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digital magazine | marzo 2013 | n. 101

Widowspeak Crimea X Local Natives GROUPER MArino formenti david bowie

grant john

fantasmi verde pallido


turn on – p. 4

Girls Names   Fritz Kalkbrenner

tune in – p. 8

Widowspeak   Crimea X   Local Natives

drop out – p. 22

John Grant   Grouper   Marino Formenti

rearview mirror – p. 106   David Bowie

recensioni – p. 56   gimme some inches – p. 104   campi magnetici – p. 109   classic album – p. 110


#101 marzo Direttore Edoardo Bridda Direttore Responsabile Antonello Comunale Ufficio Stampa Alberto Lepri Coordinamento Gaspare Caliri Progetto Grafico Nicolas Campagnari Redazione Alberto Lepri, Antonello Comunale, Edoardo Bridda, Fabrizio Zampighi, Gabriele Marino, Gaspare Caliri, Massimo Rancati Nicolas Campagnari, Riccardo Zagaglia, Sebastian Procaccini Stefano Solventi, Stefano Pifferi, Teresa Greco Staff Alessandro Liccardo, Alessia Zinnari, Andrea Napoli, Andrea Forti, Antonio PancamoPuglia, Antonio Laudazi, Davide Nespoli, Federico Pevere, Filippo Papetti, Filippo Bordignon, Giulia Antelli, Giulia Cavaliere, Giulio Pasquali. Luca Falzetti, Luca Barachetti, Marco Braggion, Marco Masoli, Marco Boscolo, Mirko Carera, Nino Ciglio, Sarah Venturini, Stefano Galliazzo, Stefano Gaz Copertina john grant Guida spirituale Adriano Trauber (1966-2004)

SentireAscoltare online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Provider NGI S.p.A. Copyright © 2013 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare.


La band guidata da Cathal Cully svela i retroscena dietro alla svolta musicale e attitudinale intrapresa nel secondo album The New Life

Girls Names La seconda vita della band di Belfast

Rischiavano di fare la stessa fine delle decine di formazioni indie-rock dal destino effimero, svanite dietro riflettori sempre pronti a puntare altrove. I Girls Names invece hanno preso tutti in contropiede e si sono mossi per tempo per rivedere, rimodellare e concretizzare sotto una veste nuova quanto proposto nell’album di debutto Dead to Me. The New Life, infatti, prende le distanze dai contesti garage-pop e punta tutto sull’armonizzazione arpeggiata jangly macchiata di nero post-punk/wave, quest’ultimo 4

reso ancora più ossessivo da vaghe contaminazioni kraut e psichedeliche. Tutto è frutto della sperimentazione, nuovo pallino di un leader Cathal Cully che ha sfruttato positivamente un periodo non troppo felice a livello personale per dar vita alle atmosfere scarne e oscure dell’album. Parliamo dell’album Dead To Me, quando uscì eravate soddisfatti al 100%? A distanza di due anni quale è la vostra opinione a riguardo? E’ rimasta la stessa? No, non eravamo soddisfatti al 100%. In particolare, io


non lo ero. E’ stato realizzato abbastanza velocemente e con poco budget e andava bene in quel momento, ma abbiamo dovuto aspettare molto tempo tra la registrazione e l’uscita dell’album. Ci siamo quindi rinchiusi quasi subito dopo la pubblicazione di Dead To Me, iniziando a lavorare su quello che sarebbe stato il nuovo album, The New Life. Il nuovo album segna un cambio di direzione nella vostra musica. Come mai questa scelta (se è stata una scelta)? Quali sono stati i passaggi che hanno portato alla formula sonora di The New Life? Il cambio di direzione non è stato frutto di una decisione consapevole. E’ stato un processo e una progressione molto naturale. La scrittura dell’album è iniziata nell’estate 2010, subito dopo la registrazione del precedente, ed è terminata ad ottobre dello scorso anno. Sono quindi oltre due anni di lavoro e di ri-definizione del tutto, per arrivare a dove siamo ora. Sembra che siamo tornati da un giorno all’altro con questo nuovo sound perchè all’epoca non ne abbiamo quasi mai parlato. Dietro c’è stato un lungo e duro lavoro. Pensandoci, è stato anche un periodo di isolamento e frustrazione. In molti passaggi di The New Life sembra che abbiate ampliato sia la componente janglepop (mi riferisco soprattutto alla chitarra), sia le oscure atmosfere post-punk (mi riferisco soprattutto alle linee di basso). Quale è il vostro parere riguardo al ritorno delle jangle-guitars? In generale, vi sentite parte di un qualche tipo di scena? No, per niente. Abbiamo realizzato un album unico nel suo genere quest’anno. Ovviamente verrà confrontato con altre uscite del momento, ma penso comunque che sia qualcosa di solo nostro. Siamo riusciti ad imprimere su di esso la nostra identità. E’ difficile identificarla con esattezza.Il ritorno delle jangle-guitar è stata una buona cosa per un pò, ma le persone ora stanno iniziando a stancarsene. Non ci si dovrebbe limitare alle chitarre: l’ho imparato da poco. C’è così tanta tecnologia ora in grado di ricreare qualsiasi suono tu voglia, è un’idea molto esaltante per me! Visto che è così difficile fare soldi con la musica, non si ha niente da perdere e quindi è un buon momento per essere audaci e sforzarsi di creare una sorta di dichiarazione (della proprità identità, ndr). Penso che questo periodo potrebbe potenzialmente essere visto come un’altra grande era di sperimentazione musicale. Speriamo che i prossimi anni lo confermino. Come è nato lo split con i Weird Dreams? Come mai Troubled See è stata esclusa dall’album? I Weird Dreams sono sotto la nostra stessa etichetta, la Tough Love di Londra, quindi è stata una loro idea quella

della collaborazione. Abbiamo anche suonato qualche volta insieme. Sono molto bravi e penso che anche loro stupiranno il pubblico con il prossimo album. A Troubled See non è stata inclusa nell’album perchè non era del tutto il linea con il resto delle canzoni. Mi piace l’idea di singoli a sè stanti e questo album è un unico blocco coeso. Solitamente l’espressione “new life” nasconde connotazioni positive, una ripartenza dopo un passato da cancellare. L’album invece è caratterizzato da sonorità cupe e sinistre. Potreste svelarci i retroscena a livello di contentuto? Non mi addentrerò sui singoli contenuti, ma c’è stata effettivamente una sorta di nuvola nera sopra le nostre teste durante il processo di realizzazione. Sono passato attraverso momenti difficili a livello personale, lo scorso anno, che si sono manifestati attraverso molti sentimenti di perdita, rifiuto, fallimento, isolamento, buio. C’è anche molto esistenzialismo esplorato attraverso l’album. Sono stato lasciato da solo con i miei pensieri per troppo tempo, l’anno scorso. Ma è stato meglio sfruttare questi sentimenti per creare qualcosa di positivo, piuttosto che per farmi stare male. Quindi sì, si può dire che ci siano toni positivi sottotraccia. Il 3 Marzo all’Astoria di Torino apriranno per voi i Brothers In Law, una delle realtà più belle della scena italiana. Il loro album di debutto è molto valido, l’avete ascoltato? Conoscete e/o apprezzate altri progetti made in Italy? Non ho ancora ascoltato il loro album ma non vedo l’ora di vederli di nuovo. Abbiamo suonato insieme a Carpi a Ottobre 2011 e sono stati grandi. Neil (il batterista dei Girls Names, aka Seapinks) ha fatto uscire il 7’’ per loro e sta pubblicando il loro nuovo album con la sua etichetta CF records, quindi siamo molto legati. Inoltre so dei Be Forest e mi piace molto quello che ho sentito da loro. Mi piacerebbe ascoltare anche altre cose loro. Riccardo Zagaglia

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In occasione del Sick Travellin’ World Tour, Fritz Kalkbrenner ci parla di come voci soul e melodie pop-house uniscano passato e futuro

Fritz Kalkbrenner Il futuro pop dell’house old school

Il cognome già basterebbe a fugare ogni perplessità, e di certo non per merito solo dell’algida onomatopea teutonica. Volente o nolente, si tratta ormai di un marchio di fabbrica a tutti gli effetti in ambito di musica techno, impossibile da non ricondurre ai due fratelli-coltelli che grazie a Berlin Calling hanno catalizzato sulla città tedesca le attenzioni mediatiche più largamente mainstream dei clubber di ogni dove. Ma un’etichetta di successo, in molti casi, è uno scettro che può facilmente tramutarsi in un fardello di proporzioni cosmiche, specie quando il rischio è quello di venire uniformati come un’unica entità alla personalità artistica di un consanguineo. Fritz Kalkbrenner sembra non essersi mai curato troppo del problema. Cantore profetico dell’inno pop-house per eccellenza, Sky And Sand, pur dovendo gli effettivi riconoscimenti al fratello per il decollo della sua carriera (o il fratello alla sua, chi l’ha detto poi!), ha fin da subito intrapreso un percorso musicale volutamente autonomo 6

ed autosufficiente rispetto al trend familiare. Puntando tutto sul caldo e squamoso timbro baritonale e facendone il fulcro delle sue produzioni come chiave di accesso ai cuori più ricettivi del pubblico di massa, già dal primo LP, Here Today Come Tomorrow, miete consensi a livello mondiale come il neofita contemporaneo del nuovo filone techno-soul. E, tanto per ribadire il concetto, a Maggio del 2012 se ne esce con un mix, Suol Mates, che è come un promemoria di tutto quel variegato background old-school che lo ha influenzato fin dagli esordi. Un po’ come se volesse ricordare a se stesso e a noi quanto lontana anni luce sia la sua house dalla fredda minimal-techno berlinese che naturalmente si associa alle declinazioni musicali di matrice nordica, e, diciamocelo, anche ai proseliti di Paul. Filosofia, del resto, ulteriormente sviluppata anche nell’ultimo album uscito a fine 2012, Sick Travellin’, che, pur non apportando elementi di particolare novità, con-


ferma con maggiore organicità e senso critico il cammino finora affrontato. Ad oggi, alle porte dell’Atomic Event che il 23 Febbraio lo ha visto protagonista al Viper Theatre di Firenze in occasione del suo Sick Travellin’ World Tour, Fritz ci ha regalato qualche perla proprio in merito alla nuova performance live, dimostrando ancora una volta quale astuto e lungimirante uomo di spettacolo si celi dietro ad un produttore che del talento come cantante ha saputo fare il trampolino di lancio per un’house melodica e accattivante. Il tutto riuscendo ad avvicinarsi al pubblico mainstream senza per questo dimenticare i tributi al passato e rinunciare alla qualità. In linea con le premesse esposte in Here Today Come Tomorrow, con Sick Travellin’ ti confermi uno dei pochi produttori in grado di mantenersi sottilmente ed elegantemente in bilico tra pop music e club culture, e non solo grazie alle tue indubbie capacità di cantante. Come intendi coniugare questi due aspetti caratterizzanti della tua personalità artistica nell’ambito della performance live? Pista ed orecchio non sempre vanno a braccetto, e ciò che funziona all’ascolto non rende necessariamente allo stesso modo sul dancefloor, soprattutto quando si tratta di pezzi che si avvicinano a vere e proprie canzoni. Dev’essere perciò difficile integrare entrambi gli aspetti con risultati soddisfacenti... Certamente, è vero che ci sono questi due differenti aspetti dell’essere un artista che si fondono insieme, ma la combinazione di entrambi nella mia testa è molto semplice, perchè di solito mi esibisco suonando i pezzi live in un certo modo e combinandoli con parti vocali cantate direttamente sul momento. Devo dire che mi viene tutto molto naturale e non vedo ostacoli particolari nel congiungere le due cose assieme. Fortunatamente anche il pubblico lo accetta con naturalezza.Una cosa che faccio, per esempio, durante le mie performance live è dare alle tracce che hanno maggiori features vocali delle parti di batteria e di percussioni aggiuntive per conferire loro un spinta ulteriore, come per dire al pubblico di muoversi di più. Devo ammettere che le persone che vengono ai miei show accettano in egual modo sia i brani più ballabili, che quelli più “pop”. Penso che quello che conta, in sostanza, sia la potenza delle casse del locale dove si suona e l’alto livello di volume, così da da assottigliare, se possibile, questo dualismo. In Sick Travellin’ dimostri, tra le altre cose, di aver pienamente metabolizzato la lezione del più recente mix di pezzi old school, Suol Mates, che vantava un’originale cover house di Ruby Lee di Bill Withers cantata da te. Ora è la volta di Gill Scott Heron con il

funk-divertissement di Willing, che hai furbescamente riadattato. Ad oggi senti di dovere maggiore riconoscimento, a livello di ispirazione, al background soul che ti ha formato come artista? O è solo una naturale risposta alle tendenze più marcatamente house che caratterizzano il mercato discografico dell’ultimo periodo? Sono abbastanza consapevole di questo trend, o dell’ultima moda, come la vogliamo chiamare, di prendere brani soul o funk, campionarli, metterci sopra un beat ed affermare che questa è una traccia fiammante nuova di zecca. Devo ammettere che mi sento piuttosto infastidito quando la gente non rende il dovuto riconoscimento agli artisti originali da cui prende spunto, rubando dei sample o campionandoli, e spacciandoli per lavori personali quando in effetti non lo sono. Ho scelto la cover di Gill Scott Heron per un motivo naturale e devo dire che farne la mia versione è più un tributo al background che mi caratterizza, piuttosto che una risposta all’hype maggiormente in voga in questo periodo. Ho letto che in vista del tour hai preparato tutta una serie di visual studiati appositamente per l’occasione. Quanto conta per te, ai fini della buona riuscita di una performance, questo aspetto artistico-visivo? Molti musicisti ne fanno un elemento imprescindibile nell’ambito delle loro esibizioni. E’ vero, durante i miei show ci sarà un intero set visual. Tutti i contenuti video sono stati realizzati apposta per questo tour. Mi piace e adoro vedere come le cose si evolvono anche in questo senso, è una parte molto importante per me. Ma devo dire che se un artista si concentra maggiormente sui contenuti visivi piuttosto che su quelli musicali, è come se sottilmente affermasse che lo spettacolo in sè non è il massimo ma gli effetti visivi possono colmare le mancanze della performance, e non penso sia il modo giusto di lavorare. La musica e la performance devono comunque avere la priorità, mentre la parte visuale tutt’attorno dovrebbe essere solo un supporto ulteriore. Se le due cose vanno di pari passo è buono, ma nel caso questo non succeda, tutto perde di senso. Sono molto fiero di poter affermare che, per quanto mi riguarda, la mia attenzione è rivolta principalmente alla musica ed allo show, che sarà comunque accompagnato da questi visual eccezionali. Sarah Venturini

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Widowspeak Almanacco ricorsivo Fascinazioni retrò ma grammatica immune al tempo. Il duo di Brooklyn racconta di cicli, corsi e ricorsi storici da qui alla fine del mondo

testo: Massimo Rancati, Marco Masoli

Raggiungiamo via mail i Widowspeak - nella persona della lead singer Molly Hamilton - a pochi giorni dall’uscita di Almanac, secondo episodio dopo l’omonimo esordio di due anni fa e vero passo da gigante verso la piena maturità. Fra la paura di affrontare il palcoscenico forse ancora non completamente sopita e i reiterati paragoni con l’ormai quasi leggendaria Hope Sandoval, Molly ci ha condotto attraverso tutte le fasi del progetto creativo del duo di Brooklyn - una delle anime più multiformi e meno catalogabili del roster Captured Tracks - scavando a fondo anche fra le pieghe più complesse dell’ultimo LP con l’obiettivo di approfondire quell’animo bucolico che affiora addirittura già dall’immagine ritratta in copertina. English interview follows... Partiamo da un po’ di “fact checking”: la formazione dei Widowspeak ha ultimamente affrontato svariati cambiamenti, passando da duo a trio (col batterista Michael Stasiak), a quartetto (con la bassista Pamela Garabano-Coolbaugh) ed infine tornando nuovamente ad essere un duo. Quanto ha influenzato la

vostra musica? Avete dovuto riassestarvi durante la creazione di ‘Almanac’ o è cominciata dopo la dipartita degli altri due membri? Abbiamo assolutamente dovuto adattare i nostri metodi di songwriting ai vari cambi di lineup, ma il fulcro di essi siamo sempre stati io e Rob (Earl Thomas, ndr). Micheal ha lasciato la band al termine del tour della scorsa estate, e Pamela ha fatto lo stesso immediatamente dopo. Noi due “superstiti” abbiamo quindi dovuto decidere se la band avrebbe continuato ad esistere e ovviamente abbiamo fortemente voluto fosse così. Quando abbiamo cominciato a lavorare su Almanac ci siamo però trovati a fronteggiare un processo creativo tutto differente. È stato più un mettere i pezzi assieme uno alla volta, piuttosto che lasciare le cose scorressero per poi venire da sè, piuttosto insomma che operare come una live band in sala prove (non avendo appunto nè batterista, nè bassista). È stata comunque un esperienza di scrittura particolarmente organica, anche perchè Rob e io abbiamo una grande chimica creativa. Da allora abbiamo poi reclutato un nuovo batterista ed un nuovo bassista, nonché per9


sino aggiunto un quinto membro al nostro setup dal vivo perché suoni la chitarra accentata e le tastiere che si trovano sul disco. Possiamo quindi decisamente dire che i Widowspeak mutano in base a ciò che la musica richiede. Sapevamo del tuo essere in origine realmente intimorita dall’idea di cantare davanti alle persone, per cui siamo rimasti piuttosto sorpresi quando abbiamo visto un paio di tuoi tweet recenti che dichiaravano a gran voce la voglia di andare in tour per promuovere il nuovo album. Come hai superato le tue paure? Ad ogni show diventa sempre più facile, ma continuo ad essere apprensiva. Credo però questo mi succeda meno di frequente quando sono in tour, perché si è in posti nuovi a suonare per persone nuove e non soltanto per i nostri amici e fan di Brooklyn. Mi ritrovo quindi con addosso un’energia autenticamente nuova ad ogni serata, anche per il fatto che la band diventa più entusiasta ad ogni show finendo per suonare in maniera sempre più concertata. Ma continuo ad essere apprensiva: ho pianto prima del record release show per Almanac al Mercury Lounge di New York. Mi è sembrato stupido e non avevo idea del perché stessi piangendo, ero semplicemente troppo agitata per lo show. Continuo a divertirmi suonando, certo, ma l’accumulo di tensione nel pre-concerto è ancora la parte più difficile da affrontare. Come convivi coi paragoni tra la tua voce e quella di Hope Sandoval? E - allargandoci al contesto di band - come prendete le ricorrenti, pigre etichette che vi vogliono come “Fleetwood Mac più atmosferici”? È buffo perchè non ho mai ascoltato un granché i Mazzy Star in vita mia e, benché creda si tratti di musica accattivante e ben fatta, non posso assolutamente dire che abbia avuto un influenza sui Widowspeak o sul mio modo di cantare. Semplicemente canto nell’unica maniera che conosco, ovvero come mi viene naturale. Sto ancora imparando e provando cose nuove, ma sempre nei limiti di quanto si adatta alla musica che facciamo. Per quanto riguarda invece i paragoni con i Fleetwood Mac, ci hanno sorpreso perché non li avevamo mai ricevuti (nel pre-Almanac, ndr). Penso siano essenzialmente accostamenti visivi/estetici piuttosto che musicali, ma amo quella band e credo, se non altro, sia stata un’influenza per l’idea di voler realizzare un album in senso proprio, qualcosa che risultasse coeso e completo, come Rumours. I Fleetwood Mac hanno inoltre avuto una formazione in continuo cambiamento, proprio come noi. Puoi quindi vederci, in quel senso, un ulteriore, strano parallelo. Siamo davvero convinti che con Almanac abbiate conseguito la transizione dal pop meravigliosamente 10

accigliato ma forse fin troppo coeso del vostro debut, ad un sound più voluminoso, audace ed il più personale possibile. Lo stesso parco delle influenze coinvolte ci è sembrato più ampio, andando dal western country-folk fino al 90s indie-rock americano circa-Built To Spill. L’abbiamo inquadrato bene? Che altre influenze o dischi menzioneresti come importanti per la realizzazione del nuovo album? Abbiamo sicuramente esteso il range delle influenze nonché il fine creativo. E molto di questo dipende dall’essere stati soltanto noi due. Rob ha realmente voluto il disco risultasse espanso e ne abbiamo realizzato demo per un lungo periodo appunto perché ne trasmettesse la corretta impressione. Come altre influenze citerei qualunque cosa da Hank Williams ai Rolling Stones, senz’altro Tom Petty, Neil Young, parecchio folk e country, ed in particolare The Carter Family. Abbiamo inoltre fortemente voluto avesse un feeling pastorale ed in un qualche modo nostalgico. A volte tutto questo appoggiarsi alle influenze è visto come nota di demerico, ma in quanto a tematiche l’album è incentrato sul passaggio del tempo ed il modo in cui le cose cambiano, e quindi il far leva sugli stili del passato è stato una parte necessaria del loro convogliamento. Come è stato lavorare con Kevin McMahon (aka. l’uomo dietro al Days dei Real Estate) come co-producer e quanto il suo contributo ha influenzato il risultato finale? Kevin è una persona splendida con cui lavorare. È stato davvero recettivo alle nostre idee e metodo di lavoro, ma ha pure avuto delle idee incredibili di suo e portato l’album ad una resa che mai ci saremmo immaginati di raggiungere. Lo stesso studio era perfetto per Almanac: bellissimo, sereno e lontano da qualsiasi distrazione. Per quanto riguarda le liriche, Almanac è parla appunto di quanto muta la percezione di inizi e fini nel corso del tempo. Abbiamo quindi intuito possa esserci anche dietro una tua fascinazione, come songwriter, per i “cicli della vita” in generale. L’intervista che hai concesso ai ragazzi della Captured Tracks in prossimità dell’apocalisse Maya ha più o meno confermato il nostro sospetto. Potresti andare più “a fondo” su questo argomento? È partito tutto con il voler scrivere un disco incentrato sulla fine del mondo, ma è in fondo sempre stato molto più simbolico. Ho recentemente provato su pelle la fine di una relazione e mi è sembrata simile all’idea di apocalisse. Non che sia altrettanto devastante, certo, ma per quanto riguarda il fatto che comunque il tempo passa, le cose cambiano e la vita riparte nuovamente. Eppure come qualcosa di nuovo. È stato in quel momento che


ho iniziato a medirare riguardo agli altri cicli della vita ed al modo in cui il mondo della Natura ha inizi e fini, proprio come ogni altra cosa. Avvolti in Almanac vi sono quindi parecchi livelli e sfumature della tematica. Quello per Locusts, è il vostro primo videoclip di sempre. Come mai avete aspettato così tanto? Eravate riluttanti all’idea di finire “su schermo”? In realtà non abbiamo mai nè avuto un idea coerente prima di questo video, nè conosciuto qualcuno che fosse serio riguardo al realizzarne uno. Abbiamo poi incontrato i Craig Brothers attraverso amici e avuto l’idea di fare un clip basato sulle “Shindig!” performance dei 60’s. È poi capitato che la galleria del nostro batterista avesse questa istallazione enorme, multipiano, che sembra davvero il set di uno show televisivo. È stata un’esperienza parecchio divertente. Siamo intenzionati a fare molti più music videos ora. Hai disegnato il poster incluso nella limited edition dell’LP e quello per il recor release show al Mercury Lounge. Hai studiato arte? In ogni caso, l’iconografia e l’estetica tout court che in questo momento circonda i Widowspeak (dalle tue illustrazioni, alla cover del disco e, ancora, al videoclip) è particolarmente forte. Come la descriveresti? Ho frequentato il liceo artistico e scelto la specializzazione in arte anche al college, ma non ho poi portato a termine gli studi. Non direi quindi d’essere una professionista, ma amo il disegno, così come il design in generale. Abbiamo provato ad usare un consistente vocabolario visuale per rappresentare la nostra musica, perchè aiuta davvero a mantenere focalizzati umori e sensazioni. Per il primo disco abbiamo semplicemente chiesto al nostro amico John Stortz di disegnare una qualunque cosa gli sembrasse adatta, ma per Almanac abbiamo avuto ben chiaro fin dall’inizio come avremmo voluto il tutto, dalla gatefold sleeve dell’LP al font, persino il colore dell’inchiosto dell’inserto coi testi. Lo stesso vale per le nostre foto: le vogliamo della stessa tavolozza di colori della nostra musica, perché sono ugualmente parte della storia dell’album. Tutto questo è un’aggiunta all’esperienza d’ascolto, crea un’intero altro mondo. Tornando alla Captured Tracks, diresti che l’ambiente all’interno della label è realmente simile ad una “estesa, seconda famiglia” per ognuno di voi artisti del roster? Dall’esterno pare così. Sì, è così. Le band passano di continuo in sede e, per quanto mi riguarda, amo realmente tutti gli artisti sotto la label, sia musicalmente che a livello personale. Vi è attualmente uno slancio creativo impressionante all’interno del roster, ed esserne parte è genuinamente fonte di ispirazione.

La vostra etichetta è anche una delle preferite dai collezionisti in questo momento. Quale è il vostro rapporto con il vinile ed, in particolare, con le edizioni limitate? Mike Sniper, il “boss” della Captured Tracks è un avidissimo collezionista, per cui credo abbia assolutamente in mente il collezionismo quando si tratta delle sue release. Noialtri amiamo uscire con delle limited editions perchè è qualcosa di leggermente speciale e, specialmente quando è in gioco un vinile colorato, rende davvero l’LP uno splendido oggetto fisico. Come è stato il vostro concerto ma anche show quasidomestico - organizzato dagli amici Jonathan Clancy (A Classic Education/His Clancyness) e Federico Pirozzi (La Belle Epop) - a Bologna nel 2011? Avete in programma di tornare presto in Italia? Si parla in realtà del nostro show preferito in assoluto dell’intero tour, nonché uno dei miei preferiti di sempre. È stato unico nel suo genere. Si è svolto nel seminterrato della profumeria Tatler (via Rialto 29/2, ndr) in un mood confortevole ed assolutamente intimo. Tutti i presenti erano incredibilmente gentili ed eccitati, la piccola cantina in cui abbiamo suonato davvero meravigliosa. Saremo senz’altro di ritorno in Italia in primavera, pur non sapendo ancora di preciso quando e dove. Probabile questa volta non tocchi ad una profumeria, ma chissà!

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Crimea X Lungo il continuum cosmic. Dopo la collaborazione con Baldelli, Rocca torna Crimea X con l’amico Jukka Reverberi. Via un po’ di kraut e dentro il meglio della disco spazio/cosmica senza frontiere

testo: Marco Braggion, Edoardo Bridda

Non accenna a diminuire lo spazio da noi dedicato allo spettro delle musiche analogiche e alla disco, sia essa nu, space o psych. Poco tempo fa parlavamo via skype con Lindstrøm della passione per Daniele Baldelli e ora intervistiamo uno Jukka Reverberi dei Giardini di Mirò che assieme a DJ Rocca (Ajello), è membro fondante del duo Crimea X, fresco di relase di secondo album Another. Il cerchio della cosmica (pardon cosmic), dopo l’album collaborativo di quest’ultimo proprio con Baldelli, Podalirius, sembra riaprirsi di nuovo in questo disco e nella più felice delle convergenze: la produzione - la prima in assoluto - affidata al nostro amato Bjørn Torske che, come sappiamo da un’altra vecchia intervista, del dj romagnolo può essere considerato, assieme al compianto Erot, un ambasciatore Norvegese fin dalla fine dei 90s. C’è di più: il discorso che facciamo con i Crimea X è quello di aver portato a casa la space disco nordica, un po’ come fecero i Ronin di Bruno Dorella con lo spaghetti west dei Calexico. Dove lì c’era il Morricone nazionale, qui c’è un altro eroe nazionale, il Baldelli, l’originator di uno stile tutto italo e tutto suo intriso di progressività,

funky, dinamismo lento, trip e tradizione. Un sound che rese locali come la Baia degli Angeli mitologici e che rivive tutt’oggi, sia grazie alla celebrata scena norvegese che comprende ormai due generazioni di musicisti (Bjørn prima, Lindstrøm e Todd Terje per finire), ma anche per una più ampia e consolidata modalità di fare elettronica con synth e drum machine dei 70s e primi 80s. Non da ultimo - e sicuramente tra i primi a livello di contaminazioni dentro e fuori la cassa dritta - c’è Andrew Weatherall che in questo cerchio rappresenta un po’ la matta del mazzo e presto, come leggerete nella chiacchierata, collaborerà con Rocca e Reverberi. Anche lui è da quattro anni in convergenza parallela, dal 2009, alle prese con sonorità di certo compatibili (basta ascoltare Andrew Weatherall Vs The Boardroom) e, not least, un progetto con l’amico Tim Fairplay che definire baldelliano non è tabù. La nuova fatica Another, non spezza, anzi, s’aggiunge ad una lunga lista di lavori lungo il continuum analogelettronico, attraverso strade contaminate non distanti neppure dai Solar Bears, attesi in aprile su una Planet 13


Mu in fregola indie. Ma riavvolgiamo velocemente il nastro: Rocca e Reverberi partono solidi con Phoros, eppì sempre del 2009, con cassa sedata, basso rockish, percussisoni afro 100% Baia, synth da autobahn, flauto misterico-arcaico e - non potevano mancare - tastiere spaghetti house. I pezzi, tra space e cosmic (10pm), solidissima cassa in quattro e aperture antartiche sul filo dell’acid (December), sono già ben tarati. Subito poi, in parallelo, parte la più che naturale attività di remix in partita doppia, dare e avere. In seguito un esordio lungo (nel 2010), Prospective, un album che le cose le mette davvero in prospettiva mescolando visioni cosmiche 70s e il lato più kraut dell’elettronica di quegli anni con la vena indie di Jukka (le melodie Jurij e gli arrangiamenti ritmici weatheralliani di Varvara) e quella sintetico-electro-groovey di Rocca. L’anno successivo segue - altrettanto telefonato - un lavoro di remix, Re:Prospective, con l’inclusione nobile di Baldelli e Torske: il primo con una splendida versione di Liubov, il secondo con una eterea, ricca d’effettismi concreti à la Kokning e non meno circolare editata di Varvara. Sempre del 2011 il tedeschissimo EP Otok, che accantona il ritmo per concentrarsi sulla visione à la Amon Düül, primi Kraftwerk, Harmonia (Magnitogorsk, Irina), poi (salvo un remix) lo spegnimento dei riflettori per far posto alla realizzazione dei progetti personali dei due: la trilogia Erodiscotique della coppia Dimistri From Paris e Rocca, tra italo e retrò House newyorchese, Smells Like Too Cheesy degli Ajello, ovvero Rocca e Taver alle radici dell’italo disco (sempre di quell’anno), il nuovo album dei Giardini di Mirò Good Luck (uscito a maggio, 2012) e, last but not least, il citato, Podalirius di Rocca/Baldelli inciso poco prima delle session estive con Bjørn (2011). Arriviamo così a Another, secondo full di Crimea X che ci dà la perfetta scusa per quest’intervista al telefono con Jukka e via mail con Bjørn. Un lavoro che si smarca dalla componente teutonica e etnica-newagey di Prospective per calarsi più corposamente nel discorso disco metabolizzato da Rocca in quest’ultimo triennio al netto della componente cheesy (leggi stucchevole), nei naturali rimandi all’house ma anche nella dance ‘east coast italo’ baldelliana. Crimea X diventa così l’ennesimo tra i centri di cultura dance italica che, oltre al citato, screamadelico, Weatherall, pure il Guardian ha apprezzato. Il Made in Italy d’eccellenza diventa una carta da giocare anche fuori dai patri confini. Probabile un tour in Nord Europa, come vi diremo nell’intervista.

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Int er v ista a Jukka R e verberi Ciao Jukka. Ci racconti come è nata la collaborazione con Rocca e la sigla Crimea X? La collaborazione è nata in modo piuttosto naturale. Ci siamo conosciuti al Maffia, un posto piccolo, conosciuto dagli appassionati di musica elettronica (il club è stato chiuso nel settembre 2009, e ha fatto suonare artisti del calibro di Fatboy Slim, Goldie, Massive Attack, Peter Kruder e molti altri). Rocca è stato uno dei soci fondatori del club. Dopo un po’ io mi sono tesserato al Circolo e andavo ogni tanto anche a lavoricchiare, stando alla porta. Lì è nata l’amicizia con lui. Per curiosità gli chiedevo cosa suonava, poi ci siam messi a parlare di musica. Ne è nato un sodalizio musicale che si è poi trasformato nella realizzazione del progetto Crimea X. Anche se ci muovevamo su territori differenti, trovavamo l’un l’altro delle affinità, interessi comuni. Io non ho mai avuto un rapporto, come dire, fattivo con la musica dance, lui con i suoni con i quali trafficavo io. Dicci di Bjørn Torske, che è uno dei nostri paladini da almeno un paio d’anni. Come l’avete conosciuto? Abbiamo avuto l’occasione di suonare assieme qualche annetto fa, probabilmente era l’estate del 2009, al Summer Festival a Rovereto. Eravamo stati invitati e la stessa sera suonavano Bjørn Torske e gli Optimo. C’era stata una grande affinità con tutti quanti, gente molto più simpatica e molto più tranquilla di quella che alle volte capita di incontrare in ambito rock. Tutti molto alla mano e molto disponibili nel consigliare ascolti, dischi.Bjørn è assolutamente un pazzo. Nel senso che non è un pazzo, ma è altro dalla normalità. Un personaggio totalmente devoto alla musica, a suo modo. Molto particolare, simpaticissimo. Lì insomma sai, parli... Come prima cosa è nata l’idea di scambiarci dei favori, quindi scambiarci dei remix. Noi lo facciamo a te, tu lo fai a noi. A noi è piaciuto moltissimo il remix che ci ha fatto, ma a lui a sua volta era piaciuto tantissimo il nostro. Il remix di Crimea X (la traccia è Slitte Sko, ndr) l’ha fatta poi pubblicare in un singolo (Oppkok Remixes, su Smalltown Supersound, ndr) che vede in tracklist anche Todd Terje e DJ Harvey. Un risultato non certo secondario per chi conosce l’ambiente e i due producer in questione.Dopodiché abbiamo deciso di coinvolgerlo nell’album. E lui “perfetto sono della partita, dobbiamo soltanto organizzare dove e come”. C’è da dire che dei demo che gli abbiamo inviato, lui ha tenuto tutto. Alla fine ci siamo trovati tutti e tre qui in campagna a Correggio, in uno studio di un nostro amico, a finire il lavoro. E in una settimana, tra qualche cassa di birra e qualche nuovo strumento, abbiamo chiuso le registrazioni. Unica regola: ogni giorno portavamo una drum machine e un synth nuovo e Bjørn, sulla sessione


aperta, lo aggiungeva nel mix. Il missaggio finale lo ha fatto tutto in solitudine, tornato a casa in Norvegia. In solitudine, senza feedback? No, no. Noi siamo sempre rimasti lì con lui: ci faceva ascoltare le tracce chiedendoci pareri e opinioni. Nello stesso tempo, però, si è preso la responsabilità di produrre il disco e quindi di fare delle scelte sul missato finale. Direi che non ha stravolto nessun brano. Ha aggiunto delle visioni differenti. Venendo da due ambiti ed esperienze differenti ci immaginiamo una band con compiti piuttosto definiti. Tu porti l’indie, Rocca fa le cose da DJ. E’ veramente così? Questa è una cosa che capita pure con l’altro gruppo (i Giardini di Mirò). La gente pensa che un pezzo l’abbia scritto Corrado e un altro io. In realtà non è mai così preciso. Chiaramente tutti abbiamo un nostro stile. Ed avere una propria calligrafia è basilare. Eppure, come dire, i pezzi nascono da un lavoro condiviso. Le voci sono l’unica cosa che viene appoggiata in una seconda fase. Quindi dire che un pezzo risulta più un’idea dell’uno o dell’altro è praticamente impossibile e, come musicista, Crimea X è una delle cose più democratiche che mi sia capitato di fare. Chiaramente abbiamo ruoli diversi: io mi occupo un po’ più delle melodie, Rocca della struttura finale. È quello che lavora sulle schermate, sull’editing del

pezzo. In fase di scrittura invece il lavoro è abbastanza paritario. Che macchine avete utilizzato? Digitale o tutto analogico? Non siamo dei puristi. Abbiamo usato gli strumenti che avevamo in casa, tante cose analogiche, ma anche tanti strumenti digitali. Io prediligo il Juno (della Roland), perché mi piacciono i suoi suoni, allo stesso tempo però abbiamo usato tanti plug-in e campioni per le batterie mescolati con la drum machine che Rocca ha in casa. In pratica, ci sono pezzi con drum machine e campioni in contemporanea! Hai ascoltato gli Asphodells, il nuovo progetto di Andrew Weatherall, non sembra poi molto lontano dal vostro... Siamo stati contenti del come sia stato ricevuto l’album da alcune “vecchie guardie” della musica elettronica. Con Weatherall suoneremo tra l’altro tra un paio di mesi. È Rocca a tenere i contatti con lui e sappiamo che il nostro disco gli è piaciuto, tanto che alcuni brani li sta proponendo anche dal vivo. C’è sicuramente un’affinità con il progetto The Asphodells e con alcuni elementi tipici del suo modo di produrre: il mix fra elettronica e altri mondi in primis. Mi interessa questo modo di lavorare, nel senso che con i Crimea X, essendo in due, non potevamo andare solo nella direzione dell’elettronica. 15


Parlaci di più del live... Abbiamo già portato in giro l’altro album e speriamo di poter fare altrettanto con Another. Ci sarebbe piaciuto organizzare una band ma non abbiamo il budget per farlo, dunque sarà un set totalmente elettronico (macchine, computer) dove utilizzeremo anche un flauto e alcune tastiere. In programma c’è anche 12’’ previsto per la primavera e quindi ci sarà forse l’occasione di andare a suonare in Nord Europa. Tu che hai sempre subito il fascino del Nord, ti sei ritrovato a lavorare con Torske? Nei momenti in cui vai a lavorare con uno che viene da tutt’altro porto, capisci di essere assolutamente italiano, nei vizi e nei pregi. Uno può avere tutte le fascinazioni che vuole, però son cresciuto qui... Anche come gruppo siamo completamente diversi. Ad esempio, quando eravamo in studio i ‘caciaroni’ eravamo noi. Torske lo era, ma in un modo completamente differente. La musica ha fatto da fondamentale collante, questo è quello che conta. Le fascinazioni sono le fascinazioni. Essere è un’altra cosa.

Interv i sta a B jø r n To r s k e Come hai incontrato Jukka e DJ Rocca per il progetto Crimea X? La prima volta mi sembra di averli incontrati in una serata all’aperto a Rovereto. Non ricordo che anno fosse, ma era d’estate. Suonava anche Fabrizio Mammarella (artista romano che fra le altre cose ha collaborato con Rodion, ndr). Io suonavo un “live” set con il laptop. È stato Marco Gallerani (di P Playground, ndr) che mi ha messo in contatto con loro. In seguito mi è stato chiesto di fare un remix di Varvara, una bella esperienza, e loro hanno remixato eccellentemente una traccia da Kokning. Alla fine Marco lancia la bomba e mi chiede se voglio andare in studio per produrre un loro album! Cosa potevo dire? Non avevo mai prodotto nessuno, ma la cosa mi incuriosiva. È stato bello lavorare con loro in quello studio in campagna, anche se è stata caldissima quell’estate. Phew! Nella cartella stampa ho letto che ti portavano una macchina nuova ogni giorno. Quali sono le tue machine preferite? Lo studio era molto ben equipaggiato, con pezzi analogici, strumenti, ecc. Naturalmente i ragazzi avevano parecchia strumentazione analogica, cosi abbiamo deciso che se avessi voluto usare qualcosa che non c’era nello studio, l’avrebbero portata loro. Ad esempio, nella traccia Essential abbiamo deciso di aggiungere il TR-808 (la mitica drum machine programmabile della Roland) e così Rocca me l’ha portato la mattina successiva. Poi 16

avevamo bisogno del Korg MS-20 (un sintetizzatore) e lui è andato a prenderlo durante la pausa pranzo (no, dopo la pausa pranzo). Una delle cose più curiose è che in un pezzo abbiamo usato un gamelan che abbiamo trovato in una stanza sul retro dello studio. Era come essere in sala giochi. Dj Rocca e Jukka sono italiani. Pensi che il tuo suono sia connesso al cosmic di Daniele Baldelli? La mia interpretazione del suono cosmico è che, a parte il fatto che è spesso messo in relazione con lo spazio, è uno “stile” di musica che consiste di un grande spettro di stili, vale a dire che puoi trovare qualcosa di interessante in ogni parte del cosmo. L’influenza diretta e riconosciuta di Baldelli, è arrivata negli ultimi 10-15 anni, ascoltando le sue produzioni e mixtape. Devo ancora sentirlo suonare in un club! Naturalmente Baldelli ha influenzato molto l’inizio della mia carriera di DJ, senza che sapessi che fosse pure lui un DJ. Un buon esempio è la scena New Beat belga, che cambiava il pitch dei 45 a 33, facendo andare i dischi più lenti e più funky. Non sono sicuro, ma sono tentato di pensare che questa idea venga da Baldelli, uno che ha influenzato la scena belga. Ho letto che ascoltavi parecchia musica durante le sessions di registrazione. È vero? Ci puoi dire quali artisti ascoltavi? Non mi ricordo di aver ascoltato altra musica, quando ero in studio, ma visto che sono rimasto in Italia otto giorni e avevo anche qualche serata in cui suonavo, sono stato sicuramente influenzato dagli show e dalla musica che usciva dallo stereo di Gallerani. Cosa pensi di Andrew Weatherall, senti di essere connesso al suo stile? Le sue produzioni e remix mi hanno influenzato molto, dai Two Lone Swordsmen al disco di remix dei Primal Scream, Echo Dek. Le macchine analogiche sono sempre state nel tuo DNA? Sono sempre state nelle mie produzioni. La rivoluzione digitale è stata una sfida per me, nel senso che ho cercato di evitare il quadro sonoro uniforme che spesso è il risultato di produzioni totalmente digitali. Quali sono i tuoi progetti futuri? Il mio lavoro al momento è nel campo dei remix, così sto lasciando da parte per un attimo le produzioni. Naturalmente ho sempre nuove idee e cerco di seguirle. In futuro mi concentrerò principalmente su uscite in 12’’, poi vedrò se ci sarà abbastanza materiale per un album. Ci sarà la possibilità di vederti in Italia? Spero di trovare qualche serata da voi, dato che mi piace suonare e stare nel vostro paese!


sentireascoltare.com

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Local Natives Di colibrì sul fondo dei crateri Non solo ancelle di Aaron Dessner. Dietro ad Hummingbird c’è il tumulto di una band a tutto tondo, intenzionata a spingersi oltre i propri limiti.

testo: Marco Masoli, Massimo Rancati

Hummingbird, sophomore in studio dei Local Natives, è un disco destinato a dividere. Meglio ancora: è un disco che, a pochi giorni dall’uscita, ha già iniziato a dividere. C’è chi - come il nostro Stefano Solventi - fatica a collocarne la proposta su un piano davvero irrinunciabile, ma anche chi - l’editor di Pitchfork Ian Cohen - si appoggia alla presenza di Aaron Dessner in cabina di regia e lo proclama “la risposta di Los Angeles ad Alligator”. Senz’altro il nuovo album mostra una crescita importante sul piano strettamente musicale, vuoi anche soltanto per l’ampliamento del parco influenze in ballo e l’abbandono degli stereotipi e banalità indie presenti sul debutto Gorilla Manor (2009). Ci siamo quindi presi la briga di scambiare quattro chiacchiere con il chitarrista Ryan Hahn, indagando certo sull’apporto della sua controparte nei National, ma anche - leggi: soprattutto - scoprendo una band che rifugge i paragoni facendo leva proprio su quei tratti che, in musica, spesso e volentieri si preferisce nascondere: le fragilità. Come è partita la collaborazione con Aaron Dessner? Siamo stati in tour coi National alla fine del 2012 e ab-

biam fatto subito amicizia con Aaron. Ad un certo punto del tour è saltato fuori il discorso riguardante la possibilità di lavorare insieme e, al momento di dover decidere il produttore a cui rivolgerci, abbiamo deciso di prendere in considerazione la sua offerta. Quando l’abbiamo infine contattato via mail era in vacanza alle Hawaii, eppure ci ha risposto immediatamente per dirci di sì e che era carichissimo all’idea di entrare in studio con noi: fantastico. Siete soddisfatti del risultato? Quali sono le caratteristiche di Aaron come produttore? Siamo veramente entusiasti del risultato ed è stato uno splendido rapporto lavorativo. Siamo entrati in sintonia sin da subito e potevamo essere brutalmente onesti e mandarci all’inferno a vicenda. Lo paragoniamo ad un fratello maggiore perchè è proprio così che ci si sentiva. Ci è stato di grandissimo aiuto perchè non è il tipo che pensa troppo alle cose e ha permesso quindi che durante le registrazioni rimanesse un giusto livello di improvvisazione e imperfezione. È riuscito persino a tirarmi fuori un guitar solo: mai avrei pensato fosse possibile. 19


È inoltre molto più a suo agio in studio rispetto a noi, principalmente perchè è solito trascorvi molto più tempo all’interno e, grazie alla sua esperienza, abbiamo potuto passare molto più tempo a sperimentare in studio, piuttosto che ritrovarci tutto pronto e scritto in anticipo. Raccontateci qualcosa dell’ATP organizzato da Matt Berninger a cui avete partecipato. È stato uno dei festival più unici in cui ci siamo mai ritrovati a suonare. Era in questo bizzarro resort inglese sulla spiaggia e siamo rimasti lì per tutti e tre i giorni perchè capitava esattamente alla fine del tour che avevamo in corso. Abbiamo visto suonare e passato un sacco di tempo insieme a moltissime band con cui avevamo fatto amicizia negli anni.C’era un’atmosfera quasi da piccola comunità. Taylor (Rice, ndr) era solito svegliarsi presto e giocare a calcio con la gente presente al festival e i ragazzi delle altre band. Se avrete mai la possibilità di andare ad un ATP, vi consiglio caldamente di farlo. Da fan dei Wilco, ci piace pensare che dietro al titolo Hummingbird vi sia un tributo al loro capolavoro contenuto in A Ghost Is Born. Volete dirci cosa ci sta dietro in realtà? È una buona congettura, siamo anche noi tutti grandi fan degli Wilco (potrebbe mai essere il contrario?, ndr), ma sfortunatamente non è da lì che viene il titolo. Esso proviene da un verso di Colombia - “A hummingbird crashed right in front of me / And I understood all it did for us” - ed ha uno specifico sginificato sia per la canzone stessa che, in generale, per l’intero album. Abbiamo passato moltissimi alti e bassi negli ultimi anni ed è tutto in qualche modo documentato all’interno del disco. Ci sono momenti più esaltanti e festanti rispetto al nostro primo album, ma ci sono anche momenti più cupi e fragili. I colibrì (‘Hummingbirds’ in inglese, ndr) ci sembravano semplicemente perfetti per rappresentare questo tipo di dicotomia. C’è un motivo dietro alla scelta di creare il nuovo disco a Brooklyn invece che Los Angeles? Aaron ha un piccolo, ma splendido studio nella sua rimessa a Brooklyn. Quando abbiamo deciso di lavorare con lui, ha semplicemente preso senso che facessimo la maggior parte delle registrazioni lì. Avevamo comunque già passato circa dieci mesi scrivendo nel nostro spazio prove, per cui resta perlopiù un disco marchiato da Los Angeles. Eravamo in ogni caso gasati dalla prospettiva di scappare da tutte le distrazioni delle nostre vite personali ed andare in un posto dove potessimo focalizzarci esclusivamente sulle registrazioni. Non abitiamo più insieme ad LA, ma è stato bello vivere di nuovo nella stessa casa durante le registrazioni. Ci ha davvero permesso di isolarci dal mondo esterno e concentrare tutte le nostre 20

energie sull’album. Col senno di poi, riuscire ad uscire fisicamente dalle nostre “comfort zones” vivendo altrove, nello stesso modo in cui già stavamo cercando di muoverci musicalmente in nuovi territori, è stato, oltre che piuttosto cool, anche un gran bene. Brooklyn è anche la casa madre dei Grizzly Bear, band cui siete spesso accomunati. Come vivete questi paragoni? I paragoni in genere possono essere davvero frustranti, ma sfortunatamente sembrano essere una parte inevitabile legata al far musica. I Grizzly Bear sono una band incredibile, quindi se qualcuno sente proprio il bisogno di fare un paragone, penso che siamo davvero in ottima compagnia. Come è stato scrivere, questa volta, in quattro? Siamo sempre stati una band molto collaborativa. La maggior parte di noi è polistrumentista quindi è spesso sfocata la linea che suddivide chi suona cosa quando lavoriamo sulle canzoni. La principale differenza questa volta è stata che non potevamo suonare una canzone completamente dal vivo tutti insieme in una stanza, quindi abbiamo passato più tempo a registrare e sperimentare. Questo ci ha permesso di scrivere canzoni in modi differenti ed utilizzando nuovi strumenti, specialmente molti più synth e drum samples.Quando abbiamo raggiunto il vero studio a Montreal (per il pre-tracking, ndr) e Brooklyn, ci siamo concentrati sulla produzione più di quanto avevamo fatto per il primo disco. Il nostro obiettivo era di far suonare questo disco esattamente come volevamo senza essere troppo preoccupati di come saremmo riusciti a riproporlo dal vivo. Le principali influenze alla base della scrittura di Hummingbird sono le stesse di Gorilla Manor o nel frattempo sono subentrati degli ascolti che si sono rivelati poi determinanti per definire il suono di quest’ultimo LP? A noi pare che loro spettro si sia ampliato: in Three Monts ci abbiamo sentito persino i Sigur Ros! Corretto. Ci siamo davvero aperti a una tavolozza di idee ben più ampia questa volta. Abbiamo usato un sacco di tonalità e strumenti differenti che non avremmo mai accettato di inserire in Gorilla Manor. Abbiamo ascoltato moltissimo band come Portishead, Blur, New Order,The Smiths,The Stone Roses e cose di questo tipo. Durante la scrittura del primo disco abbiamo ascoltato moltissimo Ziggy Stardust e Hunky Dory, mentre questa volta ero letteralmente ossessionato da tutti gli album del Bowie di fine seventies, da Station To Station a Scary Monsters. Chi ha realizzato l’artwork di copertina? Cosa rappresenta per voi? Abbiamo creato noi stessi l’artwork ancora una volta.


Matt (Frazier, ndr) si è occupato dell’intero packaging. La cover è una foto fatta da me mentre gli altri ragazzi scalavano il tetto della nostra sala prove e ci ha fatto ridere la prima volta vedere la grandiosa espressione del volto di Kelcey (Ayer, ndr) mentre combatte per arrampicarsi. Nel corso del tempo poi ha assunto una vita propria e sembrava adattarsi perfettamente ad ogni canzone dell’album. Per quanto mi riguarda, rappresenta come sono andate le cose negli ultimi anni, passando attraverso periodi molto difficili lottando per uscirne fuori più forti di prima. Com’è l’ambiente Frenchkiss? Pensate sia la vostra dimensione perfetta? È grandioso perchè Syd, il proprietario della label, è anche membro di una band (Les Savy Fav) e quindi capisce al volo le nostre necessità e ci possiamo relazionare

facilmente. È una piccola realtà piena di persone cool e appassionate ed è perfetta per una band come la nostra che può così mantenere il controllo su tutto. Ci basta alzare la cornetta e discutere le cose direttamente con loro, senza un sacco di intermediari o “posti di blocco creativi”. Cosa state ascoltando in quest’ultimo periodo? C’è qualche band, magari ancora non salita alla ribalta delle cronache, che vorreste consigliarci? Sto ascoltando moltissimo i Clash, specialmente Combat Rock e Sandinista. Per quanto riguarda le novità invece, sono un grande fan di King Krule (anche nei nostri Ones To Watch 2013, ndr). Qualsiasi cosa faccia uscire è materiale unico e creativo. Lo consiglio fortemente se non ne avete ancora sentito parlare.

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John Grant


Il ritorno di John Grant: suoni nuovi e stessa intensità. Abbiamo ripercorso la sua travagliata storia e parlato del nuovo album nella nostra intervista.

Fantasmi verde pallido

Testo: Teresa Greco

Il successo insperato, arrivato a poco più di 40 anni, ti può cambiare totalmente vita e prospettive? E se sì, come andare avanti quando si credeva ormai che un capitolo della propria esistenza fosse più o meno chiuso? È la parabola esistenziale di cui è stato protagonista nel 2010 il musicista americano John Grant, il quale dopo più di un decennio di scarsi riscontri ottenuti con la band The Czars, aveva quasi rinunciato alla musica; forzato dagli amici Midlake aveva finito per incidere un disco, Queen Of Denmark, che si sarebbe rivelato di lì a poco la chiave di volta di uno splendido e inatteso ritorno. Ebbene Grant è sì andato avanti, non senza aver messo tutto se stesso nell’impresa, svelandosi molto, non solo su disco, raccontandosi francamente nelle interviste promozionali durante Queen Of Denmark, e così rendendo pubblico tutto un trascorso drammatico fatto di abusi e depressione, fino ad arrivare sull’orlo del suicidio. Quasi a voler esorcizzare, allora a questo modo, una fase della propria vita che aveva d’altra parte così ben narrato, trasfigurandola, su album, con una meditata impronta ironico-sarcastica e soprattutto una leggerezza di fondo, rendendo universali temi quali la dipendenza, l’essere cresciuto, essendo gay, in provincia in un ambiente familiare religioso, l’accettazione, l’ipocrisia di certi ambienti.. Così come continua a raccontarsi nel nuovo disco, Pale Green Ghosts, che lo conferma songwriter intimo e sicuro di sé e dei propri mezzi, mentre riveste il tutto di synth-pop e wave ottanta (grazie a un cambio di produzione, con l’islandese Birgir Þórarinsson degli elettronici GusGus), riuscendo a rimanere onesto. 23


Fr om t he begi n n in g La nostra storia parte da alcune ossessioni, quelle del protagonista, preadolescente in un piccolo centro del Michigan, e poi subito dopo a Denver in Colorado - dove si era trasferito con la famiglia. C’è da una parte tutto il disagio della provincia bigotta - lui che si scopre gay -, e quasi l’ossessione di volersene andare via per realizzare qualcosa di meglio; la musica ne fa già parte (aveva iniziato a cantare nel coro della chiesa da piccolo), anche se non ancora in modo preponderante. “Ai tempi della scuola, poco dopo il trasferimento a Denver ero un pesce completamente fuor d’acqua, mi sentivo come Sigourney Weaver che si batteva contro gli alieni, come se fossi perciò su un altro pianeta. Mi piace lo sci-fi e film come La mosca e Alien mi fanno assaporare l’idea della metamorfosi” (come racconterà poi in Sigourney Weaver dal primo album). Non sarà però immediatamente la musica che lo farà andar via di casa, bensì gli studi di tedesco e russo (altra ossessione, le lingue), che intraprende di lì a non molto in Germania, per diventare traduttore. Sei anni spesi in college di qua dall’Oceano che però lo convincono di non aver fatto la scelta appropriata (“Mi era diventato chiaro che non sarei stato un buon traduttore, perché le abilità linguistiche inglesi non erano ottimali; devi essere molto forte nella tua madrelingua per poter tradurre al meglio. Così quando ho avuto netta questa percezione sono tornato a casa, concentrandomi sul formare un gruppo”) e così a metà anni ‘90 torna a Denver, questa volta con l’idea di fondare una band e di poter cantare. E il gruppo verrà di lì a poco: prima si chiamano Titanic, poi diventano The Czars, un nome che richiama il background russo di Grant; in un paio di anni la band in cui canta e suona si stabilizza nel quintetto (Jeff Linsenmaier alla 24


batteria, le due chitarre di Andy Monley e Roger Green ed il basso di Chris Pearson) che in poco più di 10 anni, dal 1994 al 2004, darà vita a cinque album, tra alt-country, darkpop, rock jazz e songwriting; dal terzo disco saranno prodotti nientemeno da Simon Raymonde ex Cocteau Twins (un’altra delle ossessioni del Nostro), e poi proprietario della Bella Union. Raymonde li mette sotto contratto principalmente per Grant, che gli aveva mandato un demo, rimanendo impressionato da voce e canzoni, anche se la scrittura di John non è ancora perfettamente a fuoco. Mancanza di distribuzione adeguata e problemi interni faranno sì che il gruppo non abbia vita facile, insieme a uno dei periodi più bui per il Nostro, che si dibatte tra depressione e abuso di sostanze (alcol, cocaina, crack..); a posteriori tutta l’esperienza The Czars sarà abbastanza frustrante, soprattutto per lui (“C’erano problemi di ego nella band, non eravamo ben amalgamati insieme e penso volevamo solo avere successo.. che poi non è arrivato ed è stato naturale sciogliersi..”). Un’altra fase è ormai al capolinea.

