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digital magazine | aprile 2013 | n. 102

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sommario turn on – p. 4   Femina Ridens

tune in – p. 6   Julia Kent   Low

drop out – p. 14   Flaming Lips   Mother Africa

rearview mirror – p. 112   David Bowie

recensioni – p. 40 rubriche – p. 132   live report   gimme some inches   campi magnetici   classic album

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#102 aprile Direttore Edoardo Bridda Direttore Responsabile Antonello Comunale Ufficio Stampa Alberto Lepri Coordinamento Gaspare Caliri Progetto Grafico Nicolas Campagnari Redazione Alberto Lepri, Antonello Comunale, Edoardo Bridda, Fabrizio Zampighi, Gabriele Marino, Gaspare Caliri, Massimo Rancati Nicolas Campagnari, Riccardo Zagaglia, Sebastian Procaccini Stefano Solventi, Stefano Pifferi, Teresa Greco Staff Alessandro Liccardo, Alessia Zinnari, Andrea Napoli, Andrea Forti, Antonio Pancamo Puglia, Antonio Laudazi, Davide Nespoli, Federico Pevere, Filippo Papetti, Filippo Bordignon, Giulia Antelli, Giulia Cavaliere, Giulio Pasquali. Luca Falzetti, Luca Barachetti, Marco Braggion, Marco Masoli, Marco Boscolo, Mirko Carera, Nino Ciglio, Sarah Venturini, Stefano Galliazzo, Stefano Gaz Copertina flaming lips Guida spirituale Adriano Trauber (1966-2004)

SentireAscoltare // online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Copyright © 2013 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare.


Scrittura sarcastica ma anche poetica, folk d’autore senza facili punti di riferimento, voce virtuosa ma tutta da decifrare: Francesca Messina è Femina Ridens

Femina Ridens Quello che io sono adesso

Di rado un disco d’esordio ci colpisce come ci ha colpiti quello di Francesca Messina. A parlare sono i contenuti di questa opera prima, certificati da uno stile vocale che potrebbe rappresentare un punto di incontro tra l’ascissa Carmen Consoli e l’ordinata Cristina Donà (eppure tutto, in Femina Ridens, è molto più teatrale e al tempo stesso intimo rispetto all’immaginario delle artiste citate). Materiale vitale, in fondo folk, ma anche canzone d’autore sui generis su un cantato denso e una scrittura sarcastica, talvolta spietata, più spesso obliquamente fascinosa. Bastano pochi fonda-

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mentali per dar vita un lavoro che guarda curioso alla ricchezza etnica e borderline dei Settanta nostrani («Mi affascina il periodo sperimentale degli anni 70 e l’ironia psicotica che aleggiava negli anni 80 quando c’erano la Rettore e Alberto Camerini»), pur mantenendo un’immediatezza “popolare”. Suggestioni che si trasformano in sbalzi d’umore senza troppi filtri, così diretti da smuovere un portato emotivo di rara intensità. In Femina Ridens si parla di sentimenti e percorsi di vita. Gli stessi che tra trascorsi dance a fine Novanta sotto le spoglie di Lady Violet - potete


immaginare qualcosa di più lontano dall’attualità di questo disco? Noi francamente no -, teatro contemporaneo (Laboratorio 9) e sbirciatine all’indie di casa nostra (La materia strana, con cui incide l’EP Raptus) hanno portato Francesca Messina fin qui. L’obiettivo implicito è non tradire una natura che forse fino ad oggi non ha mai avuto modo di esprimersi pienamente. Tanto che il profilo femminile che emerge dal disco pare abbastanza disilluso, conflittuale, di certo vissuto, anche se la diretta interessata tende a sminuire: «Potrei dirti che Esuberanza è stata scritta quando mi hanno licenziata, mi hanno rubato il motorino, m’è scappato il gatto e mi si è rotto un dente, ma non è così che funziona. Preferisco lasciare aperta la strada dell’interpretazione personale. Non mi piace essere didascalica. Preferisco il teatro alla TV. Osservo le scene di vita quotidiana degli altri, sono empatica, vivo le stesse suggestioni e fregature che vivono le donne del mio tempo senza piangermi addosso: Femina Ridens ha la corda pazza e la vena ironica» Interpretare, andare oltre la superficie delle cose, per comprendere una poetica spessa ma non complessa. Il codice del caso potrebbe essere paradossalmente l’unica cover in scaletta, toccante oltre ogni previsione e forse persino autobiografica. «Vorrei trovarti mentre tu dormi in un mare d’erba / E poi portarti nella mia casa sulla scogliera / Mostrarti i ricordi di quella che io sono stata / Mostrarti la statua di quello che io sono adesso» recita una Vorrei incontrarti rubata all’Alan Sorrenti di Aria e trasfigurata in un folk tremante ma anche risoluto. Metafora di una sensibilità ambivalente, in bilico tra fragilità e consapevolezza di un’identità a cui non si può rinunciare: «L’ho scelta perché la sentivo nelle mie corde e avevo il bisogno di cantarla e suonarla così, allo stato puro, nella sua semplicità. È un brano che mi dà una grande forza. Quando l’ho registrato, mente, corpo e cervello erano in equilibrio. È stata un’intuizione, uno stato di grazia». Il risultato va oltre i già ottimi livelli qualitativi dell’originale (e lo diciamo senza timori di smenti-

ta), su una voce che si appropria del pezzo cucendoselo addosso con sobrietà e stile. La stessa voce che non nasconde le proprie potenzialità, pur preferendo la visione d’insieme al gesto virtuoso gratuito, la sottolineatura all’ostentazione: «Ritengo il bel canto stucchevole e noioso e i virtuosismi un esercizio di stile. A diciotto anni avevo cinque ottave di estensione e non sapevo cosa farmene. La tecnica è un mezzo potente, ma se non sai esattamente cosa vuoi non è interessante. Ora la tecnica non me la ricordo più, l’ho dimenticata. Se viene, viene da sé, mi sostiene nei momenti in cui ho voglia di giocare, di essere astratta, alimenta la mia libertà di espressione. Ora ha un suo perché anche nei live: è un mezzo di evasione dalla realtà.» Da qui la musica come terapia contro le claustrofobie della quotidianità e testi che dal quotidiano nascono, per poi astrarsi («possiamo solo permetterci / di addomesticare la paura / sperare il meglio possibile / e l’impossibile» si canta in Appariscente). La cosa che piace di più del disco è la forte personalità che scaturisce dall’insieme, come se nello scrivere la musicista fiorentina avesse seguito un pensiero forte poco interessato a una connotazione stilistica facilmente identificabile. Teso, tuttavia, a non tradire una natura che non si può rinchiudere in facili steccati di genere senza qualche problema di coscienza, esaltata da un impianto musicale minimale e fondamentalmente acustico («Preferisco togliere anziché aggiungere. Ho voluto una strumentazione scarna in studio di registrazione, puntando sul ritmo e su una vocalità che sicuramente ha avuto un imprinting dalla tradizione ma ha anche deciso di andare avanti per la sua strada»). Nessun lusso in un disco che concentra tutta l’attenzione sul significato delle parole e sulla chimica delle emozioni. Una cosa è certa: chi avrà la fortuna di averci a che fare, non lo dimenticherà così in fretta. Fabrizio Zampighi

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Julia Kent

Spazi vuoti per scolpire suoni

Una curiosità musicale con pochi pari, quella della canadese Julia Kent. L’ultimo capitolo della sua discografia è un Character in cui introspezione e scenari cinestesici vanno di pari passo testo: Fabrizio Zampighi Una curiosità musicale con pochi pari, quella della canadese Julia Kent. A scorrere la sua biografia c’è quasi da perdersi, tanto è diversificata e schizoide: gli anni Novanta trascorsi nei Rasputina di Melora Creager (per gli over trenta: ricordate la violoncellista che suonò Dumb con i Nirvana nel 1994 a Tunnel, la trasmissione con Serena Dandini e Corrado Guzzanti? Era la Creager) a sperimentare tra archi e rock alternativo; featuring e collaborazioni che vanno da Angels Of Light a Sheryl Crow, da Martha Wainwright a Devendra Banhart, da James Iha al nostro Paolo Spaccamonti; un passato

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prossimo nei Johnsons di Antony Hegarty che forse rappresenta la parentesi più nota della storia della Kent. Il tutto per assorbire visioni musicali e approcci diversi, da centrifugare in una carriera solista indirizzata verso la contemporanea (su tutti, Arthur Russel) come pure in bilico tra avant e musica da camera. Il fulcro di tutto è una dinamicità di fondo figlia del contesto biografico almeno quanto di una tensione compositiva che ogni volta cerca di nuovi stimoli, come testimonia anche la discografia dell’artista. Un humus creativo innaffiato dall’ap-


proccio solitario al violoncello e da campionamenti, multilayer, field recording, sempre ricondotti a un concept diverso: un Delay del 2007 dedicato alla transitorietà fisica, ma anche emozionale degli aeroporti (luoghi di passaggio senza inizio e senza fine in parte descritti, tra intrattenimento e surrealismo, anche dal film The Terminal del 2004 con Tom Hanks); l’Ep Last Day In July (2010) con i suoi quattro brani piovosi e malinconici ispirati alla natia Vancouver e alla fine dell’estate; un Green & Grey del 2011 che indaga il rapporto tra mondo naturale e mondo creato dall’uomo. L’ultimo in ordine di tempo è il Character uscito nel 2013. L’etichetta responsabile della pubblicazione è la Leaf, per un disco che rappresenta un deciso passo in avanti rispetto al passato. Questa volta il violoncello della canadese sposta l’attenzione sull’introspezione, ma non è tanto questo a differenziare il lavoro, quanto una concezione della musica che cambia nella sostanza: meno arrangiamenti accademici, più spazi vuoti e più attenzione per le architetture dei brani, su una musica che si fa immaginifica come non è mai stata prima. Di questo ed altro abbiamo parlato con la diretta interessata, in un’intervista che si è rivelata anche una buona occasione per qualche consiglio discografico. Character esce per Leaf, la stessa etichetta che ha pubblicato Cosmos di Murcof. Credi che il tuo nuovo disco abbia qualcosa in comune con l’idea di musica che Murcof ha teorizzato in quel classico? Non conosco bene quel disco, mi spiace. Di certo, però, sono molto contenta di lavorare con Leaf. Ammiro la loro estetica. Ti consideri una musicista contemporanea? Cosa significa “contemporaneo” per Julia Kent? In un senso generico, naturalmente mi ritengo una musicista contemporanea, nel senso che faccio musica nel presente. Credo che per me “musica contemporanea” significhi musica che è influenzata dai tempi in cui viviamo. In realtà non

sono mai abbastanza sicura sul come definire me stessa o la musica che faccio. Character rappresenta una buona sintesi tra avanguardia e approccio classico al suono del violoncello. Canzoni più oscure come Kingdom o Tourbillon coesistono con brani malinconici come Flicker. La musica è inoltre piena di livelli “nervosi” e profondi, pur trasmettendo una forte idea di organicità. Credi che il tuo ultimo lavoro sia in assoluto il più rappresentativo per te? Che tipo di “concept” volevi veicolare con il disco? Sebbene tutti i miei dischi siano in qualche modo rappresentativi, nel senso che esprimono il mio mondo musicale ed emozionale, credo che Character sia forse quello più personale, influenzato com’è più da uno stato emotivo interiore che da atmosfere e concept esterni. L’ispirazione per il disco arriva dall’idea che noi siamo tutti personaggi (“characters”, ndr) nella narrazione della nostra vita, ma non necessariamente abbiamo il controllo sulla narrazione che potrebbe avere uno scrittore. Così, da un certo punto di vista, il disco parla del sentiero della vita e delle svolte inaspettate che può prendere. La musica che suoni non ha confini definiti. È qualcosa che si sviluppa tra gli spazi vuoti e il looping. Quali elementi consideri importanti nel momento in cui scrivi un brano? È verissimo che non ci sono confini ben definiti nella mia musica. I brani vengono sviluppati più attraverso un procedimento tecnico vero e proprio che grazie alla classica composizione (sebbene vi siano comunque, all’interno dei brani, elementi legati alla scrittura). Il procedimento coinvolge il looping e quindi va più per addizione che per sottrazione. Cerco sempre di trovare spazi all’interno della musica per scolpire nuovi elementi. In che modo l’elettronica o i field recording completano il tuo suono? I field recording che ho utilizzato nei dischi prece-

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denti sono stati un tentativo di portare atmosfere esterne all’interno della mia musica: gli aeroporti nel caso di Delay, il mondo naturale in Green And Grey e i suoni della città in cui sono nata in Last Day In July. In Character credo che questo tipo di suoni sia meno riconoscibile. Ho usato suoni che ho trovato, per poi processarli e trasformarli in qualcosa d’altro. Per quanto riguarda l’elettronica, cerco sempre di creare suoni che siano complementari o in contrasto con le qualità timbriche del violoncello. Così facendo, tendo a gravitare tra suoni dai toni alti o percussivi e beat che rimangono sulla superficie, invece di stare sotto. Come ha modificato il tuo approccio alla musica o la tua personalità l’aver suonato con Antony Hegarty e nei Johnsons? Suonare con Antony e con i meravigliosi musicisti che gli stanno attorno è stata una grande gioia e un privilegio della mia vita. Ho imparato molto da lui, sulla musica ma anche sulla vita. Lui è davvero speciale, sia come persona che come artista. Sei spesso in Italia: cosa pensi della scena musicale del nostro Paese? Mi sento molto fortunata per il fatto di poter suonare così spesso in Italia e di poter collaborare con musicisti italiani meravigliosi. Ho appena concluso un interessante collaborazione, a Torino, con Paolo Dellapiana, Paolo Spaccamonti e Ivan Bert, promossa dall’associazione Musica 90. La stessa Musica 90 farà uscire un disco live con quel concerto. Credo che la scena italiana contenga un’enorme varietà di talenti: al suo interno, molti musicisti fanno una musica davvero personale e unica. Cosa stai ascoltando al momento? La prima cosa che ascolterò - ricollegandomi alla tua prima domanda - sarà sicuramente Cosmos di Murcof! Ultimamente sto ascoltando molta musica per film, inclusa quella di Mihaly Vig’s per le pellicole di Bela Tarr, quella di Ernst Reijseger’s per il cinema di Werner Herzog e quella di Johnny Greenwood per The Master. Per quanto

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riguarda i dischi più recenti, ho ascoltato il nuovo di Grouper, Novaya Zemlaya di Thomas Köner e Music For The Quiet Hour di Shackleton (musica fredda per la stagione fredda!). Ascolto anche molta musica classica e classica-contemporanea: torno spesso su su Little March Girl Passion di David Lang, che è davvero un disco fondamentale per me. In occasione della veglia funebre per la morte di Jonathan Harvey ho riscoperto la sua musica, specialmente Tombeau De Messaien. Dischi o musicisti fondamentali per Julia Kent? Le persone che mi hanno influenzato di più e sulla cui musica ritorno costantemente sono persone come Arthur Russel, Ernst Reijseger e Tom Cora. Artisti che hanno creato musica personalissima usando il violoncello. World Of Echo di Arthut Russel è davvero una pietra miliare per me: è un lavoro così intimo, fragile e bello che riesce ad essere anche immensamente potente. La musica di Ernst Reijseger per Hearsay of the Soul di Werner Herzog continua ad attrarmi. Anche Robert Ashley è uno dei miei eroi personali: l’anno scorso, a New York, siamo stati fortunati testimoni di molti concerti legati alla sua musica ed è stato bello poter avere una visione così ampia della sua produzione artistica.


Low Il cammino invisibile Abbiamo incontrato Alan Sparhwak e Mimi Parker a Milano per parlare del nuovo album, il decimo in studio della loro carriera testo: Tommaso Iannini Austeri, ma tutt’altro che monolitici, quasi in ogni disco i Low guardano la propria musica da angolazioni diverse e introducono elementi di novità o nuove sfumature. Dopo l’esplosione rock di The Great Destroyer (anno domini 2005), gli esperimenti elettronici di Drums And Guns (2006) e la ritrovata classicità di C’mon (2011), The Invisible Way li riporta a una dimensione intima, raccolta, quasi cameristica, più vicina a una forma personale di folk music. Folk. Non ostentatamente contemporaneo. Non vecchio stile. Classico, se si vuole usare ancora una parola spesso abusata. Oltre alle armonie vocali, sono la chitarra acustica e il pianoforte le note dominanti del decimo album di studio del trio di Duluth. Per parlare di queste scelte, del ruolo di Jeff Tweedy nella produzione, ma anche di altri aspetti che vanno dalle soluzioni musicali dell’ultimo LP alla situazione dell’America contemporanea, abbiamo incontrato Alan Sparhawk e Mimi Parker in un hotel del centro di Milano, poche ore prima dello showcase acustico registrato per i Rockfiles di Lifegate Radio. Quella stessa sera Alan e Mimi si sono esibiti da soli, soltanto con una chitarra e le loro voci. Una dimensione ancora più spartana e spoglia di quella già essenziale dei loro concerti, e in cui hanno presentato al pubblico italiano

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alcune canzoni del nuovo disco insieme a qualche pezzo meno recente, come Murderer e The Last Snowstorm of the Year. Di The Invisible Way abbiamo parlato soprattutto con Mimi; con Alan abbiamo accennato anche al suo ultimo progetto, i Murder of Crows, e a come vede l’America di oggi. Come avete scelto Jeff Tweedy per il ruolo di produttore? Mimi: Siamo riusciti finalmente a far combaciare i nostri impegni. Conosciamo da tempo i Wilco, in passato siamo stati in tournée con loro e negli ultimi due anni, quando discutevamo tra di noi o parlavamo con qualcuno della produzione del nuovo disco, facevamo sempre il nome di Jeff. Ci siamo confrontati sui rispettivi impegni e abbiamo visto che ce la potevamo fare. Gira voce che il disco che ha prodotto per Ma-

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vis Staple vi abbia convinti a puntare su di lui. Mimi: In realtà quello di Mavis Staples non è proprio il nostro suono, lei ha un gruppo al completo e un coro. Non volevamo certo muoverci in quella direzione musicale ma sapevamo che Jeff aveva tutto, sensibilità intelligenza ed esperienza, e che ci avrebbe portato qualcosa di unico. Quando entriamo in studio le nostre canzoni sono già pronte, ma lavorare con un produttore esterno che vede le cose da un’altra prospettiva ti aiuta tantissimo a migliorare e a fare le scelte giuste. Contavamo sul fatto che lui avrebbe dato il suo contributo. Avete trovato molte differenze tra lui e gli altri produttori con cui avete lavorato? Mimi: Sì, è normale. Noi abbiamo sempre le nostre idee, ma sapevamo, per esempio, che Dave Fridmann - che aveva lavorato con i Flaming


Lips - avrebbe impresso al suono una certa pienezza e il suo tocco particolare, o che al contrario Steve Albini, più che un produttore, si ritiene un ingegnere e quindi si limita a settare i microfoni e registrare il tuo sound al naturale. Non so come si consideri Jeff, ma è un produttore molto rispettoso della personalità e delle idee dei musicisti. Le nuove canzoni sono più basate sul piano e sulla chitarra acustica rispetto al passato. Eravate alla ricerca di qualcosa di diverso? Mimi: Ho scritto tutte le mie canzoni al pianoforte. Anche se non sono una pianista, ma se è per questo non sono neppure una chitarrista. Così, quando ho fatto ascoltare agli altri i miei nuovi pezzi, li ho eseguiti al piano; il nostro bassista, Steve, suona anche lui il piano; poi, una volta che le canzoni avevano preso quella forma, le abbiamo lasciate così ed eravamo molto eccitati per la novità, perché non avevamo molti pezzi con il pianoforte nei dischi precedenti. Oltretutto è uno strumento che non ha bisogno di molto altro. Canti anche più canzoni del solito. Come decidete il cantante solista delle vostre canzoni? Mimi: Ognuno canta le canzoni che scrive. Poi Alan ha scritto Holy Ghost ma quel brano è in un registro in cui lui non riesce a cantare. Lui ripeteva da tanto che avrei dovuto cantare più pezzi, e allora non mi sono tirata indietro e ho cantato anche il suo. D’altra parte, quando scrivi una canzone è una cosa talmente personale, la senti in un certo modo e ci sei affezionato ed è normale che tu la voglia cantare. In genere ciascuno di noi canta quello che scrive. Il titolo The Invisible Way ha un significato particolare? Mimi: Anche se può sembrare una spiegazione sciocca, parla di come viviamo senza sapere o renderci conto di molte cose, di come non abbiamo il controllo su come, quando o perché certi eventi accadono. Si possono fare programmi ma a volte non funzionano nemmeno. Per esempio, scriviamo una canzone con una certa idea, che poi chi

ascolta interpreta a modo suo.. Che cosa mi dici di Low Plays Nice Places EP? Avete pensato anche a un album intero dal vivo? Mimi: Abbiamo fatto una tournée di spalla ai Death Cab For Cutie e suonato in posti davvero belli. Da un certo punto in poi il loro ingegnere del suono ha cominciato a registrare tutti i concerti. È bello creare delle piccole cose per i fan, ogni tanto ne facciamo. Qualche anno fa abbiamo registrato un concerto a Eindhoven in una splendida cattedrale; a volte il luogo in cui suoni è talmente particolare che anche le performance hanno una resa speciale, un suono diverso che è bello poter catturare e registrare. In Italia abbiamo appena avuto le elezioni. Che cosa ne pensate dell’America di oggi e del presidente Obama? Mimi: Penso che molte persone, me compresa, siano state deluse da Obama. Avevamo votato per lui cinque anni fa perché all’inizio sembrava avere ideali molto forti, ma non è riuscito a tradurli nel concreto. Ci ha senz’altro delusi. Io comunque l’ho votato di nuovo con la speranza che possa ritornare ai temi di cui aveva parlato nella sua prima campagna elettorale. Del resto è un politico, ha un compito impegnativo e immagino quanto sia difficile per un presidente rispondere alle aspettative di tutti. Non possiamo che sperare. Alan, ci puoi dire qualcosa dei Murder of Crows? Alan: I Murder of Crows sono nati perché un cinema della nostra città proietta film muti con accompagnamento dal vivo. Mi hanno chiesto di comporre e suonare una colonna sonora per The Penalty, un horror di Lon Chaney degli anni ‘20. Non volevo fare tutto da solo, e guardando il film ho pensato a un violino. Poi un giorno a una fiera ho visto suonare un musicista country blues, ho visto che con lui c’era una violinista, e ho pensato che fosse la persona giusta. Dopo aver scritto la colonna sonora e averla eseguita dal vivo, abbiamo pensato di suonare altri concerti e di registrare

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qualcosa insieme. Pensi di fare altri concerti o registrazioni con questo nuovo progetto? Alan: Può darsi. Non abbiamo molto tempo perché anche Gaelynn suona in un’altra band e non possiamo fare troppi concerti per le sue condizioni di salute che la costringono su una sedia a rotelle [Gaelynn Lea, l’altra metà dei Murder of Crows, soffre di osteogenesi imperfetta, la stessa malattia da cui era affetto anche il famoso pianista jazz Michel Petrucciani, NdA]. Quello che mi piace di più del nuovo progetto è il fatto di poter lavorare con i loop, anche di violino, e creare questo sound non ritmico; ci ispiriamo al lavoro dei Tren Brothers, dove Mick Turner dei Dirty Tree suona appunto questi loop di chitarra. Credi che ti possa fornire nuovi spunti anche per i dischi dei Low? Alan: Sì, lo ha già fatto. Sperimentare con i loop mi è servito anche per il suono dal vivo dei Low, in cui uso un pedale. È un’ottima soluzione se si riesce a mantenere una certa fluidità. È un approccio diverso da quello dei Low, non devo scrivere canzoni, ho dei motivi di base ma le strutture musicali sono molto aperte. Nella presentazione del disco sul sito web della Sub Pop si parla di “lotta di classe”. Che cosa significa per voi? Mimi: È una frase di Alan, dovresti chiedere a lui. Alan: È la guerra di tutti i giorni, quella che tutti combattiamo. I ricchi hanno sempre di più e i poveri sempre di meno. E per i poveri le possibilità di cambiare la situazione diminuiscono sempre di più. Non credo nemmeno all’ipotesi di una rivoluzione violenta a questo punto, è improponibile. È facile mettere bombe, liberarsi delle persone. La verità è che viviamo in un mondo classista e non ce ne rendiamo conto. Pensi che l’America sia migliorata negli ultimi anni? Alan: No. Tutti sono ancora arrabbiati, le persone si odiano, si azzannano per niente. Basta la catti-

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va economia per dare l’immagine di quello che sono oggi gli Stati Uniti. Basta ascoltare la nuova musica, è tutta copiata.. l’America sta perdendo la sua capacità di creare grande arte perché è troppo egoista, si pensa troppo ai soldi, si sta a casa invece di andare ai concerti, si crede di fare arte sui computer invece che sulle strade (si ferma qui, e il suo silenzio è eloquente). Stasera suonerete da soli in un set acustico. Vi vedremo più spesso in questa veste? Mimi: Onestamente, siamo un trio e la nostra musica è già scarna e minimalista, credo che i nostri concerti, come d’abitudine, saranno in larga parte elettrici, ma apprezziamo anche gli show acustici; è una cornice ancora più minimale che ti permette di imparare cose nuove, percepisci le canzoni in maniera diversa e le devi anche pensare in modo differente. A volte il volume più alto può essere una sorta di protezione, quando suoniamo in acustico siamo inevitabilmente più esposti, nudi, ma se una canzone è buona funziona in tutti e due i casi. Se non succede significa che probabilmente non è una buona canzone. Funziona come una sorta di test.


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Flaming Lips 14


Freaks, to infinity and beyond

Testo: Luca Falzetti

Prima dell’uscita del nuovo lavoro in studio The Terror, abbiamo il piacere di incontrare una delle menti più creative e prolifiche dell’intero panorama del rock alternativo, che alla fine rivela... L’opportunità di parlare con il Wayne Coyne leader dei Flaming Lips, prima della pubblicazione del tredicesimo disco della formazione americana, è in special modo interessante. E non solo perché i Lips hanno ormai attraversato tre decadi in musica divenendo punto di riferimento e influenza dichiarata per buona parte della scena psych-rock attuale, ma soprattutto perché Wayne è un personaggio - magnetico e sicuro di sè, molte volte impertinente - che, passati i cinquanta, conserva ancora intatta la curiosità propria di un bambino. Si meraviglia continuamente di ciò che lo circonda e, per nostra fortuna, questo lo porta a rimescolare sempre le carte in gioco. L’artista, che incontriamo per l’occasione in un albergo di Londra - il cui arredamento è sufficientemente strano da armonizzarsi perfettamente con la filosofia del gruppo -, sembra quindi nel giusto spirito per compiere l’ennesima evoluzione, per iniziare l’ennesima ricerca. Nei quattro anni che hanno separato Embryonic da The Terror, Wayne ha forse vissuto il periodo artistico più bislacco, riempiendo il catalogo dei Flaming Lips di diversi progetti senza - apparentemente - un filo conduttore e non mancando di far parlare di sé per qualche episodio fuori dall’ordinario. Come quando, a fine 2012, l’intero aeroporto di Oklahoma City - città base dei Lips - in preda al caos viene allertato perché Coyne trasporta una granata in valigia

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(rivelatasi poi un facsimile regalatogli la sera prima ad un party). Lo scorso San Valentino, i Lips hanno poi pubblicato un disco inserendolo in una copia perfetta di cuore anatomico, quest’ultimo prodotto da una speciale fabbrica di cioccolato. Sempre rimanendo in tema dolciumi, nel 2011 è stata la volta di una penna USB - contenente tre canzoni inedite - posizionata all’interno di un cervello gommoso inserito a suo volta in un teschio gommoso, il tutto di dimensioni reali. In mezzo a tutte queste release, ci sono anche matrimoni celebrati dallo stesso Coyne a un festival a Montreal (nel potere dell’LSD), un tatuaggio fattogli da Ke$ha durante le session di The Flaming Lips & The Heady Fwends e una lite sui social media con la regina del neosoul Erykah Badu. Nonostante la mole di materiale pubblicata dal gruppo in questi due anni, il vero e proprio passaggio di consegne avviene con The Terror. Esso rappresenta una fatica meno cosciente,

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meno ordinata, di Embryonic, ma allo stesso tempo si può considerare il disco più cerebrale dei Lips, un ulteriore salto nel vuoto - dimensionale - che vede il gruppo inoltrarsi in psych-jam sempre più lunghe, sempre più oscure. Tutto o quasi frutto delle visioni in grande scala di Wayne, che arrivato a questo punto non si nega nessun capriccio. Incontro interessante anche perché, una volta sedutosi a parlare, Coyne entra totalmente nella conversazione, come se la comunicazione fosse il momento migliore per rielaborare idee, pensieri, progetti e ambizioni. Dà le risposte, ma allo stesso tempo si fa tantissime domande. Ecco allora che l’imminente The Terror è solo il pretesto per affondare il colpo nell’universo Flaming Lips a 360º, tra presente, passato e futuro. Il nuovo album è, come sempre, un nuovo viaggio sonico, solo più oscuro del solito. Tanto che la prima volta che l’ho ascoltato ho pensato di non averlo capito. Le note stampa affermano che The Terror è l’assenza di amore. Anche il tuo paragone tra “L’urlo” di Munch e “Try To Explain” l’ho trovato molto calzante. È quindi questa la chiave di lettura? È più oscuro, si, e ha uno strano mood. L’idea di base è che noi umani non possiamo fare a meno di amare e, quando incontriamo qualcuno che non vuole amare, è una di quelle cose strane e misteriose. Penso sia un vero e proprio meccanismo che noi abbiamo. Le nostre menti hanno bisogno di amare: musica, alberi, persone, vestiti, cibo. Diamo un così grande valore all’amore, ce lo costruiamo in testa. A volte diciamo “l’amore è tutto”. Lo diciamo, ma parte di noi sa che non può essere vero. Perchè l’erba, gli insetti, gli alberi non amano nella nostra stessa maniera. L’universo forse, ma non saprei. The Terror è una ricerca sul vero valore dell’amore, o almeno la mia ricerca al momento. Magari c’è più di questo. Quello che vogliamo dire con The Terror, è che tu scopri che la tua vita è ancora vita, anche senza amore. Forse non è la vita che vorresti vivere, forse è una vita che non vorresti nemmeno conoscere. Magari, se sei abbastanza fortunato, vivi la tua vita senza sapere nulla del valore dell’amore e poi muori. E buon per te. Non lo so. Ma non si può non essere curiosi nel cercare di capire cosa sia questa cosa che ci muove. È qualcosa che mi tormenta continuamente. Vi aspettate una reazione simile dal pubblico, priva di amore, o magari di sorpresa? Non lo so. Penso che i fan dei Flaming Lips vogliano essere sorpresi. È il tipico disco che se ti siedi, lo ascolti e pensi “devo fare questo e nient’altro”, non riesci a capirlo. Ma se lo ascolti mentre stai facendo

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qualcos’altro, ti coglierà di sorpresa. E magari, col tempo, ci ritornerai, quando la tua testa sarà impegnata in cose diverse. A volte lo ascolti e non è per niente intenso, è molto “whoo-whoo-whoo”. E ti blocca per un momento. Mi ricorda The Dark Side Of The Moon. Quando ascoltai quel disco per la prima volta, non mi piacquero tutte le canzoni, ma con il tempo ho veramente imparato ad amarle. Penso che The Terror abbia un effetto simile. Parliamo di testi. Dopo trent’anni credi che sia più semplice scriverli oppure fai fatica a trovare nuovo materiale? Nessuna delle due. A volte è veramente facile, altre volte è impossibile. Agli inizi credo di non aver scritto veri e propri testi, inventavo solo roba. Che è differente dell’esprimere te stesso. Adesso lascio che sia la musica ad influenzare quello che dirò, invece del contrario. L’abbiamo fatto in tutte le maniere, ma adesso è così che scrivo. Cosa ci dobbiamo aspettare dai vostri nuovi show? Puoi anticipare qualcosa di quello che avete in mente per The Terror? Non lo facciamo spesso, forse l’abbiamo fatto ai tempi di The Soft Bulletin, ma comunque puliremo la lavagna. Ricominceremo, faremo questo tipo di musica per un po’, con uno spirito diverso. È un disco talmente strano che dovremo concentrarci su questo umore. Penso che sia un buon cambiamento per noi adesso. Essere diversi

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per un po’. Questo non vuol dire che l’altra nostra identità non ci sia più, quella grande celebrazione che facciamo, molto intensa e freak. Mi piace ancora, sarà sempre parte di noi. Dopo trent’anni, ovunque si vada, la gente si aspetta da noi un po’ di quello, ovviamente. Stavamo provando, trafficando in studio con della roba, luci e altro. Avevamo questo muro gigante fatto di specchi, sullo sfondo. Era bello, ma non ci convinceva pienamente come idea definitiva. Non sai mai quale sia l’idea definitiva, si fanno un po’ di prove alla cazzo. Così l’abbiamo tirato giù, sul pavimento. Avevamo queste luci ed effetti in azione e, mentre suonavamo, il risultato era veramente strano ed interessante, tanto che abbiamo ripreso tutto. Quello che si dice “processo organico”? Beh, comunque lo porteremo on stage. Quali dischi dei Flaming Lips pensi si sposino meglio con The Terror, per un’eventuale scaletta? Potenzialmente tutti. Penso che se uno venisse a vederci dal vivo e non suonassimo Do You Realize? oppure The Yeah Yeah Yeah Song, rimarrebbe deluso. Come tutte le band, cercheremo di presentare al meglio quello che stiamo facendo ora. Parte del gruppo è in grado suonare qualsiasi canzone venga richiesta ad ogni serata, ma non è così per me. Non riesco a ricordare sempre tutte le canzoni, dobbiamo fare un sacco di pratica. Non siamo diversificati come, ad esempio, Radiohead o Wilco, band in cui ognuno è un grande musicista. Non potrei eseguire cinquanta pezzi alla volta, non me li ricorderei. Non conosco lo strumento così bene. È più un lavoro di collage sonoro per me. Pensi che un approccio prettamente critico alla tua musica - o alla musica in generale - sia a volte una perdita di tempo? Nello specifico per quello che tu stesso hai definito un lavoro “self indulgent”, quindi molto personale... Penso che sia ottimo avere un’opinione, avere qualcosa da dire. La cosa peggiore del mondo è quando le persone non hanno niente da dire. Penso che esprimere qualcosa sia più interessante che non dire niente. Mi piacerebbe che mi si dicesse che sono la cosa migliore al mondo, ma se non accade, fa niente. Quando qualcuno mi dice “il tuo disco è pessimo” a volte mi fermo a pensare e dico che forse ha ragione. Sono aperto alle critiche. Tu, sedendoti qui davanti a me, cercando di conoscermi, mi dai l’opportunità di dirti che il disco parla di me, della mia vita, o qualunque altra cosa. E forse questo ti cambierà, facendoti pensare qualcosa di diverso sulla mia musica, l’arte, le idee. L’immagine che si ha di te è quella di una persona che “crede”. Non necessariamente in senso religioso, magari più generale.

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Ecco, il Wayne di oggi, in cosa crede? Lo sono! Ci credo, credo in tutto. Oggi credo nel potere di tentare, nell’amore, nel potere dell’entusiasmo, dell’esperienza. Penso che tutte queste cose lavorino assieme. Credo nella buona sorte. Devi provarci, alla fine, ma non sono un fatalista, in quello non ci credo. L’idea che uno possa predire il futuro non mi convince. Credo che ognuno possa influenzare la propria vita tramite le proprie azioni. A volte peggiori la situazione, provando cose diverse. Ma non credo a un Dio o a qualcosa che giudica, quello per niente. Credo alla gente, credo agli umani. Quindi nient’altro sopra le nostre teste? Credo nell’universo. Parte di quello che diciamo nel nuovo disco riguarda questo dilemma sul cosa ci controlla. Saranno le nostre menti, con le nostre esperienze e i nostri desideri? Oppure è tutto davvero parte di una grande macchina e noi non abbiamo proprio voce in capitolo? Oppure è una vita che deriva dai nostri antenati, dalle nostre madri e dai nostri padri? Non lo so, ci penso continuamente. La ragione per cui il mio cibo preferito è quello che è, la ragione per cui ho ancora i capelli. Prendo tutte queste cose e dico “questo sono io”, ma so di non essere veramente il padrone e il maestro di tutto questo. L’universo lo è sicuramente più di me. L’universo ci dice ok, puoi decidere cosa mangiare, ma poi deciderò io

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quando andrai in bagno; tu puoi decidere chi scopare ma decido io chi amerai, e così via. Non lo so. Molti sono desideri profondi. Forse posso decidere di fare musica, e l’universo deciderà se sarà una merda oppure no? La tua ossessione costante, in dischi diversi, sembra riguardare la tecnologia. Qual è il tuo rapporto con essa? Pensi che la tecnologia ci separi oppure che ci unisca? Ho intorno un sacco di gente che è davvero al top assoluto in fatto di tecnologia, che ne capisce molto più di me. Io ne utilizzo tutti i benefici, sono ossessionato più da quello che può fare che da come funziona. Prendi i telefoni: la gente pensa che ci distolgano dall’essere presenti sul momento, ma io non sono affatto d’accordo. Con questo telefono, solo oggi, interagirò con un sacco di persone e questo avrà un effetto su di me. Un effetto reale, che alla fine ci avvicina. Anche l’idea di rendere la musica così onnipresente - con pochi dollari hai a disposizione l’intero mondo della musica - è fantastica. Chiunque pensi che questo ci allontani dall’arte e dalla cultura, è un pazzo! Da bambino, ero povero. Non avevamo denaro da spendere per tanti dischi. Tra me, i miei fratelli e le mie sorelle, avremo avuto al massimo dieci dischi. Oggi puoi leggere mille opinioni al giorno su ogni argomento, in tempo reale, come su Twitter. E proprio su Twitter avete litigato tu e Erykah Badu, giusto? È ancora arrabbiata per quella storia del video di The First Time Ever I Saw Your Face? Si si, certo. Non ha ragione, ma va bene così. Non mi preoccupo troppo del perché o del come. Il fatto che abbiamo lavorato a quella musica insieme, per me, è più importante. Quindi farò di tutto per tenere quella musica in vita, ed è anche per questo che non parlo molto della cosa. So che lei è ancora super incazzata per quella storia. Invece non ricordo se tu e Jonathan Donahue (ex-membro dei Lips, poi fondatore e frontman dei Mercury Rev, ndr) siete ancora amici? Si si, lo vedo ogni tanto. Ci sentiamo spesso via messaggio, anche oggi. Amo Jonathan. Non so quale sia la percezione del nostro rapporto dall’esterno, nemici o chissà cos’altro. Niente di tutto questo. Lo adoro. Il 2011 e 2012 sono stati particolarmente ricchi di pubblicazioni. The Flaming Lips & The Heady Fwends su tutti. Come è nato il progetto? Presentavamo idee differenti per ogni mese. A volte solo una registrazione, altre volte progetti più corposi. Non è stato semplice

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da organizzare, c’è stato un sacco di lavoro. Il nostro contratto con Warner Bros scadeva alla fine del 2010 e loro volevano vedere quali fossero i nostri progetti, in vista di un futuro rinnovo. Non so perché per loro fosse così importante, ma comunque è così che le case discografiche lavorano oggi. Abbiamo colto l’occasione per fare cose che non avremmo potuto fare tramite una grossa corporation come WB. Non potresti mai commercializzare un disco con del vero sangue umano, non è legale. Non illegale ovunque, ma nella maggioranza dei paesi lo è. Lo volevo fare comunque, così l’ho fatto. In molti paesi del mondo non puoi possedere teschi umani, figuriamoci venderli. Non puoi farlo in nome di una grossa compagnia, ma come singola persona è differente. Non vendo propriamente sangue o teschi, vendo arte. Dove li avresti presi? Conosco un tizio, a Oklahoma City. Non penso che possa essere arrestato, ma c’è comunque un elemento di illegalità in tutta la faccenda. L’ho fatto perché lo volevo, così ho preso i rischi del caso e ho pensato “se posso cavarmela, lo farò!” La ragione per cui provo a fare tutte queste cose, alla fine, è sperimentare cose nuove. Bisogna essere un po’ impulsivi. Qualche idea era buona, qualche altra noiosa, ma il tutto ti dà un sacco di slancio. Registravamo ogni due o tre anni, nei normali cicli discografici. WB non ha bisogno di una canzone di sei ore, ma i Flaming Lips si. Per non parlare di quella di 24 ore! Il materiale era tutto così imprescindibile oppure è stato un semplice esperimento? Pensi che l’abbiano ascoltata in molti, per intero? Non molti, ma alcuni l’hanno ascoltata in parti diverse. So per certo che un paio di persone l’hanno ascoltata per intero. Giusto un paio? Beh c’era solo un numero limitato di copie.. Eh, ma c’è anche su YouTube.. Si, sarà sicuramente divisa in sezioni, ed è così che la gente potrebbe ascoltarla, di tanto in tanto. Per poi farsi un quadro generale. Penso che dipenda dal tuo stato mentale. Se volessi prendere delle droghe e chiuderti in una camera d’albergo ascoltando unicamente quella musica, penso potrebbe essere un’esperienza strana. Non siamo noi a dettare i modi, gli altri possono trovarli. C’è una parte di musica che, nello streaming che va avanti online all’infinito - almeno in America - inizia verso l’una del mattino e va poi avanti per sette ore. Anche io ho provato un paio di volte, ad addormentarmi con questi suoni scroscianti che salgono, scendono..e quando ti svegli, sono ancora li. È una figata. Non è intesa come “oh che

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bella canzoncina, passiamo alla prossima”, è concepita per essere un’esperienza differente. La musica e l’arte non hanno limiti, si può fare qualsiasi cosa, se se ne ha la voglia. Non importa che poi abbia successo o che fallisca. Tu falla. E io la faccio. Credo fermamente nella frase di Andy Wharol (originariamente di Marshall McLuhan, ndr) che “l’arte è qualsiasi cosa con cui puoi cavartela”, ma non la intendo in maniera cinica. Si è saputo che, dopo la vostra versione di The Dark Side Of The Moon dei Pink Floyd e il progetto sui King Crimson, avete in cantiere la cover dell’intero album di debutto degli Stone Roses. Qual è il filo che lega tutti questi lavori? Si, lo faremo. Non come Flaming Lips, più come una manciata di gruppi, tutti insieme. Ad altri artisti che vengono invitati di continuo nel nostro studio, faccio suonare questa o quella parte, così di getto. Gli dico “fai questa cosetta per me”, è divertente. È lo stesso ragionamento fatto per i progetti precedenti. Sono tutti dischi che amo veramente. Lo facciamo prevalentemente perché sono io il primo a voler ascoltare quelle canzoni. L’idea iniziale, con The Dark Side Of The Moon, era quella di fare delle b-side per Embryonic. Io sono poi venuto fuori con questa idea delle cover e gli altri hanno concordato. Procedendo con i lavori, ci è piaciuto talmente tanto che abbiamo suonato tutto il disco. È stato molto divertente. Adesso stiamo lavorando a quello degli Stone Roses. Sono un po’ più di canzoni, ma abbiamo quasi finito. Non è che potremo pubblicarlo, lo metteremo online credo. Come per i King Crimson, l’abbiamo stampato per quei weirdos che amano la musica. Avete visto gli Stone Roses live alla loro reunion? Ho visto la prima, nel ‘95. Amo davvero il loro primo album. In realtà non è neanche un amore per gli Stone Roses, è proprio amore per quel sound. Per il resto, non penso molto a loro come gruppo, non li seguo. Ma la musica è più grande delle band. Non so se adesso possano replicare dal vivo il loro primo album. Spero che gli vada tutto bene, ma non me ne frega poi molto. Per rendere bene il suono del primo disco, dovrebbero suonare in un modo che non credo sia possibile per loro adesso. Hai quel suono in testa e quando vai a vederli non suonano così. Che vuoi farci? Non saprei. Alcuni gruppi sono diversi invece, suonano esattamente come su disco, e a me piace. Ad alcune persone non importa. I Led Zeppelin ad esempio, quando li vidi da ragazzo, non suonavano per niente come i loro dischi. A tratti potevi distinguere le canzoni, ma non propriamente. Era tutto così incasinato, trasandato e male organizzato. Altri gruppi, invece, tipo i Radiohead, suonano esattamente come i loro di-

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schi. Se vai a vedere i Rolling Stones, non te ne frega nulla di come suonano, vuoi solo essere lì mentre lo fanno e va bene così. Christmas On Mars (il film) e Embryonic, erano collegati, vero? Procedo sempre secondo narrative e collegamenti, ma non in quel caso particolare. Alla fine penso che qualsiasi cosa mi prenda più di un giorno o due per essere completata, è sicuramente collegata al resto. Penso che Embryonic sia in realtà uno stacco da tutto quello che avevamo fatto in precedenza. Ma magari mi sbaglio, e sono collegati. Sono sicuro che se mi guardassi dall’alto, tutto quello che faccio sembrerebbe la stessa cosa ripetuta all’infinito. Ne sono sicuro. Sono inestricabilmente ossessionato dalle stesse quattro, cinque cose da sempre.. Che sarebbero? Probabilmente la follia, la morte, il sesso, il significato della vita e il piacere. Ma il tutto penso sia rovinato dalla mia altra ossessione, che è quella di dover “creare” tutto il tempo. Quando penso a queste cose, mi dico “dovrei disegnare questo, registrare quest’altro”.. Vuoi dire che il tuo momento di piacere viene rovinato dalla tua stessa arte? Si, probabilmente è così. Ma so che è un fattore subconscio che non posso controllare. So di volerlo fare. Parte di me è completamente ossessionata dal farlo. E non è che pensi di essere la cosa migliore al mondo, solo mi piace farlo. Parlando del passato, ricordi la prima volta che hai lavorato con Fridmann, il vostro produttore storico? Certo, era il 1988. Eravamo a Los Angeles a uno show dei Jane’s Addiction, noi eravamo di spalla. Al tempo non avevamo un ingegnere del suono, salivamo solo sul palco e suonavamo. Molto era improvvisato. Jonathan suggerì che avremmo dovuto avere un tecnico del suono e che Fridmann sarebbe potuto essere il nostro uomo. Io non ero interessato, non volevo un tizio noioso che stesse lì a dirci cosa dovevamo fare, ma Jonathan mi assicurò che Dave era uno fuori, un pazzoide. Così mi convinsi. Arrivò con questi capelli lunghi, alcuni dreadlocks. Suonanva con solo una camice addosso, a volte anche senza mutande. La gente lo guardava fisso mentre mixava ed erano tutti stupefatti dai suoni che faceva uscire dagli strumenti. Tutti quei ruggiti e piccoli effetti fantastici. Registrare il nostro materiale era, all’inizio, il suo progetto di laurea, l’ultimo lavoro che doveva svolgere per laurearsi. Mi piacque perché curava molto la dinamica del suono, così cominciammo a lavorare in studio assieme. Al tempo, non pensammo a quel momento come memorabile, ma ovviamente, in prospettiva, lo era. Abbiamo speso tutti questi anni nel

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fare musica insieme ed è stato molto intenso, siamo molto fortunati ad avere l’un l’altro. È corretto affermare che Fridmann ha aggiunto la terza dimensione al suono dei Lips? Beh si. Voglio dire, c’è una parte di te che non sa cosa sia esattamente “la cosa”. C’è sempre l’idea, anche nel modo in cui io e Steven lavoriamo, di non preoccuparci troppo dei ruoli. Tutti fanno tutto. A volte, per dire, Dave suggerisce dei testi. Ma è ovvio che, anche senza queste distinzioni nette, i nostri dischi suonerebbero radicalmente differenti senza Dave. Non so cosa sarebbero di preciso, non sai mai come sarebbe la tua vita senza l’altro. Fortunatamente, lui ci ha aiutati fin qui. Quale band ha ispirato più di tutte le altre la musica dei Flaming Lips? Forse i Pink Floyd? Sicuramente una di quelle, si. Ma penso che per trovare le nostre radici dovresti veramente tornare indietro agli inizi. Abbiamo cominciato come la più merdosa e primitiva delle punk band, suonavamo i riff psichedelici fatti in casa. Non eravamo bravi a suonare. Parte di noi oggi, è ancora quella punk band primitiva e drogata, ma c’è anche un’altra parte ora, sofisticata e artistica. All’inizio ci ispiravamo alle altre punk band di Oklahoma City. Certo, ci piacevano i Beatles e i Pink Floyd, ma non pensavamo di poter fare musica di quel genere. Non ci è mai passato per la testa. Vedendo tutte queste band in città pensavamo che si, potevamo farlo anche noi qualche pezzo punk pieno di feedback, per al massimo sei mesi o un anno. Quindi la miccia l’accese il punk, quell’idea che “si poteva fare”. L’ispirazione musicale sicuramente deve molto ai Pink Floyd di Syd Barrett, perché la sentivo come più incasinata, introversa. Adesso, possiamo suonare come vogliamo. Non abbiamo limiti. Avete sentito che Richard Branson sta per lanciare la crociera nello spazio? Saresti interessato a un biglietto, che costerà circa 130.000 sterline? Gli ho fatto già una proposta e sono in contatto con alcune persone che se ne stanno occupando. Noi Flaming Lips vogliamo essere la prima band che suona nello spazio. So che anche Lady Gaga vuole essere la prima, ma noi pensiamo che dovremmo essere noi il primo gruppo che suona nello spazio. Penso che anche i Muse vogliano.. Si, lo so (ride)..lo so. Qualcuno sarà il primo e noi pensiamo che spetti a noi. Non penso che la nostra musica sia meglio di quella di Lady Gaga o dei Muse, ma credo che sia più nello spirito dell’esplorazione. Gaga ha delle affermazioni umanistiche da fare riguardanti

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la vita qui sulla terra. Per i Muse, beh, non so cosa cantino ma il tutto sembra essere su di un unico livello di boombast. Penso che i Flaming Lips abbiano dimostrato, nel tempo, non di essere superiori, ma di essere più interessati ai misteri del mondo, ai perché e ai come. Credo che anche Branson abbia questa caratteristica in sé, ma non ne sono sicuro. Forse gli facciamo schifo! Lui però sembra abbastanza determinato nel portare a termine il progetto e lo farà. Quindi te la senti di rivelare ufficialmente che suonerete nello spazio, anche a breve? Nei prossimi quattro o cinque anni, è probabile. Alcune persone andranno lassù, ma non so se sarà qualcosa che si farà improvvisamente da qui a cinquant’anni, oppure se succederà solo in un determinato momento e a nessuno fregherà. Nel 1969 arrivammo sulla luna. Io pensavo che sarebbe cambiato tutto! Oggi invece nessuno va più sulla luna. Per me sarebbe molto figo farlo, non so come però. Non so cosa ci sia oltre, penso solo che dovremmo farlo. Marcherebbe comunque un passo per l’umanità..(ridendo) La musica potrebbe raggiungere altri pianeti..nello spazio il suono si propaga all’infinito, giusto? Oh, quello non lo so. Non la penso in quella maniera. Credo solo che sia qualcosa che dovremmo provare a fare.

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Mother Africa calls her sons Di diaspore, terzomondismi noise e sonoritĂ afro 28


Un breve volo d’angelo sulle suggestioni “afro” dell’underground italiano e non. Alla ricerca di risposte nella terra d’origine del tutto Testo: Stefano Pifferi

Africa. Da lì nasce tutto e, come prevedibile, lì prima o poi tutto ritorna. Potremmo tirare in ballo questioni antropologiche - vedi alla voce “progenitore dell’homo sapiens” - per non parlare di tematiche spirituali o socio-culturali (non dicono nulla termini come rastafarianesimo o negus?), ma su queste pagine ci si occupa di musica e a quella ci limiteremo. Il continente nero, quell’ancestrale madre cui ogni musica tende volente o nolente, ha da sempre rappresentato, trasversalmente quanto in certi casi azzardatamene, un milieu / luogo della mente verso cui confluire, partendo da presupposti altri se non addirittura alieni. Sì, ok, facile fluttuare verso Sun Ra o lo spiritual jazz tutto, ma qui parliamo d’altro in termini di accessibilità “rock”: pensiamo all’ex Blur Damon Albarn e al suo trip tra Mali (passato) e Congo (futuro prossimo), oppure alle ricerche che gli olandesi Ex hanno da sempre compiuto nel rivitalizzare scene ormai dimenticate - uno su tutti Getatchew Mekuria e l’ethio-jazz sepolto sotto dittatura e povertà -, o ancora alla stessa collana Ethiopiques che ci ha fatto (ri) scoprire l’etiope Mulatu Astatke. Per prenderla da tutt’altro verso, potremmo citare il William Bennett aka Whitehouse “intrippato” col percussivismo made in Africa del suo progetto harsh-afro-noise Cut Hands (giunto mesi addietro al primo volume ma prossimo a espandersi in altre forme) o le svisate ancestrali di esperimenti/progetti della scena off newyorchese come il Boadrum made in Boredoms o i Foot Village e tutti i freaks della “new tribal america”. Andando a ritroso nel tempo, l’attrazione che certo post-punk - dai Liquid Liquid ai 23 Skidoo, fino all’antologia Mutant Disco - ebbe per le poliritmie africane (ripreso in forme nuove dall’effimero movimento p-funk), le ossessioni terzomondiste di Brian Eno (in solo, col Byrne di My Life In A Bush Of Ghosts o coi Talking Heads di I Zimbra) o quartomondiste di Jon Hassell, o ancora più indietro, il senso di latente e incompiuto nostos insito in molta musica nera americana - dal citato freejazz sub specie Black Panthers indietro fino al blues dei primordi - confermano questo legame innato e intatto, di fuga e ritorno, di abbraccio e rilascio, verrebbe da dire. Una suggestione inspiegabile a parole ma fermamente radicata nelle musiche occidentali e addirittura

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amplificata dall’indie 2.0 - pensiamo all’accoglienza positiva riservata al Congotronics (Konono N.1 e Kasai Allstars, su tutti) o al lavoro di Brian Shimkovitz a.k.a. Awesome Tapes From Africa - oltre che dal successo sempre più borderless di band originali: pensiamo, per fare un esempio, a quelle del giro del “tuareg blues” come Tinariwen et similia, figli legittimi di una fascinazione antica quanto la musica stessa. Trasversalmente, una serie di band odierne tra le più eterogenee per intenti e finalità, provenienza e background, ha avvertito la pulsione del ritorno alla casa madre, innervando le proprie musiche di tribalismi, suoni cangianti, atmosfere esotiche e affascinante alterità. Parliamo a vario titolo di Vampire Weekend, Extra Golden, Bird Show, Antibalas, per certi versi anche dei losangelini Mi Ami (i primi in particolare, quando l’eredità Black Eyes era ancora viva), di (ex) mostri sacri del post-rock come Doug Sharin e il progetto HiM. Ci fermiamo qui, che di nomi sennò ne faremmo a scatafascio, ma proviamo ad allungare lo sguardo su questa febbre africana che agguanta sotto forme diverse, tante quante sono le “afriche” conosciute: da quella meticcia e arabo-orientaleggiante del nord, a quella spiritualmente ancestrale delle desertiche lande di mezzo e infine a quella nera e materica delle foreste e dei riti primordiali che ne costituiscono il cuore pulsante e rabbioso.

