella nel film è recitata da Tom Courtenay), Morrissey condisce aforismi maliziosi (“La fama, la fama, la fama fatale/può fare brutti scherzi al cervello/eppure preferirei essere famoso/piuttosto che onesto o santo/un giorno o l’altro”) riferiti a Geoff Travis di Rough Trade, reo di aver legato la band alla label per altri due dischi (uno dei quali è The Queen Is Dead). Così Cemetery Gates, allegra e smaliziata storiella sulle passeggiate nei cimiteri, si ispira sempre al film di Schlesinger. Come l’appuntamento di Billy e Barbara, anche Moz, Linder e Devoto si incontravano al Southern Cemetery di Manchester e, attraverso una spassosissima e dosatissima commistione di popolare e aulico, svolgono le proprie riflessioni sulla vita e la morte: “leggiamo solennemente le lapidi:/tutte queste persone, tutte queste vite/dove sono ora/avevano amori/e odii e passioni proprio come le mie/nacquero, vissero/e poi morirono”. Infine, Billy Liar torna nella storia di Vicar In A Tutu, cavalcata rockabilly in stile Scotty Moore (Elvis) che narra di un giovane ladruncolo che, mentre ripara il tetto della Holy Name Church a Manchester (fra il centro e Rusholme), vede il vicario ballare con un tutù: non un brano anticlericale – come molti sostengono -, ma il simbolo camp della resistenza alle convenzioni sociali. Chiude il ciclo delle fonti la serie di film parodici Carry On…, andati in onda dal 1958 al 1978 (ventinove, per l’esattezza), incen-
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trati su aspetti della vita quotidiana come la monarchia, l’esercito, la sanità, tutti calati nel classico umorismo inglese. Un brano che deve molto a queste pellicole è Some Girls Are Bigger Than Others, la cui scena di Antonio e Cleopatra che si scolano una cassa di birra, deriva forse dal film Carry On Cleo, mentre il finale è l’omaggio di Morrissey a Send Me The Pillow You Dream On (1962) di Johnny Tillotson. Il testo poi è una riflessione spassionata sui corpi delle donne e su tutto l’aspetto della femminilità in generale. I was minding my business
“Ciò che ricordo di The Queen Is Dead è che per la prima volta iniziai a scomparire. Alla fine della giornata sparivo e mi mettevo a lavorare per le registrazioni del giorno successivo – affinavo le canzoni e facevo gli overdubs da solo, mentre Mike, Andy e i roadies andavano a festeggiare e a divertirsi in qualche posto”. È Marr a parlare e, certo, non dev’essere facile convivere con i tic di Morrissey, che alterna momenti di dispotismo a periodi di assenza molto lunghi. Quello che è forse l’album più riuscito degli Smiths sarà ricordato anche come l’album dalla gestazione più difficile. Vuoi per i problemi appena accennati, vuoi per le difficoltà con Rough Trade che tarpano le ali a una band con un bacino di popolarità inaudito, fatto sta gli Smiths cominciano lentamente a sgretolarsi. Complice di tutto questo, anche la dipendenza dall’eroina di Andy Rourke, che, dall’inizio del tour del 1986, era entrato in un circolo vizioso di subordinazione agli stupefacenti. Si decide di escluderlo dalla band. La notizia gli viene recapitata con un foglietto: “Andy – hai lasciato gli Smiths. Arrivederci e buona fortuna, Morrissey”. Marr richiama all’ordine Craig Gannon (già Aztec Camera) con l’intento di supplire Rourke al basso, ma anche di procurarsi – una volta riabilitato Rourke – un secondo chitarrista dal vivo. In effetti, la guarigione di Andy Rourke è più rapida del previsto e, appena The Queen Is Dead vede la luce, può riprendere il suo posto di fianco ai compagni e a Gannon. Dal punto di vista manageriale, dopo aver allontanato Joe Moss (ufficialmente per la nascita di un figlio, ma forse per la sua eccessiva vicinanza a Marr, rispetto a Moz) e aver sospettato che Sztumpf avrebbe potuto trascurare i propri impegni con gli Smiths, tutto preso da quelli con i Madness, il quartetto decide di gestirsi completamente da solo, ma non è una buona idea. Johnny Marr, sorretto in parte dalla fedele Angie, è costretto a subire il carico organizzativo del gruppo: booking, management,
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arrangiamenti, produzione, post-produzione, ecc. Non si sente tranquillo, vive sotto pressione e inizia una discesa nell’alcolismo che per poco non lo uccide. Il 14 novembre 1987, infatti, distruggerà la sua Bmw non lontano da casa sua a Londra, decretando inconsapevolmente la fine degli Smiths. Da lì a un mese il gruppo suonerà per l’ultima volta alla Brixton Academy di Londra. A luglio 1986, comunque, con The Queen Is Dead ancora fresco, gli Smiths decidono di dare l’ennesimo colpo di coda. E’ dai tempi di William che un loro brano non raggiunge la Top Ten. Dai tempi di Stephen Street, dunque. Ed ecco che il vecchio produttore viene richiamato con il difficile compito di trasformare le idee dei quattro ragazzi in successi da classifica. Panic è il primo di questi. Ispirato a Metal Guru dei T. Rex, il brano nasce da un fatto realmente accaduto: un dj di Radio One, Steve Wright, poco dopo aver annunciato il disastro di Chernobyl, decide di passare un brano dei Wham!. L’ hang the dj a cui si riferisce il chorus è proprio Steve Wright. Morrissey, in alcuni concerti, arriverà ad indossare una maglia con la sua faccia cancellata dalla scritta HANG THE DJ e facendo roteare un cappio sulla testa. Ma la faccenda dell’impiccagione del dj viene letta ancora più polemicamente dai difensori della black music da discoteca. Morrissey non si era trattenuto certo dalle dichiarazioni tendenziose, anzi:
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“tutto il reggae è ripugnante”, “di questi tempi per andare a Top Of The Pops devi essere per legge di colore”. Il che, naturalmente, aveva suscitato accuse di razzismo. Ma è il pubblico degli Smiths che sta cambiando: chi, fra i sostenitori, diventava facilmente fanatico e con nostalgie nazionaliste; chi, fra gli oppositori, diventava violento, contribuendo ad alimentare fatti spiacevoli durante le performance della band. Tra il 30 luglio e il 10 settembre, gli Smiths sono in tour negli USA. Morrissey e Marr si assicurano il post-The Queen Is Dead firmando per la EMI. Il clima è alleggerito dalle feste post-show in pieno stile statunitense; pare che a una di queste partecipi persino Morrissey. Dice Rourke: “Non mi ricordo dove eravamo, ma si ubriacò: prese una sigaretta di Johnny e iniziò a fumare. Fu una cosa del tipo ‘Oh, mio dio! Guardate! Morrissey sta fumando!’”. Craig Gannon nel frattempo rimane un’incognita: non riesce ad inserirsi nel circolo, tanto che risulta evidente come lo stile di vita degli Smiths non faccia per lui. A ottobre esce un altro singolo da potenziale Top Ten, Ask, manifesto della shyness – e quindi dell’etica loser - teso fra le possibilità del fare e l’effettiva fattualità. “Shyness is nice” è la sentenza che rimane impressa sulla carta, tutta tinta di reminescenze adolescenziali di Moz. Non va dimenticato neanche che Ask è il singolo che fa sbarcare gli Smiths in Italia, innanzitutto per i numerosi passaggi a VideoMusic, ma anche per un altro motivo. Il 7 febbraio 1987, infatti, gli Smiths fanno la loro comparsata al Festival di Sanremo, eseguendo Ask (e altre quattro canzoni), elogiando Rita Pavone e prendendo un po’ in giro il pubblico bonaccione italiano. Strano pensare che nella stessa edizione del festival comparissero super band del mondo mainstream del calibro di Duran Duran, Pet Shop Boys, Depeche Mode, Style Council, che Morrissey aveva dichiarato di detestare. L’esibizione di Sanremo, voluta dal giovane manager Friedman, contribuì non poco all’irrigidirsi dei rapporti all’interno della band, anche perché nessuno si era accorto di quanto “uncool” fosse quel tipo di manifestazione. In studio, d’altronde, le cose non vanno benissimo. Morrissey e Marr hanno idee molto forti e distanti, tanto che ognuno si porta dietro il proprio produttore affinché verifichi e approvi l’operato dell’altro. Così John Porter collabora con Marr e Steve Lilywhite con Morrissey. Viene infine scaricato anche Gannon, che si guadagnerà una liquidazione di mille sterline più altre quarantaquattromila per i diritti di Ask. A gennaio 1987 vengono fuori
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altri 45 giri. Shoplifters Of The Worl Unite diventa in breve tempo un anthem omosessuale, una risposta al decreto Section 28 della Thatcher che vietava pubblicamente la promozione dell’omosessualità. Paragonando i taccheggiatori (shoplifters) ai “maschi omosessuali” e, attraverso echi marxisti (proletari del mondo…) e di David and Jonathan (Lovers Of The World Unite), Morrissey dà vita a un altro brano memorabile, l’unico tra l’altro, che può contare su un bellissimo assolo di chitarra ben in vista. Raccogliendo singoli e B side, nel marzo 1987, la Rough Trade decide di mettere sul mercato una raccolta del tutto speculare a Hateful Of Hollow dell’84: The World Won’t Listen. In seguito, la stessa raccolta sarà arricchita e aggiornata con alcuni brani nuovi, in Louder Than Bombs, che vede la luce inizialmente solo in USA. Tra i brani più apprezzati, naturalmente, Sheila Take A Bow (l’unico ad entrare veramente in Top Ten), con il suo omaggiare Selagh Delaney e l’etica del gender bending (“Sei una ragazza e io un ragazzo/Sono una ragazza e tu sei un ragazzo”). L et me whisper my last goodbyes, I know it ’s serious
Nella primavera dell’87 una figura un po’ smilza e col ciuffo ribelle sulla fronte si aggira nel centro di Bath, la bellissima città medievale nel sud-ovest inglese. Fa su e giù dai Whool Studios pensando, canticchiando. Ad un tratto entra nella sala degli strumenti e si mette al piano. Setta l’effetto su cluster. Suona una melodia. Sembra Aladdin Sane di Bowie, ma non lo è. Il bassista, che assiste alla scena, fa finta di essere McCartney e ci suona sopra Dear Prudence. Così, su per giù, nascono i brani dell’ultimo album degli Smiths, Strangeways, Here We Come. La novità – che fa scalpore – è che Morrissey s’inventa musicista, suona il piano in Death Of A Disco Dancer, il pezzo che più identifica il modo da free jam che hanno adottato gli Smiths per comporre. Tra l’altro, Death Of A Disco Dancer racchiude quasi profeticamente il credo del popolo dell’ecstasy, che da lì a qualche anno avrebbe conquistato Manchester: “Morte di un discotecaro/accade spesso da queste parti”. Strangeways, Here We Come deve rappresentare la svolta. Tutti vorrebbero un album migliore rispetto ai precedenti, ma la fiducia è poca, viste le crescenti difficoltà a tenere a bada gli animi inquieti all’interno della band. In realtà, le registrazioni avvengono in un clima di serenità e molti dei brani che vedono la luce in questo periodo saranno ricordati da Morrissey come i migliori
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della sua carriera. Marr non ne può più del solito jingli-jangle alla Smiths, vuole sperimentare strade nuove, influenzato dall’enorme materiale musicale di cui ormai fruisce senza posa. Un fatto, questo, non trascurabile in vista dello scioglimento della band che avverrà da lì a poco. Strangeways, Here We Come, esattamente come il “Borstal, here we come!” di Billy Liar, è accomunato al film perché in entrambi i casi si sta parlando di carceri. Quello nel film, il penitenziario di Kent, è un carcere minorile destinato a diventare, per estensione, sinonimo di riformatorio. Incise sul vinile, stanno in bella luce le seguenti parole: GUY FAWKES WAS A GENIUS. Come a dire: sì, ci stiamo occupando di altro, ma il nostro pensiero è sempre quello di dar fuoco al parlamento. Che poi, la vera svolta avviene negli arrangiamenti e nella cura del lavoro in studio, affidato ancora una volta a Stephen Street. A Rush And A Push And The Land Is Ours nasce proprio così, con la consapevolezza che ormai, nell’87, si poteva fare tutto con un emulatore: fiati, marimba e piano (accreditati a una fittizia Orchestrazia Ardwick) vengono aggiunti senza timore, mentre Morrissey cuce il solito scenario vaudeville ispirato alla commedia Carry On Jack. L’emulatore viene riproposto nel riff di sax che pervade I Started Something I Couldn’t Finish: sebbene sia il brano meno apprezzato da Moz, il testo è intenso, di matrice wildiana; sono rievocati i diciotto mesi di lavori forzati a cui Wilde fu sottoposto per omosessualità ed è rievocato il clima del De Profundis, in una sorta di profezia nera: “Ho messo fine al nostro espe-
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rimento di amicizia/con un gesto ignobile”. Il video della canzone – usata come secondo 45 giri dell’album – è una raccolta dei luoghi mitici della band, che servirà ai futuri pellegrini come mappa per recuperare i luoghi smithsiani per eccellenza. Una schiera di sosia di Moz, con occhiali della mutua e ciuffo alzato, pedala in bicicletta per Manchester sottolineando l’aria di fanatismo e devozione che circonda ancora la band e il suo front-man, destinato sempre più ad incarnare l’ultima popstar. Dopo tanto attendere, c’è finita anche lei: Shelagh Delaney, bella in mostra nella copertina del 45 giri di Girlfriend In A Coma, singolo di lancio di Strangeways. Il brano, in effetti, traendo origine da Young, Gifted And Black (1970) di Bob and Marcia, è un ultimo omaggio ai kitchen-sink drama tanto amati. La vicenda del videoclip, poi, segna un punto di non ritorno nei rapporti fra Moz e Marr. Con la troupe di Tamara Davis già pronta nei pressi di Battersea a Londra, l’unico a disertare è proprio il cantante che viene rincorso da Marr. Non c’è nulla da fare. Morrissey finge di non essere in casa e non risponde alle preghiere di Marr. Quando il videoclip uscirà, gli Smiths saranno già separati. E Girlfriend In A Come finirà di fatto per rappresentare il primo video solista di Morrissey. Non sarà mai un singolo, invece, la più famosa Stop Me If You Think You’ve Heard This One Before, brano più classico, chitarristico, che, rimpiazza l’elaborato potenziale dei virtuosi della sei corde con un semplice su e giù dal manico, come solo Marr sa fare. Il vero brano rivelazione di Strangeways è però Last Night I Dreamt That Somebody Loved Me che, oltre a vincere il premio per l’intro più lunga di un brano degli Smiths (accordi di piano, che quasi ricordano la sigla di un imminente Twin Peaks), vede la band alle prese con un disco di effetti “rubato” alla BBC: prima il vociare nell’intro, poi i canti di balene durante tutto il brano. I testi, poi, sublimano il sentimento di solitudine e di fantasia, corrotto dai momenti di instabilità psicologica, cui tutti sottostiamo. È il picco massimo dell’ode solipsistica di Morrissey, che, citando Amelia di Joni Mitchell, ci ricorda che non c’è “nessuna speranza, nessun danno, solo un altro falso allarme”. Non è poi così falso l’allarme lanciato nella canzone. Marr è inquieto e sfinito. Propone ai suoi compagni un periodo di pausa: “…mi guardarono come se avessi commesso un peccato imperdonabile. Come se facendo così non sarei più tornato, cosa che non era nelle mie intenzioni. Morrissey era sulla difensiva. Mi infastidiva molto. Avrebbe dovuto concedermi un po’ di tempo per organizzarmi e trovare una via d’uscita”. Ma Moz è come un’anziana
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rancorosa. Non parla, si limita ad osservare, covando chissà quali pensieri. Le discussioni musicali non sono per nulla placate. Marr pretende una svolta. Che sia sperimentale come in Death Of A Disco Dancer, acustica come in Unhappy Birthday o persino orchestrale come Last Night, non fa alcuna differenza. Vuole solo una svolta, lui che, fagocitando i più svariati generi, si sentiva ristretto nell’Olimpo d’annata dei miti di Morrissey. “E’ giunto il momento di ripensare il gruppo dal punto di vista musicale. Non come pensarono tutti, nel senso di suonare in grandi stadi e diventare come gli U2”. Marr ha le idee chiare e non vuole scendere a compromessi, ma l’orgoglio di Morrissey – che pure la pensa come lui – li tiene lontani. La stampa fa il resto. NME, il primo agosto 1987, se ne esce con il titolone sullo scioglimento degli Smiths. Marr pensa che Moz abbia messo in giro voci false e Moz pensa altrettanto di Marr. Johnny se ne vola a Los Angeles per un meritato riposo e viene accolto come un chitarrista acclamato e stimato: è in questo periodo che collabora con Bryan Ferry, i Talking Heads, Keith Richards. Anche le collaborazioni sono viste di cattivo occhio dai fan, che subito pensano al tradimento. “NME ha rovinato tutto. – dice Morrissey – Ha una grossa responsabilità nello scioglimento degli Smiths. Mi arrabbiai molto. Hanno esposto la bara prima che il cadavere fosse freddo. Fu un trauma e il loro atteggiamento di certo non aiutò”. Gli Smiths senza Marr, dopo aver tentato invano nuovi chitarristi (Roddy Frame degli Aztec Camera, Kevin Armstrong dei Local Heroes, Ivor Perry dei Cradle), si arrendono e a settembre ufficializzano lo scioglimento. Mentre Marr inizia il suo lungo percorso che lo porterà a fondare gli Electronic con Sumner dei New Order, a collaborare con la Madchester di Shaur Ryder, dei Charlatans e degli Oasis, a curare arrangiamenti per Pet Shop Boys, Beth Orton, Lisa Germano, Jane Birkin, a prendere parte a formazioni del calibro di Modest Mouse, The The, The Healers, e infine a licenziare recentemente un disco solista, Morrissey ha già in canna il primo colpo da solista con Stephen Street. Si chiama Viva Hate. L’ultimo brano degli Smiths che abbiamo il piacere di ascoltare rappresenta l’outro ideale di questa breve cavalcata musicale che sconvolse la musica (e non solo) dell’Inghilterra degli anni Ottanta. Nel rammarico e nell’amore di I Won’t Share You, resta sopito un augurio che migliaia di fan sperano si possa trasformare in realtà: “I’ll see you somewhere, I’ll see you sometime”. Speriamo davvero il più presto possibile.
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Genere: contemporanea, minimalismo Il programma è semplice: prendere il capolavoro di Terry Riley e riprodurlo. Tutto qui? In apparenza sì, ma nemmeno troppo. L'Adrian Utley che ha messo su la Guitar Orchestra è un terzo dei Portishead, così come Geoff Barrow, un altro terzo, è il boss della label che pubblica il tutto. A ben vedere ci sarebbe anche un altro pezzo di Portishead coinvolto, ossia John Minton, l'uomo-visual del trio inglese, che ha ripreso, giocando con le sue proiezioni, la performance live tenuta alla St. George's Hall di Bristol quest'anno. Per elaborare la sua personale (re)visione dell'opera di Riley – opera priva di durata e determinazione numerica degli esecutori, oltre che dotata di aleatorietà nella scelta delle frasi musicali da suonare, e pertanto adattabile ad ogni sorta di variazione e ricreazione – Utley ha scelto una orchestra di ventiquattro musicisti dell'area di Bristol: diciannove chitarre, tra cui spicca quella di John Parish (ci sono pure i Thought Forms al completo, tanto per rimanere in casa Invada), quattro organi e un clarinetto basso. L'elegiaca versione finale diretta da Utley si amplia fino ad un'ora di esecuzione e risulta modulata dalla versatilità delle chitarre, in un continuo alternarsi tra crescendo e diminuendo, accumulazione e partizione della cifra sonora, impreziosita da chiaroscuri umorali e atmosfere malinconiche che non risultano mai cupe o oppressive. Questi ultimi sono spesso il valore aggiunto ad un lavoro
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epocale e sottoposto, nel cinquantennio scarso che ci divide dalla sua teorizzazione, a forme molto varie e spesso eccessivamente accademiche. Proprio ciò che la partitura libera di Riley aveva ipotizzato e proprio ciò che un Utley, per certi versi sorprendente, ha realizzato. 7.2/10 Stefano Pifferi
Alice Tambourine Lover - Star Rovers (Go Down Records,2013) Genere: psych, blues, folk Con gli Alice Tambourine Lover non è questione di originalità: il loro è blues piuttosto basale con evidenti retaggi folk e voglia di seguire la corrente (elettrica) che conduce nell'irrequieto pelago psych. Il punto è come lo vivono e lo esprimono. La sensazione è che se lo respirino la notte e lo mastichino fin dalla colazione. La formula non si discosta di molto da quella dell'esordio Naked Songs: lei (Alice Albertazzi) e lui (Gianfranco Romanelli), già assieme negli Alix, la cantante col vizio dei tamburelli ed il chitarrista vorticoso, l'irrequietezza ruspante e misteriosa del Delta ed il lirismo onirico di stampo bretone, impeto che non sbraca mai nell'effettistica aggratis e interpretazione che sa la ricetta per lasciare il segno. C'è semmai una più spiccata attitudine all'astrazione, alle pennellate che suggeriscono (stra)visioni, ma il terreno è quello ed il razzolarvi è godibile. Si tratti di un boogie sferzante con la polpa ironica (Temptation), d'una malìa folk angelicata (Falling Deep Inside), d'impetuosi minimi termini hard psych (Between The
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Adrian Utley's Guitar Orchestra - In C (Invada,2013)
Cup And Lips), di tenerezze rugginose (Dreams Slip Away) o di certe efflorescenze acide come un tempo ne sbocciavano nel praticello di PJ Harvey (The Sweet-Smelling Road). E' una combinazione che sorprende per il senso di robusta naturalezza, ma occhio alle varianti perché bastano già gli interventi dei pur apprezzabili ospiti speciali – Patrizia Urbani (dei bolognesi Miss Patty and The Magic Circle) ed il teutonico Conny Och, voci principali rispettivamente in Rainy Rainy e Gipsy Mind – perché tutto suoni un filo troppo ordinario, come se s'incrinasse un incantesimo che – non me ne voglia il bravo Romanelli – mi sembra debba ascriversi principalmente alla bella personalità della Albertazzi. 6.8/10
Andrea De Luca - Via direttissima 2 e 1/3 (Liquido Records,2013) Genere: cantautori Una fotografia chiara, puntuale ed evocativa della società così com'era negli anni Settanta. Dopo una lunga esperienza come frontman di una delle band simbolo della Bologna anni '80, i Radiocity, Andrea De Luca presenta il suo primo album solista e lo fa seguendo la strada del cantautorato più classico, in scia al primo Francesco De Gregori. La tradizione cantautorale italiana è dura a morire, specie se la si è vissuta negli anni del suo maggior splendore. La società di un tempo, i suoi paradigmi, la sua semplicità: De Luca riprende con accuratezza le atmosfere che furono, accostandole agli ideali di libertà che da sempre le hanno accompagnate, tra ricordi personali e memoria collettiva. La vita di periferia, il tifo calcistico, la guerra, Volontè e Bruce Lee, Serpico e Dino Zoff, i live in piazza dei Clash, le battaglie degli anni di piombo, quasi mai a lieto fine (come il corteo del 1997
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Stefano Solventi
in cui perse la vita Francesco Lorusso, citato in Yoko Ono che c'entra): temi un tempo inflazionati, oggi troppo spesso tirati in ballo senza le dovute precauzioni da chi quegli anni non li ha neanche sfiorati, che riescono nell'impresa di rendere credibile il ritratto della giovinezza di Andrea De Luca, romanzata o sognata che sia. Malinconica e mai sopra le righe, la voce di De Luca è perfettamente in linea con quanto ci si aspetterebbe da un cantautorato di questo tipo, mentre la scrittura procede su buoni livelli, per quanto su sentieri già ampiamente battuti, tra metafore azzeccate e la classica buona dose di sentimentalismo (che però, va detto, riesce a non cadere mai nel patetico). Un prodotto qualitativamente sopra la media, dunque, ma forse così concentrato sulla strada tracciata dagli ultimi 40 anni di cantautorato italiano da finire per assomigliare in modo pericoloso a un diligente omaggio. Resta dunque da capire se De Luca abbia la personalità – e l'urgenza– per riuscire a imporsi in un momento storico in cui il bisogno di nuove soluzioni appare più forte che mai. 6.6/10 Enrica Selvini
Antun Opic and The Band - No Offense (Antuned,2013) Genere: cantautori, folk "I don't feel home anywhere". Si presenta così Antun Opic, musicista di origini croate – ma cresciuto in Germania – che dopo l'esperienza con il collettivo punk-cabaret Storm and Wasser, approda al debutto solista con No Offense, un album di dodici brani divisi tra intimismo folk-blues e radici gitane. Una girandola di influenze che richiama tanto le sghembe narrazioni di un Tom Waits, quanto l'eclettismo manouche di una vera e propria icona come Django Reinhardt: una presenza, quella del celebre chitarrista, che
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Genere: rock, wave La nostra prima news su Reflektor è datata 13 luglio 2013. L'ultima, quella con lo streaming integrale del disco, è del 25 ottobre 2013. In mezzo, la cronaca di un avvento annunciato, ovvero release date pubblicate sui social della band, installazioni in stile guerrilla marketing in giro per il mondo, siti internet di band fittizie, trailer, tracklist ufficiali, preview di brani singoli, streaming integrali di brani singoli, video interattivi, video canonici, concerti e comparsate televisive a nome The Reflektors e infine il disco, per un totale di tre mesi di martellamento continuo. La campagna di marketing che ha avuto per oggetto il nuovo album degli Arcade Fire è stata esemplare quanto invadente, forse anche più di quella dei Daft Punk di Random Access Memories. Un meccanismo che, oltre a far lievitare le attese fino a livelli inverosimili, ha indirettamente confermato che qualcosa di grosso stava per accadere. Il quarto disco della band canadese non delude le attese ma è assai lontano dall'essere un'opera univoca e facile da catalogare. Mostra, invece, una notevole complessità di livelli figlia di stimoli diversissimi divenuti poi le mille rifrazioni di un suono che volutamente confonde, consapevolmente depista. Durante il periodo di promozione dell'album si è molto parlato dell'infatuazione del gruppo per la rara haitiana (musica di origine africana legata alla tradizione voodoo, un esotismo che ha fruttato e non poco, in termini di passaparola mediatico) e di come Reflektor sarebbe dovuto essere un po' un ritorno a casa per Régine Chassagne. Eppure il disco non sceglie la poliritmia o l'etnico come unico fil rouge e non ha velleità "sperimentali" in questo senso (per intenderci, non stiamo parlando di un Remain In Light); utilizza invece in maniera strategica tali elementi per arricchire un mood che rimane comunque facilmente riconoscibile e al cento per cento Arcade Fire. Nessun salto nel vuoto, insomma, tanto che se in brani come Awful Sound (Oh Eurydice) o Flashbulb Eyes il fattore ritmico tribale acquista una certa importanza, in Here Comes The Night Time è un elemento a scomparsa e nel singolo Reflektor poco più di una cornice. Variabile James Murphy: la co-produzione artistica dell'LCD Soundsystem è fondamentale, ma Reflektor non è "il disco di James Murphy". Se è vero che brani come Porno e Supersymmetry sono concessioni alla sua estetica e i bordoni di synth uniti ai riverberi delle chitarre testimoniano il lavoro del musicista, è vero anche che la sua funzione rimane quella di un catalizzatore, piuttosto che di un direttore d'orchestra: lavora sui particolari, non sovrintende a nulla, non si appropria di spazi a discapito dell'immaginario della band. Si rivela, però, quell'elemento imprevedibile utile a Butler e soci per evitare da un lato uno stallo nei suoni e dall'altro che il ricorso a certi "terzomondismi" ormai istituzionalizzati (dal post-punk inglese in poi) si trasformi in un vicolo cieco. E allora cos'è, Reflektor? Un album come lo avrebbe voluto la Chassagne, che al Guardian dichiarava qualche tempo fa: "il ruolo di Murphy è aiutarci a capire le potenzialità dance che potrebbe avere il disco"? Probabilmente no, soprattutto se alla parola "dance" si dà una valenza ideologica connessa con la contemporaneità. Reflektor è anzi, nonostante una ballabilità generica in stile