Cadu ta e rin as cita Grant si trasferisce allora a New York (dove lavora e prosegue e termina gli studi di russo) cercando di ripulirsi, e iniziando poi tra alti e bassi una carriera solista, che lo porterà a suonare di supporto per altri, tra cui i Flaming Lips e i Midlake. E proprio quest’ultimi, incontrati nel 2006, lo avevano fortemente voluto come support del loro tour USA per promuovere The Trials Of Van Occupanther, rivelandosi poi assai strategici per il prosieguo della sua carriera. “Abbiamo sentito The Czars durante il nostro primo tour a Londra - ricorda il bassista dei Midlake Paul Alexander - e la voce baritonale di John è stata la prima cosa che mi ha colpito. Ma siamo veramente rimasti affascinati quando l’abbiamo visto live tempo dopo e voluto come opening act in patria, fino a portarlo con noi a Denton per realizzare il disco”. Il primo passo verso il cambiamento è ormai in atto. Che Grant ne sia cosciente o meno, l’apporto dei Midlake è fondamentale per operare la sua catarsi e soprattutto, per ridargli la fiducia che non aveva mai avuto in se stesso nel contesto di un team lavorativo, come svelerà poi a processo compiuto. Dirà infatti che in quest’occasione si è sentito completamente libero di esprimersi e di essere se stesso, di accettarsi.”Non c’è niente di superfluo o inutile nel disco, ho rivelato chiaramente dal mio punto di vista dove sono arrivato e chi sono come persona, e sono fiero di esserci riuscito al meglio. Almeno mi è stata data l’occasione di affrontare il dolore, invece di esserne spaventato e non riuscire a farvi fronte”. Il risultato è lo splendido Queen Of Denmark (Bella Union, aprile 2010), disco in cui Grant inizia a affrontare ed esorcizza finalmente i propri fantasmi interiori, depressione e dipendenze in primis. Musicalmente convergono e si fanno mature tutte le sue influenze, i Settanta soprattutto, un rock soffice e variegato che lambisce Harry Nilsson, si fa soft pop modello Carpenters, E.L.O.,Supertramp, oppure Mercury Rev e Flaming Lips, ma anche il country di Patsy Cline (“ai tempi della scuola non mi vergognavo di amare la Cline, per anni ho cantato dietro alle sue canzoni”), il jazz rock (Steely Dan), Antony and the Johnsons e Scott Matthew, mentre per l’ironia e il sarcasmo viene in mente Morrissey. Musica per piano e archi, colorata con qualche synth e tanta intensità emotiva, con arrangiamenti raffinati, opera della backing band d’eccezione. Un pop alto che si fa scrittura varia e che colpisce immediatamente al cuore. 25


Va da sé che finalmente un album del genere non farà fatica a farsi notare tra pubblico e addetti ai lavori: sarà disco dell’anno nel 2010 per Mojo e non solo, porterà alla luce il suo talento e gli darà l’opportunità di continuare una carriera solista. Noi di SA all’epoca ne cogliemmo la portata, dedicando all’artista ampio spazio di approfondimento. Nel 2011 parecchie canzoni dell’album sono state usate per il film inglese Weekend, commedia romantica diretta da Andrew Haigh.

I fan tas mi v er de pa l l id o Come si diceva, il primo disco fornisce l’occasione d’oro a Grant per rientrare in possesso di se stesso e finalmente ripartire da basi più equilibrate. Oltre al flusso di coscienza maieutico che lo rivelerà artista sensibile, onesto e sincero. Il periodo intercorso tra i due album (quasi un triennio) è stato molto proficuo, denso di idee e incontri, tra gli altri con Hercules & Love Affair nel 2012, per i quali ha scritto I Try To Talk To You, rivelando poi che la canzone era stata composta l’anno prima, al momento della scoperta della sua positività all’HIV. E proprio durante il Meltdown Festival, curato da Antony Hegarty nell’agosto dell’anno scorso, nel corso della sua esibizione con Hercules & Love Affair, ha rivelato pubblicamente sul palco la sua condizione. “La canzone è su questo tema, così ho pensato di poterne parlare lì per lì; credo che non dovrei aver paura di trattarne, poiché ci sono molte persone nella mia condizione, che si sentono emarginate dalla società, persone con problemi di dipendenza, che si vergognano e non si amano, voglio che queste persone sappiano che c’è qualcuno come loro sul palco, che sta affrontando questa situazione”. E ancora sul tema: “Ora ho la possibilità di guardarmi allo specchio e dirmi che

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va bene, nonostante tutto e che posso conviverci; cosa che non riuscivo a fare prima, essere onesto con me. Tutte le cose dette nelle interviste durante Queen Of Denmark, non erano tanto per me stesso, ma per gli altri, affinché le mie vicende servissero anche ad altre persone e che nessuno si dovesse vergognare per questo. D’altra parte è il mio modo di essere e di sfogarmi, e di trovare il modo di vivere e andare avanti comunque”. Pale Green Ghosts (Bella Union, 12 marzo 2013) rappresenta, nella sua veste elettronica, la degna continuazione di questo proficuo momento musicale, uno stato di grazia in cui ispirazione, espressività e varietà musicale si coniugano perfettamente. Un incontro fatto a Reykjavik durante l’Iceland Airwaves festival nel 2011, quello con Birgir Þórarinsson, a.k.a. Biggi Veira dei GusGus, sarà determinante per la genesi dell’album. I due iniziano a registrare un paio di pezzi (Pale Green Ghosts e Black Belt) e questo farà decidere Grant di non tornare a Denton dai Midlake per realizzare il secondo disco, ma di proseguire lì l’esperienza. Anzi opterà addirittura per il trasferimento nell’isola, in pianta stabile a Reykjavik. Pale Green Ghosts vede anche la presenza di Sinead O’Connor ai backing vocals, che aveva coverizzato nel 2012 la title track del debut di Grant, nel suo recente How About I Be Me (And You Be You)? e di numerosi musicisti islandesi, nonché di Mackenzie Smith e Paul Alexander dei Midlake (la sezione ritmica di Vietnam e It Doesnt Matter To Him). Dalle atmosfere Settanta si passa agli Ottanta danzerecci, vissuti da Grant in prima persona nei club dance new wave di Denver, che raggiungeva in macchina dalla vicina Parker, Colorado. E proprio questo viaggio rappresenta il cuore dell’album, si veda la title track: come ci ha detto lo stesso Grant, la canzone parla di evadere da un piccolo centro di provincia, andarsene per realizzarsi, contenendo in sé tutta la voglia di reagire, che poi sarà una delle caratteristiche della sua poetica, nonostante tutto (“Mi trovo spesso a guidare di notte / con la radio che manda in onda l’oceano / con il vento caldo di tarda primavera tra i capelli / Sono qui ma voglio essere altrove, e nessuno mi potrà fermare.. / Mi auguro che otterrai tutto ciò che desideri ragazzo / che conquisterai il mondo realizzandoti / ma non venire a piangere quando sarai messo di fronte alla verità..” : Pale Green Ghosts e il suo sottotesto sarcastico, noir, che fa sempre capolino qua e là nei testi.

INTE RV I STA Lasciamo che sia lui stesso a raccontarsi e raccontarci di quest’ultimo album, raggiunto via mail per un’intervista. Che cosa puoi dirci della tua collaborazione con Birgir Þórarinsson (Biggi Veira) per questo disco? Lui è stato una delle mie grandi influenze.. ci siamo incontrati in Islanda, nel corso dell’Icelandic Festival due anni fa. Mi ha subito invitato nel suo studio di registrazione per farmi sentire del materiale e passare un po’ di tempo, e c’è stata dall’inizio grandissima empatia tra di noi. Quali sono state le differenze in studio nella produzione di quest’ultimo disco rispetto al primo con i Midlake? Posso dire essenzialmente negli strumenti usati, perché qui per la maggior parte abbiamo lavorato con i sintetizzatori, nel precedente era tutto più analogico. Quali sono stati i musicisti che hanno collaborato a Pale Green Ghosts? Nella maggior parte dei pezzi eravamo io e Biggi a lavorare, Fiona Brice ha 27


arrangiato e registrato gli archi e gli ottoni, Mackenzie Smith e Paul Alexander dei Midlake si sono occupati della sezione ritmica di due pezzi del disco, Vietnam e It Doesnt Matter To Him, mentre il resto è stato realizzato da fantastici musicisti che ho incontrato in Islanda, fra i quali il sassofonista Óskar Gudjónsson che ha suonato su Ernest Borgine. Pale Green Ghosts vede la partecipazione ai backing vocals di Sinead O’Connor. Come è avvenuta la vostra collaborazione? Anche lei è una delle mie preferite, la sua Mandinka la ballavo nel club.. Ci siamo incontrati perché lei aveva coverizzato un anno fa la mia Queen Of Denmark nel suo ultimo album. All’inizio dell’anno scorso mi ha chiesto se avessi delle canzoni nuove da farle sentire, e così le ho fatto ascoltare un paio di nuove cose. Dopodiché lei ha espresso l’interesse di farne parte, cosa che mi ha reso molto felice e sorpreso. Così abbiamo collaborato, lei è assolutamente fantastica! Veniamo alla parte musicale dell’album, che ha sorpreso molti. L’elettronica, già presente un po’ in Queen Of Denmark, qui è preponderante, anche se il lavoro è una fusione di stili e di quanto hai fatto finora. Cosa ci puoi dire di più su questa scelta? Beh sai, questo sound ha sempre fatto parte delle mie preferenze musicali, sin da adolescente, quando molta parte della musica era elettronica e new wave, come si chiamava allora negli States.. fa parte della mia formazione, anche se a molti sembra strano.. Negli Czars c’erano inserti elettronici di tanto in tanto, e due pezzi nella edizione deluxe di Queen erano dance (That’s the Good News e Supernatural Defibrillator). ADORO molti musicisti di quel periodo, come Fad Gadget, Talk Talk, Chris and Cosey, Depeche Mode, Yello, Cabaret Voltaire, Siouxsie and the Banshees, Cocteau Twins, Dead Can Dance, e potrei andare avanti per ore e ore! È tutto così legato alla mia formazione e personalità musicale in tutti i sensi, intrinsecamente. Più di recente, hai nominato acts quali Trentemøller e Mock & Toof.. che altri nomi hai come riferimento? Al momento mi piacciono molto Zombie Zombie, Com Cruise, School Of Seven Bells, WhoMadeWho, Apparat, Modeselektor, Mouse On Mars, Austra,

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Broadcast, Christeene, Colder, Jimmy Edgar, Lindstrøm... per citarne alcuni. (A proposito di collaborazioni, dal 20 febbraio è stato reso disponibile da Grant un remix del secondo singolo Black Belt, ad opera del duo di Baltimore Dungeonesse (il produttore Jon Ehrens di White Life, The Art Department e la cantante Jenn Wasner di Wye Oak e Flock Of Dimes), che debutteranno a maggio con un S/T su Secretly Canadian. L’upbeat disco Black Belt è stata rallentata e resa ipnotica e notturna). Il disco tratta di temi forti, così come il precedente: la difficoltà di crescere in provincia con tutta l’omofobia del caso che si può immaginare, il voler andare via per affermarsi, l’amore, il sesso, l’abbandono, la depressione, l’ipocrisia, la rivelazione dell’HIV, la voglia di reagire e andare avanti. E’ un album forte tematicamente, affrontato con ironia e sarcasmo. È importante per me affrontare i problemi contingenti che mi riguardano, e Pale Green Ghosts non fa eccezione, naturalmente. Ho fatto fronte a molte difficoltà, come hai giustamente citato, come HIV, depressione, odio verso se stessi, ma ci tengo a dire che amo anche la vita e mi piace riderne, come ho imparato da Woody Allen a partire da metà anni Ottanta. Ernest Borgnine, per esempio, è la mia versione del suo La rosa purpurea del Cairo, che tratta di una persona che sfugge dalla realtà attraverso i film. Amo assolutamente il black humour. E il regista Todd Solondz mi ha molto ispirato, con film quali Welcome To The Dollhouse (Fuga dalla scuola media, 1995, ndr) e Happiness (Happiness - Felicità, 1998, ndr). (Ernest Borgnine è anche la canzone in cui parla della sua positività all’HIV: “Quanto è abbastanza? / Una domanda molto difficile / dovresti pensarci prima o poi / mentre affondi sempre più in basso.. / Il medico senza guardarmi mi dice che ho preso la malattia.. / ora, cosa ti aspettavi, / hai speso la tua vita in ginocchio. / Non è mai troppo tardi, dimmi di cosa hai paura.. / Mi chiedo cosa avrebbe fatto Ernest Borgnine / ho avuto modo di incontrarlo una volta ed era davvero molto cool..”) Ti senti ancora come Sigourney Weaver che combatteva contro gli alieni, come se fossi su un altro pianeta (ci si riferisce al pezzo omonimo, sul primo disco, una metafora per indicare lo stato di estraneità che avvertiva, da adolescente, poco dopo il trasferimento a Denver)? Non esattamente nel modo in cui lo avvertivo da giovane, ma ci sono ancora tanti alieni da combattere là fuori.. Ci sono persone con menti piccole e cuori che sono chiusi dagli affari. L’Islanda sicuramente appare come un altro pianeta certe volte, ma questo è molto positivo, dal mio punto di vista! Ti sei trasferito in Islanda da non molto... Non sono sicuro se resterò qui a lungo, ma è molto bella l’atmosfera a Reykjavik, c’è un’incredibile comunità di musicisti, mi piace imparare la lingua, che è molto difficile, e ho incontrato molta gente fantastica. Quindi ci sono moltissime ragioni che mi trattengono qui al momento. Chi è la persona descritta nella canzone Sensitive New Age Guy? Il pezzo è su un mio caro amico, che tra le altre cose, era un’incredibile drag queen, che si chiamava Schwa. Purtroppo è scomparsa all’inizio dell’anno scorso in modo violento e orribile. La canzone vuole invocarlo/a, perché la gente possa capire che persona stupenda fosse. Sento molto che il testo e la musica catturano in larga misura quanto fosse incredibile. Credo che lui si sentisse spesso fuori luogo in questo mondo, così come alcuni fanno sentire fuori luogo le persone molto sensibili e delicate, il che porta la canzone su 29


un altro livello.. Parlami della title track, the pale green ghosts, i fantasmi verde chiaro. Io li vedo come i fantasmi del passato ma anche del presente, i nostri fantasmi interiori che scintillano nel buio, come suggerito anche dal clip della canzone (diretto da Alex Southam collaboratore di Bella Union: video notturno, con lui che guida e sembra cercare qualcosa, ndr) È in relazione con quanto si diceva prima, sulle atmosfere dance e new wave con cui sono cresciuto e che attraversano il disco. Ero solito guidare di notte per andare nei club, percorrendo la I-25, tra Denver e Boulder, che era piena di queste piante (Russian olive, pianta ornamentale del Nordamerica, ndr), con le loro foglie verde chiaro, sottili e argentee sul retro, che risplendevano con la luce della luna; sono i fantasmi verde chiaro del titolo, e la canzone parla di evadere da una piccola città, andare via nel mondo, per diventare qualcuno e realizzarsi.. sì mi sembra un’ottima interpretazione la tua! Cosa è cambiato per te da dopo la pubblicazione di Queen Of Denmark e la sua positiva accoglienza? La mia vita è drasticamente cambiata, perché per la prima volta sono stato in grado di fare musica a tempo pieno, di viverne e di poter costruire una carriera. Mi ha anche permesso di potermi stabilire in Islanda, di incontrare e di conoscere anche molte persone che ammiro e che mi hanno ispirato con la loro musica. E infine, John, sei mai stato in Italia? Ti do appuntamento qui da noi per i concerti di aprile (11-04 Milano, Teatro Franco Parenti, 12-04 Roma Parco della Musica, 13-04 Bologna, Antoniano, ndr)... Sì ci sono stato e mi piace molto. Spero di imparare meglio la lingua la prossima volta che verrò lì da voi, sperando di poterla conoscere meglio nei prossimi anni. Non sono mai stato sulle Dolomiti, cosa che desidero moltissimo, e mi piacerebbe andare anche a Venezia e in Sicilia, non ho visto molto della Toscana, cosa che è anche una delle mie priorità. Il cibo è fantastico e gli Italiani hanno un tale gusto estetico, che spererei di averne anch’io giusto un po’! Degna conclusione di un artista molto sensibile e dotato di senso estetico e artistico, insieme alla fascinazione da Grand Tour che da alcuni secoli suscita il nostro Paese, al di là di ogni luogo comune John Grant, e qui chiudiamo il cerchio iniziato con questo articolo, prosegue allora il suo intricato e non facile viaggio metaforico (e spaziotemporale), nel quale l’accettazione di sé è passata attraverso molte prove e sacrifici, durante i quali si è rinforzata, offrendo redenzione e risposte a se stesso in primis e agli altri. È sempre una questione di identità cercata, inseguita e ritrovata, infine. “Tu vuoi semplicemente vivere la tua vita / nel migliore dei modi / ma continuano a dirti che / non ti è permesso / dicono che sei malato / che dovresti appenderti per la vergogna / puntano il dito / e vogliono che ti prenda le colpe / ci sono giorni in cui / la gente è così sgradevole e persuasiva /dicono cose da non credere /che fanno male e ti lasciano dolorante. / Questo dolore è come un ghiacciaio / che si muove dentro / ritagliandosi valli profonde / creando paesaggi spettacolari / nutrendo la terra / con minerali preziosi.. / Quindi non paralizzarti dalla paura / lascia stare / questa pseudo teocrazia non è altro che ipocrisia / non ascoltare nessuno / ottieni le risposte da solo / anche se questo vuol dire essere da solo qualche volta / nessuno puoi dirti in cosa credere /alla gente piace parlare molto / e mistificare” (Glacier). 30


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Che suono hanno i ricordi?

Grouper


Liz Harris è la soundtrack per quella diafana dimensione che appartiene ai ricordi, ai sogni, alle visioni. Le suggestioni dall’artista di Portland

Testo: Antonello Comunale

A p r o p osi to d i l a me nt i e sogn i Quando nell’ormai lontano 2005 la piccola etichetta di Rob Fisk dei Deerhoof, la Free Porcupine Society, pubblica l’enigmatico album Way Their Crept dell’artista americana Grouper, lo scenario avant-indipendente è ancora completamente occupato dalla New Weird America e dal drone-folk. Non a caso, i primi commentatori, di fronte a una collezione di suoni così ermetica, cercano di trovare formule facili e comode etichette per attaccare concettualmente un album che appare abbastanza impenetrabile. Lo sticker promozionale sul digipack azzarda un: “Like an ode to Throbbing Gristle by Arvo Part, Way Their Crept resembles a choir of ghosts recorded a hundred years ago”, ripreso sommariamente da David Keenan sulle pagine di Volcanic Tongue, il quale si spinge, ovviamente, ancora più in là: “It brings to mind early choral pieces by Allegri and Palestrina re-worked for post-pot consum33


ption, with echoes of Keiji Haino’s Nijiumu rituals, Richard Youngs and Simon Wickham-Smith circa “Goat”, William Basinski’s Disintegration Loops, the Two Daughters LP and cassette and Meredith Monk’s Key as well as contemporaries like The Skaters and Inca Ore”. Termini e paragoni che rimbalzano da fanzine a webzine, da appassionato a cultore. La tiratura limitata delle prima edizione si esaurisce rapidamente e si cerca qualche notizia in più sull’artista che si cela dietro il nome d’arte. Si scopre che dietro Grouper c’è Liz Harris, originaria di Portland, ma cresciuta artisticamente nella Bay Area alle spalle dei Yellow Swans e, in particolare, di Pete Swanson con cui fa coppia. Si viene a conoscenza che oltre a manipolare nastri e campionamenti, è anche prolifica artista visuale con una particolare predilezione per le forme ripetitive e cicliche, modellate attraverso le sue mani in geometrie arcane e ossessive. Da qui una concezione della propria arte, sia visuale che musicale, che si collega soprattutto alla dimensione dello spazio, nonostante l’aria nostalgica che spira dalla maggior parte delle sue produzioni. Ed è qui che, probabilmente, nasce la tensione perenne tra astrattismo avant e formalismo pop, un elemento che, sebbene comune ad altri musicisti dell’epoca, raggiunge in lei un apice paradigmatico. Inizialmente, la strada è ancora incerta e l’atteggiamento solitario ed elusivo della Harris complica le cose, dando pochissime chiavi di lettura. Al punto che qualcuno liquida frettolosamente con un “nostalgia della prima Kranky”, sintetizzando un po’ troppo un suono molto denso, monocromatico, inattaccabile eppure già estremamente mutevole, animato com’è da tensioni eterogenee. A dispetto degli episodi più mesmerici e ultraterreni come la title track, Sang Their Way, Black Out, Adorned, altrettanti abbozzano una forma seppure estremamente opaca di forma canzone: Hold A Desert Feel Its Hand, Second Skin, Zombie Wind, Close Clock, Second Wind, Zombie Skin. La coloritura dei riverberi deriva, più che dalla prima Kranky di Roy Montgomery (citato a più riprese dalla musicista), dalla rural psychedelia dei Flying Saucer Attack, dall’onirismo cosmico degli Amp e più in generale dalla tradizione shoegaze di cui Grouper sembra l’ultima profeta in un ipotetico day after. Per i canoni del genere il disco miete il successo sufficiente a destare l’attenzione presso l’avant intellighenzia di regime. Nel vano tentativo di trovare una formula che sia valida per suoni contemporanei sempre più eterogenei e che diventi icona concettuale dell’epoca, dopo il successo che dalle pagine di Wire si è propagato in tutto il mondo intorno all’etimologia della New Weird America e ben prima che hypnagogico diventasse incredibilmente un termine di uso comune, Way Their Crept e Grouper si candidano a emblema di una nuova forma di psichedelia vocale, libera da formalismi di sorta e filiazione della corrente weird. E’ il batterista dei Flying Luttenbachers, Weasel Walter, a ideare l’espressione “moan wave”, dal verbo inglese to moan, ovvero lamentarsi, ululare, sospirare, indicando con esso una pletora di artisti che fanno della voce l’architrave principale di una forma di psichedelia free-form e anarcoide che vede in Grouper una sorta di portabandiera femminile, con dietro le varie Pocahaunted, Inca Ore, Juliana Barwick, Valet, U.S. Girls. L’anno successivo, a battere il ferro finché è caldo ci pensa il secondo lavoro su Free Porcupine Society, l’ambizioso e irregolare Wide. La nube tossica di Way Their Crept si alleggerisce di molto, nella stessa maniera in cui il personaggio Liz Harris si concede sempre di più al dibattito web, sulla scorta di una progressiva invasione sui canali indie più cliccati (Pitchfork, TinyMixtape, 34


Quietus, Dusted) e forte di un fan-base dalla crescita rapida e impressionante. Bianco e nero d’ordinanza per la foto di Agate Beach che risplende sulla copertina del disco e sigillo delle memorie perdute della giovane Liz che comincia a fare canzoni, nella vena classica che si riconosce in ogni autore che si rispetti. Echi e riverberi concedono un taglio più liturgico e solenne agli episodi più astratti, mutando in superficie quell’umore da distillato di LSD che stava alla radice del fascino di Way Their Crept. Quello che perde in originalità, Grouper lo acquista in spessore di insieme, finendo col sembrare, non a caso, una versione aggiornata e riveduta dei Clear Horizon, progetto estemporaneo che vedeva Jessica Bailiff fare coppia con David Pearce. Si spiegano così brevi e gracilissime romanze psichedeliche che fanno la forza del disco come Little Boat/Bone Dance, Imposter In The Sky, Agate Beach. Compare anche il piano fantasma e iper-trattato con il riverbero di Giving To You. Contemporaneamente la Harris avvia in modo sistematico le pubblicazioni della sua Yellow Electric, label casalinga con cui allestisce tirature limitatissime dei suoi primi cdr e inaugura la pratica della ristampa in vinile dei propri lavori, forte dell’aiuto della rinomata e amica Mississippi Records a fare da cassa di risonanza, per quanto i contorni di tutto questo siano invero di portata assai limitata. Jefre Cantu Ledesma ex Tarentel e ora deus ex-machina della Root Strata - label con sede in San Francisco espressamente dedicata alla nuova drone music indipendente - la convince a pubblicare per la sua etichetta, nell’esta-

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te del 2007, Cover The Windows And The Walls, lavoro a tiratura limitata ed espressamente riservata al formato vinile. Una scelta che volutamente manda l’album in esaurimento e fa esplodere la curiosità del popolo del web, accalcato fin da subito sui primissimi blog che diffondono il rip/mp3 dell’album. Sorta di gemello nascosto e imbronciato di Wide, Cover The Windows And The Walls soddisfa ampiamente le premesse con un missaggio più povero e lo-fi che non fa altro che aumentare la fascinazione shoegaze di Grouper. Down To The Ocean è profondamente offuscata e persa in una nebbia in lontananza, e pure se non si raggiungono il degrado e la sporcizia delle nenie informi di Skaters e Vodka Soap, è oltremodo coraggiosa. Nondimeno il disco abbonda di brani senza tempo che vanno a riempire il catalogo degli highlights di Liz Harris, dalle pastorali ultraterreni di Heart Current e della title track, allo scurissimo stornello cosmico rappresentato da You Never Came, fino alla chiusura inaspettatamente pop di Follow In Our Dreams. E’ la premessa che sottende il vero e proprio turning point pop di Grouper.

M em o rie da Ag ate B e ac h L’eco entusiasta degli appassionati di drone-folk per Cover The Windows And The Walls non è ancora scemata del tutto che John Twells, also known as Xela nonché boss della Type Records, interviene sul proprio sito annunciando entusiasticamente di aver arruolato Liz Harris nella sua etichetta per un nuovo disco dalla pubblicazione imminente. E’ fin troppo evidente che una label con la diffusione e il raggio di copertura mediatica che ha la Type è cosa ben diversa dalle sofisticate, agguerritissime, ma estremamente limitate Free Porcupine Society e Root Strata. Dragging A Dead Deer Up A Hill appare da subito come il disco della svolta. Il trademark di voce, echi e riverberi permane, seppure estremamente limitato rispetto al passato, e il rosario per sola voce e chitarra viene sviscerato in tutto il suo spettro, complice una pulizia formale e sonora mai così definita. E’ il disco che un po’ tutti attendevano, compromesso ideale tra la spinta avant degli esordi e le velleità pop della maturazione. Di fatto il lavoro che va ad occupare una casella lasciata vuota diventando il classico caso di disco giusto al momento giusto. Pitchfork lo battezza con un altisonante 8.2 e stende il tappeto rosso per una serie di opinioni entusiastiche che si diffondono rapidamente. La ragione del successo del disco sta nella sua natura ambigua ma non timida e, da qui, la sua semplicità d’ascolto. Va da sé che tutto questo sarebbe vuota retorica se Liz Harris non dimostrasse ormai una lungimiranza stilistica tutta sua. Il folk rock firmato Grouper è una via di mezzo tra il classicismo retrò delle ritrovate Vashti Bunyan e Sibille Bayer, la malinconia perduta della prima Cat Power e del catalogo dream della 4AD e la perdizione sognante di certo slow core anni ‘90, mai del tutto passato di moda, come Mazzy Star, Mojave 3, certi Low. L’equilibrio affascinante del disco sta tutto in nenie agrodolci a presa immediata come la fenomenale Heavy Water/ I’d Rather Be Sleeping, che diventa rapidamente un tormentone da social network, o ancora le struggenti When We Fall, Fishing Bird, Invisible, A Cover Over. La ragazzina vestita da strega sulla cover del disco è una foto raffigurante la stessa Liz Harris, stando alle sue parole, in uno scatto della madre preso un pomeriggio durante un excursus nel nord della California in direzione di una celebrazione cattolica. Un dato, questo della connessione con il passato dell’artista, che viene ripreso più volte, diventando una chiave di lettura a 36


se stante. “Mi piace quella foto perché la fece mia madre e perché mi piace che la mia arte abbia connessioni con qualcosa di profondo, come il sangue della propria famiglia. Ho usato una foto fatta da mio padre per un altro album (Wide, n.d.r.) e mi è sembrato che bilanciasse bene il contenuto musicale. Mi piace che ci siano delle connessioni nostalgiche, come dei riflessi di specchio che ti fanno guardare al passato, anche perché non vedo come ci siano altri modi per qualcuno di rivivere la propria infanzia”. Il disco diventa il bestseller destinato ad essere e viene ristampato un paio di volte in vinile dalla stessa Liz Harris, con la sua Yellow Electric, ma è nel febbraio del 2013 che arriva una pubblicazione su scala più vasta dopo l’iniziale tiratura della Type. Il merito è della Kranky, che rispolvera il disco e lo accompagna ad un altro contenete outtakes di quelle session. Il disco in questione è The Man Who Died In His Boat e più che una raccolta di scarti, sembra in tutto e per tutto un capitolo secondo del vasto libro dei ricordi di infanzia di Liz. Sulla copertina una foto di sua madre da giovane e un ricordo nebuloso, sinistro, ma assai chiaro, dietro la title track: “Quando ero una teenager il relitto di un’imbarcazione si arenò sulle spiagge di Agate Beach. I resti rimasero abbandonati per molti giorni. Scesi con mio padre per intrufolarmi furtivamente nella cabina, constatando che mappe, tazze di caffè e vestiti stavano sparsi ovunque. Ricordo di aver guardato tutto frettolosamente, con la sensazione che stessi violando quello che restava della presenza del marinaio, essendo in qualche modo testimone del suo fallimento. Più tardi, mi capitò di leggere la sua storia sul giornale. Era impossibile stabilire cosa fosse successo. La barca non aveva danni, non aveva urtato scogli, né aveva imbarcato acqua. Era come se l’uomo alla sua guida avesse semplicemente abbandonato l’imbarcazione, e quest’ultima, fosse tornata sulla spiaggia come un cavallo che senza cavaliere ritorna a casa”. Il disco ha la presenza e l’organicità dell’opera maggiore e snocciola 37


piccoli ennesimi classici del suo repertorio come Vital, Being Her Shadow, la title track, Towers e STS. La riscoperta della Kranky va però fatta risalire di un paio di anni indietro, quando ristampa il monolitico doppio album A | A, in origine stampato in pochissime copie dalla Harris stessa attraverso la mini joint venture tra Yellow Electric e Mississippi Records. Disco che, nell’estate del 2011, fa impressione soprattutto per la noncuranza con cui si permette una tiratura così limitata per un’artista ormai ben oltre lo status di hype momentaneo, oltre che per la mole e l’ambizione insita in ogni lavoro doppio. Il double album si divide in due singoli dischi, Alien Observer e Dream Loss, concepiti nelle intenzioni della Harris “per stare stabilmente come solitari, e anche come satelliti di uno stesso sistema. In qualche modo acquistano più valore se considerati insieme”. La visione di insieme è molto chiara, perché A | A in qualche modo si incarica di gettare un ponte tra il passato e il presente, ergo di far convivere in uno stesso formato, tanto le nenie cosmiche free form degli esordi, quando le filastrocche folk dell’attuale presente. Il materiale è eterogeneo e concepito lungo un periodo molto lungo: “Dream Loss è una collezione di vecchie canzoni, perlopiù concepite prima di un periodo molto duro. Alien Observer, per la maggior parte, è composto di canzoni scritte dopo. Ognuno contiene una canzone che tematicamente appartiene all’altro, una sottile tessitura li tiene insieme entrambi. Entrambi gli album esplorano l’essere diversi. Essere qualcun altro di fronte a se stessi, agli altri, di fronte a fantasmi e alieni, sia letteralmente che metaforicamente, così come di fronte ad altri mondi dove fuggire (siano essi nell’acqua, nel cielo). Pensando a quanti sono già morti.. Fare questi due dischi mi ha rimesso in contatto con cosa voglio esplorare in musica: il contrasto, l’esplorazione di qualcosa di più grande e fuori di me, descrivendo e viaggiando attraverso oggetti e posti immateriali, gesti invisibili e connessioni tra persone e luoghi. Canzoni che si creano da sole, che hanno una propria grandiosa autonomia, canzoni per un altro mondo”. È il manifesto di Liz Harris come Grouper e A | A ripaga la pazienza e la devo38


zione che richiede, perché lavoro tutt’altro che semplice da assorbire. Alien Observer, che contiene i brani più nuovi, si muove secondo leggi della fisica radicalmente mutate dalla mano cosmica della Harris, che liquida in piccolissimi, astratti lied onirici, decenni di vagazioni stellari. Moon Is Sharp è una piacevole passeggiata lunare, tanto quanto la title track, con il suo rhodes ultraterreno, getta un tappeto per una febbrile inquietudine simil Lynch. E’ lo stesso umore sospeso ed ermetico si respira nella magistrale Vapor Trails, laddove She Loves Me That Way, Mary Oh The Wall e Come Softly, si agganciano ad una struttura più tangibile ma estremamente compromessa. Per molti tratti, a due passi dalla stasi completa, Alien Observer regala nuovi significati al termine onirismo, prima di sganciarsi totalmente dalla superficie terrestre con un Dream Loss che, complice il materiale più datato, appare meno originale ma più facilmente collocabile nella sua discografia. Fondamentalmente, siamo dalle parti di Wide e Cover The Windows And The Walls. L’arpeggio di Dragging The Streets cita Windy & Carl, mentre I Saw A Ray è un neppure tanto velato omaggio ai My Bloody Valentine di Sometimes e ai Cocteau Twins di Victorialand. Generazioni di epigoni shoegaze e dream pop vengono sciolte sotto l’acidissimo missaggio di Soul Eraser, laddove il lato più solenne, malinconico, liturgico del suo sound manda in gloria il disco con le superlative Atone, No Other e l’indimenticabile Wind Return.

Split S h ow Altro lato rilevante nell’economia musicale di Grouper sono le collaborazioni, da sempre tutt’altro che esperienze di corredo o accessorie all’attività solista fondamentale. Ovviamente le più affascinanti sono quelle in cui non ci si limita a condividere un EP, quanto proprio a condividere le session strumentali, come la primissima collaborazione con Jamie Stewart degli Xiu

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Xiu nell’ormai lontano 2007 sotto l’egida horror di Creepshow: “Entrambi avevamo una profonda paura per il film del terrore quando eravamo piccoli, ed è sulla scorta di questi sentimenti che abbiamo incentrato i temi del disco”. Le parole di Jamie Stewart chiariscono la particolare natura di un EP che ragiona intorno all’idea di un terrore gelido e raggelante, irrimediabilmente psicologico, fondendo di fatto, stilisticamente, il clangore disumano degli Xiu Xiu e il riverbero ottundente di Grouper in brani come Waiting for The Flies, Growing Into Veins o ancora Sea, dove il dato melodico è del tutto secondario, rispetto a un costante ragionare di atmosfera. Di diverso tenore lo split omonimo con Inca Ore, dapprima pubblicato esclusivamente su cassetta, poi ristampato sia su CD che su vinile e ripreso più volte, anche dalla Harris stessa, con la sua Yellow Electric. Disco che, nel suo genere, miete molte vittime e nonostante la tiratura costantemente limitatissima, ottiene successo grazie ai blog. Le intenzioni dello split originario erano quelle classiche di dividersi entrambe i lati della cassetta. Il lato A è quello di Grouper, che pubblica quattro canzoni ben rifinite e che anticipano di molto la tensione quasi mistica di A | A. Little Gray Cat, Fallow e A Light Charge sono efficaci piccoli lied, ma la migliore è sicuramente una Poison Tree che azzecca un refrain irresistibile. Il successo di questo split spinge inevitabilmente a replicare l’operazione, sia pure in modalità di volta in volta riviste. Arrivano così collaborazioni con Pumice e City Center e un particolare 45’ in condivisione con Xela per la serie della Root Strata, denominata Tsuki No Seika, espressamente dedicata alla voce. Nel 2009 arriva un altro split di “spessore” con Roy Montgomery. Nome celebrato a più riprese dalla Harris, da cui ha preso ispirazione evidente per il modo e il suono della propria chitarra. Non a caso un nuovo disco di Roy Montgomery viene pubblicato, dalla Yellow Electric sul finire del 2012, anche se si tratta per lo più di materiale di archivio del grande chitarrista neo zelandese. L’apporto di quest’ultimo nell’EP in questione è invero minimo, giacché di fatto il lato A riprende una versione live della Fantasia On A The-

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me By Sandy Bull, presentata anni prima nella raccolta di culto Harmony Of the Spheres. Il piatto forte è quindi il lato B dedicato a Grouper, che di fatto pubblica un piccolo EP autonomo e contenente i capolavori Vessel e Hold the Way con un suono ancora più rarefatto e liturgico, che si unisce a quello delle altrettanto riuscite Water People e Moving Machine di un precedente 7’ passato abbastanza inosservato. Altri brani sparsi si aggiungono poi con il singolo Hold/Sick. Messi tutti insieme tirerebbero fuori una raccolta di B sides dal peso specifico non indifferente. Per tornare alle collaborazioni fondamentali, quelle che esulano dalle semplici condivisioni, bisogna aspettare il 2011, quando Kranky pubblica il disco dei Mirrorring, una collaborazione a quattro mani con Jessy Fortino meglio conosciuta come Tiny Vipers. Le due si conoscono tramite internet, si scambiano dischi, si incontrano a più riprese in quel di Portland e dopo un po’ decidono di fare insieme alcune session senza particolari aspettative. Il risultato arriva però alla durata di 45 minuti e giustifica un disco vero e proprio, quel Foreign Body che Kranky si affretta a pubblicare ad inizio 2012 fiutando l’affare. Il materiale è una condivisione pressoché speculare dello stile di ciascuna. Laddove la Harris parte per il cosmo, la Fortino la riporta sulla terra attraverso la cupa crudezza della sua chitarra folk. L’iniziale Fell Sound esemplica lo stile dei Mirrorring, che va ad aggiungersi alla tradizione cosmica della Kranky sulla scia di Windy & Carl, Amp, Clear Horizon. Disco profondamente emotivo, che gioca tutte le carte giuste per muoverti dentro, dallo struggente arpeggio di Silent From Above, passando per il sognante tappeto d’organo di Drowning the Call, fino alla più ambiziosa del lotto Cliff , dove le due uniscono le proprie singole armi in un’unica efficace parabola cosmica. Il disco raggiunge un successo istantaneo e surclassa gli altri esperimenti che la Harris si concede in un anno estremamente pieno: dapprima la collaborazione con Ilyas Ahmed nel progetto Visitor e poi la collaborazione con Lawrence English per la performance multimediale di Slow Walkers, serie di videoinstallazioni e live incentrati sullo zombie “as cultural phenomena, waking in 2012...”. Il ritorno alla drone music ortodossa, alla manipolazione dei nastri e degli effetti, alla pratica con i walkman e i mixer del progetto Violet Replacement appare quasi come una medicina necessaria per controbilanciare tanta sovraesposizione. Le due parti di una performance completamente dedicata all’avanguardia ambient, portata anche in giro per l’Europa, sono denominate rispettivamente Rolling Gate e Sleep e rappresentano lo stato dell’arte di Grouper come alchimista di suoni dell’inconscio amniotico da cui ciascuno proviene. Ovvero nessuna concessione al formalismo pop, né tanto meno sfoggio di elucubrazioni concettuali che tanto danno arrecano alla maggior parte di esperimenti sul genere. Puro e semplice ritorno alla forma della psichedelia informale degli esordi, una prassi dal sapore decisamente old school, quando l’ondivago alternarsi dei nastri di Rolling Gate viene interrotto a favore della voce trattata, che non a caso è la chiave di volta di Sleep. Una sorta di ritorno all’etere drogato di Way Their Crept. Come un cerchio che si chiude e che autorizza qualsiasi tipo di metafora a riguardo, non ultimo il feto cosmico di 2001, che nel finale ci guarda dallo schermo e sembra dirci che il viaggio è finito, possiamo tornare da dove siamo venuti. E’ stato bello sognare ad occhi aperti e avere Liz come soundtrack delle nostre esistenze.

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Testo: Gaspare Caliri 42


Marino

Formenti Nowhere

Il pianista e il suo doppio: qualche considerazione sull’esperienza benchmark del 2012 – attraverso lo specchio 43


Mod i d i ast ra rre da s é Ci sono molti modi di astrarre da sé, personificare l’osservatore esterno delle proprie esperienze, rubargli sguardi, letture e via dicendo. Alleato numero uno: il tempo. Sarebbe stato molto difficile scrivere a caldo di un’esperienza d’intensità senza precedenti come Nowhere. Nei mesi che ci separano dal 5 maggio 2012 (ultimo giorno di una performance iniziata il 24 aprile) è stato possibile raccogliere appunti e pensieri, strutturare un contributo fondamentale e trovare la strada per interiorizzare ciò che è avvenuto, oltre che assistere da lontano anche alla replica berlinese della performance in autunno. E capire una cosa (nota fina da subito, ma ora non si teme smentita, siamo già nell’anno nuovo): Marino Formenti e il suo Nowhere sono stati l’esperienza benchmark 2012. Uno degli eventi in assoluto più interessanti da vivere e da raccontare. Cosa che non abbiamo ancora fatto per iscritto, dopo averne ampiamente parlato a voce come mai altro avvenimento prima. Il che ci spinge a rimediare in questa sede. Si è trattato di “un non-luogo nel centro della città. Per dodici giorni il pianista Marino Formenti siede al pianoforte, suona, vive, respira, mangia, dorme nello stesso spazio, contemporaneamente ed impietosamente pubblico e privato. [..] Sfumano la divisione tra scena e vita, tra giorno e notte, si annullano le convenzioni di tempo, programma e luogo. Formenti sperimenta i propri limiti e i propri orizzonti. Le giornate stesse diventano musica. La gente è invitata a fermarsi, ad andare e venire, a ritornare e riascoltare per vivere la musica in una dimensione diversa”. Questo ci raccontava il comunicato stampa di Live Arts Week (in collaborazione con Angelica), il festival che ha ospitato e co-organizzato Nowhere - e, se le premesse sono queste, aspettiamo trepidanti la seconda edizione, nell’aprile prossimo (dal 16 al 21).

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Il protagonista, forse non troppo noto in Italia pur essendo italiano, è in realtà un pianista di fama internazionale. Il Los Angeles Times lo chiama il “Glenn Gould del ventunesimo secolo”, ma soprattutto gli dà del visionario, espressione certamente azzeccata e ricca di approfondimenti possibili. Alla lettera, una persona che procura con caparbietà visioni a quello che fa. Anzitutto Formenti è sia pianista che direttore d’orchestra. E, come pianista, raramente è puro esecutore, ma interprete molto personale che inserisce la variabile contemporaneità nelle maglie delle notazioni che riproduce. Un esempio sono i Kurtag’s Ghosts, riposizionamento del compositore ungherese tra altre menti musicali vicine e lontane - temporalmente e spazialmente. All’altro estremo, la partecipazione “inusuale” alla scena teatrale nello spettacolo Golgota Picnic di Rodrigo García. In mezzo, ovviamente, anche pubblicazioni su supporto discografico, l’ultima delle quali (il CD dal titolo Notturni, uscito su Col Legno a ottobre 2012) raccoglie brani di Stockhausen, Brian Ferneyhough, George Benjamin, One di John Cage ma specialmente composizioni di Friedrich Cerha, a partire da quella Für Marino che il pianista descrive pieno di soddisfazione. Chi scrive crede, però, che il livello concettuale ed esperienziale toccato da Nowhere sia insuperato. Per ricostruire l’esperienza è necessario un dialogo. Per presentificare l’assenza, il modo migliore sembrava un’intervista. Uno scambio. Marino Formenti, il protagonista di Nowhere, colui che ha vissuto dodici giorni nello stesso appartamento suonando dieci ore al giorno (contando solo quelle che i visitatori hanno potuto apprezzare nella fascia della giornata in cui Nowhere era aperto al pubblico). Il luogo è un appartamento-negozio (non viene naturale chiamare quel posto “galleria”) in piazza dei Cappuccini, centralissima nel centro di Bologna: tre sale con pareti bianche, parquet, materassi e pouf morbidi a terra, delle quali una ospita il pianoforte, il microfono, un tavolino dove appoggiare gli spartiti non in uso al momento. Formenti vive, dorme, mangia e suona, in completo silenzio (comunicando via post-it con gli assistenti di sala: “mi serve un tagliaunghie”, “dite di far spegnere i cellulari”), nelle stanze del negozio, visibile alle vetrine della piazzetta, accessibile e ospite per chi si vuole sdraiare a leggere o semplicemente ascoltare. Passare del tempo. Due regole: silenzio assoluto e telefoni spenti - non una ripetizione pleonastica, ma la necessità di non inquinare, con il traffico di onde, il segnale streaming diffuso dalla telecamera mobile presente nello spazio (mossa da Formenti all’interno delle stanze per permettere agli assenti di abitare almeno con lo sguardo la performance). Prima di ogni esecuzione, Marino si alza, cambia spartito, prende una matita e scrive sul muro cosa sta per eseguire. Alcune volte, quando si trova a suonare più volte di seguito uno stesso brano oppure quando fa seguire a quello già impresso sulla parete un altro brano non previsto, corregge con la matita quanto scritto in precedenza. E continua per due settimane di fila a ripetere quella manciata di esecuzioni a velocità diverse, oppure (nei casi di notazioni con elementi aleatori o di indeterminatezza) secondo le variabilità peculiari. Marino Formenti costruisce, con Nowhere, un ambiente familiare, dove l’ascoltatore possa entrare in confidenza non solo con il luogo, ma anche con i suoni che lo percorrono, come un mantra a tante voci. È come l’esercitazione di un pianista che sta preparando un concerto e si chiude nella sua casa per provare e riprovare: la sua persona, il pianoforte e il silenzio attorno. Il musicista si immerge nell’intimità possibile e necessaria con quei brani che dovrà “integrare”, assorbire prima oltre che eseguire in heavy-rotation. 45


Nowhere ci ha dato modo di assistere a quell’immersione, anche se verrebbe da domandare, aprendo una mise en abyme: quali sono state le prove di queste prove?

Combi n ato ri a de l N ov ecen to Altra cosa che avremmo domandato al pianista, ben più centrale per capire Nowhere, sarebbero stati i motivi della scelta dei brani che ha eseguito per quella doppia settimana - snocciolando il foglio di sala: Morton Feldman, Erik Satie, John Cage, Klaus Lang (a cui Formenti è molto legato), Louis Couperin, Brian Eno (sic!: adattamento della celebre By This River per piano solo). Di questi segnaliamo alcuni, i primi tre, come fossero tre assi, ognuno dei quali si porta il nome del compositore citato. Sul primo asse - di cristallo - c’erano posate le Gnossiennes di Erik Satie, dalla prima alla sesta. Sei composizioni di una manciata di minuti l’una suonate spesso in coppia, brevi ed efficaci come dei witzen freudiani, ma delicatissime, fragili, sottili come carta velina. Sei gemme (ne mancherebbe una, la settima - anche se è parte di una composizione più ampia, Le Fils des étoiles -, al computo della serie compresa dal neologismo coniato dallo stesso Satie), spesso associate alle più note Gymnopédies, quanto meno per struttura e per periodo temporale di composizione (l’ultimo decennio del diciannovesimo secolo). Il secondo asse - di sostanza gassosa - ospitava le composizioni di Feldman, impressionanti sospensioni del tempo esterno, quello misurabile con l’orologio. Più che minimaliste - Feldman stesso diceva “non ho mai pensato che la mia musica fosse minimalista, nello stesso modo in cui la gente una persona grassa non crede di essere grassa” - rarefatte. Un trittico indimenticabile dell’ultima fase compositiva dell’amico di Cage: For Bunita Marcus (più di un’ora di durata, del 1985), Palais De Mari (sopra i venti minuti, del 1986), Triadic Memories (oltre l’ora di durata), forse il lascito più vivo del Formenti esecutore. Un andirivieni di temi ridotti all’osso, ripetuti e capovolti, sospesi, insistenti, comunque micidiali per l’impatto sullo stato emotivo dell’ascoltatore. E sulla capacità di cambiare l’orizzonte percettivo dello stare lì dentro, della permanenza dentro la performance. Da un punto di vista relazionale, tre notevoli catalizzatori (insieme alle Gnossiennes e a In A Landscape) di allineamento tra i presenti. Per molti, un colpo di fulmine. In micro, quel trittico racconta il macro dell’intera performance. Cioè i temi ricorrenti, l’ipnosi di For Bunita Marcus, la ripetizione quasi paranoica, la familiarità sospesa con quelle note, raccontano l’intero universo dello stare lì dentro. E poi il salto temporale a Piano Piece 1952 (composto nell’anno in cui nasceva quella Bunita Marcus che accompagnò Feldman per molti anni), molto meno accessibile da un punto di vista armonico, eppure altrettanto fedele alla missione di sospensione. Infine un terzo asse, forse marmoreo, fatto di un materiale con venature, con indicatori di dove tagliare, ma di una variabilità materica imprevedibile. Lì sopra, Cage. Non solo cose di maestria da chance imagery, ma pure provenienze e collegamenti con i due precedenti. C’era Music For Piano, c’era ASLSP (leggi: As Slow As Possible), specialità dichiarata di una dedica implicita e per certi versi esplicita, in occasione del centenario della nascita dell’intellettuale principale del Novecento. Anche 4’33” (nota non a margine: togli la musica per quattro minuti e mezzo a un gruppo di persone che si sentono autorizzate a stare in un luogo privato, in atteggiamenti privati, sdraiati, rilassati, 46


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senza scarpe spesso, autorizzati dicevo all’essere lì come astanti in quanto c’è la musica; togli la musica e vedrai quanto pesano quei duecentosettantatré secondi, e goditi il paesaggio di piccoli rimedi e atteggiamenti che vengono inventati per far fronte all’imbarazzo). Eppure, nell’equilibrio tra esempi di accessibilità e casi più ostici per le orecchie meno abituate alle innovazioni del secolo scorso, Formenti è stato ben attento a comprendere di John Cage anche un brano - istantaneamente incollato ai gusti dei presenti - come In A Landscape, del 1948, di quel periodo che a volte si cita come romantico, e non a caso non lontano dalle modalità compositive di Satie, autore che Cage stimava in maniera speciale. Brano che dà il titolo a un famoso CD del 1994, eseguito da Stephen Drury, concluso da Dream (altra composizione, dello stesso anno e dello stesso tenore, più volte suonata da Formenti durante Nowhere), percorso da altre importanti milestone come Music For Marcel Duchamp (del 1947) o Suite For Toy Piano (1948); lavori tutti curiosamente contenuti nel succosissimo doppio vinile Music For Keyboard 1935-1948, dei primi anni Settanta, tranne appunto In A Landscape, forse perché non esclusivo per pianoforte ma pensato in origine indifferentemente per pianoforte o arpa, per una coreografia di Louise Lippold. Formenti, di certo, lo suonava (e lo suona quotidianamente, lo sappiamo) in una maniera radicalmente opposta a Drury, molto meno meditativo e molto più fluidificato nell’attraversare le scale, come vedremo in un senso “terapeutico”, per tutti. Per Cage, i dischi trasformano le compizioni in oggetto, mentre la musica è un processo che non si ripete mai identico a se stesso. Questo processo diventa quotidiano in Nowhere. Non è l’esecuzione, ma “una” esecuzione, ogni volta per minimi dettagli diversa, ma sottratta dall’ansia dell’unicità che dovrà poi finire su disco, o non avere repliche. Anche in questo Nowhere è sorprendente. E, sempre rispettando l’insegnamento di Cage, sottrarre l’unicità è anche un modo per recuperare quello stato “attento e vuoto”, disposto a una “nuova esperienza”, che secondo il compositore americano ogni ascoltatore dovebbe avere. Marino Formenti ci ha educato, nell’apparente indifferenza del suo stare in mezzo a quelle stanze come se nessuno fosse presente, a capire a fondo queste e altre gioie della musica degli ultimi cent’anni abbondanti. Ne ha composto a sua volta una possibilità combinatoria, finita per criteri quantitativi, illimitata per possibili varianti emotive, emozionali, di qualità della ricezione, a seconda della successione delle esecuzioni, del contesto-micromondo provvisorio in continua mutazione delle stanze di Nowhere, abitatissime o semi-vuote, in quei giorni. Quella combinatoria mantrica pescava da lavori di veri avanguardisti, gente che ha “spostato” la musica. I mattoni della combinatoria di Nowhere stavano lì per logiche interne, non dipese dalla preponderanza che hanno nei manuali di storia della musica. Hanno funzionato come il “senso”, che è condizione di possibilità perché accada qualcosa (perché ci si capisca). Qualcosa di abbastanza diverso Cosa ha generato Nowhere nei presenti in quei giorni? Per rispondere, e ora qualcosa di abbastanza diverso: un’intervista a un’altra persona speciale, quella che ha fatto la performance per così dire speculare a quella del pianista, di cui preserviamo l’anonimato. Abbiamo sviscerato con domande, discussioni, chiacchiere senza soluzione di continuità, il tema “pubblico” dello spazio privato Nowhere con la persona che nell’istante in cui ha fatto il suo ingresso nello splendido negozio48


appartamento in piazza dei Celestini, a Bologna (prima e dopo rimasto sfitto), ha deciso di non perdersi neanche un minuto tra i tanti che restavano della performance. La persona che così facendo ha prodotto, di fatto, un’altra performance, che si guarda allo specchio con quella di Formenti, e in qualche modo finisce con il confondere la destra e la sinistra, come ci accade quando ci immedesimiamo nella nostra immagine rifratta.. Questo articolo diventa dunque un dialogo, giù nell’abisso in cui In A Landscape può portare, nella dissociazione delle personalità, nella meditazione. E Nowhere è il luogo dove far avvenire la multipolarità. Q: Come raccontavi o racconti Nowhere? A: In mille modi possibili. Quindi, rispondo di getto. Un pensatoio. Una lunghissima liason con le scelte ridondanti del pianista, che entrano nelle orecchie e rimangono imbrigliate nel cervello. C’è il caso, l’arte combinatoria di una decina di brani in tutto, forse, dal Cage di ASLP a cui è dedicata la performance, allo stesso e diversissimo Cage di In A Landscape, appunto, a Satie, quello delle Gnossiennes, all’ora e passa di For Bunita Marcus di Morton Feldman, con quel tema che già dentro - non solo durante - l’esecuzione dà l’avvio a manifestazioni di pura Musicofilia, come direbbe Oliver Sacks. E ripetersi risuonarsi o sentirsi risuonare. Cioè, come quando fuori dall’ascolto si sentono le proprie orecchie (il cervello, evidentemente) che ripercorrono il tutto. Poi, spesso mi veniva in mente Kafka. Un pianista che si chiude due settimane senza parlare eccetera eccetera. Sembra una “situazione kafkiana”. Come il digiunatore, che per una vita non mangia e il punto non è mai capire perché ma capire cosa succede, il quindi. O il racconto Giuseppina la cantante, o La tana, tutte quelle situazioni di ripetizione, di descrizione di un lavoro maniacale 49


sospeso in un tempo potenzialmente infinito. Non c’è però la sospensione e il thrilling delle situazioni davvero kafkiane, cioè quelle che Kafka allestiva nei libri. Qui c’è una specie di poesia profonda. Come se Kafka anziché farci agitare (e portarci alla disperazione, a un certo punto) portasse alla meditazione. È una specie di immanenza pura, senza bisogno di troppe parole, di verbalizzare. Forse, semplicemente, Nowhere è un posto dove veder realizzata una metafora. La metafora è: un pianista si chiude due settimane a provare e riprovare una manciata di brani, quelli che da lì a due settimane, appunto, dovrà eseguire alla prima. Nowhere era il posto dove veder realizzata una metafora e partecipare di quell’intimità a mio avviso molto profonda. Q: Che cosa hai imparato, che cosa ti sei portato a casa da questa esperienza? A: Prima di tutto, mi porto a casa ciò che mi è mancato una volta finita la performance: semplicemente, sarebbe fantastico avere un posto così in città, un luogo dove prendersi tempo per l’ascolto - condiviso - e non essere al contempo e necessariamente consumatori. Q. Andiamo troppo di fretta. Raccontaci la storia, la tua storia dentro Nowhere. A: Sono andato per la prima volta il secondo o terzo giorno della performance, mi sono preso subito due settimane di ferie, di pausa dal lavoro diciamo. La cui cosa ha comportato niente pause in agosto, come nel resto dell’anno. Ma non me ne pento. Piano piano la mia figura si è mimetizzata nell’ambiente, mentre cresceva la mia perseveranza mi sentivo annullare, ma in un senso controllabile e del tutto piacevole. Vedevo le altre persone che vivevano Nowhere come