Zun Zun Egui. Bristol, Mauritius. Mondo Tra gli “stranieri” - se di stranieri si può parlare per progetti che fanno del melting pot il proprio credo - i primi vengono da Bristol, cittadina ben nota alle recenti cronache musicali per questioni di fusioni e amalgama. In fatto di amalgama, i quattro Zun Zun Egui non stanno dietro a nessuno. Musicale, ovvio, ma anche di sangue, soprattutto per via di quello che scorre nelle vene di Kushal Gaya e Yoshino Shigihara: creolo il primo, cantante e chitarrista cresciuto a Reunion e trapiantato col suo mash-up cultural-linguistico in UK; nippo e artista la seconda, alle prese con tastiere e backing vocals e con lo stesso percorso di vita che li ha portati a conoscersi nelle serate artistiche del Cube Microplex di Bristol, luogo di ritrovo no-profit per artistoidi, creativi e musicisti free-minded. Raccattata la - questa volta inglesissima - sezione ritmica formata da Luke Mosse (basso) e Matthew Jones (batteria), l’allegro quartetto comincia a farsi notare nel sottobosco bristoliano a furia di mash-up culturale tra stilemi rock occidentali e influenze “altre” portate in dono dal retroterra dei due fondatori. Un cd-r autoprodotto e un 12”, uniti ad una intensa attività live (l’ultimo tour con i Dirty Three li ha portati anche dalle nostre parti qualche mese addietro) ne hanno fatto da

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subito un piccolo culto non solo cittadino, pronto ad attirare attenzioni di label di prim’ordine. È Bella Union, infatti, ad approfittare mettendo il proprio marchio su Katang, l’esordio lungo del gruppo uscito nel 2011. Poi il Geoff Barrow di portisheadiana fama che, sull’onda del tour coi Fuck Buttons, li invita a partecipare alla Invada Invasion - sorta di mini-festival domestic organizzato nella cittadina venue di Colston Hall - suona come la definitiva consacrazione in un circuito di culto. L’album Katang, insieme al 12” Fandango Fresh sempre pubblicato dalla label di Barrow, mostra l’eclettismo a forti tinte world del quartetto messo più a fuoco rispetto alle pur buone prove precedenti. Se quelle erano universi in totale esplosione, ora a dominare sembra essere più un metodo compositivo classico (“We started to develop an interest in shorter composition”, spiegava Kushal tempo addietro). La caratteristica più evidente del suono degli Zun Zun Egui è il multilinguismo anglo-franco-nippo-creolo discendente dal vissuto di Kushal, meticcio culturale vivente sospeso tra la musicalità dei riti della tradizione creola e l’imposizione repressiva del colonialismo francese dei ‘60. Da quella musica, cioè, che lo stesso cantante definisce “blues

Zun Zun Egui

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played with African rhythms and Indian melodies” e che è ben visibile nei loro live (buttate un occhio alle session al The Hospital Club, la prima e la seconda, per farvi una idea). Dal lato strettamente musicale, la fusione alla Talking Heads di mezzo tra prog, indie, afro-beat ed enfasi colorata di sgargianti reminiscenze world, senza mai scadere nei clichè triti e ritriti della “world music” anni ‘80, ci dice di una band piena di energia, in grado di rivitalizzare il termine “crossover” e di mostrarci, ancora una volta se possibile, quanto la “giungla urbana post-globalizzazione” abbia i suoi lati più che positivi.

Weird people from down under: Orchestra Of Spheres I nomi innanzitutto: Mos Locos, Baba Rossa, Jemi Hemi Mandala, Zye Soceles e l’immancabile E = MC303. La strumentazione, poi: theremin, gamelan, biscuit tin guitar, electric bass carillion, sexmouse marimba (?!) e via dicendo. Infine, la (auto)definizione: “ancient future funk” alla ricerca della “spontaneous symmetry in sound”. Spiazzanti, vero? Aggiungeteci una provenienza che dire esotica è poco - la Nuova Zelanda, ma non quella del kiwi-pop made in Flying Nun bensì quella più stramba e off figlia dei Dead C -, un gusto per l’iconografia più weird-clownesca possibile (coloratissime e accecanti le mise utilizzate dai nostri), una libertà creativa invidiabile, incosciente e bambinesca ed ecco che avrete il giusto mix per sorprendere. L’Orchestra Of Spheres è esattamente ciò che può venire in mente incrociando le coordinate di cui sopra. Un conglomerato di suggestioni tra le più diverse, un reticolato di suoni e input collegabili al milieu da cui provengono, quella Frederick Street Sound and Light Exploration Society che è una specie di comune, un luogo di ritrovo e condivisione di spostati fuori di testa totalmente in fissa con l’home-made. Home-made inteso come strumentazione autocostruita, spesso con scarti post-industriali, o l’improbabile mise indossata dagli adepti: vestiti anch’essi manufatti, dai colori sgargianti e dal taglio improponibile che rimandano ad un’altra esperienza simile e colorata, il Fort Thunder di Providence, di cui i neo-zelandesi offrono una versione solare e non-noise seppur battuta dalla stessa attitudine clownesca e free. Anche qui, e siamo al secondo indizio, è un nome grosso ad attirare le luci della ribalta underground sul collettivo: Caribou, uno che a colori e (pan)africanismo non è secondo a nessuno, se li è tirati dietro all’ATP dello scorso anno dopo averli visti dal vivo, colpito dalla trascinante verve dell’Orchestra. L’Africa è centrale per cantato e percussivismo, com’è ovvio che sia in ambiti etno, ma negli arrangiamenti e nelle sonorità siamo più dalle parti

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Orchestra Of Spheres

della weirdness degli anni zero. Theremin, biscuit tin guitar, electric bass carillion, sexmouse marimba, insieme alla strumentazione classica e alle intersezioni corali che impreziosiscono l’album lungo Nonagonic Now, ci portano in dono un pastone di groove alieni e poliritmie africane, ritmi da voodoo marcito e funk bianco deformato, elettronica d’accatto e gamelan indonesiani, in un tripudio che reitera la voglia d’Africa virandola però sotto forme personali. E fuori di testa. Goat. La World Music dove non tramonta il sole Mischiano psichedelia anni ‘70, afro-beat, ritmi danzerecci (in senso buono), rock acido, kraut eterodosso e chissà cos’altro e, chiamando l’album di debutto World Music, servono la pietanza su un piatto d’argento al povero scribacchino. Afro-kraut? Psichedelia terzomondista? Voodoo rock? A giocare con le definizioni rischieremmo di fare notte, ma il bello della formazione svedese (sì, svedese della Svezia, se non proprio l’esatto opposto dell’Africa, poco ci manca) è che fa di tutto per farsi appiccicare etichette del genere. E l’ancor più bello è che calzano tutte a pennello. Dietro il nome da satanismo black metal d’antan e la coltre di esoterico anonimato che i tot membri del gruppo (andate voi a chiedere

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quanti sono) si sono appiccicati addosso, si nasconde qualcosa di ancora più grande e oscuro. Tutta la storia - ormai di dominio pubblico, vista l’esaltazione collettiva della critica musicale, anche nostrana, per World Music - ruota intorno a Korpilombolo (o come si chiama). Villaggio d’origine dei “core member” della band, il suddetto si trova sperduto una trentina di km sopra il Circolo Polare Artico, lontano dal mondo e posseduto da una strana maledizione risalente ai tempi mitici del passato ancestrale della zona. Tempi in cui voodoo e vichinghi, stregoni e antiche iscrizioni, crociati e maledizioni erano, pare, la normalità. Non è facile crederci, ma se i risultati sono quelli del full length d’esordio, accettiamo volentieri il processo di straniamento che ci viene richiesto, peraltro comune a molti dei nomi qui trattati.

C’è un cuore (nero) che batte in Italì. Non che dalle nostre parti si sia stati più avari. Anzi, sembra proprio che il mal d’Africa, negli ultimi tempi, abbia colpito l’underground nazionale rifrangendosi sotto un caleidoscopico spettro di applicazioni sonore. Abbiamo detto in passato dell’esotismo del collettivo La Piramide Di Sangue, guidato dall’estroso e folle clarinetto di Gianni Giublena Rosacroce (a.k.a. Stefano Isaia dei Movie Star Junkies) che chiamava così la sua prima tape release per Yerevan Tapes. Se nel collettivo la passione per l’etno jazz si palesava sotto forme irruente, massimaliste, ipnoticamente mediorientali tra volute d’incensi e narghilè, nella sua rentrée in solo - sempre in cassetta e, guarda caso, intitolata proprio La Mia Africa (No=Fi Recordings) - si resta più sintonizzati sul versante africano del nord. Siamo sempre dalle parti di una fascinazione “alterata”, in cui l’Africa - desertica, in questo caso - è percepita più come un sogno, in uno stato di alterazione della percezione che si fa guidare verso il mito africano pur schivando alla grande tutti i cliché etno-world-terzomondisti. “La mia personale fascinazione per il continente nero arriva non da un’esperienza diretta ma da letture, racconti ed incontri”, ci racconta infatti GGR, a dimostrazione di come il mondo “globalizzato” crei anche ponti tra mondi distanti, tra la Torino multietnica d’oggi, dove vivono le ragazze tuareg che cantano un paio di poesie di Isaia nel disco in fulfulde (il linguaggio fula), e quel continente che, come recita il pezzo conclusivo Africa Mia, Mai T’ho Veduta, esiste dentro ognuno di noi. Di un’altra Africa, stavolta nera e minacciosa, ci parlano altri progetti. I Mombu, ad esempio. L’accoppiata Luca T. Mai (Zu) / Antonio Zitarelli (Neo), prossima al comeback Niger, sin dal nome reitera gli stilemi “jazz-core” cari alle rispettive case madri, ma li trascina verso il cuo-

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re poliritmico dell’Africa Nera grazie al drumming feroce e vario di Antonio Zitarelli. L’album Zombi, recentemente ri-registrato e ripubblicato in vinile, è l’evoluzione 2.0 dell’omonimo esordio, impreziosito da ospiti di un certo livello e di una varietà tale - Mike Watt al basso in Regla De Ocho, Giulio Cripple Bastards alla voce e Mbar Dyaye alle percussioni nell’esclusiva Zombi - che i confini di genere, sia esso jazz libero, -core, grind, doom, ecc. si liquefanno all’istante. Il tutto mostrando la sincera passione che il duo ripone nelle elaborate strutture ritmiche made in Africa, filtrate attraverso ricerca personale e copioso sudore, curiosità per una musica ancestrale e quintalate di energia post-moderna. Di recente il duo ha pubblicato sotto il nome Spaccamombu l’insana unione col chitarrista torinese Paolo Spaccamonti. Un idea musicale che, in nome dell’amore per certo metal primigenio - vedi alla voce Sabbath, su tutti, ma anche certe svisate post-apocalisse recenti alla Sunn O))) - e grazie al supporto del progetto In The Kennel - qualcosa di molto simile al famoso In The Fishtank olandese ma ben radicato nella rumorosa provincia piemontese -, ha elaborato un percorso tra doom, aggressività metal, esotismo voodoo e poliritmi africani in un album breve ma ben architettato che mostra come la via all’Africa passi anche per le sonorità più dure e incompromissorie.In questo non esaustivo giro d’Africa a tinte varie, è impossibile non citare nomi

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come Al Doum & The Faryds, composita formazione del Nord Italia di recente rientrata in pista col comeback Positive Force, e Ninos Du Brasil, ennesima botta a metà tra performance artistica e delirio musicale messa su da quel consolidato sperimentatore che è Nico Vascellari. I primi si muovo sul versante meno ortodosso del kraut dei bei tempi, quello che ha ormai eletto gli “orientalisti” Agitation Free a vera stella polare. Sono in sei, sono reduci da un tour europeo da fare invidia e per il quale meritano il massimo rispetto, suonano una psichedelia freakettona, spirituale e groovey che di più non si potrebbe, tra profluvi di fiati, crescendo psicotropi, occhiolini orientaleggianti e trip cosmici. Nord Africa e Medio Oriente sono i luoghi in cui si adagiano i sei, tra spirituali richiami e desertici abbandoni che rimandano tanto agli Om in versione massimalista quanto alla contigua Piramide Di Sangue, giusto per dare coordinate di riferimento conosciute. Julian Cope ha dato il suo benestare e questo è già sinonimo di qualità. A supporto, la musica sparsa tra l’esordio omonimo e il comeback Positive Force, in cui confluisce in maniera più matura e bilanciata tutto il mondo sopra descritto: certa psichedelia sfattona e kraut, le

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Ninos Du Brasil


litanie drogate e oppiacee del vicino Oriente, le ristampe di etichette come Analog Africa o Soundway e il contributo multiforme che molti blog - uno su tutti, quello del citato Awesome Tapes From Africa o anche Analog Africa, metà blog, metà label - hanno apportato allo sviluppo di una marcata sensibilità “altra”. Anche qui, tutto è filtrato attraverso la lente “bianca”, dato che le distanze - culturali, ideologiche, storiche ma soprattutto “genetiche” - ci sono e sarebbe intellettualmente scorretto non ammetterle: “Secondo me - è Domenico Davidini a parlare a nome dei Faryds - l’importante è non fare musica africana (che poi è un po’ vago come termine) perché penso che nessuno sarebbe in grado di avere quel feeling...come quando ascolti musica afrobeat suonata anche bene ma spesso suonata da bianchi, è bella ma è piatta... poi metti su Fela e dici ahhhh ok questo è afrobeat!”. Un paradosso, in apparenza, ma che ritroviamo come sottofondo portante in tutti i gruppi qui trattati. Quella africana è una suggestione, non un codice da imitare; un (ri)flusso ancestrale che riemerge introiettato e ri-prodotto. Richiamo e rilascio. Ninos Du Brasil è invece un trio che trascina la samba brasiliana nel cuore pulsante dell’Africa nera - sempre quella delle danze tribali, dell’estasi collettiva e della trance mistica - mischiando devoluzione e rumorismo, acide traiettorie e coriandoli colorati. Chiedete a chi ha avuto la (s)fortuna di organizzare un loro live come si sente la mattina dopo, trovandosi lo spazio invaso da coriandoli, festoni e palloncini colorati. Di sicuro vi risponderà nella stessa maniera in cui lo farebbe l’audience: ossia travolto da una insolita passione, irrefrenabile e senza sosta in cui tamburi, tamburi e tamburi - come fosse un sabba iridescente ambientato nella foresta amazzonica - incitano alla danza scomposta e inarrestabile. Un 12” single sided, un 7” per la belga Kraak e un album, Muito N.D.B. per Tannen, hanno in poco tempo fatto riecheggiare la furia iconoclasta, giocosa e muscolare del trio Nico Vascellari (With Love, Lago Morto e altri), Nicolò Fortuni (Smart Cops, Man On Wire), Riccardo Mazza (Lettera 22, A Flower Kollapsed, Orfanado). A prima vista poco accomunabile con la suggestione africana di questo articolo, a scavare a fondo su trance agonica, selvaggio tribalismo e devianze sambanoise, si converrà che la musica del terzetto non è poi distante dalle parole usate da Isaia qui sopra e degli In Zaire qui di seguito (la rielaborazione personale di una fascinazione autocreata su mondi e dimensioni lontane), così come la patria della samba - la Salvador De Bahia dove venivano sbarcati gli schiavi africani nel XVI secolo - non lo è dalla sua terra d’origine, quell’Africa nera angolana che riecheggia minacciosa e trancey nelle musiche del trio.

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C’è poi una lucidità di intenti che va oltre il tour de force eminentemente musicale e che è riscontrabile anche nelle prove artistiche di Nico Vascellari; che risiede cioè nel senso ultimo del progetto Ninos Du Brasil: qualcosa di difficilmente catalogabile, sfuggente al prestabilito, “post-moderno” nel senso più ampio del termine e con un potenziale enorme pronto ad esplodere in un (corto)circuito musicale che troppo spesso si appaga nel proprio status quo “settario”. I Ninos vengono da un nemmeno troppo immaginario Brasile africano per rompere schemi e recinti. E lo fanno a suon di mazzate samba-noise. Scendendo verso il cuore dell’Africa nera localizzato sulla costa adriatica italiana, incontriamo Baxamaxam, un duo che propone una interessantissima formula di etno-blues minimale meets percussivismo tradizionale. Di nuovo scontri: di civiltà, in apparenza, svolti su un terreno comune qual è quello del blues; di nuovo incontri: quello tra Cristiano Buffa chitarrista di Faenza e Abdou Mbaye, percussionista cantante senegalese. Migrazioni che portano nuova linfa e spargono i semi di una “africanità” mutevole: di nuovo figlia di travasi, immaginazione, spaesamenti e suggestioni (un po’ meno, stavolta) lontane. “Ho messo un fogliettino d’annuncio in un internet point di telefonia qui a Faenza [...] mi ha risposto Abdou, gli ho fatto sentire delle cose che avevo registrato per i fatti miei, lui ha risposto semplicemente ok. Poi ci siamo trovati a provare assieme ed è stata un’unione alchemica”. Le percussioni tradizionali di Abdoue, djembè e ikembè, e il suo cantare lisergico/liturgico (“mi accorgevo che cantava istintivamente quello che gli veniva, idee sue e pezzi tradizionali, popolari...”) si fondono in un tutt’uno col blues di Buffa, tanto che l’ascolto di Baxamaxam (in uscita per Black Sweat in questi giorni) svela molto di più sulle origini del blues: “Non credo Abdou conosca il concetto di blues, semplicemente, per certi versi, lo è [...] insomma, la testimonianza concreta che quello che noi chiamiamo blues viene davvero da lì, nella sostanza, al di là delle classificazioni [...] pezzi semplici ma molto viscerali, proprio perché dalle viscere arrivano, molto istintuali”. Infine, last but not least, una congrega che ruba il nome al continente nero per applicare le influenze e le suggestioni made in Africa ad un mistone di kraut assassino, post-dub, killer sound chitarristico e tanta, tanta energia primordiale. Dietro la sigla In Zaire si nasconde uno dei migliori chitarristi italiani (Stefano Pilia), uno scultore di suoni dal cuore noise e dal cervello avant (Claudio Rocchetti) e due invasati capaci di costituire una sezione ritmica devastante e muscolare (gli ex G.I. Joe Riccardo Biondetti e Alessandro De Zan). Quattro membri che si sono stratificati via via partendo da un nucleo formato pro-

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prio dagli ultimi due, la cui trasformazione da G.I. Joe a In Zaire con l’ingresso di Rocchetti, mostrava il lato ancor più tribale e selvaggio del suono in sfasciume lo-fi della band madre, per poi inglobare la chitarra del Massimo Volume Stefano Pilia. Allargando gli orizzonti e le possibilità però (“Ci abbiamo messo un po’ a trovare una direzione peculiare - racconta Claudio Rocchetti - ma direi che gli elementi erano già tutti presenti fin dall’inizio. Ora sono più chiari, più definiti. E abbiamo dischiuso maggiori possibilità per il futuro... la parte percussiva e l’improvvisazione penso che rimarranno delle costanti, ma per il resto vedremo!”), la carica da Africa nera non si è persa, anzi, ha trovato sempre nuove vie - dub, afro-beat, kraut meno canonico - per svelare la sua dirompente forza ancestrale. Il nome In Zaire - tratto dall’omonimo pezzo italo-disco di Round One - è saltato fuori per caso, ma il concept del gruppo, ci ricorda ancora Rocchetti, “era abbastanza chiaro: energia nera, impatto rock, immaginario psichedelico, il tutto con lunghe parti improvvisate”. Dopotutto, “volevamo un gruppo che richiamasse qualcosa di africano e misterioso”, suggerisce Riccardo Biondetti, batterista furioso e titolare della berlinese Sound Of Cobra, consolidando in noi l’idea di gente bianca, in fissa totale col rock più slabbrato in circolazione, che ad un certo punto sente il bisogno di riprendersi le radici di un suono che prima di diventare merce per white trash era il canto dell’origine perduta, del distacco, dell’esilio forzato. E lo fa a modo suo, ancorandosi a un luogo - l’attuale Repubblica Democratica del Congo - che è il vero cuore pulsante del continente nero e insieme la dimostrazione di questo sfasamento, di questa slabbratura: “un posto che adesso ha un altro nome e che incarnava perfettamente la nostra falsa radice nera” continua Riccardo suggerendoci nuove traiettorie di spaesamento cui fa eco l’altro “berlinese” Claudio Rocchetti: “Alla fine, è un’Africa all’acqua di rose. È una cosa che è già filtrata, dal funk per esempio. Un’altra cosa è l’hype che è arrivato di conseguenza ... ora son tutti negri. A me interessa l’energia e la foga performativa e ovviamente lì se ne trova a bizzeffe”. Falso quanto si vuole, quello della prima nazione subsahariana a partecipare ad un mondiale di calcio - Germania ‘74, nello specifico, con la magra figura dello 0-9 con la Yugoslavia - è dunque un ricordo non vissuto, una reminiscenza ancestrale. Una parentela atavica che i quattro rielaborano in un album, White Sun Black Sun, che possiede le radici nere del funk, del dub e, in nuce, del jazz spirituale, l’impatto psicotico ed ipnotico del tribalismo, dei riti voodoo, dello sciamanesimo e la deragliante spiritualità dei canti propiziatori, sfasando il tutto con la carica violenta, destrutturante e devastante del rock “bianco”. Sole bianco, sole nero, dopotutto.

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Recensioni Genere: border bass-house Ralf Schmidt, in arte Aera, è fondatore di Aleph Music, label con cinque discrete uscite all’attivo che il suddetto per ora sfrutta unicamente per le proprie produzioni. La base è Berlino, città da sempre caleidoscopio di diversi modi di fare la musica con i laptop e madre di diverse influenze dettate da modi di vivere differenti. Non sorprende trovare Aera alle prese con un viaggio borderline tra U.K. Bass, house e berlinismo, lontano anni luce da quello che nell’immaginario odierno potrebbe rappresentare la città tedesca pensando anche solo a Hatwin o alla minimal che di Berlino è orgogliosa figlia. Il viaggiatore fuori stagione di Aera (Offseason Traveller) è un prodotto di sintesi e a sua volta diario del viaggio di Ralf Schmidt nelle lande desolate di Perù e Bolivia (sole, spazi aperti) e nel freddo inverno berlinese (ghiaccio, zero termico e spazi chiusi). È salgariano questo primo lavoro, tra le imperfezioni e le minime incertezze di chi è all’opera prima. Due lati e due visioni all’interno del concept, che in alcuni momenti riportano davvero a spazi e luoghi mai visitati ma immaginabili grazie al dilatarsi e alle provocazioni indotte del suono. Una parte bass dove Aera sembra trovarsi più a suo agio e con lontani richiami al Sud America, dal tribalismo dub di Cambio, ai fischietti latin/andini di Chevere, alle percussioni da latta Tambours Du Bronx e all’industrialità di Tunguska; una seconda parte border line a quell’house di stampo lati-

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no americano tra Rebolledo, Pachanga Boys (Rebolledo&Superpitcher) e Daniel Maloso. Fluire non inquadrato nelle prigioni Kompakt ma a volte un po’ monotono e inflazionato, soprattutto in tracce come Iguazo Express o Leaving the Fiction, dove il gioco di fughe con il crazy synth è però davvero notevole (quante volte Michael Mayer suonerà questo disco da qui a settembre ?). Una nota a parte va spesa per Flipside Of Time, in cui va registrato l’interesse per il lato più spacey delle tastiere analogiche cavalcando un micro trend attualissimo e ricollegandosi a una piccola rinascita di EBM che non si sentiva dai tempi dell’electroclash ma anche dell’EDM. Materiale synth oriented che rimanda ai Kraftwerk e anche a una psych tanto cara alla nu disco scandinava fino a Crimea X e Asphodells. Un buon album che viene costruito altrove ma rielaborato a Berlino, insaporito di nostalgie krautrock (passione dichiarata di Schmidt). Nulla di particolarmente rilevante ma nemmeno da buttare, Offseason Traveller gode anzi di una certa freschezza tanto da invitare a tenere d’occhio i prossimi lavori targati Aera. (6.4/10) Mirko Carera

Akron / Family - Sub Verses (Dead Oceans, Aprile 2013) Genere: folk-pop Il suono è sfavillante, luccicante, la produzione grandiosa, le canzoni suonano splendenti, più si alza e più danno soddisfazione, e i vicini non si

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Aera - Offseason Traveller (Aleph music, Aprile 2013)


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della carriera, fa venire in mente quando erano una buona parte di Angels Of Light con Gira con il quale hanno ripreso il discorso collaborando a The Seer. Ciò che prima era giocoso ora è metodo. Di Akron/Family amavamo il potenziale improvvisativo, vale a dire la capacità di far presagire dietro a ogni canzone uno svolazzo di pura intuizione reciproca, di capirsi e saper prendere la tangente. Questo approccio in Sub Verse è residuale (Whole World Is Watching), e quando si presenta all’appello torna a scaldarci, così come quando fuori dallo sfavillio riemerge il folk dei primi passi (nomen omen nel titolo di When I Was Young). Quel calore è autentico, ma non fa che raffreddare ulteriormente ciò da cui è attorniato. (7/10) Gaspare Caliri

Bastille - Bad Blood (Virgin, Marzo 2013) Genere: pop Bastille, un nome che sentiremo spesso nei prossimi mesi. Tutto nasce dalla mente del londinese Dan Smith, il quale, dopo aver lanciato il progetto in solitaria, ha deciso di ampliare le soluzioni strumentali chiamando alle armi tre musicisti e dando così vita ai Bastille formato band. Messi sotto contratto dalla Virgin/EMI sul finire del 2011, dopo pochi mesi di attività (all’epoca avevano pubblicato solamente il Laura Palmer EP), Smith e compagni sono uno di quei brand sui quali è facile scommettere: la scia fake-indie -> nu mainstream già partita in USA da qualche tempo (Imagine Dragons ad esempio) si fa largo anche in una Inghilterra sempre meno permeabile agli stereotipi brit-indie 2005 e sempre più pronta ad accogliere frullati art-pop come quelli di Alt-J o Everything Everything. È come se si fosse preparata la tavola per il grande lancio: videogame e telefilm OST, clip d’impatto 2.0, live in apertura di bestseller come

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lamenteranno, nonostante il volume e la quota di rumore, probabilmente più consistente che in qualsiasi altro disco del combo. Sub Verses si prende una spazialità più grande rispetto ai dischi precedenti, già dalle prime mosse (No-Room). Ma già ascoltando Way Up ci si rende conto che non era mai successo che gli Akron/Family somigliassero così tanto a Animal Collective, quelli altrettanti lucidati e meno radicali di Merriwheater.... E va detto che più si assomigliano, questi due gruppi, meno ci convincono. Si fanno suono consolidato, naturale conseguenza dell’essere stati coloro che meglio hanno consolidato o rappresentato la possibilità di un’idea di band odierna e credibile negli ultimi quindici anni. C’è caso che tutti i discorsi sul rock collettivo non siano altro che questo, trovare un’altra via possibile alla band, in un momento non tanto di individualismo ma in cui la cultura del progetto musicale è più consistente di quella che segue tradizionali percorsi di band stabili. I due gruppi - soprattutto Animal Collective per gli intrecci con momenti solisti dei protagonisti, ma anche Akron/Family per la vexata questio sull’uscita dal gruppo di Ryan Vanderhoof, che se ne va per seguire fronti che erano parimenti legati allo stesso mondo post-hippie - generavano un’etica del comune, della comune, della comunità, e oggi danno il segno di quanto forse siamo già oltre l’aderenza al reale di questa modalità di interpretare l’opzione etica comunitaria. Senza andare all’essenza della condivisione, senza farla toccare con mano (auricolare), Akron/ Family possono oggi allestire un discorso attorno all’essere parte di un collettivo. Amplificano l’effetto, creano stupore - esattamente come faceva Merriwheater Post Pavilion - lo fanno con qualità altissima, di fioretto, ma con meno anima (Sand Time). Se c’è innovazione qui non è nella composizione, ma nell’arrangiamento: in Sometimes I ci sono i violini, e Holy Boredom è forse la più rumorosa


Genere: doom Nella letteratura esoterica l’Agarttha è un nucleo spirituale nascosto, inaccessibile, che alcuni collocano al centro della terra e che sarebbe influente sui centri religiosi della terra e sulla storia delle idee. Il Re del Mondo, di cui parlava Renè Guenon, sarebbe appunto il deus ex machina di Agarttha, ovvero il sovrano nascosto della realtà. Al di là del dibattito filosofico e della prassi comune a quasi tutto l’esoterismo di spiegare ciò che è evidente rivelando i fili nascosti che tengono insieme tutto, è significativo che la tendenza sia quasi sempre quella di scendere verso il basso, e da qui la voga dell’occultismo; la ricerca della verità non attraverso un ascesi, come facevano i mistici, ma scendendo verso un nucleo più segreto e nascosto. Crisne accarezzava tutto questo, con nonchalance, il tocco era leggero, vagamente premonitore. Agarttha, invece, scende in profondità per toccare quel nucleo nascosto e mostrarne tutta la malevola seduzione. Musicalmente siamo in un territorio dalla forma instabile e molto diverso dal piglio retro-futuristico di Albedo. Lambsprinck gioca subito la carta della rivelazione arcana, attingendo alla robusta radice degli Architeuthis Rex, di cui si intuisce l’influsso sui ritmi lentissimi ma insistenti, che per tutto il disco non danno tanto la battuta, ma servono semmai a scandire il pigro mostrarsi dell’armonia. Visions Of Alina e Melusine sono quindi due madrigali dalla matrice metal che scartano la tendenza al gotico sacerdotale di Nico, per virare verso una messa in scena più maligna, di un tipo vicino, semmai, alla Jarboe incantatrice di serpenti degli Skin. Il mastering di James Plotkin lucida un sound istintivamente abrasivo, ma non brutale. Così The Sphynx eredita una visione del mondo che è liricamente doom, dove si avverte tanto il Justin K. Broderick di Godflesh e Jesu, quanto certo catalogo Utech, senza che per questo si ceda un grammo all’aggressività. Agarttha ipnotizza, non scuote. Storm As He Walks del resto fa propria la malia stregonesca che stava alla radice del brano più bello di Crisne, Lunar Barge / Moon Chariot e la trasforma in una babilonia pagana e tribale, prima di concedersi all’atto finale di Chymische Hochzeit, dove batteria e chitarre, Antonio Gallucci e Reto Mäder, concorrono ad allestire l’apice apocalittico del disco. Il canto di Francesca si sdoppia, e triplica e pare arrivare da lontanissimo, oltre il resto della comunità salmodiante. Priva di inflessioni, aliena in terra aliena. Vicina al centro occulto delle cose. (7.5/10) Antonello Comunale

Emeli Sande e una scelta a livello d’artwork che sembra ideata apposta per fidelizzare il fan. Una rapida escalation che da Bad Blood fino a Pompeii, passando per Flaws, li ha portati dove sono arrivati oggi, ovvero alla seconda posizione nella

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classifica inglese riservata ai singoli. Classifica inglese che nella sezione album ospiterà a giorni il debutto Bad Blood, un lavoro per certi versi cinematico: se purtroppo Dan Smith a livello musicale nasconde completamente il suo

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Agarttha - A Water Which Does Not Wet Hands (King Of the Monsters, Aprile 2013)


Riccardo Zagaglia

Benoit Pioulard - Hymnal (Kranky, Marzo 2013) Genere: Ambient folk Il fedelissimo Kranky, Thomas Meluch alias Benoit Pioulard, arriva alla sua quarta uscita in sette anni con l’etichetta indipendente di Chicago. Le premesse non cambiano granché rispetto ai lavori precedenti, se non per un soggiorno europeo di un anno tra il Sud-Est dell’Inghilterra e l’Europa continentale. Proprio durante la residenza europea, la composizione e le registrazioni di Hymnal

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hanno preso vita. In particolare Pioulard, cresciuto in un background cattolico ma non praticante, riscopre e resta affascinato dalle radici religiose del vecchio continente, tra cattedrali e iconografica cristiana. Un’atmosfera di timida purezza pastorale e un tocco di sacralità contadina avvolgono il tipico rarefatto cantautorato di un musicista ancora in grado di emozionare, prendendo tanto dalla flebile introversia drakeiana quanto da una spensieratezza dream-shoegazey. Field recording di uccellini e campane domenicali, arrangiamenti d’archi dei label-mate Felix - ovvero Lucinda Chua e Chris Summerlin - e la sei corde ambientale di Kyle Bobby Dunn, fanno inoltre da cornice a un lavoro che, viaggiando sulle reminiscenze campestri di Ekstasis di Julia Holter, rievoca malinconie di borgata mitteleuropee e mette ancora una volta in gioco la personalità del ventottenne multi-strumentista del Michigan. Pur nella forse eccessiva assenza di ambizioni, non mancano piacevoli intermezzi ambient e anzi, nel complesso, questo spaccato folktronico risulta equilibrato e riuscito. (6.7/10) Davide Nespoli

Bill Ryder-Jones - A Bad Wind Blows In My Heart (Domino, Aprile 2013) Genere: folk-pop «Mi piace stare con le persone ma mi stanco facilmente. Di certo non riuscirei a buttarmi in un’altra band. Si tratti o no di rinverdire la mitologia del songwriter solitario e incompreso di nickdrakeiana memoria, sembra di poter parlare, nel caso di Bill Ryder-Jones, di una personalità con il bisogno di particolari cautele. Troppi segnali parlano in questo senso: il ritorno nella casa dei genitori una volta conclusa l’esperienza con i Coral, l’affidarsi a una band costituita da amici di infanzia (due provenienti dai By The Sea) per le registra-

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amore per il lato più intelettuale della settima arte (da David Lynch al Terrence Malick pre-To The Wonder), non si può dire lo stesso del suo lato più pomposo, epico e d’effetto. Insomma, le americanate non mancano. Pop music 2k13, arrangiata e prodotta in ottica radio: cori uoo-ohh-ahh ovunque, togetherforever (la titletrack), voce perennemente in primo piano e beat corposi pronti per essere remixati in versione dance. La hit Pompeii - che ingloba cori tribali, melodia iper-pop e la Killersenergy del chorus - ne è l’emblema. Emergono saltuariamente fattori distintivi quali una certa contaminazione world-pop (These Streets, Weight Of Leaving pt 2) e alcuni suffissi di un’elettronica prettamente funzionale (Overjoyed), mentre vocalmente Dan può ricordare - molto - alla lontana un Chris Martin festaiolo. La parentesi intimista Oblivion spezza una monotona ricerca del pezzo bomba che trova i risultati migliori nel chorus di Daniel in The Den. Dodice tracce che si reggono più su effimeri hook usa e getta che su una reale genesi artistica. Non mancano i brani azzeccati, ma è un gioco piuttosto rapsodico e il risultato è un po’ forzato: se funzionerà lo farà perchè lo deve fare e non per chissà quali irresistibili melodie o quali incredibili incentivi al riascolto. (5.1/10)


Fabrizio Zampighi

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Blue Hawaii - Untogether (Arbutus Records, Marzo 2013) Genere: electro-art-pop In corso di 2011, guardando al Canada, l’attenzione dei più veniva catturata da un breakthrough act in particolare: i neo-psichedelici Braids. La blogosfera però - e specialmente quella prossima al sempre compianto Altered Zone - era già allora ben più interessata a chi assieme ai Braids rilasciava lo split Belispeak/Peach Wedding (leggi: Purity Ring), nonché al side-project della leadsinger Raphaelle Standell-Preston con il compagno nella vita Alex Cowan, ovvero questi Blue Hawaii. Ascoltando il debutto Untogether - a maggior ragione mentre si hanno ancora freschi i dischi chiave del 2012 - la reazione logica ed immediata è dire “Grimes”. Le coordinate sono d’altronde le medesime: Montréal, pop left-field, bass-heavy, dal piglio new-age. I due progetti - sbocciati in contemporanea dal fermento cittadino del 2010 - sono però tutto fuorché concorrenti. La proposta dei Blue Hawaii, pur se computer-based, è arty, esile, flemmatica, priva di eccessi eppure palpabile, languida, paragonabile - senza scadere in forzature - a quella dello Smother dei Wild Beasts; è cerebrale e avant alla maniera di Julia Holter. Si muove dunque in un territorio che Claire Boucher, nel passare dalle esagerazioni in vaghezza di Halfaxa al direttissimo electro-pop genre-bending di Visions, ha saltato a piedi pari e, stando alle dichiarazioni che la vogliono presto neo-industrial, non ha la minima intenzione di battere. Più vicini sono piuttosto i già citati Purity Ring: per metodo di lavoro (scrittura in separata sede, “assemblaggio” successivo), per stilizzazione (quella della new-wave gotica 4AD di cui Megan James e Corin Roddick sono primi rappresentanti), perché il gioco è quello al contrasto tra correnti calde (i synth, la voce della Standell-Preston quando immacolata e björkiana) e fredde

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zioni di questo disco, un titolo come A Bad Wind Blows In My Heart. Del resto sensibilità e fragilità da sempre vanno di pari passo, se sei fortunato in parallelo con una certa virtù musicale. Quella che il Nostro ha saputo mettere in mostra un paio di anni fa in un If... orchestrale e ispirato al Calvino di Se una notte d’inverno un viaggiatore, un disco che chi vi parla non ha esitato a posizionare nelle zone alte della top ten 2011. Il secondo lavoro a nome Bill Ryder-Jones cambia registro e sembra quasi riappropriarsi di un’immediatezza lasciata volutamente in disparte nel primo episodio. Quasi a dire che i conti col passato - nello specifico, una tradizione folk-pop di chiara matrice british presente, in qualche modo, anche nei Coral - si fanno una volta raggiunto un equilibrio stabile, magari con un po’ di coraggio in più. Anche perché andare oltre un disco strumentale come If... scrivendo testi (pare ispirati all’infanzia) e cantandoli, significa esporsi, un meccanismo a cui Jones sembra essersi avvicinato per gradi e con prudenza. Il risultato è un suono classico, sia negli arrangiamenti (chitarra acustica, pianoforte, batteria, basso i principali contributi) che nei riferimenti (oltre al Nick Drake già citato, vengono in mente i Mojave 3 per il suono rotondo, caldo e ampio), su un cantato appena accennato. Brani come Hanging Song, There’s A World Between Us o He Took You In His Arms sommano atmosfere malinconiche ma pacificate, suoni tranquillizzanti, arrangiamenti impeccabili e classici, come se tutto fosse riconducibile a una naturalezza inevitabile nella scrittura. Meno impressionante rispetto al predecessore, A Bad Wind Blows In My Heart rimane una piccola gemma di artigianato fortemente contestualizzata ma non per questo meno affascinante. (7/10)


Massimo Rancati

Bon Jovi - What About Now (Island, Aprile 2013) Genere: pop rock Da anni i Bon Jovi pubblicano dischi mediamente ben accolti dai sempre meno numerosi - ma ancora decisamente cospicui - fan e generalmente discreditati da un po’ tutto il resto del mondo. Chi ha torto? Domande retoriche a parte, il carrozzone rock del New Jersey festeggia in questi giorni il dodicesimo sigillo di una carriera che ha avuto il suo apice ormai venticinque anni

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fa, quando l’esasperazione MTV-oriented della scena hard&heavy trovava facili consensi tra il grande pubblico. Si chiama What About Now ed è prodotto da John Shanks, fido alleato della band fin da Have a Nice Day (2005) e responsabile delle svolte “adult” delle boyband Backstreet Boys e Take That. Boyband con le chitarre i Bon Jovi in fondo lo sono sempre stati, no? I Bon Jovi del 2013 strappano sorrisi quanto un Kid Rock - nonostanze le divergenze politiche - o provocano ilarità spicciola quanto i Nickelback, con l’aggravante di portare ruffianamente avanti la baracca da molto più tempo. Registrato subito dopo l’uscita - un must assoluto, eh... - del Sambora solista di Aftermath of the Lowdown, What About Now è l’emblema - persino più della disastrosa triade dei Green Day - della band milionaria che non sa più dove sbattere la testa, consapevole sia di dover compiacere al proprio pubblico, sia di non essere più in grado di trovare nuovi adepti. Non potrebbe essere altrimenti: il motto è sempre quello dell’autocitazionismo, che sia diretto discendente degli Eighties (il terribile coro del singolo Because We Can) o delle derive del piattume anni Zero, poco importa. Soft-rock che quando sfocia nel confidenziale (Amen) rischia di superare i limiti del sopportabile e in questo senso il ripetuto “never give up” di Army Of One - maledetto Desmond Child - suona soprattutto come un incitamento a non arrendersi e resistere fino alla fine del disco. Durante i passaggi da party come That’s What The Water Made Me e Beautiful World è facile immaginare il sornione Jon Bon Jovi ammiccare, annuire con la testa e puntare il dito verso un pubblico sorridente e salterino, ovvero la cosa più lontana dal concetto di musica rock che amiamo. E non mancano neanche le citazioni illustri: I’m With You è un mix tra Boulevard Of Broken Dreams dei Green Day, Poison di Alice Cooper e chissà quante

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(sub-bass, samples, di nuovo la voce ma warpata e stutteringata ad intelaiatura delle melodie). Nel corposo programming sta peraltro la novità rispetto al precedente, interamente chilled-out, Blooming Summer EP (2010): è il frutto dei viaggi europei di Cowan, della assimilazione della lezione post-witch di marca Tri Angle Records, della dub-techno berlinese, dell’UK sound. L’accoppiata full-on club Daisy/Flammarion è emblematica. Con la memorabile suite su cassa in 4/4 house In Two/In Two II e la pastorale (!) Try To Be, la prima parte della tracklist convince più della seconda, scevra di particolari highlights, comunque impeccabile nella resa della tematica chiave: il torpore della relazione a distanza e la disconnessione dal mondo che regolarmente ne consegue. I versi tornano persino ricorrenti, come fossero ricordi, rimuginazioni o semplici voci nella testa che si è incapaci di arrestare. Untogether, lo si capisce, è quindi un disco situazionista. Va centellinato, non divorato. Soltanto così se ne coglierà per intero il valore, che è soprattutto emozionale; senz’altro oltre il paio di singoli “imprescindibili”, oltre la produzione cristallina, oltre la conferma della Arbutus Records casa anche di Doldrums, Majical Cloudz e TOPS - come fucina di talenti iperattiva ed, apparentemente, impossibilitata a sbagliare. (7.2/10)


Genere: classical, techno Quasi in contemporanea con le dichiarazioni d’intenti del Brandt Brauer Frick che si sono tradotte in un album molto più diretto, jammato, ma anche orientato al formato canzone come Miami (di cui abbiamo recentemente parlato in sede di recensione), arriva puntuale una risposta in convergenze parallele firmata Aufgang, ovvero il trio formato da Francesco Tristano e Remi Khalifé, (pianoforte) Aymerich Westrich (batteria e programming). Come già detto per la formazione tedesca, la presa di petto della progettualità techno suonata (e senza frontiere) basata su compatti (e a volte feroci) ritmi di tastiere e batteria abbinati ad altrettanto rigorose arie melodico-cinematiche, non può che far bene alla fruizione di entrambi i progetti. Istiklaliya, diversamente da Miami, punta sul noto virtuosismo dei pianisti accarezzando soltanto la dimensione cantata (il pop à la Battles di Abusement Drive). L’obbiettivo salvifico non è più la paritura ultra editata o la rivistazione della contemporanea del macchinoso esordio, bensì un gusto quasi wagneriano/bladerunneriano per la techno (la possente Vertige) abbinato a una serie di trasfigurazioni latine o africane (il tango in Kyrie, il muezzinato desertico di Diego Maradona) inscatolate (è il caso di dirlo) in situazioni soniche che possono richiamare la psych, come la sinfonia, l’impro come la soundtrack d’antan. Picco dell’album, oltre a Vertige, la buffa - solo nel titolo - Diego Maradona, con i locked groove di Tristano e Khalifé che pare Ian Williams dei Battles. Rispetto a qualche anno fa quando si parlava di sperimentazione o esperimento esibizionista da parte di una manciata di musicisti d’estrazione classica innamorati del club, qui si tratta d’accreditarne lo status e valutarne dinamiche, bontà e prospettive future. In primis, anche solo ascoltando i crescendo e il trasporto di Stroke o la semplicità con cui i tre sciolgono le fila in senso reich-iano e infine classico in Rachael’s Run e abbiamo il vero esordio degli Aufgang per le mani, il perfetto setting per quello che si prospetta come un live set incendiario lontano da ogni posa saccente o autoreferenziale. (7.3/10) Edoardo Bridda

altre cose. Prendete il “non è sempre necessario realizzare un disco per andare in tour” della recensione dell’ultimo Skunk Anansie ed elevatelo all’ennesima potenza. (3/10) Riccardo Zagaglia

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Bored Nothing - Bored Nothing (Cooperative Music, Marzo 2013) Genere: DIY-slacker-indie Coerenza prima di tutto: Bored Nothing è la dimostrazione di come si possa essere slacker nel midollo fin dalla scelta del proprio moniker. Australiano dal look post-nerd, il giovane Fergus Miller porta avanti il progetto Bored Nothing ormai da qualche anno, ovvero dalle prime casset-

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Aufgang - Istiklaliya (InFiné, Aprile 2013)


Riccardo Zagaglia

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British Sea Power - Machineries Of Joy (Rough Trade, Aprile 2013) Genere: indie rock “In questo momento, il mondo sembra spesso un posto isterico. Vorremmo che questo disco fosse un antidoto, un bel gioco di carte in piacevole compagnia”. Così i British Sea Power hanno presentato la loro quinta (sesta, se consideriamo anche la soundtrack Man of Aran) fatica discografica Machineries Of Joy, un titolo che omaggia il recentemente scomparso Ray Bradbury - autore di Cronache marziane, Fahrenheit 451 e della raccolta di short stories Le macchine della felicità. Sembrano proprio piccoli racconti, sketch vividi, questi che arrivano a due anni di distanza da Valhalla Dancehall e a dieci dal debutto The Decline Of British Sea Power; se da una parte le dieci canzoni, già ascoltate seppur in versioni “primitive” all’interno di sei EP usciti lo scorso anno, sono forti di un campionario d’influenze, sapori e umori in continua espansione, dall’altro rappresentano la summa ideale di quanto riesce meglio a un gruppo che arriva in gran forma al traguardo del doppio lustro d’attività. Una collezione così eclettica che suona come un greatest hits, anche se non lo è: il suono è spesso cinematico, evocativo ma non evanescente, con una sapiente alternanza tra la grandeur dei tappeti d’archi e più diretti riff chitarristici - tutto in perfetto equilibrio tra tensione e distensione. Si respira aria di casa, in un disco composto tra le montagne gallesi, con dieci brani che affrontano temi e rievocano personaggi (o danno loro vita) che potremmo definire all over the place: si va infatti dai monaci francescani alle bodybuilder francesi che si reinventano star del cinema erotico, fino alle brutte esperienze con la ketamina narrate nella tirata K Hole (in territorio Boxer Rebellion) e a un bizzarro lamento per una Pyrex baby in What You Need The Most (un valzer da ballare sotto un cielo plumbeo, con Yan che rincorre

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tine DIY realizzate e distribuite agli amici durante la sua tarda adoloscenza nomade, messe poi a punto una volta stanziatosi a Melbourne. Il primo vero e omonimo album può essere considerato una compilation, in quanto raccoglie principalmente brani tratti da EP/tapes precedenti. Uscito nella terra dei canguri sul finire del 2012 per la Spunk Records, Bored Nothing ha recentemente incrociato il percorso della Cooperative Music, la quale ne garantirà la visibilità fuori dai confini australiani. Più tendente all’autoisolamento che alla baldoria-yolo, l’attitudine slacker di Fergus Miller si traduce in brani mai sguaiati, sorretti debolmente da un timbro fragile incapace di trattenere la sofferenza. Nasce così un incrocio tra Elliott Smith (Get Out Of Here in assoluto, ma anche l’ottimo songwriting di Charlie’s Creek) e Christopher Owens. Cantautorato quindi, ma per un target meno paziente e meno amanante dell’intimismo lo-fi (Daniel Johnston è tra i suoi principali punti di riferimento), non mancano i brani più scanzonati che allontanano il pericolo bored-zone: le chitarre jangly del manifesto iniziale Shit For Brains (“it’s hard for me to say but we’ve all got shit for brains”) o di Popcorn, il chitarrismo ‘90s-indie via Pavement (Darcy), il garage-pop via Sonic Youth di Dragville,TN e la formula super pop di Echo Room. Brani che durante i live vengono galvanizzati dalla neonata band di supporto composta da due amici e dal suo fratello minore. Come una sorta di dottor Jekyll e Mr. Hyde, l’occhialuto Fergus Miller si nasconde dietro ad un trasformismo ambivalente, in grado sia di toccare intense corde emozionali, sia di scivolare via come l’acqua lasciare troppe tracce. Al grido di “nineties forever” il revivalismo ha trovato un nuovo adepto. (6.7/10)


Genere: Trap Partita come sito web (Drum&BassArena) e poi sviluppatasi in varie direzioni con eventi, etichette discografiche e altre attività collaterali, AEI è una delle più potenti industrie musicali per quanto riguarda la produzione di compilation a base di bass music. Con l’omonima serie di uscite d’n’b e successivamente dubstep (la serie annuale This Is Dubstep), i londinesi James Cotterill e Diluk Dias hanno finora venduto centinaia di migliaia di dischi basandosi su una ricetta che si è via via raffinata mescolando produzioni edite e remix, grandi star e feudatari del dancefloor ma anche andando a valorizzare i producer più oscuri e le nuove leve. Non sfugge alla formula quella che è già sulla carta la raccolta che tutti vogliono e s’aspettano, un taglio internazionale sullo stato dell’arte del fenomeno più chiacchierato dalla seconda metà del 2012, nonché una corrente/nascente genere che recentemente è, insistentemente e da più parti, già al centro delle speculazioni su ciò che dovrà rimpiazzare il dubstep nel dancefloor. Che il fenomeno trap abbia smosso parecchio le acque da Glasgow o Brighton fino alla provincia americana più bass addicted è dato ampiamente documentato in All Trap Music, e proprio il tessuto statunitense si è dimostrato il più ricettivo e naturalmente preparato ad accoglierlo. Tra i protagonisti stellestrisce della compila troviamo chi ne aveva intuito il potenziale già a fine 2010 come Luminox / David Phoenix di Chicago, chi con la thug step (fusione tra southern HH e dubstep) ne incorpora tranquillamente i cromosomi (Hpntk da Atlanta con Underground Tatics), chi - Gent & Jawns - partendo dalla scena moombahton, capitalizza con la qui presente Turnup le oltre 80.000 visite su SoundCloud nel 2012 e chi (Planet 12th, mentore di Skrillex e del giro EDM di LA) monta svogliatamente sul calesse con un remix di Ratchet Strap da parte di un Z che è pura mossa promozionale di altro buzz nel buzz di questi mesi. Producer - pare - francese autoproclamatosi “Trap God”, Z è - non a caso - firmatario per la Owsla e Mad Decent. Lo scorso anno ha realizzato, con buoni spunti e molta self confidence, la famosa serie Soundcloud numerata Trap Shit (poi catapultata sulle compile della Jeffree’s), mentre qui lo ritroviamo anche nella buona remissata dei Foreign Beggars (Goon Bags), a dimostrazione che il mascherato, oltre a spararle grosse, è anche capace di graffiare. Tra le origini della trap music - letteralmente la colonna sonora dei luoghi dove i veri ghetto boss si ritrovano a far affari - un immaginario, più che uno stile, interno alla scena Southern HH con un corollario di drum machine 808 ed effettazzi gansta da campionatori di terza mano - e la sua attuale mutazione dancefloor (la “trap out of the trap”), il MCD si riduce all’uso ostentato di bassi, alle timbriche plastiche della famigerata batteria elettronica (e famoso rullantino), ai campionamenti spesso vocali, il tutto chopped & screwed, un culto che è stato oggetto di un revival trasversale che ha interessato, specie negli ultimi due anni, sia le produzioni HH di Lex Luger per i rappusi USA, sia compagini altre come Girl Unit (l’antefatto di fenomeni come Purity Ring), Rustie (da più parti indicato come il prime mover della EDM Trap) e Kuedo (nella kermesse per aver incluso il rullante in una produzione cinematica retro-70s). Niente che non potesse rimanere frammentario e tale se Diplo e la sua scuderia non ne avessero cavalcato lo stile-

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Baauer/Buku/Flosstradamus - All Trap Music (AEI Media, Marzo 2013)