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Arcade Fire - Reflektor (Mercury,2013)
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DFA, un disco paradossalmente conservatore e pieno di riferimenti storicizzati: i Rolling Stones disco-music di un brano come If I Was A Dancer (Dance Pt 2), a cui la title track sembra ispirarsi – al di là delle laccature anni Ottanta poste in superficie – per i riff dei fiati e persino per certi cambi di accordi nel refrain; il Lee "Scratch" Perry via Clash omaggiato dal dub di una Flashbulb Eyes che riesce a imprimere il marchio di fabbrica del gruppo a un genere così lontano dal suo immaginario; una It's Never Over (Oh Orpheus) che nonostante il "friggere" dei synth, cita Prince col suo electro-funk solido e tiratissimo; i Blondie suggeriti da alcuni dettagli ritmici di Joan Of Arc; i Cure annusati nei fraseggi di Here Comes The Night Time; una Awful Sound (Oh Eurydice) che parte da un beat poliritmico per poi trasformarsi in qualcosa che ha a che fare con i Beatles, crescendo strumentale compreso (leggi alla voce Hey Jude e A Day In The Life). Che tutto sia da ricondurre, allora, al mito di Orfeo e Euridice che campeggia in copertina grazie alla scultura di Auguste Rodin e che viene riletto da quel Black Orpheus (film di Marcel Camus del 1959) allegato allo streaming integrale del disco? Nemmeno, perché nonostante alcuni brani dichiarino palesi riferimenti al concept, la maggior parte dei testi lavora solo per assonanze: si parla di relazionalità tra individui, di rapporti affettivi, di disillusione. Ennesimo tassello di un mosaico tutto da decifrare. Più che un semplice "reflector", dunque, il quarto disco degli Arcade Fire sembra una stanza degli specchi da cui è quasi impossibile uscire. Tutto in linea con le intenzioni di una band capace di dar vita a un'opera ambiziosa ed esteticamente potente, il cui primo obiettivo è certificare uno status raggiunto e il secondo preservare il gusto per la "scoperta" musicale. Il punto centrale del discorso rimane comunque una scrittura che forse manca dell'impatto e della coesione del precedente The Suburbs, ma guadagna in fascinazioni e sa ancora essere evocativa. Reflektor è un lavoro stracolmo di dettagli, che richiede uno sguardo attento a chi gli si avvicina; l'impegno profuso viene però ripagato da un luna park di suoni che, a parte rare eccezioni – Normal Person o You Already Know, ad esempio – mantiene molte delle promesse iniziali e, non ultimo, riesce a suonare "popular". 7.5/10 Fabrizio Zampighi
ritorna a più riprese in tutti i pezzi del disco e che sembra quasi essere, per il giovane Antun, una sorta di nume tutelare. Per intenderci: pur essendo ben radicato all'interno di riferimenti musicali precisi e ben riconoscibili, lo stile che troviamo in No Offense si allontana molto, e, dobbiamo aggiungere, con una certa classe, dal solito paradigma autoriale che ricorre in molte (se non tutte) le proposte di cantautorato contemporaneo. Così, oltre alla chitarra, contributi importanti arrivano da banjo, ukulele e basso
acustico, ma anche da percussioni e sax. Una strumentazione ricercata ma mai ingombrante, che già dall'iniziale Hospital mette in mostra un'anima jazz e swing perfettamente declinata verso una forma-canzone sì d'autore, ma arricchita da un tocco personale. Il programma mescola infatti intrecci latin e world (ad esempio in Bulletproof Vest), ma anche echi di un pop-folk più tradizionale, come quello della title-track. Altrove (The Informer e Moses) è presente la lezione di un altro
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menestrello contemporaneo, quel The Tallest Man On Earth a cui Opic si avvicina soprattutto per la vocalità spezzata e graffiante e per una certa dimestichezza nel destreggiarsi con la sei corde; la stessa di Juanita Guerolita e Warm, due degli episodi più riusciti, entrambi esempi di come l'influenza di Reinhardt si sia tradotta soprattutto nella capacità di costruire melodie ricercate ed originali, con un occhio strizzato al flamenco e al gypsy jazz. Esordio convincente, che rende Opic un interprete da tenere d'occhio. 7.1/10 Giulia Antelli
Genere: pop Oltre 30.000 like su Facebook ma al momento ancora niente pagina su Wikipedia: la storia di BANKS è quella di una predestinata a cui piace però muoversi nell'ombra con rare – e ben mirate – mosse di marketing. Basti pensare al "I like making connections outside of a computer screen. Twitter, Facebook and Instagram have never really been my thing. So my manager is going to run the Social Media stuff. If you ever want to talk call me – (323) 362-2658 – BANKS" introduttivo alla sua pagina Facebook. Dotata di un impatto estetico non indifferente, BANKS coglie la propria passione per Fiona Apple e Lauryn Hill e l'aggiorna agli anni Dieci: da una parte l'approccio art, dall'altro una vocalità – già ben definita – di stampo black. Dopo essersi fatta conoscere grazie ad alcune blog-hits (Work, Warm Water, Fall Over), la losangelina ha recentemente pubblicato l'EP London con l'obiettivo di alzare ulteriormente le proprie quotazioni sia a livello di critica che di pubblico. Come raggiungere l'obiettivo, operando all'interno di un panorama musicale come quello delle art-diva mai così florido e
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Riccardo Zagaglia
Belgrado - Siglo XXI (La vida es un mus,2013) Genere: post-punk I Belgrado sono un combo schizzato fuori dalla scena squat/anarchica di Barcellona pronto a ripresentarsi sulle scene con Siglo XXI, secondo lavoro in studio che prosegue l'esplorazione
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BANKS - London EP (Autoprodotto,2013)
così capace di abbattere le barriere del mainstream (ma comunque saturo ormai da tempo)? BANKS sembra aver trovato la formula magica mettendosi nelle mani di alcuni produttori "cool", in grado di captare le sfumature del songwriting (spesso di impronta piano+voce) plasmandole in tonalità ethereal-dark randb. Oltre a Totally Enormous Extinct Dinosaurs – già con lei su Warm Water, il cui video potrebbe aver ispirato Papi Pacify di FKA Twigs – qui presente in Bedroom Wall, troviamo Lil Silva e Jamie Woon su This Is What It Feels Like, Tim Anderson su Change e SOHN alle prese con Waiting Game. Proprio quest'ultimo brano è la gemma del disco, come se Lana Del Rey si decolorasse sprofondando nel blackandwhite tipico di un contesto urbano pieno di evocativa tensione notturna. Un attacco, quello del chorus "What if I never even see you cuz we're both on a stage", che da solo vale l'intero EP. This Is What It Feels Like fomenta invece il lato randb ponendo la nostra tra The Weeknd e alcune cose di Justin Timberlake, Bedroom Wall è forse fin troppo statica nonostante il buon lavoro di T.E.E.D a smussare i beat, mentre in Change i retroscena di una relazione difficile si riversano in parole. Con un quadro da museo e tre degne cornici intercambiabili a fargli da contorno, London EP è un biglietto da visita importante per un 2014 che potrebbe regalare a BANKS parecchie soddisfazioni. 6.9/10
Stefano Gaz
Best Coast - Fade Away EP (Jewel City,2013) Genere: rock, indie A un anno di distanza dal secondo album The Only Place, episodio che denotava una certa mancanza di freschezza e di spontaneità rispetto all'esordio Crazy For You (2010), il duo di Los Angeles Best Coast torna sulle scene con l'EP Fade Away, in attesa di un nuovo album in arrivo (pare) nel 2014. Pubblicato sulla neonata etichetta di Bethany
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Cosentino, Jewel City, con in cabina di regia l'esperto Wally Gagel (New Order, Rolling Stones, Muse, Folk Implosion) al posto di Jon Brion, il disco opta per una decisa svecchiata e ripulita del sound. Rispetto al sophomore, assistiamo al concretizzarsi di un lavoro più frizzante e giovanile, che tenta (e riesce) nello staccarsi in parte dalle sonorità garage e noise, per un approccio mai così pop. Vero protagonista delle sette tracce è il cantato fresco ed energico di Bethany che svetta incontrastato sul leggero muro del suono: è il caso della titletrack o della chiusura di I Don't Know How, senza dimenticare la tenera ballata Baby I'm Crying. Nei venticinque minuti di durata, Fade Away scorre veloce e senza particolari battute d'arresto, inseguendo un guitar-pop all'apparenza scanzonato ma che nasconde, in realtà, un velo di malinconia. Quello che traspare da brani riflessivi come Fear My Identity e I Wanna Know è la necessità di trovare un bandolo della matassa tra dubbi e certezze ("I won't change/ I'll stay the same"). L'opener, This Lonely Morning, pur alla rincorsa di un'estate già conclusa, rimane l'episodio migliore del lotto. 6.6/10
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di un post punk tirato e oscuro dai riferimenti 80s e inglesi, suono ultracitato eppure sempre in grado di suscitare meraviglia se eseguito, come in questo caso, con i dovuti crismi. Piace per tanti motivi Siglo XXI: per le chitarre robotiche ereditate dai Killing Joke, per le linee di basso martellate sulle stesse due corde, per quel senso della melodia death/goth impreziosito dalla voce algida della cantante Pat, che in questo disco canta metà in inglese e metà in polacco. L'obbiettivo dei quattro pare dichiarato: colpire al corpo e al cuore, smuovere le sale buie dei centri sociali con la giusta dose di ripetitività e ossessione sparando cartucce da due tre minuti, vedi l'incipit bio-meccanico di Sombre De La Cruz, l'epilessia di Progress o la desolazione dance di Palac Kultury dal sapore vagamente spagnolo. Ma sarebbe ingeneroso fare la conta dei brani perché Siglo XXI è un lavoro uniforme intriso di energia e spirito autodistruttivo – punk – che trova anche un senso glocal riallacciandosi alla buona tradizione iberica in materia (leggi Gabinete Caligari e Parálisis Permanente). Aggiungiamo una produzione artigianale ma curata, un LP che arriva con un succoso packaging poster annesso, ed ecco un disco da non perdere per tutti i cultori dell'underground. 7.2/10
Daniele Rigoli
Billy Bragg - Life's A Riot (30th Anniversary Edition) (Cooking Vinyl UK,2013) Genere: rock, punk, folk Nella sua personale parabola Billy Bragg sottolinea come l'esordio del 1983 "occupi un posto speciale nel mio cuore, come il primo passo in un viaggio lungo un trentennio che mi ha visto toccare posti che non avrei mai immaginato nel 1983". E si è trattato di un viaggio davvero speciale nel mondo della musica, specialmente quella inglese, con la sua forte matrice politicosociale, un'attitudine totalmente punk ma i
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Genere: juke_footwork Archeologia e culto juke e footwork a parte, non era affatto scontato all'altezza del Legacy di RP Boo di quest'anno che l'ondivago genere per veloci tagli vocali e sincopi pulsanti potesse allargare il suo pubblico o godere di nuovi riflettori. Certo, gli alfieri di Chicago avevano dato segnali di evoluzione, contaminazione e anche adattamento (vedi il Tekilfe vol.1), eppure questa musica, in mano ai locals, era sempre rimasta per i non addetti ai lavori un mondo sonico più da rispettare che amare. La naturale conseguenza di un sound dalla forte apparetenenza cittadina, figlio di una cultura e di funzionalità legate alle competizioni del ballo da strada. D'altro canto, non si può negare quanto l'orecchio degli avventori sia cambiato nell'ultimo triennio e quanto il pubblico elettronico abbia familiarizzato direttamente e indirettamente con queste produzioni. Dalle compile Bangs and works Vol.1 e Vol.2 su Planet Mu del talent scout d'eccezione Mike Paradinas, alle susseguenti ricezioni della comunità dj internazionle (Machinedrum altezza Room(s), Addison Groove di Transistor Rhythm) e alle recenti metabolizzazioni di Mark Pritchard e Kode9 (Rinse22), è innegabile che, al di qua come al di là dell'Atlantico, l'ascolto odierno della footwork abbia trovato le sue naturalezze tra le lallazioni vocali e i bassi codici morse, più di quanto non si potesse immaginare fino a qualche mese fa. Andando a risascoltarsi lo scounting del boss di Planet Mu nel 2010, ripescando le produzioni a cavallo decade di Dj Rashad, l'effetto non è più quello schiaffo in faccia di allora, semmai una stretta che formicola le mani. E non dimentichiamo che c'è stato un momento in cui il suono di Chicago doveva essere la nuova dubstep e i tagli r'n'b che ritroviamo qui in Double Cup non erano proprio il punto d'approdo che le pubblico s'aspettava, così come i bpm sostenuti di Chi avevano sempre avuto molto più in comune con la jungle, piuttosto che con i 140 bpm delle storiche produzioni DMZ. Rashad, già da un po', sa quanto la sua shit non sia così distante da quella di certi beat maker britannici in cassa rullante dei 90s, così come sa altrettanto bene quanto il suo album firmato Hyperdub e inciso in parte a Londra – con l'aiuto del compagno di merende di sempre Dj Spinn, una piccola internazionale di chicagoani e un cameo del bristoliano Addison Groove – rappresenti un nuovo approdo per ciò che juke e footwork possono offrire ai fruitori di ritmi USA come europei: un hip hop mutante e mutato, tagliato su spezie chilling inizio 90s, dal retrogusto vintage House a prezzemolo, ideale per una marmellata di sforbiciate funky e soul condite di trillate occasionali di 808 (leggi Trap). Nel disco, le maglie s'allentano e la parola chiave risulta essere la maggiore fruibilità ma non mancano le staffilate (I Don't Give A Fuck tratta dall'omonimo ep del 2013) e un senso di coerenza che tiene aggrappata una forbice piuttosto larga di influenze comprendente anche l'acid di Phuture e un poco di Detroit. Ritroviamo casse dritte e la lost club music nella traccia omonima dell'album come in Acid Bit, produzioni che sembrano stringere mani a quegli inglesi che hanno costruito le proprie carriere sui suoni chicagoani. Carriere che Harden omaggia asciugando Double Cup al
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DJ Rashad - Double Cup (Hyperdub Records,2013)
sole di un'Inghilterra tutta protesa all'HH americano e in pieno entusiasmo junglista. Ed è qui la balistica che conta di un producer che, a ben vedere, è sempre stato una delle anime più progressive del suo giro (basti pensare alle esplorazioni darkside techno o house versante daftpunkista nell'esordio Jukeworkz, del 2009; ascolto consigliato). Bellerino e poi dj, in una gerarchia di valori tutta ghettocentrica (prima viene il ballo, poi fare il dj, poi produrre propria musica taggandosi la voce nel mix), da sempre Rashad Harden ama le sfide e sfidarsi. A ben vedere, da tantissimi anni quel che gli riesce meglio è proprio il gioco di sponda. 7.5/10
piedi affondati nel folk d'Albione. La copertina, qui riproposta tale e quale, mette insieme tutti gli elementi di una carriera: la citazione delle cover dei Penguin Classics per la mai nascosta aspirazione letteraria (Penguin è anche l'editore della recente autobiografia di Morrissey) e una lampada da cantiere a ricordare la provenienza working class per uno che è passato attraverso l'esercito e mille lavori precari. Sulla forza dei diciassette minuti originali, c'è poco da dire: siamo di fronte a un capolavoro. Canzoni come A New England e To Have And Not To Have hanno segnato uno stile e un marchio di fabbrica che porterà Bragg con coerenza, estetica ed etica, fino al Tooth And Nails uscito quest'anno. Billy Bragg, rispettato tanto da questa parte dell'Oceano Atlantico quanto da quell'altra (ricordate i due dischi con i Wilco?), è stato capace di attraversare, senza perdere un oncia della propria forza, l'opposizione alla Tatcher degli anni Ottanta e le trasformazioni sociali che la sua Inghilterra (e tutto il mondo) hanno subito negli ultimi anni. E' stato capace di tenere insieme lo sguardo analitico del folk con la rabbia che condivideva con suoi coevi come Joe Strummer e Elvis Costello. Questa riedizione per i trent'anni di Life's A Riot (titolo programmatico, se ce n'è mai stato uno), mostra come non abbia perso
un grammo di quella forza primigenia. Il disco fu già ristampato nel 2006 ed è ancora facile trovarlo sugli scaffali elettronici del web, per cui c'è da pensare che in questa ristampa, disponibile anche in vinile, ci sia solo la voglia di celebrare una carriera. Se lo avete già nella vostra collezione, la registrazione live del 5 giugno scorso alla London Union Chapel non giustifica l'acquisto. Se invece vi siete avvicinati al Bragg musicista con le ultime fatiche, fareste bene a prendere contatto con i graffi dei suoi 25 anni. 8/10
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Edoardo Bridda
Marco Boscolo
Blouse - Imperium (Captured Tracks,2013) Genere: pop, psych, dream No Shelter, il primo singolo estratto, già ci aveva avvertito: "the clouds are different this time". I Blouse di Imperium sono, infatti, dei "nuovi Blouse", privi di sintetizzatori e con in mano soltanto "instruments that don't plug into the wall", controcorrente rispetto ai compagni di etichetta Wild Nothing e Minks. Li ritroviamo, di colpo, fuori dal pop di chiaro stampo 80s, a ridiscutere i 90s di Lush, Galaxie 500 e Pixies col bagaglio culturale di psichedelia 70s messo sul tavolo da Jacob Portrait, appendice
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Massimo Rancati
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Cage the Elephant - Melophobia (RCA,2013) Genere: pop, rock, alt Né primi né ultimi di una serie di apparenti next big thing che, nella seconda metà degli anni Zero, sembravano poter riportare il rock americano ai fasti di un tempo (Cold War Kids ad esempio), i Cage The Elephant sono finiti fin da subito sulle copertine dei magazine di settore conquistando le classifiche con i singoli Ain't No Rest for the Wicked, In One Ear e Back Against the Wall. Era il 2008 e il loro youth-friendly mix di blues-rock, Rolling Stones, Beck e spacconaggine di scuola Red Hot Chili Peppers – nonostante un omonimo disco di debutto non certo fondamentale – mieteva vittime. Dopo un consueto secondo colpo – Thank You, Happy Birthday del 2011 – sotto le aspettative e fin troppo debitore nei confronti della lezione dei Pixies, la band del Kentucky si reinventa per la seconda volta (cambiando nuovamente label), spostandosi in zona stadium nel terzo capitolo intitolato Melophobia. Attenzione però, zona stadium non raggiunta inseguendo la pomposità più pacchiana (benchè i Nostri siano appena stati in tour con i Muse), ma vissuta con una attitudine di stampo seventies impersonata dall'irrequieto Matt Schultz, sempre più un novello Iggy Pop amante dello stage diving e degli eccessi: Sex, Drugs and Rock and Roll, no? Il manifesto del disco è chiaramente il singolo di lancio Come a Little Closer, incitamento all'abbraccio collettivo tra la band e le desolate "Ten thousand people" sorretto da un lavoro chitarristico di ottima fattura, keys vagamente psych ed una melodia orecchiabile quanto nostalgica. Effetto nostalgia presente anche nelle restanti nove tracce, caratterizzate da tematiche maggiormente introspettive e nel complesso figlie di una maturità che finalmente inizia
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che condividono con gli Unknown Mortal Orchestra. La band di Portland, per effetto della transizione, perde ovviamente qualcosa. In particolare, i singoli spendibili su dancefloor stroboscopici (quale era, ad esempio, Time Travel). Restano, però, le stand-out tracks (su tutte: Capote, con strumming acustico opposto a chitarre fuzzate e goth-tinged a disseppellire l'adorazione per i Cranes) e, comunque, Imperium resta un disco 100% Blouse, nel quale torniamo a rilevare l'elegantissimo alone dreamy, la inappuntabile sezione ritmica incentrata sulle linee di basso di Patrick Adams e la gestione "sperimentale" di effettistica e mixaggio che già avevamo acclamato sul debutto omonimo del 2011. Il filo narrativo tra i brani, poi, si rafforza, l'esposizione si fa più diretta (e memorabile), con Charlie Hilton che, attorniata dalle maggiori essenzialità strumentali di cui si è detto, può adoperare le vocalità alla Nico di cui dispone anche oltre i classici languori distaccati, esplorare dinamicamente tutti i sensi, controsensi e ruoli dell'imperio contestualizzato nelle relazioni amorose (fulcro della sua poetica, assieme alle paradossali fascinazioni per la mortalità che erano del 7" Shadow e qui sono di 1000 Years) e fare, infine, di questo sophomore una sorta di concept album-non concept album. Imperium, peraltro, viene lasciato aperto, in to be continued cinematografico, quasi a riattestare il desiderio ultimo dei Blouse di vedere la propria musica assurgere allo status di colonna sonora (di lungometraggi sceneggiati à la Charlie Kaufman, diremmo noi). Vi sono, ora, un passo più vicini. 7/10
Riccardo Zagaglia
Calibro 35 - Traditori di tutti (RecordKicks,2013) Genere: rock, colonnasonora Nel nome di Scerbanenco, come già Agnelli e soci qualche anno fa (I milanesi ammazzano il sabato), cercando in quella risacca di malvagità letteraria riparo dalla latitanza di appigli estetici dominanti. Dopo avere sperimentato con l'ottimo Said il metodo della soundtrack canonica, Gabrielli e soci tornano a proiettarsi il proprio film virtuale, poliziesco ghignante color piombo con ricadute acide e persino exotica, a muso duro insomma, col cannone (nel senso di pistola) nella fondina però pur sempre in un coté 60s che prevedeva scenari psichici in espansione.
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Ok, la formula è la solita e non stupisce più, eppure mai il progetto dei Calibro 35 ha suonato tanto convincente. E' funky e beat, brutale e allo stesso tempo ammiccante, potente ma abile a intrigarti con le mezze tinte, vario insomma ma coeso come può esserlo solo un lavoro che trasuda grandissima padronanza della materia. Il tiro è corrosivo e dinamico (il groove acid-funky di Vendetta, il piglio beat cogli ottoni avvampati di Giulia Mon Amour), percorso da una furibonda giocosità (l'exotica sexy di The Butcher's Bride) che ha voglia spesso e volentieri di far respirare gli arrangiamenti (notevole l'altalena tra hard-errebì e funk atmosferico di Traitors). Tra preziosismi sonici d'antan – mai così ricercato e ficcante il lavoro delle tastiere, tra cui mellotron e organo Philicorda – non si può fare a meno d'avvertire in filigrana di Morricone, di quello più trepido (la splendida beguin di Two Pills In The Pocket) o all'occorrenza stemperato in salsa funky-psych (One Hundred Guests), comunque disseminandone i segni un po' dappertutto, come spioncini sull'immaginario di frontiera, squarci di altrove cinematici in una trama fitta di energia scura. Anzi, noir. 7.1/10 Stefano Solventi
Calvino - Occhi pieni occhi vuoti (Autoprodotto,2013) Genere: cantautori E' una bella sorpresa, il primo EP di Niccolò Lavelli pubblicato sotto il moniker Calvino. Quattro brani ovattati e garbati, onirici e lentissimi, che descrivono malinconie e solitudini tutte metropolitane ma musicalmente lontane dal caos edonistico della Milano da cui proviene il musicista. Lavelli sembra quasi un Dino Buzzati prestato alla canzone d'autore, più che il Calvino della ragione sociale, assorto in un universo narrativo surreale, bambinesco e
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a bussare alla porta. Ampi panorami in LSD che sembrano scritti dai Beatles ("I watched the strawberry fields" in Hypocrite) alle prese con attriti bluesy garage-rock dei bestseller Black Keys sporcati dai bicchieri di troppo di mr. Modest Mouse Isaac Brock (il finale di Telescope) o dal cameo borderline di Alison Mosshart (The Kills, The Dead Weather) in It's Just Forever. Altrove si fanno largo gli ultimi tributi alla band di Frank Black ed alcune memorie alt/ college-rock di fine '80, mentre la schizoide Teeth – con tanto di fiati freeform – spicca per eccentricità all'interno di una tracklist che è probabilmente quanto di meglio abbiano realizzato i Cage The Elephant fino ad oggi. In un certo senso Melophobia è il disco che non ti aspetti: sebbene con buona probabilità non avrà il successo dei due precedenti, il passo in avanti nella giusta direzione è evidente. Peccato sia ancora presente una palpabile discontinuità compositiva che tende a limitare l'intero operato. 6.6/10
Genere: elettronica Più passa il tempo, più Ferraro diventa un'artista 0/1: o lo ami o lo odi. Per parlare del postmoderno musicale, è difficile togliersi di dosso le caratterizzazioni politiche "di destra" o "di sinistra". A maggior ragione se si cerca di dire qualcosa di interessante, utilizzando i suoni. Stabilizzarsi su un pop mainstream assicura una vita tranquilla, se lo sai fare bene puoi avere addirittura un discreto successo. L'ex skater prende la strada opposta, ma non per questo manca di alte probabilità di endorsement. Il suo lavoro già da tempo indaga la nostra condizione precaria, liquida, 2.0. Con Far Side Virtual l'aveva presa sul decostruzionismo e sul pop anni Ottanta, con Sushi aveva ripiegato sull'hip hop, con il mixtape Cold di quest'anno aveva utilizzato l'autotune e si era avvicinato al nu-soul à la The Weeknd. In questo nuovo disco mescola ancora di più le carte, indagando tra le altre cose il blues, l'RandB, qualche oscurità electro e pure il field recording. Il pretesto/contesto della nuova indagine sonora è la città di New York, che viene definita un inferno. I gironi sono popolati da robot che recitano slogan d'effetto. Una breve lista comprende le voci: "Tom Cruise", "MTV", "Money" e "American violence" (le ultime due come introduzione e chiusura del disco). Ma non c'è solo l'esplicito riferimento a parole che ci condizionano e che cambiano il presente/futuro. L'altro tool è la memoria dell'11 settembre. Le suggestioni di quella che è stata la vera fine millennio vengono riproposte tramite field recordings di strada e sirene della polizia ripitchati e incollati a dovere (Stuck 1, 2 e 3, bloccato, appunto). Il quadro si amplia con un ritorno al nu-soul di Blake (Cheek Bones, Irreplaceable), qualche passaggio arty-ambient (Vanity), auto-tuning di classe black (Fake Pain, Close Ups), l'hip-hop mixato con la classica (City Smells), il soul di Sade (Upper East Side Pussy) e dei loop field che ricordano la storia della musica elettronica (in particolare i Cinq études de bruits di Pierre Schaeffer in QR JR.). Un disco che ti fa pensare e che sembra cerebrale perché organizzato come un concept, ma invece è la creazione più intima che l'artista abbia finora proposto. Se volevate un James Ferraro solare e scherzoso, scordatevelo. Qui siamo più in sintonia con la narrativa fatta di tranquillanti e ansiolitici di Tao Lin e Bret Easton Ellis, le visioni senza domani di Sofia Coppola, il tutto mescolato con una sorta di dadaismo metropolitano che non guasta. Ferraro quando si mette a fare le cose sul serio risulta cupo, black, ma credibile. NYC Hell è il suo (e nostro) incubo più riuscito. Uno degli album che racconta meglio la crisi, la mancanza di speranze e la decadenza dell'impero americano, personificato dalla grande mela. Senza sbandierare slogan o facili ritornelli: un gran bel ritorno. 7.7/10 Marco Braggion
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James Ferraro - NYC, HELL 3:00 AM (Hippos In Tanks,2013)
Fabrizio Zampighi
Camillorè - Il kaos della solitudine (Materiali Musicali,2013) Genere: rock, folk I pugliesi Camillorè arrivano al terzo album dopo Non mordete le ali alla cicogna e Graffi e perle, dischi che ce li avevano presentati come alfieri di un folk-rock mediterraneo e teatrale, fondato su eguali presupposti di poeticità ed ironia. La stessa formula che ritorna in Il kaos della solitudine, altro concept costruito stavolta sulla mitologia greca, intesa, quest'ultima, come strumento di racconto e declamazione attraverso le canzoni.
