digital magazine | luglio/agosto 2013 | n. 105/106
R e t t e pa r a l l e l e
sommario turn on – p. 4
Luminal Smith Westerns
tune in – p. 8 Camera Obscura Mount Kimbie Tempelhof
drop out – p. 20 Thurston Moore
rearview mirror – p. 108 Sixto Rodriguez
recensioni – p. 42 rubriche – p. 118 live report
gimme some inches campi magnetici classic album cinema
#105 / 106 giugno
Direttore Edoardo Bridda Direttore Responsabile Antonello Comunale Ufficio Stampa Alberto Lepri Coordinamento Gaspare Caliri Progetto Grafico Nicolas Campagnari Redazione Alberto Lepri, Antonello Comunale, Fabrizio Zampighi, Gabriele Marino, Gaspare Caliri, Giulia Antelli, Massimo Rancati, Riccardo Zagaglia, Stefano Solventi, Stefano Pifferi, Teresa Greco, Staff Tommaso Iannini, Alessandro Liccardo, Alessia Zinnari, Andrea Napoli, Andrea Forti, Antonio Pancamo Puglia, Antonio Laudazi, Davide Nespoli, Nino Ciglio, Lorenzo Cibrario, Federico Pevere, Giulia Antelli, Giulia Cavaliere, Giulio Pasquali, Luca Falzetti, Marco Braggion, Marco Masoli, Marco Boscolo, Mirko Carera, Nino Ciglio, Sarah Venturini, Stefano Galliazzo, Stefano Gaz, Enrica Selvini Copertina Camera Obscura (foto: Anna Isola Crolla) Guida spirituale Adriano Trauber (1966-2004) SentireAscoltare // online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Copyright © 2013 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare.
Volevamo indagarlo, quell’Amatoriale Italia con cui i Luminal si ripresentano ai blocchi di partenza. Terzo disco, ma in realtà un voltar pagina bello e buono, come ci spiega anche Carlo Martinelli
Luminal Distruggere per costruire I Luminal non sono più i Luminal. Non lo sono nel suono - quanto mai lontano, quello dell’ultimo Amatoriale Italia (2013), dallo stile messo in mostra nei precedenti Canzoni di tattica e disciplina (2008) e Io non credo (2011) - e non lo sono per una formazione stabilizzatasi in terzetto “sbilenco” voce, basso distorto e batteria (Carlo Martinelli, Alessandra Perna, Alessandro Commisso), dopo l’abbandono di Alessandro Catalano e Alessandro Pieravanti. Distruggere per costruire. Fuori da una wave elegante, cantautorale, raffinata e dentro un mood nero e invischiato con una contemporaneità che fa saltare i nervi, tra sbalzi umorali improvvisi, minimalismo post punk tesissimo, testi melmosi col vizio dell’invettiva. Nessun compromesso, insomma, e lontani da un passato del gruppo che a sentire Carlo Martinelli (voce, chitarra) proprio di compromessi si era ampiamente cibato: «C’erano grosse differenze caratteriali e di gusto. Riuscivamo a funzionare trovando una specie di limbo in cui nessuno potesse sentirsi minacciato, nonostante nessuno stesse facendo davvero quello che voleva. Oggi invece c’è un’unità d’intenti piuttosto sorprendente, per cui ad ogni idea folle ne arriva una più folle di risposta, invece di un rifiuto. Il disco è nato anche così, rilanciando in continuazione su scelte radicali». Le scelte radicali di cui si parla rientrano nei suoni scheletrici del disco, ma ancor più in un impianto testuale che decide consapevolmente di sporcarsi le mani affrontando senza filtri tematiche condivise e attuali. Quello che a prima vista potrebbe sembrare allora un ammiccare al “quartierino social” - altri, prima della band romana, hanno scoperto le potenzialità comunicative di testi “inseriti”
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nelle dinamiche giovanili “internettare” e non, vedi alla voce Lo stato sociale, L’officina della camomilla, I cani e via dicendo - in Amatoriale Italia diventa invece finzione letteraria, romanzo neorealista aggiornato ai ritmi forsennati della modernità, senza amorevoli velleità pasoliniane da mettere in mostra e ben calati nel cinismo desolante dei giorni nostri. Si utilizza lo stesso linguaggio frantumato della realtà che si prende di mira - internet, gli hipster, i social network, la scena indie, la televisione, gli orrori quotidiani -, ma lo si fa attraverso scelte musicali che non hanno nulla di edonista o ammiccante. Suoni semmai violenti, squallidi e urticanti, che agiscono quasi da antidoto, svesten-
do quel link tematico - un hic et nunc che racconta la scena musicale, ma anche il Paese - di ogni possibile accezione positiva: «Crediamo che questo sia il lavoro che deve fare un disco punk, nonostante i Luminal non facciano punk in senso stretto. Creare un senso di straniamento forte e reale, fare orrore, costringere a guardare il baratro ad occhi aperti mentre ti ci butti dentro». E dell’operato delle band che invece scelgono coscientemente di cavalcare questo tipo di approccio comunicativo, cosa si può dire? «Il problema non è fare un disco molto contestualizzato, il problema è se poi il medesimo disco non fa nient’altro che raccontare cose irrilevanti con un vago cinismo giocoso.
 Capisco che il nostro disco superficialmente possa sembrare simile, ma è perfettamente antitetico ad un’operazione del genere nella sua natura profonda». Siamo d’accordo. A pensarci bene tutto questo discorso si inserisce perfettamente nella diatriba, nostro malgrado sempre più attuale, sul ruolo che dovrebbe avere la musica indipendente: intrattenimento e specchio per un pubblico in cerca di un identità da fotografare con l’onnipresente smartphone o arte sfuggente, coraggiosa e creativa, come nell’era pre-internet?: «C’è ancora (poco) spazio per l’arte nella musica. Per quanto mi riguarda, i più grandi capolavori sono brani che sono riusciti ad essere entrambe le cose. Nel rock non ce ne sono pochi, ma penso soprattutto ad Aretha Franklin, Wilson Pickett, Stevie Wonder e a un mondo in cui le capacità tecniche erano mostruose e al servizio di menti geniali e del pubblico.
 Noi al momento facciamo musica di “trattenimento”, ma l’obiettivo è riuscire a fare entrambe le cose». In questo senso, allora, qual è il “potere mistico dell’arte” di cui si parla in Carlo Vs. il giovane hipster? «E’ quella forza incomprensibile ed assoluta tramite la quale qualcosa creato da un altro essere umano riesce ad innalzarti da questo pianeta pieno di miseria, disperazione, morte e noia. E’ una delle pochissime ragioni per cui valga davvero la pena vivere». Tutto questo è l’ultimo disco dei Luminal. Assieme
ad ascolti personali che - parola di Martinelli vanno da Talking Heads, PIL, Gang Of Four, The Sound, Chameleons e tutto il post-punk più artsy e dark a Dalla, Paoli, Tenco, Graziani («In Amatoriale Italia c’è moltissimo Gaber nei testi, e qualche vago eco di Battisti in qualche melodia»). Noi leggiamo anche un sentore CCCP in quel declamare reiterato e pungente, ruvido e monocromatico, ma il front man della formazione romana ci tiene a mettere i puntini sulle “i”, pur confermando l’attualità del messaggio della band emiliana: «In realtà no, anche se si tratta a mio avviso del miglior gruppo punk/rock/quello che ti pare, della storia italiana. C’è un pezzo come Grande madre Russia che è una loro presa in giro, e un altro paio di pezzi come Dio ha ancora molto in Serbia per me, che sono più dichiaratamente punk e possono sembrare ricalcati su di loro (anche se in realtà il gruppo più “copiato” da Amatoriale Italia sono i Mclusky). I Cccp sono attuali nel 2013 non per le “tematiche” ma perché sono, per tornare al discorso di cui sopra, a modo loro un’opera d’arte. Più attuali di loro sarebbero i primi Disciplinatha [i primi due dischi dei Luminal sono stati prodotti da Cristiano Santini, leader dei Disciplinatha, ndr] sicuramente meno immediati, pop e per certi aspetti incompiuti, ma a mio avviso molto più intelligenti». Il messaggio è chiaro: nulla, con i Luminal, è quel che sembra e tutto è perennemente in divenire. Soprattutto in un presente che sembra vissuto dalla band giorno per giorno, senza una progettualità a lungo termine e con la stessa irruenza che si coglie nei suoni dell’ultimo lavoro. Del resto lo sottoscrive anche Martinelli stesso a fine intervista: «Non abbiamo idea di come sarà un prossimo disco dei Luminal. Se ci sarà». Più chiaro di così. Fabrizio Zampighi
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Dall’urgenza DIY alla magniloquenza pop in sole tre mosse. La fulminante ascesa di tre ambiziosi enfant prodige.
Smith Westerns Studiando da popstar
Sono così lontani i tempi della HoZac per gli Smith Westerns (al secolo Cullen Omori, il fratello Cameron e l’amico Max Kakacec) che sembra di trovarsi di fronte a un’altra band. Anche fisicamente. Quando nel 2008 i tre registrarono i primi singoli per l’etichetta cittadina, erano ancora degli imberbi liceali a cui qualche fratello maggiore aveva appena fatto ascoltare Nuggetts, provocandone il repentino invaghimento per il garage dei 60s. L’omonimo album di debutto, Cullen e Max lo pubblicarono quando ancora stavano frequentando l’ultimo anno di superiori. Neanche due anni dopo le intuizioni pop degli esordi venivano messe in bella calligrafia e irrorate di una lucente patina psichedelica. Dye It Blonde rappresentava la scoperta dei 70s, di un universo languido e opalescente, del guitar pop nella sua espressione più alta, quella che ciclicamente paga pegno al songwriting di John Lennon e Alex Chilton. Sì, perché i tre non hanno mai noscosto la statura della loro ambizione. Così, se il disco d’esordio li aveva portati in giro per gli States con quello scherzo della natura di NoBunny, Dye It Blonde aveva alzato le mire da popstar e li aveva mandati a scuola da gente come MGMT, Belle & Sebastian e Florence & The Machine. Tutti act con cui, dal 2010 in poi, hanno condiviso i palchi di mezzo mondo. E’ da qui che partiamo per farci raccontare da Cullen Omori lo stato di salute della band. Fra tutte le cose che vi sono successe negli ultimi tre anni, quali sono state quelle che vi hanno fatto crescere di più, come persone e come artisti? Sicuramente andare in tour. Girare, fare concerti è il modo migliore per sviluppare le tue capacità
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come musicista, ma anche per vedere il mondo e crescere come persona. Mi sembra che in questi anni abbiamo avuto parecchi successi e qualche fallimento, ma credo che tutto questo, in qualche modo, ci abbia fatto maturare molto velocemente. L’album precedente vi vedeva alle prese, per la prima volta, con un sound molto influenzato dai 70s. Mi sembra che la stessa cosa possa dirsi di Soft Will, benché i due dischi siano molto differenti... E’ vero, Dye It Blonde è stato il disco che ci ha presentato per le prima volta a un gran numero di persone. E’ successo tutto molto in fretta. Ad un certo punto ci siamo ritrovati ad esibirci a un
livello molto più alto di quello che avevamo sperimentato con il primo album. Credo che questa maggiore esposizione ci abbia aiutato a diventare musicisti migliori ed è qualcosa che in Soft Will si sente. Inoltre, vedere gente molto coinvolta in un tuo disco, come è successo con Dye It Blonde, è qualcosa che ti ispira moltissimo. Ormai la vostra musica ha veramente poco a che vedere con quella dei vostri primi singoli... cos’è cambiato nel vostro approccio creativo? La maggiore confidenza maturata con gli strumenti ci permette di essere più rilassati riguardo al lato musicale in senso stretto e ci ha permesso di dedicare una maggiore attenzione ai testi. Su Soft Will c’è più pena e disillusione, che canzoni d’amore. In che senso? Con Dye It Blonde io lavoravo per lo più al formato della love song. Ho scritto canzoni che all’apparenza erano canzoni d’amore, ma per me affrontavano problemi come il desiderio e la disperazione. Per Soft Will, volevo che i testi fossero più confessionali e riflessivi. Molte delle parole hanno a che fare con la disillusione che deriva da un successo come quello di Dye It Blonde e al doversi adattare a tutto quello che abbiamo vissuto come singoli individui e come band. Quando parli di maggiore confidenza, intendi anche una maggiore padronanza delle tecniche di regisrazione? Vedi, il rapporto con lo studio di registrazione è qualcosa a cui ci stiamo ancora abituando. L’album di debutto lo abbiamo registrato nello studio che avevamo attrezzato in cantina, e a dire il vero, anche i demo degli altri dischi li abbiamo registrati in cantina. Con Soft Will, però, abbiamo iniziato ad abituarci all’idea di essere una band da studio e a prenotarlo per il tempo che ci sembrava più appropriato. Per Dye It Blonde abbiamo avuto solo trenta giorni per registrare, sovraincidere e mixare il disco. Abbiamo fatto tutto molto di corsa. Con Soft Will abbiamo avuto il tempo per dare le sfu-
mature che volevamo a tutte le parti dell’album. C’è un mood sottilmente psichedelico che attraverso tutto Soft Will (mi viene in mente un pezzo come XXIII)... Il merito di quella canzone è quasi tutto di Max. Voleva creare un pezzo che fosse un continuo crescendo. Lui ama stratificare gli strumenti uno sull’altro. E’ una specie di tema ricorrente in tutti i nostri album. Per XXIII gli abbiamo dato carta bianca. Cosa pensi sia rimasto dell’approccio DIY degli esordi? Penso che ci abbia insegnato a non farci troppi problemi nel correre rischi. La nostra carriera fino ad ora è stata caratterizzata da tentativi ed errori, per fortuna non di fronte al pubblico più vasto. Per questo credo che aver iniziato come band DIY sia stato molto formativo per noi. Da quello che mi hai detto all’inizio, sembra chiaro come per voi la cosa principale rimanga quella di suonare dal vivo. Ora che il vostro disco è frutto di un più attento lavoro di studio, sarà più difficile portare la vostra musica on stage? Di solito scriviamo e registriamo le nostre canzoni senza pensare davvero a come renderle dal vivo. Proprio per questo, nell’ultimo periodo, abbiamo speso molto tempo a lavorare sulla loro resa live, in modo da farle suonare più simili al disco possibile. Siete andati in tour con band molto differenti tra loro e mi viene da chiederti se c’è qualche artista che sentite particolarmente vicino.. Ognuno di essi ha qualcosa che ci affascina. Ma tutti quanti possiamo dire di essere grandi fan dei MGMT. State già pensando al futuro? Per il momento l’unica cosa che abbiamo in testa è “tour...tour...tour”. Diego Ballani
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Camera Obscura Rette parallele Desire Lines è il quinto album della band di Glasgow. Abbiamo incontrato i Camera Obscura per discutere delle vicende che hanno preceduto e reso possibile il disco. E non solo... testo: Nino Ciglio La voce al telefono della receptionist dell’Orlando Hotel di Los Angeles è calda, sexy. Mi chiede le credenziali come se fosse una segreteria registrata e mi invita a restare in attesa. Sono le 11 a.m. a LA e i Camera Obscura - neanche a farlo a posta - si trovano in qualche camera oscura di un albergo di West Hollywood, all’alba di uno dei tanti concerti del tour americano. I loro rapporti con gli She & Him di Zoey Deschanel e M Ward si sono fatti tanto stretti da decidere di fare una tournée spalla a spalla in giro per gli States. Un’ occasione ghiotta per il collettivo di Glasgow, per sperimentare audience sempre più vaste. La voce di Gavin Dunbar (basso, chitarra e altre diavolerie della band) è assonnata, calda, ma incredibilmente signorile; il suo accento scozzese croce e delizia dei suoi intervistatori internazionali - accompagna il tiepido saluto. Gli chiedo del tour americano, dell’accoglienza e del calore del pubblico, se ha notato differenze con quello europeo.
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“Beh - mi risponde - siamo stati molto fortunati: in America suoniamo in locali più grandi con un pubblico più numeroso, ma le persone sono fantastiche ovunque andiamo. Abbiamo fatto solo uno show e qualche registrazione per le radio locali”. Desire Lines - il quinto album in studio della band scozzese - è appena uscito, confermando l’esplosione twee-pop di My Maudlin Career (2009), ma raffinando sensibilmente le tecniche di songwriting di Tracyanne Campbell, tanto da essere - per certi versi - più vicino a Let’s Get Out Of This Country (2006), il loro lavoro più apprezzato. Desire Lines spicca per la velata malinconia di fondo, per le storie d’amore straziante che contiene, per quel simpatico contrasto di gioia e dolore che solo i Camera Obscura sanno creare. Dalle webzine europee è arrivato un tiepido apprezzamento, mentre in America “è difficile capirlo bene.. è uscito solo da una settimana; le persone sembrano molto eccitate o così sembra”. Mi mostro curioso riguardo
© anna isola crolla
il significato del titolo: tutti gli album precedenti avevano questa sorta di trasparenza, erano espliciti fin dal titolo, ma qui - e l’ascolto dei testi non smentisce questa teoria - mi pare che ci sia qualcosa di vagamente più introspettivo: “a dir la verità, la canzone Desire Lines è venuta prima: ci sembrava un titolo adatto. Credo che una delle spiegazioni sia che le linee in questione sono quelle che percorriamo nelle nostre vite, questi binari che assomigliano a rette parallele, a.. desire lines”. Ma le loro linee non sembrano affatto rette parallele, neanche si avvicinano alle forme dei binari. Prima di arrivare alla registrazione del disco, infatti, i Camera Obscura, hanno dovuto confrontarsi con problemi enormi, che avrebbero portato allo scioglimento qualsiasi altra band. Qualcosa di magico, però, ha permesso a questi non-più-tanto-ragazzi scozzesi di mantenere intatto il nucleo nevralgico e trovare nuova linfa per risorgere.
Nel 2011 viene diagnosticato un cancro a Carey Lander (organo e voce), Kenny McKeeve (chitarra, mandolino, voce) diventa padre nel 2012, Nigel Baillie (tromba, percussioni) entra ed esce dalla line up per problemi personali. Come se non bastasse, Tracyanne è incinta di sei mesi, ma nessuno riesce a tenerla lontana dai palcoscenici. Insomma, dopo il 2009 di My Maudlin Career c’erano tutte le carte in regola per una separazione a lungo termine, ma è arrivato solo uno hiatus di quattro anni: “per il tour di My Maudlin Career siamo stati in giro veramente tanto. Un anno e mezzo è - per certi versi - troppo per star lontani da casa, eravamo molto stanchi. Volevamo tutti prenderci una pausa e rifiatare. Carey non stava molto bene e ci è sembrato giusto, anche nei suoi confronti, prenderci del tempo affinché stesse meglio e si rimettesse a lavorare..”. È in momenti come questo che viene fuori l’indole della grande band, forse troppo a lungo relegata
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alla corrente del revivalismo spicciolo, all’ombra di un’ondata di pop che ci ha fatto conoscere band del calibro di Belle & Sebastian, She & Him, Pastels, Au Revoir Simone, per citarne solo alcune. Era necessario rinascere, c’era bisogno di una svolta. Per questo, di comune accordo, i Camera Obscura hanno deciso di abbandonare la collaborazione con il produttore Jari Haapalainen, che li ha portati alla ribalta, e imboccare binari nuovi, diversi. Lasciando da parte lo scenario svedese dei precedenti due dischi, registrati in fretta nello studio scandinavo di Haapalainen, per Desire Lines la band si è affidata alle cure di Tucker Martine a Portland, Oregon. “Credo che ogni volta che facciamo materiale nuovo, vogliamo sempre progredire rispetto a quello che abbiamo fatto in precedenza. Avendo già registrato due dischi con Jari, volevamo un cambiamento, perché pensavamo che non sarebbe stato bello fare una trilogia di album che suonassero troppo simili.. non ci avrebbe stimolato e forse non sarebbe piaciuto nemmeno ai nostri fan”. La soluzione si chiama appunto Tucker Martine e arriva, come si affretta a riferire Gavin, dai suggerimenti sapienti di un M Ward - partner musicale della reginetta hipster Zoey Deschanel negli She & Him - particolarmente esaltato dopo aver ascoltato i provini del disco. Per le rifiniture c’è il tocco malinconico della voce di Neko Case e quello rock di Jim James dei My Morning Jacket. A quanto pare i Camera Obscura hanno chiuso il capitolo scandinavo per aprirne uno americano, che come base operativa ha Portland, una delle città più vive musicalmente di tutti gli States: “sì, a Portland abbiamo avuto più tempo rispetto a quello che passavamo in Svezia. Ma ogni volta che andiamo a registrare, siamo sempre in studio in studio.. non abbiamo molto tempo libero! Eppure Portland ha delle caratteristiche simili a Glasgow: non so, la cultura ad esempio! È stato fondamentale per noi vedere qualche faccia nuova. È un posto che ispira!”. Da Glasgow a Stoccolma, da Stoccolma a Portland: quando si tratta di scegliere i luoghi, sembra
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che i Camera Oscura puntino alle mecche del rock senza tanti fronzoli. La mia conversazione con Gavin si diluisce col passare dei minuti. Con insistenza e tenacia, tiene a sottolineare come Desire Lines sia il frutto di una continua sfida per alzare il coefficiente di difficoltà rispetto alle precedenti uscite, ma soprattutto per scrollarsi di dosso etichette semplicistiche e rivalutare se stessi, definitivamente, come veri musicisti: “tutto quello che è successo ci ha dato un punto di partenza per lavorare più duramente su noi stessi e anche tempo in più per concepire un lavoro migliore. Eravamo tutti ispirati per fare uscire il disco nel migliore dei modi possibili”. Timidamente, mi sporgo facendogli notare come - a mio parere Desire Lines non sia l’album più triste dei Camera Obscura. Fin troppo a lungo, infatti, si è parlato della loro vena malinconica e infelice; Tracyanne ha finito col rispondere “sì” a tutti coloro che le chiedevano se lei fosse una persona infelice. Forse Desire Lines è solo il più maturo, il più introspettivo album della band: “Si, è il più maturo certamente. Musicalmente è quello che ci ha dato la possibilità di far del nostro meglio e Tucker è stato bravissimo ad assicurarsi che ognuno si impegnasse al 100%”. Dal punto di vista dei testi, sono state avanzate molte critiche riguardo l’uso della voce di Tracy: il fatto che sia così adolescenziale - da sembrare una teenager in pena d’amore - farebbe risultare poco credibili i testi profondi e intimi che canta, soprattutto nell’ultimo disco: “credo che Tracy scriva tante cose diverse.. molte persone pensano che quello che scrive siano semplici canzoni d’amore straziante. Ma non credo che si possa dire solo questo di noi: siamo molte cose insieme e Tracy scrive di svariati argomenti, di molte storie differenti”. Per sopperire alla mancanza di singoli tratti dall’ultimo album (“Do It Again è una sorta di singolo, ma non siamo riusciti a renderlo “fisico”. Break It To You Gently dovrebbe essere un’uscita in sette pollici. Penso che il problema sia che ci sono solo pochi rivenditori di vinili e possiamo venderlo solo in tour, ma così
può arrivare solo a poche persone”), Gavin racconta le avvincenti gesta della composizione delle titletrack Desire Lines: “abbiamo fatto un mucchio di versioni prima di approdare a quella definitiva: c’è quella soul, quella country, quella pop. C’è una versione in cui abbiamo provato a farla velocizzata e nessuno riusciva ad andare a tempo! [ride, ndr] Sembrava un pezzo disco! Terribile.. alla fine abbiamo optato per la versione delicata”. Io direi malinconica.. “[Sogghigna, ndr] Credo che una delle cose che ci piace fare sia rendere le nostre canzoni molto serie o tristi dal punto di vista dei testi, ma poi, una volta alzato il volume e prestato orecchio alla musica, ci piace restituire una semplice canzone pop: non sembra più così triste!” Desire Lines è inoltre il secondo album che la band ha registrato sotto la label 4AD, dopo essere stata Elephant/Merge per tutti i precedenti album. Una scossa che non si può certo sottovalutare, in vista dell’approccio più internazionale (leggi: americano) che stanno portando avanti: “all’inizio abbiamo venduto principalmente in UK e siamo diventati popolari in alcuni paesi d’Europa. Poi in America abbiamo venduto quaranta mila copie e suonato in venue molto più grandi, per nulla competitive con quelle in UK. 4AD ha una fantastica reputazione nel panorama mondiale contemporaneo e abbiamo pensato che passare a questa etichetta avrebbe potuto aumentare in qualche modo le vendite. In più, ci sono sembrate persone fantastiche, ci seguivano da tempo e ci siamo subito fidati..”. Non solo business, dunque, ma qualcosa di molto simile. D’altronde, come si notava in sede di recensione, sembra che Glasgow sia la culla ideale per macchine da palcoscenico di un certo calibro, con qualità altissime e spesso esportate in tutto il globo: Teenage Fanclub, Orange Juice, Pastels, Belle & Sebastian, Aztec Camera, mentre qui in Italia facciamo fatica a risalire la china: “[Ride, ndr] molte persone direbbero che, dal momento che piove sempre a Glasgow, le persone stanno in casa e hanno più tempo per essere creative. Non so, tradi-
zionalmente è sempre stato così..”. Potrebbe essere qualcosa nelle tubature dell’acqua...”potrebbe, c’è da sempre una lunga tradizione di rock band e le persone che si mettono a suonare oggi possono contare già su questo: in qualche modo vengono ispirati. Se un tempo era il punk, recentemente sembra che il pop stia avendo la meglio (ne siamo un po’ orgogliosi)”. Parlando di bilanci, provo a stuzzicare un po’ Gavin. È difficile che in una band attiva da quasi quindici anni, con una leader così carismatica come Tracyanne Campbell, non si sia mai creata una sorta di gerarchia, una catena di comando: “Gerarchia? [ride di gusto, ndr] Quando arriva il momento di fare un disco, Tracy porta le canzoni e ci prepariamo tutti per la registrazione. Ognuno cerca di metterci del proprio, di imprimere il proprio marchio sulla canzone, sull’arrangiamento. Cerchiamo di far sentire la nostra forza. Siamo amici, molto spesso ci viene naturale lavorare in gruppo dopo così tanti anni. Ancora non ci odiamo!”. Ecco svelato il segreto delle rette parallele, delle linee della vita. Con il semplice intento di fare buon pop, i Camera Obscura stanno movimentando il panorama europeo e girano l’America a fianco degli She & Him, incrementando sensibilmente semmai ce ne fosse stato il bisogno - il loro raggio d’azione. Le linee del desiderio scrivono le amicizie e le rendono impermeabili agli agenti atmosferici esterni, sia che si tratti di semplici (e continui) mutamenti di line up, sia che si tratti di gravi malattie: “abbiamo praticamente iniziato a suonare insieme. Stiamo crescendo come buoni amici che si preoccupano a vicenda. Non siamo solo dei partner musicali. Siamo amici, di un’amicizia duratura e lo saremo ancora per molto tempo! Stare così tanto tempo insieme, lavorare insieme, ti rende quasi una famiglia!”.
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Mount Kimbie Maturità istantanea
I retroscena del nuovo album, il tour con Squarepusher, la possibile collaborazione con James Blake e la personale opinione sulla “new wave of garage”: il duo londinese si racconta a SA testo: Massimo Rancati Ci piacerebbe raccontarvi che un album come Cold Spring Fault Less Youth, in fondo, ce lo aspettavamo, ma la verità è che temevamo le conseguenze del passaggio da Hotflush Recordings a Warp e che i Mount Kimbie finissero per reiterare il discorso inaugurato con il Maybes EP (2009) e, di fatto, chiuso con Crooks & Lovers (2010). In quest’ultimo caso il duo londinese avrebbe infatti certamente portato a casa un successo facile sulla fanbase, ma anche commesso una sorta di suicidio artistico. Perché si può essere escatologi ma
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fino ad un certo punto, specie se la stessa materia prediletta - il “post-dubstep” - ha visto il proprio ciclo volgere al termine, ha detto un po’ tutto quello che c’era da dire attraverso il saccheggio di ulteriori escatologi che diremmo “imitatori” e alla sovrapposizione del filone soulstep. Confessiamo, insomma, di essere stati uomini di poca fede prima di ritrovarci nuovamente stregati da Kai Campos e Dominic Maker, appunto in balia di quel Cold Spring Fault Less Youth che abbiamo chiamato “prova istantanea di maturità”.
I Kimbie hanno preso le dovute distanze dai precedenti lavori, hanno dato la struttura che mancava al proprio sound, hanno pensato in prospettiva live ed infine osato, variegando all’estremo la propria proposta. Hanno, in definitiva, portato al livello successivo la versatilità che li aveva resi celebri, ma il vero cambiamento sta tutto nella acquisita, enorme, consapevolezza nei propri mezzi. Una consapevolezza che su disco si rivela nei passaggi, agilissimi e sempre riusciti, dall’ambient alle produzioni praticamente hip-hop, dal post-glo a jam strumentali praticamente post-rock; che live diventa totale empatia con il pubblico, per il quale i due distruggono Carbonated con drop vicini al brostep, se l’hanno visto smaniare per la house esplosiva di Made To Stray; che in sede di intervista - li abbiamo incontrati al Node Festival di Modena - vede eclissata la timidezza con cui erano soliti relazionarsi con la stampa a favore, addirittura, di un certo snobismo, che è quello proprio di chi si sente nella “Premier League” dell’elettronica inglese e che, diciamolo, i Mount Kimbie possono permettersi. Avete detto che i vostri gusti musicali e il modo in cui volete suonare sono molto mutati in questi due anni e mezzo da Crooks & Lovers. Quali ascolti, dischi, artisti o persino eventi di vita vissuta hanno influenzato la direzione che avete intrapreso con il nuovo album e che vi ha portato - credo lo si possa dire - il più lontanto possibile dagli stilemi post-dupstep che avevano contrassegnato il Maybes EP? Dominic Maker: Credo che la maggiore influenza sia venuta dal fatto che siamo stati in giro per parecchio tempo a suonare dal vivo: quello ha senz’altro avuto un impatto sul mindset con cui siamo entrati in studio. Ma, in tutta onestà, per questo nuovo album abbiamo provato a distanziarci il più possibile da qualunque cosa potesse virtualmente essere un’influenza. Abbiamo speso parecchio tempo cercando di trovare unicamente il sound che volevamo accadesse su questo disco
e l’abbiamo fatto “per conto nostro”, senza davvero prestare attenzione a musica o altre influenze esterne. Cold Spring Fault Less Youth suona molto meno “off-kilter” dei vostri lavori precedenti ed ogni traccia mostra una struttura vera e propria. Era questo l’obiettivo principale che volevate conseguire? Kai Campos: Non lo chiamerei “obiettivo”, nè scopo. Parlerei piuttosto di naturale progressione. Voglio dire, abbiamo solo maturato più confidenza nei nostri mezzi, in ciò che facciamo e ci siamo semplicemente ritrovati troppo in là nel nostro percorso artistico per poter continuare a suonare per vaghezza, a lasciare idee deliberatamente vaghe su disco come avevamo fatto su Crooks & Lovers. Possiamo ora permetterci di essere molto più audaci e di scrivere canzoni con una struttura adeguata, e così abbiamo fatto. Avete percepito un qualche tipo di pressione o di ansia da prestazione passando da Hotflush Recordings a Warp? Come è l’ambiente lì? KC: In realtà no, anche perchè abbiamo iniziato a lavorare sul nuovo disco molto tempo prima di firmare con Warp. Siamo stati, anzi, senza alcun record deal per la maggior parte della lavorazione di Cold Spring Fault Less Youth. Ma non abbiamo percepito alcun tipo di aspettativa o pressione dai ragazzi della label, nemmeno dopo aver firmato con loro: ci sono sembrati soltanto genuinamente interessati a quello che stavamo facendo e nulla di più. L’ambiente in Warp è... DM: ...divertente. KC: Sì, le uniche cose differenti che in qualche modo abbiamo avvertito sono quelle relative ai loro livelli di stampa e distribuzione, ai loro scopi come etichetta che guardano ovviamente “più in grande”. Ma davvero, si tratta di un atmosfera piacevole, in generale. Lo scorso ottobre siete stati in tour in Nord America assieme a Squarepusher. Ci direste qualcosa di quell’esperienza?
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DM: Tom (Jenkinson, ndr) è davvero cool, assolutamente un personaggio. E poi, come sai, è anche un’istituzione, un pioniere nel campo dell’elettronica e quindi è stata un’esperienza davvero interessante. Ma la cosa migliore in assoluto è stato il fatto che, essendo accostati a Squarepusher, eravamo consapevoli di che genere di pubblico avremmo fronteggiato ogni sera e, dal canto suo, ogni audience che abbiamo incontrato era al corrente di chi fossimo, di cosa stessimo facendo sul palco, e in generale estremamente ricettivo. Una cosa che non si è verificata, per esempio, quando siamo stati opening act per The xx a Milano nel 2010... Siete il genere di artista che continua a produrre e a sviluppare le proprie tracce anche quando è in tour? Lo chiedo perchè vi ho già visti dal vivo un paio di volte [prima di stasera] e le vostre canzoni non suonano mai allo stesso modo nei loro abiti live. Direste quindi che,
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per quanto vi riguarda, c’è sempre in atto una perpetua operosità volta al continuo miglioramento ed, infine, al perfezionismo? KC: Sì, possiamo decisamente dire così. Sai, suonando dal vivo ti ritrovi ogni volta in un ambiente completamente differente, ogni location “suona” differente da quella in cui ti sei esibito la volta prima ed è raro che tutto funzioni alla perfezione. Stare sul palco finisce insomma per farti comprendere meglio il tuo sound, e noi ci appoggiamo frequentemente a questo fatto per concentrarci su cose che avremmo potuto fare ma che non abbiamo magari avuto il tempo di mettere in atto precedentemente, sul correggere i refusi [che ci sono scappati in studio] e così via. Per Cold Spring Fault Less Youth vi siete anche assicurati il featuring vocale che chiunque vorrebbe avere sul proprio disco. Dico questo perchè praticamente ogni artista che ho intervistato negli ultimi mesi ha definito King
Krule come “uno dei più incredibili talenti in circolazione” o come “l’act con cui vorrebbero davvero collaborare”. Come siete finiti a lavorare con lui? Come è il ragazzo dal vostro punto di vista? KC: È davvero giovane, energico, pieno di idee e felice di provare cose differenti. La collaborazione con lui è venuta fuori abbastanza casualmente: è un nostro fan, come noi lo siamo dei suoi lavori sotto moniker Zoo Kid, in quel periodo vivevamo nella stessa area di Londra e ci ha chiesto se poteva passare in studio e dare un ascolto a ciò a cui stavamo lavorando. Si è quindi portato via qualche bozzetto di cui era entusiasta e, dopo un po’, è tornato da noi con le strofe attorno alle quali abbiamo poi costruito assieme le canzoni. Non eravamo particolarmente interessati ad avere un featuring sul disco in un primo momento, ma con Archy (Marshall, ndr) si è rivelato un processo semplice e naturale. È stata, in generale, un’esperienza davvero positiva. Le due tracce realizzate assieme ad Archy possono essere anche viste come la vostra prima candidatura a papabili producer hip-hop... DM: Sì, parecchia gente ha detto che [su quei brani] King Krule praticamente rappa, ma.. diamine, noi pensavamo stesse soltanto cantanto! (ride) KC: Scherzi a parte, non sei il primo che ci fa notare questa prospettiva di lettura. Ma, per quanto ci riguarda, non abbiamo minimamente concepito quelle due tracce come produzioni hip-hop. Per cui direste di non essere interessati a produrre hip-hop? DM: Io lo sono. KC: Certo che lo siamo! Oh, bene. Avete quindi in mente un artista hiphop o R&B che vorreste produrre a tutti i costi? KC: Beyoncé? DM: Sì, Beyoncé. È una belva. Made To Stray è il primo pezzo a firma Mount Kimbie che possa stare su un dancefloor. Prendendo spunto da questo, volevo chiedervi: vi
sentite in qualche modo connessi al comeback della house e delle produzioni in 4/4 che si sta verificando in Inghilterra? KC: Diciamo che, in particolare per questo disco, ci siamo davvero disconessi dal resto del mondo, ci siamo imbozzolati in studio. Per cui credo che possa essere stato un’influenza nella maniera in cui le cose che senti in sottofondo possono essere un’influenza, e qualunque cosa succeda a Londra è probabilmente un’influenza per noi. Ma non abbiamo cavalcato questa cosa del comeback della house intenzionalmente. Ho anche sentito parlare, in giro per la rete, di una certa “new wave of garage” che vedrebbe coinvolti producer quali Disclosure, Huxley ed in generale l’intera RinseFM. Direste che si tratta di una corrente-movimento vera e propria? KC: Ma per piacere! È robaccia priva di gusto. DM: Ci hanno fatto scandagliare la UK Dance Chart quando eravamo a New York e siamo rimasti sorpresi da quanto simili fossero tutte le canzoni in top 10. Non ne avevamo sentita nessuna prima di allora, non vi avevamo mai prestato attenzione. Ed ecco, siamo finiti a mostrare l’età indicata sulle nostre carte d’identità ai ragazzi con cui eravamo seduti in quell’occasione: tutta questa roba a noi suona soltanto come musica vecchia per gente vecchia. (ride) So che probabilmente vi siete stancati di ritrovarvi quasi sempre questa, come ultima domanda, ma devo comunque chiedervelo: la tanto chiacchierata, possibile, futura, collaborazione in studio tra voi ed il vostro amicone James Blake è ancora possibile? DM: Tutto è possibile (ride). Abbiamo in realtà già scritto una traccia assieme qualche tempo fa. Non è insomma qualcosa che non vogliamo assolutamente fare, siamo ancora amici molto stretti. È solo che, artisticamente, una collab non è attualmente una priorità nè per noi, nè per lui. Ma siamo consapevoli che, prima o poi, succederà.
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Tempelhof
© janine billy
From Ambient To Disco
In occasione del nuovo EP su Hell Yeah abbiamo intervistato il duo formato da Luciano Ermondi e Paolo Mazzacani. L’ennesima conferma dell’alta qualità dell’elettronica da dancefloor italica testo: Marco Braggion Esce fra una settimana il nuovo EP dei Tempelhof City Airport. Il duo mantovano formato da Luciano Ermondi e Paolo Mazzacani ritorna a pubblicare un disco sull’etichetta italiana che negli ultimi mesi ha riportato la luce su suoni freschi ed ancorati alla tradizione, come l’ottimo album dei Crimea X Another. L’EP è stato patrocinato, con due remix d’eccezione, da Fabrizio Mammarella e dai Margot. A una settimana dalla pubblicazione ufficiale, che anticipa il full length in uscita entro l’anno, abbiamo parlato di passato, presente e futuro con la band. Qui sotto l’intervista in esclusiva per SA. Ciao ragazzi come state? Bene, grazie.
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Rispetto al vostro esordio We Were Not There For The Beginning, We Won’t Be There For The End avete cambiato molto il vostro suono. È stata la liaison con la Hell Yeah a influenzarvi in questo senso? L’esordio è uscito a fine 2009, ma la distanza di cui parli, effettivamente, la avvertiamo anche noi. Diciamo che in parte può essere dipesa dal cambio di label, ma solo in parte, nel senso che siamo entrati in contatto con Peedoo e con la sua Hell Yeah a seguito di un remix che facemmo, un paio di anni fa, per Ajello. Il fatto di doverci confrontare con un progetto dance, che aveva una sua grammatica molto distante dalla nostra, ci ha pemesso di sperimentare su suoni e strutture che prima
non ci appartenevano. Al primo remix ne sono seguiti molti altri su Hell Yeah, come quelli per Crimea X, Maxime Dangles, Confusional Quartet, Luminodisco, Margot, e una certa attitudine si è consolidata. Per dirla tutta, già da tempo bazzicavamo su territori differenti dai nostri esordi, che erano più marcatamente ambient-shoegaze, quindi, probabilmente, ci siamo incontrati nel momento giusto. Dall’EP del 2012 cosa è cambiato su Hell Yeah? Ci avete preso gusto a stare con loro? Semplicemente abbiamo iniziato a credere in un progetto comune e a pianificare il futuro immediato con l’uscita di questo nuovo EP, City Airport, al quale seguiranno una compilation dei remix fatti per artisti Hell Yeah e la pubblicazione del nostro nuovo album, in programma per fine settembre. Ci potreste dare qualche anticipazione sul disco? Ascoltando il nuovo EP sembra che vi piaccia stare dietro la consolle da DJ. Dove l’avete registrato? Chi ve l’ha prodotto? Mah... a dire il vero, Luciano è l’unico, tra i due, che è anche DJ, mentre io non so neanche mettere due dischi a tempo! Il clubbing non ci è, ovviamente, sconosciuto, ma neanche così affine, siamo più attratti da altre forme di elettronica, però ci diverte. L’EP ha preso forma dirigendosi più verso il dancefloor, anche grazie ai remix di Mammarella e dei Margot, dei quali andiamo molto fieri. Credo che Tempelhof sia una creatura un po’ sfuggente dal punto di vista stilisco, forse di difficile catalogazione. Ci piace frequentare territori musicali differenti e ci annoiamo facilmente a replicare gli stessi stilemi. City Airport è un pezzo uscito da una session di registrazione di circa sette, otto mesi fa. Ci siamo chiusi nel nostro studio e abbiamo inziato a lavorare con synth e sequencer analogici, inseguendo un suono un po’ più balearico. City Airport è la traccia meglio riuscita di quella session, solare, ma non realmente “happy”, con un’oscurità latente piuttosto marcata... o almeno
noi l’avvertiamo. Dunga ha una carica molto UK house, insieme suonavano pefettamente, così abbiamo deciso di confenzionare un EP a modo nostro “estivo”. La produzione è interamente curata da noi, siamo degli autarchici da quel punto di vista, ci piace fare tutto in casa. L’EP sembra essere molto easy, nel senso di ascoltabile, solare, summer. Il disco sarà tutto così o ci sarà qualche momento più meditativo ambient? Credo che il disco rappresenterà al meglio l’evoluzione naturale del suono Tempelhof. È un ritorno alle origini, per certi versi. Per certi altri è qualcosa di totalmente inedito. È come se, dopo il disco di esordio ci fossimo presi un periodo sabbatico, durante il quale fare esperienze diverse, anche molto lontane da noi stessi. Il tipo di viaggio al ritorno dal quale sei una persona diversa, migliore, più consapevole e matura. Quindi, per rispondere alla tua domanda, nel disco ci saranno numerosi momenti meditativo-ambient, che si ricollegano al passato, ma che guardano al mondo con occhi diversi. Com’è iniziata la collaborazione con Fabrizio Mammarella? Lui è un mostro della italo house che sa sempre sorprendere per freschezza e popness. Come l’avete conosciuto? Avete lavorato con lui anche per il full length? Suonate con lui? Io non l’ho mai incontrato di persona, mentre Luciano l’ha conosciuto perchè metteva i dischi dopo un live dei Crimea X. Ricordo che mi parlò del suo set in termini entusiastici, l’aveva colpito il suo eclettismo, la sua capacità di mischiare tracce differenti con una naturalezza disarmante, dalla balearic all’acid house. Entrambi amiamo molto la sua musica, sia nella versione live Clap Rulez che nelle vesti di Telespazio e, quando Peedoo ci ha ventilato la possibilità di remixare un suo pezzo, abbiamo immediatamente accettato. Il risultato gli è piaciuto molto e, alla prima occasione, ci ha reso il favore. Ovviamente speriamo di poter lavo-
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rare di nuovo con lui in futuro. Stanno tornando molto di moda le sonorità vecchie, sia nordiche (vedi Todd Terje, Crimea X) o Seventies (vedi Daft Punk). Anche il vostro sound mi sembra old fashioned, però più electro 80/90. Mi confermate quest’impressione? Credo che, soprattutto in alcuni remix e, qua e là nelle produzioni, traspaia una vena riconducibile alla new wave, quindi più ‘80s che ‘90s, dovuta al nostro background, al fatto che entrambi veniamo dal rock e che spesso amiamo ricorrere a strumenti più “classici” come chitarra e basso, oltre che ai sintetizzatori e alle drum machine. Quando la musica è, per così dire, “suonata”, è piuttosto naturale trovare riferimenti nel passato. L’hardware, a differenza del sofware, ha quel livello di geniale imperfezione al quale è difficile rinunciare e usando molti strumenti vintage, concedi al suono di mostrare fieramente la propria età anagrafica e di marchiare indelebilmente le tue produzioni. Si tratta di una scelta stilistica che credo valga per noi, come per Crimea X, dei quali siamo amici e con i quali condividiamo l’amore per l’analogico. Per quanto riguarda i Daft Punk, immagino che non ci sia la medesima buona fede... Nei vostri viaggi in giro per l’Europa avete sentito differenze nel pubblico inglese e in quello italiano? Non abbiamo mai fatto mistero della passione che abbiamo per l’Europa e, in particolare, per l’Inghilterra. Il fatto di aver pubblicato il nostro primo lavoro per una label di Newcastle, la Distraction records, ci ha inevitabilmente segnato. I primi show da quelle parti sono stati una rivelazione. Hanno una passione, una curiosità, un rispetto per i musicisti che da noi è piuttosto rara e non scontano alcuni atteggiamenti provinciali alla Ecce Bombo, del tipo “mi si nota di più se vengo o se non vengo?”... insomma ci siamo capiti, senza volerla fare troppo lunga, gli ambienti sinceri in Italia esistono, ma non sono certo la maggioranza. Quali sono gli artisti che avete ascoltato di più
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nell’ultimo periodo? Ultimamente ascoltiamo molta roba di label come la Warp, l’Apollo Records, Rhythm & Sound, Tectonic, band come Sinner Dc, Boards of Canada, Demdike Stare, Recondite, ma anche artisti molto diversi tra loro per epoca e attitudine come Legowelt, i Low, Brian Eno, Dead Can Dance, Durutti Column... ma la lista eccederebbe lo spazio! Invece con i Margot com’è andata? Ho letto che sono di Border Community. Come li avete conosciuti? Con i Margot è andata più o meno come con Mammmarella. C’era e c’è grande stima nei loro confronti per il fatto di essere riusciti a entrare nel roster di una label che amiamo profondamente come Border Community, soprattutto per le prime cose di Nathan Fake e Luke Abbott. Abbiamo remixato una loro traccia, 4 Aggressive Young Boys, uscita per Hell Yeah, un lavoro del quale andiamo molto fieri e, all’atto di pensare a un artista che potesse remixare i nostri pezzi, la scelta è caduta immediatamente su di loro. Il tutto è accaduto con la regia di Peedoo che cura il management di entrambi.. Ho letto che avete remixato fra gli altri Ajello, Crimea X, Confusional Quartet. Tante cose emiliano-romagnole insomma. Voi di dove siete? Che cosa vi attrae dell’Emilia in termini musicali? Ci sono altri luoghi in Italia che vi piacciono per le vibrazioni? Dove state meglio? Noi siamo di Mantova, ultimo triste avamposto lombardo che guarda già all’Emilia. Per varie ragioni, non solo strettamente musicali, abbiamo bazzicato spesso da quelle parti, abbiamo amici, musicisti e non, abbiamo storie personali che ci hanno portati a frequentare quei luoghi. Diciamo che con gli emiliani e i romagnoli c’è un certo feeling! In generale siamo stati molto bene anche a Senigallia, in certi ambienti milanesi e abbiamo un rapporto speciale con Rovereto e i roveretani... Avete in mente di suonare in tour quest’estate? Se sì, dove?
