digital magazine | maggio 2013 | n. 103
va m p i re we e ke n d il suono pulsante della cittĂ
sommario turn on – p. 4 Diverting Duo
tune in – p. 6 The Knife
drop out – p. 12 Vampire Weekend Daft Punk Mudhoney
rearview mirror – p. 126 Anthony Phillips
recensioni – p. 58 rubriche – p. 138 live report gimme some inches
#103 maggio Direttore Edoardo Bridda Direttore Responsabile Antonello Comunale Ufficio Stampa Alberto Lepri Coordinamento Gaspare Caliri Progetto Grafico Nicolas Campagnari Redazione Alberto Lepri, Antonello Comunale, Edoardo Bridda, Fabrizio Zampighi, Gabriele Marino, Gaspare Caliri, Massimo Rancati Nicolas Campagnari, Riccardo Zagaglia, Sebastian Procaccini Stefano Solventi, Stefano Pifferi, Teresa Greco Staff Alessandro Liccardo, Alessia Zinnari, Andrea Napoli, Andrea Forti, Antonio Pancamo Puglia, Antonio Laudazi, Davide Nespoli, Federico Pevere, Filippo Papetti, Filippo Bordignon, Giulia Antelli, Giulia Cavaliere, Giulio Pasquali. Luca Falzetti, Luca Barachetti, Marco Braggion, Marco Masoli, Marco Boscolo, Mirko Carera, Nino Ciglio, Sarah Venturini, Stefano Galliazzo, Stefano Gaz Copertina Vampire Weekend Guida spirituale Adriano Trauber (1966-2004)
SentireAscoltare // online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Copyright © 2013 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare.
Quello dei Diverting Duo è un electro da steppa sconfinata, un’alba fatta della materia dei sogni. Che sembra quasi Berlino.
Diverting Duo Ogni uomo è un’isola
Fare della terra colta una radura sterminata. Fare dell’alba una culla di suono, della brina una condizione di esistenza, uno stato che porta alla gioia. Ascoltando We Lend You A Memory, il secondo lavoro dei Diverting Duo, ci viene in mente una steppa sconfinata e arida, che, a prima vista, appare distante dall’immaginario della Sardegna, loro terra d’origine. A scapito di chi dava loro dei provinciali e delle solite band con forma tradizionale (chitarra-basso-batteria), il duo sardo si è fatto contaminare da un altrove che ha reso imprescindibile la propria condizione geografica. Crescendo insieme, hanno poi trovato linfa nei grovigli della musica elettronica, sporcata dai suoni astrali del Nord Europa, contaminata con le rivoluzioni recenti di Thomas Morr e la sua scuderia di berlinese. “Non credevamo che chi avrebbe ascoltato We Lend You A Memory avrebbe avuto la necessità di immaginare il posto in cui viviamo. Noi viviamo su un’ isola”. Ogni uomo è un’isola, anche se le sponde del suo mare lo portano a relazionarsi con l’altrove. Proprio questo bisogno di essere solitudini al plurale, luoghi di passaggio o di scambio, ha creato gli epigoni di un progetto fondato sulla ricerca, senza rinunciare alla purezza del pop. La condizione di “isolani” svolge una parte fondamentale, perché è attraverso questo silenzioso habitat di meditazione che il duo riesce a “far vedere” la propria musica: “credo però che quello che è arrivato a chi ascolta sia proprio quella sensazione che provi davanti ad una natura selvaggia e solitaria”. Il loro cammino, iniziato alcuni anni fa con Lover/
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Lover, aveva preso una deviazione già durante la promozione di quel disco. Canzoni come Home e Outset - le prime composte del nuovo lavoro - suonavano come un campanello di allarme riguardo a un possibile cambiamento di genere; l’utilizzo di tastiere e bassi elettronici avrebbe fatto il resto. È così che attraverso synth e campionamenti, Sara e Gianmarco concepiscono l’importanza del ricordo, di quello lasciato a marcire al sole ardente. “Non volevamo dare alla parola “ricordo” un significato pienamente storico. Non è un ricordo del passato, è un ricordo del presente. Il suo significato si fa più leggero, più frivolo”. È quel lend (prestare), che si fa carico del significato primario della riflessione: “sapevamo che alcuni pezzi sarebbero arrivati in maniera molto precisa e intensa e speravamo di riuscire ad influenzare l’immaginario del nostro interlocutore, trasmettendo immagini e sensazioni. E’ questo il significato di prestare”. I Diverting Duo ci vogliono prestare i loro ricordi brucianti dell’isola dalla quale provengono, ci vogliono portare per mano in percorsi esistenziali. È sempre affascinante ascoltare “musica del silen-
zio”. Molte band elettroniche ci riescono; molte band, attraverso pochi suoni, creano la dimensione giusta per una meravigliosa quiete che si fa musica. Non è facile, certo, ma i Diverting Duo si avvicinano a questa prospettiva, lavorando per sottrazione e rendendo il loro sound la cifra sentimentale dei sogni. “Avevamo un’idea precisa sulla direzione che volevamo far prendere al disco e con Matteo (Sanna, dei Karate Lessons, ndr) abbiamo deciso di non caricare esageratamente i pezzi, ma di raggiungere un equilibrio con quello che ritenevamo essenziale. Una volta raggiunto l’obiettivo abbiamo lavorato sulle sfumature. Trovo che Matteo sia riuscito a rendere proprio quella dimensione del silenzio”. Alla stregua di Mùm, Lali Puna, Sigur Ròs, i Diverting Duo dimostrano mente aperta nel concedersi il tempo necessario per rielaborare le proprie influenze. Sara domina la voce con l’eleganza sporca di Nico, interpreta più che cantare: “Prendi un pezzo come Frozen Warnings; Mi ha insegnato molte cose, innanzitutto a dare il giusto peso alle singole parole”. È naturale chiedersi se sarebbe stato possibile concepire i testi di We Lend You A Memory in italiano o se un genere come questo prevede solo ed esclusivamente fughe anglofone: “Forse è solo una questione di dimestichezza. Trovo che l’italiano sia una lingua difficile da utilizzare, ma la amo profondamente. Non l’ho scelta tempo fa e non credo che lo farò in futuro”. Tutt’altra strada rispetto all’ “Italia visibile” del neo cantautorato, più fruibile e più esposta all’uncino mediatico. La lettura dei Diverting Duo è semplice: “Non abbiamo nessun preconcetto rispetto al cantato in italiano o in inglese o al cantautorato in quanto tale. Il nostro sound nasce da influenze che hanno poco a che fare con l’Italia, è più esterofilo”. Sul fronte degli arrangiamenti, il discorso è tutt’altro che scontato. Molto spesso chi si trova a gestire questo tipo di suono deve vedersela con l’eterno scontro fra digitale e analogico, fra “suonato” e “campionato”. E lo deve fare soprattutto a partire dal live: “Durante i nostri concerti scegliamo
di mantenere la performance live più vera possibile. La consideriamo, in un certo senso, una questione di onestà verso chi ci ascolta. Durante i live rimangono in base i beat elettronici, mentre voci, synth e chitarre sono suonati in real time”. Il corrispettivo visivo di questa “fedeltà” è la storia del loro ultimo video, Outset, girato con mezzi vintage d’eccellenza: “siamo arrivati alla decisione di girare in Lomokino quasi per gioco. Il risultato di questo lavoro è una sequenza di 2300 fotografie analogiche che Theo (Putzu, il regista, ndr) ha poi scansionato e montato. Posso dire che le difficoltà sono state tante, a partire dalla scelta di mezzi non “professionali”. Il risultato però ci dice che ne è valsa la pena!”. Ogni uomo è un’isola, nessun uomo è un’isola. La Sardegna ha una viva realtà da scoprire, “Cagliari è un posto fantastico, pieno di vita notturna e di locali dove suonare”. Certo, non è facile per i Diverting Duo trovare supporto e conforto in band dalle simili affinità elettive. “L’unica band che mi sentirei di accostare al nostro tipo di musica ed immaginario sono le Lilies on Mars che però si dividono tra Italia e Inghilterra”. Il rischio è dietro l’angolo: molti artisti che, come i Diverting Duo, ricevono apprezzamento all’estero e sono isolati nel loro gusto da un’Italia troppo spesso sorda, decidono di emigrare altrove. Fra questi, nomi come Indian Wells o Banjo or Freakout. Ma per ora i Diverting Duo ci rassicurano: “non abbiamo intenzione di spostarci dall’Italia; abbiamo in progetto però, per il prossimo autunno, di fare nuovamente qualche data europea e italiana”. Un’occasione in più per frenare questa insolita forma di brain drain. Nino Ciglio
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The Knife Musica politica oggi Privilegiati contro i privilegi, alla riscoperta del collettivo creativo e senza alcuna intenzione di venire fraintesi: Shaking The Habitual è significativo, è un inno politico.
testo: Massimo Rancati
Se persino Wikipedia sfoggia un paragrafo interamente dedicato ai rapporti - non propriamente idilliaci - con i media, è facile comprendere quanto ci abbia sorpreso ricevere proposta di intervista dai The Knife e, a maggior ragione, ritrovarci sommersi da un’eterogeneissima mole di materiale. Non soltanto l’usuale cartella stampa, ma anche il contorto, intrigante manifesto scritto da Jess Arndt, le strisce a fumetti realizzate dalla collaboratrice Liv Strömquist ed il criptico testo del short film The Interview (creato in combutta con Marit Östberg e recentemente diffuso sul web). Tutto ciò è stato messo, con largo anticipo, a nostra disposizione per prepararci alla discussione con Karin e Olof nel miglior modo possibile. Poi l’intervista, originariamente fissata per la metà di febbraio e saltata per problemi di salute di Olof, è stata rimandata al mese seguente con allegato altro materiale e la richiesta di fornire il testo integrale a mo’ di proofreading prima della
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pubblicazione, visto che un quotidiano inglese aveva giusto mal interpretato alcune dichiarazioni rilasciate dal duo. Come sarà chiaro dai toni e dagli argomenti dell’intervista, i gemelli Dreijer non hanno irrigidito i rapporti con la stampa, ma preferiscono controllarne maggiormente l’output. Shaking The Habitual rappresenta l’opera più libera, autorevole e significativa, uno statement assieme artistico e politico, un doppio album diviso tra canzone e sperimentazione. Non sono accettati fraintendimenti. A parte i vostri side-project e l’electro-opera Tomorrow In A Year, cosa avete fatto in questi sette anni da Silent Shout? Quale è stata la miccia che ha generato il nuovo album? Karin: Abbiamo iniziato a lavorare a Shaking The Habitual tre anni fa. Credo che ciò che ha fatto partire il progetto sia stato il fatto che abbiamo
molto discusso riguardo a molteplici modi di combinare i nostri interessi politici. Abbiamo pensato che sarebbe stato fantastico riuscire a studiare più a fondo socialismo, ideali femministi ed i loro problemi correlati, e per farlo ci siamo procurati e abbiamo letto svariate teorie a riguardo. Ci siamo quindi chiesti se sarebbe stato possibile combinare queste letture col fare musica. Dalle basi e dai punti comuni che ne sono risultati è partito il tutto. Shaking The Habitual è enorme ma, musicalmente parlando, credo possa essere anche visto come una sintesi della vostra discografia, dato che contiene sia gli electro-banger di Deep Cuts e Silent Shout , sia gli episodi operistici di Tomorrow In A Year. E’ anche chiaro come vi siate d’altro canto superati: ad esempio, le vocals di Karin non sono mai state in tale, continua, mutazione come in questo lavoro. Come descrivereste il nuovo disco nella sua apparenza sonica? Quali sono gli aspetti sui quali vi siete concentrati di più e avete sperimentato questa volta? Karin: È una bella domanda... [ride] Olof: A te come suona? Come ho detto, credo che ci sia tutto ciò che abbiamo mai sentito dai The Knife, ma portato all’eccesso, sospinto oltre i propri limiti. Per esempio, i due singoli Full Of Fire e A Tooth For An Eye mi suonano non lontani dall’estetica di Silent Shout. Sono diretti come lo erano alcune canzoni di quel disco, ma con estensione di entrambi in termini di minutaggio e spettro sonoro coinvolto. Vi sono, allo stesso modo, episodi operistici quale A Cherry On Top, così come il vostro “trademark tribale” in Without You My Life Would Be Boring. Credo inoltre che il “lato atmosferico” della vostra musica sia quello su cui avete sperimentato di più - vedi i diciannove minuti di Old Dreams Waiting To Be Realized dove vi muovete praticamente full-on drones - oltre che - e questo è ciò che più mi ha
impressionato - sulle vocals di Karin lungo tutto il disco. C’è persino una traccia, Wrap Your Arms Around Me, in cui le stesse risultano vicine come non mai a quanto fatto in passato coi Röyksopp (What Else Is There, ndr). Karin: Ci hai preso! [ride] Per quanto riguarda le vocals ho voluto provare cose che non avevo mai fatto prima, oppure combinare differenti modi di processarle in maniere che non avevo ancora provato. Tentare molteplici combinazioni e stare a vedere che vien fuori è, in generale, una strategia che abbiamo adottato parecchio [questa volta]. Per quanto riguarda i testi, avete dichiarato di aver tratto ispirazione anche da inni politici dei 70s. Quali in particolare? Karin: Abbiamo guardato a certa musica svedese, come quella del collettivo teatrale The National Theatre (che ha fatto un teatro estremamente politico nei 70s). E abbiamo anche ascoltato parecchio materiale di un altro progetto chiamato The 10th Project. È stato utile all’idea [che sta dietro
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al disco] di cui abbiamo discusso in precedenza: come si può fare musica politica oggi? Cosa è musica politica oggi? Credo vi siano diverse risposte a questi interrogativi: una cosa che può essere smaccatamente politica sono, ovviamente, i testi; ma all’interno dei testi le canzoni si muovono anche attorno a diversi argomenti, tutti - anche se non direttamente - in qualche modo politici. Credo che siate riusciti a rendere inno politico lo stesso Shaking The Habitual. E con questo voglio anche dire che Full Of Fire mi sembra particolarmente adatta a prendere il posto di Heartbeats - che è stata usata come tema delle manifestazioni violente di fine anni 2000 - come canzone di protesta. Chi sono questi uomini bianchi che controllano le nostre storie, oltre ai pruriginosi liberali di cui cantate nel brano? Karin: C’è parecchia rabbia in quella canzone,
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perchè il diritto di scrivere la storia è stato tolto a moltissime persone. Alle donne, per esempio, ma anche al sottoproletariato e alla classe operaia. Ed, altrettanto, è diventato privilegio di uomini ricchi e bianchi quello di scrivere la storia, compresa, ad esempio, la storia della musica. Insomma Full Of Fire scalcia in svariate direzioni. Vado per un secondo off topic - ma forse non così off topic - e mi muovo sulle notizie di cronaca: quale è la vostra opinione riguardo al Papa dimissionario, al nuovo Papa e alla chiesa in generale? Olof: È fantastico, no? [ride] È stato molto interessante seguire la vicenda del Papa dimissionario. Voglio dire, persino in Svezia, e quindi persino in una terra del Protestantesimo, nei servizi dei telegiornari hanno intervistato molte persone, hanno cercato di farle apparire tutte, indistintamente, incredibilmente tristi per l’accaduto e quindi
trascurato volentieri ciò che il Papa rappresenta politicamente. È davvero notevole quanto lui sia popolare nonostante il suo essere incredibilmente sessista, omofobico, razzista e tutto il resto. Ma quali sono le ultime news? C’è già un seguito? Hanno appena eletto un nuovo Papa, argentino e che si ritiene dalla parte dei poveri. Per esempio, viaggia in metropolitana e porta un anello papale in argento invece che in oro. Ma la sua “vera natura” pare essere già controversa, dato che sono spuntati alcuni articoli che affermano che, in passato, si schierò dalla parte della dittatura argentina e autorizzò l’arresto di un paio di sacerdoti alle sue dipendenze che lavoravano attivamente nelle baraccopoli... Olof: Devo leggere qualcosa a riguardo. Potreste andare più a fondo ed essere ancora più diretti riguardo al “taglio al benessere estremo” che sostenete? Olof: Per molti aspetti del progetto Shaking The Habitual abbiamo voluto coinvolgere amici e molte altre persone fantastiche che fanno cose fantastiche e, dunque, creare la sensazione di lavorare come collettivo creativo, femminista e socialista. Quando è stato il momento di discutere dell’artwork di copertina, abbiamo pensato a come renderlo politicamente al meglio ed abbiamo invitato la fumettista Liv Strömquist, che sta lavorando da tempo su fumetti femministi e socialisti qui in Svezia. Ci siamo quindi incontrati ed abbiamo discusso riguardo a differenti maniere di lavorare su finanza e analisi femminista applicata all’economia. Alla fine lei ha scelto questo particolare soggetto e credo che quello che ha voluto rappresentare e mettere sotto focus sia il fatto che il benessere, piuttosto che la povertà, è il vero problema per la società. E questo perchè la povertà può esistere soltanto se esiste il benessere. Inoltre, sempre nella cover art, Liv si prende anche gioco dei progetti post-coloniali avviati dall’Europa in Africa, del loro aspettarsi
che tutto finisca per sistemarsi se semplicemente si continua a piantare qualche albero (si riferisce all’attuale aumento delle piantagioni monocoltura su larga scala, per molti semplice continuazione del modello affermatosi nel corso del dominio coloniale, ndr) e di altre cose del genere. Spero [l’artwork] che funzioni su vari livelli. Avete anche parlato di lasciare cadere le vostre vecchie maschere... Karin: non credo che esista un modo di esibirsi in maniera naturale e non esiste un modo di esibirsi senza maschera. Per cui continueremo assolutamente a lavorare con l’idea di costruire ciò che è naturale e costruire i ruoli di genere. Sarò deliberatamente provocatorio nella prossima domanda, dato che credo troverete comunque qualcuno che, prima o poi, ve lo farà notare. Per Shaking The Habitual avete parlato anche di agire senza autorità, ma, realisticamente, non sareste stati in grado di permettervi un disco come questo senza il vostro status privilegiato di innovatori e di act tra i più influenti degli ultimi tempi. Sono piuttosto sicuro che ci saranno persone che vi chiederanno se questo sia o meno contradditorio. Cosa rispondereste a costoro? Karin: Credo che sia molto importante comprendere i propri privilegi. Siamo consapevoli di essere privilegiati nell’avere la possibilità di lavorare su un disco, per esempio, per un lungo periodo. Credo però anche che sia necessario agire fuori da questo status privilegiato. Voglio dire, se hai la possibilità di poter fare un album riguardo a ciò che vuoi, ciò che ne consegue è la responsabilità di usare quel privilegio per realizzare qualcosa che sia significativo. E certamente ciò che è significativo varia da persona a persona ma credo, per quanto ci riguarda, che si sia provato ad utilizzare i nostri privilegi nel miglior modo possibile. La scena musicale svedese - così come attualmente la conosciamo - è in genere particolarmente garbata. Al contrario, il linguaggio che
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usate nei vostri testi è realmente forte. E con questo voglio dire, per renderla chiara e tonda, che fate risultare, per esempio, quel “I’m your prostitute, you gon’ get some” di Lykke Li come fosse la dichiarazione di una tenera bambina. Che rapporto avete con la scena locale? Cosa rappresenta per voi Stoccolma? Karin: Dal punto di vista musicale, non ho molti colleghi a Stoccolma con cui lavoro a stretto contatto. Ecco, potrei dire che considero Jenny Wilson una collega [svedese], dato che ci siamo più volte aiutate a vicenda all’interno della music industry. Mi sento legata a Planningtorock ma lei risiede a Berlino. Non penso molto alla scena svedese, non ne sono particolarmente presa. Per me non è importante che i colleghi in musica siano locati in Svezia, provo davvero soltanto a connettermi con quelli con cui mi sento imparentata. Spostandoci per l’ultima volta sui fatti di cronaca: in che modo il massacro di Oslo perpetrato da Anders Breivic nell’estate del 2011 ha inciso sulla vostra percezione della realtà scandinava? Karin: Ci sarebbero parecchie cose da dire, ma cerco di rendertela in breve. In Svezia abbiamo un problema con una forma particolarmente nascosta di razzismo. Magari non è nemmeno così nascosta, ma, in ogni caso, il popolo svedese si considera - o comunque ha una storia nel considerarsi - non razzista. Credo e spero che i fatti del 2011 abbiano quantomeno dato il via a un dibattito sull’argomento. Avete anche coinvolto nel progetto Shaking The Habitual un’altra artista outsider che non ha mancato di impressionarci: la regista e visual artist Marit Östberg. Come siete finiti a lavorare con lei? Ci direste qualcosa di più riguardo alla sua, apparentemente molto forte, personalità? Karin: Olof aveva già lavorato molto con lei per il suo progetto Oni Ayhuh. Marit aveva, tra le altre cose, realizzato le visuals per gli show di Olof
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sotto quel moniker. Da tempo, inoltre, è al lavoro su porno attivista e porno femminista, e quindi abbiamo pensato sarebbe stato interessante chiederle di tirare fuori un film da Full Of Fire. Abbiamo discusso parecchio delle nostre idee comuni e riguardo a quali scene sarebbe stato importante avere in un film come questo... ma davvero, dovresti parlare con lei! [ride] Fa davvero cose fantastiche. La fotografia del clip di Full Of Fire mi ricorda quella di The Girl With The Dragon Tattoo, in termini di realismo... Karin: Forse è così. Non ho visto il film, però ho letto i libri. I vostri live shows sono sempre stati particolarmente teatrali. Cosa ci dobbiamo aspettare dal vostro imminente tour? Olof: Il nuovo show sarà il risultato di un processo collettivo e femminista. Non posso dirti molto di più per ora. Stiamo lavorandoci su assieme ad un grosso collettivo e non è ancora tutto pronto, ma non appena avremo finito vi faremo vedere qualcosa.
MERCOLEDÌ 29 MAGGIO
IL TEATRO DEGLI ORRORI GIOVEDÌ 30 MAGGIO
GIOVEDÌ 6 GIUGNO
SABATO 15 GIUGNO
DOMENICA 16 GIUGNO
ADAM GREEN NOBRAINO (TRA I TANTI IN ARRIVO)
NEFFA
ASCANIO CELESTINI
MARTEDÌ 18 GIUGNO
ROY PACI - CORLEONE VENERDÌ 28 GIUGNO GIOVEDÌ 4 LUGLIO
NADA
PERTURBAZIONE
SABATO 6 LUGLIO
DOMENICA 7 LUGLIO
VENERDÌ 19 LUGLIO
LUNEDÌ 22 LUGLIO
GLEN HANSARD CAT POWER
MAX GAZZÈ JONATHAN WILSON GIOVEDÌ 25 LUGLIO
Via Granelli 1 Sesto San Giovanni www.carroponte.org
PATTI SMITH
SABATO 27 LUGLIO
11 DEVENDRA BANHART
Il suono pulsante della cittĂ
Vampire Weekend
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Testo: Alberto Lepri
Ripercorriamo la storia dei Vampire Weekend dall’esordio fino al nuovo album, Modern Vampires Of The City, raccontato in anteprima dalla viva voce di Rostam Batmanglij. A voi che state leggendo e che sarete probabilmente al caldo di una primavera ormai inoltrata, è doveroso precisare che la conversazione che segue si è svolta sotto il cielo quantomai pesante di una Milano di fine febbraio, gap temporale frutto in parte dei tempi della discografia e in parte del riserbo strettissimo attorno a Modern Vampires Of The City. Una riluttanza a parlare dell’album giustificata dai Vampire Weekend con la volontà di non influenzare in alcun modo la sua ricezione, quasi a dribblare quell’hype di cui il quartetto newyorchese si è sempre nutrito al pari del sangue per gli esseri mitologici di cui porta il nome.
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Nel momento in cui incontriamo Rostam Batmanglij l’uscita del doppio singolo Diane Young / Step è infatti ben lontana (18 marzo) e così, con appena una manciata di informazioni a disposizione, possiamo solo preparaci alla chiacchierata ripercorrendo la storia della band. Quello dei Vampire Weekend è un percorso che, a guardarlo a ritroso, segna prepotentemente i cosiddetti anni Zero: quando nel 2008 il debutto omonimo esplode nelle orecchie di mezzo mondo, ci si chiede come sia possibile che quattro sbarbatelli hype-driven siano riusciti a fare qualcosa di nuovo (nell’accezione più pura del termine) pur rimanendo freschi, orecchiabili, estremamente radiofonici nella definizione dei manuali di Tin Pan Alley. Puro pop - quello dei grandi maestri dei ‘60, Beatles e Beach Boys in testa - contaminato da suggestioni che comprendono musica africana (Cape Cod Kwassa Kwassa) e jamaicana (The Kids Don’t Stand a Chance), new wave (I Stand Corrected), indie pop (A-Punk). Di ricerca, ma con la capacità di generare instant classic come A-Punk, Mansard Roof, Oxford Comma. Vampire Weekend , tuttavia, soffre un po’ di incompiutezza nella visione d’insieme, anche perché composto da brani registrati lungo
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un arco di tempo relativamente ampio e in location diverse, spesso di fortuna (appartamenti, cantine, locali). Il passo successivo è capire cosa potrebbero fare questi quattro ragazzini della Columbia University con un studio a disposizione, se un disastro o un capolavoro. La risposta arriva un paio di anni dopo, nel 2012: già dalle prime note di Cousins, apripista del sophomore Contra, si capsce che XL Recordings ha visto lungo e che Ezra Koenig e soci hanno davvero qualcosa in più da dire, bisogno di sperimentare e copie da vendere. Il disco debutta infatti al 1° posto nella classifica di Billboard dei 200 più venduti e lo stesso anno si contende un Grammy per Best Alternative Music Album con Brothers dei Black Keys (poi vincente). Dati di vendita a parte, in appena due anni i Vampire Weekend si dimostrano notevolmente maturati e ancora in grado di trovare la strada per la hit perfetta (Holiday). Spirito innovativo e conservativo, nella tracklist, si bilanciano quasi alla perfezione: da una parte infatti ogni singolo passaggio ha il riconoscibilissimo marchio di fabbrica del quartetto, dall’altra gli arrangiamenti si fanno più elaborati, anche se la vena sperimentale pare a volte frenata. I riferimenti restano sostanzialmente gli stessi e a brani più radicati nell’esordio (Horchata, California English) si affiancano fughe libertine (I Think UR a Contra, Giving Up The Gun). Contra si può considerare il disco della consacrazione dei Vampire Weeked, un lavoro con cui la band riesce in parte a scrollarsi di dosso il pregiudizio che la voleva bollare come un fenomeno passeggero, divertissement di quattro ragazzini benestanti dell’East Coast. Al disco segue il relativo tour e poi per un po’ sui vampiri cala l’oscurità; molti dei membri del gruppo si dedicano ad altri progetti - il frontman Ezra Koenig e il bassista Chris Baio come solisti, Rostam Batmanglij con i Discovery - e dei Vampire Weekend nessuno parla fino a metà 2012, quando iniziano a riprendere le apparizioni live e le interviste. Avanti veloce, siamo di nuovo a febbraio di quest’anno. Iniziano a uscire le prime informazioni sul nuovo album e già a vedere la copertina si capisce che il nuovo disco sarà qualcosa di sinistramente diverso: la fotografia incorniciata nello stile della band - precedente, e di molto, alla instamania dilagante - mostra la città di New York, catturata in bianco e nero da Neal Boenzi in una delle sue giornate più nebbiose (o piene di smog), nel 1966. Un segno che indica come il focus di Modern Vampires Of The City sia radicalmente diverso. Proprio la metropoli è al centro di questo nuovo lavoro; la sua
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atmosfera notturna riecheggia tra le note, la sua grandiosità e il romanticismo vibrano attraverso gli organi da chiesa e i cori a canone (Obvious Bycicle), la sua storia è raccontata dai testi (Hudson). Il percorso intrapreso con Contra giunge a un traguardo perfezionando quella fusione di tradizione e innovazione e dando vita a una scrittura riconoscibile corredata da un sound nuovo, frutto anche della collaborazione con Ariel Rechtshaid (Major Lazer, Cass McCombs, We Are Scientists) che affianca Batmanglij alla produzione. Il tessuto sonoro si stratifica, ospita molte più sonorità di pianoforte (Hannah Hunt) e hammond (Step), un inedito trattamento delle voce (Ya Hey), rarefatte esplorazioni polifoniche (Young Lion); i riferimenti a cui da sempre ci hanno abituato i Vampire Weekend si amalgamano e si mettono a fuoco non più come elementi separati, di traccia in traccia, ma come un tutt’uno. Non a caso è la stessa band a indicare MVOTC come il terzo capitolo di una trilogia, la chiusura di un ciclo, tanto che potremmo definirlo l’album con cui la formazione entra ufficialmente nell’età adulta. Persino il titolo - citazione da One Blood di Junior Reid - sembra un claim programmatico: i ragazzini sono diventati uomini, hanno lasciato la spensieratezza del campus e ora si aggirano per le strade di notte, a respirare la vita, ad analizzarne anche i risvolti più malinconici o inquietanti. Per prima cosa, tiriamo in ballo il fattore tempo: come mai avete deciso aspettare tre anni per dare un seguito a Contra? A dire la verità, tra il primo e il secondo album abbiamo avuto appena due settimane di vacanza, ci siamo rimessi al lavoro subito, come se non ci fosse stato tempo. Quando è finito il tour di Contra, invece, ci siamo presi cinque mesi pausa e poi, lentamente, abbiamo iniziato a trovarci. Quindi, tutto sommato, non credo che tre anni per fare un nuovo album siano molti, considerando poi che abbiamo passato più di un anno in tour. Perché un disco ora e non tra un anno, oppure un anno fa? Cosa vi ha fatto capire che fosse il momento giusto? La prima volta che io ed Ezra abbiamo parlato di fare qualcosa di nuovo, di sensazioni, e abbiamo iniziato a lavorare su un paio di brani, è stato quando ci siamo incontrati a Los Angeles. C’era un pezzo che gli avevo mandato ancor prima di finire Contra, nel 2009, una linea di pianoforte con una batteria molto complicata. Non ho più sentito nulla per diciotto mesi e poi per caso - eravamo su un aereo assieme - gli ho chiesto “hai ascoltato Obvious Bycicle?”: ho scoperto che lui aveva iniziato a scriverci qualcosa su, e che entrambi pensavamo sarebbe dovuta essere la prima traccia del nuovo
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album. Lì ho capito che avevamo un punto di inizio. Da subito si capisce che Modern Vampires Of The City è molto diverso, per certi versi, dagli album che avete prodotto fino ad ora. Cosa è cambiato rispetto Contra o Vampire Weekend? Credo che non sia cambiato molto a livello di scrittura; come per gli altri album si è trattato per lo più di una collaborazione tra me ed Ezra. L’arrangiamento era una cosa che facevamo più come band, mentre in questo album ci siamo concentrati sulla costruzione e sulla produzione utilizzata come strumento aggiuntivo per i brani. Infatti lo stacco maggiore che si nota è proprio nell’arrangiamento, perché le canzoni hanno chiaramente il marchio dei Vampire Weekend, ma guardando i disco nel suo insieme il mood è completamente diverso. Come si è svolta la stesura dei brani? All’inizio ci siamo trovati tre o quattro volte a settimana, lavorando sulle canzoni in molti modi e formazioni differenti: avevamo canzoni basate molto sulla chitarra, perciò ci siamo trovati come band, provando idee in quel modo, come abbiamo sempre fatto. Alla fine abbiamo scoperto che il modo migliore di lavorare a questo album era che io tirassi fuori un’idea musicale e che Ezra scrivesse testi e melodie, oppure che io e lui lavorassimo assieme trovando una specie di contesto, schizzando un mondo musicale per il brano, anche solo con pianoforte o un computer. Non abbiamo mai lavorato così a lungo e così a stretto contatto, abbiamo passato quasi un anno solo scrivendo e impostando le recording session per ogni canzone, che - contando anche quelle poi scartate - erano trenta o quaranta, anche se su disco ne sono poi finite dodici. Ci siamo presi molto più tempo del solito per scrivere, ed anche per questo ci è voluto così tanto per far uscire l’album. Prima hai citato Los Angeles, dove avete realizzato parte delle registrazioni. Trovarvi in una città diversa da New York ha influito sul risultato finale? Il realtà il grosso è stato scritto a New York, anche se abbiamo fatto qualcosa anche a Martha’s Vineyard. Poi nell’estate 2013 ci siamo spostati a LA per lavorare sul materiale già scritto con il mio amico Ariel - che ha coprodotto l’album. All’inizio eravamo solo io, lui ed Ezra, poi ci hanno raggiunto gli altri: abbiamo registrato basso e batteria ai Vox Studios, uno degli studi più vecchi di Los Angeles, costruito negli anni ‘30. Molto emozionante. Infatti il fatto di non produrre l’album totalmente da soli è una novità. Come mai avete scelto proprio Ariel Rechtshaid? Ho collaborato con lui in passato; è uno dei miei migliori amici, ha
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un paio di studi di registrazione uno nel retro di casa sua e uno con pianoforte e batteria sempre montati. Ci sembrava il momento buono, visto che eravamo molto contenti delle canzoni e ci abbiamo messo tanto a scriverle, per passare al livello successivo. E poi dovevamo uscire da New York: stava iniziando a diventare una distrazione eccessiva, ci sono sempre troppe cose e troppi amici. E’ importante non avere i tuoi amici attorno, quando devi lavorare. A detta vostra, questo disco sarebbe il terzo capitolo di una trilogia. Quando avete deciso, o capito, che si trattava della conclusione di un ciclo? Ci sono una serie di elementi che collegano questo e gli altri album e sin dall’inizio avevamo deciso che tutti i nostri dischi avrebbero avuto lo stesso tipo di immagine in copertina, che il packaging avrebbe rispecchiato il contenuto. E poi sapevamo che avremmo fatto tre album con XL, quindi la cosa è venuta da sé. Nel caso di questo album, non abbiamo veramente realizzato cosa stessimo facendo finché non lo abbiamo finito e, quando è arrivato quel momento, ci siamo sentiti come se fossimo giunti alla conclusione di qualcosa. Per questo lo consideriamo la chiusura di una trilogia. Infatti sia il titolo che la copertina - con quel “modern”, e il richiamo alla città - sembrano voler mettere una sorta di distanza tra voi e l’immaginario che vi ha sempre contraddistinto, quello dei college, dell’Ivy League, delle Polo Shirt e delle scarpe da tennis. Che ne dici? Su Contra volevamo puntare il dito sul modo in cui le persone ci associavano a quel mondo, che sicuramente ci interessava ma che non ci appartiene, non è il nostro. Questa volta volevamo esprimere le cose diversamente, iniziare un nuovo capitolo nella storia dei Vampire Weekend, e che questa cosa fosse chiara già dalla copertina. Avevo questa idea che andando avanti avremmo potuto usare il bianco e nero, mantenendo il testo e questa estetica che abbiamo creato: pensavo però che sarebbe successo al quinto album o giù di lì, invece è accaduto ora. E’ un nuovo capitolo, diciamo. Non solo l’estetica, ma anche le atmosfere richiamate nei testi ricalcano questa idea. Si, durante la lavorazione abbiamo discusso molto sui testi, perché volevamo scrivere cose che in un certo senso fossero più classiche o che si riferissero a canzoni classiche. Quali sono state le vostre influenze in questo senso? E’ sempre difficile parlare di influenze, credo sia un gioco pericoloso. Ognuno però ha la sua lista di canzoni che considera i propri classici e da cui ha iniziato il proprio lavoro. Che in un certo senso è una
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cosa che rende questo disco unico, rispetto ai nostri precedenti. Ho letto che Step contiene il sampling di una cover fatta da Grover Washington Jr. sul brano Aubrey dei Bread. E non è l’unico riferimento agli anni ‘70, in molti pezzi si sente l’uso di un organo hammond, che per voi è una sonorità nuova. E’ uno dei suoni che volevo utilizzare. Una cosa che amo di certi pezzi di Dylan è quella combinazione di piano e hammond, che quando i due strumenti iniziano ad interagire forma una specie di supersound. Volevo portarlo in questo disco, e si sente non solo in Step ma anche in Finger Back e Unbelievers, per esempio. Nel complesso però mi pare anche che il disco risulti abbastanza downtempo, e che la vena afrobeat si sia un po’ esaurita. O sbaglio? E’ più interiorizzata ma c’è; la musica africana farà sempre parte dei Vampire Weekend, solo ci piaceva l’idea di nasconderla un po’. Il nostro modo di suonare sarà sempre influenzato dall’afrobeat e la decisione di veicolare un feeling africano meno ovvio è stata intenzionale. Un brano di cui ti vorrei chiedere di più è Hudson, perché è un pezzo che non ti aspetti quando pensi ai Vampire Weekend: cupo, inquietante, quasi strascicato... Hudson è nata da una poesia di Ezra ispirata a Henry Hudson, l’esploratore che ha scoperto la Hudson Bay. L’equipaggio della sua nave ha fatto ammutinamento e ha ucciso lui e suo figlio. Quindi è morto, ma la baia ha preso il suo nome. Ezra aveva qualche accordo e una melodia, ma continuava a dirmi “suona bene solo se la canto in francese” perciò la canta facendo finta che sia in francese, anche se è in inglese. Io ho scritto la seconda parte della canzone, con quella strana melodia discendente, e abbiamo messo insieme il tutto a Martha’s Vineyard. Poi c’è una terza parte, il ritornello, che è in realtà l’adattamento di una cosa uscita da Chris [Thomson, nda] e Ezra durante una session di scrittura, una canzone che si chiamava Wrap Me In The Flag. Forse è per questo che Hudson è così particolare, perché è composta da tutte queste parti diverse che formano una specie di armonia minore e noi non abbiamo mai esplorato la tonalità minore in questo modo. Ultima domanda: in questi tre anni avete più o meno tutti realizzato anche progetti solisti. In che modo credi che tali progetti abbiano influenzato Modern Vampires Of The City? Purtroppo è impossibile dirlo. Nel senso che la risposta sarebbe: lo hanno influenzato completamente e per nulla. Per come la vedo io, tutta la musica che faccio - e che facciamo - è collegata. Fare musica
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da solo mi è di ispirazione per fare altra musica, ma quando scrivo non so per cosa sarà usato quello che ne uscirà. Ci sono brani su questo disco, ma anche su Contra, che non avrei mai pensato potessero diventare materiale per i Vampire Weekend, ma poi così è stato. Per me fare musica è come respirare e il fatto che tutti abbiamo strade personali diverse rende le cose più vive. Se i componenti di questa band non avessero una vita musicale o creativa al di fuori di essa, non credo che riuscirei a starci assieme.
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daft Punk Back to the Future
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Prima dell’uscita di Random Access Memories, ripercorriano la vicenda del duo francese soffermandoci in particolare sulle principali influenze del loro suono Testo: M arco Braggion Dario Moroldo O ne M ore Tim e Dei Daft Punk è già stato detto tutto, o quasi. Il loro essere uno dei pochi act dance ad aver spopolato nella cultura e nell’immaginario pop, rock, mainstream, e pure indie. Il loro successo/eccesso, mai come oggi sottolineato dall’attesa del nuovo album Random Access Memories. Tattiche di marketing, vedo non vedo, dichiarazioni più o meno falsificabili, gente che remixa i trenta secondi di preview del disco come se fossero oro colato e come se non ci fosse un domani. L’assenza di un successivo culto così forte, di un nome nella scena dance così emblematico e denso di significato (sia esso esplicito o nascosto da veli e trasparenze più o meno rivelatori) è una delle chiavi di lettura possibili del loro esserci sempre e comunque, anche se mancano fisicamente dai negozi di dischi da ben otto anni - non contando Tron, Human After All è infatti datato 2005. I Daft come simbolo di tutto quello che è stato detto nella dance e di tutto quello che ancora non è stato sperimentato. Presenza e assenza. Yin e Yang. Passato, presente e futuro. Un bipolarismo che maschera e seduce, che continua ad ipotecare successi e segnare vie. Tutti li cercano, tutti li vogliono, perché Bangalter e De Homem-Christo sono uno dei pochi classici viventi della dance contemporanea. La premessa è conseguente ai ragionamenti che avevamo tentato di raccontare in altre sedi. A questa (e a quelli) manca comunque qualcosa, che ci piacerebbe andare ad analizzare oggi, a mente fredda e con qualche ascolto in più sulle spalle. La postilla - oltre a colmare le lacune di Icons After All (Odoya, 2010) - vorrebbe delineare il “da dove siamo/sono venuti” e magari prevedere dove si potrebbe arrivare con il nuovo disco, che non abbiamo ascoltato e di cui probabilmente entreremo in possesso quando l’articolo che state leggendo sarà già andato in stampa. Il going back to the roots per i Daft Punk sembra essere quasi obbligatorio nei post-Noughties, anni in cui si vive e si palpa ogni giorno di più un’infatuazione per il passato, per gli anni ‘80, ‘70, ‘60, ‘50, o qualsiasi altro multiplo di dieci vogliate ripescare e riattivare più o meno proficuamente.
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In un contemporaneo che ha esaurito molte delle spinte propositive, almeno in molti degli ambiti dance o house che dir si voglia, l’analisi delle radici è doverosa, in seguito anche ai numerosi pettegolezzi dietrologici sul nuovo disco captati da vari siti, blog, twit e comunità di fan. Come suonerà Random Access Memories? Le uniche cose certe sono la produzione di alcuni brani affidata a Nile Rodgers degli Chic, il cameo in studio di Giorgio Moroder, il featuring di Panda Bear, i suoni captati nei famosi trenta secondi di preview che prendono molto dalla dance anni ‘70. Altro elemento certo sta nell’iconografia: come non sottolineare infatti la staticità del layout della cover? Quei caschi, un marchio di fabbrica, brand ormai collaudato, logo assimilabile al baffo della Nike, alla medusa della Starbucks o a qualsiasi altra firma immutabile e per questo subito riconoscibile. Social marketing degno delle migliori campagne pubblicitarie che punta su annunci a sorpresa, vedi anche la tattica sperimentata con i lavori precedenti - di far uscire i dischi a sorpresa per scatenare il botto e il passaparola virale tra i fan. Insomma un’industria che avanza senza sosta, con gli aficionados che sbavano per il prossimo tour mondiale, già annunciato in partenza da una landa desolata dell’Australia, o per mettere le mani sul CD, in pre-order da qualche settimana su iTunes. Non dimentichiamo poi che l’iconografia dei caschi riprende il meme/maschera da numerosi esempi della storia del rock (Mandré, Residents, Kiss, etc.) un passato che si ripresenta in mille salse, remixato e proposto dalla non-faccia robotica, rivelata catarticamente come circuito stampato in una delle più memorabili sequenze del lungometraggio Electroma. Quello che vi proponiamo con questo nuovo articolo è quindi una review cosciente dell’evoluzione Daft Punk, una ricerca delle tracce di moderno e non moderno nel suono del duo. Da dove vengono Da Funk, Musique, One More Time e tutta l’epopea very disco (nel senso letterale del termine: proprio disco) di Thomas e Guy-Man? In che modo influenzeranno il futuro della scena dance tout court? Dove stiamo andando?
Funk So u rc es : Dis c ov er e d Il punto di partenza potrebbe essere un’interessante compilation del 2007. Il disco s’intitola Discovered: A Collection of Daft Funk Samples. Gli autori dell’antologia pubblicata su Rapster, una label sussidiaria della berlinese !K7, selezionano le canzoni che sono state campionate dai Daft nella costruzione delle loro hit e ce le sbattono in faccia, facendo presente che l’operazione dei Daft non è che un grande e meraviglioso remix di pezzi disco funk. Rivisitazione di
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chi? Ecco i nomi: Get It Up for Love (di Tata Vega) è stata ripresa in Da Funk, Hot Shot (di Karen Young) su Indo Silver Club, il synth di Robot Rock è un taglio da Release the Beast dei Breakwater, tutto il giro di chitarra di Digital Love è preso da I Love You More di George Duke, la progressione (comprese le percussioni) di Harder, Better, Faster, Stronger è un cut and paste velocizzato di Cola Bottle Baby di Edwin Birdsong, Veridis Quo è presa da Supernature di Cerrone, la bomba degli Stardust (il progetto di Bangalter con Alan Braxe e Benjamin Diamond) Music Sounds Better with You echeggia Fate di Chaka Khan, Il Maquillage degli Sister Sledge è stato la base di Aerodynamic, qualche pad di Get Down Saturday Night di Oliver Cheatam è stato usato su Voyager, le ritmiche di More Spell On You di Eddie Johns stanno su One More Time e infine il riff di Can You Imagine di Little Anthony & The Imperials è alla base di Crescendolls. La tesi sostenuta è che il pozzo da cui si è andati a pescare è il nerissimo ritmo funk, la blackness distillata in pura essenza, mescolata con la disco Settanta che in quegli anni era creata in egual misura da neri e da bianchi. Se Cerrone, in quanto francese e quindi
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probabilmente ascolto d’infanzia dei due, può essere considerato l’unica fonte influenzata dal fattore di vicinanza geografica, gli altri nomi sono per la maggior parte americani o inglesi. L’internazionalità viene abbracciata da subito come ingrediente ed espediente per costruire un suono che esce dai confini e dalle manie local, che trasla su un piano di riferimento pop mondiale. La chiave di lunga durata degli influencers resta la blackness tagliata con savoir faire personale e già soggetto a revisioni pesanti, ingredienti che proprio nella rielaborazione del materiale di partenza avrebbero fatto la fortuna del gruppo. Nel guardare oltre si rimane ancorati a se stessi, ai fan con qualche primavera in più (per la retrofilia) e pure a quelli più giovani, oggi sempre più rivolti al passato per trovare input interessanti da cui partire. La cornucopia di fonti e sorgenti è da associare ai Daft Punk su un piano estetico, ma quello che di queste memorie importa di più è la distanza siderale che intercorre fra gli originali e il risultato finale. In questo iato sta infatti tutta la potenza del duo francese. Riconoscere gli originali senza l’indicazione sulla tracklist della compilation alle volte è quasi impossibile, se vogliamo uno sterile esercizio da nerd, o una mera curiosità da completisti. L’importanza del sampling è alla base del suono del gruppo, ma lo è anche la loro abilità nel rivisitare gli snippet di partenza: in questo precisissimo frullatore del passato stanno il cuore dell’astuzia e dell’arte di Thomas e Guy-Man. La loro musica diventa quindi uno dei più perfetti esempi di post-modern disco, che parte dal vecchio e lo ringiovanisce con l’uso creativo di filtri, la cosiddetta tecnica del “low-pass filter sweep”, che gioca con l’apertura e la chiusura degli inviluppi dei filtri in modo creativo, approcciando il trattamento del suono in maniera affine al live. L’effetto diventa un nuovo strumento da studiare: in questo senso anche il vocoder e l’auto-tuning sono tecniche fondamentali nella palette sonica del gruppo. Più che dal punti di vista della retrofilia, sarebbe quindi più doveroso analizzare la scrittura dei Daft Punk dal punto di vista del DJ, o meglio del sampling-artist: è solo con l’ascolto e con il digging che si riesce a trovare il campione giusto, pronto a ri-entrare nella storia, mentre la tecnica può essere imparata e impugnata da qualsiasi nerd smanettone, frequentando uno dei migliaia di corsi di musica elettronica che vengono offerti in giro per il mondo. Un po’ quello che su altri mondi e in altri modi stava tentando di fare DJ Shadow, altro mago del sampling, più vicino alla cultura hip-hop americana, ma non per questo meno universale nel suo capolavoro Endtroducing.. del 1996. Il quid di questi ed altri artisti, campioni della selezione e del limaggio dei samples, sta
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quindi alla base di tutto quello che anche tecnicamente succederà poi: i vari Ableton Live, Reason e compagnia bella non sono altro che software che permettono di ricreare alla perfezione quello che il duo francese aveva intuito con la grazia e la fatica dell’artigianato. Daft Punk precursori, quindi, di un mondo di loop che tutt’oggi invade le playlist di migliaia di ascoltatori e fan electro, house o techno che dir si voglia.
Hous e a n d T ech n o S o ur c es : T e ac h ers Il funk di cui si diceva sopra non è l’unico catalizzatore del suono Daft. Il ritmo black viene tagliato ed espanso anche grazie alla cultura da club, sia essa disco, rave, o techno. Un’indicazione fondamentale in questo senso si trova nel CD singolo del 1997 Around The World. Come B side viene proposta una traccia presente anche nel primo LP Homework. Il pezzo è Teachers ed elenca laconicamente quali siano stati i maestri del gruppo. Al terzo minuto dell’extended mix parte la lista: Paul Jonson, DJ Funk, DJ Sneak, DJ Rush, Waxmaster, Hyperactive, Jammin Gerald, Brian Wilson, George Clinton, Lil
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Louis, Ashley Beatto, Neil Landstruum, Kenny Dope, DJ Hell, Louis Vega, K-Alexi, Dr. Dre, Omega, Gemini, Jeff Mills, DJ Deya, DJ Milton, DJ Slugo, DJs on the low, Green Velvet, Joey Beltram, DJ Else, Roy Davis, Boo Williams, DJ Tonka, DJ Snow, DJ Pierre, Mark Dana, Tom Allen, Romanthony, Ceevea, Luke Slater, Jerry Carter, Robert Hood, Paris Mitchel, Dave Carter, Van Helden, Amanda, Sir Jordan. La sequenza snocciola i padri dell’house e della techno mid-Nineties, che sicuramente i Daft avevano mandato in loop dopo la brevissima parentesi rock dei Darlin’. Dal 1994 (anno in cui esordiscono con il The New Wave EP) al 1999 (Homework), il loro approccio alla dance guarda sia all’epopea del rave (Revolution 909) che ai classici della techno (The New Wave, Burnin’) anche tiratissima e in fregola UK, con qualche richiamo pure al didgeridoo di Aphex Twin (As-
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sault, sempre nel primo EP o la stupenda smascellata di Alive). Non per niente la prima uscita deve molto alla confinante Inghilterra dato che verrà pubblicata su Soma Quality Recordings, quest’ultima label di uno Stuart Mac- Millan noto DJ di Glasgow e conosciuto anche come Slam, Pressure Funk o Counterplan. Dalla DJ culture viene selezionata l’esperienza da consolle, ma si punta anche a prendere idee da altri mondi necessari per la costruzione di qualità e varietà: il ritmo hip-hop (Dr. Dre), la battuta funk (George Clinton), le sperimentazioni inglesi (Luke Slater, Neil Landstrumm), e la melodia pop (Brian Wilson). Oltre a queste spinte c’è anche tutto quello cui abbiamo già accennato: le prime produzioni sono già altro dalla storia citata, incarnano uno stile personale e fresco. Da Funk, il primo singolo di successo, prende proprio spunto da ritmi di base, cassa e hi-hat e un giro di chitarra iperfiltrato wah wah che sarebbe stato ispirazione per il futuro del french touch e non solo. Musique è sempre della stessa pasta, tesi a bassa fedeltà con filtri in apertura che viaggia su battute lente, si approccia al ballo in modo sciccoso, con strumenti ciccioni e professa motivi da fischiettare con il cocktail in mano. Un sapiente uso della materia disco, che mescola basso e ritmo (=black) con linee vocali su toni medio-alti (=white). Salta fuori ancora una volta la dicotomia bianco/nero e il sincretismo Daft che aggiusta tutto e che porta alla classicità immediata. Prendere elementi dalle diverse culture passate e tagliarli con pochissime armi. Roba da certosini coscienti dell’operazione di riverenza nei confronti dei maestri, però innovativa, perché già spostata su un piano personale e alieno da stereotipi, classica nella sua innocenza, ancora con qualche sbavatura da limare.