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Il riferimento più prossimo alla formazione barese sembra essere Vinicio Capossela, con il quale i Camillorè condividono lo stesso gusto per atmosfere fantasmagoriche e circensi, alternate ad un mood romantico e senza tempo che, a più riprese, attraversa gli undici brani del disco. Si parte infatti dal racconto/intro in acustica della title-track, che apre poi le porte allo sghignazzo in aria ska-punk di Enigma, esempio di come la matrice rock sia stata contaminata da altri generi in cui prevalgono soprattutto declinazioni latin e mariachi, meridionali e zingaresche. Come a dire: accanto alla sferzata delle chitarre elettriche che troviamo nei brani rock più tradizionali, come ad esempio in una Il gioco d'Ulisse in cui la cui fanfara incalzante sembra presa direttamente dal repertorio caposselliano di Canzoni a manovella e Ovunque proteggi o nel blues piratesco di Poseidone e il whisky, il disco convince soprattutto negli episodi più distesi. È così che, tra la fisarmonica senza tempo de Il gioco del fato e il languido tango di Big Mary, il gruppo mette in mostra una buona capacità di costruire pezzi in cui convivono ricchezza negli arrangiamenti e testi mai banali; o magari in cui la componente cantautoriale viene arricchita, da un lato da riferimenti e citazioni classico-letterarie e dall'altro alleggerita da una buona dose d'ironia e leggerezza, come mostra la conclusiva Trappole. Per un album solido nella sostanza delle singole canzoni e di personalità. 7/10
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morbido al tatto, in cui la quotidianità diventa motivo di stupore e di riflessione – il valzer giocattolo su piano elettrico di Nella città, con un Luigi Tenco sotteso che non dispiace affatto – ma anche un silenzio necessario e ingombrante. L'amore in aria, primo singolo del disco, ha l'aspetto di un ragtime semiserio, Il clochard e la Senna è una versione dei Baustelle per abat-jour e battito cardiaco, I Fantasmi sta a metà strada tra un Adriano Modica meno psichedelico e certa canzone d'autore anni Sessanta. Al disco partecipano Federico Bortoletto e Filippo Corbella, parti integranti di un progetto che vorrebbe – citiamo le note stampa – "descrivere l'assenza". Obiettivo raggiunto, a nostro avviso, con la postilla di testi come "nella città puoi passare attraverso le pareti / nella città puoi parlare ai vetri / nella città puoi far finta di essere senza cuore / nella città ti mostrano i denti con grandi sorrisi / tu mi avvisi / quando si può uscire" che, oltre all'assenza, rimandano anche a un dialogo interiore particolarissimo. Un bell'antipasto, in attesa di un disco lungo che, a questo punto, vorremmo davvero prossimo. 7.1/10
Giulia Antelli
Carcass - Surgical Steel (Nuclear Blast,2013) Genere: deathmetal Sono tornati i Carcass. La cosa era nell'aria vista la ripresa dell'attività live nel 2007, ma ora arriva la certificazione con Surgical Steel, primo album dopo diciassette anni di assenza
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Stefano Gaz
Carol Kleyn - Return Of The Silkie (Drag City,2013) Genere: psych, folk Paradossalmente un disco di trent'anni fa, un
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disco che parla di foche che si possono trasformare in donne nelle notti di luna piena (le silkie, appunto), sembra riuscire a dare una visione politica del mondo contemporaneo più a fuoco di quella fornita da tante novità uscite negli ultimi anni. Certo, è una visione politica hippie che nel 1983, quando Carol Kleyn licenziò il suo terzo album, era sicuramente già fuori tempo massimo. Con la sua carica di naivetè tutta Summer of Love e ambientalismo ingenuo, la Nostra doveva sembrare fuori posto mentre nella sua West Coast si stavano sviluppando percorsi musicali meno eterei. Ma versi come "c'è una tempesta in paradiso e siamo chiamati a decidere… quanto vogliamo vivere… o quando moriremo" sanno di un millenarismo ambientalista che si sposa perfettamente con le preoccupazioni da cambiamento climatico, innalzamento dei livelli dei mari e scioglimenti dei ghiacci che tengono banco da qualche anno. Per ricostruire il suo percorso di arpista, recuperate sempre su Drag City Love Has Made Me Stronger e Takin' The Time: ritroverete all'interno la Linda Perhacs che ha ispirato Julia Holter, le radici di Joanna Newsom, l'immediatezza di John Fahey. The Return chiude la parabola, e forse è il disco meno potente della triade, ma visti i ritorni (vedi la Perhacs, che ha in canna un nuovo lavoro, quarantatré anni dopo l'esordio!), non è detto che anche il suo soprano cristallino non torni a farsi sentire. 7/10 Marco Boscolo
Cass McCombs - Big Wheel and Others (Domino,2013) Genere: cantautori, folk L'Americana è una galassia di stelle, pianeti e pianetucoli, alcuni difficili da catalogare. In questo Cass McCombs è tra quelli che più fan-
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discografica. Lo so fa un pò strano a dirlo, ma la prima considerazione ascoltando questo comeback è che i Carcass sembrano aver messo la testa a posto. Ovviamente non c'è niente di quel grindcore grezzissimo e cadaverico che tanti estimatori ha avuto in terra d'oltremanica (inseriti anche nella storica Pathological compilation perché fondamentali per gli sviluppi industrial metal di Godflesh, God and co.), se non qualche lievissima concessione dal punto di vista testuale, con una manciata di titoli evocativi come agli esordi – Cadaver Pouch Conveyor System – e un immaginario appena appena più vicino ai vecchi incubi goregrind, magari rivisti con la lente dell'horror cinematografico di questi anni. No, a predominare è il linguaggio death, le batterie pestate, i riff velocissimi, le aperture melodiche di Heartwork, insomma il ritorno a un canone che i Nostri hanno forgiato e di cui sono padrini. In questo senso, la buona novella è che, sorvolando su qualche piccola ruggine fisiologica, la macchina di Jeff Walker e Bill Steer funziona a meraviglia ed è migliore di un'infinità di dischi death che girano oggigiorno. I fan possono stare tranquilli. Però ti aspetteresti qualcosa in più, ti aspetteresti il proseguimento di un'indagine sull'estremo che invece non c'è. Giocano in casa, sul piacere di riassaporare il marchio Carcass dopo tanto tempo, su una brutalità decisamente autoreferenziale, più o meno a metà tra Necrotism e Heartwork. Strano, non si erano mai guardati allo specchio finora. Speriamo sia solo perché dovevano scaldare i motori. 7/10
Stefano Solventi
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Clara Moto - Blue Distance (InFiné,2013) Genere: synthpop, ambient, elettronica Dopo il buon esordio del 2010 con Polyamour (sempre su InFiné) torna Clara Moto, voce synth-pop femminile del roster dell'etichetta di Lione. Blue Distance rielabora le coordinate che hanno caratterizzato il suono tech-pop della cantante, e aggiunge al già sentito un'instabile compromesso fra Everything But The Girl e ambient Novanta. Del gruppo di Tracey Thorn ritroviamo la compostezza negli arrangiamenti e nella produzione, dell'ambient invece apprezziamo i tappetini trompe l'oreille che corredano qui e là il disco (I Saw Your Love, My Double Edged Sword, Holy). Più che un avvicinamento alle mutazioni della techno mitteleuropea, il viaggio estetico guarda quindi al passato, con compressioni e insonorizzazioni che hanno poco a che vedere con il post-dubstep e che si rifanno principalmente ad un modo di costruire la canzone mainstream, infarcito di idee già abbondantemente esplorate nei Novanta (trip-pop, art rock e synth da cameretta) e nel già citato esordio. La Moto cerca di fare l'adulta puntando sulla malinconia e su tempi in battuta bassa, ma dovrebbe invece calcare la mano sul ritmo e sulle atmosfere da dancefloor. È infatti lì che dà il suo meglio: il buon pompaggio tech di Hedonic Treadmill e il minimalismo di Placid Kindness sono infatti i due punti più alti del disco. La proposta non è male, ma ci piacerebbe molto di più se lasciasse da parte mal vissuti momenti intimisti. 5.5/10
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no penare gli addetti ai lavori. Il californiano è quel che si dice una grande promessa del cantautorato alt-country mai del tutto mantenuta, anzi disattesa e poi rilanciata, uno comunque da cui ti aspetti prima o poi il botto d'un certo tipo (di qualità o di cassetta). E poi? Poi se ne esce con questo Big Wheel And Others. Album numero sette, doppio quindi importante per definizione, eppure neanche questo sembra volerci dire e dare la sentenza definitiva. Tra le canzoni in scaletta non si registrano slanci particolari, sembrano anzi impegnate a tratteggiare i contorni di una aurea mediocritas country rock piuttosto tradizionale, tra cremosità west coast (l'indolenzita Angel Blood, una languidissima Home On The Range che sembra l'ectoplasma desertico di Elliott Smith), ballatine agrodolci (Brighter!, presente anche nella versione interpretata da Karen Black, l'attrice outsider deceduta lo scorso agosto), valzer blues sonnacchiosi (The Burning Of The Temple, 2012) e qualche fremito elettrico neanche troppo spigoloso (il funky acido di Satan Is My Toy). Eppure, proprio per questo, è un lavoro affascinante, perché nel carosello di situazioni tutto sommato standard si annidano storie di perdizione, dipendenza, delitto. Come se Cass volesse mettere in scena non l'ipocrisia, ma lo struggente auto inganno di un sistema sociale e culturale che ha smarrito l'innocenza e, quel che è peggio, la percezione stessa di questa perdita. E' significativo come la scaletta sia punteggiata da found voices tratte da Following Sean, documentario del '69 su un bambino e il suo rapporto con la marijuana in una comunità hippie di Haight Ashbury: e questo in un certo senso spiega, se non tutto, molto. 6.8/10
Marco Braggion
Dagger Moth - Dagger Moth (Psicolabel,2013) Genere: avant Si potrebbe parlare dei numerosi ospiti di rilie-
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Genere: cantautori, country, folk In molti, nel 2011, rimanemmo rapiti, intrappolati in quella rete da pesca dell'impressionante debutto Gentle Spirit, all'insegna di uno psychedelic folk dai tratti intimisti. Non era semplice immaginarsi quale sarebbe stato il passo successivo, ma era già chiaro che da un autore come Jonathan Wilson non sarebbero arrivate fotocopie sbiadite e ingabbiate in formule precostituite: se il cuore del nuovo Fanfare batte a Laurel Canyon, e se è vero che la forza e l'eleganza sprigionate dalla proposta del trentottenne songwriter del North Carolina è pienamente riconducibile a un'epopea che parte da Crosby, Stills and Nash (il primo e il terzo sono graditissimi ospiti nella delicata Cecil Taylor, omaggio al pioniere del free jazz, e Nash compare anche in Moses Pain) a Joni Mitchell, si assaporano aromi e si annusano profumi pinkfloydiani, così come di un robusto rock figlio di Neil Young e dei Crazy Horse (un'influenza evidente in Illumination) e del cantautorato di Elton John (è stato utilizzato un pianoforte Steinway, noleggiato per le registrazioni) e di Roy Harper, che qui firma il testo di New Mexico e che con Wilson ha da poco lavorato per lo splendido Man and Myth. Fanfare è un titolo eloquente, ambizioso tanto quanto l'opera stessa: Jonathan osa, contamina, sperimenta, guarda a un passato glorioso e non solo non cerca in alcun modo di nasconderlo, ma espone fiero le sue radici e le sue passioni senza infingimenti in un album suonato per davvero, con canzoni lunghe che percorrono spesso traiettorie imprevedibili – come Dear Friend, che parte con un tenue accenno di valzer e procede con tinte prog dal fascino spigoloso. La dimora in cui siamo ospitati profuma di legno nuovo, di foglie essiccate, ed è confortevole e calda come l'autunno anomalo durante il quale è arrivato sugli scaffali questo lavoro eclettico e corale, ultimato dopo nove mesi grazie al fondamentale apporto di un gruppo di amici musicisti di primo livello, come Josh Tillman (noto anche come Father John Misty) che presta la sua voce nelle armonie di Future Vision, e Jackson Browne che non solo ascoltiamo in Moses Pain e in Desert Trip, ma che è anche il proprietario del Groove Master Studio a Santa Monica in cui l'intero disco (un doppio LP, per i cultori del vinile) è stato mixato. Pat Sansone (Wilco, The Autumn Defense) contribuisce, con la direzione degli archi, a creare un suono pastoso, un letto leggiadro in cui la melodia della titletrack si adagia, con l'intervento complice anche del sassofono di James King – in bella mostra pure nel funk morbido, giocoso e marpione al punto giusto di Fazon, cover piuttosto fedele all'originale dei Sopwith Camel, band di culto della scena psychedelic-rock di San Francisco. Registrato totalmente su nastro analogico con apparecchiature vintage, Fanfare è la piena dimostrazione che è possibile agganciarsi alla storia del rock senza per forza limitarsi a pastiche passatiste: non c'è una caduta di tono, le canzoni di Wilson sono ricche ma mai pacchiane, scomodano padri nobili riplasmando il tutto, intelligentemente, con un occhio al presente. La girandola di citazioni va da una sponda all'altra dell'Atlantico e comprende la palese adorazione per If I Could Only Remember My Name di David Crosby e per Pacific Ocean Blue di Dennis Wilson, echi lennoniani in odore di ELO nella ballad Future Vision, il Bob Dylan tagliente nel timbro un po' nasale di
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Jonathan Wilson - Fanfare (Bella Union,2013)
Stefano Pifferi
Darkside - Psychic (Other People,2013) Genere: elettronica Dopo averlo visto tanto in trio al Meet In Town
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quanto in solo live set al Crash di Bologna un paio d'anni fa, era chiaro quanto Nicolas Jaar sapesse muoversi in modo esemplare sia all'interno e sia, soprattutto, all'esterno dei canonici circuiti dance. Il tour promozionale di Space Is Only Noise, a partire dall'estate di quell'anno, aveva inoltre evidenziato quanto il producer di stanza a New York si stesse appassionando a lunghe jam psych e nel contempo allontanando dalla deep che lo aveva svezzato discograficamente nel 2008 (The Student EP). Darkside nasce così, a Berlino, in una tappa di quel tour, come risposta a un'urgenza di suonare diciamo rock in un ottica molto cosmica. Il duo è composto da Nicolas e Dave Harrington, suo chitarrista on stage ma anche conoscente di lunga data (dai tempi della Brown University). I due prima provano in una stanza d'Hotel per poi darsi appuntamento in uno studio vero a Brooklyn. L'esordio lungo arriva soltanto quest'anno ma sono almeno tre gli episodi da segnalare accaduti in precedenza: un eppì sempre del 2011, Darkside EP pubblicato sulla – allora – label di Jaar Clown and Sunset (ora sostituita dalla Other People), una performance di cinque ore consecutive al MoMA di New York nel 2012 (sempre accompagnato, tra gli altri, da Harrington) e un remix project che lascia tutti un poco sorpresi, per resa e fragranze: quel Random Access Memories Memories pubblicato – inizialmente sotto l'alias DaftSide – il 21 giugno scorso su Soundcloud, un remix – meglio re-work – di Random Access Memories reinterpretato in versione sempre 70s ma in un'ottica più blues, live e, se vogliamo, più grassa e adulta rispetto all'album dei Daft Punk. Psychic arriva dopo un paio d'anteprime (Golden Arrow, Paper Trails) che tradiscono la naturale direzione del progetto: puntare su un intorno 70s-80s allentando le maglie tra blues e funk e calandoci sopra una fumata di psichedelie progadeliche, sporadici falsetti funky e un
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vo, da Joe Lally (Fugazi) a Giorgio Canali, da Alfonso Santimone (El Gallo Rojo) a Luca Bottigliero (Mesmerico, ODM, Lucertulas), ma così facendo si farebbe un torto grave a Dagger Moth, nom de plume sotto il quale si nasconde una vecchia – ma mica tanto – conoscenza dell'underground italiano. È Sara Ardizzoni, infatti, la titolare unica del progetto, che dopo aver trafficato a vari livelli con altri progetti – Pazi Mine, Sorelle Kraus, Pilar Ternera, ecc. – decide di mettersi in solo per esplorare lande non troppo distanti da ciò che ha sempre fatto, ma rivestite di una grazia, una volontà di ricerca e una sensibilità – oltre che una messa a fuoco strutturale – non indifferenti. Lavoro maturo di guitar-solo che gioca con registri vari – tutti di matrice rock, sia chiaro – e attraversa atmosfere e lande ora più aggressive e ruggenti, ora più intimiste e desolate. Evoca visioni ancestrali e deliqui desertici, esplora il blues trattandolo selvaggiamente e accarezza il rock con lievi venature folkish, costruisce articolati crescendo chitarristici (Wisteria Blues) tanto semplici in apparenza quanto complessi in realtà, procede di fingerpicking ma evitando il virtuosismo fine a se stesso (Ribot, dopotutto, è la stella del mattino dell'autrice), gioca sui chiaroscuri tra elettricità e paesaggi acustici, reiterazioni da loop station ed elettronica noisy, denotando una capacità non comune nel saper misurare le dosi dei numerosi ingredienti messi sul piatto. E il risultato, nella sua eterogeneità, non ne soffre. Anzi, risulta organico e coinvolgente. Dobbiamo aggiungere la banalità del bruco divenuto farfalla? Superfluo, specie dopo aver ascoltato questo esordio. 7/10
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Love To Love (semplice e dall'ottimo tiro, un potenziale singolo), il Bob Seger placido cantastorie in Moses Pain, Jerry Garcia e persino lo Steve Winwood delle ultime prove soliste all'insegna del back-to-basics nella jam della seconda metà di Lovestrong. C'è di tutto, in Fanfare, ma ciò non implica che non emerga, alla fine dei quasi ottanta minuti di ascolto, un'identità riconoscibile. Il secondo album di Jonathan Wilson, pur non privo di occasionali pecche (il consiglio è di assaporarlo un sorso per volta, con delle opportune pause, come i doppi album di un tempo), riesce a non essere una celebrazione accademica e dimostra che c'è ancora posto, nel sempre più competitivo e frenetico music business, per musica autentica, vibrante, scritta e suonata con rispetto e sentimento, dall'eccellente qualità del suono, in grado di conquistare un pubblico trasversale. Non suoni insolente la copertina con il particolare della Creazione di Adamo di Michelangelo: Fanfare è un'opera d'arte con tutti i crismi, un tributo vivo, un lavoro di paziente e meticolosa archeologia moderna. In sintesi, uno dei dischi più memorabili di questo 2013. 7.3/10
senso di viaggio cosmico che sta nei pensieri di Jaar almeno fin dall'album solista. Si tratta di un lavoro discreto, che non cerca facili piacionerie e se lo fa si pone comunque come un appassionato survey. Jaar abbandona la sua oramai celebre deep a 100bpm per un terreno (nu)disco tutto da (ri)scoprire assieme ad Harrington. Anche se certe soluzioni possono ricordare i Pink Floyd di The Wall, scordatevi il riferimento alle sfere metalliche di The Orb e David Gilmour; i due preferiscono muoversi nel solco delle produzioni di Caribou (Freak, Go Home) piuttosto che in quelle tipicamente (deep)house. La coordinata principale, e il terreno in cui il progetto si muove con passione e scioltezza, risiede dunque nelle jam blues psichedeliche dei live del 2011 formalizzate magari secondo fascinazioni nu (The Asphodells riferimento per Golden Arrow) e naturalmente aperte a variegate influenze, dai Flaming Lips più abbacinati dal sole agli Air delle vergini suicide (Metatron) e, perché no, il Chris Rea marittimo. Il tutto accade senza un perché o un quadro preciso. E' il mood che conta e quello,
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coerentemente con certe umoralità blues, c'è, accompagnato da una proposta ben rifinita in post-produzione ma che mantiene il senso di una navigazione a vista. Il classico buon esordio. 7.1/10 Edoardo Bridda
Diaframma - Preso nel vortice (Diaframma Records,2013) Genere: rock, wave Poche settimane prima di questo Preso nel vortice, milionesimo disco dei Diaframma di Fiumani ad appena un anno dal buon Niente di serio, è uscita la ristampa di Siberia, esordio nonché capolavoro dei Diaframma (quelli con Miro Sassolini). Ufficialmente se ne festeggiano i trent'anni, ma in effetti sarebbero ventinove e pure scarsi, ragion per cui segue polemica a mezzo stampa con Sassolini. E vabbè. Non entriamo nel merito. Noi ci limitiamo a ipotizzare che non si tratti di un caso, anzi semmai di una concomitanza illuminante. Perché dopo anni di cantautorato punk rock senza vaselina,
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Alessandro Liccardo
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immediate e potenzialmente radiofoniche del Fiumani solista. Però, ahimé, non s'avverte il senso di conflitto, la vena irriguardosa e la spigolosità drammatica dei tempi migliori. 6.3/10 Stefano Solventi
Filarmonica municipale la crisi - L'educazione artistica (Phonarchia,2013) Genere: pop, indie, folk Arrivato a un anno di distanza circa dal debutto, L'Educazione Artistica si rivela un titolo quanto mai azzeccato per questo secondo disco della Filarmonica Municipale La Crisi, abile nel muoversi tra un cantautorato italiano – Dalla, Jannacci/Gaber, Tenco e a tratti certo De Andrè – che strizza un occhio al teatro canzone e l'altro al funk-jazz anni Settanta (Donne di raso, Segugi sotto), quello da colonna sonora di poliziottesca memoria. E poi swing (Gloria guida), beat e melodie cristalline su ritmiche sghembe e marcette circensi, il tutto bagnato nei testi da una vena tra il surreale, il cinico e il sanguigno, per quello che è un disco finalmente intelligente, destinato a crescere ascolto dopo ascolto, mostrando una parte sempre nuova di sé: ora goliardica, ora intimista, ora gridata ora raffinata, ma mai banale. È un album che sa parlare a tutti, partendo da un percorso privato per arrivare al quotidiano e al pubblico, quasi a voler rappresentare la realtà – una realtà fatta di piccole e grandi crisi – in cornici animate, figlie dell'Educazione Artistica del titolo che, come dice la band, è "La materia che alle scuole medie doveva servire proprio a […] imparare le regole-base della comunicazione. Saper capire e comunicare". Un progetto ambizioso, che riesce nella difficile impresa di far sorridere, arrabbiare, commuovere, pensare e, forse, persino ballare alla vecchia maniera: "cheek to cheek", ma con
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seguendo soltanto la propria attitudine al cinismo dissociato, alla pulsione ormonale senza garbo, al pezzo cotto e mangiato, dei limiti tecnici come calligrafia di colpi al cuore, Fiumani sembra rendersi conto di avercela fatta, d'avere raggiunto cioè lo status di icona del rock alternativo italiano. E che, legittimamente, decida di passare all'incasso. In questo disco Fiumani sembra fare il Fiumani come mai prima. Per la prima volta cioè si ha la sensazione che la baracca Diaframma potrebbe pure andarsene in pensione, che Fiumani potrebbe smetterla di nascondercisi. Il primo indizio arriva dal fatto che le migliori notizie giungano dal versante sonoro, più curato e ricercato rispetto ai suoi standard (ci voleva poco), cui contribuisce non poco il talentaccio al sax di Enrico Gabrielli. Mentre per quanto riguarda le canzoni, sembrano più che altro impegnate a definire la dimensione del "fiumanesimo", un impasto di sdegnosa fierezza e contro-nostalgia sferzante, vedi il caso di Ho fondato un gruppo, Hell's Angel, Il suono che non c'è e soprattutto lo zombie dark-wave di Infelicità. Ovviamente non mancano i proverbiali dissidi sentimentali pennellati con disincanto diluito di sordidezza (Claudia mi dice, L'uomo di sfiducia), capaci d'amblé di illanguidirsi in un tormento struggente e battagliero (Luglio 2010), ma il quadro nel suo complesso suona come un autoritratto d'artista abbastanza autoindulgente. Idea rafforzata dalla presenza-tributo da parte di ospiti quali Alex Spalk dei Pankow e Marcello Michelotti dei Neon, cui fa da ideale contrappeso Max Collini degli Offlaga, quasi a certificare il ruolo di ponte tra generazioni diversamente poprockettare. Alla fine è comunque un album che – al netto di una raffazzonatissima Ottovolante, dedicata a Piero Pelù – mette in fila canzoni anche azzeccate, di cui alcune annoverabili tra le più
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Genere: post-rock L'equinozio della meditazione? O quello del superamento di un ciclo vitale? Poco importa scoprire cosa abbia ispirato i Julie's ad approfondire lo sguardo sull'Ashram Equinox che sin dal titolo rimanda a tempi e dimensioni "altre". Poco importa, perché questo lavoro è sia un deciso invito alla meditazione, al romitaggio psichico, all'isolamento per il godimento, sia la testimonianza di un passaggio nella vita ormai lunga ma mai stanca, della formazione italiana. La rinuncia alle parole in favore di uno svolgimento solo strumentale non è afona abdicazione, quanto dimostrazione di una (tra le tante) possibilità che il quintetto può mettere sul piatto, pronta a riutilizzare le voci (poche, in realtà) come strumento che si aggiunga al fluire ora cosmico, ora psichedelico, sempre trascinante e coinvolgente delle composizioni. L'accento sulla dimensione cosmica riprende e amplia il discorso portato a vette di eccellenza per equilibrio e costanza nel precedente Our Secret Ceremony. Ora, una volta presa coscienza dei propri mezzi, la cerimonia è aperta a tutti e tutti coloro che si sentano pronti, con l'orecchio predisposto e ricettivo, sono invitati a questa celebrazione di suoni kraut-lisergici virati jazz, etno, arty, elettronica e minimalismo con scioltezza ed eleganza. Con osservanza e leggerezza. Una leggerezza trascinante ed evocativa che si svolge con accenti ipnotici creati dal massiccio uso dell'elettronica (Johin) o con un romanticismo velato e (tra)sognante (Tarazed), straniante e alieno (Han: qualcuno ha già dialogato in musica con forme di vita extraterrestri?). Una osservanza che si fa coinvolgente sempre attraverso la ri-creazione di stilemi "alla tedesca" ma con una sensibilità calda e trascinante (Sator, Taotie) o austera e mefitica (Equinox). E una coerenza teorica di fondo – i video dedicati, lo sfasamento percettivo dell'artwork, l'immaginario "altro" evocato dall'insieme – che ce li mostra per l'ennesima volta come una delle migliori esperienze italiane e non solo. 7.5/10 Stefano Pifferi
parole e immagini nuove e ben pensate. 7/10 Enrica Selvini
Four Tet - Beautiful Rewind (Text Records,2013) Genere: elettronica Il post sul sito ufficiale il 22 luglio 2013 con i dettagli dell'album (sito peraltro non aggiornato da allora a oggi, se non nella sezione live); la
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scritta in calce TEXT025, la label di proprietà dello stesso Kieran dal 2001 ai tempi della postrock band Fridge; i due streaming dati in pasto sul canonico Soundcloud personale, Kool FM del 30 luglio e Parallel Jalebi il 16 settembre; la data di uscita, nascosta fino all'ultimo quando, il giorno precedente, su Boomkat appare il giorno della release (3 ottobre); il full streaming che appare sempre sul popolare portale e ci rimane per un giorno intero svelando a tutti,
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Julie's Haircut - Ashram Equinox (Santeria,2013)
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accorga, Four Tet tocca tante corde: non molla i riguardi né per un drumming percosso (Aerial), né per un'ambient innamorata di minimalismo (Crush), viaggi Warp, sapori new age ibizenchi (Ba Teaches Yoga), come del resto la parte più affine ai Club – più clubbista che mai – trova nuovi sbocchi nelle incursioni jungle di Kool Fm, siglando un secondo segnale d'interesse overground per queste ritmiche (occhio anche a Om Unit). La prima spia in questo senso l'avevamo ascoltata nell'ultimo Machinedrum, ed è senz'altro interessante comparare quest'album al Vapor City di Travis Stewart, entrambi lavori molto ricettivi sul presente, eppure capovolti negli intenti. Rispetto al newyorchese, in casa Kieran non vince mai la strategia, il making del prodotto now on, ma il cuore, il gioco di sintesi rielaborato secondo urgenze e traiettorie personali. Stimoli che lo portano a suonare a testa bassa pensando a musiche lontane dai riflettori anche quando il gioco tra i tagli vocali e il quattro quarti sembra facile, quasi anthemico (Bucla). E' questo che fa di Beautiful Rewind un tuffo nella memoria soltanto nella mente del suo autore, dove, certo, si possono indovinare i quando e i perché temporali (l'house, la 2 step, l'ambient, il minimalismo di Terry Riley…), ma nel quale domina un costante scarto rispetto alla citazione e al facile rimando ipertestuale. Non ultime, piccole gemme: una miniatura chiamata Unicorn, la minimal inebriante respirata in Ringer che ora è nitido origami sonoro o il finale Your Body Feels, un ricongiungimento con l'idm e una ripresa delle partiture asciutte di Kool Fm. Una conclusione enigmatica, sfuggente, aperta. Non puoi far altro che rimettere il disco da capo, riascoltarlo e scoprire nuovi dettagli, anche se poi c'è di meglio: il piacere di non aver mai nelle orecchie qualcosa che si concede completamente. E' il mistero a rendere questo lavoro terribilmente affascinan-
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senza esclusive o clamori il nuovo capitolo del Four Tet sound: un notturno, un viaggio nelle zone sensibili di presenti e passati, a testa bassa, in massima intimità, vivace pacatezza, concentrazione. Di primo acchito, più che la compattezza di There Is Love In You, la tracklist ci ricorda i broadcast di Rinse.Fm, l'ex emittente pirata che, da metà Novanta in poi, ha imposto una cultura elettronica e, non ultimo, un stile di mixing ruspante e ossessionato – e non è certo un caso che l'indiano londinese (che in India, almeno fino al 2010, non c'era ancora stato fisicamente) si sia trovato in consolle propro da quelle parti (il 6 ottobre) in un set di circa otto ore. Quella notte ha viaggiato il globo intero, ha messo di tutto, tante spezie e latitudini, ritmi tribali vs looping, caldo afoso vs asciutti sintetizzatori, Oneohtrix Point Never persino, ed è sbucato anche un inedito d'archivio composto con la leggenda, ehm, l'amico Burial / William Bevan, producer con il quale il Nostro ha condiviso la Elliott School, la passione per la 2 step, ma soprattutto una visione estremamente personale dei continuum elettronici della madrepatria. Laconico Kieran che l'estate scorsa postava sui social una cosa del tipo "Stop this Burial Thing" facendoci capire che 'sta storia dell'"I am" ha rotto e quel che importa è l'immersione nella musica, un terreno dove i due hanno molte in cose in comune anche oggi, a partire da un'indagine melodica di lungo corso. Nell'iniziale Gong sembra di sentire Untrue a Katmandu, e anche quando, in Parallel Jalebi, le parti vocali si stagliano su un armonizzatore secco e sardoniche cadenze HH, le rette dei due londoner procedono parallele. Altrove, questo soul spalmato ed affettato, porta invece dalle parti dell'ultimo Zomby e nella cascata di bit solitari di Our Navigation più che di citazione possiamo parlare di dedica. Senza che tu te ne
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te, proprio come il With Love di Zomby. 7.4/10 Edoardo Bridda
Genere: psych, post-punk L'asfissiante austerità di Mont Cc 9.0 First Act ci aveva colpiti. I Füsch! si schiantavano con veemenza delirante contro le nostre tempie, imponendo un sound corposo e psichedelico, claustrofobico, ma sorprendentemente vivo. Questo grazie a un recupero di certa post-psichedelia anni Novanta, sorretta da numi postrock o post-hardcore di tutto rispetto come Swans, Kyuss o Fugazi, che però erano dovuti passare sotto il setaccio rigoroso di una singolare originalità. L'intento di questo secondo atto (ricordiamo che Mont Cc 9.0 è una trilogia che si concluderà nella prossima primavera) è quello di rinnovare l'ispirazione con fonti differenti. Innanzitutto la scelta della location: ca' desdòcc, cascina montana immersa nella natura, la stessa che, oltre a (verosimilmente) ispirare in parte il disco, ne entra a far parte in maniera preponderante. Secondariamente: una calda estate (durante la quale hanno avuto luogo le session di registrazione), che evidentemente ammortizza e ammorbidisce certi suoni che nel lavoro precedente erano sembrati più grezzi e diretti. Mancano all'appello (diciamolo subito), dunque, i brani-suite che tanto ci avevano emozionato nel primo atto; mancano le cavalcate ruggenti (salvo sporadiche eccezioni) e i mattoni portanti che componevano l'elevatissimo muro del suono della band. Detto questo, Second Act non è un lavoro da dimenticare. Anzi. Il filo conduttore è un lontano ritorno alla natura, che tiene in piedi tutti e sette i brani, confondendosi nella struttura o lasciandosi intuire fra un brano e l'altro. Abb(agl)
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Nino Ciglio
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Füsch! - Mont cc 9.0 Secont Act (Jestrai Records,2013)
io si fa carico della difficile responsabilità di far fluire la diversità e la parziale svolta rispetto al passato. È un brano adamitico, essenziale, fatto di piccoli rumori, una sezione ritmica fondante e alcuni richiami alla musica orientale. Così Peso piuma, nella sua avvolgente e ipnotica rete stellare, non incide, si limita solo a creare l'atmosfera giusta per tornare al canto di cicale, che è come se rimanesse incastrato nell'onda radar dei synth. Bisogna aspettare Sara(') per avere indietro quell'essenza detonante che riunisce sotto lo stesso giro di accordi i Kyuss e i Sonic Youth. La voce, volutamente spinta molto in profondità, evoca e invoca propulsioni celesti. Solo Stelle – che sembra un brano dei C.S.I. più cattivi – saprà mantenere l'eleganza rituale di Sara('). Menzione speciale per Underground, che è un po' l'essenza dell'avant che milita in questa etichetta (Jestrai) da tempi non sospetti. Una compilation di suoni e rumori vastissima: si va da cancelli a porte, da soffi di vento ad animali selvaggi, da feedback di chitarra ad un'estesa gamma di metalli. E infine Signore salga in auto, il brano più pop (se così si può definire) del disco, che quasi evoca il poliziottesco anni Settanta a cui ci hanno abituato i Calibro 35. In attesa del terzo atto, non ci resta che constatare che Mont Cc 9.0 Second Act è un disco incompleto, ma funzionale. Ogni cosa è al suo posto, anche quando sembra calare vertiginosamente. Ogni silenzio è propedeutico alle rare (ma forse per questo più preziose) esplosioni, anche se – è dura ammetterlo – è difficile vivere senza. Solo questo fa di Second Act un lavoro un gradino sotto rispetto al disco precedente. 6.9/10
Genere: ambient, techno, elettronica Prima o poi Detroit chiama. Specie se sei una persona ansiosa nell'epoca della sovraesposizione mediatica. In particolar modo se The Wire mette il tuo Quarantine come album dell'anno e nel web tutti parlano di te senza sentire il bisogno di interpellarti. Lo sanno meglio di noi quelli della suddetta rivista britannica, che le hanno dedicato uno speciale (e la copertina del numero di novembre #357) disegnandole un imprescindibile ritratto dal quale è necessario partire. Laurel Halo è un personaggio fragile, tipicamente escapista nell'approccio alla musica e anche un tantino paranoico, diffidente – in special modo della comunicazione digitale – eppure così emblematico dell'epoca in cui viviamo. Impossible non rimanerne affascinati o non trovare in lei qualcosa di noi. Il pre- è presto detto e anche un po' banale. La ragazza abita a quaranta minuti da Detroit, cresce a Royal Oak (poi Ann Arbor) ascoltando la discografia dei genitori tra Motown e Steve Wonder, Joni Mitchell e i Police, imparando prima il piano, poi il violino e la chitarra. Si laurea alla School Of Music del Michigan e, conclusi gli studi, rigetta le convenzioni per bazzicare tante strade senza rimanere incollata a nessuna. Arriva così ad affermare una non-identità musicale contro ogni brandizzazione artistica. Facilmente catalogabile in questo o in quel microtrend, la sua produzione è leftfieldiana per eccellenza ma sempre caratterizzata da un riconoscibile livello d'incertezza e di confortante arrendevolezza. Sia che la si ascolti alle prese con il pop sintetico – un po' folk magico e un po' hypnagogicamente 80s – di King Felix (dentro c'è anche un drone del Daniel Lopatin), sia che faccia dell'ambient con Antenna Cassette su NNA Tapes (in verità, una rielabortazione di materiale del 2006), del layering alla Oneohtrix Point Never con tastiere 70s e altre fascinazioni psych (Hour Logic) o del (semi) free form annegato nel Blemish di Sylvian o in fascinazioni da Club, la sua musica ha dentro una costante d'inadeguatezza. Così Detroit è arrivata in soccorso. E Laurel (da New York) ha accolto la missiva. Chance Of Rain, anticipato dall'EP Behind The Green Door che The Wire definisce correttamente house disfunzionale, è un liberatorio tuffo nelle improvvisazioni ritmiche dei suoi set, dove finalmente tutto, anche la sessualità, è sublimato. L'impro è incanalta su 4/4 di mentalità techno con sporadci smalti del jazz che la ragazza ha respirato immediatamente dopo l'Università all'epoca in cui suonava in ensemble di 25 elementi. In pezzi come Oneiroi sentirla premere ossessivamente svariati pulsanti hardware su un groove minimale e field recording è liberatorio, così come lo è un album che riesce a trasmettere una nitida sensazione di planata giusto al di sotto dei riflettori della società controllata. Ci trovi – e tocchi quasi con mano – le fascinazioni futuriste della techno (e dunque per la matrix internettara), ma allo stesso tempo hai la sensazione di eluderle. Serendip, con quel tamburellare su cassa à la Plastikman, vintagistiche visioni sci-fi e tocco Carl Craig, ne è la perfetta traduzione, mentre Chance Of Rain si serve di languido jazz per sabotare quella che potrebbe essere una moderna e ben cesellata produzione techno dub.