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ma contagiando in corsa una quantità inedita di segmenti elettronici legati al ballo. Non è un caso che nella raccolta il numero di artisti Mad Decent / Jeffree’s sia rilevante a partire dai citati Gent & Jawns, Z ma anche Bro Safari (la deboluccia Spooked con il feat. DJ Craze) e ovviamente Flosstradamus, ovvero quelli dell’eppì Total Recall (febbraio, 2012) che, già allora, autodefinirono “post-apocalyptic trap” e che qui ritroviamo in ottima forma nel remix di Baauer di uno dei pochi pezzi bomba, Rollup (traccia bass ultra secca e il colpo di tosse bronchitico a scandire). Da sottolineare che lo stesso Baauer (in apertura con la discreta Dum Dum, traccia originariamente pubblicata su vinile white label a febbraio 2012), colui che ha fomentato il virale YouTube di Harlem Shake e poi sbancato le chart a partire dalla primavera scorsa, è un fiero protagonista dello scacchiere di Diplo, il testimonial di una serie di nuovi producer che hanno fatto esclamare a molti giornalisti che “finally Mad Decent is producing decent stuff”. Ed è su questo versante di Trap più quadrato, bianco, incline all’anthem e revisionista riguardo al southern (lato Glasgow / LuckMe ma anche Frite Nite) che troviamo le quadrature mancate della compilation (perlomeno nelle nostre di economie e gusto). Passi la mancanza di un tardivo come Starkey, più grave la mancanza di un “originator” come Rustie (ascoltate City Star, ottobre 2011) e dei figli suoi, i TNGHT di Lunice e Hudson Mohawke - pur con la presenza del primo nel buon remix - molto Chicago juke - di From The Back dei Flosstradamus (con il feat. di Danny Brown). A mancare, inoltre, il Salva producer, che assieme al presente RL Grime (di cui remissa la qui inclusa, discreta, Grapes alla Vodka) ha probabilmente prodotto il miglior pezzo trap in assoluto che è il remix di Mercy di Kanye West, ed è un peccato che non ci sia il norvegese Slick Shoota (troppo ostico?). In compenso, ottima scoperta i Clicks & Whistles con Fumando - vedi anche il Soundcloud, che il duo è decisamente eclettico - e non è male per niente l’AEI artist Buku da Pittsburg che consegna alla raccolta due pezzi del Janky EP (All Deez, Janky), ottime sintesi per sottrazione di sottogeneri anche in area EDM. Tornando al lato britannico del trap, è interessante l’inclusione delle più giovani rappresentanze della Soundcloud community come gli esordienti Massappeals (7even Oh!), il duo londinese Stooki Sound e la micro scena di Brighton con XXTRAKT (Higher) e HUCCI (la ultra minimale Ball So Hard e Hustle), act di gran lunga più interessanti delle stanche produzioni a base grime come Network di Dream McLean (con il pur buon remix dei veterani d’n’b / dance Chase & Status) o Bricks di S-X. Salvo note compensazioni AEI, e la ovvia assenza dell’ala abstract / hypster (uno su tutti, Ryan Hemsworth), la compilation è ampiamente consigliabile per immergersi nelle sonorità trap e osservare un paio di interessanti tendenze in atto: il lato dungeon con HPNTK, Massapeals (pulizia del suono, suoni gotici, ultra bassi, atmosfere anche cartoon) e quello antemico di derivazione TNGHT, Flosstradamus, Baauer, Buku. Rimarranno, certamente, le contaminazioni con la prosopopea laseristica dell’EDM sound (vedi alla voce Dj Muggs) ma l’aspetto interessante di quest’ondata è che, con i suoi “riff” e l’estetica hh minimali, suggerisce una via lontana dalle produzioni skrillexiane a tutto favore di una wonky music che ha voluto tornare all’ossatura rap, alla faccia di Flying Lotus, e a tutto pro del dancefloor. (7.3/10)


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anche il neofita più restio. Se non è un successo questo... (7.2/10) Alessandro Liccardo

Casey Veggies - Life Changes (Self Released, Febbraio 2013) Genere: Hip Hop Figlio di una bodyguard di Jay-Z, Casey Veggies (classe 1993) era destinato a innamorarsi di quel mondo così vicino e infatti, già da giovanissimo, è stato tra i membri fondatori della crew Odd Future, partecipando anche alla ormai storica prima Odd Future Tape. In seguito si è allontanato dal collettivo hip hop per via di una concezione differente della musica e ha seguito un percorso molto diverso dai suoi ex compagni. Da una parte l’irruenza degli OF li ha portati alle vette della notorietà in un baleno di hype internetiano, dall’altra il Nostro ha scelto di procedere lentamente, creandosi un seguito con pazienza. Dopo cinque mixtape e un album, Veggies può vantare buoni riscontri di pubblico, un tour con Mac Miller, un contratto per Sony e il management Roc Nation. Anche stilisticamente Casey è nettamente diverso da Tyler The Creator e soci, visto che propone un hip hop capace di riattualizzare i classici, in un modo simile all’altro celebre conterraneo Kendrick Lamar (ma senza la retorica gangsta). Del resto il giovane rapper non fa mistero di avere un grande amore per l’hip hop anni Novanta, senza però scadere nel totale revivalismo di Joey Badass: i suoi modelli sono Nas e Kanye West, da cui vorrebbe distillare un sound al contempo classico e contemporaneo. Oltre a poter vantare uno stile particolarmente cool, Casey ha il vantaggio, rispetto a tanti rapper adolescenti, di possedere una capacità di scrittura superiore, capace almeno di andare oltre il solito broggadoccio. Già l’opener Life Changes ci mette nel mood riflessivo del disco: a un passo dalla notorietà, la vita di

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Richard Hawley quando emula Scott Walker). Se l’orso in copertina e l’influenza degli Echo and the Bunnymen nella title-track (qui mescolati agli Arcade Fire e ai Neu!) possono far tornare in mente Open Season, l’energica Monsters Of Sunderland ci riporta più a Do You Like Rock Music?; c’è spazio anche per le reminiscenze beatlesiane (versante George Harrison) del brano anti-caccia Loving Animals, e dieci anni dopo The Lonely ritroviamo in un disco dei British Sea Power un affettuoso omaggio a una figura di culto, quel Geoff Goddard (Radio Goddard) che Yan e Noble conobbero lavorando nelle cucine - già, perché l’ex braccio destro di Joe Meek, colui che un tempo consideravano il “Phil Spector britannico”, decise di abbandonare il mondo della musica per una più sicura carriera nel catering. Warm e restorative sono i due aggettivi che ricorrono più spesso per descrivere Machineries Of Joy, e si adattano benissimo alla bucolica Hail Holy Queen, a Spring Has Sprung (i Prefab Sprout che rileggono i Velvet Underground... o viceversa) e A Light Above Descending. L’impalcatura è solida, l’attenzione è meticolosa tanto per le costruzioni melodiche quanto per le texture, talvolta in passato colpevolmente privilegiate. Tutto questo dimostra che la band di Brighton non ha mai smesso di lavorare sodo; non importa se i colleghi che oggi sono arrivati col fiatone negli anni Dieci (e prendono tempo con antologie e ristampe celebrative con tour annessi) hanno raggiunto prima i tanto agognati traguardi - i British Sea Power sono ancora come li abbiamo conosciuti, solo che oggi li ritroviamo più consapevoli della qualità del proprio songcrafting. Pur non avendo perso il gusto per l’eccentricità (lo dimostra il fatto che partiranno in crociera sul Tamigi per promuovere il disco e, subito dopo, si dedicheranno a un tour misterioso su un bus con tanto di birre, ballerine e un tavolo da ping pong), sono riusciti a confezionare l’album che finalmente può far avvicinare al loro mondo


Casey è del tutto stravolta, in bilico tra gli impegni di rapper e quella di semplice ragazzo, due estremi tra cui oscilla senza trovare un suo spazio preciso. Certo non vola alto con le tematiche, ma il recupero della capacità dell’hip hop di raccontare è comunque un fatto positivo in una scena sempre più ancella della musica elettronica. Casey Veggies è pane per i denti di un’industria musicale sempre più avida di giovanissimi talenti. A noi, invece, non rimane che attendere il suo disco d’esordio - già annunciato per quest’anno - sperando che riesca a bissare il salto di qualità compiuto da Kendrick Lamar nel 2012. (6.9/10)

Catholic Spray - Earth Slime (Born Bad, Marzo 2013) Genere: Garage I Catholic Spray fanno parte del battaglione garage francese insieme ai vari Feeling of love, Yussuf Jerusalem, JC Sàtan, Le Pécheur e altri ancora, forse l’unica scena in grado di competere per mole e risultati con la controparte californiana. I Catholic Spray guardano all’America - Ty Segall e Thee Oh Sees in primis - per questo nuovo lavoro-centrifuga che coglie un po’ tutte le istanze del garage revivalista odierno. Meno esoterico del precedente Amazon Hunt, i temi sono surf e ‘60 pur mantenendo quella vena sottilmente dark più che collaudata in terra d’oltralpe, con l’aggiunta di un suono che è ancora figlio dei fasti shitgaze (e dunque distorsioni ovunque). A riuscire meglio sono le tirate garage punk come Roam No Sea, Drift With Satan e il post punk in salsa sci-fi di UPN 160, perché poi i giri ‘60s, pur essendo all’altezza, sfociano nel convenzionale per la passione dei garagisti doc. Earth Slime è certamente un buon lavoro ma la sensazione è che i Catolhic Spray abbiano semplicemente messo in mostra la mercanzia, sulla

Stefano Gaz

Chelsea Light Moving - Chelsea Light Moving (Matador, Aprile 2013) Genere: indie rock C’è logica curiosità per il nuovo gruppo di Thurston Moore, per la prima volta leader e non solista da quando i Sonic Youth hanno sospeso la loro attività a tempo indeterminato. Se il recente Demolished Thoughts ha trasfigurato il suo suono di sempre in stile elettroacustico, qui ci avviciniamo maggiormente alle atmosfere del vecchio (?) complesso. Non aspettatevi, quindi, cambi di rotta clamorosi, anche se per il chitarrista e bandleader si tratta soprattutto di un ritorno alle proprie radici presoniche. Che siano i Velvet Underground dell’iniziale Heavenmetal o il più semplice e schietto punk rock di Lip, l’album è prima di tutto un omaggio alle fonti d’ispirazione di sempre che contempla anche le ascendenze letterarie (Burroughs) o i compositori moderni le cui innovazioni il nostro ha tradotto in ambito rock - da Steve Reich fino a Glenn Branca. Ci sono infatti assonanze branchiane in Mohawk - il brano più sperimentale di tutta la raccolta - oltre che negli intermezzi noise, nelle lunghe digressioni della stessa Burroughs o di Sleeping Where I Fall, che per il resto rimane un bell’esercizio di rock and roll dissonante anche se più lineare di molti brani dei Sonic Youth, senza le alchimie chitarristiche che il nostro era solito creare con Lee Ranaldo. Il quartetto dei Chelsea Light Moving, in cui figurano Samara Lubelski al basso, Keith Wood alla seconda chitarra e John Moloney alla batteria, non è una fotocopia della gioventù sonica, nonostante alcune coincidenze destino qualche sospetto. C’è invece una canzone che potrebbe essere quasi una copia carbone:

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Gianluca Carletti

scia della prostituta a tre tette apparsa in Atto di forza ed esibita qui in copertina. (6.8/10)


Genere: drone, doom Il sound dei californiani Barn Owl raggiunge con V il livello di intensità che gli chiedevamo da anni, in ragione sia dei percorsi solisti di Porras e Caminiti, sia della progressiva pianificazione di una musica sempre più cosmica, nera, trascendente. La nuova liturgia è diversa da quella di From Our Mouths A Perpetual Light e The Conjurer e del resto sia Ancestral Star che Lost in Glare si limitavano a formulare ipotesi, rimanendo con i piedi saldi nella tradizione, qualunque essa fosse: metal, desert folk, kraut rock, drone music. La cadenza doom di Void Redux liquida lo scenario all’istante con il suo alternarsi di liquidi saliscendi chitarristici in un vorticare concentrico sempre più denso, minaccioso, ottundente. L’elaboratissimo mix di synth, campionamenti ed effetti introduce alla storta serenata di The Long Shadow, sorta di corrispettivo desertico di The Eternal dei Joy Division. La chitarra languida di Porras cerca di intonare una plausibile forma lirica, ma un organo gotico ostile scioglie tutto in un mare magnum di echi distorti, gli stessi che mimano le distanze astrali di Against The Night prima dell’approdo al cuore nero di Blood Echo. Matrimonio con la tenebra più nera del nero, qui Porras e Caminiti raggiungono l’apice della loro sapienza di visionari miscelatori dell’occulto, con una flebile eco di drones tibetani che in rapida successione si deturpa in uno stordente, solenne, inarrestabile climax cosmico. Dopo tanta potenza Pacific Isolation serve a rifiatare prima di addentrarsi nell’ultimo atto di The Opulent Decline, mini suite di diciassette minuti collocabile fin da subito tra i capolavori del rock apocalittico. Intro prettamente elettronica con echi di suoni ed effetti trattati in studio che si anima lentamente su un tappeto sonoro dal sapore alieno ed esotico, prima che un gelido vento distorsore cominci la propria opera di corrosione. V esemplifica al meglio l’arte dei Barn Owl come raffinatissimi esteti doom, genere di cui a questo punto i Nostri conservano solo l’aspetto esistenziale e filosofico. Di fatto, ormai, Porras e Caminiti hanno acquisito l’estro per evocare tanto la fine, quanto ciò che viene dopo di essa. (8/10) Antonello Comunale

alzi la mano chi ascoltando le strofe di Burroughs - ancora - non pensi a una riedizione più o meno inconscia di Hey Joni. L’aspetto più curioso e stimolante, senza dubbio, è ascoltare il chitarrista che ha creato una grammatica inedita nell’ambito della musica rock misurarsi con elementi più classicamente di genere: i riff heavy di Alighted ed Empires of Time, il blues nel break strumentale della stessa Lip o la coda di puro hardcore di Groovy & Linda e, naturalmente,

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la cover di Communist Eyes dei Germs. Thurston Moore è un rocker a tutto tondo e un uomo che non si stanca di ribadire la fedeltà alle proprie radici. Qualcuno aveva dei dubbi? (6.9/10) Tommaso Iannini

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Barn Owl - V (Thrill Jockey, Aprile 2013)


Genere: drone folk Originaria di Saint-Pierre-Église, piccolo centro della Normandia, la francese Chicaloyoh - nome d’arte di Alice Dourlen - è l’ultima divinatrice del drone-folk d’oltralpe. Tradizione, quella transalpina, sempre in fermento ma avara di fenomeni, con l’unica eccezione forse dei Natural Snow Buildings, che però fanno un po’ testo a parte. Dopo una serie di pubblicazioni per lo più autonome/carbonare e una cassetta su Brave Mysteries, il 2013 inizia per Alice con Evaporation Of Widows, cassetta a tiratura limitata sull’italiana Storm As He Walks dal packaging articolato ed evocativo, come si compete ad una che maneggia con sicurezza la mappa segreta per accedere a Marble Index. Eppure il riferimento a Nico valga come indicatore di base, come se fosse un testo sacro, la cui dottrina è seguita più per indole che per scrupolo filologico. Rispetto a una Weyes Blood, ad esempio, Chicaloyoh è ben più eretica e ribelle. Prova ne sono le metriche cosmiche della title track e di Lente Eclosion, che semmai hanno diversi punti di contatto con l’ascesi mistica dei Popol Vuh. Un suono che si muove coerentemente a cavallo tra sacro e profano. Les derniers cris e Errance evocano i primi Current 93 per la tenebrosa trascendenza di ritmica, voci e suoni in dissoluzione. Quel piccolo capolavoro che è Retrouvons Les, poi, sta un po’ in mezzo a tutto questo e semmai fa il paio con le composizioni più surreali di Fursaxa. Turbata e inquieta, più triste della malinconia eppure lucidissima nella sua alterità, Alice Dourlen ha le qualità per scrivere ulteriori pagine importanti, ma di un tipo che rimarrà deliziosamente proibito ai più. (7.2/10) Antonello Comunale

Chvrches - Recover EP (Glassnote, Marzo 2013) Genere: electro/synth-pop I Chvrches hanno svariati pezzi nel cassetto, mancava una label che li pubblicasse. Fu The Observer (periodico edito dallo stesso gruppo del Guardian) a metterci al corrente di una situazione che aveva dell’assurdo: l’articolo in questione risale alla fine dello scorso ottobre e il potenziale del trio di Glasgow - peraltro “supergruppo” di una certa esperienza - era già allora conclamato da un campeggio eterno ai vertici del ranking dell’Hype Machine; dagli show gremitissimi con due soli web singles all’attivo (Lies, The Mother We Share). Poco male. Il contratto con l’etichetta ora c’è, è un big deal (la Glassnote di Phoenix e Mumford & Sons) e permette ai nostri di pubblicare il Recover EP, dunque di farci avere i primi tre inediti (e due remix) di un’annata che li vuole come protagonisti. E l’incipit, affidato alla title track, è micidiale; dà seguito al percorso di eccellenza inaugurato dai due singoloni sopracitati. Recover è una gemma d’electro-pop istantaneo ma ambizioso à la The Knife circa-Silent Shout, con beat clippati, intermezzo blown-out che ammicca alla post-witch (ormai acquisita) alla maniera dei Purity Ring, sintetizzatori che seguono “a rimbalzo” il cut-up della strofa e stendono, infine, due tappeti differenti per un doppio chorus che reclama airplay in repeat. Da segnalare anche una Lauren Mayberry sempre più lontana dalle timidezze indie-pop dei suoi Blue Sky Archives e a suo agio nel ruolo di frontwoman e icona; sempre più riconoscibile e non più soltanto un timbro a mezza via tra Robyn e Megan James. Sorprende, dunque, vederla poi rimpiazzata nei vocal-duties da un Martin Doherty (The Twilight Sad) naturalmente più anonimo, in specie perché metallicamente filtrato. Eppure, con quel crescendo che sa di lancio iperspaziale (sci-fi!),

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Chicaloyoh - Evaporation of Widows (Storm As He Walks, Marzo 2013)


Genere: World Nel libro che racconta la storia dei rapporti difficili, a dire il minimo, tra potere, religione e arte, una pagina nuova e assurda è stata scritta l’anno scorso nel Mali: in un paese a maggioranza musulmana, dove i saggi della comunità sono quei griot la cui attività assume caratteristiche di spettacolo che prevedono un grande uso della musica (vedi anche Baba Sissoko), un colpo di stato militare ha imposto una sharia che la vieta. Assurdo in un paese da cui probabilmente è nato il blues e dove è nato lo ngoni, strumento a corda antenato del banjo e forse anche della chitarra, che ha cantato lodi ad Allah per secoli, a ennesima dimostrazione che integralismo e senso della realtà dialogano poco. In risposta a ciò Kouyaté, che al momento del colpo di stato aveva appena iniziato le registrazioni, risponde sia con i testi, sia alzando i distorsori che già aveva acceso nel disco precedente (il secondo della sua carriera solista dopo anni da apprezzato turnista). Ma non siamo né negli USA del blues che lamenta la schiavitù né nell’occidente del rock che contesta il perbenismo o l’Inghilterra depressa dei ‘70, non sono chitarre quelle che gridano libertà: è lo ‘ngoni, appunto, che ricama e punge sia per mano del leader che del gruppo che lo accompagna, chiamato appunto Ngoni Ba perché ne prevede quattro, i quali si intrecciano e ricamano dilatando e rinnovando lo spettro espressivo dello strumento lungo le linee di una tradizione al contempo da sempre eclettica e meticcia e che qui non si smentisce. Prodotto da Howard Bilerman (già con gli Arcade Fire), il disco va dall’iniziale title track (che significa “grande raduno di persone”, chiamata collettiva a reagire), dove l’intreccio delle corde finisce per impastare echi latinoamericani (come altrove nel disco: Madou, Dankou, e in Sinaly quasi gitani) al blues vero di Poye 2 che ospita Taj Mahal alla frenesia di Ne Me Fatigue Pas (il pezzo più esplicitamente anticolpo di stato) guidato dalla bella voce di Amy Sacko (moglie di Kouyate) e con potenzialità da ballo, con l’elettrica che anima anche un intro pur tradizionale come quello di Kele Magni la quale poi vira sorprendentemente verso atmosfere da danze popolari europee del Rinascimento, fino all’intimismo dolente della conclusiva Moustafa che ribadisce la centralità dello ngoni con un finale accelerato fin quasi al flamenco. Potente affermazione sia artistica che politica, il disco contribuisce a spiegare certi fenomeni e laurea definitivamente Kouyaté, se ce ne fosse stato bisogno, come uno dei grandi della musica del Mali. (7.5/10) Giulio Pasquali

cosa è ZVVL se non un primo tentativo di portare a casa il tormentone anthemico in ideale stile M83? Ed è vero che gli innesti di dubstep androide possono inizialmente far storcere il naso, ma ad ascolti ripetuti c’è comunque da arrendersi:

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questi Chvrches funzionano, anche a carte scombinate. Dulcis in fundo, a chiudere il parco originals (e anche il disco, dove i remix risultano operazione di contorno) è Now Is Not The Time, degli scozzesi -

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Bassekou Kouyate - Jama Ko (Outhere, Marzo 2013)


ad ora - la creatura maggiormente indebitata con gli Eighties, la più cinematica, Drive-alike, dunque in avanscoperta sulla scia del successo dei Chromatics di Kill For Love. Esplorativa eppure già ben quadrata, è emblema dello stesso EP nel suo complesso: non release superflua, ma prove generali in prospettiva del debutto lungo (atteso per l’autunno). A quello rimandiamo il giudizio definitivo e però, nel frattempo e visto che le opzioni qui vagliate ci sembrano tutte egregiamente attuabili, non ci schiodiamo da quanto già detto in tempi non sospetti: next big thing. (6.9/10)

Cold War Kids - Dear Miss Lonelyhearts (Downtown, Aprile 2013) Genere: indie rock Era una notte primaverile del 2007, quando venni a conoscenza per la prima volta dei Cold War Kids: stavo guardando MTV Brand New - va beh... - in dormiveglia, quando tra un paio di videoclip visti e rivisti decine di volte mandarono in onda Hang Me Up To Dry. Mi piacque al primo ascolto. Hang Me Up To Dry era contenuta nell’album di debutto (uscito qualche mese prima) Robbers & Cowards, capace di trovare favori sia di una parte della critica, sia del pubblico. I californiani guidati da Jonnie Russell, da allora, non sono più riusciti a ripetere l’impresa - nonostante discreti risultati nelle classifiche - né con Loyalty to Loyalty (2008) né con il più recente Mine Is Yours (2011), colpevole di tradire alcune peculiarità degli esordi a favore di un pop-rock maggiormente standardizzato che cercava di seguire il momento di esposizione mediatica dei Kings Of Leon. La voglia di spingersi oltre e l’intenzione di curare maggiormente l’intero lavoro sono alla base del quarto album intitolato Dear Miss Lonelyhearts, pubblicato ancora una volta via Downtown/ Cooperative Music. Quando il singolo di lancio

Riccardo Zagaglia

Colleen Green - Sock It To Me (Hardly Art, Marzo 2013) Genere: Indie La losangelina Colleen Green pubblica un primo full length sotto il segno di melodie vocali squisitamente indie-pop, lineari e spesso carinissime, di una naturalezza a tratti disarmante, mentre sotto sfrigolano sintetizzatori, chitarre distorte ma gentili, groove circolari di basso ed esili drum

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Massimo Rancati

Miracle Mile, nonostante la bella botta energetica, sembra essere presa direttamente dalla discografia dei Killers e quando Tuxedos fa proprie le coordinate del John Lennon (tra l’altro già coverizzato in passato) di Instant Karma, la voglia di spingersi oltre sembra più che altro un disperato inseguire. Reparto synthetico corposo in brani come Lost That Easy e Loner Phase (nuovamente in The Killers-zone), aperture pop-rock standarizzate (Bottled Affection, Bitter Poem) e, paragone consapevolmente azzardato, pure dei New Radicals rivisitati nel piano-rock di Jailbirds. Quello di Dear Miss Lonelyhearts è un eterno rincorrersi tra indie-rock facilone e quelle componenti bluesy/vintage/hearthland che probabilmente mostrano da sempre il lato più genuino (Fear and Trembling) e suggestivo (la title track) della band. Non bastano l’aiuto della new-entry Dann Gallucci (Modest Mouse) e la produzione di Lars Stalfors (engineer del giro dei Mars Volta): le dieci tracce che dovevano riaccendere il fuoco dei Cold War Kids non fanno altro che allontanare ulteriormente i ricordi dei promettenti esordi. Per carità, Russell & co. non sono e non saranno né i primi né gli ultimi a seguire questa parabola, ma purtroppo alcune band - utilizzando un paragone cestistico - non riusciranno mai a superare la soglia che divide gli artisti da quintetto ideale dalle riserve. (5.9/10)


Genere: folk Reduci dal bagno psichedelico di ToTheOtherSide, l’impatto con il suono minimale di Hazy Lights in principio stupisce, poi ti avvolge, infine ti cattura. Non è un disco semplice, non ti va incontro. La sua è una severità formale che tiene a distanza il sentimentalismo ingenuo, rinchiudendosi in un cuore più caldo. Quindi, proprio come si fa con un animale scontroso, per entrare in contatto con il contenuto della musica bisogna sforzarsi di capire come respira, come si muove, come comunica. In apparenza, sembrerebbe la classica lezione del minimalismo folk: voce, chitarra, niente più. Il contenuto esposto in evidenza, senza ornamenti, orpelli, sovrastrutture inutili. Il cuore pulsante dell’emozione a portata di battito. William Blake e Alfonso Gatto aprono e chiudono il disco con le parole di I Feared The Fury Of My Wind e Mottetto Della Sera d’aprile. In mezzo c’è solo lei. Musicalmente non siamo distanti dalla trilogia di Christina Carter, Lace Heart - Texas Working Blues - Original Darkness, o dai dischi dei primi anni ‘80 di Loren Connors e Kath Bloom. Eppure la fragranza bluesy di You Are My Sunshine, i rintocchi inflessibili di Seven Treasures o le doppie voci di Bless Thee non prendono in considerazione la tradizione, quanto la propria necessità di esprimersi mettendo massima attenzione alla forma. Per questo, quando Maurizio Abate apre l’armonia con un tocco lievissimo, fosse il sitar di Ocean Drive o la chitarra elettrica di Farewell Love, sembra che arrivi una bufera. Marcella Riccardi sorprende, perché si percepisce come non le interessi nessun presupposto intellettuale. In questo senso, il lirismo folk di Hazy Lights ha il tono della parabola zen, l’arpeggio come misura di tutte le cose, il frammento di un ipotetico haiku che apre la porta alle infinite possibilità del senso e del pensiero. Se c’è una lezione che ci insegna la poesia è che poche parole, scelte con cura, possono trasmettere un significato più profondo della più elaborata delle prose. BeMyDelay è quindi la nostra guida poetica, capace con pochi attenti tocchi di mettere a fuoco quelle luci nascoste nella nebbia che si scorgono nello scatto di copertina. (7.5/10) Antonello Comunale

machine. Potrebbe sembrare tutto troppo facile, e in molti casi lo è, quando un certo semplicismo da cameretta si fa eccessivo e quasi irritante; ma attenzione a brani quali Time In The World o Every Boy Wants a Normal Girl, veri e propri gioiellini di equilibro sonoro, ora divertiti, ora di una malinconia distratta, sempre con un filo di voce e pochissimi altri elementi.

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Gli anni ‘60 che rimbalzano nei college di fine millennio aleggiano un po’ ovunque, nella sensibilità melodica sbarazzina, nella sensualità abbottonata, adolescenziale e sottilmente romantica, creando un piacevole cortocircuito con l’anima rock dei power chord di chitarre che in Heavy Shit sfociano addirittura in una sorta di midi-punk. Così si alternano momenti brillanti che lasciano

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BeMyDelay - Hazy Lights (Boring Machines, Aprile 2013)


intravedere un futuro promettente, ad altri che soffrono la piattezza del già risentito, per un album tanto grazioso quanto trascurabile. (6.4/10) Antonio Laudazi

Genere: Rock Nome di culto tra gli appassionati del rock degli anni ‘80, i Crime & The City Solution tornano a occupare le cronache discografiche per la prima volta dal lontano 1991. Di questi tempi le rentrées non sono più una novità e non destano quasi più scalpore (se non ti chiami My Bloody Valentine..), eppure questa sorprende in positivo, sia perché permette di rispolverare una band che tra la metà e la fine degli anni ‘80 pubblicò dischi che fa bene riascoltare, sia per la qualità del nuovo lavoro. Immaginate un Nick Cave più sanguigno insieme ai Bad Seeds più rockeggianti e non andrete lontani dal figurarvi brani di American Twilight come la cavalcata dark di Goddess o la conturbante ballata My Love Takes Me There, connubio tra un riff visceralmente rock e il country più struggente, puntellato di fiati morriconian-mariachi. Bonney è stato l’altro grande interprete australiano di quel blues moderno e decadente, venato di gospel, di cui si eresse da par suo a campione il connazionale Nick Cave. Cave con cui Bonney ha avuto modo di condividere, oltre alle origini geografiche, anche musicisti come Mick Harvey e Roland Howard, con annesso il giro di amicizie prima berlinesi e poi londinesi. La formazione dei redivivi Crime & The City Solution è assolutamente all’altezza delle precedenti, con il ritorno di Alexander Hacke e i nuovi collaboratori - Dave Eugene Edwards e Jim White dei Dirty Three - che poco hanno da invidiare ai vecchi. E se l’alone caveiano incombe su Riven Man e Beyond Good And Evil, i brividi di

Tommaso Iannini

Darkthrone - The Underground Resistance (Peaceville, Febbraio 2013) Genere: essential metal Ormai è consolidato il back to the roots dei Darkthrone, la riscoperta delle radici metal coincisa con la pacificazione in casa Peaceville quattro dischi or sono. Non c’è più l’effetto sorpresa e non si celebrano svolte artistiche: ora che tutto è metabolizzato è più che mai la musica a contare, il duo Fenriz/Nocturno Culto lo sa bene. Sarà anche per questo The Underground Resistance propone i migliori brani di questo ultimo scorcio di carriera. Da una parte si sviluppa al meglio il tema epic già intrapreso con il precedente Circle The Wagons: Valkyrie soprattutto, ma anche gli assoli di The Ones You Left Behind. Dall’altra si marcia in territori crust punk (un tema sempre presente negli ultimi dischi) più la sorpresa Leave No Cross Unturned, brano insolitamente lungo per i Darkthrone (tredici minuti e passa) condito tra spinte death e vocalizzi alla Maiden. Il risultato è un bignamino, un riassunto metal che non sbaglia un riff, un cambio, niente, ed è conseguenza naturale il fatto che The Underground Resistance suoni senza tempo: potevano farlo vent’anni fa, oggi o fra altri venti anni e non ci sarebbe stata ruggine comunque. Ok, i due norvegesi hanno sviluppato una natura quasi messianica nel loro lavoro ma non sarà certo l’ambizione a rovinarli: chi può riuscire in un’operazione del genere senza annoiare, per di più al quarto episodio della serie? Pochissimi, forse solo loro. (7.3/10) Stefano Gaz

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Crime and the City Solution American Twilight (, Marzo 2013)

Street of West Memphis giustificano la rinascita di questa sigla che credevamo persa nei meandri dei secondi anni ‘80. (6.8/10)


Genere: post / songwriting David Grubbs è un campione nel far passare lo zeitgeist nella cruna della propria firma, personalità, della propria intensissima intelligenza. La sua carriera è un pendolo che oscilla tra lo spirito dei tempi che divampa e il peculiare di David. The Thicket era un esempio perfetto. Secondo disco solista, ma dopo un disco di avanguardia che porta il nome dell’autore come fanno i compositori (qualifica che Grubbs ha di fatto e anche per accademia) e non i cantautori. Microcosmo che riassume il pensiero perché sì, è un album di canzoni (?), ma c’è abbondanza di crema dei tempi, da John McEntire a Tony Conrad. E un certo distacco ecumenizzante. C’è un punto di Super-Adequate, quinta traccia di The Plain Where the Palace Stood, dove il riff di chitarra elettrica e il trotto della batteria lasciano spazio a una distensione con chitarra acustica, e la modalità è nota per chi segue Grubbs da qualche lustro. È una classicissima distensione di quei Gastr Del Sol che carezzavano John Fahey per umanizzare l’avant. Ritroviamo quel modo di fare nel disco più smaccatamente rock di David - da, appunto, qualche lustro in qui. The Plain Where the Palace Stood si apre con la title-track che nasconde nella narrazione slintiana un flauto free. E in rare occasioni rinuncia a elettrificare quello che torna a essere strumento principe per Grubbs, così come, chi di recente l’ha visto suonare dal vivo, si sarà accorto. L’episodio di Super-Adequate ci dice però altre cose. Anzitutto - ma quel che sto per dire è più chiaro negli episodici più cantautorati, vedi I Started to Live When My Barber Died - dà un frame possibile della sensazione più persistente all’ascolto, un senso di familiarità, ritrovare un amico, e capire che gli si può dare ancora tanta fiducia. D’altra parte quello è un episodio isolato

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di esplicitazione dell’accostamento tra mondi - avant e fingerpicking come succedeva negli ultimi due dischi di Gastr, post- e acustici come accade qui. In The Plain.. accade piuttosto che le raffinatezze della composizione siano leggere e intrecciate in modo poco evidente - poco dinamico, senza schizofrenia - alle mosse più tradizionali. Come accadeva in The Serpentine Similar. Ma allora c’era spirito dei tempi, qui abbiamo un amico, il suo gusto di scrivere e proporre melodie dall’armonia sempre in qualche modo laterale. Tutto questo sta a dire che uno come David Grubbs, che insegna composizione, sa comporre facendo vedere come dai Gastr si poteva togliere la parte smaccatamente legata al codice della sperimentazione (per timbri e strutture) eppure continuare a sperimentare (First Salutation). Ornamental Hermit è un piccolo capolavoro perché ricama il refrain in un sistema di “movimenti”, non in un rondò-canzone. Al netto dell’uomo che conosciamo e che ci è familiare, ce n’è pochi che possono oggi sospendere la precisa collocazione temporale di brani a cavallo tra post-rock e slocore come Abracadabrant e restare credibili. (7.3/10) Gaspare Caliri

Dead Gaze - Dead Gaze (Fat Cat, Marzo 2013) Genere: lofi-garage/noisepop Il Cats Purring Dude Ranch meriterebbe un documentario tutto per sè. Il punto di ritrovo dei giovani freak-nerd del North Mississippi è ormai puro culto, come lo sono alcuni dei personaggi Dent May ad esempio - che lo frequentano. Il corpulento Cole Furlow - tra le altre cose bassista per l’autore di Do Things - da un po’ di tempo scrive musica pubblicandola a nome Dead Gaze, un progetto che con il passare dei mesi ha sempre più preso le sembianze di una vera e propria band. Una copertina che inganna, quella del debutto lungo Dead Gaze: le casette tra le

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David Grubbs - The Plain Where the Palace Stood (Drag City, Aprile 2013)


Riccardo Zagaglia

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Depeche Mode - Delta Machine (Columbia Records, Marzo 2013) Genere: synth-pop “Questo disco suonerà come una via di mezzo tra Violator e Songs Of Faith And Devotion”. Premesse (e promesse) altisonanti, quelle di Martin Gore alla vigilia della pubblicazione di Delta Machine. Che scorrono un po’ via, se con giusto realismo consideriamo che da Ultra in poi i tre di Basildon giocano - meravigliosamente - il ruolo dei sopravvissuti (a se stessi, al loro mito, alla loro musica). Non un difetto né una colpa, piuttosto una questione fisiologica e persino biografica; per questo la loro maturità appare miracolosamente credibile, a fronte di una popolarità e di un culto dalle cifre sempre stratosferiche. Ciò detto, il tredicesimo capitolo dell’ultratrentennale saga di Gahan, Fletch e Gore riesce appunto a stare ancora un passo avanti rispetto la routine, riuscendo a focalizzare l’obiettivo in parte mancato dal predecessore di quattro anni fa, Sounds Of The Universe; non con i testi (tutto risaputo e a tratti ancor più involuto del solito: pazienza) né con la scrittura in sé (tuttavia di gran lunga più solida che in passato). Più che la sostanza qui è la forma a colpire, e l’obiettivo sembra allora ben centrato, se questa è davvero la puntata conclusiva di una trilogia con lo scultore del suono Ben Hillier iniziata nel 2005 con Playing The Angel. Trent’anni fa, ai tempi di monoliti come Some Great Reward o Black Celebration, con gente come Gareth Jones e Daniel Miller al timone, nessuno suonava come i Depeche Mode. Oggi si può ancora dire la stessa cosa. Non è poco. Forma e sostanza, si diceva. Forse mai come in questo caso nella discografia dei Nostri, forma è sostanza. E così quelli che sostanzialmente sono esercizi di stile electro-blues (Delta Machine: nomen omen!) come Angel, che giova della buona prova di Dave coi Soulsavers dell’anno scorso, e Slow, cupa e seducente come solo sa Gore, trova-

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colline ricamate con cura potrebbero far pensare ad intrecciate e bucoliche pacatezze folk, invece siamo di fronte a qualcosa di praticamente opposto. Un disco sporco e diretto, composto da vecchie ed acerbe tracce già caricate in passato su cassette DIY ed aggregate per l’occasione. Una release sulla falsariga della recente pubblicazione di Bored Nothing. Remember What Brought Us Here è una perfetta esternazione delle intenzioni: semplice powerpop trasfigurato da quelle distorsioni lo-fi virate noise che caratterizzano buona parte dei dodici passaggi del disco. Garage-punk ed escoriazioni da skate via FIDLAR (l’immediata You’ll Carry On Real Nice) che si scontrano con synth impazziti e settaggi chitarristici assolutamente stralunati. Quando non è la chitarra a subire maltrattamenti sonici, sono l’inerzia sguaiata della voce (Fishing With Robert) o la batteria a sottostare alla stessa manipolazione acida. Un modo di intendere la weird-psichedelia tutto particolare, dove la percezione, invece che subire dilatazioni, viene compressa (la flaminglipsiana Future Loves and Sing Abouts). Visioni malate che vengono diluite in Glory Days For Sure, vero e proprio tributo a dei Cure ultimamente chiamati in causa molto spesso (Mary Onnettes, Shout Out Louds, Girls Names fino ai Pains of Being Pure at Heart di Until The Sun Explodes). È tutto un gioco di alterazioni a livello di produzione: pezzi come I Found The Ending o Take Me Home Or I Die Alone sono anthem volutamente mancati. Di lo-fi idols ne abbiamo visti tanti, ma Cole Furlow sembra comunque aver imboccato la propria strada. Per il momento è un vicolo piccolo e solitario che, appositamente ripulito, potrebbe splendere, perdendo però parte del fascino che lo contraddistingue. Sarà il prossimo album a svelare le carte. (6.3/10)


Genere: free Chi traffica con l’underground nemmeno troppo under conosce bene il nome di Colin Stetson. Arcade Fire, Tom Waits, Sinead O’ Connor, David Byrne, The National, Godspeed You! Black Emperor, giusto per citarne alcuni, si sono avvalsi a vario titolo delle performance del polistrumentista di Ann Arbor. Un musicista che ha dimostrato da sempre un eclettismo, oltre che una padronanza dello strumento - anzi, sarebbe meglio dire degli strumenti (sassofoni, flauti, clarinetti, french horn ecc.) - che ne ha fatto un punto di riferimento per un range di artisti e ascoltatori molto ampio. Le sue prove in solo, in particolare la trilogia della New History Warfare che si conclude con questo terzo volume su Constellation, sono invece quanto di più alienante ci sia in circolazione, pur mantenendo un’intelligibilità difficilmente riscontrabile a queste altezze. Prove di forza, esasperazione del solo strumentale, ricerca sonora e sforzo al di là, quasi, dell’umano consentono a Stetson di mostrarsi come epigono degli eroi dell’avant-jazz più sperimentale e di rottura (vedi alla voce Braxton), ma anche in dialogo continuo coi mondi che frequenta nelle sue altre esperienze. Il “rock”, ad esempio, con la cui stessa attitudine riempie i solchi di questo Volume 3 e che lo avvicinano di volta in volta a posizioni estreme da “avant-metal” (la lunga To See More Light, dimostrazione di violenza repressa ed estremismo sonoro riecheggiante certe prove di collettivi canadesi cari a Stetson) o verso lande spiritual o addirittura “pop”. La presenza di Justin Vernon aka Bon Iver alla voce in tre o quattro pezzi è, in questo senso, sinonimo di garanzia, sia che si trasfiguri verso lidi “smostrati” (Brute), sia che cinguetti in punta di corde vocali - Who The Waves Are Roaring For (Hunted III) - o che mostri tutta la soulfulness possibile incardinata nelle musiche del sodale (il gospel made in Washington Phillips This Bed Of Shattered Bone). Il lavoro è, al solito, un lungo ed estatico solo di sax in cui le capacità etimologicamente extra-ordinarie di Stetson, sia per l’applicazione - respirazione circolare in perenne ri-circolo e utilizzo totalizzante dello strumento - che per le modalità di resa sonora - ricorso a modalità polifoniche e ampio uso delle tecniche di registrazione con 24 microfoni -, offrono uno spaccato completo e pressoché perfetto dell’artista colto in questo scorcio di millennio. Ovvero la capacità di fare ricerca fondendo l’alto e il basso, l’ostico e l’accessibile, il solo e il tutto, in un linguaggio che è trasfigurazione di se stesso oltre che passione, nel senso etimologico del termine. (7.8/10) Stefano Pifferi

no degnissima ragion d’essere in un sound che sa di pece e catrame, di retrò e moderno insieme, grazie al cielo senza annegare nel già sentito (che pure c’è, ovviamente: d’altro canto mixa Flood)

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ma offrendo nuovi titillamenti sonici anche alle orecchie più esigenti. È un trionfo di bassi, di synth vorticosi e solenni, a partire dall’iniziale e piuttosto programmatica Welcome To My World,

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Colin Stetson - New History Warfare vol. 3: To See More Light (Constellation Records, Aprile 2013)


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Antonio PancamoPuglia

Devendra Banhart - Mala (Nonesuch, Marzo 2013) Genere: folk psych soul Tre anni abbondanti dopo il non troppo riuscito What Will We Be, il buon Devendra torna a dare segni di vita griffati stavolta Nonesuch. La vicenda è intrigante perché non è facile uscire da un decennio che ti ha visto svariare in alta quota tra brezze freak e prewar folk, per poi azzardare consolidamenti psych anche abbastanza ruvidi nel tentativo di abbozzare vie di fuga rivelatesi abbastanza improbabili e comunque non troppo convincenti. Insomma, di questo curioso venezuelano-statunitense con geni indiani e chissà cos’altro nel DNA rischiavamo di non sentire più il bisogno, come se avesse già ampiamente dato per quanto concerne le sorti progressive del pop-

rock. Può darsi che in effetti sia così. Ma è innegabile che l’uomo possieda qualità e peculiarità, quindi non può che farci piacere averci di nuovo a che fare dopo un opportuna pausa di riflessione e relativi aggiustamenti di rotta. Il Devendra degli anni Dieci agisce senza clamori, fa perno sulle penombre, modula le gradazioni, fa palpitare le sfumature. Più solipsistico e quasi autarchico (ha suonato quasi tutto lui - chitarre, batterie, tastiere, drum machine - con l’aiuto del sassofonista e tastierista Josiah Steinbrick), si aggira tra idee folk e soul avvolte in una friabile scorza sintetica (le arguzie minimali di Für Hildegard von Bingen, l’ectoplasma TV On The Radio di Golden Girls), altrove asperge umori latini (il mariachi sornione di Mi Negrita) e ugge jazzy (i languori da nipotino di Terry Callier in Daniel, la title track che palleggia rimembranze Vincent Gallo), permettendosi come dessert di sgranocchiare marcette psych-pop resinose (la caramella quasi Beach Boys di Hatchet Wound, il miraggio Beta Band di Taurobolium) e strane chimere 80s (una Cristobal Risquez che potrebbe essere il sogno reggae a bassa fedeltà di Moroder). Lieve, carezzevole, col retrogusto dell’intensità. Ok, non se la giocherà di sponda tra hype e coolness, non si guadagnerà le copertine indie del pianeta. Ma sembra proprio aver trovato un percorso alternativo per tornare a scaldarti il cuore. (7/10) Stefano Solventi

DJ Rashad - Rollin’ EP (Hyperdub Records, Marzo 2013) Genere: Juke / Footwork Da qualche parte tempo fa avevamo detto che il footwork avrebbe potuto essere un po’ un nuovo dubstep; nel senso che a un certo punto molti produttori non-nativi hanno cominciato a trafficarci, a sintonizzarsi su quelle frequenze, dandone la propria versione/stilizzazione arty (fino

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che lì per lì la fai sorella di World In My Eyes - il succo lirico è quello - ma è tutt’altra cosa, anzitutto perché qui non si balla granché (a parte Soothe My Soul e lo stomp alla Velvet/Stooges di Soft Touch/Raw Nerve, per inciso una vera bomba). Come dicono nella citata Slow, ai ragazzi stavolta piace lento, al punto da scegliere come singolo apripista una ballata gospel alla Songs Of Faith... come Heaven; ma a fare la parte del leone ci sono le stupefacenti costruzioni atmosferiche di My Little Universe (tra Four Tet e minimalismi techno) e dell’esaltante Broken, sorta di A Question Of Time / Behind The Wheel rallentata e adeguata all’età. Il tutto riuscendo ad intrattenere, senza vistosi cali di tensione e ispirazione, per quasi sessanta minuti. E a questo punto non sapremmo più dirvi quale sia il segreto di un disco come Delta Machine, se non quello di provenire da persone che hanno sempre saputo trarre forza dai propri limiti e difetti. A ben vedere, non potevano che invecchiare bene, i Depeche Mode. (7.2/10)


Genere: rock Il ritorno di David Bowie non solo è stato una straordinaria sorpresa, ma coincide anche con un grande disco. Se l’ultima fase della sua carriera sembrava barcamenarsi tra inseguire la contemporaneità e strattonare il fantasma del proprio formidabile passato, finendo per inciampare in un supergiovanilismo tanto stilisticamente strutturato quanto musicalmente prescindibile, oggi sembra accettare tutti i suoi sessantasei anni sui quali edifica un punto di vista forte - esistenziale, politico, sociologico - sul presente. I testi - con quel tipico tourbillon di situazioni torbide, sospese, insidiose, languide, enigmatiche sembrano convergere sui temi del tempo come divenire e svanire, della (in)consistenza della memoria, dei miti effimeri (lo stardom) e tragici (la guerra), sui volti equivoci e oscuri dell’amore. Situazioni che vedono il Duca sfaccettare l’approccio, smaterializzarsi in una ricerca febbrile del sé forse mai veramente individuato, malgrado l’aspetto finalmente quieto, borghese, civile. Anzi, in ragione di ciò il suo manifestarsi rock appare quanto mai minaccioso, un Mr. Hyde che emerge dal calderone, il ghigno febbrile dietro la maschera rassicurante (un po’ come fa la caramellosa Valentine’s Day con le sue febbricole carezzevoli ed i coretti Sixties: in realtà si riferirebbe a uno dei tanti, troppi eccidi commessi in una scuola). È rock confezionato calando sul piatto una gragnola di espedienti, schegge citazionistiche comprese. Eppure non sembra mai un gioco gratuito, e per il più semplice dei motivi: le canzoni hanno forza, reclamano senso e urgenza, arrivano al punto sulla spinta di una lucidità rinnovata. Il discorso si sviluppa lungo una grammatica basale, tirando la giacca a un’idea pop-rock brusca, addirittura veemente e comunque mai addomesticata, vedi il riffone Kinks di (You Will) Set the World On Fire - con un fantastico assolo che incendia il filo rosso teso tra glam e wave - oppure quella The Stars (Are Out Tonight) che si fa strada con un riff che sembra un’allucinazione tossica di Absolute Beginners e poi s’invola tra irrequietezze elettriche, trepidazioni cinematiche e brume black. Proprio l’elemento black è una delle componenti che più impressionano per il taglio crudo, impetuoso, sottolineato dal sax baritono di Boss of Me (nevrosi Morphine, una fragranza quasi Neil Young nel ritornello) e Dirty Boys (il passo ebbro e scorticato da Nick Cave sornione), come se volesse mettere in scena il dark side bieco e sanguigno di Young Americans e Tonight. Inevitabilmente quindi Bowie pesca dal repertorio, ma solo se la trovata è organica alla canzone, e comunque sempre sul filo tra allusione ed elusione. È il caso di You Feel So Lonely You Could Die, ballata in bilico tra amarezza e disincanto - sorta di nipotina musical di Rock ‘n’ Roll Suicide - la cui dissolvenza in uscita ricalca il drumming di Five Years, a rievocarne l’angoscia struggente, quel battito indimenticabile. Oppure vedi le rasoiate cocainiche di chitarra che sembrano balzare direttamente da Cat People (come nella robotica Love Is Lost), il ghigno ebbro circa Beauty And The Beast che innerva la baldanzosa title track, lo sbrigliato errebì à-la Lust For Life (ma stemperato coi Pretenders di Don’t Get Me Wrong) in Dancing Out in Space. È una lancinante baracconata rock dove non ci sono spazi per le gigionerie, ed è una specie di miracolo. Al contrario, alcuni spunti ti sorprendono per l’audacia, per la

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David Bowie - The Next Day (Columbia Records, Marzo 2013)


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Stefano Solventi

al nostro Digi G’Alessio con l’EP Lucky Beard), sdoganando quella che originariamente era una sottocultura urban e black (la juke di Chicago), aprendo a sue possibili future declinazioni/adulterazioni catchy/normalizzate (qualora in contesti mainstream si giochi sul fascino ancora esotico di questi modi timbrico-ritmici). Siamo probabilmente ancora a una prima fase di questo possibile - ripetiamo, possibile - processo (con l’aggravante del sorpasso a destra da parte del trap come ritmo Zeitgeist); lo dimostra quello che sta combinando Kode9 sul suo versante più modernista e meno hauntologico, con un singolo-legnata tutto inzuppato di footwork (Xingfu Lu) e con l’accasamento fortemente voluto presso la sua Hyperdub - che occhio, è tanto Burial, quanto è Terror Danjah - di uno dei prime mover della scena, DJ Rashad, uno capace di pestare sul danzereccio spinto, di pigiare il peda-

le soul, oppure di profondersi in pezzi realmente cerebrali e sperimentali come l’industrial ottusa e malatissima di Reverb, che qualcuno - giusto per (non)capirci - ha descritto come una versione bass music di John Cage. Rashad, carriera underground alle spalle e ovviamente già spottato dalla Planet Mu di Paradinas (che per primo ha messo le mani sul genere fuori dal ghetto dopo averlo scoperto cazzeggiando sul Tubo, e che adesso dichiara quanto sia importante e significativo, oltre che inevitabile per certi versi, il gesto di Kode9), esordisce su HD con un doppio 12 pollici che mostra lo stato dell’arte della classicità delle sue produzioni. Dove il linguaggio footwork è esposto mirabilmente: cut di cantati house/soul pitchati e coriandolizzati, a doppiare una ritmica breakata a cubetti - retrogusti jungle anni Novanta - che quando (e cioè molto spesso) arriva al parossismo sa proprio di

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nota enigmatica che mettono in circolo. Ci riferiamo a Heat con le sue rarefazioni jazzy ombrose, un David Sylvian grave e a tratti scabro, o alla fragilità accorata di Where Are We Now? coi sapori eniani in una ballad indolenzita, giocata sul mettersi a nudo - disincanto, stanchezza, rimpianto - come da Bowie non ti aspetteresti. Detto però di una If You Can See Me che sbriga i rigurgiti jungle azzeccando il giusto dosaggio drammatico (grazie a un delirante bailamme prog-wave) e di quella I’d Rather Be High nel solco tra neo e old psichedelia per sfrigolante brano antimilitarista, resti senza parole al cospetto di How Does the Grass Grow? col suo intro “berlinese”, il passo androide, i coretti psicotici, il ritornello ricalcato da Apache degli Shadows (Jerry Lordan è citato infatti come co-autore del pezzo), la chitarra acidona, il bridge crooneristico e un finale che sprimaccia visioni post-kraute: il pastiche è servito, folle, incredibilmente congruo, godurioso. È insomma un disco che farà felici tutti i fan dell’ex-polveredistelle, per come ce lo restituisce ispirato e intenso: è almeno dai tempi di Let’s Dance che un lavoro di Bowie non sembrava così in grado di scuotere il panorama musicale. E The Next Day è complessivamente migliore di Let’s Dance. È una buona notizia anche per il rock come forma espressiva, perché si dimostra in grado di essere significativo facendo combaciare la sua forma più autentica e quella mainstream, la forza dell’impianto classico e la spinta ibrida innovatrice. Tony Visconti, che ha prodotto, parla di parecchi altri pezzi già pronti e dell’intenzione di tornare in studio già da fine 2013. Sembra tutto troppo bello. Ma è vero. (7.8/10)