So m e t h in g Ab o u t U s : R o u l é e Cry dam oure Un altro elemento da sottolineare è che il padre di Bangalter - Daniel Vangarde - aveva arrangiato e scritto alcune tracce disco negli anni ‘70/’80 (vedi ad esempio il singolo D.I.S.C.O. degli Ottawan o la collaborazione con il gruppo La Compagnie Créole, molto popolare negli anni ‘80 in Francia) e la hit per i Gibson Brothers Cuba. In questo particolare biografico si apre la connessione genetica con la synth-disco, ponte solido verso il passato. Il détour consapevole delle origini sarà utilizzato in alcune importanti divagazioni che i due sviluppano autonomamente: Bangalter ha co-diretto infatti per un po’ di tempo la label Roulé e anche Guy-Man ha prodotto dei singoli con il progetto Le Knight Club (sempre pre-2000) su Crydamoure. Le anime del duo nei progetti paralleli, visto che probabilmente
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le idee in combo erano ancora in fieri e la coesione doveva ancora emergere nel suo splendore, vanno proprio a pescare dai mondi e dai rispettivi innamoramenti per le fonti che poi sarebbero confluite negli album. Le produzioni della Roulé su cui ha lavorato Bangalter sono le due compilation Trax on da Rocks (il vol. 1 è del 1995, il vol. 2 del 1998) e svariati singoli: Spinal Scratch del 1996, Together e So Much Love to Give del 2002 (scritte insieme all’amico DJ Falcon) e Outrage del 2003, alcuni usati nella colonna sonora del film Irréversible e in un fondamentale mixtape di due ore trasmesso per le feste di Natale del 1997 da BBC Radio One, in cui si mostrano le connessioni fra il suono Daft Punk e la house dei già citati Teachers. Il primo Trax on da Rocks riprende il sapore funk che troveremo in Homework con il funk disco di On Da Rocks, gioca con gli anthem rave techno infarciti di sirene in Roulé Boulé e What to Do, pompa assurdamente col fitraggio e con lo scratch in Outrun (singolo che proprio oggi viene
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ripreso - solo nel nome - da Kavinsky, uno dei figli più ambigui del french touch) e chiude con uno stomp che echeggia le aperture in stereo di Alive (nel primo EP The New Wave del 1994). Spinal Scratch è tutto un gioco di loop e di battibecchi con basi funk-disco tagliate con accorgimenti street/hip-hop (vedi le stupende ritmiche del lato B Spinal Beats che riecheggiano High Fidelity). Il secondo Trax si assesta su lidi funk goderecci (vedi l’apertura della lattina in Club Soda), sfrutta ancora le acidità dell’epopea UK ravey (Extra Dry, Turbo), ma presenta sempre e comunque un’insistenza sul filtering spinto che definisce incontrovertibilmente il marchio di fabbrica Daft Punk (Shuffle!, Colossius). Outrage, già post-Discovery, è una via di fuga per Thomas dalla perfezione robotica dell’album della consacrazione verso diy-ness e tracce più dirette, preludio forse già inconscio di quello che sarebbe stato Human After All, Night Beats e Paris By Night sono giochini cheap tune progressivi e slow motion in loop synthy che sarebbero diventati poi di moda in casa Ed Banger. La Crydamoure è un’affaire più duraturo e - per ora - non ancora concluso. Guy-Man collabora con Éric Chedeville (fondatore dell’etichetta di hardhouse Pumpking Records, conosciuto anche con il moniker di Rico) al progetto Le Knight Club. La label, che in francese suona come cri d’amour o pianto d’amore, utilizza un po’ di tamarraggine house e si imbarca in un suono dancing puro. Tra le uscite, cui hanno collaborato anche Romain Séo (aka Raw Man) e il fratello Paul (conosciuto con il nome d’arte di Play Paul), possiamo notare come sia presente un sostrato di cassa dritta che non sfigurerebbe su compilation estive da spiaggia, cose che probabilmente non sarebbero degne di nota, se non per il loro carattere concentrato sul ritmo ossessivo, sul loop spinto e sul basso che pompa. Vedi ad esempio i tagli downtempo che suonano come un’anticipo di Discovery in Santa Claus / Holiday On Ice (1997), o i tiraggi senza soluzione di continuità con i fiati in salsa sudamericana (Intergalactik Disco del 1998, con la version retrò di DJ Sneak come lato B). In più le visioni Settanta di Mirage (1998) che richiamano le chitarre di Santana, i crescendo à la Da Funk di Boogie Shell o le maranzate di Coco Girlz (entrambi del 1999, vicinissimi al sound dell’esordio, ma da lui distanti perché più da cocktail, sorta di aperitivo prima del botto Homework). Sempre nel 1999 ci sono pure Mosquito e Coral Twist, due cose da pura festa moroderiana, da apprezzare meglio vestiti con sete bianche e svolazzi frou frou. Dopo la festa Discovery, torna prepotentemente la disco da stadio in cassa dritta (Hysteria e Hysteria II) con loop assassini e bassi caldissimi, per poi finire con visioni oniriche in Gator e Cherie D’Amoure nel 2001, rimandi al funk
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in Rhumba (2002), alla disco pura con cantati e arpeggiatori Giorgio-like in If You Give Me The Love I Want / Playground / Loaded (2002, licenziate come Crydajam), e ad altri gesti più o meno interlocutori come Soul Bells e Palm Beat (sempre del 2002). Nei progetti paralleli invece di andare avanti, si mostra in un “al di là” virtuale quello che “non-si-può-più-dire” come Daft Punk, si rivelano gli alter ego inebriati dal ritmo disco che guardano il passato, mimandolo su limiti pedissequi. La mossa rivela quindi moltissimo sul suono del main act: l’effetto eco aumenta la sequela infinita di rimandi a quell’arcadia che è stata la disco e da cui i due francesi non sono mai totalmente fuggiti. L’eco del passato influenzerà il secondo full-lenght e tutta una generazione di artisti francesi fissati le atmosfere da cocktail già sperimentate, comunque, dai padrini del french touch primigenio (vedi fra gli altri Laurent Garnier, Ludovic Navarre aka St. Germain e molte delle produzioni F-Communication). Le due vite parallele dei Daft Punk sono l’alter ego o maschera che sta alla base della loro immagine, la traduzione in pratica di una fotografia sbiadita, un dichiararsi in qualche modo loser, perché coscienti del binomio alto-basso tra le produzioni mainstream e l’underground per adepti. Un corollario necessario, alle volte trascurato, ma rivelatore di una parte del loro sentire musicale, che è stato foriero di idee e spunti confluiti nei lavori principali. La separazione dalla coppia di fatto, cementifica la liaison di lungo corso che i due non hanno mai sciolto: una valvola di sfogo per piaceri meno duraturi ma non per questo meno vissuti. Anche loro, in questo si dichiarano umani, dopo tutto.
Remi x Uno sguardo ulteriore ai remix dei (/per i) Daft Punk cementifica ancor di più le convinzioni di una potenziale connessione con artisti e mondi altri, questa volta contemporanei o posizionati su binari e atteggiamenti off-disco/funk. Dalla lunghissima lista di rivisitazioni di materiale altrui o proprio, sembra doveroso quindi selezionarne i più significativi. Da Funk - come già detto prima - è stata utilizzata per rimescolare alternativamente With or Without You degli U2, Kiss di Prince, Like a Prayer di Madonna, i Gorillaz, i Garbage ed è stata trattata, tra gli altri, anche dai coevi Chemical Brothers. Around the World è stata utilizzata nel remix di Around the Sexy Back di Justin Timberlake, è stata remixata dai mai dimenticati Motorbass (il gruppo seminale di Philippe ‘Zdar’ Cerboneschi ed Etienne de Crécy), è stata utilizzata in una versione vs. Wyclef Jean e tra gli altri i Soulwax hanno prodotto un remix come Radio Soulwax. Questi due
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singoli sono stati una delle matrici su cui fondare il marchio Daft Punk, perché compatibili con diversità lontane, più vicine al mondo del rock che della dance. La lungimiranza del tempo in quattro si adatta a stili apparentemente slegati dal contesto dance, che invece hanno molti punti in comune con le basi dei Daft Punk. Questa parentela con il rock e con il pop verrà esplorata rispettivamente in Human After All e in Discovery, coniugando le idee degli esordi a istanze musicali più universali. In questo modo il funk di Da Funk e la disco di Around the World restano la spina dorsale anthemica con cui ricordiamo il gruppo, le basi da cui prendere sample per adattarsi a qualsiasi forma di musica d’intrattenimento. Saltando in avanti nel tempo, nel 2001 sul singolo di Harder, Better, Faster, Stronger troviamo una connessione con i Neptunes, oggi guardacaso in featuring su Random Access Memories con la voce di Pharrell Williams, ovviamente in versione retrò-funk-disco con archi philly e synth da club ‘70. Sempre nel 2001 esce Aerodynamic con il B-Side Aerodynamite, sorta di versione acida del lato A. Nel 2003 sul singolo di Face to Face si cimentano nella rivisitazione Demon e Cosmo Vitelli. Nel 2005 viene pubblicato su NN un vinile intitolato
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Remix One che seleziona alcuni remix del gruppo. I nomi su cui il duo si cimenta sono i Franz Ferdinand (Take Me Out), I:Cube (Disco Cubizm), Scott Grooves (Mothership Reconnection), The Micronauts (Get Funky Get Down), Chemical Brothers (Life Is Sweet), Prince (la già nominata Kiss), Ian Pooley (Chord Memory) e un extended di Aerodynamic. E anche qui dalla selezione si capisce che il collante fra mondi diversissimi è il sale che condisce la proposta Daft Punk. Perché non rimanere sui facili lidi del rock o del fidget che da lì a poco avrebbe spopolato? Perché non banalizzare il tutto con un salto in patria fra gli amici di sempre e rimanere confinati nelle solite quattro pareti del club? Per un classico non c’è mondo o genere musicale preferito. Il nuovo è sempre da provare e sperimentare e conoscere. Sempre nel 2005 escono il 12’’ di Robot Rock con il Maximum Overdrive Remix degli stessi Daft Punk, che trasforma la traccia in un vero rock and roll robotico adrenalinizzato, quasi tirando di più dell’originale, il remix dei Soulwax con un taglio in stop storico per lo spezzettamento del riff e una versione a cappella denominata Rockapella. Poi esce il singolo di Technologic con i remix di Peaches che riscrive il testo della litania dell’originale su una base rock, il remix di Vitalic, altra sferzata in quattro che non dà tregua, il remix dei Basement Jaxx che è una versione maximal disco infatuata di retrogaming e di pastiglie. C’è poi un promo di Human After All con interventi di Justice, Emperor Machine, Alter Ego, il rispettabilissimo SebastiAn e per finire The Juan MacLean. Questi e molti altri taglia e cuci dell’esperienza Daft Punk (non consideriamo la brutta parentesi dei remix di Tron, unico fuori programma di bassa qualità) segnano il tempo e alimentano l’hype sia sui remixati che sui remixanti. Aver completato un remix ufficiale o approvato per/dai Daft Punk, diventa un biglietto da visita per emergere dal mare magnum delle uscite a cadenza più che giornaliera di remix che si impilano sulle valigie dei DJ. Fra i nomi che hanno avuto l’onore e l’onere di remixare brani dei Daft Punk vale la pena ricordare i Digitalism, Alter Ego, Para One, Erol Alkan, i già citati Peaches, Soulwax, Justice, SebastiAn, The Juan MacLean e molti altri, che prima o poi avrebbero sfondato nel mondo electro house o dance. Il remix come pratica postmoderna di riuso di materiali minimali, pezzi di canzoni che fanno storia e che nel riproporsi in altre salse e altre occasioni, rendono merito all’universalità del messaggio coniato sulle spalle dei vecchi gruppi disco-funk. Un continuo guardarsi dietro per guardare avanti, la consapevolezza di aprire la strada a nuove generazioni, che nello scontrarsi con le basi dei Daft
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Punk ripensano in modo costruttivo la storia e per questo costruiscono proposte innovative. Un passaggio di consegne che marchia a fuoco le nuove leve e aumenta l’importanza dei padrini in un ciclo virtuoso che non sembra diminuire d’intensità e di autorevolezza.
Rand om Ac c ess M em o ri es : Two a n dro ids bri nging soul b ac k to m u si c Il titolo del nuovo album ricorda ancora il binomio uomo/macchina: la RAM è una delle componenti principali dei laptop, ormai strumento base della musica tout court, sia essa suonata dal vivo o in studio, sia essa acustica o elettronica. Il plurale di quella memoria (Memories) è l’elemento umano della macchina, il quid in più che possiamo permetterci di aggiungere al digitale. Se il computer ha una sola memoria, noi humans ne abbiamo molteplici. Mondi che collidono, tagli di culture ed esperienze diverse. Nel momento in cui stiamo scrivendo, le anticipazioni sul disco si moltiplicano. Una delle più attendibili (confermata poi anche dalla Columbia) proviene dal sito francese Konbini: l’ipotetica lista dei
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collaboratori è un miscuglio equilibrato di vecchio e nuovo. Il track by track aggiunge ai già ricordati Rodgers, Moroder e Bear, altri collaboratori: Pharrell Williams dei Neptunes, il compositore e pianista canadese Gonzales, il frontman degli Strokes Julian Casablancas, l’amico e collaboratore di Bangalter DJ Falcon e, per finire, il guru house Todd Edwards, che ha già cantato in Discovery. Le radici sia black che white, il rap, la house, il rock e il funk ancora una volta mescolati in un calderone speriamo degno della storia della musica da ballo. Le tracce confermate sono tredici, tre delle quali strumentali. L’alta percentuale di featuring sul totale delle canzoni varia di molto la tipica scaletta daftpunkiana, di solito più concentrata sullo strumentale, senza interventi esterni. Anche questo indizio svela un disco completamente diverso, aperto a un nuovo modo di fare dance, basato sulla collaborazione e sulla condivisione piuttosto che sul nerdismo da studio, più affine a Discovery per intenderci. Altre fonti su cui basarsi sono le interviste ai collaboratori che hanno suonato nel disco. Al momento ne sono uscite cinque: Giorgio Moroder, Todd Edwards, Nile Rodgers, Pharrell Williams e Panda Bear. Sui mini documentari si parla del rapporto che i musicisti hanno avuto con i Daft Punk nella composizione del disco e sulla loro esperienza in ambito musical-compositivo. Vediamo di raccogliere qualche informazione interessante per speculare sul risultato. Moroder - dopo un breve excursus sulla sua carriera - cita One More Time come suo pezzo preferito dei Daft Punk, parla della loro maniacalità nel trovare i suoni del vocoder, e quindi della necessità della perfezione che prolunga i tempi di costruzione del disco, non necessariamente associata al successo, dato che le sessions con Donna Summer per lui non duravano mesi, bensì solo qualche ora. I Daft Punk, rivela il guru di Ortisei, avrebbero usato diversi microfoni per captare sfumature sonore associabili con gli anni Sessanta, i Settanta e l’oggi, poi mescolate a seconda del bisogno e della sfumatura da conferire all’arrangiamento. Giorgio descrive il suono del disco con il vocabolo “pieno”, qualcosa che prende le distanze dalle produzioni digitali e che probabilmente conserva molto del feeling retrofilo di cui abbiamo già parlato. Il disco sarebbe quindi un passo avanti, qualcosa di dance ed elettronico, ma nel contempo con tocco umano. Todd Edwards dice che RAM gli ha cambiato la vita. Secondo la sua versione, i Daft Punk avrebbero voluto riportare a galla la “west coast vibe” e quando lo hanno contattato non aveva ben capito in quale direzione si stessero muovendo. I riferimenti, dopo qualche
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colloquio con Thomas e Guy-Man, emergono chiaramente: Los Angeles, i Fleetwood Mac, i Doobie Brothers e gli Eagles. Nel video Edwards racconta di quando è andato a trovarli al sud, del bel tempo trovato (Edwards è originario del freddo New Jersey) e delle belle sensazioni provate. Il produttore house non si aspettava di essere richiamato dopo aver già collaborato con il duo in Discovery (è famoso per il suo microsampling style, tecnica che consiste nell’incollare sequenze di sample molto brevi, intervallandoli con silenzi, costruendo così ritmi e sonorità nuove. Il tool viene impiegato al meglio in Face To Face). I Daft Punk, sempre a detta di Edwards, hanno scompaginato le carte, perché hanno fatto marcia indietro rispetto alle proposte della musica elettronica “extracolta” contemporanea e sono andati ad esplorare un periodo su cui pochissimi si sono focalizzati. Descrivendo il suo contributo, riprende la descrizione della perfezione maniacale delle registrazioni già ricordata da Moroder e di come questo abbia contribuito alla costruzione di un suono con una buona vibrazione. Operativamente, Thomas ha proposto a Edwards di costruire i suoi cut up su una parte di una canzone. Dopo aver selezionato il risultato migliore, Bangalter ha messo in loop il tutto e ha finalizzato il ritornello per la traccia Fragments of Time. Il disco - con le parole di Edwards - stupirà i produttori più giovani, che potranno prendere spunto dalle molte idee dell’album (l’uso dell’analogico, la riscoperta di vecchi sound, etc.). Le tre settimane di registrazione nello studio americano dei Daft Punk hanno fatto capire a Edwards di aver sempre vissuto fuori dai club e dal divertimento, passando la maggior parte della sua vita in studio. È un po’ quello che canta nella canzone inserita nel disco: “I just keep playin’ back / This fragments of time / And everywhere I go / These moments so shine”. Dopo quel breve periodo di lavoro si è addirittura trasferito dal New Jersey in California. La chiusa della sua clip è emblematica: “È ironico che siano due androidi a riportare l’anima nella musica”. Nile Rodgers inizia invece così: “cosa fanno gli artisti quando vedono che c’è casino in giro? Ti fanno stare bene, guardano al futuro”. Le origini del chitarrista degli Chic si fondano sul groove, che, dice lui, è “tutto, sia dal punto di vista fisico che mentale”. La sua esperienza come backing guitar di gruppi R&B è stata fondamentale per la costruzione del sound disco, fondato per quanto lo riguarda sul “jazz fusion”. La tattica vincente che gli ha permesso di sfornare innumerevoli singoli d’oro o di platino si basa su un’orecchiabilità immediata, pronta sia per i DJ che per il pubblico mainstream. In questo sta la connessione con il suono pop-disco dei Daft Punk: Rodgers come
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riff maker di lusso, che sforna basi uptempo funky e sigilla con il suo marchio produttivo le tracce. L’uomo ha infatti un’importante storia produttiva di singoli e dischi per decine di big del panorama musicale internazionale (tra gli altri Bowie, Madonna e Duran Duran). I Daft Punk li ha incontati ad un Daft Punk listening party a New York qualche anno fa. I robot gli hanno detto: “Hey, stiamo registrando a New York, perché non vieni in studio?” L’incontro è avvenuto in modo organico, senza troppe spinte. In studio i due francesi lo spingono a livelli alti, facendolo crescere (se è ancora possibile) e aumentando il livello qualitativo della proposta. Lo studio utilizzato è il mitico Electric Lady Studio, quattro mura dove aleggia ancora lo spirito di Hendrix e dove Rodgers aveva suonato quando ancora era un club (il Generation). Molti ricordi associati alla storia personale, che si fondono con lo stile compositivo dei Daft Punk, campioni nel samplig di riff. La conclusione è ancora una volta intrisa di retrofilia propositiva: “They went back to go forward”. Get Lucky è il primo singolo uscito dal disco, cantato da Pharrell Williams. Il produttore e vocalist ha conosciuto i Daft Punk ad un party organizzato da Madonna. I due gli hanno chiesto di collaborare e lui ovviamente ha detto di sì. È andato a Parigi e ha registrato la voce sul singolo (e sul pezzo stomping disco Lose Yourself to Dance) con l’aiuto di Nile Rodgers alla parte ritmica. Get Lucky gli fa pensare a qualche isola esotica, a un posto dove sono le sempre le 4 del mattino, perché: “se sei in un’isola puoi vedere a quell’ora il sole sorgere e cielo color pesca. Get Lucky è come stare lì. L’unica cosa che conta è che hai incontrato una ragazza ad un party. Getting Lucky non è andarci a letto, ma è vedere qualcuno per la prima volta e sentire un click. Non c’è miglior fortuna al mondo”. Per apprezzare la musica dei Daft Punk, dice Williams: “non serve MDMA, perché è incredibilmente viva. La gente ha perso rispetto per il groove. Tutto è così sintetico, senza palle. I Daft hanno preso invece una direzione che guarda ai ‘70 e agli ‘80 su un altro universo, hanno composto una musica che rappresenta la libertà del genere umano. Un disco per il pianeta. I robot potrebbero tornare nella navicella spaziale che li ha portati sul nostro pianeta e lasciarci. Per ora hanno deciso di restare”. E noi siamo qui ad aspettarli. Da ultimo Panda Bear, che tenta di farsi remixare alcuni pezzi dai Daft Punk sia come Animal Collective che come solista, ma non ci riesce. Dopo le richieste di remix, i due lo contattano per andare a Parigi a registrare. Il ragazzo vola in Francia, anche se non è abituato ad avere solo tre giorni per registrare la linea melodica, di solito il suo processo compositivo è molto più lungo. Lo mettono davanti
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ad una base e ad un microfono e gli chiedono di cantare qualcosa. Tre giorni di vuoto e poi infine i due robot iniziano a muovere la testa dietro al vetro dello studio. È andata. Il pezzo gira. Panda Bear è onorato di aver collaborato con loro. Lo hanno messo alla prova, ma ne è uscito più adulto.
Pol i t i c h e di d ist rib u zi o n e e ma r k et ing med iale Mentre s’avvicina la data fatidica del 21 maggio, ulteriori particolari ed interrogativi s’affacciano sulla vicenda Guy-Man e Thomas. Le domande che sorgono sono molteplici: che cosa fa pensare veramente tutto questo parlare dei Daft Punk, di Lady Gaga, degli Arcade Fire, o della prossima star, sia essa mainstream o pop o indie o hipster o dance o un mix 2.0 degli stessi generi? Il classico può essere rivoluzionario? Visto che il 21 maggio inizieranno a moltiplicarsi le copie in streaming sui vari canali Youtube o torrent, che cosa ci farà andare a comprare la copia fisica? Un sentimento di riconoscimento aprioristico per la band? Il loro essere comunque un classico? La fede nella loro storia? Lasciando sospese in un limbo magmatico le risposte a queste domande - un limbo che varia di ora in ora a seconda delle voci e dei trend sui social -, il particolare che vogliamo andare ad analizzare e che ci sta più a cuore riguarda la promozione del disco, ovvero il fatto che la campagna dell’album sia stata organizzata in modo perfetto e mai così coinvolgente. RAM in questo senso non è solo un album: è forse uno dei migliori esempi di marketing virale di sempre. Anche se il fattore social non è stato bidirezionale (nel senso che un vero contatto interattivo con Guy-Man e Thomas non l’abbiamo ancora potuto sperimentare), sono state memorabili le iniziative con cui la Columbia ha tenuto alta l’attenzione sull’uscita dell’album. Prima il doppio snippet di quindici secondi al Saturday Night Live (che ha già creato decine di remix), poi la già citata serie delle interviste ai collaboratori, in seguito l’apparizione del singolo Get Lucky sui megaschermi del Coachella, filmato e postato istantaneamente su Youtube da partecipanti più o meno improvvisati, e infine la prima intervista ufficiale rilasciata su Rolling Stone, una delle riviste più “vecchie” della critica rock, ma forse anche quella con più alta diffusione (e prestigio?) internazionale. Insomma, il motto Television Rules the Nation non è affatto stato così peregrino, e i Daft Punk sanno che il mezzo in questo caso coincide proprio con il messaggio. Sul sito americano di Rolling Stone, Thomas e Guy-Man vengono citati per il passaggio del loro singolo in anteprima al Coachella.
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Get Lucky è stata proiettata sul megaschermo, mentre i due robot si godono la scena dal palco VIP e scambiano un cinque con Pharrell. La dichiarazione di Bangalter ci fa capire che la mossa di promozione e di successiva diffusione del video attraverso internet è proprio il fine cui hanno mirato i Daft Punk: “La cosa divertente sarà vedere il footage postato su internet”. Nell’intervista vengono esplorati anche altri temi. L’analogico: “Abbiamo voluto fare con le persone quello che facevamo di solito con le macchine e i campionatori”, sottolineando che saranno solo due le tracce del disco con l’uso di drum machine e di come siano stati utilizzati un sintetizzatore modulare fabbricato per l’occasione e una serie di vocoder vintage tutti rigorosamente suonati e registrati dal vivo. La voce: “Abbiamo cercato di far suonare le voci robotiche il più umanamente possibile, in termini di espressività ed emozione”; il titolo: “Abbiamo disegnato un parallelo fra la mente e il disco fisso - il modo casuale in cui vengono immagazzinati i ricordi”; la relazione con il passato: “I Settanta e gli Ottanta sono le epoche più succulente per noi, e tutti questi collaboratori erano entusiasti di trovarsi e di suonare inseme ancora una volta. Non è che non sappiamo costruire suoni futuristici, quello che ci andava di fare era di giocare con il passato”; il rapporto con la musica elettronica. “Oggi si vivacchia, e non ci si sposta di un pollice. Non è quello che dovrebbero fare gli artisti. Il genere sta soffrendo una crisi d’identità. Se senti una canzone, non sei in grado di abbinarla a nessuno in particolare. Quello che manca è la firma. Skrillex ha successo perché il suo sound è riconoscibile: se senti un pezzo dubstep, anche se non è suo, lo associ immediatamente a lui”. Pochi istanti prima di chiudere l’articolo, escono già le prime e contrastanti recensioni dell’album, in anteprima per pochi VIP della critica musicale. Il disco è stato fatto sentire attraverso un Solid State Player, un lettore multimediale con la musica precaricata al suo interno, blindatissimo in una valigetta chiusa con un lucchetto a combinazione. La Columbia ha diffidato i giornalisti dal far apparire recensioni o commenti prima del 2 maggio. I commenti a caldo confermano quello che avevamo descritto: un disco caldo, che rivisita decadi di musica da ballo su una durata epica, quasi 75 minuti il totale di un album che è già stato bollato come concept album retrofuturistico per il nuovo millennio dance. Le tracce, da quello che siamo riusciti a capire, prevedono qualche slow motion sciccosa con innesti di vocoder, la suite di Moroder (Giorgio By Moroder) lunga 9 minuti, con la voce del guru che parla in libertà del suono del futuro, il recupero delle tastiere di Alan Parson e delle chitarre dei Fleetwood Mac nel secondo singolo Instant Crush con Julian
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Casablancas, filtrato in modo quasi irriconoscibile. Le già citate influenze West Coast nel pezzo con Edwards (Steely Dan e affini, per intenderci su Fragments of Time), il funk che torna nel secondo pezzo con Pharrell (Lose Yourself to Dance), il pop di Peter Gabriel anni ‘80 in Motherboard, la suite orchestrale con il compositore, cantante ed arrangiatore americano Paul Williams in Touch. Un calderone di epoche e stili rifilato a puntino, che appena avremo modo di sentire anche noi, capiremo se bollare come già sentito e inutile o come retrofilia costruttiva. Il nuovo disco non sarà ricordato solo come un ritorno al classico, ma anche come un’importante operazione di marketing, su cui probabilmente molti altri si baseranno per anticipare i loro lavori a venire. Il progetto se guarda alla musica del passato lo fa con uno scopo ben preciso: innestare pratiche retrò nella recentissima scienza del social media marketing (vedi la pubblicità del disco sui cartelloni dell’autostrada per arrivare al Coachella o le già citate interviste alla carta stampata), che mescolano sapientemente la voglia di vecchio - galvanizzata negli ultimi anni fra le altre cose dalla serie TV culto Mad Men - con tutte le app e i social tricks in cui siamo sempre più embedded. Un miscuglio perfetto di digitale e analogico, il 50-50 che mette d’accordo tutti. Gli ingredienti che abbiamo tentato di selezionare nel percorso storico della band sono il funk, il rimescolamento della dance, l’attenzione al music business e alla cultura del marchio. La parabola che dagli esordi tardoadolescenziali sembrava contenere qualche germe di intransigenza o di incazzatura contro il sistema (Revolution 909), mimando molti degli atteggiamenti ravey mid-Nineties, si rivela oggi una delle più oliate macchine per vendere e promuovere il prodotto/disco: non a caso RAM è il primo disco che viene stampato su Columbia, dopo una lunga affiliazione con la Virgin. E non a caso anche il look da biker di Human After All è stato completamente rivoluzionato grazie alla mano di Hedi Slimane (Dior Homme, Saint Laurent), che ha disegnato per l’occasione degli abiti in stile disco Settanta Ottanta. I Daft Punk sono il gruppo più tradizionale e conservatore in circolazione. E per questo sono anche il più innovativo. Per chiudere, due riflessioni sui primi dischi dei Daft scritte da Dario Moroldo degli Amari. Più che di recensioni, parliamo qui di come i dischi hanno influenzato il nostro modo di percepire la musica dance e ricordiamo cosa volevano dire i Daft negli anni Novanta.
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Post il l a 1 : H om e wor k : c o me n o n e ravam o Tutto iniziò con un malinteso,anzi con parecchi malintesi e, ammetiamolo, all’uscita di Homework, in molti pensammo subito che questi Daft Punk fossero una band e non di certo un duo di produttori dance. Quel nome semplice ed evocativo deviò subito il nostro orientamento semantico creando un cortocircuito tra forma e contenuto. In quel 1996 pre-internet ma completamente “calato” nell’epopea della club culture, succedeva spesso che ritrovandoci all’alba davanti alla tv, al ritorno dalle varie mecche del divertimento notturno, ci sintonizzassimo su Mtv Party Zone rimanendo intontiti dinnanzi al misterioso video di uno dei primi singoli della suddetta “band”. Il fatto che dietro alla videografia dei Daft Punk ci fosse poi un certo Michel Gondry non è un dettaglio trascurabile per comprendere l’impatto audiovisivo che i francesi ebbero con il pubblico dell’epoca. Il singolo in questione era Da Funk, ma con il suo incedere lento,acido e minimale, aveva davvero poco a che fare con il funk se non nei termini di sublimazione e sintesi assoluta di quest’ultimo. Punk, Funk o che se ne dica ,quella nenia tra John Carpenter e un rave in decomposizione divenne subito un tormentone e prima che ce ne potessimo accorgere arrivò sulle piste pure Around the world ; a quel punto i nostri compagni di ballo iniziarono subito a disquisire se questa musica fosse o meno “commerciale”. Fu paradossale ma Le techno-heads che si lamentarono della frivolezza di Around the world, senza renderesene conto, erano le stesse che passavano le notti scatenandosi con tracce schiaccia sassi come Rollin n Schratchin o la pradigmatica Rock n roll.. Homework fu dunque un disco importante anche e soprattutto perché fuse al proprio interno mondi inconciliabili fino a quel momento. Il disco d’esordio dei nostri fu cmq un U.F.O. rispetto alla media delle uscite contemporanee; era tutto troppo ruvido, diretto e ridotto ai minimi termini per poter suonare “dance” e a posteriori sembrava quasi di ascoltare un disco dei Suicide velocizzato. Eppure, se se un genere spesso malinteso come l’house fu in quel periodo rivalutato in toto, fu anche perché i Daft Punk furono bravissimi a fondere anime musicali opposte in unico corpo euro-techno-house raggiungendo così più teste possibili. Questo suo essere ibrido ma allo stesso tempo inedito ha reso Homework (al pari di molti altri dischi dei’90) , un ottimo esempio di disco “portale”; la portata di rimandi e influenze al suo interno è tale da spingere l’ascoltatore ad approfondire ogni singola fonte sonora
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messa in evidenza. E fu proprio così che Alive ci fece innamorare del suono della F Comm di Laurent Garnier, delle cavalcate techno della Soma e contemporaneamente tracce come Burnin , Phoenix o la mitologica Revolution 909 fusero la scuola house di Chicago con le ruvide cacofonie di eroi techno alla Joey Beltram; c’era pure un pezzo pedagogico come Teachers a confermare la regola alimentando il gioco citazionistico dei parigini. Ma aldilà della propensione duchampiana dei nostri nel saper decontestualizzare il sample”trovato”, per poter funzionare alla perfezione, quell’iper-corpo che abbiamo pocanzi definito ebbe comunque bisogno di un involucro sonoro all’altezza delle sostanze contenute. L’utilizzo sistematico di filtri low-pass quasi a scandire un continuum tra produzione musicale e performance “on the mix”del dj, assieme ad un utilizzo improprio della compressione sonora (sidechain), furono gli espedienti tecnici base utilizzati dal duo per codificare il proprio marchio sonoro. Fu proprio quel suono così vivo e analogico ma al contempo retro nostalgico e straniante a tracciare nel nostro immaginario musicale la silhouette del fenomeno Daft Punk. Riascoltando Homework con le orecchie del presente è ancora più evidente una specie di epica paradossale legata ad un “ricordo dell’ascolto” e ad un “ascolto del ricordo” perché dopotutto, questo è un disco che ci ha unito e diviso al tempo stesso ma che, sempre per un fraintendimento, ad ogni suo ascolto continuerà a sbatterci in faccia un ritratto di “come non eravamo” (DM)
Post il l a 2 : Di s c ov ery Certo non deve essere stato facile recensire Discovery nel 2001. Di sicuro il sophomore del duo parigino più cool del pianeta non avrebbe mai e poi mai potuto passare inosservato in quell’inizio di millennio. Aldilà dell’hype generato dalle aspettative dopo il fortunato predecessore Homework,, ciò che mantenne davvero alta la soglia di attenzione nei confronti di quest’uscita fu soprattutto una serie di trovate volutamente extra musicali. La scelta stessa di nascondere la propria identità dietro alle ormai brandizzate maschere robotiche ha fatto in modo che da quel momento ogni produzione a firma Bangalter-Homen Christo apparisse sempre dentro un’aurea artistico-concettuale. L’alterità del simulacro robotico , elemento privilegiato dell’estetica adolescenziale di una generazione che ha visto estinguersi il concetto stesso di fantascienza, sommata ad una materia sonora tutta innestata sul sampling nudo e crudo di fonti “familiari” all’ascolta-
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tore ma abbandonate nel dimenticatoio del music business, hanno fatto di Discovery un feticcio esemplare per decifrare quel senso di decadenza tipico della pop culture di fine ventesimo secolo. Può apparire fin troppo facile tessere lodi ora che anche Simon Reynolds ha inserito Discovery al 5° posto tra i “noughtines”ma è bene ricordare che in quegli avventurosi primi 2000 questo disco creò una grande frattura tra detrattori e idolatri. Per i totalmente avezzi alle sonorità clubbistiche quel disco rappresentò la pura eresia, essendo al contempo manifesto di musica “non suonata” e monumento di edonismo danzereccio,. Per il cultore del rock i Daft Punk rappresentarono il florilegio di ogni tabù musicale, dalla classica dicotomia palco/ dancefloor all’ancora più classica rock/pop. L’utilizzo massiccio e disincantato di vocoder e autotune esemplificato in brani come One More Time, Digital Love o Something About Us, fece perdere la testa ad un sacco di indie-puristi mentre per i maniaci dell’IDM e della techno, Discovery rappresentò qualcosa di ancora più “volgare”, vuoi per il feeling euforico dei vari singoli, vuoi per l’immaginario disco-house-glam che in qualche maniera “uccideva” la propensione futuristica di cui la stessa musica elettronica si era fatta portatrice fino a quel momento. A distanza di 12 anni appare evidente che la propulsione creativa della “cosa elettronica” si esaurì proprio tra il 1999 e il 2001 e Discovery fu semplicemente la presa di coscienza che d’ora in avanti ci poteva essere spazio solo per il revival di ciò che si era già masticato lungo tutti gli anni ‘90. E fu così che I Daft Punk realizzarono il loro manifesto estetico proprio nel momento in cui il calderone dell’elettornica spegneva i propri cuori pulsanti all’insegna dell’anonimia minimal ed il cortocircuito glitch, ad un passo dall’electroclash e a 4 passi dal carrozzone Ed Banger. Riportando il discorso su binari musicali, se c’è un pezzo che riassume in maniera formidabile la grandezza citazionistica di Discovery , questo è sicuramente Aerodyinamic; l’inizio funkadelico tutto innestato sui cut-up sampleristici post Chicacgo, l’assolo chitarristico tra J.S.Bach ed AC/DC ed il finale electro tra Kraftwerk e l’ Aphex Twin (anch’essi artisti che della maschera hanno fatto vocazione poetica) di Windowlicker, sembrano comporre un mirabile sunto di ciò che è stata la musica occidentale nel millennio appena trascorso. Discovery fu un disco paradossale; da un lato fu inno al vitalismo e campione di ermeneutica musicale (al punto che Kanye Westcampionerà poi a sua volta la celeberrima Harder Better Faster Stronger), dall’altro fu un’opera intrisa di senso di morte (in ambito discografico) soprattutto se comparata alle sorti del pop mainstream con-
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temporaneo, incentrato com’è sull’anonimia vocale (perversamente autotunizzata). Eppure sul lato pratico rimane il fatto che non c’è una traccia di Discovery (esclusi i “lenti”) che non faccia esplodere ancora oggi qualsiasi club sparso sul pianeta! Sembra che il prossimo Random Access Memories riprenderà il discorso rimasto in sospeso con Discovery e noi umani non vediamo l’ora di capire quanto i Robots abbiano imparato ad essere vulnerabili quanto noi (DM)
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Mudhoney Mudhoney (Due) Punto Zero
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Tra un tour, un film e un disco, un colloquio in due tempi con la band di Seattle che quest’anno festeggia i venticinque anni di carriera Testo: Tommaso Iannini
Dovevamo immaginarlo che il titolo del nuovo album dei Mudhoney si riferisse al film omonimo (Punto zero in italiano). Non è la prima volta che i padri fondatori del grunge (ma voi non chiamateli così) attingono a piene mani dall’immaginario dei film di culto; non per niente si chiamano come una pellicola di Russ Meyer, regista caro ai cinefili amanti dei b-movies, agli erotomani e, grazie a loro (e ai Motorpsycho), anche agli appassionati di rock degli anni ‘90. Intendiamoci, una categoria non esclude l’altra, si può far parte anche di tutte e tre e apprezzare ancora di più. Tornando ai Mudhoney, la storia racconta che sono nati nel 1988 e venticinque anni dopo hanno pubblicato il loro nono album di studio, Vanishing Point. Un bel traguardo per chi sostiene di non aver mai avuto grandi ambizioni: i bimbi crescono (chissà che il figlio di Steve Turner non capiti anche lui su queste pagine, prima o poi), i padri imbiancano ma continuano a fare dischi, suonare in giro per il mondo, concedere interviste e soprattutto divertirsi, tra lazzi e parole sante.
Pa r t e I: maggio 2012 Incontriamo Mark Arm e Steve Turner al Bloom di Mezzago durante una pausa del soundcheck. Accennano soltanto al nuovo disco in lavorazione; l’uscita più recente in quel momento è Head on the Curb, una raccolta di demo dei tempi di Piece of Cake. Ed è proprio da lì che iniziamo una bella chiacchierata.
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Di chi è stata l’idea? ST: Del nostro vecchio A&R della Warner, che aveva i demo e ci ha domandato se poteva pubblicarli. C’entra anche il fatto che non siete molto soddisfatti di Piece of Cake? MA: Non sono soddisfatto di alcune delle mie parti vocali, che sono davvero brutte. ST: Suck You Dry è una delle mie canzoni preferite, ma in generale è vero, lo trovo piuttosto debole. Mark, nei pezzi di The Lucky Ones canti senza suonare la chitarra. Com’è maturata questa scelta? ST: Abbiamo provato a fare così per creare le canzoni più in fretta, senza provare i riff per ore. Mark si è concentrato sui testi per scriverli più velocemente [e gli altri sulla musica. Questo spiega anche la risposta di Guy alla domanda sullo stesso argomento, ndr] MA: C’entra il tour che ho fatto con i DKT-MC5 [la tribute band formata da membri originali dello storico gruppo di Detroit, per cui Mark ha cantato in diversi concerti, ndr]. Abbiamo pensato di scrivere più canzoni in cui saltavo sul palco come un idiota, invece di suonare la chitarra.. ST: Wow, se lo fa con gli MC5, facciamolo anche noi.. MA: A dire il vero il primo album che abbiamo pubblicato dopo l’esperienza con gli MC5 è stato Under A Billion Suns. L’idea non aveva ancora attecchito ma l’abbiamo messa in pratica sul disco successivo. ST: Non avevamo in mente di fare così tutto l’album, pensavamo di far incidere le chitarre a Mark in un secondo momento. Non capita spesso che un gruppo che suona da vent’anni cambi metodo, però dopo un paio di canzoni abbiamo visto che funzionava. Sul palco senza chitarra somigli un po’ a Iggy Pop.. MA: A dire il vero sono più un mix tra Blaine Fart e John Bigley [il primo cantante dei Fartz, il secondo degli U-Men, due formazioni protogrunge di Seattle attive negli anni ‘Ottanta, ndr]. ST: E Julie Andrews [ridono come matti]... MA: Ah, certo! [fa finta di tornare serio] Gli Stooges sono sempre stati una band molto importante per me. Se vogliamo, sono tornato a fare quello che facevo ai tempi di Green River, solo con un po’ meno di stage diving. ST: Ormai sei troppo vecchio per queste cose. MA: Si, sono vecchio, non voglio far male a nessuno e non voglio che nessuno mi afferri per il sedere. ST: Senza la tua autorizzazione..
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MA: Se non gli do il permesso o se non mi paga il giusto. È a questo che servono gli incontri con il pubblico nel backstage, per contrattare... ST: Venti dollari per toccarti il culo [altre matte risate].. A proposito di fonti d’ispirazione: per voi lo sono stati anche i Flipper, che di recente hanno suonato qui da noi? MA: Sono stato un loro grande estimatore, soprattutto quando suonavo nei Mr. Epp. Non ero granché come chitarrista e quando li ho ascoltati per la prima volta ho capito che bastava avere una buona sezione ritmica e suonarci sopra tutto quello che volevi, dal feedback a qualsiasi rumore. È stato molto importante per la mia prima band. ST: Sono stati importanti anche per me. Uno dei primi dischi punk che ho ascoltato in vita mia è stato il sette pollici Ha Ha Ha/Love Canal e mi ha fatto uscire di testa: era qualcosa di così stravagante, degenerato e assolutamente cool. MA: Strafottenti e degenerati. Facevano parte della scena hardcore ma erano molto diversi, che so, dai Dead Kennedys o dai Black Flag. Sì i Black Flag erano più noise ma la maggior parte dei gruppi, come i DLA, faceva a gara a suonare sempre più veloce. Invece i Flipper rallentavano apposta per dare fastidio ai punk e per questo li apprezzavo ancora di più. ST: Andavano controcorrente. MA: Quando è nato il punk poteva essere qualsiasi cosa, c’erano i Pere Ubu, i Dead Boys, i Sex Pistols, i Damned.. ST: i Devo.. MA: Poi intorno al 1980/81 il “duro e veloce” era diventato la regola. La gente andava ai concerti aspettandosi di sentire una certa cosa e gli scoppiava il cervello quando qualcuno andava contro le loro attese. Dovevi vedere come se la prendevano. Ricordo quando la band di Rob Morgan, i Pudz, fece da spalla ai 999. Erano un gruppo power pop, non c’era verso che ai punk potessere piacere, ma quello che li mandò su tutte le furie fu che il chitarrista indossava una maglietta dei Kiss. Ti posso garantire che la maggior parte di quelli che si incazzavano tanto per una maglietta di Destroyer avevano sicuramente avuto quel disco, prima o poi. Sai com’è: «Ora sono punk, non posso più ascoltarlo!!!» e allora se la presero a morte. Era davvero divertente. Allora mi piaceva un sacco provocare la gente. Adesso un po’ meno. ST: Ormai ha messo su casa.. MA: I Flipper sapevano davvero provocare, erano molto bravi a spiazzare le persone.
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Amavate anche i Public Image Ltd. ma la vostra esperienza con loro non è stata delle migliori. ST: Ormai non erano nemmeno più la stessa band, c’era rimasto solamente John Lydon. MA: Li avevamo visti molto prima. ST: Nel 1982. MA: C’era ancora Keith Levene. ST: C’era Jah Wobble? MA: Jah Wobble non c’era già più ma c’era ancora, credo, Martin Atkins alla batteria. Doveva essere la formazione di Flowers of Romance. Erano fantastici. ST: Che gruppo quello. MA: Ma quando abbiamo suonato per loro come spalla con i Green
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River non erano più gli stessi. ST: Una pop band di merda. MA: Il loro Generic non era certo bello come il Generic dei Flipper. Erano lontani i tempi di Metal Box... MA: Con loro suonava John McGeogh e sono stato molto contento di conoscerlo. Ero un suo grande fan per quello che aveva fatto con i Magazine e Siouxsie & The Banhees. Per cui non erano così male.. [ridono entrambi] John si comportava da star ST: [Altre risate] Eravamo giovani e stupidi. MA: Non eravamo mai usciti da Seattle. ST: Ci faceva ridere che avesse chiesto una sedia a sdraio nel backstage. E avevano tutti questi roadies... MA: Adesso che ho un’età mi farebbe comodo una poltrona di quelle.. ST: Non facevo nemmeno parte dei Green River ma bazzicavo nel backstage con Regan e Landrew [probabilmente Regan Hagar e Andrew Wood, ndr], rubavo il loro vino anche se non lo bevevo e abbiamo buttato il loro cibo dappertutto. Ricordo che stavamo facendo casino e ci stavamo insultando con i loro roadies quando, a un certo punto, arrivò John Lydon che ci domandò a voce alta: «Volete essere zittiti?». E in effetti ci fece stare zitti. Le vostre radici e il fatto che vi comportiate come un gruppo punk sono il motivo per cui siete una band così longeva? ST: Il fatto è che non abbiamo mai avuto chissà quali programmi o pensato che potessimo diventare grandi star, quindi non abbiamo mai visto ridimensionate le nostre aspettative dalla realtà; al contrario, altri gruppi più “piccoli” della nostra città cercavano il grande successo a tutti i costi, non ce l’hanno fatta e hanno mollato tutto. Eravamo molto sicuri di noi stessi e allo stesso tempo molto realisti: ci piaceva la musica che suonavamo e oggi ci meravigliamo di essere ancora in giro. MA: Avevamo le spalle larghe; quando abbiamo formato i Mudhoney io avevo ventisei anni, non ero un sedicenne ambizioso. La mia visione della musica era già adulta. ST: Pensavamo che il nostro campo fosse l’underground. MA: Se guardi la mia collezione di dischi, quasi niente di quello che ascoltavo ha mai avuto un grande successo commerciale, con qualche rara eccezione come i Creedence Clearwater Revival, i Rolling Stones o i Black Sabbath - vabbe’ parlo della mia collezione dei tempi, adesso ho dischi della Warp.. [risate] - e Alice Cooper. Gli Stooges, gli MC5, i Sonics e il punk non erano popolari, gli stessi Sex Pistols lo
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erano in Inghilterra, ma non in America. ST: Non avevamo ambizioni bizzarre, ci sembrava tutto così facile all’inizio, avevamo il gruppo e un paio di etichette che pubblicavano le nostre cose, non abbiamo mai pensato a un livello più alto, a una grossa casa discografica. Abbiamo poi firmato per una major ma senza prendere molti soldi, non ci aspettavamo grossi investimenti per i tour. MA: Non abbiamo mai avuto grossi investimenti per i tour. ST: In effetti era uno spreco, noi andiamo in tournée per guadagnare, mica per spendere. MA: Quando abbiamo firmato per la Warner eravamo autosufficienti, non un gruppo alle prime armi che aveva bisogno d’aiuto. ST: Le major, che non capivano perché il rock di Seattle fosse così popolare, hanno perso la trebisonda e allora hanno provato anche con noi. Sarei stato sorpreso se avessimo mai avuto una hit, poi quando è stato chiaro che non sarebbe successo abbiamo abbandonato la Reprise. Mark ha lasciato il gruppo, poi qualche anno dopo abbiamo visto che ci piaceva ancora suonare e abbiamo continuato a farlo. Oggi abbiamo tutti un altro lavoro, una famiglia.. MA: Siamo moolto realisti...
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ST: E siamo molto contenti di fare quello che facciamo, di stare qui a parlare con te, nel backstage. MA: Questo angolino di backstage [una stanzetta del Bloom con i muri pieni di scritte] è meraviglioso, è il posto perfetto per noi, è il nostro mondo, IO SONO IL RE DEL MONDO [urla e scoppiamo tutti a ridere]!!!! A proposito. Mark, ma tu fai ancora il magazziniere per la Sub Pop? MA: Sì tutti quelli che lavorano alla Sub Pop vanno anche a vedere i concerti dei loro artisti - tutti tranne me e Jeff Kleinsmith - e fanno pubblicità e pubbliche relazioni; io invece mi occupo del magazzino, spedisco i loro dischi. È il mio lavoro. Qualcuno dei dischi nuovi lo ascolti anche? MA: A volte. Spesso capisco già dal nome, dalla copertina o dalla presentazione che qualcosa non mi piace. Non sono un grande fan di quello che è diventato oggi l’”indie”. È abbastanza disgustoso. Non mi piace per niente; intendo quello che chiamano “indie rock” nel 2012. ST: Ultimamente mi sto appassionando a mio figlio di dodici anni che suona il basso in una band, concerti tipo School of Rock... Pensate che si potrà mai ripetere qualcosa di simile al boom di Seattle all’inizio degli anni ‘90? MA: Non lo so e proprio non m’interessa. ST: Mi sembra difficile, è stata l’unica volta che è successa una cosa del genere. Altre scene erano diventate importanti ma nessuna aveva avuto questo riscontro mediatico a livello mondiale. Per come la vedevo io, a metà anni Ottanta erano esplose la scena di Minneapolis e in parte anche quella di Chicago - Naked Raygun, Big Black, Effigies. MA: La scena di Austin.. ST: Erano tutte scene nate dal post-punk e dall’hardcore in cui le band iniziavano a muoversi in direzioni diverse e si influenzavano a vicenda nella propria città, come è successo ad Austin con gruppi pazzeschi come Butthole Surfers e Scratch Acid. Erano punk che suonavano quel folle mix di noise e psichedelia, mentre a Chicago c’era il suono più meccanico e preciso dei Big Black e a Minneapolis potevi ascoltare band punk come Replacements e Hüsker Dü. Non c’era il marketing, tuttavia, e quindi non erano realtà così conosciute. Adesso appena si fiuta qualcosa di nuovo, lo si spreme subito fino all’ultima goccia; non credo che succederà più qualcosa di simile al boom di Seattle. L’uso di internet ha cambiato le dinamiche del successo, tutto può essere notato o ignorato all’istante.
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Che cosa avete in cantiere? ST: Oltre al nuovo album dei Mudhoney, dovrei partecipare al progetto di Chris Ballew dei Presidents of the USA, i Caspar Babypants. Si tratta di musica per bambini, mi ha mandato i pezzi e sono molto eccitato all’idea. MA: Caspar Babybants [ride] ST: Mark ride, è l’unico della band a non avere figli.. Li saluto mentre ridiamo tutti. Non mi sono mai divertito tanto durante un’intervista.
Pa r t e I I : a pri l e 2 0 1 3 Anche Guy Maddison è a suo modo un pioniere del grunge, un termine usato per definire i suoi Lubricated Goat prima ancora delle band di Seattle. Bassista nei Mudhoney da ormai dieci anni, il musicista australiano risponde via mail alle nostre domande all’indomani dell’uscita di Vanishing Point. Vanishing Point è il vostro nono album di studio. Come mai avete scelto questo titolo? GM: Viene dal cult movie Vanishing Point [di Richard Sarafian, in italiano Punto zero; la stessa pellicola che ha ispirato anche ai Primal Scream il titolo del loro disco del 1997, ndr]. È un film di cui siamo tutti grandi ammiratori. Avete registrato il nuovo disco insieme a Johnny Sangster, che in precedenza aveva già lavorato con voi per Since We’ve Become Translucent e Under A Billion Suns. Possiamo considerarlo una persona di fiducia. Che cosa apprezzate di più nel suo modo di lavorare? GM: Johnny sa bene il tipo di suono che cerchiamo! E poi indossa sempre pantaloni di nylon, che sono un motivo in più.. Mark Arm si è concentrato solamente sul canto come aveva fatto nel penultimo album, The Lucky Ones, o è ritornato a imbracciare la chitarra secondo le abitudini dei dischi precedenti? GM: Mark suona la chitarra all’incirca su metà dei brani del disco, il resto somiglia più a The Lucky Ones. I testi di questo album sono stati scritti dopo la musica, ad eccezione di Chardonnay, dove la musica e le parole sono venute insieme, come in un appagante rapporto sessuale [letteralmente: a satisfying sexual congress, ndr]. La canzone I Like it Small ha un messaggio molto ironico e provocatorio. Possiamo dire che riassume un po’ il vostro approccio alla musica e la vostra filosofia? GM: I like it small è uno scherzo, prende in giro tutte quelle persone - la maggior parte delle persone - che hanno la mania di “fare le
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cose in grande”. Non c’entra con la nostra filosofia, anche perché noi non abbiamo una filosofia. Guardando il DVD di I’m Now, il documentario in cui raccontate la vostra storia, ci sono alcuni momenti chiave che meritano di essere commentati. Il primo è la frase di Mark, subito all’inizio: «Se suoni per la folla sei fottuto». Capiamo quello che vuole dire; viene anche da pensare che avete una fanbase molto appassionata e leale che vi segue anche dopo venticinque anni e che suonate sempre la musica che vi piace. È anche questo un tipo di successo, probabilmente quello che i Mudhoney si sono sempre augurati... GM: Mark vuole dire che non scriviamo canzoni per compiacere un pubblico, qualsiasi pubblico, ma lo facciamo per noi stessi. Ovviamente siamo felici se alla gente piace la nostra musica. Ci consideriamo molto fortunati per la posizione in cui ci troviamo, per il fatto di avere un pubblico leale che ci segue; amiamo i nostri fan. È per loro che cerchiamo di dare sempre il massimo e offrire le migliori performance. .. il secondo tipo di successo riguarda il tour del 1989 che ha esportato il rock di Seattle.