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Laurel Halo - Chance Of Rain (Hyperdub Records,2013)
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Per Halo la techno può rimuovere ogni problema personale, ma la sua musica viene sempre servita cucinata a metà. E' una "forza meditativa che può processare l'oscurità", racconta sempre a The Wire, ma il motivo all'oboe di Melt è pronto a ricordarci che l'utopia non è cosa terrena, così come fa l'intermezzo Still/Dromos, un altro di quei brani instabili tipici della musicista (un missato che la riporta anche nell'alveo di due numi tutelari come Ferraro e Lopatin). Ainnome, in conclusione, affonda i piedi a Chicago, in una moviola di psichedeliche ebrezze. Un'ultima pennata prima dell'outro al piano in punta di piedi. Chance Of Rain è uno di quegli album che stimolano valutazioni distinte, profilate secondo plausibili punti di vista. Anche per Quarantine era così. Qui ne scegliamo uno basato sulla bontà di una techno d'autore che produce un trasposto diretto, visionario, e non ultima una comunione spirituale con Laurel Halo …umana dopotutto. 7.4/10
Gianluca Becuzzi - Dust Tears And Clouds (Silentes,2013) Genere: avant, elettroacustica "In the name and spirit of Alan Lomax", tornano a unire le forze due tra i migliori scultori di suoni italiani. Non contiamo più le occasioni in cui il toscano e il tarantino-berlinese hanno (bellamente) incrociato le armi, ma per questo doppio CD sembra abbiano riservato il loro meglio. Dust Tears And Clouds è costituito da due dischi: Dust Tears And Skinny Legs Poets colleziona registrazioni risalenti al 2007 e contigue a Muddy Seaking Ghosts Throught My Machines, mentre Please Don't Count The Clouds riesuma una pubblicazione semicarbonara e limitata in triplo CDR 3" uscita per Foxglove nello stesso anno delle suddette registrazioni e implementata di una traccia condivisa. Nel caso di Dust Tears…, è il fantasma Lomaxiano ad agitare i sonni dei due e il risultato non lesina in suggestivi rimandi ad epoche passate – le voci, e non solo, rubate all'etnomusicologo e al folk americano ancestrale – misti ad una sapiente ricollocazione di quelle me-
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morie afasiche in un flusso a volte eterogeneo, ma sempre elaborato con eleganza, gusto per la misura e perfezione formale. Le spettrali reminiscenze dal sapore pre-war folk si uniscono, in questo senso, alle elaborazioni elettroacustiche del duo creando non una sfasatura, quanto un'ideale concatenazione tra mondi in apparenza distanti cronologicamente e ideologicamente. Esemplari, in tal senso, Trail Not Found, un country blues che sa di polverosi giri di grammofono pronto a trasfigurarsi in un elegiaco fluire di arpeggi e fruscii elettronici, la sognante Sometimes At The Beginning, retta da un voce femminile di cristallina bellezza o More Horizon – One, sospesa tra evanescenti e fantasmatiche presenze e malinconica ambient che risale dagli abissi del passato. Su registri diversi il bonus CD Please Don't Count…, mosso da distese di suoni più marcatamente "moderni" e privi delle suggestioni alla Lomax: un pezzo per uno – Deep Green Dreamer per Becuzzi, un quarto d'ora di ambient pacificata ed estatica; At Last As Naked Clouds, stratificazioni minimali in apparente stasi, per Orsi – ed uno condiviso (Lost) più, in aggiunta,
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Found, pièce sempre a quattro mani e limitrofa, per atmosfere e ascendenza, alla citata Lost. Facile derubricare questo doppio al livello del solito lavoro collaborativo fra i due; molto più complesse le rivendicazioni sonore e la resa finale dell'archeologia (post)lomaxiana che ha sempre contrassegnato le esperienze in duo rispetto al panorama contemporaneo, che ce li mostra fini ideologi di un fare musica globale e privo di connotazioni temporali. 7.2/10 Stefano Pifferi
Genere: cantautori, rock, wave Giudicare il secondo episodio discografico della fiorentina d'adozione Giorgia del Mese leggendolo solo attraverso i nomi dei musicisti chiamati a collaborare, sarebbe quantomeno riduttivo. Se è vero infatti che Alessio Lega, Alberto Mariotti (Samuel Katarro, King Of The Opera), Fausto Mesolella e Paolo Benvegnù nobilitano il retaggio del disco con il loro contributo – soprattutto quest'ultimo, al cui stile Di cosa parliamo deve molto per certi echi wave delle chitarre e, in generale, per le atmosfere -, è vero anche che la sostanza dell'album è tutta farina del sacco della padrona di casa, coadiuvata dall'ottimo lavoro in termini di produzione, scrittura e apporto strumentale di Andrea Franchi. Melodia ed energia, rock e cantautorato, una voce mascolina che in certi frangenti ricorda quasi la Mia Martini più ruvida (decontestualizzata, va da sé) ma soprattutto testi: un flusso inarrestabile, profondo e perfettamente regolamentato, in cui cogliere certe ripetitività mantriche targate CCCP/CSI (del resto il buon Ferretti è citato in Alla rovescia), complessità melodico-semantiche rubate al cantautorato nostrano anni Settanta (in Agosto si coglie ad-
Fabrizio Zampighi
Glasser - Interiors (True Panther,2013) Genere: pop, art, synthpop, dream, electro Difficile non appassionarti di musica quando tuo padre fa parte dei Blue Man Group - eccentrico gruppo teatrale dedito al perfezionamento di arti sceniche e avanguardistiche con l'uso di musica sperimentale – e tua madre è leader degli Human Sexual Response. Come poteva Cameron Mesirow, in arte Glasser, imboccare una strada diversa? Quasi impossibile e così, dopo l'uscita dell'EP Apply (2009), giunge l'ora del primo LP, Ring. L'esordio è promettente, all'insegna di sonorità tropicali unite ad atmosfere dreamy cosparse da invitante electro-pop. Interiors, ispirato dall'attacco dell'architetto Rem Koolhaas al programma urbanistico della metropoli di New York (contenuto nel libro Delirious New York), riflette la necessità che ha Cameron di dare credito anche all'aspetto visivo dell'arte e alla ricerca del contatto tra spazi interni ed esterni, tra suono e immagine,
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Giorgia del Mese - Di cosa parliamo (Radici Music,2013)
dirittura qualche cadenza del Renato Zero migliore) e un approccio indipendente da mode e accessori che sembra rimandare direttamente ai Novanta rock del Bel Paese. Personalità da vendere, insomma, e soprattutto sostanza, in un lavoro che finisce per essere una sorta di concept sugli anni tragici che stiamo attraversando, senza per questo cedere alla retorica o alle facili invettive. Tutto è più ispirato, teso ed elettrico rispetto all'esordio del 2011 Sto bene, oltre che nelle corde di una musicista capace di suonare diretta ma non ordinaria, riconoscibile ma non banale. Ci sarebbe poi da sottolineare l'impressionante facilità con cui i dieci brani del disco ti si piantano nel cervello, ma questa è un'altra storia. Comunque, brava. 7/10
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Genere: jazz "Mississippi is a beautiful place, Mississippi is a beautiful place" si sente ripetere verso la fine del disco da una voce femminile, come fosse un mantra distante. E un mantra lo è, eccome. È quello del blues delle origini, quello del Delta che, come i rivoli del fiume che attraversa longitudinalmente gli Stati Uniti, si allarga a dismisura fuori dal tempo e dallo spazio, per accogliere adepti come la qui presente Matana Roberts. Autrice dello splendido Les Gens De Couleurs Libres e musicista del giro (anche) Godspeed…, per questo secondo appuntamento con la serie Coin Coin la Nostra riduce il personale e sposta il luogo di registrazione, quasi a voler significare una maggiore attenzione alla materia musicale. Non più multiforme ed eterogenea big band ma formazione a sei – sono della partita, oltre al sax, voce e direzione di Matana stessa, Jason Palmer (tromba, voce), Thompson Kneeland (contrabbasso, voce), Jeremiah Abiah (voce tenore d'opera), Shoko Nagai (piano, voce) e Tomas Fujiwara (batteria, voce) – e trasferimento in quel di NYC, per un lavoro meno irruento e spiazzante rispetto al citato volume 1, ma altrettanto incastrato dentro una sorta di rievocazione/riedizione del blues delle origini a uso e consumo di tutti i tempi. C'è infatti nel flusso ininterrotto delle 18 tracce di Mississippi Moonchile la stessa forza evocatrice di un canto distante nel tempo ma immediatamente riconoscibile, come un canto dell'animo intento a celebrare un luogo specifico della memoria collettiva – in questo episodio meno esplosivo e molto più vario nella resa sonora (funereo, orgiastico e colorato alla New Orleans, soffuso e sensuale, sofferto e dignitoso, ecc) – inserito in una mappatura più ampia che durerà lo spazio dei 10 album previsti. Un lavoro che è, dunque, un luogo della mente in cui convivono le influenze stilistiche dichiarate – Roscoe Mitchel, Henry Threadgrill, Anthony Braxton, tra le altre – ma che è anche luogo fisico, tangibile, carnale nelle sue movenze vitali, da cui si muove un feeling totale e totalizzante di matrice avant-jazz capace di catturare l'attenzione di chiunque vi si ponga all'ascolto, qualunque sia il suo background e la sua conoscenza musicale. È, dopotutto, la memoria il vero fulcro narrativo dell'opera e gli spoken word selezionati così come i riadattamenti dei traditional folk (Benediction, River Ruby Dues, Woman Red Racked) – per non dire delle capacità di personalizzazione di un bagaglio musicale "nero" e bluesy onnivoro e mai scontato – ne sono esempio tangibile. È uno scavo nella Storia personale e collettiva, nella cultura "nera" ma anche in quella musicale di tutti noi. Matana Roberts, che questo principio l'ha anche nel nome di battesimo, ce ne fa dono con un secondo lavoro se possibile ancor più intenso del precedente. 7.5/10 Stefano Pifferi
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Matana Roberts - Coin Coin Chapter Two: Mississippi Moonchile (Constellation Records,2013)
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tivo di proporre un disco personale e sensuale e ha pienamente centrato il bersaglio. Il primo importante giro di boa della carriera affrontato senza paure, che alla fine diventa una conferma piacevolissima e uno dei lavori più interessanti dell'anno. 7.4/10 Daniele Rigoli
Green Like July - Build a Fire (La Tempesta International,2013) Genere: indie Nove brani freschi, leggeri, figli di un pop dai contorni british che spazia agevolmente tra echi anni '60 e suggestioni indie puramente Nineties: questo il cuore di un'opera, la terza sulla lunga distanza in casa Green Like July, che emoziona e segna una svolta nel percorso della band. Nuova formazione, nuova casa discografica (La Tempesta di Enrico Molteni) e un piccolo passo a prendere le distanze dagli idilli bucolici del pur pregevole Four Legged Fortune (Ghost Records, 2011), per quanto lo scarto maggiore col recente passato sembri essere soprattutto figlio del contributo agli arrangiamenti di Enrico Gabrielli (Calibro 35, Afterhours). Registrato da A.J. Mogis negli ARC Studios di Omaha (Nebraska), nel cuore degli States, Build A Fire risente, sin dall'overture Moving To The City, delle atmosfere Brit – o, in questo caso, scozzesi – dei Belle and Sebastian di Fold Your Hands Child, You Walk Like a Peasant, con un uso della voce molto vicino ai Gorky's Zygotic Mynci di Euros Childs. Nulla di nuovo sotto il sole dunque, per quanto la compagine guidata da Andrea Poggio riesca nell'intento di confezionare un album delicato, piacevole, capace di muoversi con disinvoltura tra presente e passato; un esempio su tutti è la contagiosa Borrowed Time, piccola perla in bilico tra primi Beatles, Beach Boys e riff
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tendenza confermata dalla collaborazione con l'artista Jonathan Turner, artefice di copertina, video e foto dell'opera. Ci troviamo davanti a un lavoro meditato, che formula una comunicazione più profonda e ragionata. L'essenza espressa con la forma. Ciò che colpisce più di qualunque altra cosa è la voce di Glasser, simile a quella di Björk. Una voce multiforme e allo stesso tempo sognante ed estatica, perno su cui Interiors si basa tutto. Dal genio islandese (soprattutto periodo Vespertine), la Mesirow ha saputo trarre insegnamenti e linfa vitale: il bisogno è quello di creare geometrie complesse, ma anche lineari. Via i battiti tribali ed esotici per far spazio a leggeri e morbidi synth accompagnati da fredde pulsazioni (il primo singolo Shape) o intervallati da suite bucoliche e incantate (Window I, Window II, Window III). Keam Theme – con i suoi echi Bat For Lashes – è l'unica traccia ballabile, seppur non pensata propriamente per il dancefloor, mentre Dissect ci prende delicatamente per mano verso orizzonti lontani, con un controcanto soffice e ondeggiante. La mano del produttore svedese Van Rivers, presente anche nell'esordio, si fa sentire con le sue introduzioni techno, soprattutto durante la teutonica e glaciale Forge e nelle eleganti architetture orchestrali di Design. Il suo ruolo nella costruzione dell'album è stato "quello di un architetto", come affermato dall'artista stessa, coinvolto anche nella fase del mixaggio curata da Jamie XX e Lindstrom. Il ritmo minimale ed emotivo dell'elettronica crea un solco di malinconia (dovuto anche al percorso vitale dell'artista, che nei tre anni passati dall'esordio in studio ha affrontato la brusca interruzione di una relazione, trasferendosi da Los Angeles a Manhattan), a comporre un'opera notturna, intima e senza increspature. Complicato trovare punti deboli in questo secondo lavoro: Glasser aveva l'obiet-
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Genere: rock, avant, post-rock, folk L'equivoco secondo il quale il post-rock sarebbe (stato) un genere ha provocato negli anni passati non pochi imbarazzi in sede critica e quel che è peggio una caterva di brutti dischi. Il post-rock come sentimento, chiave espressiva, punto di osservazione che mette in crisi le coordinate consuete, le sicumere formali in cui il rock si andava impatanando, ebbe invece un senso fortissimo per i suoi tempi ed ha lasciato segni profondi in molto di ciò che è venuto dopo. Uno che ha metabolizzato con più intensità questo messaggio è senz'altro Mick Turner, una gamba degli autorevoli australiani Dirty Three, personalità versatile (chitarrista, autore, pittore…) con una quantità innumerevole di collaborazioni e progetti paralleli, giunto col presente Don't Tell The Driver al titolo numero quattro a proprio nome (ben dieci anni dopo Moth). Album presentato in cartellina stampa con toni piuttosto altisonanti, addirittura come "il Sergeant Pepper di Mick Turner", oppure "la prima post-rock rock opera", ed è ovviamente solo rumore mediatico, anche se un fondo di verità non manca. E', come dire, un disco diversamente imponente, undici pezzi ad alto indice d'intensità uniti da un filo meno narrativo che emotivo. Il racconto di come quell'apprensione epocale che produsse la stagione del post- non si è affatto dissolta ma ha attraversato gli anni e la musica sviluppando una latenza inestinguibile, che riaffiora appieno quando si verificano le condizioni giuste. Ed è questo il caso: calligrafia folk blues che intarsia spersa e profonda su uno sfondo friabile jazzy, un plotoncino di amici/collaboratori tra cui la notevole vocalist Caroline Kennedy-McCraken (già nei Deadstar, oggi nei Caroline No) ed il baritono alieno Oliver Mann, quindi piano, organi, organetti, ottoni, violoncello ed uno stormo imprevedibile di percussioni a comporre una trama cinematica e terrigna, progressiva e arcaica. Tutto un pennellare tepori legnosi e trasporto apolide, folate calde di apprensione e nostalgia, traiettorie sghembe e incanti ingannevoli, componendo un quadro di spaesamento e afflizioni contemporanee che schianta il diaframma tra tradizione e futuribile e nel quale trova spazio il conforto della pietas, di un ultimo rifugio ancora possibile grazie al manifestarsi strenuo della bellezza. Quel che resta del post-rock è quindi il post-rock tutto intero, ed è ancora quella stessa crepa in cui guardare, con la stessa capacità di restituirti lo sguardo e ammalarti l'anima di agrodolce sconcerto. 7.6/10 Stefano Solventi
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Mick Turner - Don't Tell The Driver (Drag City,2013)
loureediani. Un disco, questo Build A Fire, che affronta il tema del cambiamento attraverso nove episodi di pop orecchiabile eppure mai banale, dotati di un'intelligenza e una classe che non meritano di passare inosservate. 7.1/10 Enrica Selvini
Genere: dubstep, rnb, elettronica Nel 2009 si faceva un gran parlar di loro in UK. La legacy di tre ragazzi di Bristol cresciuti sotto l'ala di Pinch e additati da molti come la next big thing in fatto di dubstep e grime, o meglio post- tali. Joker era il genietto della situazione, oltre al più giovane del lotto e di gran lunga il più famoso (già aveva remissato gente grossa come Simian Mobile Disco e Roni Size). Quell'anno faceva vent'anni ma secondo quanto ci ha raccontato Rob Ellis in una recente intervista, è probabile che ne avesse anche meno. Ed era stato lui a coniare il nome per la sua musica, il purple sound, uno stile che si era presto configurato come genere con tanto di varianti Wow e funk, qualcosa di identitario che lo distingueva dai movimenti losangelini o dalla stessa scena dubstep. In pratica, al posto dei drop e dei ritmi, dominava il sintetizzatore, magari su felpate sincopi HH, con la melodia comunque protagonista. Guy Middleton – nome d'arte Guido, allora 21 anni – e Jemal Philips – ovvero Gemmy, di 23 anni – erano di fatto figli suoi, e tutti vivevano nel mito dell'epoca d'oro della 2 step. Per farla breve, se Joker è arrivato all'esordio lungo sulla coda del successo dei Magnetic Man imbrogliandosi con la sua stessa Vision (storia che si ripeterà con i se e i ma del caso nel Chapter II di Benga), e Gemmy, dopo la parentesi con Planet Mu, è rimasto comunque
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Guido - Moods Of Future Joy (Tectonic,2013)
sempre in penombra legato ai 12" e in derivata rispetto a lui (peccato), Guido era ed è il vero romantico white lad da cameretta della combriccola. Nella girandola di tendenze synth 80s (Space Dimension Controller), videogame (Ikonika), hip hop (Hudson Mohawke) o giocosamente massimaliste (Rustie), lui rimane quello che compone i brani a casa con piano e tastiere, ancor prima di toccare Mac e Protools. Il suo atteggiamento non cambierà negli anni, anche dopo le lodi sperticate tessute sia da Pitchfork che da Resident Advisor per l'esordio lungo Anidea, nel 2010. La conferma della serenità di questa scelta arriva con la seconda prova lunga pubblicata sulla Tectonic del fido Pinch, un lavoro che arriva dopo quattro uscite in 12" minori ma di pregio (in particolare Micro X / Vessel Dogs) e altrettanti mix per le solite testate web specializzate. Forte delle generose soulful ballad con EmmaLou al canto (Green Eyed Monster e Letting Go sono), l'album si piazza sugli stessi binari del precedente e già basterebbero le fanfare Joker style ben posizionate in contrappunto (NRG, Squeaky Jungle) o le riletture di fino di 2 step per apprezzarne il più che buon cesello produttivo e la maturazione artistica (Green Eyed Monster, Lucky Git, l'omaggio agli Artful Dodger di Heartful Dodger). Guido però sul disco ci ha lavorato parecchio e dettagli e piccole sorprese non mancano, specie nella seconda metà della scaletta. Nulla che abbia appesantito beninteso: sbucano tocchi minimalisti, umbratilità The Streets (ancora NRG), fascinazioni africane ben asciugate al sole (Midnight Savannah) e poi c'è, Kalm, un'acquerello emozionale che richiama alla mente certo Aphex Twin metà Novanta, un ottimo brano davvero in un album vario e colorato proprio come da miglior tradizione Purple. Lontano o vicino dall'hype (Afrika se vogliamo unico brano aggiornato alle trattorie late 80s e
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Genere: rock, grunge Dopo la ristampa per il ventennale di Nevermind, la Geffen ha di nuovo assortito una reissue in grande stile. Anche qui c'è da sbizzarrirsi tra CD rimasterizzato, doppio CD con bonus, triplo vinile e cofanetto deluxe con CD originale rimasterizzato con bonus, un mix tutto nuovo di Steve Albini (più vicino alla sua versione del disco rispetto al prodotto finale masterizzato da Bob Ludwig) e il CD audio e il DVD con extra del concerto per MTV Live and Loud. Pubblicato ufficialmente il 16 settembre 1993, In Utero è diventato a sei mesi dall'uscita il disco maledetto, quello che tutti vedono con il senno di poi. Certo i segnali per chi lo vuole leggere in questo modo non mancano, in un album che doveva chiamarsi I Hate Myself and I Want to Die (e il brano omonimo compare anche nei bonus del primo CD). Noi preferiremmo raccontare un'altra storia, quella di una band che ha cercato, quasi disperatamente, di ritornare alle proprie radici. Per parlare di In Utero bisogna partire necessariamente da Nevermind, dalla produzione di Butch Vig e soprattutto dal mixaggio di Andy Wallace: double tracking delle voci, riverbero digitale della batteria, effetti stereofonici creati raddoppiando e ritardando le chitarre, sono tutti elementi che hanno contribuito all'equilibrio epocale di quell'album manifesto e al suo incredibile e inaspettato successo. Decisi a ricostruirsi una credibilità da vera band alternativa con un (punk) rock basico, onesto e personale, i Nirvana registrano In Utero in presa diretta in due settimane, con pochissime sovraincisioni e con la voce di Kurt al naturale, e forse per questo ancora più bella e disarmante; l'intenzione è di mettere alla prova chi li segue e recuperare una dimensione più vicina all'indie rock. Non è un caso se In Utero suona molto più simile a Bleach che al suo predecessore multiplatino, a partire dalla scelta di un produttore la cui filosofia di base somigliava a quella di Jack Endino: registrazioni veloci e a basso costo, nessun vezzo da Pigmalione ma un approccio documentaristico reso sinteticamente nell'espressione recorded by, quella che sia Albini sia Endino sono soliti usare per indicare il proprio ruolo nei dischi, senza parlare di produzione. Jack Endino era stato coinvolto in fase preliminare, per le registrazioni ai Word of Mouth Studios di Seattle dell'ottobre 1992, documentate dai demo strumentali presenti nel CD 2: già allora la band cercava un suono di batteria alla Albini, naturale e crudo, senza effetti, come sarebbe stato il disco registrato con l'ex Big Black. Certo se l'idea dei Nirvana di In Utero è di un disco punk, è abbastanza elastica da abbracciare il rock and roll viscerale e rumorista di Very Ape e Radio Friendly Unit Shifter, l'hardcore di Tourette's e l'hard rock di Serve the Servants e Frances Farmer Will Have Her Revenge on Seattle; o la specialità del trio, che rimangono le canzoni melodiche in cui la band lavora sui contrasti di distorsione e dinamica: Heart-Shaped Box, Rape Me e Pennyroyal Tea. Come dimostrano l'idea di new wave sperimentale, aggressiva e strana di Milk It o le bordate al vetriolo di Scentless Apprentice, celando in tutti e due i casi un forte retrogusto blues, è merito dei Nirvana aver saputo mescolare il punk e il rock classico, i Sonic Youth con i Black Sabbath, i Pixies e i Beatles. Qui stanno la loro forza e la loro originalità.
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Nirvana - In Utero Super Deluxe Edition (Geffen,2013)
Che il trio giocasse ormai su un'altra dimensione rispetto alle band indipendenti è però evidente ascoltando i due mixaggi scartati di Albini con quelli di Scott Litt, effettuati su pressione dell'entourage e della casa discografica, ma anche nella convinzione della stessa band che almeno Heart-Shaped Box e All Apologies avessero bisogno di alcuni ritocchi. In Heart-Shaped Box Litt ha compresso il suono, alzato il volume complessivo e anche il livello della voce, con l'aggiunta di riverbero e di una nuova registrazione usata come backing track; Albini aveva tenuto la voce al livello degli strumenti e un pesante effetto tremolo sull'assolo di chitarra. Questioni di dettagli, ma su cui si è giocata la partita di un successo mainstream provvidenziale per molti versi e deleterio per tutto il resto. Con le ristampe di oggi si può ricostruire la propria versione preferita dei Nirvana mixati in toto da Butch Vig e Steve Albini. Perché le canzoni rimangono le stesse, bellissime, e con altri suoni si può forse immaginare un finale diverso di tutta la storia. 8.5/10
nu disco), Guido sente il proprio battito e traccia un percorso tutto in coerenza. Suonare allo stesso tempo freschi e scafati alla sua età non è di poco conto. Bravo. 7.1/10 Edoardo Bridda
Heavenly Beat - Prominence (Captured Tracks,2013) Genere: dance-pop, 80s, dream Prominence è il secondo atto del progetto solista di John Peña, ex bassista dei Beach Fossils, e segue il bell'esordio Talent del 2012, passato forse ingiustamente un po' in sordina anche per via del livello altissimo delle contestuali altre uscite Captured Tracks dello scorso anno (si vedano Wild Nothing, DIIV e Mac DeMarco fra gli altri). Registrato nello stesso identico appartamento del predecessore, è il risultato di una selezione quasi maniacale che ha comportato la precedente eliminazione di un intero album fatto e finito perché non considerato, dallo stesso Peña, sufficientemente intenso a livello emotivo. Questo atteggiamento quasi perfezionistico e l'incessante cura
per il dettaglio si riflettono anche all'interno dei pezzi, un concentrato di strati e sovrapposizioni posizionati ognuno al posto giusto e nel momento giusto, mantenendo uno standard di pulizia del suono quasi cristallino. Pop songs affogate nei riverberi con il falsetto di Peña che si muove languido e caldo su tappeti di synth ariosi e scintillanti ed un'estetica dreamy con la costante della tropical vibe. L'autunno inoltrato della data d'uscita è difatti quanto mai fuorviante, se associato alle coordinate lungo cui si sviluppa questo insieme irresistibile di melodie pop: balearic nel senso più puro del termine e costante malinconia per le assolate giornate estive appena trascorse. Lenghts e Complete – il primo singolo – disegnano da subito immagini coi suoni, catapultandoci, sulla scia di chitarre caldissime e morbide basslines, all'interno di ville sull'oceano svegliati solo dal rumore dei gabbiani in lontananza. Il mood è molto simile a quel che era già emerso in Talent lo scorso anno ma, laddove il risultato appariva talvolta ancora incompleto ed acerbo, ora il lavoro ossessivo di Peña sembra trovare il compimento definitivo in questo
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Tommaso Iannini
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Genere: psych, progmetal, blackmetal Sono i demoni arancioni, gli Oranssi Pazuzu. Vi chiedete perché arancioni? Arancioni perché il quintetto finnico nato tra le foreste del black metal tratta la materia a 360 gradi mescolando tinte e colori, aiutato nel compito da casa Svart, che rimane una delle etichette più intraprendenti nel declinare il verbo black in tutte le sue variabili – dai drone di Sink al folk degli Hexvessel. Non è una novità l'approccio interdisciplinare, perché fin dagli esordi i cinque hanno abbozzando intrecci psych-prog-black che si discostavano dalla tendenze Sunn O))) eggianti del momento, preferendo invece mettere le mani sul prog metal 80s dei Queensrÿche. Con Valonielu però, terzo album in studio, la faccenda diventa pressoché perfetta. Un lavoro studiato nei minimi dettagli, equilibrato nel minutaggio e nello scorrere delle tracce, capace di rivelare le proprie sfaccettature poco alla volta, anche grazie alla sapiente regia di Jaimie Arellano (già con gli Ulver) in fase di produzione. Il menù è vario e composto da derive psichedeliche, tastiere space rock, riffoni sludge, cavalcate prog, sulle quali aleggia una coltre nera che richiama i maestri Darkthrone, perché in fondo rimangono loro la bussola con la quale orientarsi, anche nel cantato growl (rigorosamente in finlandese) che offre ampi squarci di disperazione. Ma è un magma tra le cui pieghe si possono immergere i feticisti del genere come un pubblico altro, che trova soluzioni inaspettate come l'inquietudine tribal sci-fi di Reikä Maisemassa o lo psych sludge acido e rabbioso di Uraanisula, segno che qui le etichette non contano poi molto. Piuttosto ci troviamo di fronte alla riproposizione di alcuni esperimenti collage sul sentiero degli Electric Wizard – anche se lì il campo era metal-doom-stoner – rispecchiando lo stesso tentativo di scavalcare le barricate, di unire passato e presente senza farsi ingannare dal gioco della citazione. La missione implica saggezza e sensibilità, virtù che non mancano certo a degli Oranssi Pazuzu autori di uno dei dischi black dell'anno. 75/10 Stefano Gaz
Prominence, esempio reale e concreto di uniformità nelle scelte stilistiche e di immaginario che mantiene, allo stesso tempo, la capacità di non stancare mai. Splendidi i rimandi agli XX con slanci da dancefloor latino di Forever e i campanelli e i suoni di xilofono con annesso incantevole special di acustica in salsa caraibica di Thin, ma in definitiva è estremamente complicato andare a scegliere un brano preferito tra i nove che compongono la rapida mezzora di questo secondo
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album a firma Heavenly Beat: una raccolta di potenziali singoli all'interno di un contesto ben definito e coeso che si spera possa raccogliere più proseliti di quanti ne aveva raccolti il predecessore. 7.2/10 Marco Masoli
Holy Ghost! - Dynamics (DFA,2013) Genere: dance-pop Un secondo disco che per certi versi torna utile
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Oranssi Pazuzu - Valonielu (Svart records,2013)
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di riflesso anche Giorgio Moroder) con It Must Be The Weather. È un'uscita piacevole, che divertirà e non poco il pubblico affezionato a certe sonorità 80s. Peccato per i vocal di Frankel, non sempre all'altezza di elevare i pezzi allo standard da heavy rotation che altrimenti meriterebbero. 7/10 Luca Falzetti
Howe Gelb - The Coincidentalist (New West,2013) Genere: folk Con Tucson dello scorso anno i Giant Sand sembrano essere diventati una specie di istituzione transoceanica, reinventando il deserto dell'Arizona come un sogno iperrealista in un cinema danese e acquisendo perciò d'autorità un "Giant" in più nel nome. Quanto alla carriera solista di Howe Gelb, col qui presente The Coincidentalist prosegue su un binario più raccolto e peculiare, tornando alla ben nota poetica di felpate disarticolazioni malgrado la presenza di ospiti importanti come Will Oldham, Andrew Bird, M. Ward e della cantante scozzese KT Tunstall potesse far presagire un addomesticamento della calligrafia. Pur con metodi ed esiti meno estremi di un tempo, Gelb sembra voler rappresentare in forma di canzone il cuore della canzone stessa, proprio quella certa vibrazione ritmica, quel frugale impasto di timbri, quella decisiva modulazione di volumi, a costo di divaricare giunture e squilibrare gli arrangiamenti, mettendo all'angolo il concetto di confezione/produzione. Infine riuscendo comunque a sembrare compiuto, ben confezionato, addirittura inappuntabile, almeno nei termini del canone gelbiano, un po' come accadeva alle sghembe meraviglie di Monk o agli assolo ventrali di Neil Young. I dodici pezzi in scaletta compongono un carosello di umori errebì, cianfrusa-
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come cartina tornasole per controllare il polso della casa discografica della Grande Mela, da sempre felicemente ancorata al suo sound classico, occasionalmente pronta ad aprire le porte a qualcosa di più sinistro (Factory Floor), ma sopratutto manifestamente orfana di quell'act spiana-classifiche che gli LCD Soundsystem di James Murphy riuscivano ad essere. Ed è allora proprio la figura di quest'ultimo ad aleggiare – nuovamente – sul ritorno discografico di Nick Millhiser e Alex Frankel, musicisti che avevano già attratto parecchia attenzione e buone recensioni con il loro debutto omonimo nel 2011 e che si riconfermano una delle prime forze del dance-punk attuale. Ufficialmente Murphy ha unicamente co-prodotto il singolo Teenagers In Heat, uscito in 7" e nemmeno presente nella tracklist di Dynamics, ma la sua influenza è molto più evidente di quanto i crediti diano a vedere. Una produzione che giostra attorno a un'estetica di fondo ormai appurata, una manciata di tracce in cui gli Holy Ghost! riescono a calarsi in maniera quasi naturale nei meccanismi che facevano muovere i culi dei 2000s, impersonando alla lettera lo spirito goliardico e retrò che caratterizza l'etichetta. Percussioni secche e asciutte e synth palesemente 80s, ma anche quel songwriting nerdy che punta all'epicità, formula raffinata dagli LCD con Losing My Edge e All My Friends e che ritroviamo qui nel singolo Dumb Disco Ideas. Tutto questo ma non solo: Dynamics è più solido del predecessore per quanto riguarda i singoli episodi, ma mantiene intatte le coordinate synthpop già tracciate da Hot Chip, The Rapture e ovviamente LCD Soundsystem e che, forse, sono ormai da qualche anno sparite dal radar. Disco-nerd che prende anche pieghe più sexy con I Wanna Be Your Hand e segue passi più prettamente Warp-iani (in odore primi !!!, ma
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Stefano Solventi
I Cani - Glamour (42 records,2013) Genere: pop, indie Ci sono gruppi per cui si litiga ai tavoli dei bar, durante gli aperitivi, tra un messaggio whatsapp e un altro, nel tempo sottilmente offuscato che segue la terza birra, tra i racconti su quanto si è stanchi e quante cose ci sono da fare domani e dopodomani. I Cani sono sicuramente la band italiana che più di tutte, negli ultimi anni, ha scaldato gli animi degli ascoltatori di musica pop, dalle colonne della critica specializzata agli status di facebook per intere giornate, poi per mesi e, perfino, in qualche
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commento di strascico ancora animatissimo, a distanza di anni. Ne abbiamo parlato tantissimo anche sulle pagine di SA, cercando di analizzare il lavoro del gruppo di Niccolò Contessa – ora il nome si può dire – dall'esplosione come fenomeno mediatico da social network (I pariolini di diciott'anni), fino all'uscita de Il sorprendente album d'esordio de I Cani. Glamour arriva di sorpresa, imboccando mediaticamente la strada opposta a quella percorsa dal suo predecessore: un solo singolo di impatto nemmeno troppo violento (Non c'è niente di twee) e, a distanza di pochi giorni, l'album in streaming: nessuna anteprima, nessuna aspettativa da coltivare, nella piena consapevolezza che questo disco fosse intrinsecamente attesissimo dai fan e da quelli che, questa band, avrebbero voluto vederla inciampare su sé stessa, cadersi addosso e poi sparire. E invece no, il ritorno non tradisce chi ci aveva creduto e se da un lato tende a muoversi sulle piane già solcate dai passi precedenti, dall'altro aggiunge i giusti nuovi tasselli a un quadro che fa della lentissima composizione, la migliore caratteristica. A partire dall'Introduzione - una chiara risposta a quanti criticarono la scrittura de I Cani perché neorealisticamente aggrappata alla descrizione di un microcosmo (l'ambiente dell'indie italiano) – Contessa mette a punto un vero LP, nell'antico significato del termine. Ai ritratti che andavano a comporre il primo disco, sembrano sostituirsi diversi autoritratti, e la descrizione spietata eppure emotiva che animava quelle canzoni, pare lasciare posto a una prima persona singolare della quale, alla fine dell'ascolto, riusciamo quasi a definire, nella più classica tradizione cantautorale nostrana, le debolezze e le fragilità. Sembra dunque non sia un caso che ad aprire l'album ci sia un pezzo che ricorda gli ultimi Baustelle e a chiuderlo una ghost track al piano con voce (di Matteo Bordone) che fa pensare a qualche
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glie jazz, vapori gospel e alt-country masticato fino alla fibra, un conglomerato etereo eppure carnoso che si sfalda come tufo, sornione ma insonne (come la famosa ruggine), definito da Gelb stesso come "erosion rock". Ci sono le chitarre acidule e i coretti 60′s nell'errebì estroso di Unforgivable, il piano sparso e amniotico tra i coretti che sussurrano cremosi ed un canto da confessionale Leonard Cohen in Picacho Peak, una The 3 Deaths Of Lucky che rievoca i fasti di Chore Of Enchantment impastando sogni, sabbia e pedal steel. Poi ancora le vampe soul ed il marpionismo elettrico in Triangulate, la garbata guittezza di Vortexas (in duetto col principe Billy), il languore asprigno e cinematico della title track (col retrogusto da romanza del violino di Bird) e quella sorta di mini suite di An Extended Plane Of Existence che si consuma tra folk, errebì e languide piacionerie lo-fi. Questo disco è qualcosa, insomma, che sta tra l'istantanea e la summa, un fotogramma di transizione ma anche un ritratto definitivo: ti sconcerta e ti ammalia, ti irrita e ti incanta. Bisogna starci, con Gelb in genere le cose vanno così. 7.2/10
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zo). Non tutto convince, a partire da un singolo di lancio che si presenta come l'episodio fiacco e ragionevolmente escluso del disco precedente, o un FBYC (S f o r t u n a) esplicito omaggio ai Fine Before You Came. Allo stesso modo alcune reiterazioni di versi su momenti electro possono stancare facilmente e conferire ai brani un certo senso di svuotamento. Tutto questo, va detto, nonostante gli enormi passi avanti in termine di produzione (affidata a Enrico Fontanelli degli Offlaga Disco Pax) evidentissimi di questo secondo album: non lo avrebbe detto nessuno ma Glamour è un disco musicalmente variegato rispetto all'esordio, capace di includere elettronica, slanci punk (compresa una citazione di Gennaio dei Diaframma in Storia di un impiegato, il cui titolo preso da De André è a sua volta un'ennesima pacificazione con il cantautorato) e momenti imprevisti (San Lorenzo e la ghost track 2033) di pop e classicità. Si attendono dunque nuove ondate di prevedibile polemica. Da noi un invito: se non siete convinti di quanto si dice in questa sede, prendete i testi del disco, spegnete la musica e provate a leggere; capirete che siamo davanti a un nuovo cantautore che, dapprima mascherato, sta cominciando a scoprirsi lentamente e a metterci il volto. 7/10
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vecchio autore del Folkstudio. L'idea che ci si fa, approcciando questo secondo disco, è di trovarsi di fronte alla spettacolarizzazione di un processo di crescita tanto artistica quanto umana. Il protagonista-narratore sembra, seppure molto lentamente, abbassare l'indice del giudizio che prima era rivolto a sé stesso solo attraverso un'analisi spietata del proprio ambiente, del proprio raggio d'azione. Al posto del dito puntato, ora, ci sono micro-autoanalisi che, in alcuni casi, non faticano a commuovere. Su tutte, Vera Nabokov sembra una vera e propria canzone d'amore disperata e include i versi più belli e strazianti del disco "ricorda che mi hai promesso di andare in giro con la pistola per difendermi / e di tagliarmi la carne da mangiare nel piatto come Vera Nabokov": una richiesta d'amore viziato, è vero, ma esistono forse richieste d'amore che non lo sono? La spietatezza di Storia di un artista mescola abilmente le immagini dello stile di vita di un grande artista del passato come Piero Manzoni – i cui dati biografici sono facilmente identificabili nel testo – aggrappato alla vita borghese della propria madre, con quelle di una generazione borghese – la nostra – che si aggrappa invece a icone 'maudit' del tempo perduto senza rinunciare ad alcune abitudini del presente "Ti festeggiamo ogni anno con mostre borghesi, con le foto profilo, con le tesi di laurea. Perché a noi piacciono i dischi, le foto, i registi, i marchingegni alla moda, le muse, gli artisti, Piero Ciampi, Bianciardi, Notorius B.I.G, Pasolini e Jay-Z." E poi ancora un addio all'adolescenza che riesce a fotografare in modo nitido una forma precisa di malinconia crepuscolare (Corso Trieste) e un'idea che unisce alcune riflessioni leopardiane vagamente in bilico tra "Canto notturno di un pastore errante dell'Asia" e Il mondo di Jimmy Fontana: "Tutto l'universo nasce e muore di continuo e se ne frega dei progetti e degli amori e dei miei fallimenti" (San Loren-
Giulia Cavaliere
Joanna Gruesome - Weird Sister (Slumberland,2013) Genere: rock, alt, indie, noise Weird Sister è l'album di debutto dei Joanna Gruesome, quintetto di Cardiff alle prese con un intruglio di generi – di definitiva impronta DIY – che prende come riferimento attitudine punk, distorsioni altezza indie di fine anni '80, dolci rumori noise e garage, alienazioni tra dreamy e shoegaze, tutto filtrato da una sorta di esuberanza post-adolescenziale. L'E.P.