Ho visto che avete suonato anche con i Metro Area. Il vostro suono mi sembra influenzato in qualche modo anche dalla loro proposta. Vi sentite vicini a loro? Non in senso stretto, anche se loro sono stati certamente tra le cose migliori che potessero accadere alla dance dell’ultima decade. Abbiamo suonato con Darshan Jesrani a Londra, lui è un tipo molto interessante e piacevole, con il quale abbiamo scoperto di avere numerose affinità, ma sinceramente non vedo altri punti di contatto. Quali sono i progetti per il futuro? Ora c’è City Airport EP, a luglio uscirà la compilation di remix di cui ti dicevo e a fine settembre, il nuovo album del quale potrei già accennarti il titolo, ma forse è meglio attendere...
© janine billy
Suoneremo sicuramente il 27 e il 29 giugno, ad Ancona e al Wunder festival di Teramo e ci auguriamo di riuscire a suonare il più possibile in giro. L’attività live per noi è fondamentale. Ho letto che avete anche una storia importante come videomaker. Nel live userete video vostri? Continuate a produrli? Diciamo che oltre ai due Tempelhof che suonano, ce n’è un terzo, il misterioso Sorry Boy, che si occupa della parte video. C’è da sempre un rapporto strettissimo tra audio e video nel progetto, sia per quanto concerne i visual che utilizziamo live, che per montaggio e regia dei video clip. Sorry Boy ha questa straordinaria attitudine vintage e visionaria che ci ha impressionato da subito e che crediamo rappresenti alla perfezione il nostro suono.
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Vita sonica
thurston m
Testo: Tommaso Iannini
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moore
Un percorso artistico a tutto tondo e un discorso di vita e vite parallele riguardo a una delle leggende viventi del rock Il discorso su Thurston Moore non può che cominciare dalla scena di New York in cui si è formato come musicista, e dai Sonic Youth. Non si può nemmeno immaginare la guitar band più originale e influente degli anni ‘80 in un’altra città che non sia la sua metropoli. I semi del sound del quartetto sono quasi tutti nel rock urbano della Grande Mela, quello di Velvet Underground e Television, del punk e della no wave, e in quel clima di compenetrazione reciproca tra il linguaggio del rock (e, perché no, del jazz), l’avanguardia musicale, le arti visive e la cultura pop (intesa sia come Andy Warhol che come Madonna). Ed è sempre a New York che personaggi come Rhys Chatham e Glenn Branca hanno creato uno spazio comune tra la musica colta contemporanea e il rock, da cui è partita proprio la ricerca dei Sonic Youth sui timbri delle chitarre e il loro espressivo detuning. Non si può parlare quindi di Moore senza trattare del gruppo che ha formato e di cui ha condiviso la leadership insieme a Kim Gordon e Lee Ranaldo. Da un lato Thurston e il suo “gemello” sonico Lee hanno reso nuovamente cool la chitarra elettrica nel decennio dei sintetizzatori e della musica di plastica di MTV, preparando il terreno per il boom del grunge; dall’altro Thurston e Kim sono stati una specie di istituzione familiare per gli appassionati di rock
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alternativo. La notizia del loro recente divorzio è stata qualcosa di più e di diverso dal solito gossip: per molti si è trattato chiaramente di un fatto quasi “affettivo”, come se si fosse separato qualcuno che si pensava di conoscere da sempre e non una coppia qualsiasi del mondo dello spettacolo. Del resto i Sonic Youth come gruppo sono stati decisamente superiori alla somma delle loro parti, un mix di personalità differenti che contribuivano alla riuscita dell’insieme - la voce femminista di Kim, le sperimentazioni di Ranaldo e il piglio da rocker impenitente ma con una marcia in più del nostro protagonista, senza dimenticare Steve Shelley, che ha concorso a dare una svolta al suono della band dopo il suo ingresso a metà anni ‘80 - acquistando qualcosa in più proprio dall’accostamento con gli altri. Le linee di chitarra di Thurston e Lee sono così complementari l’una all’altra che è quasi impossibile separarle e considerare il singolo apporto nell’economia dei pezzi. Anche senza Kim Gordon, il cui approccio da non musicista al basso assicurava un contributo che un professionista non avrebbe saputo dare, il gruppo sarebbe stato un’altra cosa. Fare musica ha più spesso a che vedere con una misteriosa alchimia che non con un’operazione matematica esatta. In questo caso, la pietra filosofale sono le accordature e i timbri, così poco convenzionali da riscuotere l’ammirazione di chi, come Blixa Bargeld, per sua ammissione non amava le chitarre. Pensiamo a quanti chitarristi sono più dotati tecnicamente ma non sono ricono-
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scibili al primo ascolto. Se c’è una lezione che due guitar heroes così atipici ci hanno insegnato, è proprio nella relativa semplicità delle diteggiature rispetto al modo geniale di accordare - o meglio scordare - e preparare i loro strumenti. Ed è una lezione assolutamente punk: reinventare il linguaggio della chitarra rock poteva essere un’operazione alla portata di tutti, non soltanto di solisti virtuosi. Per creare il proprio suono, è più importante essere teste pensanti che mostri di tecnica.
Spos e rò Pat t i Sm i t h Thurston Joseph Moore nasce il 25 luglio 1958 a Coral Gabbles, ma cresce nella tranquilla Bethel, in Connecticut, a 100 miglia dalla sua città di elezione, New York. Quella tra il ragazzo di provincia e la Grande Mela è una vera storia d’amore, cominciata a distanza, tra le pagine delle riviste rock e le fantasie di adolescente, proseguita con le prime trasferte per i concerti al CBGB’s su uno scassato maggiolino Volkswagen e culminata dopo due anni di sogni e progetti; sullo sfondo l’escalation della scena punk, capace di esercitare tanta presa su un immaginario artistico ed esistenziale ancora in formazione. Thurston viene da una famiglia che asseconda i suoi interessi musicali. Suo padre George, scomparso prematuramente per un tumore al cervello, è un professore di musica e filosofia e anche un compositore dilettante. Suo fratello maggiore, Gene, sembra un chitarrista più dotato di lui; Alex Foege nella biografia Il caos incalza (Tarab 1995) racconta che aveva sequestrato la chitarra, costringendo Thurston a suonarla di nascosto. All’inizio del 1977, Moore viene a scoprire che l’amico J.D. King, un ragazzo conosciuto in un negozio di dischi, si è trasferito a New York per formare una band. Un paio di mesi dopo lo stesso King lo chiama invitandolo a raggiungerlo e a entrare nel suo gruppo. Con una Fender Stratocaster lasciatagli dal fratello come regalo d’addio e poco altro, il giovane Moore parte alla volta della Big Apple. Sistemato in una specie di monolocale sulla Tredicesima Strada, il diciannovenne si immerge a capofitto nella movida punk di New York: cerca di impressionare Richard Hell - con cui collaborerà anni dopo nel progetto Dim Stars -, vede da vicino Sid Vicious e fantastica di formare una band insieme a lui, ha un “breve incontro” con Lydia Lunch, che vive anche lei sulla Tredicesima. All’inizio non gli piace Lydia, che ha osato criticare la sua musa Patti Smith e i suoi adorati Television; poi, un giorno «la vidi sulla banchina del treno L sulla First Avenue. Mi precipitai a tutta birra giù per le scale e oltre i tornelli e quasi la travolsi, lei mi guardò con occhi spalancati e io prose-
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guii oltre. Molti anni dopo io e Lydia diventammo buoni amici e lei mi confessò che in quel periodo era ossessionata dai ragazzi bianchi alti e pelle e ossa e tutt’e due avevamo un’età e uno stile di vita in cui poteva accadere chiaramente qualcosa di pazzesco. Chissà cosa sarebbe successo se fossi diventato l’amante di Lydia quando avevo diciott’anni» (scrive lui in Alabama Wildman, Leconte, 2005). Più di Lydia, e al di là del sogno segreto di sposare Patti Smith, a quel tempo lo ossessiona una ragazza svedese che abitava nel suo stesso palazzo, ma che in realtà sta con un altro e non passa con lui più di un weekend tenendosi pure in pegno il suo cappotto. L’esperienza nei Coachmen non dura molto. La band suona un “garage rock progressivo” ispirato da Velvet Underground, Talking Heads, Modern Lovers e Television e registra poche canzoni prima di sciogliersi. Non basta per placare l’ansia di Thurston, alla ricerca di un nuovo modo di suonare, che svincoli la chitarra rock dalle solite radici rhythm and blues e la indirizzi verso qualcosa di totalmente punk. «Non volevo più suonare i soliti accordi dal Re al Do al Sol, così un giorno cominciai a suonare velocissimo su e giù per il manico saltellando qua e là, molto ritmicamente». I primi esperimenti con questo nuovo stile nascono durante le jam con Stanton Miranda, una musicista che in quel periodo suona anche in un progetto tutto al femminile con Christine Hahn (ex Static) e una ragazza californiana che ha da poco lasciato Los Angeles, attratta dalla scena artistica di New York. «Disse che la sua migliore amica era una bellissima artista di nome Kim.. Portava gli occhiali da sole con le lenti sollevabili e aveva un pastore australiano di nome Egan. Si faceva la coda da un lato e indossava un completo con camicetta e pantaloni a righe bianche e blu. Aveva dei bellissimi occhi e il più bel sorriso che avessi mai visto, era molto sveglia e sembrava possedere un’intelligenza sensibile/spirituale» (Alabama Wildman). Tra i due nasce subito un’intesa, anche se il nostro spilungone all’inizio sembra piuttosto timido; poi una sera la va a trovare nel nuovo appartamento. Tutto quello che ha Kim sono una chitarra e un cuscino. La chitarra, oltretutto, è passata da più mani, lasciata dal precedente proprietario nel loft di un amico dove viveva anche Kim. Thurston quella sera suona quello strumento malandato e i due, finalmente, si baciano. Si lasceranno dopo trent’anni e più di venti LP insieme.
New Yo rk d ic e no Dopo qualche mese nella grande metropoli, Thurston si rende conto che l’onda è passata. Il punk newyorchese ha perso molta della verve sovversiva che lo animava agli esordi, mentre dall’altra
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parte dell’oceano arriva l’eco dei punk inglesi. Nel frattempo in città è sorta un’altra scena, più audace, dirompente e votata a fare tabula rasa delle convenzioni del rock. La no wave vuole davvero fare piazza pulita di tutti i cliché. Quasi una diretta conseguenza di un approccio senza compromessi, i pochi gruppi che ne fanno parte sono destinati a sciogliersi nel giro di un paio d’anni e a lasciare poche tracce discografiche del loro passaggio. Tracce comunque profonde. La musica dei gruppi no wave prende spesso la piega di una cacofonia stonata e amelodica; formalmente, non presenta i classici accordi che il punk stesso usava per creare melodie e si propone in tutto e per tutto come una sorta di antirock, anche se suonato con i suoi stessi strumenti. Una vera propria decostruzione del linguaggio rock, e, se vogliamo, una sublimazione dello stesso approccio punk, che passa però attraverso le stesse armi di sempre, gli immancabili chitarra, basso e batteria, tutt’al più con l’aggiunta di un sax impazzito (vedi James Chance e i Contortions) o di ta-
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stiere analogiche. Quel che conta è che l’approccio alla chitarra di queste band è decisamente poco ortodosso e amatoriale, anche per i canoni rock di fine anni ‘70. Bypassando l’istrionismo tra James Brown e free jazz dei Contortions, prendiamo, ad esempio, il modo totalmente naif di usare la slide e l’estremismo sonoro dal sapore infantilista di Lydia Lunch, gli sviluppi percussivi e atonali del chitarrismo dei Mars e l’approccio altrettanto percussivo ed eccentrico di Arto Lindsay nei DNA. Nell’ottica Sonic Youth, brani come Freud in Flop dei Teenage Jesus & The Jerks, Helen Forsdale dei Mars e Size dei DNA sono piccole pietre miliari che con il senno di poi ci indicano la strada verso il gruppo di Thurston Moore. Nella prima, Lydia Lunch si produce in un alternate picking velocissimo con la destra mentre con la sinistra tiene il cilindro di metallo slide pressoché fisso sull’ultimo tasto, praticamente a ridosso del pick-up. Il brano dei Mars presenta un giro armonico con quattro accordi pennati in sedicesimi, vera quintessenza protosonica, e gli interventi noise della seconda chitarra. Nel pezzo dei DNA, ultimo brano di No New York, lo strumming monocorde dal suono ostinato e metallico di un Arto Lindsay, alle prese con una dodici corde volutamente scordata sopra un giro di basso sincopato, anticipa i primi esperimenti targati gioventù sonica. Per carpire le vere premesse al sound dei Sonic Youth nella no wave, tuttavia, dobbiamo rivolgere lo sguardo alla parallela scena di SoHo (ignorata da No New York, che si concentrava soltanto su quattro band del Lower East Side). I gruppi di SoHo appartengono a un milieu più vicino alle gallerie d’arte che ai club, e infatti suonano spesso in ambienti alternativi come loft e appunto, gallerie. In questo contesto operano i Theoretical Girls, gli Static e i Gynecologists, e soprattutto i personaggi che li guidano.
Cl ass ic i s m o p un k «Rhys [Chatham] cominciò a pizzicare il Mi basso a vuoto con una serie di pennate in giù (scoprii più tardi che la chitarra aveva un’accordatura specifica, non convenzionale). Poi entrarono anche Glenn [Branca] e David [Rosenbloom], mentre Warton [Tiers] batteva un tempo di otto ottavi sul piatto. Il ritmo diventava più sostenuto, intanto che alla nota iniziale si aggiungevano, una dopo l’altra, le altre corde. Nessuno ha mai schiacciato un tasto della chitarra, si sentivano soltanto questi accordi aperti vibranti di chitarre scordate il cui volume cresceva di intensità fino a diventare assordante. [..] Stava succedendo qualcosa che non riuscivo a capire. I tre chitarristi non facevano che pizzicare solamente corde vuote con il plettro, ma nel campo sonoro sopra le nostre teste succedevano cose straordinarie. Gli ipertoni danzavano intorno
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alle note, si animavano sempre di più, trasformando il gruppo in un’orchestra di gamelan, poi in un coro di voci, e rimbalzando come palline da ping pong sulle note basse e minimaliste di un accordo rock [..] Sono rimasto come in estasi, ascoltando quella musica strana [..]. Dico strana perché da una parte era rock e familiare. Ma aveva anche un’altra qualità: c’era qualcosa in più. Era anche arte. Il brano era Guitar Trio di Chatham, che mi ha iniziato a un nuovo e sorprendente mondo di musica che stava nascendo a sud della Quattordicesima strada nella lower Manhattan. Non avevo mai sentito niente di simile, eppure era come se fosse stato sempre dentro la mia testa; ora era finalmente lì, davanti a me». L’epifania che coglie Lee Ranaldo al concerto dei Meltdown, un progetto di Rhys Chatham in cui figurava anche Glenn Branca, fa sentire ancora oggi il suo riverbero sulla musica dei Sonic Youth, intrecciandosi in maniera indissolubile al percorso del suo - dovremmo dire ex - fratellino sonico Thurston Moore. Il resoconto di quel concerto è contenuto nel libretto di An Angel Moves Too Fast to See, un box antologico di Chatham. Guitar Trio è un brano strumentale a cui Rhys aveva iniziato a lavorare nel 1976, cercando di creare una melodia sul solo Mi basso a vuoto con gli ipertoni della nota fondamentale, a cui gli altri chitarristi aggiungono, a una a una, le altre note di un accordo di Mi maggiore. Rhys Chatham era partito da Boulez, Maderna e Varèse per appassionarsi al minimalismo alla fine degli anni ‘60. Già collaboratore di La Monte Young, rimane folgorato da un concerto dei Ramones al CBGB’s, che gli apre una nuova prospettiva: integrare il rock nel suo progetto musicale. «Mentre li ascoltavo, mi sono reso conto che, da minimalista, avevo più cose in comune con questa musica di quanto immaginassi. Ero attratto dalla pura energia e dalla potenza grezza, ma anche dalle sequenze di accordi, che non erano lontane da alcuni esempi di process music che ascoltavo in quel periodo». La cosa paradossale è che per un compositore colto, formato in ambienti d’avanguardia, le armonie da tre accordi tre dei Ramones, snobbate da certi rocker con la puzza sotto il naso, potevano risultare più complesse delle sue composizioni, che vertevano su un unico accordo. Guitar Trio è la prima composizione di Chatham per un gruppo rock con tre chitarre, due accordate standard e la terza con tutte le corde sul Mi basso, dalla prima all’ultima; negli anni è rimasto una sorta di classico della no wave, celebrato anche nel recente album Guitar Trio is My Life a cui partecipano Thurston Moore e Lee Ranaldo. La seguiva sulla stessa falsariga Drastic Classcism, rendendo ancora più aspro il suono delle chitarre accordate a piccoli intervalli dissonanti e alzando il ritmo
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a 120 bpm; l’effetto ricorda le ripetizioni cicliche di Steve Reich e Terry Riley unite a una scarica di adrenalina assicurata dalle chitarre elettriche, da un ritmo motorik e dalle rullate della batteria. Rhys Chatham ha poi sviluppato ulteriormente le sue idee in Die Donnergötter e An Angel Moves Too Fast to See, allargando l’organico delle chitarre (che arrivano a cento come nel più recente e monumentale A Crimson Grail) organizzando le composizioni in movimenti come moderne sinfonie. A differenza di Chatham, che aveva una formazione musicale colta, Branca viene dal teatro d’avanguardia, il Bastard Theater, prima ancora di formare i Theoretical Girls (insieme al tastierista Jefffrey Lohn e al batterista Warton Tiers) e gli Static (con la sua ragazza Barbara Ess al basso e Christine Hahn alla batteria). Dalle lezioni introduttive che Rhys Chatham ha fatto ai suoi musicisti, Branca impara a sviluppare i concetti della serie armonica e degli ipertoni nelle sue prime composizioni: uno studio sulla dissonanza nel rock chiamato coerentemente Dissonance, la reinterpretazione del minimalismo in chiave rock di Lesson n. 1 (che inizia con un pattern à la Terry Riley per sovrapporre una seconda linea melodica e aumentare il ritmo
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in un irresistibile crescendo) e la trasfigurazione della musica classica nel contesto di una band di chitarre multiple di The Spectacular Commodity. Branca propone una musica classica per ensemble di chitarre elettriche con settaggi di corde e intonazioni specifiche per dividere i rispettivi ruoli come le voci di un coro (baritono/soprano/ tenore). Uno step ulteriore è raggiunto da Branca nella composizione di sinfonie a partire dalla Symphony n. 1 (Tonal Plexus) del 1981 per otto chitarre, tromba, sassofono, corno e pecussioni. Il primo movimento si sviluppa da una nota di Mi sostenuta e da un accordo di Mi maggiore (più o meno le stesse premesse di Guitar Trio), il secondo imita la musica gamelan con la scelta di particolari timbri di chitarre accordate e “preparate”, mentre il terzo e il quarto ritornano a un accordo ripetuto di Mi maggiore, su cui edificano una monumentale architettura di cluster, dissonzanze e ipertoni generati dalla stessa nota prodotta con diverse accordature e dai volumi degli amplificatori portati all’estremo. In quelle otto chitarre, due sono nelle mani di Thurston Moore e Lee Ranaldo.
Giov e n t ù s on i ca Dopo lo scioglimento del suo primo gruppo, Thurston Moore forma una band insieme alla tastierista Ann de Marinis e all’ex batterista dei Coachmen, Dave Keay, a cui si aggiunge anche Kim Gordon, che la forte personalità rende una presenza creativa nel gruppo, con un quid particolare che va ben oltre le sue doti rudimentali di bassista e cantante. Il complesso si chiama in principio Male Bonding, poi Red Milk e The Arcadians, prima di scegliere il nome definitivo, per cui Thurston si ispira a Fred “Sonic” Smith, chitarrista degli MC5, e all’artista reggae Big Youth. Il 14 gennaio del 1981, quando i Sonic Youth si chiamano ancora The Arcadians, Lee Ranaldo e il suo sodale David Linton si uniscono a loro per una jam al CBGB’s. Nel 1981 proprio Moore ha il compito di organizzare una rassegna musicale di nove serate al White Columns, una galleria d’arte alternativa che ospita anche concerti. Nasce così il Noise Fest, a cui partecipano tra gli altri Glenn Branca, Rhys Chatham, i Built on Guilt dell’artista Robert Longo e altre formazioni dell’underground newyorchese tra cui Dog Eat Dog (da non confondere con l’omonimo gruppo crossover di qualche anno dopo), Mofungo e Chinese Puzzle. Il concerto dei Sonic Youth è il canto del cigno della primissima formazione, con Richard Edson alla batteria e Ann De Marinis che ha già deciso di lasciare la band. Le cose si stanno mettendo nello stesso modo anche per Lee Ranaldo con il suo gruppo, i Plus Instruments. È proprio durante il Noise Fest che Kim Gordon ha modo di parlargli
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e di suggerirgli di suonare con Thurston. Meno di una settimana dopo Thuston, Kim e Lee provano insieme al White Columns. I primi concerti dei Sonic Youth mark II sono senza batteria, prima del ritorno di Edson in formazione. Non male, perché Moore, quando non suona in contemporanea chitarra e rullante, ne approfitta insieme a Ranaldo per trasformare le chitarre in strumenti a percussione, colpendole con tubi e oggetti metallici o con le bacchette della batteria. La presenza di una seconda chitarra in luogo delle tastiere dà una sterzata al suono e anche alle ambizioni del gruppo, che nei mesi successivi comincia, anche se a livello ancora embrionale, a sviluppare il proprio stile. Tra il dicembre del 1981 e il gennaio del 1982 i Sonic Youth registrano il loro EP di debutto per la Neutral, l’etichetta fondata da Glenn Branca e Josh Baer, proprietario del White Columns. È un disco che oggi appare piuttosto diverso dai successivi, anche perché l’unico in cui il quartetto adotta le accordature standard. I cinque brani
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mostrano le influenze sia di certo post-punk britannico coevo (in particolare dei PIL), sia del reggae e dell’avant-dance newyorchese, come si evince anche dai poliritmi di Edson, impegnato in parallelo con una band di quel genere, i Konk. Sarà l’ultima prova del batterista, oggi più conosciuto come attore per le sue parti in Stranger than Paradise di Jim Jarmusch e Fa’ la cosa giusta di Spike Lee. Il brano di punta del mini album è The Burning Spear, vecchio cavallo di battaglia rimasto anche nelle più recenti scalette dal vivo. Comincia con un accordo ripetuto di Mi e una serie di suoni percussivi, ottenuti da Thurston battendo con una bacchetta da batteria su un’altra bacchetta infilata tra le corde al dodicesimo tasto, dove entra la figura di basso di Kim, ispirata ai dischi di reggae su cui si stava esercitando a casa, in particolare il primo dei Black Uhuru. Lee - che nelle ultime versioni in concerto suona una più tranquilla chitarra appoggiata per terra e percossa con le bacchette come se fosse uno xilofono - interviene con un trapano elettrico passato attraverso un pedale wah wah. L’EP continua con I Dream I Dream, duetto tra le voci di Kim e Lee, il groove ipnotico di She Is Not Alone e il vortice di percussioni tribali e chitarre con effetti raga di I Don’t Want to Push It, per cui Moore ricorda di essersi ispirato ai Can; quindi si chiude sulle note dello strumentale The Good and the Bad, che deve il suo effetto trance allo strumming frenetico di singoli accordi tipico del linguaggio chitarristico di Branca e Chatham, e in cui Thurston suona il basso.
L a c on fusio ne i ncalza Rimasti senza Edson, i Sonic Youth reclutano attraverso un annuncio Bob Bert, batterista dallo stile più grezzo. A dire il vero anche la musica dei Sonic Youth evolve verso un sound più aggressivo; anche se il loro approccio rimane decisamente più arty e i loro tempi più lenti, i quattro lasciano filtrare l’influenza dell’hardcore, nuovo baluardo dell’estremismo rock dopo la fine del punk e della new wave. All’interno del gruppo, è proprio Thurston il più convinto sostenitore del movimento; oltre alla musica, a colpirlo sono l’attivismo indipendente e la capacità di fare “gruppo” che ispira quella scena, in cui le band si autoproducono e promuovono con pochi mezzi attraverso le fanzine e una fitta rete di contatti in tutti gli Stati Uniti. Alla fine del 1982, il nostro milita anche brevemente in un gruppo hc, gli Even Worse. Dopo un faticoso tour insieme agli Swans, un altro gruppo di New York emerso dal sottobosco post no wave (Gira era una vecchia conoscenza di Kim Gordon dai tempi della California), i Sonic Youth licenziano Bob Bert e lo rimpiazzano
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per l’album Confusion is Sex con Jim Sclavunos, superiore tecnicamente ma non così adatto. Sclavunos, che si era fatto le ossa da autodidatta con i Teenage Jesus & The Jerks, è un musicista del giro di Lydia Lunch. Anche Thurston in questo periodo ha modo di frequentare Lydia, suonando nel suo album In Limbo. Inaspettatamente, il gruppo deciderà poi di richiamare Bert per registrare la ritmica di Making the Nature Scene e di reintegrarlo nella band. Nel primo vero album della loro carriera, terminato grazie al finanziamento di una facoltosa coppia di amici svizzeri, i Sonic Youth creano un concept sonoro che svilupperanno negli anni fino a farne il proprio marchio di fabbrica. In un sound più ruvido, ottenuto da un otto piste nello studio di Wharton Tiers (l’EP era stato registrato su un lussuoso 24 piste), le figure atonali e percussive di chitarre scordate ad arte, gli strimpellii metallici, i rombanti bordoni e gli accordi dissonanti dominano la scena sin dall’iniziale She’s in A Bad Mood. The World Looks Red è registrata da Moore ancora con la tecnica del cosiddetto “terzo ponte”, una bacchetta delle batteria infilata sotto le corde della chitarra (gli risponde Ranaldo suonando allo stesso modo con un cacciavite). La quasi title-track Confusion Is Next è divisa grossolanamente in tre parti, in pratica una sequenza dei diversi punti di riferimento del quartetto: si passa dalla no wave (una cantilena allucinata alla Teenage Jesus & The Jerks) a un fallout chitarristico che la lancia in velocità verso l’hardcore, o meglio la versione Sonic Youth di quel nuovo punk che sputa fuoco e fiamme in giro per gli Stati Uniti. La cacofonica I Wanna Be Your Dog registrata dal vivo, con un assolo al limite del free jazz, irrompe dopo l’esperimento di field recording di Freezer Burn (nella cella frigorifera di un negozio di alimentari), il brano più “concettuale” insieme a Lee Is Free, una composizione di Ranaldo a base di loop. Anche se non ha ancora un songwriting rifinito, Confusion Is Next offre indicazioni importanti per il futuro sviluppo dei Sonic Youth, a partire dalle fantasiose accordature che qui fanno il loro debutto in studio. La scelta di accordare le chitarre su note molto diverse dal classico Mi-La-Re-Sol-Si-Mi, senza cui non si possono neppure immaginare sonorità “alla Sonic Youth”, è un retaggio della vecchia collaborazione con Branca e d’altra parte una scelta quasi obbligata, un modo di fare di necessità virtù di fronte ai limiti tecnici dei propri strumenti, chitarre economiche che perdevano facilmente la giusta intonazione, ma che con gli opportuni accorgimenti erano in grado di creare tonalità inedite e un orizzonte nuovo sotto il profilo timbrico e armonico. Dai limiti tecnici ed economici e dalla voglia di creare un nuovo punk - un’ansia tipicamente no wave - nasce
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la piccola rivoluzione copernicana che avrebbe rivoltato come un calzino il suono del rock indipendente e della stessa chitarra rock, facendola suonare come un altro strumento nella mani della “gioventù sonica” all’alba dei primi anni Ottanta.
Sot to un a cat t i va lun a Appena dopo l’uscita dell’album, Moore e Ranaldo sono cooptati proprio da Branca per l’organico di esecutori della sua Symphony n. 4 in vista di una tournée in Europa. I due chitarristi ne approfittano per 1) cercare contatti nelle città dove suonano per organizzare un successivo tour europeo dei Sonic Youth 2) occuparsi dell’accordatura delle chitarre di tutto l’ensemble, trasformando quel lavoro meccanico in uno “studio sul suono”. Dopo quel tour le strade dei Sonic Youth e del loro mentore si divideranno in modo più o meno definitivo. Moore e Ranaldo rimangono in Europa, dove li raggiungono Kim e, in un secondo tempo, Bob. I Sonic Youth suonano i loro primi concerti europei ottenendo anche qualche buona recensione, nonostante la data di Londra sia un fallimento totale. La Zensor, un’etichetta tedesca, accetta di pubblicare nel vecchio continente i due dischi precedenti e un nuovo EP di inediti, Kill Your Idols, che contiene il brano omonimo (poi ribattezzato I Killed Christgau with my Big Fucking Dick in seguito alla polemica con il critico del Village Voice) insieme a Brother James e Early American e propone una sorta di hardcore sonico imbottito di accordi-drone e rumori. Ancora in pieno trip con l’hardcore - è in questo periodo che pubblica la fanzine Killer - Thurston Moore comincia a sperimentare nuove soluzioni. Come racconta David Browne nella biografia Goddbye 20th Century, Moore inizia ad accordare il Mi grave e il La in Fa#, ottenendo dei riff bassi dal suono decisamente più rock, a cui aggiunge una seconda linea melodica «che trasformava in una sinuosa frase di chitarra solista» finendo poi per combinare i due motivi, secondo un metodo di composizione ripreso da un manuale per pianoforte. Questa nuova, piccola, epifania si fa sentire subito nell’economia del suono della band. Bad Moon Rising si nota innanzitutto per il feeling da rock song di almeno due brani, in cui tra l’altro è usata proprio l’accordatura Fa#-Fa#-Fa#-Fa#-Mi-Si con le due corde più gravi all’unisono (idem le due centrali ma un’ottava più in alto; vedi la parte dedicata nel sito www.sonicyouth.com). Dopo l’intro arpeggiata, Brave Men Run (In My Family) esplode in una vampata di accordi dissonanti che formano una progressione molto orecchiabile e incisiva, al cospetto di un corpo centrale più statico - aperto da un arpeggio metronomico che si dirada in rintocchi
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sparsi di armonici acuti e rumori, a punteggiare il monologo di Kim Gordon - e del finale in cui Thurston si mette a grattugiare le corde oltre il ponte ottenendo uno scampanellio metallico e monotono. L’altro pezzo più “rotondo” è ovviamente il death rock “stonato” di Death Valley ‘69, con una crepitante frase che funziona come un riff e due potenti accordi a sostenere una strofa e un ritornello; diversamente da Brave Men Run, queste parti ritornano alla fine del brano, dopo un climax centrale giocato sul duetto tra le voci di Thurston Moore e Lydia Lunch e sulle reminescenze mansoniane del testo - messe in belle evidenza anche dal videoclip di Richard Kern -, piccola epopea splatter divisa tra la controcultura e il ventre molle dell’America. Ma il disco annovera come suoi veri capolavori due brani più lenti e sfrangiati, in cui il rumore e le sonorità collaterali delle chitarre raggiungono toni quasi mistici: Society Is A Hole, tor-
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pido inno al potere ipnotico dei bordoni e al picchiettio vitreo degli armonici, e I Love Her Time, altra lenta litania dove le chitarre sono soprattutto rumore modulato tra feedback, larsen e suoni fortuiti; qui Thurston armeggia con la bacchetta della batteria, la fissa come nuovo ponte e la sposta da un capo all’altro della tastiera, facendola sgusciare sotto le corde con glissati da pelle d’oca. Né Moore né Ranaldo sono mostri di tecnica chitarristica “classica” (anche se il tremolo picking così fluido e forsennato richiede molta abilità alla mano destra), ma con la spregiudicatezza e l’interazione chimica delle rispettive parti raggiungono un grado d’inventiva sconosciuto alla maggioranza dei chitarristi rock. Lavorando in studio con Martin Bisi per budget infimi (una caratteristica di tutto il loro periodo indipendente), si cimentano anche con i primi overdub. Le due facciate di Bad Moon Rising si presentano come due grandi movimenti musicali; i Sonic Youth creano delle “dissolvenze” tra un brano e l’altro imitando un’abitudine che avevano già nei concerti dal vivo, quella di diffondere attraverso altoparlanti alcuni nastri preregistrati per coprire i tempi morti spesi ad accordare gli strumenti; così si spiega anche il frammento di Not Right degli Stooges che compare tra Society Is A Hole e I Love Her All the Time. La prima pausa precede proprio i colpi di bacchetta che preparano Death Valley ‘69, un particolare piuttosto significativo se vogliamo considerarla la “canzone” in cui la materia prima del complesso, dal beat primitivo di Bert, al basso istintuale di Gordon, alle evoluzioni rumor-armolodiche dei due chitarristi, è compattata in un inedito disegno hard rock. L’album pubblicato dalla Homestead di Gerard Cosloy rappresenta un momento di svolta per i primi Sonic Youth e allo stesso tempo di transizione tra il post no wave e l’indie rock dei lavori successivi.
L’a m or e ca p ovo lto A proposito di indie rock, la scena musicale indipendente americana si è nel frattempo emancipata dall’hardcore puro quanto dalla new wave e ha riabbracciato in nuove forme anche il rock del passato. Nel 1984 Zen Arcade degli Hüsker Dü e Double Nickels on the Dime dei Minutemen hanno sdoganato il concept album e il doppio 33 giri presso la generazione post hardcore, rendendolo nuovamente attuale, sulla spinta di una creatività senza confini a cui i tempi frenetici e il dettato di pura foga dell’hc andavano irrimediabilmente stretti. Con Let It Be i Replacements hanno avuto la nonchalance di riprendere un titolo dei Beatles per quello che è probabilmente il loro capolavoro, II dei Meat Puppets ha reinven-
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tato il country rock partendo dal punk mentre i Black Flag hanno pubblicato ben sei dischi tra live, album ed EP, in cui riportano in auge gli anni ‘70 dell’hard rock e addirittura della fusion. Il 1985 è un anno di cambiamenti per i Sonic Youth. Inizia con un memorabile show in pieno deserto al festival Gila Monster Jamboree e prosegue con il nuovo tour europeo, il terzo della loro carriera, in cui suonano dal vivo di spalla ai Bad Seeds. In Europa trovano un’etichetta disposta a pubblicare i loro dischi per il mercato del vecchio continente. Paul Smith fonda la Blast First! apposta per licenziare sul suolo inglese Bad Moon Rising, creando il marchio con cui arriverà in Europa la musica di altre band indie rock americane come Big Black, Butthole Surfers, Band of Susans, Dinosaur Jr. e Afghan Whigs (e con cui licenzierà live Walls Have Ears, sorta di bootleg semiufficiale dei Sonic Youth di cui si occupa personalmente, senza neppure avere il benestare della band). Nello stesso anno si consuma anche quello che a lungo rimarrà l’ultimo cambio di formazione. Al posto di Bob Bert entra Steve Shelley, ex batterista dei Crucifucks, un gruppo hardcore del Michigan, tassello mancante per la formazione definitiva dei Sonic Youth. Durante il tour americano i quattro hanno modo di dividere il palco con i gruppi più interessanti delle varie scene locali, come Laughing Hyenas, Die Kreuzen, Rites of Spring, Minutemen, Scratch Acid e Green River, contribuendo ad ampliare la rete di relazioni del rock indipendente americano, convincendo i Dinosaur Jr. a passare insieme a loro alla SST, di cui da tempo Moore e compagnia sono dei ferventi ammiratori, e indirizzando Butthole Surfers, Big Black e gli stessi Dinosaur verso la Blast First di Paul Smith per la distribuzione in Europa. A J Mascis presentano anche Wharton Tiers, futuro produttore di You’re Living All Over Me, disco fondamentale per l’indie americano degli anni ‘80 e anche per capire l’evoluzione degli stessi Sonic Youth in un momento cruciale della loro carriera. Nel 1986 Moore, Ranaldo, Gordon e Shelley pubblicano per i tipi SST Evol, un disco che pur non rinnegando le sonorità sperimentali alla base del loro stile, contiene materiale più melodico e tradizionale, con riferimenti in particolare al rock psichedelico di cui Kim Gordon ma soprattutto Lee Ranaldo, deadhead convinto, erano stati ascoltatori ed estimatori. Spinti dalla ritmica più quadrata e diretta di Steve Shelley, i sonici continuano a sfruttare i loro tipici accordi aperti, così eccentrici e dissonanti, con i quasi onnipresenti bordoni di Fa# sulle due corde più gravi, ma cominciano a svilupparli in armonie più lineari e ci costruiscono sopra melodie cantabili, riservando alle digressioni rumorose il ruolo che nel rock “norma-
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le” spetta agli assoli di chitarra. È così nell’iniziale Tom Violence e in Starpower, addirittura un brano “pop” per gli standard a cui la gioventù sonica aveva abituato i suoi ascoltatori (a scanso di equivoci, le accordature aperte sono anche una consuetudine della musica folk e psichedelica, quindi non c’è alcuna contraddizione o novità nell’usarle per canzoni melodiche), ed è così in Green Light, con cui i Sonic Youth si candidano seriamente a eredi dei Velvet Underground quale gruppo simbolo del rock urbano di New York (Velvet che stavano a La Monte Young, uno dei padri del minimalismo, come Moore i suoi compagni a Glenn Branca, che del minimalismo è stato uno dei figli, per quanto controverso). Non che manchino brani più vicini alla vecchia maniera come Shadow of a Doubt, memorabile per il bisbiglio sensuale di Kim Gordon, o In the Kingdom #19, in pratica la prova generale dei Ciccone Youth con Mike Watt al basso (per la prima volta su un disco dopo la morte di D. Boon.). Una sintesi di queste tendenze si trova nel pirotenico finale di Expressway to Yr. Skull (indicata anche con i titoli Madonna, Sean and Me e The Crucifixion of Sean Penn), che inizia con un accordo reiterato di Moore su cui zampillano i fraseggi di Ranaldo (accordatura Mi-Sol#-Mi-Sol#-Mi-Sol# per entrambi i chitarristi) per trasformarsi
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in un sognante folk psichedelico, poi in una potente escursione modale e, dulcis in fundo, in un ambient noise rarefatto per un finale da cui, sul palco, scaturiscono spesso deraglianti improvvisazioni ai confini del collasso acustico. Se Neil Young, uno piuttosto ferrato sull’argomento, l’ha definita la miglior canzone per chitarra di tutti i tempi, avrà sicuramente avuto le sue ragioni per farlo.