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l’ora d’aria nelle loro giornate. Probabilmente la mia scelta ha comportato delle rinunce, come quella di non aver provato la funzione equilibrante / o la frazione di Nowhere nella solita quotidianità. Ma non me ne pento. È stata una fortissima esperienza di meditazione, la musica lo può essere. Chiedevo ai presenti all’uscita, la sera, erano un po’ tutti scombussolati. Si creava sempre un’intimità collettiva, un affare difficile da rendere a parole. Si potrebbe descrivere raccontando il grado zero della gestualità di Formenti. La storia ciclica era più o meno questa: suona un brano, si alza, va al tavolo, appoggia lo spartito, prende un lapis, pensa, va al muro, facendosi spazio tra le persone per scrivere, senza intercettare nessuno sguardo diretto, sia chiaro, scrive il brano che sta per eseguire, poggia il lapis, cerca tra gli spartiti quello del brano in questione, lo poggia sul leggio del pianoforte, suona il brano, si alza.. Tutto ciò per noi risultava quasi un mantra gestuale. Una combinatoria di gesti, una quotidianità. Si entrava nel meccanismo collettivo proprio quando questi gesti passavano dall’essere accolti - da parte nostra - con curiosità, all’essere attesi come una cosa naturale. Q: Un rito collettivo? A: Mi sembra banale parlare di rito collettivo. Ma era un po’ come un modo collettivo di combattere l’ansia. Davvero sembrava di essere dentro alla prova continua che precede una prima, dove il musicista diventa una cosa sola con i brani che deve eseguire. Li abita. E noi li abbiamo abitati con lui. Ciononostante, il velo paranoico della ripetizione porta con sé sempre il suo contraltare, cioè la sicurezza della familiarità di una sequenza. In questo c’è stata intimità. Piuttosto, noi e lui siamo stati due curve che quasi si allineano a vicenda, se non che lui suona e crea uno scarto. Ma psicologicamente la personificazione e l’allineamento sono quasi completi. Entrare nel suo mondo, collegarsi alla mente. Capire certe cose di quel performer che non fa nulla per nasconderci come sta.. Q: In che senso? A: Si vede che Satie lo fa star bene; la combinatoria non è davvero così casuale, e non solo perché è legata a una rispondenza di massima a un foglio di sala. Dipende piuttosto dall’umore e dal modo di aderire dell’ambiente allo stato d’animo di Formenti, e viceversa. Alle necessità a soglia altissima dettate dalla natura della performance. In A Landscape gliel’ho vista fare a tutte le velocità. E pensare che io la conoscevo ancorata a un’unica velocità, più lenta, quella di Stephen Drury, principalmente Una volta l’ha eseguita, parlo sempre di In A Landscape, a velocità supersonica: era uno dei momenti più tesi che abbiamo vissuto. C’era tanta gente, non troppo rispettosa, per così dire. Aveva appena eseguito Music For Piano, sempre di Cage, con una tensione che faceva vibrare la stanza, oltre che le corde del piano. Arrivato in fondo stavano tutti meglio. E tutti ci aspettavamo qualche Gnossiennes di Satie, noi o chi come me sapeva questo gesto terapeutico, per l’ambiente, la sequenza In A Landscape / Gnossienne. E quante volte è stata scritta su quei muri, la sequenza In A Landscape (2x) e Satie, Gnossienne n° 2 soprattutto, oppure n° 1. Ovviamente seguito da For Bunita Marcus di Feldman. 51


Q: Ne parli con una grande familiarità. Intravedo un tema “formativo”, sei d’accordo? A: Certamente, anche se del tutto peculiare al progetto. C’è sempre il sospetto che le sequenze siano fatte, anzi vengano fuori, per equilibrare brani meno accessibili e brani più accessibili. Come se fosse comunque un’attenzione all’ascoltatore, all’astante, al suo stato d’animo. Forse l’unico appiglio, l’unica marca nel testo della performance che ci faccia dire che Formenti sta lì perché ci siamo noi. Nondimeno, ho il sospetto che questa sequenza serva soprattutto a Formenti. Ossia che alcune cose lo destabilizzino, continuino a destabilizzarlo, e che Satie, In A Landscape, chissà forse pure For Bunita Marcus lo ri-centrino, come accennavo prima. Mi sembra comunque esista un tema di accessibilità. Una cosa che mi impressiona molto è la compresenza, su un foglio di sala, di By This River di Brian Eno e 4’33”, anche se quest’ultima è di una popolarità estrema, quasi aneddotica. Diciamo allora di By This River e di Music For Piano, sempre di Cage. La compresenza è possibile, sembra dirci Formenti, e credo che la valenza di questa performance, di questa cosa chiamata Nowhere, sia innanzitutto formativa. Ho visto tante persone molto giovani e molte orecchie mature. Persone, le prime, che non avevano palesemente idea di quello che stavano ascoltando. Altre - quelle più avvezze agli ascolti di Nowhere - che nella vita mi immagino pratichino tale coesistenza, e forse la estendono al noise, al pop, eccetera eccetera. Riassumendo, anzi traducendo, mi sembra che tramite la familiarità (far diventare le persone familiari anche a suoni più ostici) si dia la capacità di capire quando la riconoscibilità non dipenda dalla “semplicità” o afferenza

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al pop. Cage ci voleva liberare dal gusto personale. Formenti segue un’altra strada: tramite la ripetizione, cambia i nostri gusti personali. Crea quella quotidianità con un certo tipo di musica che normalmente molte persone non ascoltano, se non per via eccezionale. Io ora ho Feldman nella mia vita, per esempio. È molto potente raggiungere la seguente consapevolezza: si raggiunge un tale livello di raffinatezza come ascoltatore da riuscire a cogliere le minime variazioni, a immaginarsi e prevedere i passaggi e giocare con l’aspettativa di esecuzione e le infinitesime conferme o smentite della stessa; fare ipotesi mentali di sequenze di brani. È uno strumento di meditazione, la via più veloce per raggiungere la Musicofilia, come dicevo. Mi spiego meglio. Se lui, lo sapevamo da quanto era possibile leggere sui muri, dagli orari che andavano aldilà di quelli “ufficiali” della performance aperta al pubblico, se lui, dicevo, mentre stava lì la mattina presto, o la sera tardi, continuava a suonare, anche le nostre menti continuavano a farlo. In almeno due modi: quello più semplice, riascoltare quei brani eseguiti da altri esecutori; oppure, la via che prosegue senza soluzione di continuità, farlo con la mente, seguire con il pensiero la successione di note. Suonarsela mentalmente. Ancora oggi mi capita. Con Dream era molto semplice. Si arrivava a suonarsela quasi tutta. È un esercizio di meditazione, un po’ come fanno i carcerati, ma al contrario. Come i carcerati che passano la notte a suonarsi mentalmente le sinfonie preferite. Noi all’aria aperta, fuori dall’ora d’aria dentro Nowhere. Mi rendo conto di alzare il tiro e il gomito metaforico, ma tutto quello che voglio dire forse è racchiuso nella seguente constatazione: è incredibile che Formenti abbia reso possibile tutto questo con la musica contemporanea. Q: Ci racconti meglio la tua esperienza intima? Parli di meditazione, di immedesimazione.. Com’è cambiato il tuo “stato d’animo” durante tutto il corso della performance? A: All’inizio entravo in una bolla, in una completa sospensione, prima temporale, poi spaziale. Poi ho imparato ad abitare quelle stanze, e soprattutto a farmi abitare da quei suoni. Senza aver bisogno di parlare. E in questo io e Formenti eravamo in completo allineamento. Nessuno dei due ha parlato per dodici giorni, lui perché comunque solo, io perché dopo la chiusura dello spazio, la sera, passeggiavo per ore e poi mi rintanavo a casa. Per lo più senza nemmeno ascoltare nulla. Lui stesso dice: “Da una parte si fa la musica, dall’altra si subisce, ma c’è un momento molto fisico che senti quando fai la musica, ed è il momento in cui questa dicotomia non esiste più”. Q: Come funzionava la relazione con lo spazio e con le altre persone? Domanda tra le righe: quanto la performance ha lavorato su questi livelli? A: Dopo le orecchie, gli occhi erano i principali protagonisti. La sospensione di Nowhere lasciava aperta una continua relazione di sguardi, vicinanze e lontananze, in quel luogo splendido. E nasceva un mutuo riconoscimento tra le persone. Un ritmo di frequentazione. E di abitudini comuni, intrecciate regolarmente o casualmente, dati da quella frequentazione. In poche persone non sono tornate. O forse, semplicemente, non me le ricordo. Nowhere ha creato una comunità di persone. E questo, paradossalmente, rispetto al nome della performance, e a quello che forse può risultare per il performer Formenti, è qualcosa di profondamente radicato territorialmente. 53


Nowhere è riconoscimento reciproco tra persone che abitano nello stesso luogo, nella stessa città, che continuavano - e continuano - a vedersi e a riconoscersi. È un enorme patrimonio relazionale che Nowhere ci ha lasciato. Ha lasciato quello che lascia uno spazio pubblico intensamente vissuto. Ossia tanti primi passi relazionali, tante conoscenze in potenza che da un giorno all’altro, nei giorni e nei mesi successivi, avrebbero avuto un ottimo pretesto - condiviso - per far seguire altri passi a quei primi. Anche, ci ha lasciato un senso di abbandono, quando è finito. Da lì si capisce l’intensità, per differenza, per l’assenza successiva. Una cosa che mi capita tuttora è di passare ogni tanto in piazza dei Celestini. Guardo dentro le vetrine vuote. Formenti non l’ha certo abitato come l’ho abitato io, quello spazio, con lo sguardo. L’ho percorso in lungo e in largo. Q: Lo spazio era molto più grande della sola stanza con il pianoforte. C’erano altre stanze, con dinamiche e sistemi di relazioni diversi. Qual era il tuo posto preferito? Hai abitato anche le altre stanze? A: Il mio posto preferito era per ovvie ragioni il materasso sotto il pianoforte, dove sentirsi “pizzicare” dalle risonanze del legno e delle corde e immergermi nel suono. Altrimenti le due pareti laterali (lato destro e sinistro rispetto alla vetrina) perché permettevano la concentrazione sia sull’interno (osservare Formenti, leggere i brani che scriveva sul muro...) che sull’esterno (passanti, persone che sostavano davanti alla vetrina). Di solito mi accomodavo nel primo posto libero dentro la stanza del piano, che era quella che comunque preferivo. Niente male anche il materasso di fronte al piano, quello accanto alla scrivania su cui Formenti mangiava, poiché da quel punto d’osservazione ho potuto assistere alla seguente scenetta: una seria ed attentissima ragazza dai capelli rossi che se ne stava sdraiata sul materasso sottostante il pianoforte si è sfilata da sotto con grazia, nonchalance e tempismo perfetto, un attimo prima dell’esecuzione di Music For Piano, in cui Formenti esordisce mollando una pacca spaventosa sulla tastiera... Il gesto elegante, rapido, saggio e preventivo di quella ragazza mi è rimasto impresso... Poi c’era l’altra stanza con la vetrina, dove di solito rimanevo se mi portavo da leggere delle cose. Però, dall’altro lato, anche quello più virtuale dello streaming, quando tornavo a casa e mi connettevo e ascoltavo - cucinando, facendo colazione o leggendo - come background e tappeto delle mie azioni quotidiane e dei piccoli accadimenti domestici. Lì era veramente nowhere e anche io mi trovavo nowhere. Eppure mi piaceva avere la certezza che lui sarebbe stato lì. Più che di posto nello spazio ne farei comunque un discorso di relazione. Il posto migliore era quello abitato da altre persone con cui essere in empatia. Cioè il posto non lo decidevo io, ma il mio posto preferito dipendeva dalla sistemica relazionale di quel momento. Q: Cosa avresti domandato a Marino Formenti? A: Perché gi spartiti di Satie non li guarda mai mentre esegue In A Landscape fissando il pentagramma? È evidente che sa a memoria anche In A Landscape. Ma deve profondere una tale bellezza novecentesca - di un novecento ancora adolescente - leggersi una notazione di quel Cage che penso di comprendere e parzialmente conoscere la risposta. E poi forse anche questo fa parte del rituale della ripetizione. Un’altra cosa che gli chiederei è che cosa sognava in quelle notti. Io ho avuto 54


un’attività onirica impressionante.. Q: La performance ha avuto una sua narrazione interna? Oppure il primo giorno è stato come l’ultimo? A: Posso dirti inizialmente cosa è successo a me. In realtà, verso la fine le cose sono un poco peggiorate. Ho perso forse la capacità di concentrarmi, in alcuni momenti. Di fatto ho iniziato ad attendere il vuoto che avrebbe seguito la fine di Nowhere. Iniziavo a pensare: “come farò senza quella For Bunita Marcus”? In effetti l’ultima esecuzione del brano di Feldman - più di un’ora di durata - eseguita il sabato, il giorno finale, dalle 21 passate, quindi con la certezza che sarebbe stata l’ultima cosa eseguita, l’ultimo atto di Nowhere, quella For Bunita Marcus è stato uno dei momenti più intensi della mia vita di ascoltatore. Con il senno di poi, a questo proposito, perché kafkiano?, mi chiedo. Mi sono sentito come nelle ultime righe del digiunatore di Kafka, che è costretto a digiunare. Non lo vuole, né lo decide. Come mai non lo può evitare? “perché non riuscivo a trovare il cibo che mi piacesse. Se l’avessi trovato, non avrei fatto tante storie e mi sarei messo a mangiare a quattro palmenti come te e gli altri”. Oppure, come dice sempre Kafka, nel racconto Delle similitudini: “Molti si lamentano che le parole dei sapienti siano solo similitudini che non si possono ahimè applicare alla vita d’ogni giorno, la sola che possediamo. Quando il saggio dice: “vai di là”, non intende che si debba passare dall’altra parte della via - cosa che si potrebbe anche fare, se mettesse conto di andarci - ma intende qualche “di là” favoloso, qualcosa che non conosciamo. [..] A questo punto uno disse: “Perché vi opponete? Se seguiste le similitudini, voi stessi diverreste similitudini, e quindi sareste liberi dal travaglio quotidiano” Un altro disse: “Scommetto che anche questa è una similitudine”. Disse il primo: “Hai vinto”. Disse il secondo: “Ma purtroppo soltanto nella similitudine”. Disse il primo: “No, nella realtà; nella similitudine hai perduto”.”

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Recensioni

— cd&lp

marzo

Acteurs - Acteurs (Public Information, Febbraio 2013) Genere: post-industrial

Appino - Il testamento (La Tempesta Dischi, Marzo 2013) Genere: rock-cantautorato

Alle pose plastiche di Andy Stott e a quelle già più scomposte dei Raime, questi Acteurs rispondono con il nascondismo più cupo ed esoterico, sin dalla copertina. Sempre corpi femminili, a sottolineare la suadente voluttà di una musica invero crudele e nero pece, malefica e mefitica, ma stavolta il disvelamento del volto non c’è e tutto rimane nel territorio del non detto, del rimosso, del celato ad aggravare ancor di più il senso di precarietà. È elettronica che mantiene in nuce tutto quell’ossimoro vivente che è il primitivismo tecnologico di questi ultimi anni, che si fa trance dalla carne viva post-Tetsuo, che riesuma i Coil mischiando ipnotiche danze e claudicanti revanscismi post-industrial. Nel mini omonimo i due da Chicago Jeremy Lemos e Brian Case (già 90 Day Men e Disappears) dimostrano come le nuove leve dell’electro abbiano abbandonato lustrini e clichè da orizzonti più ampi per trasformarsi nell’ideale testa di ponte tra le aspre cupezze industriali dell’età d’oro di fine ‘70/inizi ‘80 e l’attualità della crisi (di valori, di ideali, di cosmogonie riconoscibili). Mantenendo, anzi attualizzando la stessa capacità di rottura ed inquietudine marcia che i Throbbing Gristle o i Cabaret Voltaire instillarono nel post-punk inglese del tempo, gli Acteurs imputridiscono quell’universo indefinito del post-dubstep d’oggi, amputandone ogni rimasuglio dancey, ogni sorta di ritmo che non sia beat post-atomico (Cloud Generating, spore di noise su beat autistici), ogni parvenza di luce che non sia quella caliginosa del fall-out del McCarthyiano “La Strada”. È un disco ostico e duro, Acteurs, disarmonico e minaccioso, da pioggia acida, fumi grigi e civiltà cyberpunk come se i due fossero in grado di esasperare quella “soundtrack della notte metropolitana” alla Raime per farne una strada senza uscita, sorta di (non)luogo del non-ritorno con cui giocoforza ci si dovrà confrontare. Per ora, pollice in sù e scommessa praticamente vinta, ma per conferma li attendiamo su distanze più ampie. (7.3/10)

La buona notizia è che chi si aspettava da Appino un lavoro sulla falsariga di quelli dei suoi Zen Circus, rimarrà ampiamente deluso. La cattiva è che, dopo avere ascoltato Il testamento, forse storcerà il naso anche chi sognava, per questo esordio solista, inedite prospettive e una ragion d’essere forte. In assoluto, non si parla di un brutto disco. Eppure quell’effetto rollercoaster che a un certo punto ti prende, in un saliscendi tra brani riusciti e parentesi più interlocutorie, è una realtà con cui devi fare i conti e che non ti aspetti. Accentuata, lasciatecelo dire, da scelte musicali non sempre condivisibili. C’era davvero bisogno di questo disco? Seguendo l’ormai nota morale appiniana secondo cui “l’arte è pensiero che esce dal corpo / ne più ne meno come lo sterco” evidentemente si. Del resto dare libero sfogo a una vena da songwriter capace di generare episodi riusciti come Andate tutti affanculo parrebbe cosa naturale e anche giustificata. Aggiungete il fatto che il CD viene presentato dallo stesso Appino come «la totale liberazione dei miei dolori più profondi, la vera e difficile storia della mia famiglia usata come veicolo per una terapia di gruppo, necessaria e a tratti violenta» e capirete il peso specifico che avrebbe potuto avere questo lavoro nell’ottica della produzione del musicista. Da qui le frizioni che nascono in corso d’opera. Ti aspetti la solita ironia, quella che da sempre fa funzionare la poetica del pisano, ma non ne trovi traccia. Lo sottolinea anche il diretto interessato nelle note stampa, ritagliandosi involontariamente il ruolo di cantautore serio, istituzionale, viste anche le tematiche trattate; lo conferma la verbosità di un disco che dà libero sfogo alla parola perdendo di vista, in qualche caso, quell’incisività fino a ieri valore aggiunto. Ti aspetti scelte coraggiose dal punto di vista musicale (o per lo meno personali) e finisce invece che ti devi accontentare di un electro-rock fatto di suoni sintetici e chitarre taglienti, moderniste ed enfatiche. Qualcosa che potremmo facilmente posizionare all’altezza delle ultime uscite de Il teatro degli orrori, per intenderci (Giulio Favero è co-produttore e

Stefano Pifferi

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ATOM TM - HD (Raster Noton DE, Marzo 2013) Genere: Techno pop Se date un occhio a discogs, la quantità di alias con i quali Uwe Schmidt ha prodotto musica occupa svariate righe, come del resto è evidente la costanza della radice Atom tra le tante ragioni sociali utilizzate lungo un percorso più che ventennale. Parliamo di Uwe Schmidt, producer ma anche designer sotto Linger Decoree, un autentico dandy man machine originario di Francoforte e da anni residente (e felicemente sposato) a Santiago del Cile. Personaggio forse anche più tedesco di una Gudrun Gut o del teutonicissimo Blixa Bargeld, artista coerente e incompromissorio nei confronti di ciò che lui stesso definisce corporate pop, oltre che bizzarramente terzomondista. E soprattutto personaggio che ha dato un contributo fondamentale alle contaminazioni extra elettroniche. HD ne è l’avvincente statement (techno) pop (ma anche rock) ricavato, naturalmente, dai solidi suddetti principi, in primis in un’avvincente continuum tra il lato più pettoruto della Raster Noton e l’Electric Cafe (1986) dei Kraftwerk, album quest’ultimo in cui la formazione tedesca portava a compimento un percorso sul (allora) presente osservando fenomeni sintetici mainstream e nascenti fermenti. HD, a ventisette anni da quel lavoro e dopo i tagli sperimentali di Liedgut e Winterreise (primi due album pubblicati su Raster Noton), tenta un manifesto fruibile, compatto e ricco di tutto ciò che il pop al technicolor ha saputo dare alla musica tutta. Si potrebbe speculare sull’inflenza wonky, come potremmo indagare sui nuovi elementi portati dall’esplosione della rap music negli ultimi Kraftwerk, eppure, la tracklist, in quanto operazione di sintesi, va oltre ogni facile operazione a tavolino. Uwe, precisamente, vede il disco come un lavoro assieme spirituale, musicale e scientifico che, come ogni percorso che parte da solide fondamenta, ha richiesto parecchi anni, visto varie stesure e coinvolto una serie di persone. Le prime incisioni sono partite nel 2005 quando il disco portava ancora il titolo di Hard Disc Rock e, di sicuro, la componente rock è rimasta in bella vista nella cover degli Who My Generation con Marc Behrens in additional programming e nelle pieghe hard country di Sound Of Decay. Parliamo quindi di un lavoro animato da una certa coralità: nella sincopata quanto discreta I love U (con citazioni di Boing Boom Tschak) troviamo al canto il Jamie Lidell che conosciamo, il padrone di casa Alva Noto pensa a fornire qualche riga di codice nella stilosa e detroitiana Ich Bin Meine Maschine, Jean-Charles Vandermynsbrugge presta la voce (in francese) nell’opener Pop HD e infine Dominique Depret (chitarra) e la popstar cilena Jorge Gonzalez integrano qui e là con basso e chitarra all’insegna di un lavoro che attinge forza ed energie da una precisa visione sovra-nazionale e altrettanto determinatamente anti-business globale, accarezzando quindi una dimensione politica senza farsi prendere la mano (Empty gioca con le parole, Empty V che fa rima naturalmente con Mtv, Stop (Imperialist Pop) - che contiene un frammento di una traccia del 1998 chiamata Hard Disc Rock (don’t stop) come Atom - tenta l’anthem/declama anti-major ricordandoci assieme della EMI dei Pistols e dei parlati di Max Headroom). Del resto, l’ironia è sempre stata un’arma alla quale Schmidt non ha mai rinunciato. Si tratta di leggerla tra le righe di testi icononoclasti come Ich Bin Meine Maschine (“Sono io la mia macchina ...a prescindere dagli Hz impiegati”) e di un album tutt’altro che perfetto, anzi, volutamente e ordinatamente sconclusionato. Eppure così dannatamente (raster)sexy e stiloso. (7.2/10) Edoardo Bridda

Franz Valente martella dietro le pelli), e che stride con l’immaginario sanguigno, diretto e autobiografico alla base del disco. Tutto questo porta a un’opera ambivalente, costruita su una miscela esplosiva che in alcuni frangenti funziona e in altri appare piuttosto ingovernabile. A testimonianza, una Schizofrenia che sembra una b-side poco riuscita della band di Capovilla ed episodi come Il testamento

(dedicata a Monicelli), Che il lupo cattivo vegli su di te, Solo gli stronzi muoiono, Questione d’orario e Specchio dell’anima che invece alludono a una sintesi interessante; aperture wave-punk come Fuoco! e certi Zen Circus di sostanza richiamati da Fiume padre e da una Tre ponti da frontiera. In mezzo parentesi come La festa della liberazione, omaggio folk dylaniano con un testo tagliato chirurgicamente (una delle cose migliori mai scritte da 57


Appino), quasi a sancire la parentela sottintesa con un linguaggio più ortodosso e riconoscibile. Giacché il resto poi lo si archivia senza troppe remore, tra una Godi (adesso che puoi) che non colpisce più di tanto, una 1983 che parte chitarra e voce per poi perdersi (male) sotto un tappeto di elettronica, una Passaporto ripetitiva e vissuta in funzione dell’eruzione elettrica a finale, una I giorni della Merla sospesa in un limbo. Alla fine dei sessanta minuti resta un po’ di amaro in bocca, nonostante le buone intuizioni (e intenzioni) messe in mostra. Con un Appino che comunque dà tutto, riuscendo a limitare i danni con la solita vis punk e l’innato entusiasmo. (6.6/10) Fabrizio Zampighi

Atlas Genius - When It Was Now (Warner Music Group, Febbraio 2013) Genere: pop rock In fase di recensione dell’EP Through The Glass, scrissi “attendiamo l’album, con aspettative piuttosto tiepide”. Le quattro tracce non permettevano, infatti, d’esprimere giudizi precisi sull’operato degli Atlas Genius, ma erano comunque abbastanza per chiedere qualcosa di più alla band australiana che ha trovato il successo grazie alla traccia Trojans, nel frattempo diventata una vera e propria rock-hit sia in USA che Canada. L’album di debutto è arrivato, si intitola When It Was Now ed esce - come il precedente EP - per la Warner Bros, la quale deve evidentemente averci visto un qualche tornaconto economico di rilievo. La presenza di Trojans tra le undici (più tre eventuali extra/remix/ acoustic) tracce non sorprende di certo come la scelta d’includere gli altri due brani contenuti in Through The Glass, Black Seat e Symptoms. I restanti otto passaggi consolidano l’impressione di una band molto astuta e non esattamente votata alla ricerca musicale, nonostante uno stile tutto sommato personale. Gli anni ‘80 sbarazzini di Electric aprono le danze (immaginate i Duran Duran in duetto con gli Scissor Sisters, alle prese con l’Oberheim OB-Xa di Jump), ma i ritmi uptempo di synth-pop vagamente funkeggiante sono protagonisti per una buona metà di When It Was Now: If So (che è un po’ una Trojans v.2), Don’t Make a Scene e i suoi handclaps o la titletrack sono un po’ tutte figlie dello stesso padre (che possiamo chiamare Phoenix). Il tiro è quindi quello giusto, ma le variazioni sul tema sono poche. Più anonimi quando rientrano su territori prettamente stadium pop-rock senza particolari intuizioni o guizzi (Through The Glass) o nell’insipido filler 58

chiamato All These Girls. Centred Of You, invece, potrebbe funzionare bene. Emerge chiaramente la figura di Keith Jeffery nel ruolo di principale attore: la sua chitarra nasconde una certa inventiva in ottica ritmica mentre vocalmente ha la fortuna di possedere un timbro che pur ricordando tante altre voci, risulta essere facilmente riconoscibile dopo qualche ascolto, vuoi anche per una certo abuso dell’insolenza spavalda che lo caratterizza. Liriche rivedibili, una certa monotonia ed una fin troppo esasperata ricerca della facile hit limitano parecchio When It Was Now nella sua interezza. Come nel caso degli Imagine Dragons - con i quali sono in tour in questi giorni - anche qui si ha l’impressione di aver affrettato i tempi pur di sfruttare il momento fortunato post-EP. Considerato poi che tra due mesi dovrebbe uscire il nuovo album dei Phoenix, potrebbe essere meglio risparmiare i soldi... (5.7/10) Riccardo Zagaglia

Atoms For Peace - AMOK (XL, Febbraio 2013) Genere: white soul Un super side project cannibalizzato dall’ingombrante figura di Thom Yorke. Del resto, proprio la necessità di allestire una band per il tour del suo unico (finora) disco solista The Eraser è il motivo per cui Nigel Godrich, Joey Waronker, Mauro Refosco e Flea si sono trovati assieme all’oxfordiano ad escogitare l’entità Atoms For Peace. C’era ovviamente molta curiosità per questo Amok, pasturata dalle testimonianze video delle esibizioni che pullulavano in rete e dal lungo, meditato lavoro di postproduzione effettuato da Godrich e Yorke. Il risultato, va detto, non procura molte sorprese. Anche se è un lavoro per molti versi apprezzabile. Proprio partendo dall’impostazione di The Eraser - quel rosario di algide apprensioni, di sussulti asciutti ed intensità spezzettata - i pezzi di Amok tentano di definire una sintesi di istanze wave, etno, soul e breakbeat aspersa di suggestioni kraut e spasmi funky. Un crossover contemporaneo che tradisce la palpabile ambizione di fuggire la tenaglia di ipermodernismo e post-modernismo, in virtù di un fare musica che malgrado tutto mantiene forti legami con la tradizione. Difatti, la forma canzone è il dato inalienabile, l’esito auspicato, il rito officiato. La voce mai tanto chiesastica di Yorke è il mantra che - volente o nolente - disloca la liturgia in ambito Radiohead, facendoti pensare ad una variante cibernetica delle tecnologiche Gloaming e Myxomatosis, mutazione che spalma il lenitivo nella piaga tra umano e artificiale, in una zona franca tra organico e olografico (il


Autechre - Exai (Warp Records, Marzo 2013) Genere: AutArriva il momento, nel percorso di un musicista, dove rimettersi in gioco diventa un’esigenza. L’istante in cui dopo 20 e rotti anni di collaborazione e onorata carriera si sente la necessità di chiedersi: chi - o cosa - siamo diventati in tutto questo tempo? Il ritorno degli Autechre ci coglie di sorpresa, arriva in sordina, senza troppe spiegazioni o concettualismi. Tanto che sulla pagina Warp dedicata ad Exai c’è poco più che la tracklist e il link per acquistare il lavoro nei vari formati. Lo stesso artwork, semplice e riuscita opera del Designers Republic di Sheffield, rievoca gli avatar basic di wordpress, per un messaggio conciso, diretto, minimalmente classy, attuale e senza sovrastrutture: Autechre in forma contemporanea. Amore per i New Order, per l’hip hop e per gli acidi di Chicago. Il duo di Rachdale codificò e canonizzò come pochi altri il Futuro che si respirava nella prima scena rave dei tardi Ottanta con l’informatica e la matematica del suono. Per Exai - che può ricordare un acronimo di EXperiments on Artificial Intelligence, forse proprio in onore a quella compilation Warp che gli diede visibilità internazionale - Brown e Booth compiono un immenso sforzo, per chi come loro ha segnato tanto un’epoca, realizzando una monolitica prova di consistenza - di effettività - e cogliendo il trick che si cela dietro la nuova onda elettronica contemporanea che li riconosce tra i massimi ispiratori. Attenzione però, qui siamo lontani anni luce dal piegarsi alle esigenze del pubblico: in questo caso è il presente che si adatta al volere degli Autechre e sono loro, innanzitutto, a capirlo, interpretarlo e a marcarlo a fuoco con inconfondibile gusto. L’instancabile duo mette in mostra tutta quella meravigliosa lucidità artistica proiettata verso l’evoluzione musicale, senza troppe scuse. Exai è meno audiofilo del solito e dà l’impressione di esser stato fatto di stomaco, quasi a infilarci dentro quei sentimenti che sono stati mascherati dietro un’estetica “aracnide” per anni. Con un approccio quasi da set e da manipolazioni live (peraltro già presente nel disco precedente), il duo è - se possibile - ancora più free e “intelligent”, lontano fino all’ultima goccia dalla techno dritta nella quale non sono mai riusciti a rientrare perfettamente. Persino le formule matematiche, i logarimi e le gaussiane vanno perse, restando però stabili su ritmi bizzarri, sempre curati, studiati e glitchiati in ogni bit: indiscutibilmente Autechre. Si ha a che fare con le macchine azionate da movimenti liberi - mai ripetitivi - ma metodici nel trittico (Fleure/Irlite/ Prac-F) di breakbeat industriale in apertura. Sono sempre gli automi a farla da padrone anche quando vengono innestate cadenze quasi dub come in Bladelores, magistrale suite conclusiva della prima parte. Non che sia una novità: variazioni impercettibili e dilatazioni di bpm su reticolati di struttura ritmica sono sempre stati punti di forza di Brown e Booth, ma raramente negli ultimi anni hanno avuto una simile freschezza compositiva e autentica visione del presente: un mix tanto entusiasmante di ambiente e ossatura, di pre- e post- LP5. Come già detto in apertura, il duo di Rachdale fa il punto della situazione e della carriera tirandone fuori un lavoro di due ore, prolisso ma deciso, come a voler dire: eccoci, questo è il nostro punto di arrivo, questi sono gli Autechre del 2013. La musica è cambiamento, è dinamismo, e i due ragazzi inglesi sembrano aver ben chiaro il concetto, anche dopo 20 anni di vicissitudini. (7.3/10) Davide Nespoli

basso, le percussioni e la chitarra non sembrano mai del tutto fisici, come se fossero stati scomposti e riassemblati nell’altrove sintetico dall’insidioso teletrasporto de La Mosca cronenberghiana). Non c’è reale tensione né una visione davvero inedita, o meglio è una tenzone di cui già conosci l’esito: quel lirismo tra attonito e indolenzito è infatti lo stesso marchio di persistenza uman(istic)a che le testediradio hanno eletto a loro poetica da un bel

pezzo, al punto che oggi rischia come minimo di suonare monotono, o al peggio retorico. Meglio attenersi alla pura esperienza d’ascolto, concentrarsi sulla sinergia tra intuizione melodica ed ingegneria sonora. Allora le cose prendono una piega più che accettabile: Before Your Very Eyes... sintonizza il mood ammiccando con sagacia alle poliritmie Eno/Byrne, Dropped è il raga motoristico su misura per gli anni Dieci, Ingenue 59


incrocia synth-wave krauta e freddi sgocciolii funk, la title track mette in cortocircuito volatili reminiscenze Bronsky Beat, Default pilucca cromatismi tastieristici Moroder tra sincopi Burial e disarmo post-rock, e via discorrendo. Il gioco è ispirato e a tratti coinvolgente ma è esercizio più cerebrale che altro, stimola la danza contorta però sono le sinapsi a dettare il riflesso. La pancia rimane in disparte, il cuore non si scompone più di tanto. L’impronta sul nastro frenetico dell’immaginario sembra già svanire. (6.3/10) Stefano Solventi

Ben Ufo - Fabriclive 67 (Fabric, Febbraio 2013) Genere: techno Bass Ben Ufo non produce musica - lo dice con orgoglio il cofondatore di Hessle Audio - ma si limita a mixarla. Pattern su Ableton e software di produzione, macchinari vari di controllo che non siano piatti e mixer, sono a uso esclusivo di Pangaea, Ramadanman e degli altri soci dell’avventura Hessle. Ben Ufo mette i dischi e li fa girare dosandoli sapientemente, trovarlo sul Fabriclive n 67 è una cura zuccherina ai giorni di freddo. Appassiona “MR dj” per come riesce sapientemente a dosare “ritmo pausa basso break” proprio come se fosse una nenia, mantenendo un solfeggio techno di base che consente poi divagazioni verso la techno agli antipodi del garage (consexual anno 1993), Bass, UK Bass, house. Tutte soluzioni stilistiche stupefacenti. Trovare Matthew Herbert (con una traccia del 1996 inclusa nell ep Part Four) su un remix del Fabric è come invitare Syd Barrett al Festival di Sanremo. Nella sua dj bag trovano spazio, tra gli altri, Mr. Fingers (I’m strong nella versione strumentale, un pezzo datato 1988 che è storia della house), Blawan, Floating Points, Fluxion, tutti perfettamente inseriti, tutti perfettamente incastrati, in una sapiente architettura turntabilistica. Ventotto tracce che suonano come un unico pezzo, ventisette convincenti e preziosi passaggi sul mixer, perfettamente armonizzati, che proiettano Ben Ufo di diritto, insieme a Jackmaster, Shackleton e Photek, tra quelli che possono essere definiti come “superior quality” djs (7.3/10) Mirko Carera

Black Rebel Motorcycle Club - Specter At The Feast (Cooperative Music, Marzo 2013) Genere: psy-rock/noise-blues Durante l’adolescenza arriva sempre quel momento in cui abbandoni i “grandi gruppi storici” o il rock FM di 60

maggior successo ed inizi ad avvicinarti a quelle realtà contemporanee, apparentemente più di nicchia, apprezzate specialmente dagli appassionati a cui piace stare al passo con i tempi. Quel momento all’interno della mia formazione musicale arrivò nel 2001: Tool, S.O.A.D e i Muse erano al loro apice creativo, ma gli occhi e le attenzioni dei media specializzati (web compreso) erano già rivolte verso la trasformazione della scena indie USA, tanto più “cool” quanto maggiormente revivalista. Ai vertici del grande triangolo avevamo una band in forte crescita (i White Stripes) e due formazioni al rumoroso debutto (The Strokes e Black Rebel Mortocycle Club). Fu una sorta di svolta a livello non solo musicale, ma anche attitudinale in quanto aiutò ad allontanare - in parte - i machismi testosteronici del nu metal/modern rock e a puntare i riflettori verso un passato lontano dai crismi della solita ed inflazionata glorificazione dei ‘60-’70 delle band da guitar-heroes. I BRMC scoprirono ben presto uno dei più frequenti ricorsi storici musicali: se l’omonimo debutto era un’infallibile serie di anthem (Whatever Happened to My Rock ‘n’ Roll a Spread Your Love), il successivo Take Them On, On Your Own non fu all’altezza delle aspettative. Robert Levon Been e Peter Hayes - una sorta di fratelli Reid del nuovo millennio - riuscirono però a smarcarsi dalla più classica delle parabole discendenti con Howl, album fortemente incentrato su inaspettate influenze country-blues. Da allora se la sono sempre cavata - escluso il terribile minore tentativo drone di The Effects of 333 - con grande mestiere. Il mestiere e l’esperienza oramai decennale salvano anche il sesto album in studio intitolato Specter At The Feast. Registrato un po’ nello studio di Dave Grohl, un po’ nel suggestivo Rancho De La Luna e un po’ a casa di Robert Levon, Specter At The Feast in linea di massima non aggiunge nulla di particolarmente nuovo all’interno della loro proposta musicale. Let The Day Begin, una riuscita cover-tributo ai The Call di Michael Been - il padre di Robert Levon, morto nel 2010 mentre era in tour con la band del figlio - non è l’unico brano facilmente inquadrabile nel tipico BRMC-sound: Rival è un potente garage-rock-blues avvolto dal wall-of-guitar (la melodia ricorda Get Free dei The Vines o è solo una mia impressione?), così come la tirata Teenage Disease e Funny Games, baciata da un chorus piuttosto appicicoso. Le variazioni sul tema le troviamo quando rallentano in ritmi in zona U2 - come già successo in passato con All You Do is Talk - in tracce come Returning o la semiacustica Lullaby, settata però su coordinate più psichedeliche (Spiritualized influenza dichiarata). Non mancano però


Autre Ne Veut - Anxiety (Mexican Summer, Febbraio 2013) Genere: Neo-RnB Quando Autre Ne Veut uscì con il suo omonimo album, su Olde English Spelling Bee, la domanda che tutti si posero è se avrebbe mai deciso in futuro di fare un passo al di fuori del lo-fi. La risposta non era sconta all’epoca. L’album usciva su una label famosa per i suoi novelty acts e per la filosofia ultra retro di James Ferraro, per lo più in un periodo in cui il mondo indie era ancora sotto l’incantesimo del primitivismo elettronico degli Animal Collective di Merriweather Post Pavilion. Inoltre Ashin era stato anche compagno di stanza al college con Lopatin/Oneohtrix Point Never e la sua influenza fu la spinta che lo portò a tentare la carriera musicale. Pure il successivo Body Ep, nel 2011 si inseriva nello stesso solco. L’RnB era presente ma sempre mascherato dalle elaborazioni elettroniche che richiamavano l’electro-pop femminile di Telepathe e Fan Death. Ashin in alcune interviste aveva commentato come i suoi primi approcci alla musica, ispirati dal compagno di stanza, soffrivano di un eccesso di intellettualizzazione e studio forsennato dal quale lui cercava gradualmente di smarcarsi. Il Body Ep era un passo in quella direzione, nel tentativo di far emergere lentamente la sua voce e dedicarsi all’RnB. Ma solo con Anxiety si evidenzia pienamente la passione di Ashin per il pop femminile, specie nella dimensione della Diva neo-soul dei ‘90. Anxiety è un esercizio di androginia dove i riferimenti principali sono tutte cantanti femminili: da Mariah Carey (vero anello di connession con How To Dress Well) ad Annie Lennox. La parte più propriamente musicale è in parte prodotta da Lopatin che si rifa alle sue esperienze con Ford per Games. Play by Play, il singolo che apre l’album , è la traccia che meglio esemplifica questa influenza sulla produzione. Note a cascata da un’arpa digitale seguite da drum machine vintage e cori di tastiera Casio in un crescendo sorprendente di complessità. Il brano è costruito con maestria maniacale ed allo stesso tempo è interamente dedicato a far da supporto alla voce di Ashin. È la voce la vera protagonista dell’album e non è una sopresa dopo aver visto le straordinarie capacità vocali ed espressiva di Autre Ne Veut dal vivo (ve ne abbiamo parlato qui). Va notato come questa improvvisa confidenza nelle proprie abilità canore, ormai non più mascherate nemmeno dall’anonimato dei primi tempi, sia in larga parte dovuto ad una scena contemporanea sempre più ricettiva all’RnB. Ashin menziona tra le sue influenze degli ultimi tempi Climax di Usher e canzoni come Ego Free Sex Free sono un gesto di assenso verso l’hip hop mainstream. La sensualità in Anxiety è sempre solo accennata e subito smentita. Come con la copertina del precedente Body Ep, che tutti avevano pensato essere il close up di un genitale femminile quando invece, sembra, siano delle mani oliate, Ashin si sforza di sviare ogni interpretazione eccessivamente carnale. Ego Free Sex Free sarebbe in realtà semplicemente la trascrizione di una conversazioni ascoltata per caso fuori dallo studio di registrazione, ci dice con un ghigno il cantante. Counting parla della paura di chiamare la propria nonna perché potrebbe essere l’ultima, afferma in un’intervista. I riferimenti al rapporto di coppia sono, ci dice Autre Ne Veut, sono il modo di comunicare una solitudine profonda e globale, un senso di alienazione pervadente. La seconda parte dell’album si fa infatti sempre più pessimista, cupa, diventando così anche la più commovente. World War chiude l’album con l’ansia di volere essere un altro, di non voler sbagliare e di non essere capace di abbandonare l’ascoltatore: Take a timeout and listen to everything right / Don’t wanna make a mistake / Oh, you know that you’re in it / And this is goodbye. È una chiusura perfetta per questo album: l’incontro del profondamente intimo e personale con l’universalità e semplicità assoluta del pop. (7.4/10) Antonio Cuccu

- soprattutto nella seconda metà del disco - alcune interessanti sbandate probabilmente derivate dall’atmosfera del Rancho De La Luna (e/o dalla presenza di Chris Goss), tradotte nelle suggestioni deserto-lisergiche di Some

Kind Of Ghost, nella slow churchedelia di Sometimes The Light e in alcuni passaggi di Sell It. Qui vivono gli USA dei motel marci, delle distese aride, dei cactus e delle notti di confine al chiaro di luna. 61


Piuttosto pacchiana invece Hate The Taste, giustificabile solo dal fatto che Specter At The Feast è un - buon - disco pensato per essere suonato dal vivo, dove i Nostri riescono sempre a sprigionare un muro di suono non indifferente. La strada che hanno intrapreso è sabbiosa e polverosa ma comunque priva di grossi rischi. (6.7/10)

Con Yeah Right la band della Pennsylvania svolge discretamente un compitino che suona più che altro come un timido tentativo di gridare al mondo un “Hey, ci siamo anche noi, siamo qui!!”. Peccato che il mare in cui hanno deciso di tuffarsi sia sconfinato e già colmo di protagonisti probabilmente più meritevoli. (5.9/10)

Riccardo Zagaglia

Riccardo Zagaglia

Bleeding Rainbow - Yeah Right (Kanine, Febbraio 2013) Genere: fuzz-pop

Blue Purple Bees - Daily Home Reflections (Off Records, Novembre 2012) Genere: Rock & Roll

Per il 2013 la Kanine Records ha deciso di sparare subito due cartucce targate female-led indie rock: gli interessanti Fear Of Men e i Bleeding Rainbow. Quei pochi che si ricordano dell’album del 2010 intitolato Prism Eyes, probabilmente sapranno già che i Bleeding Rainbow non sono altro che l’evoluzione del duo Reading Rainbow. Ora ufficialmente un quartetto, il gruppo di Philadelphia ha inevitabilmente cambiato di conseguenza l’assetto strumentale: la leader Sarah Everton ha abbandonato la batteria per passare al quattro corde ed emergere più facilmente come figura centrale del progetto. Anche l’aspetto musicale ha subito una mutazione spostadosi da un noise-garage-pop piuttosto tirato a qualcosa facilmente inseribile all’interno del revivalismo ‘90s/fuzz-rock che - solo per citare gli ultimi in ordine di tempo - abbiamo recentemente trovato tra i retrogusti zuccherati degli History of Apple Pie. Dell’album di debutto Yeah Right disorienta la struttura dell’iniziale Go Ahead (la traccia più lunga del disco, 6 minuti): dai primi passi slo-fi fino agli ultimi scorci noisepunk i giri aumentano costantemente secondo dopo secondo. Quella di Go Head è però una delle trovate più interessanti del lotto: altrove infatti Sarah e compagni faticano a trovare gli ingredienti giusti in ottica pop song. Le melodie non mancano e gli hook anche, ma i brani non superano quasi mai l’aurea mediocritas intra-genere. Pur nutrendosi direttamente dalle fonti storiche chiamate Sonic Youth (Losing Touch) e My Bloody Valentine, i Bleeding Rainbow dimostrano di non avere difficoltà nel muoversi agilmente tra l’indie-pop più puro e le distorzioni shoegaze. Purtroppo però riescono a tirare fuori il classico coniglio dal cilindro in poche occasioni, un esempio su tutti l’appicicosa Waking Dream, singolo piglia tutto trainato da un arpeggio/riff 90s e cori sunshine-pop di scuola sixties. Troppo poco per riuscire realmente ad emergere all’interno di un revivalismo che vede esordire nuove band praticamente ogni settimana.