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Genere: pop, cantautori, alt La parabola artistica e umana di Paddy McAloon ricorda per certi versi quella di un'altra icona pop degli Ottanta, Edwyn Collins degli Orange Juice: entrambi titolari di band di culto, entrambi alle prese con seri problemi di salute e artefici di più di un comeback. Nello specifico, Paddy ha lottato negli ultimi dieci anni contro seri problemi di vista e di udito, non smettendo mai per un istante di far musica, perlopiù in solitaria, mettendo insieme un patrimonio abbastanza vasto di canzoni mai pubblicate. McAloon con la sua creatura Prefab Sprout - la cui attività si è svolta principalmente dal 1982 al 1990 (con il fratello Martin, il batterista Neil Conti e Wendy Smith al controcanto femminile) – ha sfornato gioiellini pop dal genio artigianale e sotterraneo, con una spiccata propensione verso testi d'amore colti e acuti, spesso ricchi di humour, e una passione per autori quali McCartney, Lennon, Brian Wilson, Jimmy Webb e Burt Bacharach, per citarne alcuni. Crimson/Red è il nono disco della band, arrivato dopo un lungo periodo di silenzio, a cui ha posto fine nel 2009 l'uscita di Let's Change The World With Music, lost album inciso nei primi anni Novanta. Le modalità di uscita hanno compreso anche un leak: a giugno scorso sono apparsi su SoundCloud dieci inediti di McAloon (con il titolo The Devil Came-A-Calling) postati su un misterioso account. Brani che sono poi stati ritirati e che hanno fatto il giro dei fan curiosi; l'album, reintitolato Crimson/Red ha visto poi la pubblicazione ufficiale, con una strategia obliqua in perfetta linea con i tempi. Detto che le dieci tracce appartengono più o meno ai tanti brani nel cassetto del Nostro, il quale si è trovato a dover far improvvisamente fronte ad una scadenza contrattuale con la nuova etichetta, il disco esemplifica come meglio non potrebbe lo stile e la poetica di Paddy, con quella voce rimasta sempre uguale, quelle atmosfere pop alte, quella scrittura cristallina e una vena sempre fertile di narratore di storie. L'album è un lavoro artigianale realizzato in proprio, in cui dall'incipit assassino dell'elegante The Best Jewel Thief In The World ci si rende subito conto del valore di canzoni senza tempo e insieme attualissime; dalle ultime scritte (la gemma Billy risalente al 2011) alle meno recenti (Grief Built The Taj Mahal, la toccante The Old Magician risalenti al 1997), fino all'omaggio al mentore Jimmy Webb (The Songs Of Danny Galway). Un canzoniere compatto che non teme confronti con le cose migliori dei Prefab e che chissà quali altre sorprese potrà senza dubbio rivelare ancora. E' l'Old Magician, ora provvisto di lunga barba bianca e vestiti chiassosi, in uno dei più bei ritorni degli ultimi anni. 7.5/10 Teresa Greco
d'esordio del gruppo già evidenziava un grosso interesse verso un lo-fi caratterizzato da certo garage sporco e addolcito dalla soffice voce di
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Alanna McArdle. Weird Sister, pur contando metà brani provenienti da E.P. e dal singolo Do You Really
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Prefab Sprout - Crimson/Red (Icebreaker Records,2013)
Alessandro Rabitti
Jocelyn Pulsar - Sperando di aver fatto cosa gradita (Fosbury,2013) Genere: pop, cantautori Cantautorato pop delicato, quello di Jocelyn Pulsar, pseudonimo dietro il quale si cela il forlivese Francesco Pizzinelli, approdato con questo EP alla Fosbury, forse la label nazionale più conforme al suo stile naif. Giunto alla quinta fatica, con Sperando di aver fatto cosa gradita Jocelyn inanella quattro brani che rappresentano la summa di quanto scritto in quasi un decennio di attività: trame elettroacustiche che sostengono narrazioni mai banali, forse perché ravvivate da un sano gusto per l'uso
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delle parole e il calembour. Una sorta di Dente, ma un pelo più ruspante. Storie semplici, dunque, come l'amore non corrisposto di Io ti amo tu invece no, valzer con in primo piano il clarinetto del settantenne Rossano Gentili – della banda del paese di Bagno di Romagna – nonché inevitabile omaggio alla tradizione musicale della terra di Pizzinelli. Ed è forse proprio questo lo scopo dell'EP (che anticipa il nuovo disco in uscita): quello, cioè, di coniugare cantautorato moderno e tradizione. Gli altri tre titoli non si discostano dalla formula, prediligendo una forma canzone diretta, a volte persino ingenua, come nel caso della conclusiva Spesa, agrodolce cronaca di un gesto talmente quotidiano che solo nelle mani di un vero songwriter può decollare diversi metri sopra la coltre delle banalità tipiche della canzonetta in airplay. Naturalmente lo stile di Jocelyn non è per tutti, e anzi, se avete poco interesse per la musica leggera in senso lato, le sue canzoni potrebbero provocarvi l'orticaria. Ad ogni modo, nell'ambito "canzone", non è facile costruire storie così convincenti, che nei momenti più alti sembrano cesellate con sapienza artigiana. Canzoni di una semplicità disarmante, dunque, che narrano di vicende e persone comuni, con un tocco che comune non lo è affatto. 6.5/10
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Wanna Know Why Yr Still In Love With Me?, incrementa il livello qualitativo, sia in fase di scrittura che di registrazione: i suoni si fanno più accesi (Graveyard), la velocità aumenta (Lemonade Grrrl, la folle corsa da pogo sul finale di Sugarcrush), pur mantenendo la dolcezza vocale in chiave pop (Satan) e le cacofonie fuzzy delle chitarre (Madison). I Joanna Gruesome ereditano parecchio da quella scena alternativa compresa tra gli '80 e i '90, ad esempio da band come i The Shop Assistants, seguendo una formula caratterizzata da batterie ripetitive, distorsioni e docili voci femminili (Anti Parent Cowboy Killers). Riferimenti più o meno palesi si possono trovare anche in gruppi come The Pains Of Being Pure At Heart (Sugarcrush, Do You Really Wanna Know Why Yr Still In Love With Me?), in certe lo-fi ballad a là Veronica Falls (Candy) ed in generale in quell'atteggiamento sfrontato sintetizzato da band quali Vivian Girls o Dum Dum Girls. Weird Sister è un bel passo in avanti, un disco pulito e ben fatto che, pur soffrendo del limite di non aggiungere nulla al già detto, non presenta particolari lacune. 7/10
Ilario Galati
Johnny Flynn and The Sussex Wit Country Mile (Transgressive,2013) Genere: folk Siamo un po' stanchi della melliflua retorica pop-(pseudo)folk che da qualche tempo intasa radio, classifiche e riviste di settore, come del resto siamo saturi di quell'immaginario spesso scontato che premia soltanto il gioco dei facili ritornelli, degli inni da stadio e da spot pubblicitario. Per questo, avvicinarsi alla quarta fatica
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Genere: blues, folk Recensire Roy Harper è un po' come recensire un mare in tempesta, la quiete del pomeriggio, la luce che vibra nell'aria poco prima del crepuscolo. In ambito folk rock pochi artisti appartengono alla categoria del trascendentale come Mr. Harper, occorre tirare in ballo nomi aulici quali Nick Drake e John Martyn, oppure – per restare ai vivi – di Robert Wyatt. Ognuno con le proprie peculiari frecce in faretra, ovviamente, ed il nostro straccione sofisticato – che un tempo si guadagnò l'omaggio degli amiconi Led Zeppelin nonché un ruspante cameo nella floydiana Have A Cigar – è fra quelli elencati il più portato a centrare un lirismo terrigno, fatto di stravisioni paniche e immersioni nel lato oscuro dell'estasi. Tredici anni dopo Green Man – di cui ci siamo abbastanza dimenticati – torna a farsi vivo con l'album di inediti numero ventidue, dissipando l'assodata convinzione che questo settantaduenne avesse appeso le corde (della chitarra e vocali) al chiodo. Lo fa anche grazie alla spinta di un fan totale come Jonathan Wilson, che ha messo mano a un bel po' di strumenti e nel cui Fivestar Studios sono stati incisi quattro pezzi su sette, e col contributo di uno stuolo impressionante di musicisti tra i quali spicca un ospite di riguardo come Pete Townshend. Ne è uscito un lavoro fieramente anacronistico perché sa di poter contare su un lasciapassare leggendario, nel senso che prende avvio e si consuma nella dimensione estetica e temporale del suo autore. La vecchia calligrafia è riconoscibilissima malgrado accetti di scendere a patti con l'età, facendone anzi un ingrediente poetico sostanziale. In questo senso, le canzoni possiedono la qualità indolenzita e grave dell'ultimo Cash (compresa qualche umanissima incertezza nella voce, peraltro ancora in gran spolvero), pur giocandosela naturalmente su un terreno più astratto e sparso, come nei palpiti sonnacchiosi di Time Is Temporary (piuttosto drakeiana) o nella lunga, meditabonda e allucinata Heaven Is Here. La dialettica tra fibra folk basale da trovatore profeta e l'ampio respiro cameristico non produce la coesione febbrile di un tempo, però comunque non manca di fascino come un miraggio elegante ed esausto, come accade nella vagamente younghiana January Men. Personalmente trovo poco azzeccate l'aria iperadrenalinica di Cloud Cuckooland (Townshend alla chitarra solista e un sax che impasta pennellate prog e AOR 80s) e il piglio da santone marziale – vagamente Roger Waters – nella opening The Enemy, ma nel complesso – si aggiunga al saldo positivo una The Stranger che intreccia trame folk blues e implicazioni orientali con la solennità misterica di certi Zeppelin acustici – è un titolo che non sfigura nella formidabile discografia di cotanto autore. Di fronte al quale, se stavolta ci togliamo il cappello, è per dirgli: bentornato. 7/10 Stefano Solventi
di Johnny Flynn, giovane songwriter originario del Sussex che con l'esordio A Larum del 2008 aveva fatto breccia nei cuori della critica
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come nuova promessa del folk-rock britannico – molto prima, per amore della verità, di Marcus Mumford e soci -, diventa per chi scrive
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Roy Harper - Man and Myth (Bella Union,2013)
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di un album che, semplicemente, regala momenti di grande qualità compositiva e cantautorale. 7.3/10 Giulia Antelli
Joseph Martone and The Travelling Souls - Where We Belong (Travelling Souls,2013) Genere: rock, blues, folk Where We Belong è l'esordio di Joseph Martone and The Travelling Souls, formazione nata nel 2007 e capitanata dal suddetto musicista italo-americano assieme al produttore e polistrumentista Tom Aiezza. Un progetto che, forse anche per le stesse radici geografiche dei fondatori, si muove attorno ai ritmi caldi e sensuali della musica popolare partenopea, costruita ed arricchita sull'intreccio di elementi folk, blues e southern. Gli otto brani dell'album, infatti, prendono spunto dalla canzone mediterranea per arrivare a una proposta che mette insieme tanto il vecchio blues à la Tom Waits, quanto la dark ballad in aria Nick Cave, il classic folk del primo Dylan e la polvere tex-mex di Gomez e Calexico. Una serie di influenze che tuttavia non deve far pensare a questo album come ad un lungo elenco di citazioni e riferimenti: il merito maggiore di Martone e Aiezzo è infatti quello di aver saputo assimilare i propri ascolti fino a renderli personali, attraverso brani che, già dall'opening Show Me The Way, evidenziano una verve rock in grado di reggere onestamente il confronto con i nomi sopracitati. Proseguendo con i cavernosi controcanti della successiva Monument Of Your History e nell'intro mariachi di Ego Sum (unica canzone in italiano del lotto), troviamo anche elementi desert e gospel, ad esempio in Once, uno degli episodi più convincenti, in cui riecheggia il ricordo di uno dei maggiori gruppi del folk-
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soprattutto una questione di fiducia. Anche se un velo di scetticismo nei confronti del personaggio rimane sempre (e le immagini versante Google non aiutano: quel capello un po' così, il faccino da efebo e il look trasandato quanto basta, da poeta romantico dei tempi moderni), Country Mile è senz'altro l'album di un artista che sa far bene il suo mestiere, ovvero scrivere belle canzoni (bellissime, in certi casi) di pop-folk/rock semplice e appassionato, senza trucchi, spesso essenziale, con un'anima lontana da ogni velleità di voler stupire o colpire l'ascoltatore con effetti speciali. Probabilmente – e fortunatamente – non sentiremo nessuna delle canzoni di questo disco né in radio né in televisione, anche se non si può negare che il ragazzo abbia un talento innato per la melodia: i dieci brani di Country Mile si distinguono per un sostrato pop che ne fa, nella maggior parte dei casi, dei potenziali singoli. Giusto per fare qualche esempio, basterebbero i controcanti di Gypsy Hymn - a cui partecipa anche la sorella di Johnny, Lillie – costruita sull'intreccio di piano e voce, per accorgersi che, oltre alla lezione dei menestrelli moderni, il musicista ha accolto tra le sue influenze anche gospel, blues, e, naturalmente, pop. In una girandola di stili – si ascoltino la polverosa intro elettrica della title-track o le percussioni in salsa black/world di Fol-De-Rol – che rende l'album eterogeneo ma sempre solido e coeso nell'insieme. Altrove, troviamo i ritmi meditativi e umbratili del classic folk, anche americano, ad esempio in Tinker's Trail o in Time Unremembered, brani che evidenziano una vena autorale più che credibile e sicuramente molto matura. Certo, siamo lontani da ogni presupposto di sperimentalismo e ricerca – potremmo citare, a questo proposito, Once I Was An Eagle dell'amica e collega Laura Marling -, ma è difficile rimanere indifferenti di fronte alla pura grazia
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blues a marca nineties, gli Screaming Trees di Mark Lanegan, altra influenza importante nell'album, come mostra l'alt.country di Window. Ma c'è spazio anche per una marcetta pop-beatlesiana come Love e per una Shine On Me che si rivela come una completa rilettura e riscrittura di As I Sat Sadly By Her Side del già citato Cave, brano che chiude un debutto nel complesso convincente e ben riuscito dove non mancano qualità tecniche e buona convinzione, oltre ad una voce – quella di Martone – sicuramente interessante. 7.1/10 Giulia Antelli
Joycut - Pieces Of Us Were Left On The Ground (Irma Group,2013) post
Le inflessioni dark-wave del precedente Ghost Trees Where To Disappear (Cure e Echo and The Bunnymen su tutte) trovano in Pieces Of Us Were Left On The Ground terreno fertile per un discorso più organico e ambizioso. Uno smarcarsi in parte da quel suono troppo stringente e storicamente contestualizzato che aveva caratterizzato i Joycut in passato, in favore di una concezione musicale più complessa, stratificata, in qualche maniera anche aperta. In tal senso crediamo vadano intese le coloriture shoegaze-kraut à la Crocodiles dell'iniziale Wireless, le cadenze industrial di Individual Routine o l'electro-ambient-post rock di Darkstar: come un far collidere elementi a prima vista disgiunti tra loro in una formula che riesca ad armonizzarli. Quello che accade, ad esempio, in una Evil che affianca pianoforti, basi elettroniche depechemodiane e un mood tutto sommato blues o a una chiusa in puro stile Nine Inch Nails come New Poets. L'integrazione si rivela talmente lineare che ti viene quasi da pensare che le nuove declina-
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Fabrizio Zampighi
Justin Timberlake - The 20/20 Experience 2 of 2 (RCA,2013) Genere: pop La prima parte di The 20/20 Experience, pubblicata a marzo, aveva proiettato l'immagine di un Timberlake rigenerato e quanto mai maturo, capace di affinare il semplice concetto di musica pop spingendola verso derive più ricercate e complesse e trovando un punto d'incontro tra le esigenze del grande pubblico e il benestare della critica. La durata dei pezzi (sette minuti di media) denotava un lavoro pieno di barocchismi e iper-produzioni, con lunghe code che, la maggior parte delle volte, erano frutto della totale destrutturazione delle canzoni e della loro successiva rielaborazione (Pusher Love Girl), senza dimenticare episodi più diretti (That Girl) e gli inevitabili singoli spacca classifiche (Mirrors). L'ideale continuum evolutivo, dall'acerbo Justified a FutureSex/ LoveSounds - dove la mano di Timbaland in fase di produzione era stata quanto mai pesante -, sembrava non doversi interrompere nemmeno con questo nuovo ed inaspettato doppioritorno. Bene, in The 20/20 Experience 2 of 2, molte delle aspettative create dall'uscita precedente sono state irrimediabilmente tradite. La prima cosa che salta all'orecchio è la totale mancanza di nuove idee: tutto ciò che di buono era stato concepito nel primo volume, nel secondo viene incredibilmente dimenticato, evidenziando
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Genere: indie, wave, dark, post-punk, elettronica,
zioni, in forma di ipotesi, fossero già presenti nel suono del gruppo senza tuttavia trovare mai una corretta dizione. Quello che sulla carta sembra un azzardo, comunque, nella pratica si trasforma in un lavoro ben organizzato, quasi solo strumentale e assai stimolante. Una delle cose migliori partorite dalla band bolognese. 6.9/10
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mentre sarebbe bastato attenersi alla formula del primo volume per concludere un ritorno live e un'annata entrambe gloriose. Una copia troppo sbiadita e ingiallita del lavoro precedente, francamente ci si aspettava di più. 5/10 Daniele Rigoli
Kwes - ilp (Warp Records,2013) Genere: pop, soul, elettronica Kwes colora i suoni. Lo fa praticamente da quando è nato, cioè da quando gli è stata diagnosticata una forma di chromesthesia che trasforma il suo ascolto in tavolozze mutanti, riassunte graficamente negli artwork delle sue uscite discografiche. Nonostante la ancora giovane età, Kwesi Sey frequenta la scena di South-London da un lustro e dopo aver collaborato con The Invisible, Portico Quartet, The XX e Micachu (con il quale pubblicò Kwesachu Mixtape Vol.1 nel 2009) ha intrapreso una carriera solista a tutto tondo prima con l'EP No Need To Run per XL/Young Turks e poi con il più chiacchierato – e prima uscita via Warp – Meantime EP dell'anno scorso. Con il debutto lungo ilp il nostro completa un lungo processo di identificazione evidenziando la sua vera natura, ovvero quella di un abile, meticoloso e serio producer che sente il bisogno di raccontare le proprie esperienze ed esprimere le proprie emozioni senza affidare il proprio operato a terzi. Produzione di conseguenza di alto livello, ricca di sfumature e ricerca lato bass music di derivazione post-dubstep: definire Kwes il "black Blake" è sicuramente superficiale, ma in alcuni brani (flower in primis ma anche broke e purplehands) il paragone prende forma in modo piuttosto inequivocabile, sia per un timbro e alcune modulazioni non troppo distanti dall'autore di Overgrown, sia per l'attitudine minimal con
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una compiacenza generale ed un songwriting pigro. Se nel primo disco le code erano un tratto piacevole e caratterizzante, qui diventano un semplice allungamento monocorde, senza evoluzione di sorta (TKO e True Blood). Pigrizia che si ritrova anche nelle tanto chiacchierate collaborazioni con (l'ormai) solito Jay Z in Murder e Drake in Cabaret: nel primo caso è ormai chiaro lo scambio di featuring di favore tra Justin e Mr.Carter, mentre per quanto riguarda Drake, il suo apporto appare semplicemente inconsistente. Nel disco c'è anche spazio per un pezzo d'Italia, con l'atipico campionamento di Lustful (ripescata da una compilation del 1972 titolata Underground Mood) del nostro Amedeo Minghi, in Only When I Walk Away, che riprende le note funk dell'iniziale Gimme What I Don't Know (I Want) in uno dei pochi episodi veramente piacevoli del lotto. Momenti che arrivano solo quando il Nostro lavora prettamente sulla matrice pop rimescolandola con il tocco futur-r'n'b che ormai da più di dieci anni è il suo marchio di fabbrica: è il caso di You Got It On, ma soprattutto del primo singolo estratto Take Back The Night, tributo al suo mito d'infanzia Michael Jackson (come dimostra anche il videoclip) che trova la strada giusta senza produzioni sgraziate, basandosi sul classico motivo orecchiabile e su un tappeto sonoro invitante e tirato a lucido. Semplicemente Pop. Molto del restante materiale prova a tornare indietro – irragionevolmente – ai suoni di FutureSex/LoveSounds e perfino al teen-pop di N'SYNCiana memoria, con la chiusura di Not A Band Thing. Inaspettatamente, ci troviamo di fronte a un album inconcludente, per giunta tremendamente pretenzioso, che rappresenta un'innegabile passo indietro nella discografia di Timberlake. Si è probabilmente pagato il fatto di aver voluto tirare su ventitré canzoni in poco più di anno, dopo uno stop lunghissimo,
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Riccardo Zagaglia
Lady Gaga - ARTPOP (Interscope Records,2013) Genere: pop, mainstream, dance-pop Era inevitabile. La sensazionalistica rincorsa alla notizia non poteva basarsi perennemente sulla cultura dell'eccesso e per alimentare
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nuovamente il loop di ego-marketing che ha trasformato Lady Gaga nella più grande icona pop del nuovo millennio c'era bisogno di un cambiamento per certi versi radicale, per evitare che il cannibale finisse per autofagocitarsi. Ecco quindi che con la classica – enorme – dose di astuzia, nelle ultime fasi promozionali, la Nostra si spoglia della patina iper-appariscente e sceglie – in più occasioni – di mostrare il proprio lato più intimo: Lady Gaga che diventa Stefani Germanotta e non viceversa. Una scelta, appunto, quasi obbligata, non tanto da questioni di mercato – nonostante un Born This Way a suo tempo schiacciato dalla semplicità glitter-free del pop di 21 di Adele – ma proprio a livello artistico: Mrs. Germanotta sa bene come non deludere il proprio pubblico – con il quale ha un rapporto quasi simbiotico – e sa altrettanto bene quali siano le mosse per creare un gap culturale tra la propria figura e quella delle altre tra$h-pop diva. Basta tirare in ballo l'arte contemporanea – meglio se fashioncentrica – e qualche riferimento più aulico del mero motto "Just Dance" che la lanciò inizialmente come una delle tante act dance-pop usa e getta. L'aspetto musicale finisce inevitabilmente in secondo piano e diventa così un semplice pretesto per diffondere il verbo, mistico punto di congiunzione tra musica pop e religione. Un aspetto musicale inizialmente dozzinale (il debutto The Fame) e poi, già dall'update The Fame Monster, sempre più attento a dettagli fatti di citazioni e micro-sperimentazioni mascherate da "glamouramico" intrattenimento spicciolo (Born This Way). Il terzo album di Lady Gaga è un vero e proprio manifesto delle intenzioni, partendo da un titolo che è tutto un programma (ARTPOP) per arrivare a un – discutibile – artwork che riassume il concetto alla base del disco. L'"artpop" in questione non ha infatti nulla a che vedere con l'omonimo genere musicale che
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cui si addentra nelle profonde battute elettroniche. Non solo sperimentali panorami notturni ed urbani, lungo le dieci tracce di ilp, ma anche – rare – concessioni a voglie pop music che non sempre raggiungono l'obiettivo sperato. Non è il caso di 36, ben sorretta da un electric piano, da una buona melodia e da certe atmosfere '90s che fanno un po' Blood Orange, bensì quello dei non troppo felici risvolti dub di Rollerblades (probabilmente influenzata dalle collaborazioni con l'ultimo Damon Albarn) e soprattutto di una b_shf_l che sposta il tiro al limite della pista clubby via SBTRKT, senza però lasciare praticamente traccia. Gli otto minuti poco lineari di cablecar rischiano di spezzare un po' il ritmo, frammentato anche a causa delle due strumentali – nonchè interessanti – hives (decisamente beat-oriented, al limite dell'instrumental hip hop con un basso in zona Elaquent) e chagall (tutta spettrali giochi in reverse). Pur crescendo ascolto dopo ascolto e pur smarcandosi dallo status di disco trascurabile all'interno di una scena a cavallo tra post-randb/ soul e elettronica (leggasi l'esordio degli Inc.) che da qualche tempo – oltre ad aver raggiunto il punto di saturazione – sembra aver perso la forza iniziale (il debutto lungo targato The Weeknd ne è un esempio), ilp pecca di discontinuità e soffre di una scrittura ancora da affinare. 6.9/10
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copati che scorrono da Do What You Want con R.Kelly fino al comunque piacevole diversivo Fashion!, brano in cui fanno il loro ingresso ritmiche disco-funk – altezza french touch – che non sembrano però rientrare perfettamente nelle corde di Lady Gaga, sempre più propensa ad un'esuberanza vocale alla ricerca di una potenza graffiante poco utile al risultato finale (il rischio Christina Aguilera-zone è dietro l'angolo). Non mancano i consueti riferimenti all'operato di Madonna (la title-track e il suo emblematico "my artpop could mean anything" e il chorus di Venus), il classico esercito di filler - destino praticamente inesorabile quando si pubblica un disco di quindici tracce (Manicure, G.U.Y e una Gypsy in cui RedOne non riesce a far quadrare il cerchio) – e la piano-ballad di turno intitolata Dope, costruita su un abusato giro melodico e impregnata di enfasi melodrammatica. La newyorkese continua quindi a convincere maggiormente quando entra prepotentemente nella dimensione club/EDM con brani full-energy che, per quanto frivoli, riescono almeno nell'intento di intrattenere: Swine e i suoi bassi storpiati in grugniti, Donatella (e quel "rich bitch" di Die Antwoordiana memoria) e Aura, una sorta di nuova Judas. ARTPOP è un disco che mostra una Lady Gaga con una capacità attrattiva meno forte che in passato, penalizzato da una natura confusionaria e transitoria che, ottimisticamente, costringerà Stefani Germanotta a rivedere le proprie priorità artistiche colmando quel dislivello precedentemente citato: c'è bisogno di un taglio più netto, di una ripartenza prima di tutto musicale, di un suo Ray Of Light. 4.9/10
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regala da anni gioielli pop d'alta classe, ma è la sintesi dell'universo multi-concettuale che Stefani mette in piedi, costituito da mosse tattiche (lo show al Berghain, le non-notizie sulla sua sessualità, ecc…), messaggi universali e provocazioni facili in un vorticoso incrocio tra arte, fuffa e hit. Il più grande limite di Gaga – il che, ad esempio, le impedisce di essere paragonata a grandi del passato come Bowie, capaci di far confluire l'eccentricità glamour nella pop culture – è l'incredibile dislivello tra l'impatto visivo-mediatico-generazionale e la musica contenuta nei dischi. Il singolo di lancio Applause è l'esempio lampante: si genera un'attesa fuori misura, come se il ritorno di una pop star fosse un evento storico da tramandare ai posteri, poi esce il brano e ci si rende conto che si tratta di un semplicissismo e ordinario brano pop, uno dei tanti. Lo stesso discorso si può applicare all'intero ARTPOP. Apparentemente più vario delle prove precedenti (specialmente di The Fame), l'album vorrebbe poter vantare sia le velleità da classifica del "pop leggero e divertente", sia le intenzioni più "alte" introdotte con Born This Way, fallendo però in entrambi e casi: da un lato la concentrazione di killer-tracks è più bassa del previsto e i ritornelli non incidono come in passato, dall'altro lato non si avverte quello step artistico necessario per fare la differenza. Inoltre, un disco-evento che sulla carta vorrebbe caratterizzare gli ultimi sgoccioli del 2013 e tutto il 2014, non può limitarsi a collaborazioni anacronistiche (T.I, Twista, R.Kelly) o preferire il supporto di meri hit-makers (David Guetta, Zedd, Will.I.Am) a dj/producers di maggiore attualità potenzialmente modellabili sul Gaga-pop (Gesaffelstein, un nome che viene in mente). A livello stilistico il focus si sposta più che in passato su binari figli della black music, tra slap-bass più o meno digitalizzati e groove sin-
Riccardo Zagaglia
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Lend Me Your Underbelly - Giant Tadpoles Among Us (Epigenetic Records,2013)
le idee, in qualche caso, non sono male. 6.6/10 Alessandro Rabitti
Genere: lo-fi, fieldrecordings, noise, ambient, Lend Me Your Underbelly - pseudonimo del musicista e compositore olandese Christian Berends – esordisce in soltaria sulla lunga distanza, dopo qualche demo piazzato su Bandcamp e un primo EP Tiendoornig Stekelbaarsje. Della sua esperienza nel metal come bassista e chitarrista è giusto fare menzione, ma da questo disco non se ne evince alcun indizio. Giant Tadpoles Among Us è un album variegato, non proprio diretto, soggetto a varie – e soggettive – letture. Etichettarlo non è semplice, anche se si possono definire due macro aree all'interno delle quali l'album spazia: l'ambient e il noise, con l'accompagnamento di field recordings. La voce, leggermente distorta, gira a marce basse e si posiziona a metà tra il cantato e lo spoken, in stile DIY. I tempi sono dilatati, i riverberi delle chitarre in loop hanno un effetto ipnotico, le atmosfere melanconico-noise (In Other Ages We Were Bruce Lee, Offshore) puntano dirette a una musicalità alla Godspeed You! Black Emperor, mentre quelle più melodiche (Ze Weet Dat Zelf Ook, Offshore) strizzano l'occhio a passaggi di pianoforte a là Ólafur Arnalds e a morbidi tappeti in stile Portishead. Il rischio, ad ampliare troppo le tempistiche noise, è quello di perdersi (Background Noise Is Our Leader), come succede nel quarto d'ora finale. Spettrali disturbi di matrice Floydiana su background post-rock (Silent) e riverberi shoegaze Slowdiveiani (Jan) certificano il tutto. Quello che manca a Giant Tadpoles Among Us è un suono più definito; l'effetto lo-fi che permea tutto l'album interferisce con la comprensione delle tematiche alla base, anche se