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GM: Beh, io non c’ero [in effetti..]. Come è nato il documentario? È curioso che il titolo I’m Now sia l’antitesi della nostalgia che ha contagiato molte reunion nell’ambito dell’indie rock. Complessi che hanno cominciato negli stessi anni o addirittura più tardi ma vivono nel passato anche se sono tornati in pista... GM: Il documentario è nato dall’idea dei due registi [Ryan Short e Adam Pease], che in precedenza avevano girato un film sui Tad. Il titolo richiama semplicemente la canzone di The Lucky Ones. Per quanto ci riguarda, esistiamo nel passato, nel presente e nel futuro. Nei concerti suoniamo ancora Touch Me I’m Sick ma abbiamo anche un nuovo album e sentirete le nuove canzoni dal vivo. E poi continueremo a fare nuova musica. Penso che i Mudhoney siano il perfetto gruppo garage postmoderno, anche se voi preferite definirvi una punk band. Pensate che in fondo i due generi siano la stessa cosa? GM: Io sono un punk e penso di suonare in un gruppo punk. Anche se ci sono delle somiglianze a livello musicale e una certa attitudine in comune tra il punk e il garage, comunque da parte mia sento il punk come un genere molto più aggressivo e iconoclasta. Mentre la maggior parte dei gruppi considerati “grunge” si preoccupava soprattutto di mescolare hard rock e punk, voi eravate capaci di andare alla radice di entrambi i generi, riallacciandovi all’estetica del garage rock dei ‘60, ai Sonics e a molta musica protopunk e protoheavy. Possiamo dire che sia questo il principale motivo che vi ha resi così diversi, così unici all’interno di quella scena? GM: Sì. Nessuno dei gruppi “grunge” più famosi ha preso il garage come fonte d’ispirazione. Nel documentario si racconta anche che uno dei momenti di attrito tra i Green River, che con il senno di poi è stato il preludio allo scioglimento, riguardava il giudizio caustico di Mark sui Jane’s Addiction, che invece piacevano a Stone Gossard e a Jeff Ament. Abbastanza sintomatico, se pensiamo che i Jane’s Addiction hanno avuto un ruolo importante nel creare il cosiddetto “rock alternativo”... GM: Questo lo dovresti chiedere a Mark che non è qui con me. A me piacciono alcune cose di Nothing’s Shocking. Credete che l’avvento dell’mp3 e la strumentazione digitale abbiano rivoluzionato l’ambito creativo della musica, oltre al semplice ascolto? In studio i Mudhoney lavorano ancora con strumentazione analogica?
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GM: La musica è musica, non importa in quale formato la registri o l’ascolti. A soffrire per la diffusione digitale è stato soprattutto l’artwork delle copertine; in ogni caso, la versione in vinile del nuovo album contiene il codice per il download dei file. Così si può avere il meglio delle due cose. E ci puoi contare: registriamo e suoniamo ancora solo con strumenti analogici! Dei vostri piani per il futuro che cosa mi racconti? GM: Suoniamo in Europa tra maggio e giugno; saremo a settembre in tour negli Stati Uniti. In questo momento stiamo lavorando con la Soundwave Marching Band, che sta arrangiando versioni da banda di alcune canzoni di Vanishing Point.
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Recensioni Genere: folk balcanico A distanza di due anni da Cervantine, primo album pubblicato sulla personale DM Dupli-cation che aveva altresì segnato per la coppia un ritorno a casa, ad Albuquerque, dopo anni d’immersione nel folkclore dell’Est Europa e Balcani, per Jeremy Barnes e Heather Trost il passo successivo è rituffarsi in una splendida ossessione fatta di musiche rumene, ungheresi e ucraine alla luce di una pellicola che ha marchiato a fuoco la cinematografia degli anni Cinquanta e Sessanta. Inciso sempre nel New Mexico e ispirato dal lungometraggio dell’indimenticato regista Sergej Paradzanov Shadows Of Forgotten Anchestors - ovvero Le ombre degli avi dimenticati - You Have Already Gone To The Other World riprende fin dal titolo (una frase chiave del film) le suggestioni ma anche i dialoghi del capolavoro del cineasta ucraino. Una pellicola psichedelica prima dell’età psichedelica, magica e fatalista, fondamentale e influentissima per le successive opere di colossi come Alejandro Jodorowsky, Carmelo Bene, Jean-Luc Godard e non ultimo Federico Fellini, noto fan del regista. Il film Shadows Of Forgotten Anchestors doveva essere un’analisi antropologica del popolo russo. In verità, si risolse, non senza grossi problemi (all’epoca) per il regista, in un’indagine sull’animo umano, e dunque sull’amore. Ed è quest’ultimo aspetto - traslato come storia d’amore tra la coppia e l’Est - a prevalere in un album non altrettanto visionario ma, di fatto, mimetico
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nella ricomposizione delle musiche originali, un viaggio nell’altro da sé temporale dove la tradizione rivive sotto una sottile grana d’ancestrale e ritualistica magia. Sulla bravura di Barnes e Trost come arrangiatori e reinventori delle suggestioni sonore dell’Est Europa tutto abbiamo più volte parlato. La forza di Cervantine risiedeva nell’amalgama di un ampio spettro di musiche tradizionali non solo nello spettro dell’ex URSS, e questa forza è ancora ben evidente nella traccia omonima e, in generale, nel trattamento delle percussioni (vedi anche Witch’s Theme e Hora Pa Bataie) salvo venir stemperata lungo la tracklist per assecondare le esigenze cinematografiche, alternando cioè una buona dose di traditional a episodi maggiormente stranianti (Bury Me In The Clothes I Was Married, Marikam, Marikam (Hungary), The Snow in Kryvorivnya, Oh Lord, St George). Per intensità e arrangiamento, l’album rappresenta al meglio ciò che gli A Hawk And A Hawksaw sanno fare (Horses of Fire Rachenitsa) e questo sicuramente grazie al tocco conciso di John Dieterich dei Deerhoof che si è sostituito a Griffin Rodriguez nella produzione. Si dirà che è mancato il coraggio artistico che una pellicola come questa avrebbe potuto instillare ma, d’altro canto, riformulare una cultura musicale restituisce all’ascoltatore forse il premio più ambito: un generoso spettro di dinamiche - scene d’azione, conviviali (Dance Melodies From Bihor County), suspence fino al catartico finale (On the River Cheremosh) - e soluzioni strumentali (il piano e un sommesso drone nello sfondo di Nyisd Ki Rozasm, i campanacci Where No Horse Neighs And No Cow
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A Hawk And A Hacksaw - You Have Already Gone To The Other World (LM Duplication, Aprile 2013)
Flies...) per un indimenticabile viaggio, l’ennesimo tassello di una discografia marginalmente centrale. (7.2/10) Edoardo Bridda
Genere: blues, folk Messa in standby l’esperienza militante e rumorosa dei Bud Spencer Blues Explosion, Adriano Viterbini ricerca il silenzio in una manciata di canzoni blues, traditional e folk, dopo che già aveva sperimentato col genere nel progetto Black Friday, spalla a spalla con Luca Sapio dei Quintorigo. Gold Foil è infatti una festa per i cultori della sei corde, un album da ascoltare col sole in faccia, un album che soffre e si lamenta allo stesso ritmo delle plettrate, acustiche o elettriche che siano. Adottando il silenzio come dimensione dominante, Viterbini non fa rimpiangere la scelta dello “strumentale” (a dir la verità lo strumento qui è uno: la chitarra) e la rinuncia al cantato perché, nel tripudio di slide, riff e accordi sospesi, è la chitarra a dettare gli umori e i sapori. E sono umori e sapori del deserto, delle coltivazioni di tabacco nel cuore del Nuovo Mondo, sono sapori da brezza leggera sulle sponde del Mississippi, con un manipolo di “autori” che dettano la tradizione alle spalle del nostro. L’obiettivo di rielaborazione il classico viene centrato sia quando si tratta di riproporre artisti ingombranti come Tim Hardin (If I Were A Carpenter) o Woodie Guthrie (Vigilante Man), sia quando l’abilissima mano del musicista romano si prende la libertà di reinventare e spaziare sui tasti in brani come Immaculate Conception o Blue Man, con un orecchio sempre teso a Ry Cooder, Jack Rose, Blind Willie e i due Faey (John e Johnson). Piccola ma intensa variazione sul tema all’altezza di New Revolution Of The Innocence,
Nino Ciglio
ADULT. - The Way Things Fall (Ghostly International, Maggio 2013) Genere: synthpop electropunk Sesto album questo per il duo di Adam Lee Miller e Nicola Kuperus, act di culto attivissimo, dalla fine degli anni Novanta, nella Detroit alt/arty: compagni di arte e vita, lui pittore, lei fotografa, girano anche video (la loro ultima fatica è una trilogia horror). Al centro della loro musica, un immaginario sbilenco, giocoso e freak/queer accostabile a quello dei Trans Am (coi quali hanno condiviso i palchi in più tour; non a caso, oltre alla Ersatz Audio, la band è stata pubblicata anche su Thrill Jockey). Gli Adult. piegano a un piglio teutonico - Kuperus è di origini olandesi - la new wave versante electro, dandone una rendition stonata e storta (canta lei), pesantemente connotata in senso synthpop/electropunk: è un electroclash come forse lo farebbe Gary Wilson, o come Gary trasformerebbe i Joy Division. Sono filastrocche undeground, grottesche e kitsch, ma senza una visione davvero trascinante dietro o un gesto espressionista forte, e il risultato è un disco a tratti sicuramente divertente (Idle, Tonight We Fall; ma mai ilare, e non si capisce quanto si prendan-
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Adriano Viterbini - Gold Foil (Bomba Dischi, Aprile 2013)
quando a spalleggiare le capriole chitarristiche di Viterbini, si inserisce il synth solenne di Alessandro Cortini (già Sonoio, Nine Inch Nails, Mayfield Four). In dodici brani, Gold Foil non solo mette in mostra le incredibili qualità - per altro già apprezzate - di questo musicista eclettico e vero maestro delle corde, ma regala anche le giuste atmosfere sia nel confronto con gli dei del genere, sia in un’ottica di ascolto disinteressato. L’imminente distribuzione europea da parte di Rough Trade ci fa capire meglio di cosa stiamo parlando. (6.8/10)
Genere: Disco-funk Le intenzioni dei !!! erano chiare sin dai comunicati sulla release: THR!!!ER doveva essere il maggior successo dei californiani sia in termini di vendita - chiaro il riferimento all’omonimo lavoro di Michael Jackson, il più venduto LP di sempre - che di valenza artistica vera e propria. Quello che non trapelava era come tali intenzioni potessero essere soddisfatte, anche se l’affidarsi a Jim Eno degli Spoon (dopo l’autoprodotto Strange Weather, Isn’t It?) avrebbe potuto far pensare a un lavoro con una virata verso il rock a scapito del mix dance-funk d’origine. Impressioni che trovano ragion d’essere solo nell’opener Even When The Water’s Cold - tra groove e falsettoni à la Franz Ferdinand - e nella conclusiva Station (Meet Me At The), cori gospel di stampo Primal Scream inclusi. Il resto è un collage di ciò che ha fatto ballare la gente nei club tra la fine dei ‘70 e la house dei primi ‘90, glitterato e tirato a lucido da una produzione dei nostri tempi. Accomunato dalla stessa cassa che martella costante dall’inizio alla fine, THR!!!ER trabocca di ritmiche tra funky e disco: esemplare in questo senso l’accoppiata Get That Rhythm Right - One Girl/One Boy con inserti di tastiere e sax d’epoca negli spazi lasciati dalle linee in wah-wah della chitarra solista. Ciliegina sulla torta il cameo di Sonia Moore - quella degli “hey hey” in 2 Legit 2 Quit di MC Hammer -, scelta non casuale ascoltando Slyd e la sua base perfetta per le rime del rapper statunitense nei momenti in cui non richiama l’electroclash delle Chicks On Speed. Ma è Except Death la perla del disco, con una bassline tagliente tra il John Deacon dei Queen di Another One Bites The Dust e i Bee Gees. Un solo elemento vieta a questo album di raggiungere una meritata ribalta: la quasi contemporanea uscita del nuovo Daft Punk, capace di porre in secondo piano ogni altra release dalle stesse radici in virtù di un superiore hype e di ospitate di protagonisti di quell’era. Tutte cose che i chk chk chk non possono permettersi, ma non è certo un biasimo. (7.2/10) Andrea Forti
do sul serio, probabilmente molto) ma che rischia di non avere un target al di fuori degli hardcore fanatics: chi bazzica questi modi, non troverà niente di particolarmente nuovo né intenso, giusto un’opera da possedere per completismo; il neofita troverà invece altrove lavori assai più forti e godibili (per esempio, prima cosa che ci viene in mente sfogliando SA, la sorpresa cazzonespressionista dei Driver&Driver). (6/10) Gabriele Marino
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Aidan Baker - Aneira (Glacial Movements, Aprile 2013) Genere: drone music Considerato il caotico groviglio di produzioni ambient e drone oriented dell’ultima decade, con le decine e decine di progetti nati e morti nel giro di un biennio, un anno, un semestre, riuscire a stabilire un trademark stilistico riconoscibile non era e non è impresa facile. Aidan Baker significa soprattutto chitarra “trattata”. Il suo stile lo riconosci subito in mezzo a mille, per l’abilità nel
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!!! - THR!!!ER (Warp Records, Aprile 2013)
Antonello Comunale
Alessi’s Ark - The Still Life (Bella Union, Aprile 2013) Genere: folk-pop La maturità artistica era già stata attestata dal precedente Time Travel (2011) ed è esattamente da quelle fondamenta che Alessi Laurent-Marke riparte per affinare ulteriormente la propria creatura.
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Registrato ad Athens, Georgia, con il supporto di Andy LeMaster (producer dietro buona parte del catalogo della Saddle Creek Records), The Still Life vince sul predecessore per dinamismo. Infatti, pur senza perdere di vista i valori dell’easy listening e della generale concisione, gli arrangiamenti appaiono notevolmente più articolati che in passato. È merito di un allargamento della palette strumentale coinvolta, probabile riflesso dell’esperienza con il side-project di Orlando Weeks (The Maccabees), Young Colossus. Si rileva, in particolare, un ampio uso di samples e percussioni sintetiche, di kalimba e altre amenità etniche. Il risultato vede dunque assottigliarsi a soli tre episodi (The Good Song, Hands In The Sink, Pinewoods) lo spazio riservato al folk convenzionale, mentre il resto della proposta mette sul piatto ben più fresche contaminazioni della medesima materia, per un range che spazia dal piano-swing (Money) a inedite - ma riuscitissime - quadrature pop (The Rain). La ritrovata varietà compositiva - quindi libertà espressiva - va a beneficio della stessa Alessi, qui ed ora distantissima da certe originarie pose costrette, confidente nelle proprie doti come non era mai stata. Permangono tra le trame, è ovvio, alcune marcate somiglianze con Joanna Newsom ed Emiliana Torrini quanto a timbrica e tecnica canora (Tin Smithing, Big Dipper), ma la Alessi’s Ark di The Still Life gioca anche, forse per la prima volta, di autentica personalità. Ne vanno a riprova le perle che non ci saremmo aspettati, ovvero l’elegantissima strofa in francese di Sans Balance e la spettrale, suadente cover di Afraid Of Everyone dei National, di fatto due parentesi memorabili nel mezzo di un culto, quello della nostra, che è (e sempre sarà) non memorabile, seppur immancabilmente confortante. (6.8/10) Massimo Rancati
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creare uno spazio liquido, diafano, dall’umore cangiante e in costante divenire. Aneira, termine gaelico che significa “neve”, è una piece di quarantacinque minuti creata partendo da una dodici corde e poi successivamente corretta elettronicamente. Siamo vicini all’idea di isolazionismo gelido della Glacial Movements, etichetta italiana dal fascino old school che di volta in volta interroga il meglio della comunità ambient sui concetti di gelo, ghiaccio, freddo e quindi sul brivido esistenziale dell’uomo solo in mezzo a un nulla bianco che annichilisce, secondo un’idea di “fine della terra” la cui letteratura è vecchia quanto l’uomo. L’Aneira di Baker è soprattutto la rappresentazione sonora di un blocco di ghiaccio in lento divenire che viene frustato da turbini di tempesta. Il movimento musicale che ne consegue è quindi rumoroso, mosso, agitato, secondo canoni solo talvolta espressi dal canadese, se non si prendono in considerazione i progetti collaterali. C’è qualcosa della weltanschauung heckeriana del Radio Amor nel modo in cui le singole tracce vengono intessute nello spesso bordone centrale. L’ultimo movimento vira su territori pastorali sulla scorta di un arpeggio lirico che si apre un varco nella bufera e stempera non poco l’angosciata tenebra della messa in scena. Pur essendo distanti da capolavori come Oneiromancer e Dog Fox Gone To Ground, inserito nel più vasto mosaico della Glacial Movements, il fascino dell’operazione appare evidente. (7/10)
Genere: blues psych Di Barbagallo sappiamo da tempo ormai la natura poliedrica, la capacità di muoversi tra sottigiliezze avant e brume roots concretizzata in modalità e incarnazioni diverse (soprattutto cogli ottimi Suzanne’s Silver). Per limitarsi all’attività solista, con Quarter Century prima e col Live At Yoko Ono poi è come se avesse segnato gli estremi del raggio d’azione, marcato un territorio che copre dalla sperimentazione electro-psych fino al folk-blues più basale. Il difficile di siffatte dichiarazioni d’intenti è non perdersi nella larghezza del fronte espressivo, mantenere ben saldo il polso della proposta. In questo Blue Record il siracusano - con l’aiuto di membri sparsi di band contigue e attigue quali La Moncada, Dead Cat In A Bag e Monade Stanca tra gli altri - sembra proprio risolvere la questione, raggiungendo una sintesi intrigante perché apparentemente non forzata, una calligrafia naturale di piani espressivi sovrapposti. Una specie di bassorilievo blues che chiama in causa tutto un microcosmo espanso di suoni, vibrazioni e fremiti visionari. Sussurri e grida, vampe e penombre. Ci sono le sincopi folk-psych in trama sintetica wave - quasi un Julian Cope bucolico - di Hiss Of Hush ed il caracollare desertico di Radion, c’è la lunga melliflua insidiosa ipnosi raga di Rats & Mosquitoes e una Rainbow che stilla malinconia indolenziata Elliott Smith via Layne Staley, poi ancora ecco le brezze robotiche a scompigliare lo swinghettino frusto di Jewish ed una In My Better Cup mefistofelicamente devota al vangelo d’irrequietezze Lanegan. Infine, per una Soulself che mira l’iperuranio chiamando in causa perturbazioni siderali psych, jazz e prog, c’è il rinculo frugale di quella For The Turnstiles che azzecca la cover rielaborando Neil Young in chiave acidula mariachi. Un carosello elusivo ed evocativo, ambiguo nel
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senso migliore del termine. Da cui esci deliziosamente stordito. (7.2/10) Stefano Solventi
Beacon - The Ways We Separate (Ghostly International, Aprile 2013) Genere: post-r ’n’b Thomas Mullarney III e Jacob Gossett sono di Brooklyn, si incontrano al Pratt Institute, si mettono a fare musica assieme. Dopo due EP, di cui il primo in free download, arriva adesso l’album, sempre su Ghostly International. Quello che fanno lo si può riassumere con lo stesso tag - e gli stessi impliciti (leggi: sottostrato emo) - che abbiamo assegnato agli Inc.: post-r’n’b. I Beacon cercano programmaticamente di costruire canzoni d’amore che “aggiornino l’estetica dell’r’n’b” unendo “sensualità e senso di colpa” (ciao, Marvin Gaye), tradizione black e tradizione elettronica (electro, Warp sound, bass music UK). Una specie di roba alla Barry White per la electrohipster generation? Qualcosa del genere. Al di là degli intenti, il risultato è praticamente un aggiornamento gassoso (atmosferico, soul ma senza i cantati soul) e now (i charleston che occhieggiano a tratti addirittura al trap, gli insertini glitch & chip) dell’electro-pop romantico/morboso anni Ottanta. Stessi pregi e stessi difetti del disco degli Inc. (con minore showmanship in termini di expertise strettamente tecnico-produttivo e più appassionata naiveté): un sottofondo piacevole, ben costruito (funzionano particolarmente la sognante Between the Waves, Drive, la opener Bring You Back), un po’ troppo omogeneo, che dopo un po’ semplicemente stufa. Un paio di ascolti reggono, ma dopo resta poco. (6.1/10) Gabriele Marino
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Barbagallo - Blue Record (Noja Recordings, Marzo 2013)
per quanto pure innegabilmente classic, non è affatto il solito disco classic o di genere. I saliscendi baduani della voce del nostro - camaleontica Genere: black / pop / psych - vengono serviti da un impianto suonatissimo e Bilal è un personaggio di tutto rispetto del giro black post-J Dilla e quindi afrofuturismo Badu/Sa- credibile, che vuole variare le atmosfere e ampliare la tavolozza scavalcando le radici black della Ra & company e hip hop a cavallo tra tradizione, rilettura della tradizione e ‘nowness’ mainstream di faccenda, ma mantenendo sempre e comunque un piglio turgido che non si può non definire lusso area NY, tipo Guru, Dre, Jay-Z. Con in testa un’idea di - cosiddetto - neosoul che non può non funk: con tentazioni addirittura country-folk (Lost fare capo al funky princeano, questo quarto album for Now), “progressive” (Climbing) o quasi-free (ma Love for Sale, 2006, fu cassato dalla Interscope form (Butterfly; il migliore dei pezzi atmosferici, che in generale sono quelli meno efficaci, per perché leakato sul web prima della pubblicazioquanto pure sempre impeccabili, si veda il fantane) ha alle spalle fonti e aspirazioni come minimo impegnative (Bilal pensa a Coltrane, guarda a Dalì stico cliché Slipping Away). Il tutto speziato da flae ruba lick jazzy agli Steely Dan) e mette in campo vour psichedelici sparsi, a partire dalla copertina che strizza forse l’occhio al Something/Anything collaboratori di fiducia come Shafiq Husayn e il dell’unsung hero Todd Rundgren. pianista Robert Glasper. Bilal non ha l’approccio quadrato - nel senso proAll’ascolto il gigantismo dei modelli viene certaprio della quadratura - alla classicità di un John mente ridimensionato, ma quello che si sente,
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Bilal - A Love Surreal (eOne Music, Febbraio 2013)
Genere: pop sinfonico Lo vogliamo dire prima di qualsiasi altra cosa: di quando in quando è bello trovarsi di fronte a dischi come questo. E non perché il debutto da solista di Andrew Wyatt (se non avete idea di chi sia, aspettate ancora qualche riga) sia essenzialmente bello, appunto. Le sue qualità non hanno necessariamente attinenza con la bellezza in senso stretto - anche se di bellezza, intesa come ricerca estetico-melodica, queste canzoni non sono certo prive. Sin dal primissimo ascolto, Descender risulta piuttosto misterioso e inafferrabile, e ciò è indubbia parte del suo fascino. Al contempo, appare subito evidente la presenza di un’idea piuttosto forte, di una precisa scelta formale che, se sfuma i tratti del songwriting, riesce altresì a rivelare parecchio della personalità dell’artista, del suo mondo, della sua sensibilità. Se le nostre vi sembrano parole criptiche, ascoltate pure l’iniziale Horse Latitudes, la voce sommersa dal riverbero eppure distinta nel timbro, pochi versi accompagnati da un glockenspiel e poi una lunga coda, basata sull’insistenza minimalista di una sola frase ascendente di archi dal vago sapore mahleriano, mentre in sottofondo fioriscono interferenze elettroniche reminiscenti di quelle di Jim O’ Rourke nei dischi dei Wilco. Non tutti gli esordienti si accompagnano con un’orchestra di 75 elementi - la Filarmonica di Praga: la scelta formale di cui sopra -, e difatti Wyatt non è un esordiente qualsiasi. È la voce dei Miike Snow (ovvero l’ensemble pop elettronico che vede in azione gli svedesi Bloodshy & Avant, hitmaker assoluti con Madonna, Kylie Minogue e Britney Spears), e ancor prima suonava il basso negli A.M. insieme agli orfani della Jeff Buckley Band. Eccolo ora mettersi in prima linea con un progetto tutt’altro che velleitario, anzi rispondente a una visione stilistica ed artistica non poco ambiziosa: reimmaginare il pop orchestrale fra tentazioni melodiche (Harlem Boyz e And Septimus, in cui sfoggia il suo caratteristico falsetto che a tratti fa tanto, ehm, Mika), incursioni sperimentali (le manipolazioni minimaliste dell’avanguardistica title track), con una ricchezza timbrica e classicismi assortiti a metà tra i Procol Harum e il John Cale di Paris 1919 (indirettamente rievocato nel valzer In Paris They Know How To Build A Monument), senza dimenticare Scott Walker, Divine Comedy e certe inflessioni Peter Gabriel e - perché no? - ELO, con un tocco di Jack Nitzsche (There Is A Spring). Citazioni che vi servano solo da bussola, anche se il consiglio più sentito è quello di perdervi e riperdervi tra le brume, repeat sempre acceso a mandare in loop gli appena trentadue minuti del disco. Naufragar vi sarà dolce in questo mare. (7.5/10) Antonio PancamoPuglia
Legend o di un Aloe Blacc; eppure qui, senza strafare o pasticciare nulla, ci sembra, oltre che godibilissimo, assai più coraggioso. (7/10) Gabriele Marino
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Black Eyed Dog - Early Morning Dyslexia (800A, Marzo 2013) Genere: rock, psych, blues Dopo le tumultuose nottate, risvegli altrettando impetuosi, ferma restando la lucidità di chi tiene
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Andrew Wyatt - Descender (Downtown, Aprile 2013)
Stefano Solventi
Bonobo - The North Borders (Ninja Tune, Marzo 2013) Genere: Downtempo Se non vi aspettate nulla che non sia il top della produzione downtempo di stampo 90s naturalmente aggiornata alle tecniche e dinamiche della folktronica, Simon Green è, da almeno un lustro, l’uomo che fa per voi. Eppure questa volta c’è qualcosa in più nel mix, e questo rischia d’essere il miglior lavoro della sua carriera. Asciugando gli arrangiamenti (almeno negli strumentali) e convertendo le modalità più tipicamente Ninja Tune (vedi alla voce Andreia Triana) del precedente Black Sands in un mix di smalti più ariosi, il producer, neanche troppo involontariamente, declina verso il sempre più affollato
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ombrellone hipster house. Chiaro, Bonobo è sempre Bonobo, e con opener come First Fires con Grey Reverend al canto - sembra di stare in un disco di The Album Leaf, ma a forza di corsi e ricorsi la sua musica, oggi, è la versione adult di già raffinati non-giovani quali Lapalux, FaltyDL e Machinedrum / Sepalcure, tutti amici e remixer del caso (Black Sands remixed). Saltando qualche polpettone, The North Borders, sfordera tracce garage / 2 step che, tra sapori jazz house e cut vintage sulle voci, sfiorano la perfezione. L’eleganza è quella ricercata dagli ultimi Wolf & Lamb (Emkay), l’uso dei synth analogici e delle percussioni in sviluppo lineare è vicinissimo a certe take di Caribou (Cirrus), il dubstep poi in verità è breakbeat (Sapphire), e di questo passo si finisce per parlare della future garage del compagno d’etichetta Falty Dl (Don’t Wait) o per accostargli i compagni di scuola Four Tet e Burial (Know You). Di contro, Green è fin troppo self confident e, specie nelle parti cantate, lo troviamo eccessivamente sovraprodotto quando non ingessato: occasione mancata nel comunque raffinato feat. di Erykah Badu (Heaven For The Sinner), discrete ma non memorabili le canzoni con Szjerdene alla voce. Nulla, in pratica, che sia paragonabile all’estro delle tracce in cui la scelta d’affidarsi agli strumenti d’aria (xilofoni, arpe, fiati) si sposa a una serie di sezioni ritmiche sempre generose in termini di hip hop, trip hop, jazz, dubstep e house. Se il Dj Koze di Amygdala e l’indimenticato Swim di Caribou sono esempi su un piano - anche qualitativo - differente, il nuovo lavoro di Simon Green, in particolare nella veste live, è un’esperienza tutt’altro che accessoria in questo mosaico di estate della mente. (7/10) Edoardo Bridda
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ben salda la barra della canzone che sboccia robusta tra le ruggini e le vampe. Insomma, neanche un anno è passato dall’opera terza Too Many Late Nights che il qui presente Early Morning Dyslexia arriva sotto forma di EP a confermarci quanto poco Nick Drake sia rimasto nel DNA espressivo di Fabio Parrinello - a parte la ragione sociale, s’intende. Cinque pezzi all’insegna di boogie torrido distorto wave iniettato di lirismo sanguigno, vedi la graffiante Runaway Girl, la febbrile Baby Lee e la tosta I To The Sky, episodi che impastano molecole Jack White, Joseph Arthur e qualcosa dei Depeche Mode più roventi. Con Stone Cold si fa strada un dolciastro insidioso abbandono che non rinuncia comunque a deflagrare noise, mentre la conclusiva Once In A Lifetime finalmente placa la furia cullando una decadenza agrodolce dalla neanche troppo vaga discendenza Berlin. Una buona prova che conferma la padronanza e l’ispirazione del siculo/lombardo, così come quel senso di mestiere che un po’ ne penalizza l’efficacia. Restiamo in attesa di ulteriori sviluppi. (6.6/10)
Genere: avant-songwriting La prima cosa che salta all’orecchio ascoltando Still Smiling di Blixa Bargeld e Teho Teardo è l’imponenza mitteleuropea dei dodici brani in scaletta. Niente a che vedere con wall of sound et similia: l’imponenza di cui si parla è semantica, prima che formale, in una concezione di musica che lavora tutto sommato su pochi elementi (archi soprattutto, tra cui quelli del Balanescu Quartet) riuscendo tuttavia a veicolare un “bagaglio emotivo” enorme. In gioco entrano gli spazi vuoti, le cesellature nascoste, la corposa resa sonora di violino, viola e violoncello (finanche inquietante in Axolotl, con un contorno di vocalizzi diabolici tipicamente blixiani), ma anche il cantato di un Bargeld che ruba ai suoi Einstürzende Neubauten i toni marziali e notturni (l’iniziale Mi scusi fa pensare ai neon intermittenti della splendida Sabrina) trapiantandoli nel mondo di Teardo. Un mondo, quest’ultimo, che dalle colonne sonore scritte in passato (tra le tante, quella di Il divo, Denti e Diaz) come dall’ultimo Music For Wilder Mann riprende la capacità di creare una musica dinamica, palpabile, quasi visiva, ai confini con la contemporanea ma al tempo stesso estremamente diretta. In quest’ottica si inseriscono i testi in bilico tra tedesco, inglese e italiano scritti da Bargeld, anch’essi linguaggio nel linguaggio. Lapidari nei suoni almeno quanto lo è la musica, poco convenzionali nei significati e nelle tematiche: l’iniziale Mi scusi è una riflessione ironica proprio sulla lingua, cantata in italiano da un Blixa assai disciplinato («scusi il mio italiano / è ancora giovane e inesperto / facevo latino a scuola / a un livello cavernicolo»); Buntmetalldiebe è un cortometraggio costruito sulle parole in cui la materia diventa più importante della sua funzione; Come Up And See Me parte dalla televisione («una foresta di antennae») e metaforizza la tossicodipendenza citando qualche riferimento palese («The man who screwed a whole country»); What If...? mescola terreno e ultraterreno in un misto di programming e Bad Seeds, rimandando tutto (ancora, il linguaggio) a un errore di traduzione («What if in Paradise there are no Huris waiting?», «What if it’s all just a mistake in the translation?»). In scaletta ci sono anche la A Quiet Life già compresa nella colonna sonora del film Una vita tranquilla di Caudio Cupellini e una cover di Alone With The Moon dei Tiger Lillies, per un disco capace di rimanere costantemente in bilico tra inquietudini minacciose e la costruzione di scenari ampi e quasi teatrali. In Still Smiling l’attualità discografica non potrebbe essere più lontana, il luogo è una mente vista in soggettiva e tutto suona materico come ormai, in musica, non suona quasi più nulla. Applausi. (7.6/10) Fabrizio Zampighi
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Blixa Bargeld/Teho Teardo - Still Smiling (Specula Records, Aprile 2013)
Genere: Pop Dopo essersi preso la libertà di pubblicare un fugace lavoro solista alla fine del 2012 con l’aiuto di Roger Leavens, Luke LaLonde è stato impegnato gli ultimi tre anni nella realizzazione del successore di Say It, un album di indie pop song oggetto di un ampio spettro di valutazioni, dai plausi (tra cui il nostro), alle tiepide reazioni inglesi, fino alla stroncatura di Pitchfork che gli affibiava un emblematico 3.8 nel giugno del 2010. Accusato di aver composto sbrigative canzonacce da pausa pranzo, LaLonde deve aver accusato il colpo. O meglio, dopo quasi dieci anni d’attività e qualche riconoscimento (compreso lo spot della American Express), deve aver pensato che era giunto il momento di far uscire il classico lavoro per segnare il passo. Da sbrigativo, il processo di scrittura e di arrangiamento si è fatto meditato e vissuto all’insegna di un inedito lavoro di squadra. Soltanto alcuni dei demo composti in solitudine al laptop dal songwriter sono stati presi in considerazione, mentre la maggior parte delle nuove canzoni è stata macinata in lunghe prove in una fattoria dell’Ontario. Un’ulteriore selezione ha poi definito il materiale su cui lavorare nelle final session presso gli studi Boombox Sound di Toronto presidiati da Roger Leavens. Con il producer dei compagni d’etichetta The Rural Alberta Advantage, il quarto lavoro dei canadesi è inevitabilmente (e di gran lunga) il più rifinito e melodicamente rotondo che sia mai stato scritto sotto questa sigla. Se ne vanno le chitarre più slabbrate e lo shouting ubriacante e legnoso di tradizione Clap Your Hands Say Yeah, se ne va quindi il suffisso lo-fi (e l’approccio da live in studio) per un sound preciso, vario e solido, che si tiene strette le coordinate vampireweekendiane già tracciate in precedenza. Il singolo Needle li presenta con una intro ruffiana delle loro tipo Mumford & Sons o Fleet Foxes meet
Ezra Koenig, altrove il tiro procede in freschezza melodica e chilurgico esotismo grazie a jangling chitarristici molto più “ordinati” e figli dell’amore per gli Shins di mezzo (Ocean’s Deep). Nonostante i tentativi di hook (Permanent Hesitation), di fatto sono ancora i tiri più sghembi a convincerci (il taglio 50s di Cold Pop) ma anche le ballate (Golden Promises e la finale al piano Never Age) o zampate come Dancing On The Edge Of Our Graves, tutte bene inserite nell’economia di una scaletta centrata sulla spensieratezza pop. I Born Ruffians non hanno fatto una tipica svolta stadium da brit band, nemmeno si sono dati agli 80s (basta!) e neppure sono, come lo erano sicuramente all’inizio, una band copia-incolla di trend canadesi. Il problema di Birthmarks è il collocarsi nel limbo di tante band troppo vecchie per godere del supporto che si dà alle nuove leve e troppo poco duttili e spregiudicate per fare il salto definitivo tra le star major indie. Infine, se vogliamo metterla sotto il profilo delle ragioni di fondo, un conto è essere dei bravissimi emuli che sanno metterci del loro e si fanno produrre da un professionista, un conto è dar vita a un progetto che cavalca le mode e possiede una visione prospettica delle cose. (6.8/10) Edoardo Bridda
Buke And Gase - General Dome (Brassland, Febbraio 2013) Genere: Weird Pop Il lavoro del duo newyorkese consta di un ottimo weird pop al femminile dalle forme cangianti e imprevedibili, dalle melodie articolate e dalle ritmiche sghembe. Impossibile non pensare a una versione ridotta dei Dirty Projectors, ma spingendosi un po’ oltre con la fantasia, potremmo anche immaginare un’improbabile jam tra Merril “Tune-Yards” Garbus e i Paramore. Perché alla fine l’elemento teenage rock, volenti o nolenti, c’è, sotteso quanto vi pare ma presen-
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Born Ruffians - Birthmarks (Yep Roc, Aprile 2013)
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Antonio Laudazi
Calibro 35 - Said (Roadhouse - DGP Entertainment, Aprile 2013) Genere: colonna sonora Dalle mie parti si dice “invitare la lepre a correre” quando fai a qualcuno una proposta che gli si addice particolarmente. Nel caso dei Calibro 35, affidargli la colonna sonora di una pellicola pulp del collettivo Drop Brothers significa intrappolarli nel cuore della propria ossessione, provocarne l’estro col profilo turgido del cannone puntato alla tempia. Il quintetto l’ha presa così bene da escogitare una prassi produttiva particolare, eseguendo le musiche col film proiettato sullo sfondo, come usavano fare le mitologiche orchestre del cinema italiano anni Sessanta. Soprattutto, ci ha dato dentro superando per intensità quello che sembrava già ottimamente profilato nel precedente Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale.
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La calligrafia di morriconismi, languori lounge, psych amniotica, surf rubicondo e funk duro si esalta in questa copula di celluloide e polvere da sparo, tanto da non avere bisogno del proiettore per brillare di luce - ebbene sì - propria: sentire per credere la tostissima Notte di violenza, la sinuosa Erotismo, la suggestiva Tema di Blue, la travolgente Prologo o le insidie impressioniste di Tensione (benedetta dal violino di Rodrigo D’Erasmo). Da segnalare l’escursione hip-hop di Sbirri! (Remix) - a cura di DJ Aladyn - nonché le due tracce cantate, una Don Vito che rende cruda la romanza napoletana (per la voce sanguigna di Francesco Forni) e l’azzeccata cover di Ragazzo di strada affidata ad un Manuel Agnelli adeguatissimo alle circostanze, come del resto la celebre canzone dei Corvi. (7.2/10) Stefano Solventi
Campetty - La raccolta dei singoli (Orso Polare, Aprile 2013) Genere: Indie, Wave Un po’ a sorpresa, il sodalizio dei fratelli Campetti cerca una nuova quadratura del cerchio espressivo dopo i già apprezzabili risultati ottenuti con le compagini Edwood e Intercity. Se tra queste due entità si poteva ravvisare una sottile differenza di approccio - più melodici i secondi, quasi fosse il portato inevitabile del ricorso alla lingua italiana - con i Campetty è palpabile il tentativo di rendere la proposta più diretta, l’impatto più brusco quel poco che basta a precipitare al suolo il distacco onirico che pure resta alla base della calligrafia. E’ un po’ come se fosse stata alzata la fiamma sotto il crogiolo indie-emo-wave, bruciacchiando i bordi dell’impasto e inasprendo gli aromi. Il laconico diventa così un po’ più acido, l’amniotico sferzante, affiora l’impalcatura lo-fi e sbocciano miraggi frugali. Va detto che la proposta ne guadagna: convince infatti la vena febbrile che innerva la malinco-
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te (specialmente nell’incipit di Houdini Crush) e implicito probabilmente nella vocalità adolescenziale e precisa della giovane Arone Dyer; e non dà affatto fastidio mescolato com’è a impasti noise, storture e armonie tese (General Dome) o nobilitato da un’impronta cantautoriale che trasmette un senso di grande libertà formale, con soluzioni tutt’altro che scontate e geometrie complesse (Hard Times). Merito anche della buona estensione (persino katebushiana in più di un’occasione, come in Twisting The Lasso of Truth) e di un modo di pensare la ritmica che non disdegna di sconfinare nel math (l’alternarsi di 6/4 e 7/8 in My Best Andre Shot). Detto così tutto d’un fiato pare poco, ma arrivare in fondo a General Dome è navigare su acque scure, dove le promesse di un’anima sostanzialmente pop sono in realtà un canto di sirena pronto a intrappolare l’ascoltatore tra flutti sonori piacevolmente vorticosi. (6.9/10)
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Stefano Solventi
Charli XCX - True Romance (Atlantic Records, Aprile 2013) Genere: pop Sulla cover di un vecchio numero di V Magazine la si vedeva accostata a Grimes, ma ben più azzeccato ci sembra il paragone con Jessie Ware: il vero salto di qualità arriva, per entrambe, quando a compierlo sono innanzitutto i producer dietro le quinte. Per la Ware i nomi tutelari del pre-Devotion furono SBTRKT e Joker, mentre per Charli XCX i propulsori si chiamano J£zus Million (enorme in What I Like) e Gold Panda (che mette a prestito il loop di uno dei suoi pezzi più noti, You). Intendiamoci: bella voce, discreto talento e comunque più di un possibile motivo d’interesse non sono in dubbio. Non si spiegherebbe altrimenti un hype in crescita esponenziale - senza alcun cedimento - nel corso di più di due anni; non
si spiegherebbero gli slot in apertura ai concerti di Santigold, Coldplay ed Ellie Goulding; non risulterebbe la firma della nostra sull’esplosivo tormentone delle Icona Pop, I Love It. Eppure, anche considerando la buona metà di tracklist già edita nei due mixtape del 2012 (Heartbreaks and Earthquakes, Super Ultra) e quindi la parziale natura di “greatest hits” piuttosto che di album tout court, è altrettanto indubbio che ciò che di buono Charlotte Aitchison ha da offrire risulti, in questo True Romance, quantomeno scialacquato. In particolare, la nativa dell’Hertfordshire dovrebbe tenersi strette le radici che - secondo la leggenda dell’esordio a quattordici anni - risiedono nella scena rave dell’East London (Grins) e ai rave portare più spesso Lykke Li (You’re The One). Vanno pure bene il trattamento tumblr-wave riservato al synth-pop di stampo 80’s (Nuclear Seasons) e il generale infuso di estetica “internettiana” con tanto di onnipresente riverbero witch (Balam Acab è tra i remixer ufficiali dell’edizione deluxe), ma avremmo volentieri evitato la spendita dell’unico featuring a favore della “rapper”, spogliarellista e meme-umano Brooke Candy (Cloud Aura). Allo stesso modo andrebbero contenuti gli eccessi bubblegum con l’auto-tune sparato a mille (Take My Hand), certo non tremendi quanto quelli dell’ultima Marina and the Diamonds, ma che comunque portano un fastidioso retrogusto da starletta disneyana rivoltata per Spring Breakers (e in effetti una vaga somiglianza tra Charli e Vanessa Hudgens è rilevabile). Sarebbe consigliabile, infine, moderare i tributi elegiaci ad Uffie quando si vira sul rapping confidenziale, dato che i più, ne siamo certi, preferirebbero continuare a considerare la mezzosangue francese accasata da Ed Banger come un capitolo chiuso. Charli XCX deve, insomma, ancora mettersi del tutto a fuoco, se non rimuovere i poster delle varie “90’s bitches” dalla propria cameretta almeno, ci si perdoni il tecnicismo, fare meno la cazzara.
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nia travolgente di Nuoto dorsale (bella l’idea del trombone a scompaginare l’impeto androide Grandaddy) o la frenesia languida de Il Parco dei Principi (appesa a particelle sdegnose Fiumani e deflagrazioni cosmiche Scisma), o ancora quella Cowboy Blues che riecheggia tempeste ingrugnite CSI. Di contro, si apprezza la capacità di svariare per sottrazione, come nella pastorale indolenzita di Brasilia (slide e tamburelli) e in quella Mariposa Gru che sembra quasi ipotizzare degli Sparklehorse folktronici, resa ineffabilmente sensuale dalla sempre splendida voce di Sara Mazo. Si aggiungano poi le sincopi tanghesche di Vittoria ed il languore blasé Baustelle di Tenda Prodigy, per completare un quadro intrigante malgrado la scrittura tradisca una certa ripetitività (Lungofiume, A nastro). Un limite non da poco, certo, ma forse l’ultimo ingranaggio da aggiustare di un meccanismo sempre più efficace. (6.9/10)
Genere: Psych, folk Dopo il generoso antipasto di Singar, l’EP con cui si sono fatti conoscere due anni orsono, tornano gli ineffabili C+C=Maxigross, quintetto di pseudo-montanari (lo pseudo è mio) con la vena psichedelica sempre in tiro e una baldanza sbarazzina a stemperare il talento. Quel talento che col qui presente Ruvain - che in dialetto Cimbro, sorta di lingua morta dei monti Lessini, significa “rumoreggiare” - si sbriglia aperto, espanso, duttile e arguto. Quattordici tracce che si disimpegnano fragranti e asprigne tra calde trame freak-folk, acidità californiana, teatrini cazzoni e ironia agrodolce, riuscendo a definire una specie di golfo mistico dove quel che accade è assieme il loro nido e un riparo per tutte le anime bisognose di svolazzi onirici. Soprattutto, azzeccano scrittura e atmosfera con una padronanza impressionante, dimostrando che alla fine di tutte le congetture la vecchia sana strategia del live-in-studio (al netto di pochissime sovraincisioni) paga sempre. Quasi interamente autoprodotto, con l’eccezione di tre pezzi che vedono il contributo alla console di Marco Fasolo dei Jennifer Gentle, Ruvain è disco generosamente dispersivo, capace di svariare tra etno-freakerie valzer come dei cuginetti prealpini dei Blur (Lesha!Keyoo!SeeYa!) e arte varia swing (No One Calls Me, L’Attesa di Maicol), beat frugale come dei Kinks trasognati Akron/Family (Charleroi Poulet) e intimismo lisergico Billy Corgan (Holynaut) magari stemperato con certi sdilinquimenti amniotici Grant Lee Buffalo (Najhladnija Luka Pule, Pamukkale in E). La goliardia da Decamerone dadaista funge da dirimpettaio ad un’intensità che non si vuole mai seria né giammai seriosa, come se la bellezza del gioco risiedesse anche nella consapevolezza del gioco stesso: vedi in questo senso la misticanza esotico-pastorale-afro di A Freak Can, il folk bretone in sospensione acidula di Ten Dark Wednesday o lo slancio bossa vintage di José. Tuttavia, nel sottofinale i gaglioffi azzardano una lunga cavalcata psych (Testi’s Baker/Jung Neil) che svalvola tra Crazy Horse e Ultimate Spinach via Grateful Dead, per poi chiudere la scaletta con la decompressione morbida a spine staccate di Wait Me to Arrive. Così, tanto per non sapere bene in quale cassetto dell’immaginario collocarli, perché ormai chissà cos’è una rock band nel mondo scentrato del tutto-è-possibile. Una cosa però possiamo dirla: sono bravi. Imprevedibilmente bravi. (7.5/10) Stefano Solventi
La carta d’identità recita comunque “classe 1992”, e quindi il tempo a disposizione per ricalibrarsi c’è tutto. Nel frattempo il disco di debutto, pulsante skip a portata di mano, è tanto piacevole quando prescindibile. (6.5/10) Massimo Rancati
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Conny Plank - Who`s That Man – A Tribute To Conny Plank (Gronland Records, Febbraio 2013) Genere: kraut Chi è quell’uomo? Chi è il Konrad “Conny” Plank che Brian Eno definiva persona “piena di risorse, in parte artista, in parte ingegnere/produttore, in
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C+C=Maxigross - Ruvain (Vaggimal, Aprile 2013)
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ipnotico e se il disco di remix riserva tutto sommato poche sorprese (tra le cose migliori, Justus Köhncke nella Feuerland di Michael Rother, Crato alle prese con la Doze dei Phew e il rework di Jens-Uwe-Beyer di Conny Plank), i primi due CD seminano invece assai bene. Nel primo segnaliamo il basso possente della Broken Head del trio Eno/Moebius/Roedelius, gli Eurythmics dell’inquietante Le Sinistre, le batterie metronomiche e innarrestabili di Feuerland (Michael Rother), Silver Cloud (La Düsseldorf) e Conditionierer (Moebius/Plank), i synth disturbanti di Farmer Gabriel (Moebius/Plank/Thompson) e Alles Ist Gut (D.A.F). Nel secondo, dall’indole più “ambientale” e allentata, spiccano Roedelius con i tribalismi di Regenmacher, i Neu! classici di Negativland, certi Psychotic Tanks in sbornia Pere Ubu con Security Idiots, l’incubo di Fritz Müller Traum e una cover marziale, hard-rock e poco credibile - e quindi, paradossalmente, geniale - di Eleanor Rigby da parte degli Streetmark. Il 5.9 assegnato al disco da un Pitchfork evidentemente poco propenso a comprendere appieno lo spirito alla base dell’operazione, non rende giustizia a Who’s That Man. Non sono l’estetica né la completezza le finalità ultime del cofanetto, quanto l’idea di rappresentare in pieno lo spirito di Plank, il suo modus operandi, il surrealismo che lo caratterizzava (ascoltatevi la natalizia Silent Night straziata da una voce ubriaca in Deutsches Weihnachts Potpourri), l’essenzialità glaciale sfociata poi in certo post punk-wave oscuro da un lato e nell’industrial dall’altro. Testimonianza storica unica e di valore, insomma, e in quanto tale da apprezzare. (7/10) Fabrizio Zampighi
Daniele Lombardi - Musica Futurista (Cramps, Gennaio 2010) Genere: avanguardia Un capolavoro nell’ambito della documentaristi-
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parte inventore”, quello che nel 1980 si rifiutò di produrre The Joshua Tree degli U2 adducendo un “non posso lavorare con quel cantante”, lo stesso che finì per collaborare con la Gianna Nannini di Profumo? Fatte le dovute proporzioni, Plank sta alla musica cosmica tedesca come Brian Eno sta alla new wave e George Martin al pop inglese. Figura ombra - ma non troppo - del krautrock, il Nostro fu produttore artistico atipico ma fondamentale nel definire i caratteri del suono germanico, dal classico motorik a buona parte della kosmische musik. Impossibile sintetizzare in poche righe tutti i dischi su cui mise mano il produttore tedesco: citiamo a titolo d’esempio Kraftwerk, Cluster e Cluster II, Neu! e Neu! 2, Känguru dei Guru Guru, Deluxe degli Harmonia, La Düsseldorf, Cluster & Eno. Un’arte, quella appresa in quei giorni, che Plank metterà a frutto per tutti gli anni Settanta e Ottanta, arrivando a collaborare con Eurythmics, Ultravox, DAF, Killing Joke, Scorpions e altri, fino alla morte prematura avvenuta il 18 dicembre del 1987. Ecco dunque che la celebrazione del personaggio è tutto fuorché superflua. Anzi, forse persino troppo ridotta, nonostante i quattro CD del cofanetto Who’s That Man - A Tribute To Conny Plank. Certo sintetizzare tutto lo scibile plankiano sarebbe stato impossibile - un sito come Discogs segnala, a parte i dischi ufficiali a suo nome, trecentoventi produzioni artistiche, venticinque partecipazioni come turnista, duecentoquarantatré presenze dietro il mixer - il che ha significato affidarsi alla classica via di mezzo: introdurre l’universo del musicista raccogliendo nei primi due dischi brani da lui curati (suoi e di altri), per poi proporre materiale aggiuntivo negli altri due, nello specifico alcuni remix e un intero concerto del trio Plank-Moebius-Steffen risalente a una data messicana del 1986. Se quest’ultimo pecca per una qualità di registrazione non ottimale pur suonando avventuroso e
Genere: Psych E’ lo stesso Bradford Cox a spiegarlo a chi non lo avesse ancora capito, fin dal titolo del quinto album dei suoi Deerhunter: per lui la musica è una vera e propria ossessione monomaniacale. Che sia il frutto di una collaborazione con altri musicisti o uno “sbuzzo” personalistico, pare che il ragazzo della Georgia non sappia proprio fare altro: comporre, suonare, comporre, suonare, in un loop continuo che fa il paio con la circolarità psichedelica che infonde alle proprie composizioni. Sempre con risultati sopra la media, anche quando la bulimia gli faceva pubblicare, accanto a Halcyon Digest, i quattro volumi di Bedroom Databank con materiali casalinghi. Il tutto mentre preparava Parallax, il terzo episodio del progetto Atlas Sound uscito nel 2011. Rispetto ad allora i Deerhunter hanno aggiunto una chitarra (Frankie Broyles, ex Balkans) e mutato parzialmente anche la sezione ritmica basso/batteria (ora Josh Mckay/Moses Archuleta). Di conseguenza, pur rimanendo fedeli alla nuggetsdelia che ne caratterizza da sempre la proposta sonora, anche la musica cambia, con intrecci e stratificazioni chitarristiche più complesse, nel pantano acido e ribollente da cui sembrano uscire questi dodici brani. L’attitudine, come certifica il titolo dell’ultima traccia - Punk (La Vie Anterieure), che di punk ha solo un profumo irrancidito -, è punk come ai tempi dell’esordio Turn It Up Faggott. Il fatto è che sotto la navicella Deerhunter, da quell’esordio, sono passate le acque di otto anni abbondanti, in cui l’immaginario sonoro di Bradford Cox (cui dal 2007 va aggiunto anche quello di Lockett James Pundt IV) è diventato un punto di riferimento della scena indie internazionale e le capacità tecniche per la manipolazione sonora sono cresciute al punto da essere del tutto adeguate alle idee. La già nota title track dice tutto di quell’autoconsumarsi nella musica che sembra essere il concetto attorno a cui gira tutto l’album (forse anche la vita di Cox?), in una voce messa in candeggina che si appoggia su chitarre abrasive sempre sul punto di farci affogare. Dal brodo primordiale Slowdive/ Ride/primi R.E.M./Byrds/Ramones/nuggets si pescano i viaggi allucinati a gran velocità (Sleepwalking), l’americanissimo boogie di Pensacola, le concessioni di graffiante dolcezza di Blue Agent. Il gioco a tre chitarre permette ricami da bossanova in candeggina rumorista (T.H.M.) e, in generale, aumenta la definizione di un sound che aveva, già tre anni fa, la cifra portante nella certosina ricerca di una formula personale. Accanto a questo, però, si rafforza anche una serie di manipolazioni sottili, non smaccate, che conferiscono al sound complessivo un’impronta che vedremo tentare di riprodurre ancora per alcuni anni. In un mondo in cui il sintetico digitale sembra spesso avere il sopravvento sulle sei corde, Bradford Cox e i suoi Deerhunter creano un suono ibrido, figlio tanto della migliore stagione del rock acido e psichedelico, quanto della capacità di manipolare e rimanipolare ogni dettaglio; un suono che non esaurisce la propria spinta nel guardare al passato, ma riesce a essere contemporaneamente di oggi e di domani. E qui tutto questo è reso al meglio e con la massima maturità. (7.5/10) Marco Boscolo
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Deerhunter - Monomania (4AD, Aprile 2013)
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Antonella Balducci e l’incursione degli archi del Quartetto Futura per la notevole Giallo Pallido op.39 di Pratella. Quarto CD: poesia sonora dalla voce dell’attrice Gabriella Bartolomei. Quinto CD: concerto del 2007 dedicato a Russolo contenente una notevole composizione, tra le altre, di Sylvano Bussotti. Sesto CD: la registrazione originale di tutte le declamazioni di Marinetti. Settimo CD: alcune entusiasmanti testimonianze dell’influenza futurista al di fuori dello Stivale, con il Walter Ruttmann di Weekend, Henry Cowell e compositori tutti da riscoprire come il russo Alexander Mosolov. Ottavo CD: lavori originali per flauto solista ispirati dallo stile ricavato attraverso lo studio degli scritti futuristi. Il tutto, si badi bene, arricchito da libretti scrupolosi e chiari nella non facile ricostruzione degli avvenimenti storici, con note esplicative ben scritte che pongono il fruitore nella condizione ideale per capire e apprezzare la musica in questione. Il tutto, si badi bene una volta in più, a un prezzo assolutamente accessibile. Per una comprensione totale del movimento, consigliamo inoltre l’acquisto del libro Nuova Enciclopedia del Futurismo musicale (sempre edito da Cramps con Mudima e a cura del Lombardi di cui sopra), scrigno ulteriore di un viaggio condotto con magistrale competenza nei lidi della sperimentazione primo-Novecentesca. (9.5/10) Filippo Bordignon
Droning Maud - Oursecretcode (Seahorse Recordings, Aprile 2013) Genere: hypno-rock Quando ci capita un disco col marchio Seahorse, sappiamo che difficilmente sarà cattivo. Tanto più se all’acclamata label e alla debuttante (si fa per dire, sono al secondo disco) band, si affianca un maestro del suono come Amaury Cambuzat (Ulan Bator, Faust, Chaos Physique) a dirigere
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ca cultural/artistico/musicale; un’opera completa per passare in rassegna le principali intuizioni sonore postulate dai Manifesti e proclami futuristi; (ai tempi della crisi del mercato discografico) un suicidio commerciale di cui la storica etichetta Cramps - in partnership con Fondazione Mudima - deve andare pienamente orgogliosa; più prosaicamente, un cofanetto di otto cd collocabile indistintamente nella propria libreria o raccolta musicale. Con il box Musica Futurista si accede ai più reconditi territori sperimentali dell’ultima avanguardia italiana degna di nota, attraverso un meticoloso lavoro di catalogazione, scrittura, interpretazione e reinterpretazione di stralci da spartiti e “strategie” ideati dai protagonisti del movimento ma non solo. Musica Futurista è un’occasione imperdibile per tracciare un bilancio oggettivo sul lascito del futurismo in ambito musicale, con le sue promesse di rivoluzione dell’ascolto e della composizione da una parte e i risultati sonori spesso ancora legati al vecchio modo di fruire l’esperienza sonora dall’altra. Il cambio di paradigma sostanziale va riconosciuto probabilmente nel fatto che, a stagliarsi in un mare di promesse evase solo in parte, non fu un compositore ma un pittore (un non-musicista, dunque), quel Luigi Russolo celebrato come primo teorizzatore del rumore bianco da appassionati appartenenti a tutte le frange della outsider music. Vale la pena di elencare in sintesi il contenuto della raccolta. Primo CD: selezione delle principali musiche futuriste che alterna i rarissimi documenti audio pervenuti a noi (a esempio, il Corale di Antonio Russolo) a reinterpretazioni per pianoforte del compositore Daniele Lombardi. Secondo CD: ancora Lombardi con Metropolis, personale quanto efficace riproposizione contemporanea del Russolo (Luigi) mediante intonarumori e cut-up digitali. Terzo CD: proseguono le provocazioni musicali evocate con l’ausilio aggiuntivo della voce soprano di
Genere: hypnagogic kitsch Già produttore discografico dal 2007 con Hundebiss e parte del gruppo di sperimentazione audio-visiva Invernomuto, Simone Trabucchi - in arte Dracula Lewis - è uno dei figli della weirdness e della cacofonia di marca Twin Infinitives aggiornata all’epoca dello sdoganamento dell’elettronica home made e della rivoluzione culturale del sampler. Fin dal primo LP Vernasca, Valhalla (2008) DL gioca - sulla linea dei Prodigy e più di recente di Evgeny Pozharnov (Proxy) - con l’immaginario est europeo post-sovietico di fine Nineties, segreto e insondabile, fomentando sul web più di un dubbio sulle sue origini rumene. Dopo l’EP Permafrost uscito per Souterrain Transmissions su 12” e un tour europeo a supporto dei Soft Moon, per DL arriva il secondo full length - prodotto “in famiglia” per Hundebiss - e un tour con il baffuto Cameron Stallones alias Sun Araw. Use Your Illu$ion$ è electro gelatinosa che flirta con il mondo weird fino a renderlo kitsch, passando per gli arrangiamenti sintetici dei Butthole Surfers (quelli di tracce come Backass e Strangers Die Everyday, per intenderci), per gli incubi infantili con i primi video di Marilyn Manson su Mtv e per gli splatter da quattro soldi in VHS. Strizzando l’occhio alle tendenze trap e al dub di Lee “Scratch” Perry, si viaggia tra horror, mistero e freak-erie sempre colme di futurismo - o retro futurismo che sia - da videogame 8-bit ma soprattutto di un informe e malato avvenirismo da “secondo mondo” europeista - vagamente sulla falsariga degli LV con il continente nero - decadente come un Nokia di terz’ultima generazione pubblicizzato per le periferie di Bucarest (vedi Cheetah). Al buon Dracula Lewis non mancano certo idee e fonti d’ispirazione; profondamente trash ma lontano dalle banalità di sorta, Use Your Illu$ion$ è un ottimo spaccato di libera immaginazione made in Vernasca, o Transilvania, come preferite voi... (7.5/10) Davide Nespoli
l’orchestra. La sensazione è quella di un sound domato (non necessariamente dal luminare in questione), libero dagli eccessi giovanili. Si mette il guinzaglio al suono, lo si distende all’infinito, lo si reitera nel magma ipnotico dei giri di chitarra, lo si spennella di ampie parti strumentali, lo si lascia sedimentare sulle strutture elettroniche. I Droning Maud cercano altri campi di applicazione per la loro vocazione musicale: rimanere scuri, invernali, freddi come le pietre, senza smettere le camicie di flanella e senza rinunciare alla barba incolta.