Mad onn a , S e an e i o Il percorso dei Sonic Youth sembra a questo punto una progressione inarrestabile destinata a farli balzare agli onori delle cronache, ben al di fuori dei circoli dell’underground. Loro stessi ne sono consapevoli. Sister è un’ulteriore tappa di avvicinamento al bersaglio grosso. Certo il fatto che i quattro si accostino a strutture rock più consuete non fa cessare di colpo la loro alterità. Semmai il confronto con la forma canzone la esalta. Il noise rock melodico di Sister non è quindi una contraddizione in termini; il punk da cui erano partiti esce rivitalizzato da questa cura al cortisone a base di microtonalità e ipertoni da feedback, armonici sfavillanti, glissati a tutta tastiera e un parossistico tremolo picking. Le partiture di Mo-
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ore e Ranaldo comprendono, è vero, più accordi e parti diteggiate e meno free noise, e la ripartizione dei ruoli si avvicina a uno standard dove il primo è più spesso la chitarra ritmica e il secondo la solista. È altrettanto vero che se li si ascolta splittati sui due canali stereo come loro consuetudine, anche in Sister Moore va sullo speaker di destra e Ranaldo a sinistra - ci si accorge che le loro parti sono spesso speculari, parallele o comunque complementari. Thurston Moore si dedica più spesso alla ritmica perché è il cantante principale (il gruppo, non dimentichiamocelo, ha tre voci soliste) e perché il beat delle canzoni di Sister è mediamente più rapido - nel punk rock atonale e pieno di adrenalina di Catholic Block e Stereo Sanctity e nella cover di Hotwire My Heart dei Crime, ma anche nei midtempo tribali di Pipeline/Kill Time (con Ranaldo alla voce) e White Cross e nei brani più lenti, che hanno comunque un’andatura sostenuta; è il caso di Schizophrenia, che porta la scrittura obliqua dei Sonic Youth e lo stesso genere noise rock, distillandone ogni elemento, dagli accordi aperti agli armonici e al ronzio dissonante, verso una limpidezza melodica che vale come una prova del nove per le velleità della band. Pipeline contiene il primo duetto vocale tra Thurston e Kim e un raro caso in cui i Sonic Youth usano il sintetizzatore e il Moog. Uno spin-off dell’album diventa l’EP Master Dik. Nel brano che lo intitola, Thurston si reinventa come The Royal Tuff Titty, sorta di alter ego rap, e la band suona su un collage di brani dei Kiss. Il retro contiene cover piuttosto strane, spezzoni di interviste e montaggi di nastri. La stessa idea viene espansa sull’album dei Ciccone Youth, in una sorta di parodia dadaista della musica degli anni ‘80. Il titolo rimanda a un vecchio progetto della band, un remake integrale del Doppio Bianco dei Beatles rimasto in sospeso e accantonato dopo che i Pussy Galore, in cui suonava una vecchia conoscenza, Bob Bert, si erano ispirati all’idea fare la stessa cosa con Exile on Main Street dei Rolling Stones. Per sua natura il Whitey Album è un disco frammentario, con buoni spunti e molti divertissement. In ogni caso, è destinato a uscire dopo il disco in studio dei Sonic Youth che si presenta come il più ambizioso e formalmente compiuto.
San t i tà st ereo f on i ca Registrato ai Green Street Studios con Nick Sansano, un ingegnere del suono che aveva lavorato con i Public Enemy, Daydream Nation ripete la stessa impresa di Hüsker Dü e Minutemen: riempire quattro facciate di vinile con il post punk più ambizioso degli anni ‘80 e avvicinarlo alla statura dei classici della musica rock. I brani hanno una struttura più lunga e complessa, che mette ordine nel brillante
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caos del primo periodo con una razionalità che si potrebbe definire, non a torto, progressiva. Se Sister ha dato compattezza al repertorio attraverso un formato rock, il doppio LP rende questo stesso formato rock più ampio e poliedrico. Una delle influenze più evidenti è in realtà quella dei Dinosaur Jr., nella loro riuscita combinazione di rock classico, rumore bianco, riff potenti e parti melodiche. Agli assoli e alla valanga di effetti di Mascis, che arricchiscono di nuova vitamina forme riprese dall’acid rock come dal punk, dal folk e dall’heavy metal (per la loro musica i Dinosaur parlavano di loud psychedelic rock e ear bleeding country), i Sonic Youth rispondono con un loro punk evoluto e dinamico, una sorta di garage rock armolodico dove la semplicità apparente delle diteggiature è il frutto di una ricerca sonora che ha recuperato lo spirito degli anni ‘60 dei Velvet Underground e di Nuggets, insieme allo sperimentalismo krautrock e all’atonalità no wave. Daydream Nation raggiunge un equilibrio millimetrico tra gli aspetti più spigolosi, urticanti e discordanti dell’arte dei sonici e dei loro accordi stranianti ma dal feeling ugualmente rock, riuscendo a ingabbiarli entrambi felicemente negli schemi di una forma canzone più strutturata. Il modo in cui sono costruiti i pezzi armonizza le spinte centrifughe delle dissonanze e delle fughe rumoristiche con le forme chiuse e la circolarità di intro, riff, strofe e ritornelli, risolve gli uni negli altri, trasformando l’uragano sonoro in una tempesta perfetta imbrigliata in partiture geometriche, tenuta sotto pressione da un ritmo incalzante e sostenuta dall’ispirazione e da una varietà e solidità di scrittura che attestano la raggiunta maturità. Teenage Riot somma l’assalto chitarristico più spedito e fluente con una impeccabile struttura verse/chorus/verse. Silver Rocket dilata di vibrazioni noisy in un punk rock suonato alla velocità della luce. The Sprawl e Cross the Breeze fondono riff chitarristici di un abrasivo minimalismo e di una forza dirompente con studiati incastri ritmici e parti strumentali melodiche. Total Trash contiene una piccola sinfonia noise da cui riparte il tema principale, dove un paio di album prima si sarebbe tutto dissolto in una rumoreggiante nebulosa. Per chiudere il disco in bellezza, i Sonic Youth prendono tre brani dalla stessa tonalità (The Wonder, Hyperstation e Eliminator Jr.) e li fondono in un’unica trilogia. Intanto si è esaurito il rapporto con la SST, perché, frustrati dalle carenze organizzative, che rendono difficile addirittura reperire i dischi (si racconta che i negozi preferissero tenere le copie di importazione della Blast First!), ma soprattutto dai ritardi o dai mancati pagamenti, i Sonic Youth abbandonano l’etichetta californiana. Per licenziare Daydream Nation la Blast First!
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apre un ufficio a New York e affida la distribuzione americana alla Enigma, legata alla Warner Bros. Promosso con tour che porta i Sonic Youth anche in Unione Sovietica e in Giappone, il doppio LP erode ulteriormente la barriera che li separa dal mondo del mainstream. L’approdo su una major, ormai, è solo questione di tempo.
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Recensioni
/ l u g l i o
Genere: avant pop Che l’esperienza degli Hot Chip sia finita o messa indeterminatamente in stand-by, non spetta a noi sentenziarlo. Quello che salta all’occhio è però un progressivo allontanarsi, un esponenziale “distrarsi” dei componenti della band londinese: Joe Goddard, impegnato già dal 2009 con i The 2 Bears, ha pubblicato recentemente Be Strong, Al Doyle e Felix Martin (rispettivamente tastiera e chitarre) si sono fatti strada con il progetto electro pop New Build e Alexis Taylor - quasi in sordina - ha dato alle stampe il terzo album degli About Grop. La line up dell’off shoot di Taylor è però la cosa più appetitosa del progetto che rischia di essere il più interessante del post (?) Hot Chip e che non a caso ha stuzzicato quelli della Domino per la produzione: a fiancheggiarlo, infatti, c’è il batterista Charles Hayward dei mai dimenticati This Heat, John Coxon degli Spiritualized e Spring Heel Jack e Pat Thomas, tastierista jazz di una certa fama. Between The Walls è, dunque, il terzo album di questa mega band che ha tutta l’aria di voler camuffare l’ego altisonante dei suoi componenti piastrellando di ceramiche jazz e psichedeliche una manciata di canzoni genuinamente pop. C’è però qualcosa da dire riguardo questo terzo lavoro: mentre i precedenti due album erano concepiti come one day recording e dunque subivano il fascino imprescindibile dell’improvvisazione, Between The Walls pare il più cauto, il più attento ai particolari, in una parola: il più pop. Sebbene si apra con una scarica adrenalinica e percussiva
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di Hayward e contenga in più brani dei pattern rumoristici per nulla indifferenti, sembra di essere di fronte ad un’opera riflessiva, che cerca negli incavi delle sue deviazioni una sperata pace interiore. Giocano a suo favore, quindi, le note black della voce suadente di Taylor, i lick spezzati dell’hammond di Thomas, le visioni epilettiche della chitarra percossa di Coxon. Non è un caso dunque se ad aprire le danze (dopo l’introduzione rumoristica a cui si accennava) sia un brano scritto dal compositore pop per eccellenza, Burt Bucharach. Walk On By entra ed esce dai padiglioni auricolari con la stessa facilità con cui lo fa l’originale, solo che qui ruggiscono le dissonanze della tastiera, stridono le note acute della sei corde, culminando in un outro psychokraut da far rabbrividire i Pink Floyd. Con passaggi lenti e visionari, Between The Walls si rivolge a volte verso lo strumentale caotico e orgiastico di certa psichedelia anni Settanta (Love Because, Untitled), altre volte verso la ballad bizzarra, che suona quasi come un lemmario degli Hot Chip in slow motion, senza rinunciare (quasi) mai ai giochetti elettronici (Words, Make The World Laugh, Nightlife/Sinking, If You Can’t Love Me). Le cose migliori arrivano nel mezzo, quando salvo stravaganze dell’ultim’ora e digressioni tanto virtuose quanto poco digeribili - gli About Group si equilibrano su un genere più stabile, fra l’avant e il pop. Il singolo ossessivamente panico All Is Not Lost (con dietro una certa ideologia ambientalista, come dimostra anche il videoclip) e la folk ballad I Never Lock That Door (“For you, my love, no keys required”) esemplificano questa tendenza stabilizzante di un genere e di una band
r e c e n si o n i
a g o st o
About Group - Between The Walls (Domino, Luglio 2013)
che, passata dall’improvvisazione pura (e forse da uno status di divertissement extra curriculare) ad uno stile più classico, tenta di imporsi con tutta la sua autorevolezza. (7.2/10) Nino Ciglio
Enrica Selvini
Baths - Obsidian (Anticon, Maggio 2013)
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a g o st o
Genere: glitch-pop Un paio d’anni fa, in occasione del live d’apertura del Node Festival di Modena, chi scrive ha avuto la fortuna di conoscere di persona Will Wiesenfeld - “l’orso” dietro al moniker Baths - e ricorda nitidamente come già allora era solito descrivere la propria musica: songwriting da prospettiva elettronica. Cerulean era uscito worldwide da poco meno di dodici mesi, e quella definizione restava aliena a un lavoro più suonato che cantato, comunque perfettamente incardinato - al pari del Drift di Nosaj Thing - nella nuova scena beat losangelina che mimava i tessuti ritmici Fly-Lotusiani e li metteva al servizio di dream-glo e glitch-hop. La medesima definizione, invece e al contrario, è più che aderente a questo Obsidian, album scaturito dal fastidio per l’essere malamente etichettato come dj col feticismo da MPC e dal desiderio di esibirsi dal vivo con full-band; dall’amore sguaiato per gli Azeda Booth (gente da lyrics malate tipo “You’re old, sick, lonely, dying, your children hate you”) e dalle frequentazioni (documentate via Twitter) con Grimes e Blood Diamonds; da un lungo periodo di segregazione costretto dall’aver contratto l’escherichia coli (quindi speculare a quello volontario che ha portato proprio Claire Boucher a Visions) con tanto di studi
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Genere: cantautori La canzone popolare italiana e gli chansonnier francesi incontrano lo scazzo naif di Bugo in Tesi di redenzione, primo full-length di Alessandro Romeo. Uno scarto dalla logica e dal senso comune, parabole dalla metrica imprevedibile dove l’osservazione delle piccole tragedie quotidiane si mescola a un immaginario bohémien, delicatamente ironico e genuino. L’atmosfera da bar parigino di Amantide, overture vicina allo Yann Tiersen più “cinematografico” e a un certo Paolo Conte, viene momentaneamente abbandonata in un La Casona - secondo brano del disco - che corre caracollante tra stacchi da cabaret e un’aura tragicomica che emoziona e diverte senza alcuna forzatura. Notevole la ballata Zoo, toccante nelle aperture, metafora di vita e reminiscenze di mattanza in un delirio onirico che ci riporta allo status di animali metropolitani, e la fischiettante Quando sono giù, dove rieccheggia il Bugo della prima ora. Si fa strada l’eclettismo alla Beck nella mescolanza di generi che intercorrono tra Karrina, allegro swing da sala da tè, e Siamo tutti stanchi, sorta di canto IntiIllimano che sogna (e sognando, dimentica) una rivolta esausta e terribilmente attuale, ma la cui coda potrebbe fare da sottofondo musicale a una qualsiasi balera emiliana. Non si perde di vista la tradizione d’oltralpe, che torna a farsi sentire in Puzza di pesce, canzone che risponde alla domanda: può davvero un ritornello recitare, funzionando, “è dalla testa che puzza il pesce”? Rallegra la
l u g l i o
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Alessandro Romeo - Tesi di redenzione (New Model Label, Aprile 2013)
risposta, positiva nel caso di Romeo. Disco accattivante questo Tesi di redenzione, dove un cantato figlio del De Gregori più dylaniano cede il passo, nei suoni, a trovate costantemente in bilico tra cantautorato low-fi e tradizione, contribuendo a fare di questo esordio sulla lunga distanza un lavoro piacevole e fresco, per un autore dotato di un naturale anticorpo verso la banalità e la retorica. (7/10)
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Genere: Techno Nata come una serata berlinese per promuovere la dubstep e i suoi producer, SUB:STANCE è diventato, lungo l’ultimo lustro, un contenitore molto più ampio che ha accolto un variegato spettro di bass producer. L’attenta programmazione curata da Paul Rose (aka Scuba / SCB) e Paul Fowler (Spymania Records) ha finito così per diventare un barometro privilegiato delle tendenze del dopo dubstep, in primis le convergenze con house e techno che hanno caratterizzato le produzioni di una grossa fetta di produttori, da Martyn a Pearson Sound passando per Mount Kimbie, senza dimenticare il crescente e trasversale interesse per le sonorità tipicamente berghainiane legate alla techno. Prorpio quest’ultimo aspetto risulta dominante nell’ultima compila targata SUB:STANCE, che vede Rose presente con entrambi gli alias più una serie d’accoliti a partire dall’amico - e vecchia conoscenza della serata - John Osborn più altri noti producer quali Trevino (ovvero Marcus Kaye) da Manchester, Addison Groove e Appleblim, entrambi da Bristol e l’olandese Martyn (ovvero Martijn Deykers), tutta gente che non ha certo bisogno di presentazioni. Le track di questo doppio vinile sono tutte exclusive, il livello è molto buono e non manca nemmeno una piccola bomba da dancefloor, ovvero la tech-house Closer firmata SCB, né un’ottima zampata bass-tech di un inedito Addison Groove (Forgiven) che sicuramente fa pandant con le ultime produzioni Scuba. Quest’ultimo però, a sorpresa, si concede le convergenze del caso con Ikonika, tra esplorazioni synth, funk, electro 80s e post-garagismi che possiamo intendere pure come la postpurple di Joker (altro producer che ha presenziato alla serata). Con un Martyn-garanzia in chiusura (l’acido tribal Memory Hole) e la solida deepness di Trevino (Tracer), abbiamo tra le mani sette colpi a segno per un 2013 all’insegna della techno. (7.3/10) Edoardo Bridda
dedicati agli anni bui del Medioevo, alla Peste Nera, a differenti versioni - anche in graphic novel - dell’Inferno di Dante. Dimenticatevi dunque dell’azzurro populismo da American Apparel e del lovely bloodflow, qui Baths canta di “thoughts of mortality tormenting me” neanche fosse Jamie Stewart e si fa altrettanto “dark” musicalmente, arrivando persino a toccare - in Earth Death - l’industrial di stampo Nine Inch Nails. A livello di arrangiamenti vi è, inoltre, un indiscutibile passo in avanti rispetto a Cerulean, sia quanto a complessità ed articolazione che,
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all’opposto, quanto a concisione. È vero che la resa della proposta vacilla se (in Ironworks ed Incompatible) le elettroniche si ritirano e Wiesenfeld si improvvisa balladeer pur possedendo meno della metà del carisma e della presenza del Sufjan Stevens di The Age Of Adz (altro paragone immediato). Lo è ugualmente che, quando si allineano il cantare da Avey Tare minore e le melodie frammentate tra glitcherie e pianoforte classico (Worsening, No Past Lives) o sbucano centratissime quadrature pop (Miasma Sky, No Eyes, Phaedra), ci si trovi di fronte al
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AA. VV. - SUB:STANCE / 072008 072013 (, Luglio 2013)
migliore dei Baths: quello che cambiando coraggiosamente pelle ha trovato la propria identità ed è ora in grado di disarmare. Il prossimo disco - azzardiamo - potrebbe ambire allo status di essential. (7.2/10) Massimo Rancati
Benga - Chapter II (Sony, Maggio 2013) Genere: nu pop step E così finalmente esce il tanto temuto Chapter II. Il producer più atteso sulla lunga distanza nel 2008 con quello che è stato uno degli album chiave del dubstep, Diary of an Afro Warrior, si riaffaccia sul mercato con la pelle nu dopo che una serie di singoli e esibizioni live ne hanno delinato direzioni e sguardi non proprio confortanti. Comprensibilissimo come Benga - e parallelamente Skream, nel 2012 - abbia voluto prendere distanze esplicite dal dubstep, altrettanto da manuale la mossa della joint venture con i Magnetic Man che, precedentemente (2010), inten-
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Fabrizio Zampighi
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Genere: pop Col senno di poi, la Beatrice Antolini del 2013 avrebbe potuto pubblicare solo un disco come Vivid. Ovvero abbracciare il pop, dopo aver recitato il ruolo della scheggia impazzita ai tempi di Big Saloon, dell’artista avventurosa in A Due e della musicista dall’immagine solida in Bioy. Già quest’ultimo ci era parso un esempio piuttosto eloquente di come l’estetica della marchigiana stesse cercando un’identità fortemente contestualizzata, in quel caso legata a suoni riconducibili a un funk 80s (il Prince di We Are Gonna Leave, ad esempio) quando non a un immaginario “tribale” piuttosto personale (elaborazione moderna e luccicante di una riscoperta - anche a livello internazionale - di certe cadenze terzomondiste). Il primo cambiamento evidente in Vivid sta proprio nella quasi totale assenza - se si eccettua un singolo come Pinebrain o il funk di Now - di quelle percussioni così invadenti ma, nell’ottica della formula antoliniana, anche così riconoscibili. Tutto è molto lineare, si parli del reggae/dub di Open o delle trombe tra Cuba e Oriente di Vertical Love, del mid-tempo sognante di Vibration 7 o dei toni riappacificati e solari di My Name Is An Invention. Una calma che stride con le nevrastenie ritmiche del passato e che potrebbe lasciare presagire una condizione di serenità personale ritrovata. Almeno a giudicare da alcune recenti dichiarazioni in cui la diretta interessata parla di dimensione privata da preservare e di una situazione sentimentale stabile.
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Beatrice Antolini - Vivid (Qui Base Luna, Maggio 2013)
C’è poi la questione della “progettualità totale” che da sempre contraddistingue il lavoro della bella Beatrice: già ai tempi dell’intervista che le facemmo, la Nostra sottolineava la ferma volontà nel conseguire risultati tangibili con la propria musica, il che nella pratica - concludiamo noi significa far corrispondere immagine, identità e prodotto (Bowie docet). In questo l’artista è sempre stata brava e l’impressione che attualmente l’intenzione dell’Antolini sia concorrere in quella categoria di primedonne in bilico tra indie e mainstream pop di ultima generazione è forte. In questo senso, allora, il problema potrebbe essere quello di mostrare mezzi solidi, forte creatività e un visione a 360 gradi tra generi e musiche, elementi che, a dire il vero, in questo disco ancora non ci sembrano sufficientemente sviluppati. Tutte ipotesi, certo. La sostanza, invece, è un Vivid che rimane comunque un buon lavoro, pur non mostrando i suoni blindati, coesi, potenti e personali del passato. Le porte che si aprono, insomma, fanno entrare una luce piacevole, ma anche uno spiffero fastidioso e potenzialmente dannoso. (6.6/10)
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Black Sabbath - 13 (Vertigo, Giugno 2013) Genere: metal Le prime sessions di 13 risalgono a una decina d’anni fa, quando il progetto fu poi accantonato per gli impegni di Ozzy Osbourne. Nel 2011 arrivò la notizia della reunion della line-up originale e per il nuovo album Tony Iommi parlò di un ritorno alle origini. Logico, e non si può dire che non sia stato di parola. L’inizio di End Of The Beginning è una citazione sfacciata della celeberrima Black Sabbath in cui Osbourne, Iommi e Butler fanno in pratica il verso a se stessi. Poi il riffone centrale è più lento e sinuoso di quello “originale” e il pezzo diventa un po’ più articolato; questo però non serve a cancellare l’impressione di un autoplagio, né la sensazione generale che quanto ci capita oggi tra le mani sia una bella collezione di cliché sabbathiani, intavolata con abilità dalle sapienti di mani di Rick Rubin. Quando alla fine di Dear Father si sentono la pioggia e le campane a morto, beh, l’impressione diventa praticamente una certezza. Ciò non toglie che 13 sia un disco curato nella struttura dei pezzi, nella componente melodica e anche nell’aspetto pop di certi tipici riff. Il lento ed epico singolo God Is Dead ne è la dimostrazione. C’è una patina moderna, ma manca un po’ del ruvido sapore di blues sparato con il cannone e tagliato con l’accetta che si respirava nei primi solchi del gruppo di Birmingham. Per il resto le sfumature del suono classico sono rispettate nell’ampiezza del loro spettro: l’esempio più lampante è la psichedelica Zeitgeist, una ballatona figlia della vecchia Planet Caravan. Se la forma è salva, la sostanza ricorda che questa reunion di tre quarti della line-up storica, resa monca della defezione di Bill Ward (al suo posto un Brad Wilk dei Rage Against The Machine che fa il suo dovere), ha un valore puramente celebrativo. Questo LP è un tributo al blasone dei Black
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deva allargare gli orizzonti all’edm stellestrisce a suon di memorabilia rave e featuring ritagliati per le chart britanniche (vedi il singolo con Katy B e oltre). E poi il percorso verso un’accessibilità su vasta scala del proprio sound, il sogno di un ragazzo che dal quartiere passa alla nazione abbandonando i dj set carbonari per i live con la “band” e le solitarie macho-step con i feat. dei grimer proteinizzati del caso (vedi la brutta esibizione al Primavera Sound del 2012). Ma ora? Ora c’è l’uomo che ti guarda dalla copertina di quest’album, seduto come una sorta di Napoleone, completo nero, camicia, cravatta, spolverina e un capello arancione che dà, di fatto, il colore all’album: una promettente Yellow in apertura (un ring tra felpato funk, 80s e brandelli Benga) e un numero da soffitta come Forefather (con Kano) aprono a una tracklist che eredita, liofilizzandolo (serializzandolo?) il Benga trademark di sempre. Condendolo, tra l’altro, con tutto un portato di fallimenti melodici per le classifiche (vedi Smile o Choose 1, roba da far rimpiangere anche la Katy B più di serie B oppure Higher, tentativo di risposta alla hit della Sandé) e strumentali come Click and Tap (un aborto di Girl Unit?) o I Will Never Change (drop music - nel senso del disco di Eno - per dubstepper?) che dovrebbero far risaltare la vena brit sperimentale del lavoro e invece altro non sono che innocui riempitivi. Nella testa di Benga, quest’album avrebbe dovuto coniugare l’elettronica UK con quella US sotto una manciata di singoli da chart affidati a piccole star o starlette, vedi Charli XCX. Quel che abbiamo sottomano invece è una copia in varechina dello stesso Benga che non guarda né avanti, né indietro, ma rimane sospeso a metà del guado senza voler scontentar nessuno e perciò scontentando tutti. (5.5/10)
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Genere: fusion I Brainkiller tornano con la consueta verve guascona, la stessa che avevano messo in mostra in The Infiltration tre anni fa e che aveva permesso loro di giocare col jazz in maniera intelligente, pur rimanendo accessibili e trasversali ai generi. Con Colourless Green Superheroes i Nostri svolazzano tra prog epidermico (The Vindicators Returns, ma anche i cambi di tempo di Scribble) e controtempi morbidi tra dub e easy listening acusmatiq8.0_partner_stampa.pdf 1 05/07/13 (Empty Words, con il feat. alla voce 09.28 di Coppe’),
Fabrizio Zampighi
Venerdì26Luglio
Sabato27Luglio
Domenica28Luglio
ore15sala bianca workshop: Sintesi Sonora e Controllo in Puredata, tenuto da Leonardo Gabrielli, in collaborazione con il Dipartimento di Ingegneria dell'Informazione, Università Politecnica delle Marche.
ore15-19sala bianca tavola rotonda " Lo strumento elettronico marchigiano: passato, presente, futuro"
ore21sala bianca live: IOIOI
ore19sala bianca performance di conclusione del workshop
ore20sala bianca apertura dell'installazione AN di Canenero
sonora e visiva 24:
ore21cinema live: Keinreverb ore21.30cinema live: Deeproject
ore21.15cinema live: Alberto Boccardi ore22 e ore24teatro studio "Annusavamo fiori di fibra ottica"
ore22corte live: Gianpaolo Antongirolami + Paolo F. Bragaglia sax + electronics ore22.45corte live: Mika Vainio (FI)
spettacolo teatrale/performance di musica elettronica.
ore22.15cinema live: Springintgut (DE) ore23lazzabaretto live: Stèv
ore22cinema live A/V: Ur.L.O. Urbino Laptop Orchestra ore23lazzabaretto live: Agostino Maria Ticino trio
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Brainkiller - Colourless Green Superheroes (Rare Noise Records, Aprile 2013)
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Tommaso Iannini
svisate à la Wayne Shorter rimbrottate da un timido Sud America (Top Of The World) e funk sui generis (Noodlin), senza sentire minimamente la fatica. Ai tempi della recensione del precedente disco parlammo di un “non luogo” riferendoci all’immaginario dei Brainkiller, ed è ancora così: Brian Allen, Jacob Koller e Hernan Hecht - rispettivamente trombone ed effetti, tastiere, pianoforte e rhodes, batteria - passano da brani con un tema ripreso e sviluppato in puro stile jazzistico a impalcature traballanti di minimalismo e aperture inaspettate (Orange Grey Shades), da parentesi nevrotiche in cui i suoni diventano semplice ritmo (Plates) a certe sciccherie kraut / 8 bit fatte artigianalmente con pianoforte, batteria e poco altro (Labratorio). Un trip non troppo audace nella palette espressiva e nell’intensità, è vero, ma assai ben calibrato e divertente. (6.7/10)
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Sabbath, un prodotto ben confezionato che però non aggiunge o toglie nulla alla loro storia. O almeno nulla che sia nuovo o veramente sopra la media. (5.8/10)
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Genere: house Dario ‘Blatta’ Aiello e Ignazio ‘Inesha’ Aronica partono nel 2006 su Mantra Vibes con vari singoli dal suono meticcio word-housey à la Noze, professando il loro verbo ai party mensili Mad In Sicily. In pochi anni sfondano su etichette internazionali come Dim Mak, Kitsuné, Lektroluv, Mental Groove, Bad Life e Crux con un groove personale, che taglia il post minimal con il fidgeting, restando però ancorato a fresche coordinate mediterranee/Italo. Una miscela esplosiva, una macchina da ritmo contagiosa apprezzata più negli Stati Uniti, in Francia e in Germania che in patria. Oggi arrivano finalmente al full Surface Tension. Per cercare una via interpretativa c’è da premettere almeno che i due provengono da mondi alieni al dancefloor: le coordinate musicali pre-B&I sono infatti l’electrojazz e l’hip-hop. Due universi che collidono e generano una cornucopia di ricordi applicati proprio sul full. Il disco parte bene con la bomba (osannata tra gli altri da Vice) We Don’t Know, che riporta alla mente le atmosfere di certa classicità french tagliata con inserti e crescendi acido-fidget, il tutto condito da un’ottimo savoir faire clubbistico in produzione. Tanto per capirsi il richiamo è alle atmosfere electro di fine 2010s, riletture di un certo Felix Da Housecat con lo zampino di molta Ed Banger. In questo si ritrovano anche gli stab della successiva (e autoironica nel titolo) Too Many Glowsticks con il feat. dell’amico Doc Trashz, cinque minuti di puro trip da dancefloor senza scampo. Roba da rave smascellato post-Chemical Brothers (vedi in questo anche Like Nobody Else). Si passa poi ad un omaggio agli anni ‘90 di Moby, CRX e dell’UK più illuminata (James Lavelle) con il feat. di Keith & Supebeatz in In The Air. Un ammicco pure all’urban electro-pop-soul con la cover da passare in radio dei TV On The Radio (Staring At The Sun con il featuring vocale di Patrick Benifei dei Casino Royale). Il giochino compattissimo con i Fare Soldi (Malavoglia), booty e L.A. al punto giusto del truzzo, l’inasprimento dei toni con le seghe taglienti di Tamburi che rimescolano il rave con il fidgeting, l’Interlude 90 à la Robert Miles, la resa dei conti con Mr. Oizo in Ghostbuster (pezzo con il drop più convincente), l’avvicinamento a Marco Carola e alla scuola napoletana in Obsolete e la bella chiusa hypno in Ode To Kate. Blatta e Inesha esordiscono sulla lunga distanza con un disco compatto, che rielabora il passato più prossimo con uno stile personale e con singoli mai banali, pronti per l’uso da consolle, freschi ma non a scadenza immediata. Insieme a Riva Starr, Fare Soldi e a pochi altri conterranei, manifestano un interesse per l’house che viaggia per conto proprio, con un occhio di riguardo per la melodia, intrecciata a puntino con un dosato gusto per il ritmo, sempre a puntino con drop e beat curatissimi. Mad in Sicily again? Yes, please. (7.4/10) Marco Braggion
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Blatta & Inesha - Surface Tension (Bad Life, Luglio 2013)
Marco Boscolo
Capital Cities - In a Tidal Wave of Mystery (Capitol, Giugno 2013)
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Genere: synth pop Se l’equazione estate = divertimento giustificasse uscite discografiche destinate all’intrattenimento spicciolo, i Capital Cities avrebbero sicuramente una collocazione di rilievo. I due californiani party-oriented Ryan Merchant e Sebu Simonian, dopo varie esperienze (poco fortunate e perlopiù locali) nel 2008 si incontrano grazie ad un annuncio su Craigslist e danno vita al progetto synth-dance Capital Cities. Una gavetta avara di soddisfazioni fino al classico colpo di fortuna che può cambiare - anche solo per qualche mese - la propria sorte artistica: sul finire del 2012 la loro Safe and Sound, contenuta nell’omonimo EP pubblicato l’anno prima, inizia a ricevere airplay radiofonico prima nelle radio californiane e poi su tutto il territorio a stelle e strisce, attirando così le attenzioni della major di turno (la Capitol Records). Alla base dell’astuzia melodica di un brano come Safe and Sound gioca probabilmente un ruolo fondamentale il passato da jingle-maker di Sebu Simonian: beat uptempo volutamente jumpinducing, synth protagonista e dimensione tanto da club, quanto - appunto - da spot tv. Rimane il dubbio: è tutto frutto delle fredde teorie orientate al business o di un vero e naturale istinto per le killer-track? Difficile trovare una risposta tra le dodici tracce che compongono l’album di debutto In a Tidal
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Genere: Indie pop Citando a memoria: Teenage Fanclub, Orange Juice, Pastels, Belle & Sebastian, Aztec Camera. Capisaldi dell’indie pop degli ultimi trent’anni, tutti emersi nel fermento culturale della capitale economica della Scozia, Glasgow. Prima o poi qualcuno dovrà spiegarci che cosa c’è lì di speciale, da dove si tragga tanta linfa creativa da incanalare in canzoni dall’airplay perfetto. C’è tutto l’artigianato nobile di costruire melodie agrodolci che stiano in equilibrio tra pianto e gioia, tra malinconia e un timido tuffo al cuore. A queste band, e a tutte quelle che stiamo dimenticando in questo momento, bisogna anche aggiungere anche i Camera Obscura, che con il quinto album della carriera si confermano pure loro maestri del genere. Lasciamo da parte gli sterili paralleli con la band di Stuart Murdoch che hanno riempito le pagine della stampa internazionale: i Camera Obscura di Tracyanne Campbell non sono i fratelli minori di nessuno. Lo dimostra l’eleganza formale degli album precedenti e lo dimostra anche questo Desire Lines, che fin dal titolo si infila in quel pertugio tra gioia e dolore che rappresentano le storie d’amore. All’apertura orchestrale dell’Intro fa seguito il manifesto di questa raccolta di brani, This Is Love (Feels Allright): ritmi languidi e testo ambiguo (ma questo amore, poi, basterà?) che fanno venire in mente la fragilità di un’altra grande interprete di queste sfumature di sentimenti: Tracey Thorn. Tutto il disco, tranne due uptempo che potrebbero essere dei singoli killer (Do It Again, I Missed Your Party), è giocato su toni riflessivi, quasi autunnali. Risaltano la maturità espressiva della Campbell e la coesione artistica di tutta la band. Struggente la torch ballad della titletrack (dove fa capolino anche un organo ad omaggiare i sempre amati 70s), praticamente perfetto l’ennesimo omaggio a Paul Simon di
Every Weekday (prestate attenzione alle linee di chitarra praticamente world) e da playlist di fine anno anche il soft rock di Break It to You Genlty. In Desire Lines ci sono idee, capacità e tutto il mestiere, per un album pop da mandare in loop. Ma soprattutto, trattandosi di pop appunto, ci sono le melodie e le canzoni. Gradito ritorno. (7.2/10)
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Camera Obscura - Desire Lines (4AD, Giugno 2013)
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Genere: ambient, drone Qualche anno fa, quando scrissi il monografico su queste pagine a proposito delle prime registrazioni di Mike Sandison e Marcus Eoin, evidenziavo quanto il vero succo della poetica dell’allora collettivo risiedesse nella rappresentazione della nostalgia, del ricordo e della perdita, attraverso installazioni fatte di musica e video ispirate dal National Film Board of Canada, ovvero da quei famosi documentari dai quali tutta la vicenda BOC ha preso il via. Nel 2013, vederli tornare dopo le colorate incursioni di The Campfire Headphase e Geogaddi con un videoclip da deserti dopo bomba H e un titolo come Reach For The Dead, dà l’impressione che tutto, attraverso un movimento ellittico durato tutti i Duemila, torni all’idea iniziale, a quest’enigma di diciassette episodi, come ai vecchi tempi. C’è molto del pensoso immaginario del clip nel nuovo lavoro, a partire da Gemini e White Cyclosa, e s’avverte contestualmente che i BOC sono tornati a casa con spirito e umori differenti dai 90s. Del resto, come ogni loro album, anche Tomorrow’s Harvest assorbe dalla contemporeaneità spunti e modalità operative: The Campfire Headphase faceva tesoro di alcuni fermenti folktronici - introducendo le chitarre - mentre qui, più mimeticamente, l’approccio si traduce in una maturata resa del suono, diciamo, suonato. Nell’anno dei Daft Punk, il duo punta su una ricognizione à la Oneohtrix Point Never e krauterie di ritorno, con gli occhi puntati sui pad invece delle batterie programmate e i break (che comunque non mancano). Così le tastiere sono uber 70s e accarezzano qualcosa tra droni, cosmiche, un pizzico di thrilling hauntologico e della sana ripetizione di stampo minimalista (Jacquard Causeway, Collapse, Semena Mertvykh oltre al trittico iniziale). Le chitarre sono praticamente assenti - evidenti solo in New Seeds e usate “dronicamente” in stile Kranky nel singolo - e pure il lavoro sui field recording si fa accessorio (sostanzialmente ha il ruolo d’impolvere la produzione). Misuratissimi anche i dialoghi alieni e i caratteristici off pitch che fecero la fortuna di Music Has The Right To Children (Split Your Infinities). E’ chiaro come il duo voglia tornare ai cari temi non calcando troppo sull’immaginario sci fi e, anzi, concentrandosi su un piano sequenza più adulto e distaccato. Come dire, osservazioni dallo spazio sulla deriva dell’uomo sulla Terra e non viceversa (la radio trasmission per voci distorte e ambient di Telepath). Perso il colore e le orchestrazioni di The Campfire Headphase atterriamo così anche dalle parti del marchio BOC più storicizzato (Cold Earth) e, dunque, alle nottate all’Hexagon Sun (Sick Times, Sundown), peraltro in filo rosso con una delle tracce più emblematiche e laterali di quel lavoro, Slow This Bird Down. Cambia l’angolazione però, che è quella dei tempi malati in cui viviamo e degli sguardi su un pianeta al collasso, come in un negativo di Random Access Memories. Dunque il mistero è tornato nelle produzioni di Mike Sandison e Marcus Eoin e questo è gran un bene (Palace Posy). Oltre l’effetto euforia suscitato della caccia al tesoro numerologica che ha investito la promozione dell’album a partire dallo scorso Record Store Day (e ricordiamolo: i Nostri con cabale e Fibonacci hanno un conto aperto con i fan già dai tempi di Geogaddi) e il trepidante ascolto dell’album svelato in streaming live mondiale lo scorso 3 giugno su You Tube, ciò che abbiamo tra le mani -
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Boards Of Canada - Tomorrow’s Harvest (Warp Records, Giugno 2013)
e nelle orecchie - è un album che accarezza la grandezza di alcuni storici gioielli, fatto da gente che gli scatti con la Lomo li faceva molto prima che Instagram ci invadesse i telefonini. La vertigine c’è ed è dietro l’angolo; l’assenza equivale all’astinenza di un suono costruito da chi non cerca i brividi, ma sa ancora dare dipendenza. Reach For The Dead è questa grande traccia BOC, la leggerezza di una Nothing Is Real con gli archi-sample in tensione a spostarsi come sedie nella stanza, New Seeds (il suono più kraut rock mai generato) è un’altro grandissimo brano e gli episodi finali una spendida chiusura di una già solida scaletta. Tomorrow’s Harvest, in pratica, è l’appuntamento con la storia rispettato. Come To Dust, daddy. (7.5/10)
Riccardo Zagaglia
Cassegrain - Tiamat (Prologue Music, Marzo 2013) Genere: Techno Cassegrain è il progetto di Alex Tsiridis e Hüseyin Evirgren mentre Tiamat è il primo full dopo alcune uscite brevi, tra cui il pregevole split con Tin Man per Killekill e due EP su Prologue (sempre per l’etichetta di Monaco, in formato doppio 12”). Meno sperimentale e più canonico rispetto ai lavori precedenti, il disco non perde l’attenzione primaria per il suono cupo e l’andamento uniforme, ovvero il solito oscuro e criptico ambito dub techno che ci riporta, fondamentalmente, all’arcaica riflessione Basic Channel. La deepness come materia tedesca, a questi livelli, rimanda alle antiche memorie del passato (e presente) glorioso di Moritz Von Oswald e Porter Ricks (e, diversamente, anche dello stesso Köner
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dell’intero progetto. Nessun processo alle intenzioni però, questo è pop nella sua accezione più concreta. Siamo pronti a scommettere sulla loro imminente esplosione su larga scala e se le sfumature nu disco saranno la colonna sonora dell’estate 2013 lo dovremo in parte anche ad un album come questo. (6/10)