Modica, provincia di Ragusa, è la patria dei tre ragazzacci in questione. Il loro nome è Blue Purple Bees e a quanto pare nutrono una vera e propria dedizione verso il sound britannico, sia esso di declinazione Sixties o il più recente revival, brit-pop. La peculiarità del loro primo disco Daily Home Reflections sta nel fatto che esso è interamente registrato in analogico, con strumentazione vintage. Da veri feticisti, insomma, i BPB hanno spolverato un po’ di strumenti di famiglia e hanno concepito un’opera di dieci brani dal sapore retrò. L’operazione appare, ahinoi, quanto mai rischiosa, anche se c’è da dire che il trio ha le carte in regola per cavarsela bene, guardando appena può ai fortunati lidi del blues metropolitano degli Eels (Hands Blues, You Are A Gun) o alla rabbia adolescenziale (che magari gli calzerebbe meglio) dei Nirvana o prima ancora dei T-Rex (Don’t Undersand How They Do). La sensazione è che l’abito più adeguato per l’indole della band non sia quello della classica pop-song (per quando imbastita di schitarrate elettrizzanti), ma quello della sperimentazione tendente alla psichedelia: sebbene Aerostatic e Waiting For The Great Dream tendano in maniera fin troppo esplicita l’una verso il Magical Mystery Tour dei Beatles e l’altra verso le ballads di David Bowie, è in queste stravaganze che viene fuori la vera sostanza della band. Un’indole capace di tenere insieme anche arrangiamenti complessi, senza scadere mai nella sovrabbondanza. A conferma della versatilità e dell’intrapendenza dei BPB, intervengono i calibratissimi brani lenti, questa volta sì degni di essere paragonati alla Liverpool del Cavern Club: Who Was Faster Than Us, Summer Afternoon e Daily Home Reflections sono lo stimolo che giustifica la fiducia che nutriamo in questi giovani. (6.5/10)

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Nino Ciglio


Crimea X - Another (Hell Yeah Recordings, Marzo 2013) Genere: nu disco, edm Ci sono solo good vibrations nell’aria, quando ci troviamo a parlare di cultura dance a tutto campo e diverse generazioni, esperienze ed estrazioni convergono in una nuova tracklist d’effetto: è questo il feeling che si ha ascoltando il secondo full-lenght di Jukka Reverberi e DJ Rocca, un disco che piega le istanze kraute dell’esordio verso un approccio baldelliano, aperto soprattutto alla visione psych di stampo sintetico e filtrato secondo le lenti nordiche di Bjørn Torske, qui produttore d’eccezione. Incisio nell’estate del 2011, Another metabolizza afro, funk e una ricca palette sonica, quest’ultima ottimanente sintetizzata in groove e soluzioni melodiche di un affiatato Reverberi, senz’altro più a suo agio nell’integrare l’indieness nei tessuti danzerecci. E non è un caso che da queste energie si sviluppino poi le session collaborative tra Rocca e Baldelli (Podalirius del 2012) Con l’aiuto del padrino di tutto il movimento space disco scandinavo, il tiro del duo è solare ed energico, ma anche ipnotico e colorato. Niente italianità caciarona à la Ajello, molto contenuta anche la componente house di stampo newyorchese del Rocca con Dimitri From Paris: qui parliamo di un album che si gioca sugli spazi aperti, pronto alla jam infinita, tra il calor bianco del norvegese e la fiammella melodica degli italiani. Flordance Track pastura tribal funk da dancefloor, in Haunted Love troviamo in pieno lo stile post-wave di Jukka, in Dream Is Gone spuntano Moroder, arpeggiatori e un tripudio di sintetiche cinematiche 70s, mentre la seconda parte dell’album si concentra maggiormente sul mood e su un approccio “live” che sarebbe interessante veder approfondito dal vivo. I Feel Russian sceglie l’EDM in fluorescenza etno, i dieci minuti di Summer Rain mettono in campo il flauto di Rocca (ricordate i Kraftwerk prima di diventare i Kraftwerk?), il basso di Jukka e i synth di Bjørn puntano su un downtempo canterburiano-mittel di gran classe. Nessun cedimento in scaletta. Nessuna voglia di calare la bomba facile per gli appetiti del dancefloor. Un bel viaggio da mandare in repeat, anche solo per scoprire i dettagli di produzione e le timbriche messe in gioco. Maturato anche l’interplay tra Rocca e Reverberi, dove Bjørn ha giocato il ruolo di terzo membro aggiunto (ogni giorno la sfida era quella di portargli un synth diverso con il quale suonare) e infine di produttore casual ma non per questo di minor spessore. Thumbs up for Crimea X. (7.3/10) Edoardo Bridda

Braille Funk - Braille Funk (Queenspectra, Gennaio 2013) Genere: blacktronica Braille Funk è l’ennesimo progetto parallelo della Queenspectra, l’etichetta di punta della blacktronica italiana post-wonky post-dubstep, di cui vi parliamo da anni. La formazione preferisce restare anonima, ma i suoni sono comunque tarati su un marchio di fabbrica che sta diventando facilmente catalogabile sotto la tag ‘queenspectriano’. Il mix di esperienze e di mondi in questo velocissimo disco attinge sempre e comunque dal bass, ma varia aggiungendo squarci ambient intimisti à la Luke Vibert (Blowjob), ghetto blasterismi (Ufo ricorda le prime limonate dei Crookers), percussività sudamericane à la Ninos du Brasil (Gabriel Omar Batucada), hip-hop psichedelico à la Coldcut (Gaultier, Coma Again), dub ubertrippy (106 Napalm Dub, il pezzo più convincente e più concentrato del disco) e synth reggae (ottima Toa-

sting with an Hawaiian Headbanger). La cosa che sorprende del lavoro, nato da un taglia e cuci di jam sessions dei tre componenti del gruppo, è l’alta qualità delle produzioni, tutte ottime nei rispettivi generi. Alla lunga l’eterogeneità diventa però ingombrante: molti la potrebbero percepire come la causa di un abbassamento del livello medio che si avrebbe se si puntasse ad una maggior specializzazione. In parole povere i Braille Funk (o chi per essi, tanto siamo sempre in casa Queenspectra), se vogliono fare il salto di qualità, devono prendere - magari per un periodo limitato di tempo - una sola strada e concentrarsi su quella in maniera scientifica. Le potenzialità per il grande botto ci sono tutte. (7/10) Marco Braggion

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Daughter - If You Leave (4AD, Marzo 2013) Genere: dark-folk “Fin dall’infanzia sono preda della forza di un’orribile malinconia, la cui profondità trova la sua vera espressione nella corrispondente capacità di nasconderla sotto apparente serenità e voglia di vivere”. Kierkegaard come Elena Tonra, voce dei Daughter e persona estremamente affascinante se si va a scavare in quei risvolti della personalità che traspaiono costantemente anche all’interno delle canzoni. Una malinconia latente e ricorsiva foriera di un disagio più complesso che pone le radici fra le pieghe di rapporti di coppia senza lieto fine, quando il senso di abbandono consuma dall’interno e il cuore fa da specchio alle fragilità. C’è un alone di solitudine anche ora che il progetto Daughter non è più soltanto la diramazione solista - con due soli EP all’attivo - della Tonra e che Igor Haefeli si configura, non solo come chitarrista, ma anche come compagno nella vita della stessa Elena, rendendo più labili le ragioni di uno sguardo così costantemente glaciale rivolto all’onnipresente tema dell’amore. Un approccio amaro e pessimistico, riassunto nel sussurro di Youth - “If you’re in love, then you’re the lucky one. Cause most of us are bitter over someone” - che riflette tutta la rassegnazione, fungendo da manifesto programmatico di una poetica che ha caratteristiche definite e lampanti. Cominciamo subito col dire che il vero colpo stagionale targato 4AD potrebbero proprio essere il loro, a discapito dei vari Inc. e Indians, molto più in hype ma anche più inconsistenti e deludenti. Il pregio di If You Leave è proprio la continuità: fratello quasi gemello, per suoni ed atmosfere, del progetto di Søren Løkke Juul, non arranca come quest’ultimo lungo strutture ripetitive piazzando qua e là qualche potenziale singolo, ma si impone dall’inizio alla fine senza un calo di tensione che sia uno. Il trittico iniziale è fra le migliori cose sentite ultimamente, con Winter che sembra affiorare ipnotica e in lontananza dalle fronde di una foresta del Nord Europa, prima dell’ingresso di percussioni che si affacciano subito come colonna portante - assieme alla voce della Tonra, c’è da dirlo - dell’intero LP. Le stesse percussioni che fungono da spartiacque all’interno di Youth, episodio cardine che racchiude tutte le caratteristiche dell’estetica Daughter: strutture di chitarra circolari, cambi di tempo sorretti dai pattern percussivi che trasportano in territori affini all’ultimo Bon Iver - sebbene con arrangiamenti più scarni e delicati - e atmosfere ethereal-dark che riportano alla mente il recentissimo Wash The Sins Not Only The Face a firma Esben And The Witch, ma con più mordente e ispirazione. Menzione particolare e obbligatoria per le liriche, splendide e caratterizzate da un male di vivere radicato ed evidente che rende If You Leave un quasi-concept già a partire dal titolo, con l’angoscia dell’abbandono che guida le canzoni dall’interno e sfocia nella disillusione di versi come “I want all that is not mine / I want him but we’re not right” da Smother e “But don’t bring tomorrow / ‘cause I already know / I’ll lose you” da Tomorrow, quest’ultima - così come fra i riverberi sognanti che profumano di XX di Touch - con la chitarra di Haefeli che lambisce anche territori post-rock cari agli Explosions in The Sky. Anche le atmosfere più direttamente folk di Human e Amsterdam rappresentano una conferma di livello altissimo che conduce al commiato conclusivo della struggente Shallow, dove l’amore e la morte si accarezzano. Una danza cupa che esalta le incredibili doti di scrittura di una Elena Tonra che, con questo esordio sulla lunga distanza, scrive una delle pagine migliori di questo inizio 2013. (7.6/10) Marco Masoli

Caetano Veloso - Um abraçaço (Universal, Febbraio 2013) Genere: transrock Il classico, in vita, si esprime in cicli e ciascuno lo conduce per minime variazioni fondative. Così gli ultimi Cohen, Dylan, così da noi Paolo Conte e così per il Bardo di Bahia, che in Um Abraçaço mette il sigillo ad una trilogia elettrica iniziata con Cê e continuata con lo 64

splendido Zii e Zie. Il tutto sarebbe sorprendente se non stessimo parlando di Caetano Veloso, ovvero una fetta abbondante di musica e cultura brasiliana del secondo Novecento. Un patrimonio da salvare ma in grado di salvarsi da solo visto che, disco più disco meno, siamo arrivati alla quarantanovesima uscita ancora freschi come una rosa. Qui, con Caetano, ci sono ancora i giovani della BandaCê (Pedro Sà alla chitarra, Ricardo Dias Gomes al


basso e Marcelo Calado alla batteria), il figlio Moreno e lo stesso Sà alle manopole, per una manciata di canzoni che ribadiscono la nuova vita del suono bahiano nella feconda contaminazione transamba-transrock. L’inizio è programmatico: A bossa nova è foda, ovvero a quel paese la bossa nova e viva un suono meticcio e vitalistico, gustosamente cubista e nervoso, che si abbevera al foreign sound (rock, art-rock, funk) e alla tradizione, congiungendoli in una scrittura sempre all’altezza e anzi di più. La title-track è un esercizio pop che rimane attaccato addosso, Estou triste arriva sottopelle livida e pacificata risvegliando le coscienze con una stilettata elettrica in chiusura. Um comunista, otto minuti e trentasei dedicati al guerrigliero rivoluzionario Carlos Marighella, riporta quella leggerezza intellettuale carica di etica che è tipica del nostro, mentre quasi in fondo Parabéns si concede una sgambettata funk-tribalista che sarà occasione dinamica nei prossimi live in arrivo. Intanto rimaniamo in attesa di sapere cosa si inventerà ora l’uomo, classe 1946, in questa sua straordinaria Storia di vita, musica, coraggio e redenzione in terra. (7.3/10) Luca Barachetti

California x - California X (Don Giovanni records, Febbraio 2013) Genere: Rock Questo disco suona dannatamente giovane. Evoca scorribande, emozioni tardo adolescenziali, capelli arruffati, camicie a quadri, corse in moto, anni ‘90: suggestioni di un passato recente che ci appare straordinariamente leggero se paragonato al fosco umore contemporaneo. Siamo ad Amherst, Massachusetts, e il trio dal nome assolato oggi all’esordio presenta diversi punti di contatto con i più celebri concittadini Dinosaur Jr. (Pond Rot); ma non è certamente un’analogia nella quale si possa esaurire la personalità di una band che riesce a divertire evocando senza nostalgia una parentesi importante della memoria musicale recente, pescando dal grunge, dal noise, dallo stoner e dall’hard rock (Spider X), ma anche, trasversalmente, dall’alternative dei grandi numeri (Smashing Pumpkins, Jane’s Addiction, Foo Fighters), sempre con piglio spensierato, quasi punk rock, senza incupirsi né prendersi troppo sul serio. I suoni sono gonfi, ruvidi e terrosi, le chitarre in primo piano e la voce un po’ indietro ma sempre efficace e misurata negli arrangiamenti. La ritmica è un treno, basso dritto, batteria quadrata e impastata, scolpita dal rullante possente e metallico. Un lavoro genuino, post-generazionale, che si guarda bene dal cavalcare una qualsiasi onda, così indietro da

rischiare di arrivare primo. (7/10) Antonio Laudazi

Children of God - We Set Fire To The Sky (Vendetta, Febbraio 2013) Genere: post hc Se ne parlava proprio in occasione del recente Honor Found In Decay, di come i Neurosis siano una delle band più influenti in campo estremo e di come abbiano generato un’infinità di figliocci post hc tra cui possiamo annoverare senza dubbio questi Chidren Of God, al debutto sulla lunga distanza. Vogliamo andare subito al nocciolo? Quel che riesce - e bene - a questa band americana è il gioco pieno/vuoto. I Nostri non lesinano brutalità, sono bravi nel lasciare spazio a aperture folk apocalittiche e c’è una continua alternanza tra le due componenti, tra riff pestati e metrica doom, tra screamo e lirismi di tenebra, senza disdegnare le tirate dell’hardcore più classico e tribalismi ben scanditi. In sintesi, We Set Fire To The Sky risponde a queste caratteristiche. Certo, in un paio di occasioni il gioco è troppo marcato, con alcuni scambi superflui, ma al debutto sono piccolezze perdonabili. Nelle orecchie rimane una mezz’ora di classico post-hc che non è solo una dichiarazione d’intenti, ma dimostra già buona personalità e carica distruttiva. Se è vero che chi ben inizia è a metà dell’opera... (6.8/10) Stefano Gaz

Collettivo Ginsberg - De La Crudel EP (Seamount Productions, Marzo 2013) Genere: noise/blues-rock Il Collettivo Ginsberg di Cristian Fanti torna dopo quattro anni dal precedente Pregnancy con De La Crudel, EP che continua il percorso blues-rock portato avanti fin dagli esordi. Tra gli ispiratori ci sono ancora i numi tutelari Tom Waits e Nick Cave, con i loro notturni arricchiti da inserti beat, oltre a una verve rumorista che ritorna a più riprese nei quattro brani dell’EP. La differenza maggiore rispetto al passato è un osare verso territori più sperimentali: canzone dopo canzone, il Collettivo assembla il proprio sound, fondendo in una caotica e piacevole armonia tutti gli strumenti (non solo chitarra-basso-batteria, ma anche tastiere e archi). L’intro di Mars’ Sailor mette insieme distorsioni no-wave e ruvidità punk, esemplificando bene la direzione generale del disco, come fa anche una Curtel in cui il dialetto romagnolo viene immerso in un incalzante noise-rock. Permangono riferimenti cantautorali in Sera, dark bal65


Dumbo Gets Mad - Quantum Leap (Bad Panda Records, Febbraio 2013) Genere: psych-pop Due anni e oltre centomila download dopo il sorprendente Elephant At The Door, con la formazione consolidata a duo anche sulla carta, riecco i Dumbo Gets Mad, ovvero la miglior cosa recentemente capitata a Reggio Emilia oltre ai Welcome Back Sailors. Di ritorno dall’ennesimo trip pendolare a Los Angeles, tirati a lucido pop, con addosso la salsedine e altre essenze world, sottobraccio la prova di definitiva maturità: un personalissimo bignami della materia psych, accostabile a quello redatto da Flume per wonky, hip-hop strumentale e sampledelica; una hauntologia che, come quella di Dean Blunt & Inga Copeland in campo hypnagogico (Black Is Beautiful), sfocia nella colonna sonora senza ricorrere allo stratagemma del concept. Tra salti generazionali e continentali, in Quantum Leap c’è davvero di tutto. C’è il surfrock dei 60s sotto valium (Before Kiddos Bath); c’è il neo-soul/hip-hop dei 90s, che diremmo ormai “vintage” (American Day), in odore di quel tormentone dei Bran Van 3000 che, guarda caso, si chiamava Drinkin In LA; c’è il downtempo influenzato 70s, strutturato con fiati tra l’afro e il prog su firma trasversale Flaming Lips (Crystal Balls On Roll). C’è ancora del dub lanciato in ascensioni frattali/spacey à la Tame Impala (Radical Leap); c’è la samba piegata a suon di wah-wah, portata in un’escalation delirante che farebbe contento il FlyLo mascherato da Captain Murphy (The House Of Love); c’è l’hipsteria dei Friends, tra funk e no-wave (Cougar) e persino un’improbabile figliata tra le Prince Rama e Azealia Banks (Tahiti Hungry Jungle). Il tutto ammantato dal trademark fatto di riverbero cosmico, sintetizzatori junkie cari a Toro Y Moi, bubble samples ed altre elettroniche cheap e chipmunk, pur senza mai scadere nel trappolone del “famolo strano per forza”. Menzione obbligata va inoltre alla prestazione di Carlotta, performer mutevolissima ed all’altezza dell’iper-frammentazione stilistica: la si ritrova ad un tempo languida e poi “holla back girl”, a cantare come canterebbe Jigglypuff e subito dopo in dissing-stance. Furbo è Luca a sfruttarne a pieno le doti, perlopiù limitandosi a farle da ombra e contrappeso. Infine, immediatamente sul piedistallo: Bam Bam, il singolone ma anche - nonostante la morriconiana Maleducato - l’episodio più cinematografico della tracklist: arrivasse a lambire le orecchie del Tarantino che scarta Frank Ocean perchè “non c’è la scena adatta”, azzardiamo, la scena verrebbe scritta apposta. È d’altronde, come il resto del disco, irresistibile. (7.4/10) Massimo Rancati

lad da frontiera debitrice tanto alla tradizione che va da Tenco a De Andrè quanto a un lirismo scarno e destrutturato di matrice dadaista che evidenzia la ricerca di Fanti di un’estetica letteraria ben precisa. Letterarietà che ritorna anche nella conclusiva Presente, dove il gruppo rilegge - e recita - un’antica lauda medievale, un brano in cui armonie goth si alternano a quelle dissonanze che colorano tutto il lavoro. Nel complesso, una prova convincente, in attesa di sentire quello che ci riserverà un più esaustivo full-lenght. (6.8/10) Giulia Antelli

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Da Hand In The Middle - L’éducation sentimentale (Black Vagina, Febbraio 2013) Genere: roots funky Tra le tante sorprese che potevi attenderti dai Da Hand In The Middle, in questo sophomore c’è forse la migliore: rispetto all’esordio Shiver Animals Sensations - correva la primavera del 2011 - i sei ternani hanno raffinato la calligrafia, distillato l’estro, ferma restando la tracotante poliedricità che te li fa sembrare quasi dei cuginastri roots dei Gomez. Ritornano a sciorinare swinghettini beffardelli da Country Joe letargico (Study Hall), errebì funky col sax spianato e le chitarre rugginose (The Cook, come una jam alcolica tra JSBX e Morphine), rumbe argute e languide ad un pelo dalla caricatura (Cain, col french touch che si manifesta appieno nella reprise Cain


va en France) nonché folk aciduli e rarefatti à la Howe Gelb con licenza di sbracare (The Barber pt. 1 e pt. 2). Di più e meglio - al limite del virtuosismo ma graziaddio non fine a se stesso - fanno con l’errebì soul irrequieto e lascivo di Vagner Love ed il power surf con svolte mariachi goliardiche di El carcion fumante. Ma dove francamente si superano è con la misticanza tarantiniana (afrori tex-mex, funk tirato e surf ipercinetico) di 55 Fire e col cabaret ska a rotta di collo di Barry Gibb, mentre In Tango si gioca la carta delle destrutturazioni avant senza perdere il piacere del ghigno umorale. Ingegnosi e viscerali, riescono ad essere godibili con qualunque maschera. E l’impressione è che i travestimenti non siano finiti. Bravi davvero. (7.2/10) Stefano Solventi

Danny Scrilla - Fluxus (Civil Music, Febbraio 2013) Genere: dubstep Danny Scrilla, esordiente su Civil music con l’Ep Fluxus, è tedesco di Monaco di Baviera, non proprio la terra promessa per chi fa dubstep. Questo non può non influenzare notevolmente la produzione di Fluxus regalando all’ep un suono originale, anche se il punto di riferimento dichiarato è poi una dubstep pre 2006. Il tecnigrafo su cui poggia Scrilla nella costruzione delle tracce e nella successiva squadratura è semplicemente diverso: basso raramente distorto e mai wooble - a questo, in un’idea stilistica ben precisa, viene semplicemente preferito un basso modulare e acido accompagnato da synth sci-fi (Thorium) -, ritmo incalzante un po’ Goblin e a volte Zombie ?Smbie, tensione, ipnotismo, 70s, sparatutto con gli alieni e i mostri tentacolari, accenni di Raime e cattedralità, paranoia e tagli industrial (Magellanic Clouds). Con i due remix (Goth Trad e Deft) che aggiungono “industrialità” nel primo caso e skreamzim nel secondo. Inatteso e inaspettato, Danny Scrilla è fochista esperto nel maneggiare materiale altamente esplosivo come il dubstep oggi. Fa nulla se son petardi e non fuochi d’artificio: per gli inesperti sono pericolosissimi anche i primi. (7/10) Mirko Carera

Deep88 - Removing Dust (12 Records, Febbraio 2013) Genere: trax Alessandro Pasini da Forlì detto Deep88, fa parte di quella corporazione di artigiani nella lavorazione del basso in cachemire nella quale hanno trovato casa an-

che Frivolous, Jamie Jones, Oxia e, nei primi passi, alcuni artisti Kompakt (Scsi-9 su tutti). Ora con un titolo in soluzione di continuità rispetto al primo, apprezzato, album (Removing Dust) presenta la seconda raccolta delle sue trax. Stanziale da tempo a Berlino, Deep88 manda in vita l’insieme di due precedenti EP unendoli in un unico album dove comanda il vecchio basso armonico Roland, scintillante, profondo, fatto di note baritonali, ingrediente base, pittura di fondo di una tela che, di volta in volta, si colora di salsa Balearic (Salsa house, cover dello storico pezzo di Richie Rich uscito nell’88 su FFRR) o vocalizzi Ottanta (italo82) in un ritorno rinascimentale a quel periodo house ottantasette 88 dove tutto era pree dove la metilenediossimetanfetamina non era ancora padrona del dancefloor. Si punta verso Chicago e la Trax Record, Frankie Knuckles & Jamie Principle. E non è una novità di questi anni senz’altro. Prevale una forte devozione all’eleganza anche quando il basso rallenta (like a trembling h) e il ritmo si spezza specchiandosi magari nel primo album a firma Deep88 dove il suono si faceva conviviale, lento fluttuare nei dehor immaginari del Marcy Hotel di proprietà Wolf+Lamb. Infine, morbidamente svegliata, torna alla vita - e a brillare - la statuaria melodia di Sing it Back dei Moloko, cesellata di fino, lavorata su un melodic low bass che promette indigestioni. Se si cerca un disco che suoni deep (in the soul), qui si vince facile, non ci sono ambizioni da star né lanci da capolavoro, né ricerche di trame stilistiche fortemente autoriali, solo la voglia, di imprimere anche la propria firma in un sound che ha fatto (ed è) storia. (7/10) Mirko Carera

Dente - Cuore di pietra (Autoprodotto, Febbraio 2013) Genere: canzone d’autore Da che mondo è mondo il feticismo in musica va di pari passo con l’ampliarsi del numero degli ascoltatori cui è destinato. Di esempi in questo senso ce ne sono a bizzeffe, a partire dai Beatles e dalla loro beatlemania fino ad arrivare agli istrionici Flaming Lips e, in generale, alla tendenza attuale a presentare un prodotto musicale nella maggiore varietà di formati possibile, compresi quelli destinati ai fan più danarosi e integerrimi. Dente non ha niente a che vedere con i baronetti inglesi né con Wayne Coyne e soci, eppure può vantare un pubblico disposto a seguirlo in ogni possibile elucubrazione su amore e dintorni. Una “base” che il musicista conosce come le sue tasche, abbastanza empatica da lasciarsi cullare da 67


un romanticismo fatto di gesti piccoli ma significativi (del resto, se il sito ufficiale del musicista emiliano si trova all’indirizzo amodente.com, un motivo ci sarà). Ecco quindi spiegata un’operazione come Cuore di pietra, cofanetto composto da un 45 giri in vinile e da alcuni disegni raffiguranti pietre preziose realizzati da Emanuela Savi. Ogni pietra fa il paio con una versione (in totale sono otto) dell’omonimo brano tratto dall’Io tra di noi del 2011 - un minuto circa di durata media ognuna - riarrangiata ispirandosi al minerale cui è intitolata. Passatempo o poco più per un artista che può permettersi l’azzardo, come confermano la stampa in sole cinquecento copie del disco e il fatto che sia venduto esclusivamente sul sito ufficiale; abbastanza curioso, comunque, per solleticare gli appetiti dei più affezionati cultori del Pevere, che al non troppo economico prezzo di diciotto euro potranno accaparrarsi l’oggetto in questione. Scendere nello specifico delle versioni non avrebbe molto senso - anche per non rovinare la sorpresa a chi deciderà di acquistare il cofanetto -, come ci parrebbe superfluo giudicare un lavoro discografico che in realtà è poco più di un vezzo destinato esclusivamente allo zoccolo duro dei fan. Così si spiega la sufficienza “neutra” che troverete a fine testo. (6/10) Fabrizio Zampighi

Diverting Duo - We Lend You A Memory (Zahr, Novembre 2012) Genere: tronic Se li pensassimo davvero in Sardegna, il loro luogo di origine, avremmo non poche difficoltà ad immaginarceli. I Diverting Duo - dai dintorni di Cagliari - sono un empasse di elettronica in stile Morr, indie-folk d’oltremanica e dream pop dal sapore scandinavo. Per dare seguito al bel Lover, Lover di qualche anno fa, sono tornati con We Lend You a Memory, un’opera composta da dieci brani immersi in un clima gelido e sognante fatto di propulsori elettronici e loop. La sensazione è quella stralunata del viaggio interstellare: l’attrezzatura cosmica preparata in una distesa di brina alle luci di un’alba. I suoni sono lo sfondo da cui tutto prende inizio, siano essi riverberi infiniti, delay metafisici o pad di cassa dritta. Su questa tessitura raffinatissima ha inizio il sogno della condensa, appoggiato su arrangiamenti minimali di laptop, organo o glockenspiel. Nei dieci labili episodi di questo viaggio, si riascolta l’abilità manovrata e pacata dei Beach House (Static Globes, I’m Not Tired), il piglio sospeso ed equilibratissimo dei Notwist o dei Lali Puna (Dancing Deers, Outset), la landa 68

stepposa e deserta dei Sigur Rós (Ask A Child, Anatolij, Angry Tiger) e persino l’atteggiamento sfacciato e chitarristico di Pj Harvey o Anna Calvi (80 Times). Con questo bel bagaglio, non si può certo sbagliare. L’assimilazione dei referenti è ben calibrata e sciorinata diffusamente in tutte le tracce, tanto da far sembrare We Lend You A Memory un disco compatto e di facile fruibilità. Molto semplicemente, un disco pop ben riuscito. (7/10) Nino Ciglio

Dj Muggs - Bass Your Face (Ultra-Sound Records, Marzo 2013) Genere: Dubstep Dici Cypress Hill dici B-Real, Sean Dog, Bobo e Dj Muggs, dici svariati milioni di dischi venduti in tutto il mondo, canzoni che sono manifesti hip hop, contaminazioni nu-metal, crossover, dici Skunk, Purple Haze e White Widow fumate in ogni pezzo, dici veri gang star fuori dal mondo gangsta. Dici teschi e copertine tra goth e death metal. Dici artisti affermati e progetti solisti. B-Real insegna come rollare una canna con la barba sulla sua Web tv, Sean dog scopre e collabora con Delinquent Habits e Psycho Realm e per ultimo Dj Muggs fonda e crea la label Soul Assassin, con cui produce compilation fondamentali (l’intervento di Krs One nel primo capitolo risolve e pacifica praticamente la guerra east/west coast). Iperattività quindi, ma di altissima qualità, per tutti i componenti, da quasi 20 anni. Bass your Face, l’ultimo dei lavori di Dj Muggs, ha lo stesso effetto di un bong con frizione manuale, non te lo aspetti e ti distrugge, almeno inizialmente. Muggs si diverte a giocare con il top sound del 2013 e impatta con trap e footwork alla sua maniera (Trap Assassin, Soundclash Business), rolla drop durissimi (Shotta) che sono veri e propri blunt, ci mette del grime (ma qui è giocare in casa), coinvolge Killa P e Dizzee Rascal nell’ora di sballo (Come On London, Snap Ya Neck Back), si regala un pezzo EDM (con una vocal diva, Safe) buono per Mtv e per i set di Deadmou5 e Zedd. Infine, introduce qui e lì i suoi suoni illusionistici e gotici tra xilofono e sitar, avanzo della libreria di Temple of Boom (terzo album dei Cypress) e suo marchio di fabbrica. Lawrence Muggerud si conferma produttore di altissimo livello (il top dell’hip hop con Dr Dre e RZA per chi scrive), l’unico in grado di preparare questa “ratatouille” senza sfigurare davanti a nessuno dei mostri sacri del dubstep & affini. Lo fa praticamente per hobby e lo fa bene (in Italia la stessa cosa la sta facendo Big Fish con Morgan, con risultati quanto meno mediocri), costringendo i vari producer dell’onda brostep quanto meno a


Il Sogno Del Marinaio - La Busta Gialla (Clenchedwrench, Gennaio 2013) Genere: rock Il sogno del marinaio è contenuto in una busta gialla. Gialla proprio come le incerate dei marinai. Gente avventurosa, mai doma, inquieta e poco incline a comode questioni domestiche. Gente che deve muoversi e solcare oceani per sentirsi a posto con se stessa. Nello stesso modo questo trio dal nome insolito solca mari noti ma con uno spirito coraggioso e indomito. Dopotutto i “marinai” in questione sono personaggi conosciuti per la continua ricerca sonora che li ha spinti a mischiare e smontare canoni, a infrangere codici, a zigzagare per generi e stili. I nomi, innanzitutto: Stefano Pilia, forse il miglior chitarrista (non solo) avant presente sul mercato; Andrea Belfi, batterista duttile e curioso oltre che metronomico ed energico; e infine, lui, mr. Mike Watt, uomo prima che musicista per cui non servono aggettivi, a meno che si siano sbagliate pagine. La storia, poi, di una semplicità disarmante e old school. I tre si incontrano, prima Pilia e Watt a dirla tutta, si piacciono, suonano insieme per una manciata di date in Italia et voilà: i vuoti del tour finiscono in studio e si riempiono miracolosamente di una musica che è comunione tra animi affini, spericolati e sapienti nel rigirare dal di dentro 30 anni e passa di storia del rock. Math, prog, noise, western, funk, rock, avant, libertà, gusto, indipendenza, fierezza e via cantando per un lavoro che, nel suo fondere e piegare ai propri voleri la “musica”, non ha tempo né luogo. L’asse lungo il quale si muovono gli 8 pezzi de La Busta Gialla è pertanto ondivago e con tante stelle polari cui affidarsi: ossature canterburyane alla Wyatt rotte e ricomposte più volte sotto forme diverse, piene di inserti che sono curve a gomito e sterzate mica da ridere (Zoom), post-rock tortoisiano suonato alla maniera dell’avant-rock, se non fosse disturbato dagli electronics di Rocchetti e dal synth di Carozzi (Messed-Up Machine), funk-jazz infuocato suonato con animo punk e spirito dissacratorio (Punkinhed Ahoy!), avant-blues diluito e sognante (Il Guardiano Del Faro, ospite la voce recitante di Manuele Giannini degli Starfuckers), tropicalismo impazzito tra svisate post-rock, umori da funamboli e colori impazziti (Funanori Jig) e tanto altro ancora. Nulla di innovativo, ma una perfetta macchina rock, rodata da concezioni affini e oliata da passione e sapienza che riappacifica con la musica. (7.4/10) Stefano Pifferi

cinque minuti di riflessione e successivo panico. Rusko, che con i Cypress Hill per altro ci aveva anche collaborato (Muggs ne era rimasto però fuori), piange in un angolino e vuol portarsi via il pallone. Lawrence ride, immola la Rizla e si chiede soddisfatto “perché, che ho fatto?”. (7.2/10) Mirko Carera

Ellen Allien - LISm (BPitch Control, Marzo 2013) Genere: Journey music Poteva sfornare un album sulla falsariga dell’eppì Galactic Horse uscito lo scorso anno, Ellen Allien, con il basso spugnoso, il drum programming tra EBM e HH e le aperture synth 70s (Take Me Out, piccolo culto), aggiungendo così l’ennesimo tassello a una carriera solista non imprescindibile ma ugualmente ricca di buoni

spunti e, da sempre, ottimamente piazzata sul mercato, tra attualità e introduzione di nuove tendenze. Per il nuovo LISm la producer tecesca sceglie invece una strada diversa, rielaborando parzialmente la colonna sonora di un balletto commissionatole nel 2011 da Alexandre Roccloi e Sevérine Rième (Drama For Musica) e avventurandosi così nel lavoro artisticamente più coraggioso di una carriera iniziata respirando minimal e electroclash (Stadtkind, 2001). Ancor prima che producer, Ellen è sempre stata una stilista ed è con mentalità sartoriale che ha curato fino ad ora l’intero output personale e discografico come BPitch Control.Non sfugge alla regola quest’ultima traccia della durata di circa un’ora, l’unica presente in un lavoro che si configura come un viaggio musicale o, nelle aspettative della producer, un dj set trasfigurato all’insegna di una vasta palette di suggestioni soniche (spezzoni di 69


ambient, drone, dream, jazz lynchiano, elettroacustica, spoken della stessa Allien, chitarre desert rock cadaveriche, quartomondismi al vibrafono, ritorni alla minimal). L’operazione è emblematica: se da un lato l’ottimo intuito per le fascinazioni dell’autrice è limpido e mai ostico, la sostanziale incapacità di forgiarlo in una visione artistica solida lo è altrettanto. Non stupisce che LISm risulti così una stilosa fricchettonata radical chic e nemmeno che l’interesse si desti soltanto per gli episodi dove è il ritmo a prendere il centro della scena, magari tinto degli strascichi della wave “suonata” del precedente Dust o di recrudescenze EDM (gli ultimi quattro, ottimi, minuti del viaggio sonico tra breakbreat, basso dubboso à la Galactic Horse, tastierismo post-8bit e una sostanziale voglia di intelligent primi Novanta). (6.1/10) Edoardo Bridda

Ergo Phizmiz - Eleven songs (Care in the community recordings, Novembre 2012) Genere: lo fi pop Ergo Phizmiz è compositore, scrittore, collagista, performer, produttore radio, regista, dunque il classico personaggio a tutto tondo che comunque ci pare ottenere le maggiori attenzioni come musicista. Depositario di una discografia fiume di ispirazione Creative Commons e quindi streammabile a piacere, giunge ora alla seconda prova su supporto materico dopo l’esordio Things to do and made del 2010. E’ facile stabilire le coordinate del nuovo Eleven songs: sono undici canzoni dal gusto pop e lo-fi. Più difficile è stabilire quale sia l’orizzonte pop di Phizmiz, perché il nostro naviga tra l’ispirazione cabarettistica dei Bonzo Dog Doo-Dah Band (e questo è il suo retaggio inglese), le stramberie nineties di Beck, o ancora il Mike Patton di Faith no More e Mr. Bungle. Ne esce una sintesi in forma di canzonette, con chitarrine basculanti tra pop, grunge, Sixties, e quel senso artigianale che da sempre accompagna la discografia di Phizmiz ed è ormai un valore aggiunto. La missione è compiuta: Eleven songs diverte, è buono per un ascolto distratto ma non cede a un orecchio più attento, confermandosi disco per tutte le occasioni manco fosse un Safe as Milk beefheartiano. Okay, non siamo a quei livelli, ma piccoli freaks crescono. (7/10) Stefano Gaz

Eterea Post Bong Band - Bios (Trovarobato, Marzo 2013) Genere: rock-electro Se gli Ultimate Spinach, nel 1967, piazzavano sulla co70

pertina del disco d’esordio l’ortaggio citato nel loro moniker - elemento psichedelico nella concezione, prima che nella connotazione grafica -, la Eterea Post Bong Band elegge invece il cavolo romano a immagine di questo Bios. Nessuna velleità lisergica da associare alla geometrica crucifera, trattasi invece di simbolismo per questioni matematiche riguardanti la serie di Fibonacci e la sezione aurea, quest’ultima richiamata dallo sviluppo spiraliforme del suddetto cavolo (ma anche di un milione di altre cose in ambiti completamente diversi, dalla biologia all’architettura, dall’astronomia alla fisica). Estensione di un concept che coinvolge tutto il lavoro, a partire dai titoli dei brani (dedicati a Fibonacci, ma anche al campione di scacchi Kasparov e al matematico Ramanujan) fino ad arrivare alla musica stessa degli EPBB. Se nella paradigmatica Fibo «ciò che sembrava complesso e cervellotico prima di iniziare, si è subito trasformato in un sentire naturale [..]» e « tutta la struttura si basa su cellule ritmiche di 1-2-3-5-8 (parte della sequenza di Fibonacci, ndr) a diverse velocità», nel resto del disco si indaga il limite tra dimensione micro e macro, tra bios e regole matematiche. La musica interpreta il copione attraverso un meccanicismo razionale, impeccabile e aperto ad ogni possibile stimolo sonoro: il Captain Beefheart post atomico di Homo Siemens tra slide guitar a singhiozzo, sincopati deliranti e fiati in odore di no wave, i Pink Floyd frantumati di Scipstep, i deragliamenti ritmici di Mentina, le aperture spacey-psych-dub dell’iniziale The Rise of Ramanujan su un campionamento tratto dal cortometraggio danese di Jørgen Leth The Perfect Human. L’immaginario richiamato si armonizza perfettamente con l’approccio alla musica cerebrale e deframmentato della band veneta (vengono in mente, per sbuzzo scientifico similare, proprio quegli Uochi Toki con cui i nostri divisero, nel 2007, la paternità de La chiave del 20), un suono in cui l’aspetto ritmico definisce tempi e modi prendendo un po’ sopravvento su tutto il resto. Si parla comunque di un disco assai divertente, con lo spessore concettuale di un teorema algebrico e il surrealismo vaporoso di un film dei fratelli Cohen. (7.2/10) Fabrizio Zampighi

Eternal Zio - Eternal Zio (Boring Machines, Dicembre 2012) Genere: acoustic-psych C’è una combriccola di strani personaggi su nel Nord, persi e spersi tra le nebbie (fumose) a Nord di Milano, rinchiusi intorno ad una sorta di comune fuori tempo massimo, che si diverte un botto a suonare tutto il suo-


In Zaire - White Sun Black Sun (Tannen , Marzo 2013) Genere: afro-psych-kraut-dub È musica cosmica nella sua essenza più intima quella che i quattro In Zaire hanno confezionato in questo atteso esordio lungo. È musica che disegna un intero sistema solare di riferimento sin dai titoli delle sette tracce per lo più strumentali che compongono White Sun Black Sun. Ma è musica cosmica che parte dalla Terra, dalla materialità di un suono atavico, riconoscibile come umano, che ingloba in sé molti degli elementi che considereremmo fondamentali nella condizione umana: percussivismo, primitivismo, ancestralità, richiamo alle origini. In una parola, Africa. Il nome, dopotutto, è più di un indizio e l’Africa evocata, per quanto immaginata, falsata da uno spaesamento ottundente, quasi inventata, è quella che il quartetto di apolidi del rock italiano ha introiettato tra esperienze più o meno dure, più o meno pure, in un blend personale e gustosissimo di dub, afro-beat, blues, funk, psychedelia dura, kraut meno canonico. C’è lo sfasamento violento, destrutturato e devastante del rock “bianco” nelle musiche degli In Zaire, messo però in correlazione, anzi in co-azione, con molto di ciò che, consapevolmente o inconsapevolmente, abbiamo recepito del suono latamente “africano”: le radici nere che stanno dietro il funk e il dub che gonfiano o svuotano alcuni passaggi del disco; l’impatto furente ed estatico del tribalismo psicotropo dei riti voodoo, delle danze sacre o dello sciamanesimo; la deragliante spiritualità dei canti propiziatori o dei riti di iniziazione. White Sun Black Sun è un esordio lungo dalla gestazione difficile per una formazione che però ha fatto di necessità virtù, prendendosi il proprio tempo e crescendo a dismisura con la sana pratica on stage, allargando il proprio sound man mano che inglobava membri e suggestioni - dal duo fondatore Biondetti-De Zan a.k.a. G.I.Joe al primo embrione In Zaire nell’unione con Claudio Rocchetti e infine alla definitiva apertura con l’ingresso della chitarra di Stefano Pilia. Arrivando ad un equilibrio invidiabile tra le pulsioni tribali e gli slanci kraut degli esordi, sottolineati anche dal buon Cope, e una forma di world da intendersi nel senso più ampio e inglobante possibile. Gli orizzonti si sono allargati, lo sguardo è volato verso il cielo, ma i piedi, il cuore, il culo, sono rimasti ben ancorati ad un luogo senza tempo, da cui tutto è partito. (7.5/10) Stefano Pifferi

nabile, in forme e generi vari. Il luogo è Ca’ Blasè e dovrebbe dire molto a chi traffica con le musiche “off” d’Italia e non solo. I personaggi hanno nomi strani, quando li hanno, ma discografie e partecipazioni che cominciano a farsi notare per qualità e quantità. Rella The Woodcutter, ad esempio, il cui ultimo trittico targato Boring Machines è state quanto di più vario e gustoso ci potesse offrire il solo di chitarra. Oppure Maurizio Abate, già col giro Jooklo e Golden Cup ma con molte ottime prove in solo. Poi i misteriosi Raubaus e Valla a completare il quartetto, entrambi coi loro progetti semi-carbonari ma non per questo meno intriganti, sempre sul versante più dilatato e free. Terreno comune dei quattro è l’esperienza Eternal Zio, formazione dal gusto free-psichedelico e dagli umori primitivisti e quasi selvaggi tanta e tale e la foga con la quale il quartetto si abbandona al flusso musicale. Un flusso privo di recinti e costrizioni in cui la musica assume di volta in volta forme diverse e cangianti, mantenendo in

nuce sempre un sostrato ipnotico e al limite del mistico/ pagano. Una sorta di psichedelia dronica ad alto impatto emotivo e spesso in modalità acustica che fa dell’accumulo e della stratificazione ascensionale il suo punto di forza, rievocando esperienze ampie come il minimalismo storico alla Conrad, la dream ed eternal music tutta da La Monte Young a Catherine Christer Hennix, Terry Riley e i corrieri cosmici, l’acoustic-folk più spirituale e i riflussi drone liberatori ed estatici. Una esperienza senza tempo né spazio e che non ha bisogno di dilatazioni eccessive per raggiungere (e farci raggiungere) l’estasi della trascendenza. (7.3/10) Stefano Pifferi

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Fabri Fibra - Guerra e pace (Universal, Febbraio 2013) Genere: Hip Hop Fabri Fibra è uno dei migliori rapper italiani di sempre, nonché un personaggio di assoluto rilievo nel panorama mainstream contemporaneo. Questo nuovo disco, dicotomico fin dal titolo, è incentrato in gran parte sulla contrapposizione di queste due evidenze, che talvolta collimano ma più spesso entrano in collisione, nella sempiterna lotta tra integrità artistica e logiche di mercato. A differenza del precedente Controcultura, che al di là dei singoli tormentone era un’ottima fotografia del tramonto del berlusconismo, Guerra E Pace è un album molto più intimo e riflessivo, a testimonianza di un periodo di transizione, suo e nostro. Un disco non facile, a dire il vero, che cresce - e di molto con il passare degli ascolti. Sebbene il rapping si sia fatto ancora più essenziale, talvolta quasi scarno, ogni singola parola acquista, nell’insieme, un significato più preciso, con le strofe che procedono meno intricate a livello metrico ma con più enfasi sulla singola frase, anche grazie all’ampio utilizzo di enjambement. Gli ultra-tecnicismi però sono centellinati rispetto al passato - ma proprio per questo risultano più funzionali - e sono utilizzati sia per far risaltare alcuni versi rispetto ad altri, sia per creare una sorta di collegamento ipertestuale tra questo e i suoi precedenti lavori. Guerra E Pace è infatti il primo album in cui Fabri Fibra si guarda finalmente indietro, prendendo spunto anche dalle sue primissime uscite indipendenti. È così che Bisogna Scrivere, uno dei brani migliori, è una specie di versione attualizzata degli Uomini di Mare, il gruppo con cui Fabri Fibra è diventato un culto underground sul finire degli anni Novanta. Stavolta però il suono non è semplicemente ispirato agli Outkast, sono proprio gli Organized Noize, il team di produttori dei primi lavori del duo di Atlanta, ad aver confezionato il beat. Il ritornello invece riprende quello di Baudelaire dei Baustelle, qui virato in una dimensione nettamente più esistenziale. E il risultato finale è davvero notevole. C’è anche Neffa - che all’epoca produsse Turbe Giovanili, in una sorta di malcelato passaggio di consegne - a fare capolino in Panico, alle musiche e al ritornello. Il beat a dire il vero è molto “da filastrocca”, lontanissimo dagli standard di una produzione hip hop odierna. Eppure il pezzo funziona, a conferma di quanto Fabri Fibra dia paradossalmente il meglio di sé su basi unhip, basti pensare a quelle che gli fece suo fratello Nesli per Mr. Simpatia. Già, Mr. Simpatia, il suo alter-ego pazzoide, che qui torna a farci visita su A me di te per distruggere il povero Valerio Scanu, in una strofa dai toni torbidi e 72

grandguignoleschi ma dalla ben più ampia portata metaforica. Bruttino invece, sempre per rimanere in ambito mainstream, il ritornello di Elisa in Dagli sbagli si impara: il testo infatti è piuttosto banale e il suo timbro di voce mal si amalgamala alle batterie della 808. Cosa che invece non succede quando Fabri è alle prese con la brostep (o american dubstep che dir si voglia). Personalmente odio il genere - uno come Skrillex ha fatto più danni che altro - eppure due brani come Frank Sinatra e Tutto in un giorno sono davvero potenti, e la voce di Fibra ci si adatta benissimo, proprio a livello timbrico. Buone anche alcune delle tracce più manifestamente hip hop come Voce, Che tempi, e Nemico pubblico, quest’ultima la più potente a livello di rap. Chiudo infine citando la superba La solitudine dei numero uno. Beat di Woodro Skillson e Dot Da Genius - per intenderci il produttore della super-hit Day’n’Night di Kid Cudi -, scratch del veterano Dj Double S e Fabri Fibra che procede per immagini in modalità intimista, con un climax che sfocia in un semi-cantato davvero intenso, anche questo molto alla Uomini di Mare. Insomma, pur con qualche caduta di tono, Guerra E Pace è un album decisamente riuscito: il migliore di Fabri Fibra su major, nonché l’ennesima conferma di un grande talento. (7.2/10) Filippo Papetti

Fast Animals And Slow Kids - Hýbris (Woodworm, Marzo 2013) Genere: punk rock Già ce ne eravamo accorti nel 2011, l’anno dell’esordio Cavalli. Quello che rende i Fast Animals And Slow Kids così accattivanti è la faccia tosta di non dar per scontato niente, guardarti in faccia e sputarti (o darti una carezza). Ci aveva impressionato la freschezza di arrangiamenti ben costruiti, la maturità post-adolescenziale di un punk-rock al peperoncino e l’onestà intellettuale di testi introiettati così come sottili critiche alla società. In una parola, quello che ci aveva toccati era la loro beffarda tracotanza. In greco antico questa parola si traduce hybris. Hybris è proprio il titolo del secondo lavoro dei FASK, con riferimento alla colpa primordiale dell’eroe greco (tragico, per lo più) che, non assecondando il volere divino, finisce nelle meccanizzazioni luttuose del fato. Il concetto di colpa (in una società per lo più interessata alla vergogna) non era molto familiare ai greci. Le nuove tecnologie, il social networking e l’abbattimento delle barriere della privacy ci hanno un po’ riportato a quella forma ancestrale di società, interessata più alla bella faccia, al pudore, che al contenuto del logos.


John Grant - Pale Green Ghosts (Bella Union, Marzo 2013) Genere: songwriting Pale Green Ghosts, secondo disco del songwriter americano John Grant, dopo l’acclamato debut Queen Of Denmark pubblicato nel 2010, esemplifica il lungo cammino percorso fino ad ora dal Nostro, dalla vecchia band dei 90 The Czars, passata molto sotto silenzio, all’incontro fatidico con i Midlake che gli producono l’esordio, ovunque ben accolto, luccicante di cantautorato seventies e non solo: canzoni per piano, con archi e synth, arrangiamenti colti e su tutto una splendida e dolente voce baritonale, ma anche tanta ironia. Pale Green Ghosts, a quasi tre anni di distanza, rappresenta una naturale evoluzione del suo suono, verso territori a lui cari ma che non si sarebbero immediatamente supposti, anche se accenni erano già presenti nel precedente lavoro. Gli anni ‘80 synth-pop e wave, nonché l’amore per l’elettronica di Trentemøller, sono alla base di un album variegato, molto più colorato e dinamico del precedente; non più gli amici Midlake in produzione, bensì l’islandese Birgir Þórarinsson a.k.a. Biggi Veira dei pionieri elettronici GusGus, incontrato nel 2011 durante un festival in Islanda e con il quale aveva iniziato a registrare un paio di brani. Proprio queste registrazioni lo hanno convinto a realizzare lì l’intero disco, nonché a trasferirsi in pianta stabile a Reykjavik. L’album vede anche la presenza di Sinead O’ Connor ai backing vocals, che aveva coverizzato l’anno scorso la title track del debut di Grant, nel suo recente How About I Be Me (And You Be You)? e di numerosi musicisti islandesi, nonché di Mackenzie Smith e Paul Alexander dei Midlake (la sezione ritmica di Vietnam e It Doesnt Matter To Him). Pale Green Ghosts appare come l’album di chi è finalmente sicuro delle sue possibilità espressive, in questo caso la prevalenza della musica da club con cui Grant è cresciuto. Vi si ritrova intatto tutto il suo mondo, nel songwriting intimo e malinconico con cui continua a svelare tanto di se stesso. Rievocazioni del passato con tutto il disagio di crescere in provincia essendo gay in un ambiente familiare religioso, il volersene andare per poter realizzare qualcosa di meglio (Pale Green Ghosts), amori infelici, amicizia (la rievocazione di un caro amico scomparso tragicamente un anno fa in Sensitive New Age Guy) e su tutto il consueto piglio ironico-sarcastico sulla visione della realtà (Black Belt, GMF, Ernest Borgnine, dove parla della sua positività all’HIV) e il sense of humour piuttosto nero. Una reazione neanche troppo dissimulata al suo vissuto abbastanza drammatico. Che si fa qui, ancora una volta, grande musica universale in cui riconoscersi e ritrovarsi, intensa e sdrammatizzante al tempo stesso, nella sua forma ballerina, in cui sentiamo anche il Moog (You Don’t Have To) che tanto ci aveva deliziato in Queen Of Denmark. Synth e dance, ma anche ballate intense e un piano straziante nella conclusiva Glacier, che riporta l’accento sulla forza, la sopravvivenza e l’amore per la vita, nonostante tutto. Una grande lezione di umiltà e di stile da chi in fondo, anche nei periodi più bui, non ha mai totalmente smesso di crederci. Bravissimo. (7.8/10) Teresa Greco

Possiamo solo congetturare che questo sia lo sfondo degli undici capitoli di Hybris, disco carichissimo, dal fiato spezzato, ricco di chitarre mastodontiche alla maniera di uno stoner nostrano. I FASK si sono sostanzialmente emancipati dal capitolo Zen Circus - Teatro degli Orrori che li avrebbe resi delle macchiette alla mercé di un’industria già ben istituzionalizzata. In Hybris spicca la novità dei fiati, lanciati in pasto alle barriere di riff tra Dead Kennedys e Hüsker Dü, Ministri e Fine Before You Came; si lasciano ascoltare i violini salvifici di Bologna Violenta in Maria Antonietta e le percussioni acide di Davide Zolli dei Mojomatics in Troia. Assimilando lezioni di maestri come Raein e La Quiete,

i FASK addolciscono e smussano, laddove possono, la componente hardcore, non rinunciando agli stop and go, ai monumentali riff d’assalto, alle cavalcate corali che certamente, dal vivo, hanno un effetto diverso. Quello che risulta più interessante di Hybris è, al di là del giusto equilibrio negli arrangiamenti (che i FASK padroneggiano come decani del genere), un apparato lirico che si coagula perfettamente nell’irto percorso delle orchestrazioni. La sensazione è che tutto possa esplodere da un momento all’altro (“E lo so che è meglio se esplodo” si urla in A cosa ci serve), eppure è come se il fiato manchi ad ogni brano (“Se solo avessi io più fiato in me..” si sospira 73


in Canzone per un abete, parte II). E allora forse sarebbe meglio fare meno giri di parole e ripiegare sul personale (“Nascondevo a me stesso che cercavo il disastro” in Combattere l’incertezza) o dimostrarsi abili a maneggiare la critica senza risultare pedanti (“Perché il mondo è già troppo grande, una famiglia è già troppo grande: ci abituiamo a fare troppe domande, non ascoltiamo neanche le risposte”). /em (6.8/10) Nino Ciglio

Femina Ridens - Femina Ridens (A Buzz Supreme, Marzo 2013) Genere: folk-cantautorato Ci perdonerà la diretta interessata ma della Lady Violet assurta alle cronache musicali sul finire dei Novanta per una dance commerciale e a quanto pare di buon successo, non ci ricordavamo proprio. Altri tempi, altri ambiti musicali e soprattutto un’altra vita, la nostra ma anche quella della Francesca Messina (classe 1972) che allora si nascondeva dietro il suddetto moniker. Dopo quell’esperienza, durata circa cinque anni, arriva il teatro contemporaneo, una breve parentesi con i La materia strana che frutta pure un Ep (proviene da lì il Massimiliano Lo Sardo presente nei crediti di questo disco) e ora l’esordio da solista come Femina Ridens. Vocalità nervosa, in qualche maniera bambinesca ma anche virtuosa ed estremamente melodica alla maniera di una Carmen Consoli o di una Cristina Donà prima maniera (Relazioni ansiose, Ciò che non hai fatto): questo l’elemento che spicca di più in un lavoro che, comunque, non cerca nessuna facile parentela giocando invece al rialzo. La sostanza è una canzone d’autore personalissima capace di gettare ponti verso tradizioni a prima vista distanti, come l’Alan Sorrenti altezza Aria di Vorrei incontrarti (una cover se possibile ancora più emozionante dell’originale, epidermide fondamentalmente folk svestita degli umori psichedelici) o l’Antonella Ruggiero vagheggiata in Appariscente, il trip-hop basale di Tutto il mio silenzio o, in generale, la migliore tradizione popolare del Sud Italia (presente un po’ in tutto il disco, seppur non in maniera esplicita). Arrangiamenti in gran parte acustici, ridotti all’osso e con un vago sapore etnico - tra gli strumenti ci sono timpano, marranzano, agogò, kalimba, glockenspiel - fanno il resto, costruendo una piccola magia dalla semplicità disarmante e il fascino potente. (7/10) Fabrizio Zampighi

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Fiction - The Big Other (Moshi Moshi, Marzo 2013) Genere: indie pop I Fiction arrivano al debutto su Moshi Moshi dalle retrovie della scena inglese; segnalati dai blogger più attenti ma (per loro fortuna?) estranei alla spasmodica attenzione mediatica inglese, i londinesi sono una lieta sorpresa di questa prima parte di 2013. Le chitarre asciutte direttamente rubate ai Talking Heads si affacciano già nell’opener Parting Gesture e non ci mollano più, tra vocalizzi a-la Wild Beasts, ma senza forzature, e texture organici in cui l’elettronica entra ed esce a piacimento. Il singolone, Big Things, è prodotto da Anthony Rossomando (ex-Dirty Pretty Things) ed è già stato usato da Ford per un TV commercial, essendo in giro da ormai due anni. In base a una sensibilità pop eccentrica ed essenziale, il paragone stilistico/qualitativo con i Metronomy di The English Riviera è senz’altro dovuto, ma anche quello con l’ultimo Gruff Rhys di Hotel Shampoo. Il post-punk ordinato di Careful, le tastierine 80s di Be Clear, le melodie tutte Cure di Museum non lasciano spazio a fraintendimenti: questo primo disco dei Fiction è un manifesto di stile, inconfondibilmente British, in cui la forma è di primaria importanza rispetto alla sostanza. Ciò non vuol dire che le canzoni non ci siano, anzi. La messa a fuoco è però concentrata sul sound, curatissimo e minuzioso, ma soprattutto sulle armonie, mai trasandate o overprodotte. In consolle ci sono infatti James Ford (Klaxons, Arctic Monkyes, Florence & The Machine) e Ash Workman (Summer Camp e Metronomy, appunto). È vero anche che, a due anni di distanza dalla loro miglior canzone, gli inglesi non hanno saputo implementare a dovere il loro catalogo che, giunti fino a questo punto, poteva essere molto più ricco. The Big Other è comunque un ottimo assaggio che, con tutte le referenze del caso, mostra una buona personalità. (6.6/10) Luca Falzetti

Fire! Orchestra - Exit! (Rune Grammofon, Marzo 2013) Genere: free-jazz orchestra Sorta di superband dell’area off scandinava, i Fire! di Mats Gustafsson, Andreas Werliin (batteria per Wildbirds & Peacedrums) e Johan Berthling (basso nei Tape) hanno inanellato una serie di lavori notevoli dando dimostrazione sia di poter giostrare a proprio piacimento nelle (ri)evoluzioni del jazz moderno (free, aperto alle contaminazioni, groovey, ecc.), sia di poter coesistere in una sorta di comune musicale con ospiti


importanti quanto ingombranti. Jim O’Rourke, prima (Unreleased? e il 10” Released) e Oren Ambarchi, poi (In The Mouth A Hand) hanno preparato il terreno e dato più di un indizio sulla concezione musicale del terzetto. Ora Exit! sposta ancora più avanti i paletti, dato che come indica il nome scelto per questa uscita, è una vera e propria orchestra ad essere guidata da Gustafsson & co. Cinque tra trombe e tromboni, sei addirittura i sax (baritoni, bassi, tenori), tre chitarre, altrettanti gli organi, piano ed electronics, quattro i bassi e quattro le batterie. In più, le voci femminili di Miriam Wallentin e Sofia Jernberg, oltre a quella di Emil Svanangen, forniscono le bocche di fuoco per le due parti in cui il lavoro è suddiviso. E dicono esattamente quello che può venire in mente: una visione da big brass band d’antan calata nelle pieghe di un suono “scandinavo” mai domo, sempre groovey, acceso di colori iridescenti, pronto a flirtare ad ogni angolo col soul, col kraut più selvaggio, col funk, con la soundtrack music e altro ancora. In un saliscendi umorale che se nel primo atto è sensuale e suadente, nel secondo si fa sempre più incisivo e minaccioso, tra pieni esaltanti di furore massimalista e vuoti da (quasi) avant-contemporanea. A dimostrazione di ciò che accennavamo sopra, ossia assenza di barriere, apertura e insieme frattura sul noto, disposizione all’invenzione mai banale, coraggio in dosi elefantiache e gusto invidiabile. In una parola, una bomba di disco che mieterà vittime anche al di fuori dei confini di genere. (7.4/10) Stefano Pifferi

Foals - Holy Fire (Transgressive Records, Marzo 2013) Genere: alt pop Diciamo la verità: all’uscita del singolo di lancio Inhaler in molti pensavano ad una svolta nel sound dei Foals e, vista la presenza di Flood (producer del disco assieme ad Alan Moulder), a una consacrazione nello stile dell’arena rock band sulla scia di U2 e, nel recente passato, The Killers (band prodotte dallo stesso Flood). Holy Fire rappresenta un’unione ragionata delle peculiarità dei primi due lavori: troviamo affiancate le intenzioni math-rock di Antidotes dalle ritmiche a presa rapida (My Number) ai passaggi pop più maestosi e d’impatto, frutto di pause e muri sonori di Total Life Forever (si pensi a Milk & Black Spiders, inserto balearic incluso). La band si muove in un territorio (anche troppo) noto, con una produzione che arriva a smussare gli angoli e rimuovere le barriere delle precedenti uscite. Yannis alla voce è più convinto dei propri mezzi e conferisce personalità e un ruolo da protagonista al cantato, arrivando fino ai limiti

del registro vocale. Questo album avrebbe potuto rappresentare il passo decisivo per i Foals. Realisticamente però, è difficile pensare che riarrangiando brani come Cassius o This Orient alla maniera di Holy Fire questi risultino pari o inferiori ad ogni altro inedito contenuto. Se a ciò aggiungiamo che tentando d’uscire dal seminato risultano caricaturali e poco efficaci (Providence sembra uscita dall’ultimo non esaltante Bloc Party), con il drastico calo d’attenzione nel trittico finale non si va oltre alla più che sufficienza. (6.8/10) Andrea Forti

Föllakzoid - II (Sacred Bones, Gennaio 2013) Genere: kraut La Sacred Bones li ha scovati in Cile i Föllakzoid, quartetto dagli interessi variegati con all’interno un architetto, un fotografo e un regista, tutti di stanza a Santiago. II è il primo vero full-lenght dopo un eppì uscito sempre per Sacred bones ed è un passo in avanti gigante per i quattro, forse una delle migliori esecuzioni kraut dell’anno. Sono certamente figli dei Neu! di Hallogallo, i Föllakzoid, e non fanno niente per nasconderlo. Si viaggia sempre a ritmo trance, elettronica kosmische, e le parole chiave rimangono reiterazione/durata/circolarità, dunque sì, kraut in tutto e per tutto. Ma è l’acidità del viaggio a cambiare. Merito di un groove ipnotico, vicinissimo agli amici Moon Duo (9, 99), e di piccoli scarti che, pur in un contesto monolitico, fanno la differenza. Rivers ad esempio, col suo motorik dal sapore tropicale che abbiamo imparato a conoscere grazie i Sao Paulo Underground pur al netto delle componenti avant jazzistiche, ma con un simile effetto saudade. Eppoi la trance logorante di Pulsar, una cavalcata di chitarre-tastiere abrasive e ipnotiche a rischio svenimento, un down da acido che ti sdoppia la vista e ti lascia in balia dell’hangover finale. Un volo compatto e fluido solo in parte accostabile alla kosmische anni ‘00 perché lontano da effusioni softnoise stile Emeralds e interessato invece a pestare sulla ritmica e sul groove. Dunque sedetevi comodi e allacciate le cinture: con i Föllakzoid avete tutti gli ingredienti giusti per staccarvi dal suolo in men che non si dica. (7.3/10) Stefano Gaz