Genere: electro-soul-pop Pur se residente nella South London, Daniel Woolhouse non è né di Deptford (ma di Suffolk), né “goth”. È piuttosto uno dei migliori studenti che James Blake abbia mai avuto; Life After Defo la sua tesi di laurea che, non a caso, descrive come “sitting somewhere between real and synthetic”. Lungi però dal limitarsi a dare per assodati gli insegnamenti del “maestro”, la dialettica uomo-macchina messa in scena dal nostro è sorprendentemente calda. Conserva la natura vagamente spettrale e spiriturale, nonché il cutting edge metallico e l’intimo gioco sui silenzi di quella di Blake, eppure, non rinunciando a un’ovattata stilizzazione “da cameretta”, ne risulta estremamente più familiare, immediata e molto meno pretenziosa. In una parola: pop. Deptford Goth conosce tanto a memoria la lezione sul valore del minimalismo e del generale contegno da permettersi di gestirla non soltanto attraverso beat sparsi, ma anche in applicazione a trame - fatte di ritagli di chitarre stampo The xx e synth da sogno lucido, scintille garage e scampanellii ambient, contaminazioni dubstep e R&B, vocal-samples pitchati e altre glitcherie - che finiscono per mostrare una certa intricatezza. Woolhouse, infine, si sgancia dalla nutrita schiera di bedroom producer UK e si propone come aggiunta di spicco al fermento electro-soul-pop, grazie a un songwriting (e crooning) dalla consapevolezza e dall’onestà disarmanti; che saltuariamente tradisce la formazione blues (indotta in adolescenza) e la fascinazione (largamente condivisa) per il prodigio King Krule; che possiede lo stesso impatto emozionale del Youth Lagoon di The Year Of Hibernation (2011), di How To Dress Well, appunto dei primi The xx (in cabina di regia c’è, anche qui, Rodaidh McDonald); che mai perde d’intensità, sia lanciato in chorus da intelligentissimi “drop” (Bronze Age, Union) o piuttosto stripped-down (Lions). Se nei vari listoni “Ones To Watch 2013” (e affini) non s’è vista praticamente traccia di Deptford Goth è perché questo Life After Defo risulta a tutti gli effetti come un’enorme sorpresa. Nessuno si aspettava granché dal ragazzotto barbuto che era solito inzozzare MySpace con tracce ispirate dall’amore per Mariah Carey (Real Love Fantasy, poi convogliata nell’acerbo Youth II EP del 2011), nessuno si era prospettato una tale, esponenziale crescita artistica. Invece è successo, lo applaudiamo, ci appuntiamo il suo LP - che è peraltro un “grower” - tra i migliori esordi dell’annata in corso. (7.5/10) Massimo Rancati

martello pneumatico. Il tutto sul filo del ballabile/ non-ballabile e con un taglio ostentatamente artiginale, proprio nell’assemblaggio delle varie voci sonore. I quattro pezzi sono tutti ottimi. Ma non si può non sottolineare che Let It Go comincia con una

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machine gun micidiale; come del resto la programmatica Drums Please (a quattro mani con DJ Manny), una roba che la senti e dici ma questo è math-rock e che infatti si assesta poi su cattiverie Big Black ad aria compressa, ma intrecciando rullate e rullanti con sognanti linee di synth e

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Deptford Goth - Life After Defo (Cooperative Music, Marzo 2013)


synthini swkeee-like; o che i cantati della conclusiva Broken Heart (con DJ Spinn) trasudano una soulfulness teatrale che ha del neomelodico. Il ferro non è più così caldo da doverlo battere a tutti i costi, e forse è anche meglio così; noi, per godere più di questi venti minuti scarsi, aspettiamo comunque un Da Mind of Rashad. (7/10) Gabriele Marino

Genere: future pop Che Montréal fosse uno dei centri nevralgici per le nuove frontiere del pop contemporaneo lo si era già capito nel 2012, con l’esplosione definitiva della scena cittadina sancita da Visions prima e Shrines poi: due tra i dischi più chiacchierati e rilevanti della scorsa annata a livello “indie” (ammesso che il termine possa ancora aver qualche significato al giorno d’oggi). Sembra che, in questi anni dieci, l’agglomerato urbano abbia peraltro goduto di un’autentica migrazione di artisti attirati da una fiorente comunità musicale DIY, con tanto di performance negli home party all’ordine del giorno. Originario di Toronto ma entrato ben presto a far parte del “giro” montrealino, in questo inizio di 2013 fa il suo esordio su full-lenght il ventiduenne Airick Woodhead alias Doldrums, dopo aver superato un 2012 da prova del fuoco. Il nome di Airick inizia infatti a girare a livello internazionale per la collaborazione con Grimes in Colour of Moonlight (Antiochus), nona traccia del di lei ultimo - fortunato - album, nonché per i tour a sopporto dei concittadini Purity Ring, d’Eon e, appunto, della “madrina” Claire Boucher. Per Lesser Evil, Woodhead si dà un’aria postinternet fin dalla cover art, che ne ritrae il volto filtrato dallo schermo rotto del laptop. Parliamo d’altronde di un ragazzotto che lavora duro con la tecnologia. Tra loop di sample deformati ed

Davide Nespoli

DuChamp - Nar (Boring Machines, Aprile 2013) Genere: drone music A dispetto dell’uso diffuso del termine “drone music”, in pochi possono dirsi appassionati cultori della tradizione e profeti nella modernità. Per questi pochi il bordone è il centro dell’universo. Il mattone unico della costruzione musicale. L’Om eterno verso cui lo sguardo e le mani del musicista si indirizzano. Sono i discepoli della musica delle sfere celesti che si incaricano di farsi eco perenne di un suono infinito. La qui presente DuChamp, italiana trapiantata a Berlino, rientra in questa elitaria categoria, nella maniera più radicale possibile. “Religiously devoted to drone”, sentenzia la cartella stampa. Il dettaglio biografi-

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Doldrums - Lesser Evil (Arbutus Records, Marzo 2013)

eccentrici, messi insieme con innocente armonia, viaggia veloce la fantasia del Nostro sull’onda di un inquietante falsetto femmineo passivoaggressivo. Doldrums vive in un mondo tutto suo, è chiaro, ma questo mondo lo conosce bene. Arzigogola così cantici egizianeggianti, filastrocche pop e sussurri che paiono la storpiatura di qualche ritornello di Bacharach (Anomaly), per poi perdere la testa di punto in bianco tra droni, crisi isteriche ed eccitati motivi in territorio Gang Gang Dance (Egypt). Digitalmente esotico, lineare dentro un’intricata struttura, a suo modo psichedelico, Lesser Evil snocciola spezzoni di un’ingenua melodia che va a braccetto con la tecnologia e il sampling. Impulsività e creatività infantile governano - per ora - il progetto, con un moniker che pare confezionato in onore di Ariel Pink alla maniera dei Negativland con i NEU!, conclamata fonte di ispirazione per Woodhead. La proposta è comunque di tutto rispetto, la nostra curiosità per la nuova verve artistica canadese rinnovata. (7.3/10)


Antonello Comunale

Edwyn Collins - Understated (AED Records, Marzo 2013) Genere: northern soul Secondo album ad essere totalmente realizzato dopo l’ictus che aveva colpito Edwyn Collins nel 2005 (mentre Home Again del 2007 era stato

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realizzato prima della malattia), Understated testimonia, come il precedente Losing Sleep pubblicato un paio d’anni fa, la sua voglia di farcela, nonostante tutto. La dizione è sempre imperfetta, testimonianza delle riabilitazioni a cui è stato sottoposto Collins da allora, che ha bisogno sempre di un piccolo grande aiuto da parte di amici, in questo caso i non notissimi Sean Read e David Ruffy (Dexys), Paul Cook (Sex Pistols), James Walbourne e Carwyn Ellis (The Pretenders), Barrie Cadogan (Primal Scream). Fresco dall’aver creato una propria etichetta, Analogue Enhanced Digital (AED Records), l’artista di Edinburgo mescola il soul bianco caro ai suoi Orange Juice e agli Style Council di Paul Weller e Mick Talbot, al songwriting classico, puntando tutto sull’immediatezza e l’espressività. Un album che testimonia ancora una volta la sua tempra (I’m so lucky to be alive è il ritornello di Forsooth; What the heck, I’m living now canta in 31 Years), commovendo per forza e soprattutto onestà, si veda il pathos sofferto di In The Now e l’Elvis-iano crooning di Love’s Been Good To Me. Come sopravvivere a se stessi ed essere fortunati di esserci ancora. Just understand, I’ve lost some ground. Un album imperfetto, fatto di consapevolezze e maturità. (6/10) Teresa Greco

Fabrizio Testa - Mastice (Tarzan Records, Marzo 2013) Genere: cantautorato avant L’artigianato al tempo della (falsa) riproducibilità tecnica. In una forzatura, ecco il senso di Mastice, materia collosa e (r)esistente messa in atto in solo (o quasi) da Fabrizio Testa, milanese un po’ profugo, un po’ fomentatore dell’underground col progetto Il lungo addio e con la sua Tarzan Records (poche ma eccellenti uscite finora, molto attente all’estetica). Già la scelta stilistica dell’artwork - prezioso e li-

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co secondo cui l’interesse per la drone music le è stato ispirato dal suono dell’asciugacapelli, quando da piccola sua madre era solita aggiustarle la capigliatura e da qui la sensazione che: “That was the sound of care, bliss, and infinite love” apre le porte a Nar meglio di mille descrizioni. La musica di DuChamp è un fascio di nervi, teso e minaccioso, ma che dietro l’apparenza di una lezione rigorosa ti accarezza con quel senso di “Infinite love”, come fosse un ritorno al liquido amniotico da cui siamo nati e che è il traguardo segreto verso cui sembrano tendere le sue note tesissime. Nell’introduttiva Gemini l’accordion allestisce uno spesso reticolo di drones, dando la sensazione di una grammatura densa e consistente, perché la sua è musica dalla fortissima sensibilità materica, ergo assimilabile a gente come Metal Rouge, Concern o Starving Weirdos che non dipingono con il pennello, ma si sporcano le mani. Brian Pyle, non a caso, appare nella severa parabola di Worship, come a dare la benedizione del gran maestro, eppure il meglio di Nar si nasconde nelle filigrane esangui, instabili e iper-visionarie di Protect Me From What I Want e A Way To Grasp My Joy Immediately, dove la più allucinata paesaggistica ultraterrena sembra a portata di mano. Con un sound così rigoroso e austero, l’esotismo traballante della finale Seisachtheia spezza non poco l’ipnosi e ci fa aprire gli occhi alla meschina realtà di tutti i giorni. Un peccato veniale che le può essere perdonato, nell’attesa di un doveroso e assolutamente necessario, secondo album. (7.4/10)


Stefano Pifferi

Father Murphy - Anyway, Your Children Will Deny It (Remix Series) (Aagoo Records, Febbraio 2013) Genere: remix album Serviva un album di remix per dimostrare lo spessore, anche internazionale, dei Father Murphy?

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La risposta è ovviamente no, visto che tutto il rispetto di cui godono, i tre italiani se lo sono guadagnato sul campo: a forza di tour interminabili - centoventotto date nel solo anno solare 2012! - e release mai banali, figlie di un percorso non ancora arrivato a compimento. Questo album di reinterpretazioni dal loro ultimo disco aiuta però a comprendere ancora di più e ancora più a fondo la considerazione che un certo underground mondiale ha per i trevigiani. Le dieci tracce di questo lavoro, spalmate su un lp e un 7”, vedono in campo artisti del calibro di Philippe Petit e Indian Jewelry, Black Dice e Ema, tanto per fare dei nomi, impegnati nelle rendition, anzi, nelle “heretical views” dei brani dell’ultimo lavoro del reverendo. Mai contributi stanchi o riempitivi “un tanto al chilo”, a confermare ciò che dicevamo sopra, ma anzi rielaborazioni che dimostrano come i Father si siano ormai inseriti (e vengano riconosciuti) in un panorama borderline e trasversale in cui è l’immaginario, la sensibilità, le affinità elettive ad accomunare progetti anche distanti. Così degli originali resta a volte poco, ma che sia l’ambient geneticamente modificata di In The Flood With The Flood fattasi ballo sciamanico e asincrono nelle mani (malate) dei Black Dice, gli echi e i riverberi che costellavano His Face Showed No Distortions trasformati in una smostrata danza postindustriale nelle mani degli W.H.I.T.E. così come in quelle, più weird, dei sodali Indian Jewelry (nel 7” allegato), o i fasti tribal-ossessivi dei TG della paranoica It Is Funny, It Is Restful, Both Came Quickly rinverditi dai newyorchesi Zulus - abili nel mostrare un lato disturbante e deturpato -, la sensazione è che quando si tratta materia così alta, qualsiasi versione non ne può uscire che da paura. Figuriamoci quando non c’è mestiere ma sana condivisione di ideali, come in questo caso. (7/10) Stefano Pifferi

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mitato sacchetto di stoffa homemade con bottone e cd-r all’interno - dice di un approccio laterale alle già sotterranee dinamiche di riferimento. Roba (quasi) fatta in casa per una dimensione della fruizione intima, attenta, approfondita. Quando si inserisce il cd e si ascoltano le sette brevi tracce di questo piccolo gioiello, ecco infatti che esplode un mondo in divenire fatto di piccoli abbozzi che diremmo art-rock se il termine non fosse ormai un vuoto contenitore, sfasature sul corpo morto del folk (da intendersi nel senso etimologico del termine più che come riferimento musicale puro), ricerca sulla forma canzone che sforma verso il teatro surreal-esistenzialista o il cabaret nero (Crudo è una ballad oppressiva alla maniera dei mai abbastanza decantati Morose e possiede, nel testo, una forza evocatrice con pochi pari) ed elabora una personale idea musicale d’ambito off. Lo sballo post-Weill-beefheartiano di Alce e Martello, con la voce asincrona di Bertacchini a tirare le fila del sax di Gianni Mimmo, l’ambient mefitica che fa da tappeto alla voce di Luca Barachetti mentre si sfocano ricordi di “gioventù perduta” (Le Terme), le lande El Muniria/Offlaga addomesticate sul racconto di un’assenza e di una irresolutezza (Marco Pierantoni) ci dicono di un lavoro piccolo per scelta, non per orizzonti, possibilità e applicazione. Disco nostalgico ma che racconta benissimo le insicurezze e lo spaesamento dell’oggi, visto con l’occhio disincantato del vagabondo. (7/10)


Genere: Cozy tech-house Stefan Kozalla ha più di quarant’anni e solo con quest’ultimo album, Amygdala, si può affermare che abbia raggiunto la propria maturità artistica. Un avvenimento raro nel mondo della dance che, nonostante sia da sempre giovanilista, ultimamente si è visto attraversato da tutta una serie di dj giovanissimi, spesso sotto i vent’anni. Consapevole della differenza d’età che lo separa dal mondo e dal pubblico con cui si rapporta, nei suoi lavori DJ Koze ha progressivamente acquistato una certa riflessività e ponderatezza. L’approccio di Koze al proprio medium si basa su un culto dell’arte e un rifiuto dell’utilitarismo e del populismo del dancefloor: l’album si apre con Track ID Anyone?, prodotta con Caribou, dove un sample dichiara we need to eat, we need to sleep and we need music. Culto dell’arte che diventa consapevolezza della storia del proprio genere e di come decenni di ascolti - la stanchezza del musicofilo - siano un filtro inaggirabile attraverso il quale si deve pensare non solo ogni ulteriore brano che si ascolta (tra cui i demo che regolarmente riceve per la Pampa), ma anche ogni suono che si produce. Questa stanchezza, ci dice Koze in più di un’intervista, ha fatto sì che sia per lui ormai impossibile comporre le sue tracce in modo diretto. Con l’eccezione di Marilyn Whirlwind, l’unico vero e proprio banger dell’album composto in un pomeriggio, tutte le tracce sono state costruite a più riprese lungo periodi di mesi e ogni volta disfatte, distorte e ricostruite. L’obiettivo, dichiara Stefan, era quello di elaborare e rielaborare le sue canzoni fino a quando non riuscissero a toccare quel luogo che si cela oltre il muro del già sentito. Il risultato è non solo un livello di produzione e di scrittura tecnicamente eccezionali, ma anche una sorprendente complessità emotiva. Ascoltando Magical Boy e My Plans, entrambe collaborazioni con Matthew Dear, è affascinante come i due musicisti riescano a mescolare beat uplifting e voci pitchshifted esprimendo al contempo gioia e confusione, speranza e malinconia. Quella di Koze resta una techno eterea, fortemente ancorata all’esperienza Kompakt. Non si può ascoltare Ich Schreib’ Der Ein Buch con Hildegard Knef senza ripensare alla ripresa dello Schlager (la canzone pop tedesca) con il campionamento di Dahlia Lavi da parte di Jürgen Paape nella sua So Weit Wie Noch Nie. L’album per giunta si chiude con il pezzo più bizzarro dell’album, NooOoo, costruito intorno al giro di basso del Canone di Pachelbel che nel mezzo di un lied emerge in versione electro-kitsch simile alla cover di Bach di Cornelius in 2010. Come DJ dall’esperienza decennale, Koze è consapevole dell’importanza dell’ordine delle tracce nella creazione di un mood. Se uno inizia con una traccia difficile o atipica, ci dice, tutte le altre risulteranno cervellotiche e pesanti. Per questo Stefan opterà per costruire un album che agevoli l’approccio dell’ascoltatore. L’album compie di propria mano l’operazione pedagogica per farsi comprendere ed è un lavoro che testimonia, in tutta la sua complessità, la grande individualità di Koze come artista. In Amygdala non vi è traccia di una ricerca delle nuove tendenze, dell’inseguire un sound o un pubblico ad ogni costo, ma solo la lotta sisifica di Stefan contro la mediocrità. (7.5/10) Antonio Cuccu

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DJ Koze - Amygdala (Pampa Records, Marzo 2013)


Genere: alt-pop I Fear Of Men cedono finalmente alle voglie di long-playing pur senza tradire il feticismo per il piccolo formato. Early Fragments, che affidano alla Kanine Records (Eternal Summers, Royal Baths, Bleeding Rainbow), è infatti una collezione di singoli e b-sides rilasciati dal 2011 ad oggi su cassette self e 7” ad edizione limitata per svariate altre label (Italian Beach Babes, Too Pure, Sexbeat), con l’aggiunta d’un unico inedito (Seer). Interessante la scelta di stendere la tracklist in ordine cronologico inverso: va a testimoniare che le doti, spiccate, c’erano già dal principio. Interessante come queste otto tracce, concepite per stare da sole, si ritrovino ad amalgamarsi naturalmente, per un sapore di compilation che resta soltanto vago. Il merito è di un sound che è già ben definito, tra chitarre squillanti e nenie lo-fi videodream accostabili a quelle dei montrealini TOPS, schermature in territorio The Chills, transizioni via drumming incalzante e sfuriate shoegaze che portano alla mente i grandi Curve. Il tutto accentato dalla bella voce della lead-singer Jessica Weiss, tanto simile a quella di Dolores O’Riordan dei Cranberries da aver già mandato in bambola la blogosfera cresciuta a pane e MTV Brand New e che senz’altro mieterà altre vittime; glorificato da un lirismo che ha radici nell’Accademia delle Belle Arti (da cui il progetto è sbocciato) e che cita con nonchalance i Salmi, la psicoanalisi freudiana e le lettere fra Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir (Ritual Confession), parla di afflizioni esistenziali, noie e tensioni amorose con aplomb morrisseyano, sa farsi crudo e persino violento (“I feed on your insides / I will digest you while you sleep”, da Mosaic) pur restando splendidamente pop. Non mancano i refrain killer a reclamare ascolti in repeat, ed è quindi chiaro come il quartetto di Brighton possa prendere posto nel cuore dei

delusi dagli ultimi Veronica Falls, che certo romanticismo classico (ma anche gotico) hanno abbandonato. Non solo: un successo importante quale quello dei cugini londinesi, con una buona dose di fortuna, potrebbe già partire da questo Early Fragments. Più probabilmente però, almeno fino ad un prossimo LP “proprio”, i Fear Of Men resteranno dominio di nicchia. Di certo c’è che una nuova ondata UK DIY nostalgica dei 90s (vedi anche: The History Of Apple Pie) si sta facendo sempre più pressante, ignorarla sarebbe non solo difficile ma anche stupido. (7/10) Massimo Rancati

Flaming Lips - The Terror (Bella Union, Aprile 2013) Genere: Psych L’imprevedibilità al potere, balzana e caustica, caciarona e ricercata, gioiosa e delirante, provocatoria e naïf, in costante equilibrio tra sperimentazione e goliardia. Vietato aspettarsi da un nuovo album dei Flaming Lips uno sviluppo ovvio del loro percorso. In questo senso, The Terror fa ovviamente quel che deve: ci spiazza. Ci sconcerta. Nove tracce di soul liofilizzato androide (Turning Violet), droni seriali eterei come bambagia di fall out nucleare (una You Are Alone che sembra provenire da un monastero di Andromeda), scossi talora da un impeto acido e indolenzito oppure screziati di elettricità brusca come lana di vetro (vedi soprattutto la chitarra funky che innerva Always There..In Our Hearts). Il canto di Coyne, una litania in (semi)falsetto come emulsione gospel in un acquario lunare, contribuisce a spandere un senso di disarmo pervadente, il timore della sconfitta dell’amore proprio nel momento in cui più ne avremmo bisogno. Per vivere e sopravvivere a noi stessi. Va individuato qui il terrore cui allude il titolo? Forse. Sarebbe la premessa ideale di queste melodie affrante, impegnate a covare un cucciolo di

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Fear Of Men - Early Fragments (Kanine, Febbraio 2013)


Stefano Solventi

Giuradei - Giuradei (Picicca Dischi, Aprile 2013) Genere: pop, italiana, Per la prima volta i fratelli Giuradei scrivono insieme, il lavoro tra l’autore Ettore e l’arrangiatore polistrumentista Marco confluisce dopo anni di collaborazione in un disco scritto a quattro mani.

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L’album, naturalmente intitolato Giuradei, è uscito a febbraio per Picicca Dischi e vanta la collaborazione del Jairo “Depedro” Zavala chitarrista dei Calexico, uno che nel disco lascia segni evidentissimi di passaggio radicando il lavoro in un territorio di folk rock molto preciso, avvicinabile negli intenti ad alcune linee della scrittura di Capossela. È un vero peccato che l’album rappresenti, in toto, un vero passo indietro rispetto a La repubblica del sole, terzo e precedente lavoro in studio di Ettore Giuradei. Ora i suoni risultano, nonostante il buon lavoro di produzione, appiattiti su un rigidissimo schema che vorrebbe dare vita alla commistione perfetta tra quel sound cabarettistico folk fatto di marcette e scioglilingua sonori (Mi dispiace amore mio, La sconosciuta) e quella radice rock che trova ad esempio ampio spazio in brani come Generale e Papalagi. Due cose, in questo disco, sembrano essere andate storte: la ripetizione senza tregua di certe sonorità che rende quest’album un loop di suoni e parole senza reali distinzioni di sorta tra i brani (ad esclusione della chiusura con Amami, una ballata), e soprattutto, una scrittura dei testi che non convince fino in fondo apparendo stranamente - vista l’esperienza già maturata da Ettore - claustrofobica, stagnante, eccessivamente autoreferenziale, di rado ricca di immagini convincenti. Qualcosa da salvare? Sì, la follia, le punte di estro improvviso che emergono qua e là nei pezzi, la percezione di una profondità emotiva autoriale che è pur sempre, al di là degli scivoloni, la matrice prima di chi fa Canzone. Non perdiamo le speranze, insomma. (5.9/10) Giulia Cavaliere

Godblesscomputers - Freedom Is O.K. (Equinox, Dicembre 2012) Genere: Hip Hop “It sounds like wood, metal and microchip”. Così

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speranza fragile (una Bee Free, A Way che chiama in causa gli Air più lirici e valvolari, i Beach Boys industrial-ambient della title track), a cullarti in una sparsa, dolciastra malinconia (come in Try To Explain - liturgia robotica Jason Lytle in fregola Current 93 - o nella più mossa Look..The Sun Is Rising, tipo i Depeche Mode solarizzati Eno). Una proposta del genere non poteva non pagare doveroso pegno ai Kraftwerk (le pulsazioni motoristiche ed il riff reiterato di You Lust) e strizzare l’occhio ai Radiohead della svolta sintetica (nell’inquietudine madreperlacea di Butterfly, How Long It Takes To Die), senza tuttavia perdere il contatto col proprio repertorio, perché è abbastanza chiaro che i precedenti di questi pezzi stanno negli episodi più diafani di The Soft Bullettin (What Is the Light?) o nei cromatismi radianti di Yoshimi. Possiamo sottolineare forse un po’ di fiacchezza sul versante delle melodie, tutte piacevoli però quasi mai toccanti e magari un po’ ripetitive, come se fossero un puro pretesto per confezionare - assieme al compagno di merende lisergiche Dave Fridmann - questi ordigni post-sintetici. The Terror resta comunque un’altra tappa - la trentesima! - importante del patafisico percorso flaminglipsiano verso la loro personalissima idea di pop assoluto, celebrata idealmente con una bonus track (Sun Blows Up Today) quanto mai ipercromatica, esplosione wave-psych dinamica e orecchiabilissima di germogli Sessanta, Ottanta e oltre. (7.1/10)


Filippo Papetti

Gravetemple - Ambient/Ruin (Mego, Aprile 2013) Genere: black metal drone Nella sequenza confusa e post-tutto a ridosso del cambio di secolo, lo spazio di evoluzione delle musiche estreme si era fatto così stretto da lasciare pochissimi territori da conquistare. Uno fra questi era quello del meta-genere, un am-

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biente dove era possibile riflettere sul metal, non come palestra di suoni muscolari o decadenti, ma piuttosto come centro filosofico e spirituale, con un’attenzione particolare all’iconografia di genere come nuova figurazione simbolica popolare. Stephen O’Malley sedeva allo stesso tavolo con gli altri metalheads, ma sapendo benissimo di essere quello strano, quello che ad un certo punto si è alzato da tavola e si è fatto il suo giro. Che i Sunn O))) siano diventati rapidamente un modello è un effetto collaterale che è andato di pari passo con il recupero del black metal da parte della comunità noise, e da qui la messe di progetti e dischi di spessore assai dubbio, che sono la testimonianza storica di quanta gente ci resti sotto, quando si tratta di seguire mode e tendenze. Di tutto questo ragionamento, quello che qui interessa è notare come il discorso intrapreso da O’Malley, non solo non si limiti al progetto madre, ma trovi un viatico fondamentale nei progetti collaterali come KTL, Aethenor e i qui presenti Gravetemple, perché è proprio tramite la commistione di genere e la collaborazione con altri musicisti che il sound di O’Malley viene portato alle estreme conseguenze. Quella dei Gravetemple doveva essere una questione estemporanea, ma come spesso accade, il successo dell’operazione ha convinto i suoi creatori a perseverare. Gli autori in questione, oltre a O’Malley, sono Attila Csihar dei Mayhem e Oren Ambarchi. Un primo disco nel 2007 su Southern Lord, The Holy Down, diceva di una formazione che riusciva a dare spazio organicamente ai diversi elementi portati da ciascuno. Il growl cadaverico di Csihar, la grammatura livida e spessa dei drone di O’Malley, il field recording liquido e creativo di Ambarchi. L’anno successivo, con l’aggiunta del batterista Matt “Skitz” Sanders, la formazione si imbarcò in un tour mondiale, trovando il modo di registrare nuovo materiale che andò a comporre Ambient / Ruin, cdr senza troppe pretese da

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Godblesscomputers definisce la sua musica, e in effetti il paragone regge, poiché siamo di fronte a una specie di dubstep organica che sembra prodotta da un cyborg perso nel Walden di Henri David Thoreau. Giunto al suo primo vinile, un dieci pollici prodotto dalla tedesca Equinox Records - dopo una serie di ep in free download -, Godblesscomputers, al secolo Lorenzo Nadalin, sposta in alto l’asticella con un lavoro di notevole fattura, intrigante sotto tutti i punti di vista. Sei tracce nella versione vinilica, sette in quella digitale. Fuori Summer Fever e dentro due remix di Green Flower, il primo ad opera di B-Ju, e il secondo di Digi G’Alessio, con la solita grandiosa smaragliata tutta kick 808 e gioco di pitch sul sample vocale. Una mina, insomma. Molto diversa la versione originale, che invece è un po’ la summa dello stile di Lorenzo: background hip hop, trascorsi berlinesi, arrangiamenti impeccabili e una visione propria - molto estetizzante dell’elettronica più in voga di questi tempi. Gli altri brani si muovono più o meno sulle stesse coordinate, tranne Fire Extinguisher - con la brava Francesca Amati degli Amycanbe - che è un brano melodico molto Germania primi anni Duemila. Concludo segnalando Lost In Downtown, un divertente ep di remix dei Beastie Boys che Godblesscomputers ha fatto uscire in questi giorni per FreshYo! Label, a conferma di un talento multiforme e in grande crescita. Sono maturi i tempi per un album ufficiale. (7/10)


Antonello Comunale

Hardcore Superstar - C’Mon Take On Me (Nuclear Blast, Marzo 2013) Genere: Sleaze Rock Nella cartella stampa lo chiamano street metal, inconto tra la velocità e l’arroganza del trash (già filtrato dal nu-metal) e la melodicità catchy e de-

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cadente dello sleaze rock. Figli bastardi di Mötley Crüe, Aerosmith, Poison e compagnia capelluta, i quattro svedesi, va detto, sanno come ci si diverte, sempre dritto con la propia idea guascona, glam e sensuale di rock’n’roll. Una sostanza che per sua stessa conformazione non ha nessuna intenzione di cambiare coordinate, rivolta com’è a un popolo di affezionati piuttosto numeroso e poco avvezzo alle sorprese, ma che in questo nono album si fa un tantino più patinata e mainstream rispetto al passato. Ad ogni modo, in C’Mon Take On Me si corre come treni, assoli heavy-blues, cori anni ottanta e bandane al polso, il tutto messo insieme con mestiere, dagli arrangiamenti ariosi alla produzione cristallina e potente. Già dalla titletrack, non si può non riconoscere il carattere e la grana esplosiva del truccatissimo vocalist Jocke Berg, così come il riffing possente e la perizia tecnica che rendono più che credibile l’intero album, dalle armonie grunge della ballata Stranger of Mine, fino al singolo One More Minute, sorta di amplesso in autostrada tra Doro e Bon Jovi mentre alla radio passano Lynyrd Skynyrd e Marilyn Manson. Tutto ciò non è però sufficiente a rendere questo lavoro intellettualmente appetibile (soprattutto per la mancanza di idee realmente brillanti), facendolo assomigliare più a una ragazza molto avvenente, dalle forme piene e la risata facile, ma ahimé semplice di pensiero e volgare nei modi. Questi sono gli Hardcore Superstar, ieri come oggi; una macchina scappottata per divertirsi, una bottiglia di Jack Daniels e un culo fasciato in un paio di hot pants. Prendere o lasciare. (6.2/10) Antonio Laudazi

Hervé - The Art of Disappearing (Cheap Thrills, Marzo 2013) Genere: electronica Capire se i cambiamenti radicali nelle scelte stilistiche degli artisti siano frutto di pura ispirazione

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vendere ai concerti. Ora Mego dà una lucidata e ristampa su doppio Lp un lavoro che, a dispetto del suo taglio minoritario, riesce ad inquadrare i Grevetemple meglio di quanto non faccia The Holy Down. Nel trasferimento su vinile le sei parti del demo originale vengono disposte sui quattro lati del disco, regalando un ascolto per forza di cose più profondo. Il lato A raccoglie probabilmente la quintessenza dell’avant metal anni 2000 ed è esemplificativo di tutto il disco. È materiale che farebbe storcere anche il metal head più aperto di vedute. La costruzione è radicale nella sua messa in scena: chitarra ultra processata al mixer che non conserva più nulla della sua innata carica discorsiva; il paesaggismo anarcoide e drogato dell’elettronica di Ambarchi che va alla ricerca di geometrie inedite con l’inserto geniale di elementi del suono natuale, trovati e riprocessati, mentre Attila Csihar salmodia malevolo secondo un canone che si incardina lungo coordinate ancestrali e prossime alla tradizione del teatro No giapponese, a cui allude inserendo anche elementi registrati sul monte Fuji a Kamakura. È musica che non conserva nulla o quasi delle proprie origini e che trova la propria ragion d’essere nelle soluzioni inedite che si vengono a creare dalla giustapposizione organica dei singoli elementi. Dubito che i Gravetemple saranno mai sulle copertine di Kerrang o Terrorizer, ma è da qui che nasce il metal del futuro, anche nelle sue formule più commerciali. (7.5/10)


Genere: New wave of garage Bisogna partire da due idee per presentare Traxx - The House That Garage Build, due pensieri strettamente legati tra loro: il primo è che davvero si può affermare come principio base che non sempre il nuovo è davvero nuovo, molto spesso il nuovo è ripescaggio, rielaborazione del passato; il secondo è che una compilation dovrebbe servire a sintetizzare un tempo musicale, a marchiare con la cera lacca un punto, un genere, una moda musicale, e per farlo deve cercare di essere più consapevole possibile. Il concept della compilation in uscita su Needwant è chiaro e dichiarato fin dal titolo: si ripete e si ricrea l’atmosfera che generò l’ondata garage nel Regno Unito a metà degli anni Novanta. Si parte dal Jersey sound inventato da Tony Humpfries e Todd Edwards intorno al ‘93 e si rielabora tutto in chiave house. Nel disco non c’è un pattern “cassa frusta” perché parliamo della prima ondata garage, quando ancora la sezione ritmica derivava da un solido 4X4 e il lavoro era fatto sui synth marcatamente soul&gospel e sul basso ovattato. Da non confondere con il basso Roland, qui poco presente. Si potrebbe bollare il tutto come un’operazione nostalgia ma sarebbe un errore: nelle 16 tracce, tutte appartenenti alla fine del 2012 e l’inizio 2013, c’è il meglio del meglio del suono che si balla in questo momento nel Regno Unito, vera e propria heavy rotation trasmessa e ritrasmessa da tutte le radio U.K. (Rinse FM su tutti). Sono presenti i Disclosure con Boiling, il loro pezzo più marcatamente jersey; fa capolino George Fitzgerald from Hotflush Records con quella Child suonata e risuonata da ogni dj; si affaccia il duo London made Dusky (Flo Jam) e timbra il cartellino Breach con quello che è stato il tormentone dance brit di tutto l’autunno scorso (You Wont find love Again), tra l’altro ancora suonatissimo. Di contorno altri nomi suonatissimi come i Munich youngsters Rhode & Brown o quel Michael Dodman in arte Huxley (Can’t Sleep) vero e proprio garage lover - già presente sulla Rinse21 firmata T.williams e vicino all’orbita Rob Da Bank - che, in coabitazione con Maya Jane Cole e il suo Dj Kicks, è considerato il precursore di questo nuovo genere chiamato/richiamato house-garage. Needwant (label londinese di chiara impronta house) centra un 10/10 dalla fossa olimpica e, dopo le fortunate produzioni di Mario Basanov e la fortunatissima serie Future disco, sfiora il senso di perfezione che una compilation dovrebbe avere, secondo i comandamenti biblici dettati dall’Hornby di Alta Fedeltà. (8/10) Mirko Carera

o il risultato di freddi calcoli economici non è mai facile. Se il soggetto in questione risponde al nome di Joshua Harvey in arte Hervé, la soluzione all’enigma si fa ancora più ostica. Dopo aver pompato e remixato quattro quarti

disco-oriented per mezzo decennio, il londinese classe 1980 abbandona tutto il frangente più truzzo (fidget-step-house) della musica elettronica per dedicarsi ad un progetto più ricercato che preferisce fare perno sulla cura dei dettagli

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George FitzGerald/Disclosure - Traxx - The House That Garage Built (Needwant, Marzo 2013)


Riccardo Zagaglia

HK119 - Imaginature (One Little Indian, Marzo 2013) Genere: elettro rock Dietro il nome d’arte di HK119 si nasconde Heidi Kilpeläinen, musicista multimediale finlandese che sarebbe rimasta limitata ai confini naziona-

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li se qualche anno fa Björk non l’avesse eletta artista preferita, gettando inevitabilmente su di lei numerosi riflettori. Come in molti casi analoghi, non ultimo Plannintorock, HK119 è un tipo di progetto che fa della performance live - dove incorpora frammenti di video arte, danza, design di luce e lavoro sui costumi - la ragion d’essere, ed è per questo che trattare il terzo disco Imaginature solo sul piano della musica appare fin troppo riduttivo. I termini di paragone sono quelli tipici, quindi Laurie Anderson ovviamente, ma anche importanti analogie con maestri della messa in scena rock, come Peter Gabriel o David Bowie e progetti elettro con qualche affinità elettiva come Leila e The Knife. Da qui arriva Snowblind, primo singolo del disco, che affoga in un mare di cose già sentite altrove, tra synth, ritmi dance, campionamenti esotici e finanche un ritornello che evoca la Skyfall di Adele! Imaginature è quindi uno zibaldone di elettro-rock e di tutte le sue chiavi più consone, dalle voci filtrate (Hide, Iceberg), allo spleen pop-dance a là Depeche Mode (Whale, Milky Way, Spring, Rain), ai tappeti paranoici di synth (Adailson, Moss), il tutto orchestrato dal maestro del genere Christoffer Berg, l’uomo dietro la produzione di Little Dragon e Fever Ray. (5/10) Antonello Comunale

Hurts - Exile (Sony BMG Music Entertainment, Marzo 2013) Genere: synth-pop Li aspettavamo al varco, gli Hurts. A tre anni di distanza dal fortunato debutto Happiness, che li ha fatti conoscere come abili artigiani di canzoni synth-pop patinate (attingendo anche dall’Italo disco, già apprezzata in Inghilterra da quei Pet Shop Boys che stravedono per I Like Chopin e che inclusero Don’t Cry Tonight di Savage nel loro doppio volume della serie Back To Mine), Theo Hutchcraft e Adam Anderson tentano di fare di

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invece che sul ritmo. Si intitola The Art of Disappearing, esce per la sua Cheap Thrills e purtroppo ha l’aria di un tentativo in parte fallito: la presenza di Katie Stelmanis (Austra), Niki and The Dove e Maria Minerva tradisce uno sforzo ben mirato verso la ricerca di hype-acts nel ruolo di supporto vocale. Katie e il suo timbro operistico approdano nella spettrale Save Me (uno degli apici del disco che suona come se gli Austra abbandonassero gli anni eighties), valido anche l’hypnagogic-triphop in compagnia di Maria Minerva (Gold), mentre colpisce meno il pasticciato feat con il duo svedese (Mother Protect). Altra guestata “di lusso” è quella dei Seasfire in Loose Control: i quattro bellocci di Bristol modellano territori a cavallo tra pop e Weeknd-r&b. Nelle restanti cinque tracce prive di guestate canore, Hervé cerca di stare al passo con i tempi impastando post-hop, slow-beats e oscurità Tri Angle, ma le intuizioni più interessanti le troviamo in una sorta di effetto electro-gaze presente nell’iniziale Bears - come se Shields tagliasse a metà corpose battute glo - e nel mood astratto e deviato di Red Tractor. Skip facile per le stantie epicità di Mountains e Worry Crow. Hervé cambia pelle, ma suda sette camicie per trovare un filo conduttore che unisca, contestualizzi e che dia un senso di compiutezza all’opera. The Art of Disappearing infatti per il momento non va oltre il semplice diversivo, ma Joshua Harvey dimostra comunque una versatilità da sviluppare al meglio in futuro. (6/10)


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Exile è un passo di lato, più che un passo in avanti: gli Hurts hanno fatto bene a non fissarsi su una formula - stavolta c’è un suono corposo di una vera band - ma è fondato il sospetto che la casa discografica li abbia condizionati troppo. Arrangiamenti meno soffocanti avrebbero permesso ad alcune canzoni di spiccare il volo; si spera che con il terzo disco Theo e Adam riescano a forgiare un proprio sound, capace finalmente di identificarli. Al momento resta tra le mani un disco che inanella alti e bassi e che non riuscirà a far cambiare idea a chi già al primo appuntamento nutriva perplessità sulla proposta. (6.3/10) Alessandro Liccardo

Il Fieno - I bambini crescono EP (Autoprodotto, Gennaio 2013) Genere: wave-pop I quattro de Il fieno (Gabriele Bosetti, Edoardo Frasso, Alessandro V. e Momo Riva) confezionano un secondo Ep - dopo l’omonimo uscito nel 2012 - con cui tratteggiano una wave-pop vagamente Strokes (La Quiete) orecchiabile ma non banale. Di gruppi sul genere è piena l’Italia, è vero, ma i Nostri riescono nell’impresa di suonare friendly, talvolta malinconici, senza sminuire lo spessore di una musica che cerca qualche significato più profondo di un facile ammiccare giovanilistico. Chitarre pulite e in fibrillazione, battere deciso (L’età del bronzo), basso adrenalinico, qualche declinazione vagamente beatlesiana nelle armonie e una cover della Vincenzina e la fabbrica di Jannacci che forse spiega più di tante parole. Il risultato per ora non dispiace, ma tutto è da testare sulla lunga distanza. (6.4/10) Fabrizio Zampighi

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nuovo breccia sul grande pubblico con Exile. Il disco celebra il lato positivo e quello negativo della solitudine: se da una parte ci fa sentire persi, dall’altra ci può far ritrovare una nuova dimensione. Si amplia lo spettro delle influenze, grazie a sonorità talvolta più dure e complesse - evidenti soprattutto nella parte centrale del lavoro, tra il mood apocalittico di The Road (tra Recoil e Nine Inch Nails) e una Cupid che porta le chitarre in discoteca (quasi fosse una Martyr dei Depeche Mode meglio riuscita) - e allo stesso tempo si cerca di raggiungere un nuovo pubblico con contaminazioni, va detto, non sempre felici. Pare di ascoltare Matt Bellamy dei Muse nella title track, e il primo singolo Miracle è un inno da stadio che ci riporta dalle parti dei Simple Minds di Good News From The Next World; il synth-pop scintillante c’è ancora e funziona - lo si nota in Only You (come se gli Erasure si affidassero alle cure di Schiller), con un riff chitarristico che omaggia di sfuggita Feels Like Heaven dei Fiction Factory - ma a macchiare il risultato finale pensano la pasticciata Sandman, che vuole far andare per forza d’accordo ritmi hip hop in stile Neptunes e voci bianche distorte, e certi coretti di Blind che risulterebbero di grana troppo grossa persino per Rihanna e gli ultimi Coldplay. La voce di Theo è calda ed espressiva e non è escluso che la romantica The Crow (che abbiano voluto riscrivere Wicked Game di Chris Isaak?) risalti meglio in una dimensione live; così come la successiva Somebody To Die For, possibile hit single con una produzione opulenta che strizza l’occhio tanto al Trevor Horn degli anni d’oro quanto a Lana Del Rey (non è un caso che, accanto a Jonas Quant e a Mark “Spike” Stent, ai posti di controllo ci sia anche Dan Grech Marguerat, all’opera proprio con lei). Non poteva mancare neanche stavolta la guest star di lusso: nel 2010 era il turno di Kylie Minogue, qui invece è Elton John ad accompagnare i due al piano nella conclusiva Help.


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Iron & Wine - Ghost On Ghost (Nonesuch, Aprile 2013)

Genere: Heavy drone Denso, dark, psichedelico. Ritorna il sound vigoroso degli Implodes di Chicago. Quartetto di illuminati - Ken Camden, Matt Jencik, Emily Elhaj, Justin Rathell - che rinnova la stagione del chitarrismo acido mediandolo con una visione delle cose che è risolutamente aggiornata al canone dei tempi. Che sono bui, paranoici, ansiosi. L’intro strumentale di Wendy 2, con la sua ritualità gotica, dà il tono a tutto il disco e stabilisce un punto di contatto con il precedente Black Earth. In apparenza poche cose sono cambiate: le chitarre trattano la melodia con la stessa curvatura metallica dell’esordio, ma non la coprono, anzi, né amplificano l’eco. La fenomenale Scattered In The Wind nasce quindi al crocevia tra Jesu e Sisters Of Mercy, con tanto di allucinato finale dal sapore prog che lascia il campo al vocalizzo monastico di Sleepyheads. A completare la trilogia introduttiva, l’incalzante Necronomics, che piega effetti e pedali verso un tour de force epico. Ken Camden non è solo un metal head sotto mentite spoglie. Si ricorda di essere un estimatore della tradizione kraut ed episodi come Zombie Regrets e Dream Mirror sono li a testimoniarlo. Eppure non tutto funziona a meraviglia. Recurring Dream inciampa, soprattutto nel finale, in un numero sensibile di giri a vuoto, ovvero episodi dal sapore incolore, incapaci di decidere se prendere la strada più propriamente metal o una via di mezzo tra una qualunque formazione post-rock di inizio decennio e qualche discepolo kraut dell’ultima ora. E forse non è un caso che episodi incerti come Ex-Mass, Melted Candle e Bottom Of A Well stiano proprio nella seconda parte del disco. Giudizio, per il momento, sospeso. Gli Implodes sono capaci di scrivere pagine importanti, ma anche inenarrabili ciofeche. Aspettiamo il prossimo episodio. (7/10)

Genere: Folk Due anni fa Kiss Each Other Clean aveva fatto storcere il naso ai puristi del folk: troppo lontani dalla tradizione gli arrangiamenti che andavano a pescare nell’etno e nel blues, in un mescolamento trasversale che non trovava pari nella cultura dei white guys with beards, al contrario di quanto succedeva nel più ampio massimalismo major indie à la Sufjan Stevens e M83. Un incasellamento forse più legato a un’operazione della critica che a una voluta scelta artistica, ma che di fatto si è oramai cristallizato. Ghost On Ghost è la conferma che per Iron & Wine la direzione intrapresa era quella che si voleva perseguire, senza che ciò comportasse necessariamente rinnegare le radici. Il disco risulta così ancor più bandistico e prodotto del predecessore, avvolto in una tavolozza ampia di sentori e stratificazioni, tanto che è naturale vedervi un passo verso un pubblico ancora più vasto, maggiormente pop e meno letteralmente - indie. Se il compito dei critici fosse giudicare le scelte artistiche, invece dei risultati che queste comportano, dovremmo forse far rientrare il nostro discorso in quello di coloro che, forse più da fan che da professionisti, hanno scelto di dividere il campo tra “puro” e “impuro”, tra ciò che è accettabile in nome di una aderenza alla tradizione (e a una cultura musicale) e quello che non lo è e si presenta sotto forma di ammiccamento al radioplay, al mainstream e al pop inteso in senso almeno parzialmente dispregiativo. A questa divisione dello spazio critico in campi contrapposti, che crediamo non sia direttamente il compito di chi scrive di musica, preferiamo un discorso prettamente ancorato alla concrezione dell’arte (in questo caso l’album e le canzoni che esso contiene), lasciando che lo spazio della biografia dell’esecutore e dell’autore siano elementi di contestualizzazione e non punti sostanziali del

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Implodes - Recurring Dream (Kranky, Aprile 2013)


Marco Boscolo

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Justin Timberlake - The 20/20 Experience (RCA, Marzo 2013) Genere: r ’n’b, soul, pop Terzo album per l’ex ‘N Sync - ma ha ancora senso citarli? - in 11 anni di carriera solista, a ben 7 dall’exploit di Future Sex / Love Sounds (2006), disco che aveva convinto pubblico e critica con brani di grandissimo impatto - produzioni di Timbaland e del suo protegé Danja - come il singolo What Goes Around... Comes Around, con annesso vero e proprio videoclip-colossal starring la femme fatale Scarlett Johansson. Lo iato si spiega facile: con la costruzione di una carriera cinematografica sotto gli occhi di tutti - Justin al centro di film capaci di unire autoralità e botteghino come Alpha Dog, Black Snake Moan, The Social Network, o di strane creature come il Southland Tales di Richard Kelly - e con mosse imprenditoriali grosse e coraggiose come l’acquisizione del praticamente defunto Myspace per 35 milioni di dollari (2011). Il nostro non è però scomparso dalle charts, mettendo voce e faccia in pezzi sempre patrocinati dallo zampino di Timbo come Until the End of Time (2007) di Beyoncé e 4 Minutes (2008), uno dei migliori pezzi dell’ultima Madonna, e un ritorno solista in grande stile - streaming esclusivo su iTunes, un video girato da David Fincher ancora nel cassetto - non poteva che ripartire da lì. Justin continua il lavoro sulla tradizione e sulla sua attualizzazione in senso now pop (e quindi black), con le orecchie puntate al funky di Prince, al Michael Jackson di Quincy Jones, al soul materialista e ascensionale di Marvin Gaye. Confezione da urlo, non c’è storia, suoni croccanti e golosi, con Timbo ben piantato in regia, per un disco di pezzi lunghi - divisi tra prima parte con esposizione della song vera e propria e seconda con suo “remix incorporato”, giocando con la plasticità della parte squisitamente musicale - in cui il nostro srotola tutta la godibilità dell’entertainer con pretese arty che è.