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Wave of Mystery, idealmente poco più che l’arricchimento quantitativo dell’EP di due anni fa. Oltre a Safe and Sound ritroviamo infatti Patience Gets Us Nowhere Fast, la sfacciataggine dancey di I Sold My Bed, But Not My Stereo, Center Stage e Love Away. Non solo disco-pop da spiaggia, ma anche tanto groove synth-80s, tocchi funky (Center Stage e guestata di Andre3000 a testimoniare) e fiati filtrati ovunque a creare situazioni in ottica fun&epicness. Si ha la sensazione di essere di fronte a una americanizzazione delle idee pop di stampo french, che si parli dei primi Phoenix o dei Daft Punk di R.A.M. Chartreuse flirta con la slow-disco da intorto fine ‘70, mentre Tell Me How To Live presenta addirittura un inserto latin che riporta diretti alla fine degli anni ‘90. Riferimenti temporali precisi raccontati con ironia (“like Michael Jackson Thriller, like Farrah Fawcett Hair”) e furbizia. Stereotipi portati all’estremo (l’electro-funk di Origami, scandito ovviamente con la vocina effettata in modalità j-pop) e una varietà stilistica che convive serenamente con una proposta tutto sommato riconoscibile e con i propri tratti distintivi, per quanto grossolani. Nulla forse è efficace quanto Safe and Sound ma in In a Tidal Wave of Mystery la quantità di filler rasenta lo zero, tanto quanto l’apporto artistico
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producono un disco di calibratissime atmosfere e con pochi proclami in calce, come statisticamente dovrebbe accadere più spesso a chi gioca con le zone oscure. Gli ambienti sullo sfondo sono il cuore del lavoro, tanto da sembrare sullo sfondo quando sono in realtà in primo piano (e che il paesaggismo è interiore si noterà ad ascolto concluso). Sì, è sempre dub techno, ma fatta in modo attualissimo e impeccabile. (7.6/10) Michele Ferretti
Corrado Meraviglia - L’occasione (La Fame Dischi, Maggio 2013) Genere: canzone d’autore Dopo l’esordio Parlo sempre con le persone sbagliate e l’EP Ho tappato tutti i buchi con la carta assorbente, il cantatutore savonese - ma anche regista e blogger - Corrado Meraviglia torna con L’occasione, sophomore che prosegue lungo i binari di una canzone d’autore sporcata da riverberi rock di matrice Nineties. Lasciati da parte gli afflati maggiormente sperimentali del debutto - dove non mancavano strizzate d’occhio a post-rock e synth pop - il musicista si inserisce definitivamente nel canone della canzone d’autore, attraverso un percorso che attinge tanto alla vocalità roca e incombente di un Rino Gaetano, quanto all’ermetismo lirico di un Paolo Benvegnù. Le undici tracce de L’occasione, tuttavia, faticano a smarcarsi dai modelli di riferimento, non riuscendo a creare un passaggio sonoro che, se non del tutto personale, riesca perlomeno a costruire una formula riconoscibile: a partire dall’intro piano-voce della title-track, tutti i brani del disco alternano atmosfere pacate e confidenziali - ad esempio nella nenia acida di Sam o nella quiete acustica di Lampione - al piglio energico di chitarra e batteria, come mostrano anche Vacanza e Luccica, uniti a un certo gusto per la ballad elettrificata (Le mie manie). Il mood sognante e disilluso che colora tutto
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in solitaria), in puro spirito dub, tra ampie camere d’eco e riverberi soffocati. Come prevedibile, le ambientazioni sono, nonostante la ballabilità, lontane dall’intrattenimento frivolo e venate di toni cupi eppure non opprimenti. Lo schema strutturale del lavoro è fortemente influenzato da un approccio esplorativo in fatto di suoni che, come conseguenza, porta al delinearsi di quadri sì obnubilati ma che partecipano dell’oscuro come una continua scoperta. Pubblicato poco prima del lavoro lungo del compagno di etichetta Echologist, Tiamat ha tutte le forze del sudafricano e forse qualche spunto in più, se comunque alla produzione meno cristallina e più dura dell’altro (con qualche sforzo, si potrebbe dire che lui abbia una profondità no wave) stavolta invece si “risponde” con materiale in grado di prendere una varietà di direzioni più articolata e, complessivamente, di suonare meno ruvido, meno oltranzista. Apre le danze il viaggione Taiga, un ondeggiare liquido ed un solido infrangersi delle onde con qualche spunto industriale educato, per proseguire con il tribalismo distante di Joule, in linea idealmente affine a Dino Sabatini (uno sciamanesimo metafisico), meno sabbioso e più levigato nel formalismo della ripetizione tradizionalmente techno. Le strutture grossomodo sono sempre quelle previste dal genere: excursus simil-progressivo, crescendo (armonico o per stratificazione) e ambienti definiti dalla prima battuta in poi, mai alterate ma seguite e sviluppate tendenzialmente in climax. Siano i grumi sintetici di Turn Aside che spostano la banda sonora o gli echi e i delay della title track, si rintracciano alla pari tutti esempi ugualmente riusciti di connubio tra una forma e una sostanza che, nella sua prevedibilità, assume le forme del classico più che del derivativo. Perché deriva non c’è, ma solo esplorazione. Mentre larga parte dell’intrattenimento da ballo lotta per accaparrarsi un posto definitivo tra le fila delle eminenze grigie del dancefloor, i due
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Genere: psy-drone/SW USA Ci sono dischi che nascono e si sviluppano in un contesto preciso, tanto incanalati negli stereotipi che essi incorporano quanto incredibilmente
MARTEDÌ 2 LUGLIO
VENERDÌ 19 LUGLIO
GIOVEDÌ 4 LUGLIO
LUNEDÌ 22 LUGLIO
SABATO 6 LUGLIO
GIOVEDÌ 25 LUGLIO
DOMENICA 7 LUGLIO
SABATO 27 LUGLIO
LUNEDÌ 15 LUGLIO
MERCOLEDÌ 31 LUGLIO
MERCOLEDÌ 17 LUGLIO
GIOVEDÌ 1 AGOSTO
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Date Palms - The Dusted Sessions (Thrill Jockey, Luglio 2013)
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Giulia Antelli
perfetti nel loro intento descrittivo. The Dusted Sessions degli americani Date Palms è uno di quelli. Marielle Jacobsons (violino, flauto) e Gregg Kowalsy (tastiere) ne sono i principali artefici, mentre Michael Elrod (tanpura), Ben Bracken (basso) e Noah Phillips (chitarra) costituiscono il nuovo e fondamentale trio di supporto. Sette tracce che hanno il compito di trasformare le cuffie in uno strumento di immersione multisensoriale. Le coordinate geografiche del nonluogo sono quelle del Southwest degli USA: il deserto non concede tregua, il sole sembra non calare mai e all’orizzonte prendono forma pseudo allucinazioni dovute al calore. In questo panorama The Dusted Sessions ha un ruolo ingannevole. L’inganno inteso come effetto placebo di una distorsione audio-visiva che tranquillizza, rilassa e che porta a riappacificarsi con madre natura ma che fa fuggire solo mentalmente dalla “reale”
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l’album si esprime attraverso testi volutamente frammentati e introspettivi, che, nonostante si distacchino da una generale tendenza verso il semplice racconto della quotidianità (peraltro, già sentita troppe volte tra gli autori di casa nostra), non riescono a formare una base narrativa convincente fino in fondo. Il risultato sono brani in cui predominano una certa ripetitività nei suoni e nelle parole e una certa vaghezza nei contenuti, e che non riescono ad imporsi in maniera definitiva sull’ascoltatore. (5.5/10)
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SALMO
JONATHAN WILSON
PATTI SMITH - "HORSES"
DEVENDRA BANHART THE SKATALITES TRICARICO
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Genere: synth-pop Il primo After Dark usciva nell’agosto del 2007 ma, per moltissimi e alla meglio, è rimasto un segreto celato fino ad almeno quattro anni dopo. Ci sono infatti voluti il Themes For An Imaginary Film targato Symmetry (2011, vociferato d’essere la “lost soundtrack” di Drive), il Kill For Love dei Chromatics (2012) e il conseguente, indotto ripescaggio di massa per generalizzare l’evidenza: la compilation di Italians Do It Better aveva precorso l’avvento di quel nuovo filone d’elettronica fatta a pop che ha seguito a ruota la OST del sopracitato film cult con Ryan Gosling (e che vedeva coinvolti, non a caso, proprio Chromatics e Desire). Un elettropop, dunque, permeato di nostalgia per gli 80s, che fonde l’italo-disco con cinematiche synth notturne, metropolitane ed immensamente romantiche, che scintilla, si accende in miccia, mai esplode. Un elettropop che, dal canto suo, la label americana da sempre griffa per dilatazione (After Dark e Kill For Love duravano entrambi un’ora e venti, Themes For... addirittura due ore e quaranta), oltre che con allusioni wave e post-punk, cantato prevalentemente al femminile (ma sempre emotivamente distaccato) e firma trasversale dei sintetizzatori - “stabbati”, arpeggiati, spiraliformi - del “capoccia” Johnny Jewel. Un elettropop che, visti anche i successi casalinghi degli ultimi diciotto mesi, trova ora tempi maturi per erigersi definitivamente a manifesto di un’era (ancora in corso). After Dark 2, naturalmente, supera in tutto e per tutto il predecessore. Il roster dell’etichetta - qui al gran completo - non è mai risultato tanto efficace nell’amalgamarsi ad unica entità, pur senza rinunciare ai tratti distintivi dei singoli. L’estetica IDIB, del resto, si è così raffinata negli anni da far sparire l’effetto label sampler del primo volume a favore di un lavoro che possiede piena dignità d’album tout court. Fanno ovviamente da padroni - con rispettivamente tre e quattro pezzi - Chromatics (Cherry e Looking For Love sono già classici di repertorio) e Glass Candy (l’euforia da hippie in tutina da aerobica della Ida No di Warm In The Winter è il migliore degli inviti ad abbandonarsi all’ascolto), ma le lodi si sprecano anche per gli “act minori”. Si va dalle sempre fascinose strumentali di Symmetry e Mike Simonetti (Heart Of Darkness, The Magician) all’appropriazione e riuscitissima trasfigurazione del glo-fi ad opera dei Desire (Tears From Heaven), dalla piano-house che ammicca a Bowie dei Twisted Wires (Half Lives) all’evocativo spoken su droni di Farah (Into Eternity) fino al tocco french degli ex-Kitsuné Appaloosa (Fill The Blanks) e al numero a firma Mirage (Let’s Kiss), col Johnny Jewel solista a brandire forte il vocoder. È proprio in quest’ultima occasione che After Dark 2 va persino oltre lo status comunque “compendiale” e trova ulteriore ruolo attivo nel panorama musicale dell’annata in corso: quello di alternativa “indie” al Random Access Memories dei Daft Punk. Un’alternativa - quantomeno per chi scrive - migliore. (7.5/10) Massimo Rancati
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Chromatics/Glass Candy - After Dark 2 (Italians Do It Better, Maggio 2013)
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Genere: folk wave Strano personaggio, questo Daughn Gibson, poco più che trentenne dalla Pennsylvania, già batterista degli stoner Pearls And Brass, all’esordio in solitario lo scorso anno con un All Hell per il quale si scomodarono similitudini intriganti, tipo un Johhny Cash nella ragnatela post-moderna di Nicolas Jaar. E in effetti, a sentire quegli scheletri folk dall’aura androide ed il vocione baritonale, la similitudine sembrava particolarmente azzeccata. Il qui presente sophomore segna però uno scarto netto, di quelli che fanno saltare il banco delle aspettative. Resta l’acchito country, come una radice che non vuol saperne di marcire, però una stratificazione di innesti palpitanti e balzani fanno sbocciare undici tracce che fai fatica ad ingabbiare nelle coordinate standard. Crude e farneticanti, allucinate e languide, guardano agli 80s più fascinosi e cupi, impastano effetti sintetici e pedal steel, esotismi posticci e fantasmi da pub, romanticismo tignoso e attitudine cinematica. Il passo turgido d’un Cave si spampana tra rarefazioni Sylvian (You Don’t Fade), la wave glassata dei Tears For Fears fa a strattoni col ghigno Sister Of Mercy (The Sound Of Law), uno pseudo trip-hop tenta di ipotizzare versioni fumettistiche dei Morphine (The Pisgee Nest), mentre altrove si consuma una relazione platonica tra Sakamoto e Brian Ferry (Franco). Certo, di fronte ad una All My Days Off - immaginatevi Chris Isaak ipnotizzato dai Cousteau - si consolida il sospetto che possa trattarsi di una furbata indie-pop studiata a tavolino, una strategia di bizzarrie pensose e dandysmo problematico con malcelate ambizioni radiofoniche. Tuttavia, non puoi fare a meno di sentirci dentro una febbre d’insoddisfazione, una smania di senso da conquistare attraverso un linguaggio complesso, inconsueto, perciò sfuggente. Che ti spiazza quando credi di averlo in pugno. Vedi
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Riccardo Zagaglia
Daughn Gibson - Me Moan (Sub Pop, Luglio 2013)
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situazione desolante: il caldo, il sole e il deserto sono ancora lì. Un’oasi immaginaria. Le iniziali suggestioni indiane e spirituali aprono Yuba Source Part I - primo di tre passaggi influenzati da un viaggio lungo il fiume Yuba (Sacramento Valley) - e diventano l’atmosferico tappeto per il commovente violino di Marielle Jacobsons. I paesaggi sonori che scorrono lungo la triade Yuba (Source Part I, Source Part II e Reprise) si situano a metà strada tra alcune cose dei Godspeed You! Black Emperor e il masterpiece Laurens Walking della colonna sonora di Straight Story di David Lynch. Lunghi slow-burning meditativi di grande impatto evocativo in una catarsi di psichedelia seventies che sublima in droni cosmici. In situazioni così drammaticamente arse e aride stonano forse alcuni modernismi (i tastieroni effettati della breve Six Hands To The Light) che non si plasmano perfettamente con il restante set strumentale, decisamente più crudo e asciutto. Altre volte invece riescono a portare varietà e vitalità agli eterni landscape color ambra: in Night Riding the Skyline il basso corposo e distorto, il più unico che raro accompagnamento di batteria (estremamente echizzata) e il lavoro psy sui tasti donano sfumature inedite, meno contemplative rispetto al resto dell’opera e in particolare rispetto alla conclusiva, pressoché ambientale, Exodus Due West. La prorompente cinematicità di The Dusted Sessions ha due limiti, rintracciabili nell’incostante attrattività all’interno dei 44 minuti di musica e nella sua stessa rigida natura di mood-music. È infatti un disco che riesce a rendere al 100% solo in determinate situazioni, riuscendo comunque a svolgere il proprio compito immersivo anche ad un livello meno trascendente. (6.9/10)
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Genere: Uk garage Prepariamoci ad abbassare i finestrini e ad alzare il volume dell’autoradio perché finalmente “habemus” il disco dell’estate. Settle, l’atteso esordio dei chiacchieratissimi Disclosure, è finalmente tra noi e sembra candidarsi fin da subito a feticcio definitivo del pop britannico più spiccatamente danzereccio. Non è un caso se la coppia di giovanissimi producer inglesi sono riusciti ad avere ospiti nello stesso disco tutto il meglio della vocalità brit contemporanea, dal rodatissimo Sam Smith, passando per le reginette nu soul Jessie Ware ed Eliza Dolittle fino al veterano Jamie Woon. In poche parole, Settle è sì un disco da cantare, ma possibilmente nei dancefloor. L’esordio dei Disclosure non è però solo un sofisticato zuccherino pop, ma anche il traguardo più avanzato di quel calderone sonoro chiamato garage; è dai trionfi di Quentin Harris e Dennis Ferrer infatti che non si sentiva nulla di così fresco in questo ambito e, come in una gara a staffetta, questa volta il passaggio di consegna passa all’Inghilterra. Se parliamo di garage e Albione, però, è inevitabile considerare Settle anche come ultimo tassello di quel continuum garage-UK inaugurato da pionieri come Artful Dodger, Dj Pied Piper, Zed Bias o El-B poi articolatosi nelle declinazioni stradaiole dei vari The Streets, Audio Bullys o Dizzee Rascal fino alle più recenti derive broken beat isolazioniste di Burial. La formula musicale usata dal duo è in realtà molto semplice e fondamentalmente si traduce in una perfetta fusione tra l’euforia timbrica tipica del 2-step con il feeling strutturale della deep-house in salsa Defected / Strictly Rhythm. Le bassline e lo swing delle tracce sono sempre orgogliosamente UK, ma ogni scusa è buona per tributare l’enfasi clubbistica chicagoana. Questo è ben chiaro fin dallo start con l’ossessività del sample vocale in When A Fire Starts To Burn che si sfoga in aperture degne dei Deep Dish, ma anche nel morbido andamento di F For You o nella balearica Defeated No More in cui Ed Mc Farlane vocalizza con la stessa esuberanza di Benjamin Diamond. Il bipolarismo garage tra intelligence inglese e istintività statunitense permea tutto il disco; brani come Voices (feat. Keabie) sembrano quasi prodotti da Quentin Harris mentre in January Jamie Woon “micioneggia” quanto un Vikter Duplaix d’annata. La vera inglesità però è tutta concentrata nei singoli già pubblicati prima dell’uscita del disco, che si parli della fortunatissima (perfino sui network italiani) Latch appositamente terzinata per l’identità canora di Sam Smith ma con pulsazione tipicamente post-dubstep o dell’educato clash tra Basement Jaxx e Nightcrawlers in White Noise (feat. Aluna George). Jessie Ware e l’emule Hannah Reid dei London Grammar incantano rispettivamente sul Chicago-jackin’ condito dalle stridule bassline di Confess To Me e sul mid-tempo in cassa dritta di Help Me Lose My Mind, mentre You & Me suona come un vero e proprio tributo al 2-step più classico con Eliza Dolittle intenta a giostrare la sua voce tra metriche “shuffolate” e sample cheap tipici del genere. I fratelli Lawrence non si fanno mancare nulla, nemmeno un pezzo tirato e spazza pista come Stimulation che chiude il cerchio con del puro pragmatismo Solid Groove. In definitiva Settle non delude affatto e cresce dopo ripetuti ascolti, soprattutto grazie all’impatto
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Disclosure - Settle (Universal, Giugno 2013)
di una produzione asciutta ma allo stesso tempo molto raffinata. Alla lunga probabilmente, l’unico difetto è l’uniformità timbrica che i nostri hanno deciso di dare ad ogni traccia del disco ma, in realtà, questa scelta sembra dettata dalla volontà di ribadire costantemente un albero genealogico preciso nelle proprie coordinate stilistiche. Se inquadriamo Settle nel suddetto continuum garage anche le sferzate più paradossalmente revivalistiche qua e là nel disco appaiono dunque come manifestazioni musicali orgogliosamente anglosassoni. In questi tempi ipercinetici fatti di novità ad ogni costo, questa consapevolezza di essere eredi di un passato (seppur recente) può rappresentare un valore non da poco, soprattutto da parte di artisti anagraficamente così giovani. Full album stream [via The Guardian] (7.5/10)
David Lynch - The Big Dream (Sunday Best, Luglio 2013) Genere: desert blues La scelta di Lykke Li per I’m Waiting Here (bonus track messa in coda al disco) si specchia con quella di Karen O per Pinky’s Dream, che apriva Crazy Clown Time. Il gioco di specchi non finisce qui, ma è la metafora a reggere l’impianto discorsivo attorno a The Big Dream, secondo album di un David Lynch musicista dallo stile estremamente riconoscibile.
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Stefano Solventi
La Ballad of Hollis Brown cantata da Nina Simone, poi passata tra le corde di Bob Dylan, nelle mani di Lynch diventa un incrocio tra So Glad e Noah’s Ark del primo album. È questo il prototipo dichiarato del “moderno blues dei bassifondi” che Lynch intende esplicitamente percorrere e reinaugurare con The Big Dream. Come dice Nina, Hollis è poverissimo, ha cinque figli e tutti nella sua famiglia patiscono la fame. Punto. Storie ossificate, asciugate non dal poeta ma dal traghettatore di storie popolari in un formato (la canzone) popolarmente fruibile. L’operazione è vecchia come il blues e come il r’n’r, come ci avvisa lo stesso Lynch. Aggiungiamo noi che in Crazy Clown Time c’erano già questi prototipi, sviluppati in maniera ottima se non eccellente. Era già una prassi consolidata. Del blues riprendeva l’idea di costruire standard, da modulare in mille versioni, che parlano sempre delle stesse figure (retoriche), degli stessi personaggi che oggi ci sono e domani non ci sono più. Il paesaggio è l’altra chiave. Lynch costruisce macchine celibi perfette per naufragare nel deserto immaginario dell’estremo Sud degli States, non quello reale ma quello immaginato da David e percorso (con la Dodge di Pinky) nell’esordio
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come The Right Signs proietti il timbro à la Ian Curtis in un fosco scenario electro-kraut prima di sgranare vampe psych quasi desertiche, o come nella conclusiva Into The Sea la tenerezza agrodolce d’un Moz s’immischi a chimere errebì Jaar e marchingegni post-folk O’Rourke. E’ uno di quei lavori insomma che sembrano arrivare al termine di una fase, di una scena, di un’epoca. A raccogliere i detriti, a spacciare voglia di ricostruire. Spesso per opportunismo, a volte per necessità. La differenza, va da sé, è sostanziale. Ma distinguerla non sempre è facile: come in questo caso. (6.7/10)
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Dario Moroldo
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Genere: cosmic-noise Non hanno mai subito le scelte altrui i Fuck Buttons, ma sapere che Slow Focus è il primo album completamente prodotto in casa dal duo, nel suo Space Mountain studio, è questione interessante. Lo è sapendo quanto Andrew Hung e Benjamin John Power tengano alla dimensione prossemica e alla natura fisica della produzione dei bottoni. In qualche modo ce li immaginiamo produrre così come eseguono, uno di fronte all’altro (in realtà dicono di fare davvero così), con se stessi come alter ego l’uno dell’altro a recepire il messaggio arcano prodotto dalle macchine analogiche. Ho detto alter ego ma avrei fatto meglio a dire pubblico. I Fuck Buttons hanno fatto del rumore accessibile e prevedibile (senza giudizio di valore) nelle progressioni soniche una bandiera, una formula, perché sono i primi fruitori della bellezza del suono che producono. Incuriosisce scoprire che i due ci presentino Slow Focus come un disco in cui “it almost feels like the moment your eyes take to readjust when waking, and realising you’re in a very unusual and not a particularly welcoming place. We like to think that we create our own new landscapes, and with this it’s a very alien one”. Mescolando trama e intreccio, in queste parole troviamo l’immagine prodotta dai diretti interessati per tradurre un’impressione all’ascolto, che avremmo reso linguisticamente dicendo che i Fuck Buttons non hanno più un copione. Forse non ce l’hanno mai avuto? E’ la domanda con cui si potrebbe chiudere la recensione, per ammettere alcuni puntini non messi sulle “i” delle valutazioni sui passi precedenti di Hung e Power. In realtà la risposta è sì, così come affermativamente risponderemmo alla domanda circa l’attualità e l’efficacia - e sono passati cinque anni - di Street Horrrsing. La capacità di costruire temi-melodie elementari ma efficaci è qui intatta (plateale in Year Of The Dog) ed è parte del talento dei Fuck Buttons. Poi c’è il tempismo (l’altra faccia della medaglia della prevedibilità) e il rumore bianco, che tutto mangia e tutto vomita (vomitava) tra le urla filtrate. L’output era inequivocabilmente psichedelico, un output che in Slow Focus manca, o almeno non emerge più dal rumore, dalla distorsione, che impallidisce al confronto delle due prove precedenti. C’è oggi quello che dicevamo non esserci mai stato nei Fuck Buttons, ossia la sofisticazione esplicita. Non compositiva, l’approccio è ancora quello del reiterare minimalista, ma quella che va oltre la riconoscibilità immediata, la capacità di sposare un gusto dominante. Recuperano complessità e perdono forse immediatezza e piglio pop, a un primo ascolto. Riprendono - perfettamente a loro agio in questo 2013 - il passato elettronico che va prima degli ultimi trent’anni, alle radici europee delle narrazioni sintetiche. Filologicamente, lo fanno senza voci umane, semmai con le tastiere di Vangelis in Year Of The Dog, apocalittica e riuscitissima traccia, una delle migliori risposte degli ultimi anni alla domanda: qual è la via non banale al revival del retrofuturismo? Tastiere che, quando si sposano a volumi altissimi e alle distorsioni cui i due ci hanno abituati, vanno al bersaglio scientificamente (The Red Wing) ed esprimono la grandezza oltre che la complessità di quel sound, che al terzo ascolto è inequivocabilmente FB. Non tutti i numeri brillano: Stalker è un po’ trascinata, così come lo sono quelle cavalcate cosmiche su tastiera, ma poi arriva ancora una volta la distorsione, il
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Fuck Buttons - Slow Focus (ATP Recordings, Luglio 2013)
muro di rumore biancastro. È la loro arma, la versione meló del pollo dei Monty Python. I Fuck Buttons conoscono bene i trucchi del mestiere, ma oggi vivono nei dettagli e saranno per questo amati più che per le sberciate noise. (7.4/10)
Deafheaven - Sunbather (Deathwish inc., Giugno 2013) Genere: post black metal La sensazione finale ascoltando il secondo fulllength dei Deafheaven è la stessa di quella iniziale, ovvero: i Deafheaven tentano la via del metal-hipster, il che concretamente significa ben poco ma aiuta a capire in che territorio cerca di muoversi questa band californiana. Il senso del loro essere sta nel gioco delle contrapposizioni, della serie: siamo duri ma vogliamo emozionare, suoniamo metal ma facciamo l’artwork rosa, non
Stefano Gaz
Echologist - The Mechanics Of Joy (Prologue Music, Maggio 2013) Genere: Techno Caposcuola della seconda mandata techno dub (si trasferisce a NY dal Sud Africa quando l’entità Basic Channel inizia a dare alle stampe i primi lavori), Brendon Moeller è attivo sia con i moni-
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Gaspare Caliri
ci mettiamo il chiodo ma dei bei maglioncini magari anche colorati, e così via. La traduzione in musica di questa cosa è ovviamente un gioco tra le linee, anzi fondamentalmente una linea: mischiare il cantato growl e certo drumming black metal con il vecchio postrock 90’s sognante e struggente. Un gioco che per la verità riesce bene, che si allarga in qualche occasione come nel contrasto noise/acustico di Please Remember, presentandosi dunque più estremo e variegato rispetto alla concorrenza (i Palms di Chino Moreno e Isis ad esempio), con una buona tenuta anche negli episodi da dieci/ dodici minuti. Ma la spinta dei Deafheaven si esaurisce qui. Qua e là c’è chi reputa Sunbather tra i migliori dischi dell’anno, ma si fa fatica a capirne i motivi: non c’è nessun discorso di ricerca ma solo l’ennesimo tentativo di far convivere mondi diversi e apparentemente distanti, ed è una questione forse più estetica che musicale perché alla fine il campo rimane post metal. (6.6/10)
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con piglio sanguigno, viscerale, in The Big Dream con meno impatto. È come se prima fosse un’esigenza, e oggi già più un gioco, un divertissement, uno stomachion. Le ossa desertiche di The Big Dream sono certo ottimo strumento di alienazione (già dall’iniziale title-track, poi ancora con l’inquietante e sensuale I Want You), sono asciutte e dirette (Star Dream Girl, memore dei White Stripes), semplici ed efficaci (Last Call, Cold Wind Blowin’). Risentono però di quella che potremmo definire “retorica del sophomore”: quando per raccontare un secondo album si esprime a parole quello che in realtà avrebbe già spiegato il disco precedente. Fuori dalle auto-caricature volontarie e involontarie (Sun Can’t Be Seen No More), non è affatto un dramma. (7.1/10)
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Gaspare Caliri
Michele Ferretti
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Editors - The Weight Of Your Love (Pias, Luglio 2013) Genere: Rock Non deve essere stato facile comporre The Weight Of Your Love se si pensa che in un quadriennio - dal 2005 al 2009, ovvero la distanza che intercorre tra In This Light And On This Evening e questo lavoro - gli Editors avevano prodotto la loro intera discografia, ovvero due più che onesti album revival wave (nonostante in queste pagine siano stati oggetto di aspre critiche) prima della controversa svolta synthpop. Di questo fatto gli Editors non hanno mai nascosto i motivi, menzionandoli in ogni intervista o documentario: la decisione di allontanare Chris Urbanowicz è stato il culmine di un triennio caratterizzato dall’impossibilità di produrre materiale di qualità e da rapporti tesi tra il chitarrista - autore delle linee melodiche più impresse nella mente dei fan, letteralmente sconvolti dallo split - e il resto della band, quest’ultima trovatasi a margine di uno dei live più sentiti (il Werchter, famoso per il cliccatissimo video del fanboy di No Sound But The Wind) a compiere una scelta radicale. L’autunno porta alla rifondazione: la nuova lineup con due ingressi in luogo di una partenza, infonde linfa vitale, ed ecco The Weight Of Your Love prendere forma in un battito di ciglia. È A Ton Of Love - perfetta per i cori nelle arene come per jingle in spot televisivi - il singolo scelto per anticipare i contenuti del disco, brano che, al pari di Papillon nella scorsa uscita, si trova alla traccia tre: un modo per “lanciare” l’ascoltatore dopo un inizio circospetto con la Depeche Modeiana The Weight e Sugar, forse l’unica assieme a Two Hearted Spider a rievocare memorie del recente passato elettro-pop della band. Ed è qui che gruppo cronicizza quella difficoltà nel tenere viva l’attenzione nell’ascoltatore iniziata accentuata in ITLAOTE e replicata qui a suon di imitazioni dei Coldplay (What Is This Thing Call Love, falsetto incluso), parentesi southern rock USA
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ker Echologist e Beat Pharmacy, sia come label owner della Steadfast, etichetta per la quale ha rilasciato alcuni - relativamente recenti - lavori. The Mechanics Of Joy esce dunque su Prologue, attentissima etichetta bavarese che, tra gli altri, ha pubblicato gli italiani Voices From The Lake, Giorgio Gigli, Claudio PRC, Dino Sabatini, scelta che da una parte pare completarne il catalgolo e dall’altra fa risaltare quello che, di fatto, è uno dei lavori più lungimiranti di ricerca technoide degli ultimi anni. La Prologue non è certo l’unico esempio di etichetta techno virtuosa (pensiamo alla Zooloft di Obtane) ma l’integralità futuristico-attualistica di quest’album non poteva arrivare in un momento migliore. In mezzora circa, Moeller fornisce un tetralogo di movimenti dubby e ultrasaturi di bassi, alleggeriti da lievi incursioni citazionistiche (Incunabula in Crossing Over, per dire, ma il gioco dei richiami è, in verità più vasto). Per riferirsi proprio alle parole del producer: il senso dell’operazione è creare musica accessibile all’esperienza e ai trascorsi di vita tramite musica di genere, dunque storicizzata e condivisibile, e su questa base infondere l’inesauribile profondità del 4/4, e in pratica, la techno nel suo portato più totale. Dagli accartocciamenti sotto i levare assassini di More Instinct alla vorticosa sintesi della titletrack, il disco - niente di nuovo sotto il sole - gode dell’intramontabilità strutturale di un sistema di riferimenti musicali. La techno è viva e l’attualità delle ristampe Type dei Porter Ricks o il buon corso della Avian Records di Shifted e Ventress ne sono gli esempi. Echologist, con una durata anomala per i suoi canoni (lungo per un singolo standard, corto per un full lenght) e giocando di volta in volta con pochissimi elementi, guida l’ascoltare in un percorso contemplativo che, partendo dal corpo (nel senso di body), lo supera. E non serve aggiungere altro. (7.2/10)
Genere: Pop Neanche due anni dopo il buon esordio Last Summer, torna la frangetta imbronciata dell’indie pop ad allettarci con le sue caramelle sonore agrodolci, così lontane dal crogiolo proteiforme dei Fiery Furnaces eppure della (ormai defunta?) band fraterna in qualche modo conseguenza diretta. Ci senti infatti un ribollire di mille cose sotto la pelle disinvolta, appassionata e blasé di queste canzoni aggrappate a turbamenti sentimentali in differita (per la cui scrittura si è fatta aiutare dal cantautore e scrittore inglese Wesley
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Francesco De Gregori - Sulla strada (Edel, Novembre 2012) Genere: Cantautore Con quel titolo avrebbe potuto essere uno dei suoi innumerevoli dischi live (dieci dal ‘90 in poi): ma uno l’aveva pubblicato l’anno scorso, quel Pubs & Clubs che azzardava qualche arrangiamento nuovo e qualche gioco meta-musicale, risultando così più interessante e motivato di altri.
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Eleanor Friedberger - Personal Record (Merge, Maggio 2013)
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Andrea Forti
Stace, meglio conosciuto come John Wesley Harding). Per dire, se la opening I Don’t Want To Bother You stuzzica tepori soul affacciati sui 70s, la successiva When I Knew potrebbe essere una trepidazione Smiths strigliata Velvet Underground, mentre Echo Or Encore si permette un languore bossa cisposo e You’ll Never Know Me scozza plastica e calore come una mestizia Stevie Nicks serigrafata Alanis Morrisette. Malgrado rischi di sembrare dispersiva, Eleanor è semmai una tipetta elusiva, che ama svicolare, che ci è quando ci fa, con l’estro nascosto sotto una bambagia di disincanto che però lo annusi da lontano un chilometro. Se ha un talento, e ce l’ha, è la capacità di spacciare per canzonette trame che invece nascondono una polpa ben strutturata, talora azzardando con naturalezza intrugli audaci, come l’errebì stomp caramelloso di Tomorrow Tomorrow d’improvviso avvampato di psichedelia barrettiana, oppure le Go-Go’s sbarazzine strattonate The Clean di Stare At The Sun, per non dire del bocciolo folk indolenzito trapiantato nel terriccio sintetico 80s della conclusiva Singing Time. Se il doppio senso del titolo volesse alludere ad un superarsi facendo la propria cosa, lo diremmo vagamente velleitario e persino infingardo. Ma proprio per la disarmante capacità di prenderti per il bavero fuggendo alla presa, Personal Record resta un disco delizioso. (6.9/10)
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(The Phone Book) frutto delle session di registrazione a Nashville con l’artefice del successo dei Kings Of Leon Jacquire King, e una orecchiabile Formaldehyde che plasma i delay di chitarra - ridondanti in The Back Room e An End Has A Start - in ariose melodie pseudo dreamgaze. Ma è Nothing a destare i maggiori interrogativi: l’idea di inserire a metà opera un brano completamente composto da archi è coraggiosa, ma fa nascere interrogativi sul perché si sia deciso di stravolgere qualcosa che solo qualche mese prima la band aveva suonato live con la propria strumentazione, dando vita a una delle anteprime più riuscite del gig. Sembra davvero che si sia voluto fare tabula rasa degli Editors anni Zero, spostando la deriva “chitarrocentrica” (prima) e “synthcentrica” (poi) dell’epoca Urbanowicz su un prodotto frutto del lavoro e dell’equilibrio di una band intera ma dall’identità solo abbozzata. Sarà il prossimo lavoro, su cui i Nostri dicono di volere iniziare a lavorare a breve, a dirci se potremo affezionarci ancora a loro oppure fermarci ad ammirarli live, dimensione in cui il leader Tom Smith da sempre dimostra di essere un cavallo di razza. (5.5/10)
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Genere: hip hop Kanye il Divino. Arrabbiato, complicato e sorprendente come non riesce a fare a meno di essere. A tre anni da My Beautiful Dark Twisted Fantasy, il disco che ha riscosso più successo e generato adulazione da parte della critica, West decide di cambiare le carte in tavola e tornare con un album radicalmente differente. Vestendo gli ormai abituali panni dell’anti-eroe, parafulmine instancabile di trend e controversie, Kanye mette da parte il massimalismo, le orchestrazioni e i numeri ad effetto visti in Watch The Throne per inseguire ambizioni di minimalismo, come lui stesso le ha definite. Per riuscirci, attinge da figure di riferimento quali Daft Punk e Rick Rubin per co-produrre alcune tracce e supervisionare il lavoro, rifugiandosi proprio negli studi di Rubin per le ultime, frenetiche settimane di lavorazione. Fasi cruciali nelle quali il guru-producer è riuscito a dare al materiale un suono più coeso e strutturato, portando Yeezy ad un traguardo al fotofinish. Certo, West non è nuovo a funamboleschi numeri di trasformazione, come l’electropop impomatato di 808s & Heartbreak, ma in pochi avrebbero potuto immaginare che Yeezus avrebbe virato così violentemente verso elementi finora estranei al mainstream hip-hop, come l’acid house, la glitch e l’industrial. Quello che fino a ieri veniva distribuito su etichette come Anticon o Warp entra adesso su grande scala nel mercato Def-Jam. La dichiarazione d’intenti è infatti quella di allargare i punti d’accesso dell’hip hop a certa EDM, proveniente soprattutto dal versante UK, con le figure di Evian Christ ma soprattutto il tocco Glasgow di Hud Mo a spiccare tra i co-crediti. La strategia di non-promozione sposa quindi uno stile spoglio e oscuro, di sottrazione (anche dal pubblico) con l’assenza di artwork, singoli o video di lancio, affidandosi a sessantasei proiezioni di brani su edifici sparsi in varie città del mondo. Da una parte è il solito Kanye che parla di fama, sesso e mercantilismo - a volte in modo del tutto rozzo e infantile, scambiando spesso razzismo per classismo, riempiendo i brani di versi comici come “in a french-ass restaurant, hurry up with my damn croissants!” -, dall’altra c’è un Kanye nuovo e feroce, che serve sul piatto beat crudi e una manciata di versi urgenti. Gli elementi tirati in ballo nei primi quattro pezzi sono quantomeno destabilizzanti: c’è l’elettronica ad alta frequenza di On Sight prodotta dai Daft Punk ma praticamente un omaggio ai pioneri dell’acid house Phuture, anche loro da Chicago; c’è lo schiaffo industrial di Black Skinhead (Beautiful People, anyone?), tra urla primordiali e un generale senso d’angoscia, atmosfere fumose a-la Nine Inch Nails e tribalismi claustrofobici, dove Kanye si dipinge come l’anti-eroe - “I’m aware I’m a wolf, as soon as the moon it” - neanche fosse Tyler, The Creator. I caldi soul beats di Late Registration non sono mai stati così lontani. Sulla stessa lunghezza d’onda ossessiva-compulsiva, ma con molta più magniloquenza - tra Death Grips e Aphex Twin - ci sono I’m A God e New Slaves: “you see there’s leaders and there’s followers, but I’d rather be a dick than a swallower”, ripete West, le provocazioni vagamente politiche e l’animosità viscerale sono elementi stimolanti di un disco a tutti gli effetti sperimentale. “I am a God, even though I’m a man of God” racchiude il Kanye West più irriverente, quello delle boutade ai Grammys, agli MTV Music Awards e in TV contro il presidente Bush, un uomo incline alla gaffe ma che è pronto a lottare per quello che sente di meritare: il podio alto nella classifica dei trend setter del pop moderno.
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Kanye West - Yeezus (Def Jam Recordings, Giugno 2013)
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Questo è invece il nuovo album di inediti, dopo il poco ispirato Per brevità chiamato artista (2008). In realtà il titolo è insieme una probabile risposta agli annunciati ritiri di Fossati e Guccini (e in questo caso suona come “(ancora) sulla breccia”), sia la sintesi tematica della raccolta: al suo centro c’è infatti proprio la strada, come luogo colmo di significati e metafora polivalente esplorata nella sua varietà. Il brano omonimo in apertura è già un primo assaggio, un campionario di umanità e situazioni varie condotto sulle consuete vie folk-rock alla Dylan (ma anche alla Green On Red, volendo), con una verve che da subito annuncia un’altra ispirazione rispetto al precedente. Ma - e qui sta uno dei principali pregi del disco - quello del pezzo iniziale è l’unico omaggio alla suddetta consueta maniera dylaniana: il resto della scaletta infatti, pur in uno stile comunque riconoscibile, azzarda suoni e produzione nuovi assecondando una penna in vena di divagazioni.