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In questo centrano in pieno l’obiettivo. Our Secret Code è un disco posato, riflessivo che, passando per l’ordinarietà di suoni alla Radiohead, Sigur Ròs, si fa innovativo nel momento in cui sposa un certo gusto Nineties che, se per gli arrangiamenti può ricordare il monumentale Mellon Collie degli Smashing Pumpkins, per l’utilizzo delle vocalità non può che chiamare in causa i mai dimenticati Alice In Chains. L’operazione è tutt’altro che scontata: al crocicchio chiamato Kid A - Takk si giunge attraverso l’infarinatura elettronica, che non è mai sopra le
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Dracula Lewis - Use Your Illu$ion$ (Hundebiss Records, Aprile 2013)
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Nino Ciglio
Elara - Soundtrack For a Quiet Place (Fluttery, Febbraio 2013) Genere: Post Rock La fascinazione per i paesaggi nord europei, non tanto per rincorrere e afferrare una certa estetica, ma perché al Nord si è molto in alto e lo sguardo arriva più lontano. E poi fa freddo, e nel torpore si cerca conforto, qualcosa di puro e cristallino. Stilisticamente, la creatura Elara padroneggia con grande consapevolezza la materia post-rock strumentale, quella più emozionale, ariosa e massimalista che trova in Sigur Ros, Explosions In The Sky e Mogwai la propria dichiarata matrice. Fitte trame di chitarra, talvolta anche piuttosto muscolari (Me And You Under the Aurora Borealis) si alternano a passaggi orchestrali punteggiati da arpeggi di piano (We Are Infinite) e da una sezione ritmica costantemente in tensione, quasi a spingere le strutture in una corsa controvento, salvo poi fermarsi a riprendere fiato nelle distensioni dinamiche.
I tre brani di questo breve EP sono pochi per tirare le somme di un giudizio compiuto, ma valgon bene il tempo di reiterati ascolti visto che si pongono il semplice e nobile obiettivo di portare l’ascoltatore con sé: i piedi nella neve, la faccia verso l’infinito e il cuore in un ricordo nel quale affondare. (6.5/10) Antonio Laudazi
Endless Boogie - Long Island (No Quarter, Aprile 2013) Genere: sixties psych-rock Mastodontico e decisamente retrò senza puzzare di vintage: in una battuta, ecco il senso di Long Island, alcolica rentrée per il quartetto americano Endless Boogie dopo Full House Head. In realtà, tra il 2010 di quell’album e il 2013 del qui presente, c’è stato anche un altro passaggio, ovvero un Twenty Minute Jam Getting Out Of The City dal minutaggio quasi doppio che comunque indicava, proprio come il succitato Full House Head, le direttrici del sound Endless Boogie. Lunghi, lunghissimi esercizi di una chitarra d’antan accesa dall’onnipresente wah-wah e devota al rock più americano e psichedelico che si possa immaginare. Dopotutto una ragione sociale del genere non la scegli a caso, e se ti frega poco dell’attualità e il tuo mondo è ben piantato in una sala prove dove rivivi i Sixties (che non hai mai vissuto, per inciso), allora gli ottanta minuti del disco diluiti in otto tracce sono tutto ciò che ti interessa. Qua e là si ritrova qualcosa d’altro rispetto all’asse portante tradizionale made in ZZ Top o Allmann Brothers che caratterizzava i lavori precedenti, ma non ci si allontana mai troppo dai Sessanta: gli umori quasi Doors di The Artemus Ward - bellissimo pezzo di psych docile e sognante -, una spruzzata di Stooges senza nichilismo ma con iniettata una buona dose di tradizionalismo a stelle e strisce, ripetute venature Velvet Underground (The Montgomery Manuscript) dagli
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righe, mai pacchiana, tanto da farci pensare che se Corgan e i suoi avessero fatto musica buona oggi, forse l’avrebbero immaginata più o meno così. Ghost, che con la sua intro strumentale lunghissima ricorda le sonorità di un’altra band del roster Seahorse, i Marlowe, è un brano ossessivo tenuto insieme dall’autismo di un arpeggio di chitarra che va a schiantarsi, nel finale, contro la laconicità del cantato. Le successive Nimbus e Kill The Skycraper sono l’essenza della perfetta convivenza di questo hypno-rock con sfumature elettroniche, senza che nessuna delle due facce prenda il sopravvento. Citiamo, infine, Led Lights come summa di un’intera concezione del far musica, immersione nelle acque dell’ignoto coi delay a far festa e le sequenze perfettamente sincronizzate sul battito delle nostre anime. Questo, in breve, il codice segreto di cui si fa menzione nel titolo. (6.9/10)
accenti southern rock. In definitiva, c’è molto di menefreghista e incompromissorio nel suonare una musica talmente fuori tempo, ma se incensiamo spesso epigoni dei suoni che furono - un fenomeno su tutti, il revival kosmische in ogni salsa - non possiamo esimerci dal tributare il giusto omaggio a una band talmente passatista e reazionaria da suonare paradossalmente rivoluzionaria. (6.8/10) Stefano Pifferi
Genere: folk/songwriter/punk C’erano una volta i Million Dead, uno dei gruppi post-hardcore inglesi maggiormente acclamati della prima metà degli anni zero. Terminata quell’esperienza a causa di “diversità inconciliabili”, il leader Frank Turner ha intrapreso una carriera solista che tra alti e bassi gli ha comunque garantito un crescente successo. Una evoluzione artistica che ne ha seguito, di pari passo, il processo evolutivo personale da giovane filoanarchico (il nome Million Dead era un tributo ai Refused) a trentenne talmente polished da essere accusato dal Guardian di essere destrofilo. Difficile capire nel dettaglio il ruolo ricoperto da cause ed effetti, fatto sta che nell’ultimo anno - cerimonia olimpica compresa - le attenzioni attorno alla sua figura sono aumentate esponenzialmente, seguendo Oscar Wild nel classico “Non importa che se ne parli bene o male, l’importante è che se ne parli”. Una gogna pubblica britannica che in fin dei conti sta solo gonfiando le tasche di un musicista (tra le altre cose amico del principe William ai tempi dell’Eton College) che, furbescamente, sta già da tempo - dal tour con gli Offspring del 2009 - ha iniziato a guardare in direzione degli Stati Uniti. In questo senso, non sorprende che il suo quinto album Tape Deck Heart negli USA esca per la
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Riccardo Zagaglia
Füsch! - Mont Cc 9.0 (First Act) (Jestrai Records, Aprile 2013) Genere: post-rock Sembra tedesco, ma è bergamasco: Füsch!
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Frank Turner - Tape Deck Heart (Interscope Records, Aprile 2013)
Interscope (in UK sempre via Xtra Mile) e che gli angoli di ogni tassello della propria cifra stilistica siano stati ulteriormente levigati. Tra le tracce di Tape Deck Heart - registrato con la band di supporto The Sleeping Souls e prodotto dal guru dell’indiestream Rich Costey -, il brano destinato alle radio in ottica estiva è certamente Recovery, ruffiano e appicicoso folk-rock che non sfigurerebbe in qualche spot tv. Una spinta innovativa inversamente proporzionale all’immediatezza cantautorale, quella presente in Tape Deck Heart, e che già si notava nel precedente England Keep My Bones: coordinate UK-USA di easy listening tra rock da stadio in zona Mumford & Sons privati di banjo e mandolini (Polaroid Picture), acoustic rock-FM (The Way I Tend To Be o il Colin Meloy meets Adam Duritz di Good & Gone) e il folk-punk più sobrio che possiate immaginare. Sul versante rock-pop funziona Losing Days (mix tra In Between Days, Counting Crows e un timbro Stipe/Woomble), mentre a variare una tracklist con pochi sussulti pensa la variegata Four Simple Words: intro piano+voice e fraseggio folkpop ad anticipare l’accelerazione punk-rock. Quello di Frank Turner è un percorso discografico che idealmente si muove a metà strada tra il tardivo successo post-band del Mike Rosenberg/ The Passenger di Let Her Go e l’evitabile svolta pop dell’altro Frank del punk inglese (l’ex Gallows Frank Carter ora nei Pure Love). Appurato di non avere tra le mani un nuovo Billy Bragg (ci mancherebbe...), va dato atto al trentunenne originario del Bahrain di essere comunque riuscito a sfruttare il momento di visibilità in modo astuto ma non necessariamente deplorevole. (5.9/10)
Nino Ciglio
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Ghostpoet - Some Say I So I Say Light (Play It Again Sam, Maggio 2013) Genere: Hip Hop Torniamo a parlare di Obaro Ejimiwe, elegante artista inglese con il pallino dal rap e la voglia di distaccarsi dai limiti che esso comporta. Se questa velleità era embrionale nel primo lavoro di lunga durata (preceduto da un EP che era decisamente più canonico nei confronti dell’hip hop), nel secondo LP, con il moniker Ghostpoet, viene esplicitata ufficialmente. Ben distante dall’essere un innovatore (un Buck 65, per fare un esempio, aveva già cavalcato ritmi simili con simili obbiettivi e risultati migliori, seppure in una direzione diversa), Ghostpoet si dimostra ancora piuttosto saggio (o forse furbo) nell’unire seriosità ed eleganza del personaggio (chi lo ha visto dal vivo sa di cosa sto parlando) a ritmi meditatamente distorti ma non troppo, generando una ricetta che si presenta sicuramente sofisticata, ma anche fumosa tanto in termini di atmosfera soporifera (Dial Tones) quanto di inconsistenza del tutto. Le cose cambiano di poco quando si abbandona il mood più plumbeo e si toccano punte di improvvisa solarità acustica, come nel caso di Plastic Bag Brain (che annovera ospiti illustri come Tony Allen alla batteria e Dave Okumu alla chitarra), dove, a seguito di un momentaneo entusiasmo per gli sprazzi di eroismo dimostrati nella scelta di un’atmosfera insolita per i suoi standard, ci si annoia ben presto nel sentire cadenze parecchio uniformi. Il disco, evitando di incappare nella trappola del track by track, viaggia sempre su tentativi di sofisticare il più possibile in fase di produzione canzoni piuttosto ripetitive, alternando grigi paesaggi londinesi ad aperture verso atmosfere meno urbane, come nel caso in cui intervengono gli strumenti a dare una diversa anima ai brani, senza tuttavia mai convincere del tutto. Siamo in presenza di un disco senza lati positivi?
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significa levati, scansati, ed è anche il nome del quartetto lombardo fondato da chi già si era fatto conoscere come promotore di una Jestrai Records da sempre attenta alle derive avant del rock nostrano. Anche senza scomodare l’avant, è inutile negare che l’opera in questione, dal titolo quanto mai ambiguo (Mont Cc 9.0 First Act), possa essere inserita sotto l’etichetta “post”. Post rock, post kraut, post industrializzata, post chi più ne ha più ne metta. Mont Cc 9.0 è solo il primo capitolo di una trilogia che si concluderà nella primavera 2014 e calcola cinque brani dalla lunghezza variabile. Cinque brani camaleontici, debitori verso un sound cupo e ossessivo fatto di rapide incursioni di synth, ma soprattutto di muri toracici di note basse. La materia grezza è l’ipnosi catalizzante del prog (Goblin, Gong, Magma), ma ad essa si aggiungono visioni disperate, trip asfissianti, rituali sonici in cui il noise rock di Fugazi e Swans si fonde nei ritmi lussureggianti di hammond o strumenti a fiato. La voce femminile è il fiore all’occhiello di questo equilibratissimo lavoro di sutura. In brani-suite come Catherine Deneuve (9 minuti e 20 secondi), l’apparente disordine del crescendo è la rampa di lancio per una sortita psichedelica di tutto rispetto, mentre Broken T-Shirt, suonata col fiato spezzato e la gola secca, quasi chiama in causa i Kyuss della Desert Valley. C’è spazio anche per la melodia - violentemente rifiutata lungo il disco - in Sbando alle macerie, che con soli tre accordi costruisce un’impalcatura che quasi fa venire nostalgia degli Spiritualized. Un ultimo brano (o forse sarebbe meglio dire un ultimo grido) in trenta secondi di punk (Sintesi) e la ricetta perfetta dell’anti-hype è servita. (7/10)
Genere: tribal madness Comincia col pezzo più lungo dell’album, il rientro in pista dei Foot Village. Così, tanto per stabilire da subito quale sia il grado di iconoclasta follia che accompagna il progetto newyorchese che abbiamo imparato ad apprezzare ai tempi del trip tribale che chiamammo arbitrariamente New Tribal America. Dopotutto, una trilogia su una città immaginaria nella sua nascita, ascesa e declino, la diceva lunga sulle potenzialità destabilizzanti del quartetto losangelino: per immaginario e filosofia oltre che per resa sonora. Dell’impatto di quest’ultima abbiamo già parlato e gli orizzonti, almeno quelli, non sono cambiati: solo tamburi e voci per un hardcore acustico folle e senza compromessi. Ora la città è distrutta, la trilogia completata ma la furia intatta, specie se si concepisce Make Memories come un monito e una speranza per non commettere di nuovo gli stessi errori. La citata apertura affidata a 16000 Dollar Bill è illuminante in questo senso: raggruma dodici minuti di tribal madness as usual, impreziosita dalle svisate di synth di Matthew Loveridge dei Beak> che rendono però la furibonda e selvaggia orgia sonica dei quattro qualcosa di liquido e diluito, disperato e post-apocalittico, teso e vibrante. Il resto viaggia sempre sui soliti, eccelsi livelli: c’è del punk, ma come attitudine; c’è del noise, come punto cardinale; c’è dello sberleffo e dell’insanità mentale, ma come dissacratorio elemento. Ma in Make Memories c’è anche tanta lucidità d’intenti, tanta selvaggia programmaticità, tanti singalong irresistibili, tante aggressioni che trasformano il giocoso in sabba o la minaccia in festosa orgia. Fanta-politica, what if..? fatto musica, ucroniche visioni di mondi possibili: l’immaginario di Citizen Kinsman, Citizen Lee, Citizen Taylor-Fantastic e Citizen Rowan è complesso, denso e richiede molta attenzione. Credere di poter accedervi in virtù di una soltanto apparente semplicità strumentale andatevi ad ascoltare le intricate tessiture, gli incastri percussivi o le linee vocali (parlate, cantate, urlate) con cui il quartetto imbastisce di contenuti i propri lavori - è l’errore più grosso che si possa commettere. C’è dello spessore in questa mezzora di musica, così come nell’intero progetto Foot Village: concept esso stesso sin dalle fondamenta, in un mondo che fa della reductio ad unum la chiave per l’eternità. Non vi preoccupate se il tutto si conclude in apparente no future: The End Of The World è solo l’ennesimo nuovo inizio. (7.5/10) Stefano Pifferi
Ovviamente no, ogni singola canzone può affascinare l’ascoltatore (anche se Meltdown riesce a essere parecchio anonima), la produzione è decisamente buona e la musica fa il suo dovere. Il punto debole, è probabilmente quel parlare
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lamentoso che se all’inizio stupisce per il suo essere né rap né cantato, sulla distanza finisce per essere un po’ stancante. Pur avendo abbandonato ogni pretesa di aderenza all’hip hop, l’album non riesce a centrare il bersaglio di chi cerca
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Foot Village - Make Memories (Northern Spy Records, Aprile 2013)
emozioni immediate né quello di chi vuole un disco con costruzioni complesse su cui interrogarsi per ore dopo l’ascolto, rientrando nel calderone delle opere fin troppo narcisiste. (5.8/10) Sebastian Procaccini
Genere: rock Credevamo di averli persi nell’immenso buco nero dei gruppi alternativi che si affacciano sulla scena per poi ritornare nell’oblio, ma ci sbagliavamo: i Grenouille, dopo due anni di “smottamenti interni” (tra cui un cambio di formazione e il non facile distacco dall’etichetta ViaAudio Records in direzione di un’autoproduzione ribattezzata Milano Sta Bruciando), tornano a calcare i palchi italiani con le loro parabole di strada in chiave alt-rock. Definiti dalla critica, sin dall’esordio nel 2008, come uno dei pochi gruppi degni di portare verso la modernità il baluardo della scena rock italiana anni ‘90, i Grenouille - prima quartetto, ora power-trio - hanno suonato al fianco di nomi ben noti quali Tre Allegri Ragazzi Morti, Marta Sui Tubi, Ministri. Un passato “grungettone” a fare casino nelle sale prove milanesi e a passarsi dischi di Nirvana, Afterhours, Pearl Jam, Guns’n’Roses, Stone Temple Pilots e Alice in Chains, tutte influenze più o meno riconoscibili nei primi due album. Un futuro, a quanto pare, ancora da definire. Il mondo libero, già esteticamente, non può passare inosservato: titolo dal messaggio incontestabile che, non troppo forzatamente, richiama lavori precedenti di colleghi musici quali Il Teatro Degli Orrori (Il mondo nuovo) e Tre Allegri Ragazzi Morti (l’indimenticabile Il mondo prima). Copertina con l’illustrazione di quel genio della propaganda dell’antipropaganda (passatemi il gioco di parole) che è Shepard Fairey, che ci riporta ad
Alessia Zinnari
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Grenouille - Il mondo libero (MSB Records, Novembre 2012)
atmosfere postmoderne e all’elogio della rivolta popolare. Ci aspetteremmo quindi un lavoro impegnato, rabbioso, con distorsioni ansiogene e la gradevole propensione al grunge che già li aveva contraddistinti. E invece no. Senza considerare la prima traccia DSM, l’unica “fedele alla linea” degli album previi, che con le sue chitarre incazzate ci riporta ai Melvins di Stoner Witch, il resto dell’album ci sorprende (purtroppo in negativo) per la svolta pseudo-matura in favore di certe melodie fin troppo pop, che richiamano i nuovi Afterhours (vedi E’ il nostro destino) come i vecchi Verdena (Sulla linea di confine). Le tematiche dei testi sono ancora una volta all’insegna dell’attualità (leggi diversamente: banalità), con forse sullo sfondo il tentativo, non abbastanza curato, di realizzare un concept-album dai contenuti scomodi. Piacevole la rivisitazione di Poveri cantautori di Jannacci, che diventa Poveri suonatori: scanzonata, a quanto pare autoreferenziale, sicuramente provocatoria (“poveri suonatori, che si metton le giacche di Napoleone”: come non pensare ai concittadini Ministri?). Efficace l’incipit di Il Porno è la democrazia, già presente nell’EP In Italia non si può fare la rivoluzione, che si ricollega al gusto per il postmoderno di cui sopra, facendoci ascoltare un estratto dal film 1984 (versione cinematografica della bibbia delle distopie scritta, come è noto ai più, da G.Orwell). Ed è proprio quando il disco sta per concludersi lasciandoci con l’amara consapevolezza di essere di fronte a tanta buona volontà ma poca sostanza, che l’ultimo brano, La fine del mondo (registrazione musicata di una struggente conversazione telefonica tra una donna libica e un giornalista italiano durante i giorni della cattura di Gheddafi), ci risveglia dal torpore come una secchiata d’acqua fredda. Peccato, però, che si tratti solo del pezzo di chiusura. (5.5/10)
Genere: inner- folk Se è vero che il terzo lavoro è la prova del nove per ogni musicista, l’inglese Nancy Elizabeth può dormire sonni tranquilli: Dancing non è solo l’apice di una discografia in crescendo - tra il Battle And Victory del 2007 e il Wrought Iron del 2009 ci aveva colpiti soprattutto il secondo -, ma anche uno dei dischi folk (o “inner-new-folk”, se ci passate il neologismo) più sorprendenti degli ultimi mesi. Per i due episodi precedenti citare tra le influenze Pentangle, Fairport Convention, Vashti Bunyan o magari Joanna Newson veniva quasi naturale, visto un cantato impalpabile, duttile e fortemente connesso con la tradizione folk inglese dei Settanta; in Dancing non basta più, davanti a un monolite aggrovigliato e intensissimo di melodie senza tempo, arrangiamenti fluttuanti, stratificazioni avvolgenti. Tanto che per spiegare una tale profondità isolazionista viene quasi naturale aggrapparsi a certe dichiarazioni della diretta interessata, scartabellando tra un «mi piace la solitudine quando scrivo; le influenze esterne e avere rapporti con gli altri esseri umani disturbano la mia creatività», un «non posso permettermi di uscire dalla città ma con la musica riesco ad avere libero accesso a un mondo infinito di suoni e di idee» o un «fare musica è la mia difesa contro il caos uditivo». Una prova che la misantropia, presa a piccole dosi, giova eccome. Nella pratica tutto si traduce in un’immersione a profondità sconsiderate come quelle che il drone tellurico e il pulsare elettronico di Debt accarezzano entrando in loop con la spazialità suggerita dal vibrare dei piatti della batteria, o magari in risalite celestiali di stampo medievale esemplificate da brani come Indelible Day. In mezzo riferimenti al binomio P.J. Harvey/Josephine Foster (The Last Battle), onirismi sconfinati ritagliati su un beat sintetico (Heart), ballate malinconiche al piano (Death In A Sunny Room, Desire), raga orientaleggianti (Shimmering Song), presenze lontanissime (Early Sleep), ambient sui generis (All Mouth). Se da un lato è la voce a condurre il gioco sull’onda di un virtuosismo sempre funzionale, dall’altro sono i testi a completare il quadro generale: riflessioni solipsistiche in prima persona («There’s no-one I can pin my hopes on, no-one underneath this sun who I expect to give me love» si canta in Desire), crepuscolari e perfettamente calate nel mood della musica. Fatta eccezione per l’elettronica e per qualche synth, gli apporti strumentali di Dancing rientrano a pieno titolo nella tradizione di genere: pianoforte, arpa, chitarra acustica, scampanellii. Eppure è come se la Elizabeth rileggesse il catalogo cambiando prospettiva, come se il folk tradizionale fosse visto con gli occhi del musicista contemporaneo e non con quelli di una trentenne di Wigan cresciuta a Pentangle e Talk Talk. Il risultato è quantomeno sorprendente. (7.4/10) Fabrizio Zampighi
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Nancy Elizabeth - Dancing (Leaf, Maggio 2013)
Genere: pop rock wave Gli Hank dopo l’EP Piedali del 2010, con cui si sono fatti conoscere, hanno accompagnato come band Nicolò Carnesi nel corso del tour di Gli eroi non escono il sabato (2012, Malintenti Dischi), registrando intanto il nuovo disco tra il 2011 e il 2012. Atti pubblici in luoghi osceni fin dal titolo rivela la vena ironica e graffiante del gruppo palermitano, caratterizzata da testi pungenti e surreali che svelano il lato oscuro di una realtà personale e sociale ingabbiata in vuoti formalismi e schemi opprimenti. D’altra parte il nome scelto, chiaro omaggio a Bukowski, non lascia dubbi in merito alle loro scelte stilistiche. La forma musicale rimale la medesima dell’EP, un fresco pop rock wave ispirato alla new wave e al cantautorato indie italiano che si fa più maturo e compatto e nel quale è riconoscibile la loro cifra, ormai abbastanza consolidata. Che si fa tribale in Ministro, pop nostalgico dalle atmosfere hawaiane in Aloha e Fase Rem, irresistibile punk rock nelle più ritmate Vivo male e Salvador, pop nella title track e ne La realtà, fino alle suggestioni elettro di una Molto triste, poco pop che vede la partecipazione alla voce di Nicolò Carnesi. In sostanza un’ottima riconferma dello stato di salute di una band relativamente giovane (nasce a fine 2008) che fa ben sperare per il futuro. Bravi. (7.1/10) Teresa Greco
Iggy And The Stooges - Ready To Die (Fat Possum, Aprile 2013) Genere: Rock Il rock’n’roll sembra soffrire di una forma virulenta di dinosaurite acuta. Il fenomeno, se ci pensate, è inedito. Il rock è infatti una forma espressiva ancora giovane che per la prima volta si trova alle prese con l’estrema maturità - eufemismo
per vecchiaia - della leva di artisti che lo hanno reso grande. I quali ultimamente si stanno dando parecchio da fare. Occorre aggiungere che questi frutti tardivi sembrano più buoni e genuini di quelli mediani, ovvero di quei manufatti che - a cavallo tra 80s e 90s - inseguivano l’attualità correndo da fermo sul piedistallo di una mitologia catodicamente imbalsamata. Seppure con diversi gradi di coinvolgimento, non si salvò praticamente nessuno: Dylan, McCartney, Lou Reed, Neil Young, Bowie... Ebbene sì, persino Iggy Pop ha pagato pegno. Venendo all’oggi tuttavia, e considerata la dispersione del concetto di “attualità” come conseguenza della simultaneità/accessibilità dello scibile rock, ecco che i vetusti pionieri del rock tornano a sentirsi liberi di recuperare la propria calligrafia senza altri condizionamenti se non quelli dell’estro residuo. Insomma, fanno la loro cosa senza menarsela troppo, o almeno se la menano sì ma con baldanzosa e talora sprezzante disinvoltura. Conpiù sostanza e meno pose, o comunque pose sì ma sostanziose, in ogni caso corroborate dalle sostanziose ferite del tempo. Insomma. Avete presente il gioco di specchi infranti dell’ultimo Duca Bianco? Quella sua strana, indefinibile genuinità? Ecco, a quello mi riferisco. E, a proposito di compagni di merende berlinesi, ecco tornare sulla scena l’icona iguanesca coi suoi Stooges, sei anni dopo il tutto sommato apprezzabile The Weirdness (ma ad esser precisi questo Ready To Die è il primo lavoro targato Iggy & The Stooges dai tempi di Raw Power) e a quattro dalla morte del membro fondatore Ron Asheton, rimpiazzato peraltro dal redivivo James Williamson. Risultato: l’ultrasessuagenario James Newell Osterberg toglie dalla naftalina il piglio stradaiolo e sculetta con la ben nota grazia animalesca tra glam tignosi (Dirty Deal, Gun), gonzismo sardonico (Sex Money, DD’s) e tensione macinata grossa (Burn, la title track). Mike Watt al basso e Scott Asheton ai tamburi pestano con zelo mentre
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HANK! - Atti pubblici in luoghi osceni (800A, Maggio 2013)
Genere: Dark Techno Nato nel 2002, il collettivo ma anche etichetta Sandwell District chiude i lavori nel 2012, segnando alcuni punti di svolta all’interno di un decennio che ha assistito a molte e determinanti alterazioni delle grammatiche techno e dance in senso esteso. Dietro il suddetto moniker si celavano le personalità di Regis, Function e Silent Servant (nel mix per il Fabric sono coinvolti solo i primi due, con Function a dirigere i lavori e Regis a curarne alcuni dettagli), insieme e separatamente figure cardine di un fondamentale processo di ridefinizione delle coordinate dancefloor contemporanee. Tale processo è, di fatto, avvenuto in molti modi se, ad esempio, se ne considera l’attuale grado di contaminazione con generi concettualmente e storicamente non sempre convergenti (il post-punk, il noise, l’industrial, l’elettronica delle origini, l’ambient), che rientrano oggi a pieno titolo tra le increspature di un ecosistema tuttora in movimento per ragioni di consumo quanto per esigenze di fruizione. Il mix per il Fabric si presenta programmatico sia nella selezione dei brani, sia nello sviluppo del percorso emotivo illustrato dalla narrazione e dalla semantica dei nostri. L’apertura è affidata a una dichiarazione d’intenti e d’identità: si succedono rapidamente brani del trittico di SD, per poi continuare ad accumulare campioni l’uno sull’altro, senza esposizione ritmica alcuna - almeno inizialmente -, in favore di una lettura astratta della pista da ballo stessa. A Silent Servant, Function e Regis seguono altri nomi imponenti (alcuni dei quali considerati a buon diritto allievi, vedi Raime, Vatican Shadow e, più oltre, Untold - o anche dei maestri - Ike Yard con la remixata Loss) in una successione frenetica quanto anomala - e per questo di nuovo significativa - di cupe riflessioni ambient e noise, di oscure accenti metrici inequivocabilmente dance, di atmosfere notturne quanto drammatiche. Il cammino risponde a un preciso piano politico e linguistico, dove a un crescendo di sublimazioni rumoristicoelettroniche segue l’articolazione di una pressione perforante di casse potentissime in quarti. Il tutto fino agli spunti più interessanti e non sempre prevedibili di concentrazione pneumatica dettati dagli assalti ritmici del già citato Untold con Motion The Dance, come anche di Carl Craig (con Darkness), Rrose o Surgeon. Con questo volume, omaggio sentito a uno dei laboratori centrali di sonorità non maggioritarie - dalla declinazione bass tipicamente inglese dell’elettronica da ballo al marginalismo dell’underground di frontiera (il Fabric appunto) -, SD consegna, in qualità di probabile ultima destinazione editoriale e, quindi, di commiato, quello che può apparire come un manuale d’eccellenza techno. Se non addirittura musica concepita come un’esibizione live, attenta alle pulsioni quanto alla suggestione e alla tensione emotiva di quello che, non più spettatore, dovrebbe iniziare a ritenersi attore di una profonda esperienza collettiva. (7.5/10) Michele Ferretti
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Sandwell District - Fabriclive 69 (Fabric, Marzo 2013)
Mackay fa starnazzare il sax con impudenza urticante di livello iconografico: tutto gira rombando e sputazzando nevrosi sbruffone e mestiere non a gratis. Si aggiunga al menu l’impegno ingrugnito di Job e soprattutto le frequenze malinconiche delle due ballad (Unfriendly World e The Departed), tanto per pagare il giusto pegno all’anagrafe e allo spirito, ed ecco servito il fiero pasto. Non sarà bistecca, ma non è neppure un brodino. (7/10) Stefano Solventi
Genere: noise-hardcore Testi antagonisti e rabbiosi su un noise-hardcore vicino soprattutto agli At The Drive In, teso e in qualche maniera parente dell’immaginario suggerito da dischi come Dell’impero delle tenebre. E’ un fatto innegabile che un certo tipo di suono/ modus espressivo, rimodellato in italiano da Il teatro degli Orrori, abbia aperto scenari, un po’ come successe ai tempi di Hai Paura del buio? con gli Afterhours. Tra i papabili sviluppatori della “formula Capovilla”, oltre ai qui presenti Il buio, vengono in mente gli ultimi The Death Of Anna Karina o i Fine Before You Came, tutti con una propria personalità e tutti a ridefinire i confini di un sentire, comunque, ormai istituzionalizzato. Nel caso di Alberto Zordan, Andrea Grigolato, Francesco Cattelan, Mattia Bardin e Nicola Cioffi (appunto, Il buio) il concept è “l’oceano quieto”, ovvero «un panorama apparentemente piatto da scrutare, un puzzle da comporre, un processo di pensieri da ricostruire»: fuor di metafora, la realtà e il modo in cui la si legge. Una buona scusa per unire al noise-hardcore Nineties di cui si diceva (caratterizzato da una forte impronta punk) testi che veicolano un malessere diffuso, in accordo con le chitarre taglienti e i feedback debordanti. L’esperimento ha della sostanza ma fa nascere anche qualche punto interrogativo: se l’impianto
Fabrizio Zampighi
Il Fratello - Il Fratello (I Dischi Del Minollo, Maggio 2013) Genere: cantautorato Dopo le esperienze con Albanopower e Matildamay, Andrea Romano arriva alla prova solista con Il fratello, disco d’esordio che deve il nome all’omonimo collettivo da lui fondato. Nonostante la dicitura di collettivo - applicata in funzione di un progetto che vede la partecipazione di molti amici e colleghi, tra cui il compagno di band Lorenzo Urciullo/Colapesce - la formula che il musicista siracusano propone é quella di un cantautorato tradizionale e ampiamente collaudato, che affonda le radici nella lezione impartita da Battisti ormai quasi cinquanta anni fa e declinata negli anni Zero dai vari Dente, Brunori, Le luci della centrale elettrica. Insomma, un percorso già largamente esplorato da cui l’autore siciliano riesce tuttavia a staccarsi per arrivare a un approccio maggiormente bluesy, più a livello di songwriting che non di sonorità. Se l’opening track Il rumore che fa la luna si inserisce appieno nel filone più convenzionale, le successive Vai via e Cos’ha che il mio mondo non ha - con la rispettiva partecipazione di Cesare Basile e di Colapesce - seguono il paradigma di una canzone d’autore meditativa e umbratile, debitrice tanto al lirismo scarno ed essenziale del
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Il Buio - L’oceano quieto (Autunno Dischi, Marzo 2013)
musicale sta in piedi con dignità e convinzione (il mastering è di Carl Saff, già al lavoro con Dinosaur Jr, Guided By Voices e molti altri), i testi perdono un po’ di lucidità sulla lunga distanza, scemando in una vena critica media in cui nulla spicca davvero. Ennesima dimostrazione che quel che Capovilla faceva nel disco citato in apertura era ben più che allegare parole alla musica: semmai la costruzione di uno stile espressivo capace di dare la giusta profondità ai significati e per nulla semplice da riposizionare. (6.5/10)
primo, quanto alla volontà di fotografare la quotidianità del secondo attraverso brevi istantanee acustiche (Il giudizio universale, È vero che è per te) ed episodi di raffinato pop-rock (Per chi ne avrà, Tra i lacrimogeni). A unire il tutto c’è una scrittura che procede sicura tra le inquietudini del cantautorato classico - Piero Ciampi e Luigi Tenco in primis - e un mood malinconico/intimista capace anche di atmosfere sghembe à la Tom Waits, come nella conclusiva Far Away. (6.7/10) Giulia Antelli
Genere: electro-indie Gli Is Tropical in breve tempo sono diventati delle macchiette: dall’album d’esordio Native To (2011) ad oggi i loro affollati live (e le frequenti apparizioni italiane) sono stati appuntamenti imprescindibili per alcuni e ottime occasioni di derisione per altri. La band londinese ci ha messo del proprio nel goffo tentativo di unire l’integralismo indie e le “ignoranze” da sabato sera, un connubio che poteva avere un senso nel periodo Klaxons (quando il divertimento veniva accompagnato anche dalla sensazione di far parte di una nuova pseudo-scena), un po’ meno in questi anni dieci. Dalla loro parte hanno un brand, quello della Kitsunè (che li ha visti crescere e che li rappresenta pienamente), una schiera di fan entusiasti e le capacità di realizzare almeno un riempipista a stagione. Con il secondo album intitolato I’m Leaving l’obiettivo è quello di riuscire a smarcarsi dalla figura di meri intrattenitori, ampliando le prospettive musicali attraverso una ricerca più ragionata e meno istintiva. Un cambiamento rintracciabile più nelle intenzioni che nel risultato finale, ma è risaputo: squadra che vince difficilmente si cambia. Ecco quindi che
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Riccardo Zagaglia
Josh Ritter - The Beast In Its Tracks (Yep Rock, Marzo 2013) Genere: Folk Tra queste tracce non ci sarà il sangue del celebre capolavoro dylaniano cui il titolo allude, ma appunto un mostro gentile e amareggiato lasciato in eredità da un sofferto divorzio. Rispetto al
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Is Tropical - I’m Leaving (Kitsuné Music, Maggio 2013)
ritroviamo Megaforce - colui che contribuì non poco all’ascesa della band grazie al video di The Greeks - a dirigere nuovamente un vieoclip attirabuzz (Dancing Anymore), i ritmi da indie club e la consueta suite di melodie tanto di facile presa quanto ripetute fino allo sfinimento. L’energico uno-due iniziale garantisce minuti spensierati pur mostrando i noti limiti del trio inglese: Lover’s Cave funziona nel suo unire chitarre e synth, così come il retrogusto ‘80s a due voci quelle di Gary e della sua attuale musa - della già citata Dancing Anymore, ma manca la zampata decisiva, il valore aggiunto... l’elemento in grado di elevare il livello delle tracce da oneste pop songs a possibili classici del genere. Quando invece la band si allontana dai territori uptempo rischia di fare danni. Si prendano ad esempio le venature malinconiche di Lilith e Video, due brani inconsistenti che non lasciano assolutamente nulla. Un freno a mano tirato presente in troppe occasioni, tanto che anche gli episodi solari soffrono di una lampante carenza di verve. In particolare, la surf-oriented Toulouse e l’insalvabile coppia All Night e Sun Sun, due passaggi scialbi nonostante la presenza di Ellie Fletcher dei Crystal Fighters. Gli Is Tropical rimangono discreti compositori nei passaggi in cui curano maggiormente i dettagli ritmico-sonori (Leave The Party, che comunque finisce la benzina quasi subito) e discreti aizzatori di folle quando aumentano i giri (come nel Klaxons meets Pete Doherty di Cry). (5.2/10)
Stefano Solventi
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Junip - Junip (City Slang, Aprile 2013) Genere: indie folk Abbiamo imparato a conoscerlo e ad amarlo, José Gonzàlez. Troubadour della folk-tronica, svedese di nascita e argentino di origini, si distingue per la dolcezza aspra della sua voce e della sua poetica, e per il gusto impeccabile con cui ha saputo vestire canzoni proprie o pescate con oculatezza dai repertori altrui (le scelte più sorprendenti sono state Heartbeat dei Knife, Teardrop dei Massive Attack - di cui ha realizzato una versione più edgy rispetto alla rilettura acustica di Newton Faulkner - e una meno nota, totalmente trasformata, Smalltown Boy dei Bronski Beat). Gonzàlez non è uno che si adagia sugli allori e non si propone come il Donovan o il Nick Drake del nuovo millennio; ha compiuto scelte insolite e coraggiose, una su tutte la ricostituzione (dopo una carriera solista lanciatissima) dei Junip, con i quali oggi si impegna a tempo pieno. Se Fields, il primo album del trio, aveva convinto dopo ripetuti ascolti (e la pazienza è stata ampiamente ripagata) senza però dare l’idea di un vero sforzo di gruppo, il sophomore omonimo ci consegna tre musicisti (con José ci sono Elias Araya alle percussioni e Tobias Winterkorn alle tastiere, al Moog e all’organo, mai così presente e protagonista come in questa prova) capaci di contribuire equamente alla creazione di certosini soundscape che rafforzano melodie appena accennate e che ci trascinano tra contaminazioni jazzate modello ultimi Talk Talk, atmosfere bucoliche ed episodi in cui l’elettronica conquista il centro della scena (viene voglia di ballare al suono di Your Life Your Call, frutto di un incontro mai avvenuto tra gli Hot Chip e gli Air di Moon Safari). Canzoni come il bozzetto Villain, Head First (con una melodia che squarcia un velo di rumore bianco) e Beginnings sembrano partorite durante le jam session in sala prove e lasciate così come sono, laddove invece Line Of Fire gioca con
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carosello vigoroso delle ultime due prove - che coincideva guarda caso con la serenità affettiva culminata col matrimonio - c’è meno impeto, meno voglia di svariare e osare, però più attenzione per le sfumature e per le vibrazioni di mezzo, quelle in cui galleggiano gran parte delle trepidazioni quotidiane. E’ come un ritorno a casa coi bagagli pieni di nuovi dolori e nuove strategie di accettazione, da affrontare col lenitivo della dolcezza o comunque di una combattività pacificata, vedi il caso della piuttosto prevedibile ma toccante Joy To You Baby (riffettino adesivo e blandi accessori alt-country) o il malanimo strascicato di Evil Eye. Ritter, giunto al settimo album in tre lustri, conosce il segreto semplice del folk-pop che non si svende malgrado tenti di azzeccare il massimo della comunicatività, con le carezze nei pugni ed il cuore aperto alla confessione liberatoria. Non rinnega - anzi recupera - la propria natura, conducendo in porto siparietti folk marezzati rock con grinta morbida da Paul Simon col dente avvelenato (l’asprigna New Lover), sa modulare rabbia arguta e abbandono, malinconia inguaribile e garbata accettazione. Spalma patina cremosa Mojave 3 sulla mestizia agrodolce Dylan (A Certain Light) e sulla palpitazione tenue Elliott Smith (In Your Arms Again), rievoca echi esotici altezza Graceland e lo Sting delle tartarughe blu in Nightmares, si fa un giretto tra blandi miraggi psych (In Your Arms Awhile) per poi atterrare sulla milonga frusta e calda di Lights, come se il disarmo più maturo in certi casi rappresentasse il migliore approdo al termine di tutte le strade dissestate. E’ un disco da pacche consolatorie sulle spalle, che ricevi metaforicamente e che provi quasi l’impulso fisico di restituire. Piccoli miracoli che al folk-rock riescono ancora bene. (6.9/10)
Genere: rock C’è voluto l’uragano Sandy per costringere i National a riunirsi per concentrare le idee e produrre il loro album, immersi com’erano nei loro progetti paralleli disgiunti tra esibizioni estemporanee (un webcast con Bob Weir dei Grateful Dead), organizzazioni di festival come l’All Tomorrow Parties, brani donati a giochi, film e serie tv (rispettivamente Portal 2, WinWin e Game Of Thrones/BoardwalkEmpire) e l’attività di produttore del chitarrista Aaron Dressner capace di raffinare lavori come Tramp di Sharon Van Etten e il recente Hummingbird dei Local Natives. Ritrovarsi in un ritiro forzato nel mezzo della tempesta e in totale blackout per un paio di giorni ha probabilmente contribuito a ricreare quell’alchimia utile a perfezionare il materiale prodotto sin dall’autunno del 2011 e a dar vita al sesto LP (il secondo su 4AD dopo l’incorporazione della Beggars Banquet). Potremmo definire Trouble Will Find Me come “la più unita contraddizione tra parole e musica”. Mai come prima Matt Berninger aveva affrontato l’approccio ai testi con tale immediatezza e confidenza, accantonando i giri di parole e la retorica fatta di immagini visive per abbandonarsi ad una scrittura quasi da diario, a tratti stravagante (lo si nota fin dai titoli come Pink Rabbits e Don’t Swallow The Cap), esplicita sia quando parla d’amore (I Need My Girl) che quando si addentra nell’analisi introspettiva e personale (Demons). Di contrasto, a livello sonoro, questo disco risulta l’episodio più complesso e ricercato dei National, un’unione di estremi tra brani dalle incalzanti ritmiche di batteria - mai così veloci ed ipnotiche (Graceless) come ora - e parentesi in cui agire per sottrazione (Heavenfaced) annullando le diffuse orchestrazioni in favore di voce, batteria e synth - la vera innovazione del disco -, oltre alle drum machine delicate e quasi impercettibili in I Need My Girl (portate loro da Sufjan Stevens). L’artista del Michigan rappresenta una delle ospitate più influenti oltre a quella di Richard Lee Parry degli Arcade Fire che lascia il segno in Sea Of Love, un inno in puro stile No Cars Go; per le parti vocali gli interventi di St. Vincent, la citata Van Etten - già nel singolo Think You Can Wait del 2011 - e Nona Marie Invie dei Dark Dark Dark abbelliscono ulteriormente le pregevoli armonizzazioni maschili. Come collante rimane la voce baritonale di Berninger che - complice probabilmente l’aver smesso di fumare da due anni - non è mai stata così evocativa e cristallina, risultando ancor più pulita nelle note alte (I Should Live In Salt va oltre il precedente limite di Friend Of Mine, un suo tabù in versione live) e piena in quelle basse. Se Boxer rappresentava la conferma del potenziale espresso già con Alligator e High Violet è stato il tentativo (riuscito) di raggiungere un pubblico numeroso con brani più catchy, il rischio in cui Trouble Will Find Me poteva incorrere era di non avere più un’urgenza che ne giustificasse l’uscita. Per arginare questa deriva i cinque dell’Ohio optano per la scelta più difficile: accantonare ogni tipo di aspettativa dei fan cercando semplicemente di seguire l’istinto del processo creativo, introducendo nuove sperimentazioni senza stravolgere (e forzare) il caratteristico impianto. Il risultato non delude e porta il quintetto nella dimensione di chi può permettersi di fare musica in proprio senza ansie. In piena maturità artistica. (7.7/10) Andrea Forti
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The National - Trouble Will Find Me (4AD, Maggio 2013)
Alessandro Liccardo
Kastle - Kastle (Symbols Recordings, Aprile 2013) Genere: electronica Sono più di dieci anni che Barrett Richards - (s)conosciuto già come B. Rich - produce, remixa e realizza musica nell’ombra. La sua ultima creatura, chiamata Kastle, potrebbe però regalare all’ormai veterano dj/producer originario di Pittsburgh - e stanziato a San Francisco - una nuova ventata di visibilità. Anticipato negli ultimi mesi da tre EP (Time Traveler, So You e Stay Forever), l’omonimo album di debutto è una sorta di quadro semiotico della scena elettronica contemporanea. Un po’ come l’Hervè di The Art of Disappearing, anche Kastle - che è americano, ma ascolta sicuramente tanta UK music - ha deciso di imprimere su disco una vasta gamma di generi ed influenze, rischiando così di mettere in secondo piano le proprie caratteristiche stilistiche. Le quindici tracce di Kastle - che esce per la
Symbols Recordings da lui fondata - disegnano coordinate imprevedibili. Andiamo con ordine. Si tratta di un moto ondoso che trascina chopped up e pitch-shifted vocals e va a toccare territori PBR&B nei guest vocali di Austin Paul (Stay Close, Without You, Shouldn’t Stay) e nel timbro Timberlake+Weeknd di JMSN (Death From Above, Make You Stay), ritmi future garage sia in direzione house/Disclosure (Things We Can Do con Reva DeVito e Red Light con Ayar Marar) che in direzione bass music soulizzata (Been Awhile), fino a sfiorare l’area trap nei brani in cui non compaiono feat vocali (Into THe Night, Circles). All’apparenza un esercito implacabile, se non fosse che tra le sua fila manca probabilmente il classico pezzo da novanta. La dimensione LP non premia fino in fondo un lavoro che vive di accelerazioni e frenate ma che mette in luce l’abilità di Barrett Richards/Kastle nell’amalgamare situazioni musicali di varia natura. Per emergere definitivamente però dovrà partire dai concetti esposti in questo esordio, isolarne uno e approfondirlo fino a renderlo proprio. (6.1/10) Riccardo Zagaglia
Kill Your Boyfriend - Kill Your Boyfriend (Shyrec Records, Aprile 2013) Genere: post-punk C’era quel bel gruppo negli anni Ottanta, i Cocteau Twins, che nel capolavoro Treasure aveva dato un nome proprio di donna a ciascuna delle dieci tracce. Kill Your Boyfriend, al contrario, è l’elenco puntato di otto possibili fidanzati da massacrare, otto brani con un nome maschile che, se dai Cocteau Twins non prendono quasi niente, ricavano buona parte del loro sound dai capelli cotonati, le t-shirt più nere del nero e la matita sotto gli occhi dagli Ottanta orfani dei Sex Pistols. Post-punk si dice, noise pop si legge. A guardar
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sicurezza la carta delle emozioni, aiutandosi con il crescendo in una scena sonora che si satura un po’ per volta. Walking Lightly è la colonna sonora dell’ultima passeggiata invernale tra le sterpaglie, in attesa di lasciarci inebriare dal profumo dei primi fiori di marzo - quasi una versione folk e sorniona di Moving On Up dei Primal Scream. Eppure ci si poteva attendere di più. Manca la zampata, il colpo di coda, e così José Gonzàlez dimostra maggiori qualità come “stilista” che come compositore; alla lunga la ripetizione delle strutture melodiche e delle parole stanca, distrae, fa apparire il tutto più inconsistente di quanto dovrebbe essere. Junip è probabilmente un disco di transizione, che non getta sul serio il cuore oltre l’ostacolo ma, allo stesso tempo, fa intravedere tra le pieghe qualche timida novità che potrà portare in futuro a più entusiasmanti risultati. (6.1/10)
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ranei Wreathes e con alle spalle una discografia già corposa pur essendo nato nel 2007. L’antefatto più importante per la band è sicuramente il precedente Storm of Radiance, disco doppio ispirato dal lavoro del filosofo tedesco Ludwig Klages. Questo ci aiuta a capire in che territorio ci muoviamo, perché la musica dei Kinit Her ha molto più da spartire con la scuola folk europea che con quella americana dei vari Cult of Youth o King Dude. E’ il lirismo il filo conduttore che accompagna la storia di Troy Schafer e Nathaniel Ritter, una ricerca che si è dimostrata croce e delizia della loro carriera, in un alternarsi di episodi di grande coinvolgimento emotivo ed eccessi teatrali a volte superflui. Con il nuovo The Cavern Stanzas il problema viene spazzato via in sole due tracce di quindici minuti, Murex Indigo e Pacing the Hollow, sempre più direzionate in territori avant folk. È un viaggio, chiaramente, e che viaggio: un fondo ancestrale e intimista virato al nero, in cui si dispiegano con assoluta naturalezza strumentazioni acustiche, loop, tribalismi soffusi e voci dall’oltretomba. Ma quello che più conta è che The Cavern Stanzas gode di una costruzione lucida: parte da fascinazioni ambient in cui emergono temi folk ritualistici, reiterati all’infinito, ma sempre pronti a sciogliersi e rituffarsi di nuovo nel magma. Il mix riesce nel duplice compito di tenere l’ascoltatore a debita distanza ed emozionare quando se ne presenta l’occasione, sempre con tinte pagane e ancestrali. Un’ottima prova dunque, in cui compare anche un po’ d’Italia grazie l’artwork di Gianluca Martinucci. (7.4/10)
Nino Ciglio
Stefano Gaz
Kinit Her - The Cavern Stanzas (Reue Um Reue, Marzo 2013)
Kurt Vile - Wakin On A Pretty Daze (Matador, Aprile 2013)
Genere: ritual neofolk Arriva dal Wisconsin il duo Kinit Her, militante nella scena neofolk americana al pari dei conter-
Genere: singer-songwriter C’è qualcosa di indulgente e rassicurante nella voce di Kurt Vile, un tratto che ne caratterizza
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bene, la band, originaria di Treviso, ha all’attivo già un EP promettente, superato da questo primo full length nella supervisione autorevolissima e attenta di Nicola Manzan (Bologna Violenta). Gli elementi sono essenziali, spogli, schizofrenici: una cascata di feedback e rumoristica varia per quanto riguarda le architetture di chitarra; una batteria sprofondata negli abissi del delay e mescolata a percussioni tribali che sanno di opaco, afono, di Depeche Mode; stralci di hammond - la novità rispetto all’EP - a riverberare l’onirico verso uno spettro più ampio di suoni. Kill Your Boyfriend non è un disco, è un rituale. Un rituale propiziatorio, dal centro della terra, dove Joy Division, Jesus & Mary Chain, Velvet Underground, Suicide e Siouxsie Sioux si danno la mano. Come ogni rituale, Kill Your Boyfriend prevede una sorta di ripetitività che fa presto a trasformarsi in ossessione, paranoia, ansia, marcia funebre con cocktail servito. Non a caso Tetsuo, che con il suo procedere affannoso quasi fa venire in mente le acrobazie degli Einstürzende Neubauten (ben replicati subito dopo da William), è il paradigma perfetto per questo discorso; Chester, invece, è quello che i These New Puritans non sono riusciti a rifare dopo Beat Pyramid. Il resto va da sé. Un po’ di furbizia, certo, nel prendere spunto da nomi illustri (un caso simile era stato quello dei Buzz Aldrin), ma, parliamoci chiaro, bisogna anche sapere essere derivativi. Senza nulla togliere allo straordinario equilibrio stordente che scaturisce dalle note di quest’ottimo disco. (7/10)
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confessionali e pungenti: “Sometimes when I get in my zone, you’d think I was stoned / But I never as they say, touched the stuff. I might be adrift, but I’m still alert / Concentrate my hurt into a gold tone. In the night when all hibernates, I stay awake / Searching the deep, dark depths of my soul tone”. Un bel compendio di quello che Vile può e riesce ad essere, l’icona moderna di un crooning senza età. Se i dieci minuti di Goldtone non pesano affatto, allo stesso tempo è doveroso muovere l’unica critica che sorge evidente alla fine di Wakin’ On A Pretty Daze: la mancanza totale di concisione, per un disco altresì meritevole. (7.1/10) Luca Falzetti