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Les Fleurs des Maladives - Medioevo! (Autoprodotto,2013) Genere: cantautori, rock Nonostante l'inedita ragione sociale, i tre componenti dei Les Fleurs des Maladives sono in giro da più di un decennio, speso suonando su palchi importanti e di spalla ad artisti affermati. Nel 2007 il cambio di denominazione, che ha comportato l'abbandono del nome d'origine, Les Fleurs du Mal, in luogo di quello odierno, ancora ispirato al celebre poemetto di Baudelaire. Medioevo! è dunque il primo disco lungo del gruppo, un lavoro che ha avuto una gestazione di alcuni anni prima di vedere la luce. Non a caso, il brano Novembre, forse tra i più riusciti dell'intero lotto, era già presente in un EP del 2007. La canzone era piaciuta parecchio anche a Nada Malanima, che nel 2008 decideva di incidere il pezzo in un disco a suo nome, coinvolgendo nell'operazione la band comasca. Registrato da Dualized presso lo Zeta Factory Studio di Carpi, Medioevo! è strutturalmente un concept album, quanto meno per la tematica di fondo che unisce i dodici brani (al netto della ghost-track) che lo compongono: la contrapposizione Occidente-Oriente, dove il primo rappresenta la situazione sociale ed umana nella quale viviamo e il secondo la dimensione più metafisica. Il Medioevo del titolo, a questo punto, non può che riguardare il nostro tempo, oscuro come quella lunga parentesi storica iniziata con il crollo dell'Impero romano d'Occidente. Dal punto di vista squisitamente musicale il trio (chitarra – basso – batteria) si muove in territori di confine, prediligendo le tinte forti e un certo suono in chiave stoner. L'ambizione
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experimental
Ilario Galati
Marcello Capozzi - Sciopero (Seahorse Recordings,2013) Genere: cantautori, psych, wave, folk Leggi "sciopero" nel titolo e ti aspetti un disco battagliero e schierato. E invece Marcello Capozzi – musicista napoletano all'esordio – gioca di sponda e nell'inquadratura include solo mezze luci autobiografiche e spossatezze disilluse. Le condisce con una voce sussurrata, testi obliqui e una musica che si protende indolenzita verso il folk (Gli orologi) e certe chitarre
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wave (la title track), arie vagamente post rock (Il vetro e l'intero) ed electro (1984). Un prontuario in note che sorprende in positivo per la voglia di trascendere le facili categorie e che alla fine diventa la parte migliore del progetto. Abbastanza flessibile da adattarsi alla bisogna e a garantire le necessarie coloriture – in qualche caso vicine a una psichedelia vaporosa e istintiva (Ettari di Eternit, Il testimone) – a un cantato in gran parte malinconico e sottotraccia. Ci sono spunti interessanti e qualche buona intuizione (ad esempio le ottime progressioni di Il mattino ha l'oro in bocca) in Sciopero, elementi che, se sviluppati a dovere, potrebbero riservare gradite sorprese ed annullare quel deficit di concretezza che talvolta sembra di cogliere in alcuni testi. Questione di maturità, crediamo, ma tempo per crescere ce n'è. 6.3/10 Fabrizio Zampighi
Midlake - Antiphon (ATO Records,2013) Genere: rock, folk L'uscita di The Courage Of Others ha segnato un momento chiave nella storia dei Midlake: il gruppo, dopo un The Trials Of Van Occupanther considerato quasi unanimemente come una piccola pietra miliare alt-rock del nuovo millennio, ha improvvisamente deciso di cambiare rotta in modo piuttosto drastico. L'immediatezza pop e la consistenza melodica di pezzi come Roscoe o Head Home hanno lasciato il posto a cupe liturgie classic folk di stampo sixties, volutamente anacronistiche, ma indiscutibilmente di alto livello. Antiphon arriva dopo ben tre anni dal predecessore e, paradossalmente, segue una linea evolutiva che, almeno per chi scrive, era la prevedibile conseguenza della strada imboccata con The Courage Of Others. Il cambio di line-up obbligato dall'abbandono dello storico leader Tim Smith ha riversato sulle spalle di Eric Pulido l'intero processo com-
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è far convivere ritmiche e chitarre serrate con il piglio d'autore che, fisiologicamente, riesce bene in alcuni passaggi e meno in altri. Colpisce semmai l'apertura mentale a suoni distanti dal proprio background: è il caso di Ennio, divertissement dove, coerentemente con il titolo, si cita a piene mani il maestro Morricone. Colpisce alla stessa maniera la capacità di scrivere potenziali hit, come nel caso di una title-track affogata da nebbie metalliche e non per questo priva di una certa propensione melodica, o come nel caso di Amoxicillina, che ricorda da vicino i Ministri più spigolosi. Su un livello più alto la già citata Novembre, ballad elettrica nel quale la band realizza appieno quella sintesi tra rock e cantautorato di cui sopra, e il recitativo acustico Bellezza, il cui testo è tra i più riusciti del disco. Il tutto, comunque, è assorbito da un'atmosfera nineties, ed è forse questo il limite più grande del lavoro: per alcuni sarà sicuramente un bel tuffo nel passato, come le madeleine di proustiana memoria, per altri solo un'occasione per porsi interrogativi leciti sullo stato di salute del nostro rock e su quante poche trasformazioni abbia subito nell'ultimo ventennio, a dispetto di quello che è accaduto negli USA o in Gran Bretagna. 6/10
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Marco Masoli
Mika Vainio - Kilo (Blast First Petite,2013) Genere: noise, ambient, techno Ci sono autori di musica che si ripetono e altri
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che non si ripetono. Di quelli che si ripetono, alcuni lo fanno per marketing (posizionamento), altri perché non sanno uscire dal personaggio. Mika Vainio non è certo imprevedibile, né ci aspettavamo stravolgimenti da Kilo. Mika è uno che fa scelte radicali, di quelle che si trascinano a lungo: non ha mai usato un computer per fare musica, quando va a fare un set o lo fa di droni o di beat. Le macchine analogiche e i timbri industriali sono la sua guida e tutta la sua ricerca. Il limite in cui crogiolarsi. L'impatto di Kilo è un Vainio determinato nel ritrovare (dopo Fe3o4) il beat abrasivo di cui ha sempre dato esempio in coppia con Vaisanen nei Pan Sonic. Lo spettro dei toni di grigio e dei rumori quasi bianchi fa pensare a una cosa: Mika usa molte forme diverse, e per un massimalista come lui può voler dire crisi di creatività, dato che, nonostante la variabilità, è come se facesse ogni volta un riepilogo della stessa puntata. Wreck è l'esempio: nasce come un test di una nuova macchina, nella seconda parte trova un tiro convincente per poi tornare a essere una sequela di suoni di chi ha appena aperto la scatola. A Vainio viene meglio il lato cosmico (il viaggio saturnale di Freight convince di più, è coeso e così anche il drone furente di Weight), che gli evita di essere vanamente testosteronico e, in definitiva, noioso. Forse è un nostro problema con le certezze, con la prevedibilità, ma di retorica sperimentale non si può fare un mestiere. 5.5/10 Gaspare Caliri
Motörhead - Aftershock (UDR,2013) Genere: hardrock, thrashmetal Ogni uscita dei Mötorhead segna la rinascita del loro culto, invariabilmente da trent'anni a questa parte. Perché sono sempre loro, strafottenti e testardi, tronfi ma veri. E davanti a
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positivo ed anche i suoni, comprensibilmente, ne hanno in parte risentito. Il brit-folk e le atmosfere pseudo-pastorali non vengono abbandonate, ma sono meno ispirate e rimangono come rumore di fondo nelle dilatazioni corali di stampo Fleet Foxes di Corruption ed Ages e nei richiami di fiati e acustiche di Aurora Gone (quasi un'outtake delle sessions di The Courage Of Others). La sensazione di familiarità col recente passato viene però presto mitigata dalle sferzate elettriche e da una presenza molto più massiccia delle chitarre, a comporre un sound più pieno e ricco, ma non per questo più incisivo. Il "rock da arena" del primo singolo (nonché title-track e opener) Antiphon aveva fatto temere il peggio, col suo incedere prevedibile e banale malgrado le spruzzate psichedeliche piazzate qua e là. Fortunatamente, però, con Provider, It's Going Down – il pezzo migliore del lotto – e, anche se solo in parte, con la cavalcata ipnotica The Old And The Young, la band riesce a risollevarsi sulle ali di uno psych-rock a tinte cupe che sfocia spesso in passaggi quasi prog à la King Crimson. Il tempo di ascoltare la jam session strumentale Vale e la scialba riproposizione folk del singolo Provider (Provider Reprise) e il quarto album del sestetto texano si spegne lentamente, lasciando poche tracce degne di nota e la sensazione di un'altra band che, seguendo la parabola artistica di molti altri – leggasi alla voce Band Of Horses e Okkervil River, ad esempio – ha ormai perso per strada l'ispirazione di un tempo. 6.2/10
Stefano Gaz
Nazarin - La mattanza dei diavoli (Viceversa,2013) Genere: rock, psych, dark Dalle turbe cinematiche dei Marlowe ai fantasmi noir terrigni di quelli che sbocciano copiosi da quella sorta di western nostrano che è la Sicilia, così come insegna il più quotato
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acchiappamostri del nostro rock altro, Cesare Basile, col quale Salvo Ladduca – titolare del progetto Nazarin, nome preso in prestito da una pellicola di Luis Buñuel – ha collaborato non poco. C'è dunque la reinvenzione potente e intensa di questa frontiera satura di conflitti e mistero, attraversata da processioni a cuore cupo (Radice mangia radice, la toccante Un intero giorno) e ballate roventi (la tumultuosa title track, il lirismo a chitarre spiegate di Sugli aghi), che il canto registrato su un timbro apprensivo e spesso laconico spennella di ombre ulteriori (come tra le vampe wave di Veglia sui nostri figli). Il rischio è che senza la personalità d'un Basile questo immaginario possa avvitarsi in un eccesso di cupezza, finendo per suonare romanzesco fino all'artificio. Eventualità scongiurata dalla presenza di episodi più delicati e suggestivi come Per quello che ho fatto (miraggio Sursumcorda in estasi Yo La Tengo), Una preghiera semplice (da qualche parte tra Dirty Three e Neil Young) e Tre lune (il De André di Rimini in area CSI), che allargano l'inquadratura ad una tenerezza certo più conciliante, però non meno densa di visioni. Un esordio di alta qualità. 7/10
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cotanta integrità morale l'unica domanda che vale la pena porsi è: quanti cazzotti assesta il nuovo disco di Lemmy? Beh tanti. Si vociferava avesse problemi di salute – e qualche acciacco a 67 anni suonati ce l'avrà pure – ma, in attesa della prova live, Aftershock ci riconsegna un Kilmister incazzato nero, guerrigliero come da artwork, che attacca subito con due speeed trash come Heartbreaker (got to move stop the dreams/listen how the people scream/ on and on and on) e Coup de grace. Non è un fuoco di paglia, l'album cammina deciso sul sentiero del live fast/die young. Si balla con il diavolo (End of Time), si cerca la rissa (Silence when you speak to me) e si scorrazza su e giù per l'America rimpiangendo le ballerine di chissà quale nightclub con il blues di Lost Woman Blues, giusto per ribadire che lui, Kilmister, è il più southern tra i sottoposti della corona inglese. Nonostante una tracklist lunghetta (14 brani), il disco scorre via rapido, offrendo riflessioni sulla vita che passa attaccata alla bottiglia – nell'ottimo rock blues marca ZZ Top di Dust and glass – e perché no suonando i tre accordi dei Ramones in Keep your Powder Dry, prima di rituffarsi in un finale ancora devoto alla velocità e dunque speed metal. E' lo stesso stramaledetto disco da trent'anni e, ogni volta, ci si chiede perché ascoltare un nuovo album dei Mötorhead. Poi schiacci play e due su tre rimani immancabilmente fregato. 7.1/10
Stefano Solventi
Omar Souleyman - Wenu Wenu (Ribbon Music,2013) Genere: world_etnica, electronica La notizia a questo giro non riguarda le bizzarrie del baffuto produttore e cantante siriano, ma il titolare della produzione di questo album, che esce su Ribbon (imprint della Domino), ovvero: Four Tet. Sulla carta l'incontro è stimolantissimo, dato che i due condividono un sostrato parzialmente sovrapponibile (Hebden, di origini indiane da parte di madre, non ha mancato di screziare ethno le sue produzioni),
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Gabriele Marino
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Oscar Louise - Empty House (Phenix Records,2013) Genere: cantautori, rock, folk Si apre in piena tradizione murder songs Empty House della svizzera Oscar Luise (al secolo, Rachel Hamel, da Losanna), con una Forever And a Week che rimanda nelle atmosfere a Nick Cave, nel cantato mascolino a Nico e nella pronuncia inglese stentorea a Blixa Bargeld. Fourteen e Lucinda pensano poi a ribadire il concetto, chiamando in causa rispettivamente Tindersticks e The Veils, per un esordio che si muove deciso tra chamber music crepuscolare tutta archi, chitarra e pianoforte e un cantautorato talvolta spiazzante. E il caso di una Beyond The Wall che quasi stride col suo pop acustico, ma anche di una A Tale Of The Sea e di una Practically Blue che odorano di bluesfolk a un chilometro. Difficile dire se il tono del disco sia più influenzato dal passato classico di una Hamel in bilico tra il ruolo di corista presso l'Opera di Losanna e passioni per il lied e il jazz, dal lavoro egregio di un Michael Frei (già Hemlock Smith) responsabile della scrittura delle canzoni o dagli arrangiamenti impeccabili di Fabrizio di Donato (Hemlock Smith): certo è che l'eleganza kurtweilliana di brani come Daffodils, le malinconie à la Chet Baker di Empty House o Absence, gli ampi spazi strumentali in odore di raga di Seconds, fanno quello che viene loro richiesto. Nello specifico, far brillare un disco di "genere" che alla fine proprio di genere non è e appiccicarti addosso un blues – in senso lato – catartico come pochi. Il fatto poi che le tredici tracce in scaletta mostrino una perfezione formale esasperata unita alla capacità di dribblare tutti i luoghi comuni del caso (pur frequentando uno stile musicale ampiamente esorcizzato), è un valore aggiunto non da poco. 7.1/10 Fabrizio Zampighi
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tutto da verificare però alla luce del clash tra la tamarraggine indomabile ed eretta a stile del siriano (musicalmente, Omar, non è che sia troppo diverso da un neomelodico, e guardacaso sia lui che gli scognomati dei bassi sono le rockstar dei matrimoni) e il manierismo stilizzato e composto, mai sopra le righe, del produttore londinese. E sì, è il bazaar lussureggiante di serpentine linee di synth, la festa di percussioni e fiati che ti aspetti, in alcuni momenti il beat decolla e trascina, forsennato (che te lo immagini corroborato da ingenti quantità di arak, la sambuca siriana, mai sotto i 40 gradi). Eppure la sensazione è quella non dell'incontro tra due personaggi, due musiche e due mondi, ma di una mimesi fourtettiana del suono di Omar, cosicché lo scarto e le specificità che sarebbe stato interessante misurare tra le due estetiche si riducono semplicemente all'abbassamento del tasso di tamarraggine del risultato finale. Insomma, qui c'è un Omar un po' ripulito da Four Tet, e basta. A livello di scaffale dei ciddì, siamo dalle parti di certe produzioni patrocinate da Albarn (che a Omar vuole tanto bene) o delle mimesi terzomondiste di Madlib, per quanto rispetto alle prime manchino le tentazioni filologiche o culturaliste e rispetto alle seconde la visionarietà, pur imperfetta, del trattamento della materia. I momenti più interessati del disco, sette pezzi in tutto, sono quelli in cui i bpm rallentano facendo emergere, dal piglio festaiolo generalizzato, tra le pieghe del salmodiare di Omar, una vena agrodolce (Mawal Jamar) e un taglio Arab-psichedelico a suo modo spacey, con tanto di soli sditeggianti e sdilinquenti di synth (Yagbuni). Come ascolto, vivace, ma non abbastanza speziato. Come progetto, né veramente laboratoriale, né veramente verace. L'album è disponibile in streaming, via NPR. 5.7/10
Genere: indie, electro La domanda nasce spontanea: c'era davvero bisogno di un disco come questo? Sicuramente c'era attesa nei confronti degli Outfit, dopo il primo singolo Two Islands (electropop un po' dreamy, un po' lo-fi) e l'EP Another Night's Dreams Reach Earth Again (maggior slancio elettronico, melodiosi beat, glitch, più dinamica in generale), eppure in Performance, esordio lungo della formazione sospeso tra indie e pop, qualcosa non torna. Pennellate nostalgiche e melodie pop il cui asse sembra poggiare sulla voce di Andrew Hunt (Performance) e il basso di Chris Hutchinson, strofe svogliate (Phone Ghost), crooning artwave à la Roxy Music (Spraypainy, Performance), inflessioni dream e ambient à la Mount Kimbie (Nothing Big), elettronica di marca Hot Chip senza stravaganze (Two Islands, Thank God I Was Dreaming) e da lì verso scivolate dancefloor (I Want What's Best): è tutto qui l'universo degli Outfit di Performance. Uno spaziare su più fronti che vorrebbe sottolineare la versatilità (innegabile) della band, ma che alla fine rischia di cadere nella trappola della replica fine a se stessa. Il risultato è una certa mancanza di originalità che penalizza disco e formula, nonostante qualche buona idea. 5.9/10 Alessandro Rabitti
Paolo Cattaneo - La luce nelle nuvole (Eclectic Circus,2013) Genere: cantautori Paolo Cattaneo lo avevamo lasciato quattro anni fa con Adorami e perdonami, secondo disco – dopo il buon esordio L'equilibrio non basta – che continuava sui binari di un cantautorato electro-pop elegante e raffinato, costru-
ito su testi evocativi e mai banali. La stessa formula che ritroviamo in La luce nelle nuvole, un album che conferma e prosegue il percorso del musicista. Nonostante i riferimenti più vicini al musicista lombardo siano ancora quelli di una scuola divisa tra sperimentalismo synth e levità pop che deve molto a colleghi quali Paolo Benvegnù, Andrea Chimenti, ma anche Franco Battiato, con La leggerezza nelle nuvole Cattaneo dimostra di essere una delle personalità più convincenti e originali all'interno del nostro panorama musicale. Qualità, queste, che lo escludono dalla sequela di prodotti tutti uguali che spesso si ritrovano nella leva cantautorale degli ultimi anni: il pregio maggiore di quest'album è infatti quello di reggersi perfettamente su una scrittura intensa ed emozionante, che non rinuncia però alla semplicità della musica "leggera". L'incedere di synth in salsa eighties de L'innocenza è un buon esempio di quel pop elettronico che costituisce l'anima del disco, declinato e differenziato in brani che da un lato mantengono una sostanza intima e riflessiva e dall'altro tendono a una particolare ricerca del suono e della melodia, attraverso una costante attenzione per atmosfere, linguaggi e strumenti di volta in volta differenti tra loro. Così i nove brani di La leggerezza nelle nuvole si rivelano, a volte leggerissimi, altre volte maggiormente meditativi e umbratili, come piccole gemme pop da scoprire ascolto dopo ascolto. Difficile dire se sia preferibile la vena electro-wave di Mi aspetto di tutto (brano registrato assieme a Lele Battista) o la malinconica grazia di un Le tue ali "rubato" al repertorio di uno dei nostri migliori parolieri di sempre, Mario Lavezzi – giusto per sottolineare ancora una volta la capacità di Cattaneo di padroneggiare la sostanza cantautorale in tutte le sue sfumature, evitando il rischio di una retorica pesantezza nei testi e nelle melodie.
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Outfit - Performance (Double Denim Records,2013)
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A fine ascolto, rimane poco altro da aggiungere sulla validità di un artista che, dopo quasi vent'anni di carriera, ha ancora molto da dire. Ecco un bel disco di canzoni d'autore. 7.2/10 Giulia Antelli
Genere: pop, rock Che un disco di Paul McCartney targato 2013 riesca ad attirare su di sè genuina curiosità prima ancora che obbligatoria, doverosa e scontata riverenza, è già una gran cosa. Sin dal momento in cui era stato reso noto che per dare un seguito al suo ultimo album di inediti, Memory Almost Full (2007), avrebbe lavorato con quattro produttori diversi, il ronzio intorno al Beatle si era fatto sempre piu' insistente, con le aspettative che montavano a ogni annuncio, a ogni tweet, a ogni rivelazione. Ma come? Da quando Macca è così cool? Non è forse lo stesso anziano signore che non troppo tempo fa se ne era uscito con un dischetto di standard vecchi di ottanta-novant'anni, giusto per il piacere – pretenzioso e lezioso quanto basta – di farlo? La verità è che, come abbiamo avuto modo di dire allora per Kisses On The Bottom, in virtù del suo lignaggio e della sua ormai cinquantennale militanza Sir Paul ha fatto più o meno tutto. In mezzo a questo tutto ci sono anche cosucce a loro modo sperimentali, piuttosto weird se vogliamo, tanto che negli ultimi tempi, specie in certi ambienti, sembra diventato incredibilmente di moda sdoganare cose come McCartney II o i lavori a nome Fireman; sì, Paul è (stato?) anche un nerd, a suo modo, e se non fosse chi è oggi magari certe cose le pubblicherebbe su Soundcloud. Non che questo McCartney di New sia orientato prevalentemente e smaccatamente a quel tipo di pubblico hipster 2.0 (per quel genere di cose, meglio
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Antonio Pancamo Puglia
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Paul McCartney - New (Hear Music,2013)
rivolgersi alla sua recente comparsata nel disco di Bloody Beetroots), ma non deve neanche stupire troppo che queste nuove canzoni stiano avendo così tanti riscontri, positivi e soprattutto trasversali, mettendo d'accordo tanto Pitchfork quanto il Guardian. D'altronde è l'anno di The Next Day, e il Nostro si è anche detto genuinamente ispirato dalla mossa del sempiterno collega/rivale David, non mancando di esternare le sue simpatie per National o altre cose che oggi rappresentano lo stato dell'arte del pop d'autore. Cosa straordinaria: in questo c'è senz'altro dell'umiltà, della voglia di rimettersi in gioco, pur con la consapevolezza piaciona del volpone che è sempre stato. New è un'opera(zione) che suonerebbe paracula come poche, sin dal titolo. E invece risulta credibile, per il modo in cui Paul si lascia guidare dalla mano dei collaboratori di turno. Lo aveva già fatto, di recente, con Nigel Godrich (Chaos And Creation In The Backyard) e con quello di David Khane (Memory Almost Full). Qui funziona ancora meglio, con i blasonati Paul Epworth e Mark Ronson da un lato e i figli d'arte Ethan Johns (di Glyn, quello di Get Back) e Giles Martin, in un dialogo inedito tra possibilità e tradizione. Con un piede nella nostalgia e uno nel divertissement, pur ondivagando come gli è solito, Macca ci regala un disco che vive di equilibri miracolosi e inaspettati, confermando ancora una volta il teorema secondo cui, con dei buoni compagni di viaggio (più prosaicamente, con qualcuno che argini il suo ego e stimoli la sua curiosità), riesca a dare il meglio di sè. Come molti altri dischi targati McCartney, New è un disco imperfetto, ma così pieno di vita. E a uno della stessa generazione di Lou Reed, John Cale, Keith Richards, Mick Jagger, Ray Davies, Neil Young e David Bowie, è la cosa più bella che si possa chiedere. 7/10
Genere: rock, grunge Non si può negare che il decimo album in studio dei Pearl Jam sia stato tra i più anticipati e sia già tra i più discussi degli ultimi mesi. Questo aspetto di per sé è un sufficiente attestato di longevità per la band di Seattle e per la sua capacità di fare presa sulla scena musicale; un dato di fatto che prescinde dalle considerazioni sulle mancanze di alternative credibili nel campo dei modern classic, la dimensione naturale in cui Eddie Vedder e compagni giocano la propria partita almeno dai tempi di No Code. I due brani resi di dominio pubblico prima dell'uscita ufficiale di Lightning Bolt hanno lanciato segnali contraddittori. Mind Your Manners, un onesto punk rock con riferimenti alla scuola californiana dei primi anni '80 (Dead Kennedys per i riff di chitarra e Bad Religion per il bridge e i cori), non offre molto più del remake di una Spin the Black Circle con sonorità più cadenzate e manieristiche. Meglio Sirens, una ballata che ha almeno una linea melodica interessante e rappresenta uno dei brani che qui accendono la luce. Presenta di sicuro qualche ridondanza e stucchevolezza nell'arrangiamento, ma anche alcuni tocchi indovinati, come il giro armonico di Mike McCready alla dodici corde acustica. E poi c'è l'interpretazione di Eddie Vedder, che da sola assicura quel quid in più. L'album nel suo insieme riflette la stessa ambivalenza e si rivela non il disastro preconizzato da qualcuno, ma sostanzialmente un disco minore nella carriera dei Pearl Jam. Uno tra i meno ispirati, senza per questo essere un flop totale. Se l'impressione di calma piatta del primo ascolto svanisce non appena ci si addentra nei successivi, l'idea che i momenti da worst of (il finale di Pendulum: ma perché?) superino, per quanto di misura, quelli da best (non
pervenuti) è ugualmente ingenerosa (anche se non troppo). Oltre a un discreto teaser iniziale con Getaway, c'è una bella Sleeping by Myself riacciuffata in altra veste da Ukulele Songs di Vedder, con i suoi profumi West Coast, e ci sono pezzi che recuperano terreno strada facendo: gli sviluppi melodici che riscattano My Father's Son e la title-track e gli squarci di pop psichedelico che aprono il rock blues di Let the Records Play dimostrano come la band sappia riprendersi con classe (e mestiere) da attacchi un po' banali. Ciò non toglie che un brano sovraccarico come Infallible ce lo saremmo aspettato più dai tanti epigoni di Vedder e soci che dagli originali (nei momenti migliori ricorda Taillights Fade dei Buffalo Tom, nei peggiori gli Stone Temple Pilots, riecheggiando certe ballate degli Aerosmith), mentre a Yellow Moon e a Future Days manca qualcosa per diventare davvero memorabili. I Pearl Jam confermano tutta la loro conoscenza enciclopedica del rock con le chitarre e la raffinatezza interpretativa; semmai è l'ispirazione a fare un passo indietro. Chi dai propri beniamini si aspetta sempre il meglio, rimarrà con l'amaro in bocca; chi apprezza una band che continua a fare il suo dovere dopo vent'anni di onorata carriera, vedrà il classico bicchiere mezzo pieno. La realtà a volte – salomonico, ma vero – sta nel mezzo. E non un passo più in là. 6/10
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Pearl Jam - Lightning Bolt (Monkeywrench Records,2013)
Tommaso Iannini
Pop. 1280 - Imps of Perversion (Sacred Bones,2013) Genere: post-punk Pigfuckers of the world, unite, i Pop. 1280 son tornati. Slogan d'annata a parte, il rientro in pista del quartetto newyorchese riapre le ferite sanguinanti dell'epoca d'oro del noise-rock più straniante d'inizi '90, in virtù di un approccio che è sempre iconoclasta e feroce. Aleggia
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7/10 Stefano Pifferi
tolano Honduras, ad evocare forse esotismo letargico e insidioso, non è dato sapere, comunque affondando la lama nel corpus indie con un piede (e mezzo) sul continente americano, accogliendone il senso di frontiera spersa così come il piglio energico. Rispetto all'esordio è evidente la maggior padronanza, sia in profondità che in estensione, così come la cura dei dettagli (non si sceglie certo a caso un producer come Giacomo Fiorenza). Ciò che consente a pezzi come Rain Song di ricordare i più soffici Grant Lee Buffalo che giocano a fare i Karate, così come New Day scomoda retaggi di certi Pearl Jam (quelli più ombrosi) e Shine A Light la verve dei Folk Implosion più accomodanti. Se tutto questo suona credibile e coeso è dovuto in gran parte ad una qualità non comune in ambito rock nostrano, ovvero una voce di tutto rispetto – quella di Dario Bosco – capace di modulare tra la densità bluesy di un Ben Ottewell ed il lirismo sperso di un Grant Lee Phillips, e in grado di farsi carico del quid emotivo quando occorre, vedi il caso di Going To The River (trepidazioni letargiche che rammentano i primi Early Day Miners) o nel sortilegio rarefatto di The Hole. Potremmo individuare un difetto nella strisciante ossessione per il sound da tardi 90s, con l'eccesso di pienezza emotiva del caso ed il senso di nostalgia prematura, ma al netto di ciò è un lavoro gradevole e intenso, di quelli che dal rock "altro" italiano ci attenderemmo più spesso. 6.9/10 Stefano Solventi
Redroomdreamers - Honduras (Happy/ Mopy,2013) Genere: rock, alt, wave, folk A tre anni da Rooster On The Rubbish, accolto in formazione il quarto elemento Michele De Finis, i campani Redroomdreamers confezionano il sophomore della maturità. Lo inti-
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Rival Consoles - Odyssey (Erased Tapes,2013) Genere: electro Quelli di The Milk Factory non potevano trovare definizione migliore: in Kid Velo si potevano ascoltare i Daft Punk sporcarsi le mani con
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su questo Imps Of Perversion, lo suggerisce il titolo stesso, una depravazione che è oltre la media dei gruppi rock contemporanei. È quella perversione eccentrica e molesta tipica di band come Birthday Party o, per rimanere a tempi più recenti, Jesus Lizard o Cows. Quella sboccata, senza remore, sessualmente esplicita e volgarmente manifesta che da sempre, ma in particolare in quel buco di culo che fu il Lower East Side newyorchese di fine '80, ha accompagnato la musica della perversione, il rock'n'roll, figlio degenere della musica del diavolo, il blues, verso le terre del non ritorno. E in Imps Of Perversion i quattro sembrano proprio trasformarsi nei folletti maligni che riportano in vita la band di un giovane e sregolato Nick Cave: The Control Freak vive della stessa tensione teatralmente drammatizzata e viscerale degli imberbi Birthdays, così come la conclusiva Riding Shotgun riprende quel filo ma ne offre il rovescio malsano, ripugnante nella sua lentezza avviluppante e nella sua malsana dolcezza. In mezzo, il solito rosario di efferatezze sonore tra compressioni futuribili (Population Control) e boogey'n'roll imputridito (Human Probe), recrudescenze Cop Shoot Cop (Do The Anglefish) e bluesacci martirizzati, che fa di Imps Of Perversion il solito bel sentire con poche scene, zero orpelli, molta malvagità. Musica repressa per giovani repressi.