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nostro discorso. In questo senso Ghost On Ghost ci appare come un discorso altrettanto alto, completo e riuscito del precedente. Lo ribadiamo: siamo lontani, come sottolineava il nostro Solventi due anni fa, dal capolavoro (forse irripetibile) di The Sheperd’s Dog, ma siamo comunque su di un piano di raffinato cantautorato folk-blues-etno-pop che forse non conosce rivali in questo momento storico, pur avendo avi illustri come il Paul Simon degli anni Ottanta. I fiati, talvolta anche con tocchi jazzati (Lover’s Revolution), sono una costante che dà colore a tutto il disco, aiutando a creare le atmosfere ora bucolico-psych (Joy) o urbansoul (Low Light Buddy Of Mine), ora gospel-folk da call&response (Singers And The Endless Song) o West Coast in quota Beach Boys (Grace For Saints And Ramblers). I brani filano via in eleganza e scorrevolezza come figli di una penna colta, attenta e divertita. Ogni suono, ogni scelta di arrangiamento, ogni dettaglio attinge a un immaginario musicale (e non solo) che fa parte del DNA della tradizione americana e, in generale, della storia del pop di tutti i tempi, da Tin Pan Alley al bedroom pop dei duemila. E quindi anche della nostra di fruitori musicali. Ascoltando le dodici tracce sarà inevitabile andare a cercare il riferimento a Stevie Wonder, agli Steely Dan, ai Calexico, a Van Dyke Parks, agli anni Trenta come ai Settanta. Li ritroveremo tutti, divertendoci, ma forse senza sorprenderci mai davvero. E questo forse è il limite maggiore di questa scelta più ampia ed ecumenica operata da Sam Beam: per parlare a un pubblico allargato, si rende la musica più pop(olare). (7.3/10)


Genere: soul / elettronica L’artista più hypato del 2011 - amato, osannato, odiato, snobbato - continua il suo percorso di cantautoralizzazione dell’elettronica post-dubstep. È il secondo difficile album eccetera, e Blake svolge il compito facendo definitivamente dei modi dell’esordio stile. Ancora canzoni ridotte all’osso, ancora qualche tocco di piano, qualche tastiera fuzzata e satura, sottili scheletri elettronici (del dubstep resta solo il taglio arty disegnato dai lavori pre-album). Sono lacerti di canzoni - la sensazione è quella del ritornello infinito; del loop vocale, anche se cantato; dell’a cappella, anche laddove non c’è la voce sola - ma perfettamente impaginati, con quei saliscendi morbidamente spigolosi ormai veicolo di una cifra autorale e interpretativa cristallina, sempre a un passo dallo sdilinquimento, ma mai oltre. La voce è in chiaro, nessuna vocoderizzazione alla Imogen Heap (vedere Unluck e Lindisfarne nel primo album), se già quel falsetto è di per sé alterazione, trasfigurazione, firma. Blake è solo se stesso, nonostante tutti gli influssi del mondo esterno intellegibili, a partire dalle lyrics, con l’intreccio musica-successo-relazioni (I don’t wanna be a star / But a stone on the shore / Long door, frame the wall / When everything’s overgrown / But what she really really wanted was my rights in the rooms / And I wouldn’t understand that I would try to play along; sintetizza l’epica title track in apertura). Dai generi e dagli stili tirati in ballo (l’r’n’b TLC di Life Around Here; l’hip hop via rappato di RZA di Take a Fall for Me, con un sample Moby-Play a puntellare le strofe; il ragga stilizzato Africa Hitech di Digital Lion, prodotta da Brian Eno; la disco-house virata glitterbeat-schaffel di Voyeur; il fantasma Jeff Buckley-Hallelujah di To the Last). Dal lavoro di gestazione del disco, concepito - pare - con advisor emblematici come Kanye West, Björk e ovviamente Bon Iver. Ecco, di tutti i diversi mondi musicali incarnati da questi artisti Blake riesce a fare sintesi, rendendoli leggibili ma sempre e solo in trasparenza, come aroma, retrogusto, sfondo. In primo piano c’è solo lui con la sua creatura, questo gospel post-qualcosa, sempre più umano, sempre meno androide, sempre meno post- in fondo (DLM, con quel misto di chiesa e di Natale, come già per Measurements). Dimenticate l’hype, dimenticate i live un po’ dimessi e assai meno cesellati rispetto alle registrazioni, gli EP per battere il ferro ancora caldo, i dj set interrotti dal tasto eject del player, i divertissement firmati Harmonimix. Qui c’è un autore riconoscibile e solido che non pretende da se stesso meno di quello che può dare. Per capirci, quel capolavoro che è il singolo Retrograde è tutto tranne che una perla isolata. Non c’è un pezzo fuori posto, non una nota in più, in questo disco se non amaro sicuramente amareggiato, gloomy, che sembra lasciare da parte, nonostante la carica soul, quelle aperture oltre la nebbia che si ravvisavano nell’esordio. Blake è cresciuto, ma non troppo, adesso è semplicemente maturo. Oltre la linea d’ombra. (8/10) Gabriele Marino

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James Blake - Overgrown (Universal Republic, Aprile 2013)


Gabriele Marino

Kate Nash - Girl Talk (Have 10p Records, Marzo 2013) Genere: pop-rock L’ha fatto davvero. Kate Nash ha gettato tutto all’aria. Del resto ci aveva avvertito, sia col nuovo look a mezza via tra Crudelia De Mon e una suicide girl, sia con le dichiarazioni su quanto il terzo album fosse stato ispirato dall’immaginario Riot Grrrl. Ovviamente le avevamo creduto fino ad un certo punto: di colpo di spugna dettato dalla passione per grunge ed alt-rock “rosa” s’era

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già parlato, pur senza veri e propri riscontri, per il precedente My Best Friend Is You (2010). E invece anche il Death Proof EP, la non-album track Under-estimate The Girl e la cover di Cocaine dei Fidlar non erano soltanto pose posticce. Scaricata dalla label e dal fidanzato (Ryan Jarman dei Cribs), Kate Nash è scoppiata. È volata a Los Angeles e, basso alla mano, col supporto di una sgangheratissima all-female band (puntualmente battezzata Girl Gang) e il mai celato femminismo che non si tiene più, ha posizionato - questa volta davvero - le adorate Hole e L7 sul piedistallo. A suon di distorsioni, di urlacci e cori simil-Dum Dum Girls (Cherry Pickin), di naturali inflessioni garage (Sister, All Talk) e surf-rock (Death Proof), ha nascosto sotto il tappeto le piano songs in zona Regina Spektor, si è persino scrollata (quasi) del tutto di dosso gli asfissianti paragoni con “la maledetta” Lily Allen. Ha fatto il disco che, in fin dei conti, ha sempre voluto fare. E non le è venuto nemmeno così male. Girl Talk, è chiaro, lascia in braghe di tela il pubblico d’ordinanza della ex-rossa britannica, ne assottiglia le fila fino allo zoccolo duro - ormai anch’esso, plausibilmente, perlopiù al femminile - che l’ha finanziato via crowdfunding. Non stupisce, insomma, che su Youtube e social network impazzino i commenti sulla falsariga di “I miss the old Kate”. E, per la verità, la Nash di Made Of Bricks (2007) manca anche a noi: gli episodi che più ci convincono sono, non a caso, proprio quelli che mediano con la formula confessionale che ha reso celebre la nostra (OMYGOD!, 3AM), risultando come più caratteristiche varianti all’odierna, dilagante standardizzazione del revival 90s. Eppure, in veste di critici a focus indipendente, non possiamo fare a meno di compiacerci per la mossa in ribellione alle logiche di mercato; per quello che è, con ogni probabilità, uno sconsiderato suicidio di carriera. Di più: se una cospicua parte della proposta non è, in fondo, peggio di quanto ci venga regolarmente recapitato dai vari

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Suit & Tie, il primo singolo, comincia come un pezzo al ralenti di Erykah Badu e poi scoppia pop! - contagiosa con un occhio al vintagismo Sixties del miglior Mark Ronson (The Bike Song); il feat di Jay-Z è più questione di presenzialismo e scambio di favori che altro, ma il brano nel complesso è irresistibile, anche quando lo senti in filodiffusione alla Conad mentre fai la coda e vorresti non essere mai nato. In mezzo a riempitivi di lusso o a pezzi di seconda battuta più artigianato industriale che sostanza - come la panoramica opener Pusher Love Girl, Strawberry Bubblegum (con citazione di Everybody Loves The Sunshine di Roy Ayers e coda latin/samba), la ballad Spaceship Coupe, l’elegiaca conclusiva Blue Ocean Floor (tutta suoni in reverse) - ancora grandi momenti pop, con la psichedelia di Tunnel Vision (tutta tastiere liquide e archi a incrociarsi), l’affondo analogico di That Girl (con uno splendido bridge in accelerazione), la festa afro di Let the Groove Get In (con loop rubato a un disco ethno della Nonesuch) e il ricordo della boy band era che fu di Mirrors, secondo singolo, ispirato alla moglie Jessica Biel e costruito su un inciso doc. Vedremo se davvero, come si dice in giro, uscirà una seconda parte del disco a novembre. Intanto, qui c’è una manciata di pezzi costruiti ad arte per scaldare il 2013. (7/10)


Wavves e Best Coast, allora ci sentiamo persino di incitare Kate al prosieguo dell’autodistruzione. Magari con un prossimo cambio d’abito - ce ne dà un possibile snippet in Rap For Rejection all’insegna dell’hip-hop “internettiano” à la Kitty Pryde (la Taylor Swift del rap game, quella della virale Okay Cupid). Ci avrebbe - forse - di nuovo tutti dalla sua parte. (6/10) Massimo Rancati

Genere: nu-french touch Kavinsky arriva al full dopo vari EP e remix per la Record Makers dell’amico Mr. Oizo. La sua è una french-house caciarona con qualche tocco di fidget e troppi laser anni ‘80 che andavano di moda qualche anno fa, quando i Justice spopolavano con il loro esordio e la Ed Banger innovava con un sound unico. Oggi che la carica è passata, le visioni retrofile del Kav sono quantomeno inopportune. Con questo disco Vincent Belorgey fa la figura di certe meteore anni ‘80 durate lo spazio di un solo singolo e poi esplose. Nessuno più si ricorda di loro, se non a qualche revival party per nostalgici fuori tempo massimo. Kavinsky è e sarà sempre “quello della colonna sonora di Drive”: infatti l’unico pezzo degno di nota è Nightcall, tratto proprio dalla OST del suddetto cult movie. Per il resto si raccolgono idee stantìe già riproposte in mille remix (Testarossa Autodrive) o si va a parare su sonorità da videogame progressivo (Deadcruiser), che dovrebbero simulare il buon vecchio arcade della Sega che dà il nome al disco. Il concept potrebbe andare anche bene, ma l’uso di una palette limitata sia sul piano della strumentazione che su quello degli arrangiamenti (siamo sempre lì a pompare il crescendo con accordi minori e stop and go e niente di più), creano imbarazzo più che valore aggiunto. Per finire,

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Marco Braggion

Lisa Germano - No Elephants (Badman, Marzo 2013) Genere: cantautorato Continua il buen ritiro nella propria casa, per una Lisa Germano sempre più solitaria, circondata dagli amati gatti e lontana da una mondanità che l’ha sempre tenuta a distanza. Nono disco della carriera, edito sulla piccola Badman, dopo l’uno/ due su Young God che qualche anno fa la fece riscoprire tanto ai nuovi ragazzi del 2000 tanto a quelli che se l’erano persa nei ‘90, con questi ultimi vergognosamente in maggioranza! L’involuzione segnata dai precedenti In The Maybe World e Magic Neighbor continua a colpire, portando la musica della Germano, mai come in questo caso, verso la quasi totale inconcludenza. Spiace dirlo, per un’artista enormemente importante per chi scrive e per la storia del cantautorato più creativo, capace di piegare generi e convenzioni con almeno quattro capolavori assoluti, ma a paragone non solo del suo catalogo, ma anche della media delle produzioni contemporanee, siamo ben al di sotto della sufficienza. Gli arrangiamenti che, anche dopo la conversione minimalista di Liquid Pig, erano sempre stati il suo tocco di genio, sono ormai gesti veloci e sciatti su una tela tirata via senza troppa convinzione, e c’è continuamente una palese sensazione di approssimazione - come se nella sua inedia pomeridiana, in fondo in fondo, non ci credesse neanche lei. Diamonds è l’unica che conserva qualche segno

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Kavinsky - OutRun (Record Makers, Febbraio 2013)

l’uso di un hip-hop scialbo su Suburbia (magari avesse ripreso la lezione dei Motorbass..) o di un electro-rock che vorrebbe essere all’altezza di una manciata di secondi di Tina Turner (First Blood) ma che fa solo peggio, chiudono in bruttezza il cerchio. Kavinsky: una macchietta buona per l’album delle figurine della peggior storia electro. (3/10)


Genere: pop-jazz d’autore Immaginate cinque polistrumentisti innamorati del jazz, aggiungete le suggestioni del folclore meridionale e unite il tutto a quarant’anni di tradizione cantautorale italiana: ecco che avrete un’idea de La Costituente, gruppo formato da Pasquale Pedicini e Lorenzo Catillo dalle ceneri dei Rosso Rubino. La formazione campana debutta sulla lunga distanza con Per quanto vi prego, album di raffinatissimo pop-jazz mischiato alla canzone d’autore. Una definizione forse restrittiva per dodici tracce che mescolano ed elaborano in maniera personalissima vari elementi, allontanandosi di volta in volta dai canoni di un genere preciso per creare un sound fluido e poliforme. Il punto di riferimento culturale e d’immaginario sembra essere una sanguigna mediterraneità, a partire anche dall’artwork di copertina, con una tela in fiamme di Vinzela. Un album che ben maneggia le sue influenze a cominciare da una title-track che è un riuscito gioco di echi e rimandi fuori dal tempo unito alla classicità della declamazione teatrale; la successiva Ines (uno dei pezzi migliori del lotto) fonde lo sprint del rock da balera à la Nobraino all’immaginario periferico del primo Capossela; quest’ultimo lo ritroviamo anche in Io non io, altro esempio di pop cantautorale costruito su piano e sax, da cui emerge l’abilità compositiva di Catillo nel raccontare turbamenti e disillusioni di provincia (“Io non io, per sempre un pugno chiuso un po’ restio/Io non io, per sempre io una voce stanca dall’oblio”). Puntanera è una romantica elegia jazz in cui riecheggia lo spirito del Paolo Conte migliore, mentre Strabica come Venere è pezzo acustico-cantautorale debitore verso la lezione di Rino Gaetano e quel modo di fotografare con la canzone il vivere quotidiano, i luoghi prima ancora delle persone: un’attitudine sempre presente in un album che elabora un personale approccio jazz da un lato e dall’altro reinventa la forma-canzone tradizionale con spirito colto ma mai pesante (ad esempio in Parigi e Lu Ragano). Nel disco c’è spazio anche per una - chiamiamola così - cover, sebbene il pezzo scelto sia una rilettura di Dolce Sentire dal tema del “Fratello Sole, Sorella Luna”: una scelta insolita e sicuramente audace, che, nonostante non sia all’altezza del resto del disco, non abbassa lo standard dei brani, sempre in equilibrio tra originalità e tradizione, tra leggerezza e sperimentazione. “Un laboratorio aperto per la composizione di canzoni, una formazione musicale aperta e in continuo divenire”. Così si auto-definisce La Costituente, ed è sicuramente vero: Per quanto vi prego è un album ricco di suggestioni, eterogeneo ma solido nella sostanza delle singole canzoni, un prodotto di qualità che, senza avere la velleità di essere “alto”, convince appieno evitando di risultare retorico. Insomma, buono. (7.3/10) Giulia Antelli

della magia passata, eppure l’armonia classica così nelle sue corde viene troppo spesso inter-

rotta dai campionamenti del mondo animale che sono l’unico leitmotiv del lavoro. Il primo singolo,

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La Costituente - Per quanto vi prego (Altipiani, Dicembre 2012)


Apathy and the Devil, puzza di b-side od outtake da un miglio, per non parlare delle più strambe del lotto, Ruminants, Back To Earth, Dance Of The Bees, Strange Birds, che nel loro continuo evocare l’ambiente e il mondo naturale senza uno straccio di linea melodica degna di questo nome rappresentano il punto più basso mai raggiunto dalla Germano. Un lavoro totalmente sconclusionato che aumenta la sensazione di una vecchiaia artistica sempre meno clemente. (5/10) Antonello Comunale

Genere: slacker Più o meno ventenni, i Loveless Whizzkid arrivano al disco d’esordio con i loro superfuzz fuori moda, le batterie grasse in stile In Utero (il mastering di We Were Only Trying To Sleep è del Bob Weston bassista degli Shellac, il missaggio e la registrazione sono di Sacha Tilotta dei Three Second Kiss), certi stop&go sudaticci, il classico portato da loser e ci rispediscono con un calcione nel didietro ai nostri pruriti post-adolescenziali. Pavement, in primis, richiamati da un cantato che più svogliato di così non si potrebbe (chissà i False Friends cosa penserebbero di questo disco) e da un parco strumenti (chitarra elettrica, basso e batteria) 90s fino al midollo. Filastrocche in odore di psichedelia che ti si appiccicano addosso manco fossero una t-shirt sformata dei Sonic Youth (Lovely Ball Of Snot), aperture slacker che rielaborano il “malkmus pensiero” su testi assurdi (Blue Butted Baboons), coesistenze disarmoniche tra noise e post-rock (Axelle In Wonderland), parentesi nirvaniane (Hail To The “Lil” Gorilla): cinquanta minuti di “scazzo” in overdrive che, pur non scoprendo nulla di nuovo, funzionano, evitando passi falsi e banalità. Troppo poco? Sarà, ma la freschezza, l’energia, l’ottima scrittura

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Fabrizio Zampighi

LU-PO - Bloom (AEF, Aprile 2013) Genere: ambient Minimalismo e malinconie dall’inconscio: potrebbero essere queste le colonne portanti dell’arte di Gianluca Porcu in arte Lu-Po. Almeno a giudicare da un Bloom che esce a nemmeno un anno dal precedente Stendere la notte confermando l’approccio compositivo del musicista sardo ma cambiando completamente ambito. Là si parlava di brass band domestiche, classica tascabile, suoni sintetici marginali, qui siamo dalle parti di un’ambient eterea e intangibile. Minimalismo che in Bloom si esplicita in flutti onirici di intensità variabile costruiti su una chitarra acustica trattata (Guilty Guitar), desertificazioni morbide e in crescendo (Angel), elettronica epidermica (Break The Night), il tutto sempre sul confine del non detto, del suono avvolgente, di una timidezza latente capace di affascinare decostruendo. Meno ironia rispetto al disco precedente, più visione interiore e spazi indefiniti. In calce, una candidatura ai Qwartz Music Awards francesi. (6.7/10) Fabrizio Zampighi

Lucio Battisti/Lucio Dalla - 70mo “Qui dove il mare luccica...” (Sony, Marzo 2013) Genere: cantautorato 5 marzo 1943 e 4 marzo 1943: quest’anno avrebbero compiuto settant’anni, Lucio Battisti e Lucio Dalla, se il primo non fosse morto nel 1998 e il secondo non ci avesse lasciati improvvisamente l’anno scorso. E così la Sony pensa bene di festeggiare la ricorrenza facendo uscire un paio

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Loveless Whizzkid - We Were Only Trying To Sleep (Seahorse Recordings, Febbraio 2013)

e l’afflato fondamentalmente “pop” che si legge nei nove brani della tracklist (registrati in soli cinque giorni) sono materiale più raro del rame. Alzate il volume e godeteveli. (7/10)


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dedicata a Dalla, un percorso che sostanzialmente prende il via da Automobili (con l’eccezione di Piazza Grande e 4/3/1943) e pesca soprattutto da Lucio Dalla, Dalla, Viaggi organizzati, Cambio e Canzoni). Tra i duetti spiccano quelli con Mina in Amore disperato, con i Marta sui tubi in Cromatica, con Toni Servillo in Fiuto e con Ornella Vanoni in Senza fine. La parte migliore - per lo meno in termini di carica irriverente - è rappresentata comunque dai brani pubblicati tra la seconda metà degli anni Settanta e la prima metà degli Ottanta, vero e proprio nucleo imprescindibile per comprendere lo stile musicale del bolognese. Nota finale dedicata al provino di Nuvolari che chiude la raccolta, una versione imperfetta ma forse ancora più intensa rispetto all’originale. (6.9/10) Fabrizio Zampighi

M’ORS - M’ors (Calacas Records, Aprile 2013) Genere: pop M’ORS è il nome dietro cui si cela il progetto del cantante e autore Marco Orsini, all’esordio con un’idea musicale che vede le proprie radici nel pop e nei suoni mediterranei, a tratti persino di derivazione reggae. L’album raccoglie dieci canzoni che mescolano una certa solarità sonora con racconti che vorrebbero essere narrazione di questo nostro tempo, delle sue mancanze, delle paure che lo stringono nel quotidiano. In M’ors ci imbattiamo in tantissimo puro pop, melodie interessanti, slanci armonici per nulla malinconici mentre i testi si perdono in fascinazioni di speranze che potremmo definire post-hippie: la supremazia della fantasia, i viaggi lontani, magari verso sud. Vero enorme fardello problematico di quest’album è il modo con cui l’autore si approccia al testo, alla parola, nella volontà evidente e stimabile di rendere queste canzoni, per usare un termine caro al cantautorato, impegnate. Non sono tanto frasi come “fantasia, chi non ti crede vedrà che la ri-

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di cofanetti - quattro cd per l’artista di Poggio Bustone (70mo) e tre per il bolognese (“Qui dove il mare luccica...”) - con all’interno buona parte della produzione dei due. Un’operazione che poteva diventare un’attenta ricostruzione filologica - in parte lo è, se consideriamo le quattro bonus track cantate in lingua straniera della raccolta su Battisti, i duetti e i provini che compaiono nel terzo cd della compilation su Dalla e, in generale, un totale di centodiciassette brani - si trasforma in un’uscita a metà strada tra il prodotto destinato ai neofiti e il regalo per i fan. Prova ne sono soprattutto due booklet con pochissime informazioni aggiuntive: in 70mo tutto è alquanto spartano, grafiche pop art e titoli dei brani senza che si citi nemmeno il disco di riferimento (oltre all’assenza di note particolari o di fotografie); in “Qui dove il mare luccica...”, pur senza rimandi ai dischi da cui i brani sono tratti (in compenso non ci sono dubbi su crediti e i copyright), si recupera con qualche bello scatto (tra gli autori, Guido Harari, Roberto Serra, Ambrogio Lo Giudice) e un’introduzione del curatore della raccolta Marco Alemanno. Peccato, perché per trasformare quella che ovviamente è anche un’operazione commerciale in un omaggio sentito sarebbe bastato poco. Rimane la musica, quella sì profonda e immensa, si parli di Lucio “uno” o di Lucio “due”. Impossibile citare tutti i settanta brani che compongono l’omaggio a Battisti. Vi basti sapere che, a parte le versioni in lingua straniera a cui si accennava qualche riga più su (Mi Libre Cancion, To Feel In Love, Una Muchacha Por Amigo, La Cinta Rosa), si va da Un’avventura a I giardini di marzo, da Il leone e la gallina a Nessun dolore, da Don Giovanni a Hegel. I dischi più saccheggiati sono Lucio Battisti, Emozioni, Umanamente uomo: il sogno, Una donna per amico e Una giornata uggiosa, con una discreta percentuale di brani tratti anche dagli ultimi album con Panella (dai due ai quattro brani a disco). Meno onnicomprensiva la raccolta


Genere: soul psych Una delle questioni più scottanti poste dal revivalismo retromaniaco di questi anni riguarda il rapporto tra ciò che si ascolta ed il presente. Ad esempio, mi sta benissimo che si riesumi una vena gospel-soul filologicamente corretta condita magari da venature psych, ma va messo in conto il rischio di restare intrappolati nella casa di specchi della mera riproposizione, in una sorta di dolce, gratificante auto-inganno. Col suo album d’esordio il trentenne virginiano Matthew E. White, già leader di una band avant-jazz (i Fight The Big Bull) e membro dei rockettari The Great White Jenkins, trova invece gli additivi giusti per sintonizzare un soul d’impronta bianca sulle frequenze correnti. Senza lasciare spazio alle lusinghe a gratis. Lo fa allestendo groove letargici e taglienti, ibridi e cinematici, spersi e appassionati. È soul, certo, però passato attraverso la cenere di tutte le prospettive e rinato ad una devozione fervida, opportunamente scudata da un distacco flemmatico, un lirismo differito e sornione che sembra volerti trasmettere l’inebriante difficoltà di muoversi coi piedi saldi in un presente isterico. Timbriche calde, fragranze sanguigne e legnose, camerismi crepuscolari e brass band vaporose: ogni pezzo il set di un cortometraggio allusivo, le puntine dell’insidia nel cuscino della letargia. Ritrovi la sbrigliatezza The Band come trasognata Beta Band nella balzana intensità di Steady Pace e nella indolente One Of This Days, vibrioni Lambchop e ugge Randy Newman in Brazos e nella trepida Will You Love Me (dichiaratamente ispirata a Many Rivers To Cross di Jimmy Ciff ), fregole etno nell’adrenalinica Big Love (provvista di citazione caricaturale di Tomorrow Never Knows), spossatezze Eels ed esotismi jazzy nella languiderrima Hot Toddies. È un disco che suona vivo e vero mentre ostenta un flemmatico, pensoso infingimento. Ne esci assieme scosso e pacificato, con un filo di sconcerto che rimane teso fino all’ascolto successivo. (7.3/10) Stefano Solventi

voluzione vincerà, che la politica morirà e la polizia mai più ci fermerà” (Fantasia) a lasciare perplessi quanto “stai tranquilla che avremo famiglia ed un contratto”, per non parlare di “c’è sempre un’onda che sale che mi fa male, governo ladro animale sembra un maiale” (Pericolante). Ora: si può anche essere - e chi scrive molto spesso lo è - in accordo con i contenuti espressi in questi brani ma è impossibile non notare quanto manchi il filtro, qualsiasi forma poetica atta a rendere un contenuto, un pensiero, una vera canzone, o che trasformi lo

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slogan in arte. A ciò va ad aggiungersi l’ennesimo esempio di un comportamento molto alla moda, ultimamente, in Italia, cioè quello di menzionare il nome di un grande intellettuale - Pasolini va per la maggiore - e mettere mano ai suoi contenuti ottenendo risultati pressoché disastrosi (Il mio amico Gramsci). Niente, dunque, oltre a un leggerissimo e colorato divertissment sonoro. (5/10) Giulia Cavaliere

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Matthew E. White - Big Inner (Domino, Gennaio 2013)


Genere: elettroacustica Dopo aver annunciato la chiusura dell’esperienza Main (e un duemiladodici con ben tre uscite per Mego), Robert Hampson torna a usare la sigla che ha condiviso con Scott Dawson dall’inizio dei Novanta, dopo la comune esperienza Loop, e lo fa uscendo sempre per la label tedesca. Il capitolo precedente, Exosphere (compreso nella serie Mort aux Vaches della Staalplaat), era fatto di musica raccolta e concreta e tradizionale - quasi didascalica, in quei solchi - eppure sembra che con Ablation Hampson cerchi di riallargare il punto di vista. La prima decisione fondamentale è di ridare senso ai Main come duo, senza Dawson ovviamente, rimpiazzato da un altro nome prolifico dell’elettroacustica, Stephan Mathieu, tedesco, membro negli stessi anni in cui i Main erano un nome di punta, di un altro duo, Stol, con Olaf Rupp alla chitarra e lo stesso Stephan alle percussioni. I Main di oggi sono una sovrapposizione tra due musicisti che, dopo essersi incrociati per semafori e direzioni comuni, decidono di dare uno all’altro un ampliamento timbrico, layer dell’uno sopra layer dell’altro. In questo caso, l’ablazione, anziché essere un’erosione reciproca o un cesellamento, produce, in alcuni droni che si intralciano (III), ambientazioni imbarocchite, se non per quantità per qualità. Non si resiste mai, come spesso accade, fino in fondo alla tentazione cosmica (IV). La discesa in terra è repentina - cioè iniziale - poi abbandonata. I ha certo tutto il thrilling di una giungla in cui si sentono i versi ma non si vedono gli animali. La sensazione di attesa del pericolo è tangibile, e in questo caso vediamo funzionare al meglio la coppia da un lato, e l’accoppiata tra field recording ed elettroniche dall’altro. II prosegue invece scaricando il potenziale verso ambientalismi kranky-iani che cercano di tangere Darmstadt ma non ci riescono.

I Main avevano un concept, una missione. Questa versione è una rarefazione delle intenzioni verso la ricerca sonica che dovrebbe da sola sostenere il ritorno. Ma non è del tutto così che funziona, o comunque non sempre basta, nell’oceano di uscite avant. (6.5/10) Gaspare Caliri

Maxmillion Dunbar - House of Woo (RVNG Intl., Febbraio 2013) Genere: hipster house Comparando il fenomeno hipster house all’evoluzione della musica dance artsy degli ultimi due anni ne emerge uno dei tratti più interessanti: l’ossessione per i good vibe. Con ormai alle spalle il suo periodo d’oro, possiamo notare come si sia largamente mantenuta una musica, pur quando astratta o malata, estremamente luminosa, positiva ed energica. Al centro, un vitalismo urbano ispirato - per queste label principalmente statunitensi - dagli Animal Collective e, ancora prima, da un album che oltreoceano gode ancora di uno straordinario culto, ovvero Selected Ambient Works II di Aphex Twin. House of Woo, dichiara Field-Pickering, è stato composto interamente su una sdraio mentre beveva assieme alla sua ragazza. Un approccio da buontempone che sottointende una larga componente d’improvvisazione. Spesso, infatti, i loop ostentano una certa mancanza di raffinatezza, quasi un desiderio di dirsi amatoriali. Ascoltando Slave To The Vibe chiunque abbia avuto un minimo d’esperienza come producer si ricorderà, per come si chiude il riff, i primi esperimenti per la creazione dei propri loop, limitati a quattro battute. Una certa dimensione amatoriale è data dal costante alternarsi dei generi. Woo, per esempio, rimanda con i suoi synth cristallini e bassi profondi alla deep house; in Peeling An Orange In One Piece c’è un omaggio alla scuola di beats di figure

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Main - Ablation (Mego, Aprile 2013)


Antonio Cuccu

Michele Gazich - Verso Damasco (FonoBisanzio, Dicembre 2012) Genere: folk-cantautorato Michele Gazich è una figura artistica piuttosto singolare. Cantautore senza gradire questa definizione (eppure il suo Folkrock in condivisione con Massimo Priviero è finito tra i finalisti delle Targhe Tenco 2012), personalità musicale capace di un percorso atipico e ricco di esperienze (in passato, tra le tante, collaborazioni con Michelle Shocked, Massimo Bubola e Mark Olson dei Jayhawks) e infine profondo conoscitore di quel credo ebraico a cui lui stesso appartiene. Tanto

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da organizzare convegni in ambito universitario come quello sulla figura di San Paolo che ha ispirato il “concerto spirituale” - così ama definirlo Gazich - tenuto presso il Duomo di Brescia nel maggio del 2012 e di cui questo dvd/cd è trascrizione fedele. Nulla di pretenzioso: da sempre la religione flirta con la musica popolare moderna, si parli di blues (che del cattolicesimo riprendeva gli aspetti più terreni), gospel, del Fabrizio De André di La buona novella o magari della produzione di band come i Welcome Wagon o artisti come Leonard Cohen. Gazich dà la sua versione dei fatti con un folk minimale ma di alto profilo sia nella scrittura che nelle tematiche affrontate, a metà strada tra chanson francese e aspirazioni cameristiche dal sapore sacro/medievale. C’è una critica al materialismo imperante nelle corde dei brani, ma senza rabbia o facili antitesi. Piuttosto si arriva a destinazione attraverso una mescolanza di testi profondi e voci sussurrate che tende alla riscoperta dell’amore è di un’umanità in senso lato. Una certa vena confessoria si mescola alla poesia della musica e alla magia del luogo, con un Gazich che riesce a svicolare grazie a un carisma innato e a una tensione emotiva profonda che valorizza tematiche per forza di cose universali. La morte, la vita, la solitudine, il perdersi e il ritrovarsi: è fatta di queste cose la poetica del musicista bresciano, ma anche di omaggi a Pasolini (L’angelo ucciso), a Ezra Pound (Poeta in gabbia), al Branduardi più riconoscibile (La leggenda degli amanti che camminano sul filo) e a un Medioriente che sembra di poter chiamare casa (Verso Damasco, Salmo magico). Il tutto su trame strumentali che sommano pianoforte, violoncello, viola, violino, chitarra, bouzouki. Non è un disco per tutti, Verso Damasco. Per apprezzarlo è necessario sospendere il giudizio, accettarne l’imprinting aulico e popolare al tempo stesso, indagare il bagaglio culturale che si porta appresso, sottostare alla bellezza di una diversi-

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come Gold Panda; Inca Tags mostra l’interesse di Maxmillion Dunbar per l’hip hop fortunatamente senza cadere in nessuno degli odierni cliché trap. Naturalmente questa dimensione è solo apparente, dovuta più a un’attitudine di disimpegno da slacker che a un’effettiva mancanza di capacità tecnica. Anzi, nel disco non solo c’è un ottimo lavoro di lima ma si ritrova anche un desiderio pressante di racchiudere la storia della dance degli ultimi anni (il sample del suono della moneta di Super Mario in Coins For The Canopy, il boogie di Ice Room Graffiti che ricorda i MSTRKRFT di The Looks e l’ossessione funk e disco di metà decennio). La frivolezza di House Of Woo è lontana anni luce dall’intensità di artisti che hanno in questi ultimi anni unito l’ambient con ritmiche dancefloor. Artisti come Raime, Voices From The Lake e Andy Stott hanno una profondità sonora e concettuale completamente assente in questo album. Maxmillion si propone di affrontare l’intuizione di una house astratta con leggerezza e vitalità ma, persa la ponderosità, è incapace di offrirci un contrappeso adeguato. Il risultato è un album che non apre nuove vie ma offre un sentito elogio alla strada che si è già percorsa. (7/10)


Ministri - Per un passato migliore (Warner Music Group, Aprile 2013)

Genere: rock italiano Fabrizio Zampighi A volte ci sono dischi che è quasi impossibile giudicare al di fuori del loro contesto. Prendete l’ultimo dei Ministri: dopo il quasi punk degli esordi Mike Oldfield - Tubular Beats con I soldi sono finiti, la popolarità raggiunta (Edel, Febbraio 2013) (giustamente) con Tempi Bui - buon sophomore Genere: disco remix Mike Oldfield, sì quello di Moonlight Shadow, di Tu- in bilico tra chitarre distorte e melodie di sicubular Bells e di tanti classici degli anni ‘80 torna con ro impatto - e la sterzata new-wave dell’ultimo Fuori, il trio milanese torna sulle scene dopo oltre un rework delle principali hit che lo hanno reso due anni di silenzio con Per un passato migliore, immortale. Ad aiutarlo nel compito e ad aggiungere quel tocco kraut prog che va troppo di moda album che tira le fila del percorso portato avanti fino ad oggi. oggi c’è il produttore e musicista tedesco Torsten Dunque, questioni di contesto. Idolatrati soprat‘York’ Stenzel (Moby, Nelly Furtado, Tina Turner tra le altre collaborazioni). Il disco tenta di attualiz- tutto dai giovani e spesso snobbati dagli amanti dell’hype - ma comunque sempre in primo piano zare i classici del musicista di Reading con un tocsu molti magazine di settore - dopo anni di gaco dance contemporaneo, spingendo i remix su piani dance che una volta avremmo definito con la vetta il trio milanese ha ormai raggiunto lo status tag “commerciale” e che sembrano fatti per essere di band di punta del rock italiano, assieme ad suonati nel prossimo set di un qualsiasi DJ-for-the- altri grandi nomi come Verdena e Il Teatro degli orrori. Da qui il problema del recensore: scavare masses (vedi alla voce Tiësto o Avicii). nella superfice massmediatica che da sempre li Uno sputtanamento bello e buono grazie ai soliti circonda per cercare di arrivare alla sostanza delle trucchetti: melodie pop memorizzabili da subito, canzoni. Lo stesso intento, che, già dal titolo, loop e trattamento dei suoni “maranza”, qualche lacrimuccia per i nostalgici ed il gioco è fatto. Non sembra animare questo nuovo lavoro: con Per un passato migliore, infatti, Federico Dragogna e soci convince per niente questa riedizione, che sarà sì buona per qualche stadio belga o per qualche par- ritornano decisamente alle origini, a quell’hardrock duro e puro che aveva caratterizzato i primi ty sulla spiaggia, ma che per tutti gli altri usi verrà dimenticata nel giro di pochi istanti (imbarazzante, due lavori. Eliminati gli inserti elettronici a favore di una ad esempio, il trattamento del classico To Fransezione ritmica sempre più potenziata e sempre ce col vocoder e con l’autotune automatici). Per conoscere il vero Mike è meglio prendere in mano più perforante, i tredici brani del disco si immerqualche originale. Ad onor di cronaca segnaliamo gono in quel sound heavy-melodico di matrice Nineties che vede nei Foo Fighters il riferimento pure l’inedito à la Röyksopp Never Too Far con la cantante dei Nightwish Tarja Turunen. Baraccone più prossimo, come nelle iniziali Mammut e Comunque: due potenziali hit che, seppur lontane assicurato per Mike, che fa la figura del Leone di Lernia di turno più che dell’intellettuale illuminato da ogni velleità radio-friendly, hanno quell’impeto anthemico che farà la gioia dei fan della e capace di riciclarsi. Prescindibile. prima ora, quelli che, per capirci, avevano storto (4/10) Marco Braggion il naso di fronte alla svolta electro dell’album

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tà poco sintonizzata sulla contemporaneità. Un esercizio che presuppone lentezza e capacità di calarsi appieno in un lavoro stratificato e poetico. (6.9/10)


Giulia Antelli

Miranda - Asylum: Brain Check After Dinner (From Scratch, Aprile 2013) Genere: wave A distanza di quattro anni dal precedente passo discografico, Miranda rientra in scena più ossessiva che mai. Non come ai tempi della curiosità in cui si ispezionavano anfratti poco alla luce del sole (Rectal Exploration) o come quando si mostravano aggrovigliati oscenamente sulle architetture del proprio suono (Growing Heads Around The Roof), ma in maniera più posata e matura.

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Sempre accesa e incendiaria, sempre attenta alla modalità del groove ma in maniera meno compulsiva e più aperta all’indagine della dilatazione. Non è un caso che questa “apertura” di dinamiche e polarità avvenga in un album che è grossomodo un concept sull’essere rinchiusi: carceri, manicomi, centri di detenzione sembrano essere i poli intorno a cui ruota questo senso di pervadente voglia di evasione, di rottura di gabbie e recinti che caratterizza trasversalmente tutto il lavoro. Rette da un corposo interplay tra il basso di Carafa e la batteria di Villani (ottime certe soluzioni ritmiche “trovate” e rumoriste) su cui si liberano i synth e la chitarra (ma non solo) di Caputo, le canzoni mantengono insieme circolarità groovey e rumorismi, ossessività mai cupa e minutaggio sufficiente a far scattare la molla trancey da testa ciondolante al ritmo. Riemergono slanci kraut e verbosità Liars, sensibilità da pop alieno e misture (post)noise-rock (un nome su tutti, per affinità compositive più che per risultati, sono i GvsB), scorie mutant-funk come dei Primus elementari cresciuti a ketamina, rimasugli di Battles in centrifuga white trash, 8-bit malsano lontano discendente della feccia Black Dice e molto altro ancora. Onnivoro e con qualche lieve difetto che non inficia la volontà di rompere quelle barriere all’origine del disco. I Miranda si sono liberati degli schemi pregressi; ora sta a loro farci vedere dove andranno a parare. (7/10) Stefano Pifferi

Mudhoney - Vanishing Point (Sub Pop, Aprile 2013) Genere: garage grunge Il “segreto” dei Mudhoney me lo spiegò Steve Turner lo scorso anno. Altre band che volevano diventare grandi a tutti i costi non hanno ottenuto il successo sperato e per questo motivo si sono sciolte; loro invece, che non hanno mai nutrito quel genere di aspettative, hanno sempre tirato

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precedente. Le nostre condizioni è un altro pezzo in bilico tra orecchiabilità e pesantezza crossover che ben riassume il mood generale dell’album, Spingere è un revival attualizzato del rock classico dalla solida compattezza, La pista anarchica e Se si prendono te sono episodi acustico/cantautorali, I tuoi weekend mi distruggono e La nostra buona stella figurano come ballad di sicuro effetto Rispetto al passato, rimane dunque la capacità di creare buone melodie in equilibrio tra orecchiabilità e potenza, anche se manca una certa sostanza nella scrittura.Tutti i brani del disco, infatti, parlano di gioventù e problemi quotidiani, e nonostante permangano le invettive (marchio di fabbrica del gruppo), troppo spesso gli slogan si perdono nella faciloneria della retorica. Il risultato sono testi dove il sarcasmo non-sense si trasforma in una seriosità non molto credibile e talvolta prevedibile (“il mio contratto non vale niente, la mia esperienza non vale niente, il mio voto non vale niente, tanto vale provarci comunque”). Fuori da ogni sperimentazione, Per un passato migliore è un album che, pur non aggiungendo nulla di nuovo, consolida una formula già ampliamente collaudata: un tentativo che sicuramente non deluderà le aspettative di chi segue la band e degli amanti del genere. (6.4/10)


Genere: Trap, wonky Arriviamo con considerevole ritardo a tessere le lodi di Paul Salva. Originario di Chicago, ma spostatosi a San Francisco alla fine dei Duemila per poi prendere casa - assieme alla personale label (e collettivo) Frite Nite - a Los Angeles nel 2011, il producer si era già fatto conoscere e apprezzare dalle riviste di settore con Complex Housing, album che sempre in quell’anno aveva ricevuto i plausi di RA e Pitchfork e innescato a livello mediatico una lunga lista di tag per descriverne la miscela. Dagli inizi della carriera, nel 2009 con Jars, a Yellowbone EP (2011), per lui si sono scomodate etichette quali neo-electro, southern bounce, filter house, ghettotech, “purple” dubstep, Dilla break fine Novanta, UK funky, UK Bass, Miami bass, pop grime, boogie funk revival. Tutto vero, e se vogliamo far presto parliamo del soleggiato ombrello wonky e imperfect beat e di un produttore che ha sempre avuto la mano ferma sul mix e la lungimiranza di pochi riconosciuta tanto negli States quanto in UK (vedi lo spot a lui dedicato presso “In The Dj We Trust” della BBC). Così, altezza 2013, dopo aver raccolto ampi consensi con il remix rave trappista assieme a RL Grime nella Mercy di Kanye West (giugno scorso anno, a ridosso della famigerata Harlem Shake di Baauer), suonato live il pezzo con Pusha T e aver respirato con calma quel paio di correnti che da mesi spingono per un ritorno alla purezza (o meglio al ghetto) southern rap, ecco che Paul sgancia la bomba altezza Gooo o Higher Ground. Contenuta in questo eppì, Odd Furniture, uscito lo scorso febbraio per la blasonata Friends Of Friends (quella di Shlohmo), Drop That B è una traccia che bissa il bordone per Kanye, concorre assieme alle hit dei TNGHT a nuovo anthem dell’ala più tosta del trap odierno e, non ultimo, propone proprie traiettorie e coerenze discografiche. Ci piace molto, l’intelligenza di questo producer: all’aquacrunk del giro Glasgow (vedi LuckyMe dove s’è accasato Bauuer stesso), alla footwork intelligente di Machinedrum (che peraltro lo ha remissato) o alla prosopopea delle incursioni bitch nella compila All Trap Music sempre in combutta con l’amico di Los Angeles RL Grime (Grapes Alla Vodka), Salva si concentra, spingendo sul proprio background Miami bass, sulla juke di Chicago. Uno stile che, come sottolineavamo, è forse la miglior compagnia che il wonky abbia mai trovato per superare l’impasse massimalista del Low End Theory e FlyLo, e grazie all’iniezione ultra bianca del southern, forma il perfetto menage a trois (ascoltare l’altra hit Hard Drive per credere). Il tocco old school già presente in Complex Housing completa, anche qui con un ottimo taglio (tastiere house d’antan più wonky), la buona Rest in 3-Piece. In chiusura, altra grassa botta per il dancefloor con BBQ, bestia scura in cassa dritta berlinese che nella borsa dj di uno come Scuba non starebbe affatto male. Ennesima dimostrazione di un musicista che, salvo il business con RL Grime (vedi il remix, bruttarello, di What A Shame di Jamie Lidell), non s’aggancia alle mode ma è già oltre, out there, magari con un occhio qui: Miami Bass Tracks, (Raw Underground Music, febbraio 2013). (7.3/10) Edoardo Bridda

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Salva - Odd Furniture (Friends Of Friends, Febbraio 2013)


Tommaso Iannini

My Dear Killer - The Electric Dragon of Venus (Boring Machines, Marzo 2013) Genere: folk “C’era una volta una bambina... e ogni bambino che muore è come se morisse l’ultimo fiore del mondo...”, sono le parole dell’incredibile George Hil-

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ton con baffetti di Mio Caro Assassino, giallo doc firmato dallo specialista di western Tonino Valerii. La lapidaria sentenza con cui il commissario di polizia smaschera l’assassino nel film del 1972 ha l’umore opprimente della fine che cancella, di morte degli ultimi, quelli che non tornano. Un po’ lo stesso umore definitivo che si respira tra le corde della chitarra di The Electric Dragon Of Venus dello specialista in spleen esistenziale Stefano Santabarbara. Secondo disco in sette anni, quindi composto da materiale meditato a lungo, da cui probabilmente arriva l’intensità monocromatica delle dieci tracce e che eleva i bozzetti folk dell’esordio Clinical Shyness verso qualcosa di più denso del fingerpicking di uno che suona la chitarra da solo in una stanza. Il trademark è lo stesso, ma dopotutto la formula è la più classica di sempre. Voce e chitarra e rumori di fondo sono in apparenza le armi più semplici da usare, ma anche quelle che ti scoppiano in mano se non le sai maneggiare. Il pregio di My Dear Killer è quello di non provare nemmeno per un attimo a rifare Pink Moon, come pure si ciancia in giro, perché gli interessa l’atmosfera, l’umore, la sensazione di insieme anche se in almeno un paio di casi va vicinissimo a fare due classici con Due e Nighttime. Di contro, il suo è folk in cui gli elementi di corredo (voci campionate, feedback, rumori dell’ambiente) non sono accessori, ma servono a calarti nella scenografie piovigginose immaginate da The Electric Dragon of Venus pt.1 e Good Night; con il carrillon che introduce la ruvida veste di feedback che lacera Mild Eyes e le campane in lontananza che danno il tono a Frozen Lakes. Poi per carità, si trattasse solo di trovate da mixer senza la sostanza delle canzoni tutta la costruzione cadrebbe, ma i brani ci sono e reggono l’insieme. Uno per tutti lo struggente Magnetic Storm, che dimostra come il ragazzo sia uscito dalla cameretta post rock di fine anni ‘90 per rinchiudersi

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dritto per la propria strada e continuato a fare la musica che volevano; per questo sono ancora qui dopo 25 anni. È lo stesso concetto che la voce di Mark Arm ribadisce provocatoriamente in I Like It Small: meglio la nicchia dei grandi numeri. Non che i Mudhoney siano poi tanto di nicchia. Piuttosto, possiamo dire che rappresentano più di chiunque altro lo spirito originario della Sub Pop, con il loro misto di uncoolness, ironia e rock duro e rumoroso. Tirando le somme di una carriera lunga venticinque anni, la vicenda del quartetto di Seattle appare perfettamente parallela a quella della casa discografica con cui, tra divisioni e ritorni di fiamma, ha compiuto lo stesso cammino da sensazione underground al boom degli anni ‘90 (che criticò a suo modo in Overblown), fino alla crisi e al successivo ritorno in pista. Non siamo qui per ribadire quanto erano urticanti e felicemente creativi i primi reperti vinilici di questa inossidabile band, ma per constatare che la maturità non l’ha ancora imbolsita. Vanishing Point, nono album di studio, è esattamente quello che ci si poteva e doveva aspettare: Slipping Away, un rock blues acido incrostato di protopunk alla Stooges, il tiro punk rock di Chardonnay, la furia alla MC5 di The Only Son of the Widow of Nain o la disincantata power ballad Sing This Song of Joy sono ben lontani dall’essere novità assolute nel catalogo Mudhoney, tuttavia ne continuano egregiamente l’opera. Difficile chiedere di più, se non che le rendano sul palco come hanno dimostrato di recente di sapere ancora fare. (6.7/10)


in un bar, nell’angolo in fondo, a meditare sulle umane miserie. (7/10) Antonello Comunale

Genere: indie rock, new wave Una stanza, una chitarra elettrica e un basso sul pavimento, tre poster che raffigurano i componenti del gruppo (due guardano alla propria destra, uno ha gli occhi chiusi): si presenta così, la copertina di Legàmi di luce, il primo album dei bresciani Newdress. Ma come, niente tastiere? Niente paura, forse è solo per ribadire che non siamo di fronte a una tribute band dei Depeche Mode (New Dress è un brano di Black Celebration...) ma a un’opera compatta, robusta, coerente, che sa guardarsi indietro e avanti con intelligenza, con i propri punti fissi nella new wave degli anni ‘80, nel rock (anche italiano) del decennio successivo e in certo indie rock dei Duemila di origine anglosassone o statunitense. Come hanno dimostrato in più di trent’anni i dischi di Garbo, dei Bluvertigo, dei Soerba e dei Luciferme (ma anche i torinesi Dr. Livingstone e i Links di Pioggia di polvere), ciclicamente il nostro Paese si infatua delle sonorità electro-rock d’oltremanica, eppure i Newdress - Stefano Marzoli alla voce, ai synth e al basso, Giordano Vianello alla batteria e Andrea Mambretti alle chitarre - riescono a percorrere lo stesso cammino distinguendosi dalla massa. Spesso il synth-pop e il rock faticano a scendere a compromessi, nelle mani sbagliate formano strati separati come fossero acqua e olio ma qui, senza bisogno di esperiAlessandro Liccardo menti di laboratorio, i due elementi si intendono e si amalgamano creando, in simbiosi, il vestito Nubilum - Restless Sunrise/ adatto per canzoni ben scritte, che vivono non Tsantsa (Tulip Records, Marzo solo in funzione degli arrangiamenti, mai eccessi- 2013) vi e sempre dal respiro internazionale. C’è un sen- Genere: abstract ambient so d’urgenza nello stile vocale di Stefano, epico Pulsazioni scolpite in un ambiente che è tempo

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Newdress - Legàmi di luce (Kandinsky, Maggio 2012)

come Midge Ure pur senza strafare ed espressivo come il Renga dei Timoria (senza l’oversinging); lo spleen non rinchiude i testi negli stereotipi e, soprattutto, fa intravedere sempre che c’è una luce in fondo al tunnel. I suoni sono equilibrati, naturali (l’intero disco è stato registrato in analogico), ordinati, senza che nessuno nella scena sonora si senta escluso o finisca in un angolo. Si vola ad altezza White Lies in episodi come Ad occhi chiusi, Assorta e Cambiamenti d’aspetto, si rievocano i Cure di A Strange Day nel brillante singolo Bisogna passare il tempo - inciso con l’ex Bluvertigo Andy, qui al sax, e Lele Battista dei La Sintesi - che trae ispirazione dal poeta Jacques Prévert e quelli di Friday I’m In Love in Colore di fiamma. Ci sono i Depeche Mode (potevano forse non esserci?) di Construction Time Again che si affacciano in Dissolve, gli Editors in Splendi e la danzereccia Orizzonti fa immaginare, con un certo rammarico, come sarebbe stata perfetta una collaborazione tra i tre ed Enrico Ruggeri per Le canzoni ai testimoni dell’ex-Decibel - la rilettura di un brano come Qualcosa (per prenderti il cuore) sarebbe stata di certo nelle loro corde. Ma tra gli amori del gruppo ci sono (e si sentono) anche gli Psychedelic Furs - dei quali hanno ripreso Sister Europe per il nuovo EP Vernale, che contiene anche l’inedito In questo inverno -, filtrati e aggiornati quanto basta. Legàmi di luce dimostra che, mescolando le carte, si può attingere dalle altre culture senza perdere la bussola e peccare di provincialismo. Un disco “bello e con l’anima”, privo di pacchiani effetti speciali. Una nuova speranza e una boccata d’aria fresca per il panorama italiano. (7/10)


Genere: Art pop, techno Silent Shout era stato un caso discografico, nel 2006. Un album in grado di cavalcare il proprio tempo tra episodi techno di stampo berlinese e scandinavo alla ricerca di quadrature differenti rispetto ai ranghi dell’electroclash e una manciata di febbrili ballate sintetiche immerse nella magia del pop nordico eppure mosse da una sottile tensione sottopelle. Olof architettava gli ambienti, Karin strattonava la Bjork più sanguigna con l’indole di una Kate Bush algida e terrigna, mentre l’equilibrio era garantito da un mix di sintetiche e quartomondismi, un potabile cuore art-pop proteso sì alla contaminazione ma mai ostico o spigoloso. Diverso e sorprendente il nuovo doppio album che, già dal carattere sottilmente provocatorio del titolo, Shaking The Habitual, e non meno a partire dai singoli, A Tooth For An Eye e Full Of Fire (e relativi videoclip la cui regia è stata affidata ai videomaker realisti Roxy Farhat & Kakan Hermansson e Marit Östberg), capovolge i parametri e si presenta, da subito, come un banco di prova considerevole, anche solo per il coraggioso minutaggio e la lunghezza complessiva del lavoro. Al netto degli aspetti operistici, ritroviamo l’esperienza teatrale di Tomorrow, In a Year con Planningtorock e Mt. Sims, in una serie di piéce strumentali ancor più radicali, dal minutaggio forse esagerato. Un lato arcano, industriale e stregonesco (Cherry On The Top) di un disco che non ha paura di respirare in profondità o sottacqua (Old Dreams Waiting To Be Realized) focalizzato su una manciata di formati canzone dall’inedita potenza e duttilità che sembrano premere costantemente sui propri limiti, a partire da un dichiarato statement politico. Come ci suggerisce la fotografia scelta dai videomaker coinvolti, Shaking The Habitual si è posto lo scopo di decostruire le infrastrutture di potere e leadership che regolano i rapporti tra persone e sessi calando testi e contesti nel quotidiano della gente comune in un urbano asciutto e aggressivo che tanto ha a che fare con la scandinavia quanto con l’Occidente tutto. Sia quando utilizza il cut-up (“Not a vagina / It’s an option / The cock / Had it coming” da Full Of Fire) sia quando azzera la psicologia (quel “The piss is territorial” con cui si chiude Without You My Life Would Be Boring) o descrive desolanti squarci di presente (“We’ve been running ‘round / Pushing the shopping cart / January twothousandtwelve / Even in the suburbs of Rome” da A Tooth For An Eye) Karin interpreta con rinnovato carisma sia i singoli micidiali che hanno anticipato l’album (Full Of Fire, che ha la carica dei migliori Prodigy) sia i restanti episodi cantati, caratterizzati anche da oculato processing vocale. Olof la compensa in uno sforzo arrangiativo senza precedenti calando il tribale in un costante flirt con le lezioni di gente tipo Steve Roach, Robert Rich e Kenneth Newby ma anche con l’industrial più pagano dei 90s che, a quanto pare, nei negozi di dischi di Stoccolma va via come il pane (Raging Lung). Sapiente anche il più ampio schema etnico del musicista (vero marchio di fabbrica assieme all’uso ambientale delle tastiere) che sa ancora mostrarsi accessibile (gli scenari à la Aguirre di Without You My Life Would Be Boring, i casual breakbeat della citata Raging Lung) senza rinunciare all’oscurità più pesta. Non da meno, infine, il lato electro, altro palinsesto del brand, che ritroviamo nelle incursioni

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The Knife - Shaking The Habitual (Rabid, Aprile 2013)


bladerunneriane di un’incisiva Wrap Your Arms Around Me o nei pezzi più techno/house della partita come l’acida e magrebina Networking o l’old school malatissima di Stay Out Here. Sull’avant più tosto troviamo il Robert Wyatt dalle parti di End Of An Ear, o i Red Crayola più minimali, magari in trip narrativo Stieg Larsson. La traccia è Fracking Fluid Injection. Niente male per un gruppo art-electro-pop, eh? (7.5/10)

prima che spazio, nelle increspature di una materia che muta e si auto definisce proprio nel trascorrere di flussi ritmico-melodici, voci trasfigurate e de-umanizzate, rumori processati, incontro tra le sospensioni atmosferiche dell’ambient e i sub-bassi di matrice anglosassone. Queste le prime sensazioni alla lettura dell’esperienza Nubilum, progetto solista di Michele Ferretti (Gottesmorder, Eleleth), all’esordio con due uscite brevi e ravvicinate, qui insieme in una lettura dicotomica atta a preservare il senso di continuità dell’operazione. L’elemento liquido caratterizza i due brani del primo capitolo, Restless Sunrise, nella cui idea trasversale e notturna di elettronica echeggiano suggestioni altre (il black metal, lontanissimo e pregnante come il ricordo di un’esperienza postmortem), e dove l’attenzione al gusto minimalcontemporaneo attecchisce su un ampio corredo di influenze - l’oscurità propria della musica estrema tout court declinata nelle algide sofisticazioni techno e dubstep. Di Tsantsa (anche in formato cassetta per la Tulip Records di Claudio Rocchetti) percepiamo invece l’anima terrigna; concept sulla metafisica della morte dei cacciatori di teste del Sud America (così sono chiamate, infatti, le teste umane essiccate e conservate a scopo magico-rituale da alcune popolazioni indigene), presenta un suono più solido, riverberi di cavità rocciose, rifrangersi di legni e un terrore diurno, forse per questo ancor più tangibile e reale.

E se Migration Divides transita con passo lento al confine tra drone e melodia, quello di Wetland Disease pare un vagare allucinatorio, concitato e madido di sudore, tra glitch e clangori postindustriali. (7/10) Antonio Laudazi

Ornaments - Peumologic (Tannen, Marzo 2013) Genere: post-hc-metal Abbiamo usato più volte, spesso a sproposito, la definizione “segreto meglio custodito” o “band di culto”. Mai, forse, come nel caso degli Ornaments entrambe andrebbero più che bene visti i trascorsi e l’aura quasi mitica che circonda il quartetto emiliano. Un promo di quattro pezzi del 2004 sold out ai vari concerti di supporto a pezzi grossi del giro heavy (Converge, Red Sparowes, Daughters) e uno iato quinquennale cominciato nel 2006 e rotto solo dall’altro promo del 2011, hanno fatto sì che in tempi di elefantiasi discografica il culto crescesse lentamente ma a dismisura. Ora Pneumologic tira le fila del progetto, mostrandosi curato in ogni suo dettaglio grafico (splendido l’artwork a cura di Luca Zampriolo e pubblicato da Tannen in cd digipack e in doppio vinile da Escape From Today, Sangue Dischi e Blinde Protheus) e forte di un suono praticamente perfetto in sede di produzione. Un suono maturato, pensato e metabolizzato nel profondo, che se per certi versi risulta per forza di cose “da-

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Edoardo Bridda


Stefano Pifferi

Peace - In Love (Columbia Records, Marzo 2013) Genere: brit rock Avere tre brani nella classifica NME delle 50 migliori canzoni dell’anno può essere un’arma a doppio taglio: da un lato ti regala grande visibilità, dall’altro rischia di precludere gli apprezzamenti da parte del frangente più integralista dell’ipotetico target di riferimento. Non sorprenderà, quindi, se i pregiudizi che hanno già colpito i mediocri - ma non così malvagi - Palma Violets di 180, si abbatteranno anche sui loro compagni di nomination nella list BBC Sound of 2013, i Peace.