Kvelertak - Meir (Roadrunner Records, Marzo 2013) Genere: metal Meir è il secondo album dei Kvelertak, sestetto norvegese che per questo lavoro si è fatto aiutare da nomi grossi del mondo metal sia in fase di produzione (dietro il mixer c’è Kurt Ballou dei Converge), sia nella realizzazione dell’artwork, affidata a John Baizley dei Baroness. Premesse allettanti dunque, che in linea di massima non vengono deluse. L’idea dei Kvelertak è quella di intrecciare partiture black metal (probabilmente in questo senso va anche intesa la scelta di rimanere fedeli all’idioma nazionale con testi solo in norvegese) e un certo hard rock anni ‘70 ben riassumibile in due parole, Thin e Lizzy. I sei ci danno dentro specie nella prima metà della scaletta, quando trovano un giusto equilibrio suonando pestati e rock senza tralasciare una certo dose di divertimento AC/DC. Poi, con lo scorrere dei brani, il canone hard rock prende il sopravvento e l’attenzione inizia a scemare. Non che sbaglino qualcosa, i Kvelertak, perché i riff ci sono e il cerchio quadra sempre; solo il gioco non varia e si perde in certa misura quel senso di attualità che persiste invece nelle pri-
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il crooning mite e del tutto improbabile. Eppure eccolo arrivato al quinto disco solista, il terzo su Matador Records, nel pieno della popolarità. Status acquisito e riconosciuto dopo l’ottimo Smoke Ring For My Halo del 2011, un disco in cui il musicista di Philadelphia presentava un songwriting sghembo, sfuggente e un sound dalle tinte tenui. Un’atmosfera vaga e obliqua che lo proteggeva e nascondeva, ma che allo stesso tempo ne esaltava le qualità da cantastorie bohémien. Con l’apporto di John Agnello in studio di registrazione (Sonic Youth, Andrew W.K., The Hold Steady, Dinosaur Jr.), le undici canzoni di Wakin’ On A Pretty Daze mantengono lo stesso tono confidenziale e beffardo delle precedenti, ma godono anche di una parte strumentale molto più espansa (sette, anche dieci minuti a canzone) che, oltre ai Novanta, strizza l’occhio all’americana e al rock da FM. Il cambiamento di rotta è minimo eppure evidente, pur in quella consolidata prospettiva da outsider che Vile sembra non voler abbandonare. Il lavoro si traduce in un doppio album di ben sessantanove minuti, in cui le tipiche cornici assemblate da Vile vengono allargate e sostenute da un suono complessivamente più lineare e nitido. Dietro la personalità dell’autore si intravede la figura di Neil Young (Pure Pain), il chitarrismo acido di Mark Knopfler di KV Crimes, la classicità senza tempo dei riff di Tom Petty, ma anche l’ombra di un Cobain finalmente in pace con se stesso (Never Run Away). Echi dei migliori Hold Steady, quelli di Boys And Girls In America, si percepiscono tra le pieghe di una produzione sicura e compatta, che infila sottobanco anche frammenti di elettronica (Was All Talk e Air Bud). È però negli episodi più intimi che Kurt Vile sembra sbocciare in tutta la sua familiarità rasserenante, una specie di culla calda e beatifica. Come il riff lento e gentile di A Girl Called Alex, ma soprattutto l’avvolgente e conclusiva Goldtone, in cui l’autore auto-semplifica la poetica con toni
me sei-sette tracce, trasformando così Meir in un’uscita irrinunciabile per i fan dell’hard 70s ma un po’ meno eccitante per tutte le altre tipologie di ascoltatori. (6.8/10) Stefano Gaz
Genere: power pop Attivi dal 2011 in territorio Lombardo, i Labradors sono un trio dalle sonorità pop, più power che indie, più mainstream che hipster. Dopo l’EP di rodaggio The Roger Corman Ep, arriva questo Growing Back, che porta nel titolo la chiave di lettura più valida. Crescere al contrario, decrescere, per chi si è evidentemente nutrito nei Nineties di trash-rock-music, presa in prestito da qualche college movie americano, in cui fra sbronze, confraternite e fantomatici esami di fine anno, c’è sempre qualche capellone che capovolge il tradizionale ballo di fine anno in una festa rock. Andava bene all’altezza di Smells Like Teen Spirit, un po’ meno ora. I dieci brani che compongono questo disco sono infatti non solo ripetitivi e asfissianti, ma anche leggeri come l’aria, durano nella tua testa meno della durata complessiva del brano. Non sempre questo è un difetto, ma non lo è quando alle spalle di una voce sopra le righe, non ci sono cascate di piatti o riff mastodontici. Se c’è dell’autoironia in questo power pop da emicrania, non la si coglie; se c’è la voglia di emulare band che hanno fatto fortuna su questo genere (Foo Fighters, Ash, ecc.), di certo non si concretizza. Si salva poco in un disco ben suonato, ma con poche idee. Si salva Teenage Sister che quasi fa ricordare i Vaccines del secondo disco; si salva Afraid/Happy dove Dave Grohl si troverebbe a proprio agio e una voce femminile come coro rende il tutto meno spigoloso. E si salva Can’t Go Back, in cui fra echi di Nada Surf, i Labradors
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Lava Lava Love - Au Printemps (The Prisoner Records, Marzo 2013) Genere: indie pop Non escludiamo che le premesse ci fossero tutte: i Lava Lava Love sono un gruppo che ha sempre avuto un discreto hype, che ha partecipato a varie iniziative (non ultima, quella dell’omaggio agli 883 di Rockit), che ha esordito qualche anno fa con un disco tutto sommato godibile in bilico fra il languido e lo spiritoso, molto più grezzo di quello che ora abbiamo fra le mani. La band di Verona, tuttavia, sembra voler insistere su una diramazione di binari morti: un indie-pop destinato più a un’ipotetica Mtv generation che a un pubblico veramente interessato alla novità. Se è vero, infatti, che Au Printemps porta con sé i germogli di una primavera tarda, questa primavera sembra quasi farsi metafora di una musica concepita per l’adolescenza, stagione primaverile per eccellenza in cui trionfano colori e odori ancora acerbi. Salvo l’apertura, affidata a una bizzarra (ma funzionale, con quell’assaggio di synth-pop alla Kylie Minogue che ti saresti aspettato per tutto il disco) Both, l’opera procede sprofondando sempre più, persa nella rapidità di brani (il più lungo è di 3:26) che, le poche volte che ti sfiorano, non riescono mai catturarti del tutto. Il background è quello del revival 50’s/80’s (ri)pescato, fra gli altri, da She & Him, Tennis, Camera Obscura: un’operazione che avremmo anche capito qualche anno fa, quando un po’ tutti si giocava a rifare i coffee bar del nord-ovest americano coi juke-box e la brillantina, ma che ora sembra (fortunatamente)
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Labradors - Growing Back (Il verso del cinghiale, Aprile 2013)
smentiscono quanto declamato nel titolo del disco, dichiarando che, volenti o nolenti, non si può veramente tornare indietro. Noi lo leggiamo come un auspicio per il futuro. (4/10)
Nino Ciglio
Letherette - Letherette (Ninja Tune, Aprile 2013) Genere: Downtempo All’incrocio dei pali tra l’elegante scazzo wonky di LA, certi tagli e beat à la Falty Dl e un solido background french touch (che fa sponda a una house in dialogo sereno con soul e funk) ci sta che Ninja Tune abbia trovato in questo duo di Wolverhampton una nuova (ennesima) ipotesi di rinnovamento downtempo. L’esordio lungo dei Letherette è un ottimo esempio in termini di solidità di una produzione che non si fa mancare nemmeno tocchi di patriottica IDM dalle parti di Boards Of Canada. Nessun gioco eccentrico à la Hudson Mohawke o massimalismo targato Rustie, come anche nessuna facile convergenza con i beat calati nella folktronica di Bibio - amico di lunga data dei due, specie di Richard Roberts, che ha prodotto e arrangiato le sue Puddled In The Morning (dall’esordio Fi) e Marram (dal successivo Hand Cranked) -, piuttosto un comune sentire per gli intarsi d’ambient brit e
ritmi instrumental HH. Una strada d’eleganza per il duo significa un approccio meno pimpante rispetto all’EP Featurette (valido lavoro che ha inaugurato la collaborazione con Ninja Tune nel 2012) a favore di un variegato viaggio sonico tra electro-funk dal tocco garage (l’ottima Restless con il feat di Natasha Kmeto), sincopi e frullatori 70s (I Always Want You Back), lentoni soulfull à la Bonobo (Gas Stations And Restaurants), distensioni house in zona Falty Dl (The One) e un buon trittico di pezzi di sponda french touch (l’house + 80s di Warstones, che assieme ad After Down e l’altro singolo D&T, forma il trittico parigino della tracklist). Piace l’idm lato dei Letherette firmato Andy Harber, specie quando è condito da ironiche progressioni ultra compresse e soul in elio per mano del sodale Roberts. Nessuna rivoluzione per l’esordio sulla lunga distanza della coppia d’amici d’infanzia di cui si rintracciano le prime produzioni all’altezza dei remix per Machinerum (Light Night Operation) e Bibio (Lovers’ Carvings) del 2009. Eppure un altro centro per Ninja Tune, dopo Hardcourage di Falty Dl e The North Borders di Bonobo. Come dire tradizione e rinnovamento in piena tradizione brit. Ascoltare la finale Say The Sun per credere. (7/10) Edoardo Bridda
Major Lazer - Free The Universe (Mad Decent, Aprile 2013) Genere: crossover La traiettoria tracciata da Diplo, partito come producer underground e arrivato allo status di celebrità dell’EDM su scala globale, può riassumersi in pochi punti essenziali, senza il rischio di dover enumerare la miriade di progetti in cui è stato coinvolto negli ultimi anni. Il primo, fatidico, è sicuramente l’incontro al Fabric con l’ormai ex ragazza M.I.A., nel 2004, dove la già lanciatissima
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fuori tempo massimo. Tanto più se i Lava Lava Love mescolano questa già rimescolata minestra con i 90’s più televisivi possibili: Green Day, Blink 182, Good Charlotte (ascoltare Don’t Try To Get In My Life per credere). Nei migliori dei casi, Au Printemps si fa disco autocritico sullo spirito adolescenziale: arriva a ricordare chi nei 90’s ha fatto di quello spirito motore portante di critica identitaria e sociale, come Eels (All The Children Want Their Milk, Annie Serena Malahus), R.E.M. (Right Time), Nirvana e così via. Si accennava prima ai binari morti. In realtà i binari sotto questo treno non sono ancora stati costruiti o, per lo meno, debbono sicuramente essere riparati, oliati e collaudati. Tutto è possibile: d’altronde, la cosa bella della primavera è che presto matura e diventa estate. (5.4/10)
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e Walshy Fire, un po’ per rimpiazzare Switch ma anche per dare la giusta spinta “world” al progetto. Ecco quindi che, parlando di “world”, spunta anche magicamente il nome di Ezra Koenig dei Vampire Weekend, che canta nella reggae-jam Jessica. Il pezzo, sfortunatamente, è pressoché dimenticabile, così come le collaborazioni con Peaches (la drum’n’bass rispolverata di Scare Me) e Shaggy, che potenzialmente avevano carte migliori da giocare. Il range di nomi chiamati a collaborare varia da personalità indipendenti (Danille Haim, Amber Coffman) fino a nomi grossi del music business quali Bruno Mars. Il cantante hawaiano è qui impegnato insieme a Tyga e Mystic nel numero più ridicolo (ma catchy!) dell’intero disco, Bubble Butt, una pezzo trap caramelloso nello stile di Salva ma anche Baauer. Free The Universe, nel suo casino monumentale, è poco più di un grosso minestrone di generi e stili differenti, tutti conditi da un profumo vagamente jamaicano (Wind Up con Elephan Man e Opal la più genuina) ma, anche se registrati nei locali Tuff Gong Studios, imbastarditi dalla voglia di Diplo di voler piacere a tutti i costi a un target relativamente molto giovane. Una mossa commerciale più che uno statement artistico, quindi, anche se una manciata di club bangers valide non mancano in collezione. Il contrasto tra il rocksteady morbido (e con un testo abbastanza politico) di Get Free e un pezzo totalmente spensierato e frenetico come Jah No Partial è solo l’emblema di un lavoro che lamenta sbalzi di qualità e coesione evidenti, viaggiando tra alti e bassi senza raggiungere la meta prevista dal suo ideatore. Oppure tutto il contrario, questo disco funzionerà perfettamente per Diplo, aumentando la sua già smisurata popolarità. Rimarrà il produttore del momento, ma Free The Universe è lungi dall’essere il suo apice. (5.5/10) Luca Falzetti
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artista dello Sri Lanka approcciava in console un DJ della Florida alle prese con i suoi primi singoli. Da li, l’incontro con l’altro produttore di M.I.A, Switch, la cui collaborazione fruttò, fra le altre, la fortunata Paper Planes. Poi in serie: nel 2009 debutta il progetto jamaican grass-roots con Switch, Major Lazer appunto, con quella Pon De Floor ripresa poi da Beyoncé l’anno dopo per il beat di Run The World (Girls), e il gioco era bello che fatto. Riassunto striminzito ma esplicativo che spiega, oltre al successo e la domanda sempre crescente per il Diplo produttore, anche le tante critiche di inautenticità affibbiategli e quella bollatura da ‘imperialista’ dell’EDM, più preoccupato a importare suoni da paesi lontani e rivenderli a peso d’oro alle pop-star occidentali che a costruirsi una solida credibilità artistica. E Diplo ha cavalcato l’onda, continuando a lanciare nuovi trend e creare crossover, come accadde con la transizione della trap music nell’elettronica da dancefloor da lui fomentata nel 2012 e qui affrontata di petto soltanto in un episodio. Così nel secondo disco, dopo la fuga di Switch per ‘differenze’ artistiche, il comando è in solitaria mentre a corte arrivano ben 29 ospiti. Innanzitutto, palpabilissima la transizione da produzione cutting-edge a un approccio più radiofriendly da heavy rotation, attento a non lasciare fuori tutto quello che va di moda adesso in casa Mad Decent. Poi, e qui si entra nel territorio caro a Diplo in questo momento, il tentativo di popolarizzazione del moombathon, cioè house beats + reggaeton, suoni che inevitabilmente invaderanno il mainstream e i dancefloor estivi con tracce come Jet Blue Jet, Watch Out For This (Bumaye) ma soprattutto Jah No Partial (feat con un altro produttore caldo del momento, Flux Pavillion), che incorpora anche elementi ravey e bass drops dalle parti del Rusko più esagerato. Diplo va a pescarsi due nuovi collaboratori in cabina di regia: Jillionaire (dal Trinidad & Tobago)
Genere: Deep house In tempi di barriere e confini abbattuti, fondere più generi tra loro rischia di diventare ormai l’ennesima scappatoia di tanti sprovveduti avventori volti ad accattivarsi maggiore audience andando a pescare qua e là brandelli di una musica sempre più ripiegata su se stessa. Eppure Mano Le Tough - Niall Mannion per gli amici - sembra davvero non correre questo pericolo. Lungi dal proporsi di ridefinirne quegli invalicabili confini, il suo lavoro mira semplicemente ad addolcirli, pronto a coglierti di sorpresa con un ibrido di dieci canzoni dance-pop che cavalca fiero l’onda del populismo, ma con classe, dimostrando come si possa intellettualizzare la dance senza risultare boriosi e scendendo a compromessi con lo spauracchio del pop. Non pago, si concede pure il diritto di filosofeggiare - con la sua voce, per la prima volta in rilievo - e, da impeccabile cantastorie, indulgere su quanto siamo vittime inconsapevoli di un’epoca in cui Cannibalize e “categorize” suonano come più di un semplice gioco di parole. Dopo diversi EP su etichette di prestigio, Internasjonal e Buzzin’ Fly in primis (per l’album di debutto), il matrimonio con la Permanent Vacation sembra allora pressoché combinato, come appaiono prevedibili i paragoni con il presunto mentore John Talabot. Rispetto agli esordi, c’è ancora quell’abilità nella creazione di un’eclettica tavolozza di suoni, ma qui l’artista è soprattutto interessato al profilo melodico ed emozionale e gli arrangiamenti ritmici sono più aperti. Con un inedito mix tra Arthur Russell, Kerrier District e un Matthew Dear posseduto da Bowie, Changing Days combina a testa bassa pop-elettronica sognante, pseudo-folk destrutturato e colorate suggestioni baleariche cosmic-disco, associate a un cantato contemplativo e intimista. Il tutto in un esorcistico calderone
di rimandi più o meno colti che, non rinnegando nulla, interviene a nobilitare tutto. Pur non dotato di particolari qualità canore, Mannion riesce a utilizzare la voce al pari di uno strumento e in maniera versatile, talvolta alterandola e modificandola (il vocoder bluesato di Please e quello più groove di A Thing From Above), talvolta nuda e cruda (l’orchestra patchwork di Everything You’ve Done Before, il kraut-rock neo-Padilliano di Primative People), ma sempre efficace e funzionale. Un forte senso di sviluppo narrativo spinge anche i brani strumentali: Nothing Good Gets Away e Moments Of Truth si dispiegano al contempo ambient e futuristiche, con synth che come spade laser ci confondono tra passato o futuro, mentre il calpestio lento della title track e dei suoi arpeggi piroetta, in coppia con tamburi offset, verso una foschia tropicale di sottofondo dagli echi Pional o Delorean, nel flusso di una calda boccata oceanica che con The Sea Inside chiude il lavoro. Gran parte del disco alterna così una successione di altipiani, muovendosi lungo le linee di una coerente logica interna che rimane sempre umilmente al servizio dell’ascoltatore. A volte Mannion si lascia un attimo sopraffare dalla bellezza seducente della sua musica, come nell’eccessiva suspence introduttiva dei droni di Dreaming Youth, Critical Mass docet. Ma sono meri dettagli. E mentre altrove il variegato buffet stilistico rende molti succubi di un vacuo sperimentalismo a vicolo cieco, qui trame e orditi differenti sono tessuti insieme in un variopinto arazzo che, nonostante le sfumature individuali, acquista un fascino particolare quando lo si assapora nell’interezza di un vero concept album. Un organico orizzonte sonoro a 360 gradi, tutto atmosfere e toni cinematografici, che non soffre la stratificazione di singole hit da superclassifica. Molto più del “momento mani in aria alle 05:00 in un club”, e molto meno di una “schmaltzy” serenata autoreferenziale. (7.4/10) Sarah Venturini
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Mano Le Tough - Changing Days (Permanent Vacation, Febbraio 2013)
Marco Parente - Suite Love EP (Woland, Marzo 2013)
Genere: Folk, blues Polistrumentista di formazione jazz, dopo aver militato come bassista nell’esperimento noise/ rock dei Bhava, Manuel Volpe approda all’esordio solista con Gloom Lies Beside Me As I Turn My Face Towards The Light: un album che, partendo dai languori mediterranei della terra d’origine - la Sicilia -, compone un ricercato mosaico di suoni che attinge tanto dal blues quanto dal cantautorato folk/acustico. Ma sono numerose le suggestioni che colorano il disco: già con il polveroso incedere dark dell’iniziale A Ruin, è chiaro come il progetto del musicista siciliano cerchi di distaccarsi dalla matrice cantautorale nostrana, non solo per quanto riguarda la scelta di cantare in inglese, ma anche per le influenze generali. Il songwriting di Volpe, infatti, strizza l’occhio alla languida indolenza di Waits e Cave e al fascino western della colonna sonora morriconiana, come mostrano gli echi da murder ballads di certe Lay To Rest e Dog’s Heart arricchite dalla presenza di fiati e archi. Un’attenzione per gli arrangiamenti che risulta evidente anche negli inserti zigani di The Woeful Harbour - esempio di un ricerca sonora sempre attenta alle radici - e che ritorna nella cantilena notturna di Penumbra o nel folclore più tradizionale di Porto Empedocle, richiamando la stessa versatilità e le stesse riflessioni in chiaroscuro di un altro siciliano, quel Carlo Barbagallo amico e ospite dell’album. Nel complesso il pregio maggiore del debutto di Manuel Volpe è l’abilità nel costruire un percorso perfettamente inserito nella tradizione, ma allo stesso tempo in grado di creare un immaginario a sé stante: una proposta convincente, che riesce a dimostrarsi evocativa e riconoscibile senza cadere nella trappola del prevedibile. (7.1/10)
Genere: canzone d’autore Quattordici minuti e trenta secondi: dura neanche un quarto d’ora la Suite Love di Marco Parente. Quattro brani che vanno a costituire una “staffetta emotiva” attorno alla tematica dell’amore composta “a seguito di un’accordatura sbagliata alla chitarra”. Tutto nella norma per un cantautore da sempre bravissimo a unire stimoli artistici “estemporanei” a uno stile musicale personale e riconoscibile. In Suite Love - prima puntata suonata tutta d’un fiato di una trilogia - si parte da un approccio intimista costruito sulla sei corde acustica, finendo per dar vita a un piccolo gesto rivoluzionario (un disco che, metaforicamente, canta del rispetto per il nostro essere esseri umani e del rimanere positivi anche quando tutto rema contro) in tempi caratterizzati da una tensione sociale e culturale devastante. “Quando l’odio chiama lascialo chiamare”, si canta nell’iniziale Sentimento Oggetto I, linkando quel “la mia rivoluzione a colpi di grazie” del fu Trasparente e confermando il concept del disco. Del resto “l’amore non è mai come sembra, perché l’amore come lo vorresti non esiste, quello passato nascosti sotto un letto sperando che ti venga a cercare, non esiste” (Sentimento oggetto II) e “se dico amore, io dico amore anche al non amore” (Sentimento oggetto IV). Nonostante le tematiche affrontate e la semplicità della confezione, non c’è retorica da figli dei fiori o da cattolicesimo versione messa domenicale in Suite Love, e tutto appare lineare senza suonare banale. La musica segue l’approccio diretto dei testi, cantautorato onirico e sospeso prodotto dal bravo Taketo Gohara (tra gli ultimi lavori, Odio i vivi di Edda) e cesellato da contrabbasso, banjo, vibrafono, xaphoon, fiati e archi suonati da Alessandro Stefana, Filippo Pedol, Sebastiano De Gennaro, Mauro Ottolini, Gianluca Carlone e dal Quartetto Edodea. (6.9/10)
Giulia Antelli
Fabrizio Zampighi
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Manuel Volpe - Gloom Lies Beside Me As I Turn My Face Towards The Light (GoatMan, Maggio 2013)
Genere: blues, folk Con un quarto di secolo di robusta carriera alle spalle, Lanegan ci ha fornito diverse versioni di sé. Non poteva essere altrimenti, malgrado la cavernosa impostazione vocale non conceda di scostarsi troppo dal fosco crogiolo blues di partenza. Certe collaborazioni - con QotSA, Soulsavers e Isobel Campbell soprattutto, senza contare quella recentissima con Moby - lo hanno visto mettersi in gioco con disinvoltura e persino una certa leggerezza, come ai tempi di The Winding Sheet non avremmo ritenuto possibile. Di contro, quel filone di ricerca nelle penombre misteriose del folk blues - alla base di capolavori come Field Songs - sembrava oramai esaurito. Invece, appena un anno dopo il baldanzoso rientro solista di Blues Funeral, e previa la produzione del vecchio amico Josh Homme, a scompaginare le carte arriva Black Pudding. Questa collaborazione col non troppo conosciuto chitarrista e multistrumentista inglese Duke Garwood (quarantaquattrenne con quattro album alle spalle) recupera proprio quell’attitudine per le trepidazioni più schive, colte nella linea d’ombra tra country-folk e folk-blues, coi margini opportunamente sbrecciati da ineffabile attitudine psych. Ne esce un disco sì laneganiano ma sufficientemente disposto a diluirsi tra gli arabeschi ieratici e spigolosi di Garwood, cui non a caso concede di aprire le danze con l’assorta strumentale title track. Oserei dire che i momenti meno interessanti sono quelli che più ricalcano la calligrafia tipica dell’ex-Screaming Trees, sia pure rivista sotto una luce spettrale come in Mescalito (drum machine e ruggini noise) o languidamente suggestiva come in Driver. Viceversa, i vapori eniani di Shade Of the Sun, il clarino sperso nella milonga indolenzita di War Memorial, il gospel-soul asciutto di Last
Rung e la congettura fusion di Cold Molly strapazzano il centro di gravità di quel tanto - anzi, di quel poco - che basta per spandere un senso di accattivante squilibrio, una voglia di forzare il punto di vista con tenebrosa perizia da druidi. Questo il gioco che sostanzia l’invocazione blues sotto il cielo mutante di Thank You (col piano che sbreccia la tonalità) così come il sortilegio atavico di Pentecostal (vaghi retaggi del Jimmy Page unplugged). Se per Garwood è probabilmente il disco della vita, per Lanegan sembra il tipico spinoff che rende denso il repertorio. (6.9/10) Stefano Solventi
Melvins - Everybody Loves Sausages (Ipecac Recordings, Aprile 2013) Genere: cover album Alle origini del Melvins pensiero? In una battuta, sì, è questo il senso ultimo di Everybody Loves Sausage, album numero mille per la Buzz family e tentativo di mettere coordinate fisse ad un suono/discografia sfuggente e basilare. Tredici cover che ricompongono il puzzle di influenze della band americana non senza sorprese, anzi, dimostrando con l’eclettismo di questo lavoro tutto ciò che da ormai un paio di decenni abbondanti si va dicendo dei Melvins. E cioè che non sono mai paghi, mai arroccati sulle proprie posizioni, sempre pronti a reinventarsi in forme nuove pur mantenendo il tratto caratterizzante di un sound in tutto e per tutto riconoscibile come il loro. A veder sfilare i nomi e le tracce coinvolte in questo ritorno alle origini c’è da rimanere sorpresi, com’è giusto che sia, ma chi conosce a fondo i Melvins converrà che ci si sarebbe meravigliati del contrario: di trovarsi tra le mani, cioè, una serie di canzoni e gruppi facenti parte dell’universo di riferimento della band di King Buzzo e Dale Crover. I Queen di You’re My Best Friend, ad
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Mark Lanegan/Duke Garwood - Black Pudding (Ipecac Recordings, Maggio 2013)
Stefano Pifferi
Mental D_TEK_TOR - Immaginario Vortex (Autoprodotto, Aprile 2013) Genere: Hip Hop Contestualizzare Mental D_TEK_TOR nell’hip hop attuale per aiutare un neofita a localizzarlo in questa o quella frangia del rap italico non è semplicissimo. Tuttavia, localizzazioni a parte, è invece semplice parlare dell’oggettiva qualità di
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questo EP destinato al free download e, forse, a una successiva pubblicazione in copie fisiche. Si tratta di un lavoro che ripropone in pompa magna tutte le caratteristiche che hanno reso Mental D_TEK_TOR una garanzia per gli amanti di un underground così estremo da rientrare a fatica nella definizione stessa di underground (esulando da ogni possibile hype generatosi invece per altri artisti, come ad esempio quelli della Blue Nox o della Unlimited Struggle). Rime non semplici, linguaggio tutt’altro che immediato e costrutti metrici abbastanza imprevedibili, il tutto al servizio di un flow che richiede all’ascoltatore meno allenato pazienza e attenzione. Per quanto i tecnicismi si siano sensibilmente ridotti rispetto agli esordi di questo artista (noti a pochissimi e solo grazie a frequentazioni in forum e chat di appassionati), la formula risulta comunque “di nicchia”, soprattutto a causa di un frequente ricorso al linguaggio (fanta)scientifico, alla ricerca di una specificità che preferisce il termine oscuro e in inglese a un più immediato frasario italiano. I riferimenti fumettistici (si vedano le rime dedicate a Scott Summers e al Dottor Manhattan, ad esempio) potrebbero essere un altro dei motivi di osticità per un ascoltatore distante da quell’immaginario (nerd nel senso strettissimo del termine, con nessuna concessione a qualsiasi hipsterismo di sorta).Il rap, tuttavia, viene fatto ad altissimi livelli e il controllo della metrica e del flusso è ammirevole, soprattutto in relazione al basso numero di bpm che scandiscono questo progetto e che porterebbero altri mc’s meno talentuosi a goffi extrabeat o a rappate rallentate e innaturali. Dal punto di vista della musica (tutta imputabile, con l’eccezione della produzione di Absolom realizzata con Night Skinny, alle sapienti mani del misterioso Steez Austeen, il cui nome non può non ricordare il celeberrimo Uomo da sei milioni di dollari che ha accompagnato le giornate di molti figli degli anni 80) si nota una predisposi-
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esempio, ce li saremmo aspettati? In un certo senso no, ma in un altro, quello della continua sconsacrazione del corpo morto del rock (duro), sì ed eccome. Anche con una terribile versione in tutto e per tutto fedele all’originale, voce falsettata compresa. Oppure il Bowie pre-berlinese di Station To Station, in una versione incattivita dalla presenza di JG Thirlwell aka Foetus. O ancora, la cavernosa tomwaitsizzazione di Female Trouble della stella-feticcio di John Waters Divine (in formazione a trio Lite con Trevor Dunn al basso). Al contempo scorrono robette più consone al “metal” pacchiano e stravolto della casa e misconosciute perle dal doppiofondo della collezione di dischi dei due: Warhead dei Venom con ospite Scott Kelly dei Neurosis, Attitude dei Kinks, una punkish Art School dei Jam con Tom “AmRep” Hazelmeyer alla voce e una versione ancor più malata di Heathen Earth dei Throbbing Gristle vanno a braccetto con roba assurda come Carpe Diem dei Fugs, Timothy Leary Lives degli sconosciuti Pop-O-Pies o Romance dei Tales of Terror. Capolavoro indiscusso, la scottwalkerizzazione di In Every Dream Home A Heartache dei Roxy Music con Jello Biafra e Kevin Rutmanis dei Cows a garantire la giusta dose di follia. C’è sempre un retrogusto, più o meno evidente e palese, di presa per il culo, ma dopotutto è la storia stessa dei Melvins ad averci abituati ad aspettarci di tutto senza farci troppe domande. (7/10)
Sebastian Procaccini
Merchandise - Totale Nite (Night People, Aprile 2013) Genere: art pop Dunque se è vero che in musica nulla si crea e nulla di distrugge, per lo meno c’è chi, come i Merchandise, ricombina senza remore. Ex punk convertiti al pop, i tre di Tampa hanno iniziato a far parlar di sè con il precedente ep Children Of Desire, con il quale mettevano in luce una peculiarità fatta di lunghe suite neo pop, scampoli ambient e giganteschi affreschi shoegaze. Se a questo aggiungete il fatto che il disco veniva pubblicato insieme a un libro che ne elaborava
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i temi e la loro tendenza al linguaggio forbito e alle citazioni di Pollution di Franco Battiato come una delle fonti di ispirazione, capirete per lo meno la curiosità che suscitano. Di Totale Nite colpiscono subito due cose: la produzione (ad opera dell’ex Spacemen 3, Sonic Boom) perfettamente bilanciata fra caos organizzato e pulizia sonora e una scaletta che in appena cinque canzoni affastella idee che ad altre band basterebbero per tre o quattro album. L’inizio è tutto sommato fuorviante. La breve intro di Who Are You è un glam robotico, tutto armonica, clangori e stantuffi, che prelude al primo lungo stream of consciusness sonoro. Anxiety’s Door è un affresco imponente (quasi sette minuti) costruito su un pervicace motorik beat, con un riff luminoso che profuma di Echo & The Bunnymen e il crooning di Carson Cox che sembra quello di un Edwyn Collins passato per caso a impartire la benedizione. Il gruppo ha uno straordinario appeal pop, infila chorus eleganti e li lascia macerare nel rumore. E’ quello che avviene con I’ll Be Gone, maestosa ballad avvolta da spire elettriche spesse e lente come boa constrictor e da una melodia di quelle che rendevano gli Adorable veramente adorabili. L’altro fulcro del disco è costituito dai dieci minuti della title track: una versione isterica del Bowie berlinese, con tanto di sax, incursioni rumoriste, aperture dream pop, cambi di scala e dissonanze assortite. Si chiude con Winter’s Dream, altra mini-suite che si apre e si chiude su rarefazioni ambient, col cuore dalle parti degli Slowdive più caldi e pacificati. Il tempo per assimilare il magmatico ascolto e si riparte per cercare di comprendere fino in fondo tutte le gustose sfumature del disco. Uno dei più brillanti, in ambito guitar pop, fra queli ascoltati in questa prima parte dell’anno. (7.2/10) Diego Ballani
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zione alla battuta lenta, all’atmosfera rarefatta e a suggestioni che sembrano essere legate alla dubstep (soprattutto per il tipo di suoni scelti, più che per la struttura vera e propria dei beat, impressione comunque confermata anche dalle selezioni dubstep che Mental D_TEK_TOR di tanto in tanto si concede nel milanese). La cosa particolare è che, nonostante il linguaggio sia particolare e la scelta dei ritmi inusuale, non si può parlare di un progetto svincolato dall’idea di hip hop nel senso più canonico del termine, fattore che potrebbe dunque avvicinare l’ascoltatore più integralista. Questa sorta di posizione ibrida rende comunque il lavoro ancora più interessante, costituendo una sorta di ipotetico ponte tra il rap legato alla scena hip hop e quello da essa totalmente svincolato (ci riferiamo ad artisti già apparsi in queste pagine, come Zona MC o i Uochi Toki, ma solo per quello che riguarda il linguaggio, e ben precisando che si tratta di artisti completamente differenti tra di loro, l’accostamento è un semplice dato topografico e non va ricercato nessun legame di parentela tra le due cose). Da ascoltare, per capire come l’hip hop possa prendere direzioni non apocrife eppure tutt’altro che prevedibili. (7/10)
Genere: Post-rave Ambient Miles Whittaker, mancuniano di stanza ad Amburgo, è una delle figure chiave all’interno della scena cittadina legata alla Modern Love e dunque fautore, negli ultimi anni, di una significativa flessione dello UK sound più notturno. Molto attivo in tempi recenti con i Demdike Stare, suo progetto abituale assieme al partner Sean Canty (ma anche con Andy Stott in qualità di Millie & Andrea e in solo sotto il nome di Suum Cuique) esce soltanto ora in doppio vinile con un primo full lenght a nome Miles. In perfetta traiettoria con il resto dei suoi lavori, Faint Hearted segue ancora una volta un personale percorso di ridefinizione dei contorni della musica post-dance, accordando a un dancefloor profondamente decomposto scenari opachi e alienanti. La prima e più evidente peculiarità dell’album è il costante riposizionamento delle attenzioni su una rave culture (in chiave jungle) che - come ai tempi di Facets - viene pesantemente smembrata quando non ridotta a puro elemento atmosferico. Un’astrazione questa resa esplicita e coerente con i riferimenti milesiani e di cui proprio Miles ha determinato l’orientamento. Anche solo rimanendo a Manchester si possono citare i due recenti singoli per la collana Testpressing degli stessi Demdike Stare, la risemantizzazione filologista di Lee Gamble o anche i live di Andy Stott, che dopo il bis si chiudono con dieci minuti di sfuriate tra jungle e acid house. Ad ogni modo, Faint Hearted si presenta come un ascolto carico di tensione teorica, un po’ per lo spessore intrinseco della ricerca scelta - la decostruzione - un po’ per alcuni caratteri che hanno il sapore della meta-riflessione sulla produzione del suono (in tutte le fasi, dal campionamento al mastering). L’apertura stessa, infatti, affidata al noise ritmico di Lebensform è, in questo senso, una evidente
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dichiarazione d’intenti (ma lo stesso vale, pure in differenti accezioni, anche in episodi più delicati come Archaic Thought Pattern 1). A colpire è la radicalità dello smantellamento delle texture sonore, come anche, d’altra parte, il violento innalzamento del volume, la distorsione del beat che ne aumenta la pressione sonora e ne compromette la portata visionaria. I brani più ambientali, l’etereo Sense Data e il conclusivo Loran Dreams, ripropongono invece l’elegante schema a dinamica piatta degli interludi già noti con il progetto d’origine. Dove Facets poneva in atto un lavoro di contaminazione e corruzione di un determinato linguaggio proto-techno, questa volta l’esercizio pare leggermente manieristico (anche perché, sotto quell’aspetto, troppo simile al prototipo). Il dettagliarsi di gain molto alti, poi, mette a rischio il cuore simbolico del lavoro, rendendo le suggestioni non così universalmente efficaci. La stessa intelligibilità di tutto il determinante aspetto evocativo del disco risulta infine stilizzata, al punto di farlo suonare come ascolto indicato sì per i completisti, ma, allo stesso tempo, poco accessibile per chi non fosse già sufficientemente abituato a un certo tipo d’espressione. (6.8/10) Michele Ferretti
Miss Kittin - Calling From The Stars (wSphere, Aprile 2013) Genere: electro-ambient Dopo la reunion con The Hacker nel 2009 nel prescindibile Two e qualche apparizione su dischi di artisti e producer affini al mondo electro (vedi ad esempio Tides of Mind di Oxia), Caroline Hervé torna con un nuovo disco che cerca di migliorare le sorti del deludente BatBox del 2008. Il nuovo Calling From The Stars è il primo album prodotto e scritto interamente dalla DJ e musicista di Grenoble. La gatta sul tetto che scotta non si accontenta di un normale LP e punta addirittura
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Miles - Faint Hearted (Modern Love, Aprile 2013)
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Marco Braggion
Motorpsycho - Still Life With Eggplant (Stickman, Aprile 2013) Genere: heavy-psichedelia Se il precedente The Death Defying Unicorn stabiliva nuovi confini per la grandeur tipica della band norvegese arrivando a una sintesi interessante tra hard-psichedelia e orchestrazioni classiche, Still Life With Eggplant ritorna a una “immediatezza” che suona un po’ come un contrappasso. Non fatevi ingannare dagli assoli sabbathiani di un’iniziale Hell, Part 1-3 specchietto per le allodole per i fan stregati nel 2010 dal buon Heavy Metal Fruit: i Motorpsycho di “Natura morta con melanzana” sono quelli di August (cover dei mai troppo celebrati Love), protesi verso certi umori “high”, legati ai soliti tributi prog, ma soprattutto interessati alla forma canzone. Quattro minuti e cinquantatré di durata, nel caso del
brano citato, in cui i tipici fermenti chitarristici del gruppo diventano per una volta funzionali alla melodia (quasi in ottica “blues”, se ci passate l’azzardo) e non solo portato strutturale del suono. The Afterglow arriva addirittura a toccare il “pop” col suo essere ballata rarefatta ed eterea con qualcosa dei Radiohead di Subterranean Homesick Alien nelle corde, mentre Barleycorn (Let It Come / Let It Be) - al fingerpicking Reine Fiske dei Dungen And The Amazing - è una riuscita sinergia di teatralità e psichedelia brumosa. Nel disco c’è spazio anche per l’immancabile suite psichedelica: i diciassette minuti di Ratcatcher incastonati tra una batteria instancabile e il suono spacey della sei corde ci ricordano che i Grateful Dead e la California Sixties più espansa rimangono un punto di riferimento irrinunciabile per la band. Meno disciplinato e possente rispetto ai predecessori, Still Life With Eggplant tira un po’ il fiato faticando a replicare la personalità messa in mostra nel recente passato, senza tuttavia intaccare il buono stato di affiatamento degli ultimi i Motorpsycho. La prendiamo, comunque, come una buona notizia. (6.7/10) Fabrizio Zampighi
Mudhoney - Vanishing Point (Sub Pop, Aprile 2013) Genere: garage grunge Il “segreto” dei Mudhoney me lo spiegò Steve Turner lo scorso anno. Altre band che volevano diventare grandi a tutti i costi non hanno ottenuto il successo sperato e per questo motivo si sono sciolte; loro invece, che non hanno mai nutrito quel genere di aspettative, hanno sempre tirato dritto e continuato a fare la musica che volevano. Per questo sono ancora qui dopo venticinque anni. È lo stesso concetto che la voce di Mark Arm ribadisce provocatoriamente in I Like It Small:
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al doppio. La prima parte gravita sulla più familiare orbita clubbistica, e non sarebbe nemmeno malaccio, vedi le camere squadrate di Bassline, i pompaggi declamati di Maneki Neko o le atmosfere synth-ambient ‘80 di Eleven. Il secondo disco, che in press viene descritto come un “viaggio insolito attraverso i suoni techno ambient vicini alla serie Artificial Intelligence della Warp, ispirato alla fisica quantistica e alla campagna francese”, è di una bruttezza imbarazzante. Magari fosse solo lontanamente paragonabile a quelle compilation del 1992 che hanno fatto la storia dell’elettronica d’Albione. La Kittin qui rasenta il ridicolo, con tappetini di synth (che ricordano alla lontana i Kraftwerk, i Tangerine Dream o la peggior IDM) e qualche parola declamata con il deboscio che la contraddistingue ormai da vent’anni e che ha decisamente stancato. Per finire c’è pure una cover di Everybody Hurts dei R.E.M.: la goccia che fa traboccare il vaso. (4.5/10)
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Tommaso Iannini
Neon Neon - Praxis Makes Perfect (Lex Records, Aprile 2013) Genere: Electro pop opera Non si può dire che Gruff Rhys disdegni le sfide. Se i suoi Super Furry Animals hanno perso lo smalto dei tempi migliori, lui si prende una pausa e allestisce uno dei progetti più ambiziosi e folli della propria carriera. Come definire altrimenti un concept su una delle pagine più controverse degli Anni di Piombo? Raccontare con la pop music (quella più gioviale e spensierata) la vita di
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Giangiacomo Feltrinelli è cosa che lascia facilmente interdetti e, a memoria, ha come termine di paragone più diretto il progetto Baader Meinhof, con cui Luke Haynes raccontava le vicende dell’omonimo gruppo terrorista tedesco. Laddove Haynes imbastiva un imponente impianto sonoro, a base di rock, glam e aperture cameristiche, i Neon Neon utilizzano il loro electropop per far luce su vicende oscure ai più (per lo meno al di fuori del nostro Paese), quelle del rampollo di una delle più ricche famiglie italiane prestato alla lotta armata, fondatore dei Gruppi di Azione Partigiana e dell’omonima casa editrice. Personalmente credo che la storia di Giangiacomo Feltrinelli sia troppo controversa per poter essere trattata in modo così superficiale; sulla sua morte (fu omicidio organizzato dalla CIA o azione di sabotaggio finita in tragedia?) ci si accapiglia e ci si divide allegramente in fazioni ancora oggi. Ma non è neppure questo il punto. Sfruttando le suggestioni “esotiche” dei testi, Rhys deve aver pensato di trasformare il suo lavoro in un omaggio all’Italia. Non si spiegherebbe altrimenti la partecipazione di Asia Argento (che riesce a far sfoggio della sua pochezza recitativa anche solo urlando “gruppi di azione partigiana!”) e di Sabrina Salerno (che almeno conferisce un tocco di leggerezza all’appiccicosa Shopping (I Like To)). Anche la musica, stando alle dichiarazioni, avrebbe dovuto occhieggiare le glorie dell’italo disco. In realtà quelle di The Jaguar e Ciao Feltrinelli, sono melodie scipite che bruciano lentamente e a bassa intensità, riportando alla mente la sofisticata mollezza degli Alan Parsons Project. Fortuna che Hoops With Fidel prova a increspare la noia con tribalismi mutant disco e break soft pop. I momenti migliori sono quelli in cui fanno capolino le melodie surreali dei Super Furry Animals (come in Hammer & Sickle, che peraltro gode di un arrangiamento gustosamente kraftwerkiano) o in cui la mimesi con l’electropop squadrato
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meglio la nicchia dei grandi numeri. Non che i Mudhoney siano poi tanto di nicchia. Piuttosto, possiamo dire che rappresentano più di chiunque altro lo spirito originario della Sub Pop, con il loro misto di uncoolness, ironia e rock duro e rumoroso. Tirando le somme di una carriera lunga venticinque anni, la vicenda del quartetto di Seattle appare perfettamente parallela a quella della casa discografica con cui, tra divisioni e ritorni di fiamma, ha compiuto lo stesso cammino da sensazione underground al boom degli anni ‘90 (che criticò a suo modo in Overblown), fino alla crisi e al successivo ritorno in pista. Non siamo qui per ribadire quanto erano urticanti e felicemente creativi i primi reperti vinilici di questa inossidabile band, ma per constatare che la maturità non l’ha ancora imbolsita. Vanishing Point, nono album di studio, è esattamente quello che ci si poteva e doveva aspettare: un rock blues acido incrostato di protopunk alla Stooges come Slipping Away, il tiro punk rock di Chardonnay, la furia à la MC5 di The Only Son of the Widow Of Nain o la disincantata power ballad Sing This Song Of Joy sono ben lontani dall’essere novità assolute nel catalogo Mudhoney, tuttavia ne continuano egregiamente l’opera. Difficile chiedere di più, se non che le rendano sul palco come hanno dimostrato di recente di saper ancora fare. (6.7/10)
e minimale del primi 80s giunge a compimento (ad esempio nella già citata Shopping o in una Mid Century Modern Nightmare in odor di Human League). Per il resto Praxis Makes Perfect ha il sapore dell’occasione mancata. Un’opera che resta schiacciata inesorabilmente dal peso delle proprie ambizioni, segnalandosi più per la bizzarria che per la compiutezza. (6/10) Diego Ballani
Genere: noise pop Al secondo album le No Joy, duo all female di Montreal, sono ancora dedite all’esplorazione del noise pop in tutte le sue possibili declinazioni. Il problema è che anche nel noise pop c’è una prima e una seconda divisione. Ci sono i campioni e i gregari. C’è Nutella e Ciaocrem. E per quanto Wait To Pleasure sia carico di melodie suadenti, gustosi artefatti rumoristi e oasi di assoluto piacere, resta dalle parti dei dischi “carini” che oggi occupano quasi interamente lo spettro delle uscite discografiche. Su Wait To Pleasure ogni brano è un link più o meno esplicito a suggestioni del passato. C’è l’irruenza sbarazzina dei Lush (Ignored Pets) e il folk sognante dei primi Mojave 3 (Uhy Youi Yoi); ibridi elettro-digitali in cui i Cranes incontrano i Beach House (Hare Tarot Lies) e trasfigurazioni elettrificate degli School Of Seven Bells (Prodigy). Dovendo scegliere, punterei su brani dub noise come Blue Neck Riviera, per i vortici sonori e le ritmiche che aggiornano con gusto la lezione dei Curve. È in questi frangenti che il disco diventa più di un esercizio retrospettivo. Il singolo Lunar Phobia, ad esempio, tecnicamente non è neppure shoegaze. L’affastellarsi fino alla saturazione di sample, ritmi digitali ed effettistica variopinta produce quel gioioso senso di straniamento che rende l’esperienza No Joy un piacevole diversivo
Diego Ballani
Noyz Narcos - Monster (Propaganda Records (Milano), Aprile 2013) Genere: Hip Hop Il Truceklan, da Roma, è una delle crew più rappresentative dell’hip hop italiano degli ultimi dieci anni. Nel bene o nel male il loro controverso mix di attitudine hardcore, horror di serie B e trucida romanità, ha segnato un’era, quella della digitalizzazione del rap italiano e del successivo, definitivo sdoganamento. Noyz Narcos, che del T. Klan è da sempre l’elemento più talentuoso, esce oggi con il suo nuovo album ufficiale, il quarto, a tre anni di distanza dal precedente Guilty. La formula è rimasta pressoché invariata: rap crudo su beats che ti spaccano le casse. Il resto è divagazione sul tema. Il suo rapping è caratterizzato da una delivery che ha pochi eguali in Italia per flow e controllo della voce, e da liriche esplicite che coniugano slang, ego-tripping e riferimenti cinematografici. Nelle sue canzoni infatti, Roma viene trasfigurata in una sorta di Sin City de’ noantri, di cui Noyz è l’antieroe protagonista. Le storie raccontate sono quelle tipiche dello street-rap - quindi sesso, soldi, droga, spleen, hating e via dicendo -, ma il suo stile è decisamente personale, e quando il Noyz-personaggio e il Noyz-persona entrano in cortocircuito, il risultato è davvero irresistibile (sentite ad esempio Alfa Alfa o Via Con Me). La prima parte del disco è praticamente perfetta. Una bomba. Dalla traccia nove in poi l’album purtroppo si sfilaccia e perde di compattezza, difetto questo tipico delle produzioni targate Truceklan. Nonostante ciò, Monster è un lavoro che conferma la caratura dell’mc romano e gli fa fare un ulteriore passo in avanti, anche dal punto di
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No Joy - Wait To Pleasure (Mexican Summer, Aprile 2013)
alle produzioni più blasonate. (6/10)
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vista stilistico. Oltre ai singoli Attica e Game Over - quest’ultima prodotta da The Orthopedic sono da citare Notte Insonne (con una bella strofa di Ntò e il ritornello cantato da Vacca), My Love Song con il redivivo Fritz Da Cat e Tormento in autocitazione e la title-track, potentissima, che è il rifacimento musicale dell’immagine di copertina, con le strofe rappate metà in pitch-down e metà a voce normale a suggerire lo sfasamento Noyz-normale/Noyz-mostro. Insomma, un must have per tutti gli amanti del rap italiano. (7.3/10) Filippo Papetti
Genere: screamo/post Abbiamo accennato a più riprese al comeback degli anni ‘90 - per il momento più fantomatico che concreto, almeno su larga scala - lasciando però colpevolmente da parte quella che, a tutti gli effetti, è una riscoperta retromaniaca dell’emo, quello vero. Un sentimento che - nelle sue varianti, screamo in particolare - non è in realtà mai morto e che ha trovato nel bacino italiano (specialmente emiliano-romagnolo) uno degli ecosistemi più floridi a livello internazionale. Nell’ultimo lustro, tuttavia, ad agitare le acque è stata una nuova accelerazione cardiaca a stelle e strisce, causata sia da esordi di culto come quello degli Snowing (purtroppo già fuori dai giochi), La Dispute, Pianos Become The Teeth e Touché Amoré, sia dai recenti focus sulla scena californiana targata Comadre e Loma Prieta. Gli Old Gray sono un trio del New Hampshire che, seguendo la più classica delle routine DIY (demo, EP, split single...), arriva all’album di debutto An Autobiography con le idee chiare e tante cose da dire. Messe da parte le ritmiche math dei primissimi tempi, Cameron, Raphael e Charlie hanno assemblato un perfetto concentra-
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Riccardo Zagaglia
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Old Gray - An Autobiography (Broken World Media, Marzo 2013)
to - appena otto tracce per meno di mezz’ora di musica - di enfasi liberatoria e lancinante, all’apparenza forse esagerata al limite dell’artefatto ma in realtà assolutamente autentica, oltre che funzionale e di incredibile impatto. Non c’è nulla di superfluo, otto passaggi obbligatori. Abbandono, avvilimento e la sensazione Melancholiana di un imminente destino infausto scorrono lungo An Autobiography, lanciando veri e propri anthem corali quali “I’m digging a grave with the parts of my brain that still work, they’re burying me with my dead dreams” (l’iniziale Wolves). Cameron Boucher e compagni hanno fatto propria la lezione Nineties delle formazioni storiche dell’indie emo (Cap N’ Jazz, Mineral, American Football), tagliandole con abrasioni screamo e un’interessante vena strumentale che non rinuncia a lambire territori vicini al post-rock (l’ultimo capitolo, My Life WIth You, My Life Without You) e agli Slint di Tweez. Velocità che - come le tre diverse voci - si alternano perfettamente, tra situazioni sospese e sfuriate post-HC (Coventry), tra arpeggi e twinkly guitars, tra inserti occasionali - quanto azzeccati del violino di Nick Kwas e fraseggi in spoken. Tanti sono i momenti memorabili: oltre alla già citata Wolves, i quesiti di Raphael in The Artist (“what can I leave behind that will never fade?”), il feat. vocale di Becca Cadalzo dei Cerce in Emily’s First Communion e il toccante crescendo di I Still Think About Who I Was Last Summer (“you told me that you’d love me until the end, which begs the question are we now dead?”). Questi ragazzi non innovano nulla e son piuttosto fedeli alle regole non scritte dell’immaginario depre-emo, ma di sintesi stilistiche così ben riuscite ne escono raramente. Un pugno allo stomaco che invece di procurare dolore, genera un lungo e commovente brivido. Potrebbe diventare un piccolo classico del genere. (7.1/10)