Edoardo Bridda
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Rural Electrification Orchestra The Sleepwalker (Improvvisatore Involontario,2013) Genere: jazz Massimo Spano (basso/contrabbasso), Matteo Marongiu (contrabbasso), Maurizio Piasotti (tromba), Marcello Carro (sax contralto/soprano), Alessandro Angiolini (sax tenore), Francesco Sangiovanni (sax baritono), Maurizio Floris (sax basso), Elia Casu (chitarra), Roberto Migoni (batteria): insieme sono la Rural Electrification Orchestra, combo sardo di musica jazz che fa dell'impostazione accademica un fattore non prevedibile. Dopo aver ascoltato i dieci brani del secondo disco The Sleepwalker – il primo, Col fiato sospeso, è del 2010 ed è stato registrato da una formazione leggermente diversa – il pensiero non può che andare ai timbri ricchissimi della Liberation Music Orchestra di Charlie Haden. Ed è forse lì che i musicisti di Massimo Spano vogliono andare a parare, rielaborando una serie di influenze classiche grazie all'ampio dispiego strumentale: dagli accenti ellingtoniani di Dear Friend ai saliscendi orientaleggianti di Big Foot, dal Charles Mingus di Close Room e Afro Blue alle derive quasi funkjazz dell'iniziale Green Street. Misto di improvvisazione e qualche struttura per coordinare tutto il lavoro dell'orchestra, The Sleepwalker si dimostra un'opera assai godibile, pur non stravolgendo nulla del contesto stilistico cui fa riferimento. Una rilettura che ci pare più un omaggio affezionato, suonato con stile, cuore e tecnica. 6.7/10
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le produzioni più toste di Clark pre-Iradelphic, quando il precedente album, il debutto IO di due anni prima, rappresentava in sintesi un propedeutico (e centrifugato) viaggio attorno alle memorie techno d'Albione tra acid, bleep e house. Passano due anni e Ryan Lee West è già un'altra cosa. Rimane la rilettura del catalogo classico Warp da un'ottica neo classical (Phillip, con tributo ancora a Clark) – conservando così una linea estetica Erased Tapes - ma alla drill di Aphex Twin (o all'electro spinta) s'è sostituita un'accorata osservazione e cura per gli ambienti. Si va da naturali atmosfere elettroniche 70s – magari in salsa disco come abbiamo sentito in Darkside (Odyssey) – a felpati passi soul funk (Soul con ospite Peter Broderick), fino al cuore della faccenda, una Voyager - traccia scelta come singolo in free download e streaming – che inverte il processo creativo di Kid Velo mettendo al centro la pulizia, l'incanto synth(etico) e la ricerca per il perfetto intingolo di spezie, tra sapori e odori (leggi anche: cura per campioni di ottimo livello). Ryan presenta in anteprima il lavoro accanto agli amici e compagni d'etichetta Ólafur Arnalds e Nils Frahm (anche loro freschi di pubblicazioni discografiche) all'Erased Tapes Night, all'interno della rassegna The Hydra, a Londra il 18 ottobre 2013; lo stesso giorno si esibisce ai Phonica Records in un set completamente analogico. Avevamo già addocchiato il producer di stanza a Londra nel 2011 e lo intervistammo nel luglio di quell'anno, quando era ancora in fissa per synth ultra saturi e melodie complicate; continuiamo a seguirlo ora con la stessa dedizione, ammirando i nuovi acquari sonori e la maturazione del ragazzo. Eppì prezioso e consigliato. 7/10
Fabrizio Zampighi
Ryan Hemsworth - Guilt Trips (Last Gang Records,2013) Genere: soul, elettronica Alle prese con Ryan Hemsworth, è subito
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tinge di musica black, sia quando le atmosfere collassano in un sentimento più ambient, sia quando si arriva al limite della dance. Complice in tutto ciò, una schiera non indifferente di collaboratori, che l'enfant prodige canadese ha pensato bene di tenersi stretti dopo averli conosciuti nella sua breve ma intensa carriera. Se dunque Small + Lost, nella sua malinconica strada, fa incontrare James Blake e Bonobo, è anche grazie alla voce Randb della londinese Sinead Harnet, che, guarda caso, i Disclosure avevano già provveduto a chiamare alle armi. Sebbene i tappeti melodici riescano a trovare una certa continuità nel disco, la schizofrenia innata dell'insaziabile Hemsworth trova gioco facile tanto nelle parti hypno (Against A Wall) scritte insieme all'amico Lofty305, quanto negli spunti witch o post-dubstep di Weird Life, che, in un gioco di bassi finissimo (chissà che non gli venga proprio da quel Consequence dei Notwist…), fa incontrare i Fuck Buttons e Holy Other. Il piccolo talento canadese non ha nemmeno paura di mostrare un lato sensibile, che, come spesso accade, in musica si trasforma in un lato pop. E certo la voce di Bath gli dà una grossa mano in questo. Still Cold, infatti, è un brano che rimanda ancora a qualche prova della Morr, ma anche a qualcosa dei Postal Service, con il suo arrangiamento estremamente minimale, ma genuinamente electro pop. Sulla scia delle collaborazioni – deliziosa ma un po' stucchevole – la voce della californiana Tinashe (classe 1993) in One For Me, in cui l'asservimento dei pattern elettronici all'Randb risulta totale, dimostrando ancora una volta come le due realtà non possano più essere considerate separatamente. Le cose si fanno vagamente più interessanti quando Hemsworth lavora per conto proprio. I cinque brani strumentali viaggiano verso derive Machinedrum senza sfacciataggine,
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palese che il lato social è coperto. Coccolato dai media più hipsteristi, il giovanissimo producer di Halifax si è trovato praticamente la strada spianata verso il successo. Sono bastati i remix parafulmini di gente come Lana Del Rey, Cat Power o Grimes per aprirgli le porte dell'Eden, che sono passate prima dall'EP-rivelazione dell'agosto 2012. Hemsworth, da abile surfista, cavalcava l'onda più alta dell'empireo musicale che conta, facendo delle sue produzioni un abile crossover di generi, con i picchi più evidenti all'altezza di un certo gusto hip hop, lallazioni juke / footwork e una serie di smalti malinconici tinti Randb e delicate serpentine trap. La manciata di video collezionava migliaia di visualizzazioni, complice la neonata devozione rap del pubblico hipster. Non gli era servito neppure il contratto discografico milionario, perché a detta di tutti il ragazzo coi laptop ci sapeva fare e poteva permettersi di uscire sulla "piccola" Wedidit, che, nel frattempo, fra Shlohmo, R.L. Grime e Jonwayne, rendeva rispettabile il suo orticello. Un orticello che sacrificava sull'altare dei campionamenti gente come Notwist o Elliott Smith, che si sporcava le mani e i polpastrelli nel mondo dei social network ben prima di passare attraverso quello dei videogames 24 bit. Il buon Ryan era quindi atteso al varco dell'LP, disco che esce per una label di tutto rispetto come Last Gang (in roster Metric, Crystal Castles, Tiga e MSTRKRFT, per dirne alcuni). Ascoltatori curiosi e critici maliziosi lo aspettavano anche per svelare il mistero del melting pot stilistico che aveva reso Last Words (e in parte anche l'esperienza trasversale di Still Awake) così complesso e affascinante. Il lavoro, dal titolo Guilt Trips, si conferma una creatura complessa e affascinante, tanto vale dirlo subito. Il sistema variegato di arrangiamenti funziona benissimo, sia quando l'occhio mira più al hypno-rap, sia quando si
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Nino Ciglio
Sébastien Tellier - Confection (Record Makers,2013) Genere: pop, cantautori, colonnasonora Tellier l'ha sempre avuta tra le sue caratteristiche: quell'irreprensibile e maniacale passione per la musica da pellicola, che, nella mente arzigogolata del compositore francese, si trasforma in pacchiana e smisurata (diciamo pure pop) passione per il lussureggiante, per lo sfarzoso, per l'epico. Dopo aver dato alla luce l'illuminato My God Is Blue, in cui il misticismo e il visionario erano parte integrante del processo creativo dell'istrionico cantautore, che, alla fine optava per soluzioni pop, sexy folk e, sempre più spesso, electro funk, il nuovo Confection sembra gettare lo sguardo più indietro, verso i primi lavori, come Politics o L'incroyable vérité, dove Seb giocava a fare il Bacharach della nostra generazione. Concepito come colonna sonora di un film,
Confection è una vera e propria pièce suddivisa in quattordici brani, legati – come accade ormai di consueto quando si parla di Tellier – dal filo conduttore dell'amore, della sessualità e della sensualità. In pieno french-style, dunque, la scelta di cominciare con un Adieu molto Nouvelle Vague. Come dire: il cammino dell'uomo timorato è minacciato da ogni parte da un eterno sopore malinconico, che si intromette nelle partiture d'archi di questo spericolato esperimento. La produzione è all'altezza del progetto: Tony Allen (già con Fela Kuti e con lo stesso Tellier per La Ritournelle) alla batteria, Robin Coudert (già turnista dei Phoenix) alle tastiere e Emmanuel D'Orlando a curare i complessi arrangiamenti degli archi. Archi che, com'è ovvio quando si parla di soundtrack, hanno un ruolo decisivo nel dipanare la matassa, tanto da spingere Seb a presentare l'album in anteprima in uno spettacolo con orchestra a Parigi. Difficile tentare di cogliere i brani svincolati dal fine unico di costituire questo nostalgico tramonto orchestrale. C'è ovviamente il tentativo di avvicinarsi sempre più ad un'epifania che non ha bisogno di parole per rivelarsi. Tutti i brani, tranne L'Amour Naissant, sono strumentali e, se da una parte (Adieu, Adieu Mes Amours, Coco, Coco Et Le Labyrinthe) si avvicinano all'esperienza del maestro Ennio Morricone, nel suo capolavoro C'era una volta in America, dall'altra (Hypnose, Delta Romantica, Curiosa) applicano un certo straniamento che si muove verso i territori di un altro grande delle colonne sonore, Angelo Badalamenti. Il trittico de L'Amour Nassaint è l'ideale equilibrio di queste due scie. Waltz è, invece, il brano fuori luogo, concepito forse per una scena particolarmente gioiosa. Risuona, in fondo, la sensazione di avere a che fare con una citazione di qualche piéce di Danny Elfman, il quale (anche lui), ha nel portfolio un bel po' di atmo-
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risultando quindi, per certi versi, una devoluzione del soul-step del dj di stanza a NYC. Fra malinconia e costruzioni barocche, sembra quasi, per un attimo, di poter rientrare in un certo gusto post-garage. Di fatto, però, non è così, perché Hemworth fatica a trovare una strada che lo rappresenti veramente, a causa – presumibilmente – di un senso di non appartenenza musicale ben radicato. Non sfrutta il rap, che lascia (con buone prove, intendiamoci) un po' ai bordi del suo narcisismo elettronico. Non approfitta dell'Randb, che in certe occasioni si fa troppo languido e leggero, venendo a cozzare con l'attitudine irrequieta del suo producing. Guilt Trips, in definitiva, è un ottimo disco fatto di canzoni mediocri. Pullula di potenziale, ma non esplode mai, rimanendo timido in un modo così delicato, che può far solo ben sperare per l'avvenire del suo autore. 6.8/10
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Nino Ciglio
Swearin' - Surfing Strange (Wichita Recordings,2013) Genere: punk, grunge, indie, garagerock A un anno dall'omonimo ed acclamato disco di esordio, gli Swearin' tornano sulla scena punk / garage con il sophomore intitolato Surfing Strange per una meritata riconferma. Allison Crutchfield, dopo aver abbandonato la dolcezza pop che si mescolava a un punk adolescenziale nel progetto P.S. Eliot con la sorella Katie e dopo aver superato in termini di qualità (se non di fama) quella stessa sorella (aka Waxachatee, che sempre nel 2013 ha pubblicato un sottotono Cerulean Salt), ha capito esattamente quale direzione prendere e, assieme al compagno Kyle Gilbride ed i colleghi Keith Spencer e Jeff Bolt, ha dato vita a Surfing Strange. Ci si trova di fronte ad un chiaro proseguimento del progetto iniziato con il primo album e
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difatti alcune canzoni potrebbero tranquillamente sembrare delle B-side di Swearin' (Dust In The Gold Sack, Young), mentre altrove è lampante l'evoluzione di un percorso che ha condotto la band di Philadelphia ad aprirsi maggiormente verso un suono meno aggressivo (Waterd Down, Mermaid). Di conseguenza la velocità del disco è calata (Echo Locate) raggiungendo addirittura sinuose inflessioni simil garage-ballad in Loretta's Flowers. Una gamma sonora più eterogenea che arriva fino alle lente ambientazioni roche degli ultimi The Kills (Melanoma), toccando per la prima volta i tasti del piano (Glare Of The Sun) al sapore di Eleanor Friedberg. Pur non avendo scoperto nulla di nuovo, gli Swearin' hanno bilanciato perfettamente le morbide linee vocali con un modo personale di intendere ciò che è stato il garage e il punk e, variegando sonorità graffianti e melodiche allo stesso tempo, hanno portato alla luce suggestioni semplici ma non banali. Il risultato è un disco piacevolissimo da ascoltare. 7.1/10 Alessandro Rabitti
Tempelhof - Frozen Dancers (Hell Yeah,2013) Genere: kraut, ambient, electro Ne è passato di tempo da quel 2009/2010 in cui si provava a sperimentare su Distraction Records (We were not there for the beginning, we won't be there for the end). I Tempelhof cambiano casacca e approdano al secondo disco con un'elettronica intimista, piena di minimalismo, visioni di paesaggi arty-wave dei già citati esordi e di futuri post-dubstep. Luciano Ermondi e Paolo Mazzacani, dopo due EP sempre su Hell Yeah (You K nel 2012 e City Airport della scorsa estate) e svariati remix (tra gli altri: Ajello, Crimea X, Fabrizio Mammarella e Confusional Quartet, raccolti in digitale
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sfere sognanti e malinconiche; basti pensare a film come Big Fish, Will Hunting, L'amore che resta. Il rischio blasé è sempre dietro l'angolo. L'operazione può suscitare in alcuni sensazioni rivelatrici, sentimenti forti, lacrime, stupore, ma può facilmente innervosire altri. Il motivo è da ricercare nell'indole dello chansonnier, che è portato sempre a preferire il pomposo, il barocco, l'altisonante, il sopra le righe, il neoclassico. Chiaro che è una facoltà lecita, tanto che si potrebbe associarla agli esperimenti (ok, anche quelli di gusto controverso) sul kitsch di Jeff Koons e simili. Quel che rimane sul nastro è una personalità multiforme, che ha voglia di mettersi in gioco e provare a percorrere tutti i sentieri che ha a disposizione. Lo fa con il santino di Gainsbourg accanto al microfono e la stessa poca coerenza che è propria del pop. Meglio di così. 7/10
Marco Braggion
The 49 Americans - We Know Nonsense (Staubgold,2013) Genere: pop, alt, indie, post-punk, lo-fi, avant Dalle pieghe degli anni '80, la Staubgold ripesca le testimonianze di quella che nella sua breve vita fu un esempio di utopia dal sapore americano (benché gli unici americani nel gruppo, nonostante il nome, fossero soltanto gli antenati di uno dei fondatori): i 49 Americans, sorta di collettivo free-form che nei primissimi anni del decennio produsse i due album e l'EP raccolti in questo lungo cd (40 canzoni). Utopia americana e ultra-democratica, nel senso che, con un mix di serietà ed evidente ironia, portava all'estremo le istanze del punk,
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secondo cui tutti potevano suonare uno strumento anche se non sapevano farlo, seguendo l'idea che la musica è per tutti. Persino per chi sa suonare, verrebbe da dire trovando nei crediti anche l'ex Flying Lizards David Toop e altri, venuti fuori dal giro di un London Music Collective che si riuniva nel capannone dove i Nostri trovarono ospitalità. Ma anche perché il collettivo dichiarava, come obiettivo, la ricerca della felicità (che è nella Costituzione USA) e rivendicava la parità tra tutti i generi di musica, l'uguaglianza tra musicisti e non-musicisti che suonano con spirito anti-divista e per il puro gusto di stare insieme, divertirsi e sorprendersi a vicenda: libertà era anche libertà dai limiti tecnici. Questo principio, messo in atto accogliendo e coinvolgendo più o meno chiunque fosse nei dintorni (perfino le madri di due del gruppo) e giocando a scambiarsi gli strumenti sul palco (ovvio che poi, come ricordato nel libretto, gli intervalli tra un pezzo e l'altro fossero più lunghi delle brevi canzoni in repertorio), veniva applicato non a un rock furente di anarchia e nichilismo ma al pop, secondo quanto enunciato in It's time, cioè che "la musica allegra non dev'essere per forza stupida" - ma anche per fuggire l'aborrita seriosità che Toop e Giblet riscontravano nei gruppi contemporanei. Il risultato è in linea con l'approccio, e dalla semplicità apparente sgorgano piccoli bozzetti di pop sgangherato e allegro, minimalista e informale, con una magia serena e innocente à la Jonathan Richman (e che specie quando si gioca al pop accorato, richiama anche i Magnetic Fields), da un lato ricordando la contemporanea esperienza dei Beat Happening, dall'altro accogliendo cascami pop di ogni tipo e latitudine: qui siamo al doo-wop (l'iniziale, eloquente fin dal titolo Doo-BeeDoo-Bee) e lì ai Contortions (o giù di lì, vedi Glimpse Go By), qua alla salsa (Liberty) e là
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in The Remixes) propongono nove tracce che idealmente potrebbero essere divise in un lato A (le prime cinque) più minimal/ambient e un lato B corto, più da ballo. Drake introduce il discorso con suoni aggraziati e progressivi, Monday Is Black viaggia su nebbie meditative e qualche colpo vocale con battute spezzate, Change alza il tiro con ricordi suburban-Burial, Nothing on the Horizon (forse il pezzo più riuscito) ti lascia sballottato fra club e vocal femminili oniriche, Sinking Nation e She Can't Forgive preparano la pista per la baldelliana The Dusk o per la conclusiva bonus track. Un disco che volontariamente non decolla ed eredita molto dai gusti raffinati dei synth '00 nordici (Tarwater, múm). Piacerà moltissimo a chi rimpiange quel periodo di electro-diaspora dall'acid o anche agli ex abbonati di New Age and New Sounds. Si ascolta bene, piacevole, ma come dice il titolo, alla lunga risulta un po' troppo freddo. Per scaldare la pista aspettiamo stomping più calorosi. Buono sì, ma per la decompressione. 6.8/10
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Giulio Pasquali
The Dirtbombs - Ooey Gooey Chewy KaBlooey! (In The Red Records,2013) Genere: garagerock L'aveva minacciato tante volte Mick Collins e alla fine l'ha fatto davvero il disco bubblegum. Non che sia nuovo alle reinterpretazioni perché già Ultraglide In Black era un album di cover e omaggi ai suoi miti soul, e stesso discorso valeva per Party Store in riferimento alla techno di Detroit. Più difficile era pensarlo alle prese con Monkees, Archies, nel complesso quella roba un po' scopiazzata dal Merseybeat e studiata a tavolino da produttori come Don Kirshner. Un filone abbastanza inconcludente nella storia musicale americana a cavallo tra i '60 e i '70, che faceva della parodia (e chissà, magari anche dell'autoironia) il suo cavallo di
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battaglia ma in grado di azzeccare una serie di hit capaci di arrivare fino ai giorni nostri. Ad ogni modo qui non ci sono cover. Ooey Gooey Chewy Ka-Blooey! é un album di inediti che prende in considerazione la materia a 360 gradi: prevale il lato più giocoso – ed è impossibile non pensare al mondo cartoon di Banana split o Josie and the Pussycat – ma non si disdegna nemmeno la parte tutta zucchero e miele che trova l'apice in un brano (programmatico sin dal titolo) come The Girl On The Carousel. Certo fa strano trovare il re del rock'n'roll 90s in queste vesti, e forse non se ne sentiva nemmeno il bisogno. Eppure colpisce, oltre al mero piace/non piace, la bravura dei quattro nel maneggiare qualsiasi genere musicale e renderlo proprio, la capacità di farne un disco Dirtbombs e di riuscire sexy and catchy anche nel più innocuo dei raggi d'azione. Ci sono sempre i fuzz di Mick, la doppia batteria, i tocchi di classe fuori dalle righe come No More Rainy Days/Sun Sound Interlude. Non è il disco migliore della formazione ma è rassicurante sapere che, con i Dirtbombs, un motivo per ascoltare lo trovi sempre. 6.8/10 Stefano Gaz
The Talking Bugs - Viewofanonsense (Lobster Art Collective,2013) Genere: pop, cantautori, folk The Talking Bugs è un progetto bolognese che nasce dall'incontro tra Alessandro di Furio, Fausto Ghini e Paolo Andrini, con l'aggiunta del percussionista Youssef Ait Bouazza. Una formazione che arriva all'esordio Viewofanonsense dopo l'EP Deep, preludio di una formula riproposta anche nel suddetto full-length. Nonostante i presupposti di ricerca all'interno di un canone che spazia dal pop al folk, dal cantautorato classico alla world music, i ritmi caldi e mediterranei che percorrono i nove brani di
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alla bossa (Taste), passando per il rockabilly (It Is And It Is) e all'incirca qualsiasi altra cosa, tipo una title-track che rilegge Lee and Nancy in chiave notturna o la versione degenerata del Gainsbourg percussivo con inserti quasi disco di Mon Nuisance. E così via. All'epoca del disco che dà il titolo alla raccolta, i Nostri erano passati dalle canzoni di 58 secondi fatte in casa con un mangianastri a cassette del primo singolo (che con programmatica generosità ne conteneva 14, il massimo possibile), rispetto alle quali Inascoltable degli Skiantos sembra una versione leccata di Avalon, a (relative) maggiori ambizioni sonore: la differenza si sente, sono anche aumentati i musicisti veri, ma lo spirito rimane lo stesso e la formula risulta meno estrema ma più compiuta. Le ampie note del libretto ripercorrono la storia con lo stesso spirito della musica, risultando quasi altrettanto divertenti. Un ripescaggio davvero meritorio. 7.4/10
Giulia Antelli
Thought Forms - Ghost Mountain (Invada,2013) Genere: pop, psych, noise Troppo forti e troppo nettamente divise le due anime del progetto Thought Forms. Da una parte l'amore incondizionato per i Sonic Youth di mezzo, ovvero per forme di rock tendenti al noise o a certe lande grunge rumorose e sporche; dall'altro, quello per distese di suoni che diremmo psichedelici, dagli umori equamente suddivisi tra derive semi-stoner o in genere hard and heavy e deliqui ipnotici e trasognanti alla maniera degli Om, con appendice di sconfi-
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namenti verso lande da droning estatico. Dopotutto il trio apolide – originario del sud dell'Inghilterra, ma evidentemente, a giudicare dai nomi, figlio del melting pot – assomma le due chitarre a doppia voce di Charlie Romijn e Deej Dhariwal più la batteria di Guy Metcalfe, con i primi due a dividersi rispettivamente le suddette passioni: lei, rocker alternativa da primi '90, lui sperimentatore in fissa con krauterie, stonerismi ecc. Esce così un lavoro buono ma troppo dipendente dalla sua doppia anima, troppo evidentemente spaccato in una dicotomia neanche troppo insolita ma eccessivamente marcata tra le avvisaglie più latamente rock e banalotte – Sans Soleil, la Ghost Mountain You And Me, una Only Hollow indie-alternative primi 90s estratta a forza dalla discografia minore dei Sonic Youth – e i pezzi più dilatati, dalle atmosfere sognanti, cupe, a volte stranianti, come gli otto estatici minuti di dissolvenze oltre-rock di Burn Me Clean o le derive mistiche di Afon. L'esempio lampante di questa schizofrenia compositiva è la conclusiva O: una lunga nenia ambientale fitta di umori mefitici, pronta a svariare su lande spiritual alla Om per poi esplodere in un grunge-rock straight in your face. Come a dire, evviva il paradigma. 6.5/10
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Viewofanonsense si susseguono senza distinzione, attraverso pezzi ben arrangiati ed altrettanto ben eseguiti, ma poco convincenti nella sostanza. A partire da The Lovers, che apre il disco, fino alla conclusiva Broken Sword, l'incedere si limita a quiete atmosfere acustiche arricchite qui e là da inserti del contrabbasso, lontane dalle influenze a cui al disco si rifà e puntualmente riportate dalla cartella stampa: mancano, giusto per elencare qualche esempio, lo sperimentalismo folk-tronico à la Grizzly Bear come la malinconica urgenza del dream pop, ma soprattutto due o tre potenziali singoli che alzino il tiro del disco e che possano rimandare all'unico riferimento forse davvero riconoscibile, ovvero i Kings Of Convenience. Nonostante una produzione accurata ed episodi piacevoli (Laika, Like A Ship On The Sea), dunque, i brani suonano un po' come riempitivi, forse anche per la loro eccessiva lunghezza (tutti intorno ai cinque minuti): una monotonia che non viene evitata né adottando lo stile pop crepuscolare in aria Simon and Garfunkel, né attraverso la tenue vocalità di Di Furio. Un esordio ancora acerbo e monocolore, che si perde nel mare immenso delle nuove proposte. 5.5/10
Stefano Pifferi
Threelakes and The Flatland Eagles War Tales (Upupa Produzioni,2013) Genere: cantautori, rock, folk Dietro al nome di Threelakes si cela Luca Righi, mantovano, che assieme ai Flatland Eagles – Andrea Sologni dei Gazebo Penguins, oltre a Lorenzo Cattalani, Raffaele Marchetti, Marco Chiusi e Paolo Polacchini dei Three In One Gentlemen Suite – approda, dopo l'EP solista Four Days, all'esordio War Tales. Un album collocabile sotto l'ombrello del folk-
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(March). Si potrebbe forse rimproverare il gruppo per una vicinanza eccessiva a un passato musicale limitato all'area seventies, tuttavia, scongiurato il pericolo della pura imitazione, resta una buona maturità compositiva. War Tales è senz'altro un esordio da tenere in considerazione, soprattutto per la capacità di maneggiare abilmente immaginari e riferimenti. 7.1/10 Giulia Antelli
Tiny Tide - Meat is Moroder (Kingem,2013) Genere: brit, psych, shoegaze, dream, noise Il settimo album targato Tiny Tide propone ancora una volta un distillato della poetica del suo leader, solo modificando le dosi e qualche ingrediente. L'effetto è disarmante soprattutto per come, smaltito il senso di ripetitività, dalle canzoni esali un impasto irresistibile di entusiasmo e struggimento. Concepito come una sorta di concept dedicato alle vicissitudini personali dell'estate appena trascorsa (un po' come già fece Plato's Summer Stars), questa sorta di blog musicale zondiano non può fare a meno di passare dalle parti di quel Moroder riesumato con fasti ipermediatici dai Daft Punk, solo che in questo caso diventa un affare ben più intimo e frugale, una declinazione tra le altre dell'incommensurabile sogno pop rock (notevole il Limhal metabolizzato Sarah Records di Drunk Pictures In The Loo). Quanto al resto, tra devozioni smitshiane e vampe noise in agrodolce (la conclusiva Royal Park sembra Cobain che sogna i Jesus and Mary Chain), spiccano nella dozzina di tracce due omaggi espliciti: l'iniziale Honky Tonk Pollard – arrangiamento caleidoscopico surgelato in un'allucinazione Stones – e quella In Love With The Shangri-Las che sparge sapore di sale californiano su beat 60s ribadendo la sostanza dell'immaginario Tiny Tide, mondo parallelo di
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rock, un genere, questo, che nell'ultimo decennio ha generato un'ondata di gruppi orientati ad altrettante differenti declinazioni, in bilico tra richiami alla tradizione e orecchiabilità da classifica, con episodi di grandissima qualità da un lato (ad esempio, i Fleet Foxes) e prodotti più o meno convincenti con l'occhio strizzato al mainstream dall'altro (Mumford And Sons, The Lumineers). In tutti i casi, si parla di album e band che hanno gettato le basi del loro successo negli Stati Uniti, e non potrebbe essere altrimenti vista la tipicità "nazionale" di folk, country e derivati. Da noi, invece, è finora mancata una proposta che riassumesse, o meglio, riempisse questa nicchia, e i motivi posso ricercarsi principalmente in una fedeltà pressoché assoluta alla nostra canzone d'autore, ma anche nel rischio che comporta cimentarsi in tale impresa senza cadere nella trappola dell'imitazione. Luca Righi e compagni hanno saputo evitare tutto questo grazie a dieci brani che richiamano tanto all'alt. country dei Wilco quanto il songwriting classico dell'imprescindibile Neil Young, ma con personalità da vendere unita ad una grande cura per gli arrangiamenti e soprattutto per i testi. La maggior qualità dei Threelakes And The Flatland Eagles è tuttavia quella di costruire melodie riconoscibili già ad un primo ascolto, a cominciare dall'iniziale Wild Water, che, per molti aspetti, presenta e sintetizza i temi principali del disco. Troviamo storie d'amore e di guerra, dove ricorrono il viaggio, la lontananza da casa e dalla famiglia (D-Day, The Walk), ma anche racconti di rimpianto e abbandono, come ad esempio in The Day My Father Cried, una delle canzoni più belle del lotto. Dal punto di vista delle sonorità, non mancano neppure propulsioni elettriche unite all'armonica – come in una Horses Slowly Ride che rimanda al Dylan degli anni '70 – né atmosfere traditional, prettamente acustiche