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Originari di Worcester ma stanziati a Birmingham, i quattro Peace pubblicano l’album di debutto In Love per Columbia Records, a sei mesi di distanza dal chiacchierato Delicious EP. In tracklist non possono ovviamente mancare - nell’edizione deluxe - i tre anthem sponsorizzati da NME: Bloodshake - chitarre Foals, suggestioni vagamente tropical (Vampire Weekend+Theme Park) e chorus sguaiatamente energico -, Follow Baby (riffaccio alt-rock e wah-wah baggy) e California Daze, praticamente i Led Zeppelin di The Rain Song in vacanza sulla west-coast anni ‘60, tra camicie a fiori e controllata psichedelia. Ritornelli di facile presa come quelli di Toxic (“All I gotta do, all I gotta do is forget you”) avanzano spavaldi a braccetto con memorie madchester la strofa di Waste Of Paint o l’inserto di piano di Wraith - e dialettica melodica marchiata Gallagher, sia versante Liam - il ritornello di Waste Of Paint - che versante Noel (la ballata Float Forever, ma anche Sugarstone). Tra (im)probabili hit post-moderne - club come il South di Manchester ringraziano -, In Love vive di citazionismi che talvolta si fanno eccessivamente invadenti (Lovesick suona come se Harrison Koisser e compagni si fossero messi d’accordo per storpiare i Cure) e di genuina euforia a metà strada tra fierezza brit-rock e un mito degli anni Novanta da spartire con i “B-Town” concittadini Swim Deep. Un senso di incompiutezza taglia a metà l’opera prima dei Peace: accenni di ritmiche variegate, spunti eccentrici (Scumbag e soprattutto Drain) e un buon istinto per i pezzi killer non compensano pienamente il valore di una scaletta che troppo spesso assume le sembianze del capitolo 19881997 di un Bignami del pop-rock albionico. (6.6/10) Riccardo Zagaglia

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tato” - legato com’è all’ambito (post)heavy-rock made in Neurosis e post-hardcore alla Breach - si mostra in tutta la sua drammatica urgenza riuscendo ad annullare la ovvia distanza temporale col core del genere. C’è molto in questo disco: una idea forte, innanzitutto. Quella cioè che si fa da linea conduttrice lungo l’asse di una indagine sul “respiro” come “essenza della vita”, del “pneuma” come principio ideale e fondante della vita, e che ristabilisce il senso ultimo del termine “concept album”. Poi la musica. Densa, straziante, spesso lacerata e lacerante. Che procede a ondate come il flusso/ riflusso del respiro e che sfrutta cliché di genere senza per questo mostrarsi mero epigone della stagione aurea del post-hc. Che siano movenze doomy (Pulse), arpeggi estatici alla Isis primigeni, cadenze post-apocalittiche Neurosisiane, accordature ribassate, oscurità Sunn O))) in dosi massicce, geometrie e contrasti vuoto/pieno di stampo post-rock e humus post-hardcore italiano di quello incupito e senza speranza (Tommy dei Concrete presta l’ugola in L’Ora Del Corpo Spaccato), è l’insieme del tutto a colpire per lucidità di intenti e capacità interpretative. Un disco sofferto e naturale come un respiro. (7.2/10)


Genere: dark techno Dopo un 2012 passato a scolpire il progetto Vatican Shadow con due lavori nello stesso anno, nel 2013 torna Dominick Fernow con l’alias Prurient, anche se non si capisce bene il senso di tutti questi nomi visto che la strada in fondo è una, tolto il caso pop-wave targato Cold Cave che può essere considerato a parte. Per il resto l’evoluzione del Fernow-pensiero si ottiene saltellando qua e là tra le varie sigle e conferma ne è questo nuovo Through The Window, un lavoro che pare molto più vicino a quanto fatto con la sigla Vatican Shadow rispetto allo storico Prurient, perché giochiamo di nuovo sul tappeto della techno.Diciamolo, l’ascolto è una sorpresa. Eravamo preparati alla techno, non a questa pulizia del suono. Prima traccia sono i diciassette minuti della title track. Uno si aspetta che prima o poi parta una texture noise, una rasoiata industrial, quelle cacofonie e brutture a cui il nostro ci ha ben abituati da anni a questa parte. E invece no. Cassa dritta, synth pompati in versione science fiction e drone d’atmosfera dark e goth. La cosa funziona e viene replicata. You Show Great Spirit, dieci minuti e stesso identico discorso: ancora cassa dritta, ambientazioni nere e, in sottocutanea, frammenti glitch/noise che però non deturpano mai il paesaggio, anzi si integrano nel pattern alla perfezione. Solo i quattro minuti di Terracotta Spine tirano le fila con quello che è il passato e riallacciano ponti in direzione techno noise dalle parti dell’ex Yellow Swans Pete Swanson, ma sembra quasi un atto dovuto. Fernow che decide di giocare con la melodia lasciando a margine il bagaglio noise: questo è il senso di Through The Window. Qualcuno sarà pronto a storcere il naso, ma qui si si allargano gli orizzonti e, perché no, si scende nella dancefloor. Sfida vinta. (7.2/10) Stefano Gaz

Pure Love - Anthems (Mercury Records, Marzo 2013) Genere: rock-pop “Frank Carter era la voce, l’anima ma soprattutto il simbolo dei Gallows”. Questo veniva detto all’interno della recensione dell’ultimo album della punk band inglese, il primo senza lo storico leader. Frank, che incorporava e rappresentava come pochi altri la rabbia albionica, ha abbandonato la causa per incongruenze artistiche con gli ex compagni di avventura, dando vita in breve tempo al progetto Pure Love insieme a Jim Carroll, personaggio di spicco della scena HC Bostoniana già chitarrista con i The Hope Conspiracy e The Suicide File. Bastano pochi secondi dell’album di debutto Anthems per notare il cambiamento radicale della Frank-attitude: dimenticate l’icona 100% british, qui si guarda anche in direzione USA. Attenzione però, se state pensando ad un passaggio di consegne tra UK punk/HC e USA punk/ HC vi state sbagliando: il cambiamento non si ferma all’aspetto geografico ma coinvolge anche l’aspetto prettamente musicale. Uscito per la Mercury Records-Universal, Anthems fa sorgere parecchi dubbi sulla autenticità artistica di Frank Carter, fino ad un paio di anni fa mai messa in discussione: “sono stanco di cantare canzoni sull’odio, i Pure Love sono la band che ho sempre sognato” ammette, ma allora quale è il vero Frank Carter? L’esile tatuato che narrava la “grey britain” gridando o l’anonimo cantante di un’altrettanto anonima band rock-pop? Una vena creativa quantomeno flebile: brani come Handsome Devils Club (Gaslight Anthem via Green Day, o viceversa) non fanno neanche troppi danni, non si può però dire lo stesso della ballad piano-rock Anthem, dell’aborto Bury My Bones - ovvero i The Darkness con Dexter Holland alla voce - e della generica rock music che caratterizza buona parte delle undici tracce di Anthems. Gli episodi brit-oriented - She (Makes

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Prurient - Through The Window (Blackest Ever Black, Febbraio 2013)


The Devil Run Through Me) - potrebbero appartenere a qualche band locale in zona contest e fa quasi tenerezza - considerto il passato realmente riottoso - l’innocua Riot Song sui passi dei Manic Street Preachers. Non pensavo di doverlo fare, ma mi tocca concordare con NME e citare “WHY, Frank?” (4.8/10) Riccardo Zagaglia

Genere: songwriting Avere sessant’anni - appena compiuti il 3 marzo e non sentirli minimamente. Robyn Hitchcock li ha festeggiati in pubblico lo scorso 28 febbraio a Londra, con uno show riassuntivo della carriera, ormai lunga e celebrata, dal 1976 dei Soft Boys agli ultimissimi album, registrati con i Venus 3 (Bill Rieflin, Scott McCaughey e Peter Buck). In Love from London, prodotto da Paul Noble che vi suona le tastiere e il basso -, già presente nel precedente Tromsø Kaptei uscito un paio di anni fa solo in Norvegia, Robyn ritorna ad un suono più prodotto e pieno, dopo la tanta psichedelia assortita condivisa con l’ex R.E.M. e sodali. Nel disco predominano suoni elettrici e nervosi, più pop-rock e wave oriented, che segnano un ritorno a un bel po’ di anni fa, al suo periodo dopo i Soft Boys; musica che, secondo quanto ammette lo stesso musicista inglese, “riflette il periodo caotico che stiamo vivendo, in forte pericolo di collasso economico ed ambientale, in cui la gente però può farsi sentire e dire la propria”. Nel suo caso con l’impegno ecologico e soprattutto con la musica, “il vecchio caro rock’n’roll”. Robyn medita su questi temi in Love from London, definendo le sue canzoni “quadri che si possono ascoltare” (del resto tanti suoi dipinti sono finiti nelle cover degli album, e nello stesso tempo ogni canzone è un affresco), con il consueto piglio trasversale, mostrandosi ancora una volta

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Sepalcure - Make You (Hotflush Recordings, Aprile 2013) Genere: Garage, footwork Eravamo rimasti all’album omonimo (Sepalcure, Hotflush Recordings), dove, con grande maestria, il duo composto da Travis Stewart (Machinedrum, JETS) e Praveen Sharma (Braille, Praveen & Benoit) era riuscito a condensare le principali sonorità post-step degli ultimi anni con un’attitudine caratterizzata da irregolarità espressiva e fuga dalle facili etichette, capace cioé d’unire 2 step a percussioni tribali, atmosfere lounge e vocal sample echeggianti. Saggia dunque la decisione d’aspettare e raccogliere le intuizioni delle produzioni precedenti, rafforzando l’esperienza attraverso percorsi individuali (Praveen Sharma ha continuato a produrre sotto il proprio nome) e progetti esterni (Machinedrum, oltre ad aver firmato recentemente per Ninja Tune, è tornato alla ribalta l’anno passato formando il duo JETS con Jimmy Edgar) e mantendosi così contemporaneamente dentro e fuori la tag “future-garage”. Make You non è altro che un’introspettiva romantica del duo: synth pad e percussioni che rievocano bellezze del passato (vedi il sampling di Love Will Save The Day di Whitney Houston in Make You) che si fanno accompagnare prima da bassline liquide, poi dall’arpeggio di una chitarra classica che dal dancefloor ci ricolloca a un concept da poltrona. Sulle stesse frequenze, He said no, dove i campioni vocali in loop vengono immersi in un’imperturbabile atmosfera che è quasi un benvenuto alla inter city life di Goldie o alla jungle di Lemon D. Segue un footwork tenace, degno del Machinedrum a cui siamo abituati e ritagli ambient estremamente armoniosi (DMD). Pochi i punti deboli, come al solito studiata ripeti-

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Robyn Hitchcock - Love From London (Yep Roc, Marzo 2013)

centrato. Un ritorno molto gradito, come quello di un vecchio amico. (7.1/10)


tività tecnica del footwork che affiancata ad altri elementi, disordina l’insieme in modo creativo ed efficace, scostandosi, ancora una volta, dagli automatismi di genere. (6.9/10) Asmir Lalic

Genere: Neo-RnB Una collaborazione tra How To Dress Well e Shlohmo non è niente di sorprendente. Che i due si scrutassero da lontano l’avevamo già insinuato in tempi non sospetti. Ecco che con estrema puntualità arriva un Laid Out EP che presenta come cavallo di battaglia Don’t Say No. La traccia si apre con l’ormai conosciutissimo falsetto neo-RnB di How To Dress Well e si snoda tra pad filtratissimi e notturni. La novità rispetto ai precedenti lavori di Shlohmo è una ricerca di minimalismo rispetto al massimalismo del passato. Un lavoro a sottrarre e semplificare che si nota particolarmente nei drum loops scevri dei vezzi glitch-hop di Bad Vibes. Se con Out of Hand il richiamo è quello delle atmosfere spettrali da Manchester di Holy Other, complessivamente l’EP è un salto a piè pari nell’attuale tormentone del trap, al quale già si era avvicinato nel precedente Vacation soprattutto grazie all’influenza di Kuedo. Non il trap nelle sue accezioni più mainstream, ma abstract trap - fusione tra crunk e bedroom electronica - che incrocia musicisti come Clams Casino e Purity Ring per essere esemplificato alla meglio dai lavori di Ryan Hemsworth. Per Shlohmo questo cambiamento, la cui costante è sempre stata l’hip hop, non è dovuta tanto a un tentativo di accodarsi alle ultime mode quanto a una sensibilità che lo spinge ad aprirsi al meglio della produzione contemporanea. Sfortunatamente, per quanto Don’t Say No sia una collaborazione che fa mostra di eccelso buon gusto, oggi non è più

Antonio Cuccu

SNAKEHIPS - Minnow Johnson EP (Self Released, Luglio 2012) Genere: Hip Hop Dell’identità dietro al moniker si sa poco più che il nome, ma già dal primo ascolto Snakehips rende chiaro il taglio del suo progetto colpendoci con il mood e i riferimenti giusti per sciogliere il cuore: uno skit da Enter The Wu-Tang (36 Chambers) ci introduce a un hip hop strumentale ispirato ai giganti J Dilla e FlyLo; il feeling è perfetto per una sampledelia da stati di coscienza alterati e gli strumenti del mestiere sono quelli che conosciamo: frammenti di r’n’b, pianoforti e vocals di matrice soul immersi in un sostrato psichedelico di suoni spaziali da Game Boy. L’entusiasmo iniziale, però, si smorza ascolto dopo ascolto. Il felice ricordo dei bei momenti spesi su J Dilla e Nujabes si tramuta presto nella convinzione che ci si trovi davanti a un disco fin troppo citazionista e derivativo, privo di vera specificità e autonomia. Questo innanzitutto per una scelta di campioni poco dilliana: troppe citazioni da brani famosi, senza quel lavoro di crate digging che dovrebbe essere il bello di questo tipo di musica. In special modo, se aprire il disco con un sample del Wu-Tang può essere una simpatica captatio benevolentiae, costruirci sopra quasi un disco intero è sleale e dunque, forse, inaccettabile. In secondo luogo, pesa sul risultato finale la schematicità della formula, poco aperta a variazioni e pruriti sperimentali (difetto, tuttavia, meno evidente, vista l’esigua durata del formato EP). Un bell’esercizio di stile, sia chiaro, ma in fin dei

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Shlohmo - Laid Out EP (Friends Of Friends, Marzo 2013)

sufficiente mettere insieme snare che cliccano e pad malinconici per sorprendere, e il successo di cui Laid Out sembra stia godendo è dovuto più al suo offrire agli ascoltatori ciò che si aspettano che alle effettive qualità. (6.8/10)


conti troppo scolastico, ragion per cui il giudizio non può che esserlo altrettanto: le potenzialità ci sono, ma il ragazzo non si applica abbastanza. Il pregio più grande di questo disco, in fondo, è che fa venire voglia di (ri)ascoltare J Dilla. (6.6/10) Gianluca Carletti

Genere: Electro funk Sono passati quattro anni da quando l’allora 19enne irlandese Jack Hamill pubblicò il primo album Unidentified Flying Oscillator su Acroplane Recordings e, soprattutto, un singolo (The Love Quadrant, Kinnego Records) che lo rese noto al pubblico e alle riviste di settore. In quel momento si parlava di una miscela di space disco e synth funk, un connubio poco comune quanto intrigante di un’epoca ultra saccheggiata lungo tutti i 00s, ovvero i fine 70s e gli inizi degli 80s. Da allora, Hamill non è rimasto fermo: è salito sulla navetta R&S, ha fatto uscire due LP (Temporary Thrillz nel 2010 e The Pathway to Tiraquon6 nel 2011), creato la propria etichetta (Basic Rhythm), ricevuto i plausi di FACT Magazine e Resident Advisor e, non ultimo, architettato la sceneggiatura per l’album in questione. Nel 2011 riceveva una calorosa accoglienza anche da noi, presenziando al robot04 di Bologna, al C2C e al Movement Torino Music Festival (occhio che il 22 marzo ritornerà a Roma all’L-EKTRICA). “Get ready for a new experience in galactic funk” è il motto della nuova avventura, e se è vero che il contesto futuristico rimane invariato, come del resto le scenografie in simil-Blade Runner (anno 2357, per la precisione), è vero anche che l’autore ci invita in uno sfondo elaborato, soprattutto dal punto di vista narrativo, ripresentandoci il suo alter ego, Mr. 8040. Quest’ultimo è una sorta di controllore spazio dimensionale e blackissimo

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Space Dimension Controller Welcome to Mikrosector-50 (R & S Records, Marzo 2013)

narratore delle tracce, in viaggio nel tempo verso il pianeta Mikrosector-50 tra incontri notturni, delusioni d’amore, droghe e il desiderato arrivo al pianeta natale. Un plot ironico/stravagante che si traduce in un ubriacante caleidoscopio cosmo-electro funk che scava tra le fondamenta industriali di Detroit e il future-funk di precursori hip hop come Herbie Hancock (Mr.8040’s Introduction, “Mikrosector-50, Mankind’s New Home”), senza dimenticare le lezioni funk targate Prince (Welcome to Mikrosector-50, “Home to Emptiness”). Il taglio space-funk ed electro-break non è un caso singolare, forte del richiamo dei Newcleus di Jam On Revenge e, non ultimo, Afrika Bambaataa. Il contesto rievoca a gran voce anche Jimmy Edgar, di certo non estraneo a vocioni pitchati e funk, e prendendo spunto dall’industrialità di quest’ultimo (con quel personale atteggiamento afro-futuristico), ostenta quell’odierna nostalgia al kraut spaziale tipico degli anni Settanta (Confusion on the Armament Home, “Answers from Max”). Nel disco si passa dall’atmosfera psych-ambient artificiale, minimale eppur trasfondente (2357 A.D., un mistico richiamo ai Boards of Canada), al soul ambientale cibernetico - dove le riflessioni del protagonista vengono accompagnate da un mood di completo isolamento causato dal continuo riverbero dei synth e dal richiamo prog (When Your Love Feels Like It’s Fading, dove le chitarre ricordano gli Asphodells) -, i ritmi acidi (Rising) e la disco struggente (You Can’t Have My Love). Il fatto che l’autore abbia cercato di giocare più sul fattore del coinvolgimento narrativo attraverso le risonanze, rispetto alle singole tracce strumentali, non sempre gioca a suo favore. La fuga dalla realtà di Jack Hamill, tuttavia, è ben studiata (nonostante la presenza di brani dei suoi lavori precedenti) e riesce a plasmare piacevolmente l’intenso calore del mondo funk all’alienante battuta techno di Detroit con voice coder robo-


tico e un TR-808 marziano. Il fascino sta proprio in questo: Welcome to Mikrosector-50 fa da contenitore groove a tutto quello che siamo stati costretti a ricercare singolarmente negli ultimi trent’anni e il risultato è una vera e propria macchina del tempo. (7.2/10) Asmir Lalic

Genere: pop-rock/blues Ci sono band che, a livello personale, saranno sempre legate ad un determinato momento storico della mia esistenza. Quando penso agli Stereophonics la mente vola sempre al 19981999, quando le Local Boy in the Photograph, le Just Looking, le The Bartender and the Thief e le Mini Cooper/Italian Job del video Pick A Part That’s New andavano di pari passo ai miei primi approcci con i media specializzati, all’epoca alla ricerca dei nuovi Oasis. Ricordo quindi con una punta di nostalgia gli esordi altisonanti di una band che poi fino alla metà degli anni zero ha cavalcato con furbizia la scena post-britpop trovando sempre la hit radiofonica (Have a Nice Day, Maybe Tomorrow, Dakota) in grado di garantire buona visibilità e successo. Poi un paio di album meno fortunati (i dimenticabili Pull the Pin e Keep Calm and Carry On), la tragica morte nel 2010 del batterista storico Stuart Cable e l’abbandono nel 2012 di Javier Weyler, otto anni dopo aver sostituito lo stesso Stuart. Sintomatologia di una parabola discendente senza segnali di ripresa. Segnali di ripresa che a conti fatti non arrivano neanche con Graffiti on the Train, l’ottavo album della band gallese guidata da Kelly Jones. Il primo lavoro senza l’appoggio della V2 - esce per la Stylus Records da loro fondata - rappresenta comunque un inizio di una nuova fase, proba-

Riccardo Zagaglia

Stygian Stride - Stygian Stride (Thrill Jockey, Marzo 2013) Genere: synth psych In una recente intervista a Brad Rose della Digitalis, a domanda precisa sul perché la quasi totalità del suono weird-folk di qualche anno fa si fosse recentemente convertito alla pratica del synth krautedelico e dell’elettronica vintage, il lungimirante uomo di Tulsa non sapeva trovare una ragione precisa, perché difatti la risposta migliore è rappresentata dal recente catalogo della sua etichetta. Ad unirsi al coro dei convertiti arriva Stygian Stride, ovvero Jimmy SeiTang, uomo con un passato in formazioni psichedeliche, non ultimi gli Psychic Ills e più recentemente i Rhyton.

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Stereophonics - Graffiti On The Train (Stylus Records , Marzo 2013)

bilmente meno fortunata, caratterizzata da una maggiore libertà espressiva. In Graffiti on the Train non mancano gli episodi in cui vengono lasciate in disparte le sonorità tipiche del gruppo: Roll The Dice e il suo r&r con tanto di fiati e coriste, il retro-blues di Been Caught Cheating, l’imbrunire ascustico di Violins and Tambourines e orchestrazioni che, mai così presenti, vanno di pari passo con il background cinematico del disco (Kelly voleva realizzare anche un film durante la scrittura) e supportano discretamente un comparto strumentale che mostra tutti i pregi - e i difetti - dell’esperienza. Va apprezzata quindi la volontà di tentare soluzioni alternative e/o di utilizzare strutture che in occasionalmente escono dal classico gioco tra strofa, ritornello e ponte. Novità che purtroppo vengono spesso messe in ombra da brani piuttosto banali come Indian Summer o We Share The Same Sun. Nel complesso Graffiti on the Train convince ed incuriosice di più rispetto al precedente Keep Calm And Carry On, ma non decolla mai e difficilmente cambierà le sorti artistiche di Kelly Jones e compagni. (5.5/10)


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Antonello Comunale

Team Ghost - Rituals (Wagram, Marzo 2013) Genere: tutto e niente Tra i due membri fondatori del progetto M83, Anthony Gonzalez è il vincente. I risultati ottenuti da quando Nicolas Fromageau ha abbandonato la causa (2004) parlano chiaro: successo internazionale da circuito pre-mainstream, copertine e arene sold out sono il riflesso dell’epico bagliore synth-dream perfezionato nel tempo da Gonzalez. Nicolas da anni cerca il riscatto attraverso i suoi Team Ghost, incapaci però fino ad oggi di brillare di luce propria: i due EP del 2010 (inglobati poi l’anno successivo nell’album-compilation We All Shine) non hanno infatti lasciato molte tracce,

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tanto che prima della recente uscita del singolo Dead Film Star, l’opera più illustre di Fromageau e compagni era - ironicamente - un remix della super hit degli M83, Midnight City. Quella del primo vero album di inediti intitolato Rituals (via wSphere / Wagram) era quindi un’occasione da non sprecare e in questo senso la maggiore varietà donata dalla formazione allargata - Benoit de Villeneuve co-protagonista - e le sfumature meno malinconiche, sono probabilmente un buon punto di partenza. Molteplice è la natura della cifra stilistica dei Team Ghost: tappeti e layer di synth che si intrecciano abilmente a maestose chitarre in feedback nell’opener Away, la wave chitarristica di Curtains e i mancati inni indie anni zero (la già citata Dead Film Star è melodicamente semplice quanto impeccabile). O ancora, l’oscurità anni ‘80 che prima si fa ritmica (Things Are Sometimes Tragic) e poi sfocia nella darkwave 4AD (la titletrack) e i solitari paesaggi ambientali (Broken Devices, We Won’t Fail) in totale contrapposizione con la freschezza pop dell’accoppiata FireworksMontreuil. In Rituals è complicato trovare un nitido e convergente tratto distintivo (come non citare anche lo strano tentativo epic-r&b in vocoder di Pleasure That Hurt?): se non fosse per alcuni settaggi, potrebbero essere tranquillamente dodici tracce appartenenti ad altrettanti gruppi differenti. I Team Ghost non scimmiottano nessuno in particolare e sanno coprire una vasta gamma di influenze con un certo gusto. Questo per il momento può bastare. (6.4/10) Riccardo Zagaglia

The Black Bug - Reflecting The light (Hozac, Marzo 2013) Genere: Synth Punk Reflecting The Light, secondo lavoro dei Black Bug, era già uscito sul finire del 2012 per il pub-

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Il discorso da fare per questo disco di debutto è quello che generalmente si fa in questi casi, ovvero quello della fascinazione per l’etere cosmica di matrice kraut, in special modo per la lezione dei maestri Tangerine Dream, che di tutta la classica stirpe tedesca sono probabilmente quelli più influenti sugli attuali epigoni. La geografia del cosmo sta tutta in Zeit e non c’è molto da aggiungere, se non qualche indicazione di corredo che Jimmy si appresta a fare contaminando il suono classico della psichedelia germanica con la corrente minimalista del suono Mille Plateaux, Gas ovviamente ma anche Thomas Koner e l’elettronica vintage/horror di John Carpenter. Brani come Hindsight, Drift e Taiga trovano quindi un felice punto di equilibrio fra tutto questo, pur non dimostrando un briciolo di originalità o qualcosa di inedito per cui valga la pena di togliersi il cappello. Come disco di debutto può trovare una collocazione nel mare magnum contemporaneo di produzioni analoghe, ma a una seconda puntata bisognerà sterzare sensibilmente verso qualcosa di meno derivativo. (7/10)


Stefano Gaz

The Last Bison - Inheritance (Universal Republic, Marzo 2013) Genere: folk Folk, folk e ancora folk. Che piaccia o meno, la recente - quanto discutibile - vittoria ai Grammy Awards alla voce Album of The Year di Babel dei Mumford & Sons è solo l’ultimo step di un periodo che ha visto il folk-pop essere il vero grande protagonista delle classifiche di vendita. Il popolo chiede questo e questo viene dato... o il contrario. Uno dei nomi che potrebbe seguire con successo la scia è quello dei The Last Bison. E chi c’è dietro? Ovviamente la Universal Repu-

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blic, ormai da qualche tempo la label di riferimento in ottica pre-mainstream. A differenza dei più “minimali” Lumineers, i The Last Bison fanno le cose in grande: la formazione ufficiale fa sfoggio di sette elementi armati di banjo, mandolino, chitarre, organo, violoncelli e tutto il necessario per rispettare i canoni più pomposi del genere, non solo a livello strumentale ma anche a livello di look. Guardateli nelle foto promozionali, sembrano le comparse di un film in costume. Come ogni formazione pronta al grande salto, anche la band della Virginia conosciuta in passato anche come Bison, ha il proprio asso nella manica: si chiama Switzerland, forte di una manciata di giorni nelle zone alte della HypeMachine chart e di quel mix di trad-sounds e melodie corali, potenzialmente perfetto per le radio. Diciamolo subito, rispetto ai colleghi Mumford & Sons, la band di Benjamin Hardesty - che vocalmente ha addirittura inflessioni che ricordano Gerard Way dei My Chemical Romance... - dimostra di saper variare maggiormente la proposta, se non altro grazie a strutture ed intagli più articolati che rendono meno piatto il tutto. Ciò nonostante il loro album Inheritance - che per la sua metà di compone di brani già presenti nel debutto del 2011, Quill - fatica ad uscire dal recinto chamber-folk-trad-americana e solamente in rare occasioni presenta slanci artistici degni di nota. Prendendo in egual misura da Fleet Foxes e The Decemberists, i The Last Bison ci mettono passione e trovano i giri giusti nel chorus di Dark Am I, ma anche nelle armonizzazioni fleetfoxesiane (River Rhine, Take All The Time) e nelle trovate strumentali di Watches and Chains. Le facili melodie (Autumn Snow) addolciscono una proposta di suo già abbastanza stucchevole e nonostante la buona alchimia che dimostrano di avere, il risultato appare artefatto e distante: si ha l’impressione di stare guardando un film dall’esterno invece che

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blico europeo grazie alla piccola ma di culto Eighteen Records. Lo ritroviamo ora, a strettissimo giro di vite, lanciato nel mercato americano da una delle migliori etichette a sfondo punkgarage, la Hozac Records. È un riconoscimento meritato perché il synth punk del duo svedese (ormai trapiantato in Francia) è quanto di meglio offra questo primo scorcio di underground 2013. Per certi versi lo spirito è abbastanza similare al debutto Iceage: batteria che pesta veloce, cartucce da un paio di minuti, atmosfere nere, approccio essenziale e distorto. Qui però sono i synth a farla da padrone e ne consegue uno spirito più wave, a metà strada tra derivazioni Cabaret Voltaire e la science fiction autoritaria di Orwell. La combinazione è una bomba che esplode anthem punk (You Scream, Tv Screen, Midnight), acidi dark wave (Delta, Threads, Midnight), riflussi garage (Mask, Slay Them), il tutto catalogabile nei canoni post punk ma con la giusta dose di personalità per rimanere impresso nelle orecchie. Vengono in mente i Bahuaus nell’incipit di Miriam si sveglia a mezzanotte: aggiungete loro un pubblico pogante, bottiglie che volano a spaccare qualche testa, ed ecco servito il mood di questo disco. (7.4/10)

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Genere: dark ambient Inferno e morte, irrequietudine ed incubo. Excavation è un viaggio quanto mai realistico nei luoghi più reconditi ed oscuri dell’inconscio umano, nonché una fine prova di audiofilia ed estetica sonora. Concepito come il seguito del buon esordio omonimo - da ascoltare uno dietro l’altro - pubblicato nel 2011 per Aurora Borealis, Excavation segna il passaggio del compositore - più che produttore - inglese The Haxan Cloak sotto la venerabile Tri Angle di Brooklyn. Il ragazzo dietro lo spettrale moniker (haxan in svedese significa strega) - tratto dall’horror muto del 1922 Häxan - è Bobby Krlic, ventisettenne dello Yorkshire dalle chiare origini slave, ora residente a Londra. Affascinato dagli aspetti più “neri” della vita, Krlic preferisce tenersi alla larga dal termine “dark” e ricercare semmai quell’adrenalina che può offrirti il terrore oppure il disagio. Bobby cresce in una famiglia vicina alla musica, con il crust e l’hip hop passati dal fratello maggiore e scovando spunti compositivi in gruppi drone doom come Sunn O))) ed Earth, quanto in Trent Reznor. Temi ed intenti però lo slegano da una logica strettamente musicale, ricollegandolo concettualmente ai linguaggi cinematografici Lynch-iani, all’immaginario surrealista o alle colonne sonore di Wendy Carlos per Kubrick, in maniera tale da rievocare le nevrosi claustrofobiche di film come Eraserhead o Shining. Le registrazioni di Excavation partono da materiale grezzo ricavato da strumenti acustici, tutti suonati da Krlic, negli studios della Britten-Pears Foundation. Il risultato è però quanto più lontano possibile da un’ottica terrena, a parere dell’autore rappresentata da strumenti analogici e field recordings. I campionamenti di gong, timpani, percussioni d’orchestra ed archi vengono così sapientemente crushati, “disorientati” e distorti, col fine di creare un mood trascendentale nelle orecchie dell’ascoltatore attraverso un campionario di bassi in saturazione e rimbombi cavernosi. Ne scaturisce un suono decisamente palpabile ed elaborato, vivo e solenne, dove ogni drone viene aperto in molteplici sfaccettature con un’estensione ed una profondità notevole. Le percussioni vengono in molti casi lasciate semplicemente propagarsi e, per quanto minimale sia il risultato, i battiti sono ben calibrati, come se ogni frammento di suono colpisse fisicamente l’ascoltatore in prima persona. Excavation, come precedentemente accennato, prende le mosse dal precedente LP, dove una certa agonia sonora culminava con la morte della sua impersonificazione. Consumed è spirazione. Qui inzia quell’evacquazione dell’anima e quel tragitto che la porterà lontana dalla condizione terrena, in una sorta di commedia dantesca verso gli inferi. Krlic affronta i suoi fantasmi addentrandosi in un’oltretomba vivente, sfidando la stessa condizione umana di paura verso l’ignoto. La lenta discesa, l’escavazione verso il profondo e l’attesa del giudizio, trovano massima rappresentazione nella title track, lunga trasfigurazione dello spirito suddivisa in due parti. Due lamenti funebri aprono di fatto le porte dell’inferno e portano nomi (Mara e Miste) che celebrano antiche elegie perdute in un crescendo di tonfi imponenti ed oscillanti arricchiti da sample di anime dannate. Le due parti di The Mirror Reflecting mostrano un certa componente melodica e ritmata grazie agli

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The Haxan Cloak - Excavation (Tri Angle, Aprile 2013)


archi. I componimenti ripercorrono concettualmente la valenza mitologica e simbolica dello specchio nell’immaginario popolare e nella retorica ellenistica, oggetto simbolo di narcisismo e perdizione sulle rive dell’Ade, nonché porta dell’anima per l’aldilà. Brkic sul finale si spinge anche oltre, in una rappresentazione del divino con Dieu (Dio in francesce), dove l’onnipotente viene interpretato come una macchina ad impulsi e bit che si dissolve lentamente in maestose onde di droni e giri di arco. Brkic scopre l’equilibrio nelle simmetrie impossibili di Helm, un inferno intimo sotto la metropoli notturna dei Raime, e colma di pathos le oscure ipnosi di Demdike Stare in un lavoro che avvicina la Tri Angle alle sorelle maggiori - più che altro per target di età dell’ascoltatore - Blackest Ever Black e Modern Love. Opera senza tempo. (7.7/10)

di essere realmente immersi in contesti rurali e in risvolti boschivi. In questo senso, l’artwork rimane l’aspetto più suggestivo del lavoro. Se amate certe sonorità ma non riuscite più a tollerare i Lumineers e gli eccessi gioiosi degli Of Monsters and Men hanno smesso di fare effetto, Inheritance potrebbe fare comunque a caso vostro. (6.3/10) Riccardo Zagaglia

The Men - New Moon (Sacred Bones, Aprile 2013) Genere: rock Se la “huskerduizzazione” del precedente Open Your Heart aveva raccolto consensi un po’ ovunque per capacità compilative e profusione d’energia, quello che, come osserva un insolitamente lucido Pitchfork, influisce su New Moon è un procedimento non alieno alle sfere dell’indie “grunge” oriented. Ossia, la progressiva svolta alla Crazy Horse che qua e là emerge ed è emersa praticamente in moltissimi esponenti della stessa area musicale, storici e meno, pian piano ripiegati sulla ricerca delle origini e di un suono “americano” nel senso più stretto del termine.

Un male? Una fortuna? Di sicuro chi come noi li aveva scoperti col precedente (già ponte tra l’aggressività di Leave Home e qualcosa di più articolato in via di definizione) si troverà spiazzato tra chitarre acustiche, mandolini, armoniche e singalong, ma a scavare nel profondo un paio di avvisaglie c’erano già state. L’abbandono del bassista Chris Hansell aveva già dato lo spunto al chitarrista Mark Perro per parlare dei The Men come “definitivamente un’altra band”, così che l’allargamento a quintetto (Kevin Faulkner alla lap steel e il produttore Ben Greenberg al basso sono le new entry) suona naturale; poi pezzi come Candy o Country Song, quest’ultima nomen omen, illustravano in forme sapientemente “underground” l’amore per la musica americana più polverosa e classica, nonostante ci si sforzasse di affermare che non ci si sarebbe mai “trasformati in una country band”. Sia come sia, New Moon è quello che indica il titolo stesso: una nuova fase, una rinascita, una messa a fuoco ulteriore dello spettro sonoro di una band da apprezzare per eclettismo e coraggio, spregiudicatezza e incoscienza; che ha smesso, cioè, di incendiare nichilisticamente il palco per addentrarsi in una ricerca sonora non

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Davide Nespoli

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propriamente personale ma per lo meno, nella sua stramberia, nella sua bizzarra scelta, nella sua anti-hipsteria, di sicuro meritevole. Meno arrogante e incompromissorio, ma non per questo meno diretto - quasi tutti one-take senza grosse sovraincisioni e col minimo dei canali a disposizione - o meno coeso, New Moon vive di momenti zuccherosamente “classici” (la diabetica Open The Door, High And Lonesome, Bird Song) che riescono a far convivere Neil Young e Minutemen, Tom Petty e The Drones, cowpunk e americana. Certo, noi li preferivamo più irruenti e scassoni ma siamo pronti a scommettere che, per preferenze, questo sarà uno dei top-album dell’anno. (6.9/10) Stefano Pifferi

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Genere: indie-rock Continua l’avventura discografica degli Strokes negli anni ‘10, arrivata qui al quinto capitolo, senza contare album solisti e progetti paralleli. Attesa meno spasmodica rispetto al passato, soprattutto per via di un ciclo promozionale votato al silenzio e al basso profilo. Due anni di scrittura, una manciata di scarti di Angles e produzione DIY nei leggendari Electric Lady Studios di New York per un disco che sembra suggerire, sin dalla copertina, un prodotto ordinario. Comedown Machine è un ulteriore tentativo di proporre un sound differente dai precedenti senza rinunciare a un marchio di fabbrica fatto di ottimi intrecci di chitarre, ritmi incalzanti e vocalizzi graffianti. Una missione sostanzialmente fallita ma non disastrosa, se non altro perché l’identità del gruppo ne esce intatta e non deluderà i fan. Il problema principale, semmai, è riconducibile a una crescente difficoltà nel trovare le soluzioni giuste in ambito di scrittura e ricreare la spontaneità di Is This It. Faticano dunque, gli Strokes, ad auto-emularsi,

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Luca Falzetti

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The Strokes - Comedown Machine (RCA, Marzo 2013)

riciclando il sound ormai classico del debutto in All The Time, un singolo piatto e monocorde lontano anni luce dalla leggerezza garage degli esordi. Altrove ritroviamo le tastiere e gli arrangiamenti 80s tanto cari a Casablancas, in una continua ricerca di giri di basso corpulenti (Welcome To Japan su tutte) in quelle che sono, a conti fatti, sonorità classic-disco (peraltro già precedentemente accennate) dai richiami al funk più ovattato e patinato degli ultimi Parliament e Funkadelic. La produzione è buona, stemperata rispetto ad Angles, eccezion fatta per un cantato a volte risucchiato negli arrangiamenti. Casablancas sembra andare ormai a briglie sciolte, riempiendo il disco di parti vocali in falsetto e sberleffi vari che non possono non risultare caricaturali, e sono probabilmente dettati da un’ironia di fondo, presente in abbondanza nei testi. Ecco quindi che un animale strano quale One Way Trigger prende improvvisamente senso nel bilanciamento della scaletta, e finisce col risultare uno dei brani più spendibili dell’intero lotto. 50/50, col suo quasipunk convulso, farà felici i fan di First Impressions Of Earth mentre, soprattutto nel finale, si rallenta (troppo?) fino all’androginia di Call It Fate Call It Karma, uno pseudo numero piano-jazz senza troppe pretese. Per inciso, tra ritornelli inconsisenti e brani mediani (Tap Out, Slow Animals) di Reptilia o di You Only Live Once non sembra esserci traccia. All’ordinarietà si affianca dunque l’evidenza di disco da limbo discografico, che lascia gli Strokes in debito perenne rispetto ai propri limiti e in tasca quel paio di brani in più per l’eventuale Best Of. (5.4/10)


Genere: noise pop La premiata ditta Tiny Tide si è rimessa in moto dopo l’anno sabbatico e siamo già al secondo titolo da inizio 2013. Con White Monster la puntina va a graffiare solchi noise-pop un po’ come lo Stephin Merritt invalvolato Jesus & Mary Chain di Distortion, mantenendo però il baricentro sul versante dreamy della faccenda, ragion per cui non si fanno certo desiderare trame Sarah e declinazioni Belle And Sebastian. Tutto ciò a dispetto del fatto che lo stesso Mark Zonda dichiari d’essersi ispirato a Scary Monsters, al White Album e a The Dreaming di Kate Bush. Aggiungiamo magari che nella title track sono precepibili sviluppi vetrosi à la Brian Eno, che We Dream On tradisce retaggi Moroder asprigni e che The Last Picture Show sembra ipotizzare un connubio letargico tra Human League e Patrick Wolf. Poi, dal punto di vista strettamente sonoro e canzonettistico, non ci sarebbe moltissimo da aggiungere. Messa in prospettiva però la faccenda compone un quadro più complesso e affascinante: un senso d’immaginario ricostruito pezzo per pezzo in bilico tra intimo e collettivo, come se i frammenti del discorso amoroso zondiano recuperassero via via le posizioni precedenti il big bang della vita adulta, ricomponendo il puzzle sfaccettato di una passione tangente il pianeta pop, segnatamente musicale ma anche cinematografico, fumettistico, televisivo. Vedi i feticci Doctor Who e Mike Bongiorno che aleggiano in Soufflé Girl, Hello, Victoria e Mike Tonight. Vedi l’ammirazione per il celebre Decalogo in Kieslowski Eyes, per Peter Bogdanovich nella già citata The Last Picture Show o l’amore vero e proprio per una certa Chan Marshall in The Power Of The Cat. È per questo che Tiny Tide/Zonda/ Zondini non si fermano mai: il suo (il loro) è fare musica come pedaggio di una vita che sarà pure grama ma resta pur sempre piena di meraviglie

da adorare. E che perciò è giusto celebrare. Tu chiamala se vuoi gratitudine. Che soffia sulle vele di queste barchette così fragili, così struggenti. (7/10) Stefano Solventi

Torres - Torres (Self Released, Gennaio 2013) Genere: singer/songwriter La costruzione di una leggenda indie vuole che il talento sia superiore alle avversità della vita, che lo straordinario entri nel quotidiano, stravolgendolo. Specialmente se si tratta di un musicista all’esordio, che sia qualcuno che arriva dal nulla, out of the blue, con la promessa di divenire una stella luminosa. In questo caso gli ingredienti ci sono tutti, a cominciare dalle coordinati geografiche: Nashville, USA. Si aggiunga poi una Gibson regalatale dai genitori solamente il Natale di un anno fa che però le permette di realizzare in solitaria un disco intero. Senza tralasciare una sensibilità da spleen post adolescenziale che si spalma su di una copertina in bianco e nero: ecco Mackenzie Scott, in arte Torres, che esordisce autoprodotta, come i migliori enfant prodige.

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Tiny Tide - White Monster (Kingem, Marzo 2013)

L’omonimo album è un rapporto carnale tra le scheletriche architetture musicali, la Gibson e raramente poco altro, e la voce intensa della giovane cantautrice. Il risultato è un mix tra indie art pop che rimanda direttamente alla PJ Harvey dei 4-tracks demo o alla Cat Power più intimista e sofferente. Pur con timbri vocali completamente diversi, in alcuni momenti (Jealousy and I) si tocca quella sensibilità tutta femminile che è tornata in auge nel mondo indie con l’exploit di Anna Calvi. Ma la Scott ci aggiunge un tocco di dolente psichedelia da deserto, come di un Jason Molina (November Baby, Come to Terms) al femminile, oltre a tocchi da alt.country marca Wilco (Moon & Back, con tanto di violini), un furbo richiamo alle chitarre novanta che stanno oramai sotto i

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riflettori (When Winter’s Over). Piace meno la voce effettata su Waterfall, ma è da apprezzare l’eclettismo che tocca anche lidi più elettronici. Come in Chains, quasi un nu-soul-ambient bianco che potrebbe stare in un disco di James Blake, ma che a ben guardare è una rielaborazione del bluesrock di Jack White. Con quella faccia lunga e l’aria sfighina non ci sarà da sorprendersi se la ragazza di Nashville farà colpo sul pubblico indie. Il talento non sembra mancare. Per la leggenda la strada è ancora lunghissima. Run Baby Run... (7/10) Marco Boscolo

Genere: alt-rock, soul Ci sono figli d’arte che saranno sempre destinati a vivere all’ombra ingombrante dei propri genitori e altri che, oltre a respirare sin da piccoli un’aria stimolante e a far man bassa dalla nutrita collezione di dischi in casa, coltivano un talento vero che li fa splendere di luce propria. Un nuovo nome si aggiunge alla seconda schiera: dopo il prematuramente scomparso Jeff Buckley, Neneh Cherry, Rufus (e Martha) Wainwright, oggi conosciamo Trixie Whitley: classe 1987, belga di nascita e americana d’origini e di residenza (ma abituata sin da bambina a girare il mondo con la madre nomade), l’erede del chitarrista e cantante blues-rock Chris Whitley (stroncato da un cancro nel 2005) si è fatta notare da Daniel Lanois - che l’ha voluta con sé nel supergruppo Black Dub - e da altri artisti importanti tra cui Marianne Faithfull, Robert Plant e Meshell Ndegeocello. Ascoltando Fourth Corner è facile capire il perché di tanto entusiasmo: la cantautrice e polistrumentista ha grinta, personalità, songwriting skill e una voce limpida, potente ma controllata, emozionale ed emozionante, destinata a farsi spazio in uno scenario oggi occupato da una parte da Adele e

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Trixie Whitley - Fourth Corner (Unday Records, Marzo 2013)

le sue molteplici emule e dall’altra dalle nuove Janis Joplin come Brittany Howard degli Alabama Shakes. Non sembra neppure di trovarsi al cospetto di un’emergente, tanto pare ponderato ogni passaggio di un album che arriva dopo una manciata di EP, registrato a New York con il produttore Thomas Bartlett (The National, Antony and the Johnsons, Grizzly Bear) e il sound engineer Pat Dillett (David Byrne, St. Vincent); poche le percussioni convenzionali, molte le chitarre - ora elettriche e immerse nel riverbero, ora asciutte e nude - ad accompagnare performance vocali che trasudano passione e a seconda del brano ci accarezzano, scuotono, stravolgono e lasciano senza fiato. Si pensi a cosa accadrebbe se Christina Aguilera un giorno si stancasse del proprio repertorio e chiedesse a Nick Cave o a Neil Young di comporre canzoni per lei: probabilmente verrebbe fuori qualcosa come Breathe You In My Dream, lo zenith dell’intero album. Need Your Love, un altro gioiello, fa tremare una Florence Welch che rischia di essere spodestata dal suo trono, mentre altrove si ascoltano la Suzanne Vega delle produzioni di Mitchell Froom (Never Enough), la già citata Ndegeocello e finanche una Anna Calvi convertitasi al caro, vecchio, rhythm ‘n’ blues. C’è tutto, in Fourth Corner, dall’amore carnale alla solitudine paralizzante. Eppure non c’è confusione. “Voglio portare le persone in luoghi che non si aspettano, dove possono essere libere di esprimersi”, ha dichiarato la Whitley. Che dimostra di essere di parola. Per ogni mood che si sussegue tra le undici canzoni (che diventano quindici nell’edizione destinata al mercato europeo, tra cui spicca la conclusiva I’d Rather Go Blind) Trixie adotta il registro adeguato cogliendoci più volte di sorpresa, passando con naturalezza da strofe scure a ritornelli da soul-woman e inserti di spoken-word che ricordano l’ultima Patti Smith. Non un solo minuto è sprecato, in un disco di debutto coraggioso che travalica i confini tra stili che si conta-


giano l’un l’altro e che creano il letto ideale su cui adagiare incertezze, paure, ma anche la voglia di vivere di una donna forte e vulnerabile, sicura dei propri mezzi ma ancora umile discepola, attenta ai consigli dei “grandi”. Un piccolo miracolo discografico e uno dei dischi più intriganti dei primi mesi del 2013. (7.3/10) Alessandro Liccardo

Genere: nu-UK soul I Vondelpark arrivano al full su R&S dopo due promettenti EP (Sauna, del 2010 e NYC Stuff and NYC Bags del 2011) e qualche singolo recuperabile su compilation underground. Il loro sound si accoda al carrozzone indie-soul post-dubstep che gruppi come The xx o musicisti come James Blake e The Weeknd hanno codificato come ‘il’ genere post-2010. Il plus del trio londinese prevede qualche ammiccamento al soul tout court (vedi i pesanti rimandi alle esperienze ‘80 di Sade in Blue Again), al glo-fi di Washed Out (tutta la texture di Lewis Rainsbury è sovrapponibile alle timbriche di Ernest Greene) e a un feeling retrò che ripesca le atmosfere intimiste di Face Value di Phil Collins (Dracula). Il ripescaggio dei padri nobili è sincero e codificato sapientemente nel limbo cool dell’ambient atmosferica che accontenta sia l’hipster infoiato per le tastierine (Matt Lawrenson usa il sempre più pervasivo Juno 6), che il clubber over 35 in revisionismo IDM. Anche se la proposta non ha (e non può avere) praticamente nulla di innovativo (non da ultimo il rimando ad Ariel Pink nella conclusiva Outro 4 Ariel o il sentore à la Smiths negli arpeggi di Quest), Seabed resta comunque un buon prodotto, looppabile e senza troppe pretese. Il grosso neo che questa tipologia di dischi inizia a manifestare è che si punta troppo alla perfe-

Marco Braggion

Wavves - Afraid Of Heights (Mom And Pop, Marzo 2013) Genere: grunge annacquato Mentre molte delle infuenze grunge e pop-punk che caratterizzano la musica di Nathan Williams erano già certamente udibili nei primi tre capitoli, è in questo Afraid Of Heights che gli Wavves prendono una decisa e marcata svolta verso di esse. Il precedente King Of The Beach è stato un affare tra il surf-pop antemico e l’indie lo-fi, mentre i primi due capitoli erano più votati al divertimento rumoroso e alla distorsione (a volte fine a se stessa) con testi che attingevano da tematiche tipiche del grunge quali l’indolenza, l’estraniazione e la paranoia ma che non tentavano di ricrearne l’irruenza emotiva, optando per una leggerezza totalmente pop. In questo nuovo lavoro invece, Nat affronta tematiche più depresse quali la morte e la perdita della speranza, con testi marcatamente “no hope no future” e attingendo dai Nirvana per linee vocali e accordi, tutto in tono con il nuovo materiale. Lo fa senza però rinunciare a dinamiche pop-punk à la Green Day che lo portano a scrivere hook infettivi, come quello di Demon To Lean On, per un sound a metà tra il cupo e il party da spiaggia. L’irruenza e la ruvidezza del grunge viene quindi diluita in pop song mascherate, che cercano continuamente la soluzione catchy, molte volte senza trovarla. Questo contrasto continuo fra te-

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Vondelpark - Seabed (R & S Records, Aprile 2013)

zione del suono e del montaggio, lasciando da parte l’anima. Il mosaico del nu-soul successivo alle esperienze del dubstep diventa così un po’ troppo gelido, un affare apprezzabile a fondo solo da producers e/o nerd dell’hi-fi. Spogliando le canzoni del quid ‘human’ si rischia di diventare solo buoni copisti. Qualche piacevole repeat da cima a fondo, ma nulla di più. (6.3/10)

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Luca Falzetti

Woodkid - The Golden Age (Green United Music, Marzo 2013) Genere: Zimmer-pop Tra i nomi presenti nella nostra Ones To Watch 2013, Woodkid era stato scelto principalmente in ottica mainstream. Dopo aver raggiunto una certa fama nell’ultimo anno e mezzo grazie a brani come Iron e Run Boy Run, era chiaro che quello dell’artista francese sarebbe stato uno dei (se non il) debutti lunghi più attesi del primo trimestre 2013, almeno a livello di pop music pronta a conquistare le classifiche. Yoann Lemoine all’anagrafe, Woodkid è un personaggio particolare quanto trasversale: studioso e da sempre incline al mondo della moda, dell’animazione e del cinema, ha intrapreso solamente in un secondo momento una carriera musicale che ovviamente incorpora alla base elementi a lui cari: la cinematicità e quell’epicità da colonna sonora, quando non da spot televisi-

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vo. Televisione che conosce piuttosto bene dato che tra le altre cose ha realizzato videoclip - oltre che per se stesso - per Lana Del Rey, Rihanna e Katy Perry. Il Woodkid musicale ha però una identità tutta sua, ben riassunta da The Golden Age e portata all’eccesso da una sicurezza dei propri mezzi - nonostante una apparente umiltà di fondo assolutamente fuori dal comune (si veda questo live come esempio). La formula - qualcuno dirà fin troppo ripetitiva - è quella della voce calda quanto fragile (Antony Hegarty uno dei punti di riferimento), che ad intermittenza lascia spazio o a incalzanti ritmi da cavalcata post-tribale o ad eroiche esplosioni orchestrali di scuola Hans Zimmer. Zimmer-pop quindi. Woodkid - che cura il progetto praticamente sotto ogni aspetto, artwork compresi - ha chiaramente avuto l’idea giusta: realizzare in DIY qualcosa di potenzialmente ipermainstream. Solamente il lato burocratico della questione è stato affidato a terzi, ovvero all’etichetta parigina Green United Music, che tanto terza poi non è. The Golden Age è l’archetipo del kolossal hollywoodiano, ha i momenti più dolci e mass-oriented (il singolo I Love You), l’intimismo evocativo (Boat Song), gli inseguimenti (la titletrack), l’allacciamento nascosto con la tradizione (francese) e i fuochi d’artificio finali. Spesso l’impalcatura dei brani nasce dalla semplice unione tra piano e voce, ma sono poi elementi come violini pizzicati, l’organo, ottoni ed archi ad arricchire la proposta. I toni grevi di alcuni passaggi di The Shore, il finale della già citata Boat Song o le situazioni church-pop via Active Child di Stabat Mater vanno a colpire quelle corde in grado di generare i classici brividi emozionali. Se poi si guarda il dettaglio degli arrangiamenti si nota una attenzione alle trame quasi maniacale. Sarà anche furbo e leggermente monocorde, ma Woodkid ha un talento incontestabile e una cifra

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sti, struttura e arrangiamenti, finisce col togliere compattezza stilistica alla proposta, rischiando di irritare l’ascoltatore con episodi troppo derivativi quali Dog (The Stooges) e That’s On Me (Weezer) o semplicemente inconcludenti. Mentre la personalità di Nathan riesce ad emergere bene attraverso i suoi testi, ciò non accade con la musica. Troppi i copia/incolla e quasi nessuna nuova idea sono decisamente poco per un progetto arrivato al quarto album. Si potrebbe aprire tutto un capitolo sull’immaginario, se volete poetico, del ragazzo sullo skate che cresce e diventa adulto nell’assolata California. La letteratura e la pop culture americana se ne sfama da sempre. Ma la versione di Nathan difficilmente risulta spendibile. Se la scena grunge è veramente destinata a riesplodere a breve, ci auguriamo non lo faccia con i modi e i risultati artistici dei Wavves. (4/10)


stilistica immediatamente riconoscibile. Quanti sono in grado di farlo già all’album d’esordio? (6.9/10) Riccardo Zagaglia