Genere: synth-pop This used to be the future: così cantava pochi anni fa Neil Tennant in combutta con un altro protagonista dei tempi d’oro del synth-pop inglese, Phil Oakey degli Human League. Gli OMD non potevano starsene in disparte, e infatti decidono con The Future Will Be Silent di fare il punto della situazione esprimendo il proprio amaro disincanto verso tutto ciò che trent’anni fa, in Dazzle Ships, rappresentava la più ambita chimera: un mondo ipertecnologico. Sempre di elettronica è imbandito il banchetto, ma stavolta ci si rifugia nella più cauta tecnologia ampiamente collaudata - per l’artwork ancora una volta interviene Peter Saville (un nome, una garanzia) - e si alternano melodie zuccherose e schegge sperimentali (Please Remain Seated, Decimal, Atomic Ranch) che ieri ci avrebbero lasciati a bocca aperta ma che ora non sono più in grado di replicare l’impatto dei loop e dei sample del 1983. Si ha spesso l’impressione, durante l’ascolto di English Electric, che Andy McCluskey e Paul Humphreys siano piombati nel 2013 per caso, in viaggio con la loro time machine direttamente dal 1987. Rispetto al predecessore History Of Modern (in cui il ruolo di Paul era ancora sullo sfondo) qui non c’è stato alcuno svuotamento selvaggio dei cassetti, eppure è tutto fin troppo familiare: le “manovre orchestrali al buio” sono ancora affettuosamente in debito con i Kraftwerk - lo dimostra il rifacimento di Kissing The Machine degli Elektric Music (firmato da McCluskey insieme a Karl Bartos) con la partecipazione di Claudia Brücken (ex Propaganda ed Act, oggi compagna di vita di Humphreys), ma anche il primo singolo Metroland, che rimanda ad Europe Endless e che meglio risalta nel più conciso radio edit - ed è impossibile non pensare a Joan Of Arc durante Helen Of Troy e non sospettare che la pur grade-
vole Stay With Me sia una Souvenir 2.0 con in più la sensazione che, accanto a Paul, stia per sbucare da un momento all’altro Valerie Dore. Poche le innovazioni sul vassoio, evidenti i limiti di scrittura della band - Andy e Paul sembrano sempre più due pittori specializzati in nature morte e non più in grado di dipingere altro - e pochi anche i motivi che dovrebbero spingere un neofita a preferire English Electric rispetto a un altro album della nutrita discografia degli OMD. Per i fan di stretta osservanza qualcosa da salvare c’è: il secondo singolo Dresden si fa ricordare subito, nonostante a tratti sembri la Sister Mary Says dell’album precedente (che a sua volta richiamava Enola Gay) dopo un trattamento eurodance a cura di Sash! o dello Scooter meno tamarro; Night Café è la sorella minore di So In Love e Our System (che, nella mischia, presenta l’arrangiamento più sintonizzato con i trend degli anni ‘10, pur senza snaturarsi) e sarebbe stata una chiusura ad effetto al posto della Final Song. Tra le mani resta una prova interlocutoria, con qualche timido sprazzo d’ispirazione, molto mestiere e, purtroppo, un odore neanche tanto leggero di naftalina. Se un futuro ci sarà per gli Orchestral Manoeuvres In The Dark, si spera che sia più (ehm...) elettrizzante. (5.7/10)
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Orchestral Manoeuvres in the Dark - English Electric (100% Records, Aprile 2013)
Alessandro Liccardo
Otti Albietz - Bubbytone II (BBE, Maggio 2013) Genere: folk/cantautorato Spulciando sul web si legge che Otti Albietz è nato a Malaga, anche se ha passato gli ultimi anni in giro per l’Europa, diviso tra Marocco e Regno Unito. Nonostante un passato da globetrotter che potrebbe far pensare a suggestioni e immaginari inconsueti, il sophomore del cantautore spagnolo Bubbytone II - che arriva a due anni di distanza dall’esordio One - si inserisce nel filone del songwriting classico, rivolgendosi in primo
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spirito fondamentale del progetto. Ideato nel corso del tour dell’anno scorso, l’ultimo lavoro dei Pan American avrebbe dovuto essere, nelle intenzioni di Nelson, una sorta di disco live, forte com’è del contributo di Steven Hess alla batteria e Bobby Donne al basso. Il problema è che nel momento in cui il sound dei Pan American si umanizza, rivelando una filigrana mai come in questo caso acustica e in presa diretta, perde molto della sua carica visionaria e ascetica. Il brano iniziale The Cloud Room e quello finale Virginia Waveform sono l’esempio perfetto di quanto detto, nella loro melliflua e annoiata cadenza post-rock con venature quasi Sigur Rós per l’ultima. In mezzo si cerca di trovare la vecchia magia con la stasi di Fifth Avenue 1960, l’attesa tormentata di Glass Room at the Airport e la fragranza Badalamenti di Laurel South. Poca cosa se messe a paragone con il passato. Fondamentalmente si tratta di un disco stanco e prettamente da catalogo, anche se i Pan American difficilmente possono produrre qualcosa che non valga nemmeno un ascolto. (6.8/10) Antonello Comunale
Giulia Antelli
Parenthetical Girls - Privilege Pan American - Cloud Room, Glass (Abridged) (Marriage, Aprile Room (Kranky, Maggio 2013) 2013) Genere: ambient dub Il sound ricercato da Mark Nelson è sempre stato minimale, evocativo, teorico. Da anni i Pan American sono una palestra di ipotesi dove dub e ambient sono gli ingredienti fondamentali di una sorta di blues ancestrale e metafisico. Eppure, per lavorare sulle diverse ipotesi sonore ideate dall’uomo dei Labradford, la filigrana del sound non è un elemento accessorio, ma un aspetto fondamentale. Cloud Room, Glass Room ha la sensibilità di immaginare ulteriori percorsi inediti, ma in una maniera che tradisce non poco lo
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Genere: synth pop Dopo cinque EP in 12” usciti dal febbraio 2010 a settembre 2012, i Parenthetical Girls ricompattano la frammentazione delle pubblicazioni e costruiscono un nuovo album, il quarto. Che non è altro che la messa in sequenza alterata, anzi la selezione, la versione concisa, come recita il titolo Privilege (Abridged), dei brani presi dalle cinque uscite a media lunghezza. Le dodici tracce di Privilege dovrebbero essere dunque la crema di tre anni di lavoro. E quindi dovrebbero indicare una direzione non repen-
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luogo alla terra madre del folk più tradizionale, ovvero l’Inghilterra. Non è un caso, infatti, che Albietz guardi più all’intimismo dei trovatori britannici, Nick Drake in testa - anche se non c’è traccia della malinconica angoscia di quest’ultimo -, piuttosto che alla lezione di Dylan o del primo Young. Dodici canzoni che seguono dunque un cantautorato acustico semplice e, spesso, ben costruito, come accade in un’iniziale Structure Repeat che mette in mostra l’abilità del musicista spagnolo con la sei corde, o con la vocalità pacata ed essenziale tinta di accenti quasi soul di Who Are The Wishful. Il resto dell’album prosegue sull’intreccio tra voce e chitarra, con alcuni episodi che cercano di esulare da quanto elencato finora: If You’re Listening è un esempio di romanticismo pop in aria Coldplay, mentre le sterzate pseudo electro di The Others Are Identical conducono, sul finale, agli esperimenti rumoristi di She’s The Earth e The Best Thing Ever (Love Will Repeat). Anche se non siamo certo di fronte a una novità, nel complesso Bubbytone II è un album che riesce a ben inserirsi in quel mosaico ormai sconfinato che è il songwriting internazionale. (6.7/10)
Gaspare Caliri
Pete Swanson - Punk Authority (Software, Aprile 2013) Genere: techno-noise Dimentichiamo i trascorsi, ignoriamo il nome, azzeriamo il pregresso e fiondiamoci vergini
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all’ascolto di queste quattro tracce. Ossessione techno, pulsione ancestrale, violenza e raccapriccio represse. Il noise che si trasforma e rinasce sulle ceneri di una sorta di techno-music in cui ogni orizzonte di intelligibilità è precluso, su cui regna solo saturazione e devasto, in cui il nero è il colore dominante e il proscenio preferito è quello del nichilismo più atroce. Riavvolgiamo il nastro e constatiamo che, nella scarsa mezz’ora di questo EP programmaticamente intitolato Punk Authority, l’ex Yellow Swans Pete Swanson prende letteralmente a calci in bocca tutta la (ennesima) nuova scena post-noise e post-elettronica, confluite non si sa bene perché - vogliamo metterci quel sano taglio sociologico dell’assenza di speranza? Ma anche no, almeno stavolta - verso derive technoidi di matrice industrial, cupe come l’harsh e puzzolenti di desolazione come (ehm) l’isolazionismo post-dubstep made in Blackest Ever Black o Sandwell District. Solo che qui c’è la cassa dritta, i capannoni industriali dismessi dei primi rave, le droghe andate a male, il no future; c’è Maurizio Bianchi, c’è l’Underground Resistance, c’è la techno anni ‘80 rielaborata da uno psicotico armato di synth e tape loops che ci tiene a farci sapere che di speranza ce n’è veramente poca se è vero che Life Ends At 30, come recitano i dodici e passa devastanti minuti che concludono un album breve ma dalla portata probabilmente epocale. Eccolo il punk del terzo millennio. Incompromissorio, fastidioso e senza speranza. (7.2/10)
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tina, ma studiata, posizionata, ponderata tra le altre. In effetti c’è maggiore equilibrio, nel senso pop - da pillola indorata in alcuni casi (Careful Who You Dance With). Zac Pennington non è invadente, ma principalmente negli arrangiamenti e nell’allestimento delle canzoni non c’è - o quanto meno non nella stessa misura - il rischiosissimo e coraggioso tentativo barocco di Entanglements, che tanto avevamo apprezzato per capacità di non cadere dal filo di raso. Si procede, elegantemente per dirla tutta, qualche passo indietro con l’obiettivo di uscire dalla bolla da operetta e dalle ambiguità corporali di un tempo. Il problema è che l’ambiguità così attrattiva che ci ha affascinato fin dai primi passi omonimi della band è scomparsa. Al suo posto, un pop sintetico ben costruito, onesto, chiaramente fatto alla Parenthetical Girls, dove a volte basta una chitarra e un pianoforte, altre un allestimento orchestrale - ma solo in alcuni casi davvero trascinante (Evelyn McHale), oppure semplicemente notabile in una tradizione (synth pop) estesa come l’oceano (Curtains). È curioso come l’inizio e la fine del disco esprimano, con un tocco irresistibile, il talento delle ragazze parentetiche. È altrettanto deludente constatare come Zac non riesca, a volte, a prendere posizione nel seguire l’avventura narrativa di ogni sua linea vocale (Sympathy For Spastics). Per i Parenthetical Girls accontentarsi della classica direzione synth-pop è in definitiva una non scelta. Non serve necessariamente un concept, ma non si può avere un grande attore che vaga senza un poco di sceneggiatura. (6.5/10)
Stefano Pifferi
Phoenix - Bankrupt! (Glassnote, Aprile 2013) Genere: synth pop Una nuova raccolta di pop tune tirata a lucido da parte dei Phoenix, la loro quinta fatica in poco meno di tredici anni. Dopo un gioiello del cali-
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Been Like That, mentre Don’t e Burgeois sono esageratamente stracarichi di synth, strumento di cui a questo punto del disco non si sente quasi più il bisogno. Nei quattro anni che Thomas Mars e soci hanno speso per scrivere, pare siano stati partoriti ben settantuno pezzi di materiale bonus che verranno inclusi nella versione deluxe (e che ci riserviamo di recensire in separata sede). Per quanto riguarda le dieci canzoni selezionate per la scaletta ufficiale c’è da dire che, anche trovandoci di fronte a un disco che qualche soddisfazione riesce a lasciarla, si potrebbe definire Bankrupt! il classico buco nell’acqua. (5.9/10) Luca Falzetti
Popstrangers - Antipodes (Carpark, Marzo 2013) Genere: rock C’è tutta la rock-wave anni Zero in Antipodes, primo full-lenght del trio neozelandese Popstrangers. C’è la malinconia dark applicata alle slabbrature garage ma senza trucco pesante né chincaglierie di seconda mano, l’acidità del post-punk mediata da un gusto melodico attento e raffinato, un suono liquido e increspato come la superficie della sabbia in pieno miraggio: il basso in prima fila a guidare le linee armoniche, chitarre lo-fi vaporizzate nell’etere o accese distorsioni “fuzzose” impastate di frequenze, con una voce dal sapore squisitamente neo-Eighties. In più di un momento, vedi il singolo Heaven, si percepisce la vicinanza intellettuale e geografica con i cugini più famosi Tame Impala; lo stesso gusto un po’ nostalgico per la psichedelia, poggiato su un impianto rock caldo e variegato che pesca da grunge, post-rock e shoegaze. Si sentono anche le morbide e sognanti oscurità dei compagni di etichetta Beach House nelle voci di Roxy Brown o 404, mentre Witches Hand evoca
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bro di Wolfgang Amadeus Phoenix, con il gruppo stampato in cima ai cartelloni di tantissimi grandi festival e le dichiarazioni di Daniel Glass, fondatore della Glassnote Records, che definiva il nuovo lavoro rivoluzionario, le aspettative per Bankrupt! erano salite pericolosamente in alto. Per riuscire ad appagarle, la band decide di premere forte sull’acceleratore, soprattutto sul piano della produzione - per la quale, stando a voci circolate sul web, il gruppo di Versailles si sarebbe addirittura accaparrato la Harrison 4032, la stessa console usata per mixare Thriller di Michael Jackson. Trivia a parte, dalle dieci tracce dell’album traspare una sottile eppure incontenibile voglia di strafare che, in pezzi come Entertainment - singolo di lancio -, S.O.S. In Bel Air oppure Don’t, porta la band a provare continuamente la strada epica, senza raggiungere risultati davvero brillanti. Suoni massicci e insistenti che vanno a riempire ogni spazio, lasciando quasi sempre senza respiro, privando le canzoni di quella vitalità, quello slancio dinamico che aveva fatto le fortune del precedente capitolo. La tripletta iniziale del disco, tralasciando i difetti sopraelencati, rimane comunque la parte più convincente e spendibile dell’intero lavoro, in cui i Phoenix giocano in modo del tutto velleitario con suoni orientali, con giri di synth che ricordano le classiche campane gialle cinesi. The Real Thing è forse il pezzo maggiormente infuso con il fascino french-cool, elemento che la band ostenta altrove in maniera - c’è da dirlo - blanda, e in definitiva poco attraente. Dopo il primo grande passo falso in termini di scrittura, Trying To Be Cool, il disco rallenta per la title-track, pezzo che cerca palesemente di ricreare le emozioni esplosive di Love Like A Sunset, senza raggiungerne però il culmine e l’efficacia. Per il resto, la scrittura rimane ancorata al disimpegno più totale, anche emotivo. Drakkar Noir e Choloroform tornano sui territori indie pop di It’s Never
giubbotti di pelle logori e penombre à la Jesus And Mary Chain e B.R.M.C., con in più il dono dell’inafferrabile, quel senso di sospesa familiarità proprio degli outsider di lusso (come Cooper Temple Clause o Celebration). Insomma, c’è poco da fare: il miglior rock contemporaneo passa da queste coordinate trasversali, ispirate e composite. Dei Popstrangers sentiremo parlare ancora. (7.2/10) Antonio Laudazi
Genere: Electro Music From The Eastblock Jungles che fa il verso a Music For The Jilted Generation. L’opera in due volumi usciti separatamente (e il logo in bellavista) come da scuola Aphex Twin. Proxy (ovvero il russo Evgeny Pozharnov) passa all’attacco sulla lunga distanza con quello che è una sorta di bibbia personale, un viaggio tra vecchi cavalli da battaglia, re-work e tracce inedite composte e riassemblate in completo isolamento a Vladivostok negli ultimi anni e ispirate dall’amore per Liam Howlett e soci. Sulla caratura di Pozharnov già certificavano i plausi - e relativi remix - di Crookers, Bloody Beetrooths e dell’intera scueria di Tiga che, nel lontano 2006, lo scoprì e portò alla corte della personale Turbo Recordings, e non ultimi i Prodigy stessi che, nel 1997, gli cambiarono la vita in un indimenticabile concerto nella piazza rossa per poi commissionargli, dodici anni dopo, due remix di Invaders Must Die. E non dimentichiamo che se le bombe dancefloor sull’onda electro di fine 00s - qui riproposte - si chiamavano The Raven e Dancing In The Dark, una traccia culto assoluto come Destroy azzerava le distanze tra l’electro dei 00s, la scena techno più metallica dell’inizio dei ‘90 con il suo distintivo hoover sound (non a
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Proxy - Music From The Eastblock Jungles (Turbo Recordings, Marzo 2013)
caso il pezzo citava il riff alla Juno “modificata” di Mentasm dei Second Phase, ovvero Joey Beltram e Mundo Muzique) e l’ondata di jungle per le masse (punk-rock) degli idolatrati dell’Essex. Pubblicati a novembre 2012 e febbraio 2013 sia sulla sodale Turbo che (versante americano) sulla Dim Mak di un altro fan, Steve Aoki, i due volumi della Music From The Eastblock Jungles (infine pubblicati in edizione omnia) rappresentano un mosaico compatto ed efficace dall’indistinguibile retrogusto cupo e polveroso da Armata Rossa. Con un background tipicamente Est europeo come quello di fine Duemila dominato da Depeche Mode, Prodigy e Goa trance, la coordinata principale rimane comunque una electro “conservatrice”, anche se il russo, armato di Roland e qualche campionamento, è in grado di mettere a segno colpi potentissimi senza mettersi a fare del facile citazionismo d’n’b, breabeat o ardokore. Pozharnov, anzi, si muove con destrezza lungo il continuum del genere pescando, di volta in volta, da ritmiche industrial e sincopi Miami bass (Raw, Revolution - original mix), locked groove - e wobblate - à la Mr. Oizo (9000 Original Mix) e marce Beltram (Blood), acid (Audio 16) e remember r&s (Kamuyi) e, naturalmente, un bel po’ di angst à la Charly (già, quella con la Juno). Senza farsi mancare l’assalto all’arma bianca all’esercito EDM - erede per molti versi del Prodigy pensiero - con pezzi sbaraglia concorrenza quali Cobra Combo, Red Juke, Who Are You, alla faccia della Owsla o dell’ultimo Benga. Non è tutto qui. In Time, Coke, 8000 o Junk introducono tocchi groovey, bizzarrie in loop à la Muslim Disco Club, voci esotiche e un po’ d’ironia che non guastano in una scaletta a prova di Glasnost’ e nera come la pece. Il picco dark? Sicuramente Raja Ganja tra un campionamento di note di piano tra le più sinistre, fumatissime scansioni vocali e sincopi spastiche (ma sicuramente anche Abyss con i suoi field sinfonici non scherza). Lavoro importante per amanti dell’elettronica più
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rockista di lungo corso (Parasite - Original Mix), per giovani leve alla ricerca di degni eredi dei Prodigy sul versante dancefloor o spessori diversi da tanta electro usa e getta in circolazione. (7.2/10) Edoardo Bridda
Genere: garage-blues, folk Una festa, è vero: un disco corale. E solare, per di più, a scapito di quanto recita il nome della band. Basta arrivare col fiato corto al secondo disco, chiamare a raccolta “amici” grossi e importanti e, soprattutto, avere le idee ben chiare. Quelle che non sembrano proprio mancare al duo romano che di nome fa Sadside Project. Il genere, prima di tutto: garage-blues tinto da coloriture folk atlantico, suonato con predominanza di chitarra stridente e batteria calpestata, salvo poi farsi trascinare nel rito estatico di fiati, archi e via dicendo. Gli amici in questione sono, per citarne due, Roberta Sammarelli (Verdena) al basso e Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion) alla chitarra. La matrice garage, si diceva, spicca fin da subito nella bellissima The Same Old Story, che, insieme a Edward Teach Also Known As Blackbeard, Nothing To Lose Blues e Molly costituisce, per così dire, l’asse Jack White - Black Keys - Vaccines del disco: intense sfumature di godibile ascolto miscelate a rumoristica spontanea, con corde tese e violentate sul ponte, che non è quello di una nave (come potrebbe far credere l’ambientazione marittima del disco) ma quello di una chitarra elettrica. L’altro fronte che inaugura My Favorite Color - e comprende anche 1959 (The Last Prom), Sloop John B e Hold Fast - è quello gustoso e pastoso dei Mumford & Sons o dei Pogues, in cui l’irruenza viene smorzata dagli arpeggi, dagli archi, senza rinunciare tuttavia alla sacralità delle occasioni collettive, sociali (This Is Halloween inse-
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Nino Ciglio
Scout Niblett - It’s Up To Emma (Drag City, Maggio 2013) Genere: folk rock Mentre ascoltiamo questo disco, sesta prova lunga per Scout Niblett, sembra quasi di vedere il ralenti di ferite che si aprono mentre la crisi sentimentale sboccia e si consuma, melmosa e ruvida. Non è certo una novità in ambito rock, ma fa sempre un certo effetto vedere apparecchiate sulla mensa collettiva le magagne domestiche dell’artista di turno. Meglio se - come in questo caso - non ci sono margini per la calligrafia becera da reality perché un realismo intimista crudo e a tratti crudele si prende tutta la scena. Oltre che nel titolo, dove Scout chiama in causa se stessa col nome di battesimo, il suggello sul certificato di autenticità viene ricercato nell’essenza lo-fi grunge del sound, spartano e frugale come una jam in purgatorio tra Cobain e Jason Molina (vedi la struggente All Night Long) evocata dalla stregona PJ Harvey (l’iniziale Gun sembra piovere direttamente da Dry). Sembra insomma che la (ex) ragazza dello Staffordshire trapiantata a Portland abbia concepito questo figliolino selvatico nella febbricitante solitudine della cameretta, per poi al bisogno fargli indossare abitini più aggraziati (le malinconie d’archi come in My Man e What Can I Do?) o casomai più pesanti (le inquietudini post-wave di Second Chance Dreams), grazie anche al non
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Sadside Project - Winter Whales War (Bomba Dischi, Marzo 2013)
gna in questo), dove la festa, l’occasione rituale, si ripropone in tutta la sua potenza catartica. Il tutto suggellato da una title track che riassume gli umori di questa uscita in mare di melvilliana memoria, con gli echi degli abissi ad accompagnarci e i discorsi delle balene incazzate a tenerci sempre sull’attenti con le orecchie, per scoprire se a queste profondità ci sia veramente qualcosa di nuovo. Così pare. (7/10)
Stefano Solventi
Scout Niblett - It’s Up To Emma (Drag City, Maggio 2013) Genere: Rock, folk Mentre ascoltiamo questo disco, sesta prova lunga per Scout Niblett, sembra quasi di vedere il ralenti di ferite che si aprono mentre la crisi sentimentale sboccia e si consuma, melmosa e ruvida. Non è certo una novità in ambito rock, ma fa sempre un certo effetto vedere apparecchiate sulla mensa collettiva le magagne domestiche dell’artista di turno. Meglio se - come in questo caso - non ci sono margini per la calligrafia becera da reality perché un realismo intimista crudo e a tratti crudele si prende tutta la scena. Oltre che nel titolo, dove Scout chiama in causa se stessa col nome di battesimo, il suggello sul certificato di autenticità viene ricercato nell’essenza lo-fi grunge del sound, spartano e frugale come una jam in purgatorio tra Cobain e Jason Molina (vedi la struggente All Night Long) evocata dalla stregona PJ Harvey (l’iniziale Gun sembra piovere direttamente da Dry). Sembra insomma che la (ex) ragazza dello Staf-
fordshire trapiantata a Portland abbia concepito questo figliolino selvatico nella febbricitante solitudine della cameretta, per poi al bisogno fargli indossare abitini più aggraziati (le malinconie d’archi come in My Man e What Can I Do?) o casomai più pesanti (le inquietudini post-wave di Second Chance Dreams), grazie anche al non piccolo aiuto di amici batteristi quali Dan Wilson, Jose Medeles (già The Breeders) ed Emil Amos, nonché dagli autori di colonne sonore Stenfert Charles. E’ insomma una liturgia del disincanto che la vede tra le altre cose capace di cartigli folkpsych indolenziti circa Will Oldham (Could This Possibly Be?), irrequietezze vaporose Yo La Tengo (il languore terra-aria di Can’t Fool Me Now) e una rilettura di No Scrubs delle TLC che caracolla frusta e ingrugnita come il rimpianto dell’innocenza avariata. Disco ininfluente per le magnifiche sorti progressive del rock contemporaneo e che non sposta il baricentro della carriera di Scout/Emma. Ma è carico di sostanza, densità, passione. Ovvero, è esattamente quello che doveva essere. (7.1/10)
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piccolo aiuto di amici batteristi quali Dan Wilson, Jose Medeles (già The Breeders) ed Emil Amos, nonché dagli autori di colonne sonore Stenfert Charles. E’ insomma una liturgia del disincanto che la vede tra le altre cose capace di cartigli folkpsych indolenziti circa Will Oldham (Could This Possibly Be?), irrequietezze vaporose Yo La Tengo (il languore terra-aria di Can’t Fool Me Now) e una rilettura di No Scrubs delle TLC che caracolla frusta e ingrugnita come il rimpianto dell’innocenza avariata. Disco ininfluente per le magnifiche sorti progressive del rock contemporaneo e che non sposta il baricentro della carriera di Scout/Emma. Ma è carico di sostanza, densità, passione. Ovvero, è esattamente quello che doveva essere. (6.8/10)
Edoardo Bridda
Setti - Ahilui (La Barberia Records, Aprile 2013) Genere: cantautorato, indie La Barberia è una bottega da barbiere situata in centro a Modena. Ogni tanto Giovanni (Papalato) e Luca (Mazzieri) ci fanno i concerti e si partecipa su invito. Chi scrive, pur avendo più volte intascato il biglietto da visita col reminder delle date riportato rigorosamente a biro e mano libera, non ha mai trovato l’occasione per presenziarvi. Però possiede le musicassette ad edizione limitata dell’A Lovely Boy EP dei Wolther Goes Strangers, dello split Be Forest/Brothers In Law, della compilation-tributo agli Altro. Perchè La Barberia è anche etichetta discografica. La Barberia ora, oltre che su nastro, stampa anche
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stare fra i già menzionati - ad esempio i Brothers In Law esploderebbero il riffone praticamente shoegaze, magari da catalogo Slumberland. Il gioco di ambivalenze che sta nel primo verso (“Tu che preferisci avermi dentro che accanto”) vale, musicalmente, per tutto il brano e tutto il disco. Che potrebbe essere una mediazione azzeccata tra il gusto degli italianisti e quello dei più radicali esterofili di casa nostra, che potrebbe piacere un po’ a tutti. Basta accorgersene. (6.8/10) Massimo Rancati
She & Him - Volume 3 (Merge, Maggio 2013) Genere: pop vintage Volume 1: carino. Volume 2: allarme diabete. Volume 3: una colata di melassa vi seppellirà. O, per contrasto, vi verrà improvvisamente voglia di sentire gli Slayer. Va bene, cerchiamo di esser seri: come si fa, anche volendo, a dire qualcosa di spiacevole, sgraziato, disdicevole nei confronti di She & Him? Tutto è cosi piacevole, aggraziato, adorabile. Proprio come Zooey, la new girl da tutti sognata e amata, tanto bella quanto brava, e non è un eufemismo facilone - anzi lo è, ma in ogni caso le cose stanno proprio in questo modo. È indubbio che la reginetta del pop (non si sa quanto) indie abbia un talento direttamente proporzionale alla sua grazia, come dimostra questa nuova infornata di canzoni autografe (più tre cover) e, ancora meglio, l’accuratissima veste allestita insieme al solito M Ward, che dallo sdoganamento midstream del duo ha certamente tratto giovamento. A ogni modo la qualità di songwriting e arrangiamenti parla da sé: proprio come nei due volumi precedenti (senza contare l’evitabile album natalizio del 2011), la grande tradizione americana - quella che va dal Brill Building al Wall Of Sound fino a Pet Sounds, senza trascurare il country di classe - viene devotamente ossequiata, in una serie di dolcissime e vuoi o
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su cd. La prima release a beneficiare del doppio formato è il disco d’esordio di Nicola (Setti), cantautore atipico per il fare imbarazzato che indossa anche quando gli viene l’intuizione, la ponderazione - di fatto - esistenziale (Pezzi), di quelle che i più - specie se laureati in Lettere, specie se italiani - esporrebbero con eccessiva boriosità, poeticizzazione o teatralità: lui no. La proposta di Setti è poi, a maggior ragione, quella di un cantautore atipico per i supporter d’eccezione che lo coadiuvano. Le otto tracce che compongono questo Ahilui sono infatti suonate - oltre che dallo stesso Nicola - dai sopracitati Wolther Goes Stranger. Troviamo dunque Massimo (Colucci) a prestare le drum-machine ed il trapano marchio di fabbrica, a recapitare ritmiche secchissime che saltuariamente ammiccano al surf-pop d’oltre oceano; Linda (Brusiani) a fornire cori distanti ma presenti; l’elettrica riverberata di Luca (Mazzieri, appunto) che qui (Seppia) lavora subdola per scacciare il rischio di troppo marcate inflessioni in zona Dente, là (Zoo, Cugino) squarcia - splendida - l’incedere senza fronzoli dell’acustica. Siede infine al mastering un Jonathan Clancy (A Classic Education/His Clancyness) volutamente incostante nel tener la voce “up in the mix”; a vedersi bene dal rimuovere la patina (ed indole) lofi che esalta un accento emiliano che fa provincia e quindi la confidenzialità dei testi; a rafforzarla, anzi, quasi a mischiare le proprie esperienze con gli spaccati del quotidiano da cui l’autore vede l’America, per quella Kentucky che è (come nei precedenti EP furono Wisconsin e Vermont) esercizio dichiaratamente ispirato dal The Fifty States Project di Sufjan Stevens. Kentucky è inoltre - a nostro gusto personale - la traccia migliore, ma ad emblema del disco non possiamo che eleggere Dinamiche: un’unica strofa, quella più in rilievo, sospesa su un manto praticamente etereo; un’unica strofa che si tronca, assieme alla canzone, giusto dove - per re-
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Jimi Hendrix e i Soft Machine del primo disco, virata verso un lerciume blues ancora più incrostato ed estremo. L’etica è quella del free jazz e così, a momenti in cui la vis avanguardista costruisce muri di suono possenti - impressionate la carica animalesca di Pandi alla batteria e l’organo malato e fondamentalmente soul di Saft, soprattutto nei venti minuti di Accuser - si alternano parentesi in cui gli strumenti procedono completamente slegati e in pura sbornia colemaniana. Nei primi gli Slobber Pup sono maestri, con quel sommare fisicità testosteronica sulla chitarra elettrica, giuste cadenze e buon affiatamento; nei secondi sembrano meno efficaci tra barlumi di autoreferenzialità che talvolta perdono il filo del discorso facendo abbassare la tensione generale per la voglia di strafare. Tecnicamente non c’è storia: i quattro macinano una potenza sonora impressionante. E’ il risultato finale che convince solo in parte, anche quando ci si sposta verso l’universo microtonale (Balalt). (6.4/10) Fabrizio Zampighi
Slobber Pup - Black Aces (RareNoise, Maggio 2013)
Spam & Sound Ensemble - Spam & Sound Ensemble (Retroazione Compagnie Fonografiche, Aprile 2013)
Genere: free blues Il cane rabbioso ritratto in copertina sembra voler riprendere la cover di First Utterance dei Comus. Eppure dietro la sigla Slobber Pup ci sono Jamie Saft (New Zion Trio, Metallic Taste Of Blood), Trevor Dunn (Mr Bungle, The Melvins, Fantomas, Tomahawk), Joe Morris e Balazs Pandi (tra le altre cose, collaboratore di Merzbow e Mats Gustafsson), prime donne di una tradizione discografica che unisce avant, suoni hard, jazz e chi più ne ha più ne metta. Black Aces non fa eccezione in questo senso, con i suoi cinque brani totalmente improvvisati in cui sembra di ascoltare una sintesi tra l’Experience di
Genere: rock 2.0 Ha ancora un senso parlare di “roba inattesa” o di sorprese in tempi di propagazione elefantiaca della produzione musicale? La risposta è affermativa quando un progetto nasce per gioco, non si prende sul serio ma fa le cose con estrema serietà, affonda gli artigli sul noto ma lo stravolge donandogli qualcos’altro di nuovo e procede per una strada che è poco trafficata senza lagnarsi ma facendone, anzi, un punto di forza. Queste le sensazioni che si provano all’ascolto di Spam & Sound Ensemble, esordio dell’omonimo progetto individuale ben presto trasformatosi in terzetto. E che terzetto: al deus ex
Antonio PancamoPuglia
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non vuoi irresistibili caramelle pop, intonate con voce limpida e angelica da Miss Deschanel (gorgheggiante anche nelle intricate armonie vocali, come nell’apertura di I’ve Got Your Number, Son e nel prosieguo di Never Wanted Your Love), che pure oggi sfoggia una maggiore sicurezza interpretativa (Shadow Of Love) e una scrittura ancor più spigliata (Together va dalle parti della disco, e si veda in tale ottica anche la copia carbone di Sunday Girl dei Blondie). Quindi no, in effetti non si puo’ dire qualcosa di spiacevole, sgraziato, disdicevole su questo disco di She&Him. E allora da dove viene quella voglia insostenibile di ascoltare Reign In Blood? Non dalla presenza di Mike Watt come ospite, sebbene solo a leggerlo faccia il suo effetto. Tutto è cosi piacevole, aggraziato, adorabile. Insomma, carino. Troppo carino. Come vedere la terza replica della stessa puntata dello stesso telefilm. Il vero problema per Matt e Zooey è che, trasformato il divertissement iniziale in progetto full time, l’adorabile leziosità si è fatta stucchevole difetto. Ed è un peccato. (5.9/10)
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Gran bella (non)musica per un gran bel (non) disco. (7/10) Stefano Pifferi
Steve Moore - Light Echoes (Cuneiform, Aprile 2013) Genere: analog kosmische Steve Moore è, insieme a A.E Paterra, metà Zombi, esperienza tra le più credibili e longeve del revival dei Seventies trend quali post-prog, kosmische più ambient e dilatata e fascinazioni horrorgoblinesche. Di quella formazione, Moore - una lunga carriera in solo che conta, escluso il presente, almeno tre album lunghi, un paio di split (pure con Majeure) e numerosi singoli - riprende il gusto per le dilatazioni analogico-synthetiche che il compagno di merende Paterra ha sviluppato nel proprio solo-project Majeure. Come a dire che la materia prima del gruppo base si plasma in entrambe le operazioni in solo del duo, con minime differenze. Per questo esordio lungo su Cuneiform, Moore procede di accumulo di synth spacey, nella miglior tradizione primigenia - Tangerine Dream, Vangelis e Klaus Schulze rappresentano un po’ la sacra triade cui Moore è devoto - e revivalista, con gli ultimi Emeralds a fornire più di una pietra angolare. Cercando di imbastire portate stranianti che riportino su pentagramma la vita e la percezione umana dei light echoes - i riverberi di luce solare visibili a distanza di tempo -, Moore non si discosta però dal già noto panorama di riferimento: lunghe distese di suoni in stratificazione che necessitano della predisposizione d’animo a lasciarsi andare lungo crinali spacey e trancey. Gli indizi sparsi qua e là - i titoli di Tyken’s Rift e Protomorphis tratti dagli episodi di Star Trek, l’alone kubrikiano che pervade l’intero lavoro, l’idea concettuale sulla resa sonora di una esplosione di luce avvenuta quasi due secoli fa e a noi visibile solo oggi - sono poi l’indicatore di
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machina Ivan Antonio Rossi, tecnico del suono e produttore ben noto nel panorama italiano, si sono uniti Bruno Dorella e Giovanni Succi, c’est a dire i Bachi Da Pietra, ai rispettivi ruoli. Presenza ingombrante ma a giudicare dallo sviluppo del disco neanche tanto evidente, se non nel declamato stentoreo e/o sussurrato di Succi, perché Spam & Sound Ensemble è in realtà farina del sacco di Rossi, maestro nel condensare in forme musicali “altre” il concetto di “non-luogo”. L’album è infatti una sorta di concept o, meglio, un tentativo di indagine sui non-luoghi della surmodernità teorizzati da Augè da cui Rossi sugge atmosfere e rumori, voci e suoni, disagio e straniamento sotto forma di field recordings da manipolare in forme musicali che agiscono ad ampio spettro. Asperità industriali (Nel basso), retaggi/omaggi (una Ghost Rider made in Suicide stravolta e impreziosita dal sax baritono di Beppe Scardino), stomp quasi techno-rock (Ballo del Macello), elettronica ossessiva, tappeti sonori da minimal-techno sottocutanea (1024 Pills) e oscuri momenti di riflessione à la primi Bachi (Esitando) rendono bene l’idea da melting-pot globale o da colonna sonora della perdita di identità che sottostà all’intero lavoro. I testi poi, raccontati e declamati da Succi ma provenienti anch’essi da un non-luogo moderno, ossia le e-mail spam sgrammaticate - irridenti, spersonalizzate e insolenti manifestazioni della scrittura massiva dell’oggi - si sposano alla perfezione coi suoni donando un surplus di spaesamento all’ascoltatore. A riprova del coraggio e della non consuetudine con cui si muove il progetto di Rossi - “assemblare e non comporre” sembra essere la linea guida del nostro - si ascolti la conclusiva Padreperchémihaiabbandonato: dieci samples dalle dieci tracce precedenti manipolati e assemblati dai Vonneuman in uno straniante Frankenstein sonoro che contiene in sé tutto il pregresso ma, allo stesso tempo, vive di vita propria.
un gusto oscuro, cinematograficamente sci-fi e suggestivamente retrò delle succitate atmosfere cosmiche. Il problema è che il mercato comincia ad essere saturo di certi suoni e che lavori preziosi, stimolanti e ben strutturati come Light Echoes rischiano di perdersi nel marasma generale. (6.5/10) Stefano Pifferi
Genere: impro avant Didymoi Dreams è un recupero caldeggiato, dalla gelida Norvegia, a quasi un anno dall’uscita. Rune Grammofon ci regala la fotografia su CD della performance di Sidsel Endresel e Stian Westerhus al Norway’s Natt Jazz Festival di Bergen, nel 2011, da poco passati anche al Transmission VI, a Ravenna. I due sono noti a chi si interessa di improvvisazione, e punto di riferimento nelle terre nordiche. Sidsel Endresel è la voce - roca, arcaica, fanciullesca, drammatica o autistica a seconda del pattern narrativo del momento; Stian Westerhus è la chitarra, gli effetti, i tocchi elettrici e ambientali. È impressionante come Sidsel sia in grado di continuare a battere una tradizione di improvvisazione vocale femminile anti-melodica senza farsi schiacciare da nomi più noti - dalla Galas a Lydia Lunch. In Immaculate Heart mima l’urlo strozzato di Blixa Bargeld rinnovandone lo spettro di variazioni, e combinandosi con gli spari in sottofondo predisposti da Westerhus. Altro elemento da sottolineare: la dinamica, pur nella tensione esplicita, tra i due protagonisti del live manifesta un equilibrio raro, la vocalità di Endresel è chiaramente in primo piano, ma si intervalla come se fosse carne che ha come contrappunto un ambiente, senza la soluzione di continuità della pelle.
Gaspare Caliri
Still Corners - Strange Pleasures (Sub Pop, Aprile 2013) Genere: dream pop È con immenso piacere che riascoltiamo la voce da ninfa di Tessa Murray, finalmente capace di librarsi limpida e di scoprirsi chanteuse ammaliante e versatile. Poco più di un anno fa quello degli Still Corners era un sound diafano, immortalato in frame cinematografici. Di fatto il duo si accodava a quel trend di suggestioni gotiche, portato a compimento da gente come Cat’s Eyes ed Esben & The Witch. Ascoltando ora l’opener The Trip e il modo in cui incrocia loop electro e lievi tocchi di chitarra acustica, sembra trascorsa un’era geologica. In realtà, con furbizia sospetta i nostri hanno saputo fiutare ancora una volta il vento ed adattarsi alle tendenze del momento. Greg Hughes ha sottoposto la sua creatura a una specie di “cura Chromatics” che le dona lucentezza, rende nitidi i contorni e la fa brillare di sgargianti colori electropop. Poco male, dunque, perché la nuova formula, oltre a rendere il sound della band più attuale, ne lascia intatto il candore melodico. Si aggiunga che Strange Pleasures è una raccolta di canzoni più solida rispetto all’esordio. Sicuramente più coesa e misurata. Brani come Fireflies e All I Know evitano i voli pindarici e riescono a infondere quel calore dreamy di act come i Beach House, grazie a un uso misuratissimo
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Stian Westerhus/Sidsel Endresen - Didymoi Dreams (Rune Grammofon, Luglio 2012)
Il duo riesce nella missione di creare un suono che è al tempo stesso frammento (Barkis Is Willing) e flusso (The Rustle Of A Long Black Skirt), distensione ipnotica (Hedgehumming) e intensità ansiogena (Wayward Ho). Al netto delle polarità opposte, abbiamo un’importante restituzione di un’energia performativa da riuscire a re-intercettare, alla prima occasione. (7/10)
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dell’elettronica, rinunciando alle stratificazioni e prediligendo semplicità e melodia. Quando l’eleganza della Murray si sposa al groove retrofuturista di Berlin Lovers il duo ottiene la quadratura del cerchio, infonde al brano la propria cifra stilistica e si stacca, per un momento, dai modelli di riferimento lasciando intravedere prospettive interessanti per il futuro. (6.3/10) Diego Ballani
Genere: madchester/brit I promettenti The Ruling Class, che cinque anni fa sembravano poter dare vita ad un nuovo revivalismo targato madchester, hanno avuto un percorso effimero terminato dopo la pubblicazione del primo e ultimo EP intitolato Tour de Force. Gli ex-The Ruling Class - Jon Sutcliffe (voce), Tomas Kubowicz e Andrew Needle (chitarre), con l’aiuto di Jakub Starzyński (basso) e Lewis Jones (batteria) - dal 2011 si fanno chiamare SULK. Più che una vera ripartenza, quello a nome SULK rappresenta il proseguimento di un’avventura sotto diversa identità: l’album di debutto Graceless infatti propone in tracklist quattro brani - Sleeping Beauty, Flowers, If You Wonder e Marian Shrine - già presenti nel Tour de Force EP e rivisti per l’occasione. Poco male, stiamo pur sempre parlando di coordinate stilistiche (madchesterbaggy e dintorni) talmente radicate in un determinato periodo storico che non sarà certo mezzo decennio di ritardo a cambiarne prospettiva e contestualizzazione. Anzi, per una utopica nuova madchesterizzazione sono probabilmente più incisivi i recenti comeback live di Stone Roses, Inspiral Carpets e di altri protagonisti brit ‘80-’90 che le modernizzazioni anni zero di Kasabian o The Music. Dopotutto, concetti quali l’integralismo nostalgi-
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Riccardo Zagaglia
Syclops - A Blink Of An Eye (Running Back, Febbraio 2013) Genere: Funk, jazz Sia che si presenti come Dr. Scratch, l’alias ispirato dal suo primo amore (l’hip hop), o che sforni house a nome The Orphies, Sticky People o
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SULK - Graceless (Perfect Sound Forever, Aprile 2013)
co e la perenne celebrazione dei soliti noti sono alla base del DNA di un credo che vanta ancora tantissimi seguaci. In questo scenario i londinesi capitanati da Jon Sutcliffe sono perfettamente a loro agio. Prendendo spunto sia dalle band di culto (Top, Milltown Brothers), sia dai pesi massimi del genere (dai Stone Roses ai Charlatans), i SULK di Graceless vanno dritti all’obiettivo: realizzare una sequenza di potenziali stadium anthems dalla fisionomia brit. In questo senso le dieci tracce del disco prodotto da mr.Ed Buller (storicamente a fianco dei Suede e non solo) non falliscono. Tutto sembra seguire un pattern prestabilito, prendete ad esempio Whises: riff iniziale che già fa intuire facilmente il ritmo baggy della batteria, strofa di scuola Ian Brown e chorus aperto in perfetto stile britpop. Non solo madchester però: nei brani post-The Ruling Class gli intrecci chitarristici che seguono gli insegnamenti guitar-pop di fine anni ‘80 - ma anche di Noel Gallagher - riescono a sfornare anche leggere carezze psichedeliche (la ballad The Big Blue dal ritornello senza tempo), passaggi dal taglio epico-fluttuante non troppo lontano da quello proposto dai Born Blonde (Back in Boon) e in generale da un mood più nostalgico che da 24 Hour Party People. Come Father Sculptor e Northern Portrait (versante Smiths), i SULK dimostrano con Graceless che in qualche caso la qualità media dei brani può compensare in pieno una portata innovativa ai minimi termini. La ricerca del “nuovo” a tutti i costi, per una volta, può attendere. (6.9/10)
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l’anthem super bleeposo che è Jump Bugs, ma anche i due stabber industrial techno/ ‘88 house Sarah’s E With Extra P o Michele’s H With C, in pratica, sunti possibili dell’uomo di Baltimore per i Duemila tra electroclash e progressività, cultura breakbeat e fluorescenze black. Il resto è un mix con i suoi alti e qualche basso (Raj & Claire), come sentire dei Tortoise drogatissimi (Karo’s B) o una samba su Saturno (Back When Lynn - The Classic). Consigliatissimo. Difetti inclusi. (7.1/10) Edoardo Bridda
The Black Angels - Indigo Meadow (Blue Horizon Records, Aprile 2013) Genere: Psycho Rock Arrivare quando la maggior parte dei giudizi che contano sono già stati formulati, ci pone in una situazione in qualche modo defilata, ma ci consente anche di tirare le somme sul nuovo Black Angels in modo più ponderato. Dunque, abbiamo assistito all’impallinamento di Indigo Meadow ad opera di magazine autorevoli come Pitchfork e alla sua difesa da parte dei pasdaran della band. Ovviamente è tutta questione di punti di vista. Il fact checking, invece, ci dice che il combo di Austin è migliorato praticamente in ogni comparto (songwriting, esecuzione dei pezzi e performance live). Chiedere loro i droni e i lunghi stati di trance dei primi due lavori sarebbe stato pertanto fuori luogo. Indigo Meadow è frutto di un progetto più ambizioso. Punta a farsi enciclopedia lisergica, zibaldone di psichedelia applicata al rock, con la presunzione di aggiornare cinquant’anni di tradizione. Che vi riesca o meno, è tutt’altra faccenda. Di certo, riprende il discorso da dove lo aveva interrotto Phosphene Dream. Alex Maas che salmodia come una Grace Slick gotica è ormai il marchio di fabbrica più riconoscibile della band. Per il resto, l’iniziale title track
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Rwj, Maurice Fulton è uno che da sempre regala grandi soddisfazioni a chi alla dance music chiede non solo il ballo, ma anche l’esperienza. Brani come Joy In My Life (a firma Rwj) per la Puu / Sähko di Jimi Tenor o produzioni come Paris Hilton / We Love Guys Named Luke per l’allora moglie Mu sono soltanto due degli esempi possibili dello spettro d’azione di un producer che, partendo da solide fondamenta funk e hip hop e un’instancabile curiosità e abnegazione musicale, ha dimostrato una versatilità a 360°. Va da sé che la sua parabola si riconduce a quella di Madlib: un cammino di specificità all’interno dello spettro black che inizia già alla fine dei 90s con le one man band Eddie & The Eggs (con Tenor presente in due episodi) e Boof, gli starter di un percorso parallelo - e non sempre convergente rispetto al dancefloor - fatto di tocchi geniali e inesorabile dispersione. Non sfugge alla regola l’ambizioso progetto jazz-electro-kraut - con iniezioni 909 - Syclops attivato già a inizio Duemila con tre singoli, ma ufficialmente inaugurato nell’album I’ve Got My Eye On You del 2008. Un disco in cui, sotto la produzione / direzione artistica del producer, si muove un trio di finnici capitanato dal tastierista Sven Kortehisto, già incontrato in alcune produzioni del Jimi Tenor post-dance (Beyond The Stars, Joystone) con Hanna Sarkari al basso, tastiere e elettronica e Jukka Kantonen alla batteria, percussioni e batteria processata. Il lavoro subisce una leadership inesperta ma A Blink Of An Eye, secondo atto della sigla che arriva a ben quattro anni di distanza da quella prova, è qui per riscattarla. L’album non è per nulla a presa rapida come lo è stato Istiklaliya degli Aufgang. Niente accademia e virtuosismi a freno dunque, ma un Fulton pienamente ai comandi in una jam con un taglio tanto funk acido e minimale sulle analogiche e i bleep, quanto cosmico e space à la Hancock sulle aperture e il “suonato”. Tra i must, Unmatched,
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The Child Of Lov - The Child Of Lov (Domino, Maggio 2013) Genere: post-soul/funk Le bombe post-r&b/soul di inizio decennio hanno letteralmente rivoluzionato la black music. Lo hanno fatto partendo dal basso, creando nuove icone del pre-mainstream (The Weeknd), regalando nuovi nomi alle zone alte delle charts (Frank Ocean) e, non ultimo, costringendo le
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superstar già affermate ad aumentare il contenuto artistico delle proprie opere (da Usher a Justin Timberlake). Oggi, che i pionieri del mutamento sono giustamente acclamati quanto lanciati e che anche il mainstream ne ha inglobato alcune caratteristiche, è il sottosuolo a necessitare di una nuova spinta rinnovatrice. Dopo alcune uscite minori (Collarbones) e l’atteso debutto degli Inc. rivelatosi poco ispirato, ci ha pensato Autre Ne Veut a riportare in alto l’asticella della corrente white r&b. In questo scenario, il ruolo di The Child Of Lov è un po’ quello del jolly della situazione, musicalmente più diretto e contagioso e meno incline all’astrazione. Dopo aver nascosto per qualche tempo la propria identità, l’olandese Cole Williams/The Child Of Lov ha sfoggiato tratti somatici est-europei ed una vistosa tendenza agli outfit improbabilmente kitsch (se prendesse How To Dress Well alla lettera, oltre che come nume tutelare...). Lanciato sulla rete da singoli quali Heal, Give Me e Fly, TCOL ha recentemente completato la personale conversione alla cultura black attraverso la realizzazione dell’omonimo album di debutto, pubblicato via Domino con il supporto collaborativo di Damon Albarn (che tra l’altro duetta nella fattanza da divano intitolata One Day) e DOOM. Flussi sonori ed influenze - per dire, Give Me unisce Beck e Cee-Lo Green - scorrono inarrestabili verso il punto di congiunzione chiamato The Child Of Lov (ovvero Light, Oxygen e Voltage), un pericoloso incrocio privo di semafori dove basta un nonnulla per creare un incidente (alias cadere nel pacchiano fuori controllo). Fortunatamente fila quasi tutto liscio nel vorticoso susseguirsi di beat di scuola hip-hop (Living The Circle), di falsetti imperiosi e di torride atmosfere da - Dirty - Southern USA. Il cuore di Cole dice D’Angelo, ma nelle sue vene scorre un sangue Funkadelico che arriva fino Prince (Heal), passando per André 3000.