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Low - The Invisible Way (Sub Pop, Marzo 2013) Genere: folk Ti volti indietro e vent’anni non sembrano poi nemmeno questa gran cosa: sono il succedersi degli anni, la vita stessa che scorre come il fiume che a Duluth si allarga, prima di gettarsi nel lago Superiore e creare quel porto che anche il menestrello più noto della città deve aver guardato tante e tante volte. Dopo l’esordio e Long Division, dopo Trust e The Great Destroyer, a Duluth i Low ci sono voluti prepotentemente tornare, a registrare in autarchia assoluta (o quasi) dentro una chiesa vuota. Era C’mon, targato 2011, con un decantato ritorno alle origini. Due anni dopo si cambia scenario: Chicago negli studi dei Wilco, dietro la consolle Jeff Tweedy, alla ricerca di un suono nudo e crudo, ma al contempo emblematico. Il discorso sembra riannodarsi a quello iniziato due anni fa, con lo sguardo non rivolto nostalgicamente indietro ma abbastanza laterale da permettere alla vista periferica di riprendere anche una parte del passato. Passato che per certi versi appare migliore di un presente fatto di guerre e contraddizioni umane che, nonostante si siano scandagliate con tutti gli strumenti della ragione, continuano ad apparire insuperabili. Sul piano musicale, Mimi non ha mai cantato così tante canzoni (cinque su undici) e la chitarra acustica non è mai stata così presente. Eppure la vera pietra angolare del disco è un sentimento di bittersweetness esplicitato al meglio in due brani, diversissimi tra di loro, che omaggiano un gruppo che della lateralità è stato paladino: i Galaxie 500, guarda caso un altro trio. Ascoltate So Blue e Just Make It Stop e poi provate a infilare nel lettore Today: tante le diversità, ma quello spleen fine Ottanta - proprio il periodo di formazione dei Low - ne è cifra determinante. Altrove il tocco Tweedy si sente eccome: le chitarre di Plastic Cup o l’atmosfera di Clarence White. Non c’è nulla di contemporaneo in queste undici tracce, eppure suonano come un disco di oggi. I Low fanno il paio con altri grandi vecchi - con una carriera quasi parallela per durata e numero di dischi - come gli Yo La Tengo (anche loro in uscita in questo scorcio di 2013): fanno dischi come quasi nessuno sa fare al momento, coerenti, profondi, stratificati, curati, ma ancora urgenti nonostante l’età. Vivi, come se la musica avesse concretizzato il sogno più antico del rock: un’eterna giovinezza che non significa assenza di saggezza, ma una ricerca che vale di per sé. (7.6/10) Marco Boscolo

Freewill - Quadrivium (Electronique.it, Dicembre 2012) Genere: downtempo “La memoria. Sacca piena di cianfrusaglie che rotolano fuori per caso e finiscono col meravigliarti, come se non fossi stato tu a raccoglierle, a trasformarle in oggetti preziosi” (Wu Ming). Basterebbe questa citazione per spiegare molto di questo disco. Un lavoro che dalla cartella stampa risulta essere già fuori tempo massimo, perché si rifà esplicitamente a suoni elettronici già storicizzati. Lo iato col presente dichiarato negli intenti è interessante come presa di posizione estetica: la distanza può essere letta sia come critica alla mancanza di innovazione del panorama electro contemporaneo, sia come calembour poetico che utilizza un linguaggio d’altri tempi per cercare di dire qualcosa di nuovo sul now. Il sound dei Freewill piacerà sicuramente a chi ha amato gli ambienti liquidi di Drexciya, la compilation Artificial 76

Intelligence della Warp (luglio 1992), ma anche il d’n’b, la 2 step, l’ambient house e il downtempo di qualità: tutte cose che sono marchiate anni ‘90 e che negli ultimi quattro anni sono tornate e proliferate (Lone, Scuba, Falty DL e molti altri). L’aspetto comunque rilevante è la bontà (leggi classicità/eleganza/inappuntabilità) della produzione. Dici Quadrivium e mai titolo fu più allusivo e pedagogico, una tappa su tutti i mondi elettronici di vent’anni fa, poi incontri la slow motion liquida (Acquarium), il chill-out da club (Crispy Bacon), oppure rimandi al sound G-Stone intriso di influenze jazzy (In the Middle of the Night), d’n’b missato IDM (Strange Lifeforms) o cose più tech (Zero). Dunque suoni d’antan come strumenti usati per comporre tracce equilibrate, senza tempo. Maximiliano ‘Mog’ Faccio e Dario ‘Dax’ Bedin riescono a coniugare il già sentito con il presente in maniera indolore, senza verbosità o inutili sproloqui. Lo stile che ne esce è a tratti sorprendente per longevità dell’ascolto. Il


primo full length della Electronique.it (dopo due altrettanto validi vinili) parla di un made in Italy di qualità. Alla faccia della crisi. (7.2/10) Marco Braggion

Frightened Rabbit - Pedestrian Verse (Atlantic Records, Febbraio 2013) Genere: indie rock Nel nuovo album della band scozzese fila tutto liscio, talmente liscio che arrivati alla fine si fatica a ricordare cosa ci sia capitato nel mezzo. Quindici canzoni prodotte in maniera impeccabile da Leo Abrahams e dalla band stessa, che non riescono però a risultare incisive o memorabili come invece vorrebbero. Nonostante il sound più ricco provi in tutti i modi a tappare le falle di un songwriting che, dopo The Midnight Organ Fight, sembra aver perso brillantezza, il calo di tono di una band arrivata al decennale di attività è forse fisiologico. La svolta però, secondo il frontman Scott Hutchison, sta nel nuovo approccio compositivo (ormai affidato all’intero gruppo) e alla prevalenza di arrangiamenti in major-key rispetto al passato. Insomma, tutti quelli che sembrano gli step necessari per garantire alla band il definitivo salto nelle arene. Almeno in America, dove il populismo “esotico” istigato dai Mumford & Sons sembra aver riacceso una scena folk-country-rock dal mercato mai del tutto saturo. Quello dei Frightened Rabbit è un indie-rock onesto e diretto, che attinge al bisogno da americana e folk, mantiene l’impronta scozzese ma al contempo strizza forte l’occhiolino al pubblico statunitense, patria ormai della band di Selkirk. Il singolo apripista The Woodpile è la tipica composizione che vediamo prevalere in Pedestrian Verse, strumentale in crescendo e chorus a bizzeffe, con pochi rallentamenti (Nitrus Gas) e wall of sound chitarristico a-la Glasvegas, ma anche sprazzi di Twilight Sad. La formula però, con lo scorrere dei brani, sembra essere ripetuta un pò allo sfinimento e, seppur con qualche eccezione (Oil Slick, Housing (In)), il torpore sembra regnare incontrastato. A questo punto della carriera, dopo anche il mezzo fallimento di The Winter of Mixed Drinks, le mosse della band sembrano davvero indicare nella direzione di una storia di stampo Snow Patrol, fatta di pubblicazioni fedeli al marchio di fabbrica ma che difficilmente si sposta da certi predeterminati binari. (5.4/10) Luca Falzetti

Giovanni Truppi - Il mondo è come te lo metti in testa (I Miracoli, Gennaio 2013) Genere: cantautorato sghembo Ascoltare Giovanni Truppi partendo da questo secondo lavoro potrebbe essere un’esperienza fuorviante, perché, nonostante le apparenze, non ci troviamo di fronte all’ennesimo songwriter fai da te partorito dall’indie nostrano. I toni volutamente sgraziati, la sovrabbondanza verbale non sempre rotonda, i riferimenti a un universo circoscritto e fondamentalmente autobiografico non sono frutto di una poetica acerba, bensì il risultato di un’evoluzione. C’era una volta il Truppi dell’esordio C’è un me dentro di me, cantautore ortodosso dalla scrittura solida e di imprinting fondamentalmente jazzmelodico; c’è ora il Truppi di Il mondo è come te lo metti in testa, musicista a metà strada tra punk e cantautorato (ma anche molto di più). Trattasi di liberazione volontaria della parola, di involuzione formale ricercata, di riportare tutto a una base di immediatezza che paradossalmente conceda maggiore spazio alla creatività. E allora via gli arrangiamenti troppo rigidi e largo a chitarra elettrica, batteria (Marco Buccelli) e a qualche sporadico pianoforte, in un quadro surreale, volutamente incasinato e tutto da decifrare. Tanto che il Jonathan Richman citato tra gli ispiratori non ci pare, alla fine, poi così lontano dalla realtà di un musicista che mastica l’ironia senza troppe remore (Come una cacca secca). Oltre la superficie spettinata rimane un ottimo autore di canzoni, anche se non tutto pare perfettamente a fuoco: brani come la filastrocca-title track, Cambio sesso per un po’, Ti voglio bene Sabino e La domenica conquistano per una quadratura riuscita e niente affatto banale; altri come la Quante volte voce e cellulare, I cinesi, Amici nello spazio o Nessuno sembrano mostrare qualche incertezza in più. Fatto salvo che, rispetto all’esordio, si guadagna comunque in energia profusa, ironia e onestà intellettuale percepita, e questo è un dato di fatto. L’equilibrio di un disco come Il mondo è come te lo metti in testa è comunque cosa assai delicata, che si parli di credibilità o di genere musicale frequentato, e il rischio è quello di venir rinchiusi nel giro dell’indie sghembo noto alle cronache più per un immaginario di “costume” che per la musica in sé. Lasciatecelo dire, sarebbe un errore gravissimo, perché di pretenzioso qui non c’è nulla e sotto la scorza ruspante si coglie un’anima da fine compositore. Apprezziamo e non poco, stonature comprese. Il Mondo È Come Te Lo Metti In Testa by Giovanni Truppi (6.9/10) Fabrizio Zampighi

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Micah Gaugh - The Blue Fairy Mermaid Princess (Africantape, Marzo 2013) Genere: avant-jazz La sorpresa, almeno la prima di una lunga serie, è che non ci sono chitarre in un disco targato Africantape. La sorpresa ulteriore è che non solo non se ne sente la mancanza ma, pur muovendosi in ambiti non propriamente rock, la destabilizzazione cui Micah Gaugh sottopone l’ambito musicale di riferimento è straniantissima. Certo, a leggere la storia di questo The Blue Fairy Mermaid Princess - composizioni perse nelle nebbie dei tempi e rielaborate/riassemblate per l’occasione, non senza sforzo, anche da Julien Fernandez - e a vedere chi accompagna questo gigante nero in un viaggio atipico e stortissimo - Kevin Shea alla batteria e Daniel Bodwell al contrabbasso - qualche dubbio viene fugato. Ma la sensazione di alterità, specie nell’uso della voce di Gaugh ma in generale nell’approccio alla composizione, è di sicuro ammirevole. Inoltre, sorpresa nelle sorprese, scoprire che questo emerito (quasi) sconosciuto non solo è un artista a tutto tondo - compone, canta, suona il piano e il sax alto e tenore, ma anche dipinge, scrive e agita il sottobosco newyorchese più arty&avant - ma in realtà lo abbiamo incontrato già in uno di capisaldi della musica di fine millennio: quegli Storm & Stress cui apparteneva proprio Shea (e a cui prestava di tanto in tanto la sua opera Bodwell) e a cui Gaugh donava, all’altezza dell’esordio omonimo, un suo solo di piano e voce in Micah Gaugh Sings All Is All, per poi ripetersi in Under Thunder And Fluorescent Light con When My Lady Comes in combutta col contrabbasso di Bodwell. Ora la storia sembra ripetersi, ma è Gaugh a tirare le fila e gli (quasi)ex Storm & Stress lo aiutano in un album di (ehm)jazz a 360° caleidoscopico e screziato, progettato intorno a “love songs of desire and reflection” in cui convivono tante anime quante sono le tracce qui presenti: una musica onnivora, fagocitante l’intero scibile jazzistico (giocate anche voi a trovare le citazioni/riproposizioni sparse qua e là), ma capace di reinterpretarlo ora sotto le forme impro-scatafasciose dei compari (Cat Club Tree House, Cigarette), ora con un senso maudit di strada (l’apolide deragliamento di El Mar Rojo) bruciante di un soul marcito e devastato, malinconico come un abbandono (You And Me And Me) e sofferto come un canto da esiliato dell’amore (Girl). The Blue Fairy Mermaid Princess è un canto alieno e alienato, una prova da outsider eccellente e, decisamente, ciò che si richiede ad un lavoro del genere in tempi di sovraffollamento appiattito: sorprendere e stupire. Missione compiuta. (7.5/10) Stefano Pifferi

Giuliano Clerico - La diva del cinemino (Autoprodotto, Marzo 2013) Genere: country, blues Dopo Percorsi paralleli e Il costruttore di meccaniche sognanti, Giuliano Clerico torna con La diva del cinemino, album che continua il percorso di cantautorato rigorosamente autoprodotto cominciato dagli altri due. Clerico prosegue sui binari della forma canzone tradizionale, con echi e rimandi ai nostri anni 70, ma con in più un ben radicato immaginario americano, un po’ come se, nel migliore dei mondi, Cash e Steve Earle incontrassero Dalla e De Gregori lungo la Route 66. Il risultato sono dieci canzoni di polveroso country-blues in cui il musicista, senza prendersi troppo sul serio, si racconta a colpi di acustica, armonica e massiccia autoironia, come nell’iniziale Barbara, dove Clerico fa subito mostra della sua verve scanzonata e fuori dagli schemi. Alla Bonnie e Clyde è un buon esempio di quel cantau78

torato immerso fino alle punte nella gloriosa lezione dei country men (Cash, per l’appunto, ma non mancano anche riferimenti dylaniani), mentre Il prodotto, con l’attacco elettrificato e il cantato sbilenco a metà strada tra un Bennato e un Brunori, riporta alle radici del rock-blues, a cui si aggiunge sul finale il tocco del synth. L’atmosfera generale del disco - a dispetto di un titolo che potrebbe far pensare a un piccolo mondo antico tutto nostrano, ma che, come spiega lui stesso, “è il mondo della mediocrità e dei “falsi positivi” “- è quella di canzoni nate dalla penna di un moderno menestrello, un nomade dei nostri giorni che, tra un’osteria e una stazione di servizio, osserva e descrive l’umanità con occhio beffardo e serena indifferenza, lontano dai tormenti dell’amor perduto che dopo l’avvento di Battisti hanno influenzato (talvolta fin troppo) intere generazioni di cantautori. E anche se il resto continua con episodi acustici contaminati qua e là dalla presenza del piano


(La concubina) o del mellotron e della tromba (Stabile 44), nel complesso La diva del cinemino è un album che rimane comunque molto personale. (7.1/10) Giulia Antelli

Granturismo - Caulonia Limbo Ya Ya (Brutture Moderne, Marzo 2013) Genere: garage, italiana Quello della Repubblica rossa di Caulonia è uno dei più incredibili e sconosciuti risvolti di storia d’Italia: a Caulonia, in Calabria, i primi giorni di marzo del ‘45 il Sindaco, un insegnante di nome Pasquale Cavallaro iscritto al PCI, guida una rivolta contro i proprietari terrieri decisi a non rinunciare ai privilegi del latifondismo gattopardesco. Una bandiera rossa con falce e martello viene issata sul campanile della chiesa, il PCI viene avvertito e in soli cinque giorni, tra violenze, stupri e cariche di mitra, la notizia raggiunge le orecchie di uno Stalin che si limita ad affermare “Ci vorrebbe un Cavallaro per ogni città”. Claudio Cavallaro, dal 2007 frontman dei Granturismo, è un lontano parente del Pasquale rosso di Caulonia e prende in prestito le fascinazioni di quell’evento storico per registrare un disco in soli cinque giorni e aderire, filosoficamente, alla velocità bizzarra di quanto accadde in quel paese della Calabria. Dovessimo descrivere Caulonia Limbo Ya Ya in poche parole, diremmo che è un disco feroce, di sudata raffinatezza, tagli sulla tela del suono, tra blues, rock’n’roll e psichedelia. I testi raccontano storie di provincia, di amore, di tensioni e pulsioni. Se Domenica si perde in accenni retorici che abbassano il tono, pezzi come Vieni a dormire con me, Distanza, Non essere visti si fregiano di un’immediatezza positiva e pop non facile da reperire. La formula è vincente perché, oggi, unica in Italia: dalle chitarre e dall’ardore di Cavallaro e dei suoi compagni emerge una rabbia rock felicemente irrisolta, una vitalità rara che ci viene donata a gran velocità, come se fosse una danza, un momento di affanno luminoso, di pacifica irrequietezza, lontano dall’odore stantio di certo neo-cantautorato nato già vecchio. (7/10) Giulia Cavaliere

Grave Babies - Crusher (Hardly Art, Febbraio 2013) Genere: post-punk Strana creatura i Grave Babies, mutanti cresciuti nel sottosuolo mangiando brandelli di alternative anni ‘90 (Over and Under Ground), scarti di lavorazione industrial e soprattutto post punk, amalgamando il tutto con afflato

dark wave (Death March) e melodie synth pop affogate in liquami low-fi (No Fear). Rispetto all’esordio, l’Ep Gothdammit, il suono si è fatto oggi più cattivo e instabile, gli arrangiamenti più vari e personali, le atmosfere più contaminate. Il risultato è una specie di zombie neoromantico lercio nei suoni ma evocativo nello spiccato lirismo neo-ottantiano, qualcosa di ampiamente codificato eppure ancora parzialmente inafferrabile, deformato dal contrasto tra romanticismo e brutalità, psicotico e a suo modo glamour, come può esserlo la testa di maiale impalata nella bella copertina di questo Crusher, della quale è opportuno notare anche l’uso un po’ hipster di caratteri in stile black metal. La band di Seattle (Seattle, con tutto ciò che ne consegue) ha la capacità di aggiungere un’ulteriore eppure personale lettura delle tendenze scure e decadenti che risalendo dai Joy Division passano per Sisters of Mercy e Jesus and Mary Chain (Skulls), fino a raggiungere Editors (Counts Cuts) e The Horrors. La chiave interpretativa sta qui nelle dissonanze e nelle slabbrature noise-punk, negli enormi riverberi che impastano la voce del caposquadra Danny Wahlfeldt, nelle batterie garage-elettroniche, nelle armonie goticheggianti e nella ballabilità, ora depravata e sincopata, ora mid tempo e sinuosa (Slaughter). Oggi più che mai, lo spleen di provenienza new wave abbandona i florilegi da cattedrale gotica e la malinconia notturna per affondare in suburbie drogate, dove tra le ombre create da fredde luci artificiali transitano disadattati, novelli freaks cinici e inquieti. (7.2/10) Antonio Laudazi

High Highs - Open Season (Fine Time, Febbraio 2013) Genere: dream pop / folk Australiani ma ormai ufficialmente adottati da Brooklyn, i tre (attualmente due) High Highs riescono finalmente a pubblicare l’album di debutto - intitolato Open Season dopo aver iniziato a suonare insieme ormai cinque anni fa ed essersi fatti notare con l’omonimo bell’EP nel 2011. Non c’è nulla di troppo complesso nella musica dei High Highs, è l’impatto emozionale che deve superare le barriere della struttura compositiva: tappeti di tastiere settate in modalità dream, arpeggi di chitarra e una vocalità mellifua arricchita da un praticamente perenne effetto echo. Già dall’iniziale e strumentale Dey è facile percepire una sensazione di grande tranquillità, un elogio alla calma e alle armonie ariose: l’ascolto di Open Season si può infatti accostare al rimanere a letto per ore senza aver 79


puntato la sveglia, a metà tra sogno e realtà, con un filo di luce che entra dalla finestra. E’ la primavera che lentamente si fa largo tra il letargo invernale. Di base stiamo parlando di dream pop, ma Jack Milas e Oli Chang hanno fatto propria sia la lezione folkish dei Fleet Foxes e dei loro falsetti corali (si veda Once Around The House e l’ottima Pines), sia i paesaggi emotional-bedroom di Perfume Genius o Gem Club (Il piano sul finale di Bridge riporta alla mente anche il primo Youth Lagoon). Melodicamente la ricerca è soprattutto funzionale, ed è un bene, considerate le vette che vengono raggiunte in brani come Slow it Down o Phone Call (probabilmente il brano di più facile assimilazione). Convincono anche le sequenze di note di Open Season e Flowers Bloom - entrambe già presenti tra le quattro tracce dell’EP - la prima ritmata e catchy, la seconda impreziosita da impasti ambientronici che potrebbero erroneamente far pensare al Diamond Mine di King Creosote+Jon Hopkins.Difficilmente troveremo Open Season nelle classifiche di fine anno, semplicemente perchè tutto pare molto controllato e privo delle caratteristiche tipiche degli album destinati a rimanere, ma è comunque un ascolto piacevole quanto universalmente riappacificante. Consigliato. (6.9/10) Riccardo Zagaglia

How To Destroy Angels - Welcome Oblivion (Columbia Records, Marzo 2013) Genere: post-industrial È curioso che l’uscita del primo LP degli How To Destroy Angels sia in qualche modo disinnescata dalla concomitante notizia del ritorno dei Nine Inch Nails con una formazione di lusso, che vede tra i protagonisti nomi illustri come Adrian Belew ed Eric Avery dei Jane’s Addiction. In qualche modo, è come se gli HTDA venissero retrocessi immediatamente da progetto principale - o da nuovo sbocco creativo - a semplice side project. Scrivendo di An Omen pochi mesi fa, avevamo sottolineato come si trattasse di un lavoro di transizione, che lasciava aperte diverse soluzioni. Da un lato una canzone elettronica più lineare, dall’altro una sorta di trip hop o trance pop più magnetico e circolare intossicato da scorie industrial, e infine materiale più sperimentale. Le stesse linee guida sono presenti anche in Welcome Oblivion, dove vince il filone di mezzo: il primo è ben rappresentato dal pop soul di How Long o dal synth pop elegante di Strings and Attractors, il terzo è lasciato in disparte, se non per intrusioni e sfumature, e a prevalere è proprio quel tipo di costruzione ipnotica, uno sviluppo quasi per loop 80

di “canzone” - che procede cioè per frasi melodiche reiterate piuttosto che nella consueta forma strofa/ ritornello/strofa. Chiamato a dare un senso compiuto al discorso, l’album raccoglie una cospicua parte di quanto seminato in precedenza, riproponendo brani già noti come Keep It Together, Ice Age (che rimane il pezzo più insolito), On The Wing e The Loop Closes e combinandoli alle atmosfere più minacciose della title-track e di Too Late All Gone, che richiamano alla mente i Nine Inch Nails. Il paragone è ineludibile: i suoni sono un po’ smussati ma portano indubbiamente la firma di Reznor, anche per la cura con cui sono confezionati. In attesa di un futuro con chissà quali incognite, preferiamo il taglio compositivo più morbido degli How To Destroy Angels rispetto alle ultime prove, poco convincenti, con la vecchia sigla. (7/10) Tommaso Iannini

Il Sindaco - Il Sindaco (Picicca Dischi, Marzo 2013) Genere: pop, italiana Eppure c’è stato un momento in cui non eravamo circondati. Un momento in cui la canzone d’autore, in Italia, sembrava non esistere più e per ascoltarla era necessario cercare tra i testi delle grandi band (Marlene Kuntz, Afterhours, Scisma e altre ancora). Adesso invece è come se fosse stato inserito il pilota automatico e le proposte arrivano una dietro l’altra, in corsa, spesso lasciandosi indietro o non servendosi affatto di alcuna chiave originale. Picicca Dischi ha in mano il dominio di quest’unicum linguistico che guida i nuovi autori italiani “indie” di successo: dopo Brunori Sas e la recente esplosione di Dimartino, ci propone Il Sindaco, moniker dietro cui si cela un Fabio Dondelli che dopo anni a capo dei bravi Annie Hall, fa il salto e passa alla lingua italiana. Spiace dirlo ma la formula parte stanca e il risultato, specie in termini di scrittura dei testi, non convince. Se musicalmente non è difficile imbattersi in momenti interessanti (Cose di casa, La vigilia di Santa Lucia) la poetica, che vorrebbe navigare nel mare delle piccole cose quotidiane, dei momenti di vita, d’amore, d’assenza, non riesce a imporsi, a stabilire una linea profonda e, soprattutto, a solcare con forza quell’italianità bellissima da “vecchio” cantautore a cui sembra aspirare con passione. Certi che un determinato pubblico di affezionati all’etichetta e a questa linea di cantautorato potrà apprezzare questo primo progetto solista di Dondelli, a noi rimane comunque qualche dubbio: chi scrive ha sempre ritenu-


to ottimo il lavoro in inglese degli Annie Hall e sarebbe bello vedere anche Il Sindaco crescere un po’ in termini di scrittura. (6/10) Giulia Cavaliere

gli altri (effetto-suite che in modo diverso abbiamo visto anche su Coexist). C’entra e non c’entra, ma in quanto a personalità uno come The Weeknd questi qua se li mangia a colazione. (6.2/10) Gabriele Marino

Inc. - No World (4AD, Febbraio 2013) Genere: post-r ’n’b

Johnny Marr - The Messenger (Warner I losangelini Andrew e Daniel Aged, già session men per Music Group, Febbraio 2013) una pletora di artisti piazzatissimi e di lusso come 50 Genere: brit rock Cent, Elton John addirittura, Beck nientemeno e tutta una cricca al centro della scena mainstream r’n’b tipo Pharrell, Raphael Saadiq, Cee-Lo, Heavy D e Robin Thicke, un 7” white label in 500 copie nel 2010 (ancora a nome Teen Inc.), il singolo Swear su 4AD e il conseguente EP 3 con dentro la hit dai sapori tardi 80s Millionaires l’anno successivo, arrivano adesso al debutto lungo sempre su 4AD, presentato dal singolo-manifesto The Place. Ed è qualcosa come l’anello mancante tra gli XX di Jamie - ma forse soprattutto di Romy Madley Croft e Oliver Sim - e le tendenze variamente nu-soul che negli ultimi anni hanno dominato culminando con l’exploit - e la riappropriazione della faccenda sul versante black e massimalista, tra tanti bianchi e tanto minimalismo - di Frank Ocean. O meglio, la sovrapposizione/sublimazione delle due cose. Da una parte il look, le atmosfere arty vagamente dark/ wavy, la produzione minimal giocata su piccoli tocchi e arpeggi superbasici (Black Wings, profumata anni 90 dalla testa ai piedi), dall’altra languidi sussurrati vocal di ascendenza funkysoul e una battuta 4/4 tutto fuorché dubstep-like (ma che pure metabolizza i cascami cantautorali - leggi James Blake - post-dubstep, nel gioco dei vuoti e nella scelta di una palette organica, legnosa e in silhouette, niente plastica insomma; in odore UK bassy solo certi passaggi di Desert Rose War Prayer e il charleston trappy di Careful). L’expertise è fuori discussione, anche perché i pezzi citati (o una 5 Days) sono perfetti a un passo dall’irritante (vedere anche il furbo quasi-autorifacimento di Lifetime), ma il tutto ha troppo il sapore di uno scientifico tirare le somme giocato di ruffianeria e in risparmio. Quando i due fratelli mettono il pilota automatico e si va di cliché e microcosmesi produttiva a scapito della scrittura, della canzone, la trasparenza/volatilità che incombe per la costante sensazione di dejavù trasforma i materiali in pur fichissima tappezzeria da negozi sotto saldi, cosa evidente da metà scaletta in avanti (dall’intermezzo riempitivo Your Tears, che fa il paio con la chiusa strumentale jazzy Nariah’s Song). I pezzi cominciano a somigliare sempre troppo a qualcos’altro e a somigliarsi troppo gli uni con

Non si esce vivi dagli anni ‘80, soprattutto se sei stato parte di una delle band che quel decennio lo hanno, letteralmente, fatto. L’altra metà degli Smiths lo ha sempre saputo bene, altrimenti perché cercare a tutti i costi di dissimularsi, di essere qualcos’altro per tutto questo tempo? No, non poteva certo essere un caso se, tutte le volte - tantissime - che abbiamo visto spuntare il suo nome tra i credits di qualche disco (Electronic, The The, Modest Mouse, Cribs tanto per dire quelli che saltano più all’occhio) stentavi a riconoscere quella chitarra, cercavi affannosamente quella personalità finché ti persuadevi, ogni volta, che era persino inutile riporre qualsiasi speranza di ritrovarle. Tutto ciò laddove invece qualcun altro ha cercato disperatamente di ricreare da solo quella magia. E questo, immaginiamo, non avrà reso la questione più facile. Insomma, ci sono voluti venticinque anni perché Johnny Marr tornasse ad essere Johnny Marr. Chiamatela, se vi va, una lenta, lentissima elaborazione del lutto; ché anche se la storia, si narra, finì con lui che sbatteva la porta, facile immaginare il prezzo da pagare per tale scelta. Non vi stupisca la lettura psicanalitica che facciamo di questo The Messenger: è lo stesso godlike genius (onorificenza di cui lo insignisce per l’occasione NME) a confessare serenamente di aver voluto fare un disco a beneficio e consumo esclusivo dei suoi fan. Cioè dei fan degli Smiths. Finalmente. Senti European Me e la immagini su Meat Is Murder; parte I Want The Heartbeat e dici Sweet And Tender Hooligan, e poi cosa non è New Town Velocity se non There Is A Light That Never Goes Out ripensata per i giorni nostri? E poi in Generate Generate riecco gli arpeggi, le trame, le stratificazioni, i suoni .. senti la Jaguar, la Rickenbacker, la 335 ... una cosa è certa: per i feticisti della chitarra marriana questo disco non può che essere il top. O, giusto per scoprire l’acqua calda: la cosa più vicina a un disco degli Smiths che potrete mai avere in mano. Ovviamente, tutto ciò non può e non deve bastare. Che se è vero che le prime idee per questo disco sono germogliate in seguito alla rimasterizzazione del gloriosissimo catalogo da parte del Nostro (toh!), e che nel disco fa 81


My Bloody Valentine - mbv (Self Released, Febbraio 2013) Genere: shoegaze Loveless abitava tutti i livelli del senso, contemporaneamente. Era imprendibile perché qualsiasi manciata - ­alla cieca o mirata - raccoglieva qualcosa, ma mai tutto quanto il prendibile. mbv abita un livello alla volta, di quel senso musicale. mbv è quasi trasparente per approccio e processo, un libro aperto, e questa è la più grande novità dell’opera terza, sulla lunga durata, dei My Bloody Valentine, dopo ventidue anni e qualche mese di attesa. Mbv sembra il secondo disco della sigla MBV, quello che non è mai esistito, tra Isn’t Anything e Loveless. Queste le prime impressioni. Non avrei mai voluto vestire i panni di Kevin Shields, nel produrre qualcosa di presentabile dopo uno dei dischi più importanti ­e di certo uno dei più straordinariamente innovativi degli anni Novanta. Immagino la morsa dell’aspettativa percepita, dei fanismi sfrenati ma anche della propria pesantissima coscienza. Se a una persona tutti quanti dicono che ha fatto un capolavoro inarrivabile, è dura non iniziare a correre e scappare, avventare qualche scusa o fare qualcosa di completamente diverso (non so, delle colonne sonore). La complessità psicologica del personaggio si fa più difficile da cogliere. Cosa lo ha spinto a finire quello che più volte ha dichiarato di esser sul punto di finire? Va premesso che ci rivolgiamo al solo Shields come responsabile di mbv perché, se questa è oggi una band, lo è soprattutto dal vivo, ma non nella fase di creazione, come peraltro già citato nel nostro articolo sulla parabola My Bloody nel giorno della ristampa di tutto il materiale pregresso. Il portato d’innovazione incrementale tra le uscite dei Valentines era tale da uscire dal paradigma, e andare in quello rivoluzionario, come si fa nel gergo economico. Tra il pur eccezionale Isn’t Anything e Loveless il passo fu enorme. Così, a ritroso, tra i primi EP e il primo LP. Ora, come se la vita fosse una progressione logica, ci si aspettava un’altra iper-evoluzione. Ecco il primo punto paradossale: non ci si poteva aspettare innovazione da Kevin Shields. Frase che da sé fa presagire come volgerà la recensione. Anzitutto, la sua figura rappresenta bene ciò che intendiamo. Lo guardiamo oggi e lo vediamo una copia straniante di quello che era allora, quando aveva vent’anni di meno. E poi ci immaginiamo che Kevin, vedendosi di giorno in giorno, allo specchio, non si sia accorto del cambiamento dato dal tempo, ogni giorno per l’appunto liminale, e che semplicemente non avesse interesse a cambiare. Si è sempre visto come nel novembre 2001. mbv ci fa capire col senno di poi che da chi ha portato una così grande innovazione nella musica popolare non si può pretendere di generarne un’altra. Non è una regola aurea, ma statisticamente costante, realizziamo oggi. Ieri il cuore oltre l’ostacolo toccava a Shields e soci, ora a qualcun altro. Kevin, nei rumours dei mesi scorsi, usava dire che chi sentiva il materiale del nuovo disco sosteneva che assomigliasse a Loveless, e quello all’autore bastava. She Found Now dà inizio a mbv proprio come se proseguisse qualcosa. È di una sostanza sospesa, un brano da viaggio di ritorno (come Sometimes, di Loveless) che dichiaratamente presenta il disco in un modo completamente diverso rispetto alle assertive Soft As Snow (prima traccia di Isn’t Anything) e Only Shallow (il decollo del secondo album). Only Tomorrow promuove quell’approccio e innesta in mbv una ripetizione ipnotica, interna ai brani. Kevin ci accompagna verso un allineamento con quello che ha in testa, quella turbina chitarristica. Forse lo fa così, nel 2013, perché ha la possibilità, grazie alla tecnologia, di farci esperire quello che percepisce lui, quei suoni singoli finalmente come li pensa. Suoni poderosi, che nella classicità shoegaze necessitavano di accumulazione di livelli (come spiega, in quattro e quattro otto, nel miniclip di presentazione del documentario Beautiful Noise), mentre oggi sono sufficienti le proprietà della strumentazione e della produzione a margine e intorno alle Fender Jaguar. Per arrivare al risultato di Loveless, i Valentines avevano bisogno, vent’anni fa, di instaurare con la tecnologia un approccio compositivo. Di accumulare campioni ed elettroniche. Di stratificare di livelli, che andavano, per così dire, orchestrati, sovrapposti con una teoria e una pratica che divenne la quintessenza del capolavoro. Ora la tecnologia permette di raggiungere quella trascendenza lavorando su uno strumento isolato: ­confrontate gli esseri più strani degli ultimi due album, Touched e Is This And Yes, e sentirete questa differenza. Il lavorio ora è tornato a essere produttivo, più che compositivo. Ora Shields può scrivere delle roboanti per quanto celestiali pop song (New You). Sono canzoni che

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potenzialmente potrebbero perdurare all’infinito - e sono adatte a essere allungate a dismisura, come succedeva a quelle di Loveless nelle leggendarie per quanto rare occasioni live immediatamente successive alla pubblicazione del secondo album. Proprio i brani che concludono, che a primo ascolto sembrano i più innovativi, ci parlano invece di un discorso possibile dell’evoluzione da Loveless a “Loveless parte seconda”. Wonder 2 è un picco difficilmente raggiungibile da altri menti musicali attualmente in corso. Epperò ci sentiamo le possibilità di iperspazio solo a fronte del decollo di Loveless. Ci sentiamo in un certo senso quello che aspettavamo ardentemente a­ nche perché, qualche anno dopo Loveless, Kevin dichiarava già di stare lavorando su una materia musicale con ritmo da giungla (ed ecco a cosa si riferiva). Ciò che si sperava arrivasse e ci riportasse in un luogo inesplorato, mbv lo fa sul chiudere. La disposizione dei brani racconta una strana storia, per così dire, che combatte l’ansia di emancipazione. Possiamo seguirla e giudicarla, oppure estrometterci e lasciarci trasportare da queste nuove occasioni di levitazione. (7.7/10) Gaspare Caliri

pure una comparsata il basso di Andy Rourke, c’è - vivaddio - dell’altro. The Right Thing Right, Upstarts, The Crack Up, Lockdown e Word Starts Attack sono esattamente il genere di riff e di schegge uptempo che Johnny ha suonato sui palchi di mezzo mondo insieme ai più giovani compari Modest Mouse e Cribs, laddove Say Demesne e la title track si avventurano nel campo della ballad senza sprofondare nel melenso. Non è poco, se consideriamo che è la prima volta in cui Marr si cimenta, da solo, nella scrittura (lo scialbo disco degli Healers del 2003 non conta, in quanto ennesima dissimulazione collettiva); pur restando nella sostanza un chitarrista prestato al songwriting e al canto - un po’ come Lee Ranaldo -, il suo tentativo di fare un disco brit-rock alla Paul Weller, Noel Gallagher o anche il recente Richard Hawley supera ogni aspettativa. Di gran lunga. Johnny è vivo. Viva Johnny. (P.S. sì, siamo riusciti a scrivere questa recensione senza nominare neanche una volta quel signore col ciuffo. Full streaming sul canale Youtube dell’artista). (7.3/10) Antonio PancamoPuglia

Julia Kent - Character (Leaf, Marzo 2013) Genere: contemporanea Se si è scomodata la Leaf (in roster, tra i tanti, anche il Murcof di Cosmos) per pubblicare il terzo disco della canadese Julia Kent un motivo ci sarà. Certo è che Character rappresenta, rispetto ai precedenti Delay e Green And Grey, un po’ la consacrazione di uno stile e la dimostrazione di una maturità compositiva giunta infine a compimento. La sostanza del discorso è sempre il violoncello della Antony And The Johnsons, in un multi-layering campio-

nato che mescola contributi ritmici e fraseggi ottenuti percuotendo, pizzicando e suonando con l’archetto lo strumento. Tutto rimane nei limiti dell’indagine introspettiva frutto di una sensibilità già messa in mostra in passato, quando ci si interessava alla transitorietà dell’essere umano in un esordio che intitolava ogni brano a un aeroporto o al rapporto tra suoni organici e sintetici nel disco successivo. In Character tuttavia, gli stimoli si mescolano e vanno oltre. Ne esce una musica più fluida, personale e credibile, come se la didattica classica legata allo strumento avesse lasciato il posto a una tensione emotiva che, non solo non teme i picchi improvvisi, ma li cerca coscientemente. E’ il caso delle inquietudini ambientali di una Kingdom che gioca con gli echo e i suoni gravi o magari dei saliscendi fluttuanti di una magnetica Tourbillon (di nome e di fatto). Il droning lentissimo nell’iniziale Ebb, i pizzicati che si inseguono in Transportation contrastando certe malinconie soffuse di stampo accademico, i crescendo minimal-marziali su contributi sintetici di Intent: la Kent di Character tende costantemente all’azzardo pur con tutti i limiti formali auto-imposti, suonando creativa e avventurosa anche quando si tratta di stemperare le tensioni nella conclusiva Nina And Oscar. Per un disco che rappresenta in assoluto il passo più sicuro fatto fino ad ora dalla musicista di stanza a New York. Character by Julia Kent (7.2/10) Fabrizio Zampighi

K-X-P - II (Melodic UK, Febbraio 2013) Genere: kraut-pop Timo Kaukolampi torna con la formula K-X-P, a due anni e mezzo dall’esordio self-titled. Non sposta molto, 83


a partire dalla copertina, una versione al neon per non astigmatici del primo disco con il moniker a tre lettere. Dalla cover ai brani, Timo mantiene il timone, e cerca di dare volume e di aggregare ulteriore classe vintage alla produzione K-X-P. Di fatto cerca di decollare ma è a terra che vuole stare, Kaukolampi. È il mondo terreno delle lande europee metà Ottanta che lo attira, quello che del beat faceva non tanto ossatura di uno sviluppo cosmico ma legittimazione del passaggio tra synth tedeschi degli Ottanta (in generale mitteleuropei, non solo Kraftwerk ma anche Ultravox) e synth pop, per poi dire al massimo “space disco”. Quando Kaukolampi allestisce un motorik (che ha il pregio space in Staring At The Moon), non si fida della propria progressione - non almeno fino in fondo, senza inframmezzare - e volge l’altra guancia al refrain con vocoder lontano. L’output è un pop che scivola apprezzabilmente sul tiro ballabile di Magnetic North, con tentativo di radicarsi alle escrescenze post-kraute che popolarono l’Europa nel periodo dopo punk. L’outcome è una produzione che tiene la scena finché suona, ma che non va a bussare alla spalla di chi ha già assorbito II per fare crescere il disco con i successivi ascolti. Timo punzecchia i più esigenti citando nel ritaglio di una manciata di secondi Morton Subotnick (EKMVIV), in inframmezzo, come si confà a chi sta dicendo tra le righe perché non può o non vuole farlo a chiare lettere. Lo stesso processo di camouflage funziona con Vangelis (Tears (Extended Interludes)), ma evidentemente è meno difficile da decriptare. E ha posizione centrale nell’album. A questo punto, meglio la cassa dritta di Easy (Infinity Waits), senza aspettare, di getto, e senza termini mediani. Anche qui, se guardiamo bene, dietro le quinte troviamo la New York mutante della Zé. È questa capacità di occludere la visione completa del passato che ci affascina di K-X-P. Non basterà a lungo, probabilmente. (6.7/10) Gaspare Caliri

Karl Bartos - Off The Record (Bureau-b, Marzo 2013) Genere: Technopop Dovessimo attenerci alla versione dei vincitori, la storia ogni storia - sarebbe anche sin troppo semplice. In certi casi non sarebbe neppure veritiera: che i Kraftwerk fossero solo Ralf und Florian è affermazione doppiamente inesatta, anzitutto perché così non è (con buona pace di Herr Hutter, oggi unico superstite a portare in giro il glorioso marchio) e poi perché a definire non vincitori Wolf84

gang Flur e Karl Bartos, che completarono la formazione nel periodo che va da Radioactivity a Electric Café fino al 1990, ce ne vuole. Ci sia concessa la terribile banalità: dell’uomo macchina il percussionista e melodista Bartos rappresentava il cuore pulsante, e il modo in cui ha gestito la propria carriera e figura tanto all’interno della band quanto al di fuori (fondando nei ‘90 gli Electric Music e poi collaborando con gli Electronic di Bernard Sumner e Johnny Marr e con gli OMD) parla da sé. Se poi è vero che queste dodici nuove composizioni sono basate su “appunti di viaggio” del suo periodo kraftwerkiano, ovvero si tratta melodie, ritmi, idee e arrangiamenti tenuti in un cassetto per trent’anni o poco più, la nostra convinzione non può che rafforzarsi. L’apripista Atomium è classico stile The Man Machine, e non ditemi che Rhytmus non è Computer World, laddove in International Velvet ci ricorda che dobbiamo ringraziarlo se abbiamo avuto gli Air, in Hausmusik i Depeche Mode di Vince Clarke e in Without A Trace Of Emotion i New Order (anche se qui c’è plausibile reciprocità); e sentire certi suoni in Musica Ex Machina e Vox Humana. Il tutto nostalgico (ma non troppo) e a suo modo moderno, con una sensibilità che poco ha a che fare con il modernariato e più con una ricerca sonico melodica che pare non essersi mai arrestata. Technopop classico e godibilissimo, fatto da chi lo ha inventato: scusate se è poco. (6.8/10) Antonio PancamoPuglia

Langhorne Slim - The Way We Move (Ramseur, Marzo 2013) Genere: folk rock Il quarto lavoro di Langhorne Slim è uscito lo scorso anno ma non aveva trovato finora distribuzione nel nostro Paese (ci pensa oggi la benemerita Goodfellas). La redazione di SA, attonita, si scusa di non averne dato neanche notizia. Il sottoscritto se ne dispiace con enfasi particolare, visto che in pratica ha tenuto a battesimo il buon Sean Scolnick su queste pagine, seguendone puntualmente i successivi sviluppi. Alla luce dei quali a dirla tutta si è un po’ raffreddato l’entusiasmo iniziale, soprattutto quando in occasione della fatidica opera terza Be Se Free fu evidente una certa standardizzazione della proposta. Correva l’anno 2009. Tre anni dopo, giugno 2012, The Way We Move vede il nostro smilzo alle prese con le macerie di una relazione naufragata e la voglia di spalmare la frenesia su un tessuto sonoro più strutturato, ferma restando l’impostazione roots di partenza (c’è pur sempre Malachi DeLorenzo alla batteria, figlio della “femmina violenta” Victor, ed è una specie di garanzia


d’origine). Attorno alla consueta formazione a tre ruotano quindi violini e fiati a corroborare la proposta, che sfarfalla mariachi (l’allegria agrodolce di Wild Soul) e s’inturgidisce soul (una On The Attack come potrebbe una jam in purgatorio tra Otis Redding e Levon Helm), che sprimaccia malinconia con discrezione Lambchop (Song For Sid) e palpita tra emulsioni sintetiche come una nipotina dello Springsteen più tenero (Coffe Cups). Tutte variazioni su temi ben noti che hanno senso solo se ti ci giochi un bel po’ di cuore, se dietro all’equilibrio ed al mestiere senti il lezzo delle cose vere (si ascoltino le reminiscenze naif di Fire), un coinvolgimento spirituale che non sia solo posa (le pensose palpitazioni di Salvation). Ingredienti che non mancano, al netto di un po’ di pantomima, quella stessa che determina gli spasmi arrembanti (una Great Divide al retrogusto Grant Lee Buffalo, la title track), le malinconie a rotta di collo (Bad Luck, Two Crooked Hearts, il country errebì con memorie elvisiane di Found My Heart) o di contro la poetica del front-porch come scenario di tutte le residue speranze (Someday). Quattro anni fa chiudevo la recensione di Be Set Free sostenendo che quello che credevamo un indemoniato forse, ahinoi, era solo un buon diavolo. Nel frattempo credo di avere cambiato opinione sui buoni diavoli: sono loro, in fondo, i più adatti a guardare la vita dritto negli occhi. (7.2/10) Stefano Solventi

Lapalux - Nostalchic (Brainfeeder, Marzo 2013) Genere: wonky, glitch, rnb Il primo album di Lapalux non punta alto come dovrebbe ma prosegue con grande, grandissima, classe il discorso di cesello inaugurato dai due EP Brainfeeder, dopo due prove d’esordio - se non carbonare poco ci manca - acerbe ma vitali, propositivamente imperfette, all’insegna di un wonky sporchissimo di sperimentazione ritmico-timbrica ma con le antenne già drizzate verso un sottofondo arty che lì era ancora fusion e qui si toglie la maschera scoprendosi proprio lounge music (Swallowing Smoke). Sulle coordinate dell’adesso venticinquenne Stuart Howard valga quanto già detto qualche mese fa, ovvero: nu-black liofilizzata e tagliata glitch & wonky in chiave intimista. Come da moniker, il ragazzo è generoso e sciorina con una abilità costruttiva degna del miglior Dimlite (il fascinoso agglutinarsi di forme di The Dead Sea) tutta la sua palette di toni catchy anni Dieci: lavoro sulle voci (l’autotune liquefatto del singolo Guuurl; il crooning ap-

pena sussurrato di Walking Worlds), black variamente declinata (l’r’n’b languido e rarefatto di One Thing e Dance; il trip hop come forse lo farebbe Burial di Straight Over My Head), sperimentazioni electroniche (inguantate di fighettume, come nel morbido cazzeggiare wonky & glitch di Flower), manipolazioni jazz (l’arrabbattarsi percussivo, i synthini untissimi e le voci Aphex/Windowlicker di Kelly Brook; la coda space - siamo in casa FlyLo del resto - della già citata The Dead Sea). Accentuando in tutto questo la dialettica con l’ingombrante James Blake, se Without You, con la voce mimetica della brava Kerry Leatham ne è uno splendido apocrifo, ancora una volta - Some Other Time - con le orecchie puntate verso The Weeknd. Ecco: se in quanto a expertise siamo su livelli di artigianato laptopistico molecolare - artigianato che si fa arte - per quanto, comunque, la ruffianeria del pacchetto non sia poi troppo lontana dall’allarme rosso che scatta per gli Inc., rispetto a un Blake manca l’autoralità. E con questo non intendiamo la cifra, ma proprio le canzoni. Vedremo se questo punto interesserà o meno a Howard in futuro. Intanto, goloso e impeccabile, a Nostalchic si può fare un solo appunto: gli manca quel pizzico di incisività che questa volta non ci regala (esageriamo?) un Dark Side of the Moon - o della bignamizzazione, della cartadaparatizzazione - del continuum glitch-wonky. Ma per quello, anche come numeri, c’è già Flume (assia più di grana grossa come trama). Vedere la copertina: Lapalux trasforma gli schizzi, le schegge, le stringhe, i coriandoli traslucidi del glitch e gli acciaccamenti, gli schiacciamenti, le increspature, le squadrature, le non-quadrature del wonky in glitter, paillettes e pieghe sinuose. E viceversa. Lo fa bene, anzi benissimo. (7.3/10) Gabriele Marino

Latyrx - Disconnection (Quannum Projects, Novembre 2012) Genere: Hip hop Con enorme piacere mi ritrovo a parlare, dopo una piccola pausa di undici anni (!), di una delle migliori combo del rap della Bay Area, autrice di quel The Album che personalmente inserisco da sempre in ogni mia ipotetica playlist da isola deserta. I Latyrx, fusione à la Toriyama dei due eccellenti Lateef e Lyrics Born, sono tra gli iniziatori dell’avventura chiamata Quannum Projects (ai tempi si chiamavano Solesides), collettivo e soprattutto etichetta che fa capo a Dj Shadow. La formazione, caratterizzata da una straordinaria capacità di coniugare i rispettivi stili, si è tuttavia fatta desiderare parecchio pur 85


non disdegnando piccolissime e sporadiche apparizioni su vari dischi (anche se di rado insieme e a nome Latyrx). Il ritorno era dunque atteso da parecchi dei fan della strana coppia californiana. Si nota subito un relativo abbandono della storica ideologia non scritta della Quannum, ossia prendere elementi della classicità e attualizzarli in una formula personalissima (è questo che hanno fatto i primi dischi di Dj Shadow, o dei Blackalicious o, appunto, dei Latyrx), in favore di sonorità più moderne, in maniera simile a quello che è successo nel tragico percorso artistico di Shadow. Il pasticciaccio rallentato ed electro di The Beast, martoriato da un inutile autotune, parla abbastanza chiaro, così come i synth non proprio originalissimi della opener Gorgeous spirits. I due sembrano invece tornare alle atmosfere di The Album, arricchendo beat relativamente scarni e orientati ai soli basso (grassissimo) e batteria, con scambi fulminei del microfono (viene da chiedersi se i Latyrx siano stati o meno fan dei Beastie Boys) in brani più minimali come Call to arms e It’s Time. Da intenditori l’autoreferenzialità di Out of my mind, che nel finale tira di nuovo fuori il procedimento di far cantare entrambi i rappers all’unisono sul beat fondendoli tra loro, proprio come succedeva nella famosa Latyrx (forse il brano migliore di quel disco) che apriva The Album, anche se quell’intermezzo al sapor di jungle lascia il tempo che trova, specie nel 2013. Non del tutto convincente infine, soprattutto per il flow a cui costringe i due mc’s, Rushin Attack, orientata a dei breakbeat eighties che obbligano il duo a un rap piuttosto datato. In sostanza, si tratta di un EP che non ci consegna i Latyrx al pieno del loro potenziale, soprattutto nel reparto beat e affini, ma per lo meno non registra cali imprevisti nell’arte di assemblare rime e metriche. Resta solo da vedere che direzione prenderà il previsto The Second Album, sperando che arrivi tra meno di altri undici anni! (6.7/10) Sebastian Procaccini

Le1f - Fly Zone (Greedhead, Gennaio 2013) Genere: avant-rap Con l’alternative arrivato ormai saturo alle soglie del mainstream, il trend ormai palese dell’ultimo anno e mezzo è quello di uno show business diventato home made grazie alle nuove tecnologie e agli strumenti social. Partendo da Kreayshawn (finita sotto Columbia) fino a Iggy Azalea e Brooke Candy - a dimostrazione di un’industria dell’intrattenimento musicale sempre più in cortocircuito - è l’underground a brillare di nuove star del pop, quelle per cui non contano le charts o le heavy rotations imposte dall’alto, ma le visualizzazioni 86

youtube e le condivisioni “giuste” su facebook. La rete si popola così di video queer patinati, pieni di riferimenti esplicitamente sessuali e all’insegna di quel consumismo - pubblicitario, subliminale - ostentato che i noughties del benessere - pre crisi - ci avevano insegnato a disprezzare. In un micro cosmo di rapping al femminile, il newyorkese Khalif Diouf in arte Le1f ne è a pieno diritto il corrispettivo maschile, ovviamente gay. Nonostante ciò Diouf è il primo a dissociarsi dagli stereotipi homo hop, dichiarando che sebbene ci sia una comunità di artisti apertamente omosessuali, il “gay rap” non è da considerarsi un genere. I suoi testi infatti trattano temi sessuali - giustamente dal punto di vista omo - come ogni altro tema, senza tentare di trasformarli necessariamente in un punto di forza o di popolarità. Le sue ambizioni vanno ben oltre, ciò che preme al giovane newyorkese è fondere tanto sensibilità avant-rap quanto orientamento commerciale e orecchiabilità. Cresciuto con il balletto, Dizzee Rascal, M.I.A. e già produttore dagli anni del liceo, dopo Dark York e la collaborazione con l’oscuro Boody in Liquid EP nel 2012, Diouf se ne esce con il mixtape giusto al momento giusto. Tredici differenti produttori per tredici basi cloud da far invidia ad A$AP Rocky pur senza scomodare nomi ormai divenuti altisonanti come Clams Casino. Si parte con le atmosfere - appunto - fluttuanti di Float e ogni traccia si rivela sostanzialmente un singolo, ballabile e adatto a qualsiasi occasione, dal dj set più movimentato alla cameretta. Forse sarebbe giusto avere un occhio di riguardo per Spa Day (prodotta da HarryB) e Cloud So Loud (DJ Blood Everywhere), ma il tutto è un concentrato di beat, cadenze che esprimono il linguaggio del corpo, ballo e il suo eccentrico intento di sentirsi - tramite Fly Zone - “una ninfomane che fa sesso con la foresta”, lasciandosi alle spalle lo slime urbano di Dark York. Fly Zone è la chiara esemplificazione musicale dei nostri giorni, con più produttori che collaborano - magari arrivando dai luoghi più diversi e distanti - alla realizzazione di un mixtape, nell’unico progetto Le1f. Un album totalmente free e via web che dà credibilità artistica a un’attitudine all’insegna di una musica d’avanguardia e uno show business con tanta voglia di rinnovarsi, partendo da esigenze nuove e fresche ambizioni spesso parallele. Ulteriore sintomo di una rivoluzione che parte dal basso e dagli angoli più remoti della rete; nuovi orizzonti che porteranno a nuove esperienze musicali e culturali, almeno fino alle prossime - e ormai brevissime - fasi congiunturali. (7.4/10) Davide Nespoli