Se infatti restano alcuni “lenti” in stile classico, questi sono il bell’orgoglio operaio di Passo d’uomo e l’autoritratto, splendido, di Guarda che non sono io, uno di quei pezzi da canone nobile che compaiono spesso anche nei dischi tardi. Qui la strada è quella in cui l’artista, colto in un momento di vita privata, si confronta con il fan - ma soprattutto con l’idea distorta che l’ammiratore ha di lui: niente rancori, solo un avviso a non illudersi, rivolto senza snobismo né distacco in un pezzo il cui posto tra i classici non lo toglierà neanche un ritornello con vaghe assonanze Renga. Il resto svaria nell’omaggio esplicito all’immaginario di inizio ‘900 di Belle Epoque, in cui la strada è quella in cui passeggia un Dino Campana giovane militare mentre intorno a lui passeggiano “le troie” (sic: niente scorrettezza sessista, solo mimesi del linguaggio della categoria e dell’epoca), condotta con un passo swing sornione vagamente Vecchio frack; nell’altra riflessione sull’artista di Omero al cantagiro, tra ritmi, ance
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Luca Falzetti
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Nella seconda parte del disco (e qualcuno gioirà) si riaffaccia il soul, con il sampling del manifesto Strange Fruit nella versione di Nina Simone, l’omaggio al C-Murder di Down 4 My Niggaz e gli inserti prepotenti di R U Ready, cortesia del nuovo pupillo Hudson Mohawke - metà del duo TNGHT - preferito a Salva e RL Grime che avevano invece remixato Mercy lo scorso anno. Si va avanti con questi umori praticamente fino alla fine, con Justin Vernon che arriva qua e là ad aprire, chiudere o a intersecare le tracce (notevole lo scambio in I’m In It), tra qualche battuta evitabile sulla vagina asiatica (sweet and sour sauce?), i soliti vocalizzi con l’auto-tune distorto (Blood On The Leaves), gli accenni trap e gli interventi brevissimi di Chief Keef, Travi$ Scott, Kid Cudi e Frank Ocean, per quello che altrimenti è un disco in solitaria per Kanye, rispetto alle corpulente ospitate di ...Dark Twisted Fantasy. Sulla falsariga di quello che abbiamo visto recentemente dal vivo, c’è da dire che il personaggio West anche in versione studio si conferma respingente a certi cliché, sempre meno disposto a scendere a compromessi. Yeezus è compatto, fluisce spedito, sicuro e divertente fino al finale, dove West tira fuori dal cilindro un vecchio numero dei suoi, un sample di Bound dei Ponderosa Twins Plus One, facendo intuire che, nonostante il tempo passi, il beatmaker di Chicago ossessionato dal soul è sempre lì, nascosto dietro qualche maschera. (7.5/10)
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Genere: afro-jazz-core Il comeback targato Mombu - in realtà passo numero tre, se si considera la riedizione/rilettura dell’esordio omonimo col titolo Zombie o addirittura quattro, se prendiamo in esame l’esperienza Spaccamombu - è un tour de force afro-grind che, se possibile, amplifica il portato del duo MaiZitarelli. Ci pensa l’opener Niger a mettere subito sui binari giusti il disco: il sax baritono del primo che si sdoppia e si contorce alla maniera di un Colin Stetson in solo, rimanendo sospeso nelle sue reiterazioni circolari fino a quando entra in gioco la batteria del secondo, vero e proprio tornado (afro/poli)ritmico che carica ancor di più la tensione del pezzo e inaugura quelle schermaglie da interplay estremo, quelle prove di forza strumentali, che segneranno tutto l’album. C’è un senso di follia che pervade tutto il lavoro, incentrato com’è su una forzatura formale di stilemi provenienti da mondi altri e in apparenza distanti, che i due riescono a (ri)unire. E il terreno di ricompattamento funziona, fondendo un approccio che si direbbe da metal estremo, quasi da grind senza chitarre - quella occasionale di Cinghio in Mighty Mombu rievoca quella di Spaccamonti nel citato In The Kennel, ma è l’animo dei due ad essere “metal” dentro, tanto che non è un caso che escano per una label estrema come la Subsound - con l’altra grande suggestione, quella africana, declinata in forme tradizionali (il cantato di Mbar Ndiave in Carmen Patrios) o di rottura (lo sciamano posseduto nel vortice metal della citata Mighty Mombu). Si fa un grosso parlare di musiche estreme, di elettronica oscura, di psichedelia pesante. Ci si diverte a giocare di rimandi e riferimenti, a trovare spunti, citazioni o eredità. Beh, nel caso dei Mombu, vale tutto perché tutto convive naturalmente, pur se sempre portato allo stremo delle forze dei singoli strumenti, in un continuo faccia a faccia possente e devastante, quasi da sfida all’ultimo sangue. E in questo duello scintillante il duo non perde mai la bussola della composizione, né si abbandona al parossismo rumoroso fine a se stesso, ma anzi costruisce paesaggi sonori di una tale ricercatezza mista a forsennata violenza - di Mai sappiamo, ma la screziatura delle ritmiche di Zitarelli è encomiabile - che si rimane a bocca aperta. E tutto con una strumentazione che dire ridotta all’osso è poco. Sono una realtà grossa ormai i Mombu e, con tutti i distinguo del caso, è ora di dirlo: hanno le spalle larghe per reggere il peso dell’eredità vacante degli Zu. (7.4/10) Stefano Pifferi
e plettri tex-mex; o il valzer leggero, vagamente Italia anni ‘50, di Showtime; nel calypso di Ragazza del ‘95, anch’essa viaggiatrice (tra le solite citazioni disinvolte, vedi già il titolo dell’album); per chiudere con un’altra ballata, Falso Movimento, corteggiamento leggero e romantico ma al contempo adulto, come insegna da anni Leonard
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Cohen (musa meno dichiarata rispetto a Dylan, ma quasi altrettanto importante). Se, come recita la title track, “dev’essere strada”, essa continua con passo dalla rinnovata energia. (7.2/10) Giulio Pasquali
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Mombu - Niger (Subsound, Maggio 2013)
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Genere: indie-pop Chissà come può essere, una festa organizzata da Stephin Merritt, una delle figure più argute e talentuose dell’indie-pop americano. Forse la musica non sarebbe la più adatta per ballare, nonostante i synth in libertà che colorano le tredici canzoni di Partygoing - terzo album della sua creatura Future Bible Heroes (uno dei vari progetti del cantautore, dai Magnetic Fields ai 6ths) - ma in compenso incontreremmo ospiti che vanno da un Gesù Cristo che esorta i bambini a non bere acqua (“cause water’s mostly piss!”) e a preferire ad essa lo champagne (perché renderà pure la vita più breve, ma non ci farà dire mai no all’amore) fino a David Bowie e al satanista Aleister Crowley. Attenzione, però, a non lasciarsi ingannare: conoscendo quel volpone di Merritt, potrebbe essere l’ultima festa cui partecipare prima di tentare il suicidio (Let’s Go To Sleep And Never Come Back). E infatti più di un indizio fa capire che quest’opera, che arriva a un solo anno di distanza da Love At The Bottom Of The Sea dei Magnetic Fields e ben undici anni dopo Eternal Youth, è ancora una volta colma di riflessioni sull’amore e la sua perdita, sulla vita e sulla morte, con i soliti trucchi e affascinanti vezzi di repertorio: la voce cavernosa di Stephin si alterna a quella educata di Claudia Gonson, mentre Chris Ewen (un tempo nei Figures On A Beach) architetta soundscape sintetici né troppo lo-fi né eccessivamente patinati. Andare a un party può sempre spingerci a lasciare da parte le preoccupazioni (Sadder Than The Moon) e farle affogare nell’alcol (A Drink Is Just The Thing); se poi è in un’altra città meglio ancora, nessuno ci conosce e possiamo rimescolare le carte (A New Kind Of Town). Potremmo immaginare una soirée del regista John Waters oppure a casa di Mink Stole per il suo compleanno, entrare come DJ e andare via con un clown (Living, Loving, Part-
ygoing), o captare i discorsi (“La vita è dura per i bambini oggi, devono programmare tutto. Devono usare i computer anche solo per cantare!”) di chi ha paura di mandare i figli a scuola per paura del bullismo, o non li porta in chiesa perché non vengano molestati dai preti. La soluzione? Facile: Keep Your Children In A Coma finché sono adolescenti (e si potrà stare tranquilli). Non serve neppure fare sfoggio di ciò che abbiamo - d’altronde i tempi sono quelli che sono (“Can’t afford the children, can’t afford the rent / all our money stolen, all our future spent”). Anzi, è meglio iniziare a risparmiare e scavarsi pure la fossa da soli (Digging My Own Grave). L’amore? Love Is A Luxury I Can No Longer Afford, giura un mesto Stephin Merritt che pochi minuti prima giocava a indossare i panni di un diavolo dominatore, dalla voce robotica, sulla spalla dell’amica-manager Claudia in How Very Strange - il brano più claustrofobico del disco, quasi un omaggio a quei Depeche Mode che trent’anni fa prendevano appunti ascoltando gli Einstürzende Neubauten. Altrove, il synth-pop di Ewen guarda più agli Human League (antico amore di Merritt, ça va sans dire) e agli Erasure della metà degli anni Novanta (quelli di Run To The Sun e Fingers And Thumbs) e accompagna, stridente, il cinismo spietato delle liriche. Insomma, Merritt ne ha combinata un’altra delle sue: ha vestito da filastrocche elettroniche canzoni talvolta tanto morbose e disperate da non far intravedere una via d’uscita, e la sua festa eccentrica, nonostante la presentazione, è più vicina alle serate in discoteca dei Soft Cell in Bedsitter (si balla, ci si sballa, ci si diverte, ma tanto poi si torna a sbattere contro l’amara realtà) che non al marvellous party (rispolverato dai Divine Comedy) di Noel Coward. Partygoing sigilla una trilogia - non è un caso che arrivi nei negozi anche un box che include l’album e tutto il materiale precedentemente registrato come Future Bible Heroes - e ci consegna un artista maturo, sagace,
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Future Bible Heroes - Partygoing (Merge, Giugno 2013)
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Genere: midwest emo/postrock Quando mi sono imbattuto in An Autobiography degli Old Gray pensavo di aver trovato l’album emo&dintorni dell’anno. Mi sbagliavo: l’altrettanto autobiografico Whenever, If Ever, il disco di debutto The World Is a Beautiful Place & I Am No Longer Afraid to Die, ha fatto crollare le mie certezze. Originari del Connecticut, i The World Is a Beautiful Place & I Am No Longer Afraid to Die (da qui in avanti TWIABPAIANLATD) sono qualcosa di più degli ultimi abili revivalisti della scena midwest emo di metà anni ‘90. Dopo la classica e sudata gavetta tra demo ed EP (Formlessness del 2010 non passò inosservato), i TWIABPAIANLATD arrivano all’esordio lungo su Topshelf Records in formazione allargata - ora sono in otto - con tutta la voglia di compiere quel passo decisivo che nella copertina d’impatto coming-of-age prende le sembianze del tuffo che separa il mondo dell’adolescenza da quello dei “grandi”. C’è il classico sapore agrodolce delle twinkly guitar, c’è il retrogusto cinematico del post-rock (l’opener blank #9) che sempre più spesso dimostra poter essere un ottimo alleato dell’emo nel ricreare visioni nostalgiche (“I stared out a lake off the highway in the West Virginia mid-day and it was perfect”), ci sono i richiami lo-fi/indie dei primi Modest Mouse nell’inno Gig Life (qui presente in una versione meno minimal rispetto al primo demo quasi interamente acustico), una grande (talvolta troppo) coralità e soprattutto una visione d’insieme votata alla completezza strutturale più che all’urgenza emotiva. Chiariamoci: l’aspetto emozionale è certamente parte integrante della formula dei TWIABPAIANLATD ma è impossibile non rimarcare una complessità strumentale che, attraverso stratificazioni e ottimi inserti di violoncello, riesce sempre a raggiungere il climax dove serve, che sia al termine di un crescendo o l’esplosione di un chorus liberatorio (emblematica Heartbeat in The Brain nel suo riassumere le varie influenze della band). Anche un brano come Fightboat, che rischia di sfiorare pericolosi territori upbeat-emo anni zero, riesce a sorprendere grazie ad un utilizzo di fiati imprevedibile e per certi versi innovativo. Dettagli che, uno sull’altro, costruiscono l’impalcatura atmosferica di tracce come Ultimate Steve, realizzate giocando sui diversi layer che piano piano riempiono il suono. Trentacinque minuti di enorme dinamicità all’interno di un flusso sonoro (You Will Never Go To Space inizia dove finisce Pictures of a Tree That Doesn’t Look Okay) che non annoia mai, anche nei transitori frangenti post-rock. A Whenever, If Ever non manca nulla per entrare nel cuore degli appassionati del genere - sia quelli che hanno vissuto sulla propria pelle l’epoca dei SDRE, Cap N’ Jazz e American Football, sia i nuovi adepti - ma anche di chi ha un debole per le sonorità di Explosions In The Sky e Mono. Dischi come questo dimostrano che con intelligenza, personalità e gusto è possibile scacciare qualsiasi critica legata alla natura derivativa della proposta. (7.2/10) Riccardo Zagaglia
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The World Is a Beautiful Place and I Am No Longer Afraid to Die - Whenever, If Ever (Giugno 2013)
ma che sta iniziando ad autocitarsi e a risultare più prevedibile di quanto vorremmo. (6.7/10) Alessandro Liccardo
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Genere: pop “Giro, vedo gente, mi muovo e faccio cose, perché ho le vene artistiche, diciamo varicose”: sta tutta qua l’anima dei Galleria Margò, formazione nata tra Milano, Varese e Bologna che comprende Antonio Sarubbi, Stefano Re, Tony Santelia e Marco Paradisi. Un restare in bilico tra amabile presa per i fondelli della “scena” e di un microcosmo quotidiano (un approccio, in fondo, à la Jocelyn Pulsar) e un volerci rientrare per vie traverse in quella stessa scena e in quella stessa quotidianità (alla maniera dell’ultimo Edipo, seppur con uno stile musicale diverso). Tanto che in Paga tu si finisce per replicare filologicamente l’immaginario estetico de I Cani - imitazione o sfottò? -, per un disco d’esordio che comunque si appropria di un linguaggio cantautorale leggero ma non insipido, oltre che venato da una electro-pop ad ampio spettro. Tra recuperi baustelliani prima maniera (Dovessi mai) e certi Blur d’annata annusati da lontano (Glitter), Fuori tutto mostra una band affiatata, ma che riesce a rendere di più quando si allontana da tematiche giovanili in stile Mi-ami per scendere un minimo in profondità. Qualche buona idea e una musica orecchiabile, insomma, partorite da una personalità artistica che tuttavia non riesce a spiccare come dovrebbe - viste anche le buone capacità di scrittura - tra le proposte sul genere che escono a getto continuo. Fossimo alle pagelle di fine anno, scriveremmo “si impegnano, ma potrebbero fare di più”. (5.9/10)
Genere: blues-folk C’è chi affibbia alla sua musica definizioni come “haunted americana” o aggettivi come “dusty”. Certo è che Teresa Maldonado aka Georgia’s Horse pianta radici forti e ben riconoscibili in un certo Sud-Ovest americano. Un EP (Shepherd Ep) e un disco d’esordio (The Mammoth Sessions) pubblicati nel 2009 a cui la critica riconosce meriti e debiti formali nei confronti di Will Oldham, Smog ma anche P.J. Harvey: tanto basta alla musicista per creare un piccolissimo culto e arrivare - sempre su Fire Records - al qui presente Weather Codes. Un disco che conferma quanto di buono si è ascoltato in passato su queste frequenze, rinnovando un’estetica diy da “buona la prima” (quattro anni fa la stessa Maldonado dichiarava a The Quietus: “Non ho idea di come potrei fare a registrare in modo professionale. So come schiacciare questi bottoni: record, rewind, stop e un paio di altre cose”), un suono spettrale e languido su un parco strumenti elementare (chitarra, pianoforte, qualche batteria e poco altro, raramente suonati tutti assieme), una malinconia crepuscolare e lentissima. La stessa che con l’introduttiva Apple mette su un blues sporco e narcotico da manuale che recupera la prima P.J. Harvey intinta nel Mississippi, in A Long Ride Home e A Brick Hard Heart celebra la Cat Power pre-svolta Sun, in brani come Westlake ruba batterie The Jesus & Mary Chain indirizzandole verso le catarsi dello Springsteen più minimale, in The Bullet Sinks abbozza un’Anna Calvi dimessa ed ectoplasmatica. C’è tutto il sud rurale americano nei quattordici brani di Weather Codes, reinterpretazione personale di un isolamento da grandi spazi che è noncuranza estetica, geometrie ripetitive, blues bianco (Fancy non è poi così lontana da certe cose dei nostri, ultimi, Comaneci), ossessioni giovanili per la religione riconvertite in un mood
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Galleria Margò - Fuori tutto (Rocketman Records, Aprile 2013)
Georgia’s Horse - Weather Codes (Fire Records, Giugno 2013)
sospeso à la 16 Horsepower (in brani come Strep Throat, anche se con i toni dimessi e meno teatrali di una resa senza appello). Disco denso e dal fascino irrequieto, insomma, e tutto da scoprire. (6.9/10) Fabrizio Zampighi
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Genere: guitar solo Lo dice il nome stesso scelto da Bianchetti - già chitarra apprezzata nel giro Capossela ma non solo - per questo primo volume: di appunti si tratta. Di annotazioni, bozzetti, scritture asincrone e fermacarte sul flusso creativo. Un po’ alla maniera dello Strings opera di Stefano Pilia (e made in Musica Moderna) di qualche tempo fa, Bianchetti va di registrazione casalinga, pochi ospiti (Carlo Atti al sax e Davide Garattoni al basso, su tutti) e la giusta strumentazione di base (la chitarra, e poc altro) per elaborare un lavoro che è work in progress e insieme stato della (sua) arte. Giocoforza il tutto risulta eterogeneo, frammentato, spezzettato e incostante com’è giusto che sia dato che si segue il flusso creativo dell’artista: umorale e ondivago, fluttuante e mortifero, capace di impennate e retromarce. Capace di assorbire input tra i più disparati nel corso del decennio abbondante in cui ha collezionato gli sketch finiti poi in questo primo volume e su cui ha lavorato a forza di sovraincisioni (fa eccezione Mena per tampura e voce femminile, frutto di un improvviso getto creativo in quel di Lisbona): fingerpicking e canti africani (Marili, Vulvia e Flouferlanf estrapolate da un oscuro lavoro ghanese e ripensate da Bianchetti), improvvisazioni introspettive e rarefazioni, stasi ambientali e barocchismi etno-jazz, jazz leggero e cinematografico (The Red Duke) e molto altro ancora. Un lavoro “strano”, trasversale e particolare nel suo permettere all’ascoltatore di addentrarsi
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Stefano Pifferi
Gogol Bordello - Pura Vida Conspiracy (ATO, Luglio 2013) Genere: etno-punk Scorrendo qua e là le pagine web che lo riguardano, l’impressione che si ha considerando un personaggio come Eugene Hutz dei Gogol Bordello è quella di trovarsi davanti una sorta di Jovanotti dell’etno-punk. In altre parole, un ragazzo fortunato. Azzardato? Forse, ma chiariamo subito il motivo di un tale accostamento: dopo aver girato l’Europa in lungo in largo in seguito al disastro di Chernobyl, l’arrivo in America - la terra promessa, anche e soprattutto per i musicisti - e la successiva nascita dei Gogol Bordello ne hanno fatto una figura quasi mitica, una sorta di Strummer ucraino con l’aria finto stralunata e i baffi che nascondono un ghigno sornione. Come il Lorenzo nazionale, però, Hutz è sicuramente uno che sa vendersi bene, e che, ancora meglio, conosce esattamente cosa ci si aspetta da lui. Insomma, se il primo ha definitivamente assunto la posa del rassicurante pater familias che scala le classifiche a suon di ninne nanne, allo stesso modo il secondo ha capito già da tempo che giocare allo straniero mattacchione rende, e non poco. E così, la vera fatica per il recensore è avvicinarsi all’ultimo lavoro dei Gogol Bordello scrollandosi di dosso l’immagine del frontman nei panni del gipsy che piace a Madonna, cercando di ascoltare questo Pura Vida Conspiracy per quello che semplicemente è: dodici brani di etno folk-rock sporcati quel tanto che basta per apporre l’etichetta - seppur un po’ stiracchiata
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Giancarlo Bianchetti - Appunti Mozurk Vol. 1 (Brutture Moderne, Aprile 2013)
nel cuore del percorso creativo del suo autore, ma benvenuto proprio per questa sua apertura. Difficilmente capita di potersi infilare nel gabinetto d’autore, e questo è il caso. Approfittarne non farà male, ma anzi regalerà inattese pieghe e solide sorprese. (7/10)
Genere: garage rock Colori pastello, suggestioni nostalgiche e
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GRMLN - Empire (Carpark Records, Giugno 2013)
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Giulia Antelli
un’asciutta scenografia basata su melodie dreamy e chitarre dal sapore jangly-retro. Così il giovanissimo Yoodoo Park - in arte GRMLN - si era presentato lo scorso autunno tramite il biglietto da visita chiamato Explore EP. Ecco: ora fate tabula rasa. A pochi mesi di distanza GRMLN - ormai in formato band con l’aiuto del fratello Tae San e del batterista Keith Frerichs - debutta ufficialmente su formato lungo con Empire, un lavoro stilisticamente agli antipodi rispetto all’EP. L’attitudine wasted-youth tipicamente californiana - che ben maschera le origini giapponesi - prende il sopravvento: gli arpeggi agrodolci lasciano il posto a sporchi power chords e le malinconiche Summer Nights diventano festosi Summer Days. Una scelta ben precisa avvertibile fin dalle prime note dell’iniziale Teenage Rhytm. Due accordi in croce ed un apporto melodico che non ha nulla da invidiare ai successi targati Wavves, influenza piuttosto evidente lungo buona parte delle nove - brevi - tracce, registrate e mixate in soli 5 giorni. L’impianto DIY va a colpire un timbro vocale spesso trasfigurato da filtri e stratificazioni - e qui viene in mente Dead Gaze - che non fanno altro che aumentare l’inclinazione sguaiata del GRMLN 2.0. Sarebbe forse troppo facile scambiare i ritmi punk-pop di Blue Lagoon o gli abusati riff di 1993 per suoni provenienti da un gruppo di adolescenti chiusi in qualche garage della Bay Area, ma in verità in breve tempo brani come Do You Know How It Feels? rivelano una natura pop che farebbe comodo a parecchie rock band in cerca di un riscontro radiofonico. Il rischio di inciampare in soluzioni tanto immediate (il chorus di Hand Pistol) quanto di effimero destino è sempre in agguato, ma Yoodoo Park - con un po’ di fatica - riesce a farla franca apportando quelle variazioni sul tema che avrebbero aiutato il piuttosto monotono Explore: lo strumming acustico dell’indie-pop di Coastal Love, il giro di chitarra preso in prestito dagli anni ‘50 di
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- di punk. Chiariamo: non che Pura Vida Conspiracy sia un brutto disco. I brani scorrono via che è un piacere, a partire dall’opening We Rise Again, con l’intro a mo’ di haka e l’ormai consueto potpourri linguistico che già dai tempi di Santa Marinella contraddistingue il repertorio della band; stesso discorso per la successiva Dig Deep Enough, con l’acustica tex-mex a far da contraltare all’urlo negro di Hutz. Gli stessi echi latini che si ritrovano in Malandrino, un pezzo che, programmaticamente, sintetizza tutta la direzione dell’album, nonché la stessa ragione sociale del gruppo: un rock ultradiretto e furbetto in cui le suggestioni balkan e mariachi del violino e delle percussioni aggiungono ad ogni brano di una patina (pseudo) folk. La stessa formula delle prove precedenti - con l’occhio ancora strizzato a Clash e Pogues - ma che non basta a convincere che la bandiera gitana, dopo l’effetto novità degli esordi, non sia soltanto l’emblema di un esotismo forzato, per di più già visto e rivisto; perfino l’inglese meticcio e un po’ sbruffone del frontman, infatti, finisce per essere l’ennesimo espediente teso a ribadire che i Gogol Bordello sono l’ideale carovana della tracotanza scalmanata del global punk (Lost Innocent World) come del romanticismo sghembo a metà strada tra blues e ballo di San Vito (The Other Side of Rainbow). Brani senz’altro godibili che non mancheranno di animare feste e caciare estive, diretti - ahinoi più ai cultori del rock da falò in spiaggia che agli amanti della musica balcanica, perché, diciamocelo, la musica balcanica sta proprio da un’altra parte. (6.2/10)
Cheer Up e soprattutto la conclusiva Dear Fear, traccia che non avrebbe sfigurato nella compilation Punk Goes Acoustic (2003) nella sua indole a metà strada tra spleen esistenziale e momento corale da falò sulla spiaggia. Breve, diretto e dal peso specifico praticamente nullo, Empire è sicuramente un episodio minore nell’attuale stagione discografica, ma mette in luce due caratteristiche di Yoodoo Park che potrebbero tornare utili in futuro: imprevedibilità stilistica e un genuino istinto melodico. (6.1/10) Riccardo Zagaglia
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Genere: Soul Il primo disco dopo quattro anni segna una svolta parziale per Sean Tillman: approdato all’etichetta di Casablancas e messa su una vera band che lo segue anche live, il provocatore in mutande sembra voler privilegiare il musicista rispetto al personaggio. Non che non lo fosse anche prima (benché suoni strano sapere che ha fatto il percussionista in tour per i Neon Neon), ma questo nuovo disco sembra intraprendere un discorso magari non d’avanguardia, ma almeno con un idea più strutturata e compiuta di prima. Siamo sempre al gioco sulla black music, qui esplorata come in un catalogo: il doo wop (Lady You Shot Me), lo stomp (Don’t Make Me Hit You), il funky (Late Night Morning Light), lo Studio 54 (Prisoner, con Fabrizio Moretti), le ballatone da girl band (Restless Leg) ecc.. Una vetrina che si mimetizza bene all’interno del soul/r’nb revival recente: se Amy ripercorreva Aretha, Charles Bradley visita i secondi anni ‘60, The Excitements sostanzialmente pure e Nick Waterhouse va invece più indietro, il nostro spazia, ottenendo coerenza sia grazie al fatto di affidarsi ad un gruppo, sia con una produzione deliberatamente lo-fi, con un tocco personale dato da insertini di
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Giulio Pasquali
Henrik Schwarz/Marcel Dettmann/Marcel Fengler MASSE (Ostgut Ton, Giugno 2013) Genere: Ambient, techno Tre sound diversi esplorati da altrettanti coreografi, ognuno parte di uno stesso linguaggio, della medesima catarsi. Al centro un evento organizzato al Berghain di Berlino con i ballerini dello Staatsballett Berlin. Dunque Henrik Schwarz, e le due coppie Marcel Dettmann / Frank Wiedemann e DIN (ovvero Efdemin e Marcel Fengler) alle prese con questo Masse per l’etichetta OstGut Ton (che del famoso locale, è il braccio discografico). Apre i lavori una sezione di sei brani, la parte più metafisica e astratta dell’intera tracklist. Il materiale è affidato a uno Schwarz che, a discapito della discreta fama come dj e produttore deep, si cimenta nella tessitura di paesaggi sottilissimi e rarefatti dove, al posto del beat, rimbalzano echi di vaghi panorami elettroacustici, talvolta anche poetici ma, in generale, (almeno ad un ascolto che prescinda dalla visione dello spettacolo di danza) piuttosto gratuiti. When Things Are Difficult è il momento più interessante: una leggerissima cassa s’incrocia a un gommoso synth bass e varie diramazioni tra droni di plastica e violini che iniziano a seguire un andamento ritmico tanto prevedibile quanto liberatorio. A Dettmann e Wiedemann è affidato un trittico
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Har Mar Superstar - Bye Bye 17 (Cult Records, Maggio 2013)
chitarra distorta e/o di synth affogati nell’impasto sonoro generale. Il risultato è anche divertente, poi però qualche testo incappa nelle solite scivolate nel cattivo gusto, e www sembra una copia di un pezzo di per sé già ultraclassico come la Last Kiss ripresa a un certo punto anche dai Pearl Jam. Si gioca, insomma, ma seppur tra alti e bassi, lo si fa un po’ più sul serio. (6.5/10)
Genere: drone folk Esiste un punto di contatto tra la psichedelia desertica made in Earth, il solipsismo westernisolazionista del Neil Young di Dead Man, i vuoti pneumatici e astratti di certe derive post-(ma molto post)-metal come i Sunn O))) e forme folk stranianti per drammaticità e visionarietà? La risposta è affermativa e assume le sembianze di un
Stefano Pifferi
iamamiwhoami - bounty (Cooperative Music, Giugno 2013) Genere: electro art pop Prima l’idea, poi la sua realizzazione a 360°: il pro-
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Henryspenncer - Canyons (Trips Und Traume, Aprile 2013)
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Michele Ferretti
francese poco più che trentenne, Valentin Fèron, che dopo aver trafficato con alcuni dei generi su citati in altri progetti e formazioni, non disdegnando anche i panorami da colonna sonora, si trasfigura ora sotto la sigla Henryspenncer. Ed è una trasfigurazione matura e consapevole, quella che disegna un album nero pece in cui ad alternarsi sono pochi ed essenziali strumenti - chitarra acustica ed elettrica, qualche botta di moog qua e là, una batteria (quando presente) elettronica - capaci però di creare paesaggi tanto visionari quanto cinematici. Inclinandosi ora verso le derive più mistiche ed esoteriche del folk, ora giocando di alternanze e riempiendo di epica elettricità i vuoti (il crescendo di Nebula), altrove dimostrando una cerca predilezione per reiterazioni e stratificazione di cifre chitarristiche o giocando con svisate acustiche di derivazione psych-bluesy e lancinanti solo di armonica (Canyons) che ne accentuano la resa visiva/visionaria, il nostro dimostra sagacia e aderenza ad un canone latamente riconoscibile. O ancora, rinverdendo l’onnipresente fascino dell’oscurità dronica, tratteggiando paesaggi lunari infestati da occulti spiriti ancestrali (la lunga nenia ancestrale Mirages) o rievocando quella latente tendenza alla desertificazione interiore cui accennavamo in partenza (una Eclipse deadwestern classicissima nel suo andazzo evocativo), le atmosfere si fanno diradate, solitarie, inquiete e a tratti minacciose (il doom celato nella conclusiva Sarah) dicendo molto dello spessore e della variegata gamma espositiva del proprio autore. Uno splendido outsider per ascolti solitari e notturni. (7.2/10)
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della durata complessiva di venticinque minuti circa, in pratica, un Minuetto. Gusto dancefloor per entrambi qui, modalità meno estreme di quelle di Schwarz per qualcosa di più trad club, dove i bass clamorosi della techno diventano tanti piccoli accenti adatti per movimenti leggeri e di piccoli passi. Il loro Martellato è forse l’episodio più sorprendente dell’intero disco, mentre l’ossimoro Spiritoso è uno dei più profondi e meglio riusciti. DIN è il blocco più oscuro di tutto il pacchetto: aperte le danze con un’introduzione pianistica e neoclassica, scoprono il vaso le atmosfere oscure (né più né meno che coi soliti stantii cliché dei drone) dei rumori in lontananza, del beat ultralento nel quale non si rintraccia frequenza oltre i 250 hz, il tutto con un discreto e seducente gusto per il climax e senso estetico. Qui e lì un po’ di percussività à la Cut Hands (Variation) e paesaggi IDM (Division). Difficile capire quale sia il valore complessivo e la coerenza dell’opera intera, senza il relativo spettacolo di danza. Le produzioni in scaletta, tuttavia, ognuna con una distinta personalità e intuizioni anche brillanti, concorrono per un risultato pregevole. Non tutto è sullo stesso piano, beninteso. Sicuramente laborioso l’excursus sonoro di Henrik Schwarz ma, nel complesso, l’ascolto è consigliato. (6.7/10)
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più corposi - vagamente Machine Gun dei Portishead - di ; john. Nota a margine: caso vuole che buona parte dei dodici milioni di visualizzazioni del video di y sia il risultato della commistione tra l’autocomplete del motore di ricerca e la pigrizia di utenti che si fermano alla lettera y nel digitare youtube. Se è vero che conoscevamo già tutto di bounty, è anche vero che qui si tratta di collezionismo: poco importa se i risultati commerciali dell’operazione targata Cooperative saranno inferiori rispetto all’incredibile hype generato viralmente via Youtube tre anni or sono: chi ha tra le mani una copia fisica di kin non può rinunciare all’acquisto di bounty, sotto tutti gli aspetti il suo completamento simbiotico. Qui per Jonna Lee e il fido producer Claes Björklund si conclude la prima parte di carriera a nome iamamiwhoami. Ripetere l’accaduto, sia a livello di modalità che di realizzazione, sarà difficile. Staremo a vedere. (6.9/10) Riccardo Zagaglia
Ikonika - Aerotropolis (Hyperdub Records, Luglio 2013) Genere: House, 80s, steps E’ il 2010 quando Ikonika pubblica l’esordio Contact, Love, Want, Have. Il dubstep classico, inabissatosi lentamente nel biennio precedente inizia a prendere parecchia acqua negli scafi e da quel punto in poi diventa chiaro che la fase successiva è o il revisionismo o la mutazione con la prima a tradursi in un ripensamento della battuta spezzata lungo il continuum ardkore e la seconda a significare un tuffo nei continuum culturali del dancefloor, techno in primis (2562, Scuba, Untold, Martyn, Pinch) ma anche house (Falty Dl, Joy Orbison). In convergenza c’era la footwork, grande scommessa di quei mesi (e terreno più elitario oggi), di lato, a destra, i vari futuri pensati alle tastiere (l’album di Kuedo nel 2011 che ci porterà a quello
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getto iamamiwhoami oltre ad essere fortemente contestualizzato nell’attuale ecosistema mediatico internet-centrico, è anche uno dei case-study più interessanti a livello di marketing applicato alla discografia. Multimedialità all’insegna del non detto, del lasciato intendere, del mistero controllato. L’operato targato iamamiwhoami per il momento è delimitato nell’arco temporale che va dal 4 dicembre 2009 (primo video caricato sul proprio canale) al 5 giugno 2012 (videoclip di goods), periodo in cui la mente Jonna Lee ha collezionato qualcosa come venti milioni di visualizzazioni su Youtube. Da allora un processo a ritroso, prima con la release dell’album kin e poi con la raccolta-prequel intitolata bounty. Se kin si concentrava sui singoli brani pubblicati nei primi mesi del 2012, bounty fa invece perno sulla sequenza di tracce rilasciate online dal 14 Marzo 2010 al 31 luglio 2011: b, o, u-1, u-2, n, t, y, ; john e clump. L’astrazione dell’art-pop attraverso l’elettronica di stampo svedese (The Knife) era chiara fin dalle prime battute disordinate di b, ma è stato forse con la successiva o che il talento - in quel momento ancora d’identità enigmatica - di Jonna Lee ha iniziato a convincere anche chi all’epoca provava scetticismo nei confronti di un progetto ambizioso e per certi versi artistoide. Protagonisti i ritmi electropop ed una grande intelligenza nel saper dosare sperimentazione e melodia, ma non solo. Ad esempio l’accoppiata u-1 e u-2 - benché non rappresenti uno dei passaggi più riusciti del lavoro - mette in luce la versatilità stilistica: da un lato le atmosfere haunting dell’ambient-pop u-1 e dall’altro le derive clubbing di u-2. Tra gli episodi migliori abbiamo l’ondeggiare inizialmente subacqueo e poi cadenzato di t, il dream synthetico di n e i due capitoli che possono forse vantare un appeal tendente al pop, nonostante gli oltre sei minuti di lunghezza: i minimali risvolti electro-Eighties di y - e i beat
Il Maniscalco Maldestro - ...solo opere di bene (Maninalto, Maggio 2013) Genere: Art rock A pochi mesi dalla pubblicazione di un Ogni cosa al suo posto che aveva celebrato la rinascita dopo la crisi, e superata qualche incomprensione critica di chi non ha tanto digerito gli esperimenti elettronici di quell’album (comunque sempre misurati e di gusto, oltre che presenti anche sul
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Edoardo Bridda
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arriva puntuale. Sara riesce a suonare leggera, avvincente e intelligente senza che tutte le tastiere analogiche e i cliché videoludici la ignottano in un mare di sterile citazionismo tanto più che la tracklist esplora lo spettro di possibilità offerto dai soliti trituratissimi Ottanta (e fine Settanta) elettronici affrontati questa volta di petto sia a livello della molteplicità delle possibilità melodiche sia tecniche. Oltre al consueto trademark fusioneggiante da crack intro diffuso a prezzemolo (Eternal Mode, Lights Are Forever), in Aerotropolis troviamo della sana esplorazione di stampo retro-futuristico à la Planet Mu (Completion V3, Cryo, Backhand Winners) decisamente maturata rispetto agli antipasti offerti dall’esordio, dell’house che è anche un po’ electro che è anche un po’ space funk e tanto di primo feat. vocale (Jessy Lanza in Beach Mode (Keep It Simple)), synth pop / techno d’antan (Mr Cake e oltre), un pizzico di abstract trap dalle parti di Zomby (Mega Church con il feat di Optimum) e una buona manciata di ghetto rhythm (Manchego, You Won’t Find It There) il tutto rotondo, colorato e dotato di un bello scarto dinamico rispetto dall’esordio. E’ quanto basta per parlare di un album da tenere in considerazione tra le uscite dell’anno pur senza numeri che spiccano su altri. Pur senza che ci sia il bisogno di sentir sganciare la bomba per alzar il voto. (7.1/10)
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di Mu-Ziq di quest’anno), in mezzo la bolla del post-dubstep, etichetta che se non piglia tutto, di certo è la più comoda da usare (Blake, Floating Points) e di lato, a sinistra, il grande fermento wonky (il post-Dilla), l’aquacrunk e il purple sound, i ritmi sincopati, l’elettro-funk, l’amore per l’8 bit (vedi anche uno obliquo come Zomby), le fregole fusion (vedi FlyLo) e, in generale, la fissa per l’intero spettro delle analogiche e un ritorno continuo agli 80s che appartiene un po’ a tutti. All’interno di questo ricamo arriva Ikonika sulla lunga distanza con il suo UK Funk venato dubstep e un forte immaginario videogame. Con lei però è un po’ come tornare nei pieni Duemila della scena 8bit ma anche come mettere un piede in una zona franca tutta virtuale dove puoi trovarci della vintage ebm come idm, dei landscape bladerunneriani come spirte, frattali e altre cianfrusaglie 80s, tutte rigorosamente in ordine sparso senza che la retromania prenda mai (completamente) il sopravvento. E così Sara Abdel-Hamid diventa subito un caso. La formula pur non facilissima, piace e affascina e, nel frattempo, la producer spazia e si fa conoscere sia come dj sia come label manager fondando assieme a Optimum la Hum + Buzz. Per quest’ultima esce un EP nel 2012 che è l’unica nuova musica in un’annata piuttosto silenziosa. Le nuove tracce introducono ritmi più serrati e aggressivi e dunque un personale avvicinamento al citato dancefloor tra house, techno e acid. Come dichiarato a Resident Advisor la producer è stufa di tutta una serie di modalità del fare elettronica, compresa l’estetica 8bit che l’ha resa famosa. Si ritira in studio. Ascolta un bel po’ di “classic house and a little bit of techno and a lot of old ghetto tunes” e sforna Aerotropolis cercando, nel contempo, di mautrare una visione senza rinunciare a un sano e giocoso bisogno d’escapismo a bassa risoluzione. La conferma del talento della producer in quest’incastro di vecchie e nuove tecnologie
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un altro richiamo Battistiano - diremmo quindi “uggiosa”. Un disco con una forte unità se non tematica almeno d’umore per quanto riguarda i testi, che musicalmente rivela finezze e ricerche in modo graduale, ben armonizzato nei passaggi tra un pezzo e l’altro, perfino nei contrasti e nelle opposizioni; soprattutto, un disco che con gli ascolti attenua l’impressione che l’immediatezza e la spontaneità abbiano chiesto pedaggio alla raffinatezza. (7.1/10) Giulio Pasquali
Iron Tongue - The Dogs Have Barked, The Birds Have Flown (Neurot, Maggio 2013) Genere: southern metal Disco insolito per la Neurot, questo debutto degli Iron Tongue. Insolito perché non siamo di fronte all’ennesimo doom metal apocalittico, ma a un disco southern. C’è da credere che gran parte del merito sia riconducibile al cantante Chris “CT” Terry (già in seno alla Neurot con i Rwake), uno davvero appassionato in materia tanto da aver firmato qualche anno fa un documentario sulla scena southern metal dal titolo Slow Southern Steel. The Dogs Have Barked, The Birds Have Flown è un debutto non proprio calibrato: c’è qualche passaggio a vuoto e una certa ridondanza in queste sette tracce. E’ un disco che ha anima però. C’è una buona dose di blues nella musica degli Iron Tongue, quel blues che spesso è lo stesso dei Lynyrd Skynyrd perché l’iniziale Even After potrebbe essere la loro Simple Man 2013, ma che in ogni caso gode di buona personalità sfoderando incroci tra chitarre steel e batterie doom (Moon Unit), sporcando il metal di 7 Days con del grunge ‘90s a là Alice in Chains per poi rifinire, di nuovo, nel basso Lynyrd con Lioness raggiungendo uno dei momenti più alti del disco.
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precedente), il quartetto volterrano rientra in studio sull’onda dell’entusiasmo ritrovato e in venti giorni registra un nuovo disco. L’impressione iniziale è che lo slancio abbia generato un approccio più diretto e “semplice” rispetto alle consuete sperimentazioni dei Nostri: la follia è sempre al suo posto, ma lo sguardo satirico, stralunato e surreale lascia spazio anche a un po’ più di incazzatura vera, su un tappeto musicale più quadrato del solito. Si veda ad esempio la coppia iniziale di brani, col punk-hard di Cervelli in fuga e i passaggi tra Primus e boogie di Briciole (dove però a metà la tensione cala, su uno stacco tra ambient, lirica e morbidezze di violino), l’hard rock quadrato del satirico singolo Al diavolo, con le declamazioni da predicatore disturbato e le citazioni argute (il tema di Pinocchio o i versi “gli economisti in coro: / Chi ha preso il mio tesssoro?”) o magari il rock abbastanza classico di La valigia di cartone. E segue i binari consueti del gruppo anche il misto satira sociale/canzone d’amore di Piove (costruita a partire dal dannunziano “Piove su di noi”, che già Pelù riprese ai tempi di Louisiana). Ma in Niente d’importante si riparte mescolando a tavoletta ragtime e Balcani, per proseguire tra strofe Buscaglione - allievi di Paolo Conte e un ritornello gipsy punk; si rilegge la battistiana Nessun dolore tra electrofunk e esplosioni hard; si azzarda la ballata dagli echi Pacifico di Parole; si swinga blues in 2/4 con echi anni ‘30 (o di certo Rondelli) in Confessioni di un italiano medio; si mescola rabbia, electro, funk e noise in Declino lento, uno dei centri tematici del disco, ma anche nell’appello di Non sento niente, con la sua apertura impertinente di piano e un ritornello che strapazza l’idea di cantabilità. Il lento finale su piano elettrico di Resto qui non ha nulla di quella malinconia leggera del quasi omonimo brano di Capossela, è solo un affidare i titoli di coda a una canzone più di scoramento che d’amore, con quella “vita mai spesa” che è
Dunque la sostanza è questa: si prende il blues, si taglia il country del southern rock e ci si sbatte dentro il metal. Pazienza se rimane un ascolto più legato al popolo southern che a quello heavy: The Dogs Have Barked, The Birds Have Flown è comunque un buon debutto. (6.9/10) Stefano Gaz
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Fabrizio Zampighi
Jonny Blitz - Musica per chi lascolta la prima volta (Autoprodotto, Maggio 2013) Genere: pop/rock Una volta tanto lasciamo da parte le inquietudini del cantautorato, spogliamo il rock di quella spocchia intellettuale che ultimamente sembra essere la posa preferita di molti gruppi nostrani, vecchi e nuovi, e puntiamo le orecchie verso una band e il suo esordio con quella leggerezza che la musica dovrebbe sempre avere. Stiamo parlando dei romani Jonny Blitz e del loro Musica per chi l’ascolta la prima volta: nove brani in perfetto equilibrio tra irruenza rock and roll e orecchiabilità pop. Già dal titolo del disco, come dalle parole con cui si presenta il gruppo (“quattro amici al bar che suonano la musica che vorrebbero ascoltare, nella speranza che raggiunga le orecchie più
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Genere: rock Con il fuoriuscito Bill Ryder-Jones avviato verso una carriera solista di tutto rispetto e per certi versi anche coraggiosa - all’attivo ottime uscite come If... e l’ultimo A Bad Wind Blows In My Heart -, anche il James Skelly front-man dei Coral decide che è arrivato il momento di lavorare in autonomia. E così, accantonata per qualche tempo la parabola artistica della band inglese, il Nostro se ne esce con un Love Undercover che spariglia un po’ le carte senza rivoluzionare poi molto. Innanzitutto rimane intatta e ben in vista la vena pop della band madre - non disperino i fan di vecchia data, qui c’è pane per i loro denti -, poi si aggiusta il tiro per seguire passioni giovanili mai sedate: il suono R&B nero anni Sessanta, ma anche tutto l’immaginario classic rock americano dei Seventies. Da questa copula senza protezioni nasce un disco rotondo e formalmente impeccabile, presentato da un trittico d’apertura che toglie il fiato: la You’ve Got It All scritta a metà con Paul Weller è un beat Motown su soul bianco trascinante, Do It Again è un boogie-blues con tanto di slide guitar che più classico non si potrebbe, Here For You ricorda il Van Morrison meno psichedelico e più melodico. Il resto della tracklist non è sullo stesso livello, pur suonando godibile e mostrando qualche buona intuizione in una Sacrifice che porta dritto a Tom Petty & The Heartbreakers, nel reprise The Coral di Sear-
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James Skelly & The Intenders Love Undercover (Skeleton Key, Giugno 2013)
chin’ For The Sun e I’m A Man (con qualche aggiustamento a tema, ovvero una ritmica country nel primo caso e certe trombe mariachi nel secondo), in una You And I che non sarebbe dispiaciuta agli Eagles più ispirati e in una Turn Away a metà strada tra gli Stones di Some Girls e l’Eric Clapton di Wonderful Tonight. Bei suoni, belle melodie, qualche ottimo brano, un notevole potenziale FM, ma soprattutto la voglia di fare propria, con un lavoro certosino, una calligrafia che nel caso di James Skelly non lascia molto spazio all’immaginazione. È tutto qua, Love Undercover, e sono tutti qui i suoi difetti. Il più grosso, il fatto che sulla lunga distanza, a guardarlo con un piglio un po’ smaliziato, non mostri sbavature da manifattura artigianale, attriti o magari personalizzazioni che ne garantiscano una certa vitalità. Tutto troppo prevedibile? Forse sì, ma in giro c’è decisamente di peggio.
Giulia Antelli
Kalabrese - Independent Dancer (Compost Records, Maggio 2013) Genere: house, disco Altro che neo-partigiani sbarbatelli, chiedetelo al veterano Sacha Winkler, in arte Kalabrese, cosa vuol dire essere un vero Independent Dancer. Perché il titolo del suo nuovo attesissimo lavoro, uscito a distanza di ben sei anni dall’osannato debutto che demolì a colpi di fusion le barriere tra indie ed elettronica, Rumpelzirkus, è un atte-
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stato d’indipendenza a dir poco masochistico. E i contenuti non sono da meno, considerando che, incredibile ma vero, l’album non si muove di un passo rispetto al precedente, guardandosi bene dall’apportare elemento di novità alcuno. Quando ovunque la smania di sperimentare a tutti i costi sembra aver preso il sopravvento sull’autenticità, trovare il coraggio di fermarsi, semplicemente mantenendo inalterato il proprio stile, è roba da sovversivi. Eppure, che indipendenza e coerenza facciano rima, il nostro Erlend Øye elvetico lo dà fin da subito per scontato, puntando su ciò che in assoluto fa la differenza tra un vero artista e i mille emuli-aspiranti-a: la capacità di rendere la sua musica riconoscibile a occhi chiusi, inconfondibile anche per l’orecchio meno allenato. Peculiarità questa che oggi è dono di pochissimi alfieri del genere come lui, James Murphy, Nicolas Jaar, e non ultimo Kindness (World You Need A Change Of Heart ne è la prova). Non a caso, ognuno di essi rientra tra i (numerosi) conclamati punti di riferimento del disco (basti pensare che a Murphy Kalabrese ha aperto il tour nel 2012), affiancati ai contributi dei tanti preziosi collaboratori: dal caldo e sensuale timbro folk-funky di Sarah Palin in Purple Rose e Fresh And Foolish - da non confondersi con la leggendaria originale, al falsetto del mentore/collega A. C. Kupper sulla dub-linea di synth disco di Let The Good Time Roll - fino all’epico assolo blues di Khan su Desperate Man, pezzo tra l’altro incluso in uno dei suoi podcast proprio da Jaar. Non dimenticando le strizzatine d’o(re)cchio ai generi vintage più disparati: non solo blues, jazz e funk, ma anche nu-bossanova (Stone On Your Back), afro-swing (Wazka), cosmic-disco (Silhtal). Citazioni mai troppo approfondite, bensì metabolizzate con una compiaciuta vena di sussiegosa superficialità, mantenendo un insieme di indubbia qualità, calibrato e confortevole, in cui manca il picco, al pari della caduta; e agli scimmiottamenti belli e buoni, si preferiscono essenziali rifiniture
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disparate, anche quelle a punta”) è chiaro che la maggiore preoccupazione di Marco Santoro e soci sia soprattutto quella di divertirsi a colpi di chitarra elettrica e melodie contagiose, riuscendo a intercettare l’orecchio dell’ascoltatore in una manciata di ascolti. L’impeto rock di Perlomeno mostra come, senza prendersi troppo sul serio, sia possibile coniugare immediatezza radiofonica e sostanza dei contenuti, anche a livello di testi: è il caso di Tsunami - uno dei pezzi più riusciti del lotto -, che mette insieme romanticismo d’autore e storie da bar sport, attraverso un solido tappeto sonoro costruito su chitarra e batteria e la buona vocalità del frontman. I modelli di riferimento attingono tanto al rock danzereccio in aria Strokes quanto al brio lirico dei Perturbazione, anche se non mancano nè un certo gusto per gli inserti electro, come mostra Centro, né la capacità di mettere insieme jingle frizzanti, con brani divisi tra freschezza pop (Estate) e atmosfere da aperitivo in spiaggia (Isola) à la Nobraino, altro esempio di quel rock da balera condito da una dose massiccia d’ironia. Un buon risultato per una band la cui unica pretesa sembra essere quella di divertirsi e far divertire, libera dalla disperata ricerca di uno stile proprio e per questo senz’altro riconoscibile: il giusto mix tra immediatezza e cura negli arrangiamenti, in attesa di vederli in azione sul palco. (7/10)
Genere: synth-pop Il secondo album dei Kisses è co-prodotto da Pete Wiggs (Saint Etienne) e Tim Larcombe (Lana Del Rey, Sugababes) e la pulizia del suono, qui al netto di riverberi salvagente e spurie lo-fi “da cameretta”, è l’unico vero séparé dal The Heart of the Nightlife del 2010. Non c’è infatti da farsi fuorviare dai toni scalati in minore - leggi: raffreddati - dei sintetizzatori: Kids in L.A. resta, tanto quanto il predecessore, un album profondamente estivo. Magari soltanto da fascia oraria più avanzata nelle giornate a bor-
Massimo Rancati
Kodaline - In a Perfect World (RCA, Giugno 2013) Genere: pop-rock Avevamo lasciato i Kodaline alle prese con un omonimo EP di debutto inoffensivo nei suoi quattro passaggi a rischio zero e ben descrittivi di uno spettro sonoro - per quanto ben presentato abbastanza limitato.