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introduce un concetto di groove che spezza la monoliticità dei pezzi e apre il sound degli “angeli” a nuove e intriganti soluzioni. Canzoni come Evil Things e Love Me Forever godono di riff importanti, ma non si esauriscono in essi. Hanno arrangiameti sofisticati, ispirati alle stramberie del freakbeat o agli anfratti più curiosi di Nuggets. In molti hanno citato frettolosamente gli Strawberry Alarm Clock, laddove Broken Soldier assomiglia più ad una Love Me Two Times eseguita dagli Electric Prunes. Se la frizzante You’re Mine ha quell’approccio ipnotico alla Silver Apples ascoltato di recente anche nei Moon Duo, Don’t Play With Guns è una rumorosa ed allettante puntata verso i Jesus And Mary Chain di Automatic. In tutti i brani è l’organo a piazzare la nota sinistra, ad abbassare gli scuri su un album che sarebbe un’incredibile esplosione di colori, se solo lasciasse filtrare più luce. Questa è la cifra stilistica dei Black Angels, quella che li rende immediatamente riconoscibili e che ci consente di soprassedere sui momenti meno brillanti del disco. Anche in un pezzo come I Hear Colors, tenebrosa trasfigurazione dei Jefferson Airplane, il gruppo passa in rassegna un corredo cromatico tutto virato al nero, svuota il sogno lisergico dei connotati utopistici e propone la sua psichedelia come uno dei paradigmi più adatti ad interpretare la contemporaneità. Come se il 1969 non fosse mai finito. (6.95/10)
to, perché quando battono quella strada i risultati sono oltremodo sodisfacenti. Si finisce dunque per raccontare cosa poteva essere Reward Your Grace, conferma implicita di un ottimo disco se si parte senza grandi pretese. (7/10) Stefano Gaz
The Heliocentrics - 13 Degrees Of Reality (Now Again, Maggio 2013)
Genere: psych hip-hop funk Gli Heliocentrics di Malcom Catto erano attesi al guado del secondo disco. Tolte le collaborazioni con Mulatu Astarke e Lloyd Miller, mancavano dal 2007, anno di pubblicazione del loro debutto Out There e sei anni di assenza dalle scene, per quanto impegnati con i grandi, sono un temRiccardo Zagaglia po fuori dall’ordinario. 13 Degrees Of Reality riprende il discorso lasciato a metà da Out There, The Feeling Of Love - Reward Your facendo ovviamente tesoro dell’esperienza maturata e inquadrando la loro psichedelica fusion Grace (Born Bad, Aprile 2013) hip-hop-jazz-funk secondo una lente di ingrandiGenere: garage mento che ne esalta, se possibile, il lato cinematiHanno sempre qualche fantasma da inseguire co e onirico. i Feeling Of Love. Prima macinando il blues L’intro politica con il campionamento della voce putrido dei Blues Explosion e ancor più i Doo Rag, poi avvicinandosi al mondo della psichede- di George W. Bush che parla di “Nuovo Ordine Mondiale” si traduce all’istante nella loro idea lia (con i Velvet Underground sempre bene in di soundtrack del Grande Sogno Americano, testa) e infine, con questo Reward Your Grace, che secondo la voce campionata di Malcom X, arrivando a bazzicare territori shoegaze. a seconda del punto di vista, può facilmente E’ il disco più facile dei Feeling of love, quello in diventare un “American Nightmare”. Il suono degli cui i retaggi garage e ‘60s trovano forma stabile Heliocentrics è costruito per tre quarti dal ritmo. in una manciata di pop song dal gusto jangle, Catto alla batteria e Jaker Ferguson al basso sono eteree con vibrato positivo, in parecchi casi non una delle sezione ritmiche più affiatate e geniali meno che perfette (“I Could be bettere tha you che si possano ascoltare oggi e, in brani come but i don’t wanna change, Mostly pet semen units, You’re my lullaby”). Poi, come detto, chitarre in fe- Ethnicity o Misterious Ways, si riesce ad inquadrare facilmente l’alchimia tra i due. edback per tutte le dieci tracce in scaletta, senza voli pindarici e senza la sfrontatezza che contrad- L’esperienza con Mulatu Astarke non poteva non lasciare i suoi frutti: il suono degli Heliocentrics, distingue il combo francese. ancora più che in passato, osa con sicurezza in Manca allora la droga di Jason Pearce - decisamente nelle loro corde ma relegata a episodi spo- territori esotici, dove all’inizio si affacciava timoradici come Castration’s feed - ed è un vero pecca- roso. Collateral Damage è una danza mediorien-
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Colpisce senza dubbio nel segno quando il trademark si fa più corposo (Give Me, le battute sbilenche di Owl con flow di DOOM), quando il ritmo prende il sopravvento (Fly, nuovamente in zona Gnarls Barkley) e nel manifesto autoreferenziale Warrior, mentre convince meno in episodi minori come il languido tocco soul di Call Me Up o gli eccessi retrò - e vagamente reggae - della solare Give It To The People. Era forse lecito aspettarsi qualche cartuccia in più a livello di esordio lungo, ma i pezzi da novanta ci sono già tutti, figli sia di una potenza vocale fuori dal comune, sia di ottime idee a livello strumentale/compositivo. Nonostante la caratura e l’impostazione da indie-r&b, non è azzardato parlare di ipotetiche hit-tormentone. (7/10)
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tale, Freeness, Pt. 2 si muove sui ritmi ancestrali dell’Africa, ma il capolavoro del disco è Wrecking Ball, con il suo ritmo melmoso, voodoo e i geniali inserti psyco-etnici di Jack Yglesias (l’esperto di kalimba, flauti, strumenti autocostruiti) e Ade Owusu (l’uomo alla chitarra, al santur o al koto). Rispetto ad Out There il gioco si è fatto più serio e quadrato. C’è meno citazionismo pulp e più sostanza autoriale. Non è ancora il loro capolavoro, ma la sensazione è che alla prossima fermata potrebbero arrivarci. (7.5/10) Antonello Comunale
Genere: pop, indie Metti che hai esordito nella seconda metà degli anni ‘80 per la Creation. Metti che hai forgiato un suono unico. Metti che sei esploso da te, prima di esplodere a livello commerciale e non solo, ma comunque hai radunato un culto devoto che nel tempo non fa che crescere, anche se tu di fatto (quasi) sei scomparso. Metti che ritorni dopo vent’anni con un disco. Metti che no, non sei i My Bloody Valentine, perché il tuo comeback non fa notizia. Metti che però tu le belle canzoni le hai sempre sapute scrivere, perché ti chiami Guy Chadwick e ora al tuo fianco c’è di nuovo compare Terry Bickers con la sua magica sei corde (è tornato con te dal 2005 in realtà, da quel bel Days Run Away che aveva segnato l’effettivo ritorno discografico della premiata ditta - ebbene sì, abbiamo un po’ barato, ma la sostanza cambia poco). Metti che, insomma, sono (ri)tornati gli House Of Love, e lo hanno fatto con un disco di quelli semplici, diretti, che sembrano dir poco e invece dicono tante cose, su chi li ha fatti, sulle loro storie (personali e artistiche), sulla musica che hanno amato, che suonano e - si spera per loro - continueranno a suonare.
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Antonio PancamoPuglia
The Neighbourhood - I Love You (Columbia Records, Maggio 2013) Genere: pop rock / hip&b A novembre dello scorso anno parlavamo di “cinque tracce sospese tra ‘indie’ pop-rock, calore r&b-soul e cadenze hip hop” per descrivere I’m Sorry... EP dei The Neighbourhood. Da allora, la band guidata da Jesse Rutherford ha visto aumentare le proprie quotazioni grazie alla crescente attenzione mediatica rivolta al singolo Sweater Weather. I’m Sorry presentava una patina un po’ troppo spessa sotto la quale veniva soffocato il non trascurabile estro della band. Il debutto lungo intitolato I Love You (nuovamente via Columbia) era quindi l’occasione giusta per concedere maggio-
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The House Of Love - She Paints Words In Red (Cherry Red Records, Aprile 2013)
Ma le nostalgie per i cari tempi andati non sono propriamente di casa: i seducenti viluppi shoegaze delle incisioni storiche (ristampate di recente, peraltro) hanno ceduto il passo a un folk-rock quieto ma non privo di sottili inquietudini (la title track, o meglio ancora l’incipit da manuale di A Baby Got Back On His Feet, con la chitarra jangly di Bickers sugli scudi); e quindi una vecchia b side del ‘91, Purple Killer Rose, si trasforma in una ballata semiacustica (PKR) che all’inizio cita Paint It, Black e tiene alta la tensione per esplodere solo nel finale. Metamorfosi che restituisce già sulla carta l’idea della cifra odierna della band di Camberwell, sospesa tra il mood meditabondo e melodico del Butterfly Album, infatuazioni ‘60 comprese (Money Man, Hemingway), e l’esigenza di esprimere sentimenti più grandi, come nell’ariosa Holy River (tra Echo & The Bunnymen e James, con un pizzico di Big Star). Per farla breve, canzoni buone (anzi: belle), scritte bene e suonate con gusto. Cose per cui hype e febbre da streaming, iperboli e classifiche di fine anno possono anche attendere. (7/10)
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chevole. Chi ha da sempre un debole per il The Neighbourhood-sound dovrà mettere il cuore in pace: da oggi andare a un loro concerto vorrà dire immergersi in un contesto da MTV TRL. (5.5/10) Riccardo Zagaglia
The Thermals - Desperate Ground (Saddle Creek, Aprile 2013) Genere: Punk Rock Punk rock lo-fi sanguigno e ancora ispirato quello dei The Thermals, trio made in Portland in transito da Kill Rock Stars a Saddle Creek, che dopo l’indie-treggiare del precedente Personal Life sembra ritrovare unghie e velocità con questo sesto album. Bello l’impasto di chitarre e basso, “rough” ma comunque morbido, pastoso ma con accenti di brillantezza, mentre la batteria corre a testa bassa e la voce, sporca e filtrata, ci ricorda il piglio discorsivo e polemico (qui quasi sermonico nel suo consueto impegno sociale e politico) di certo punk-hardcore/post-rock anni ‘90; d’altronde dietro al mixer c’è il producer John Agnello, già con Sonic Youth e Dinosaur Jr. I pezzi sono brevi, di una melodiosità incazzosa e malinconica, con uno sguardo alla sintesi abrasiva del garage e una vena romantica che a momenti ricorda Guided By Voices o primi R.E.M.; abbastanza pop da lasciarsi ascoltare con estrema semplicità e abbastanza punk da prendere a morsi i cugini mainstream Green Day, evocati in particolare nel singolo Born To Kill. Non mancano i cali di tensione e una certa ripetitività di fondo non garantisce grande autonomia in termini di numero di ascolti. L’impressione complessiva, tuttavia, è buona, per una band ancora vitale che in futuro potrebbe acquisire il peso specifico della piena maturità e riservare svolte inattese. (6.6/10)
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re spazio alle proprie intuizioni e, parallelamente, cercare di non rallentare la corsa verso il grande pubblico. Una metà scarsa delle undici tracce di I Love You potrebbe far da colonna sonora per gli attimi che seguono il tramonto, quando tutto diventa più buio. Tinte noir-urbane e ritmi downtempo scandiscono i passi di una camminata serale in un quartiere difficile, con gli hoodlums sempre in agguato. Tutto sembra tranquillo, ma in realtà non lo è. La voce sussurrata - quasi da boy-band - di Rutherford è perennemente sospesa nel suo scandire geometricamente le melodie e si amalgama a un comparto strumentale fatto di synth, rumori, tappeti atmoferici e facili beat (non preoccupatevi se vi troverete ad annuire a ritmo durante l’ascolto). Un post-modernismo pop dove non possono di certo mancare le tracce spudoratamente radio friendly basate sulle quelle “scelte stilistiche già cucite addosso a Lana Del Rey” (la cantilena Afraid), peraltro già portate alla luce da Female Robery, qui disponibile in una versione lievemente aggiornata. A proposito del paragone con Lana Del Rey: nonostante l’assenza quasi totale di archi alcuni particolari sonori sembrano essere stati presi letteralmente in prestito dai suoi dischi (durante W.D.Y.W.F.M e Staying Up, ad un certo punto, penserete a Born To Die). Le highlight si chiamano Let It Go (già presente nel mini-EP Thank You uscito ad inizio 2013) con il suo “Remember what the people said, Remember what the people said” e How. Alleways è un piccolo diversivo con ritornello alla U2 anni Novanta, mentre purtroppo si intercettano ancora pericolose sbandate verso le paludi della banalità (il chorus di Flawless), soprattutto nella seconda parte del disco. Un album d’esordio che - come quello di Woodkid - definisce ulteriormente personali coordinate musicali già ben strutturate, smussando però gli angoli fino a rendere il tutto piuttosto stuc-
Antonio Laudazi
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Genere: ‘70/’80 pop-rock USA Continuo ad osservare la copertina di Strike Gently ma niente, il nome The Virgins non mi dice proprio nulla. Scatta quindi la ricerca e in un attimo arriva l’illuminazione chiamata Rich Girls: in un millesimo di secondo la mente vola al 2008 quando questi newyorkesi sembravano pronti a conquistare il mondo, cosa che - ovviamente non è avvenuta. In breve tempo i conti iniziano a tornare e si rifanno vive immagini e suoni completamente rimossi: il video della sopracitata Rich Girls (se non sbaglio, in high rotation anche qui in Italia), l’immaginario da fighetti drogati e quel mix di power-pop, Strokes e Franz Ferdinand che caratterizzava il loro omonimo debutto. Cinque anni di silenzio, dovuti principalmente - pare - a una crisi creativa del leader (e unico superstite della vecchia formazione) Donald Cumming, prima di riaffacciarsi sulle scene con il secondo album. Strike Gently, che è anche il primo lavoro pubblicato dalla neonata Cult Records di mister Julian Casablancas, porta necessariamente a una ripartenza post-tabula rasa all’interno dell’universo sonoro dei Virgins. A un lustro di distanza e con la formazione della band completamente rivoluzionata, tornare sui passi funky e spavaldi degli esordi non avrebbe portato a nulla. Non è detto che lo faccia la direzione intrapresa con Strike Gently, ma almeno Cumming ci ha provato. Pur continuando il revivalismo fine ‘70-inizio ‘80, libero da qualsiasi imposizione da major (il debutto usciva per Atlantic/Warner), l’ex bullo sciupafemmine pare aver voluto abbandonare la frenesia e i party di NY e partire con tutta la calma del mondo in direzione West Coast, imboccando la via che passa per gli USA più autentici, tra rare stazioni di servizio e sperduti avamposti per vecchi alcolizzati. Capita così di lasciare per
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strada scie che suonano come vecchi ricordi della Grande Mela (di tanto in tanto si fa viva l’aura di Lou Reed) da esorcizzare (il groove di Flashbacks, Memories, and Dreams poteva far parte del disco precedente). Lungo il viaggio il Nostro fa la conoscenza di autostoppisti che hanno le sembianze di inglesi dispersi che si fanno chiamare Dire Straits (Wheel Of Fortune), dei Cars con le auto in panne e di una ingannevole chioma bionda che risponde al nome di Tom Petty. Quando in lontananza intravede Don Henley, capisce di essere quasi arrivato a destinazione, intona What Good Is Moonlight e si torna fare festa, ma sulla spiaggia e con un retrogusto più nostalgico. Strike Gently è la coming-of-age di Donald Cumming, un percorso di maturazione forse irrilevante visto dall’esterno, ma artisticamente importante a livello personale. (6.3/10) Riccardo Zagaglia
Tokimonsta - Half Shadows (Ultra Music , Aprile 2013) Genere: Web Shuffle TOKiMONSTA è il moniker dietro il quale si cela la produttrice losangelina di origine asiatica Jennifer Lee. Le doti della giovane ragazza californiana si erano già viste nei primi due full lenght - e altrettanti EP -, materiale che aveva ben impressionato con un particolare gusto instrumental hip hop dalle sfumature cosmopolite wonky e trip hop. Dopo i primi lavori prodotti non a caso per Brainfeeder - crew e label di FlyLo - arriva il passaggio alla major via Ultra Music con Half Shadows, il classico album studiato per fare il salto di categoria (full streaming su Noisey - canale musicale di VICE - e un nuovo look con tanto di capello viola/verde metallizzato). TOKiMONSTA - o più probabilmente Ultra Music per lei - decide di puntare sulla duttilità, promuovendo un disco dal mood variegato grazie a
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The Virgins - Strike Gently (Cult Records, Marzo 2013)
Davide Nespoli
Tricarico - Invulnerabile (Nar, Marzo 2013) Genere: pop Osteggiato dall’indiemondo più cool (o pseudo tale) perché poco ortodosso e connesso con la sfera major/”popolare”, troppo fuori target per essere pienamente accettato dal mainstream del bel canto, Tricarico è da sempre rinchiuso in un limbo. Una zona franca i cui confini sono stati tracciati, nel tempo, da una sensibilità ingenua, romantica ma anche capace di attrarre un pubblico affezionato. A noi il personaggio è sempre sembrato un po’ il Syd Barrett della melodia all’italiana: se non sperimentatore come il musicista inglese, allo stesso modo stralunato e convinto sostenitore di una creatività surreale e
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fortemente legata all’infanzia (chissà cosa avrebbe pensato di lui Gianni Rodari). Quella creatività che la ormai celeberrima e autobiografica Io sono Francesco del 2000 fece finire in tutte le radio italiane grazie a un “puttana la maestra” capace di fruttare airplay nascondendo in realtà un testo toccante; la stessa che a Sanremo 2008 presentava una Vita tranquilla sgraziata e intensa al tempo stesso, efficacissima nell’arrivare al pubblico meno allineato e più sensibile (con tanto di Premio della Critica). Decisiva nel diffondere il verbo, anche l’umanità di un Tricarico che proprio in occasione del Festival si mostrava pesce fuor d’acqua in un carrozzone mediatico capace solo di schernirlo per la sua diversità. Giglio, il disco pubblicato di lì a poco, finiva per essere una delle produzioni migliori del musicista, se non proprio lo zenith di una carriera votata al cantautorato meno banale. La sesta e ultima tappa del viaggio si chiama Invulnerabile, dieci tracce (più una Io sono Francesco in versione chitarra, batteria, basso) in bilico tra rock e pop che confermano in pieno lo stile dell’ultimo Tricarico - meno interessato alla filastrocca bambinesca, più “istituzionale” nei toni - pur non aggiungendo quasi nulla al quadro generale: L’America è un buon rock elettrico in mid-tempo che parla di accettare la realtà (“Non so se è peggio ma è / è solo quello che c’è / e non è l’America / ma forse è meglio così”), Riattaccare i bottoni è un inno alla semplicità e all’amore, La natura è una riflessione di stampo quasi baustelliano sul tempo, Amico mio vorrebbe veicolare una certa positività nell’affrontare la vita. Non tutto riesce alla perfezione (si annusa un po’ di involontaria retorica, ogni tanto) e probabilmente non si tratta del disco migliore del Nostro, ma il musicista milanese è comunque bravo ad aprire parentesi di vita vissuta che ispirano tenerezza, guadagnandosi una certa complicità. (6.4/10)
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un’intricata rete generi e di texture sonora e servendosi di alcune collaborazioni. Il risultato però è un album iPod in modalità shuffle, senza capo né coda e suddiviso in compartimenti stagni. Passando con nonchalance da banali tracce trap (808) a rivisitazioni James Blake (Moon Rise) Jennifer Lee rivanga ogni sottogenere “hip” dell’ultimo biennio senza aggiungere niente ad ognuno di essi. L’apporto di Focused Choas - praticamente un “verso” a Yo-Landi Vi$$er - è poco più di quello che potrebbe essere un rmx ai Die Antwoord, mentre in The Force si intravede una copia sbiadita dei Death Grips (ma senza un briciolo di verve). All’appello, nei featuring con Gavin Turek, non manca una mal riuscita chillwave di derivazione italo disco - più vicina al pop generico anni ‘80 o alla dance anni ‘90 che ai Chromatics - e neppure un future pop à la Claire Boucher (vedi Go With). Con tanta carne al fuoco raramente le idee sono farina del sacco di un ragazza che comunque si mostra per quello che sa fare nel finale (una manciata di discreti brani come Soul To Seoul o Green). E’ troppo poco per salvarla. (5.5/10)
Fabrizio Zampighi
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Genere: Hip Hop Arriviamo alla terza seduta, nella quale Tyler fa un bel sospiro e lascia da parte la violenza gratuita di quel Goblin (2011) dove, nell’oscuro scrutare di un animo ancora troppo disobbediente per aprirsi il cuore, la perversa misoginia (unita all’abilità espressiva del genio ribelle) soffocava in parte le evidenti capacità dell’artista. In Wolf il protagonista non cambia direzione, ma affronta il percorso in maniera diversa, più aperta e sincera. La maturazione è evidente anche dal punto di vista della produzione e ha un rapporto più sapiente con le strumentazioni, per non parlare delle collaborazioni che hanno influito non poco sullo svolgimento di questo ennesimo conflitto psicologico interno. L’umore dell’album è sinusoidale, la rabbia si alterna a una confidenza che ha del commovente e, nonostante la trama sceneggiata risulti marginale, il triangolo d’amore creato dall’autore è il primo passo verso la piena coscienza delle proprie capacità. Gelosia e sofferenza animano la vicenda di una ragazza contesa tra due giovani bulli. Non bastano le dichiarazioni jazzy neptuniane (Ifhy, prodotta da Pharrell Williams, Neptunes appunto) o meccanicamente poetiche (Bimmer, con Frank Ocean) per calmare lo spirito di un protagonista che non si nasconde dietro a lettere aperte che ricordano l’Eminem di Stan (Answer) o che dice la sua riguardo al crack (48, con NAS e Frank Ocean) o alla nonna scomparsa (Lone). La tendenza straight-edge di Tyler ha comunque le sue inclinazioni e il personaggio a cui siamo abituati ritorna in alcune delle sue dementi ospitate. La metrica di un Lil’ B si confonde alla molestia di un non più-teenager iperattivo, accompagnata anche da buona parte della crew Odd Future (Hodgy Beats, Earl Sweatshirt, Domo Genesis per citarne alcuni) a dargli man
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forte (Jamba, Domo 23, Rusty). Laddove termina il lamento chopped&screwed (Awkward) emerge l’ammaliante soul di un semplice beat e di una fantastica Erykah Badu (Treehome95) e Tyler non fa altro che confermare il talento ostentato più volte ma raramente colto (Oldie anyone?). Lo fa sfogandosi completamente in un’analisi di se stesso rivista dal mondo esterno, reagendo alle critiche che subisce e concentrandosi sul suo ruolo nella scena (la geniale Rusty, “Hated the popular ones, now I’m the popular one” “Saying I hate gays even though Frank is on 10 of my songs”). Nonostante la voglia di distruggere prevalga su quella di costruire (Pigs), il talento anarchico di Tyler non è solamente provocazione ma dimostra una capacità riflessiva al pari dei propri coetanei californiani (Underachievers) o dei cugini neoclassici dell’east coast (Joey Badass, Pro Era Crew). He can rap. (7.2/10) Asmir Lalic
Vampire Weekend - Modern Vampires Of The City (XL, Maggio 2013) Genere: indie-pop, alt-rock New York, 24 novembre 1966: è il giorno con la più alta percentuale di smog nella storia di New York City (si contarono almeno centosessantanove vittime), immortalato in una fotografia di Neal Boenzi utilizzata per la front cover del terzo album dei Vampire Weekend. Una scelta che dà subito un segnale inequivocabile: i tempi del college sono finiti, ed è il caso di scrollarsi di dosso l’immaginario fatto di colori accesi, scarpe da tennis, polo e spensieratezza. I ragazzi sono diventati uomini, e lo dimostrano in Modern Vampires Of The City - un’opera riflessiva, densa, matura. Il disco in assoluto più “americano” della band, che si allontana da New York e immagina di visitarla di notte, con tutte le sue suggestioni, i suoi spettri, quasi scrutandola dall’alto di un grattacielo; non
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Tyler the Creator - Wolf (Odd Future Records, Aprile 2013)
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l’occhio ai Police in Unbelievers, si riprende Step To My Girl dei Souls Of Mischief in Step (lanciato come doppio lato A con Diane Young), si attinge dalla musica iraniana (in omaggio alle radici di Batmanglij) per le linee di synth della scalpitante Worship You e si tenta di avvicinarsi con cautela e con la dovuta deferenza alla poetica di Serge Gainsbourg in Finger Back. Inusuale l’arrangiamento vocale di Ya Hey (che sia un obliquo riferimento a Yahweh, Dio del popolo ebraico?) che si sorregge su una base alla Modest Mouse, così come la ghost story del ventunesimo secolo Hudson, ispirata alla storia dell’esploratore che scoprì la Hudson Bay. C’è anche un brano su Hannah Hunt, ex compagna di college e ora compagna di vita dell’ex Girls Christopher Owens. Se Vampire Weekend e Contra erano cartoline di viaggio geograficamente inteso, Modern Vampires Of The City (titolo in debito con One Blood di Junior Reid) è invece un viaggio dell’anima, un album “rotondo” in cui tutti gli elementi sono collegati tra loro e operano in simbiosi. Elegante, forbito, accessibile da ogni mente aperta che non abbia paura di farsi sorprendere, mai banale, chiude una trilogia prendendo anche direzioni inaspettate (e condivide con i predecessori l’impostazione del packaging). A modo suo convince, ancora una volta. (7.1/10)
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che le sonorità afrobeat siano del tutto scomparse, è solo che i nostri hanno giocato a nasconderle e a mescolare le carte con soluzioni inedite, sequenze di accordi minori e riflessioni sul senso della vita, sul passare del tempo e sulla religione (“Penso che la religione sia più una sensazione personale che deriva da un’esperienza. Qualcosa di più grande di noi stessi”, ha affermato il frontman Ezra Koenig. “Ci sono cose che è possibile condividere e altre che invece no, si possono solo immaginare”). Sono trascorsi tre anni da quando Contra arrivò nei negozi di dischi, ma già nel 2011 Ezra aveva iniziato a gettare le basi del nuovo lavoro con Rostam Batmanglij nella stanza di quest’ultimo, a Brooklyn. Poi ci fu la volta del soggiorno a Martha’s Vineyard, isola del Massachusetts vicina alla costa meridionale di Cape Cod (citata in una hit dall’omonimo debut album) nota ai più per essere stata il setting de Lo Squalo di Steven Spielberg e per il triste destino di John Kennedy jr. e della moglie Caroline, morti in un incidente aereo; qui nasce una delle highlight dell’intero disco, Don’t Lie, al tempo stesso un ossequio alla tradizione del Brill Building - ricordate il rondò di Every Breath I Take di Gene Pitney, la prima produzione importante di Phil Spector? - e un brano fresco, vivido, che non stonerebbe all’apertura di un summer party. Ancora più decisivo, tuttavia, è stato l’incontro con Ariel Rechtshaid (già al lavoro con Usher, Major Lazer e We Are Scientists), vecchio amico di Rostam con il quale l’alchimia si è rivelata perfetta, al punto tale da far sentire il co-produttore dell’album quasi come fosse un membro effettivo dei Vampire Weekend. I vampiri della città saranno anche moderni, ma si tuffano sempre con piacere nel passato. E non solo per via delle apparecchiature vintage con cui il disco - con arpeggi di pianoforte, chitarre acustiche e un organo in bella evidenza - è stato inciso. Se prima era impossibile non avvertire nella miscela l’influenza di Paul Simon, qui si strizza
Alessandro Liccardo
Venua - Blah Blah Blah (Libellula Music, Marzo 2013) Genere: indie pop Il cambio di line-up per i bergamaschi Venua, con l’ingresso di Marco Fasolo dei Jennifer Gentle alla batteria - anche produttore artistico di questo secondo lavoro -, contribuisce, per lo meno, a regolarizzare l’intermittenza di un rock ballerino e per certi versi incompleto. La verità è che rimanere appesi a quel sottilissimo filo che lega (ma si può fare?) i Black Keys a Fred Bu-
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sante se lo si vuole interpretare alle soglie del teatro-canzone, solo che (così almeno ci pare) non era questo l’intento di una band che ha comunque le carte in regola per fare meglio e di più: l’originalità del sound (garage-canzonissima), la compattezza delle parole e un bel po’ di palchi calcati. (5/10) Nino Ciglio
Wax Idols - Discipline and desire (Slumberland, Aprile 2013) Genere: post punk C’è un discreto cambio di rotta in questo secondo disco delle Wax Idols rispetto al precedessore. Se in No future era il binario garage a prevalere rispetto alle sfumature post punk, ora il discorso è completamente invertito, tanto che siamo qui a parlare di un disco post punk in tutto e per tutto. Con Discipline & Desire cambia il panorama ma non la sostanza, in positivo e negativo. La scrittura di Heaten Fortune continua ad essere perfettamente pop, essenziale, capace di gestire le sfumature emo senza sputtanamenti di sorta e senza cali di tensione, con spazio per qualche hit riuscitissima (When it Happens, The Cartoonist) e omaggi revivalistici come AD RE:Ian. L’altro lato della medaglia è quello che fa intravedere un songwriting a stampino su stilemi post punk dietro cui la Fortune gioca a nascondino, lasciando l’impressione di un talento che deve ancora trovare il modo di esplodere definitivamente. Le canzoni ci sono, comunque, e il disco piace, confermando l’ottima impressione già maturata ai tempi dell’esordio. (7.1/10) Stefano Gaz
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scaglione è un’operazione non da poco, di certo complessa. Per carità, gli episodi ci dicono che Blah Blah Blah è un disco compatto, con testi quanto meno fruibili, arrangiamenti sempre attentissimi e una personalità sicuramente straripante. Forse questo è un primo difetto, non a caso riscontrabile nel novanta per cento dei gruppi italiani: si pecca a volte di un eccesso di teatralità dovuto alla voglia di mettersi in mostra a tutti i costi, teatralità insita comunque nel nostro DNA. Bisognerebbe, certe volte, tenersi di più le mani in tasca. Un esempio per capirci meglio: in 9 settembre, brano rockeggiato e molleggiato (quasi alla Celentano), la metrica delle parole è molto articolata e la prima strofa finisce con “..quando inizi a parlare vuoi sempre ragione, rendendoti Superman..MAN!”. Ebbene, quel “man” finale (ricorre più volte nel brano un procedimento simile) gridato (in delay) è l’emblema di un’enfatizzazione, di una teatralizzazione non del tutto necessaria. Il gap semantico nel quale ricade molto spesso questo disco è il non saper togliere, il non zittirsi quando è il momento, trasformando tutto in un ottimo esercizio di recitazione. Come già accennato, le geometrie degli arrangiamenti sono sapientemente gestite, alimentate anche da registrazioni rigorosamente analogiche: Se vuoi, devi gode di un respiro blues, tinto dalle note di un Rhodes e di un convincente riff di chitarra alla Strokes; Via Petrarca è una ballata di piano e arpeggio in stile Because dei Beatles, paradossalmente più equilibrata e meno forzata degli altri brani del disco; Sunday è proprio il brano domenicale, da balera, da Morandi, Zanicchi e Mina, in cui (forse solo per un abbassamento di voce del cantante ai tempi delle registrazioni) la teatralità che giustamente richiede una band che si ispira anche al Fred nazionale, si fonda bene con il retroterra musicale (cosa che, ad esempio, non succede nella successiva Aprile dolce dormire). Blah Blah Blah rappresenta un affresco interes-
Genere: rock La classe non è acqua, bensì una questione innata che col passare del tempo non si affievolisce. Specie se ad averla, quella classe, sono band storiche come gli Wire e se gli anni passati cominciano ad essere tanti, nello specifico trenta abbondanti. Change Becomes Us è infatti una raccolta di materiali non propriamente di primo pelo risalenti al biennio 1979-80 e opportunamente risistemati, revisionati e ri-registrati per l’occasione dal neo-quartetto (la new entry Matthew Simms alla chitarra è ormai parte integrante della band da The Black Sessions). Roba che negli anni era comunque apparsa come sketch da sviluppare in sporadiche occasioni live o come semplici abbozzi che ora divengono un affascinante ibrido tra il tempo dell’ardore e quello della sedimentazione matura del suono degli Wire. Ne esce paradossalmente un album coeso, molto più vicino, com’è ovvio che sia, alle ultime pubblicazioni della ennesima nuova fase della band inglese: mature, posate, meno urgenti e abrasive, eppure sempre godibili da ascoltare e molto più a fuoco rispetto alla netta contrapposizione che caratterizzava i primi (nuovi) passi, Object 47 su tutti. Nei momenti più groovey (Keep Exhaling) o accesi (la punkish Stealth Of A Stork), in quelli più riflessivi (B/W Silence) o ipnotici (Time Lock Fog), con cadute di stile a volte decisamente imbarazzanti (Adore Your Island tra chitarre da stadio e stantio impeto) o alle prese con una sensibilità pop mai banale (Re-Invent Your Second Wheel), quella degli Wire del terzo millennio è musica ad ampio spettro che verso la fine, con una Attractive Space dagli effluvi e dal retrogusto insolitamente (ehm) floydiani, sembra chiudere un cerchio su un trentennio di musiche. Dunque, per accoglienza e valore intrinseco di Change Becomes Us, vale da che prospettiva ci si pone di fronte: se si prende come il volume finale
di una tetralogia mai conclusa si rimarrà per lo meno perplessi, se invece ci si confronterà pacificati col passare del tempo e col conseguente ammorbidimento generalizzato allora ci si ritroverà un ottimo (e inoffensivo) disco di rock di classe. A ognuno il suo. (6.5/10) Stefano Pifferi
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Wire - Change Becomes Us (Pink Flag, Aprile 2013)
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Anthony
Phillips Arpeggi celesti dal mondo privato Testo: Filippo Bordignon
Co-fondatore dei Genesis insieme a Gabriel e Co., Phillips si racconta su SA ripercorrendo una carriera di totale indipendenza tra capolavori poco noti, stravaganze acustiche e tentativi elettronici 126
I fan dei Genesis sanno bene quanto sia stato basilare l’apporto del chitarrista Anthony Phillips, che della band fu co-fondatore insieme ai suoi più celebri compagni; la fioritura artistica avvenuta nel periodo a cavallo tra l’esordio incolore del 1969 e quel Trespass che sancì il primo boom europeo del gruppo fu per buona parte farina del suo sacco, così come alcuni appunti musicali poi rivisitati e inseriti negli album successivi. La semi-patologica ritrosia del buon ‘Ant’ per l’attività concertistica e un carattere marchiato da una disarmante umiltà lo incasellano nel limbo delle rockstar mancate, pur possedendo un ‘pedigree’ discografico ricco di ottime prove soliste ed eclettismo a palate. Vanno però evidenziati anche i tanti, troppi progetti non finiti o ultimati in condizioni tecniche semi-professionali, che egli ha comunque deciso di rendere pubblici; assorbito dall’attività compositiva per la Library - catalogo
di musiche disponibili in licenza per pubblicità, tv, radio ecc. - Phillips ha scelto di dedicare alla musica maiuscola (quella cioè, non composta su commissione) ritagli di un tempo insufficiente affinché reggesse il confronto con le grosse produzioni di Gabriel e soci. A ciò si aggiunga l’incorrotta volontà di muovere ogni passo nella propria vicenda musicale secondo stimoli avulsi da trend o strategie commerciali, con conseguenti tonfi di vendite e il crescente disinteresse delle società di distribuzione. Per quelli che ne ignorano l’esistenza poniamo dunque i seguenti interrogativi: chi è ma, soprattutto, cos’ha creato Ant dopo il fatidico abbandono dei Genesis? Anthony Edwin Phillips nasce a Putney, Londra meridionale, nel 1951. Come migliaia di adolescenti affascinati dal mondo del pop, fonda un gruppetto con alcuni compagni di college, gli Anon. Sparring partner di questi primi tentativi è
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il chitarrista Mike Rutherford, col quale si instaura una profonda amicizia e si pongono le basi per un’intesa che presto maturerà i suoi frutti più preziosi. Stesso college stesso periodo, una seconda coppia di studenti formata dal cantante e flautista Peter Gabriel e dal tastierista Tony Banks (e coadiuvata dal batterista Chris Stewart) sta vivendo un’avventura analoga a nome Garden Wall. La chiusura dei corsi scolastici pone fine a entrambe le esperienze sennonché, nel ‘67, i cinque pensano bene di unire le forze per registrare dei demo e sperare in un qualche risultato; dopo due anni di rodaggio e l’assunzione di un nuovo batterista (John Silver) manca solo l’occasione per il debutto ufficiale. L’esordio è mal gestito dall’amico e produttore Jonathan King il quale battezza il quintetto Genesis, cucendo addosso a una manciata di brani ritenuti
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i migliori del repertorio l’inconsistente grandiosità concept che da il titolo alla raccolta From Genesis To Revelation (‘69, Decca). A nulla vale il dispiego del mezzo orchestrale, accatastato su canzoncine di scarso valore artistico. Oltre a ciò, in ambito live la situazione si fa tesa: lo scontento di Ant ha inizio con la soppressione di alcune ballate romantiche in favore di pezzi più accattivanti, sicché dovremo attendere il cofanetto Genesis Archive 1967-75 (1998, Virgin) per ascoltare un gioiellino come Let Us Now Make Love, prova acustica che non aveva mancato di commuovere, in veste di spettatore, un giovanissimo Nick Drake. La svolta è determinata dal cambio di etichetta (dalla Decca alla Charisma), di batterista (John Mayhew) e di manager, con l’ingresso del determinante Tony Smith. Afferrate le redini della situazione, Ant diviene ‘direttore artistico’ di Tresspass (‘70), album che teorizza il Genesis sound mediante un innovativo utilizzo di arpeggi chitarristici debitori al folk britannico (ma contestualizzati in strutture prog-rock) e per la maturazione interpretativa di Gabriel, finalmente detentore di quel timbro vocale rauco ma evocativo alla base della riconoscibilità del progetto. Gli interventi più incisivi del Nostro sono la composizione (testo e musica) di Vision Of Angels (dedicata a Jill Moore, poi sposa di Peter) e la cavalcata The Knife; motivi di felicitazione emergono inoltre nelle atmosfere crepuscolari di Stagnation e nell’inquietante Looking For Someone. All’indomani dalla conclusione dell’album però, il chitarrista lascia il gruppo, adducendo la propria inconciliabilità con la vita on the road. Lo shock è tale che - caso unico rispetto alle successive defezione di altri componenti ‘chiave’ - i rimanenti propendono per sciogliere la band; ma così non fu e le prove da studio successive affineranno la formula di partenza, perfezionandola grazie al contributo fondamentale del nuovo chitarrista, l’oggi ben noto Steve Hackett, e all’ingresso del vulcanico Phil Collins alla batteria. Se il fantasma
di Ant aleggia nel successivo Nursery Cryme (si ascolti la splendida Harlequin) il Nostro, dal canto proprio, sembra scomparso nell’anonimato della periferia britannica. Nell’anno successivo le sue maggiori fatiche saranno qualche partita a tennis, il calcio e l’amato cricket. Nel ‘71 si iscrive al Royal College of Music di Londra, ottenendo il diploma e, con esso, la possibilità di insegnare part-time nelle scuole di Reeds e Peper Harrow, fino al 1978. I rapporti con gli ex-compagni, nel frattempo, sono rimasti pacifici; se Gabriel sfrutterà in un paio di occasioni lo studio casalingo di Ant registrando i demo per quello che avrebbe dovuto essere il suo prima album solista, con Rutherford si pianifica, a partire dal ‘73, la tracklist per un lavoro in coppia, The Geese And The Ghost; a causa degli impegni pressanti in vista del tour di The Lamb Lies Down On Broadway però, il grosso viene inciso e terminato sotto la direzione del solo Ant, nel ‘75. L’album avrà storia travagliata, venendo rifiutato dall’etichetta Charisma e finendo nel limbo discografico fino allo sblocco di due anni successivo, per l’americana Passport. Da molti ritenuto summa dell’estetica antiana, The Geese And The Ghost sintetizza quello stile ibrido esposto solo parzialmente nell’opera dei Genesis; sostenuta dal respiro bucolico dei celebri arpeggi acustici della chitarra a dodici corde e caratterizzata da una manciata di brani memorabili, l’opera si attesta
tra le migliori prove soliste tra quelle licenziate dall’intera lineup Genesis: c’è la saggia intuizione di consegnare alla voce di Collins le struggenti Which Way The Wind Blows e God If I Saw Her Now (ben prima che il gruppo pensasse al batterista come vocalist dopo l’abbandono di Gabriel); c’è la ricchezza visionaria della suite Henry; Portraits From Tudor Time; c’è la tenera interpretazione del Nostro su Collections; c’è la titletrack, tour de force da quindici minuti in un microcosmo che è indefinibile visione da un medioevo contemporaneo, tra clangori di chitarre e interventi orchestrali di composta eleganza. Il mancato successo di critica e pubblico incoraggiano il musicista a convertire il proprio estro in favore dell’universo Library. Il progetto più travagliato dell’intera discografia solista ha inizio già all’indomani del suo esordio: ispirandosi al romanzo di Henry Williamson Tarka la lontra, Ant e il figlio dello scrittore, il polistrumentista Harry, producono una serie di strumentali con l’intenzione di provvedere alla colonna sonora di una papabile versione cinematografica della storia. La Hit’n Run - management dei Genesis - decide coraggiosamente di foraggiare le pre-produzioni, impreziosendole col contributo della National Philharmonic Orchestra: a causa dello scoppio del fenomeno punk i nastri vengono giudicati privi di appeal commerciale e sembrano destinati al dimenticatoio. Grazie a un finanziamento, nel 1987 il lavoro giunge a un completamento giudicato soddisfacente: nonostante l’intersezione di incisioni vecchie e nuove e l’aggiunta ex novo dell’Anthem finale, il risultato ascoltabile nell’edizione del 1996 per la Blueprint si attesta tra le più superbe prove compositive di Phillips. Tarka The Otter è mistura di visioni della campagna del Devon in cui le chitarre si fondono splendidamente con la strumentazione orchestrale (si ascolti, a questo proposito, il primo movimento). Di simile interesse la pubblicazione di Gipsy Suite (‘95, Voiceprint) contenente, oltre
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ai demo per sole chitarre di Tarka The Otter, anche la suggestiva titletrack, suite del ‘78 composta e suonata a quattro mani dai due amici. Ma il film? Per ben due volte lo scrittore rifiuterà le offerte della Walt Disney, affidando infine il copione al semisconosciuto regista David Cobham, il quale dirigerà nel ‘77 una versione priva di mordente narrata da Peter Ustinov, evitando di utilizzare le musiche già prodotte dal duo. Ma torniamo alla fine degli Anni ‘70: checché ne dica l’autore, il formato canzone gli riesce meravigliosamente, come traspare nel sottovalutato Wise After The Event (‘78, Arista). Pur non rinunciando a finezze strutturali poste là dove meno te le aspetti, il contesto di semplificazione rende fruibili ma non banali pezzi come l’ambientalista Greenhouse, Paperchase o il romanticismo sui generis in Moonshooter. Tra i motivi non trascurabili di questo stato di grazia, la presenza di sessionmen quali Michael Giles (King Crimson) alla batteria e John G. Perry (Caravan) al basso. Evidenziamo inoltre un numero perfetto per infiammare il pubblico in sede live: la titletrack infatti, forte di un’originale progressione di accordi arpeggiati produce un’atmosfera trascinante che va oltre il prog dei tecnicismi, riscoprendo quell’urgenza tipica del migliore rock. Compresa la non praticabilità di un tour a causa della ritrosia del Nostro, si tenta di arginare il problema con un giro promozionale radiofonico; da una di queste esibizioni viene tratto Radio Clyde (2003, Voiceprint), live per chitarra e voce del quale l’autore è giustamente perplesso ma che rappresenta l’unica occasione - assieme a The Living Room Concert (Blueprint, ‘96) registrato quindici anni più tardi - per sentire le versioni “dal vivo” di pezzi forti quali Which Way The Wind Blows e Collections. Sempre nel ‘78 la Passport stampa per il solo mercato americano Private Parts And Pieces, raccolta di brani quasi prevalentemente strumentali che non avrebbero trovato collocazione nell’ottica della Arista; ha qui inizio la diluizione della carriera di
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Ant in una manciata di vaghe collane tematiche accomunate da frammentarietà e qualità spesso casalinga delle registrazioni. Il primo capitolo delle Private Parts (da ora semplicemente ‘PP’), possiede il fascino della stravaganza, ammiccando con l’alterato incrocio pianistico Beauty And The Beast e servendo su un piatto volutamente spartano gradevoli spunti(ni) pianistici (Autumnal) e dolcezze simili a ninnananne (Field Of Eternity). C’è spazio inoltre per il ripescaggio dei primissimi Genesis con la superba Stranger, fortunatamente aggiunta nella reissue del 2010. Il resto si perde in arpeggi senza una direzione precisa, nonostante titolature che balzano all’occhio (Tibetan YakMusic) e occasioni di cantautorato evase a metà (Seven Long Years). L’ultimo tentativo dell’Arista è col travagliato Sides (‘79): si apre scoppiettando con una delle canzoni più entusiasmanti dell’intera discografia, quella Um & Aargh che, attaccando di petto lo show biz, è forse il migliore testo scritto dal Nostro. Lo stato di grazia prosegue con I Want Your Love - ballata d’amore in cui strofa, bridge e ritornello s’incastrano a meraviglia in un formato tradizionale ma commovente - e si inanella la tripletta col folk pop Lucy Will. Bypassata la leggerezza di Side Door e Holy Deadlock, il lato B sputa la mordacchia con le geometrie quasi fusion di Sisters Of Remindum e il prog più classico nella conclusiva Nightmare. Ma il prodotto non convince: la Arista scioglie il contratto e Ant temporeggia rovistando nell’armadio dei ricordi più recenti: la seconda PP, Back To The Pavillion (‘80, Passport), alterna outtakes di Wise After The Event a schizzi casalinghi. Tra gli episodi più eterogenei della serie, il disco si distingue per i quindici minuti della pomposa Scottish Suite (cui sarebbe giovata una linea vocale per farne un pezzo compiuto) e per le prime divagazioni atmosferiche (Heavens) in cui è palese un feeling new age tutt’altro che illuminato. A questo punto, nello stupore del musicista supponiamo - la Rca stipula un contratto per la
realizzazione di 1984 (‘81), pappone di elettronica ruminata da un approccio meramente tastieristico al synth. Divagazione robotica fuori tempo massimo, il lavoro non evoca alcuna immagine che non sia musicale, lasciando all’ascoltatore il solo compito di prendere atto di fraseggi dal timbro sintetico e oggi terribilmente datati. Nel frattempo riprende il progetto PP: Antiques (‘82, Passport) testimonia l’incontro con il giovane e sconosciuto chitarrista argentino Enrique Berro Garcia. La strana coppia elargisce a piene mani barocchismi di lieta fattura da chitarre classiche, elettriche, a dodici corde ecc.. Ant è entusiasta. Alla fine dell’ascolto però, poco o nulla resta impresso. Invisible Men (‘83, Passport), scritto in coppia con tale Richard Scott, inaugura lo studio domestico londinese di Ant con una new wave che, pur non appartenendo al Dna dell’ex-Genesis, dispensa alcune canzoni di pregevole fattura vantando inoltre un miglioramento interpretativo e nel controllo vocale; tracce come Exocet e Traces avrebbero certamente ottenuto un qualche successo di classifica, provviste di un accattivante videoclip e promozionate con apparizioni televisive ed esibizioni live ma Ant preferisce non mollare, puntando piuttosto sulle composizioni del “carrolliano” musical rock Alice, in cartellone nella città di Leeds per poco meno di un mese e presto defunto a causa della mancanza di un’adeguata struttura promozionale. La quarta PP (A Catch At The Tables, ‘84, Passport) raschia il fondo del barile con una brutta mistura di pezzi elettronici adatti per B movies dannatamente eighties e i soliti schizzi acustici. La quinta PP (Twelve, ‘85, Passport), di per contro, consta di un graziosissimo concept dedicato ai mesi dell’anno: affidandosi all’ispirazione di un tema tanto ovvio quanto complesso, l’autore rilascia una delle sue testimonianze più efficaci con brani di avvincente complessità armonica (January) i quali, pur non conferendo alla sua dodici
corde la profondità trascendentale di un Robbie Basho, lo confermano tra i protagonisti dello strumento provenienti dal pop-rock. La sesta PP (Ivory Moon, ‘86, Passport) accetta la difficile sfida di una prova al solo pianoforte con composizioni nuove e vecchie che tradiscono l’influenza del Romanticismo ottocentesco: dal quarto d’ora della malinconica This Old House all’ennesima suite (Sea-Dogs Motoring che, in realtà, si limita ad accostare quattro brani con un minimo di affinità reciproca) l’operazione riesce al pari della maggior parte delle PP, confermandosi esercizio solidamente privato per collezionisti della prima ora. La settima PP (Slow Waves Soft Stars, ‘87, Audion) rastrella incisioni degli ultimi cinque anni, alternando ambient di buona fattura (Ice Flight) alle solite miniature acustiche. A ben ascoltare però, siamo in odor di Library, con episodi sonnolenti somministrati talvolta oltre la soglia del buon senso. Inizia qui una nuova serie di - attualmente - quattro uscite, tra l’89 e il 2004, i così detti Missing Links ossia una selezione di tracce strumentali (le migliori?) ideate per la Library. Nonostante le note di copertina avvertano che “questa musica è
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scritta per progetti specifici e ha dovuto conformarsi a discipline particolari” resta l’interrogativo sulla scelta del materiale e, più generalmente, sulla necessità di queste pubblicazioni; la maggior parte dei brani infatti galleggia nella più innocua muzak che sia dato concepire, con temi buoni per sigle di chiusura di programmi in seconda serata (con le dovute eccezioni, certo, come nel caso della incantevole It’s All Greek To Me, estratta dal quarto volume). Imprevedibilmente, gli Anni ‘90 si aprono con un contratto per la Virgin Publishing in qualità di compositore per film televisivi; l’etichetta gli sovvenziona Slow Dance (‘90), ambizioso strumentale in cui oltre alle sue abilità di polistrumentista, Ant impiega trenta elementi per una suite in due movimenti. Il tripudio delle influenze classiche, impiegate con perizia e gran dispiego di mezzi, non licenzia però la sperata pietra miliare: incapace di inventare un sottogenere l’album suona più come un ibrido inadatto per il fruitore di musica classica (il quale non potrà perdonare certe ingenuità negli arrangiamenti e l’utilizzo talvolta naïf delle tastiere elettroniche) e lascia perplesso il fanatico del pop, intenerito al massimo dal patetismo di alcune scelte melodiche sparse nei 50 minuti di musica qui raccolta. Stimolato dall’immissione sul mercato del proprio catalogo rimasterizzato nella sua quasi totalità in formato cd, Ant sceglie di aggiornare le PP, giunte
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all’ottava edizione: New England (‘92, Virgin), pur trattandosi di solo materiale inedito è vittima del modus pensandi di sempre, con l’eccezione delle canzoni Unheard Cry e Sanctuary. Sullo stesso livello qualitativo le PP IX (Dragonfly Dreams, del ‘96) e X (Soirée, per solo pianoforte, ‘98). Il fondo è toccato con la pubblicazione delle musiche per un documentario televisivo su una gara di yatch; Sail The World (‘94, Resurgence) ha come unica novità la costante presenza della batteria programmata; la ragione è spiegata dallo stesso Ant nella fanzine italiana sull’universo Genesis di Mario Giammetti, Dusk: “Trattandosi di un programma sportivo volevano qualcosa di molto ritmato (..) ho solo fatto ciò che mi è stato chiesto”. Testardamente al di fuori da ogni ottica commerciale è il pur godibile The Meadows Of Englewood a quattro mani col chitarrista argentino Guillermo Cazenave (‘96, Astral). A meritare una menzione è forse la sola titletrack, il pezzo più lungo della carriera di Ant (37 minuti, molti dei quali non indispensabili) apprezzabile per l’ottimo livello dialogico tra tastiere ambientali e chitarra elettrica. Il decennio si conclude con una piccola perla su cui riflettere: The Archive Collection vol. 1 (cui seguirà un prescindibile vol. 2 nel 2004 sempre per la Blueprint) ripesca nell’apparentemente infinito archivio antiano stralci, schizzi e demo version dal 1969 al ‘90; a stupire è lo strumentale F Sharp nel quale - sorpresa! - sono presenti 2/3 della struttura di The Musical Box, da molti considerato il capolavoro dei Genesis. Un dettaglio evidentemente “sfuggito” alla band, la quale non ha mai indicato il Nostro tra gli autori della storica canzone. Ultima segnalazione sul versante dei lavori originali è Field Day (2005, Blueprint), con tutta probabilità il lavoro acustico più felice del catalogo, pur nella non facile fruibilità di un doppio cd esclusivamente chitarristico: senza fronzoli né pretese si dipanano sessantadue brevi acquerelli musicali, apprezzabili per dolcezza e artigiana maestria. Per nulla intenzionato a contenere la propria buli-
mia creativa, Ant elargisce nel solo 2012 ben due album, entrambi per la Voiceprint: vincente la parentesi orchestrale in coppia con Andrew Skeet, Seventh Heaven; meno entusiasmante l’elettronica vagheggiata in City Of Dreams, undicesima uscita delle PP. La speranza per il futuro prossimo è che egli ottenga un finanziamento in grado di consentirgli pianificazione, realizzazione e distribuzione su grande scala di almeno un altro progetto da lui ritenuto imprescindibile; sarà poi facile soppesarne senza “se” e senza “ma” il valore effettivo non attribuendo colpe ai limiti di un sistema discografico comunque sbilanciato verso compositori a lui certamente inferiori. Ci auguriamo, inoltre, che tale fatica lo impegni per due o tre anni di riflessioni accurate, durante le quali sarà chiamato a operare un freddo sfoltimento del materiale sonoro affinché si torni a gridare senza indugi al capolavoro. E per dirla con la saggezza di Mark Hollis - leader di quei Talk Talk apparentemente distanti dalla storia qui sintetizzata - “Prima di suonare due note, impara a suonarne una e non suonare nemmeno quella, a meno di avere un buon motivo per farlo”. L’intervista Anthony, c’è una nota ironica scritta in calce da Vivaldi sullo spartito di un aria dell’Orlando Furioso: “Se non vi piace questa smetterò di scrivere musica”. Mai avuto quest’intenzione? Certo che sì, fin dai tempi successivi a The Geese And The Ghost in cui fui, diciamo, “incoraggiato” dalla mia etichetta di allora a tentare aree commerciali che non mi appartenevano. Se non altro oggi sono libero di incidere quello che mi pare e inoltre i costi per produrre un album, grazie alle nuove tecnologie, sono calati drasticamente. The Geese And The Ghost: sotto il profilo tecnico, qualcosa non ti soddisfa? Beh sì parecchie cose, ma al tempo non avevamo molte alternative viste le situazioni in cui fu registrato. Rumori e scricchioli elettrici nelle registrazioni, perdita di qualità audio durante la post-pro-
duzione e tanti altri dettagli non mi soddisfano, ma che ci puoi fare? In Wise After The Event ci sono alcune delle tue migliori performance vocali: perché non incidi un maggior numero di brani cantati? Sei molto gentile ma mi sa che in pochi la pensano come te; spesso infatti ho scritto e cantato in tonalità che non erano esattamente indicate per una voce limitata come la mia. A questo proposito, tanto per dirtene una, quei tipacci dei Genesis avevano ribattezzato la mia canzone Stranger (“Lo sconosciuto”) in Strangler (“Lo strangolatore”) a causa della mia incapacità di sostenere le note più alte nel bridge! Mi è capitata sottomano una dichiarazione del comico John Cleese (ex-Monty Python): “Chi più ride, più impara”. Che ne pensi? Ci sono diverse modalità di apprendimento; si passa dalla posizione di Berlioz secondo il quale “Imparare ammazza l’istinto” a “La tecnica ti aiuta a suonare quello che vuoi quando lo vuoi”. Dove mi colloco io? Se ripenso al mio primo maestro di chitarra, era una specie di mago, in grado di tradurre dopo un primo ascolto le canzoni dei Beatles in uno spartito per pianoforte che suonava perfettamente identico alla canzone originale. Davvero miracoloso! A ogni modo al tempo la pazienza non era il mio forte perciò mi limitai a imparare gli accordi delle canzoni che mi piacevano glissando su altre nozioni più legate all’impostazione. Quando lasciai i Genesis, invece, mi sono messo a studiare seriamente pianoforte e chitarra classica; la cosa più difficile a quel punto fu disimparare alcune abitudini erronee che ormai facevano parte del mio stile. Sono certamente migliorato molto, sotto un profilo tecnico, ma non ti nascondo che mi chiedo spesso se, avendo perso quell’istintività tipica degli autodidatti, non sia svaporata anche una certa spontaneità compositiva. Quando lavori alla musica per una trasmissione televisiva scegli di relazionarti con le immagini sullo schermo o preferisci comporre in
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maniera indipendente da esse? Guarda non ho mai scritto musica per i film del grande schermo; mi sono cimentato sopratutto per documentari naturalistici. Il mio caro amico Nick Gordon - che oggi purtroppo non è più con noi - tornava dai suoi viaggi in Amazzonia con queste fantastiche riprese: ai miei occhi sembravano immagini di un mondo perduto con tutte queste piante e animali incredibili.. era facile allora tradurre quelle suggestioni con l’aiuto del mio partner musicale del tempo, il percussionista Joji Hirota. Lì effettivamente ci limitavamo a rispondere alle immagini. Altre volte capita invece che io abbia già per le mani un brano o una successione di accordi che si sposano bene col filmato in questione e allora il gioco è fatto. Che ricordi hai delle session di un gioiellino incompreso come Sides? Incompreso dici? Ammetto che è stato bello tornar a lavorare con Mike Giles e John G. Perry sotto la guida di un produttore quale Rupert Hine, ma allora ero combattuto tra la tentazione di lavorare a lunghi pezzi strumentali e la pressione della casa discografica, che spingeva perché scrivessi canzoni dalla durata radiofonica. Alla fine la spuntò l’etichetta. Qualcuno potrebbe obiettare che non ho avuto abbastanza palle in questa faccenda e infatti uno dei titoli che avevo in lizza per l’album era proprio Balls (“palle”) e non Sides. Era una provocazione del mio grande amico, l’illustratore Peter Cross che, tra l’altro, sarebbe stata in linea con la copertina, la quale ritrae appunto un biliardino. Ma poi arrivò il rifiuto della Arista e alla fine ci accordammo per un più generico Sides (“Facciate”) visto che si alternava una facciata di canzoni e una con pezzi più complessi. Riascoltando un album bizzarro quale 1984 viene da chiedersi quali siano le tue preferenze in fatto di elettronica. Alcuni tra gli imprescindibili del genere, tipo Vangelis e Mike Oldfield, passando per Kraftwerk, Brian Eno e, più recentemente, Aphex Twin.