Locked Groove - Heritage (Hotflush Recordings, Febbraio 2013) Genere: techno deepness Quel geniaccio di Paul Rose / Scuba spara cartucce marchiate Hotflush (di cui è il boss) sempre più potenti e mirate. Dopo la techno celebrale ed alienata del Sigha di Living With Ghosts, il producer introduce sulla lunga distanza un altro giovanissimo producer, il belga Tim Van de Meutter in arte Locked Groove. Dopo i 3 EP del 2012 (Rooted, Keep It Simple, Different Paths), Van de Meutter si presenta coerente con il sound del suo mentore abbracciandone influenze e fascinazioni. Il doppio 12’’ Heritage riprende le idee di Personality (Ignition Key e July i brani più calcati) applicandovi i tocchi personali del caso. Se Scuba proveniva da un’anticamera dubstep con vani abitabili tra ambient e new age, Locked Groove gioca sia sul canonico 4/4 sia su sintetiche che aprono al pop post-glo (Do It Away) o alla trance (Dream Within a Dream) o viceversa. A parte la parentesi cine-techno (l’umbratile e carpenteriana Lost) il cuore del sound è comunque una deepness da epoca d’oro dell’House, con i tipici snares ma senza prosopopee, tra citazioni dell’immancabile Trax (Nighttime At The Garage in odor di Tony Humphries?) alla TRIBAL America (Deep Dish) e dunque basso roland, groove lisci e balearica (Firewall). Sei tracce. Sei bei brani sospesi tra ritmo e rilascio melodico con Wear It Well candidata a suonatissima della primavera 2013. Proprio una bella promessa Van De Meutter. (7.2/10) Mirko Carera

Lusine - The Waiting Room (Ghostly International, Febbraio 2013) Genere: downtempo Terzo LP - in una discografia per il resto assai nutrita di uscite su breve e media distanza - a nome Lusine per Jeff McIlwain, accasato da dieci anni su Ghostly International. Disco atemporalmente concentrato su una downtempo placida - in certi momenti anche troppo, diremmo stiracchiata, On the Telegraph - asciutta e sicuramente ben tornita (la semplicità e la pulizia da manuale di Lucky e First Call), che vira pop - e tinge di minime sfumature house, February - le proprie radici electro, smezzato tra strumentali programmatici fin dai titoli (l’apertura panoramica del pezzo omonimo) e pezzi cantati (dalla moglie del produttore Sarah; Get the Message, Without a Plan). Atemporale e per questo mai irritante, ma innocuo sì. Nessuna non diciamo sorpresa ma neppure nessun guizzo, nessun infiammamento (per quanto pure si pigi

sul pedale di un pathos a questo punto mai veramente ascensionale), in dieci pezzi che scivolano appunto come musica da sala d’attesa - solo un paio si smarcano da questa formula e dalla generale solarità/pastellosità dei toni, particolarmente l’incalzante rincorrersi di Stratus - e che non spostano nulla e forse nulla avrebbero spostato anche fossero usciti dieci anni fa. (6.1/10) Gabriele Marino

Mani Pulite - Mani Pulite (20100 Records, Gennaio 2013) Genere: Hip Hop Tra le tante motivazioni para-sociologiche per cui il rap italiano è uno dei generi musicali più seguiti e diffusi tra i teenager del nostro paese, c’è il fatto che oramai il rap è un genere musicale eminentemente transmediale, ossia nasce quasi direttamente per andare su video. Se poi ci mettiamo il fatto che è Youtube, non più l’iPod, lo strumento con cui la maggior parte degli utenti si avvicina alla musica, il gioco è fatto: meglio ascoltare una canzone con un video sotto, che non un’immagine fissa di copertina. Accennato il problema, che apre ampi orizzonti di riflessione, non solo per quanto riguarda il rap italiano, meglio andare subito al sodo: i Mani Pulite hanno sfruttato questa situazione in maniera grandiosa, con un progetto che non sarebbe mai potuto risultare così d’impatto, senza la commistione ibrida di suono e immagini che caratterizza la fruizione della musica popolare oggi. L’idea di partenza è semplice quanto efficace: i Mani Pulite sono un gruppo di mc’s travestiti da personaggi della Prima Repubblica, con tutti i tic e le pose tipiche dei gangsta-rapper americani. È così che per uno strano detournement ci ritroviamo ad ascoltare le storie di affari e criminalità di gente come B.O.B.O. Cracksy, Leech O’ Jelly, Busy Nani, Micheal Sin Donuts, Bobby Cal-V, Frank Co’ Sigar, Don Vito Jangymeeno, Silvio B. e tanti altri, nell’impersonificazione trasfigurata dei personaggi più loschi ed ambigui degli ultimi cinquant’anni di storia italiana. Un video come quello del singolo Bussanti (lo vedete qui sotto) è in questo senso emblematico: vederli ballare e muovere la testa tutti assieme, pur nell’ambigua consapevolezza che si tratti di pura finzione - i travestimenti infatti sono spartani e posticci - è inquietante e sinistro, perché sorge il dubbio che in un certo senso, questo goffo balletto, per quanto improbabile, possa essere accaduto davvero, perlomeno nella sua valenza metaforica. Il resto dell’album è stato prodotto e progettato con la medesima perizia, ma non sempre il risultato è così d’im87


patto: vuoi perché non tutti i componenti della crew sono sullo stesso livello di B.O.B.O. Craksy, autentico mattatore del gruppo, nonché mc davvero talentuoso; e vuoi perché l’argomento di alcuni brani è un tantino inefficace, poiché fuori asse rispetto al nucleo comunicativo centrale - Funk Italia, Love Bot, Fisco Music e forse anche Sig.ra Solitudine. Nonostante ciò Mani Pulite è un progetto promosso a pieni voti, potente anche nel paratesto: con le mazzette da cinquantamila lire mandate in allegato alla cartella stampa e i video-skit per pubblicizzare i concerti. Un ultima cosa: non perdetevi la strofa di Silvio B. nel secondo singolo Cattedrali nel deserto. Cribbio! (7/10) Filippo Papetti

Marcello Milanese - Goodnight To The Bucket (Helleluja, Dicembre 2012) Genere: blues Marcello Milanese torna a meno di due anni da quel Like A Wolf In A Chicken Shack che ai tempi lodammo per le preziose passioni filologiche in ambito blues. Goodnight To The Bucket riconferma le naturali inclinazioni del Nostro verso la musica del Diavolo, declinando la tradizione nelle sue forme più rurali e ancestrali. L’obiettivo è mantenerne l’immediatezza e affidarsi a un songwriting da “buona la prima”, come conferma un lavoro ruspante registrato in poco più di due ore e senza sovraincisioni di sorta. Del resto il blues è anche questo, lo si voglia o no, e Milanese ne è consapevole. A dimostrazione, un campionario di strumenti che conta bottle neck guitar - una “Helleluja H1” auto-costruita dal musicista stesso, quella ritratta in copertina - su accordature aperte, stomp box e voce. Un armamentario più che sufficiente per chi in testa ha il Delta del Mississippi ma vive in Piemonte, tra waitsiane I’d Change The Word e certe Friday Mood abili a creare ponti con i numi titolari del genere. Questi ultimi omaggiati dal gospel della Ain’t No Grave di Claude Ely, da Come On In My Kitchen di Robert Johnson e dalla Mississippi Jailhouse Groan di Rube Lacy, brani che come datazione arrivano al massimo al 1934 sottolineando ancora una volta il legame profondo con le radici. Milanese ha dentro la provincia italiana e presumibilmente non le spara grosse come Big Bill Broonzy, eppure porta a termine il lavoro con un’onestà intellettuale da appassionato che non può passare inosservata. (6.7/10) Fabrizio Zampighi

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Marta Sui Tubi - Cinque, la luna e le spine (BMG, Febbraio 2013) Genere: avant pop Dieci anni di Marta Sui Tubi in progress, da impetuoso duo folk etnico e arty a quintetto fautore d’un rock alternativo sfaccettato. Una parabola in bilico tra consuetudine e peculiarità (emblematica la formazione: voce, chitarra, batteria, organo e violoncello) condotta con evidente voglia di rendersi visibili oltre il compartimento stagno ed il ristagno del cosiddetto indie (vedi la collaborazione con Lucio Dalla ed il mancato duetto sanremese con Anna Oxa, per non scordare i Primo Maggio e la Woodstock 5 Stelle...). Una fame comprensibile, più che legittima, che lungo la strada li ha portati a mediare quel talento furibondo e imprevedibile in qualcosa di più mediato, un po’ meno votato alle irrequietezze tentacolari (convertito semmai in stralunata raffinatezza) e sempre più disposto a votarsi anema e core alle istanze della melodia. L’approdo di questo percorso sembra coincidere con i due pezzi presentati a Sanremo 2013, l’arguta Dispari e quella Vorrei che sembra una versione tridimensionale (cioè con l’additivo della sostanza) dei Negramaro. Però i due marsalesi (e compagni) sembrano avere capito il rischio dell’istituzionalizzazione e conseguente cul de sac, difatti il resto del programma del qui presente quinto album propone alcune interessanti novità. A partire da un utilizzo pregnante anche se mai invasivo dell’elettronica, che comporta palpabili venature wave come ne I nostri segreti e soprattutto Il collezionista di vizi (dove avverti inquietudini noir à la dEUS ed apprensioni futuriste Tears For Fears altezza Pale Shelter). E’ una brezza riformista che carezza un po’ tutti gli episodi, dal cantautorato psych con strascichi progressive de Il primo volo (qualcosa del lirismo Dave Matthews Band) all’esplosione funky (roba da primi RHCP) che sconquassa il blues sardonico di Tre, passando per Vagabond Home (primo cimento assoluto in inglese, folk prog favolistico e inquieto à la Peter Hammill) e una Maledettamente bene che sfodera misticanza di stili, sincopi, sussulti e agnizioni melodiche mantecata di escandescenze elettrosintetiche. Se il lato più retrivo non demorde in La ladra - ballad acustica a base di archi e didattica esistenziale, roba che sanno fare bene ma in cui avverti chiaro il retrogusto del mestiere - la sintesi più azzeccata di prontezza e prospettiva coincide con quella Grandine che cucina suggestioni intense e resinose, un bel bordone di violoncello ed il talkin’ che snocciola uno dei loro testi migliori (“perché è sempre seducente chi può farci del male/perché è sempre seducente chi vuol farsi del male”, e poi “la speranza è una risposta vaga a una domanda sfocata/ (...) una tana scavata in fretta mentre lasci il tuo odore nel naso del tuo


predatore”). Se da queste parti può esistere una zona franca tra mainstream e “alternativa”, i Marta sui Tubi stanno provando a farne parte. Non senza merito. (7.1/10) Stefano Solventi

Mogwai - Les Revenants (Rock Action, Febbraio 2013) Genere: post-rock, ambient L’idea che la maggior parte dei lavori post-rock possano rappresentare colonne sonore ideali ha trovato riscontri pratici in una gamma enorme di rappresentazioni, da pellicole mute (Il Fuoco dei Giardini Di Mirò) a quelle da sala (il film Friday Night Lights con musiche a firma Explosions In The Sky). I Mogwai, arrivati alla terza sonorizzazione - le precedenti sono il lungometraggio Zidane, A 21st Century Portrait e l’esecuzione della soundtrack di The Fountain a firma Clint Mansell -, si spostano dal grande al piccolo schermo per la serie tv d’oltralpe The Revenants, con musiche composte ad hoc prima del girato seguendo una generica indicazione tematica sugli zombie proposta dagli autori. Il risultato di questo lavoro ha poi creato il mood sul quale lavorare per la vera e propria sceneggiatura. Le quattordici tracce del disco sono episodi melliflui su linee melodiche portanti di piano e synth, accompagnate da leggere percussioni e talvolta da soffici carillon di xilofoni (Hungry Face, Portugal). Il tutto è sospeso in una tensione che non sfocia mai nel climax di distorsioni a cui la band ci ha sempre più abituati nel corso della sua evoluzione discografica. Esecuzioni che ricordano da lontano - se non altro per la forma canzone - Happy Songs For Happy People pur non contenendo la stessa sostanza, con una portante malinconica spesso tramutata in angoscia (Jaguar, This Messiah Needs Watching). Les Revenants è un disco che non cattura l’attenzione, se non inquadrando ogni brano nel contesto visuale per il quale è stato creato. Il materiale non regge il confronto, in termini di spessore, né con le uscite passate degli scozzesi (meno di mestiere rispetto a questa), né con precedenti illustri come potrebbe essere un lynchiano Twin Peaks: confrontato al tema di Angelo Badalamenti, Hungry Face conserva il medesimo panorama algido ma non la stessa capacità di straniamento. (5.7/10) Andrea Forti

Nick Cave and The Bad Seeds - Push the Sky Away (, Febbraio 2013) Genere: Songwriting blues Cinque anni fa Dig, Lazarus, Dig!!! ci esplose nelle orecchie lo scabro vitalismo mutuato dal side project Grinderman, sensazioni positive al netto del retrogusto di mestiere, un giocare col proprio mito che dopo trent’anni di carriera in fondo ci poteva stare. Era un lavoro abbastanza impetuoso quello da farti credere che l’abbandono di Blixa Bargeld fosse una ferita ormai cicatrizzata, coi semi cattivi stretti a pugno come sempre attorno al carismatico Re Inchiostro. Al qui presente Push The Sky Away toccava un compito forse ancora più arduo, sopperire cioè alla dipartita di Mick Harvey, forse il principale responsabile del suono Bad Seeds fin dalla loro fondazione. Missione sostanzialmente compiuta, seppure in virtù di una strategia ben diversa. Confermato Nick Launay in cabina di regia (in sella ormai dai tempi di Nocturama) e ripescato dalla preistoria il bassista Barry Adamson, non sorprende che Cave abbia eletto a ruolo di alter ego sonico quel Warren Ellis che da anni ormai lo accompagna in ogni progetto. Risultato: il quindicesimo titolo di Nick Cave And The Bad Seeds è un rosario bluesy e cinematico, lo spirito ispido che ruggisce sotto la flemma insidiosa, un fuoco basso d’irrequietezza contenuto da arrangiamenti raccolti, persino suadenti, talora sigillati da interventi elettronici ben metabolizzati nella trama d’archi, chitarre e percussioni. Ti sorprendi a ripensare agli U2 del sogno americano/ eniano in Wide Lovely Eyes (palpitazioni tiepide di tastiera, brusii gospel, chitarra stropicciata), o all’indolenza di un Dave Gahan alle prese con languori Black Heart Procession in Mermaids. Altrove prevalgono il retaggio atmosferico ed il fall out post-rock di stampo Dirty Three (Water’s Edge, We Real Cool), mentre Jubilee Street e Higgs Boson Blues lasciano che il blues avvampi senza che però venga meno una compostezza fascinosa e a dirla tutta un po’ snervante, quella stessa dettata già in apertura dalla pacata inquietudine di We No Who U R. Verrebbe da inserire questo disco nel novero dei lavori più riflessivi come The Good Son, Murder Ballads o il già citato Nocturama, ma di quelli non possiede il taglio crooneristico, la voglia d’inserirsi nel solco della tradizione canzonettistica maudit. Sembra semmai il Cave sinistro e lucido dissacratore che per calcolo o maturità sceglie l’assedio all’assalto, l’ibridazione stilistica alla sferzata elettrica, un minaccioso distacco all’invettiva torva e lacerante. Riuscendo a dribblare la prevedibilità senza minimamente rinnegarsi. Strategia che rende credibili la proposta ed il suo autore in questi anni Dieci 89


sempre più terreno di conquista per le vecchie, gloriose canaglie del rock. (7/10) Stefano Solventi

Nosaj Thing - Home (Innovative Leisure, Gennaio 2013) Genere: Domestic Beats Sono passati due anni dal’ultimo lavoro di Jason Chung. Una pausa notevole, ma non sorprendente, per quel sottobosco di web producer più propensi a subire i trend piuttosto che a guidarli. Nosaj Thing era emerso sulla scia del glitch hop proponendosi come un’alternativa tra l’astrazione jazzistica di Flying Lotus e il populismo da American Apparel di un Baths. In Drift, Jason, esibiva una produzione estremamente curata unita a semplici line melodiche ed un profondo senso di intimità. Con Home si continua a seguire la scia Flying Lotus. Abbandonato il glitch hop si guarda alle sonorità più mature di Until the Quite Comes. Questa volta ai bassi ed alle ritmiche spezzate, alle influenze Hip Hop in generale, si predilgono i pad e le atmosfere che spesso ricordano una via di mezzo tra Domotic, Clams Casino e oOoOO. Oltre agli artisti di riferimento resta il grande pregio di Nosaj Thing: il suo apparire come un dilettante estremamente talentuoso. Chung è un musicista più interessato a comunicare idee musicali che a dialogare con altri artisti o a inserirsi in un trend. Il prendere in prestisto determinati generi e grammatiche, per Jason, è determinato tanto dalla loro prossimità geografica e temporale quanto dalla necessità pragmatica di dover dare una struttura alla sua profonda vita emotiva per riuscire a comunicarla. La situazione è simile al ragazzino che si mette a strimpellare la chitarra solo perché è il primo strumento che ha trovato in casa e non tanto per imitare le rockstar. Tracce come Safe, Prelude e Distance con la loro semplicità compositiva mettono in mostra a pieno la complessa sensibilità che vi sta alle spalle insieme alla loro capacità di ricompensare anche gli ascolti più attenti. Il singolo Eclipse/Blue, con la voce di Kazu Makino dei Blonde Redhead è la perla dell’album: malinconica, struggente, intima e incalzante, fa mostra di un’urgenza ed un’eleganza eccezionali. Se Home fosse stato tagliato interamente dalla stessa stoffa di Eclipse/Blue se ne potrebbe già parlare come di uno dei dischi dell’anno. Purtroppo il resto del lavoro mostra spesso un Jason incapace di sostenere questa intensità preferendo, purtroppo, di ritirarsi su terreni già esplorati come nella beat oriented Snap o nel DnB improvvisato di Light #3. Home ci lascia l’impressione di essere un album che si è andato a scontrare con 90

una profonda mancanza di idee a metà dell’opera. Per quanto sia ricca e sofisticata, la vita interiore di un artista spesso non basta a fornire abbastanza materiale per un intero LP, specie se la sua idea ruota completamente intorno all’intimità della casa. (6.8/10) Antonio Cuccu

Om’Mas Keith - City Pulse (Sel Released, Gennaio 2013) Genere: black / 80s Per godere al meglio di questo attesissimo perché lungamente lavorato debutto solista di Om’Mas Keith (in mezzo produzioni per altri e tra queste ovviamente lo strapremiato Frank Ocean, sicuramente la molla di furbizia che ha fatto uscire il disco adesso) bisogna mettersi comodi e metabolizzare i suoni lucidi e plasticosi (ma mai né unti né grassi) a cui l’uomo ha piegato i modi Sa-Ra per rendere al meglio uno spirito sopra le righe che in ultima analisi è divertitamente pimpissimo (ricordiamo quando intercettatolo su Facebook ormai 3 anni fa aveva scambiato il sottoscritto per una Gabrielle e ci aveva praticamente provato, con frasi di sicuro effetto tipo “è per hot chicks come voi che lavoriamo e mandiamo avanti la baracca”). Om’Mas riprende e rimpingua i materiali dell’EP Uh Oh It’s Love del 2011 (che non ci aveva convinto proprio) per dare forma a un concept d’amore che suggerisce l’omologia donna/città in senso speleologico: I want to explore you (nel gioiellino quasi-titletrack e quasimusichall Pulse of the City). Prince è IL riferimento, fin dalle svisate chitarristiche della opener Slow Motion, tra drum-machine anni Ottanta e autotune post-Kanye che sono gli estremi dello spettro dentro al quale Om’Mas si muove, tutto attraversato da una vena freak che non può non ricordare gli eccessi kitsch di Rick James e che, quando arriva la tamarrata, trasforma lo storcimento di naso in sorriso. Tra abbocchi funkysoul post-disco, i tipici saliscendi vocali (magari girati addirittura alla Sam Sparro, U Know I Want You) e le tipiche miniature del trio d’origine (All 4 You, con Erykah Badu), electro hi-nrg da colonna sonora tv (All Alone with You) e ballad (You Are The Only One), il disco va preso tutto assieme e con la leggerezza tutta d’un fiato che richiede e merita. In ogni caso, troppo pop per essere davvero freak, troppo freak per essere davvero pop. E in tutto ciò: ma il famoso Black Fuzz dei Sa-Ra che doveva uscire su GOOD Music? City Pulse è stato pubblicato il 31 gennaio come free streaming sul sito di Rolling Stone USA e in free down-


load sul sito di Om’Mas, con tanto di ricco corredo di strumentali e a cappella. (6.8/10) Gabriele Marino

Paletti - Ergo Sum (Foolica, Marzo 2013) Genere: pop-cantautorato Bassista e cantante nei notevoli The R’s, Pietro Paletti arriva al disco d’esordio dopo l’EP Dominus pubblicato a gennaio 2012. La scusa per la deviazione solista è un cantautorato piuttosto trasversale, moderno nel senso di contaminato (più o meno alla maniera di un Edipo), con tanto di retroterra stilistico ben riconoscibile ma non troppo ingombrante. Tra synth, sezione ritmica solida e tiratissima (ottimo il lavoro in fase di produzione di Sergio Maggioni) e chitarre elettriche, spunta Franco Battiato nell’iniziale Cambiamento, si annusa il reggae su certe batterie fisiche in Portami Via (i Clash non sono poi così lontani), si dialoga tra Max Gazzé e Battisti in Senza volersi bene. Sempre consapevoli del fatto che i rimandi servono a indirizzare la scrittura, non a soffocare l’inventiva, una massima resa esplicita dal rock sintetico (e addomesticato) di Mi son scordato di me, dai riferimenti al suono della band madre in Angelina e dall’iniziale pianoforte e voce di Fantasmi. Paletti è bravo, soprattutto a giocare con certe derive pop irresistibili ma intelligenti, con un fattore ritmico sempre presente e capace di garantire personalità al materiale e con una ricchezza negli arrangiamenti che non è mai ostentazione. Venticinque minuti di divertimento assicurato, lontani da un edonismo fine a se stesso e sintonizzati su un sound sufficientemente contemporaneo. (7/10) Fabrizio Zampighi

Palma Violets - 180 (Rough Trade, Febbraio 2013) Genere: indie rock/garage Fortuna? Furbizia? Abilità? Non lo sappiamo con precisione, fatto sta che per gli inglesi Palma Violets la strada verso il successo sembra veramente spianata. Si formano a Lambeth, Londra nel 2011 e nel giro di pochi mesi diventano i nuovi pupilli dei media britannici: hype dal basso e successivo contratto con la Rough Trade, NME che inserisce la loro Best of Friends al primo posto tra le migliori canzoni del 2012, la guestata da Jools Holland e la nomination nella lista BBC Sound of 2013. Tutto facile, forse troppo, tanto che diventa altrettanto facile provare antipatia e rischiare di partire prevenuti verso

il loro album di debutto intitolato 180. Con un artwork inzuppato di cliché inglesi, 180 è stato prodotto da Steve Mackey (Pulp) e Rory Attwell (Test Icicles) e sulla carta punta a trasformare i Palma Violets nel nuovo punto di riferimento della scena brit-indie/ garage. Perchè dopo i The Libertines, solo gli Artcic Monkeys sono riusciti - per qualche tempo - a concentrare una mole così elevata di attenzioni. Da allora tanti tentativi, tante meteore e tanti gruppi dimenticati. Potrebbero riuscirci i Palma Violets? Tra attriti Clash-punk (Rattlesnake Highway, I Found Love), vicinanze stilistiche con i The Vaccines, cambi di ritmo, urla sguaiate e scappatelle di ubriaca eleganza (Three Stars), il livello medio dei brani è piuttosto elevato e rimane tale lungo quasi tutta la durata del disco. E’ un discorso su due livelli quello che va fatto su di una uscita come 180: da un lato la band inglese sembra l’ennesima meteora destinata a riempire le playlist dei dj nei locali indie (e stereotipi vecchi di una decina d’anni annessi), dall’altro - nonostante le copertine e tutto il resto - suonano con una credibilità di fondo e soprattutto con un estro fuori dal comune. Spiccano in questo senso Last of the Summer Wine, chitarre e organo prima di lanciare un arpeggio jangly (non lontano come tiro dal riff di All The Garden Brids) che apre le porte ad un chorus dal sapore anthemico/senza tempo, Chicken Dippers - inizialmente intitolata Happy Endings nei live - e i The Doors in versione garage-rock di Tom The Drum. I ruoli e i timbri vocali dei due leader si intrecciano senza sbavature e non sorprende se certa stampa ha già iniziato a paragonare Sam Fryer (chitarra e vocione profondo) e il più istrionico e teatrale bassistacantante Chilli Jesson alla coppia Barât-Doherty. Non può avere e non avrà mai l’impatto storico di un Up the Bracket, sia per motivi anagrafici sia per una cifra qualitativa inferiore, ma a volte è bello anche lasciare da parte certe considerazioni e provare a godersi musica senza pretese. Lo abbiamo fatto all’epoca, lo possiamo fare anche oggi. (6.5/10) Riccardo Zagaglia

Petre Inspirescu - Fabric68 (Fabric, Febbraio 2013) Genere: Minimal È Petre Inspirescu (rumeno di Bucarest) la guest star del nuovo Fabric. Conosciuto anche con l’alias di Pedro e sulla scena dal ‘99, il Nostro ha prima animato e fatto esplodere la scena dance rumena in coabitazione con Radoo e Raresh (con cui ha fondato la label a:rpia:r) e in seguito esportato il suo suono in tutta Europa animan91


do il Circoloco di Ibiza (e rapendone i suoni, di Villalobos su tutti), mandando in stampa su Vynil Club una hit mondiale come Sakadat e successivamente accasandosi alla Cadenza di Luciano. Il nuovo Fabric, fatto solo di pezzi suoi e prodotto con l’ausilio di tre musicisti (viola violoncello e pianoforte), porta i tratti somatici e i segni di tutto il background che negli anni Petre ha costruito. I tratti di una sapiente cultura classica nell’arrangiare violini e pianoforti (Lumiere), il groove minimale fatto di lavoro sul basso profondo e pulsante (La Cuba), i composit minimal techno sul pattern ritmico Troy Pierce, Adam Beyer, ma anche Matt John e persino le prime produzioni del buon Marco Carola (Basso Ostinato, Vastu da Gama). Fanno capolino anche il primo Pantha du Prince, ritmi ibizenchi e cinema d’essai (Flurimba, Seara-n Crang), violini gitani, lirica e malinconia nella bellissima Anima (qualcuno ricorderà Viktor Casanova e la sua ItaloBoyz, occhi chiusi e brividi programmati), forti richiami alla terra di casa ma anche il balearico ambientale della insonne “Eivissa”. La minimal torna al Fabric con quel suono un po’ datato e un bagaglio di nostalgia assopita. Lo fa in punta di piedi, leggera e spogliata delle contraddizioni del caso (decostruzione del suono fino alla non ballabilità su tutte). Peccato per l’età e il tempo che scorre inesorabile: sei anni fa questo 68 poteva valere un disco dell’anno, ora vale più o meno come una serata con gli amici di un tempo, aggrappato al senso nostalgico di chi una volta sentiva e ora, al passo coi tempi, ascolta altro. (7/10) Mirko Carera

Forte della consapevolezza di essere riuscito a lasciare un segno - e complice anche il triplo sold out alla Brixton Academy di spalla ai The National - Houck mette ordine tra le strumentazioni analogiche e torna (sempre per la fida Dead Oceans) con un Muchacho che vorrebbe riuscire nell’ossimorico miraggio di associare, al substrato di plurime contaminazioni, l’approccio più minimalista di Pride, personale esordio presso l’etichetta di Bloomington. Le invocazioni psych di Sun Arise (An Invocation, An Introduction) e le infezioni ipnotiche dello struggente primo singolo Song For Zula mettono subito in chiaro come anche quest’ultima fatica si possa considerare tutto fuorchè un disco di country-folk tradizionale. Riprova ne sono anche quei vocalizzi di Right On/Right On attribuibili ad un inconsueto Spencer Krug, fosse quest’ultimo nato anch’esso in Alabama.Terror In The Canyons (The Wounded Master) spiana invece la strada a territori altcountry cari ai paladini Wilco, in cui la reciproca rincorsa fra pianoforte e lap steel mette ancor più in evidenza la vocalità sghemba e riconoscibilissima di Houck. La quale trova poi ispirazione massima nello splendido trittico finale, con cui si torna prima ai tanto cari dettami della ballata pianoforte-acustica sporcata qua e là dagli archi e dalla lap steel (A New Anhedonia e Down To Go) e poi sulle highways desolate con la supervisione del padre putativo Neil Young. Una conferma assoluta del lavoro iniziato con il predecessore, dunque, ed un piccolo bignami - se Will Oldham non avesse ancora fatto sufficientemente scuola - di come fare country rock nel 2013 senza risultare obsoleti e pedanti. (7.1/10) Marco Masoli

Phosphorescent - Muchacho (Dead Oceans, Marzo 2013) Genere: folk

Polar For The Masses - Italico (La grande V, Marzo 2013) Decidere, nel 2013, di affacciarsi sul mercato con una Genere: indie rock proposta di country-rock cantautorale può essere considerata alternativamente o una mossa rischiosa o un suicidio senza mezzi termini. Anche all’interno della cerchia di genere poi, non è semplice presentare un lavoro che riesca a discostarsi dalle linee guida più tradizionali risultando, a suo modo, personale ed interessante. Matthew Houck, in arte Phosphorescent, ha già dimostrato, tre anni fa, la fattibilità dell’impresa di cui sopra con quel mezzo capolavoro che è Here’s To Taking It Easy, un disco che evidenziava finalmente - dopo tre CD di ballate farcite di Americana fino al midollo e uno di cover di Willie Nelson rimasti però tutti un po’ più nella penombra doti interpretative di molto sopra alla media e la peculiarità rarissima di non apparire mai fuori tempo massimo. 92

Non cambia per i Polar For The Masses l’abitudine di interporre due anni tra un disco e l’altro, il che fa quattro lavori in otto anni. Un cambiamento non da poco però questo Italico lo introduce, ed è - come s’intuisce dal titolo - il passaggio ai testi in italiano. Una svolta che rende più aspro l’impatto dei pezzi sul frangente storico, dal momento che si tratta perlopiù di riflessioni sullo stato delle cose masticate con cupa amarezza, mirando al cuore di politica ed economia, la rabbia tenuta al guinzaglio nella raffica di slogan laconici. Resta anzi si consolida il passo noise-wave, l’hardcore turbo panzer, le cesoie acide math e le sincopi marziali punk-funk, azzeccando ordigni che magari non eccellono per livello di scrittura né per l’originalità della forma, però vantano la solidità


della padronanza e il dinamismo della convinzione. Pezzi che sfidano rapide punk’n’roll come Wall Street, cavalcano rifferia hard come Un uomo un voto, scorticano bordoni noise con piglio androide in Ruvido, intrecciano un intrigante duplice assolo ad innervare la veemenza della title track. Insomma il trio viceentino scomoda il consueto pantheon di riferimenti, dai Wire ai !!! passando per gli U2 androidi altezza Achtung Baby (vedi la conclusiva Mia Patria) senza farsi mancare qui e là venature grunge - chessò - à la Stone Temple Pilot e digressioni sintetiche Brian Eno (sotto l’urlo primordiale di Risveglio). Se poi ti capita d’avvertire un po’ del lirismo ieratico Marlene Kuntz in Terrorismo e deejay sarà senz’altro a causa dell’idioma, un effetto collaterale direi più nutritivo che nefasto. (6.6/10) Stefano Solventi

Purling Hiss - Water On Mars (Drag City, Marzo 2013) Genere: grunge indie Nel marasma delle millemila uscite del sottobosco rumoroso americano e stuzzicati dall’omonimo su Permanent del 2009, avevamo incasellato quello che era il progetto solista dell’ex Birds Of Maya Mike Polizze nel calderone dei più furiosi hard-fuzz-noise act a stelle e strisce. Quelli dediti ad una sorta di garage-rock revival stoogesiano mischiato con attitudine free e hard-psych, per capirsi. Ora, persi un po’ per strada per le ragioni di cui sopra e dopo più di una uscita per Mexican Summer e Woodsist (da recuperare per i fuzz addicted, l’ellepì Hissteria del 2009), ci ritroviamo per le mani questo Water On Mars, addirittura contrassegnato dal glorioso marchio Drag City. Le cose sono cambiate da quel che avevamo ascoltato e pare proprio che il trio di Philadelphia sia diventato alfiere di un suono grunge revivalista fino al midollo, tra acide aperture di chitarra, coretti zuccherosi, mischioni all’incrocio tra Mudhoney senza troppo fuzz e Soundgarden senza troppo acid-rock, pulite ed evidenti reminiscenze Dinosaur Jr, qualche tocco più pop che riecheggia in melodie indie alla Weezer (Mercury Retrograde) o classic rock alla Tom Petty (She Calms Me Down) appiccicose e, ahimè, inoffensive e l’immancabile ballatona indie melensa e un po’ stucchevole (Mary Bumble Bee). Ci sono anche momenti accesi: il r’n’r sfrontato di Face Down, le distorsioni della title track o l’opener Lolita tutta coretti, assolo, wah-wah e Seattle, ma suona sempre tutto troppo educato ed edulcorato per poter attirare le attenzioni di chi li seguiva all’epoca della sporcizia e dello sfattume. Magari troveranno adepti (anzi sicura-

mente li troveranno), ma molto al di fuori dei recinti in cui si sono mossi finora. (6/10) Stefano Pifferi

Recs Of The Flesh - Fear, Lies And Collapsing Comets (Raising Real, Gennaio 2013) Genere: noise wave A due anni pressoché esatti dal buon The Threat Remains And Is Very Real è tempo di terzo album per i Recs Of The Flesh, la cui cifra sonora sembra ormai compattata attorno alle particelle elementari della quadratura chitarra-basso-tastiera-batteria, formula proposta in purezza nelle undici tracce di questo Fear, Lies And Collapsing Comets (ogni riferimento alla recente pioggia di meteoriti negli Urali ritengo sia del tutto casuale). Potremmo dirlo una sorta di concept sulla pervadenza dell’errore ed il terrore che questo provoca, con sullo sfondo la figura dell’amato George Romero, presenza che aleggia tra le spire dark e le cariche noise-wave, per non dire di un mai tanto evidente piglio hard che si riallaccia ad un certo immaginario da soundtrack horror, evitando per fortuna la caciara a gratis. Il merito principale del quartetto sardo è nel porsi ben al di là del “farci” tipico di tante band nostrane. Hanno convinzione e padronanza sufficiente a metterli in grado di sciorinare in pieno l’espressione, dal punto di vista di arrangiamenti, interpretazione e (al netto di qualche passaggio prevedibile a livello melodico) scrittura. Incendiano la scaletta con una trasfigurazione gotic dei Sonic Youth come Afterwards e proseguono tra ordigni a rotta di collo (gli Stranglers tarantolati Metallica di It’s All Gone, i Killing Joke nevrastenici di Disclaim/Knowingly, l’invasata The Fire In Me) e tensione trattenuta a stento (la psicosi marziale stemperata emo di Obsessive-Compulsive-Dispersive, la grunge-oriented One More Wish), finendo per resuscitare l’estro pop-wave dei Pixies nella quasi radiofonica You Kill. Già detto, lo ribadisco: bravi. fear, lies and collapsing comets by recs of the flesh (7.1/10) Stefano Solventi

Rhye - Woman (Polydor, Marzo 2013) Genere: sophisti-pop Quando circa un anno fa ascoltai per la prima volta l’EP Open ed il singolo The Fall, ero convinto dietro al moniker Rhye si nascondesse una ragazza. Potete quindi immaginare la sorpresa nel momento in cui, cercando ulteriori informazioni a riguardo, ho letto che in realtà quella voce così femminea apparteneva a quel Mike Mi93


losh che più volte abbiamo trattato in passato. Il progetto Rhye, di base a Los Angeles, nasce dall’unione tra il canadese Milosh e Robin Hannibal ed è chiaro fin da subito che i due ci abbiano preso gusto a far sorgere i dubbi: il gioco uomo-donna che torna ancora una volta tra i solchi del concept artistico dell’artwork dell’album di debutto (la nudità già presente nell’EP) e il suo stesso titolo, Woman. Woman contiene i quattro brani già editi: la sopracitata The Fall, l’ottima Open, i ritmi maggiormente uptempo e funky di Hunger e gli eighties di 3 Days, ideali punti di incontro tra un timbro in zona Tracey Thorn e sonorità di scuola Sade. Ed è proprio quest’ultimo il nome che durante il 2012 ha spesso visto, forse erroneamente, accumunare Jessie Ware e i Rhye: decisamente più chartsoriended e influenzata dalla scena bass-UK la prima e più smooth e vellutati i secondi (pur senza toccare gli eccessi classics&jazz-soul di un disco come Diamond Life). Milosh ama utilizzare la voce come vero e proprio strumento e non di rado (leggasi, in almeno metà dei brani) la utilizza sfruttando la tattica dell’aumento di intensità/ volume (Major Minor Love o l’intera mono-vocabolo titletrack) con risultati decisamente apprezzabili. Melodie sinuose ed eleganti che vanno di pari passo alle visioni di sensuale intimità minimalista, ovvero i battiti lenti di Verse o il dialogo chitarra-fiati di One Of Those Summer Days, vera apoteosi sophisti-pop. Un gusto della raffinatezza che sfiora con i guanti le idee di Imogen Heap e Dido e le proietta in territori da intorto anni ‘80 cari agli ultimi Destroyer e Ducktails. Woman rafforza le coordinate di Open EP, andando a rimarcare ulteriormente quelle caratteristiche stilistiche che fanno dei Rhye uno dei nomi più interessanti dell’attuale panorama pop. Mike Milosh ha finalmente trovato la sua dimensione ideale. (7.2/10) Riccardo Zagaglia

Ryan Hemsworth - Last Words (Wedidit Collective, Agosto 2012) Genere: Cloud Trap Si potrebbe quasi fare un esercizio di analisi comparata, mettendo a confronto i video di Colour & Movement con Graveyard Girl degli M83 e ottenendo così una chiara visione di come l’immaginario adolescenziale si sia evoluto nei cinque anni che li separano. Al centro di entrambi vi è la dimensione dream, zona di interludio tra la noia della provincia e la promessa della vita adulta. Entrambi i musicisti flirtano con probabili ascolti dei fratelli maggiori: da una parte le riprese shoegaze di marca My Bloody Valentine, mentre per Ryan ci sono i campionamenti 94

dei Notwist di Consequence ed Elliott Smith. Oltre a questo nocciolo comune, le differenze iniziano a farsi marcate. La narrazione lineare ispirata all’immaginario di John Hughes di M83, viene sostituita da Hemsworth con una visione frammentata ed impersonale influenzata dai social media. L’immagine femminile è in Colour & Movement ispirata sia alle riviste patinate di Lost di Frank Ocean (di cui il Nostro ha remixato Thinking About You), sia alle camerette filmate con camcorder della sua amica Kitty Pryde (diventata famosa per Okay Cupid, canzone omonima del servizio di online dating). Hemsworth si colloca sul crocevia, sempre più trafficato da artisti come Le1f, tra hip hop, fashion world e internet culture (Baauer, che sta dietro al meme Harlem Shake, è presente qui con un remix di Slurring). Non mancano nemmeno le venature trap, tra TR-808 e vocals screwed, ormai un’immancabile costante in ogni incontro tra elettronica e hip hop. Last Words esce su Wedidit, label di Shlomo (anche lui presente con un remix), e ne eredita le velleità hip-hop. I riferimenti sbandierati sono quelli dell’agro rap alla Three Six Mafia e Max B, che viene campionato nell’ottima Charly Wingate, e a prova di ciò Ryan può vantare un passato di produzioni come quelle per Deniro Ferrar. Nonostante le dichiarazioni, Last Words si indirizza invece più sulla linea dell’RnB melodico e drogato di How To Dress Well. Il sound di Ryan è pop, levigato, ricercato. Hemsworth punta a raggiungere un pubblico più vasto capace di apprezzare sia la Top 40 che le sofisticazioni hipster, prendendo ad esempio connazionali e concittadini come The Weeknd, Purity Ring e Drake. Intenzioni che si fanno ancora più chiare una volta ascoltato il suo remix di Cat Power featuring Angel Haze. Last Words è per Hemsworth un temporaneo punto d’arresto, un EP capace con poche tracce non solo di introdurre l’ascoltatore ad un’artista estremamente giovane e prolifico, ma anche di gettare luce su un intero contesto tutt’ora in espansione. (7/10) Antonio Cuccu

Shout Out Louds - Optica (Merge, Febbraio 2013) Genere: Pop Arrivati al quarto disco, dieci anni dopo la pubblicazione del primo, gli Shout Out Louds sembrano voler rimanere fedeli al percorso tracciato finora. Una carriera fatta di indie pop dalle tinte 80’s, plastic folk dai testi malinconici e atmosfere bubblegum. Nel nuovo album lo fanno in maniera decisamente più radio-friendly rispetto al passato, aumentando i canoni qualitativi di produzione fino


a raggiungere un suono radicalmente pulito e privo di sbavature. Una sorta di Arcade Fire dalla scrittura un po’ annacquata, viste le piccole cadute che si incontrano spesso nei testi. Versi come “Is there a special bond? Is she a natural blonde?” ,” Take me to the fireworks, show me how the fire works” ma anche “We burn without a fire / Hold on until we expire” non sono esattamente esempi di materiale di prima qualità per Adam Olenius. In realtà sono le melodie il vero focus e punto di forza, materiale che nel complesso risolleva questo lavoro su buoni livelli. A partire dai singoli Illusions e Walking In Your Footsteps, le scelte armoniche sembrano convincere quasi ovunque, con accenni jangle (Where You Come In) a sottintendere poi come le nuvole di Glasgow siano probabilmente la collocazione ideale per questa band di nostalgici. Forte l’impronta anni Ottanta, sia nell’uso delle ritmiche disco (14th of July), sia nelle tastiere, sia nei vocal - specialmente quelli femminili - di matrice new wave ‘plasticata’ (Hermila), sia nella presenza della figura di Robert Smith, a cui quasi tutte le linee vocali si ispirano fin dagli esordi. Ad affossare un pochino questo Optica - comunque più compiuto del precedente e noiosetto Work - c’è forse la lunghezza un po’ eccessiva di alcuni brani troppo votati alla ripetizione del chorus e poco interessati a una compattezza da singoli killer. Unita alla parziale perdita di quell’elemento di gioiosa malinconia - storico trademark dei primi due album - causata da una mancanza di urgenza espressiva. (6.8/10) Luca Falzetti

Suede - Bloodsports (Warner Music Group, Marzo 2013) Genere: brit-pop “Finish what you started”. Devono aver pensato questo, i Suede, quando hanno deciso di riprendere in mano (un po’ a sorpresa, visto che fino a tre anni fa non volevano saperne) la strepitosa avventura che li ha visti protagonisti indiscussi della stagione del brit-pop. Sembra ieri, ma sono passati vent’anni da quando Select mise in copertina un fiero e androgino Brett Anderson con una bandiera inglese sullo sfondo e un ambiguo sottotitolo “Yankee Go Home!”, e da quando il debut album, con un conturbante bacio saffico in copertina (un particolare di una foto di due donne sulla sedia a rotelle, tratta da Stolen Glances: Lesbians Take Photographs), lanciato da un hype con pochi eguali fino a quel momento, arrivò al primo posto dell’Album Chart britannica. La band dimostrò di non essere affatto un fuoco di paglia, tant’è che dopo quel folgorante debutto arrivarono il decadente Dog

Man Star (amatissimo dai fan, seppur meno fortunato in classifica) e, dopo la fuoriuscita del chitarrista Bernard Butler - in seguito all’opera con il cantante David McAlmont e più di recente produttore di Duffy - un perfetto album pop come Coming Up. La tossicodipendenza e qualche scelta artistica non azzeccatissima spinse poi i ragazzi a una successiva virata electro-rock con la complicità di Steve Osborne (Head Music, che pure ha i suoi momenti) e, più tardi, all’insipido e sconclusionato A New Morning prodotto da Stephen Street. “We made one album too many”, dichiarò Brett Anderson quasi scusandosi con il pubblico, prima di recuperare il rapporto con Butler in Here Come The Tears (che per molti fu un’occasione sprecata) e pubblicare dischi solisti introversi, acquistati in verità solo dai fan più fedeli. Eppure già con Black Rainbows, il quarto solo album di Brett, tornarono l’energia per anni sopita e il sorriso sulle labbra. Bloodsports, se fa differenza, la fa per la qualità ancora superiore delle canzoni: i Suede sono tornati in studio in gran forma, accompagnati dall’uomo che ha tirato fuori il meglio di loro nei primi tre dischi - quell’Ed Buller che pazientemente ha cestinato materiale ritenuto non adeguato e ha aiutato i cinque membri (c’è ancora Richard Oakes alla chitarra, reclutato diciassettenne dopo la dipartita di Bernard grazie a un annuncio, ed è tornato il tastierista Neil Codling) a ritrovare il feeling dei tempi andati. Sembra che il tempo non sia passato, anche se oggi Brett non è più il ragazzo tormentato che amava provocare sul palco a colpi di microfono sulle natiche. E’ forse più facile trovarlo in giro per i grandi magazzini londinesi in compagnia della moglie e del figlio, con un’eleganza ereditata da un altro dei suoi grandi role model (Bryan Ferry), piuttosto che immaginarlo ancora a trovare ispirazione sbirciando dal buco della serratura dei locali di peep show. L’amore travalica le barriere e (cosa più importante) fa ritrovare l’ispirazione. Il buon giorno si è visto dal mattino con l’appetizer Barriers. Largo ai ritornelli epici, alle reminiscenze glam di cui la ricetta dei Suede è stata ricca fin dal primo giorno. Se è vero che Anderson negli ultimi anni ha amato i dischi degli Interpol, dei National e degli Horrors, è altrettanto palese che le principali fonti d’ispirazione restano per lui David Bowie (ma anche il padre spirituale di quest’ultimo, Scott Walker, e il discepolo Marc Almond nella sua veste più intima e crepuscolare) e, come lo definì Mark Simpson, “Saint” Morrissey. Oakes sforna un riff convincente dopo l’altro, ogni membro dà il proprio contributo alla causa e It Starts And Ends With You, il primo singolo estratto, è esattamente a metà strada tra Trash e New Generation. Proprio come la band aveva promesso. 95


Sabotage è un altro brano coi fiocchi, trait d’union tra certi Talk Talk (da sempre amati dal cantante) e gli Editors più pacati, mentre For The Strangers e Sometimes I Feel I’ll Float Away sono gli ennesimi, splendidi, inni all’amore per cui vale la pena combattere (anche se in copertina è la figura femminile ad avere la meglio, nel corpo a corpo raffigurato...), pronti per essere cantati a squarciagola. Hit Me è un altro richiamo esplicito ai tempi di Coming Up, quando invece What Are You Not Telling Me riporta alla desolazione del Brett solista, in questo caso evocativo e per nulla pedante. Una semplice operazione nostalgia? Niente affatto: il tempo per le celebrazioni si è concluso tra antologie e ristampe, ora è tempo di ripartire. Bloodsports riporta i Suede nel firmamento dal quale, un po’ per colpa loro e un po’ per via delle mode che vanno e vengono, erano stati temporaneamente spazzati via. Questo è il disco che la band avrebbe dovuto consegnarci al posto di A New Morning undici anni fa. Non tutto è perduto, come si può ascoltare nelle nuove canzoni. Noi siamo ancora qui e non li abbiamo mai dimenticati. Welcome back, Suede. (7.4/10) Alessandro Liccardo

Suez - Illusion Of Growth (Seahorse Recordings, Marzo 2013) Genere: post punk Lavorano di rimbalzo, i Suez, fingendosi fidi alfieri del post-punk più ortodosso e allargando poi il raggio d’azione a territori estranei al genere suddetto. Tre anni dal precedente Many People Don’t Realize per un Illusion Of Growth che parte da una vocalità à la David Thomas (Chains) per planare su un groviglio di raffinate atmosfere jazzate (10.000 Years), claustrofobie lancinanti in bilico tra Birthday Party e Pere Ubu (Bloop), citazioni palesi ma riuscite di certi Cure (Boys Must Cry), psichedelia oppiacea di impianto post-rock (Lighthouse), peregrinazioni orientaleggianti inquietanti (Head Bang) e persino noise atrofizzato (Things Don’t Change). Nulla di confusionario, sia ben chiaro: i quattro musicisti da Cesena (in organico synth, chitarre, basso, batteria, più pianoforte e violino) e il Nicola Bagnoli responsabile degli arrangiamenti sputano fuori un mirabile esempio di equilibrio formale, oltre a una scrittura con una sua originalità. Un suono nervoso e al tempo stesso radicalmente razionale, capace tuttavia di dar vita a un pugno di brani inaspettatamente “facili”. Chi in ambito post-punk ha fatto dell’emulazione sciatta e senza mordente una ragion d’essere, dovrebbe prendere qualche ripetizione dai Suez. (7/10) Fabrizio Zampighi

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Suuns - Images Du Futur (Secretly Canadian, Marzo 2013) Genere: art rock Contrariamente a molti colleghi in hype-zone ai tempi del debutto, i canadesi Suuns hanno preferito fare le cose con calma - due anni e mezzo - invece di sfruttare il momento di buona visibilità guadagnato nei mesi successivi all’uscita di Zeroes QC e pubblicare il secondo disco frettolosamente. L’ultimo materiale a loro nome - il singolo dodici pollici Bambi / Red Song realizzato in un paio di settimane a Montreal - risaliva alla fine del 2011. Da allora si sono chiusi in studio per registrare il sophomore Images du Futur, immersi in un clima sociale (la protesta degli studenti in Quebec) tanto eccitante quanto pieno di speranza e frustazione, secondo quanto dichiarato dal leader Ben Shemie. Una certa atmosfera da impeto sloganistico la si percepisce già dall’iniziale Powers of Ten, dove ritroviamo i Suuns andare a braccetto con l’eccentricità crazy dei Clinic (a livello vocale ma non solo) e con l’indolenza angolare post-hop di certe cose dei These New Puritans. Le immagini del futuro si fanno vive in 2020 (bassline piatta, gioco arty a livello di chitarra e drumming incalzante) e nel restante post-punk scarno ritmato da un metronomo krauto strutturalmente atipico (Minor Work) sporcato, di tanto in tanto, da suggestioni psichedeliche (l’apporto melodico del chorus di Mirror Mirror) e tentazioni math. I Sunns non lasciano nulla al caso, amano studiare effettistica e manipolare il suono creando veri e propri stand outs fuori contesto come l’ottima Edie’s Dream, onirico viaggio Radioheadiano sospeso tra sofisticherie jazzy e una coda psy. Radiohead che ritornano, con un impatto meno etereo (e meno sfacciato rispetto alle ultime uscite dei Polyenso e Alek Fin), anche nella tessitura strumentale di Sunspot (giro di basso di scuola Colin Greenwood compreso) o in alcuni risvolti di Bambi, qui presente in una nuova versione, più corta e meno elettronica. Abbastanza trascurabili invece i tre minuti dronici della title-track. Non mancano spunti interessanti a livello strumentale - l’unisono bass-guitar di Holecene City o il penultimo commovente minuto di Music Won’t Save You sono solo due esempi - mentre è lecito continuare a nutrire alcune riserve sul timbro di Ben (i facili paragoni probabilmente non lo abbandoneranno mai...) e sulle prospettive future del progetto. Dovranno infatti dimostrare - e le potenzialità ci sono - di potere ambire ad una carriera di maggiore consistenza rispetto a quella dei già citati Clinic, ormai da anni caduti


in un limbo fine a se stesso e piuttosto impalpabile dall’esterno. Full album stream [via Spinner] (7.1/10) Riccardo Zagaglia

Thalia Zedek - Via (Thrill Jockey, Marzo 2013) Genere: rock Sono più di vent’anni che la ascoltiamo, da oltre dieci anche in veste solista. Ed è sempre la solita storia: codici rock elettroacustici 70s in una luce intensa 90s, cercando con tutta la forza possibile, tra malanimo e intensità, una propria via genuina. Casomai questa formula possa ancora avere un senso oggi, lo avrà grazie alla voce e alle caonzoni di Thalia Zedek. Che torna un lustro dopo il buon Liars And Prayers, nel solco di quello e dei precedenti, di un rock narrativo che fa perno sulla voglia di scavarti dentro un buco per depositarci rabbia e languore, orgoglio e tristezza. Quello che impressiona in definitiva di questo disco, il quinto a suo nome, è l’eccellenza della norma, la capacità di girare attorno ai soliti elementi con lancinante padronanza, tanto che le canzoni escono belle a dispetto della prevedibilità. Convincono da un lato la frugalità intimista e combattiva di In This World e Walk Away (il cuore in mano tra fantasmi Faithfull e Patti Smith), dall’altro l’impeto aspro di Straight And Strong e il crogiolo scabro di Lucky One. Anche quando la trama si fa più strutturata non ti allontani mai dal sentiero principale, vedi i residui post che incatramano Get Away, oppure quella Winning Hand che volteggia misterica e arrembante tra evoluzioni di violino e apprensioni jazzy che sembra quasi un amischia tra Dirty Three e Jefferson Airplane. Non introduce svolte, la bostoniana, semmai affila la lama e pazienza se è più ruggine che metallo ormai. Del resto, si sa, la ruggine non dorme, semmai cova inquietudini younghiane (la malmostosità sparsa di Go Home) che corrodono i blues fino a farli avvampare noise (il crescendo scompaginato e liberatorio di Want You To Know). Dieci anni fa mi è capitato di sentirla alle prese con una convincente rilettura di You’re A Big Girl Now: era una chiosa perfetta già allora, lo è ancora più oggi. (7.1/10) Stefano Solventi

The Asphodells - Ruled By Passion, Destroyed By Lust (Rotters Golf Club, Febbraio 2013) Genere: wave-tronica Londinese e chitarrista dei Battant, band post-punk molto 00s assimilabile agli Yeah Yeah Yeahs, Tim Fairplay è già un weatheralliano convinto fin dagli esordi della formazione. Il Two Lone Swordsmen ne riconosce la stoffa e un Weatherall Remix della sua U Know U Jack apre il secondo volume della serie Andrew Weatherall Vs The Boardroom (2009). Come producer il ragazzo si mette sul serio un paio d’anni più tardi. Timothy J Fairplay EP è puro amore per i “due spadaccini solitari” e il remix del Nostro di Sleighride/Blizzar, con le tipiche chitarre riverberate, ne è la dimostrazione. In fissa per la old synth age cinematica con tutte le naturali convergenze con la Norvegia del continuum baldelliano e l’ampio spettro d’elettroniche vintage che abbracciano trasversalmente l’underground di questi anni, trax revival compreso (Cleopatra Loves The Acid / Bursting Through), il ragazzo arriva all’eppì Somebody, Somewhere per Emotional Response nel 2012, l’ideale preview della collaborazione a nome The Asphodells: synth Carpenter/Vangelis, drum machine, cassa rallentata e lenti Instagram. C’è molto Tim nell’esordio Ruled By Passion, Destroyed By Lust e l’intelligenza di Weatherall sta anche qui, nell’esercitare un ruolo ai confini tra producer e bandmate, aggiungendo flavour exotic-goth (Beglammered) e altre trovate wave 80s style (We Are The Axis - notare la chitarra frippiana sul tappeto acid), candenze disco e occhio cinematico tra ebm e edm (Dub Minute’s Silence). Figlia dell’elettronica analogica di vibrazione (e potenza) che rimanda alla radice Kraftwerk (The Quiet Dignity...), dunque dentro le analogiche che tuttora gasano, una tracklist (tra track e song) all’altezza del continuum personale dell’uomo di Screamadelica che ci regala le ennesime zampate: Late Flowering dub (tuffo nel suono degli spadaccini) e una splendida One Minute’s Silence (che omaggia Joy Division e New Order). (7/10) Edoardo Bridda