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Kisses - Kids in L.A. (Splendour Records, Maggio 2013)
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Sarah Venturini
do piscina, comunque incardinato nell’estetica dell’ascendente Cascine per cui esce in America (si guardi al Young Hunger di Chad Valley) e, di riflesso, influenzato dal pop nordico. L’amore per la Scandinavia, peraltro, non si rileva unicamente nei mutuati tratti ricorrenti (bassline à la New Order, languori disco ‘80, chitarre d’indole laid-back e sfumature tropical), ma anche e soprattutto nel cantato di Jesse Kivel che, per caratterizzazione timbrica ed intenzioni, sarà probabilmente la cosa più vicina a Jens Lekman che avremo modo di ascoltare quest’anno. È dunque un enorme peccato che il nostro riesca a replicare la leggerezza spigliata del songwriting del Maestro svedese in un unico episodio (Funny Heartbeat) mentre la narrazione delle vicende dei suoi personaggi - quelli di un nuovo The O.C. scaturito dall’attualizzazione del Less Than Zero di Bret Easton Ellis - per il resto non brilla, né coinvolge. Sul lato prettamente strumentale, viceversa, Kids in L.A. dà costante, discreta soddisfazione e rilancia la proposta sia quando ingrana il groove killer (The Hardest Part), sia quando indovina delle azzeccate variazioni sul tema (le mimiche R&B di Huddle, lo sfarfallio dei cori al vocoder di Zinzi Edmundson in Air Conditioning). Va a finire, insomma, registrando comunque un progresso nel repertorio del duo: le canzoni da qualche memorabilità, sommando le appena menzionate a quella Bermuda che attendeva compagnia, salgono a quota cinque. (6.2/10)
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stilistiche che alla personalità del disco non tolgono nulla, anzi contribuiscono a sottolinearne maggiormente i contorni distintivi. Ma lo spauracchio dell’esercizio di stile è dietro l’angolo. E verso la fine, l’album pecca di eccessiva indulgenza, cadendo vittima della prosopopea dei suoi tredici brani, di cui la metà lunghi più di sei minuti. Ad un certo punto, l’impressione è che si esaurisca in sé stesso, piuttosto che giungere ad una naturale conclusione. Anche se in fondo è proprio questo il suo bello. Brillante e stimolante, come tutte le scommesse che si rispettino, Independent Dancer si può permettere pure di diventare irriverente, persino irritante. Di certo, è un disco avvolto in un pacchetto piuttosto impegnativo da scartare: non va da nessuna parte, perché è già esattamente lì, non facendo altro che soffermarsi allo specchio, gongolante. E se l’artwork in copertina ce lo presenta come una specie di redivivo maestro di sonnambulismo TaiChi, non facciamoci ingannare: Kalabrese ama ballare da solo, non preoccupandosi in nessun modo di invitarci a farlo. A noi la scelta se seguirlo dunque. Nel segno dell’indipendenza, sempre e comunque. (6.9/10)
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so buone parole - ad alzare il livello delle composizioni o anche solo a risvegliare un ascoltatore probabilmente già sopito. L’insipida triade Big Bad World, All Comes Down e Talk in questo senso, è il colpo di grazia. Se anche il brano di punta dell’album - che rimane All I Want - ha probabilmente già stancato i più, è facile intuire che un disco come In a Perfect World dovrà aggrapparsi a qualsiasi strategia di marketing per non finire in breve tempo nel - meritato - dimenticatoio. (4.7/10) Riccardo Zagaglia
Kode9 - Rinse 22: Kode9 (Rinse, Maggio 2013) Genere: Elettronica UK Kode9 nel 2013. Le solite sovrapposizioni bastarde, i tagli secchi, il bass che stordisce spugnoso come una botta di qualche droga veloce, l’elettrobricolage eminentemente brit, quindi ok la uk bass e lo uk funk e tutto come da tradizione pirate radio, la bandiera sventola e il ritmo che segue le onde sull’asta. Si parte, anzi ci si mette comodi, con le tribute del caso all’Hyperdub hero Burial con Truant, poi un funky tastierato in bassa risoluzione con Theo Parrish che male non fa (Kites On Pluto), souldubstep e carezze sotto le coperte con Morgan Zarate e Roses Gabor. Un intermezzo con un fantasmatico Lee Scratch Pery “secret agent”. Dopodiché c’è l’ottovolante bass, funk, future garage, purple sound o Vice Versa. Aperto da Terror Danjah & Champion (Stone Island), in samba, un bel blocco intermittente di 808 trappista e HH via gusto Glasgow (c’è anche il singolo di Rustie di quest’anno, Triadzz) come grime, lo stesso Kode9 ci si mette (Uh) e Kuedo da incanto nel girar raggi di biciclette in malinconia fluo (Mirtazapine). E piccola bombetta: Dexplicit con Wave Machine. Parte finale: il muro molle del footwork con una
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I sogni da stadio di Steven Garrigan e compagni iniziarono molti anni prima quando, nel 2007, parteciparono a You’re a Star, una sorta di X Factor irlandese. All’epoca si chiamavano 21 Demands e riuscirono a raggiungere un successo, pur sempre circoscritto al territorio locale, grazie al singolo Give Me A Minute. A sei anni di distanza provano a dare lo slancio definitivo alla seconda fase di carriera con l’album di debutto a nome Kodaline intitolato In a Perfect World. Dopo un EP che aveva principalmente il compito di mostrare al mondo le peculiarità stilistiche della band, per In a Perfect World le strade percorribili erano due: lasciare che un flusso compositivo meno cauto donasse sfumature imprevedibili alla loro proposta o agire con il freno a mano perennemente tirato cercando di risultare il più possibile appetibili al grande pubblico. Chiaramente, trattandosi di un disco pubblicato da una major, si è scelto di seguire la seconda direzione. Un incrocio tra un trasporto emozionale tendente all’epico (un po’ Tom Odell e un po’ Dry The River) e una magniloquenza così strappalacrime da risultare pedante, oltre che noiosa. Già dalla prima traccia (One Day) si avverte una stanchezza compositiva e la mancanza di un appeal che vada oltre una melodia radiofonica che lungo la durata del disco fatica comunque ad emergere. E’ proprio qui che va forse a cadere il “E allora ben vengano i Kodaline”, azzardato in riferimento alle ultime debacle artistiche di Muse e Coldplay. Tra distese pop-rock da soap opera (Brand New Day, tra Coldplay e Snow Patrol) troviamo tattiche folkish che puzzano di plastica nella loro non autenticità - i Mumford & Sons in confronto, sembrano sporchi camionisti del Texas - pur riuscendo a centrare l’obiettivo in un paio di occasioni, soprattutto nei saliscendi armonici di Love Like This. Si peggiora nella seconda metà del disco dove più che mai i Nostri faticano - se si esclude Pray, brano per il quale avevamo già spe-
bella all star di storici pionieri del genere: un Dj Rashad a dominare il mix sia in solo che in combutta con i compari chicagoani di sempre tipo DJ Spinn e DJ Manny. C’è spazio anche per un pizzico di dubstep subito sfumato in coda soulbalearica, giusto un Addison Groove con Sam Binga (11th), sempre roba fresca messa dentro un ring di stepping chicagoani spalmati di glassa ghetto house. Con Let It Go in uscita, traccia 38, se ne esce stonati, stonatissimi, come dopo una championship di Vindaloo al ristorante indiano, ma col sorriso giallo della maglietta. (7/10) Edoardo Bridda
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Genere: Rock Dopo aver reintegrato Piero Pelù (con tanto di cancellazione dei dischi con “Cabo” dal canone, ovvero dalla discografia del sito ufficiale), e dopo aver pubblicato un live con inediti e un nuovo album col figliol prodigo, è tempo di retromania anche per i fiorentini. Anch’essi infatti si gettano nella formula “Tour in cui il grande/i grandi X suonano lo storico album Y” e dopo il concerto in cui riproponevano 17 Re, dedicano una tournée al loro periodo anni ‘80, ricostruendo anche, per quanto possibile, la formazione originale . Quel periodo lo chiamano la “Trilogia del potere” , ma di fatto consiste nel periodo veramente fecondo e interessante della band, prima della repentina svolta che, con la sola tappa di Pirata, li vide mollare l’indie e la ricerca per passare armi e bagagli ad un remunerativo rock muscolare, con tanti saluti anche al raffinato equilibrio con cui Pelù si manteneva tra follia, grottesco e arguzia. Tutto ciò è arcinoto, e il commento che verrebbe da fare è che finalmente l’abbiano capito anche loro cos’è che vale davvero all’interno della loro opera. In realtà le canzoni di quel periodo non hanno
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Litfiba - Trilogia 1983-1989 (Sony, Marzo 2013)
mai smesso di suonarle, e anche in Stato Libero di Litfiba, il live che celebrava il rientro di Piero, non mancavano brani dell’epoca. Ma il nuovo stile abbracciato dalla band a partire da El Diablo si ripercuoteva anche sui nuovi arrangiamenti live di quel repertorio, con risultati talvolta agghiaccianti (vedi la versione di Eroi nel vento conservata, purtroppo, nell’antologia Sogno Ribelle insieme a una Ci sei solo tu spietatamente intamarrita). Ora si torna a formazione e repertorio d’epoca in modo più organico, ma accanto alla domanda se fosse necessario l’ennesimo live, non mancano i timori di chi vorrebbe tornare a sentirli ma ha paura di finire a sentire versioni imbolsite delle canzoni di una stagione magica (anche se le versioni di Stato.. in generale non erano tremende, e oltretutto riguardavano per lo più brani esclusi da questo disco). Già con l’iniziale Eroi nel vento, però, si sente che l’atmosfera è un’altra: è quella dell’epoca, quella di un universo musicale che pur nell’articolazione tra la gioventù di Desaparecido, la compiutezza di 17 Re e i primi scricchiolii del pur notevole Litfiba 3, possedeva un’unità che lo separa dalla fase successiva. Si cerca anche di tornare a versioni simili a quelle del tempo, con variazioni probabilmente messe a punto per lo più in quel periodo, mentre i brani mettono in sequenza una selezione cronologica (a parte il finale con Resta e Tex) che include anche qualche gradito recupero dai singoli coevi (Transea, Versante Est, Elettrica danza: a proposito, a quando un’edizione seria su cd, invece dello stillicidio con cui ne compare una ogni tanto su una qualche antologia?). Certo, non manca la ruggine: un po’ l’età, un po’ Pelù che arranca (ma a inizio tour è anche normale, e succedeva anche nel primo live Aprite i vostri occhi solo che lì era la fine della tournée la causa della stanchezza) con venti anni di coattate che qualche traccia la lasciano - e questo è pur sempre il gruppo che solo l’anno scorso ha alzato l’asticella del suo ridicolo col singolo Lo Squalo.
Giulio Pasquali
Lui sono io - Storia di una corsa (Brutture Moderne, Maggio 2013) Genere: cantautorato Un altro tassello va ad aggiungersi a quel mosaico brulicante che è oggi il cantautorato italiano: parliamo del duo Lui sono io - formato dai roma-
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gnoli Federico Braschi a voce e chitarra e Alberto Amati al basso - che debutta con Storia di una corsa. Braschi lo avevamo già incontrato all’esordio solista con Tra le nuvole e l’asfalto, che vedeva dietro la produzione nomi del calibro di Antonio Gramentieri, Diego Sapignoli e Franco Naddei. Gli stessi che ritroviamo in Storia di una corsa, come ritroviamo la stessa formula di un pop-rock a metà strada tra Guccini e Cesare Cremonini, risultato di un ideale percorso che affonda le radici tanto nelle riflessioni umbratili del trovatore bolognese quanto nella leggerezza pop dell’ex leader dei Lunapòp. E sarà anche forse per la provenienza geografica del duo, certo è che non manca un’inclinazione al classic rock nostrano, debitrice ad altri due corregionali, Vasco Rossi e Ligabue, anche se, fortunatamente, limitato ai tempi che furono. Il panorama di riferimento, dunque, è quello di una canzone che mescola quiete d’autore e riverberi elettrificati, oltre a citazioni letterariomusicali che uniscono Lucio Battisti a Le Luci della centrali elettrica: siamo di fronte ad una scrittura che parte dal grigio disilluso della vita di provincia per arrivare ai sogni post-adolescenziali di due ragazzi poco più ventenni, come sono appunto Braschi e Amato, con gli occhi e il cuore rivolti a un orizzonte vagheggiato e irraggiungibile. Le iniziali Brutti sogni e Un altro treno, infatti, introducono l’ascoltatore ad un pop-rock melodico e riflessivo in cui la chitarra elettrica alza il piglio di un ritmo spesso sottotono, mentre Via Stalingrado, omaggio alla roccaforte della musica live in Italia (ovviamente l’Estragon di Bologna), prosegue con il racconto di un’inquietudine malinconica che torna a più riprese in tutto l’album. Brani in cui l’attenzione e la cura per gli arrangiamenti non riescono a conciliarsi con la volontà di fotografare il vivere quotidiano attraverso i testi, questi ultimi focalizzati soltanto su atmosfere intime e personali, con il rischio di scadere nella
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Ma è tutto ridotto al minimo; qui prevale la magia e il trasporto del viaggio, anche se i pezzi del terzo fanno venire qualche sospetto di campionamento (alcuni passaggi strumentali sono veramente uguali) e in generale si patisce un po’ una piccola mancanza di amalgama tra gli strumenti - in parte responsabilità di un Ghigo che continua a far suonare troppo metallici e staccati alcuni distorsori, in parte già un difetto di Litfiba 3, anche se qui non siamo a quei livelli (patologici, nella differenza col bollente, perfetto impasto sonoro del doppio): Santiago come coesione è quasi meglio in questo live che nell’originale. Al netto di ciò, il concerto funziona: funziona il batterista Luca Martelli che sostituisce la buonanima di Ringo De Palma, funzionano il tiro de La preda, la versione più essenziale di Ballata, gli stop and go tra rock e oriente di Ferito (che finalmente non si mescola più a Tex, allungata per dare spazio alle gigionate del cantante), anche l’epica Gira nel mio cerchio o una Ci sei solo tu restituita ai suoi giusti, eleganti tocchi in controtempo. Per cui sì, serviva un altro live, come biglietto da visita del tour in vista delle date estive, perché le versioni delle vecchie canzoni sono migliori di quelle proposte negli ultimi venti e passa anni, perché un vero live come si deve dopo Litfiba 3 non l’avevano ancora fatto, e soprattutto per rassicurare gli amanti di quella fase attratti dalle prossime date ma timorosi di un bagno di sangue: il biglietto si può comprare, se è così, sarà bello. (7/10)
retorica dolciastra di matrice battistiana delle bionde trecce e degli occhi azzurri. E non bastano neppure le incursioni quasi punk, ad esempio nell’irruenza sfilacciata di 3 e 40, o le svolte acustiche della conclusiva Domani, per far decollare un album che non riesce a smarcarsi dai binari di un genere ormai classico, saturo di tentativi indecisi tra l’emulazione e l’imitazione, e in cui la sudditanza verso la lezione dei grandi rischia troppo spesso di oscurare intuizioni e slanci personali. (5.8/10) Giulia Antelli
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Fabrizio Zampighi
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Genere: post-punk È ormai evidente come una certa tipologia di canzone indie italiana sia fin troppo legata a un’attualità sempre più contingente. Un meccanismo pericoloso, perché se da un lato testi che parlano di “facebook”, “twitter”, “hipster” o di qualsiasi altro riferimento a un consumismo tematico contemporaneo e condiviso favoriscono un’identificazione immediata, dall’altro sminuiscono il prodotto discografico inteso come opera d’arte facendolo invecchiare a velocità supersonica. Nel magma di produzioni che latita in questo limbo culturale esistono però alcune eccezioni, come il terzo disco dei Luminal. Amatoriale Italia ha tutto l’aspetto di un patto col Diavolo: farsi contaminare volontariamente da quel mondo e dall’orrore del quotidiano, per abbracciare una catarsi che possa portare oltre. Il messaggio è ridotto ai minimi termini: post-punk imbarbarito, apparentemente disinteressato al valore artistico o alla cura formale, claustrofobico quanto può esserlo l’universo da cui trae linfa. Uno sputo sul marciapiede che non lascia margine alla bellezza e che diventa uno sfogo incasinato e senza filtri. Basso distorto e violento, batteria e voci che vomitano testi sconnessi, rabbia di
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Luminal - Amatoriale Italia (Le Narcisse, Maggio 2013)
frustrazione. Abbiamo detto che la regola cui si accennava inizialmente non vale per i Luminal ed è vero. Soprattutto perché la band romana ha dimostrato di saper scrivere certe canzoni “nobili” già ai tempi di Canzoni di tattica e disciplina. Qui Carlo Martinelli, Alessandra Perna e Alessandro Commisso (gli unici rimasti in formazione) sospendono (si fa per dire) il giudizio, si sporcano le mani con qualcosa che non è materia loro e se ne escono con un album intransigente, alieno, imperfetto. Una sorta di finzione letteraria, di saggio neorealista oltraggioso e aggiornato all’Anno Domini 2013. Vanno letti in quest’ottica brani come C’è vita oltre Rockit, Blues maiuscolo del maniaco su Facebook, Stella era una ballerina e stava sempre giù, Giovane musicista italiano vecchio italiano, Carlo vs il giovane hipster: universi personali che collidono con una socialità “internettara” ostentata, accogliente solo in apparenza, per poi cortocircuitare con una realtà ancor più terrificante. A titolo d’esempio, la violenza carnale di Una casa in campagna, ma anche il punk tesissimo di Lele Mora o un’iniziale Donne (du du du) che altro non è se non un elenco di starlette e personaggi pubblici femminili di discutibile valore. Non si tratta della solita critica sociale un po’ fine a se stessa. Semmai di uno sguardo dal ciglio del precipizio, prima di lanciarsi nel vuoto. Tra riferimenti CCCP (Dio ha ancora molto in Serbia per me) e barlumi Massimo Volume (L’aquila reale), ci si perde nei toni disturbanti di un Amatoriale Italia lontano dalla poesia ma che è anche materia da interpretare. Lo si veda come un’opera ingenua, furba o - e noi rientriamo in questa categoria - come un confrontarsi con il cinismo opportunista oggi imperante, non ci si potrà comunque esimere dall’approcciarlo senza riflettere. Che l’obiettivo dei Luminal fosse proprio questo? (7.1/10)
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Genere: techno Impegnato al Bergain fin dal primo giorno, ma decisamente meno hypato di colleghi come Marcel Dettmann o Ben Klock, Marcel Fengler è comunque un dj da non sottovalutare all’interno del roster del famoso locale berlinese. Il suo Berghain 05, uscito nell’agosto del 2011, ha giustamente catturato i riflettori di Resident Advisor tanto che in quell’occasione il recensore di turno, che parlava di un set a base di house, techno, garage, electro e sperimentale, specificava quanto a caratterizzare il missato del producer fosse più la coerenza che la volontà di distinguersi. Le produzioni del tedesco in 12’’ su Ostgut Ton, caratterizzate da un approccio sostanzialmente techno tra atmosfere urban e punte di darkness, ne seguono la filosofia: basso profilo e buona qualità media, un filo rosso che ora ci porta a un primo album lungo che, fin dal titolo - Fokus - ne è l’esatta prosecuzione in termini di immaginario e rigore, soltanto con un’angolazione prettamente ambient. Fengler, dunque, dilata e amplifica il dettaglio: High Falls è puro electrorama di stampo 70s con soli contrappunti di bass e synth desolanti à la Pan American, idem Liquid Torso che è ancor più pacifica e à la HDADD; Dejavu approfondisce il lato più techno dei Boards Of Canada mentre, sul lato più looptronico, una top track come Jaz riprende in mano l’Old School house immergendola in umori non lontani dalle produzioni Deepchord (evidenti anche nell’iniziale Break Through). Gli episodi più immaginifici e fors’anche i più interessanti sono quelli giocati attorno a luccichii e torbide etniche minimali come King Of Psi, Distant Episode e Sky Pushing, mentre la più carenata Mayria, con gli snare sporchi e la cadenza industrial à la Pan Sonic, introduce scurissime voci dalle parti di Andy Stott. Salvo qualche epiodio più quadrato (le citate Jazz
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e Sky Pushing o una Trespass dalle parti di Sandwell District) Fokus è dunque un mix aperto al tratteggio di landscape, umoralità misuratissime e non ultimo qualche tratto melodico appena accennato come da tradizione fengleriana, l’ennesima testimonianza di un uomo che vuol rimanere perennemente fuori fuoco per dare il massimo risultato ai propri ascoltatori. Anche ora che li fa sdraiare in poltrona (sobri). (7/10) Edoardo Bridda
Mark Ernestus - Presents JeriJeri - 800 Per Cent Ndagga (Honest Jon’s Records, Giugno 2013) Genere: world Registrato tra Dakar, Parigi e Berlino, questo album è l’ennesimo esperimento produttivo a base di musica africana (ricordiamo almeno Mali Music, 2002, e DRC Music, 2011) concepito nel grembo dell’imprint di Damon Albarn. Stavolta l’head del progetto è il guru della techno berlinese Mark Ernestus (metà della Basic Channel), che ha lavorato a stretto contatto con Jeri-Jeri, ensemble di percussionisti locali diretto dal maestro Bakane Seck. La cartella stampa spiega come la ndagga del titolo, o mbalax, sia la musica tipica della cultura griot (la cultura orale che si trasmette di generazione in generazione) del Senegal e del Gambia, una dance music densa, stratificata e fortemente percussiva che è la colonna sonora di tutti i giorni, basata sulle trame poliritmiche di sabar e tamas (tipi di tamburi) e aperta a suoni più occidentali e moderni come chitarre e bassi elettrici e marimba. Questo album non sposta nulla e nulla aggiunge al già ricchissimo mosaico terzomondista postcoloniale postmoderno e tutto quello che volete che si è andato costruendo in occidente a partire dagli anni Ottanta (vedere tutta una serie di fenomeni convergenti tipo WOMAD, My life in the bush of ghosts, Graceland, la (ri)scoperta di Fela
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Marcel Fengler - Fokus (Ostgut Ton, Giugno 2013)
Genere: Footwork Il nome di Mark Pritchard compare da svariati anni nelle pubblicazioni di Planet Mu, Hyperdub, Deep Medi Musik, Big Dada (e oltre), ma mai nulla di progettuale o sulla lunga distanza, piuttosto roba di singoli (e ricordiamo il bel ? / The Hologram), centellinati eppì e più che altro collabroazioni (Wiley, Steve Spacek, Om’mas Keith). Ora le cose sembrano muoversi nella direzione opposta e la mente dietro l’alias Harmonic 313 e i progetti Global Communcation (con Tom Middleton) e Africa Hitech (con Steve Spacek) ha deciso di far uscire tre eppì propedeutici a un album lungo che sarà pubblicato su Warp ma di cui oggi ancora non sappiamo né titolo, né dati tecnici precisi. Ghosts EP è tutto ciò che è dato sapere. Il primo dei tre lavori sulla media distanza che, per chi segue da vicino lo spettro elettronico UK, non rappresenterà certo una novità: in sostanza Pritchard, sulla spinta di Planet Mu e più recentemente di Hyperdub, dopo un rivelatore mix per lo show di Kode9 sull’emittente radio Rinse. FM dello scorso 10 giugno, ha deciso di provare
Edoardo Bridda
Matias Aguayo - The Visitor (Comeme, Giugno 2013) Genere: techno Nato a Santiago del Cile (nel ‘73) e trasferitosi poi in Germania (doppiando in questo i passi del leggermente più vecchio Ricardo Villalobos), Matias Aguayo è diventato, a cavallo tra anni Novanta e Duemila, uno dei poster boy della vita notturna di Colonia (come dj, pr e organizzatore di eventi). All’attivo tanti progetti di collab come produttore (Cinnamon e Zimt, con il co-fondatore della label Kompakt Michael Mayer; Closer Musik, con Dirk Leyers) e feat soprattutto come vocalist (Discodeine, Ice Cream dei Battles), Matias si diverte oggi facendo la spola tra Buenos Aires e Parigi, continuando a tenere vivo a modo suo lo spirito utopico della techno. Fa le sue gig (in solo o con Marcus Rossknecht, a nome Broke!), pubblica dischi (Are You Really Lost, 2005, e Ay Ay Ay, 2009, su Kompakt), fonda
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Mark Pritchard - Ghosts EP (Warp Records, Giugno 2013)
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qualcosa di footwork e presentarlo come traccia in streaming in anteprima. In tracklist poi troviamo della drum’n’bass come l’abbiamo sentita da Zomby e Andy Stott, del ragga funk dalle parti dei citati Africa Hitech e infine della grime e synthdelia 70s che a qualcuno ricorderà Ikonika, oltre che l’estetica Gangsta rap. Tutto scontato? Al contrario, nulla è banale quando c’è mr. Pritchard in produzione: Ghosts nella footwork ci infila dell’HH, Duppies nella d’n’b ci fa ronzare il mitico hover sound di Second Phase e bordoni da d’n’b arena altezza ‘95, Get Wild pastura le tastierine vintage 80s bilanciando, alla 808, footwork, dubstep e grime; Manabadman riprende certi discorsi intrapresi con Spacek puntando però a un ghetto sound chicagoano (e di lì torniamo alla footwork che è, se vogliamo, l’MCD dell’operazione). E’ quanto basta per aver già voglia d’ascoltare altro materiale. (7/10)
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Kuti ecc.); e non riesce neppure a scavalcare la natura settaria e di genere del progetto. E però, ritmicamente, è una vera goduria. Ampio spazio agli strumenti, sotto ai cantati che hanno sempre come un sapore rituale, in un trionfo di bassi profondi (echeggia il dub di zio Mark) ma soprattutto di intriganti intricate trame percussive, che si rincorrono, si sovrappongono, a creare una afro fusion forse anche artificiale ma comunque convincentissima, e che avvince (Xale, il fuoco afrofunk che cova sotto una brace (non)reggae), e che a tratti sfonda addirittura il tetto del prog (Casamance), ma proprio tipo fossero Fela + Napoli Centrale. (7/10)
Gabriele Marino
Matthew Herbert - The End Of Silence (Accidental, Luglio 2013) Genere: Concreta Di Matthew Herbert e del suo approccio assieme concettuale e politico alla musica, il lettore di SA sa già molto se non tutto. Fondamentale è il campionamento, vitale la sua manipolazione e ripetizione e dunque naturali s’innescano i legami con la cultura elettronica in cui il musicista britannico è stato immerso fin dall’esperienza rivelatrice,
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comunitaria, e non meno rivoluzionaria dei Rave. Nelle sue produzioni, i primi amori, techno e (micro)house, hanno finito così per scivolare nella cosiddetta contemporanea, nel noise e nell’industrial e così nessuna sorpresa se, da lungo tempo, analizziamo una già corposa discografia fatta di case study dove uno o più spunti presi dalla realtà (o da uno specifico avvenimento) si trasformano in opere d’arte basate sulla manipolazione di sample scelti per l’occasione. L’idea per The End Of Silence parte da una registrazione sul campo del multimedia journalist Sebastian Meyer a Ras Lanuf, in Libia, effettuata mentre viene sganciata una bomba da un aereo dell’aviazione pro-Gaddafi. Sul blog di Meyer potete ascoltare e vedere una foto scattata quel giorno, mentre nei tre componimenti del nuovo album di Herbert troverete un intellegibile quartetto (Matthew Herbert accompagnato Sam Beste, Tom Skinner, Yann Seznec) intento a “congelare la storia, premere pausa, esplorare l’interno del suono” al fine di “cercare di comprendere perché sia così spaventoso quando non ho mai sentito una bomba dal vivo”. Ancora una volta Herbert riesce nel difficile obiettivo di realizzare un discorso musicale che convive e si compenetra col portato concettuale. Certo, non ci troviamo davanti alla vertigine malheriana di ReComposed ma, senz’altro, al pari di un One Pig, qui abitano tutti i consueti funzionali trucchi herbertiani alla decomposizione dell’attimo: Part 1 è, assieme, come certe cose di Mika Vainio (quindi ambient, isolazionismo, noise, glitch) ma anche un balletto sopra l’attesa o il presagio, Part 2, attraverso una vorticosa struttura a collage tra ritmo, intermissioni e stasi (dunque ritmiche techno, clangori industrial), entra nel discorso bellico evitando facili trappole pro-futuriste (leggi esaltazione della guerra e delle macchine), Part 3, infine, torna alla “lateralità”, un indolente e - perché no - sbarazzino refrain all’”organo” viene pian piano inghiottito da rico-
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una label che intende programmaticamente unire l’astrazione krauta e la concretezza latina (Cómeme, distribuita Kompakt). Ma soprattutto, dal 2006, si inventa questi specie di flash mob dance chiamati Bumbumbox, happening collettivi portati in giro nelle principali città del sudamerica (Buenos Aires, Rio de Janeiro, Asuncion, San Paolo, Medellin, Santiago), animati da uno spirito festaiolo genuino e cosmopolita, 50% cazzone 50% orgiastico. E’ lo spirito che ritroviamo in The Visitor, un disco che è tanto cupo (la palette delle produzioni, virate al violaceo e al nero pelle metallizzato), quanto cialtrone (i cantati sgraziati ed ebeti che sono il suo marchio di fabbrica), la perfetta colonna sonora di una notte picaresca tra i budelli più stretti, affollati e sudati, vissuti come la boiler room del caso. Matias mette assieme techno e ritmi latini (Llegò El Don, Aonde, El Camaròn) in un mixone spinto (Levantate Diegors è così ottusa da essere industrial) che alla fine ha molto della glitterbeat e dell’electroclash, con punte spiazzanti tra lo psichedelico (Dear Inspector è Animal Collective ma addirittura John Lennon) e la new wave versante grottesco (nella lunga robotica cavalcata conclusiva A Certain Spirit, Residents e Devo). Zarro e compiaciuto, The Visitor funziona alla grande: è perfetto per sentirsi male bene tra le calli. (7.1/10)
noscibili schegge del campione. Herbert, specialmente nell’ultimo espisodio, è andato oltre la rappresentazione del prima, del dopo e del mentre. C’è senz’altro un interessante intorno d’osservazioni mediate dalla tecnologia che entrano in gioco nella narrazione, ed è su questo piano che la musica acquista i giusti scarti rispetto all’idea iniziale e ai suoi risvolti più ovvi. (7/10) Edoardo Bridda
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Genere: electronica Ed è arrivato pure il turno di Maya Jane Coles. Dopo innumerevoli ep, remix e mixati d’eccezione (una vera e propria investitura in questo senso il Dj Kicks di sua mano) la dj londinese più chiacchierata degli ultimi anni esce allo scoperto con un vero e proprio disco e una manciata di ospiti di prim’ordine come Tricky, Miss Kittin o Karin Park. Comfort, diciamolo subito, non è un disco che sbalordisce in termini creativi rispetto al sound a cui ci ha abituato finora la giovane produttrice inglese; come ben sappiamo, i giri in cui ha sempre bazzicato Maya, sono quelli della penombra super cool di Jamie XX e soci e, come da programma, le coordinate stilistiche del disco non potevano non essere riconducibili a quella verve techno-spleen immediatamente percepibile sin dall’omonima traccia d’apertura del disco. Il “comfort” della Coles è effettivamente il medesimo di molti altri giovani artisti inglesi a lei contemporanei (Jessie Ware e Julio Bashmore per non andare troppo lontano), ovvero, quello di una precoce restaurazione di sonorità e mood che hanno composto il pantheon elettronico inglese in bassa battuta dei primi’90; stiamo parlando dei nati sotto il segno di Tracey Thorn e Lisa Stansfield, il trip-hop bristoliano e le plastiche nere del primissimo electroclash.