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Quali erano i tuoi ascolti al tempo di Invisible Men? C’è dentro una strana new wave che non sembra appartenerti.. Wise After The Events, Sides e 1984 rappresentano la mia discesa nel mondo della musica commerciale. Tieni conto che il prog era considerato out; l’intenzione era quella di semplificare quanto più possibile. Al tempo ricordo di aver apprezzato alcune band considerate “new romantics” come gli Orchestral Manouvres In The Dark. All’inizio comporre Invisible Men fu un’esercizio divertente ma ammetto che dopo un po’ diventò dura continuare ad approcciarsi a quel tipo di musica: il motivo fu che, in definitiva, non era il genere al quale sentivo di appartenere. Cosa ti schifava maggiormente nell’essere in tournée? Mi sono preso la mononucleosi in una forma molto debilitante proprio la primavera che precedeva il tour di Trespass: sapevo che quel genere di infezione ti circola nel sangue per almeno un anno, nel quale devi sforzarti di mangiare sano, dormire abbastanza, startene al caldo, evitare lo stress. Le mie paure si avverarono nel freddissimo inverno a cavallo tra il ‘69 e il ‘70: inizialmente i disturbi furono solo di carattere nervoso ma poi si unirono una serie di seccature.. alcune delle quali davvero esilaranti! Tipo suonare davanti a un pubblico di una persona sola.. o suonare dal vivo una chitarra acustica a dodici corde che a causa della pessima amplificazione non concede altro che feedback.. o subire l’orribile sfuriata di un noto batterista contro la moglie, colpevole di essere venuta ad assistere alle prove. Anche se ci sono stati tanti episodi divertenti, allora avevo appena diciassette anni e per me quella situazione era semplicemente troppo. Qual è il tuo giudizio su Hackett alle prese col blues? Nell’album Blues With A Feeling, ad esempio, mi sembra il chiaro esempio di un musicista che suona il blues ma non possiede il feeling necessario...
Mai sentito quell’album. Quali sono chitarristi che ascolti ancora con piacere? Vai di elenco: Hank Marvin, George Harrison, Brian Jones e Keith Richard, Eric Clapton, Peter Green, Jimi Hendrix, Simon Nicol e Richard Thompson nei Fairport Covention, John Whitney dei Family, Brian May coi Queen. Eppoi ancora il liutista Julian Bream, John Williams, Pat Metheny, Steve Vai e i miei compari Quique Berro Garcia, Mike Rutherfors e Steve Hackett! Tornando agli ex-Genesis: che dici del Gabriel che azzarda una veste orchestrale per i suoi classici in New Blood? La maggior parte dei brani non aggiunge nulla alle versioni originali.. Ehm.. mai sentito neanche questo. I Brand X di Moroccan Roll? Di nuovo, la memoria m’inganna e ho vaghi ricordi di quell’opera in particolare; suppongo si trattasse di un prodotto virtuoso e ben congeniato. Meglio cambiare argomento; le composizioni di musica classica che avresti voluto scrivere? Ci sarebbero centinaia di musiche straordinarie da consigliare. Dovendo sceglierne alcune ti dirò I Pianeti di Gustav Holst; l’adagietto dalla Sinfonia N. 5 di Mahler; i tre balletti più importanti di Stravinskij; le così dette Variazioni Enigma e il Concerto Per Violino di Edward Elgar; la Sinfonia N. 5 di Ralph Vaughan Williams; la Mamma Oca di Ravel; il Preludio Al Pomeriggio Di Un Fauno e la maggior parte dei lavori per pianoforte di Debussy; Shahrazād di Rimskij-Korsakov; Karelia di Sibelius.. Mai idolatrato qualche band durante la tua adolescenza? Un sacco! Oltre ai più ovvi Beatles e Rolling Stones impazzivo per John Mayall, i Procol Harum, i King Crimson, Crosby, Stills, Nash & Young, Joni Mitchell e Paul Simon. Non ti pare che il rock sia una questione da adolescenti? Beh sì ma può emozionare anche quelli più at-
tempati, così come un ragazzo può appassionarsi ad altre forme musicali apparentemente meno accattivanti. E poi hai cominciato ad apprezzare con cognizione di causa certe colonne sonore... C’erano queste bellissime musiche scritte per il cinema e per il piccolo schermo, gente come il vostro Ennio Morricone (che adoro, è semplicemente IL Maestro), George Fenton (le musiche del capolavoro Gandhi), Alan Silvestri (Ritorno al futuro), Dario Marianelli (V per Vendetta), Alexander Desplat (La ragazza con l’orecchino di perla) e Thomas Newman (Vi presento Joe Black). Ti è familiare l’opera di Piero Piccioni? Non lo conosco.. e ora mi hai incuriosito. Polistrumentista, compositore, arrangiatore, produttore: dove credi di dare il meglio? Dovendo scegliere, scelgo il compositore; mi ritengo anche un musicista che non se la cava male con la chitarra a dodici corde. Col senno di poi, come giudichi il progressive letto nella sua interezza? Importantissimo. È stato necessario per allargare i confini dei vari generi lavorando sulla struttura delle canzoni. Chiaro che talvolta la tendenza fu di adottare un modus eccessivamente pomposo.. oggi non è che ascolti molte registrazioni di quei tempi ma di tanto in tanto scopro qualche brano anche recente - dalla bellezza disarmante. Tipo? Ti stupirò con un gruppo italiano: i Moongarden di Cristiano Roversi. Ascoltati Demetrio And Magdalen dal loro esordio del 2009 A Vulgar Display Of Prog. Cosa ti inorgoglisce riascoltando il tuo nuovo City Of Dreams? “Inorgoglisce”.. diciamo che mi piacciono particolarmente un paio di pezzi ma poi c’è il fatto che avendoli ascoltati e riascoltati per settimane alla fine sono diventato troppo critico con quel materiale per poter stilare un giudizio obiettivo. Magari lasciandolo decantare per un paio d’anni e
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poi riascoltandolo me lo gusterei maggiormente. Anche se a dire il vero ci sono certi miei lavori che proprio non mi va di risentire. Il titolo significa qualcosa? La titletrack composta con suoni registrati al contrario che apre l’album ha, dal mio punto di vista, un non so che di onirico ma inspiegabilmente urbano. Da qui la scelta del titolo. Non credi che certi artisti concedano con generosità eccessiva il proprio materiale? Mi chiedevo a questo proposito con che criterio hai scelto le musiche inserite nella serie Missing Links? Chiedo spesso il parere di un collaboratore fidato, Jonathan Dann, che gestisce il mio sito web, e poi vado a spulciare i commenti sulle tracce che ho depositato presso la Library per farmi un’idea di quali siano quelle che funzionano al di fuori dall’associazione coi filmati per i quali sono state commissionate. Sei uno stacanovista o l’ideale per te sarebbe goderti le gioie della quotidianità? Non sono sposato, non ho figli ma ho un sacco di nipotini e nipotine e me la spasso anche solo a guardarli giocare a calcio. Eppoi c’è il cricket! La mia vita a Londra procede in maniera fin troppo “sociale” perché il mio lavoro ne tragga giovamento, ma questo controbilancia gli anni della gioventù in cui ci davo dentro con la musica notte e giorno. Quella sì era un’esistenza da eremita. Però poi quando sono calato in un progetto mi impegno anima e corpo esattamente come il primo giorno. Com’è cambiato il rock negli ultimi 30 anni? Innanzitutto il fattore “immagine” ha acquisito un’importanza sempre maggiore fino a giungere agli eccessi odierni e, dal mio punto di vista, ciò ha penalizzato fortemente la musica. Il potere esercitato dalla prospettiva di un singolo di successo costringe le band a commercializzarsi per restare competitive sul mercato, negandosi perciò la possibilità di crescere in maniera graduale. I Genesis,
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a esempio, hanno lavorato duramente per dieci anni prima di ottenere una hit; a quei tempi le case discografiche e i manager più illuminati sapevano pazientare quando credevano in un artista e qualcuno di essi, da quell’attesa, ha poi raccolto ottimi risultati. Non è da tutti tutelare una band negli anni del suo sviluppo: oggi si è schiacciati dal mero risultato di vendite della tua musica. Ma per lo meno adesso registrare un album è un investimento alla portata di tutti. Ne abbiamo guadagnato in libertà espressiva, ecco. La musica popolare può esprimere concetti importanti in forma non retorica? È un medium prezioso certo, ma pur sempre limitato.. Del futuro t’importa? Mi piacerebbe continuare a comporre musica, registrare un altro album per pianoforte solista. Suppongo ci sarà ancora tanta musica per la Library che finirà magari in qualche programma televisivo ma, soprattutto, vorrei tornare a comporre un album vero e proprio per una major che ne assicuri distribuzione e pubblicizzazione capillari. Qual è l’aspetto più straordinario dell’essere un artista? Creare qualcosa che ti sembra, almeno all’inizio, eccitante e diverso dal resto. E poi c’è la soddisfazione derivata dai commenti entusiastici dei propri estimatori.
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Sun Araw, Gatekeeper
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Spazio Concept Milano 24 Aprile 2013 Dopo averci abituato bene con nomi dall’alta caratura come Andy Stott, Holy Other e Demdike Stare, per S/V/N/ è la volta del dub ipnagogico del californiano (di origine texana) Sun Araw e della dubstep sci-fi del duo di Bristol Gatekeeper. Dopo averci abituato bene con nomi dall’alta caratura come Andy Stott, Holy Other e Demdike Stare, per S/V/N/ è la volta del dub ipnagogico del californiano (di origine texana) Sun Araw e della dubstep sci-fi del duo di Bristol Gatekeeper. La strumentazione è installata nella sala grande dello Spazio Concept di Via Forcella e dopo qualche minuto di attesa è Sun Araw ad aprire le danze imbracciando la sua Telecaster cream. Chitarra e keyboard per Cameron Stallones, fiato e sampler per il turnista non ben identificato. I due attaccano con Out of Town, mantenendo tra nuove canzoni e riarrangiamenti quell’attitudine roots mostrata nell’ultimo full lenght The Inner Treaty. Cameron ci mette poco a portare il sole giamaicano nell’umida serata milanese, scaldando il pubblico e facendolo ondeggiare a ritmo reggae. Un’ora scarsa di live passa praticamente senza accorgersene e conclude il trip collettivo con un campione di basso dritto (aiutata, in questo, da un suono ottimale, nonostante la difficile resa acustica all’interno dello Spazio Concept). Dopo una breve pausa la terra inizia a tremare con i Gatekeeper: fulmini e saette, strobo e persino un segnalatore luminoso da cantiere adattato allo scopo. La sala viene letteralmente “inondata” da una macchina del fumo che crea, nei punti forti del live e grazie a un particolare gioco di luci, un effetto da “dispositivo stargate”. Live violentissimo e di impatto, con epici campioni di lirica e stacchi a tempo, nonché un notevole ricambio di pubblico tra le prime file, buon per gli organizzatori. S/V/N/ si conferma una delle realtà più in forma della scena milanese con un calendario di imperdibile anche per il mese di maggio. A onor di cronaca è da segnalare che la serata sarebbe dovuta iniziare con una selezione musicale di Simone Trabucchi (a.k.a. Dracula Lewis), in tour con Sun Araw e fresco di rilascio con la sua Hundebiss dell’LP Use Your Illu$ion$. Un pubblico milanese troppo ritardatario ha fatto sì che rimanesse il tempo solo per i live. Davide Nespoli
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Thalassa - Italian Occult Psychedelia Festival
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Dal Verme Roma dal 04 al 06 Aprile 2013 Il primo festival di psichedelia occulta italiana mostra come la “scena” sia tanto informe e difficile da inquadrare musicalmente, quanto coesa ideologicamente Tre giorni di inabissamento nelle profondità più oscure della psichedelia occulta made in Italy. Il riferimento marino non è casuale visto che Thalassa, festival tenutosi in quel Dal Verme ormai rodato epicentro delle musiche rumorose di Roma Est, ha fatto dell’appartenenza a un mondo “altro” la sua ragion d’essere. Sin dalla scelta del nome - omaggio alla dea della mitologia greca e personificazione del mare nostrum -, dell’artwork che ha accompagnato il festival e della mostra di due lavori originali e site-specific di Re delle Aringhe, l’immersione negli abissi del mare della coscienza è stato il vero trait d’union dell’intero festival, tra calamaroni giganti e oscure creature marine da bestiario borgesiano. Dal punto di vista squisitamente musicale, la tre giorni romana ha visto sfilare numerosi nomi che suonano familiari a chi traffica con psych in ogni sua salsa, krauterie varie, occultismo mefitico ed elettroniche deviate accomunate sotto il cappello dell’Italian Occult Psychedelia. In nome, cioè, di quel movimento prettamente italiano che negli ultimi anni si è manifestato in forme diverse ma tutte identificate da una stessa, trasversale matrice: la rielaborazione della psichedelia, termine onnicomprensivo declinato di volta in volta nelle sue più difformi e cangianti manifestazioni, virata al nero e considerata come “riattivazione di una memoria collettiva quintessenzialmente italiana”, nelle parole di Antonio Ciarletta. Si sono così avvicendate sul piccolo palco del locale di via Luchino Dal Verme numerose band che hanno dimostrato come la via italica alla psichedelia più stramba e varia passi giocoforza da una scena che è, prima ancora che organizzazione sonora omogenea, una sorta di condivisione e compartecipazione attiva di una suggestione, in cui pubblico, musicisti, promoter, label si ritrovano spesso sulla stessa lunghezza d’onda (psichica, verrebbe da dire). L’ottundente droning da magma malefico con cui Fabio Orsi conclude la prima giornata va a braccetto con il solo di Luca Massolin a.k.a. Golden Cup a forza di liquide visioni acquatiche; il terzomondismo estatico di Gianni Giublena Rosacroce (in formazione allargata a quintetto, tra fiati e percussioni mediorientali) e Squadra Omega (compattissimi sul versante kraut) è pronto a disfarsi nelle volute hypna-visionarie e post-atomiche di Heroin In Tahiti (in costante crescita, anche in sede live) o nella ritualità pagana di M.S. Miroslaw (Mirko Santoru del collettivo Hermetic Brotherhood Of Lux-Or coadiuvato per l’occasione dal maestro Simon Balestrazzi); l’oscurità post-psych-folk che lacera la pelle dei Father Murphy (sempre più ferita che non si rimargina del panorama musicale italiano) o dei cupi torinesi How Much Wood... lancia ami verso le profondità abissali degli Architeuthis Rex, le svisate horrorifico-tribali dei Cannibal Movie, il minimalismo storico revisited a suon di raga dagli Eternal Zio, le rifrazioni noise post-Black Dice dei Rainbow Island o le oniriche e sognanti visioni di Estasy: infinite forme
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e suggestioni che hanno fatto da collante ad un mondo screziato come una visione drogata, come un’alterazione di coscienza, come una dilatazione della percezione da cui si riemerge a fatica al termine della kermesse. A margine del festival, segnaliamo la presentazione del libro del citato Ciarletta, Acid Brains, sorta di indagine sulle psichedelie degli anni zero intorno alla quale si è sviluppata più di un’ipotesi sullo stato dell’arte e sulla storicizzazione del fenomeno. Ennesimo segno di una vitalità dell’underground italiano che riesce a far parlare di sé oltre confine. Stefano Pifferi,
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Alcatraz Milano 18 22:00:00 Aprile 2013
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Mr E’s beautiful gig Le cose che attraggono immediatamente l’attenzione entrando all’Alcatraz giovedì sera sono due: la temperatura insolitamente bassa - che poi scopriremo essere un’indicazione di Mr. E. in persona - e il personaggio che si agita sul palco sotto i riflettori, ovvero un clown. Non quei clown dalle parrucche variopinte e dai fiorellini nel cappello, ma un pagliaccio metà Pierrot: una figura inquietante e candida al tempo stesso che non può non ricordare il Pennywise di Stephen King. Se ne sta lì a guardare il palco con aria indecifrabile, finché non attacca una serie di cover che spazia dal blues, al rock, al folk e culmina con un mash-up live di Celine Dion e Metallica. La voce di questa bizzarra figura, affiancata da una ragazza vestita da Minnie che agita un’enorme banana gonfiabile (no, non sto scherzando), è incredibile. Il pubblico, che all’inizio lo guarda con quell’apprezzamento sornione che solitamente si concede al gruppo spalla, all’exploit di My Heart Will Go On più Enter Sandman va letteralmente in solluchero. I Puddles Pity Party, con questa performance inaspettata e l’allure poco velatamente trash che li circonda, conquistano anche noi. Chi è qui, del resto, ha già messo in conto una buona e probabilissima dose di sorprese. Gli Eels non sono propriamente un gruppo che se ne sta sul palco compassato e abbottonato, anzi. L’eccentricità del frontman, il carismatico e barbuto Mark Oliver Everett in arte Mr. E., è uno dei marchi di fabbrica di una band che ha da poco celebrato i dieci anni di attività. Non stupisce, dunque, l’opening da parte dei Puddles Pity Party. Meno attesa la performance di Nicole Atkins, giovane cantautrice del New Jersey dalla voce incantata ma forse troppo monocorde. Gli Eels mancavano a Milano da tre anni. L’uscita di Wonderful, Glorious lo scorso 4 febbraio per Vagrant Records aveva fatto presagire il ritorno di Mr. E. in Italia, e la conferma della notizia è arrivata prestissimo. L’Alcatraz è pieno, ma non pienissimo come ci si poteva aspettare. I fan sono tantissimi, ma si tratta di un pubblico mirato. Si intravedono pochi giovanissimi, l’età è abbastanza omogenea e chi è qui sa benissimo che cosa aspettarsi (e gli standard sono piutto-
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sto alti). II pubblico è composto per lo più da chi si è innamorato degli Eels di Beautiful Freak, da chi ha consumato la cassetta di Electro-Shock Blues, da chi conosce a memoria Hombre Lobo e End Times. È difficile che qualcuno sia giunto all’Alcatraz dopo aver ascoltato l’ultimo Wonderful, Glorious, ed è un peccato perché Mr. E. si sarebbe meritato un pienone con i fiocchi. Quelle che seguono sono due ore di performance incredibili, intense, generose e dense. Everett, Chet, P-Boo, Honest Al e Knuckles si presentano sul palco vestiti con una tuta dell’Adidas scura e indossando occhiali da sole. Attaccano con Bombs Away, prima nella tracklist di Wonderful, Glorious: l’acustica è eccellente, ogni basso è un colpo nelle costole, ogni parola sputata fuori dalla voce incredibilmente potente, versatile e sensuale di Mr.E. si insinua nelle orecchie senza perdersi nell’aria. La scaletta spazia da moltissimi brani nuovi ad alcune, imperdibili chicche degli album più vecchi. A sorpresa, gli Eels ci regalano anche una meravigliosa cover di Oh, Well dei Fleetwood Mac che mette subito in chiaro una cosa: Mr. E. e soci sono qui per divertirsi. Chi si aspettava una trasposizione fedele di grandi classici si ritrova deluso: le parole d’ordine sono riarrangiare, manipolare. Da In My Dreams a Fresh Feeling, ci si ritrova tra rock, garage, fuzzy e funky. Everett ogni tanto si interrompe per chiedere un abbraccio ai membri della band e vuole persino celebrare i dieci anni con Knuckles, attraverso a una piccola, dissacrante, cerimonia di rinnovo delle promesse proprio sul palco dell’Alcatraz, che culmina con un assolo schizofrenico del batterista accolto con uno scrosciare di applausi degno di Broadway. La sobrietà non è degli Eels e ci fa piacere. La band sa perfettamente come intrattenere il pubblico: alterna ballate agrodolci a capolavori come la tanto attesa Souljacker Pt., tira fuori dal cappello deliziosi mash-up tra My Beloved Monster e Mr. E’s Wonderful Blues e sa come sfruttare al meglio i silenzi. In fin dei conti, dieci anni non sono pochi, come dimostra qualche pelo bianco nella barba di Mr. E. Il concerto si chiude con un delirio post-moderno in cui gli Eels, affiancati da Pennywise e dalla Minnie di prima, si autocelebrano con Go Eels, una chicca coniata appositamente per la serata. Sono passate due ore e il pubblico lascia l’Alcatraz soddisfatto. Il merito più grande di Mr. E. è quello di coinvolgere gli ascoltatori a tal punto, da fargli dimenticare per qualche ora gli ormai assillanti e onnipresenti iphone e ipad che affollano i locali. Niente flash, niente video, tanti occhi puntati verso il palco. God damn right, it’s a beautiful day, uh-huh. Eugenia Durante
Mouth to Mouth Koko (UK) Estero/Altro 04 Aprile 2013 Scintillante prima edizione del festival noise organizzato da Gira. Set tutti centrati e intensi con eccezione di un decontestualizzatissimo Ben Frost, versione supertruzza... In un crudele aprile, all’interno della pittoresca cornice del Koko di Camdem, si è svolto nel
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primo giovedì del mese uno degli appuntamenti più attesi della stagione musicale 2013. Sette ore di puro noise d’autore sotto l’etichetta Mouth to Mouth, micro-festival annuale, qui sintetizzato nelle parole del suo fondatore e direttore artistico Michael Gira: This is the first instalment in what we hope to be a yearly festival, focused on disparate music and genres. Artists are chosen based on their ability to resuscitate, set fire to the air, or to mesmerize. All of the performers chosen for this year’s festival I find personally to be compelling in this regard. The goal: joy!. Sembrava che il clima londinese preparasse e si prestasse a fornire una cornice adatta all’esibizione della band newyorkese e ai soci del Mouth to Mouth, vista l’abbondanza di neve e di gelido vento dal nord. Quattro i grossi nomi della scena internazionale: Grouper, Xiu Xiu, Mercury Rev (con la partecipazione di membri dei Lemon Jelly e Tunng) e ovviamente gli Swans, riuniti nel barocchissimo Koko per sette ore di meravigliosa musica. Ad aprire il festival è stata la musicista dell’Oregon Grouper, alias Liz Harris, con un live di quarantacinque minuti in cui strati e strati di droni sovrapposti hanno creato un tappeto ambient folk dalle forti tinte noise. Una suite in cui si sono alternati silenzi quasi new age ed esplosioni di chitarra, tastiera e laptop - accompagnati da immagini acquatiche - che ha confermato l’eleganza compositiva della musicista statunitense. A seguire, Jamie Stewart in solitaria, armato di chitarra e iPad, anche lui impegnato in un set di quarantacinque minuti. Pur avendo visto molte volte dal vivo la band di San José, questa è stata la prima volta che li abbiamo ascoltati in versione unplugged: in completo, giacca, cravatta e mocassini, Stewart sembra una novella versione omo e maledetta dell’Elvis hawaiano, tanto potente e ispirato è stato il lirismo della sua esibizione. In sottofondo, suoni di un’afosa giungla, di un’Indonesia, di una Thailandia, caldo tropicale e umido sopra il quale il nostro canta canzoni d’amori finiti in disgrazia. Un’aura di religiosità avvolge il teatro durante l’esibizione di uno Stewart (Come, come into my church, urla) che sceglie di non suonare quasi nessun brano dei suoi Xiu Xiu e propone cover della tradizione folk del sud degli Stati Uniti (Charlotte Elliott e Willie Nelson, tra gli altri). Speciale. A spezzare l’atmosfera arriva Ben Frost, con un’esibizione che definire orribile è dire poco. Una specie di macho testosteronico tamarro e volgare (tipo un Lorenzo Lamas che si mette ad armeggiare con i synth) che si è presentato sul palco scalzo e in canotta - provvisto di muscoli ostentati e ciuffo compiaciuto - con una specie di sound station (tastiere, troppe e inutili) e due batterie. Ora, a cosa servono due batterie quando al massimo se ne usa una e per giunta male? Mistero. Risultato, quarantacinque minuti spesi male: prendete un brano dei Drexciya e disintegratelo trasformandolo in una techno da giostre con basi volgarissime fatte di bonghi e schitarrate metal totalmente a caso. Quale lo scopo? Scimmiottare Alec Empire e gli Atari Teenage Riot ? Proporre un set techno? Difficile dirlo. Dopo tanto orrore e tanta noia, tocca ai Mercury Rev dare sollievo ai timpani e agli occhi, con uno spettacolo audiovisivo che mette in scena una colonna sonora live della pellicola del 1956 Le Balloon Rouge di Alber Lamorisse. Una colonna sonora psichedelica fatta di tromboni, flauti, clarinetti, timpani, tamburi unitamente ai più classici chitarra, basso e batteria. Dopo cinque ore di warm up, ecco che la santa inquisizione del post-industrial sale sul palco per l’atto finale e più violento di questo Mouth to Mouth. Assistere a un concerto degli Swans non è per nulla semplice: anzitutto, il volume dell’esibizione è altissimo (in confronto, il live dei
My Bloody Valentine sembra uno scherzo); in secondo luogo, finché non si entra dentro il meccanismo che soggiace all’esibizione della band, non si comprende fino in fondo ciò a cui si sta assistendo. La macchina cupa ed ossessiva con Gira che urla in falsetto, recita greve e canta litanie incomprensibili (per lo più tutte estratte dell’ultimo The Seer) ha un preciso ed unico scopo: fare riflettere sulla miseria della condizione umana. Violento e potente è infatti l’urlo di critica allo stato attuale delle cose (Waste Is Obscene recitavano le t-shirt in vendita) come violento è il medium attraverso cui questa denuncia viene messa in atto: droni metal reiterati per due ore, senza tregua. La perfezione con cui questo show viene messo in scena è chirurgica; la band sul palco dimostra i propri trent’anni di esperienza con una sezione ritmica spaventosa (Chris Pravdica al basso e Phil Puleo alla batteria) e un Gira in splendida forma. Certo, scremando dal metal, dall’industrial, dai droni e da tutto il resto, quello che esce fuori da questo live degli Swans - e che forse su disco non è così evidente - è proprio la dimensione profondamente blues della loro musica: siamo di fronte alla stessa disperazione che faceva urlare Screamin’ Jay Hawkins o Robert Johnson, che ha fatto sì che il blues nascesse negli Stati Uniti come linguaggio di denuncia ma in qualche maniera anche come atto consolatorio. live report
Lorenzo Cibrario,
Greentech Festival Palazzo dei Congressi di Pisa Pisa dal 29 Marzo 2013 al 31 Marzo 2013 Buone idee e location adatta. La club culture sbarca al Palazzo dei Congressi di Pisa con Gold Panda, Robert Hood e Tiger&Woods Chiunque conosca un po’ Pisa non può che esser rimasto sorpreso dall’apparizione, inaspettata e improvvisa, di questo festival. Per una città in cui non c’è mai nessun evento rilevante e poco avvezza alla club culture, la notizia che Gold Panda, Robert Hood e Tiger&Woods avrebbero suonato, in un solo weekend, al Palazzo dei Congressi è stata quasi un miraggio e come tale, oltre alla felicità, ha portato con sé anche molte incertezze sull’esito dell’iniziativa. In molti si sono domandati fin da subito se non sarebbe stato meglio organizzare questo festival in una città più vitale, tipo Firenze. Con queste premesse, il primo giorno deve aver fatto rizzare i capelli a qualcuno dell’organizzazione: la scelta astuta di un headliner che tende a piacere a tutti come Gold Panda ha mosso sì un pubblico variegato, ma non abbastanza numeroso da riempire i grandi spazi del Palazzo dei Congressi, soprattutto il grande auditorium adibito a dancefloor. A minare la perfetta riuscita della serata ci sono forse anche le contemporanee vacanze di Pasqua, con molti studenti tornati a casa. Come gli spettatori, anche la line-up è molto variopinta: si va da eroi locali come il padre di Mixology Andrea Mi e la sua passione per la black music, i livornesi Planotick Dive con il loro post-rock dal taglio elettronico - le cui pose grottesche fanno più
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divertire che ballare il pubblico -, fino ad arrivare al moniker hype Om Unit alias Jim Coles, DJ e turntabilist londinese reinventatosi produttore wonky di successo. Eppure il pubblico è qui per vedere Gold Panda, e soltanto il suo arrivo riesce a creare un po’ di folla sotto la consolle. Quello che sorprende della sua performance è l’austerità: nessuna elettronica psichedelicamente ricca di rumorini e campionamenti distorti, ma uno spettacolo quasi del tutto incentrato su una pulsazione ritmica sorniona e spezzata da numerosi breakdown. Nel complesso il risultato è divertente ma anche straniante: per i più scatenati non c’è modo di ballare senza interrompersi, per i più sognanti è forse troppo poco per raggiungere le vette che si toccavano in Lucky Shiner. Soltanto nel finale, con la celebre You, ci si avvicina alle atmosfere del disco d’esordio, per la gioia di un pubblico pronto ad osannare il proprio beniamino. Fortunatamente, per chi come il sottoscritto vuole scrollarsi di dosso un certo senso di insoddisfazione, arriva subito dopo un DJ set di Om Unit dal sapore revival jungle con cui scatenarsi. Peccato soltanto che sia un momento tutto sommato fugace: le luci si accendono (relativamente) presto mentre in pista c’è ancora voglia di divertirsi con Shy FX. Da sabato il festival inizia a ingranare, il pubblico è più numeroso e totalmente diverso rispetto al giorno prima: pochissimi sono tornati. Se il pubblico del venerdì era trasversale, quello del sabato è caratterizzato da appassionati della cassa dritta alla corte di Robert Hood. Un ricambio giocato forse sull’idea diffusa tra i meno preparati che in Italia la minimal sia sinonimo di “musica di pessimo gusto”. Robert Hood è qui per smentire questa idea. Fin dal primo istante lascia intendere che il programma sarà tutto incentrato sulla cassa martellante e la platea, forse non abbastanza preparata per accoglierlo ma non per questo meno entusiasta, gradisce: tra balletti pseudo hakken e gente che sembra uscita dalla peggior discoteca di paese, ognuno a modo suo cerca di sincronizzare cuore e muscoli con la macchina venuta da Detroit. Lo spettacolo, seppur muscolare, non è solo forza bruta, ma anche classe. Quel tipo di classe che solo le salde radici nella techno più autentica di Detroit possono offrire. Incastrando brevi frammenti funk tra i beat potenti, Hood ci mostra quanto siano profonde tali radici, che dalla prima ondata Detroit techno risalgono, tramite il funk futurista di Afrika Bambaataa, alla grande tradizione della black music in generale. Lo spettacolo è lungo ed esige testa e gambe, ma talmente spettacolare da instillarci un senso di colpa a fine set visto che, nel mondo futuristico pronosticato da Hood, dormire è peccato. La domenica avviene un altro capovolgimento nel pubblico: se il venerdì si poteva incontrare di tutto e il sabato solo i puristi, la domenica si trova tutto quello che si troverebbe in una discoteca normale: principalmente un sacco di persone in cerca di divertimento. E’ anche l’unico giorno in cui il gran numero di paganti ha la meglio sull’organizzazione, creando ovunque, dal guardaroba al bagno, file interminabili che in parte rovinano la godibilità dell’evento. In compenso sono finalmente pieni sia il grande auditorium che la piccola saletta laterale passata quasi inosservata nei giorni precedenti. Nella sala principale c’è grande delusione quando si scopre che i Tiger&Woods non si sono ancora presentati perché hanno perso l’aereo. Gira voce che verranno prelevati al volo, con un miracolo degli organizzatori, e posticipati a fine serata. Inizia quindi prima del solito Tobi Neumann, l’ingegnere del suono scopertosi DJ. Se Robert Hood è venuto a scompigliare le
carte in tavola dei facili pregiudizi, il tedesco è uno in grado di confermare tutti gli stereotipi del caso sin dal primo momento: un signore di mezza età, scamiciato e con un brutto cappello fuori moda che spinge sulla cassa dall’inizio alla fine. Il set è solido, seppur senza picchi di genio, e la folta platea ne è entusiasta: Neumann, tra i DJ più apprezzati e conosciuti dal pubblico italiano, si riconferma una scelta sicura e sempre capace di riempire le piste. Scatta poi la sorpresa quando, contro tutte le aspettative, arrivano in extremis Tiger&Woods ad accompagnare verso l’orario di chiusura con la loro disco 2.0. Si potrebbe dire molto sulla situazione della musica, soprattutto elettronica, in Italia, dove ad attirare il grande pubblico sono sempre i nomi più convenzionali e logori ed è molto difficile proporre novità più o meno audaci. La sfida degli organizzatori, tuttavia, si può dire vinta, a fronte di un grande impegno. Si parla di replicare tutto il prossimo anno, sperando che si riesca a far tesoro dell’esperienza per affinare un festival che da miraggio potrebbe divenire un’oasi per tutti quelli che hanno voglia di ascoltare musica di qualità in Toscana. E, magari, non solo.
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Gianluca Carletti
John De Leo Karemaski Arezzo 05 Aprile 2013 Il resoconto dello show di una delle figure più atipiche del nostro panorama musicale. Uno dei migliori cantanti italiani di sempre? Ci sono artisti (pochi, per la verità) di cui è sempre doveroso parlare e John De Leo è uno di questi. Nonostante la lunga attesa per il nuovo album - sono infatti passati cinque anni dall’esordio solista Vago Svanendo -, l’ex Quintorigo continua ad essere una figura atipica e affascinante, nonché (almeno per chi scrive) uno dei migliori cantanti italiani di sempre. L’ex front-man dei Quintorigo è una bestia rara, uno di quei performer di cui non puoi non riconoscere l’eccezionalità: il concerto al Karemaski di Arezzo si rivela un’occasione da non perdere per riascoltare un talento che riesce sempre a reinventarsi e a suonare imprevedibile. Lo show che De Leo propone è un perfetto esempio di quel mix di innovazione, eclettismo e raffinatezza che da sempre lo contraddistingue, grazie anche al supporto di una band in grado di sostenere e accompagnare al meglio la vocalità multiforme del cantante. Proprio la voce, infatti, è l’arco di volta che sorregge l’architettura delle canzoni e la loro resa live, per quanto, c’è da dire, in pochissimi casi la forma rimanga legata alla tradizione: la scommessa è proprio quella di riproporre brani conosciuti e già ascoltati dal pubblico attraverso una rilettura sempre nuova, che spazi dalle variazioni del jazz più colto alle stratificazioni sonore e vocali del prog, senza rinunciare a quella fruibilità di matrice pop-cantautorale che, nonostante una certa riconoscibilità, prende le distanze da qualsiasi modello italiano. E così, tra riletture personalissime di grandi standard soul-jazz (la bernsteiniana Big Stuff già
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in Vago Svanendo, oltre a Stormy Weather, altro classico interpretato, tra gli altri, dalla sempre presente Billie Holiday), tributi al cantautore per antonomasia (una Amore che vieni, amore che vai di De André), e tuffi nel passato (l’immensa Precipitango), John De Leo costruisce un live in cui la voce, facendosi strumento, diventa protagonista. Protagonista, si potrebbe aggiungere, a priori, visto che, anche negli episodi più tradizionali, rimane comunque in primo piano, grazie alla costante voglia di osare e di affidarsi a percorsi inconsueti. Dopo oltre novanta minuti di musica, rimane la voglia di ascoltare un nuovo lavoro, ma, intanto, applausi.
live report
Giulia Antelli
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G i m m e S o m e I n c h e s
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Nel mese del Record Store Day facciamo il solito giro a 45 giri... con noi tra gli altri Sun Araw e Spettro Family, Sic Alps e Dope Body, Anasazi e Dream Affair...
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In attesa di parlare delle leccornie che come ogni anno il Record Store Day ci regala copiosamente, ripartiamo col nostro giro mensile nel sottobosco dei formati minori constatando che la riscoperta del vinile non avviene solo per i full length o per i 12” split reimmessi sul mercato un po’ come per le cassette dal feticismo collezionistico al principio degli anni zero. Sono soprattutto i 7” ad essere rinati - o mai morti, a seconda delle prospettive da cui vi si guarda - e ad essere tornati prepotentemente al centro anche delle etichette non troppo underground. È il caso di Drag City, ad esempio, per cui sono fuori questo mese due vinilini niente male di due progetti che apprezziamo assai. I primi sono i Sic Alps, ormai habitué di Gimme Some Inches visto che sono degli oscuri amanti dei pezzi piccoli e delle gioie viventi per i collezionisti. Della serie, andatevi a veder le quotazioni di Description Of The Harbor o United e capirete di cosa parliamo. She’s On Top è l’ennesima uscita vinilica, in 12” ad esser precisi, che ci ripresenta i californiani in fissa come sempre coi sixties. La title track è esemplare in questo senso: riesuma la sensuale forza dirompente del rock’n roll tutto contrappunti di piano e anche che si muovono al ritmo, lustrini quasi glam e cerone che cola sulle guance sudate e non si riesce né a stare fermi né a rimetterla da capo in un cortocircuito da repeat che non capita molto spesso. A seguire Carrie Jean, i cui quasi quattro minuti sono più creepy e insieme cosmici, trasformandosi in una cacofonia iridescente quasi floydiana, e la più deragliante e sboccata Biz Bag, ci confermano lo spessore di un gruppo vittima soltanto del proprio scazzo. Se veramente volessero, sarebbero i re del 60s revival, invece ne sono solo i reietti. Sempre la stessa label pubblica il rientro di una band che aveva stupito con l’esordio Natural History, ovvero i quattro da Baltimora Dope Body. Segnalati all’epoca come un fulmine a ciel sereno fatto di noise-rock newyorchese primigenio mosso sull’asse Unsane/Jesus Lizard, i quattro latitavano da un bel po’ di tempo e sinceramente li davamo per spacciati. Invece ora esce Saturday e inanella un paio di tracce abrasive e sgraziate come da manuale. Il lato A ce li mostra in Leather Head ossessivi e paranoidi come se flirtassero con l’industrial - ci vengono in mente i Neptune se fossero su AmRep - e paludosi e cupi come se suonassero sludge ma partendo da lidi post-punk. Youth Relic riempie il lato B con una cavalcata punk robotica come se non ci fosse un domani. E anche qui, visto il profilo volutamente basso per autocastrazione,
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probabilmente quel domani rimarrà sempre un segreto per pochi. Meriterebbe un approfondimento più ampio, ma purtroppo il vol.2 degli esperimenti casalinghi di Sun Araw Sun Ark Prayers in tape per la propria Sun Ark è già ovviamente sold out. La segnalazione è d’obbligo perché indagare nelle due lunghe tracce di improvvisazioni in solo di chitarra e riverberi senza overdubs è come scavare nell’intimità di uno dei più lucidi artisti di questo scorcio di millennio. Citofonare mirror; conviene. Facciamo un salto nel buio d’oltreoceano e diamo il bentornato ai Dream Affair, trio darkwave fedele alla linea. Dopo un cambio di line-up che ha visto rinnovarsi il bassista del gruppo, i ragazzi di Brooklyn rilasciano un nuovo EP su 12 pollici per la candese Artificial Records. Come già dimostrato due anni fa con il full-length di debutto Endless Days, i giovani darkettoni capitanati da Hayden Payne ripercorrono un path tutto sommato noto ma non per questo meno piacevole, almeno per chi ha sempre nel cuore le tetre sonorità dei primi ‘80. From Now On rilascia infatti sei brani dalla formula nota ma efficace: chitarre ricche di riverberi, batterie elettroniche vintage, basso pulsante nella migliore tradizione UK. Aggiungete l’immancabile vocione alla Peter Muprhy avrete il quadro della situazione; se poi da questa manciata di brani ne esce uno come Torn Apart il gioco è fatto. Sempre dal NY fanno nuovamente capolino anche i temibili Anasazi. Gang di nativi, i cinque punx rilasciano un nuovo demo tape dopo i due 7 pollici dell’anno scorso. Sarà l’attitudine irrimediabilmente cafona o lo sbandierato menefreghismo, ma i nuovi brani risentono di un registrazione cessofonica che affossa le pur buone idee del gruppo e lascia abbastanza perplessi. Da questi ragazzi ci aspettiamo grandi cose quindi sarà bene se si rimettano subito in riga e riprendano da dove avevano lasciato con i due singoli appena citati, perché Nuke York 2013 Demo suona come un diversivo per tergiversare e cazzeggiare ancora un po’. Ultima segnalazione dal fronte US per i fan del black metal underground e atmosferico. La piccola ma agguerrita Final Agony ha appena dato alla luce la stampa vinilica di Maailma Kohoaa Ja Uppoaaaa, LP che raccoglie due tape edite in precedenza dai finlandesi Circle Of Ouroborus. Nome di culto già dia diversi annni, il duo di è noto per la sterminata discografia e questo album non fa eccezione; tirato in poco più che un centinaio di copie, unisce le cassettine Maailma Kohoaa e Maailma Uppoaaaa. Non che come operazione di recupero serva poi davvero, dato il numero ridicolo di copie stampate, ma i maniaci del gruppo là fuori (e sappiamo che ci sono) possono ora correre a ripari prima che i prezzi salgano vertiginosamente su Discogs e eBay. In chiusura, torniamo nel Bel Paese col nuovissimo singolo di Spettro Family. Nato nel 2008 per volontà di un oscuro signore, il progetto usa principalmente synth analogici su multi-traccia a nastro, arricchendo il tutto con field recordings e campionamenti da B-Movies d’antan per un risultato che potremmo chiamare horror elettronics o prog apocalittico. Dopo il recente 10 pollici per la teutonica Reue Um Reue (label che, assieme alla gemella Treue Um Treue, dovete tenere d’occhio), il Sig. Spettro rilascia un 7” per la svizzera Gris Editions (già Die Selektion e Burial Hex) con due brani di simile caratura. Se vi piace Carpenter, Umberto e compagnia orrorifica, date un ascolto a The Tunnel/Chi Omega, non ne resterete delusi. Stefano Pifferi, Andrea Napoli
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