Genere: Alt rock Pur essendo soltanto il quarto album, Mosquito arriva a dieci anni dal debutto Fever To Tell e a ben tredici dalla nascita del trio newyorkese. La band, nel corso degli anni, ha visto evolvere le proprie sonorità partendo dal focus sui riff da dancefloor degli esordi per arrivare ad indugiare su melodie pop sintetiche con It’s Blitz, seguendo le tendenze di un’annata che ha visto diverse band rock compiere tutte lo stesso percorso (due esempi su tutti, In This Light And On This Evening degli Editors e Tonight: Franz Ferdinand). In questo disco accade tutt’altro: la ricerca artistica pare avere peculiarità opposte e sorgere da un focus introspettivo, con uno sguardo sul passato fatto di studio di registrazione e tour intensivi in successione e uno sul presente contraddistinto da progetti indipendenti e situazioni personali complicate. Se dei primi si è parlato diffusamente su riviste specializzate - in particolare quelli di Karen O, tra la sonorizzazione del cartoon per bambini Where The Wild Things Are e featuring come la cover di Immigrant Song per la soundtrack di The Girl With The Dragon Tattoo a firma Trent Reznor e Atticus Ross -, nessuno era a conoscenza del ritorno della cantante a New York dopo una lunga permanenza a Los Angeles - uno stravolgimento della routine tale da procurarle una crisi di identità - e della separazione del chitarrista Nick Zinner da una relazione importante. Un insieme di eventi che ha contribuito enormemente a costruire il mood del disco. Escludendo la surreale e fuori contesto title track - l’apice delle linee vocali istrioniche che recuperano la frivolezza a cui ci ha abituato in

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Yeah Yeah Yeahs - Mosquito (Interscope Records, Aprile 2013)

passato la band -, Mosquito è un disco scuro, nostalgico in certi punti, una sorta di diario nel quale confidare paure e descrivere momenti inquieti al fine di esorcizzarli. Esemplare, in questo senso, è l’anteprima Sacrilege, brano che vede un coro gospel corredare ritmiche à la The Stooges di I Wanna Be Your Dog e che, assieme a Area 52, finisce per essere l’ unico episodio del disco con un vero tiro rock. Il cuore del lavoro è contraddistinto da brani a bassa intensità, acuiti dalla voce dilatata di Karen O e dai tastierini e campionamenti percussivi lo-fi di marca Suicide. Fa in parte eccezione Buried Alive, prodotta da James Murphy e rappata da Dr. Octagon, dove Nick Zinner sforna droni e distorsioni proprie degli ultimi Muse. A conti fatti, il disco risulta una prigione di vetro: senza nulla togliere a chi fa della composizione intrisa di riferimenti personali la propria portante (The Antlers e The National gli esempi più riusciti) questa, evidentemente, non è faccenda per degli Yeah Yeah Yeahs con troppe cose da dire e un’esposizione non del tutto brillante dal punto di vista musicale. (5.5/10) Andrea Forti

Youth Lagoon - Wondrous Bughouse (Fat Possum, Marzo 2013) Genere: psych-pop Boise, Idaho. Toponomastica particolare, dato che il nome dello stato pare essere il frutto della smisurata fantasia del lobbysta George M. Willing, in grado di far credere a tutti che il significato, mutuato dalla lingua di una tribù indiana locale, fosse “perla delle montagne”. Un’invenzione bizzarra che riscosse però così tanto successo che, dopo le prime titubanze, tutti decisero di accettare di buon grado. Fantasioso e bizzarro in ugual misura è anche il polistrumentista factotum Trevor Powers, in arte Youth Lagoon, che nella capitale

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vette più elevate. L’accoppiata Third Dystopia e Raspberry Cane è bella da spezzare il fiato con la drum machine che lascia il posto a una vera e propria batteria, la voce un po’ nasale di Powers che affiora avvolgente dalla risacca di riverberi e i consueti synth scintillanti a ridisegnare e dipingere i contorni. È forse un po’ troppo tardi, però, per riuscire a riparare totalmente i danni e, in conclusione, la sensazione è di un’opera riuscita a metà, come se la fantasia degli abitanti dell’Idaho avesse fatto meglio a lasciar posto, per una volta, a una maggiore concretezza. (6.5/10) Marco Masoli

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dello stato dell’area nord-occidentale degli Stati Uniti vi è nato e risiede. Salito alla ribalta nel 2011 con The Year Of Hibernation, manifesto bedroom-pop sull’onda di quell’Hospice che fece un po’ scuola ovunque in quel periodo, torna ora con Wondrous Bughouse e l’aggiunta di una tavolozza di colori molto più ampia. L’imprinting dato al mondo musicale dagli innumerevoli acts sviluppatisi negli ultimi anni, che fanno delle derive psych e neo-psych il proprio cavallo di battaglia, ha contagiato anche Powers, indirizzandolo verso la scelta di abbandonare, almeno in parte, l’approccio storytelling dell’esordio - che pare caro invece, di recente, al fratello quasi gemello d’oltreoceano Deptford Goth - a favore di caleidoscopiche stratificazioni e rumorismi reiterati che finiscono spesso per appesantire il risultato finale. È soprattutto la prima metà di Wondrous Bughouse a soffrire della problematica sopra elencata, con l’opener Through Mind And Back a tracciare la via con due minuti e mezzo di dissonanze, effetti, riverberi e rumori che tendono più ad infastidire che a risultare piacevoli. La stessa sensazione è data dal valzer semi-strumentale di Attic Doctor, un brano che introduce giocose divagazioni in stile Animal Collective che si ripercuotono poi anche nei ricorsivi viaggi interiori di The Bath e nel gigioneggiare psych-ambient di Pelican Man. Tanta carne al fuoco, ma poca incisività, con il risultato che tutti i primi venticinque minuti si trascinano davvero faticosamente e la sola (bella) Mute - peraltro unico vero esempio di forma-canzone - fa capire quale dovrebbe essere la strada da seguire per contemperare la vena sperimentatrice tout-court con la capacità di non perdere per strada la narrazione. Ci pensa Dropla però, con il suo scampanellare scintillante e quello strizzare l’occhio costante agli Antlers, a risvegliare dal mezzo torpore e introdurre l’altra faccia della medaglia del disco, una parte che raggiunge poi nel finale le



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Bowie Le dinamiche del cambiamento Testo: Stefano Solventi

I secondi anni Settanta di Bowie: terapia esistenziale ed artistica sotto il cielo di Berlino. Da Station To Station a Low. 112


Immaginatevi se David Bowie non avesse fatto altro dopo il 1975. Oppure, che è quasi lo stesso, se avesse deciso di seguire fino alle estreme conseguenze la falsariga di Young Americans per capitalizzare il successo che finalmente arrideva anche negli ostici States. Certo, i dischi sfornati nella prima metà dei Seventies sarebbero comunque bastati a garantirgli un capitolo importante in ogni sussidiario rock che si rispetti. Probabilmente però, fosse solo per quelli, ne parleremmo oggi come di un Marc Bolan con un paio di marce in più sul versante dell’immaginario. Musicalmente, sarebbe stato un eroe glam, uno dei principali, nonché il santo capace di resuscitare Lou Reed e dare la scossa giusta agli Stooges. Ma quale sarebbe stata la sua eredità sul rock degli anni a venire? Altra domanda retorica, un pizzico più ambiziosa: cosa ne sarebbe stato del rock a venire?Considerata la situazione in cui versa in quella metà dei Seventies, questo scenario non è andato così lontano dal verificarsi. Il Duca cade sulla terra Non proprio un bel periodo, per Bowie. Il matrimonio con Angie sta franando, soffre gli strascichi della separazione dalla Mainmen di DeFries (che non manca di organizzargli contro una guerriglia di gossip ostile), una prodigiosa dipendenza da cocaina lo ha reso inappetente e paranoico all’ultimo stadio. Vive a Los Angeles - dove si è trasferito nel marzo del ‘75 - come in un incubo quotidiano. La collezione di comportamenti sciroccati - eufemismo - è da record: teme che alcune fan vogliano impossessarsi del suo sperma, ingurgita solo latte e gelato, cerca nell’occultismo di Aleister Crowley spiegazione e conforto ai propri deliri, conserva l’urina nel freezer per preservarsi dai malefici, tenta di decifrare messaggi nascosti nelle copertine degli album degli Stones e organizza esorcismi facendo bollire l’acqua della piscina. Lascia trapelare un morboso interesse per l’arianesimo nazista (forse solo un gioco-provocazione che però gli sfugge di mano). Interviene alla cerimonia

della consegna dei Grammy dove introduce uno dei suoi miti Aretha Franklin con un discorso sconclusionato nel quale non manca di magnificare i prodigiosi effetti della droga, guadagnandosi le ire della Signora del Soul che si rifiuta di stringergli la mano. Come dire, è un po’ confuso. È psichicamente a pezzi. In compenso un al solito spiantatissimo Iggy Pop si dimostra ottimo compagno di scorribande tossiche/alcoliche. È magro da fare paura, infatti si impauriscono e non poco gli amici John Lennon ed Elton John, che dichiarano pubblicamente di temere per la sua vita. In questo quadro a dir poco nevrastenico, Bowie riesce a mettere a segno una delle performance più importanti della sua proteiforme carriera recitando in The Man Who Fell to Earth di Nicolas Roeg. L’ex-Ziggy interpreta il ruolo del protagonista Thomas Jerome Newton, sorta di Cristo-alieno giunto sulla terra per salvarla da una devastante siccità che però cade vittima del circolo vizioso della decadenza umana, al punto da restarvi imprigionato. Bowie si rivela adattissimo, l’identificazione con l’enigmatico extraterrestre è totale, la critica lo acclama. Sembra spalancarsi un altro fronte espressivo, al punto da indurlo a fondare all’uopo la casa di produzione Bewley Brothers. Durante le riprese del film nella testa di Bowie prende però vita un personaggio ancora più importante, forse il suo avatar definitivo. Il “sottile Duca Bianco” discende direttamente dal soulman bianchiccio di Young Americans ma dopo il crollo di tutte le scenografie di cartapesta. È azzimatissimo, scolpito in un profilo implacabile, freddo, senza emozioni. Fascistoide iperdandy un po’ per provocare e un po’ perché ci crede davvero. Canta il soul come se fosse una circostanza chimica. “Un puro clown”, dichiarerà qualche anno più tardi, “l’eterno clown che ha la meglio sulla grande tristezza del 1976”. Con l’Europa a riempirgli l’orizzonte, e perso in un sempre più folle trip cocainico, Bowie individua negli States e segnatamente in Los

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Angeles il terreno di coltura della sua perdizione. Quindi trova la forza di reagire, anela il ritorno nel continente natìo, un desiderio rafforzato dall’interesse per il lavoro di band teutoniche quali Kraftwerk e Neu!, autori di trame seriali androidi i primi, ben più fauvisti e viscerali i secondi, entrambi portatori di una visione sonica avanguardista che tenta di scrivere pagine pop-rock come oracoli sulla pelle tesa del presente. È con queste premesse che tra ottobre e novembre nei Cherokee Studios di Los Angeles avvengono le sessioni di Station To Station (RCA, gennaio 1976, 7.9/10), album che getta tutto il repertorio precedente nell’immondizia, salvo poi recuperarlo (con tutte le impurità del caso), sminuzzarlo e farne impasto con le ipotesi nuove: da una parte ordigni black sordidi, intossicati, sferzanti, dall’altra melodrammatiche evoluzioni da cabaret con l’anima accartocciata. Il “plastic soul” diventa un soul plastico, incalzante ed esausto, febbrile e

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cinico. Con un contraltare melodrammatico da crooner all’ultimo stadio che sembra lo squarcio nella maschera, il punto in cui il massimo della finzione va a coincidere con l’apice disperato della realtà. Bowie vive con lucidità l’abisso in cui sta sprofondando, il Thin White Duke è la trasposizione virtuale della lotta che intraprende per restare a galla: ghigni nevrastenici, stilizzazione impermeabile, struggimento sfrenato. Ma è anche e soprattutto una fuga in avanti, immaginando una dimensione sonora inaudita, l’azzardo di un ibrido distorto che rappresenti le angoscie dell’età postideologica e assieme la possibilità di trascenderle. Se il punk sta per calare sul baronato rock con la scure dell’energia originaria e il bazooka del “no future”, Bowie ha appena imboccato un percorso di reinvenzione rock isolazionista deciso a scavare un solco tra distopia e futuro, convinto che il rock abbia ancora molto da dare e dire. A patto di rimettersi in gioco pesantemente, dal punto di


vista strutturale, produttivo, tecnologico. Coltivando perciò le istanze del passato in combinazioni/ mutazioni mai immaginate. Chiamatela, se volete, new wave. In questo senso, al di là delle categorizzazioni sedimentate (non senza motivo), credo si possa dire che Station To Station rappresenti il primo capitolo della rivoluzione bowieana dei secondi 70s, il preludio alla cosiddetta trilogia berlinese (“...musicalmente, Low e gli altri albums della trilogia derivavano direttamente dal brano Station to Station...”) il cui formidabile epitaffio coinciderà con Scary Monsters, a ridosso dei controversi Eighties. Rispetto a Young Americans vengono confermati Harry Maslin alla co-produzione, il batterista Dennis Davis e due virtuosi della chitarra come Earl Slick e Carlos Alomar, mentre le uniche novità sono rappresentate dal bassista George Murray e dal pianista springsteeniano Roy Bittan. Ma diversissima è l’impostazione, la “visione” sonora rispetto al predecessore. La title track è una sorta di mini suite che occupa metà del lato A coi suoi dieci minuti abbondanti di durata: attacca col found sound d’un treno sferragliante per avviarsi come un blues meccanico, chitarrina funky affilata

e drumming compresso tra pennellate acide e cicalecci sintetici. Il canto spiove ieratico e istrionico, solenne e sordido, come dovesse officiare un bieco cerimoniale. Poi la svolta glam cabarettistica come un guizzo di vitalità sprezzante che si permette di calpestare l’angoscia (“è troppo tardi per provare odio”), una chimera sconcertante di antichi sculettamenti e paturnie soul. Ne esce qualcosa di inaudito sì ma frutto evidente dei tempi: il Bowie “americano” ha assorbito lo spostarsi del funk-soul al centro nevralgico della scena musicale USA, una doppia mutazione da cui uscivano stravolti tanto la black music che la pop music d’impostazione bianca. Altrettanto importanti nel cocktail poetico sono lo scozzarsi di istanze socio-politiche roventi, una strisciante banalizzazione delle avanguardie sonore e il desiderio di definire nuove “ambientazioni” metropolitane che di lì a poco avrebbe visto produrre fenomeni chimerici come la disco ma anche la fiera alzata di scudi della scena outsider col punk e la new wave. Bowie in un certo senso contiene tutto questo crogiolo: è nichilista e visionario, perduto su una strada tossica eppure capace di strenuo lirismo, infervorato da afro e black music ma allo stesso

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tempo affascinato dalle architetture elettroniche della scena rock europea e segnatamente tedesca. Seppure dichiarandosi interessatissimo alle evoluzioni della scena kraut (“La mia attenzione si era nuovamente diretta verso l’ Europa con l’uscita - nel novembre del ‘74 - di Autobahn. La preponderanza di strumenti elettronici mi aveva convinto del fatto che dovevo investigare quest’area in modo più approfondito... Sin da Station to Station la ibridizzazione del rhythm and blues e dell’elettronica erano stati un mio obiettivo”), non manca tuttavia di specificare quanto l’influsso dei Kraftwerk fosse sostanzialmente esagerato e banalizzato dai media (“l’approccio dei Kraftwerk alla musica ha in se stesso uno spazio limitato nel mio schema di lavoro. Le loro erano robotiche, controllate ed estremamente misurate serie di composizioni, quasi una parodia del minimalismo. Il mio lavoro tendeva invece ad una sensibilità di tipo espressionista. La mia musica era per la maggior parte spontanea e creata in studio. Loro accompagnavano quelle statiche percussioni meccaniche con la generazione di suoni sintetici, mentre noi utilizzavamo un gruppo rhythm and blues. In sostanza, quindi, eravamo su poli opposti”). Nel tentativo di sfuggire alla ripetitività, che considera pari alla morte artistica, azzarda sintesi nuove portando con sé tutto il proprio bagaglio di ossessioni. Per questo TVC 15, col suo delirio riguardo ad una fidanzata rapita dalla televisione, chiama a raccolta fregole glam e turbe cabarettistiche, chitarre e sax in un gioco rock veemente tuttavia come irrigidito entro strutture robotiche. Visioni espressioniste ottenute con colori acrilici: Stay è la litania acida e algida che più definisce il personaggio del Duca Sottile, un funky-soul sul punto di farsi disco cocainica, interpretata con una sorta di sprezzante disperazione, quasi confessasse uno stato delle cose oramai insostenibile (“Forse prenderò qualcosa per aiutarmi/Spero che qualcuno mi stia accanto”). Un po’ lo stesso approccio ad un tempo beffardo e struggente di Golden Years, quel modo noncurante e sornione - ad un passo dalla crudeltà - con cui presagisce la minaccia di un’età

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tragica ed esorta un non meglio definito “angelo” a reagire (“Forza alzati bambina/Fuggi dalle ombre, scappa dalle ombre/Scappa dalle ombre in questi anni d’oro”), mentre il soul scorre oppiaceo e accattivante come un nastro di celluloide avariata. In questo quadro due pezzi come Word On A Wing e Wild Is The Wind sarebbero impensabili in qualsiasi altro musicista: la prima è sostanzialmente una preghiera straziante rivolta a Dio, sorta di ultima risorsa per fuggire l’abisso (“Signore, m’inginocchio e t’offro/la mia parola su un’ala/E sto provando in tutti i modi di rientrare/nel tuo schema delle cose”) senza perdere il gusto della più ipertrofica e crooneristica teatralità, mentre la seconda è una ballad melodiosa e malinconica scritta nel ‘56 di Ned Washington e Dimitri Tiomkin, scelta pare per la stupenda versione che ne fece nel ‘64 Nina Simone, trasfigurata da Bowie con una prova vocale in bilico tra abbandono e romanticismo travolgente. Episodi questi ultimi che obbediscono alla stessa tensione che possiamo avvertire pienamente almeno da Hunky Dory, per la quale al massimo dell’artificio corrisponde un eccesso di autenticità, come un’urgenza biografica trasfigurata.

1976: f uga da Los A ngeles E di emergenza in effetti si tratta. La dipendenza da cocaina è ormai oltre ogni livello di guardia. Mentre il disco volava alto nelle classifiche - spinto dal successo del singolo Golden Years - il Thin White Duke s’infila in una spirale folle e autodistruttiva. Celebri le dichiarazioni degli anni Novanta in cui sostiene di non ricordare nulla delle sessioni di Station To Station, così come il famigerato saluto romano del maggio ‘76 alla Victoria Station, arrivato a suggello di alcune dichiarazioni filo-naziste rilasciate nel tempo, bollate poi da Bowie come equivoci o atti volutamente provocatori. Ma lui stesso capisce che sta vivendo al limite, forse anche un po’ oltre. Un giorno passa a trovare il vecchio amico Iggy Pop nell’istituto di igiene mentale Ucla in cui era ricoverato per curare la tossicodipendenza da eroina, e la prima cosa che


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fa - vestito come un ufo robot svampitone glam - è offrigli su due piedi una bella striscia di coca. riuscendo a sconcertare lo stesso iguana. E stiamo parlando dello stesso uomo che invoca salvezza a Dio raggelandoti il sangue in Word On A Wing. Se la schizofrenia per Bowie rappresenta uno spauracchio fin dall’adolescenza (alla luce delle tristi vicissitudini del fratellastro Terry), va detto che sembra esercitarla come un vero e proprio modus vivendi. Tuttavia il momento più buio, secondo molti - tra cui lo stesso ex-Ziggy Stadust - ad un passo dal più nefasto epilogo, coincide con una formidabile rinascita. Bowie riacciuffa la situazione per i capelli e decide di salvare se stesso iniziando dalla salvezza di Iggy Pop. Il quale, una volta uscito dalla clinica, con le quotazioni artistiche ridotte a carta straccia e la fama di inaffidabile totale, viene reclutato nel baraccone del White Light Tour, ovvero l’apoteosi accecante del

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Thin White Duke. Le ultime date si svolgono nella primavera del ‘76, in Europa. Sono i giorni della foto col saluto nazista. Massimo della fama, caos alle stelle. Piuttosto che tornare a Los Angeles, che di lì a poco descriverà come “il bubbone più repellente della feccia dell’umanità”, trasferisce tutta la combriccola al Chateau d’Herouville, uno studio di registrazione vicino a Parigi, dove inizia le incisioni per The Idiot, la rentrée di Iggy sulla scena musicale. Scrive, produce, suona la chitarra, incita l’ex-Stooges suggerendogli chiavi interpretative per lui inedite. The Idiot è insomma, con quell’aria sordida contagiata soul e irradiata di fall-out krauto, con quella copertina debitrice del movimento para-espressionista Die Brucke (come saranno poi quelle di “Heroes” - con particolare riferimento al Roquairol di Erich Heckel - e Lodger), un lavoro del Duca Bianco sotto mentite spoglie, vero e pro-


prio anello di congiunzione tra Station To Station e Low. Tenendo ben presente quanto il tocco di Iggy sia di quelli inconfondibili, nessun altro come lui in quel ruolo, posto giusto nel momento giustissimo. La gestazione del disco non è comunque lineare, da Parigi la band si sposta a Monaco di Baviera - nei Musicland Studios di Giorgio Moroder - e da lì agli Hansa di Berlino. E a BErlino, l’lluminazione. La sensazione d’essere caduti (di nuovo) sulla terra. Città sterminata, fervida, desolata, attivissima, trafitta. Agli antipodi di quella Los Angeles capitale di gigantismo dispersivo metropolitano, crogiolo di decadenza incandescente laddove la decadente Berlino macera un patrimonio culturale ancora vivo, seppure frastornato dalla frizione con le diverse idee di civiltà e vita appena oltre il Muro. La frontiera di una transizione critica, laboratorio urbano troppo impegnato a raccapezzare il proprio presente per prestare attenzione ad una rockstar seppure celeberrima, all’apice della stravaganza e della perdizione. Bowie capisce che è un buon posto per ritrovarsi, per fermare la giostra impazzita e ristabilire il contatto con le cose. S’impegna con Iggy ad ingaggiare una guerra contro la dipendenza da coca. Inizialmente perdendo molte battaglie. Poi rifugiandosi in un alcolismo sfrenato. Però ricominciando a nutrirsi di input artistici, a leggere, a visitare mostre, a dipingere. Vivendo in mezzo alla gente, così da recuperare una dimensione più umana e riflettere sulle striscianti simpatie nazistoidi (“Incontrai alcuni giovani della mia età i cui padri avevano fatto parte delle SS. Fu l’occasione per risolvere quel dilemma e per ricominciare a pensare in modo più normale”). Una vita movimentata, certo - passa da una festa all’altra assieme ad Edgar Froese dei Tangerine Dream, frequenta tutti i locali gay sulla piazza col compagno di merende Iggy Pop, batte le strade della città su una Mercedes appartenuta all’ex presidente della Sierra Leone (!!), intraprende una relazione col celebre trans Romy Haag - che pure

coincide con un ritrovato equilibrio e la determinazione dei giorni migliori. Tanto da rimettersi subito in moto per immortalare la rinnovata effervescenza. Chiama Tony Visconti a produrre, coinvolge assieme ai “soliti” Alomar, Murray e Davis il chitarrista Ricky Gardiner (già nella prog band scozzese Beggar’s Opera, futuro co-autore assieme ad Iggy Pop della fortunatissima The Passenger), seconda scelta di lusso dopo il rifiuto di Michael Dinger degli amati Neu!. Soprattutto, apre la porta al talento informale di Brian Eno, attratto nell’orbita bowieana dagli affascinanti orizzonti schiusi da Station To Station.

Il sacerdot e gi ocherellone Eno è in quel momento uno spirito libero totalmente dedito alla reinvenzione sonica. Uscito dai Roxy Music per dissapori con Brian Ferry dopo due album che ipotizzarono un’intrigante mischia tra dandysmo glam e irrequietezza arty, nel biennio ‘74-’75 aveva messo a segno un poker di titoli seminali: se Here Come the Warm Jets e Taking Tiger Mountain (By Strategy) traghettavano glam e power-pop su ispide e sfrigolanti frequenze proto-wave, con Another Green World e Discreet Music recuperava le intuizioni di No Pussyfooting (frutto di una collaborazione del ‘73 con Robert Fripp) seminando i germogli della musica ambient. Il suo coinvolgimento nella “trilogia berlinese” accade quindi in un flusso di opere a loro modo già rivoluzionarie, appena dopo una intensa full immersion negli Harmonia’s Studio (assieme a membri di Neu! e Cluster) e pochi mesi prima di avviare altre collaborazioni seminali con Devo e Talking Heads soprattutto. Non stupisce quindi che la figura di Eno abbia magnetizzato gran parte dei meriti sonori di questo periodo bowieano. In realtà, l’impatto dell’ex-Roxy è importantissimo ma al più potremmo definirlo un primus inter pares, con Bowie e Visconti a tenere ben saldo il timone. Come del resto confermano le parole dello stesso Eno: “una

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delle cose più significative che feci per Low fu di avere un atteggiamento di incoraggiamento. David arrivò con alcuni strani pezzi, corti e lunghi, che avevano già una propria forma e struttura. La sua idea di base era quella di lavorarci assieme per dare ai brani una struttura più normale. Gli dissi che non dovevano essere modificati, e che doveva mantenere la loro forma strana ed anormale”. Si aggiunge alla già nutrita compagine col suo approccio anomalo - in primis le cosiddette “strategie oblique”, ovvero un mazzo di carte particolare utilizzato per suggerimenti casuali sulle direzioni artistiche da intraprendere - ed un sintetizzatore portatile. Genialità balzana ed ingegneria sonora improvvisata: Eno si propone subito come la tessera mancante del mosaico, il sacerdote giocherellone che dissacra e reinventa, prediligendo l’inconsueto imperfetto alla canonica professionalità. È ancora al Chateau d’Herouville che quasi tutto viene registrato, tra paesaggi bucolici, strane suggestioni ectoplasmatiche - Eno è convintissimo di venire svegliato ogni mattina da uno spettro che gli scompiglia i capelli - e con Berlino ancora nel cuore. Low (RCA, 14 gennaio 1977, 8.4/10) trasuda la spersa angoscia, la desolazione, l’empito vitale, quel misto di apprensione ed eccitazione nei confronti del futuro che Bowie ha respirato nei mesi del suo soggiorno nella città germanica. È il disco di chi si sta reinventando a partire da un guscio scintillante ed una catastrofe umana, consapevole che deve cambiare tutto senza disintegrarsi. Non a caso inizialmente avrebbe dovuto intitolarsi A New Music: Night And Day, anche per porre l’accento sulla natura bifronte dell’opera: una parte di canzoni cantate e l’altra di strumentali come stati d’animo pennellati con piglio espressionista. Pare che l’immagine di copertina - un fotogramma di The Man Who Fell To Earth - abbia invece suggerito il titolo Low, alludendo al basso profilo del taglio così come al suo tono depresso, lo stesso sciorinato lungo il programma. Che si apre col bailamme glam/errebì precipitati da un incubo

kraut di Speed Of Life, i congegni androidi già ad alzo zero (tastiere non meglio definibili, la batteria trattata, le svaporate sintetiche...) mentre le chitarre graffiano irriguardose. E prosegue tra nevrastenie robotiche blues (Breaking Glass) e sordidezze funk/psych (quella What In The World che sembra presagire uno slacker dei 90s in estasi 13th Floor Elevator). Episodi brevi, folgoranti, che già lasciano intendere la portata del balzo, considerevole rispetto a Station To Station ma addirittura sconvolgente rispetto ai lavori precedenti. Malgrado la pantomima del Duca Bianco sia ancora in essere, è schiacciata sullo sfondo rispetto al lavoro sui suoni, sul codice espressivo. Mai come in questo disco Bowie appare tanto interessato a proporsi come uno straordinario fenomeno musicale. Persino i testi sembrano fare un passo indietro, limitandosi a breve pennellate sconnesse da cui ricavi al più suggestioni, abbozzi di ambienti e situazioni, stati d’animo, invocazioni sospese, frames colti dal carosello impazzito degli eventi. Le escandescenze power-pop in chiave bluesy di Be My Wife propongono vaghe allusioni biografiche - la separazione da Angie vive la sua fase più aspra - che comunque restano sullo sfondo rispetto alla trasfigurazione sintetica in atto. Così come Always Crashing In The Same Car si riferisce sì ad un episodio reale (in cui un Bowie decisamente poco lucido andò a sbattere praticamente con tutte le auto di un parcheggio) però è come se fosse il nocciolo sepolto nella polpa di questa installazione sfarfallante e sbigottita, con la chitarra che svaria tra toni acrilici vagamente Moroder. Ma il capolavoro della prima facciata è il gioiello pop Sound And Vision, misticanza di sensazioni contrastanti - l’aria carezzevole, il canto greve, il groviglio di fierezza e disperazione del testo... - in un errebì festoso avvitato al synth siderale ed ai guizzi intriganti della chitarra. Canzoni quindi che fanno di tutto per non nascondere i segni del tritacarne e che pure reagiscono innescando reazio-

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ni a catena avveniristiche: sono assieme lo specchio di quegli anni angosciosi - il barometro della guerra fredda ai massimi ed il senso di catastrofe ecologica, economica e generazionale come strascico del collasso ideologico post-60s - ed un ponte appassionato verso le prospettive meravigliose spalancate dalla sempre più stretta sinergia tra uomo e macchine. In questo senso, Berlino va vista come la migliore location possibile, città-paradigma di un’Europa vittima del proprio fallimentare progetto di civiltà, eppure pronta a ripartire, a far sbocciare energia nuova dal verminaio truce e formidabile delle sue vene.

Tur n i n g p oi n t Limitatamente al pop-rock, Low si inserisce in questo quadro come un turning point. Soprattutto per come trascende l’idea stessa di album pop-rock, espandendo le mire e le possibilità della forma-canzone per giovani irrequieti, metabolizzando le ipotesi delle avanguardie minimaliste, la tensione immaginifica del prog (al netto del più tronfio sussiego) e non ultimo le sperimentazioni ad ampio spettro del kraut (dal primitivismo seriale Faust al motorismo valvolare Kraftwerk passando per le astrazioni passionali dei Neu!). In particolare, il secondo lato di Low è la crepa da cui usciranno fiotti di una certa wave, quella più sensibile alle vibrazioni arty della faccenda, orientata a definire scenari virtuali simbiotici a quelli reali (ben più desolanti, senza appigli né scappatoie). Cinque episodi strumentali, altrettante colonne sonore per inquietudini segnatamente metropolitane (la metropoli è l’orizzonte inderogabile: le galoppate agresti del folk-rock vengono di colpo consegnate al passato). Coerentemente al progetto di rinascita artistica e umana che, non senza intoppi, Bowie intende perseguire in questa nuova fase, il versante dark è illuminato da squarci positivi, a tratti quasi solari, soprattutto nella speranzosa A New Career In A New Town (titolo da intendersi come strettamente

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autobiografico...), movenze agili del drumming cibernetico tra pastelli di tastiere e malinconie d’armonica: posta come traccia conclusiva del lato A, forse solo per ragioni di timing, è di fatto un ponte ideale tra “day” e “night”. Allo stesso modo, Art Decade si aggira tra solennità e mestizia sciorinando arguzie sintetiche ed un bordone d’archi luminoso (al Chamberlin di Bowie si aggiunge il violoncello suonato dall’ingegnere del suono degli Hansa Studios Eduard Meyer), proponendosi come uno dei momenti più “eniani” del programma, sorta di anello di congiunzione tra i quadretti ambient di Another Green World e le trepidazioni diafane di Before And After Science. Detto di Subterraneans che ripesca e sviluppa un tema composto per The Men Who Fell To Earth (jazzytudini avant e cori cinematici, un sax nostalgico nel finale ad anticipare il languido retrofuturismo di Jarre in Blade Runner) e del valzerino androide Weeping Wall cogli spunti etno su architettura di xylofoni (ispirato agli esperimenti sulle sfasature ritmiche di Steve Reich, i Tortoise prenderanno appunti per certi loro intriganti pattern), occorre individuare in Warszawa il momento più complesso e gravido di conseguenze dell’intero disco. Per l’ambizione strutturale - è una sorta di mini suite in quattro movimenti per orchestra sintetica - e assieme l’investimento emotivo, la determinazione d’aver imboccato la strada che porta fino al cuore del presente, l’atmosfera ferita della capitale polacca (toccata dal White Light Tour nella primavera del ‘76) rappresentata come una processione opprimente e stranamente fiabesca, desolazione da cui sgorga l’impronta mutante e orgogliosa della tradizione (l’intervento vocale a base di un esperanto nonsense - con lo scopo di evocare i fonemi dei folk contenuti nei vinili acquistati proprio nel soggiorno polacco - passato attraverso il filtro dell’Eventide Harmonizer). Il pezzo è composto quasi interamente da Eno su commissione e indicazioni di Bowie (“vorrei qualcosa di molto emotivo e pervaso da un sentimento


religioso”), costretto a recarsi a Parigi per problemi legali. Gli aneddoti sui metodi utilizzati da Eno per confezionarlo contengono gemme dadaiste tipiche del soggetto in questione: per il tema principale si fa ispirare da un motivetto di tre note - La, Si e Do - suonato dal figlio di Visconti (di quattro anni), poi sviluppato sempre assieme al bambino e facendo ampio uso della casualità per intrecciare trame via via più complesse. Il risultato è impressionante, e difatti non mancherà di impressionare tra gli altri Ian Curtis, che se ne invaghirà tanto da battezzare Warszaw la prima versione dei Joy Division. Solo una nota a margine rispetto ai formidabili rivolgimenti del periodo, eppure episodio emblematico proprio per il portato su tutto l’addivenente filone dark-wave.

Equ i li b ri o, cas ua lità , ir o n i a La scelta di svincolarsi dal cono di luce dello shobiz artisticamente paga: Bowie ha sostanzialmente fatto reset al proprio percorso, non rinnega la propria natura anzi riallaccia i fili di un discorso dissolto dallo scintillio accecante del successo. La RCA, che non aveva colto i segnali di cambiamento disseminati in Station To Station, resta ovviamente sconcertata dai nastri e tenta di prendere tempo, ma a gennaio del (fatidico) ‘77 Low compare sugli scaffali dei negozi, spiazzando la critica (le critiche sono discordanti) ma non fallendo l’appuntamento col pubblico (seconda piaza nelle classifiche inglesi, top ten sfiorata negli States). Rimane tuttavia un periodo non facile né felice per Bowie, nel pieno della separazione da Angie, tanto da finire ricoverato per un collasso nel novembre del ‘76, un episodio di fibrillazione provocato da una miscela di stress psico-fisico ed alcool. Un po’ per questo e un po’ per proseguire con la scelta di basso profilo divistico, non viene programmato nessun tour promozionale per Low. Bowie decide tuttavia di prestarsi come tastierista e corista per il tour di The Idiot, l’esordio solista di Iggy Pop finalmente dato alle stampe a marzo.

Trenta date in due mesi tra UK, Canada e USA, una bella galoppata defatigante per il Duca Sottile, al termine del quale si precipita con tutta la band negli studi Hansa per le registrazioni di Lust For Life, sophomore ben più stradaiolo con cui l’Iguana consacra la propria resurrezione. Lavoro, lavoro, lavoro. Berlino vissuta fino a farsela entrare nel sangue. Un po’ più vita, un po’ meno cocaina. Ispirazione sfrenata. A luglio richiama Tony Visconti, contatta Robert Fripp - cui Bowie raccomanda un approccio sanguigno, chiedendogli di suonare come se fosse Albert King! - e si chiude di nuovo negli Hansa con tutta la truppa per realizzare “Heroes” (RCA, ottobre 1977, 8,5/10), album che riproponendone lo schema bifronte di Low pur manifestando di averne superato la fase sperimentale in favore di strutture più definite e compatte. Possiamo dire che con questo disco Bowie ottiene un raro equilibrio tra pop e avanguardia, approfondisce il solco tracciato col lavoro precedente padroneggiandone i codici al punto da permettersi la vena intrigante e persino carezzevole dei vecchi tempi, concedendosi sfumature tra il macabro e l’ironico. Brian Eno stavolta sovrintende i lavori fin dal primo giorno, è a tutti gli effetti l’alter ego sonico del Duca, soprattutto nei quattro strumentali (su dieci tracce). Se V-2 Schneider - dalla sigla con cui erano tristemente noti i razzi nazisti - sembra ammiccare la serialità motoristica dei Kraftwerk con tanto di reiterazione vocoderizzata (Trans-Europe Express, che curiosamente sembra rispondere alla tematica ferroviaria di Station To Station, è uscito in marzo) impastandola di chimere soul-errebì ed elettricità sfrigolante, i tre pezzi successivi si presentano come un flusso senza soluzione di continuità, “stanze emotive” segnate dall’utilizzo delle fatali carte delle strategie oblique. Sense Of Doubt dispone quattro note di piano, cupe e sentenziose, un po’ la Quinta di Beehtowen scarnificata o meglio il minimalismo Ligeti di

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“Musica ricercata”, coi synth a squarciare di lampi ieratici la cappa oppressiva. Una volta lasciato spegnersi il crepitare d’un reattore nel cielo, con Moss Garden l’atmosfera si fa più rarefatta, sorta di miraggio serico circolare in cui panneggi sintetici à la Terry Riley incontrano la solenne serenità di un tempio giapponese (è Bowie stesso a suonare il koto, strumento a corde tradizionale nipponico). Il trittico si chiude con la stupenda Neuköln, dal nome di un quartiere ad alta densità di immigrati turchi: il suono di qualcosa che mesta nel pentolone di Pandora mentre synth, organo, chitarre ed il sax in preda ad orientalismi free (suonato dallo stesso Bowie) disputano misteri cinematici con motivi che si fronteggiano e sovrappongono, fin quasi a farlo sembrare un capriccio arty-psych dei primi Floyd post-Barrett. Suona tutto molto più costruito e limato rispetto agli strumentali di Low, anche se le cronache nar-

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rano di un approccio estemporaneo alle composizioni, di fatto quasi improvvisate durante la loro realizzazione. In ogni caso, i risultati sono lontanissimi dai contemporanei rivolgimenti e dalle caustiche beffe del music biz. A qualche galassia di distanza rispetto all’uragano punk già nel pieno della forza (il 27 maggio i Sex Pistols sputano in faccia al mondo la famigerata God Save The Queen). Eppure, anche se idealmente agli antipodi con la sua complessità strutturale che non esita a ricorrere ai servigi di alfieri prog, Bowie non disdegna affatto il punk. Anzi gli interessa molto, anche se più come fenomeno spettacolare e sociale che non come proposta musicale. Nei Novanta dichiarerà: “i gruppi punk che vidi a Berlino mi facevano pensare ad una sorta di Iggy Pop post ‘69, sembrava che tutto quello lui lo avesse già fatto. Tuttavia mi dispiace non aver potuto assistere al circo dei Pistols, la mia depressione ne avrebbe tratto giovamento


più che con qualsiasi altra cosa”. Allo stesso modo, le sei tracce cantate sembrano svincolarsi dai dettami dell’epoca per elaborare ordigni che sfuggono a classificazioni immediate. Se Sons Of The Silent Age sbriglia teatralità decadente ed un sax malato di languore soul fino al midollo, in Joe The Lion - dedicata al performer statunitense Chris Burden, un tipo disposto a farsi crocifiggere come gesto artistico - sembrano dibattersi i fantasmi feriti del glam e del cabaret, mentre Blackout è un boogie avariato di rockismo impellente e acido con irresistibile coretto stoniano nel finale. Soprattutto queste ultime due sono battute da una autentica pioggia di trovate, espedienti e riff che brulicano nevrastenici, quasi a rappresentare il sovrapporsi di strutture e istanze nella prassi metropolitana, una complessità in cui puoi immergerti ma che non puoi governare, di cui devi accettare la casualità, l’errore, l’irradiarsi imprevedibile. Sorprende difatti per tema e ambientazione The Secret Life Of Arabia in chiusura di la scaletta, presenza quasi umoristica col suo mambo funky venato di esotismi ad alto tasso melò con riferimenti cinefili (l’adorata Marlene Dietrich di Morocco), mentre Beauty And The Beast è posta in apertura forse perché immagine più compiuta di quella inestricabile, travolgente misticanza, col suo compenetrare piglio honky e funky wave turgida, tra scudisciate di assoli radianti (l’impronta di Fripp, col suo “Frippertronics” di stampo eniano, è fin da subito profondissima), riff beffardi e bordoni cosmici, quasi fosse il delirio black di un automa tossico. La title track è tuttavia la principale artefice del clamoroso - e meritato - successo di questo disco, un ballatone sentimentale (ispirata pare dalla visione del bacio di due amanti - forse lo stesso Visconti con una fiamma del periodo, la cantante Antonia Maas - a due passi dal Muro: ciò spiegherebbe le ironiche virgolette del titolo) dai toni epici ed il passo ipnotico vagamente velvettiano

(molto probabilmente ispirato a Waiting For My Man), spinto da un movimento circolare di synth tra svaporate cosmiche, assolo allarmanti e languidi, simbionti di cornamuse e coretti glam, la costante istigazione di un qualche dispositivo a suggerire il dominio del suono. Particolare attenzione è prestata al processo di registrazione della voce, per il quale Visconti studia un sistema di microfoni posti a distanze diverse e con progressivi livelli di attivazione, enfatizzandone così il crescendo emotivo. Al di là dell’aspetto “potabile” e della conseguente inflazione dovuta all’abuso, è un pezzo straordinario proprio per come carica di intelligenza, ingegno e passione l’idea melodica di base, di per sé tutt’altro che complessa. Evocando in virtù della sola - si fa per dire - confezione un immaginario potente, una dimensione peculiare e popolare che è rock nella sua essenza progressiva, umana, astrattiva ed espressiva. Preveggenze etno di fine terapia Se la prima new wave ed il punk miravano a recuperare l’essenzialità dell’approccio perduta dopo i barocchismi tardo-psichedelici e l’hard-prog, perseguendo varie gradazioni poetiche in un ventaglio che contemplava il nichilismo più feroce ed un lirismo riconducibile (ancora) alla beat generation e in opposizione alle derive edonistiche della disco e dell’AOR, nel “laboratorio” berlinese del Duca Bianco si elaborano ipotesi sonore che si riallacciano al passato senza preclusioni, rielaborandolo come attitudine ed esperienza fattiva con determinazione isolazionista e respiro popolare. L’impatto sulla wave è fortissimo, anche se è lecito guardare oltre, alla cosiddetta no-wave che - previa l’intuizione del tantacolare Brian Eno - tratteggerà una scena outsider dalle enormi conseguenze per tutto l’underground degli 80s. Da un punto di vista terapeutico, Bowie esce rinvigorito dall’esperienza berlinese. La vita riprende a scorrere con ritrovati sprazzi di serenità, tanto da concedersi persino delle vacanze vere e proprie, tra cui un safari in Kenia assieme al figlio Duncan

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Jones. Si concede scappatelle come l’interpretazione di Pierino e il Lupo assieme alla Philadelphia Symphony Orchestra, mentre a gennaio del ‘78 inizia le riprese dello sfortunato Just a Gigolò per la regia di David Hemmings, nel quale interpreta la parte di un reduce di guerra tedesco afflitto da una irrimediabile apatia che lo porta a diventare un cinico gigolò. La pellicola viene stroncata dalla critica e presto sconfessata dallo stesso Bowie (“...consideratelo i miei 32 film di Elvis Presley contenuti in uno”). Ma non è che una tappa di un nuovo corso di piena attività che lo vede intenzionato a tornare in tour, stavolta in primo piano ed in pompa magna. Per The Isolar II - The 1978 World Tour, meglio conosciuto come Stage Tour, mette in calendario quasi ottanta date tra USA, Europa, Oceania e Asia, irrobustisce la band con altri musicisti quali il violinista Simon House (già negli High Tide, band seminale per i post-rockers dei 90s, Third Ear Band e Hawkwind) ed il chitarrista Adrian Belew (strappato alla corte di Frank Zappa). Il Duca Bianco troneggia sul palcoscenico, istrionico e stilosissimo, meno algido rispetto alla tossica alterigia del White Light Tour, da un punto di vista estetico già con un piede negli 80s. Snocciola quasi tutta la scaletta di Low e Ziggy Stardust, buona parte di “Heroes” e Station To Station più gli hit di Aladdin Sane, Diamond Dogs e Young Americans. È una celebrazione dei suoi 70s travolgenti e dissestati, il premio alla fine di un tunnel dal quale aveva temuto di non uscire, documentata dal live album Stage. Non bastasse, tra luglio e ottobre il tour viene sospeso per fare posto alla realizzazione di Lodger (RCA, 18 maggio 1979, 7.5/10), il cosiddetto capitolo conclusivo della trilogia berlinese che però di Berlino riporta solo il retaggio, un’onda lunga di vibrazioni positive. Le incisioni iniziano appunto in settembre ai Mountain Studios di Montreux, quindi i nastri vengono spostati ai Record Plant di New York dove nel marzo del ‘79 vengono siste-

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mati gli ultimi dettagli. Si tratta di un album di transizione nel senso migliore del termine, perciò a lungo sottostimato da appassionati e addetti ai lavori. Probabilmente il suo difetto più grande è non usufruire della tensione cupa che innerva i due (facciamo pure tre) predecessori, finendo per suonare scentrato rispetto allo spirito dei tempi. Dopo aver innescato parecchie micce new wave, Bowie decide di svariare con sperimentazioni etno e slanci ammiccanti, sperimentando assieme ad Eno sulla modalità stessa del comporre (un primo ipotetico titolo è Planned Accidents). Evita di riproporre brani sperimentali optando per dieci canzoni vere e proprie, intrecciando un caleidoscopio di spunti, azzardi e suggestioni che spiazzano anche a distanza di oltre tre decadi. Ad onor del vero la scrittura non è forse all’altezza delle tante, troppe idee sul fronte sonoro. D’altro canto lo stesso Bowie lamenta di non essere soddisfatto dalla resa sonora uscita dal missaggio. È tuttavia una raccolta con un senso preciso e non pochi passaggi interessanti. L’interazione con Brian Eno vive un momento di reciproci scambi, una simbiosi travagliata ma ancora fruttuosa. Che nella opening Fantastic Voyage produce un gioiello che sembra piovere da una versione parallela di Before And After Science col suo caracollare acrilico e tanghesco, il crooning setoso sulla trama di piano e tastiere pastello a segnare un rabbrividente contrasto col tema - strettamente attuale - della paura nucleare (“È un mondo in evoluzione/ma non è una buona ragione/Per sparare quei missili”). Subito dopo è invece la volta del funk psych tribalistico e androide di African Night Flight, stilisticamente agli antipodi ma col senno di poi quasi una preveggenza dei formidabili ordigni concepiti pochi anni più tardi dall’ex-Roxy Music assieme a David Byrne. Siamo dalle parti di un primitivismo meccanico più arty e teatrale, molto più bowieano per il senso di installazione scenografica, di messinscena come ganglo nervoso dell’espressione, laddove Eno e la testa


parlante terranno una condotta più esoterica, quasi da sociologi sciamani sulle tracce di fantasmi arcaici nei cespugli della comunicazione. Da questo punto di vista, un pezzo come Yassassin eccede appunto in artificio, giocandosi la carta di un reggae orientaleggiante che sembra scherzare con qualcosa di terribilmente serio (forse la complicata integrazione degli immigrati turchi in Germania, cui già alludeva - in maniera molto più elusiva - Neuköln), fallendo l’appuntamento con la credibilità. Al contrario di Move On che pure s’innesca su una ritmica tribale ma poi imbocca una frenesia sperimentatrice (il coro dai sapori etnici è il ritornello di All The Young Dudes suonato al contrario!) screziata di visioni oppiacee e vampe sordidelle, un ibrido indefinibile che sta in piedi anche in virtù della sua affascinante stranezza. Il resto della scaletta si permette escursioni stilistiche e atmosferiche che mettono in crisi la compattezza dell’album, ma d’altro canto compongono un mosaico ubriacante. La ritrovata sicurezza già palpabile in “Heroes” diventa baldanza nel glam fracassone e ambiguo di Boys Keep Swinging - basato sugli stessi accrodi di Fantastic Voyage, il violino di House che sfarfalla contrappunti country alle chitarre distorte - e nel boogie funk sarcastico di D.J. (“Prima era il mio capo ed ora è solo un pupazzo che balla/Io sono un DJ e ho dei fan”), definito dallo stesso Duca come “la mia risposta alla disco”. D’altro canto non manca l’intervento sul corpo caldo della wave in ottica post-punk, vedi il dub sclerotico in zona P.I.L./Clash di Red Money, scritta con Carlos Alomar come una revisione della Sister Midnight di Iggy Pop, oppure la marionettistica Repetition, sordidezze e fantasmi sonici sullo sfondo di un’ordinaria vicenda di violenza domestica (“Suppongo che i lividi non si vedranno/ Se indosserà le maniche lunghe/Ma la distanza nei suoi occhi dice tutto”). Forse il pezzo più intrigante e gravido di conseguenze è Red Sails, col motorismo krauto impellente, le venature misteriche (ancora di rilievo il

ruolo del violino) e le emulsioni psych ad imbastire una congettura epica (ispirata alla vita di Errol Flynn!) dagli effetti collaterali nevrotici (vedi l’assolo stridente nel finale) cui capiterà di ripensare ascoltando Ultravox o Echo And The Bunnymen tra gli altri. Non mancano quindi coraggio, ambizione o ingegno a Lodger, quanto forse la brillantezza, il morso sul polso del presente che da Space Oddity in avanti non aveva mai fallito l’appuntamento con almeno un pezzo-feticcio per album (e spesso più di uno). In questo caso, Bowie crede molto in Look Back In Anger (e continuerà a farlo per anni, tanto da reinciderla in versione hard a fine Ottanta - periodo Tin Machine - e quindi riprenderla con evidente soddisfazione nel tour di Earthling), una galoppata impetuosa sul tema bergmaniano dell’Angelo della Morte tra ghirgori graffianti e tastiere vibratili, con un appiccicosetto coro di Visconti a spandere spore Sixties vagamente Lennon. Ci crede tanto da girare un ambizioso clip promozionale che lo vede novello Dorian Gray alle prese con un autoritratto di fronte al quale il suo volto marcisce: la scena in cui dipinge direttamente sullo specchio per ingannare il riflesso della realtà sembra proprio un paradigma del rapporto dialettico arte/tempo, tematica che negli anni ha assunto posizione sempre più centrale nel groviglio espressivo bowieano. Appunto sull’utilizzo “pittorico” del passato come tavolozza di colori per combinazioni nuove, Lodger offre la possibilità di riflettere come i tre capitoli “berlinesi”, così intrisi di presente e sbilanciati sul futuro, non manchino di ricorrere a soluzioni tipicamente Sixties: strutture ritmiche e coretti beat, timbri acidi e propensione cabarettistica che rimandano tra gli altri agli amatissimi Stones e The Who. Bowie è tra i pochi a farlo rimanendo credibile, proprio mentre le band storiche - come gli Stones - tentano di lasciarsi alle spalle le gloriose vicissitudini svoltando funky soul (con ammiccamenti disco), abbracciando il punk-wave e comunque evitando

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come la peste le paturnie lisergiche. E ci riesce proprio per la capacità di coinvolgere nel discorso espressivo un costante, ironico e istrionico bilancio del proprio percorso sia in chiave artistica che fenomenologica. Che per vie dirette o misteriose non manca mai di innescare link con la contemporaneità: l’immagine di copertina di Lodger, con un Bowie schiacciato e disarticolato in una posa comica e terrificante assieme, oltre a chiamare in causa le opere figurative del

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Die Brucke sembra un simbolo grottesco dell’individuo nella morsa atroce degli anni di piombo, il conflitto nel cuore della civiltà nato dal cuore del vivere civile, le stragi di vite e la strage di categorie mentali (innocenza, colpa, complicità, libertà...). Incidentalmente a noi italiani può ricordare la tragica immagine del cadavere di Aldo Moro nel bagagliaio della Renault 4 in via Caetani: casualità certo, come spesso capita quando l’intuito artistico azzecca le vibrazioni più profonde. In coinci-


denza con l’uscita di Lodger termina il soggiorno berlinese.