mitologie e anti-eroi pop con un enorme futuro dietro le spalle. 6.8/10 Stefano Solventi
Genere: indie, folk Storia da favola per questa band di giovani talenti. Lui, un olandese carismatico e creativo, lei una fiammeggiante finlandese, avevano entrambi il sogno di fare del buon songrwriting, come tanti che dal Nord Europa, in questi anni, si affacciano sulle scene internazionali. Cresciuti come busker e conosciutisi ad Innsbruck a un corso di scrittura per la musica, i due simpatici fricchettoni del Nord hanno poi fatto entrare in line up il batterista Sietse Ros, con il quale, da veri viandanti, hanno girato in lungo e in largo, suscitando le curiosità di qualche critico e, soprattutto, della Snowstar Records, che si è offerta di produrre loro Something To Fight For, dopo i due EP autoprodotti. Favola avvincente che suppone un lieto fine (o inizio) in undici tracce dal sapore tremendamente folk, complice una frizzante sezione d'archi, vero e proprio traino dell'intero lavoro. I brani sono costruiti in maniera piuttosto semplice (per non dire banale): un sussurrato iniziale, spesso accompagnato dalla plettrata aperta di una chitarra acustica e in crescendo verso l'esplosione melodica, dove viole, violini e cornamuse fanno il resto. È il classico schema dalla canzone indie-folk, se volete, come ce l'hanno insegnato i primi Arcade Fire, i Fleet Foxes, i Fanfarlo, i Band Of Horses, i Mumford and Sons, Noah And The Whale, gli Shins, eccetera. Il singolo – che si muove in chiave più Camera Obscura – dura due minuti e cinquantotto secondi. Come dire: aspettiamo con ansia di essere opzionati per qualche spot di telefonia
Nino Ciglio
Try Trio - Sphere (Improvvisatore Involontario,2013) Genere: impro, jazz Sphere del Try Trio – formazione composta da musicisti del giro jazz di Improvvisatore Involontario, nello specifico Nicola Fazzini (sax), Gabriele Evangelista (contrabbasso) e Francesco Cusa (batteria) – è un disco mancino e anticonvenzionale. Lo è a partire dalla struttura della band, trio e quindi geometria dispari votata a una certa agilità stilistica e discontinuità nei livelli strumentali; lo è nel punto di partenza di tutto il discorso, ovvero quel Thelonious Monk già di per sé musicista poco ortodosso che i tre decidono di omaggiare alla loro maniera. "Occorreva aggirare le trappole della citazione ad effetto, della struttura riposante, della melodia-boa, dell'appiglio contro l'abisso" si legge nel booklet, ed è esattamente quel che succede nei 43 minuti del disco. Un'unione tra brani autografi e cover di Monk che riesce a suonare organica senza usare retorica, ricca di stimoli senza diventare ostica. Basta avvicinarsi alla rilettura che il gruppo dà
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Town Of Saints - Something To Fight With (Snowstar Records,2013)
cellulare. Euphrates, col suo richiamare i Gogol Bordello, è un brano confezionato e pronto per la prossima Festa dell'Unità. Qualcosa di più malinconico – che mediamente riesce a salvare il disco – si fa sentire in Direction (non a caso la più lunga del pacchetto), che per certi versi ricorda i Local Natives del primo disco. Più che l'elenco stilato in precedenza, verrebbe da ricordare qualche nome più recente: The Lumineers, Of Monsters And Men, Amy MacDonald. Non certo l'ultima frontiera dell'originalità, ma di sicuro artisti capaci di smuovere grandi platee e, magari, di divertire qualcuno. Anche questa, in fondo, è una qualità. 5.8/10
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di Epistrophy per accorgersene, una versione che azzera tutto lo swing dell'originale optando per una destrutturazione soprattutto ritmica (ma anche nella melodia centrale), o magari ascoltare una Amore e cilindri che parte con un inseguirsi di contrabbasso e sax piuttosto free per poi dar vita a fraseggi tipicamente monkiani. Il disco è un dare e avere continuo rispetto alla figura centrale del pianista americano, o forse la perfetta trasposizione in termini improvvisativi dell'allitterazione che spicca nella ragione sociale del gruppo: come a dire armonia e ruvidezza, tutto in una sola soluzione. 6.8/10 Fabrizio Zampighi
Genere: pop, indie Tre anni abbondanti dopo Outburst, che segnava il passaggio a Cooking Vinyl, tornano i Turin Brakes con questo We Were Here che ce li ripropone in splendida forma, ovvero alle prese con ciò che sanno fare meglio: una collezione di pezzi davvero riusciti, dalle parti del country rock pulsante Seventies ma con abboccamenti spacey e lappature cameristiche, sorretti da una scrittura sempre efficace e da un sound forse mai tanto a punto (qualche merito credo debba ascriversi al co-produttore e tecnico del suono Ali Staton, uno che è stato dietro la console per dEUS, Lamb, Pulp, Madonna e PJ Harvey tra gli altri). Il problema – se di problema si può parlare – sta nella natura stessa della loro proposta, tutta schiacciata sulla suggestione superficiale, sulle capacità evocative della confezione. Da questo punto di vista gli ex campioncini del NAM – che col NAM in realtà non hanno mai avuto molto a che fare - brillano per coerenza e onestà intellettuale. Le loro canzoni sono, come dire, pretesti emotivi, cartoline dall'immagina-
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V V Brown - Samson and Delilah (Yoy Records,2013) Genere: pop, synthpop, soul Probabilmente i più attenti si ricorderanno di V V Brown – all'anagrafe Vanessa Brown, madre giamaicana e padre del Porto Rico – come una delle tante giovani promesse made in UK che, intente a sfruttare la golden-age del revivalismo retro-pop souleggiante (da Amy Winehouse a Duffy), raggiunsero il successo sul finire dello scorso decennio. Dopo una lunga gavetta in bilico tra la passione adolescenziale per l'hip hop (V V era il suo nickname da MC)
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Turin Brakes - We were Here (Cooking Vinyl UK,2013)
rio Americana in high definition. Verrebbe da definirli come degli Elbow versione spaghetti western o discepoli dei Verve più carezzevoli, e pezzi come Blindsided Again o la conclusiva Goodbye incoraggiano a farlo. Altrove sembrano dei cuginetti meno estrosi dei Gomez (Dear Dad, con la foga quadrata Free e gli sfarfallii bucolici à la Traffic) oppure dei Fleetwood Mac in sedicesimi con ambizioni Yo La Tengo (Erase Everything). Ma il giochino delle suggestioni va letto come una bacheca di espedienti, mirati ad allestire l'illusione stilistico/atmosferica con indubbio mestiere, come risulta evidente quando le maglie della trama si rilassano in smaccata direzione AOR (lo pseudo gospel sbarazzino di Inbetween, una Guess You Heard ottonata errebì come in certe profondità radiofoniche 80s). La loro è un'arcadia che non esiste, cui non puoi realmente credere, è una malinconia senza inquietudine, una stratificazione sapiente di arredi ad hoc che azzeccano la formula con un inevitabile retrogusto d'accademia ma non senza un pizzico di buon cuore. Da fischiettarsi come un rituale a somma zero, senza timore d'insozzare il karma. 6.2/10
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metà strada tra concretezza '80s e astrazione electro-art del nuovo millennio, come se Grace Jones incontrasse i The Knife. Tra gli apici del lavoro troviamo sicuramenre I Can Give You More (perfetta simbiosi tra certe manipolazioni di scuola FKA Twigs e un chorus che sembra uscire dalla discografia dei Crystal Castles), ma se anche il brano superficialmente più radiofonico del lotto (Faith) riesce in qualche modo ad affascinare e impressionare positivamente, allora bisogna davvero complimentarsi con mrs.Brown perchè non solo si è reinventata ma lo ha anche fatto mettendo insieme brani degni di nota. Se poi volessimo fare gli scettici ad ogni costo, potremmo affermare che oggigiorno le vecchie sonorità di V V Brown non avrebbero mercato, ma si tratterebbe, appunto, di andare a cercare il male anche dove il male non c'è. 6.9/10 Riccardo Zagaglia
White Hills - So You Are… So You'll Be (Thrill Jockey,2013)
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ed una educazione d'alto livello di stampo jazz, Vanessa trovò un contratto con la Island con la quale pubblicò, nel 2009, l'album d'esordio Travelling Like the Light (top30 sia in UK che Francia) contenente il fortunato singolo Shark in the Water. Nel 2012 tutto era pronto per la pubblicazione del secondo capitolo intitolato Lollipops and Politics (era già stato lanciato il singolo Children), quando all'improvviso la Nostra preferì ripartire – con il prezioso aiuto di Dave Okumu degli The Invisible e l'ex M83 PierreMarie Maulini – completamente da zero e imboccare una seconda fase di carriera dal contenuto artistico più elevato, dando vita a quello che a conti fatti è il reale secondo album, Samson and Delilah, rilasciato per la propria neonata creatura YOY Records. A posteriori la sua si è rivelata una scelta vincente oltre che coraggiosa, non solo perchè ad accoglierla trova un target in grado di regararle maggiori soddisfazioni (in quanto più esigente), ma anche perché anche così le porte del grande pubblico non sono necessariamente blindate, nonostante l'assenza della promozione da parte di una major. Abbandonata l'aria sbarazzina e il frizzante pop da classifica, V V Brown si addentra in un mondo oscuro fatto di synth glaciali e di beat da bassifondi. Il timbro si fa teatrale – quasi operistico nell'ipotetico rappresentare i due biblici ruoli di Sansone e Dalila – fin dall'iniziale ed eterea Substitute for Love, seguita in contrapposizione dalla ritmata – gli Austra, non troppo lontani – Nothing Really Matters. Curiosità vuole che i due brani appena citati coincidano con i titoli di due tracce contenute in un'altra svolta artistica verso l'alto, quella messa in piedi da Madonna con Ray Of Light. I due singoli – Samson e The Apple – mettono in mostra i connotati rispettivamente più epici e più trascinanti di un disco che si muove a
Genere: rock, psych, noise, spacey Baciati da una invidiabile costanza nella produzione discografica, a dire il vero di livello medio sempre abbastanza alto, i due White Hills Dave W e Ego Sensation tornano con quello che è a tutti gli effetti il primo album del 2013. Non che i due se ne siano stati con le mani in mano, dato che come al solito hanno calcato palchi ad ogni latitudine e buttato fuori qualche CD-R compilativo – la serie regolare Oddity – e qualche collaborazione (gli Earthless, stavolta), finendo pure per l'attirare l'attenzione di personaggi (e situazioni) decisamente inaspettati (il Jarmusch che li infila nel suo ultimo film, nello specifico). Però questo So You Are…So You'll Be sembra aver assorbito le energie del duo (trio col batterista Nick Name), pronto a rielaborare il proprio sound con una
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Stefano Pifferi
Yuck - Glow and Behold (Fat Possum,2013) Genere: pop, indie, shoegaze "Il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un artista" diceva qualcuno; pochi, però, hanno visto trasformare questo
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luogo comune in un'infausta realtà quanto gli Yuck. Solo due anni fa i londinesi guidati da Daniel Blumberg erano sulla bocca di tutti, merito di uno dei dischi di debutto più efficaci di quell'anno e di una manciata di veri e propri indie-anthem (Georgia, Get Away e Holing Out) divenuti con il tempo piccoli classici del genere. Quel gruppo profondamente influenzato dalla scena americana indie-alt fine anni Ottanta/inizio anni Novanta (dai Pavement ai Dinosaur Jr.) sembra essere oggi solo un lontano, quanto gradevole, ricordo. Il leader Daniel Blumberg ha infatti deciso di abbandonare la causa per liberare la propria indole lazy-druggy nel suo nuovo progetto Hebronix, lasciando a Max Bloom il compito di sostituirlo dietro al microfono. Una seconda fase lanciata dal singolo Rebirth – un titolo che è tutto un programma – che si concretizza oggi con l'undici tracce Glow and Behold. Fortunatamente Max Bloom si ri-conferma nel ruolo di anima del gruppo (erano sue le felici intuizioni chitarristiche dell'esordio) prendendo le redini di un processo creativo che in parte ha smesso di guardare verso gli USA, prediligendo sonorità proprie della terra d'Albione. Un cambio di direzione che dal timbro vocale – piuttosto nasale – arriva fino ad una impronta stilistica completamente – o quasi – rimodellata. Dai Beatles rivisitati nel compromesso pop/rock mid '90 (la titletrack e How Does It Feel), al classicismo – un po' stucchevole – di Nothing New, supportato in più occasioni da un intensivo utilizzo di fiati dal retrogusto sixties (Lose My Breath). Si intercettano influenze pop-gaze nell'ottima Rebirth, la quale centra il bersaglio grazie ad una serie di melodie armoniose, e in Out Of Time, costruita attorno ad un piacevole arpeggio che sfocia in una distorsione gazey nel chorus. Inoltre la malinconia, che nell'esordio assumeva connotazioni nostalgiche e vaga-
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ventata di novità. Novità in apparenza celata dietro la riproposizione dei soliti cascami space-rock postHawkwind travisati sotto le forme ampie ed aleatorie di una psichedelia hard e krauta di matrice cosmica. Anche qui, dunque, fuzz in abbondanza, reiterazioni soniche, cavalcate strumentali incessanti, digressioni minime su un canovaccio che resta sempre di altissimo livello. Ma ci si limitasse a momenti come l'hard-rock da lande siderali di In Your Room o alle spire circolari made in Helios Creed di Forever In Space (Enlightened), saremmo sempre ancorati dalle parti del (miglior) suono White Hills. Quello di Frying On This Rock o Hp-1, per capirsi. Invece qui c'è una certa attenzione per la sperimentazione verso lande synthetiche e sprofondi melmosi di matrice elettronica, pronti a guidare verso lo spazio profondo un suono meno arrembante e sostanzioso ma malatissimo e deviato, oltre che mutante. Si ascoltino gli abbandoni della seconda parte di Rare Upon The Earth, quasi in assenza di gravità, o le devianze droning di The Internal Monologue, per non parlare degli intermezzi brevi che mostrano il lato più weird-electro del duo, come fossero segnali captati dallo spazio più profondo. C'è infatti una sorta di idea di fondo per questo So You Are… che ha a che fare con futuri apocalittici e persistenze di suoni prodotti da gracchianti radio come ultima testimonianza della civiltà umana. Presuntuosetto, ma in linea totale col contenuto del disco. 7/10
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Riccardo Zagaglia
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mente slacker, qui dialoga maggiormente con l'onirico – i tre minuti strumentali di Twilight In Maple Shade (Chinese Cymbals) – e il romantico. Nasce così il sadness-dreampop di Somewhere, che culla e raggiunge l'apice a metà brano quando, giocando di sottrazione, si svuota del feedback di chitarra lasciando l'ascoltatore spaesato e affascinato. In questo senso Memorial Fields è sua sorella minore col suo mood fluttuante. Bloom torna sui propri passi solo nell'overdrive del piglio college-rock di Middle Sea, un brano che poteva tranquillamente appartenere al debutto (se non fosse per gli onnipresenti fiati), ma è solo un diversivo all'interno di un'opera seconda che ha i tratti somatici di un'opera prima. Certo, i sentori di un progetto destinato a dissolversi ci sono tutti… 6.4/10
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Partiamo con le cassette e finiamo coi vinili questo appuntamento novembrino di Gimmes. Tutte produzioni "nostrane" tra psichedelia e musiche estreme, punk-rock e sludge per Tons e Lento, Cane! e Mike Cooper, The Lay Llamas and so on
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Ci sono cose che si fanno solo per passione. Punto. Come metter su una label di sole cassette in edizione limitata assemblate a mano, scegliendo di volta in volta alcuni dei progetti più interessanti e stimolanti dell’underground e stando sempre attenti a non fare uscire una cassetta uguale alla precedente. È il caso della Old Bicycle, label svizzero-italiana gestita da Vasco Viviani passata già su queste pagine e che ci regala, questo mese, ben due nastri della Tape Crash series: nel primo splittano The Lay Llamas e Eugenoise, nel secondo Soft Black Stars con Zeno Gabaglio sfidano Mike Cooper. Cominciamo dalla prima tape, inserita in una scatola cartonata extralarge e condivisa tra due progetti solisti affini per sonorità e ricerca. Da un lato Eugenoise aka Eugenio Luciano con due lunghe, rituali tracce di rumori trovati, tra field recordings entomologi e disturbi da macchinario rotto, strumentazione tradizionale africana, aggeggi modificati e voci che si sovrappongono a creare mantra ipnotici di matrice industrial. Più noise l’opener Cape Drepano, immolata all’interpretazione del mito della castrazione di Urano e arricchita di svisate simil-harsh; più introspettiva e d’ambient “naturalistica” Insect Warfare, tra deliqui da musica concreta e sperimentazioni aliene. Risponde la vecchia conoscenza The Lay Llamas, al secolo Nicola Giunta coadiuvato da Guido Broglio e Gioele Valenti (Herself ). Siamo sullo stesso versante ritualistico dell’industrial più ambientale ma Lay Llamas mantiene in nuce una predilezione per gli esotismi afro, specie se virato tribal (Back To Planet Heart, pezzone) o psych, come nella lunga Desert Of The Lost Souls, in cui riecheggiano sparse sementi 60s immerse in una caterva di acido made in Not Not Fun. Nell’altro nastro le atmosfere si fanno ancor più torrenziali, visto il sottotitolo The Old Good Summer. Soft Black Star e Zeno Gabaglio architettano, insieme ad una non meglio specificata Butar-Butar Gamelan Orchestra, un lunghissimo mantra da venti minuti (Iguanidae Awapuhi) che parte da lidi gamelan, attraversa lidi da field recordings tropicali, si inerpica su tribalismi rituali al sapor d’oriente per poi trascinarsi verso lande neo-classiche in cui ad essere protagonista è il violoncello di Zeno Gabaglio. Su tutto, sempre, una caligine umidissima da estate hypna. Risponde sul lato b Mike Cooper. Il bluesman inglese da tempo residente a Roma presenta tre tracce di paludoso blues notturno e screziato di rumorii (l’opener Lung/Trees), folk deformato dall’esposizione al calore solare (Toi-omoo)
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e crescendo polverosi e quasi (e)statici (Lyfotoo). Buttandoci sul versante dei 7”, seppur virtuali, la segnalazione è d’obbligo per il n.18 del catalogo Shit Music For Shit People che già in passato ci aveva regalato robetta come Corpus Christi, Wildmen e Capputtini ‘i Lignu. In uscita “fisica” per Bored Youth, quattro tracce a nome Cane!, duo del nord-Italia avvezzo a brutture synth-punk, boccaccesche incursioni nel malessere e nel degrado – i Cane! sono qui per salvare il pianeta e abbassare gli standard culturali, culinari, del diy, del giardinaggio, del sesso e del r’n’r, parole loro –, depravati sbuffi punk-rock (la cover di Blew My Mind dei The Reatards), iconosclastia di quella bella grassa e pure un certo tiro “orecchiabile” (Remote Control) che ce li fa amare da subito. Seguiteli sul bandcamp e vi beccate pure un dischetto in free dwld. Spostandoci su lidi ancor più ostici, segnaliamo l’esordio degli Orhorho, duo black-metal dalle implicazioni crust con personaggi noti dell’underground più duro, vedi alla voce Gottesmorder. Tre pezzi untitled che vanno dritti come un treno sull’asse del black più ossessivo e trascinante, growls d’ordinanza inclusi. C’è un senso di incipiente disastro nelle musiche del duo e molto probabilmente è l’enfasi sul lato crustone a far virare le musiche verso il punto del non ritorno, vedi alla voce chiosa della prima traccia. Bisognerà ascoltarli su distanze più ampie ma per ora non sfigurerebbero sul catalogo della nuova Southern Lord. Ritornando ai vinili, sempre in modalità split, gira a 12” quello tra due tra le formazioni meno italiane (per riferimenti e circolazione) e più pesanti del panorama nostrano. Da un lato i torinesi Tons, dall’altro i romani Lento, per un vinile uscito su Heavy Psych Sounds e confezionato con un artwork al solito di livello superiore. Il lato A è appannaggio dei romani che mettono in chiaro perché siano in tour perenne, pubblichino per etichette europee di primo livello e vengano rispettati in ogni dove: toni apocalittici, peso specifico delle chitarre da far sbiancare nomi più in voga, intarsi strumentali, stacchi e cambi di ritmi ed atmosfere vicine a quelle dell’ultimo Anxiety Despair Languish. Più corposi, più densi (The Worried Man On Earth), più spietati (l’attacco di Embrace) eppure sempre più articolati e complessi (la suite in due minuti scarsi di Hands Off Love), con paradossali aperture aliene (la seconda metà della citata Embrace) che ci suggeriscono nuove, possibili vie di fuga future. Rispondono sul lato opposto i Tons con due pezzi per 10 minuti di sludge-stoner di quello in modalità muro di suono: In The Name Of Rasputin e Dark Medieval Skunk sono due calci in bocca a furia di rifferama infernale, ovviamente mai tirato ma dal peso specifico incredibile. La prima è un pantano di suoni southern come una jam tra EyeHateGod e Down disturbata da voci malate e samples da b-movie; la seconda viaggia sulle stesse coordinate ma si avvale del sax sfrontato di Luca Mai (Mombu) e di una dimensione doomy da far spavento. Per l’ultima segnalazione ci spostiamo su lidi totalmente diversi. Peter, Nick And The Lads è l’ep digitale e fisico (5 tracce nel primo, 2 nel secondo rintracciabile ai live) che segna il ritorno degli Zabrisky e del loro pop-rock inglese bello corposo da sfiorare territori garage e sfumato da ricordare certe aperture Paisley. Aperture melodiche british (From Geese To Sea), colori luminescenti, mischioni acustico-elettrico dal cipiglio fiero (It Could Happen Then), citazionismo consapevole (Deep Blue Eyes) e una Not So New To Me praticamente perfetta. Ben ritrovati. Stefano Pifferi
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Diaframma
campi
magnetici
Siberia (Diaframma Records,2013)
Siamo ancora alla fine degli ‘70 quando Federico Fiumani, insieme a due compagni di scuola, dà vita alla formazione embrionale da cui nasceranno i Diaframma, i CFS. L’acronimo è formato dalle iniziali dei cognomi dei componenti, Cicchi (Gianni, il batterista), Fiumani (chitarra e voce) e Susini (Salvatore, bassista). Più tardi, Susini viene sostituito dal fratello di Cicchi, Leandro; nascono i Diaframma, che con Nicola Vannini alla voce debuttano dal vivo il 22 gennaio 1981 alla Rokkoteca Brighton di Settignano, in provincia di Firenze, lo stesso «umido sottoscala» (lo definisce così Fiumani nel suo Track by Track) da cui sono passati i Litfiba un mese prima. Con il gruppo di Pelù e Renzulli, i Neon, i Pankow, i Diaframma sono la punta di diamante della scena fiorentina che all’inizio degli anni ‘80 ha soppiantato quella bolognese, trasformando il capoluogo toscano nell’epicentro della migliore musica post-punk prodotta in Italia. Nello stesso 1981, i Diaframma pubblicano il 45 giri Pioggia/Illusione ottica. Ne seguiranno altri due: Circuito chiuso (1982) e Altrove (1983). La matrice musicale dei quattro, il dark punk d’oltremanica, in questi primi singoli ha un’impronta più dura e scolpita. L’influenza più marcata appartiene ai Joy Division, nei suoni aspri di Pioggia come nella lunga intro di Pop Art, che ricalca le tessiture vaporose di una Atmosphere. Nel 1984 il gruppo passa all’IRA di Alberto Pirelli e sostituisce Vannini con Miro Sassolini, la cui voce, più elastica e matura, modellata sul baritono di Ian Curtis ma non appiattita sul suo stereotipo, contribuisce a far compiere al quartetto l’auspicato salto di qualità espressivo, in tempo per registrare il primo album. Sezione ritmica, chitarra e voce si trovano così sull’asse giusto per assicurare un più ampio respiro a quelle serrate geometrie new wave, declinandole in maniera più aperta e lirica. Un respiro italiano. Siberia, oltre che la title-track, è anche il brano più rappresentativo; buona parte è farina del sacco di Fiumani, le cui linee icastiche ed evocative come gli arpeggi di Robert Smith (The Cure) in A Forest e di Will Sergeant in Rescue degli Echo and The Bunnymen disegnano traiettorie in linea con le sue descrizioni metaforiche di un “grande freddo” in cui si specchiano lo stato d’animo e il clima sociale dei primi anni ‘80. Una Siberia figurata che è un luogo della mente, il sentimento di un’epoca condensato in immagini-lampo. Epocale è in effetti un aggettivo adatto per l’album. Che raccoglie gli umori del tempo, filtrandoli attraverso una sensibilità che si proietta oltre, in una forma che trascende il contesto. Epocale per il suo tratteggiare altre canzoni memorabili – Neogrigio, Amsterdam, Delorenzo, Specchi d’acqua –, capaci non solo di esaltare i testi di un Fiumani “intrippato” con la poesia simbolista (parole sue), ma di rappresentare naturalmente un modello di armonia tra la metrica italiana e le coordinate sonore e ritmiche del post-punk inglese, facendole incontrare – con più di un passaggio a sorpresa e qualche virtuosistico azzardo – là «dove il giorno ferito impazziva di luce». Buon compleanno Siberia. Tommaso Iannini
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Butthole Surfers
classic
alb u m
Psychic… Powerless… Another Man's Sac (Touch and Go / Quarterstick Records,1984)
C’era una volta una band, la cui aspirazione era portare in giro per l’America caotici spettacoli di musica deforme, irriverente, grottesca, sfrigolante di rumore in mezzo a fumo, luci strobo, ballerine nude, proiezioni di filmati inguardabili e altre amenità assortite. Spettacoli che erano una via di mezzo tra l’Exploding Plastic Inevitable Show, GG Allin e il circo Barnum. La band c’è ancora in verità. Si chiama Butthole Surfers, e in questi mesi sta ristampando su vinile i primi quattro album. Psychic… Powerless… Another Man’s Sac, terzo reperto della carriera e primo 33 giri, è, se non il migliore in assoluto, uno dei migliori. Era il 1981 quando Gibby Haines e Paul Leary formavano il gruppo, a cui due anni dopo si sarebbe aggiunto King Coffey alla batteria (e una seconda batterista, Teresa “Nervosa” Tayor sarebbe arrivata di lì a poco in formazione). Nel 1983, per i tipi della Alternative Tentacles, usciva l’EP omonimo, conosciuto anche con titoli ben più maliziosi come Brown Reason to Live o Pee Pee the Sailor; un mini album a 69 giri (!) tra i più eccitanti e politicamente scorretti della scena underground americana, dove una novelty hardcore come la mitica The Shah Sleeps in Lee Harvey’s Grave faceva compagnia a pezzi altrettanto folli e dissacranti. Musica orrenda? Disgustosa? Rivoltante? Geniale? Sì, geniali e stupendamente rivoltanti, i Butthole Surfers cavalcavano l’onda tra l’avanguardia e la… parodia. E lo facevano benissimo. Il rock dell’assurdo di Haynes e compagni aveva alle spalle una sua solida tradizione, che includeva gli irregolari degli anni ‘60, il genio di Captain Beefheart, i Fugs, il free form freak out dei Red Crayola, gli altri psichedelici texani, le nevrosi avant-punk dei Pere Ubu, le convulsioni futuristiche dei Chrome, la genialità demenziale dei Devo, i Residents, l’hardcore acido dei Flipper e non solo. Tutto rimasticato e sputato, comunque, a modo loro. Amavano la gazzarra più bieca: la voce da muezzin clownesco di Haynes, la chitarra schizoide di Leary, una sezione (poli)ritmica con la doppia batteria, un putiferio di distorsioni, accordature mancate e dissonanze. Ma i Butthole Surfers sapevano anche scrivere canzoni. Quando volevano. Dopo un EP live, il gruppo passa alla Touch and Go e pubblica il primo album. Che per quanto fosse irriverente nel titolo, nella copertina, nello stile, ha dalla sua brani fatti e finiti, a tratti persino orecchiabili. In Psychic… Powerless… Another Man’s Sac il free(k) rock orgiastico della band texana cannibalizza qualsiasi genere: hard rock, punk, hardcore, folk, psichedelia, blues, elettronica e rumorismi vari. Più tardi i Nostri avrebbero fatto una cosa alla volta, mentre qui è tutto insieme. Dum Dum fa il verso ai Black Sabbath di Children of the Grave (anni prima della famosa Sweet Loaf su Locust Abortion Technician), lo swing tri-
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bale di Woly Boly non sarebbe dispiaciuto ai Birthday Party, Butthole Surfer e il cow punk di Gary Floyd (dedicata al cantante dei Dicks) fanno dell’hardcore un teatrino delirante come i migliori Dead Kennedys. I fermenti post-punk nutrono i brani più perversi e sperimentali: Concubine, isterica e lenta come e più di certe cose dei Flipper, la new wave al quaalude di Cowboy Bob o Cherub dove i surfisti si vestono da PIL più gigioni e megafonati. Il non plus ultra della loro ossessione scatologica si concretizza in Lady Sniff, blues demenziale dove a un riff di chitarra scordatissima rispondono effetti sonori vari, tra cui sputi, rutti, scoregge. Unici per stile e per attitudine, all’apice della creatività: sono i Butthole Surfers del 1984. Tutti da ascoltare e riscoprire. Tommaso Iannini
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