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Maya Jane Coles - Comfort (I Am Me, Luglio 2013)
I numeri di Comfort vengono così snocciolati in euro vignette come Easier To Hide e Burning Bright (al microfono, dagli Hercules & Love Affair, Kin Ann Focman), in cui è onnipresente lo spettro degli Everything But The Girl più elettronici, o in tracce più down-tempo in cui la nostra sembra anche trovare la dimensione canora ideale, come per esempio nella narcolettica Dreamer, passando per pezzi come Fail From Grace o When I’m In Love che, affidate ad altre voci ospite, rilasciano fascinazioni tipicamente mezzaniniane. Immancabili sono i wavismi elettronici accostabili ai compagni di sbronze XX in brani come Blame (feat Nadine Shah), Stranger o la conclusiva e stralunata Come Home, in cui viene riassunta tutta l’epica del decadentismo post after-party made in London. Ma cosa balleranno mai dunque, questi nuovi clubber dalla lacrima facile? Maya sembra essere dell’idea che la prima ondata di electro-clash (The Hacker, Blackstrobe e Dj Hell per intenderci), tolto il glam e l’enfasi transgender, sia ancora un’ottima fonte di ispirazione, ed così che in Everything la personalissima cruenza vocale di Karin Park sembra sposarsi con il tentativo di ridare vita ad una Plastic Dreams 2.0 con l’accompagnamento dei Tiefschwarz; oppure, è la stessa veterana Miss Kittin ad unirsi coralmente alla Coles in Take A Ride, ma sempre restando dentro quella bolla produttiva anti-glitter che piacerebbe a Burial e che ritroviamo anche nell’inaspettato mantra alla Rockie Robertson del caro vecchio Tricky per l’onirica WaitForYou. Insomma, visti gli ospiti ed i presupposti il risultato poteva essere eccellente, eppure Comfort è un disco che anche dopo parecchi ascolti lascia con l’amaro in bocca. Stabilito il fatto che con una tracklist del genere, gli intenti della nostra non potevano che essere Pop, rimane la constatazione che al disco mancano proprio scrittura e personalità vocale. Se da un lato la raffinata e
minimale produzione di Comfort trasmette prima di tutto un mood emotivo, dall’altra non si capiscono le reali finalità della Coles; nell’attesa che Maya decida definitivamente se occuparsi di dancefloor o delle sue canzoni non resta che provare ad accontentarci della freddezza di Comfort. (6.5/10) Dario Moroldo
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Genere: alt rock Nel panorama retromaniaco dell’ultimo decennio c’è stato poco spazio per revivalismi alternative rock a stelle e strisce degni di nota. Una scena, quella dell’US alt-rock, incapace di rinnovarsi e purtroppo ancora oggi appesantita da macigni post-grunge e dagli stereotipi tamarrock tanto cari a certe emittenti radio. In uno scenario di questo tipo i californiani Middle Class Rut fungono da scheggia impazzita, sguazzano nella generale mediocrità e vincono facile andando a pescare a piene mani da un preciso territorio di riferimento non troppo battuto negli ultimi due lustri: quello dei Jane’s Addicition. Tra i punti di riferimento più influenti della seconda metà degli anni ‘80, Perry Farrell e compagni in fin dei conti non hanno mai avuto dei veri eredi, dei figliastri, qualcuno che generasse un’immediata associazione stilistica. In poche parole: dei “nuovi Jane’s Addiction”. L’attitudine free e provocatoria dei primi Jane’s fatica ad emergere tra i solchi di Pick Up Your Head, secondo album dei Middle Class Rut, ma il riff-o-rama (a tratti di scuola Rage Against The Machine), il drumming potente e variegato di Sean Stockham e soprattutto il timbro vocale di Zack Lopez (spesso in multi-layer) non possono sfuggire al facile paragone. Se Aunt Betty è l’anthem perfetto che Farrell non scrive da anni, non si può essere altrettanto entusiasti per la restante tracklist. Non tanto per
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Mike Parker - Lustrations (Prologue Music, Giugno 2013) Genere: Techno Sono passati dodici anni da quando un allora piuttosto giovane ragazzo statunitense (da Buffalo, NY) si presentò sulle scene con una intrigante - e già discretamente a fuoco - pubblicazione sulla lunga distanza fatta di quadratissima techno music dal titolo Dispatches. E proprio con quella il producer lanciava definitivamente la Geophone, un’etichetta attiva già da qualche anno con la quale ha continuato a pubblicare proprie cose e sporadiche produzioni di altri (recentemente anche un 12” con Voices From The Lake e Stanislav Tolkachev). Quello che è successo nel frattempo, dal 2001 ad oggi e, in parte, anche prima del 2001, è stato
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Middle Class Rut - Pick Up Your Head (, Giugno 2013)
Born Too Late - che va a parare in zona Nine Inch Nails/Filter - o la psichedelia a grana grossa di Leech, ma per i passaggi piuttosto incolori senza capo né coda (la titletrack e Dead Eye, probabilmente una grower) e per l’ostinata ripetizione di una formula tanto derivativa quanto comunque immediatamente identificabile: le strofe - vagamente Beastie Boys - di Sing While You Slave, Wather Vein e No More sono un po’ delle Aunt Betty revisited. Non bastano le interessanti soluzioni di Stockham, un pezzo da novanta - Aunt Betty - e un grande lavoro in studio (sono necessari 5 elementi per ricreare live lo stesso impatto) per rendere Zack Lopez e Sean Stockham i nuovi rocksaviours. A piccole dosi però Pick Up Your Head è capace di regalare un possente tiro headbang e scosse adrenaliniche oggigiorno piuttosto difficili da scovare. Aggiungeteci nostalgici sentori caratteristici della California di 20-25 anni fa e capirete perché, soprattutto tra i fan del genere, i Middle Class Rut potrebbero trovare parecchi consensi. (6/10)
Michele Ferretti
Miles Kane - Don’t Forget Who You Are (Columbia Records, Giugno 2013)
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Genere: brit-pop Miles Kane si mette alla prova per la seconda volta e tenta di bissare il discreto successo ottenuto con l’album d’esordio Colour Of The Trap. Ci riesce a metà, perché il protetto di NME avrebbe decisamente potuto fare di meglio, considerando il buon debutto con i Rascals e la riuscita - per quanto didattica - 60’s experience nei Last Shadow Puppets con il più noto amico Alex Turner. La sua eleganza estetica è pregevole così come la cura del dettaglio, ma non basta un bell’abito per fare un gran disco. Sembra una dannata profezia, l’immagine di copertina: un elegantissimo Miles di fronte a un banco di salumi e formaggi. Cool a metà. Quello del sophomore album Don’t Forget Who You Are è un repeat a livello di forma, già intuibile nel rinnovato supporto di alcuni nomi intoccabili del pop inglese: se Colour Of The Trap vantava la partecipazione di Noel Gallagher (My Fantasy), Don’t Forget Who You Are può fregiarsi della penna del compagno Alex Turner - metà dei brani nascono dalla loro intesa - e dell’esperta firma di Paul Weller, evidente nel pianoforte e nelle note di coda di Fire In My Heart, così come nella graffiante You’re Gonna Get It. Ci sono poi un canto alla Liam Gallagher - perché male che vada, piace comunque - e rimembranze compositive di derivazione lennoniana. Per non parlare degli incontri e delle chiaccherate XTC-iastiche vissute - e tutta l’influenza che ne è conseguita
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lo si potrebbe prendere per stalinista, ovvero luciferino-amministrativamente solido, se se ne leggono i codici totalizzanti del regime e le buone (ottime?) intenzioni. (7.1/10)
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l’estendersi di una serie incredibile di uscite corte ad affiancare il lavoro di dj e video artista. Dischi che hanno delineato una fisionomia produttiva che, occhi su Belleville (Detroit), vuole inserirsi in traiettoria techno senza abbassarsi a cavalcare un qualche revival. Secondo il vecchio adagio della techno plasmatasi come fusione del funky e della black music nord(afro)americana con la dark electro europea - in primis i Kraftwerk -, Parker è strutturalmente, tra i contemporanei, uno dei più vicini alla sua forma autenticamente filologica. Così intransigente nella sua astrazione da rasentare la burocrazia o, quantomeno, la postulazione di un paradiso razionale e razionalista. In dodici tracce ciascuna recante il titolo di Lustration seguito dal numero corrispettivo e da una indicazione panoramica tra parentesi (da Atlantic a Megalith, per capirci), un Bpm da leggerissimo uptempo, l’andamento costante senza una sosta né un breakdown, e quindi abbracciando un’estrema sottocultura di “resistenza sotterranea”, abbiamo quindi uno statement politico secco, non vezzoso né spettacolare (cosa che invece, ad esempio, il breakdown è), così come lo è la chiarezza teorizzata in ogni singolo passaggio (produzione, artwork, immaginario). Un lavoro di trasparenza dunque, dove il tenebroso è riflesso dell’ipnotismo e dell’abbaglio dalla luce del sole, sotto la quale accade l’inevitabile. Rispetto alle ultime acquisizioni o uscite Prologue, Lustrations è il meno bassy oriented, il meno profondo a livello di suoni e il meno dub. Non a caso, se Echologist e Cassegrain sono filiazioni Basic Channel, Mike è invece discendente diretto di Juan Atkins e del Jeff Mills di Cyclone. Sicuramente adatto ad essere ballato, ascolto indicato anche per i generici amanti dell’elettronica, è un album d’attivismo efficace e al passo coi tempi, anche se dall’oltranzismo di cui sopra emerge sicura una radicalità che può risultare tetra, accrescendo così ancora il fascino del lavoro in questione. Questo futurismo, simbolicamente,
Alessandro Rabitti
Nima Marie - Woollen Cap (Orange Home Records, Maggio 2013) Genere: folk, cantautorato Dopo Come Back, EP datato 2008, Nima Marie esordisce sulla lunga distanza con Woollen Cap, album di dieci brani collocabili sotto l’etichetta del folk-rock.Il debut della cantautrice monzese
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si presenta come l’ultimo esempio di una lunga tradizione di cantautorato al femminile che da Joan Baez e Joni Mitchell in poi - fino ad arrivare alle odierne Cat Power, Joan As A Police Woman e Feist - si è inserita anche tra le pieghe della nostra canzone d’autore. Dunque, l’immaginario di riferimento di questo Woollen Cap è tutto a stelle e strisce, con un occhio strizzato tanto alle amazzoni del fem-folk/ rock sopracitate, quanto ai modelli maschili - gli immancabili Neil Young e Bob Dylan -, con in più un certo gusto per la melodia pop che rimanda all’esordio di un’altra ex paladina del songwriting statunitense (ma poi convertita alla logica del mainstream), Alanis Morissette. Già dall’iniziale You Know I Do si presagisce un piglio solare e trasognato che ritorna lungo tutto il disco, con brani costruiti sull’intreccio tra chitarra acustica e una vocalità percorsa da una romantica dolcezza, scevra da ogni afflato rock e orientata invece verso la levità del folkpop: le stesse atmosfere che si ritrovano in pezzi come Blowin’ Too High e Eyes Shut, altri esempi di cantautorato in bilico tra la placidità della ballad e l’orecchiabilità delle melodie. Orecchiabilità di sapore soprattutto Nineties, come mostrano il malinconico chiaroscuro di A brighter Dawning o il tenue crescendo di Forgive Me, il tutto sorretto da quell’impianto folk/country che è presente in ogni brano del disco, ad esempio nella title track o in Country Road. L’autrice monzese pecca forse per un’eccesiva linearità nelle singole composizioni che rende il disco a tratti troppo monocorde, seppur piacevole per gli amanti del cantautorato folk al femminile. (6.5/10) Giulia Antelli
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- con Andy Partridge, “un genio” nelle parole di Kane. Preceduto da due EP - la pretenziosa e orchestrale First of My Kind, seguita da una classicissima british corale Give Up qualche settimana prima dell’uscita del disco - Don’t Forget Who You Are nasce diretto: un pop+britrock fautore di ritmi effervescenti (Better Than That, la title-track o la conclusiva Darkness In Our Hearts), che vira sul cantautorale in canzoni quali Out Of Control e la sopracitata Fire In My Heart, senza però disdegnare le chitarre indie rock in passaggi distorti come quelli di Tonight e Give Up, raggiungendo addirittura punte hard rock in You’re Gonna Get It. Miles Kane gioca facile: rientrando in un genere inflazionato come il britpop, se ne posiziona esattamente al centro, non distante da un certo modo di intendere il rock’n’roll di Oasis o Kasabian. Le chitarre richiamano tipiche atmosfere di metà anni ‘90, ma nemmeno si allontanano dal percorso evolutivo di band come gli Arctic Monkeys. Se un focus attento sui brani più acustici rivela un immaginario che spazia tra Noel Gallagher e Richard Ashcroft, a livello macro è l’influenza ‘60 stile Kinks a predominare. Ed ecco che, preso lo spunto necessario dai suoi più vari riferimenti, Miles ha percorso una strada già battuta e sicura realizzando un prodotto comunque valido, orecchiabilissimo tanto nei pezzi più lenti quanto in quelli più frenetici. Per lasciare qualcosa ai posteri, però, è ancora troppo poco. (6.8/10)
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Fink e soci ci sono sempre stati in abbondanza) e le melodie pure. La titletrack, complice Anna Calvi, sarebbe stata perfetta per Top of the Pops, non avesse, il glorioso show, chiuso da qualche Genere: Pop, rock tempo. La voce baritonale di Fink colpisce anche Vabbé: se anche gli “sbarbi hipsterici” si mettono quando si atteggia a uomo vissuto (Lifetime) o a a fare o, meglio, tentare un concept... Così almeromanticone oltre il limite del diabete (una One no a sentire i Fink e soci responsabili del videoMore Night quasi in salsa Wet Wet Wet), e il tiro clip di There Will Come a Time, quest’ultimo sorta praticamente pronto per lo stadio di All Throudi teaser di un vero e proprio film (fantascienza gh The Night e Now Is Exactly The Time non si fa sociale stile anni Settanta, direbbe il critico esperto di cinema) in cui l’adolescenza viene con- disprezzare. Noi giornalisti qui a lamentarci della scarsa prosiderata pericolosa e dannosa per la società, al punto da decidere di rinchiudere i teenager su di fondità del pop. Loro in tour nel mondo a godersi il successo e la pecunia. Nel mezzo, un milione di un’isola-carcere (ok, se vi viene in mente almeno ascoltatori che mandano a memoria canzoncine un centinaio di film avete ragione: non è un’idea innocue o poco più che anche noi che scriviamo, originale...). in fondo, fatichiamo a scacciare dalla testa. Fate Il film dovrebbe essere la spina dorsale degli show del tour promozionale. Nulla di nuovo sotto un po’ i vostri conti. (6.5/10) il sole, in uno scimmiottamento della tradizione dei film musicali UK, dai Beatles agli Who, che, Marco Boscolo mentre tutta la critica (con rare eccezioni) è concentrata sulla demolizione della loro immagine, Oblivians - Desperation (In The ci fa risultare i Noah And The Whale più simpatici. Red Records, Giugno 2013) In fondo proprio loro hanno raggiunto il disco Genere: garage punk di platino con il precedente, onesto, album di Desperation segna il ritorno sulle scene degli artigianato pop e ora si possono permettere di Oblivians, band storica nella marcificazione investire la visibilità e il danaro della produzione blues rock’n’roll targata ‘90, al pari dei vari Gories, in un progetto un po’ più ambizioso. Pazienza se Blues Explosion e Doo Rag. E’ passata una vita le idee sono quelle che sono: in fondo, con molto da allora: sedici anni dall’ultimo disco ...Play 9 meno, i coetanei Mumford and Sons hanno Songs With Mr Quinton e diciassette dal fonconquistato anche l’America... damentale Popular Favorites, dove il cuore del Rispetto al 2009, gli accenti springsteeniani si rock’n’roll imbastardito punk batteva più forte fanno ancora più evidenti e i synth vengono che mai. messi da parte in favore di un uso più professioDesperation riparte proprio da lì e si stoppa nale degli archi e di un suono ancor più smacsubito: c’è la musica di sempre, un compendio catamente pop-rock: dall’hypsteria del revival dello storico Oblivians, dei Reigning Sound folk all’hyp praticamente mainstream. Il modello e dell’amore ultradichiarato per i Ramones. non è più quello estetico/estetizzante di un Proprio niente di nuovo quindi ma, è questa la Brian Eno pop per le masse, ma una versione notizia, i fratellini Oblivian dimostrano di avere appena meno sputtanata dei Coldplay. Detto ancora con sé il fuoco del rock’n’roll. Come da questo, visto che sempre di pop si tratta, qui gli tradizione troviamo brani da due minuti velohook appiccicosi ci sono eccome (e nei dischi di ci e velocissimi, con questi ultimi che si fanno
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Noah and the Whale - Heart Of Nowhere (Mercury Records, Maggio 2013)
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il grigio metropolitano o il nero ottundente della notte; c’è il gusto per le dilatazioni ambient più scure e disturbanti, haunted il giusto ed evocative nella norma; c’è la ricercatezza di un suono che si fa immaginario ora astratto, ora terribilmente materiale (la techno minimale di Dourado, l’estasi in negativo di Zimmer). Erano considerati emergenti del giro (ehm) dubstep londinese in virtù di traffici col giro Mala. In realtà sono un progetto maturo che aspettiamo al varco del full length. (6.5/10)
Stefano Gaz
Stefano Pifferi
Old Apparatus - Compendium (Sullen Tone, Giugno 2013)
oOoOO - Without Your Love (Nihjgt Feelings, Luglio 2013)
Genere: dark-electro Come suggerisce il nome stesso, Compendium è una compilation che seleziona dai numerosi EP rilasciati dalla misteriosa sigla made in UK Old Apparatus. Segnalati in una delle migliori videocompilation di SA come “chicche dalla blogosfera” il trio (o almeno dovrebbe esserlo, vista la scarsità delle info) si segnala come una delle più varie ed interessanti proposte d’oggi, in virtù di una personale rielaborazione delle musiche elettroniche degli ultimi anni. Zero punti d’appoggio, arrangiamenti con varietà estrema pur con omogeneità di fondo, musica centrifuga in senso etimologico, priva di centri stabili ma che dall’assenza di evidenze si muove per sondare cupezze e oscurità atmosferiche che si sedimentano tra gothicismi vari - l’eco di label come Blackest Even Black o Tri-Angle è evidente - e ipotesi di elettronica contemporanea, ritmata ed industriale, isolazionista e minacciosa. C’è la profondità del dub a fornire una scheletrica architettura ai pezzi, una tavolozza di colori ampia e ovviamente eterogenea - nei numerosi ep che formano questa compila ci sono anche i tre a nome di ognuno dei responsabili, sul modello dei Kiss prima e dei Melvins dopo - che vira verso
Genere: witch, rnb Sembra passata una vita da quando i primi produttori witch house iniziarono a spuntare sul web mentre la Tri Angle aveva all’attivo una manciata di artisti e Balam Acab come unica release fisica. Eppure non sono trascorsi neanche tre anni. oOoOO, producer di San Francisco allora sconosciuto, se ne uscì di lì a poco per l’etichetta di Brooklyn con un perfect pop albore fortemente innovativo sulle spinte ipnagogiche dell’epoca, affermandosi come uno dei pionieri delle sonorità drag. Dopo un paio di EP, arrivati al 2013 con quella fiamma witch (in senso stretto) sempre più fioca, oOoOO ovvero Chris Dexter si trasferisce sull’isola di Bozcaada in Turchia e fonda la Nihjgt Feelings, etichetta che debutta con questo primo full-length. Sotto un’ottica banalmente modaiola Without Your Love può essere facilmente classificato come un lavoro fuori tempo massimo. Questo secondo la ragione - non sempre condivisibile - per cui una manifestazione musicale culturale dalla forte comunicatività dovrebbe necessariamente spegnersi alla stessa velocità nella quale brucia. Le stesse produzioni witch, ferme ormai da tempo, in chiave post- sembrano definitiva-
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preferire: Woke Up In A Police Car, Fire Dectector, Run For Cover, sono schegge che hanno ancora il fascino dell’irresistibile, e lo stesso dicasi per la chiusa crampsiana Mama Guitar. Il resto viaggia nello standard, nel loro standard che è energetico e sexy come ogni buon rock’n’roll dovrebbe essere, accontentando tanto i fan quanto chi ama i figliocci ‘00 Black Keys in primis. Insomma fa piacere riavere in pista gli Oblivians perché assolvono un bisogno di sicurezza: sai cosa ti aspetti e non ti becchi la fregatura. (6.8/10)
Genere: brit songwriting Spiace un po’ considerare che, se questa recensione non contenesse i nomi Bonehead e Oasis, probabilmente non salterebbe fuori da nessun motore di ricerca. Non fosse “il nuovo gruppo di...”, difficilmente qualcuno mostrerebbe altri-
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Parlour Flames - Parlour Flames (Cherry Red Records, Maggio 2013)
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Davide Nespoli
menti interesse verso una band chiamata Parlour Flames (caminetti? Salotti in fiamme?), tanto più che si tratta di canzoni terribilmente fuori moda, inglesi fino al midollo, ironiche e malinconiche come potrebbero uscire dalla penna di un Ray Davies dopo una ciucca triste, o un Robyn Hitchcock preda di certe suburbane depressioni morrisseyane. Che poi è esattamente il motivo per cui ci piace questo disco; ma tant’è. Per cui ci tocca - non l’avremmo mai pensato - ringraziare il redivivo Paul “testa ossuta” Arthurs, fosse anche solo per aver prestato la sua fama pregressa di ex-compare dei Gallagher alla causa di Vinny Peculiar (al secolo Alan Wilkes), un tizio che già dal nome merita di entrare nel pantheon dei nostri idoli istantanei. Di fatto, Parlour Flames non è altro che una vetrina per il suo - ehm - peculiare songwriting: poeta, performer e cantautore da Salford, è il misconosciuto titolare di una nutrita discografia che lo ha visto di volta in volta affiancato da vecchi membri di Smiths, Auteurs, Aztec Camera e Fall. Considerata la compagnia che si è scelto stavolta (oltre all’”ossuto” chitarrista, coresponsabile di quasi tutti gli strumenti, figurano nel disco nient’affatto celebrati sodali di Badly Drawn Boy, I Am Kloot e Cherry Ghost), quest’album/progetto è la celebrazione e al contempo la massima espressione della serie B del pop di Manchester. Nel senso più nobile e romantico del termine, s’intende: eroi non celebrati che si sono “bruciati” i loro quindici minuti di gloria, ma continuano a suonare e a vivere il loro sogno da (non troppo) belli perdenti. Vinny in questo disco canta anzitutto della sua città (la programmatica Manchester Rain, cui manca solo la voce di Moz), di come sia diventata nel tempo covo di rockstar in disgrazia (viene in mente, a scorrere i versi, la smithsiana Paint A Vulgar Picture), tracciando ritratti spesso in soggettiva. Come nella desolata Never Heard Of You, al cui ormai decaduto protagonista viene negato l’ingresso in un club, o nella sbruffona I’m In The
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mente essersi spostate dalle forme letteramente più “dubsteppare” di Holy Other alla nuova dark ambient cavernosa e monolitica di marca Raime o all’abstract trap sulla scia Girl Unit. A ribadirlo pare proprio la stessa Tri Angle con le recenti pubblicazioni di The Haxan Cloak e di un indeito Evian Christ in salsa field recording, irriconoscibile dal nu-r’n’b di Kings and Them. Se non altro questo full-length riassume tutta l’essenza oOoOO andando persino oltre le fondamenta gettate in passato. Le due parti del disco, pur mantenendo il mood, variano nelle modalità compositive in maniera considerevole. Se nel lato A primeggia un oOoOO più classico e vistosamente pop - pur sempre filtrato da quella scena di Montreal che lui stesso ha influenzato, nonché della ex collaboratrice Butterclock - e il singolo Stay Here (ft. M.L.), voltando il disco si scopre una chiave prevalentemente strumentale. Vengono infatti rispolverati e ripuliti i bassi alla codeina “choppati” dei Salem (The South) e le ritmiche witch-step (Mouchette), pur sempre alla ricerca di un’attitudine moderna che attinge dai più recenti e oscuri trend post-witch - sopra citati - e persino dalla sinuosità di Andy Stott (Misunderstood). Chris Dexter, con qualche trovata degna di nota, è capace di dare ancora emozioni, rilanciandosi con un progetto discografico ambizioso in una location insolita, supportato da “devoti” musicofili locali. (6.9/10)
Band, celebrazione tragicomico-parodistica della r’n’r way of life. O ancora la rassegnata malinconia della conclusiva Too Soon The Darkness (adesso è il fan-amico che ricorda l’ex rockstar, il giorno del suo funerale) meditabonda e solenne alla Roger Waters; al punto che se non ci fosse lo humour brutale, il tocco sarcastico alla Jarvis Cocker, il pop contagioso di episodi come Sunday Afternoon e lo sfrontato ma irresistibile laddismo di Pop Music, Football & Girls lo diresti a tratti l’equivalente discografico di un The Wrestler. Non è certo un caso che Vinny per la sua uscita più importante si sia affiancato a te che sei il loser più loser di tutti, vero Bonehead? (7/10)
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Pecore elettriche - Ogni santo giorno (Phonarchia, Maggio 2013) Genere: rock È il rock venato di blues dell’America più profonda che fa da protagonista in Ogni santo giorno, il nuovo lavoro - dopo “l’italianizzazione” del nome - di Pecore Elettriche, in evidente omaggio a Philip K. Dick. Le coordinate sono chiare già dall’apertura, con quell’ Ultima notte a Londra che, tra declamazioni alla Capovilla e dinamiche in puro stile Queens of The Stone Age, sancisce da subito sound e poetica della band: voce roca, testi dissacranti che si concentrano su cliché alla portata di tutti, tra il Natale obbligato in famiglia, il peso delle aspettative parentali, Facebook, la precarietà sul lavoro e la voglia di fuga. Tanti piccoli slogan che incorniciano la vita dei giovani, di ieri e di oggi, toccandone le debolezze pur senza riuscire davvero a varcare i confini della generalizzazione. Il disco procede in bilico tra rock americano classico, blues polveroso alla Stones e qua e là echi dei Malene Kuntz che furono (Strana la gioia). Discorso a sé merita Giovani vecchi, figlia del Nick
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Enrica Selvini
Peter Jefferies - The Last Great Challenge In A Dull World (De Stjil, Giugno 2013) Genere: Lo-Fi Peter Jefferies, ovvero: dell’essere sempre fuori sincrono con il resto del mondo. Andò così negli 80s con il post-punk della band fondata a metà con il fratello Graeme, The Kind of Punishment, che dopo tre album propriamente detti tra l’84 e l’87 vide crescere la propria fama di culto quando si sciolse. Graeme si trasferì in UK, mentre Peter preferì rimanere nella natia Nuova Zelanda a insegnare musica. Non smise però mai di coltivare una propria strada musicale, un percorso originale fatto di collaborazioni con tutti quelli che contavano nella terra dei kiwi e una discografia che si è interrotta nel 2001 dopo sette dischi propriamente detti. The Last Great Challenge è il terzo della serie o il vero e proprio debutto solista, dato che le prove precedenti erano accreditate anche ad altri musicisti titolari. Probabilmente è quello meglio riuscito nella costruzione di una poetica lo-fi avanguardistica del tutto personale. E il disco a cui i cultori hanno guardato nel corso di questi anni. Siamo nel 1991, la piccola gloria del passato definitivamente alle spalle e Peter che raccoglie i
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Antonio PancamoPuglia
Cave più claustrofobico e oscuro del periodo di Prayers On Fire - The Birthday Party - ma anche Non salutano più e Tramontana che, complici gli arrangiamenti vicini allo psychobilly dei Cramps, rappresentano forse gli episodi più interessanti del disco. Ogni santo giorno è un album che non lascia dubbi sulla preparazione tecnica dei Nostri, tra virate blues, stoner e accenni di puro rock’n’roll, ma che non sempre raggiunge il giusto compromesso tra un cantato a tratti ripetitivo e la controparte strumentale, accattivante e ricchissima di spunti. (6.5/10)
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noise che negli ultimi anni ci ha attraversato le vene riciclandosi e trasformandosi ogni volta in forme nuove. Capita così che una poco più che ventenne americana ci (ri)vomiti in faccia tutto quel malessere, quella angoscia pressante, quella repressa violenza che ci affonda fin dall’urlo che inaugura la via crucis del dolore in Milkweed/It Hangs Heavy. Non è questione di ciò che è la musica di Pharmakon - lunghi droning maleodoranti, beat minimali e scuri come una notte senza fondo, un esporsi lirico e vocale da far drizzare i peli, assimilabile per sensazioni ad una Lunch post-industriale - quanto di come è. Densa, imputridita, fastidiosamente oscena. Ossessiva e ossessionante, lacerata, psichicamente malata, com’è intuibile dall’immaginario evocato sin dalla scelta del nome o dalle tematiche affrontate. A questo proposito, così la biondina definisce la propria ricerca: “Loss. Losing everything. RelinquiMarco Boscolo shing control. Complete psychic abandon. Blind leaps of faith into the fire, walking out unscathed. Crawling out of the pit”. Forse ci stai riuscendo Pharmakon - Abandon (Sacred bene, Margaret. O forse ci stai trascinando tutti Bones, Giugno 2013) dentro quel baratro da cui in fondo non vogliaGenere: noise mo uscire. Se a 22 anni pubblichi un disco del genere con una copertina del genere, hai dei grossi problemi. (7/10) Ma tra quei grossi problemi non c’è sicuramente Stefano Pifferi l’incapacità di sintetizzare in musica i tuoi problemi, dato che Abandon - beh, solare anche il titolo, Pinch/Adrian Sherwood - Bring non c’è che dire - è la perfetta rappresentazione Me Weed (On-U Sound, Giugno musicale dei problemi di Margaret Chardiet. 2013) Ironie becere a parte, con Pharmakon, al debutto Genere: dub su una sempre più eterogenea Sacred Bones, ci si Nemmeno il tempo di dire che il secondo album ritrova a parlare di musica in termini di disgusto di The Orb & Lee “Scratch” Perry è qualcosa di più e disagio, come si faceva un tempo in cui hipste- di un vuotare i cassetti delle fortunate session del rie varie e poserismi da quattro soldi non erano primo lavoro The Orbserver in the Star House di moda e quando si trafficava col rumore o col che ci troviamo di nuovo in famiglia con il primo nichilismo su pentagramma, lo si faceva in malavoro collaborativo tra Adrian Sherwood (inutile niera seria. Parliamo dei tempi dei primi Swans ricordarlo: l’uomo che ha fatto della contiaminanero pece, dell’harsh industrial primigenio, del zione dub la propria vita, oltre che il fondamento fastidio a-musicale dei Throbbing Gristle, del di tanta Uk Bass) e Pinch (Tectonic label manager, propri umori musicali in quattordici episodi eterogenei. Si va da un a-cappella cantato di fronte allo specchio mentre è intento in altre faccende (Domestica) a punkettoni senza sostegno ritmico che ricordano i Big Audio Dynamite (Chain of Reaction), pur trovando spazio anche per urgenze strumentali al pianoforte (Likewise), esperimenti tra ballad e ambiente à la Brian Eno (The House of Wearingness, While I’ve Been Waiting), slacker rock appena meno avariato (la titletrack) e folk apocalittico che ricorda tanto il passato scuro della band in condivisione col fratello, quanto esperienze come Death In June (On an Unknonw Beach). Su tutto una voce più declamata che cantata, che qualcuno paragona a quella di John Cale. Materiale registrato in autonomia su un quattro piste domestico, che questa ristampa rimette giustamente in circolazione. Culto vero. (7.5/10)
Edoardo Bridda
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Riva Starr - Hand In Hand (Self records, Giugno 2013) Genere: House Riva Starr al secondo full-length. Dal 2010 di un If Life Gives You Lemons, Make Lemonade che aveva sbancato su molte classifiche house internazionali, Stefano Miele è cresciuto, grazie anche a collaborazioni con Fatboy Slim e Beardyman, remix per Gossip, Marina and the Diamonds, Manu Chao, Dennis Ferrer, Major Lazer, Azari & III, puntatine su mondi esotici e apprezzamenti da guru del calibro di Gilles Peterson. Il DJ e produttore napoletano si svicola quasi del tutto dal verbo house e punta su un orizzonte più personale, staccandosi per un lungo e prolifico istante dal dancefloor, coltivando un savoir faire che riassume i migliori prodotti della scuola britannica in fregola big beat, pur conservando nella composizione un deciso marchio di fabbrica “starresco”: melodie cantabili, produzione che punta sulle frequenze medio basse per riscaldare l’ambiente e ritmi in uptempo per movimentare il gioco. Grazie alla collaborazione con Russell Searle, voce della band ormai estinta di Wakefield The Research, Riva costruisce un orizzonte di visioni blues in slow motion à la Santana (Columbine Sept Heures), lounge visionaria (Detox Blues), rock vintage Sixties (Am I Not Alone), tango-cumsaudade (la comparsata di Carmen Consoli in No Man’s Land), swing desertici (sorprende l’interpretazione di Vinicio Capossela in Si è spento il sole), un reggaettino ballabile pop (Bob Andy in The Care Song) e la chiusa pseudoreggaeton con Roots Manuva (We Got This Ting). L’accostamento alla decompressione ricorda i primi esperimenti dub dei Massive Attack (DubLife non a caso con il featuring di Horace Andy), ma si sposta anche sulla nuova scuola urban della Ninja (ottima Speech Debelle in Ghosts); per finire e movimentare il discorso resta sempre la carica uptempo balcanica à la Nôze del debutto (la titletrack).
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prime mover dubstep, promulgatore di reggae e dancehall fin dall’esordio sulla lunga distanza, Underwater Dancehall, e figlio artistico di Bristol tanto quanto l’uomo dietro alla mitoligica On-U Sound). I due, conosciutisi dal vivo al Fabric, hanno prima iniziato a mettere le mani sul mixorama (vedi il Resistance Mix del luglio 2012, con la versione Pinch Sherwood - feat. Andy Fairley - della Swish del primo, oppure Run Them Away di Bim Sherman rivista dalla coppia) e poi sono passati alle produzioni. Adrian ha chiesto l’aiuto di Rob per la sua Effective (che, ricontestualizzata dubstep, cambia nome in In Full Effect) e la traccia è rientrata in un re-work EP di Survival & Resistance chiamato Recovery Time. La soddisfazione reciproca per quel lavoro ha infine portato a questo Bring Me Weed, un 12’’ che strategicamente esce giusto quattro giorni prima dell’esibizione dal vivo al Sonar di Barcellona (la prima in assoluto dei due risale a non più di due mesi fa al SonarSound Tokyo e, a testimonianza, ci sono già i tubi che dicono molto di più delle parole). Bring Me Weed riavvolge il nastro delle produzioni Pinch all’altezza di una classic dubstep non calligrafica ma comunque riconoscibilissima (materia già perfettamente collaudata nei levare smaltati d’effettistica techno dub). Su questa base, Adrian mette tutto il classico On-U Sound più una certa dose di humour che viene poi sottratta nel Weed Psychosis Mix, una versione essenziale, tribale e scura dell’originale dove tornano i passi lugubri delle produzioni bristoliane del 2006, ma anche della cinematica sherwoodiana in sintonia con Survival & Resistance. Completa il 12’’ il radio edit della traccia omonima, la più patersoniana del lotto. Aspettiamo il long playing. (7/10)
L’approccio di Mele è simile a quello che aveva usato Moby nel 1999 in Play: prendere gli stereotipi musicali di stili black e riarrangiarli con altre finalità. Qui la blackness viene mutuata con la chill, il feeling urban/blues e la produzione UK. Il giochino sembra semplice, ma pochi riescono a convincere. Riva Starr ce la fa, anche se alle volte strizza un po’ troppo l’occhiolino all’immediatezza e al pop. Commerciale sì, ma con stile. (7/10) Marco Braggion
Fabrizio Zampighi
Genere: Pop, elettronica In patria pare che la chiamino semplicemente “la regina norvegese dell’electro-pop”. La stampa internazionale, specialmente quella più attenta alle voci femminili che vengono dal nord, l’ha già definita “sirena” in occasione del primo disco, Crux, pubblicato nel 2011. All’iconografia scandivana appartengono sicuramente le immagini promozionali e la copertina di questo secondo disco, pubblicato originariamente nel settembre del 2012 e ora supportato da un intenso tour internazionale. Sandra Kolstad ricorda vagamente la Annie Lennox degli 80s, con quel capello corto (seppur biondo) e la figura algida. E i riferimenti a quella decade e al sound degli Eurythmics non sono così fuori luogo ,visto che la matrice principale di questo materiale sonoro è electro-pop aggiornato agli anni Dieci del nuovo millennio. Ovviamente, scrivendo di Nord Europa, non pos-
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Sandra Kolstad - (Nothing Lasts) Forever (, Settembre 2012)
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Genere: avant-pop-dreamy Potremmo sintetizzare in maniera brusca definendo Rebecca Foon - ovvero chi si nasconde dietro la sigla Saltland - la Sigur Rós del violoncello. Paragone surreale eppure calzante, ad ascoltare le texture dreamy, ambient e persino psichedeliche alla base di un disco d’esordio comunque in linea - per lo meno in termini di immaginario - con l’approccio dilatato di quei Thee Silver Mt. Zion in cui la Foon suona. Per capirci, mentre una collega di strumento come Julia Kent lavora in totale autarchia e pubblica un Character minimalista e sperimentale, la Foon opta per un’opera corale, estremamente stratificata, che riesce ad essere anche un disco di canzoni, testi e linee vocali comprese. Quel che è certo è che la corte di personaggi di cui Rebecca si è circondata al momento di incidere ha avuto un notevole peso specifico nell’ottica del suono del disco, e non si può ridurre a mera comparsa: in primis il Jamie Thompson (Unicorns, Esmerine) chiamato al programming, alle percussioni e al signal processing e poi il sax di Colin Stetson in Golden Alley e I Thought It Was Us, il basso di Mishka Stein, le chitarre di Laurel Sprengelmeyer, il violino di Sara Neufeld e Alex Chow e l’apporto di Mark Lawson (già al lavoro
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Saltland - I Thought It Was Us But It Was All Of Us (Constellation Records, Maggio 2013)
con Arcade Fire) in fase di registrazione e di missaggio. Impossibile citare tutto l’armamentario messo in campo: tra kalimba, tromba, glockenspiel, arpa, dulcimer, tastiera, batteria, è tutto un ubriacarsi di sfumature e di livelli capaci di creare un magnetismo sonoro da manuale. Se l’eredità del gruppo madre Thee Silver Mt. Zion la si coglie soprattutto nel crescendo esplosivo di I Thought It Was Us, il carattere suggestivo ed estremamente free form del suono spunta da ogni angolo: dal droning di archi alla base di Unholy al deserto di sale di But It Was All Of Us e al folk sciamanico di Colour The Night Sky. Con il violoncello che, nonostante la generale ricchezza di dettagli musicali, mantiene il timone della parte ritmica dando vita a un disco sospeso e immaginifico, sognante e indeterminato, in puro stile Constellation. (7.1/10)
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Marco Boscolo
Sigur Rós - Kveikur (XL, Giugno 2013) Genere: alt-rock Chi ha avuto la costanza di seguire quello che si scrive dei Sigur Ròs su queste pagine da quasi quindici anni a questa parte saprà quanto li abbiamo apprezzati e perché. Volendo riassumere nel minor numero di parole possibile, la loro apparizione ci sembrò la possibilità che nel rock potesse ancora albergare una bellezza misteriosa. Romantici, fiabeschi, onirici, potenti, impetuosi, eterei, cinematici: potevi ricondurre la loro cifra espressiva alla dream-wave, al noise o più comodamente al post-rock, però restava un irriducibile elemento di auto-referenzialità, ed era proprio questo il cuore della loro proposta. Non ce li vedevi ad interagire col circo del
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rock’n’roll, non te li immaginavi - per dire - ad interpretare una cover. Potevano benissimo essere spuntati da una grotta di chissà quale ghiacciaio, ignorando chi fossero Dead Can Dance, My Bloody Valentine o Godspeedyou! Black Emperor, forti del loro hopelandic e delle loro litanie languide e selvagge. Una prodigiosa ucronìa sonora, di quelle che quando capitano senti che la tua fissazione rock è del tutto giustificata. Tuttavia, come era prevedibile, il successo - mai becero ma in costante espansione - ha finito per cambiarli, contagiandoli di normalità e rendendoli un po’ icona di se stessi. Ahiloro, ahinoi, film già visto un milione di volte. Pochi mesi fa l’uscita dal gruppo di Kjartan Sveinsson, tastierista e principale responsabile degli arrangiamenti orchestrali, ci è stata raccontata come un avvenimento morbidissimo, fisiologico. Ma ascoltando questo settimo album Kveikur - appena un anno dopo l’ambient interlocutorio di Valtari - qualche retropensiero sorge spontaneo, visto come determini una svolta decisa per il sound della band (che, particolare non da poco, si è autoprodotta). Distorsioni sintetiche, chitarre, percussività arrembante. Suggestioni industrial e tribalismo urbano, ammiccamenti post-wave ed emotività tumultuosa. Ingredienti che tutto sommato ben si combinano col retaggio espressivo, atmosferico e iconografico dei Sigur passati, producendo un mainstream alternativo (scusate l’ossimoro) di sicura efficacia. Notevole la verve e buona l’ispirazione per canzoni più concise del solito (solo la opening Brennisteinn - bradipa e robotica come gli Smashing Pumpkins di Adore al ralenti - si avvicina agli otto minuti, il resto viaggia sulla media dei cinque), tra le quali spiccano il danzereccio ammaliante di Ísjaki, la quiete amniotica (piano e archi) di Var, la suadente post-folktronica di Yfirborð e il tumulto da Coldplay surgelati di Stormur. Va meno bene con Bláþráður, dove la ricetta (ballata apprensiva + tavolozza di effetti artico/androidi + tumulto
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sono mancare i riferimenti anche a Björk: ma, più che citazioni, si tratta di alcuni modi di articolare la voce e costruire le linee melodiche che dopo l’arrivo sulla scena dell’artista islandese sono diventate diffusissime. Manca invece tutto il riferimento arty, mentre di spinge di più su synth che si tingono di blues e soul, ovviamente sbiancato e cybernetico, ma pur sempre tinta dell’anima. Rispetto a proposte scandinave come The Concretes, che si rifacevano con piglio nostalgico alla stagione europop figlia degli Abba, la giovane norvegese sembra avere studiato anche la lezione moderna - The Knives su tutti - e alla monotonia della cassa in 4/4 preferisce ritmi spezzati, non disdegnando anche collaborazioni con l’hip hop artist norvegese Son of Light. Potrebbe essere una Madonna moderna o, per certi versi, una M.I.A. senza il meticciato bangla (ma la street culture non le sembra così congeniale). Per il momento è (già) un’artista capace di pop da club da tenere in considerazione. Cosa diventerà da grande è ancora presto per dirlo. (6.5/10)
percussivo) mostra la corda dell’artificio, mentre la title track un po’ ti irrita e un po’ ti avvince coi suoi goticismi cibernetici da Depeche Mode in avaria. Insomma, cosa dire: seppellito il film che ci eravamo fatti del quartetto islandese, resta da fare i conti con questo accattivante trio alt-pop-rock solo un po’ più esotico della norma. Un tempo ti chiedevi da dove sbucavano, oggi al massimo ti domandi da dove esca quel certo suono (neanche troppo spesso, a dire il vero). E gli spot inesorabili attendono di farsene impollinare. (6.3/10) Stefano Solventi
Smith Westerns - Soft Will (Mom And Pop, Giugno 2013) Genere: classic pop-rock Crescere, maturare e trovare la propria strada. Dopo l’omonimo esordio, zoppicante e ancora decisamente immaturo (erano praticamente dei teenager), gli Smith Westerns sono riusciti a superare in agilità il classico ostacolo del secondo album post-hype con l’interessante Dye It Blonde, addirittura nominato Best New Music da un Pitchfork particolarmente in buona. Specialità della casa, un gusto retromaniaco radicato negli anni ‘70 colmo di sfumature: dallo scanzonato glamorama garage (già alla base di certo indie rock americano anni zero) agli inni britpop, passando per le dirette melodie di stampo power pop. Non fatevi fuorviare dal terzo cambio di label (dalla Fat Possum alla Mom+Pop) nel giro di tre album: sebbene l’intero concept artistico del
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Filippo Papetti
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Genere: freak hop pop Gli Smania Uagliuns sono la risposta concreta a un improbabile quanto non richiesto quesito: può esistere oggi un filo conduttore che collega la Basilicata a Detroit (o a Chicago, Atlanta, o che altro)? Un trio che è una delle incarnazioni più freak della storia del rap in Italia, con un suono unico, mutuato da innumerevoli influenze ma forgiato da un’ispirazione autentica e da un provincialismo - nel senso più nobile e antiglobalizzante del termine - che ha portato i tre a un notevole livello di originalità e stile, nelle musiche come nelle liriche. Giusto per suggerire una direzione, siamo dalle parti dei Sa-Ra o degli Outkast più colorati. Già i nomi possono suggerirvi qualcosa: Enzo “The Agronomist”, Gennaro “Pastor Flava” e Gianni “The Old Dirty Trumpet”. Un mix alieno di hip hop psichedelico, cultura rurale e armonie pastose. Una roba tipo la colonna sonora di una partita a carte tra George Clinton e il loro nonno. Troglodigital è il loro secondo disco, a quattro anni dal bellissimo Rural Chic Revolution, che li ha fatti conoscere in giro e ha ottenuto un buon successo di pubblico e critica (hanno vinto l’Arezzo
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Smania Uagliuns - Troglodigital (Reddarmy, Giugno 2013)
Wave nel 2009). A differenza del primo, questo è un album più concentrato sulle canzoni, caratterizzate da strutture meno hip hop, con grande attenzione sugli incisi e sui ritornelli. Un pregio e un difetto. Parto dall’ultimo: troppa carne al fuoco. I brani talvolta appaiono complicati e poco fluidi; The Agronomist ha un grande talento produttivo, ed è anche un ottimo musicista e conoscitore della musica, ma il salto di qualità vero può e deve farlo lavorando in sottrazione. Il pregio è che oggi in molti sanno suonare bene, in molti sanno rappare bene, e in molti sanno produrre anche buoni beats. Pochissimi però hanno un linguaggio personale. Gli Smania Uagliuns ce l’hanno. Ed è storto, rozzo, saporito e originale. Nel rap hanno fatto passi da gigante e nei cantati non li batte nessuno. Speriamo che in molti seguano la loro via. Ce ne vorrebbero a dozzine, di Smania Uagliuns. (7/10)
Riccardo Zagaglia
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Splashh - Comfort (Kanine, Luglio 2013) Genere: psy garage rock Quando nasce un gruppo di quattro elementi provenienti da tre nazioni diverse ci sono alte probabilità che il risultato finale sia perlomeno curioso. Prendete gli Splashh: Sasha Carlson (voce e chitarra, ex Colours e The Coshercot Honeys/Brain Slaves) e Jacob Moore (batteria, ex The Checks) vengono dalla Nuova Zelanda, Toto Vivian (chitarra e synth) dall’Australia e Thomas Beale (basso) dall’Inghilterra, anche se la loro base operativa è poi la solita Londra, tanto che le menzioni del caso arrivano da NME A proposito di UK, segnaliamo doverosamente una pessima reinterpretazione di I Get Along dei Libertines per il decennale di Up The Bracket e la partecipazione al Field Day e al Liverpool Sound City, come dire, i ragazzi si stanno facendo le ossa e quel che abbiamo in quest’album è un garage sound che dal vivo non dispiace. Comfort come confortevole dunque, senza complicazioni né grosse pretese, anche se molte di queste melodie armoniose e ripetitive, le chitarre distorte e riverberate, i giri basso tipici dell’era grunge e la voce effettata, da qualche parte colpiscono e non siamo qui certo a calar la mannaia. Venendo al disco, Headspins, già dalle primissime battute, sembra un pezzo random della discografia dei Pixies (diciamo Debaser, diciamo Monkey Gone To Heaven); segue l’ottimo singolo pre-release di Comfort, All I Wanna Do, à la Jesus And Mary Chain in acido. Con Vacation le chitarre si fanno surf mentre So Young - uno dei momenti migliori del disco - concede spazio a un riff affabile, chitarra elegante e batteria pulsante tutta da ballare a testa bassa (immaginate il miglior Wavves). L’altra ispirazione dichiarata - quella dei New Order - trova conferma nella linea di basso e nelle situazioni eteree della discreta Lemonade. Fresco e derivativo come la stragrande maggioranza delle uscite di questi anni, Comfort è il