The Brandt Brauer Frick Ensemble - Miami (!K7, Marzo 2013) Genere: techno acustica Presentando l’ultimo lavoro, Paul Frick racconta a Resident Advisor che Mr Machine era particolarmente pianificato mentre per Miami il trio ha voluto creare qualcosa di molto differente. Alla rigidità si è voluta opporre la spontaneità, alla serialità il formato canzone e infine 97


all’approccio notturno e jazzy tipico del Brandt Brauer, una modalità ancor più scura e ruvida (leggi sanguigna). Raccontavamo nella recensione della precedente prova quanto il progetto avesse bisogno di una reinvenzione, più che di un’evoluzione e d’altro canto il vigore di uno come Tristano, di cui il trio ha recentemente reinterpretato Ground Bass per la Deutsche Grammophon, ha costantemente contribuito a stimolare Frick e co. nel cercare nuove strade nella traduzione del senso chimicoemozionale della scintilla techno / house. Tra un’apertura e una chiusa cinematico-atmosferiche, il Theme e i titoli di coda, l’album, per quanto non mini la natura chamber del progetto, è effettivamente suonato con rinnovata energia. L’accento sulla componente cageiana, la rinuncia delle pose jazz dell’enemble, e una smaltata di bassi (e basso) analogue sono tutte scelte azzeccate, tanto quanto la scelta di far improvvisare gli ospiti su tirate partiture (nessuna nuova Pretend da queste parti). Il feel è naturalmente quello del vocalist che improvvisa sul mix nel momento topico della serata e senz’altro Fantisie Madchen con Gudrun Gut (che già abbiamo avuto modo di amare in Wilflife) è l’episodio più riuscito, seguito da Verwahrlosung con Nina Kravitz, per la serie il carisma cadaverico dell’una e il groove psicotico dall’altra. Sul lato più blando troviamo il semplice intramezzo di Om’Mas Jeith, produttore di Channel Orange fresco dell’album City Pulse e il deludente (e non è un caso) Jamie Lidell presente in ben due brani comunque ben eseguiti, Broken Pieces e Empty Words. Il lato cinematografico del sound di Frick e co. è, infine, ben cesellato nella traccia con l’artista Erika Janunger e nelle strumentali Miami Drift e Skiffle It Up, entrambe dominate dalla ricerca di un oscuro climax. A sorpresa, il massimo dell’affiatamento giunge nel finale (e ancora strumentale) Miami Titles (ottima l’intuizione delle sirene), il migliore dei biglietti da visita per la prossima prova. (7.1/10) Edoardo Bridda

The History Of Apple Pie - Out Of View (Marshall Teller, Gennaio 2013) Genere: indie-rock, shoegaze Porta un titolo più che appropriato il debutto sulla lunga distanza degli History Of Apple Pie. Out Of View, “fuori di vista”, così come la faticosa gestazione (scartate le prime registrazioni self, buone quelle supportate da Josh Hayward degli Horrors) ed un po’ tutto il 2012 del quintetto londinese. Li si attendeva al varco dopo averli piazzati su varie liste “Ones To Watch” (compresa quella di chi scrive), si sono ricevuti in cambio qualche live show, un singolo (Do It Wrong/Long Way to Go) ed il 98

side-project del batterista James Thomas con Mariko Doi degli Yuck (Parakeet). Proprio sotto l’ala protettrice degli amici Yuck è da collocare la proposta dei nostri: medesimi gli ascolti formativi (Dinosaur Jr., Pavement, Smashing Pumpkins, Teenage Fanclub) e quindi le mani in pasta ultra-nineties, medesimo il feticismo per certe croccantezze e fuzzerie chitarristiche. Alla slacker-attitude si preferisce però la grammatica del più catchy degli shoegaze, peraltro coronata da vocalità allo zucchero filato che fanno dire Lush ben più che My Bloody Valentine. Attenzione: si è detto “grammatica”, non “calligrafia” o, peggio, “esercizio calligrafico”. Al contrario dello zillione di meri emuli (Ringo Deathstarr anyone?) e parallelamente ai nostrani Brothers In Law sul versante wave, THOAP fanno revival, sono derivativi all’ennesima potenza, ma ci mettono pure del loro. La cosiddetta personalità sta, in questo caso, in uno sforzo compositivo particolarmente severo che - poggiando su refrain di matrice brit (quello di The Warrior è 100% Blur), riflessi twee e transizioni melodiche prossime ai Pains Of Being Pure At Heart (See You) - vuole le canzoni fatte e finite. A riprova della dedizione in tal senso, le riproposizioni di frammenti già editi su 7” (oltre ai due citati in apertura, anche You’re So Cool e Mallory), come a dire “se non funziona come singolo non può nemmeno stare in tracklist”. Ne risultano quaranta minuti privi di filler, non meno fuori dal tempo di mbv e, a loro modo, altrettanto alienanti. Dare un assaggio alla torta di mele è consigliato. Fosse anche soltanto per farla in barba alla Lake Superior State University - che ogni anno bandisce vocaboli dall’inglese per uso improprio, eccessivo, inutilità generale - e dirlo una volta in più, con gusto, perché si può: this is indie. (7/10) Massimo Rancati

The Virginmarys - King Of Conflict (WindUp Records, Febbraio 2013) Genere: rock Stanchi dell’hype che coccola alcuni artisti ancora in fase pre-EP? I Virginmarys potrebbero fare a caso vostro: nati a Macclesfield nel lontano 2006 dalle ceneri di un’altra band, Ally Dickaty (voce e chitarra), Chris Birdsall (basso e cori) e Danny Dolan (batteria), sono stati protagonisti di una lunga gavetta caratterizzata da un continuo slalom tra EP autoprodotti e una intensa attività live sui palchi di mezzo mondo. Dopo aver condiviso lo stage con nomi come Slash, Ash, Skunk Anansie e We Are Scientists - se state accostando VIRGINmarys a VIRGIN radio vi capisco - Dickaty e compagni pubblicano il primo vero album in studio,


intitolato King Of Conflict, solamente oggi a sette anni dagli esordi. Scoperti casualmente grazie ad un paio di banner-spot su Spotify, i Virginmarys sono la classica band che preferisce andare diritta al punto piuttosto che tentare sperimentazioni spinte da velleità innovative: è l’incarnazione del rock con tutti gli stereotipi annessi. In questo senso, ascoltando il singolo Dead Man’s Shoes è facile che la mente voli verso l’infausta memoria targata Jet, ma è meglio chiarire fin da subito che il rock d’impatto - sintesi di energia, chitarre retrò e melodia - del trio Macclesfield suona decisamente più genuino rispetto alla (ex)band di Nic Cester. Riffame sporco e potente (Bang Bang Bang, My Little Girl) che incontra gesta hard-blues di taglio AC/DC e grandeaur anthemici in dimensione stadio (Dressed to Kill). Viene quindi fuori il doppio volto di una band che riesce a giocare le proprie carte migliori dal vivo, essendo adatta sia a situazioni da club-pub, sia a platee decisamente più vaste. Una realtà capace di numeri da classifica ma anche di abrasioni meno controllate (la ghost conclusiva Ends Don’t Mend). Il mixaggio adrenalinico dell’esperto Chris Sheldon aiuta a rendere King Of Conflict un disco che può mettere d’accordo tutti i fan del rock senza fronzoli: gli amanti del tiro di casa Foo Fighters, del garagerock in zona Vines, degli anni ‘70 e delle sue divagazioni chitarristiche e dell’MTV-rock fine ‘90/inizio ‘00 (Danko Jones, Backyard Babies). Lungo le dodici tracce del lavoro - specialmente nella seconda parte - si palesano alcune incognite dovute ad una certa monotonia di fondo e a situazioni fin troppo prevedibili, le quali però non macchiano più di tanto un album d’esordio tutto sommato apprezzabile, soprattutto se si è devoti del rock. (6.3/10) Riccardo Zagaglia

Theme Park - Theme Park (Transgressive, Marzo 2013) Genere: indie-pop Difficile trovare un nome che sprigioni spensieratezza, allegria e leggerezza meglio di Theme Park. Arrivano da Londra, i gemelli Miles e Marcus Haughton e l’amico di sempre Oscar Manthorpe (un quarto membro è uscito prima del completamento delle registrazioni dell’opera prima) e fanno sul serio: pur essendosi fatti conoscere con il singolo Wax nel 2011, cui sono seguiti EP ed esibizioni live, non hanno avuto alcuna fretta e hanno atteso le canzoni giuste per proporsi con il loro primo, omonimo, album. Theme Park è un disco ordinato, omogeneo, che suo-

na divertente ed “estivo” pur essendo stato pubblicato verso la fine dell’inverno, con una manciata di ritornelli efficaci e la produzione oculata di Luke Smith, già al lavoro con i Foals e i Maccabees (mentre è il frontman dei Friendly Fires, loro ex-compagni di scuola, a mettere le mani nell’ottimo singolo Tonight). Sono raggi di sole tenui, quelli che trapelano nelle undici canzoni di questo debutto, capaci di riscaldare senza far sudare; la pelle si abbronza, mentre si sorseggia un margarita a bordo piscina, senza il rischio di fastidiose scottature. L’indie-pop si colora di funk e si contamina con falsetti soul nella scintillante A Place They’ll Never Know, mentre si dimostra imprevedibile in Saccades (Lines We Delay) tra una partenza eterea in odore di Daft Punk e un arrivo assai trascinante. Si balla, si batte spesso inavvertitamente il piede durante l’ascolto, eppure non sempre questo riesce a imporsi come il party album che vorrebbe essere. I padri nobili della miscela - frizzante ma non esplosiva - del trio londinese sembrano essere gli Orange Juice (specie nella già nota ma qui riproposta Jamaica) e gli Haircut One Hundred di Nick Heyward (Still Life), più che i Talking Heads spesso evocati nel corso delle interviste, ma è facile lanciarsi in accostamenti anche con il concittadino Jack Peñate, Wolf Gang e i Two Door Cinema Club (e a sprazzi, pure i Vampire Weekend più “pettinati”). L’energica Two Hours, che esorcizza a modo suo angosce generazionali e spaesamento (“I can’t feel anything / and it’s bringing me down”) a suon di accordi maggiori, ci riporta indietro di una decina d’anni, più precisamente dalle parti degli allora debuttanti Bloc Party o della prima avventura, targata Elkland, di Jonathan Pierce dei Drums. Theme Park parte innestando la marcia giusta con cinque pezzi mozzafiato, si abbandona giusto un attimo alla sperimentazione e poi riprende il discorso interrotto servendosi, però, di canzoni dotate di un appeal più modesto (in particolare le conclusive Los Chikas e Blind). Niente disco-ball inopportune, niente concessioni al camp: l’aperitivo della stagione alle porte è perfetto per le indie disco e abbastanza a fuoco per farsi ascoltare dall’inizio alla fine. Si poteva fare di più, dopo tanta attesa? Probabilmente sì. Intanto, un giretto sulle montagne russe non ce lo nega nessuno. (6.4/10) Alessandro Liccardo

Theo Parrish - Sketches (, Dicembre 2012) Genere: Deep Riuscire a mantenere inalterato il proprio stile in tanti anni di carriera, abbracciando il progresso ma non 99


scendendo a compromessi, è impresa che spetta solo ai grandi. Ne sa qualcosa un certo Theo Parrish, che a ben tre anni di distanza dall’uscita del suo ultimo album Sketches - chicchetta oligarchica stampata in vinile in centocinquanta copie il cui acquisto necessitava di un leasing - decide di deliziare anche noi poveri mortali mp3-addicted con una versione in digitale attesa quanto il terzo mistero di Fatima. Il più devoto ambasciatore della causa analogica che si abbassa ad una simil barbarie? Interpretare la cosa in questa veste non fa altro che aggiungere fascino all’aura di misterica venerazione che aleggia attorno al guru della tech-house ChicagoDetroitiana. Theo ci fa un regalo e privo di falsa modestia lo dice senza troppi fronzoli. Col marketing, ma soprattutto con la musica. Registrato tra il suo studio di Detroit e quelli di Red Bull a Colonia e a Toronto ed arricchito di tre succulente bonus-track, l’album comprende undici “schizzi”. Lampi di genio e sregolatezza che delineano il modo sempre più global di Parrish di approcciarsi alla musica, inscenando un cross-over tra tradizione ed innovazione dai confini sottilmente ricamati, quanto la sua composizione in perenne evoluzione espansiva. Il crescente interesse rivelato dall’ex venerando del sample verso la registrazione e l’improvvisazione live è evidente fin da subito. Cartina di tornasole è il ricco contributo apportato all’album dalla Rotating Assembly, collettivo di super lusso di musicisti jazz, soul e afro-beat accorpato dallo stesso Theo in virtù di quest’ottica jamoriented, con gente tipo John Douglas ai fiati, tanto per dire. Le tracce “orchestrali” sono infatti un trionfo di sperimentazioni ed esercizi di stile, mai fini a se stessi: dallo swing tutto drum e contrabbasso di Traffic con IG Culture (Re del broken-beat) e Benjamin Lamar alla tromba, all’ispido groove sincopato di Untitled con i piano riffs di Larry Mizell (leggenda del jazz), dai vellutati dodici minuti lo-fi alla Sly Stone del tropical-synth di 360@01:29on696 con Dumminie Deporres alla chitarra, al cantato evocativo di Hope 4 Tomorrow feat. le suadenti voci soul di Niamh Mcartney, Jennifer Dale & Rio Hunu. In A Silent Way attualizzato ai giorni nostri. L’atmosfera fusion prosegue come un fil rouge anche nei pezzi in solo, a partire dall’astrale strip ‘n slide jazz di Kites On Pluto ed Horizon, per evolversi nel crespo minimalismo afro-latin della granulare Thumpasaurus. Senza per questo dimenticare il doveroso tributo a Detroit, con un paio di pure ed essenziali tracce da dancefloor: dalla sporca e ghiaiosa bassline killer di Black Mist, alla percussione assassino-coitale di Wookie Nookie, per chiudere con il gobliniano electro-techno-funk di Feel Free To Be Who You Need To Be, che annuisce al più classico urban mix di Mr De o Drexciya. 100

Sì, Theo “si sente libero di essere chi ha bisogno di essere”, e non ha paura a ribadirlo. Come per Coltrane, la sua musica rompe i limiti delle convenzioni, esplorando territori nuovi e sonorità inaspettate. Come Sun Ra, non sfugge, ma si confronta con la tecnologia e tenta di umanizzarla, plasmando fittizie sculture sonore fatte di accordi inauditi in cui fondere magicamente frammenti delle culture musicali più disparate. Oggi, come venti anni fa. Non ci sono giri di parole, Theo prende per la gola ancora una volta. E noi lo amiamo per questo. (7.4/10) Sarah Venturini

Twenty One Pilots - Vessel (Fueled by Ramen, Gennaio 2013) Genere: pop-rap/fakeindie Il rock-pop FM americano sta attraversando una fase per certi versi nuova: se nella seconda metà degli anni ‘90 il dominio fu del post-grunge (e meteore annesse) e, nella prima parte degli anni zero, del nu metal/modern rock (e Meteore annesse), da qualche anno, tra effetto long tail e indie->mainstream, stiamo vivendo in un panorama più variegato - non per questo necessariamente migliore - in cui i chitarroni vengono sostituiti da chitarrine, freshtunes, full-of-energy e spensieratezza. Il 2012 si è da poco concluso con un poker di protagonisti che rispondo ai nomi di Mumford & Sons, Of Monsters And Men, The Lumineers e Imagine Dragons. Seguendo questa ventata di happy vibes evitiamo deprimenti confronti nostalgici con quello che accadeva venti anni fa (Nirvana, Pearl Jam, RHCP, RATM...) e guardiamo al 2013: uno dei primi breakthrough potrebbe essere quello dei Twenty One Pilots. Originari dell’Ohio, Tyler Joseph e Josh Dun danno vita al progetto Twenty One Pilots sul finire dello scorso decennio con un omonimo album autoprodotto, prima di approdare alla Fueled by Ramen - infausta bandiera del fake-emo ‘00s - che prima gli pubblica il Three Song EP e poi, quest’anno, l’album Vessel. L’impatto visivo è piuttosto lontano dai canoni mainstream: il batterista Josh Dun batte energicamente sulle pelli via Travis Barker, mentre Tyler Joseph si alterna tra microfono e piano a metà tra l’indie-popper più patinato e linee di derivazione hip hop. L’idea alla base però è molto meno interessante di quanto possa sembrare: l’intento è unire il pop-rap (Eminem in alcuni frangenti) con tutto il contesto pseudo-indie degli ultimi tempi (Fun., Walk the Moon e compagnia) in brani ruffiani destinati agli under-18, resi ancora più odiosi dal timbro melodico-vocale di Tyler, in bilico tra teen-rock di marca MCR e le derive post-Gibbard dell’impresentabile


Owl City. Un brano come Ode to Pop racchiude l’essenza crossoveristica del duo: strofa rap, improvvisa sterzata power-pop, coralità target-Glee e didattiche intrusioni elettroniche. Il singolo Holding On To You è ottimo per le radio, così come Migraine e il suo pacchiano ritornello; più audace invece - seppur con molti limiti - l’utilizzo del synth trancey di Car Radio (con tanto rimpianto automatico per la Blinded By The Lights di The Streets). A completare la gamma radio-friendly non possono mancare la scappatoia folk-pop di House Of Gold e la piano ballad Truce. Vessel è una spremuta di disimpegnato easy listening di spessore nullo e con un grande difetto: appena terminato il suo ascolto, qualsiasi proposta - anche la più insignificante - rischia di essere rivalutata in positivo. (4.7/10) Riccardo Zagaglia

Two Moons - Colors (Two Moons, Settembre 2012) Genere: dark-wave “If you want, the colors are millions. It is easy to choose”. Questa è la frase che balza all’occhio dopo aver sollevato il cd dal tray trasparente per introdurlo nel lettore (sì, quelle cose d’altri tempi..): ma quali sono i colori nella tavolozza dei Two Moons? Prova a spiegarlo Alexa Invrea, autrice del dipinto in copertina, con il contrasto stupefacente tra un acceso sfondo giallo-verdognolo e la figura di un angelo imbronciato, androgino, dalle ali piumate. Ci aiuta anche il logo della band di Bologna, con l’abbraccio di una mezza luna nera e una bianca. Colors è un disco che si compiace dei suoi enigmi, delle sue ambivalenze, che vive in atmosfere notturne e rappresenta un omaggio sincero alla stagione d’oro della dark-wave. Una spremuta filtrata d’influenze (prevalentemente anglosassoni) rielaborate con un proprio linguaggio e con buone canzoni a supportare l’intera operazione. Potrebbe sembrare una facile scorciatoia, oggi, tuffarsi a pesce nelle sonorità tanto care ai Bauhaus, a Blixa Bargeld e al mondo che ruota intorno alla 4AD di Ivo Watts-Russell. Ma qui siamo nel terzo millennio, a Bologna, e i ragazzi (Emilio Yan Mucciga alla voce, Giuseppe Taibi al basso, alle chitarre, ai campionatori e alla drum machine, Vincenzo Brucculeri alle chitarre e ai sampler e Angelo Argento alla batteria) non sono degli sprovveduti. Autori di una proposta che rinuncia alla lingua madre, con nove canzoni (più una ghost track) in inglese, hanno celebrato con il loro primo album (il precedente lavoro The First Moon, del 2009, è un Ep) un matrimonio felice e lugubre, come un film di Tim Burton, tra il post-punk tutto chitarre, basso e batteria e l’elettronica dei Depeche

Mode d’antan. A volte i due mondi s’intrecciano, altre volte tengono le debite distanze. A fare da collante è la voce di Emilio, che lavora su tonalità profonde, tipicamente dark, evitando di eccedere nella teatralità. Ian Curtis li guarda dall’alto, immaginiamo compiaciuto, mentre si dilettano nell’opening track Stars (l’atmosfera è claustrofobica, i synth entrano nella scena con prepotenza e verso la fine, per stemperare gli animi, suonano come il sottofondo di un vecchio videogioco Arcade), mentre al Gary Numan odierno farebbe comodo, in repertorio, un brano come In The City. Taibi (che si è occupato anche del missaggio e della post-produzione) fa il Peter Hook della situazione, con la riverenza che si deve ai maestri, nel gioiello Labyrinth (dalla melodia indovinata e il suono robusto). I pad fluttuano nello sfondo della title track, mentre la voce eterea, affogata nel riverbero, di Francesca Bono (Ofeliadorme) dà quel tocco in più per far decollare Moon That Watches Me. La batteria elettronica di Automatic Smile richiama i pattern indimenticati di Lament dei Cure, mentre in Nothing i quattro spostano le lancette con un trucco e presentano la loro Day Of The Lords. Nonostante le premesse, è lampante che i colori che i Two Moons prediligono sono il nero e il viola, e le luci sono rigorosamente al neon. I contrasti però si compensano e creano un dipinto che affascina, che vive nel presente pur rievocando il passato. C’è un po’ da lavorare sulla pronuncia, ma Colors a conti fatti resta un documento incoraggiante di una band che può affinare ulteriormente le proprie armi e stupirci con il prossimo album. (6.5/10) Alessandro Liccardo

VietNam - an A.merican D.ream (Mexican Summer, Febbraio 2013) Genere: psych-blues Prendete i primi Black Keys, piazzate come lead-singer Giby Haynes dei Butthole Surfers e fateli accoppiare con un certo incedere à la Veils. E’ questo che sembra dire Michael Gerner, barbutissimo leader dei VietNam e personaggio proveniente da Brooklyn. Uno che nella vita è riuscito a transitare agevolmente fra set di film porno, traversate degli States in compagnia di un’unica valigetta e della propria chitarra e la musica che ne vien fuori. Esordio nel 2004 per Vice, seguito a tre anni di distanza dal sophomore omonimo su Kemado, prima di dedicarsi a ben cinque anni di (pseudo)silenzio trascorsi nella propria stanza ad esplorare mondi più lontani - fatti di synth e scenari ambient - sotto l’alter-ego D.A., prendendosi anche la briga di sonorizzare alcune pellicole di cinema indipendente. 101


Ora il ritorno, con questo an A.merican D.ream (per Mexican Summer questa volta), all’attitudine rock’n’roll che più sembra appartenergli, grazie anche a una lineup ampliata a ben sei elementi con le aggiunte di moog e violino. Spianate le bandiere sudiste, i VietNam ci trasportano in un universo fatto di psichedelia acida, canzoni di protesta e rivoluzione hippy, fra le linee vocali trascinate di Stucco Roofs e le caldissime chitarre di Fight Water w/Fire. I capolavori di armonica dello - splendido - primo singolo Kitchen Kongas introducono invece alle sovrastrutture bluesy presenti anche in No Use In Cryin’ e Blasphemy Blues, con spazio, infine, per le reminescenze latin-southern rock di Flyin’ e l’approccio 16 Horsepower di Yaz. Un disco abbastanza maturo, anche se non sempre ispiratissimo, in cui la forma canzone sfuma talvolta in divagazioni e interludi un po’ superflui. Momenti che comunque non appannano eccessivamente una produzione che, all’interno dei confini di genere, potrebbe essere piuttosto apprezzata. (6.2/10) Marco Masoli

Walter Marocchi Mala Hierba - Alisachni (Autoprodotto, Gennaio 2013) Genere: jazz-fusion Le iniziali Apolide, Il mago del Memè, Il tango del pesce azzurro e Hobo sembrano parlare di un disco di jazz contaminato in bilico tra funk-fusion, ritmi à la Brubeck e blues. Invece Alisachni, secondo lavoro dei Walter Marocchi Mala Hierba - alle spalle un esordio come Impollinazioni accolto un po’ ovunque con i giusti plausi -, opta per una visione musicale a 360 gradi, coerente con la strada fin qui percorsa e forse persino troppo ampia. Ai brani di cui si diceva, si sommano la musica cubana de La Cueva Del Gato e la contemporanea di Nidi, i Balcani di Trebisonda e il folk orientaleggiante di Yalistan, sulle ali di un sound ribollente di stimoli e mai domo. Fondamentali, in questo senso, le capacità tecniche di una formazione che abbraccia un nucleo costituito da pianoforte, basso, batteria, chitarra, sommando poi apporti strumentali essenziali a caratterizzare le varie tappe del viaggio: nello specifico, sax, bouzouki, cajon, bandeon, flauto, duduk, clarinetto, bandurria, ciaramella. Un giro del mondo che, generalizzando, potremmo posizionare tra un jazz punto di incontro di varie direttive e certe istanze prog di scuola Area/Mauro Pagani. Materiale non troppo specialistico, di carattere e divertente. (6.9/10) Fabrizio Zampighi

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Wraetlic - Wraetlic (Convex Industries, Febbraio 2013) Genere: Techno La solitudine dei musicisti non è mai stata un segreto. Lavorare in condizioni spesso appartate, correndo il rischio di venire considerati solo in virtù del successo percepito, è da sempre motivo di emarginazione per molti. Quando la musica diventa una forma di automedicazione, può tramutarsi in un’arma a doppio taglio? E’ la domanda che dovrebbe porsi il nostro Alex Menzies, il David Lynch della celebral-techno, che sotto l’inedita veste dell’alias Wraetlic (acronimo per l’anglosassone “Wraith-like”: non a caso, “spettrale”) sfodera un primo LP su Convex Industries di undici canzoni dalla struttura pop, pericolosamente in bilico tra divanetto bordo pista e lettino da ospedale psichiatrico. Nonostante la dub-atmosfera sia ancora Basic Channel, il disco parla un’elettronica ruvida e malinconica in puro stile Warp 90’s, con i riflettori puntati sulla voce. Il tutto sulla scia del lavoro in precedenza affrontato sia in Paradolia che in Lux - anche se più astrattamente - ed inscenando un teatrino di musica anti-sociale tutta lo-fi synth e drum machine che è un paradiso per feticisti analogici, sebbene respiri Aalto in ogni angolo. In questo senso il disco centra l’obiettivo, arrivando a toccare la sfera emozionale con il solo algido potere della macchina, roba da Matthew Dear ai tempi di Black City. L’apertura di Anothering, in cui Smoke organizza trame di arpeggi d’India sotto la voce Bowie-school, farebbe ben sperare, un po’ come l’elegiaco elettro-bass swing di Rats e la Yorkiana astrazione di The Watchful Eye. Pezzi ben riusciti, impiegando parti vocali distorte al punto giusto. Al pari della controversa PintleGrist, dove morbide melodie di lavoro pad e dirompenti incursioni di squelch elettronici si avvicendano in sottile equilibrio, sullo sfondo di sillabe fuse alla maniera di certi The National passati attraverso un modulatore ad anello. Alla lunga l’effetto è però stancante. C’è tanto pathos implicito e poco fuoco, al punto che l’insieme rimane davvero troppo involuto. Paradossalmente, un disco che punta tutto sulla voce finisce per subirla come l’elemento più vincolante, e non bastano certi giochetti dall’appeal wave minimal ad acquietare il senso di precarietà incombente. Sebbene sul finale Menzies piazzi un paio di doverosi incrementi ritmici frammentando la sua voce nuvolosa ed offrendo il miasma noir-ish che pervade l’album stavolta con maggiore attrito e urgenza, si tratta comunque di scorci poco allettanti del passato che qui suonano come un fastidioso “se”. Better The Devil e Rats si limitano a mostrare dove Wraetlic potrebbe andare con un po’ di olio di gomito in più, un subwoofer e un


rinnovato spazio per respirare. Discorso a parte per i tre remix conclusivi - inseriti non a caso da quei furboni della Convex Industries - che poco hanno a che spartire con la base emotiva dell’album e sono tre semplici bombe ad orologeria da dancefloor. La versione di Scunner firmata Jon Convex, rinforzando il nucleo pulsante di altalena goth-electro dell’originale, ci offre però uno sguardo su quanto potente il progetto avrebbe potuto essere con maggiore audacia ed inventiva. L’album è molto più di un semplice disco da ballare. O meglio, avrebbe voluto esserlo, e nel tentativo di riuscirci, resta un ibrido tra entrambe le cose. A tratti delinea un profilo di quel disagio esistenziale che intende comunicare, troppo spesso riflette semplicemente e, nel tentativo di nascondersi, sussura e accenna senza arrivare. Materiale troppo compiaciuto del suo stesso malessere per servire come qualcosa di più che cibo-spazzatura consolatorio per soggetti psicologicamente instabili. (6.4/10)

metal chirurgico anni ‘90 (giro Fear Factory e Meshuggah per intendersi), (post)hardcore evoluto, pesantezze noizu alla Zeni Geva e doom psicotico in un vortice senza soste che ha però il grande pregio di non annoiare mai e, anzi, di risultare coeso e brillante. Disincantato nella sua ferocia, sempre pronto a sorprendere con stacchi e cambi di ritmo e molto attento a non prendersi mai sul serio, nonostante una bocca di fuoco che a volte mette veramente paura per la violenza sprigionata. Una violenza che oggigiorno può non sconvolgere, che può risultare risentita quanto si vuole ma che rimane pur sempre devastante e terribilmente spaventosa. (7.4/10) Stefano Pifferi

Sarah Venturini

Zeus! - Opera (Tannen , Febbraio 2013) Genere: noise Non azzardiamo troppo se definiamo gli Zeus! i Locust di casa nostra. Non azzardiamo perché Justin Pearson, che di quella esperienza seminale per il noise brutale fu trascinatore nonché mentore, non solo coproduce l’album, ma ci mette la faccia in un pezzo (Sick And Destroy) stabilendo più di un contatto tra la defunta (defunta?) band made in San Diego e il duo formato da Luca Cavina e Paolo Mongardi, ormai soprannominato prezzemolino d’acciaio per l’energia e i progetti in cui si applica. Se lì era un mix di mathcore e grind a deflagrare in faccia all’ascoltatore, qui siamo più su un versante noise e weird-prog, ma velocità esecutive e parossismo strumentale non sono troppo distanti. L’accoppiata basso/batteria, entrambi in distorsione, reitera la formula minimal-noise à la Lightning Bolt di cui il duo non è però un mero epigone. Anzi, rielaborandone le trame vertiginose e il rifferama mai scontato ne fornisce una versione personale, intrisa di sarcasmo (i fantastici titoli delle canzoni dicono di una autoironia sagace e puntuta che è sempre benvenuta in ambiti spesso tropo seriosi), strumentalmente più pulita e focalizzata, incline com’è a formulari prog-alieni e devianze -core in ogni salsa. Così l’assalto sonico di canzoni come Lucy In The Sky With King Diamond, La Morte Young, Giorgio Gaslini Is Our Tom Araya o Bach To The Future tocca vertici metal decontestualizzati, lande No Means No, rimasugli post-Flying Luttenbachers senza jazz, (black?)metal a doppia cassa, 103


Gimme Some Inches #35

Il consueto appuntamento coi pezzi piccoli questo mese vede protagonisti Ronin, Cut, Julie’s Haircut, Lust For Youth, Youth Code, Belgrado and many more... Prendi un vinile piccolo e vai di cover astrusa, potrebbe essere il motto di questo mese. Forse è una casualità, forse no, ma ci capitano sotto mano, e di conseguenza ve li segnaliamo con molto gusto, un paio di sette pollici di band abbastanza note dell’underground italiano dedite a coverizzare roba a dir poco bislacca. Cominciamo con lo split Downtown Love Tragedies che vede spalleggiarsi Cut e Julie’s Haircut, nomi storici del panorama musicale italiano pronti al rientro in pista: i primi con la ristampa di Operation Manitoba, i secondi con l’appena confermata presenza al Transmissions di Ravenna, come testimonianza di una assodata accettazione anche in ambiti non proprio rock. Sul lato A i Cut vanno di cover di un classicone disco del calibro di Emma degli Hot Chocolate, anni di grazia 1974, già ampiamente coverizzata da Urge Overkill e Sisters Of Mercy, tra gli altri. Se all’epoca il producer Mickie 104

Most aggiunse quelle tonalità scure che caratterizzavano il pezzo, oggi i bolognesi procedono ad una sorta di joydivisionizzazione, con una linea di basso pulsante e costante, esplosioni di rumori synthetici in sottofondo e una voce grigiamente soul che ipnotizza e rimanda ad un effetto di retro futurista straniante e languido. La risposta dei Julie’s Haircut non è da meno, con la ripresa di Who Is He And What Is He To You pezzo soul di Bill Whiters ripreso anche da Marvin Gaye. Altro pezzone sull’amor tradito e sofferto, tutta passione e gelosia che si traduce in eleganza e raffinatezza virata (electro)noir come il Nick Cave dell’età di mezzo. L’altro 7” è quello dei Ronin, uscito in questi giorni per la serie made in Bronson. Ad essere presi in considerazione sono due “oggetti” storici, quasi al limite del mito per una generazione pre-Lost: le cover del Main Theme di Twin Peaks e il Laura Palmer Theme. Sì, Badalamenti e

Lynch, ossia un connubio che ha segnato intere schiere di tv-addicted e che il quartetto capitanato da Bruno Dorella rende al meglio, dimostrando che l’ambito prediletto è proprio quello “cinematico”. Didascalico il tema portante della serie, ma non potrebbe essere diversamente, visto che rasentava la perfezione; molto più personale e accesa la resa del Laura Palmer Theme che pur non discostandosi dall’originale, ne fornisce una versione meno cupa e opprimente. Pollice su. Scavando in ambiti più oscuri, due promettenti novità in ambito EBM/ industrial dance, una a testa per le due celebri coste degli States. Per il versante est, arrivano i newyorkesi Believer/Law. Il duo di Brooklyn composto da Michael Berdan (exDrunkdriver, già York Factory Complaint e Veins) e Erik Proft (Kama Rupa e EMP) nei pochi mesi di attività ha già licenziato due tapes (la prima per Cae-Sur-A, la seconda su Robert & Leopold) da due pezzi ciascuna. Immaginate un ruvido e primitivo misto di scuola Wax Trax, Line Assembly e Nitzer Ebb e avrete un’idea della violenza della pasta


sonora in esame. Atmosfere asfittiche create dai rumori di sottofondi sui cui si innestano beat meccanici e una voce distorta da effetti e disagio mentale. Per l’estate è previsto il full-length per la Blind Prophet di Sean Ragon che da un paio di anni ormai non smette di confermarsi ottimo occhio vigile dell’underground punk/industriale più rauco e ispirato. Dalla west coast invece giunge al primissimo debutto su nastro un altro duo di pari efferatezza. Vagamente più canonici ma non per questo meno virulenti, i losangelini Youth Code si sono autoprodotti Demonstrational Cassette, in attesa che un altro alfiere del sottomondo più incompromissorio (leggi: Dais) pubblichi l’LP, previsto anch’esso per l’estate ventura. Nel frattempo, gustatevi questi quattro pezzi a base di drum machines martellanti, voci cavernose e synth pericolosi come lame arrugginite.. e poi non dite che i bei tempi sono andati. Tornando in Europa ci imbattiamo piacevolmente nel ritorno su vinile breve degli spagnoli Belgrado. Il combo peace-punk capitanato dal-

la magnetica Pat ha infatti da poco rilasciato un nuovo singolo per la londinese La Vida Es Un Mus. Due pezzi in cui i ragazzi di Barcellona espandono il range sonoro tipicamente post-punk che aveva caratterizzato l’omonimo album d’esordio, puntando su una produzione più aperta e batterie più percussive. Anche per loro si intravede un nuovo LP all’orizzonte, anche se per ora dovremo accontentarci delle due tracks di questo Panopticon/Vicious Circle. Salendo più a nord, verso le fredde terre scandinave, troviamo ancora una volta i prolifici Lust For Youth che, forti del nuovo contratto con Sacred Bones, tornano a breve distanza dall’ultimo EP Saluting Rome con un nuovo maxi-singolo su 12 pollici. Come già paventato proprio nel suddetto EP, Chasing The Light vira bruscamente su atmosfere danzerecce e ritmi più blandi. Meno sporcizia e claustrofobia in favore di un sytnth-pop diretto e accattivante, dal sicuro appeal retrò. Ragionevole aspettarsi che anche il nuovo full, in uscita prossimamente sempre per la label newyorkese,

continui su queste sonorità ludiche e catchy che tanto sembrano attirare l’attenzione, sia in patria che oltre oceano. Limitrofi ai LFY sia geograficamente che musicalmente, tornano anche i londinesi Natural Assembly. Il duo composto da Jesse Cannon & Zen Zsigo, dopo il primo mini Arms Of Departure, rilasciano tre nuovi brani per la Sans Issue di Pierre-Marc Tremblay, in arte Contrepoison, a testimoniare nuovamente come tutto si intrecci nel sottomondo post-industriale tra le mani di pochi ma agguerriti attivisti. Rispetto alla precedente uscita, i toni di Torn From Infinity si fanno, ancora una volta, agilmente più dance, con Carnal Blue che fa da traino al 7 pollici in questione grazie a una energica soluzione di synth accattivanti su cassa dritta senza rimorsi. Tempo di un LP anche per loro. Stefano Pifferi, Andrea Napoli

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david

Bowie Le dinamiche del cambiamento - Parte 1 Il sorprendente ritorno di David Bowie è un invito indeclinabile a ripercorrere l’impatto della sua vicenda artistica su oltre quattro decadi di pop-rock. Testo: Stefano Solventi 107


Intr o : i n t erp retare l’assen z a Era il 2003 quando la realtà cadde addosso a David Bowie. Curioso che fosse durante il tour di un disco intitolato Reality. Infarto. Cui seguì un intervento di angioplastica, a quanto pare riuscito bene. Dopodiché David Robert Jones interpretò forse la sua messinscena più clamorosa: la sparizione dalle scene. Per un decennio ne abbiamo saputo poco, pochissimo. Un riserbo sconcertante anzi prodigioso, considerando l’onniscienza sempre più capillare dei media ed i suoi trascorsi da punta di diamante dello shobiz: lui il più alieno dei glamour, il più scandaloso degli ibridi, il più gelido dei tossici, l’iperattivo promotore di se stesso e il resuscitatore di carriere altrui, è stato capace d’incarnare il ruolo di Grande Assente per gran parte dei frenetici e dissestati anni Zero. Lo abbiamo visto ritratto in foto rubate mentre compra il giornale o attende qualcosa/qualcuno ad un angolo di New York, dove risiede ormai da anni. Un po’ come accadde all’amato Syd Barrett, però con molti più agi, una splendida famiglia e senza quell’aria da alienato suburbano. Abbiamo letto di voci allarmanti riguardo le condizioni di salute, tanto da spingere quei buontemponi dei Flaming Lips ad intitolare un loro tipico folle pezzo Is David Bowie Dying?, suonato assieme ai Neon Indian e contenuto nella raccolta di collaborazioni The Flaming Lips and Heady Fwends (Warner, 2012). Ci siamo fatti solleticare dall’idea d’imbarcarci per Londra questa primavera dove, a partire dal 23 marzo al Victoria & Albert Museum, si terrà David Bowie Is, mostra che vedrà esposti oltre 300 memorabilia (strumenti, costumi, studi per gli artwork, partiture...) appartenuti o che hanno in qualche modo avuto a che fare con “The Dame”, tanto per utilizzare un altro dei nomignoli che gli sono stati affibbiati. Infine, con un sommo coup de teatre, Bowie ha saputo aggirare tutto l’apparato dei rumors per lasciarci di stucco col rilascio del nuovo singolo (e relativo video) nel giorno del suo sessantaseiesimo compleanno, assieme alla notizia dell’imminente nuovo album previsto - guarda un po’ sempre per marzo 2013. Nulla era trapelato nelle settimane, nei giorni precedenti. Soltanto un tweet, pare, del figlio Duncan in anticipo di poche ore sull’annuncio ufficiale. Del resto, Bowie è stato tra i primi ad entrare in confidenza coi codici del web, e a quanto pare è tra i più abili a sfuggirne. Chapeau, Duca Bianco. Quanto al pezzo inedito Where Are We Now?, è stato materia di molta speculazione e non poteva essere altrimenti. Una ballata struggente, dimessa, quasi arresa, nella quale le propulsioni futuristiche berlinesi del passato collassano su visioni di quotidiano disarmo, flash toponomastici svuotati di tensione, il canto da cro108

oner allo stremo, provato, sul punto di mollare la presa e tuffarsi nella mancanza di slancio senza appello della metropoli al tempo della grande crisi post-ideologica e iper-tecnologica. Non è una grande canzone, ma è grande la vertigine che procura se interpretata come bilancio di un percorso artistico formidabile, per il senso di grandioso fallimento come approdo (forse) evitabile: è un po’ come se ci dicesse, “tutto è stato vano ma avevo il dovere di provarci con ogni mezzo, andando fino in fondo ad ogni strada”. Non è stata priva di conseguenze, la carriera di David Bowie. Per se stesso, per il rock, per il cinema ed il teatro, per il modo in cui percepiamo tutto questo in quanto individui appassionati e come parte della massa (una massa di spettatori). Non rientra nelle possibilità di un articolo esplorare in maniera esaustiva uno spettro tanto vasto e trasversale. Qui si ascolta soprattutto musica, si valutano (si amano e si odiano) dischi, ne seguiamo le traiettorie abbozzando consuntivi e ipotesi. Una prospettiva forse troppo stretta che pure già è capace di produrre parecchi spunti di riflessione. Quantomeno, intendiamo provarci.

A lbori situaz ion isti Non parliamo di un predestinato, ma una determinazione formidabile muove fin da giovanissimo David Robert Jones, nato a Brixton, quartiere storicamente multietnico (con marcata prevalenza afro-caraibica) del sud di Londra, l’8 gennaio del 1947. In famiglia non ci sono musicisti, il padre Haywood Stenton è macellaio, la madre Margaret ha un precedente matrimonio alle spalle da cui ha avuto un figlio, Terry, il fratellastro con problemi di schizofrenia che probabilmente ha rappresentato una sorta di costante rumore di fondo nella cifra espressiva del futuro Bowie. Il quale, ancora bambino, rimane impressionato dal rock’n’roll, sogna di far parte della band del fenomenale Little Richard e - galeotto un libro sulla didattica musicale regalatogli da Terry, con al centro a quanto pare la figura di Gerry Mulligan - si accorda col padre affinché la paghetta derivata dalle consegne di carne venga utilizzata per acquistare un sax di plastica. E’ il 1959: quello che per alcuni potrebbe sembrare uno sfizio, per il giovane Jones diventa l’unico spiraglio per uscire dal cul de sac del quartiere, uno dei pochi motivi per cui valga la pena spendere energie. Per questo, quando decide di prendere lezioni, non sceglie un insegnante qualsiasi ma si affida ad un calibro come Albert Ronald “Ronnie” Ross, uno che ha suonato il sax baritono sul palco del Newport Jazz Festival e tra le fila di band prestigiose come il Modern Jazz Quartet. I flirt di Ross col pop-rock non si limiteranno alle peraltro poche sedute


con David: lo ritroveremo in Savoy Truffle dei Beatles, coi Walker Brothers e molto più avanti - pieni Eighties con Julian Cope, Simply Red e Matt Bianco. Soprattutto, Bowie ricorrerà a lui quando, producendo Transformer di Lou Reed, ci sarà da confezionare l’indimenticabile assolo di baritono di Walk On The Wild Side. A proposito della determinazione di cui sopra, in questo periodo - primi anni Sessanta - il Jones adolescente è una specie di trottola febbrile: a quindici anni, messo nel cassetto il diploma in arte e design, lascia casa dei suoi per trasferirsi a Londra dove lavora come grafico e diventa - non poteva essere altrimenti - un mod. Si mette a sbraitare col sax da una band all’altra, una più estemporanea dell’altra: nomi come The Konrads, King Bees - coi quali incide un 45 giri, Liza Jane/Louie Louie Go Home, nel quale si presta per la prima volta come cantante -, Manish Boys (autori di una I Pity The Fool torridamente bluesy con un assolo di chitarra tagliente firmato Jimmy Page) e Lower Third. Fa beat con impeto Them, urletti Beatles e capricci kinksiani, un beat con in testa e nel cuore gli amati beatnik, alle cui opere è stato introdotto dal fratellastro Terry e alla cui cifra comunicativa sostanzialmente jazzy e viscerale il sax vorrebbe alludere. Ma non mette in mostra un particolare talento, semmai molta velleità e ben poca originalità. Non a caso il successo non arriva, il successo sembra un miraggio, anche se il giovane apprendista starman non demorde, insiste con tenacia, invaghito dalle fiamme del palcoscenico. Brucia errebì quanto possibile, mimetizzandosi nella cultura mod dall’uniforme stilosa -

ancorché ibridata di elementi hippy - alle pasticche di anfetamina. Eppure, c’è anche il David Jones con l’istinto dell’audience, quello che nel novembre del ‘64 si presenta al programma Tonight della BBC, sorta di talk show condotto da Cliff Michelmore, spacciandosi per il fondatore della “Società per la Prevenzione della Crudeltà verso i Capelloni”. Il caschetto platinato come un fratello algido di Brian Jones, la flemma seriosa che amplifica il lato goliardico della faccenda, questo proto-Bowie diciassettenne contiene già elementi che ne caratterizzeranno le mosse future: la messinscena lucida e il gusto della provocazione mai dissociato da una genetica ironia. Probabilmente sta iniziando a capire che nella dimensione dello spettacolo esisti solo in quanto finzione, ovvero che la finzione è l’unico codice possibile per calarsi nella realtà dello spettacolo (o nello spettacolo come realtà), quasi incarnando così il celebre détournement di Guy Debord sul mezzo televisivo: “in tv ogni momento del vero coincide col momento del falso”. O, meglio ancora: “lo spettacolo inteso come inversione del reale è effettivamente realtà.” Ma il fondamentale saggio La società dello spettacolo del celebre situazionista francese uscirà solo nel ‘67. Troppe cose da fare nel frattempo. Ad esempio, diventare Bowie, come il coltello affilato su entrambi i lati (“bowie knife”), per fuggire l’omonimia con Davy Jones dei Monkees, il gruppo-madre di tutti i gruppi fake. Strano: la finzione pare assediarlo, sembra spingerlo lungo un piano inclinato di ulteriore infingimento. Persino i segni particolari ci si mettono, con quell’occhio

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sinistro verde/marrone anziché azzurro a causa di un pugno preso nel ‘62 da George underwood, che peraltro rimarrà suo grande amico e collaboratore. Un segno particolare che ne rende improbabile, incredibile l’aspetto. Come fosse un trucco. Nel 1966 il falso/vero David Bowie è pronto ad affrontare la prova della finzione/realtà. Con un nuovo manager, Ken Pitt.

Prime c o mmist io n i Pitt ci sa fare e procura a Bowie un contratto con la prestigiosa Pye Records, nel cui roster figurano i Kinks, Petula Clark e Donovan. Già nel gennaio del ‘66 esce un singolo a firma David Bowie With The Lower Third che dimostra una calligrafia più definita, anche se la carezzevole commistione tra folk acido, errebì e retaggi doowop di Can’t Help Thinking About Me e And I Say To Myself possono poco rispetto alla fioritura rock del periodo (sul finire del ‘65 erano usciti lavori captali come Out Of Our Heads degli Stones, Kontroversy dei Kinks, Rubber Soul dei Beatles, My Generation dei The Who...). Se non altro sembra delinearsi in maniera decisa la figura del Bowie cantante, accantonata la fregola del sax a favore di un’espressività crooneristica sempre più spiccata. Un successivo 45 giri - lato A con la baldanzosa Do Anything You Say e una Good Morning Girl swingante e stradaiola con la nuova band The Buzz - sancisce un insuccesso paragonabile al precedente. I margini di manovra sono troppo angusti per il leader che abbandona i Buzz a se stessi, firma per la Deram ed avvia la carriera solistica. Significativo che il primo singolo sia I Dig Everything, più che per la valenza musicale - disinvolto errebì screziato di latinerie che sembra strizzare l’occhio a Van Morrison - per quel titolo che sembra una dichiarazione d’intenti. Quelli che seguono - tra l’agosto del ‘66 ed il luglio del ‘67 - sono escursioni sempre più marcate nel folk psichedelico, marcette bizzarre come The Laughing Gnome e Rubber Band, strali impertinenti e balzani come Love You Till Tuesday, ma anche vaticini di languido lirismo come The London Boys, dedicata alla scena mod della City. In mezzo a questo fervore creativo c’è modo per sfornare l’omonimo album d’esordio (Deram, 1 giugno 1967, 6.0/10), prodotto da Mike Vernon - già all’opera coi Bluesbrakers di Eric Clapton - ed uscito lo stesso giorno del fatidico Sgt Peppers, l’album che rese immediatamente più piccolo e vecchio tutto ciò che suonava attorno. Bisogna dire che se le intuizioni e la mostruosa padronanza sonica dei Fab Four sono oggettivamente inarrivabili, è interessante almeno notare in questo primo Bowie l’attitudine alla bizzarria bandistica, le commistioni music hall (vedi su tutti il valzerino di Little Bombardier), il gioco 110

libero e sconclusionato dei testi che tradiscono l’ammirazione per i primi Floyd di Syd Barrett (intercettati al Marquee già nel ‘66), per non dire di quella Silly Boy Blue - i cui demo risalgono almeno al periodo Lower Third che abbozza un trasporto dai toni epici e tanta voglia di esotismo. Sembra proprio che il giovane mod sapesse benissimo da che parte soffiava il vento, per quanto gli mancassero ancora le chiavi per catturarne il mood con forza sufficiente. Quel luglio però risulterà fatidico anche e soprattutto per l’incontro con Lyndsay Kemp.

T urn ing po int “E’ stato il grande amore della mia vita”, dichiara Kemp quasi tre decenni più tardi. Un “angelo” piovutogli addosso e volato via troppo presto. Bowie, di contro, dichiara che non fosse stato per l’incontro col mimo, visto il susseguirsi di frustrazioni come musicista, si sarebbe fatto monaco buddista, magari trasferendosi in Tibet. Difficile da credersi, anche se è vero che sulla scorta della delusione decide di mollare in parte la musica per dedicarsi alle attività della Tibet Society. Più facile prestare fede ad un’altra dichiarazione: “penso che fu allora che il mio interesse per l’immagine si sviluppò realmente”. Di certo è un periodo di grande voracità per Bowie, in ogni senso. Si getta su tutto quello che la vita londinese può dargli con la voracità di un vampiro: la sessualità sfrenata e del tutto trasversale come una chiave per accedere al boudoir dei segreti artistici e spirituali. Nella fattispecie, galeotta è una segretaria di Pitt che insiste perché David vada allo spettacolo di Kemp, non fosse perché - gli riferisce - nell’intervallo usano far suonare le canzoni del suo sfigato album. Lui è titubante, lo spettacolo di mimo non lo interessa, ritiene sia un codice espressivo superato, vecchio, circense. Invece rimane folgorato dal taglio contemporaneo dell’eccentrico (eufemismo) Lindsay, quel gioco simbolico di particelle elementari sul filo teso delle inquietudini archetipe, un esistenzialismo magico che prende vita grazie ad un potente esercizio di finzione. Ecco la parola magica: finzione. Il palcoscenico come luogo in cui la finzione accade, mimesi del reale a partire da un nulla posto come il grado zero dell’irreale, ovvero la sostanziale equipotenza tra reale e irreale, tra finzione e realtà. Illuminazione e turning point. Relazione sessuale/ sentimentale e liasion artistica sfociano in una collaborazione effettiva. Nel dicembre del ‘67 va in scena all’Oxford New Theatre il nuovo spettacolo di Kemp, Pierrot in Turquoise o The Looking Glass Murders, musicato dall’ex-mister Jones che si cimenta pure nella parte di Cloud, con risultati non eccelsi ma tutto sommato accettabili per un debuttante. L’esperienza risulterà seminale,


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più tardi, già famosissimo, sosterrà di sentirsi “più un attore o un comico che non un musicista” (Melody Maker, gennaio ‘72). Uscita sensazionalistica tra le altre, forse, ma tant’è. Si immerge nel teatro brechtiano e in quello giapponese Kabuki - mutuato da Kemp - assorbendone modalità e situazioni. Fa proprie le strategie della provocazione dadaistica, divertissement e “avvertimenti” che informeranno l’attività artistica a 360 gradi, dal rapporto coi media alla stesura dei testi, questi ultimi sempre debitori della tecnica cut-up dell’amato Burroughs. “Tagliare due informazioni differenti e attaccarle in modo da ottenere qualcosa di inedito”. La gestazione del nuovo corso culmina idealmente con la visione di 2001: odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Al di là del portato filosofico, ad oggi ancora oggetto di disamina, il film arriva a condensare tutto il senso di angoscia rispetto alla tensione escapista delle esplorazioni spaziali, quell’imminenza di epoca nuova e sgretolamento dei confini mentali, un impasto di euforia popolare e vulnerabilità esistenziale. Bowie ne resta affascinato, ma soprattutto annusa - sente - che queste vibrazioni attraversano i muri delle case, entrano in sintonia con i timori e le speranze di tutti.