M ost r i s pav e n to s i da l l a G r a n d e M el a Bowie si trasferisce a New York e si immerge nella sua tumultuosa scena artistica. In un certo senso, ha la possibilità di guardare in faccia il fenomeno che lui stesso ha contribuito ad innescare. Inizia subito ad intrecciare collaborazioni - con John Cale tra gli altri, col quale incide due demo (Velvet Couch e Piano-la) rimasti inediti - ed assiste a concerti (dei Clash, di Nico...). È un musicista all’apice della carriera sia commerciale che artistica, venerato da pubblico e addetti ai lavori. E sente di dover battere il ferro caldo, anche perché incombono gli Eighties e ci sono strade da tracciare. In un certo senso Lodger voleva aprire più capitoli di quanti ne chiudesse, prima fra tutti tradisce una voglia disperata di lasciarsi alle spalle i 70s con le sue macerie e la cappa di catastrofe imminente. Tuttavia quello che Bowie annusa è qualcosa di sensibilmente diverso dai robotici deliri etno: c’è nell’aria una minacciosa, scintillante prospettiva di nuove possibilità, nei confronti delle quali nutre una irresistibile attrazione assieme ad una strisciante sfiducia. Prenota i Power Station Studios per il febbraio 1980 con l’intenzione di introdurre parecchie novità nel nuovo progetto. La frattura principale è l’assenza di Brian Eno, ormai decollato verso altri lidi (ovvero nel pieno della formidabile sinergia coi Talking Heads) e che forse non sarebbe stato contemplato nel nuovo regime creativo, dal momento che Bowie si impone di arrivare in studio con le melodie e i testi già pronti, intenzionato ad enfatizzare quindi questi aspetti rispetto alle soluzioni di arrangiamento. Come già anticipato da Lodger, quindi, il Duca sembra aver ritrovato la voglia di raccontare, non è più la monade apatica senza appigli con la realtà. Somiglia più ad un Pierrot enigmatico, dalla malinconia amara e a tratti rabbiosa, sfaccettata come un diamante

(pazzo) in cui i mille volti del passato si confondono senza abbozzare un’identità definita. Eno a parte, la squadra è quasi la stessa: ci sono Visconti e Alomar, tornano Fripp e Roy Bittan (che sta incidendo The River con Springsteen nello studio accanto). Oltre alla per molti versi clamorosa ospitata di Pete Townshend, degni di nota sono gli ingressi in formazione del tastierista Andy Clark e soprattutto di Chuck Hammer con le sue synth-guitar, segnali di una svolta netta verso i nuovi suoni elettronici, come sviluppo naturale delle sperimentazioni berlinesi anche se tutto il portato cosmico-misterico di stampo kraut sembra abdicare per una più pregnante funzione atmosferica, a tratti primaria, che in sostanza abbozza coordinate tipiche del post-punk e del corollario - per molti versi deteriore - new romantic. Scary Monsters (And Super Creeps) (RCA, 12 settembre 1980, 7.8/10) conserva tuttavia una netta impronta rock con attitudine funky e acida, segnatamente chitarristica col tipico tratto delirante frippiano, un intreccio di codici che molto deve ai predecessori. Un disco-ponte tra gli azzardi geniali e nevrastenici dei Settanta e un’ipotesi degli Ottanta che purtroppo non saranno all’altezza di tante premesse. In ogni caso, difficile non concordare con le parole dello stesso Bowie: “Scary Monsters non è mai menzionato come parte della trilogia, ma ritengo sia il coronamento di tutto ciò che avevamo appreso nella registrazione dei tre albums precedenti”. Di coronamento si può parlare anche dal punto di vista divistico, dal momento che l’impatto sui media è imponente, a partire dal singolo che anticipa il long playing, una Ashes To Ashes che gioca col passato riesumando il Major Tom per raccontarne la mesta decadenza (“Sappiamo che il Maggiore Tom è un tossico/Confinato nell’alto dei cieli/ Colpito da una depressione senza fine”), operazione coadiuvata da un video sofisticato che chiama in causa gli antichi trascorsi come mimo nel Pierrot di Lindsay Kemp: operazione che vede lungo

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rispetto all’importanza dei clip nel meccanismo promozionale e come impatto sull’immaginario degli Eighties, pratica del resto già avviata proficuamente per “Heroes” e Look Back In Anger. Musicalmente, Ashes è una rumba sintetica costruita su un disincanto languido da marionetta androide, un congegno post-punk melodicamente strutturato (fiabesche le strofe, malinconico il chorus, struggente il bridge) e timbricamente sorretto dalle tinte acriliche di synth e chitarra effettata. Di fatto, detta la linea a tutto il new romantic blasé prossimo venturo, che ahinoi spesso ometterà tutto il sostrato arty. Proprio lo sguardo sulla nuova generazione rockettara, tutt’altro che lusinghiero, è il tema di Teenage Wildlife, ballad crooneristica che guarda ai Roxy Music più dandy tra vampe gospel, impeto vagamente springsteeniano e l’eccitante alternarsi di chitarre (quella effettata di Hammer e quella mercuriale di Fripp). I suoi quasi sette minuti di durata sembrano essere il frutto di continui slanci d’ispirazione che di fatto ne hanno espanso la struttura, rendendolo il pezzo più improvvisato del lotto. Il resto tradisce invece una pianificazione robusta, un’inventiva che non rinuncia al consueto folto di espedienti e soluzioni soniche ma lascia poco spazio alle sperse stranezze di stampo eniano: la casualità “obliqua” cede il passi all’ingegnosità visionaria. Bowie (col non piccolo aiuto di Visconti) prende quindi in mano il timone e azzecca un equilibrio prodigioso tra accessibilità e azzardo, tra intensità e messinscena. È un gioco, ma non è un gioco: la scaletta si apre e chiude con le due versioni di It’s No Game, lo sdegno e lo scoramento dell’occidentale aperto al mondo che coglie la deriva del mondo (“Sono annoiato dagli eventi/Non riesco proprio a capire la situazione”), nella prima il canto stravolto fino alla nevrastenia (dichiaratamente ispirato all’urlo primordiale di Lennon in Instant Karma) anticipato dal talking brusco in giapponese di Michi Hirota (attrice del Red Buddha Theatre), Fripp che impazza sciabo-

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lando il funk-rock melmoso, un accenno di boogie nel bridge subito risucchiato nell’impasto amaro, che la seconda versione prosciuga e rallenta con passo laconico, chiudendo il cerchio di un autentico carosello di desolazione, attraverso psicosi affettive e crisi spirituali in un quadro di generale sfiducia, con punte di disprezzo per lo stato delle cose. La title track - una nipotina isterica di Diamond Dogs - cela nel suo piglio fumettistico una vicenda di rovine esistenziali e relazionali, interpretata con una sorta di ghigno sdegnoso che non manca di farsi sprimacciare dal vocoder, intanto che un Fripp monumentale intarsia wave rugginosa - gli Psychedelic Furs prenderanno appunti - mentre il pedale ossessivo di chitarra rimanda a certe cupezze meccaniche Joy Division, al netto di un assolo cubista nel finale. Simile il tema di Because You’re Young, pezzo arguto e forse un po’ cervellotico che si avvita tra retaggi psich-wave Television in anticipo sui Teardrop Explodes, fa slalom tra guizzi boogie e vampe gospel-surf tradendo una certa frettolosità che un hook febbrile del buon Townshend non assolve del tutto. Scream Like A Baby - con le fregole gotiche un po’ teatrino acido Pretty Things e un po’ operetta noir Alice Cooper - e Up The Hill Backwards - con l’intro folk baldanzoso ed il vago andazzo gospel delle strofe prima della svolta folk-blues alla Jimmy Page del finale - sono le facce diversissime di una stessa medaglia che riflette il vicolo cieco delle prospettive sociali, cui Kingdom Come - cover dall’esordio solista di Tom Verlaine risalente all’anno precedente - oppone una tenace trepidazione gospel starttonata da un ben più crudo realismo wave. Altro singolo fortunatissimo è infine Fashion, funky-dance sordido e rabbioso inizialmente concepito come reggae (e provvisoriamente intitolato Jahmaica) che riallaccia le fila di Fame e D.J. per mettere sulla graticola l’ottusità sempre più pervadente di certe way of life, giocando sul filo dell’assonanza tra fashion e fascism.


Verso il bianco accecante degli 80s Il Sottile Duca Bianco è divenuto insomma un moralista che non le manda a dire dietro, ora minimale e ora focoso, amaro e sardonico. Sotto la maschera c’è un Bowie forse mai tanto sicuro di sé, forte di un percorso che lo ha portato alla meta dopo avere seriamente rischiato di non uscire vivo - o comunque non nelle condizioni migliori - dal formidabile delirio dei Settanta. A neppure trentacinque anni sembra avere quattro carriere alle spalle: lo stralunato bardo folk-psych, l’icona iper-glam, l’improbabile soul singer di plastica e l’avanguardista electro. È un musicista con un linguaggio autonomo e strutturato, non più uno che segue ma che semmai precorre e detta le linee guida senza rinnegare tutto ciò che è stato, quel passato (proprio e collettivo) che ha sempre venerato stravolgendolo. La fine del decennio e del rapporto con la RCA coincidono con una generale euforia, una sorta di terzo dopoguerra dopo la stagione degli scontri ideologici e del troppo sangue - spesso innocente - versato, voglia di cavalcare sulle prospettive tecnologiche in espansione deponendo le armi dell’impegno. L’impatto sugli Eighties sarà di un bianco accecante. Bowie capisce che i nuovi tempi sembrano fatti apposta per esaltarne la proteiforme attitudine. Difatti ne sarà protagonista assoluto. Non sempre interpretandone la parte migliore.

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e h ic r b r

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Matmos

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XOYO Estero/Altro 19 Marzo 2013 Live tra l’accademico e il parodico per il duo di S. Francisco, con un occhio a Zappa, ma pur sempre inquadrato nella loro fredda staticità... Se Frank Zappa fosse ancora vivo sarebbe probabilmente un fan dei Matmos. La band californiana presenta infatti uno spettacolo dal vivo che è barocco, carnacialesco e colto allo stesso tempo, cosa che all’immenso musicista baffo & mosca avrebbe - crediamo - fatto piacere. Se su disco il duo si adopera in esercizi intellettuali/intellettualoidi e raffinati, dal vivo tira giù la maschera e mette in scena un giochetto allusivo e parodico sistematico, quasi fosse una vignetta del NewYorker. E al pari del cartoon del popolare magazine, contraddistinto da uno humor nero e autocommiserante, il live dei Matmos fa sorridere e diverte, ma per non più dell’oretta scarsa nella quale intrattiene. La band si presenta con una tastiera Korg, tre (!) laptop con ogni Ableton del caso e due musicisti di accompagnamento, alla batteria e alla chitarra; inoltre, ogni utensile possibile diventa uno strumento per fare rumore: palloncini graffiati, campane tibetane, bicchieri d’acqua e gorgoglii filtrati da cannucce e così via. Tutto quello che finisce sotto le grinfie di Schmidt e Daniel diventa il pretesto per la parodia di un genere o di uno stile: dal quasi jazz-funk à la Hancock di Lipostudio... And So On, alla conclusiva e quasi rave Steam and Sequins for Larry Levan; dalla pura schizofrenia in pieno stile Warp (sembra davvero di sentire Aphex Twin) di Ur Tchun Tan Tse Qi, all’iniziale Very Large Green Triangle - specialmente la intro - con i suoi gorgheggi new age e i richiami a Steve Reich, Laurie Anderson e, sì, la stessa Bjork. Rer finire con il calypso di For the Trees e il suo arpeggio à la Django Reinhardt. Bisogna in ogni caso contestualizzare il live, che purtroppo ha risentito del luogo in cui si è svolto. Lo XOYO di Old Street (Londra) infatti non si è rivelato il posto adatto, come del resto non si sarebbe rivelato adatto nessun altro locale, perché i Matmos andrebbero forse ascoltati in un’aula universitaria o in un museo d’arte contemporanea, tanto è cerebrale e statica la loro musica e la loro esibizione. Un locale con la gente che chiacchiera, il brusio dei baristi e della sicurezza non fa certo un buon servizio a una musica che altrimenti, con un apparato visuale appropriato e posti a sedere per il pubblico, avrebbe reso forse anche il doppio. Lorenzo Cibrario

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Transmissions VI

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Ravenna dal 14 Marzo 2013 al 17 Marzo 2013 Una mentalità aperta e senza preconcetti era tutto ciò che si chiedeva al pubblico di Transmissions. Chi ha accettato la sfida, ha vissuto un’esperienza davvero elettrizzante «Il leitmotiv di Transmissions sarà quest’anno la “trascendenza”. Tutti gli artisti invitati al festival condurranno lo spettatore fuori dal proprio corpo attraverso la musica». L’esibizione, la prima sera, di un Charlemagne Palestine in bilico tra performance e concerto, è un po’ la metafora del festival. Lui, zingaresco e pasciuto, scende da un palco pieno di pupazzi giocattolo e foulard “teschiati”, passa un dito bagnato di cognac sul bordo di un bicchiere a calice producendo il suono che tutti conosciamo e comincia a cantare in platea. Due minuti dopo, in un silenzio di tomba, due conigli giocattolo recitano un “I Love You” asincrono e si parte col concerto vero e proprio. Drone è anche un pianoforte in cui alternare soltanto due note variando la velocità delle stesse, scorrendo lungo la tastiera, percuotendo i tasti, fedeli a quello Strumming Music che nel 1974 sancì lo stile dello Charlemagne Palestine più minimalista. Non sono le macchine a modificare il suono, ma la fatica di chi approccia lo strumento, le imperfezioni che genera la rapidità eccessiva dei movimenti, il bisogno fisiologico di rallentare per dare respiro ai tendini delle dita, l’alternanza tra toni bassi e alti. Gli automatismi irregolari dell’essere umano diventano anch’essi macchina, seppur imperfetta. Un caos di rumori, voci registrate, bordoni sintetici (il giorno dopo, durante un’intervista condotta da Frances Morgan di The Wire, lo stesso artista paragonerà quel suono all’Inferno di Dante) inaugura la seconda parte del set, col Nostro sotto l’arco a volta che fa da sfondo al palco (l’abside della chiesa di Santa Chiara) a intonare parole incomprensibili filtrate da una pletora di effetti. È l’esplosione di tutta la tensione accumulata nella parte precedente, un esondare selvaggio che fa pensare chissà perché - al Blixa Bargeld di Rede Speech. Prima di lui un Robert Aiki Aubrey Lowe (Lichens) intensissimo, quasi filosofico, etereo almeno quanto Palestine sarà terreno e in qualche maniera disturbante. Movimenti lentissimi, un giungla di cavi connessi alle macchine, sguardi al cielo persi in una sorta di “soulfulness” ipertecnologica, per un paio di brani totalmente improvvisati e circa quarantacinque minuti di concerto. Rispetto ai suoni contenuti in lavori come Timon Irnok Manta c’è la voce “bianca” di Lowe (davvero impressionante per qualità tecniche e altezze raggiunte) a donare un’aura di sacralità a un’ambient/elettronica morbida, stile arteria pulsante e in grado di sprigionare un magnetismo di cui forse solo il Murcof dei momenti migliori è capace. La bella scoperta della seconda serata, più che certi Æthenor che fanno quel che devono imbastendo un’ora di musica free imponente nei toni quanto nelle aspirazioni (ma per certi versi anche convenzionale, se paragonata al resto del programma), è il set di Stian Westerhus (già Monolithic e Jaga Jazzist) e Sidsel Endresen. Chitarra elettrica e campionamenti la base di partenza, un tessuto sonoro sfilacciato e vicino all’ambient in cui incastonare l’impro vocale inquietante della Endresen. È uno scat jazzistico virato avant, il suo, in cui sembra talvolta di cogliere certe inflessioni melodiche tipiche dei nativi del Nord America e dove la lingua canta-

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ta perde di importanza (un po’ quello che accadrà anche col Feral Choir di Phil Minton) perché, semplicemente, non esiste. Tutto è suono, con la chitarra di Westerhus che definisce il mood e i gorgheggi della rossa norvegese chiamati ad adattarsi al contesto. Il risultato è affascinante e dischi come Didymoi Dreams ne sono testimonianza fedele. Chiude il secondo giorno di festival l’aftershow del bravo Godblesscomputers. In una terza serata dedicata prevalentemente alle band, chi regala momenti di pura astrazione è l’unico solista in cartellone, Daniel Higgs. Un passato hardcore negli anni ‘80 con i Reptile House, cantante nei Lungfish, poeta interessato al misticismo, Higgs è carismatico fin dall’aspetto: abiti da muezzin, barba grigia lunghissima, mani tatuate e un banjo come unico strumento. Illuminato al centro del palco da una luce bianca, il musicista sembra una via di mezzo tra Karl Marx e un John Lee Hooker fuori fase (“un amico mi ha detto: devi essere folle senza diventare pazzo” canta a un certo punto), mentre improvvisa un’ora di raga mediorientale su uno strumento tipicamente americano/africano. Un set che toglie ogni dubbio sul significato del concetto di “trascendenza” e che eleggiamo a personale zenith della serata. Subito sotto i nostri Julie’s Haircut, con un concerto perfettamente in linea con l’idea di base veicolata dal festival e, come al solito, formalmente ineccepibile. Il kraut revival personalizzato dalla band emiliana è quanto di più colorato ma anche rigoroso, psichedelico ma anche godibile, ci possa essere oggigiorno in Italia a queste latitudini e dal vivo i ragazzi non deludono. Lo stesso non si può dire dei Pharaoh Overlord, tre chitarre elettriche, basso e dietro le pelli il Charles Hayward ex This Heat che si esibirà anche il giorno successivo. Non è stoner, quello della band finlandese, perché la componente free prende il sopravvento su tutto, ma l’immaginario richiamato con un live-set a rischio acufene, godibile ma non imprescindibile è comunque quello. Interessanti ma non entusiasmanti anche i Grumbling Fur di Daniel O’Sullivan e di Alexander Tucker: un tavolo da almeno dodici sedute ricolmo di pedali, effetti, notebook, due microfoni e quel che salta fuori (immaginiamo totalmente improvvisato) è una wave/psichedelia/kraut in bilico tra elettronica e accenni industrial che ha molto dell’esercizio di stile e poco della vera necessità. La caratura dei musicisti è comunque innegabile e infatti ciò che rimane a fine set è il ricordo della determinazione con cui i due interagiscono. L’inaugurazione della quarta serata è affidata al Feral Choir di Phil Minton (trombettista jazz e improvvisatore della voce con una lunghissima storia le spalle e miriadi di collaborazioni). Due giorni di workshop per portare a termine una commistione di non-talenti (al coro si poteva iscrivere chiunque) concretizzatasi, fisicamente, nelle dieci persone dietro al direttore d’orchestra. Tra loro riconosciamo Frances Morgan di The Wire, Mark Pilkington e lo stesso Daniel O’Sullivan, impegnati assieme agli altri “cantanti” a modulare suoni e rumori. Non esiste un idioma comune nel coro selvaggio che Minton ha inventato a Stoccolma negli anni Ottanta, non esistono virtuosi o capacità consolidate da mettere in mostra: il centro di tutto il discorso è la sensibilità di ognuno, modulata da segnali convenzionali che la chioccia-Minton si preoccupa di fare arrivare. Il risultato è un crescendo perfettamente organizzato di ohmmmm, squittii, chiacchiericcio, silenzi, con il padrone di casa a far da voce solista su un mix di espressioni folli ed estensioni vocali impensabili. L’entusiasmo che genera la libertà totale della performance del coro è ribadito un Charles Hayward che pochi minuti dopo divide il set tra un crooning quasi nickcaveiano al pianoforte e


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una performance semplicemente devastante alla batteria. Il concerto prevede, oltre alla tecnica e alla fisicità che l’ex This Heat mette in mostra sui tamburi, bordoni di synth pre-registrati e azionati tramite un pedale con cui in Nostro interagisce in diretta. Cambi di tempo, trance indotta, poliritmie e brani cantati si alternano, per un live sudatissimo ma lontano da ogni tecnicismo fine a se stesso (il timone del fluire sonoro, quell’essere brano/non brano, esiste e lo si coglie in ogni momento). A chiudere serata e festival pensa invece la musica dei Mothlite. Ancora O’Sullivan in regia (questa volta al pianoforte e alla chitarra) per una wave-psichedelia espansa e assai intrigante. L’attenzione è tuttavia catalizzata dal Mr. Todd immobile al centro del palco, personificazione teatrale e folle dell’artista Ian Johnston: barba lunghissima, abiti da Inghilterra diciannovesimo secolo, bocca dipinta di nero sul bianco cadaverico della pelle, sguardo fisso su una lampadina che scende dal soffitto. Roba che il Lynch migliore avrebbe approvato, una performance surreale e dall’oscurità latente perfettamente calata nella musica. Finisce il festival e qualche considerazione viene naturale. La prima è che alla parola “trascendenza” che citavamo in apertura potremmo aggiungere anche quelle di “improvvisazione” ed “evento irripetibile” (sui dischi ufficiali delle formazioni coinvolte non troverete nulla o quasi di quello che si è ascoltato nei quattro giorni di manifestazione); la seconda è che festival come questi - lasciatecelo dire, una scommessa enorme per gli organizzatori e un rischio non da poco - hanno la capacità di arricchire culturalmente andando oltre le categorie musicali e le facili logiche commerciali, per sfociare in un approccio da happening artistico. Lo scopo dichiarato, del resto, era abbattere i confini tra le discipline affiancando live set, mostre (Trans, a cura dello stesso O’Sullivan), workshop, presentazioni/conferenze (i talks “Strange Attractors” di Mark Pilkington su esoterismo e rock nella cultura britannica e sulla new age). Una mentalità aperta e senza preconcetti era tutto ciò che si chiedeva al pubblico; chi ha accettato la sfida, ha vissuto un’esperienza davvero elettrizzante. Lunga vita a Transmissions. Fabrizio Zampighi,

Mumford And Sons Alcatraz Milano 14 Marzo 2013 Dietro alle camicie a quadri c’è di più Ai Mumford & Sons ne hanno dette di tutti i colori: troppo folk, troppo bravi ragazzi, troppo commerciali, fino a tacciarli di essere troppo religiosi. Quest’ultima critica sta regalando loro una discreta fila di haters ma, a giudicare dal tutto esaurito di ieri sera all’Alcatraz, per la band il detto inglese “haters made me famous” si è rivelato davvero profetico. Tre concerti italiani, tre sold out: la formazione capitanata da Marcus Mumford, dopo essersi aggiudicata un Grammy per l’ultimo Babel, sta collezionando una sfilza interminabile di successi, dividendo spesso la critica ma non il pubblico. L’atmosfera che si respira a Milano, infatti, è caldissima. Sopra alle

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nostre teste si srotolano metri di piccole luci che conducono lo sguardo verso il palco, dove uno scenario di montagne innevate e cieli stellati fa presagire uno show non privo di effetti speciali. Non devo attendere molto per essere risvegliata dalla pirotecnica performance delle Deap Vally, duo californiano tutto al femminile che, tra scolli vertiginosi, headbanding scarlatti e piedi nudi, riesce a far saltare la folla di fan in attesa dei Mumford. È un vortice furioso di alternative rock con echi garage e blues rock, ricco di citazioni che vanno dagli Zeppelin ai Black Keys, con una voce graffiante e spezzata che ricorda in tutto e per tutto Allison Mosshart. Quando alla fine alzano i bicchieri per un brindisi in onore del pubblico, Lindsey Troy e Julie Edwards vengono investite da un applauso sincero e abbandonano il palco con il sorriso, lasciando la folla in preda ad un’impazienza febbrile. Non sorprende, dunque, che l’ingresso dei magnifici quattro su un palco illuminato a festa venga accolto da un boato da stadio. Marcus Mumford, Winston Marshall, Ben Lovett e Ted Dwane attaccano con Babel ed è chiaro sin dalla prima nota che tutte le critiche sono sterili. Fede o non fede, folk o non folk, mi ritrovo davanti una band in grado di ricreare in un fumoso locale milanese un’atmosfera da festival, in un tripudio di coriandoli, palloncini, pugni in aria e cori assordanti che con I Will Wait si fanno ancora più insistenti, tanto che nelle prime file è quasi impossibile distinguere la voce di Marcus Mumford da quella universale della folla. Dopo soli due pezzi, tutti i miei pregiudizi nei confronti dell’ultimo album dei Mumford and Sons si sono infranti, spazzati via dall’incredibile potenza del live, da questo inerpicarsi di banjo e contrabbasso, dalla corposa forza della voce di Marcus. I Mumford sono meglio live che in studio: piacciono, convincono, forse addirittura ammaliano. Prima ci colpiscono allo stomaco con la drammatica e straziante White Blank Page, togliendoci ogni speranza per poi restituircela nel crescendo di Timshel. Sul palco Marcus si divide tra la chitarra e la batteria, ogni tanto un trio di trombe va a sottolineare il trascinante sound degli inglesi. Il pubblico alza striscioni e si verifica il primo miracolo della serata: al posto delle ormai onnipresenti luci degli schermi degli iPhone compaiono gli accendini e persino qualche timida scintilla di stelline da capodanno. La mia più grande critica ai Mumford and Sons era stata quella di aver sprecato il potenziale promettente racchiuso nel primo Sigh No More con un secondo album che si profilava come una continuazione stanca e ripetitiva di una buona intuizione iniziale. Dal vivo, invece, emergono tutte quelle differenze che lo studio tendeva a divorarsi. Il live non lascia spazio alla noia, al già sentito, e conferma un sound inconfondibile che coinvolge e, addirittura, travolge. Gli si perdona facilmente qualche scivolone ritmico su Little Lion Man e qualche leggera incertezza su Awake My Soul, perché la perfezione non è di questo mondo, e la band ha ancora in serbo qualche sorpresa. Il secondo miracolo, infatti, si verifica verso la fine. Abbandonato il palco, i Mumford appaiono in fila in galleria, costringendo tutti ad alzare la testa. Basta un cenno per indurre la folla al silenzio. Per tre secondi nell’Alcatraz echeggia un vuoto surreale che si rompe con una bellissima ed emozionale versione a cappella di Little Sister. Tre secondi, però, lunghi abbastanza da lasciarci intontiti. Sul finale gli inglesi regalano due dei loro pezzi più amati, Winter Winds e The Cave, e il cerchio si chiude in una circonferenza (quasi) perfetta. È difficile trovare le parole giuste per descrivere a chi non c’era una performance che ha come


pregio principale quello di aver saputo creare un’intesa perfetta tra chi stava sul palco e chi, invece, ascoltava. Nel concerto di stasera c’era dello spettacolare, ma parlare di spettacolo non è del tutto corretto. Non c’erano soltanto spettatori: per la prima volta da tempo mi sono ritrovata davanti a una folla che, in un modo o nell’altro, ha partecipato. Davanti a questo piccolo grande prodigio, tutte le altre obiezioni sembrano scomparire miseramente nel banale e nel retorico. Marcus Mumford ha salutato Milano con la formula del “You are one of the best crowds we’ve ever played to”. E, nonostante l’abbia sentita già allo stremo, devo ammettere che questa volta ci ho creduto davvero. Eugenia Durante

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My Bloody Valentine O2 Apollo Estero/Altro 10 Marzo 2013 Il frastuono armonico e celeste tra l’O2 di Manchester e l’Hammersmith Apollo di Londra. Earplugs are available everywhere! A Manchester il fascino decandente dei grigi contorni industriali va di pari passo con i ricordi musicali e le annesse celebrazioni. Perchè se i colori hip-vintage del Northern Quarter e un live di Kilo Kish+The Internet (support band mostruosa) possono dare un impulso di contemporaneità, quando passi tre ore con Craig Gill - il batterista degli Inspiral Carpets, ma ora anche guida turistica del Manchester Music Tours - e finisci in un locale - il South - popolato principalmente da reduci degli anni ‘80 che osannano un attempato Clint Boon in regia, capisci che la vera Manchester rimane e rimarrà sempre quella del periodo Factory Records e della Haçienda. I My Bloody Valentine non erano parte di quella scena, ma tra tutti i recenti ritorni - discografici o meno - del pre-Cool Britannia (Stone Roses, House Of Love, le sirene perdute dei New Order o gli stessi Inspiral Carpets), quello di Kevin Shields e compagni è quello che rimarrà maggiormente impresso nella mente degli appassionati. In quel di Manchester, vento gelido e particolari fiocchi di neve rendono l’atmosfera pre-concerto decisamente unica e un piccolo pub a fianco dell’O2 Apollo diventa l’unico rifugio/salvezza nell’attesa che finisca il soundcheck e che vengano aperte le porte. Una volta dentro ci si rende subito conto che con il frastuono armonico e celeste è meglio non scherzare: l’organizzazione ci tiene ad avvisare, attraverso appositi fogli che tappezzano le pareti interne dell’O2, che gli “Earplugs are available EVERYWHERE!”, ovvero “noi vi abbiamo avvertiti”. La band di supporto - non i Le Volume Corbe come previsto, ma i Dirt Blue Gene - aiutano a tranquillizzare l’attesa densa d’ansia attraverso un mix di Pink Floyd e slow-country americano. Sono amici di Kevin o almeno così si diceva in giro.

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Poi - dopo una pausa discretamente lunga - entrano in scena i My Bloody Valentine (Kevin Shields dopo qualche secondo, giusto per mettere le cose in chiaro). Bastano pochi secondi per capire che senza earplugs risulta realmente difficile resistere ai decibel sparati dal numero smisurato di amplificatori, dei quali almeno cinque dedicati Shields. La formazione di Dublino va subito a pescare dal suo masterpiace assoluto - Loveless - mettendo ad inizio scaletta l’accoppiata I Only Said e When You Sleep in cui praticamente diventa impossibile riuscire a distinguere le linee vocali, già più evidenti invece ad iniziare dalla terza traccia - la prima delle tre facenti parte di mbv - New You. Bisogna però aspettare la scossa adrenalinica dettata dai beat schizoidi di Colm Ó Cíosóig di You Never Should per entrare completamente nel mood giusto, fino a quel momento ancora un po’ freddino. Bilinda è una statua, Debbie accenna a qualche teatralità di tanto in tanto mentre Kevin sembra sempre piuttosto irrequieto - con marameo al pubblico incluso - nella sua meticolosità sonica. Lui al termine di ogni brano rispetta l’intimo rituale del cambio di chitarra, compresa l’acustica (si fa per dire...) sfoggiata in occasione di Cigarette in Your Bed, uno dei momenti emozionali più alti del set, tra dissonanze cosmiche da pelle d’oca e l’etereo impalpabile che prende il volo. La tastierista e quinto membro aggiunto, che interviene soprattutto in occasione dei brani dell’ultimo album, dona quell’immagine di band rodata, ormai abituata - dalla precedente live reunion - ai grandi palchi e ai visual d’alto impatto (alcuni sono gli stessi di qualche anno fa). Se devo essere sincero vedere la band di culto per eccellenza e famosa per le sonorità respingenti al grande pubblico, suonare in un contesto come quello delle grandi platee, crea una situazione visiva abbastanza particolare. Shoegaze nel 2013 con tour fissati negli stessi luoghi in cui cantano le star scala-classifiche? Chi l’avrebbe detto venticinque anni fa? In linea con queste considerazioni, i boati che hanno accolto le note delle due “hit” Only Shallow e Soon. Dopotutto una scaletta best-of (Sometimes esclusa) di questo tipo dopo quasi trent’anni di carriera se la possono permettere solo loro, anche grazie alla pausa discografica 1991-2013. La simbiosi palco-pubblico (tra l’altro decisamente eterogeneo) si trasforma in due volti differenti: quello degli accenni di pogo delle prime file - durante i brani più tirati (quelli della Isn’t Anything-era) - e quello della contemplazione mistica per chi ha preferito godersi il concerto dalle retrovie o dalle comode poltrone della galleria. Ma l’interazione finisce lì: le parole stanno a zero, giusto Bilinda si fa scappare qualche timido sorriso. Il trittico finale non lascia scampo: Feed Me With Your Kiss (qualche problemino in apertura, non si parte fino a quando il grande maestro non è perfettamente pronto), You Made Me Realise e Wonder 2 in sequenza. I 130dB raggiunti durante l’ormai leggendaria “Holocaust Section” di You Made Me Realise - ad occhio accorciata tra i cinque e i dieci minuti, sono tutt’altro che sofferenza soprattutto se ci si lascia avvolgere dal muro sonoro. Il motto è chiaramente “facciamo più rumore possibile” con Colm Ó Cíosóig che pesta la cassa e sbandiera i crash, le chitarre spianate con foga e Kevin a testa bassa (eh beh...) per svincolarsi tra i vari pedali. I visual aumentano la sensazione di star assistendo ad un vero e proprio esperimento sonoro: nella parte finale dell’Holocaust le luci e immagini randomiche prendono all’improvviso la forma di linee bianche su sfondo nero. Come a dire “si è raggiunto un limite invalicabile”. Ancora forse da rodare a livello di timing è Wonder


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2: i beat jungle/DnB e il jet-sound di base sono pre-registrati e ad aggiungere l’ennesimo layer chitarristico è lo stesso Colm che per l’occasione abbandona la sua postazione dietro alle pelli. L’aereo che decolla in direzione Londra mette fine ad oltre un ora e mezza di distorsioni (s) travolgenti. Due sere dopo all’Hammersmith Apollo è tutto pronto per la prima serata della doppia data londinese. Il freddo è lo stesso - forse un po’ meno intenso - ma già dalla fila per entrare si possono notare alcune differenze rispetto all’atmosfera mancuniana. Il pubblico qui è generalmente più giovane e attento al look, la sensazione di stare per assistere ad un vero evento cittadino è probabilmente più palpabile. Il maestoso Hammersmith poi ci mette del suo. Diversa l’atmosfera (la security scherza continuando ad offrire tappi “anche se li hai già, prendine ancora”), diverso il pubblico (comprese due improvvisate ballerine in galleria durante Soon) e diverso anche il suono sprigionato. Uguale invece la scaletta. Praticamente nessuna variazione se non una Holocaust Section leggermente più lunga e un Kevin apparentemente più rilassato. La voce, pur rimanendo ovattata sotto cento strati di feedback, era probabilmente settata meglio rispetto a Manchester, soprattutto nelle prime due tracce, evidenziando qualche stecca proveniente da una Bilinda in completo azzurro. Le vogliamo bene lo stesso. Per il resto i volumi pro-audiolesionismo puntavono costantemente alla saturazione con momenti di estasi assoluta: il trucco durante To Here Knows When è quello di fissare la zona centrale dei visual per tutta la durata del pezzo e farsi cullare dal lungo loop finale. Giri vocali come questo e chitarristici come quello di Only Tomorrow potrebbero durare anche ore una volta entrati nel loop. Quello dei My Bloody Valentine è forse un viaggio da fare in solitara in cuffia - il continuo ed incessante via vai di gente in galleria rischiava di distrarre - ma l’esperienza live è da provare almeno una volta nella vita. Veramente indescrivibile. Le due date italiane sono un’occasione da non lasciarsi assolutamente scappare. Riccardo Zagaglia

Kanye West Hammersmith Apollo Estero/Altro 01 22:00:00 Marzo 2013 Il ritorno europeo di Kanye nella capitale inglese, stavolta da solo ed immerso in un’ambientazione apocalittica. Tra le solite bizzarrie. Il terzo ed ultimo appuntamento con Mr. West all’Hammersmith Apollo è stato, come i due precedenti, all’insegna dell’egocentrismo più sfrenato. Ma si parla di Kanye d’altronde, sarebbe ben più strano il contrario. La breve residenza nell’iconica venue londinese, 8.000 posti tra platea e galleria, rappresenta un taglio netto in termini di capacità rispetto alle apparizioni del-

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live report

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lo scorso anno al fianco di Jay-Z nella ben più grande O2 Arena, per il fortunato tour di Watch The Throne. Lo spettacolo del rapper di Chicago non è un vero e proprio concerto, è piuttosto la rappresentazione, iper-mediata, del personaggio Kanye West nella sua interezza ed in tutte le sue sfaccettature; dipinto qui come un solitario, egocentrico artista dall’animo torturato. È quindi, coerentemente, l’unico ed il solo a salire sul palco stasera, su di una sorta di grossa pista bianca ed inclinata, con due mega schermi laterali ed un altro sullo sfondo, che nel complesso offrono un impressionante effetto panoramico. Per un artista che non ha mai nascosto la sua passione/ossessione per il design, quella di stasera è l’ennesima dimostrazione della cura maniacale che West mette nello scegliere le sue ambientazioni e tutti i vari particolari. Dai vestiti alla musica, l’insieme degli elementi presenti in scena andranno poi a comporre l’immagine finale, il quadro generale della sua opera, cioè lui stesso. Il tema è il bianco. Dagli immensi fondali panoramici, che proiettano immagini di paesaggi glaciali ed impervi, in balia degli elementi atmosferici, fino all’abbigliamento di Kanye, una sorta di incrocio tra un designer jacket e una camicia di forza. A bordo palco, due ingegneri del suono, vestiti da ninja, anch’essi completamente bianchi. L’unico contrasto è dato dal volto del rapper, auto-proiettatosi in un’ambientazione che lo vede completamente isolato e, appunto, solitario. Si parlava di iper-mediazione, ed infatti è così: nulla è organico nello show di Kanye, dai beat che escono dalla consolle e vengono sparati a bomba dalle casse (con una resa terribile, ma poco importa), al suo microfono dotato di auto-tune, quello che ci arriva agli occhi e alle orecchie non è mai del tutto reale. Per essere una delle più grandi pop star al mondo, l’effetto della performance di West è alquanto straniante, ed il pubblico ovviamente apprezza. Gli album protagonisti della serata, in termini di scaletta, sono il recente collaborativo Cruel Summer, a nome G.O.O.D. Music, il tanto caro Graduation e naturalmente My Dark Beautiful Twisted Fantasy. Cold, che apre il set, è accompagnata da forti folate di vento e grossi iceberg che galleggiano alle spalle di Kanye. Nel giro di qualche pezzo, la scena artica diventa una vera e propria bufera, con tanto di vento assordante e neve artificiale che scende imperterrita dal soffitto. L’atmosfera si è fatta decisamente apocalittica, con Kanye che intanto è rientrato in scena con una maschera da yeti pennuto e spinge l’auto-tune al massimo (il famoso effetto robotico, spesso usato da West) per la doppietta Say You Will e Heartless, le uniche da 808s & Heartbreak. L’effetto scenico è notevole quanto eccentrico. È la personalità deragliante e magnetica di un performer all’apice della carriera, che si prende tutte le sue libertà e, lasciato da solo, ciondola come un malato inferme all’interno dell’immenso stage che si è creato. A metà tra spazio sconfinato e cella da ospedale psichiatrico, gli opposti si scontrano, rinnovando l’eterna dicotomia di un artista contraddittorio. Niente declamazioni stasera, come invece era successo la settimana scorsa, dove West si era preso il tempo (otto minuti!) per inveire contro i Grammy (al solito), le multinazionali che sponsorizzano il mondo della musica e perfino Justin Timberlake, da poco approdato nell’orbita Jay-Z con il recente singolo Suit&Tie e con la prospettiva di un tour estivo insieme a Jigga. Molti pezzi, come Homecoming e Flashing Lights, sono tagliati corti per dare spazio a sperimentazioni vocali distorte e cambiamenti scenici, anche se hit come All Of The Lights, Good Life e Stronger sembrano ancora le armi migliori per far infiammare un pubblico.


live report

Finita la bufera, Kanye si toglie una maschera per poi infilarsene un’altra, stavolta quella di diamanti, per ribadire il concetto che sempre di maschere si parla, anche quando di maschere non ce ne sono, anche quando i riflettori si abbassano. Dove finisce il Kanye personaggio, e dove inizia quello vero? La sensazione, a dirla tutta, è che la differenza stia diventando sottilissima anche per lo stesso West. Ed è forse proprio questo a spingerlo a nascondersi dietro una maschera, oppure ad avventurarsi in quasi venti minuti di sperimentazioni con Runaway, mentre invece potrebbe andare tranquillo e spedito, hit dopo hit. Alla base di tutto c’è il contrasto, la forza motrice che lo spinge a valicare i limiti, ma anche la voglia di impressionare. È la rappresentazione mediata (e mediatica) della lotta titanica contro se stesso, contro il suo passato, contro tutte le impervie di un mondo spesso ostile. È uno spettacolo egocentrico, si. Ma mai noioso, anche se, è cosa risaputa, West non è sicuramente un rapper dotato, è uno che al massimo se la cava. Come le masse d’acqua, irascibili e spaventose, che si muovono ondeggiando realisticamente alle spalle dell’artista, così il suo personaggio rimane in movimento e mai uguale a se stesso, in un continuo divenire e trasformazione che poi riesce ad avvenire anche dal vivo. Poco è rimasto del Kanye di dieci anni fa. Oltre a Jesus Walks e All Falls Down dal primo album, solo un minuto scarso è dedicato a l’encore di Gold Digger, con in conclusione una cover di American Boy di Estelle. Praticamente niente da Late Registration, l’album capolavoro che l’ha reso celebre. Ma in fondo, per un discorso di coerenza, troppo è cambiato nelle nostre vite per metterci a fare i nostalgici. Luca Falzetti

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G i m m e S o m e I n c h e s

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Eccoci al solito giro di pezzi strani: stavolta parliamo di tapes, digitali, 7 e 12” per Elli De Mon, Om, Al Cisneros, Lush Rimbaud, Harshcore, Nodolby, Wildmen, Gli Ebrei e Der Einzige...

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Questo mese a Gimmes rischiamo seriamente di essere scambiati per la Al Cisneros’ connection. Mr. Om infatti non si accontenta di esordire in solo con un 7” per la propria label Sinai Records, ma raddoppia con la casa madre buttando fuori due 12”, entrambi per Drag City. Procedendo con ordine, anche se le cose potrebbero essere sovrapposte, in Dismas (e relativa Version sulla side b) l’ossessione per dub e ritmi in levare d’ascendenza reggae e quella per le derive spirituali ben note del gruppo madre si spostano ancora oltre. Mantrico, mistico, psichedelico e tranceinante il vinilino è presentato come una sorta di “tributo a World Galaxy di Alice Coltrane reso sotto le forme del reggae” ma c’è molto di più nelle pieghe di questi pochi solchi. Roba che mette sulla buona strada per un futuro in solo e che ci conferma anche che l’erba del vicino è sempre più buona. Dal canto suo la casa madre non è da meno. Uno ora, Addis Dubplate, e uno a maggio, Gethsemane Dubplate, sono l’offerta votiva del duo americano alla santa pasqua o qualcosa del genere,in combutta coi padrini del dub Alpha & Omega e pertanto sempre sotto il trip del dubbone più acido e dilatato. Remix che scarnificano ciò che è ormai più di uno scheletro portante per le coordinate sonore degli Om. Disturbi elettrostatici e voce femminile, quella di Christine Woodbridge degli Alpha & Omega, a impreziosire i due lati del 12”. Gethsemane Dubplate, la cui pubblicazione è prevista invece per maggio, invece si muove con più libertà. Riducendo, cioè, all’osso il suono classicheggiante e (semi)orchestrale dell’omonima track di Advaitic Songs, sia nella versione puramente dub, una Garden Dub dagli accenti quasi retrofuturisti alla Blade Runner, che in Garden Of Gethsemane, simile per forza di cose come atmosfere e orizzonti, tra incensi e ganja, echos e teste ciondolanti. Non se ne sentiva, in realtà, la mancanza, ma Cisneros e Amos sono ormai in viaggio totale su quella interstellar highway invisibile che unisce il medioriente alla Giamaica. Sulla stessa lunghezza vinilica si muove il volume numero 1 di una serie di split chiamata V’ll Series, pubblicata dalla From Scratch e impreziosita dall’artwork di Nicola Villani aka V’ll. A inaugurare uno dei migliori gruppi di casa, i Lush Rimbaud, pronti a duettare con gli olandesi zZz. I nostri continuano sul versante kraut-psych infatuato con le ritmiche tribaloidi da (post) funk bianco che ne innervano le strutture e ce li restituiscono nervosi e tesi, spigolosi e danzerecci. Ottima la trance synthetica di The Freak Dream, danza stordente e avvitata su se stessa, un po’ Liars maleducati, un po’ horrorosa devianza, un po’malattia mentale e un po’ Albione industriale. Gli olandesi rispondono in maniera meno cupa e più solare, con un retrogusto


#36 G i m m e S o m e I n c h e s

sempre scazzone e sfattone: che sia lo psychobilly ludico-gigionesco post-cabarettistico di Alone col vocione di Bjorn Ottenheim che fa il verso ai coroner storici, o le Suicidesche volute ossessivo-sintetiche dell’electro-wave limitrofa alla minimal-wave di Pretty, poco cambia nel giudizio, in definitiva più che buono. Passando ai 7”, segnaliamo la prima uscita di Elli De Mon, nom de plume dietro cui si cela Elisa un tempo negli Almandino Quite Deluxe e ora metà del progetto made in Garrincha Le-Li. Qui si lascia da parte il pregresso e si procede alla grande sulle note di roots e cowgirl-rock, polverose strade da asfaltare a suon di slide e batterie pestate tenendo il ritmo con un piede solo, banjo aggressivi come diavoletto e una voce che scartavetra e pettina come non mai. Tre tracce, 8 minuti e bona lì, che il rock (garage, punk-blues, traditional, ecc.) non ha bisogno di troppo tempo per bruciare. Sullo stesso, urticante versante si muove il 7” digitale Haters Gonna Hate, inno generazionale al tempo del web 2.0 messo in scena dal duo Wildmen che non a caso è stato registrato nello stesso studio della suddetta (benedetto sia Nene Baratto e l’Outside Inside Studio). Siamo più sul versante bluesy, ma i ritmi scavezzacollo della title track e le ossessioni r’n’r di Trouble, i Suicide catapultati negli anni ‘50?, ci dicono di un progetto, quello di Matteo Vallicelli e Giacomo Mancini, tra i più infuocati di oggi. Esce per la benemerita Shit Music For Shit People, madrina anche del full-length di debutto proprio in questi giorni. Sempre in digitale (per ora su Tannen, dato che a breve uscirà in formato fisico per V4V) il rientro de Gli Ebrei, Disagiami: un mini da 6 pezzi per 12 minuti di disagio giovanile e di provincia com’è ovvio che sia e che a furia di grezzo lo-fi, ascendenze marchigiane (dal surrealismo made in Camillas ai mai troppo lodati Dadamatto), attitudine punk e nichilismo del quotidiano, ci offre uno spaccato sul “racconto degradante di una realtà sbilenca”. Genuinamente poetici e da premiare. Su versanti molto più ostici, segnaliamo due tapes. Nella prima mr. Dokuro Michele Scariot torna col progetto Nodolby per Field Hymns. Afertmath/Inception consta di due lunghe tracce per una quarantina di minuti di musica aliena anche alle precedenti esperienze targate Nodolby. Meno estreme per wall of sound e molto più screziate per dinamiche interne, le due suite partono da un suono denso e corposo, frastagliato e sfasato in modalità droning (Inception) per poi - in particolare la seconda traccia, Aftermath - vivere di aliene visioni robotiche, dilatazioni algido-cosmiche, scioglimenti classical e deliqui from outer space. L’altra tape segna invece l’ultima uscita targata Old Bicycle e vede invece i progetti parenti Harshcore e Der Einzige in una fotografia scattata al Post Garage di Graz nel giugno del 2009. Un lato in cui Matteo Uggeri aka Der Einzige e l’accoppiata Tommaso Clerico/Luca Sigurtà aka Harshcore si confrontano con due tracce cadauno, mentre sull’altro i tre uniscono forze e rumori per tirar su altre tre tracce. Clangori industriali e strisciate di noise materico per entrambi i progetti, con uno scarto “dada” per Harshcore, mentre il lato b mostra evoluzioni piuttosto interessanti dal connubio come trio. Stefano Pifferi

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Rino Gaetano

C A MPI M A G NETICI

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Ingresso libero (BMG, Luglio 1974)

È datato 1974 uno dei più folgoranti esordi dell’intera musica italiana, si chiama Ingresso libero ed è il primissimo lavoro firmato da Rino Gaetano. Nascosto dietro lo pseudonimo salgariano di Kammammuri’s, nel ‘73, Gaetano aveva pubblicato I love you, Maryanna / Jaqueline, prodotto da RosVeMon - Aurelio Rossitti, Antonello Venditti, Pietro Montanari -, un 45 giri composto da due brani dai testi goliardici e criptici, ricchi di sensi nascosti e allusioni assonanti, confuse e incerte. Rino Gaetano è timidissimo, insicuro, essenzialmente stonato e non vuole assolutamente cantare le proprie canzoni, ma Vincenzo Micocci, amico e proprietario della casa discografica It, lo convince/costringe a farlo. Ingresso libero è dunque il primo risultato di un esperimento pienamente riuscito, il primo tassello di una poetica nuova, lunare, a suo modo lisergica e immersa interamente nel proprio tempo, pur prendendo le distanze da certi formalismi folk del cantautorato romano di quel periodo. La formula vincente del disco è quel mix di afflati freak, giochi pop, canzone d’autore acuta, politica e, tematicamente, alla moda. Dentro a Ingresso libero, insomma, convivono già tutte le differenti spinte che andranno via via definendo la poetica di Rino Gaetano anche nei dischi successivi. Dall’album emergono, in modo poeticamente riuscito, due filoni tematici: il rapporto con l’amore, con la propria donna, insomma la sfera del privato, dell’intimità (Tu, forse non essenzialmente tu, Supponiamo un amore, I tuoi occhi sono pieni di sale) e testi ricchi di considerazioni profondamente politiche, narrative, quadretti molto esaustivi del tempo in cui si parla di desideri eversivi, di sfruttamento, di abuso di droghe (Agapito Malteni Ferroviere, L’operaio della FIAT “La 1100”, A Khatmandu). Se Tu, forse non essenzialmente tu è, ad oggi, esempio straordinario di un nuovo modo di cantare di amore, di solitudini e malinconie a lui connesse - il tutto attraverso un ragionamento che ricorda un po’ certi approcci al racconto introdotti in primis da Luigi Tenco (“Tu, forse non essenzialmente tu: un’altra... ma è meglio fossi tu” ricorda il modus analitico de “Mi sono innamorato di te perché non avevo niente da fare...”) -, Agapito Malteni Ferroviere è un evidente tributo musicale/tematico a Il bombarolo di Fabrizio De André, brano cardine del concept album Storia di un impiegato, uscito poco prima, nell’ottobre del 1973. Ai testi ricchi di rimandi ora struggenti ora ironici, si vanno a unire musiche di volta in volta vicine alla ballata (Supponiamo un amore) o giocose e scanzonate (è il caso di Ad 4000 D.C.). Un disco seminale, bello anzitutto, molto interessante, di ampissimo respiro, che ha, come valore aggiunto, tutta l’estemporaneità creativa dell’esordio. (8/10) Giulia Cavaliere

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Black Sabbath

c l ass i c a l b u m

Paranoid (Vertigo, Settembre 1970)

Non sono pochi quelli che pensano ai Black Sabbath come al gruppo a cui andrebbe assegnata di diritto la palma di primo complesso di “metallo pesante” propriamente detto. Certo, i quattro di Birmingham sono stati forse i primi a codificare su larga scala un suono dark e heavy e un immaginario strettamente connesso, improntato ai temi dell’occulto, della guerra, dell’apocalisse nucleare, dell’alienazione mentale e di un lato oscuro che toccava più o meno tutti i riflessi dell’animo umano. Per questo sono - giustamente - celebrati. Che abbiano o meno “inventato” loro l’heavy metal è questione su cui si può discutere, spostando magari i termini della discussione sull’uso del termine “inventare” in musica. Nessuno può invece negare l’imprimatur su una certa scuola metal, né, tantomeno, l’ispirazione primigenia per le sue propaggini come doom e black. Ma il bello dei Sabbath è che la loro influenza non si ferma qui - e già sarebbe abbastanza. Sono un patrimonio di tutto il rock, non soltanto della sua parte più “estrema”; il loro retaggio tocca generi come il dark (pensiamo al sepolcrale giro di basso di Bela Lugosi’s Dead dei Bauhaus, tre note perentorie come quelle del riff di Black Sabbath), ma soprattutto il grunge, lo stoner e una buona fetta di rock alternativo del più o meno recente passato. Chi è cresciuto negli anni ‘90 ha assorbito di riflesso i loro riff attraverso Nirvana, Soundgarden, Smashing Pumpkins, Kyuss e Rage Against The Machine, per non fare che qualche esempio. Perciò il ritorno di Ozzy Osbourne accanto a Tony Iommi e Geezer Butler è un avvenimento che non si poteva non celebrare. Il linfoma che ha colpito il chitarrista ha fatto saltare, nei fatti, il tour della reunion - Ozzy & Friends non era la stessa cosa - ma non il completamento di 13, in uscita il prossimo giugno. Tutti hanno augurato a Tony di avere la stessa tenacia dimostrata nel continuare a suonare dopo l’infortunio sul lavoro che poteva stroncare la sua carriera di musicista. Alcune scelte che hanno forgiato il sound dei Black Sabbath sono la conseguenza proprio delle limitazioni dovute all’incidente in fabbrica, in cui il Nostro aveva perso le falangi del medio e dell’anulare della mano destra (lui, chitarrista mancino): nascono così le accordature ribassate, il segreto di quel suono cupo e pastoso. Con il primo album, i Black Sabbath creavano oltretutto un concept, quello dell’horror rock, mutuato dai film della Hammer o di Mario Bava e tradotto rispolverando - vestita di nuovo una vecchia eresia dei manuali di composizione: l’intervallo di tritono, così dissonante che nel Medioevo l’avevano ribattezzato diabolus in musica. Più letterali di così, si muore.. Ai critici che li accusavano di essere una copia più monolitica dei Cream (e che finirono poi per diventare dei sostenitori, leggi: Lester Bangs), rispose lo stuolo di ammiratori che eresse monumenti a quella potenza ottundente e fece di Paranoid - un riempitivo buttato giù in venti minuti, sorta di Satisfaction suonata da zombie robotizzati - il brano che dà il titolo al secondo LP e il cavallo

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c l ass i c a l b u m

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di battaglia sempiterno, quello che non può mancare in nessun concerto; per alcuni, addirittura “la canzone che ha inventato lo speed metal” (e ci risiamo...). Scelte compositive in apparenza dozzinali, come il basso, la chitarra e la voce che riprendono all’unisono la stessa frase (la cantilena di Iron Man) o i riff così pesanti ma melodici e, appunto, cantabili, tanto da scandirsi immediatamente nella memoria - di War Pigs, Electric Funeral, Hand of Doom - inevitabilmente colpiscono dove vogliono, come le pellicole che hanno ispirato le loro sfumature orrifiche. Sono gli “effetti speciali” di quei film trasferiti sul piano della musica. I Black Sabbath non creano dal nulla: le strutture musicali, dalle variazioni sullo schema delle dodici battute agli accenni di jam session, provano la filiazione di questa covata “malefica” nel grembo del rock blues inglese, di cui l’hard rock e l’heavy metal rappresentano uno dei principali effetti collaterali. E come per magia, naturalmente nera, questo suono metal primordiale contiene una vaga prescienza di quello che sarà il punk rock e agganci con la psichedelia (il trip spaziale di Planet Caravan, ma non solo); proprio i due generi con cui si andrà a ibridare nei decenni successivi, creando le forme a cui abbiamo accennato, grunge e stoner. Tante ramificazioni per un disco così semplice; che ci fosse davvero sotto lo zampino del maligno? Qualche odorino di zolfo non lo sentite anche voi? (8/10) Tommaso Iannini



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