(Di s)simul az ion i c osmic he e qualche anno più tardi il riaffiorare del personaggio di Pierrot - enigmatico e decadente, ça va sans dire - nel celebre video di Ashes To Ashes è solo l’indizio più evidente. Il punto va forse ricercato in una celebre dichiarazione di Kemp: “ho insegnato a Bowie come liberare il suo corpo.” Da allora, il corpo di Bowie diverrà una tavolozza espressiva, la cartina di tornasole delle ibridazioni sonore, corredo tangibile del percorso artistico e punto di congiunzione tra arte e vita, tra vita e finzione. Si tratta di un processo graduale, neanche troppo rapido se riferito alla rapidità dei mutamenti in quel convulso periodo. In effetti, il ‘68 è una specie di anno sabbatico per Bowie, durante il quale idealmente cova se stesso dopo la falsa partenza dell’album d’esordio. Musicalmente sono addirittura due gli anni di assenza che separano i singoli Love You Till Tuesday (luglio ‘67) e Space Oddity (luglio ‘69). Nel frattempo il treno della psichedelia è sostanzialmente passato, ha dato il meglio di sé sulle due sponde dell’oceano, dai Beatles (Magical Mistery Tour e White Album) ai Floyd (The Piper At The Gates Of Dawn, A Saucerful Of Secrets), dai Love (Da Capo) a Captain Beefheart (Safe As Milk), dai Pretty Things (S.F.Sorrow) ai 13th Floor Elevators (Easter Everywhere), e via discorrendo. Bowie non sembra trovare l’appiglio giusto, o forse - pur dichiarandosi un appassionato totale di rock - non crede fino in fondo nel rock come forma espressiva. Pochi anni 112

La scoperta dello spazio come luogo mitico dove collocare l’origine delle finzioni e reinventarsi un’identità: in questo senso, la scrittura di Space Oddity è l’anno zero dell’era bowieana. Una “instant song” che vede il contributo in studio tra gli altri di Rick Wakeman al mellotron e un ottimo Herbie Flowers al basso (quello del celebre giro di Walk On The Wild Side), mentre una sezione d’archi confeziona lo sfondo cinematico col giusto grado d’enfasi. Un’angoscia struggente pervade la narrazione del Major Tom alla deriva nel vuoto, scollegato e inerme, “planet heart is blue and there’s nothing I can do”. E’ un precipizio orizzontale che sembra non avere fondo né fine, uno stato di coscienza più che una vicenda. Bowie canta come dal cono di luce di un melodramma broadwayano, musical e music-hall proiettati su uno schermo foderato dalla più vellutata psichedelia, un eccesso formale dotato di perfetta coerenza. Fortuna e tempismo vogliono che venga pubblicato giusto in tempo per essere scelto come colonna sonora del primo allunaggio trasmesso in diretta dalla BBC. L’audience è formidabile. Il successo, almeno in patria, è di quelli cosmici. E pensare che nelle intenzioni originali il pezzo avrebbe dovuto essere interpretato in coppia con John Hutchinson, già nei Buzz e poi nei Feathers, trio acoustic-folk messo in piedi assieme a Bowie e la di lui fidanzata Hermione Farthingale. Terminata la relazione


con quest’ultima, Bowie pensa di allestire il duo Hutch & Bowie e proprio Space Oddity avrebbe dovuto rappresentarne il debutto (esiste infatti una “original version” a loro nome). Ma John rinuncia per tornare dalla famiglia (è sposato con prole) nello Yorkshire dove lo attende una proposta di lavoro, lasciando così il povero David da solo con la sua straordinaria fortuna. Su queste basi, non ancora ben definite ma fruttuose, prenderà vita il secondo album, ancora una volta omonimo (Philips, settembre 1969, 6.4/10) - anche se la RCA tre anni più tardi penserà bene di rieditarlo furbescamente col titolo Space Oddity - probabilmente per sottolineare quanto e come rappresentasse un nuovo inizio. Tra il celebre singolo, prodotto da Gus Dudgeon, ed il resto della scaletta c’è una evidente frattura, non fosse perché dietro la console troviamo Tony Visconti, già al lavoro con i Tyrannosaurus Rex di Marc Bolan. Bolan, che Bowie dichiara di aver conosciuto imbiancando l’ufficio del loro comune manager, è animato da una foga pari o anche superiore alla sua. Prima di accorciare il nome alla band e divenire il sacerdote glitterato del glam, sforna quattro album di folk-rock psichedelico che ottengono tiepidi riscontri. Più che il loro valore, forse incautamente oscurato dai fasti degli album successivi, è interessante notare nei testi un meccanismo di alterità tematica diverso ma paragonabile a quello di Bowie, e che di lì a poco contraddistinguerà un po’ tutto il progressive. Sembra quasi che alla base dell’addivenente glam ci sia un insopprimibile bisogno di dissimulare la realtà, da parte di coloro che stavano sperimentando a livello marciapiede il limite fisico delle illusioni hippie. Quello che è certo è che il Bowie del ‘69 possiede una ben più strutturata consapevolezza riguardo all’importanza del personaggio nel processo espressivo. E, come si può vedere nel libretto dell’album, ne abbozza un primo tentativo, non troppo riuscito a dire il vero: l’aria da sognatore efebico tutto boccoli, le attitudini spirituali nello sguardo, se la gioca tra il banale e l’improbabile. Lo stesso si può dire delle canzoni, da una parte devote alle suggestioni americane - come il folkettino tra Dylan e west coast di God Knows I’m Good, le fragranze southern della gradassa Unwashed e una Janine pimpante come avrebbe potuto l’ultimo Elvis in una jam bucolica con la Band - e dall’altra votate ad una proposta più sofisticata, arrangiamenti orchestrali (legni e archi in primis) per situazioni fiabesche tra il lisergico e lo sciropposo (Letter To Hermione, An Occasional Dream), in bilico tra passo felpato fantasy e turgori teatrali (Wild Eyed Boy, Cygnet Committee), in definitiva più suggestioni atmosferiche che altro. In un certo senso, la conclusiva Memo-

ry Of A Free Festival, col suo peregrinare bucolico prima della lunga deflagrazione blues-psych che rammenta la coda di Hey Jude (“The Sun Machine is coming down / And we’re gonna have a party”), potrebbe essere letta come l’estremo saluto ad un’epoca naif e al punto di vista che essa determinava. Da lì in avanti le cose inizieranno a muoversi molto più velocemente, anche per Bowie.

Sodal iz i gl a m Anche il secondo lavoro precipita nelle acque agitate del mercato discografico come un sassolino che va a fondo senza fare troppi schizzi. Ma il meccanismo ha preso a girare. Nel marzo del ‘70 Bowie sposa Angela Barnett, evento reso memorabile soprattutto dalla famosa dichiarazione: “ho conosciuto mia moglie perché stavamo con lo stesso ragazzo”. Geniale, ficcante, tremendamente efficace. Quello che ci voleva perché la stampa specialistica si scandalizzasse e quella scandalistica entrasse in fibrillazione. Bowie sta plasmandosi come personaggio, icona shock sul punto di infrangere il guscio di machismo primitivista da un lato e schiantare a terra l’utopismo idealista dall’altro. Scandalosamente bisessuale quindi. E altrettanto scandalosamente individualista, sulla scorta delle letture nietzschiane cui il fratellastro lo aveva introdotto. Un cocktail esplosivo che aspetta solo di trovare il giusto dosaggio. E il corpo espressivo di cui essere l’abito, ovvero la musica, che resta pur sempre interesse primario per Bowie. Anno di unioni fatali, quel 1970, giacché stringe sodalizio con Mick Ronson, impetuoso chitarrista della band hard-blues The Rats, di cui aveva apprezzato il lavoro in Fully Qualified Survivor di Michael Chapman. Assieme a lui, più Tony Visconti al basso ed il fido John Cambridge alla batteria, mette assieme un quartetto in cui ripone molta fiducia, gli Hype. Il 22 febbraio del ‘70 suonano alla Roundhouse travestiti, pensate un po’, da supereroi (nello specifico: Bowie è Rainbowman, Visconti è Hypeman, Ronson è Gangsterman e Cambridge è Cowboyman). Probabilmente, sostiene Bowie, fu “il primo concerto glam rock” (intervista a Les Inrockuptibles, estate 1983). Finisce che non se li caga nessuno. Tranne un amico, Marc Bolan ovviamente, che impazzisce per loro. A dire il vero il travestitismo non rappresenta certo una novità tra le rock band inglesi. Il beat e la psichedelia erano stati tutto uno sfoggiare broccati e camicie lisergiche, i musicisti salivano sul palco coi galloni freak moderatamente snob e parecchio affettati, al limite e spesso oltre la cafoneria pura e semplice. C’è però una sottile differenza, destinata a diventare un solco profondissimo: 113


l’estetica glam si avvia a diventare parte integrante della proposta artistica, non è una carnevalata (più o meno opportunistica) ma una way of life e un codice espressivo organico alla rappresentazione scenica (musica e show). Di più: l’artista glam è impegnato a fare di ogni apparizione pubblica un’interpretazione, di ogni location un palcoscenico. Interviste e concerti, book fotografici e... matrimoni sono tessere dello stesso mosaico. Alla base c’è quella brama di fuga, un’ebbrezza di escapismo ai limiti della nevrosi, che poneva la reinvenzione del reale - la negazione del grigiore conformista - in posizione prioritaria. Musicalmente, Bowie s’invaghisce di nuovi modelli: non smette di adorare Syd Barrett anche dopo l’uscita dai Floyd, inoltre è tra i pochi a conoscere il lavoro dei Velvet Underground (sostiene di essere entrato in possesso dell’acetato di Velvet Underground & Nico prima che uscisse sul mercato). Ed è molto soddisfatto dalla piega che stanno prendendo gli Hype nella dozzina di concerti messi assieme tra febbraio e marzo. L’uscita dal gruppo di Cambridge - sostituito da Woody Woodmansey, anch’egli con un passato nei Rats - non è un trauma, anzi.

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I tempi sono maturi per entrare in studio e realizzare il nuovo album.

Profic u i scandal i Le registrazioni durano due mesi, al termine dei quali Bowie - su consiglio del nuovo manager Tony DeFries decide di sciogliere la band e far uscire l’album a proprio nome. Ovviamente gli altri ci rimangono parecchio male e abbandonano il buon David seduta stante, proseguendo per qualche tempo come band autonoma, con ben poca fortuna. Ribattezzatisi Ronno e chiamato Benny Marshall - anch’egli di provenienza Rats - come vocalist, licenzieranno un album per la Vertigo, 4th Hour Of My Sleep, nel gennaio del ‘71: senza lasciare traccia. Un destino peraltro non troppo diverso da quello di The Man Who Sold The World (Mercury, novembre 1970, 7.0/10). Disco che colpisce tanto per la cifra sonora che per la confezione: il sound è potente, distorto e acido. Merito soprattutto di Ronson, nel cui stile - oltre al dichiarato amore per i Cream e Jeff Beck - sono evidenti gli spunti hendrixiani che innervano le strutture power blues, così come una certa vicinanza alla trasfigurazione in chiave


hard operata dai londinesi Black Sabbath (il cui omonimo debutto è datato 13 febbraio ‘70). All’irruenza si alternano - talora fondendosi - spunti di lirismo onirico e strani struggimenti cosmici, tanto da allestire delle vere e proprie mini-suite come Widht Of A Circle (pervasa di suggestioni occulte) e The Superman, cui fanno eco le fatmorgane oppiacee di After All (segnata dagli evidenti vaticini prog del Moog) ed il latin folk lisergico e sinuoso della title track. Altri episodi come Black Country Rock e Running Gun Blues spostano il baricentro dalle parti di un southern smargiasso, baldanzoso, quasi caricaturale, già pronto per essere dissacrato sul’altare della baracconata Ziggy, mentre ancora più estremo quasi Grandfunk Railroad - è l’ordigno hard blues di She Shook Me Cold, quest’ultimo però una falsariga destinata a non avere troppo seguito. Se è doveroso individuare in Saviour Machine il pezzo forte della scaletta, coi suoi deliri assolutistici sci-fi al ritmo di 6/8 non privo di capricci elettrosintetici prog/psych (liberi di sentirci la bizzarria di certi Moby Grape mischiati alle freakerie della Incredible String Band), forse la traccia più significativa alla luce di ciò che sarà è All The Madmen: per quell’aria da ibrido barocco, gli influssi orientali ed il canto da regina malsana del palcoscenico. Volendo, quest’ultima è l’unica canzone che presenti attinenza con l’immagine che Bowie spudoratamente spedisce al mondo in formato 30 x 30: un bohemien androgino adagiato mollemente su un sofà barocco con indosso un lungo abito di seta e l’acconciatura vaporosa. E’ figura assieme preraffaelita e goliardica, languida e divertita, estetica camp esplosa in ostentazione queer. Il gioco di link e contrasti con le canzoni è intrigante. Ma l’appuntamento col successo, come dicevamo, fallisce. Unica consolazione, si fa per dire, è lo scandalo suscitato nei distributori USA, che rifiutano l’immagine di copertina sostituendola con un disegno fumettistico di Michael J. Weller (un cowboy, fucile sottobraccio, di fronte all’ospedale psichiatrico di Cane Hill). Va detto che in quel periodo la questione omosessuale negli States sta vivendo una fase a dir poco rovente, culminata nei celebri Moti di Stonewall, il 28 giugno del ‘69. Un passo decisivo sarebbe stato compiuto solo nel 1973, quando l’Associazione Psichiatrica Americana stabilisce che l’omosessualità non deve più essere considerata un disturbo mentale. Tuttavia l’argomento si mantiene più che indigesto per un’ampia e trasversale (in termini di ceto, posizione geografica, livello culturale, orientamento politico e religioso...) maggioranza della popolazione. Poco conta: il dado è irreversibilmente tratto. Il ventiquattrenne David Jones è a questo punto un formidabile spiantato dal talento paragonabile alla determinazione,

innamoratissimo della bella moglie ma dagli appetiti sessuali piuttosto disinvolti, affamato di marjuana, letteratura, teatro, cinema e soprattutto grande appassionato di pop-rock, che vede come la possibilità espressiva più adeguata e accessibile rispetto alle sue molteplici inclinazioni. Tra i suoi primi amori c’erano il soul e l’errebì, poi è rimasto intrigato dalle tematiche folk-psych, infine ha fatto propri i tumulti e le distorsioni dell’hard blues. A ben vedere però non ha mai sposato fino in fondo nessuna causa: è stato un mod sui generis, un hippy dissacrante, tutt’altro che un rocker villoso. L’ambiguità, la caratterizzazione sfuggente è già una costante del suo percorso. Di cui probabilmente sta prendendo piena coscienza proprio in quel ‘71, tanto da farne il cardine della propria poetica. Si sono fatte ipotesi in merito al peso della schizofrenia del fratellastro Terry come fattore scatenante di questo percorso. Di certo si sa che per Bowie è un pensiero fisso, nonché fonte di grande preoccupazione: le turbe mentali sembrano essere una costante di famiglia, perciò ha qualche fondato motivo per temere riguardo la propria sanità mentale. Da una parte quindi c’è la frammentazione nei personaggi che incarna con inaudita intensità, fino ad assottigliare l’intercapedine tra vita e finzione, di contro come abbiamo visto c’è l’impulso individualista, un eccedersi per affermare il se stesso che teme di smarrire. Disposizione non priva di derive paranoiche visto come arriva a farsi suggestionare da ipotesi superomistiche, impastate a piuttosto improbabili teorie riguardo l’avvento di una razza superiore aliena. In questo calderone, per fortuna, non viene mai meno l’ironia, il lampo di lucidità intelligente nel ghigno, quel senso di baracconata consapevole così efficace anche nel confezionare lo struggimento come un saggio di teatralità in musica.

Ingann e voli dolce zz e ip er pop E siamo quindi ad Hunky Dory (RCA, dicembre 1971, 7.7/10), disco che svolta in maniera spettacolare verso la dimensione del popular inteso come luogo dell’immaginario, carezzevole e colto, eccessivo e romantico, elusivo ed ambiguo. La paternità (Duncan Zowie nasce il 30 maggio del ‘71) ed il tour statunitense sostenuto in febbraio sono forse i due fenomeni esteriori che più informano le tematiche dei pezzi, peraltro pervasi di riflessioni sul tema dell’identità e sul trascorrere del tempo, di sconclusionati vaticini sull’incombere di una generazione di “uomini superiori” (in quel periodo Bowie legge con avidità le opere misteriche di Aleister Crowley). La tavolozza insomma si complica, ma la padronanza cresce di pari passo. Idee chiare circa la direzione da in115


traprendere. In primo luogo, il capitolo hard di The Man Who Sold The World deve considerarsi chiuso. Si guarda con decisione al music hall, al musical, alla soundtrack, ovvero pur sempre al rock ma in una dimensione arty espansa, capace di ingannevoli dolcezze come già i Beatles e certo John Cale nei Velvet Underground. Poprock da palcoscenico, e sul palcoscenico uno spettacolo d’arte varia molto british ma appassionatamente USA, sguardo lungo attraverso gli stili, le forme, i generi (in copertina una foto scattata dal sodale Underwood, la posa blasé d’un Bowie in primo piano vaporoso, strisciante imitatio di Marlene Dietrich). Porte girevoli riguardo la compagine che lo accompagna: oltre a richiamare Wakeman e Ronson - quest’ultimo smette i panni del chitarrista ruspante per rivelarsi fine arrangiatore d’archi - completa l’organico reclutando Trevor Bolder (basso e tromba) e Woody Woodmansey (batteria), ovverosia i ragni marziani praticamente già caduti sulla terra. Alla console, vista l’indisponibilità di Tony Visconti impegnato col treno lanciato dei T.Rex, arriva il già navigato Ken Scott (Pretty Things, Beatles, Pink Floyd...). Gestazione ed incisioni prendono diversi mesi, e non si fatica a capirne il motivo visto l’impasto di lieve e complesso, la schizofrenia (!) stilistica ed il cesello melodico/strumentale. La opening track Changes mette subito in chiaro le cose con un boogie cabarettistico e quel sax impertinente alternato ad un mantice d’archi cremosi: manifesto di tutto

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il camaleontismo che verrà, ma anche della propensione tutta british a farsi messinscena con la certezza di toccare corde vive. Sullo stesso piano, ovvero potenziale radiofonico enorme, quella Life On Mars? che è scena madre pop, iper-crooning che medita sul rapporto tra immaginario e desiderio d’immaginario, dove la finzione come tema amplifica la finzione stessa lasciando sospettare una realtà parallela, bastevole. Ma il pezzo spartiacque, alla luce di quello che sarà, è senz’altro Oh! You Pretty Things, già tutta intera sul palcoscenico della decadenza superomista glam, l’errebì trasfigurato cabaret ed il semifalsetto nasale come il guaito di un reietto che sa di poter contare sulla rivalsa del cono di luce. Pezzo strutturato eppure accattivante, come dimostra il successo ottenuto dalla versione che ne fece Peter Noone - già vocalist degli Hermit’s Hermit - uscita come singolo in anticipo di due mesi rispetto ad Hunky Dory (è rimasto il suo hit più venduto, inaugurando la categoria dei “miracolati bowieani”). Il resto della scaletta impressiona per come riesce a svariare e modulare i toni di conseguenza: zompa swingante Fill Your Heart (cover firmata Biff Rose-Paul Williams) e ciondola sonnacchiosa Quicksand (covando però trepidazione Alex Chilton), abbozza sognante siparietto country Eight Line Poem e gigioneggia tra George Harrison ed il Neil Young più potabile Kooks (dedicata al figlio appena nato), mentre The Bewlay Brothers è un folk enigmatico, cupo, che spiraleggia con lirismo sinistro alludendo al rapporto con


Terry senza però farsi mancare sospetti riferimenti omosex (le speculazioni da allora non sono terminate). Resta da dire della sequenza di omaggi: una Andy Warhol che è folk-ballad piuttosto selvaggia dai contorni androidi; quella Song For Bob Dylan che sembra rimproverare lo Zimmerman schivo di Self Portrait con un caracollare appiccicoso che in qualche modo anticipa Blood On The Tracks; infine Queen Bitch che paga dazio alla devozione per Lou Reed e i Velvet con un boogie stradaiolo che fa catarsi della decadenza, vale a dire, signori, il glam. Un pantheon vero e proprio, che vive di elementi concreti della finzione. Ziggy è dietro l’angolo. Imminente. Anche per questo Hunky Dory fallisce l’appuntamento col mercato. Due i motivi: la balbettante promozione organizzata dalla RCA, che pure aveva creduto nel disco fin dall’ascolto dei primi demo recapitati da Tony Defries, sagace nuovo manager di Bowie, e l’eccessiva raffinatezza della proposta al confronto con le clamorose uscite contemporanee (qualche titolo: Sticky Fingers, Who’s Next, Led Zeppelin IV, Paranoid, Electric Warrior...). Il balbettare di RCA si spiega col fatto che Ziggy è praticamente già pronto, e se ne intuiscono le enormi potenzialità. Probabilmente qualcuno avrebbe preferito giocarsi subito la carta glam, a costo di neanche far uscire Hunky Dory. Che nel tempo avrà modo di rifarsi dei favori non riscossi, interessi compresi. Ma il 1972 incombe, e sarà l’anno della grande esplosione bowieana.

Polv ere d i st e l le Certe illuminazioni scendono dall’alto. Altre collassano a terra e si mettono a sproloquiare deliri spremuti da circuiti neuronali irrimediabilmente compromessi. Bowie - anzi, David Jones - conosce e frequenta la ex star del rock’n’roll Vince Taylor alla metà dei Sixties. Gira per Londra assieme a lui, è attratto dall’energia nera di una carriera brillante ormai decaduta, dall’oscurità che emana quell’uomo un tempo famoso - nella cuspide tra 50’s e 60’s coi suoi Playboys ottenne grande seguito soprattutto in Francia - stritolato dalla tossicodipendenza. Un giorno Taylor apre una carta geografica, la distende sul marciapiede, invita David ad inginocchiarglisi accanto e si mette a sproloquiare circa l’esatta ubicazione di una base extraterrestre sotterranea. Vince Taylor è completamente andato, un pazzo totale. Oppure - se preferite - è appena caduto da un’altra dimensione. “All’epoca, ero affascinato da personaggi come lui”, dirà Bowie molti anni più tardi. “Certe persone creano un doppio sulle cui spalle si sbarazzano della propria colpa, della vergogna, della paura. E’ quello che ho fatto. Mi sono creato un doppio per sbarazzarmi delle mie nevrosi, della mia paranoia, della mia timidezza, delle mie inibizioni

(...). Ziggy, era lui, mi sono servito di Vince per creare il mio personaggio.” Ma Ziggy come personaggio è molto di più. Un ibrido, una pelle multistrati. Il suo “cognome” rimanda ad un altro bel tipino strambo, il texano Norman Odam noto ai più come The Legendary Stardust Cowboy, pioniere dello psychobilly con la fissa per le esplorazioni spaziali e le (speculari?) invasioni aliene, folle e lancinante come un Captain Beefheart strafatto di peyote sui monti Appalachi. Per molti nient’altro che un fenomeno da baraccone, per Bowie invece è lo squarcio nella tela, l’ossessione spettacolarizzata che procura brividi d’inquietudine, il segno di una dimensione alternativa. L’alieno tra noi, dentro di noi, tanto più dissennato quanto più credibile, perché perfettamente autonomo nel proprio ordine impazzito di valori al di là della fenomenologia freak. Ziggy è questo e molto altro, certo. Il dark side degli idoli totali (e totalizzanti) alla Elvis, ciò che di malsano e minaccioso si cela dietro la loro iconografia sexy e rassicurante. Il frutto assieme aspro e marcio del cinismo metropolitano di Arancia Meccanica (il controverso capolavoro kubrickiano uscito nel gennaio del ‘72). Un diamante pazzo dalle mille sfaccettature, ed ogni riferimento a Syd Barrett è tutt’altro che casuale. La parabola di un’anomalia spettacolare piovuta da chissà dove e destinata a bruciarsi rapidamente, come un’estasi tossica, come il voodoo infuocato di Jimi Hendrix (“Ziggy played for time, jiving us that we were Voodoo”). Uno spasmo vitale dai sottofondi laceri della società, una sarabanda chiassosa sulle ceneri marce delle prospettive, il sabba cialtrone che esorcizza l’angoscia per l’estinzione degli ideali Sixties. L’estetica trash - vedi l’aneddoto del giovane Bowie che assieme a Bolan raffazzona il look raccogliendo la spazzatura dei negozi di Oxford St. - come un cialtronesco razzo spaziale carburato ad escapismo sci-fi: un lancio destinato a fallire miseramente subito dopo la fiammata del decollo, esattamente come da progetto. La gloria scintillante e stracciona del fallimento come il paradigma di un’epoca. E poi ancora le ossessioni dittatoriali, la rock’n’roll star dominante che incarna per eccesso - con ciò rivelandolo - il sempre più pervadente meccanismo mediaticospettacolare (un canovaccio che Roger Waters svilupperà sette anni più tardi nel parossistico personaggio di Pink, chiudendo idealmente con The Wall un decennio di riflessioni sul ruolo e l’essenza del rock). Non ultimo, Ziggy è una grande trovata, concentrato di ambiguità e a-moralità glitterizzate allestito riadattando il conflitto iperbolico tra identità e ruoli delle drag queen. Assieme furbesco e artisticamente impavido, è un avatar micidiale che spacca l’occhio dei media, impone i propri canoni 117


oltraggiosi sulle prime pagine, trasforma ogni apparizione in una performance. Sebbene non manchino nella biografia e nella carriera di Bowie segnali anticipatori - e ne abbiamo incontrati - è difficile non associare la comparsa di Ziggy all’exploit ottenuto dai T.Rex di Bolan col capolavoro Electric Warrior, uscito nel settembre del ‘71, album che in sostanza segna l’inizio ufficiale della breve stagione glam. Di lì a poco sarà tutto un frullare di band dal peso specifico più o meno rilevante, da Gary Glitter ai Roxy Music, dagli Sweet agli Slade, unite da un approccio che nel migliore dei casi potremmo definire arty, con una spiccata propensione alla più opportunistica delle cialtronerie. Tutto parte del gioco. E Bowie ne viene investito, riuscendo da par suo a sfruttare la corrente. The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars (RCA, giugno 1972, 8.0/10) non è propriamente un disco glam, è il rock all’epoca del glam, la pasticca psichedelica scaduta che ingoi comunque perché sai che le reazioni avverse sono comunque preferibili alla desolazione del post-Sixties. Un affronto rock’n’roll fuori tempo massimo che pure ha la forza di dimostrare quanto il rock abbia modificato il DNA espressivo, i codici comportamentali, i limiti e i modelli della comunicazione. L’idea di far confluire in questo buglione gli espedienti espressivi della pantomima forse sorprende di meno se consideriamo come i primi mimi, risalenti all’età di Augusto, utilizzassero gesti, danza e musica per rappresentazioni che pare fossero molto spesso di carattere osceno. I pantomimi erano considerati empi, corruttori della moralità e dei costumi. Forse inconsapevolmente, ma senza che questo cambi di una virgola la valenza semantica del gesto, Bowie raccoglie il testimone di questa antica tradizione e la sottopone ad una cura d’urto attualizzante. Probabile che il rock lo abbia fatto fin da subito: quelli che salivano sul palco fin dai 50s altro non erano che personaggi, spiantati provocatori con una ben riconoscibile uniforme (in questo senso Quadrophenia ci offre un ottimo esempio sulla “guerra” tra stili, costumi e relative “forme mentis”). Detto questo, se il più immediato e chiassoso precedente di messinscena sul palcoscenico in ambito pop va ricercato in Alice Cooper, che nel ‘71 allestisce la sua baracconata shock-rock, più significativo in quanto ad intensità ed impersonificazione mi sembrano le impagabili manfrine allestite fin dai primi 60s da James Brown. Proprio lui, il Godfather Of Soul che entra ed esce dal cono di luce avvolto in un mantello, che collassa trafitto dalle pene d’amore durante Please ed è scosso da incontenibili spasmi danzerecci durante Night Train. C’è già quella sorta di superidentificazione in un personaggio 118

che oltrepassa l’artista. E vale la pena ribadire quanto James Brown rappresentasse un idolo assoluto per gli appassionati errebì del periodo mod. Ziggy resta però un’intuizione per molti aspetti originale. Un’operazione di sintesi trasversale prodigiosa. Del personaggio abbiamo detto già abbastanza ma ci sarebbe parecchio altro da dire: a partire dalla sua morte, poeticamente implicita, perciò annunciata, necessaria. Ziggy è un dead man walking. La sua vicenda immaginifica e stracciona non ha fondamenta, si muove in una distopia vaga, tracciando la parabola di un concept tenuto assieme in verità più dalla potenza dell’impatto estetico (la “sconcezza” dei capelli rossi, l’impudenza da drugo e quei vestiti da checca cosmica) che non da una linea narrativa attraverso le canzoni. Vero che Five Years apre le danze nel segno del parossismo apocalittico, ma come già per Space Oddity la componente sci-fi vale come puro contesto teatrale, in ossequio alla teoria kubrickiana secondo cui la fantascienza è essenzialmente un genere “da camera”, che consuma il corpus espressivo più nella tensione degli interni (vedi la palpitante scena dello spegnimento di HAL 2000) che non nelle scaramucce spaziali alla Star Wars (riconducibili più ad un western trasfigurato fantasy). In questo senso, la opening track è puro teatro, ballad folk blues che sboccia dallo spot light per un crescendo a tinte fortissime di voce e violino, birignao istrionico che getta una luce angosciosa sui guizzi e le giravolte di tutta la scaletta, fino ad approdare alla triste fanfaronata vaudeville della conclusiva Rock ‘N’ Roll Suicide. Nel mezzo accade un ventaglio di stati d’animo e frammenti d’immaginario appesi al plot di questa stramba figura piovuta dal cielo per portare un verbo rock tanto scandaloso quanto fragile, anche se è una falsariga che si spampana tra episodi perfettamente autonomi e stilisticamente pure lontani. C’è il power-folk sussiegoso di Starman - forse il pezzo più debole in scaletta però dotato di un eccellente potenziale radiofonico, tanto da uscire come singolo a ridosso dello Ziggy tour, ben tre mesi prima della pubblciazione dell’album - ed il rock’n’roll ipercinetico di Star, Hang On To Yourself e Suffragette City, c’è il soul strapazzato glam di Soul Love ed il blues con additivi chimici di It Ain’t Easy (splendida cover da un originale di Ron Davies, forse però mutuata dalla versione che ne fecero nel ‘70 i Three Dog Night). Meriterebbero poi separata e ampia trattazione le due sorellastre (a partire dal titolo) Ziggy Stardust e Lady Stardust, quest’ultima dedicata a Bolan, per come riescono a far confluire la decadenza nel cuore del glamour, la prima sprimacciando con foga struggente il cuscino dell’hard rock e la seconda ritagliando una scena madre


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melò dall’aureola tragica, di quelle che circondano ogni regina del palcoscenico che si rispetti. In questo frullare di situazioni diversamente soniche, il pezzo più ambizioso e riuscito è Moonage Daydream, capace di fondere visioni spacey e barocchismi pseudo-prog al fuoco caldo di un crooning broadwayano. Musicalmente parlando The Rise And Fall... è quindi un disco straordinario, ma se lo consideriamo un lavoro spartiacque è soprattutto perché sbaraglia le barriere tra rock e rappresentazione del rock, compenetrando i campi in un gesto solo. Non a caso lo Ziggy Stardust Tour inizia già nel febbraio del ‘72, cinque mesi prima della comparsa dell’album sugli scaffali e appena due mesi dopo l’uscita di Hunky Dory, come se Bowie bramasse di presentare al mondo questo personaggio tanto contemporaneo, la sua più grande idea fino a quel momento, a prescindere dal disco. L’accelerata subita dalla carriera di Bowie, l’hype - diremmo oggi - attorno alla sua figura, anche viste attraverso la lente opaca di ben quattro decadi è qualcosa di impressionante. Il tour ottiene un enorme successo ma ancora più grande è la sua eco. Bowie ottiene d’un botto tutta la capacità di épater le bourgeois in profondità che andava cercando da tempo. Il fatto che il personaggio acquistasse sfaccettature e spessore serata dopo serata - integrando in scaletta pezzi nuovi e vecchi, pescando dal repertorio di Chuck Berry e The Who, adottando in pianta stabile intuizioni estemporanee come la celebre pseudo-fellatio con Mick Ronson - contribuisce a rendere Ziggy un’entità viva, reale, in progress. A luglio, il fenomeno di culto è diventato la parola sulla bocca di tutti, l’immagine su ogni copertina, la canzone in ogni radio. Lo spettacolo è energico, un frullato di elettricità, costumi sgargianti, decadenza, perversione, romanticismo, stravisione. Mimica, teatro, sci-fi, rock’n’roll. Infine, la morte, la sfida al tabù della sua rappresentazione come esito inevitabile della parabola spettacolare. Tutto un immaginario edificato a shock sensazionalistici ed espressivi cannibalizzato dal coup de teatre del suicidio rock’n’roll, annunciato e messo in atto la sera del 3 luglio 1973 all’Hammersmith Odeon di Londra, nel celebre concerto immortalato dalle macchine da presa di Donn Alan Pennebaker. Bowie uccide Ziggy ed i suoi ragni marziani: per pubblico e critica si tratta di una scossa emotiva cui non sono preparati. Se la morte “reale” è un trauma, l’esecuzione di un personaggio all’apice del successo appare come un affronto, un gettare la maschera dell’idolatria, mettendone a nudo i meccanismi, la struggente vacuità.

Di stopie a merican e Prima del “delitto” però c’era da conquistare l’America, rimasta fino ad allora abbastanza indifferente. Pur opponendo qualche resistenza (non tutte le quasi trenta date si svolgono davanti ad un pubblico numeroso) tra autunno e inverno gli States vengono finalmente conquistati. In questo periodo Bowie esonda: l’ampiezza e l’intensità della sua espressività in un certo senso lo eccedono. Ad agosto, prima di sorvolare l’oceano, produce assieme a Mick Ronson Transformer di Lou Reed, mentre a settembre si occupa del remix di Raw Power di Iggy Pop And The Stooges, freschi di firma per la MainMan Management di DeFries. In entrambi i casi si tratta di una clamorosa ripartenza per i due mostri sacri adoratissimi da Bowie. Senza contare quella All the Young Dudes regalata a luglio ai Mott The Hoople, il cui successo li fa passare dal baratro dello scioglimento al momento top della loro carriera. Questo turbillon che abbiamo solo parzialmente riportato - omettendo tutto il folklore e le generose dimostrazioni di follia, cose del resto abbastanza comuni in un tour rock di quella portata in quel periodo - è il calderone nel quale prende vita Aladdin Sane (RCA, aprile 1973, 7.9/10). Disco che si può benissimo interpretare come una escrescenza di The Rise And Fall..., uno Ziggy oltre Ziggy, già metabolizzata la dinamica apocalittica, il suo rimbombare mitologico nell’immaginario rock sbilanciato a stelle e strisce. Aladdin campeggia in copertina in uno scatto di Brian Duffy come uno Ziggy di cera, la chioma fiammante e l’aspetto catatonico, il volto attraversato da una saetta multicolore a simboleggiare forse il turbinare delle idee, anche se non sono da escludere riferimenti alla schizofrenia (Bowie ha sempre giocato a rimpiattino sull’argomento, ma ha sempre ammesso che la figura problematica del fratellastro era un cruccio costante). Aladdin si presenta quindi con un’immagine tanto curata e potente - difatti scalzerà quella del più problematico Polveredistelle quale icona del glam - quanto pervasa da un senso di vuoto e stanchezza. Facile oggi scorgervi l’emblema di un Bowie travolto dal successo, imbrigliato nel suo scintillante meccanismo, costretto quindi a reiterare una formula formidabile che però ha già espresso il meglio (come lo stesso glam, la cui breve stagione già volge al termine in quei primi mesi del ‘73). Situazione sintetizzata benissimo dalle sue parole qualche anno più tardi: “Fu un periodo duro. Per la prima volta sentii di star lavorando per gli altri. A quanto pareva Tony DeFries e la sua organizzazione MainMan mi avevano fatto diventare una star e mi sentivo obbligato a non deludere le aspettative. Sì, Aladdin Sane fu una specie di svendita.” 121


Va da sé che parliamo di un album eccellente, privo dell’immediatezza e della teatralità procace del predecessore però reso forse ancora più fascinoso da quel senso di mutazione imminente, di contagi soul e rigurgiti orientali. Sembra quasi che, infastidito dall’eccessiva enfasi posta sul versante scenico (il concept, i costumi, gli sketch scandalosi...), Bowie abbia voluto rimettere le canzoni al centro nevralgico del processo espressivo. Sballottato tra una data e l’altra del lungo tour statunitense, proprio in questo excursus tra le città americane trova l’ispirazione per un altro pseudo-concept: il diario di viaggio di un alieno albionico nella Terra dello Spettacolo. Ecco quindi il doo-wop tra stelle e palcoscenico di Saturday, il cabaret sovraccarico di malinconia sciropposa in Time, il sax piacione (lasciando l’incombenza a Ken Fordham) che rende agrodolce il vaudeville nostalgico di The Prettiest Star. Bowie non dimentica d’essere un monstre glam, anzi spinge il codice all’estremo con l’aspra sbruffoneria di The Jean Genie (dedicata ad Iggy Pop, a dispetto del titolo che allude allo scrittore francese Jean Genet) ed il boogie distorto di Cracked Actor, i riff di chitarra portati ad un livello di tracotanza sempre più estrema, quasi a voler fare di essi i veri protagonisti della 122

scena. Una vera e propria reificazione del riff. In questo senso, e sempre nell’ottica di voler porre un accento musicale forte e ben riconoscibile alla proposta, Bowie guarda esplicitamente agli Stones più sferraglianti, quelli del piglio primitivo Sixties e della vena black sgranata in Sticky Fingers (aprile ‘71) ed Exile On Main Street (maggio ‘72): se Let’s Spend the Night Together è cover a rotta di collo non priva di frenesie post-glam, Watch That Man sferraglia fanfarona un errebì con torride tentazioni gospel, quelle stesse che si fanno strapazzare dai battiti tribali di Panic In Detroit. A completare il quadro c’è la fregola arty languida di Lady Grinning Soul (piano setoso e imprendibile malinconia con Aretha Franklyn nel cuore) e soprattutto della title track, pezzo nuovamente percorso da un’angoscia profonda (per il presentimento di una imminente terza guerra mondiale, cui si riferiscono le date del sottotitolo) che cova nelle strofe rarefatte, esotiche e struggenti (quasi una preveggenza Japan) come nella drammaticità del chorus (che rivela - a chi non se ne fosse accorto - il calembour del titolo, Aladdin Sane diventa A Lad Insane in quel chorus che si chiede: “chi ama il ragazzo pazzo?”), per poi esplodere nella stupefacente fuga pianistica free (di un grande Mike Garson, reclutato nella fase finale dello Ziggy Tour). Il ‘73 è quindi un anno di consacrazione per Bowie, ma anche - per contingenza storica e per determinazione personale - un periodo in cui tutto sembra sul punto di rimettersi in discussione. Ziggy è già “morto” guadagnandosi un seggio perenne al concilio dell’eternità. Aladdin furoreggia come febbrile maschera glam. Tutto sembra così formidabile rispetto a poco più di un anno prima. Eppure tutto sembra franare sotto i suoi piedi, spinti dalla fretta di battere il ferro caldo finché dura, con la certezza che sta per finire. Prima della fine dell’anno esce Pin Ups (RCA, novembre 1973, 7.7/10), album di cover dedicato ai pezzi amati da Bowie nei cosiddetti “London Years”, primo volume di un progetto in due parti - la seconda avrebbe dovuto comprendere riletture di materiale USA, tra cui una sorprendente Growin’ Up del primo Springsteen e quella White Light/White Heat quasi sempre in scaletta nei live - che però non avrebbe mai visto la luce. Non è ovviamente un disco essenziale, poco aggiunge alla carriera di Bowie in quel momento apicale, eppure è un lavoro formidabile. Innanzitutto, dice moltissimo sul fatto che per lui il glam è stato un incontro tanto proficuo (per le potenzialità espressive a tutto tondo) quanto accidentale. Il cuore pulsante del suo codice sonoro pulsa tra queste noccioline beat impetuose, tra i blues infiammati e la patafisica arrembante, tra gli errebì


a cuore infiocchettato e le marcette stra-visionarie. E’ un tornare alla spinta propulsiva dell’invasione british, quel gioco già nostalgico delle scorribande Fifties che aveva barattato l’ingenuità con una ruvida voglia di “something else” sul punto di decollare scopertamente psych, piuttosto vicini alla radice di quello che viene comunemente chiamato power pop. Singoli folgoranti di Yardbirds, Pretty Things, The Who, Kinks, Them, Pink Floyd e dei più effimeri Merseys, Mojos (dei quali aveva fatto parte il nuovo batterista degli Spiders Aynsley Dunbar) e degli australiani Easybeats. In una scaletta che non ti lascia riprendere fiato, spiccano come particolarmente azzeccate una See Emily Play più arrembante che stralunata, la marpiona Sorrow ed una travolgente Anyway, Anyhow, Anywhere, mentre I Wish You Would polverizza le scorie 60s con quelle linee di basso androidi che già sembrano con un piede in epoca wave. Questo quadretto nostalgico e fiero vive però nella consapevolezza della dissolvenza, suona come una festa di commiato dove conta premere a fondo sull’acceleratore per infiammare fino all’ultima stilla di forza e presenza. In copertina, Ziggy/Aladdin è una maschera allibita accanto al suo alter-ego fashion/femmineo Twiggy, burattini dalla bellezza sconcertante e sconcertata in attesa di essere travolti da un’ondata di futuro. O da una piena di tossico presente.

Avarie e rein ve n z io n i “(...) con Diamond Dogs cominciai ad andare proprio fuori di ogni controllo. Da quel momento in avanti fui un vero disastro”. I Settanta iniziano a mettere in scena la loro danza macabra che farà olocausto delle residue (belle) speranze, riscattandosi con un sabba elettrosintetico - il punk/wave - che saprà recuperare se non altro l’energia spiccia e ficcante della decade precedente. Intanto però Bowie deve fare i conti con la pressione, le ossessioni, una sciagurata attitudine alle dipendenze di qualsiasi natura. Diventa cocainomane, prende confidenza con le vampe corroboranti dello speed con tutto il corollario di paranoie, frenesia e stato di angoscia perenne. A fargli compagnia il degno compagno di merende Iggy Pop: intorno alla metà del ‘73 entrambi vengono cacciati dalla MainMen da un DeFries stanco di trovarseli sempre di fronte fatti e strafatti. Tuttavia le intuizioni non smettono di fioccare, una in particolare è forse la più ambiziosa capitatagli fino ad allora: produrre un musical sul celebre 1984 di George Orwell, l’opera letteraria che un quarto di secolo prima aveva preconizzato molte delle visioni distopiche in cui aveva sguazzato Ziggy. Purtroppo però la vedova di Orwell gli nega i diritti. Per Bowie è un colpo durissimo,

ma è svelto a reagire escogitando Diamond Dogs (RCA, aprile 1974, 7.8/10), che rilancia l’impianto del concept abortito trasfigurando l’apocalissi sociale di 1984 in un fantasy cupo, nel quale immagina un mondo dominato dai dittatoriali cani diamante. Se preferite, è Ziggy nella sua estrema, chimerica incarnazione, il nostro inviato alieno sul pianeta delle angosce rock. Ma lo scenario è drasticamente cambiato. Bowie comprende la necessità di compiere uno scarto, sente che la cappa malmostosa che lo opprime è un riflesso di quella che si posa sul mondo. In pratica, dichiara il glam obsoleto per le proprie necessità espressive e devia su un binario di ibridazioni soul, recuperi teatrali e corollary psych in chiave arty. Per fare ciò liquida definitivamente i reduci dell’avventura Spiders From Mars e stringe nuovamente sodalizio col producer Tony Visconti. Ne esce un lavoro strano, discontinuo, inquietante, nel quale la vena black sembra ispessirsi traccia dopo traccia, metabolizzando i sovraccarichi di adrenalina (la titile track) e gli struggimenti cabarettistici (Rock’N’ Roll With Me) in una sintesi che al suo estremo sbriglia un groove marcatamente blaxploitation (1984). Questo Bowie così ingombrante e così inafferrabile è capace di cimentarsi in un hit a pronta presa come Rebel Rebel (tra estro protopunk Iggy e tracotanza blasé Stones, forte di uno dei riff cardine del decennio) dopo aver piazzato una specie di suite - Sweet Thing/Candidate/Sweet Thing (reprise) - nella quale impasta melma androide e fatamorgane gospel, infiorettature classiche ed errebì imbizzarrito, brezze orientali e inequivocabile motorismo boogie con chitarra scorticata nel finale. Allo stesso modo sciorina una piece insidiosa e suadente tra apprensioni soul e svolazzi spacey (We Are The Dead), per poi prodigarsi sempre più robotico tra rigurgiti glam avariati (la misticanza music hall - tromba, sax, moog, rasoiate di chitarra - di Big Brother) e latinerie inacidite (Chant Of The Ever Circling Skeletal Family). E’ un Bowie che torna a calcare il terreno florido ma infido dell’art-rock, smanioso di individuare una forma nella folla di intuizioni, suggestioni, capricci che lo attraversano. L’idea portante del cambiamento, della incessante reinvenzione di sé come chiave dell’efficacia, dell’antibanalità, della non-morte artistica. A costo di incappare in passaggi a vuoto o comunque parecchio controversi. Già nell’agosto del ‘74 si trasferisce a Philadelphia per mettere su nastro l’ennesimo nuovo corso. Una svolta che era nell’aria, annunciata da molti segnali, ma che ancora oggi si fa fatica ad accettare. Young Americans (RCA, marzo 1975, 6.5/10) mette in atto una delle più eclatanti reinvenzioni stilistiche mai tentata da una pop-star, vaporizzando l’alieno art-glam 123


in favore di un poco probabile soul-singer dall’aria tanto efebica quanto nevrotica. E’ pur vero che la black music faceva parte dei primi e più grandi amori di Bowie, tuttavia resta un atto incredibilmente velleitario. Per molto tempo si è indicato nella mancanza di lucidità provocata dalla tossicodipendenza una delle concause di tale scelta. Messo in prospettiva però Young Americans è un disco, se non riuscito, piuttosto sensato, sintonizzato coi suoi tempi e a dirla tutta anche un po’ in anticipo. Lo starman non accetta di assecondare l’immagine che il pubblico si aspetta, capisce che la ripetizione significa morte artistica. “Tutto ciò che contribuisce alla stasi è negativo”, dichiara. Ed il quinto posto negli USA del già mutante Diamond Dogs - dopo l’ennesimo numero uno in patria - lo convince d’essere sulla strada giusta. Perciò la svolta “plastic soul” è convintissima, ma contiene la precarietà di tale scelta, la sua natura funzionale allo shock mediatico. E’ un disco di canzoni, di canzonette secondo alcuni (lo ammetterà lo stesso Bowie pochi mesi dopo), ma ottiene un successo strepitoso anticipando la stagione della disco, preconizzando d’altro canto le coniugazioni soul degli Stones (Black And Blue viene inciso in quello stesso anno ma vede la luce solo nell’aprile del ‘76). Pur evitando la formula del concept che aveva strutturato i lavori precedenti - “(...) il fatto è che la gente si annoia se le si danno cose in cui predominino l’analisi intellettuale e il pensiero analitico. Ma se le sì dà qualcosa di pretenzioso, se ne starà lì attentissima” - Young Americans è comunque un album che recupera da Aladdin Sane il gioco di riflessi incrociati tra fascinazione USA e imprinting albionico. Da una parte ci sono le ossessioni beatlesiane anzi lennoniane, a partire dalla citazione di A Day In The Life nella title track per arrivare all’ospitata dell’ex-scarafaggio stesso in Fame (un funky aspro, spigoloso, sferzante che anticipa di una decade il Prince della sintesi ibrida, guadagnandosi il primo posto nella classifica dei singoli), passando da una piuttosto evitabile cover di Across The Universe, tronfia e lisergica nel suo delirio power pop marezzato gospel. D’altra parte, c’è la brama d’incarnare questo prototipo sintetico di artista soul puro, di bianco europeo che vampirizza l’anima black rilasciando marchingegni languidi e lascivi. Congetture che sfiorano (involontariamente?) il caricaturale, come la sordidella Win (quasi una preveggenza dei Roxy Music anni 80 col sax fantasmatico e la chitarrina gelatinosa) e l’orgasmica Fascination, talora bramose di gospel con però sullo sfondo la voglia d’immischiarsi col mood di quartiere (le ascendenze latine e le vampe corali di Young Americans), altrove figlie di mix più indefiniti come il piacionismo cosmico di Somebody Up There Likes Me o gli spasmi qua124

si David Byrne alternati al dandysmo Brian Ferry che movimentano Right. In ogni caso, quanto più Bowie sembra animato da un genuino trasporto soul - e Can You Hear Me? ad esempio scomoda archi, melassa e il suo timbro vocale più caldo come se volesse proprio questo - con lo scopo di dribblare l’effetto coloniale blue-eyed, tanto più la negritudine resta una chimera cocainica, un depistaggio senza fondo, la maschera di una maschera che sembra insinuare l’assenza dell’individuo e la dispersione del baricentro culturale. In questo senso, possiamo interpretare la presenza di Lennon come una vera e propria chiave di lettura: John è il Doppelgänger di Bowie, alter ego che ha giocato d’anticipo scommettendo sulla propria natura apolide, abbandonando il Regno Unito e con ciò snaturandosi, per consegnarsi al caos delle possibilità nell’orizzonte pulsante d’America. L’ex-Ziggy polveredistelle possiede altrettanta personalità ma come frammentata, fragile, distribuisce se stesso come fenomeno mediatico nel susseguirsi dei personaggi cui ha dato vita, mentre al contrario la parabola dell’exBeatles è l’evoluzione talora imprevedibile e scomoda di un individuo di grande talento e sensibilità. Stranamente, Young Americans esce in un interregno che non vede dominare nessun personaggio bowieano definito. E’ il disco di un Bowie tornato estemporaneamente se stesso, entusiasta ma spaurito, un misto di determinazione opportunista, impudenza cotonata e strisciante fragilità. Ma c’è già una fase successiva che incombe. Dalla quale il rock uscirà cambiato in profondità.


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CAMPI MAGNETICI #20

Marco Parente Trasparente (Mescal, Gennaio 2002)

«Non riesco ad attribuire al nuovo CD troppe aspettative, cosa che ho fatto con gli altri lavori. E’ così e tanto basta. Una tavolozza di colori in cui ho messo tutto ciò che mi è capitato negli ultimi due anni [..]. E’ trasparente. E’ spogliato. E’ senza paura». Questo è quanto dichiara al Mucchio Selvaggio Marco Parente in un’intervista del 2002 a proposito del terzo disco pubblicato a suo nome. Parole che sottolineano l’indole trasversale di un lavoro che mastica immaginari agli antipodi come il pop, il rock, il jazz, la canzone d’autore, l’elettronica e persino riferimenti letterari alla beat generation. Una valvola di decompressione finalizzata a soddisfare curiosità musicali rimaste forse inappagate per il concludersi anticipato della storia di quel Consorzio Produttori Indipendenti responsabile della pubblicazione del precedente Testa dì cuore. Trasparente è l’immancabile reset, la ripartenza obbligata con cui ognuno, prima o poi nella vita, deve fare i conti. Un evento che, nello specifico, significa scendere a patti con la modernità aliena di un Manuel Agnelli che in quel momento è sulla cresta dell’onda sia come musicista (dopo il successo di Hai paura del buio? con i suoi Afterhours), sia come figura di riferimento per l’indie nostrano (responsabile dell’organizzazione del Tora Tora Festival), sia come produttore (già al lavoro con i Massimo Volume di Club Privè, i Verdena di Solo un grande sasso e la Cristina Donà di Tregua e Nido). Il disco è un salto nel vuoto: la complessità della poetica di Parente eterodiretta dall’agilità estetica (rock) del front man degli Afterhours. Il binomio tuttavia funziona, con il milanese a ricoprire il ruolo di un supervisore artistico interessato a sfrondare il songwriting, spogliandolo delle inflorescenze tipiche e di quegli arrangiamenti corposi che il successivo L’attuale Jungla sceglierà invece di esaltare, seppur in dimensione live. L’obiettivo è scovare la sostanza dietro lo stile, plasmarla senza stravolgerla, facendola suonare accessibile e in interazione dinamica con contesti formali aperti e “irrisolti”. 126

Il risultato è un suono sfuggente in cui si riconosce il peso enorme dei Radiohead di Ok Computer e The Bends (presenti un po’ in tutto il disco, ma in particolare in Farfalla pensante e in una Come un coltello che riporta direttamente a Exit Music (For A Film)) ma anche l’amore di Parente per il jazz (il fiati in stile Gil Evans della splendida Davvero Trasparente e la big band di Adam ha salvato Molly), un’attitudine pop rotonda (La mia rivoluzione) ma anche la spinta verso un rock sui generis (le chitarre di Paolo Benvegnù e le disarmonie ai fiati che raccontano gli spigoli di Scolpisciguerra), oltre a una dance disturbante che rappresenta forse il limite più estremo di tutto il viaggio (il poeta beat Lawrence Ferlinghetti rielaborato dal programming di Fuck (he) art & let’s dance). In mezzo a una musica nervosa e docile al tempo stesso, dalle mille anime ma chissà come credibile, emerge la personalità di un Marco Parente incapace di staccarsi da una concezione dell’arte totale e alta, disarmante e genuina. «E’ il bluff di non esistere / scoprire l’assenza di te che passi / senza macchia ma senza vita / cosa sto aspettando / a vivere così / come siamo davvero?» si canta nel brano conclusivo del disco: ci può essere dichiarazione di intenti più eloquente? Fabrizio Zampighi


classic album

Smashing Pumpkins Mellon Collie & The Infinite Sadness - ristampa & edizione deluxe 2012 (Virgin, Dicembre 2012)

Anche se l’etichetta è impropria perché non venivano da Seattle bensì da Chicago, gli Smashing Pumpkins sono stati uno dei complessi più orecchiabili e versatili del grunge. Suonavano rock oversize ma sapevano calarsi egregiamente nei panni dei sognatori psichedelici, dei melodisti d’antan, dei seguaci della new wave più ombrosa ed emotiva o dei revivalisti anni ’70 filoprog. Avevano molti tratti in comune con i migliori esponenti del Seattle Sound, primi fra tutti i Nirvana, e alcune peculiarità che li resero outsider di grande successo. È da questa posizione privilegiata, ma anche un po’ laterale, che si sono ritrovati a firmare l’epitaffio del rock dei primi anni ‘90. Il loro terzo disco è quello che meglio di altri condensa e chiude la prima metà del decennio, con tutto ciò che ha significato per la musica americana. È un album “definitivo”, legittimazione e, allo stesso tempo, canto del cigno di una generazione di rocker, l’ultimo colpo di coda dell’“overground” alternativo in un momento in cui l’esplosione del grunge si era dissolta nell’implosione di Kurt Cobain e il mondo indipendente era già proiettato al di fuori delle sonorità di fine anni ‘80. Più che riecheggiare pietre miliari della musica indie come gli storici doppi LP di Sonic Youth o Husker Du, questo doppio CD dai vaghi sentori di concept, metaforica via di mezzo tra Physical Graffiti, The Wall e The Lamb Lies Down On Broadway frullati nell’ego trip di Billy Corgan, voleva sfidare sul loro campo proprio i grandi classici. Il caleidoscopico Mellon Collie è lo specchio della personalità di Corgan quanto l’art grunge di Siamese Dream coglieva lo stato di grazia assoluto della sua scrittura e dei suoi arrangiamenti di chitarre. I Pumpkins rompono l’equilibrio magico di Siamese Dream per spingersi agli estremi del proprio stile: uno scorticante heavy metal, gli slow romantici e un po’ mielosi, le suite in odore di rock progressivo e i primi approcci con un’elettronica di sapore vagamente anni ’80. Oltre al proverbiale mix tra hard rock, new wave e melodie tardo Sixties, benedetto da Jane’s Addiction (con meno funk), Soundgarden (con una voce più androgina e nasale) e My Bloody Valentine (ma con chitarre più pa-

stose e pesanti), vengono a galla anche quelle influenze non proprio sdoganate che Corgan ha sempre ammesso senza remore, come il rock pompier di Boston e Queen. La quantità e anche la qualità sono tali, però, che ogni ascolto si trasforma in una gita sulle montagne russe. La parte che convince di meno è l’ultimo quarto, tutto di canzoni lente e melodiche con l’eccezione della sabbathiana-stoogesiana X.y.u. Per il resto, se Corgan era davvero convinto che il rock fosse morto, Mellon Collie è il più sontuoso funerale che potesse realizzare. In Tonight, Tonight Billy rende sinfonico l’alternative rock, allo stesso modo in cui aveva fatto di Disarm una rock ballad da camera; Zero ha il riff più abrasivo e memorabile dell’intera raccolta; Here Is No Why è una versione più pesante del sound di Siamese Dream, con gli accordi a cascata e le aperture oniriche; e Bullet With Butterfly Wings mutua gli stop&go di Pixies e Nirvana per una grandissima canzone da pogo. Il resto del primo CD propone repentini cambi di atmosfera, maramaldeggiando con Fuck You, una specie di avvelenato metal funkeggiante, il synth rock di Love, Galapogos che fa l’occhiolino al prog, gli strappi rock di Muzzle e i nove minuti di Porcelina of the Vast Oceans, un po’ canzone, un po’ suite, un po’ trip psicoprogressivo alla Genesis. Notevolissima è anche la prima metà del secondo volume: dopo l’aggressiva Where Boys Fear To Tread e gli smottamenti heavy noise di Bodies, pensano la leggiadra 33, la tormentosa nenia folkeggiante di In the Arms of Sleep, una Through The Eyes Of Ruby tra glam e velleità neo prog e soprattutto 1979, malinconica gemma guitar wave con una spruzzata di elettronica e liriche di puro spleen adolescenziale, a mostrare tutte le sfumature della scrittura corganiana. Gli Smashing Pumpkins non si sarebbero mai più ripetuti su questi livelli, né avrebbero avuto più in mano lo scettro di rock band del momento che un paio d’anni più tardi i Radiohead gli avrebbero soffiato. Ed è meglio non fare paragoni con il presente... tommaso iannini


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