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terzo album Soft Will sembri affermare il contrario, siamo di fronte ad una band tutt’altro che alla frutta. Arrivato esausto alla fine del lungo tour post Dye It Blonde, il gruppo di Chicago guidato dai fratelli Omori si è preso un periodo di relax per tornare in studio fresco, riposato e con l’intenzione di completare un necessario processo di maturazione. Così è stato: gli Smith Westerns oggi non sono più una band di ragazzini con la chitarra in mano e con poche idee in testa, ma credibili compositori di ariose pop-rock songs. Con un Chris Coady (Beach House, Wavves...) ancora una volta in cabina di regia, Soft Will suona come un disco di esperti musicisti middle-aged amanti dell’equilibrio e con una repulsione per gli eccessi. Un songwriting all’apparenza semplice che sicuramente fatica ad impressionare un orecchio alla ricerca del nuovo o di un immediato coinvolgimento, ma che in realtà riesce a giocare egregiamente le proprie carte nell’arrangiamento, nei giochi a due tra tastiere e chitarra e nelle armonie corali. C’è qualcosa dei compianti Girls di Father, Son, Holy Ghost nella capacità di suonare classici tra malinconiche ballad per crooner (Cheer Up e la sognante White Oath) e nello strumming acustico virato psy della pinkfloydiana e strumentale XXII, così come è possibile trovare anche richiami ai Beatles del secondo periodo e al tocco di Spector nel progressivo spostamento verso coordinate temporali vicine ai Sixties. Forse privo della vitalità sbarazzina dei primi tempi e di standout track in grado di far svoltare una carriera (anche se il livello medio è piuttosto elevato), Soft Will è comunque il loro lavoro più coeso e dalla direzione meglio definita. Gli Smith Westerns hanno smesso di voler essere cool a tutti i costi e, a conti fatti, ci abbiamo guadagnato un po’ tutti. (7/10)
tipico esordio di belle speranze dove non mancano gli episodi troppo indulgenti (Lost Your Cool) e le canzoni senza la giusta convinzione (Strange Fruit). Chi vivrà, e sopravviverà, vedrà. (6.9/10) Alessandro Rabitti
The Drones - I See Seaweed (MGM Records, Maggio 2013) Genere: hard blues Havilah è stato un punto di non ritorno per Gareth Liddiard. Su quell’album, l’australiano non si limitava ad affondare le braccia fino ai polsi nei recessi waitsiani e nella polpa macilenta del Nick Cave più luciferino. C’era un’epicità trasfigurata di chi risorge dopo aver toccato il fondo, di chi ha
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Alessandro Liccardo
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Genere: indie, alt-rock Non sono ancora riusciti a sfondare sul serio, i Boxer Rebellion, nonostante l’impegno profuso e l’inserimento di alcune loro canzoni in colonne sonore di film e serie TV (da One Tree Hill a Grey’s Anatomy). Incidono per una piccola etichetta ma hanno grandi ambizioni, e lo si percepisce dalla produzione opulenta del quarto album Promises, che giunge a due anni di distanza da The Cold Still e dopo una raccolta in due volumi di lati B e rarità; come nel precedente lavoro, anche qui si alternano momenti di elettricità (con un uso più deciso di tastiere e ritmiche ballabili rispetto al passato) ad altri contraddistinti da un mood cinereo, e sul vassoio abbiamo un frullato di alternative rock che suona adulto senza essere bolso e pulsioni più genuinamente indie, in un disco che cerca (e spesso riesce) a dare un colpo al cerchio e uno alla botte shakerando i Keane e i National, gli ultimi U2 e gli Snow Patrol. Promises è la naturale conseguenza di quanto abbiamo ascoltato e apprezzato in The Cold Still. La barra non è stata spostata troppo, e con ordine e dovizia di particolari si ritrovano tutti i punti di forza della proposta della band di Nathan Nicholson: Diamonds, il singolo di traino, è una Step Out Of The Car più eterea e spaziosa, ricca come al solito di riverberi, sostenuta da una batteria robusta e impreziosita da una sei-corde fluttuante che opera in perfetta armonia con pad tastieristici efficaci e ariosi, mentre Fragile ci invita a ballare con le lacrime agli occhi, come se fosse l’ultimo giorno del mondo. Si parte con synth
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The Boxer Rebellion - Promises (Absentee, Maggio 2013)
rubati ai Depeche Mode di My Secret Garden, poi avvertiamo Nathan che canta in un angolo, quasi chiuso in gabbia, mentre lo spazio attorno si colma man mano che la canzone va avanti fino a raggiungere un climax tanto urgente quanto liberatorio - e questo avviene in molti nuovi brani, come New York (con tribalismi à-la-Bastille che entrano a sorpresa a stemperare la malinconia). Bono e The Edge restano nel pantheon dei Boxer Rebellion, e la cosa è particolarmente evidente in Take Me Back (un tentativo riuscito di riscrivere la loro Magnificent meglio degli U2 stessi), e resistono anche i feticci coldplayani in brani come Low, You Belong To Me e Keep Moving. Non c’è un suono fuori posto, eppure quelli che in un primo momento sembrano punti di forza si dimostrano grandi limiti: qual è lo stile dei Boxer Rebellion? “Che musica fanno?”. Ancora non si è in grado di dare una risposta precisa senza tirare in ballo i padri più o meno nobili, e dieci anni dopo l’esordio inizia ad essere un problema non da poco. Spesso la folla di strumenti e di effetti speciali nasconde carenze compositive di pezzi che, spogliati, mostrano ritornelli deboli e testi sui generis. Promises è un disco di cui ci si può innamorare facilmente al primo ascolto, ma che può già stancare al terzo: il rischio di tramutarsi in una versione giusto un po’ più interessante degli Young The Giant è dietro l’angolo e le promesse, alla fine, sono state mantenute solo in parte. (6.4/10)
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Diego Ballani
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Thundercat - Apocalypse (Brainfeeder, Luglio 2013) Genere: funk / space Stephen Bruner cresce come artista a sé, lasciandosi alle spalle un debutto che non avevamo potuto non bastonare per la semplice ritagliorama di produzioni funk’n’fusion che era, una cosa senza pepe, senza guizzi, addirittura senza neppure sfoggio di expertise. La base è la stessa, (electro)funk-soul ‘80, l’area di riferimento ovviamente pure (siamo sullo stesso scaffale di FlyLo, Badu, Sa-Ra ecc.), ma qui c’è molta meno tentazione jazz sbandierata e tanta più cantabilità pop, meno brandelli di - wannabe - prog black e 2.0 e più linearità espositiva. Meno esercizi produttivi buttati un po’ lì e tante più canzoni costruite con criterio insomma. E finalmente, se anche gli strumentali (The Life Acquatic, Seven) e le jam (Lotus and the Jondy, ottima) sono più stringati, più compiuti (esemplare Tron Song, coi suoi saliscendi baduani e la ritmica wonky lotusiana) e soprattutto più funzionali alla scaletta. E se ci sono tanti ottimi pezzi che non sono altro che l’ennesimo esempio di come la generazione di artisti black nati a cavallo tra anni Settanta e Ottanta abbia assimilato e fatto propria la musica che sentiva in culla o in tinello, Prince come sempre sopra tutti. Doverosa la dedica allo scomparso Austin Peralta (A Message for Austin / Praise the Lord / Enter the Void), con quel taglio tutto americano dei tributi (vedere, per esempio, quello che aveva confezionato Georgia Anne Muldrow per Michael Jackson), tra sincerità e paillettes, commozione e kitsch. (6.9/10) Gabriele Marino
Tom Odell - Long Way Down (Columbia Records, Giugno 2013) Genere: piano-pop A livello mainstream, l’Inghilterra cantautora-
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visto l’inferno e torna a parlarne con fare messianico. La band costruiva il suo heavy blues brullo, in cui si intravedevano oasi di pura beatitudine. Da altezze così elevate si poteva solo cadere. I See Seaweed ha il pregio di attutire la caduta. Spinge la formula Drones alle estreme conseguenze, perdendo di vista il fragile equilibrio fra grazia e angoscia del precedente lavoro. I brani lunghi, molto lunghi, esaltano la vena narrativa del leader a discapito della musicalità. A far funzionare il tutto è la personalità di Liddiard, uno che sembra vivere ogni parola che canta - lo senti nella voce che si rompe per la disperazione, in quei lamenti che lasciano la gola secca. Miracolosamente, la magia arriva quasi sempre. Magari quando il suono della chitarra sommerge la voce affranta e la consola con un assolo distorto, ai limiti del caos (They’ll Kill You). Oppure quando la band inscena il teatrino claudicante di The Grey Leader, la cui lugubre litania finisce per liquefarsi in un bollente finale rumorista. Mancano gli squarci di luce, una Oh My che stemperi l’atmosfera e che allenti la morsa allo stomaco. Nel finale la band colpisce ancora più duro. Prima con Laika, la cui struttura “progressiva” e le cui aperture di archi le conferiscono le fattezze di un musical grottesco. Poi con i nove minuti della conclusiva Why Write A Letter That You’ll Never Send, un ottovolante emotivo in cui Liddiard descrive l’inferno sulla terra con tono millenaristico, fino a giungere all’amara constatazione che “we’re animals who can’t help doing what all animals do”. Si arriva in fondo con l’affanno, ma poco importa: i Drones di I See Seaweed sono una delle realtà australiane più estreme e coraggiose. Seguirli anche nei recessi più tenebrosi del loro songwriting resta un gesto di fede nel rock e nella sua capacità ineguagliabile di descrivere l’apocalisse. (7/10)
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Riccardo Zagaglia
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passaggi piano e voce (Long Way Down, I Think It’s Going to Rain Today) quanto nei brani più dinamici (in zona Starsailor), vicini ad un certo modo di intendere il pop inglese fermo al post-Parachutes. Si allontanano leggermente dai binari balladry gli accenti Veilsiani di Till I Lost e Supposed To Be: strofa sulla falsariga di Lay, Lady, Lay e chorus vagamente riecheggiante Bowie. L’estro non manca - pur non avvicinandosi al colpo di genio del primo Ben Folds - e dalla sua, oltre all’età, Odell può sicuramente vantare doti canore interessanti - in Sense scatta il confronto, blasfemo, con Jeff Buckley - ma il risultato complessivo di Long Way Down è fin troppo stantio e pulito ( il “My skin is rough but it can be cleansed” di Can’t Pretend suona quasi come un manifesto). Talmente innocuo da non lasciare traccia. In quanto cantautore nessuno si aspetta da lui chissà quali innovazioni (proprio dieci anni fa usciva un elogio alla semplicità come O di Damien Rice), ma almeno qualcosa di più di una manciata di canzoni che “se mi capitano durante uno zapping radiofonico non cambio necessariamente stazione”. (5.5/10)
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le ormai da anni riesce a sopravvivere grazie a nomi, a parte rare eccezioni, perennemente in bilico (chi più e chi meno) tra vero talento per il songwriting pop e sonorità sfacciatamente da classifica: dagli anni Zero targati James Blunt, James Morrison e Paolo Nutini agli anni Dieci di Ben Howard e Ed Sheeran (quest’ultimo esploso anche negli USA) abbiamo assistito ad un continuo ricambio di facce pulite - ma sempre con qualche sassolino nella scarpa - in grado di mettere d’accordo madri e figlie. Nel 2013, se tutto va come previsto, dovrebbe essere il turno di Tom Odell. Classe 1990, nato nel West Sussex e fin da piccolo appassionato di pianoforte, Odell ha visto aumentare le proprie quotazioni mediatiche mese dopo mese: dall’inclusione nella lista BBC Sound of 2013 fino alla vittoria ai Brit Awards nella categoria “Critics’ Choice” (negli ultimi anni ci sono passat Adele, Florence & The Machine, Emeli Sandè, Jessie J... ovvero i principali nuovi bestseller del made in UK). I due singoli radio-friendly - Hold Me e Another Love, contenuti nell’EP Songs From Another Love - sono bastati per trasformare il biondo piano man nell’ennesima nuova promessa del pop inglese - nonostante risultati per il momento migliori in territori mitteleuropei - e per creare attorno all’album di debutto quella classica attesa (spesso arma a doppio taglio) destinata agli esordi da grandi numeri. Long Way Down, pubblicato via Columbia e posticipato per una release il più possibile internazionale, è un dieci tracce che viaggia in acque sicure dalla prima all’ultima nota. Colonna sonora ideale per le ultime inquadrature in slow motion - artificialmente commoventi - di qualche teen drama, la musica di Tom Odell è alla perenne ricerca dell’emozione. Odell - che tra un mesetto aprirà per i Rolling Stones ad Hyde Park - sembra onesto nella sua fragilità dai tratti romantici, ma rischia spesso di eccedere nell’ostentare intensità: lo fa tanto nei
UK Decay - New Hope For The Dead (Rainbow City, Maggio 2013) Genere: art punk Non mi fingerò l’esperto di UK Decay che non sono. Per anni le mie compilation punk / postpunk prevedevano l’inclusione del loro singolo For My Country, ma a parte quello e qualche ascolto distratto di For Madmen Only, il combo di Luton è stato per me una landa largamente inesplorata. Secondo album in assoluto, primo dopo trentadue anni. Vengono in mente i Mission Of Burma, capaci di rinvigorire una carriera estinta da decenni, grazie a un mix di intelligenza e tempismo. Sì, perché nel frattempo il mondo ha compiuto
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travviene a una delle regole d’oro del rock. Può un gruppo realizzare l’album più affascinante e focalizzato ad oltre trent’anni dall’esordio? Gli UK Decay sono pronti a scommettere di sì. (7.1/10) Diego Ballani
Vår - No One Dances Quite Like My Brother (Sacred Bones, Maggio 2013) Genere: synth wave A formare i Vår sono quattro ragazzi schizzati fuori dalla fucina dark danese: c’è Elias Bender Rønnenfelt degli Iceage (ed ecco spiegato un certo hype intorno al combo), poi Loke Rahbek dei Sexdrome, Kristian Emdal dei Lower e un Lukas Højland che pare ancora non poter sfoggiare alcuna coolness da underground semisconosciuto. Pazienza, si farà. Tornando a No One Dances Quite Like My Brothers, è bene dire che non propone chissà quali novità, infilandosi dritto dritto in quel filone - chiamatelo come volete - dark-synth-coldminimal wave di ispirazione ‘80s, a cui etichette newyorchesi come Sacred Bones e Wierd records stanno dando nuovo lustro. E in questo contesto la marcia in più dei Vår sta in una certa varietà e freschezza della proposta. Da una parte si tira a lucido il nero classico: la wave in 4/4 di The World fell, l’industrial dei Coil che torna senza neanche tanto trucco (Hair like Feathers) e obbligatoriamente desolazioni d’amore curtisiano (gli echi lontani di Katla). Il resto viaggia nei colori lascivi del synth pop (Begin to Remember), nei meticci neofolk nati con la complicità di Sean Rogan in fase di produzione (Into distance che incrocia i Bauhaus con le cavalcate western Cult of Youth) per finire con l’ambient industrial della title track e Boy, episodi di facile digestione ma comunque capaci di creare un certo effetto sorpresa. Dunque un bel debutto per i Vår, debutto che trova anche la giusta tensione emotiva con un romanticismo algido e appassionato, in cui
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parecchi giri, ha generato gruppi come gli Art Brut, che al furore declamatorio di Steve Abbot devono tutto o quasi; infine si è riassestato sulle coordinate che avevano favorito la nascita di band come i Decays. Così, nel 2008, il gruppo si è riunito (per la seconda volta) e dopo un tour tutto sommato soddisfacente si è sentito pronto a ritornare in studio. Il risultato è un album moderno, spietato e urgente come se fosse suonato da ventenni cresciuti ascoltando Wire, PIL... e UK Decay, va da sé. Sono sicuro che per molti la cosa puzzerà di stantio, ma fidatevi, non è così. Le ragioni sono tante. Su tutte, una congiuntura politica e sociale che non è certo delle più felici e che da sola è in grado di giustificare i toni apocalittici tanto cari alla band. Le parole d’ordine sono le solite: l’ipocrisia della religione, il vizietto imperialista degli USA, l’ingiustizia sociale diffusa. Tutti temi trattati con un’arguzia e una virulenza polemica che non teme di suscitare rancori (vedi gli attacchi caustici di Heavy Metal Jews). A livello squisitamente musicale poi, colpisce la carica esplosiva e la ferocia controllata di brani come Shake ‘em Up, un’opener Punk con la “P” maiuscola che ci predispone subito ottimamente nei confronti del disco. I suoni sono puliti e potenti, ma hanno bordi taglienti e un cinismo che non si trova nelle nuove produzioni. Merito di una band che con la maturità ha ispessito il proprio carattere e che accanto a pezzi in linea con la sua migliore produzione (il talking sarcastico di Next Generation????, il drumming tribale di Revolutionary Love Song), può permettersi coraggiose variazioni sul tema. Dal funk bianco espressionista di Woman With a Black Heart, alla filastrocca industrial di Killer, passando l’hip hop su trame gotiche di Shout, i Decays mostrano una versatilità e un entusiasmo che lasciano interdetti. La preghiera blasfema di Drink, accompagnata da violino e da lugubri note di basso, assesta il colpo finale e fornisce l’argomento decisivo a favore di un album che con-
affiorano con sincerità (il disco è stato registrato nell’arco di una settimana) gioventù e dolori esistenziali. Saranno mica quattro nuovi giovani Werther? (7.3/10) Stefano Gaz
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Enrica Selvini
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Genere: rock Dopo il fortunato esordio targato 2011 Siamo pur sempre animali che vedeva la partecipazione di Appino, Gianluca Bartolo e Francesco Motta (rispettivamente deus ex machina di The Zen Circus, Il pan del diavolo e Criminal Jokers) i Venus In Furs tornano con BRA! (Braccia rubate all’agricoltura), EP di sei tracce su supporto Key-Play. Il quartetto toscano non sposta di molto le coordinate musicali rispetto al passato, continuando su un garage-rock venato di blues con più di un debito verso i 70’s (emblematica la opening track Leggings), evidenti rimandi ai più recenti Black Keys (Braccia rubate all’agricoltura) e, qua e là, intrecci vocali che riportano alla mente certo revival goliardico à la Eagles of Death Metal (Nel Nome del Padre). Poco più di quindici minuti per sei brani freschi, diretti, ma senza particolari sorprese, non fosse per la brevissima Nel blues dipinto di blues (divertissement a cappella che ci trasporta dai bassifondi dell’anima a quelli di New Orleans) e per Via del Cappello, ballata metropolitana dal retrogusto marlenekuntziano. Resta un EP da ascoltare a tutto volume, che si fa bandiera di un’invettiva dai toni accesi, rivolta a bersagli forse troppo stereotipati (e abusati: dal figlio di papà al finto alternativo, passando per il clero) con un uso delle parole che, per quanto pungente, fatica a scalzare la retorica del già sentito. (6/10)
Genere: industrial, techno Il full length della criptica coppia di producer Shapednoise (italiano di base berlinese) e Violet Poison, autore anonimo con già all’attivo un’uscita per la fernowiana Hospital Productions, è sicuramente da annoverare già in partenza tra le più notevoli prestazioni del 2013 in chiave di un ripensamento dark e industrial del suono dancefloor. Se negli anni precedenti questo matrimonio si celebrava sotto le suggestioni delle metriche proto-(dub)-step (Shackleton, Demdike Stare e Stott in certe sue declinazioni), accade ora invece che sia il quarto technoide a dominarne gli orizzonti. Pertanto si verifica qui quello che, in un certo senso, si è lasciato presagire già da alcuni annunci e da una manciata di uscite negli ultimi mesi. La determinazione dei due (meno inclini di altri all’autocompiacimento) è significativa per il taglio fondamentalmente quadrato e da maratona, più fluido e meno stilemicamente situazionale rispetto ai colleghi Prurient o Feral Love (ma non solo), e, quindi, per la definizione di una dimensione più propriamente ballabile. Il disco, otto brani per quaranta minuti circa, pur se votato alla ripetività techno, ha un suo respiro (la finale Anesthesia è del tutto priva del beat) che, nel contempo, esclude le digressioni interiorizzate cerebralmente alla Fernow come anche le lapidazioni iconoclaste e violentissime di uno Swanson, per dire. Non ci si dissocia tuttavia, alla fine dei conti forse per inerzia, dalla reiterata retorica misticheggiante della notte, visto che leggendo le esigue note incluse nel gatefold si rintracciano elementi per ricondurre il tutto a una sua poetica. Elementi, tra l’altro, già emersi in molti dei mostri sacri del filone (la quarta di copertina del solito Prurient, come anche la fondamentale e sloganistica contestualizzazione del lavoro sul sound per altri italiani a Berlino, i
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Venus In Furs - Bra! Braccia rubate all’agricoltura (Phonarchia, Aprile 2013)
Violetshaped - Violetshaped (Violet Poison, Marzo 2013)
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Michele Ferretti
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Visage - Hearts And Knives (Blitz Club Records, Maggio 2013) Genere: synth-pop, new wave Mancava giusto lui all’appello. Dopo il ritorno dei Devo, dei Cars, dei Blondie di Deborah Harry, dei Magazine di Howard Devoto e persino di band minori come i Men Without Hats (lo scorso anno) e i Johnny Hates Jazz (un mese fa), Steve Strange è tra gli eroi della stagione new romantic e di quell’epopea raccontata da Boy George con il musical Taboo che reincontriamo con maggior affetto; sarà perché è un vero sopravvissuto, come abbiamo appreso dalla sua autobiografia Blitzed!, ma anche perché nei primi anni Ottanta ci consegnò due gioiellini - Visage, con quella Fade To Grey immancabile in una retrospettiva del decennio che si rispetti e che è stata spesso saccheggiata, da Kylie Minogue in Like A Drug così come da Kelly Osbourne in One Word (e, di riflesso, dal ‘nostro’ Tiziano Ferro in Stop! Dimentica) e The Anvil - che hanno funzionato da blueprint per una miriade di artisti nati proprio in quel tanto amato quanto vituperato periodo. Il new romantic è stato sempre un affare di cuori palpitanti e coltelli, un vulcano d’amore (a volte felice, più spesso tormentato) in una gelida cella di silicone, una fascinazione per il futuro a suon di tastiere e batteria elettronica e un rifugio nel passato grazie a melodie incisive, senza tempo. Ed è proprio nel luogo del delitto che i Visage ritornano, con un album dalla lunga gestazione (Hearts And Knives), dopo ventinove anni di silenzio; è un synth-pop ortodosso, quello che Steve Strange, Steve Barnacle, Robin Simon (un tempo il chitarrista degli Ultravox! e dei Magazine) e Lauren Duvall offrono con questo nuovo disco che riprende il discorso dal punto esatto in cui fu interrotto. Sembra un lost album del 1985, per quanto fedelmente sono stati ricreati suoni e atmosfere: niente soft synth, niente suoni moderni e affilati come lame, evitata come la peste la compressione dinamica e la loudness war (da
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Dadub). Ad ogni modo, il disco, techno e oscuro nella sua estetica distopica/post-cyber - dance music sempre filtrata dal noise e dal glitch più incompromissorio che non manca di episodi altri -, è pure dotato di incursioni breakcore al limite del citazionismo (Hecate, il vecchio Lustmord, riecheggiano nelle parti semiconclusive, in Spectral Nightdrive ad esempio), come dell’industrial più ebm-oriented (Clock Dva su tutti, visto il gusto dei Violetshaped per la retro-elettronica). I suoni, nella loro plasticità più che sinteticità, sembrano un bell’approfondimento della direzione di ricerca di Silent Servant, per quanto con una evidente attenzione per l’arrangiamento meno articolata e senz’altro meno incline alla tessitura di melodie. Lo sforzo è votato piuttosto alla costruzione di una cappa di isolamento funzionale alla identificazione dell’immaginario che può essere, ad ogni buon conto, un po’ ostica per una digestione trasversale. L’album, di fatto, ha un suo peso e una sua forza specifica, se già dalle prime battute sembra di assistere ad una specie di miracolo. L’ascoltatore, probabilmente impressionato dall’incedere iniziale, può credere di trovarsi di fronte alla conclusiva concrezione del suono dark techno, che è la sua ballabilità completa. Una prospettiva secolarizzata e approfondita rivela invece risultati differenti, senza che se ne diminuisca l’importanza: un disco sì dotato di spessore indiscutibile, ma che forse ha soprattutto il merito di rivelare l’intrinseca debolezza di uno schema compositivo che al beat non sa accompagnare che scenari alla Akira. I quali, annientati dalla loro stessa ripetizione ad libitum, si esauriscono di significato e diventano inoffensivi. (6.9/10)
Alessandro Liccardo
Waxahatchee - Cerulean Salt (Don Giovanni records, Marzo 2013)
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Genere: Indie Se nei 70s avevi vent’anni e volevi emozioni forti, ti mettevi sulla strada per una vita raminga sulle tracce di tutti gli hobo e i Neal Cassady che avevi in testa. Un’idea di vita che si specchia anche nella musica di quegli anni, vedi un Lester Bangs che segue tour infiniti in giro per gli States. Se i vent’anni, invece, li vivi oggi e dentro di te alberga ancora uno spirito rock indomito e primigenio, però, quella vita non ha più molto senso: troppe le componenti digitali, le connessioni quotidiane e troppo poche le terre da esplorare alzando il pollice lungo la statale. Quel mito 70s diventa allora un feticcio fragile, da andare a scandagliare attraverso la lente d’ingrandimento del rock 90s: storie di teenage angst, vite vissute, sofferenze sputate tra i denti, dolenze cosmiche sporcate della polvere di una strada immaginata. Si inserisce in questo contesto la fin qui breve parabola di una Katie Crutchfield - in arte Waxahatchee, vent’anni o poco più - che dall’Alabama arriva a Philadelphia per registrare in casa (ovviamente vissuta in condivisione con la sorella gemella e il resto della band) il secondo disco. Cerulean Salt è uscito a inizio marzo negli States e la Crutchfield è osannata come la nuova musa del rock. Le vendite di aprile, sempre negli USA, confermano la crescente attenzione attorno alla chanteuse dell’indie-mondo a stelle e strisce. Gli elementi per fare il salto da una misconosciuta realtà indie a un act capace di portare su di sé le luci della ribalta ci sono tutte: la carica reazionaria di un mix musicale post-grunge à la Pearl Jam decaduti, il tocco riot grrrl (humus urbano dal quale emerge la stessa Crutchfield) di una
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quasi concomitante, di una raccolta della Spectrum/Universal potrebbe darci ragione. (6.6/10)
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oltre dieci anni un vero cruccio per gli audiofili più intransigenti). E’ un’elettronica morbida, quella che ci accompagna durante le dieci canzoni, che quando può evita l’autoplagio (anche se è emozionante riascoltare la stessa drum machine usata per Fade To Grey, la Roland CR 78, in She’s Electric) e strizza l’occhio alla new wave tutta, ai Japan moroderiani di Life In Tokyo nell’opener Never Enough e agli Human League nel primo singolo Shameless Fashion, quasi il rovescio della medaglia di Night People dall’ultima fatica della band di Philip Oakey. Molti gli ospiti coinvolti durante le registrazioni, da Dave Formula (Magazine) e Michael MacNeil (ex-Simple Minds) alle tastiere ad altri veterani come Rusty Egan e Midge Ure. E’ una batteria vera, quella che ascoltiamo in otto brani su dieci, e ad emergere il più delle volte sono i riff chitarristici di Simon e il basso pulsante di Barnacle (mentre la voce di Steve Strange resta sempre un tantino anonima); c’è molto Martin Rushent produttore alla cui memoria, non a caso, è dedicato il disco - in On We Go e nell’obliqua Lost In Static, così come un piacevole aroma di Hot Chip e di Cut/Copy pervade il secondo singolo Dreamer I Know. Mancano solo una palla specchiata ed ecco che si fa sentire la voglia di scendere in pista da ballo, con il make-up che cola sul viso, durante il quattro quarti di I Am Watching (vicino più che mai a Sensation Nation e All Out Of Love dei riuniti Soft Cell di Cruelty Without Beauty), mentre è una rabbia punk che si fa strada in Diaries Of A Madman. Con Hearts And Knives Steve Strange mette in piedi una dichiarata operazione nostalgia, che si regge grazie a una manciata di buone canzoni ma che a volte tentenna a causa di una produzione stranamente raffazzonata, che non permette al lavoro di spiccare seriamente il volo. Tuttavia, è molto probabile che quanto abbiamo tra le mani sia sufficiente per far tornare i Visage al centro dell’attenzione degli addetti ai lavori - e l’uscita,
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Marco Boscolo
Zomes - Time Was (Thrill Jockey, Aprile 2013) Genere: ritual music Entrano in studio e diventano un duo, gli Zomes. Ad Asa Osborne si affianca in pianta stabile quella che era stata un collaboratrice veramente estemporanea. Hanna Olivegren è una cantante svedese che, vuole la leggenda, sia stata presentata all’ex Lungfish dai compagni di merende Skull Defekts e sia salita all’improvviso sul palco di Zomes durante il festival New Perspectives in Svezia. Le colorite note di cronaca per una volta, però, sono l’esatto corrispettivo sonoro di Time Was, album numero due per Thrill Jockey e sforzo collettivo che ci dice di una alienata fusione di elementi opposti che si intersecano alla perfezione. L’ibrido tra l’asettico e cosmico procedere dei synth di Osborne già apprezzati all’epoca di
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Earth Grid e la suggestiva, ammaliante, ritualistica voce della svedese, sono una sorta di rielaborazione in chiave nera del dream pop alla Cocteau Twins et similia appoggiato sulle lande più visionarie e stordenti del revival neo-kosmische (chiamiamolo così per comodità) senza scadere in panegirici moan-wave. Vengono in mente i Moon Duo a 32 giri e i Velvet nerovestiti - più per comunione d’intenti che per effettivi risultati - alle prese con un sabba nero pece, ma insieme sempre ascetico e sognante (Monk Bag), così come esperienze estetiche ed estatiche misconosciute ma non per questo meno incisive (gli Urdog, seppur più tradizionalmente “rock” e deraglianti ma sempre trainati dal sacro fuoco rituale), perché a guidare le fila del neo-duo è più un immaginario che uno specifico suono, come sarebbe comprensibile vista l’esiguità delle forze in gioco. È l’ipnosi, la ricerca dell’alterità e della devianza della coscienza che si espande verso l’ascoltatore un po’ come i semicerchi concentrici dell’artwork, regalandoci un album splendido ed elegante, ipnotico e sognante. L’ennesima dimostrazione di come da quella fucina che furono i Lungfish escano fuori alcune delle cose “psych” più entusiasmanti del lotto. (7/10) Stefano Pifferi
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voce roca ed espressiva quanto basta, l’attenta alternanza di pezzi più muscolari (sebbene mai troppo) a ballad acustiche da cantare con il cuore in gola. Peccato che non vi si ritrovi segno di un ritornello, anthemico o meno, che si ricordi. Era in fondo anche questo a rendere grandi brani di band degli anni Novanta come i già citati Pearl Jam, gli Screaming Trees, gli Afghan Wigs, solo per dire di alcuni che hanno lasciato un segno. Ma non convincono nemmeno i paragoni con PJ Harvey (che negli anni si è scelta un percorso in direzione diversa dalla reazione rock), ma anche di un’artista tutto sommato sottovalutata come Kirstin Hersh o dalla solidità delle Sleater Kinney. Se la ragazza si farà, è tutto da vedere. Per il momento non riesce a trovare una via d’uscita a un sentimento di devozione probabilmente sincero, ma che sembra condannarla a un vicolo cieco. (6/10)
Le molte vite di
Sixto
Rodriguez Una carriera schiacciata dal peso dell’insuccesso mentre altri continenti lo acclamavano come star del folk rock. A sua insaputa. In un documentario premio Oscar, l’incredibile storia di Sixto Rodrìguez. Testo: Stefano Solventi 108
un altro flop, quello definitivo. Rodríguez getta la spugna e scompare dalle scene. Intanto però Cold Fact ha attraversato l’oceano, è arrivato non si sa bene come in Sudafrica dove in breve diventa un album di culto, censurato dal regime razzista del National Party e anche per questo colonna sonora Non sono pochi i momenti memorabili di Searclandestina di quanti anelavano libertà di espresching For Sugar Man, il documentario di Malik Bendjelloul vincitore di una pletora di premi, dalla sione e la fine dell’apartheid. fiera delle vanità indipendenti del Sundance al tri- Due generazioni di sudafricani credono ad una pudio patinato dell’Oscar. In particolare, a colpirmi leggenda dalle origini oscure, che vorrebbe Rodríè stata l’espressione di certi volti, illuminati da una guez addirittura morto suicida sul palcoscenico (con un colpo di pistola? Si è cosparso di benzina specie di stupefatta rassegnazione. Come nella scena in cui il produttore Steve Rowland mette sul e poi dato fuoco?). Ma nel 1997 un fan - il gioielpiatto Cause, la traccia finale di Coming For Reali- liere Stephen “Sugar” Segerman - ed il giornalista ty, sottolinenadone l’intensa, devastante tristezza. musicale Craig Bartholomew Strydom decidono di saperne di più e con loro sorpresa, dopo fru“Come è possibile”, esclama con palpabile sconstranti cortocircuiti e vicoli ciechi apparentemente certo, “che uno capace di scrivere canzoni tanto belle sia stato completamente ignorato?”. O come senza soluzione, decidono di aprire un sito, The quando la figlia minore di Rodríguez, Regan, riferi- Great Rodriguez Hunt, globalizzando così la loro sce di come malgrado tutto l’hype improvviso suo “caccia”. E’ la svolta: un giorno ricevono l’e-mail di una donna che sostiene di essere Eva, una delle padre si ostini a vivere una vita modesta, “molto modesta”, quasi a suggellare un destino da percor- tre figlie di Rodrìguez, nella quale li informa che rere fino in fondo. Infine e soprattutto c’è lui, Sixto Sixto è vivo e vegeto, ha appeso la chitarra al chiodo e lavora come manovale a Detroit. In preRodríguez, palesemente a disagio di fronte alla da all’euforia si mettono in contatto con lui e gli telecamera, quando alla richiesta di spiegazioni circa il motivo per cui decise di arrendersi così pre- comunicano che dalle loro parti è un idolo delle masse. sto, di mollare il sogno folk rock e rassegnarsi ad una vita di lavoro duro e anche durissimo, rispon- Tutto il resto è favola: organizzano un tour sudafricano di sei date, ovviamente esaurite, che si rivela de: “non si può sfuggire alla realtà”. un trionfo. Finalmente, dopo uno iato di un quarto di secolo, Sixto Rodríguez torna a congiungersi Caten a d i ev e n t i (n egat iv i ) con il se stesso che avrebbe voluto - che avrebbe E’ una pellicola destinata a lasciare un segno profondo, Searching For Sugar Man. Una storia pazze- dovuto - essere. E’ un happy ending, certo, ma il sca proprio perché vera. Per quei tre o quattro che documentario di Bendjelloul preferisce fermarsi dalle parti d’una sospensione agrodolce, ti lascia non ne abbiano ancora sentito parlare, possiamo con la sensazione che nulla potrà essere davvero riassumere così: nel 1970 Sixto Díaz Rodríguez, riparato. Anche se forse il messaggio vero è un un manovale di Detroit neanche trentenne figlio altro, ovvero che in realtà non c’è molto da ripadi un immigrato messicano, pubblica Cold Fact, rare perché ciò che è stato infranto è solo il circo un album di folk rock tra il cantautorale e l’acido illusorio del successo, mentre ciò che conta davche viene apprezzato dagli addetti ai lavori ma non ottiene il benché minimo successo. Ci riprova vero - l’arte e la vita - ha compiuto i passi giusti. l’anno successivo con Coming From Reality, ma è Rodríguez infatti vive la fama tardiva come un “And you can keep your symbols of success/Then I’ll pursue my own happiness/And you can keep your clocks and routines/Then I’ll go mend all my shattered dreams/Maybe today, yeah/I’ll slip away”
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gradevole accidente, non se ne serve per stravolgere (in meglio) la propria esistenza. Continua ad abitare nella casa di sempre. Ha l’aspetto di chi è stato logorato dalla vita. Si muove con evidente difficoltà. E’ un bohemienne discreto, non conosce arroganza, parla con una modestia inscalfibile dissimulando una saggezza tenace. La cosa che più intristisce è che fatichi a riconoscervi l’autore di quelle vecchie canzoni così intrise di lirismo e disincanto, così aspre eppure delicate. E neppure avverti traccia di quel fuoco che lo portò a mettersi in corsa per la poltrona di sindaco di Detroit negli anni Ottanta, guadagnando l’ennesimo inappellabile insuccesso. Da questa catena di sconfitte pubbliche sembra che sia uscito schiantato, sminuito, ridotto a più miti consigli. Spinto a ritirarsi nella dignitosa pienezza di una vita di basso profilo, sacrificando il talento e spezzandosi la schiena per garantire il miglior futuro possibile alle tre figlie. “Non si può sfuggire alla realtà”.
Cold Fact: ro m an t ic i sm o e as p r e z za Ma al netto della struggente peculiarità di questa vicenda, e dell’inevitabile portato di drammatizzazione cui pure il documentario non rinuncia, musicalmente di cosa stiamo parlando? Merita davvero Sixto Rodríguez tanto tardivo riconoscimento? Detto che un ascolto distaccato non è facile, soprattutto dopo aver visto il film, la risposta non può che essere: sì. Cold Fact ed il pur minore Coming From Reality sono due dischi molto buoni, con momenti di vera e propria grandezza folk rock. Dentro puoi sentirci l’invettiva laconica - in forma talking blues - e visionaria di Bob Dylan, il ciondolio acido di un Arthur Lee, l’attitudine soul insidiosa del Van Morrison più morbido, il caracollare asprigno di Donovan, l’irrequietezza trattenuta a stento degli Animals e lo strascicato languore d’un José Feliciano. Un po’ crooner e un po’ beatnik - uno dei principali motivi di suggestione sta proprio nel non farti
intendere dove finisca l’uno e inizi l’altro - ti mette alle corde con uno sguardo dal basso che sa porsi su un piedistallo di solennità precaria, forte di uno scarto umorale, poetico e culturale - a tratti persino morale - che gli consente di guardare la realtà negli occhi, descriverne le mancanze e invitarla a compiere un salto di qualità. Possiamo forse criticare certe eccessive caratterizzazioni acid-rock, espedienti modaioli che tentano di aggrapparsi alle vibrazioni dell’epoca impataccando di trovate bizzarre il tenore trepido del sound, il quale tuttavia può vantare proprio per questo una vaghezza differita, vintage e lunatica, preda di un blando intossicamento lisergico che non gli fa perdere il polso della situazione. Come raccontano gli stessi Dennis Coffey e Mike Theodore, produttori di Cold Fact (Sussex, marzo 1970, 8.0/10), conobbero Rodríguez grazie alla soffiata di un amico: lo videro in concerto, solo con la sua chitarra, e malgrado tenesse le spalle al pubblico evidenziando uno “stage fright” di livello allarmante, ne intuirono le potenzialità. All’epoca Sixto aveva già conosciuto qualche delusione: nel 1967 il suo 45 giri di debutto I’ll Slip Away (a nome Rod Riguez) era stato un totale buco nell’acqua. Ma Theodore e Coffey decisero di fare le cose per bene, affiancandogli un team di ottimi session man, tra i quali soprattutto il bassista Bob Babbitt, già nelle glorie cittadine Funk Brothers e al lavoro con Temptations, Marvin Gaye e Jimi Hendrix. Ne uscirono dodici pezzi (due dei quali firmati dal paroliere e compositore Gary W. Harvey) che dipingono un ritratto desolato della vita al tempo della metropoli, posto che la Motor City rappresentava all’epoca uno degli scenari più alienanti d’America, come avevano già avuto premura di narrare - ognuno a loro modo - MC5, The Stooges ed Alice Cooper tra gli altri. Il taglio dolente e amaro di Sugar Man (rivolta ad un pusher come potrebbe un Lou Reed in vena di abbandono), il lirismo fiabesco di Gommorah (A Nursery Rhyme), lo stillicidio rapsodico (se-
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gnatamente dylaniano) di This Is Not a Song, It’s an Outburst: Or, the Establishment Blues, la falsa spensieratezza di I Wonder e la spietata disamina di Crucify Your Mind sono i momenti migliori di una scaletta che forse inciampa solo con la tirata Only Good for Conversation, corpo estraneo hard psych che sembra pagare gratuitamente dazio al trend dell’epoca. Se colpisce la scrittura, l’efficacia asciutta e l’intensità delle melodie, a lasciare stupefatti è la maturità della voce di Sixto, interprete capace di modulare romanticismo e asprezza, tepore speranzoso e cupo j’accuse, mantenendo una difficile statura da “cronista partecipe”, allo stesso tempo distaccato e profondamente coinvolto. Una dimensione espressiva intrigante, magnetica, degna dei grandi cantastorie del folk rock (tipo quelli già citati sopra). Proprio questo piglio rende quasi insostenibile la forza di versi come “And you claim you got something going/Something you call unique/But I’ve seen your self-pity showing/As the tears rolled down your cheeks” (Crucify Your Mind) e tutt’altro che retorico l’impegno di Establishment Blues (“Woke up this morning with an ache in my head/I splashed on my clothes as I spilled out of bed/I opened the window to listen to the news/But all I heard was the Establishment’s Blues”) o Rich Folks Hoax (“Talking ‘bout the rich folks/The poor create the rich hoax/And only late breast-fed fools believe it”). Con tutto ciò, toccherà alla graziosa I Wonder, una stomp ballad dall’incedere spensierato ed il cuore indolenzito (“I wonder about the love you can’t find/And I wonder about the loneliness that’s mine”) diventare il pezzo-simbolo di Rodríguez, ovviamente - ahilui - fuori dagli States. Coming From Reality: secondo tentativo e resa Come detto, tanta qualità lascerà indifferenti i compatrioti, fenomeno per il quale si possono ipotizzare diverse spiegazioni. In prima istanza tanto per togliersi subito un dente scomodo - potremmo tirare in ballo il fattore razziale: può sembrare azzardato, certo, ma nel Paese che esaltava il
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talento dei Marvin Gaye e dei James Brown senza rinunciare peraltro a circoscriverli nel recinto della black music, probabilmente non era così scontato che si desse credito ad un musicista meticcio in un ambito “bianco” come quello cantautorale. Limitandosi invece agli aspetti musicali, altro fattore di insuccesso può essere individuato nel piccolo ma significativo ritardo rispetto all’evolversi dei gusti in quel convulso periodo: da un lato occorre considerare la specificità di Detroit, dalla quale ci si attendeva roba forte e acida, mentre più in generale era tramontata la stagione dei menestrelli sensibili dal piglio letterario. Il nuovo decennio strizzava l’occhio ai sussulti hard (per non dire proto-heavy), alla formidabile baracconata del glam, ai fermenti acidi organizzati in sempre più strutturate architetture progressive. Oltre a questo, ci sono senz’altro aspetti più basali e per certi versi imponderabili, forse una certa superficialità in fase promozionale della Sussex, magari la stessa ritrosia di Rodríguez a prestarsi nel ruolo di performer. Fatto sta che Cold Fact nel firmamento sonoro statunitense fece l’effetto di una meteora in pieno giorno: stupefacente, ma solo per quei pochissimi che se ne accorsero. Tra questi ci fu Steve Rowland, ex attore hollywoodiano trasferitosi a Londra sulla scorta dell’entusiasmo per la scena musicale britannica, divenuto quindi musicista (nei Family Dogg assieme ad Albert Hammond) e produttore (aveva lavorato con i Pretty Things e coi The Herd di Peter Frampton). Una vecchia volpe con agganci di un certo livello insomma, che si mise in testa di dare impulso alla carriera dell’incompreso talento di Detroit. Alla fine del 1970 lo portò con sé a Londra, gli mise a disposizione una band di livello - tra cui il percussionista di Donovan Tony Carr, il tastierista Phil Dennys (Cat Stevens e Bee Gees) e soprattutto il chitarrista Chris Spedding, noto per i suoi trascorsi con Jack Bruce e Mike Gibbs dei Nucleus, più avanti al lavoro con Roxy Music e Roy Harper
nonché produttore dei primi demo targati Sex Pistols... - ed un mese di sala d’incisione (gli storici Lansdowne Studios, le cui mura videro le gesta di Animals, Rod Stewart, Marianne Faithfull e Uriah Heep tra i molti altri) che fruttarono il sophomore Coming From Reality (Sussex, novembre 1971, 7.2/10). Tolta l’asprigna Heikki’s Suburbia Bus Tour - sorta di affresco rugginoso sulla fine dell’epoca hippie - ed il folk-psych resinoso (vagamente Traffic) di Climb Up On My Music, l’acidità resta sottotraccia per fare posto ad un languore disincantato e talora fin troppo accomodante. Ferma restando la padronanza evidenziata nell’esordio, affiora un retrogusto di mestiere in To Whom It May Concern (aromi soul e sbuffi jazz, archi da Love Boat e wah wah discreto) e in una Halfway Up the Stairs - “la prima traccia che abbia mai scritto”, sosterrà qualche anno più tardi - che l’overdose di archi e gli espedienti di chitarra non salvano da una certa insulsaggine. Questa nuova più rilassata versione
di Rodríguez non manca tuttavia di mettere a segno momenti di assoluto pregio, come quella I Think Of You che esala svenevolezza da mariachi bacharachiano (permettendosi romanticismo basale del tipo “Now these thoughts are haunting me/Of how complete I used to be/And in these times that we’re apart/I’ll hear this song that breaks my heart/And think of you”), una Silver Words che bazzica trepidazioni bucoliche Nick Drake (stordendoti con iperboli sentimentali del tipo: “But oh if you could see/The change you’ve made in me/That the angels in the skies/Were envious and surprised “), mentre It Started Out So Nice predica soffice apocalisse (“Now in the third millennium the crowded madness came/Crooked shadows roamed through the nights”) come un Lou Reed stregato da fremiti Caetano Veloso. Se A Most Disgusting Song e Cause razzolano tra guittezza e letteratura con lirismo disincantato un po’ Waits e un po’ Van Morrison, tocca a Lifestyles - introdotta dallo strumentale (chitarra e violino)
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Sandrevan Lullaby - la parte di cuore dell’opera, col suo aggirarsi grave e palpitante da Tim Hardin preda di allucinazioni Dylan (“Idols and flags are slowly melting/Another shower of rice/To pair it for some will suffice/The mouthful asks for second helpings” ). Nel complesso è insomma un altro buon disco, più affabile del precedente - rispetto al quale è indubbiamente minore - ma che tra le righe sa raccontare il deteriorarsi delle dinami-
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che umane, sociali e interpersonali nel fermento suburbano. Tuttavia, citando un inconsolabile Rowland, “non accadde niente”. Le vendite furono così scarse da indurre la Sussex a stracciare il contratto. Rodríguez decise di non insistere, chiuse i sogni nel cassetto e tornò a rompersi la schiena come operaio edile: c’era una famiglia, delle figlie cui riservare un abbozzo di futuro, il migliore possibile.
Com pa rt i m e nti stagn i
qualcosa di simile, in un altro pianeta-isola come l’Australia, dove nel 1976 la Blue Goose Music Intanto però Cold Fact aveva varcato l’oceano, pensò di smerciare le migliaia di copie di Cold Fact atterrando - come un virus o una specie animale rimaste invendute in un magazzino newyorkese aliena - in un paese lontano. Leggenda vuole che della Sussex. Il risultato fu più che lusinghiero una ragazza avesse portato con sé il vinile ragposizione numero 23 delle classifiche di vendita, giungendo il suo fidanzato in Sudafrica: verità? nelle quali stazionò per un anno intero - consideLeggenda? Conta ben poco, anzi niente. Fatto è rato soprattutto come il Continente Nuovo non che la realtà non ammette camere stagne, nepfosse certo l’ultimo arrivato dal punto di vista pure quando - un quarto di secolo prima della rock, vedi i contemporanei o imminenti exploit diffusione di internet - le distanze e le barriere di gente come AC/DC, Radio Birdman, The Saints, politiche potevano giustificarle. Per colmo d’ironia, proprio l’isolamento provocato dall’apertheid The Triffids, The Go-Betweens, Midnight Oil, The Church, Hoodoo Gurus e ovviamente Nick Cave. creò in Sudafrica una situazione ideale perché un La carriera di Rodríguez ebbe quindi un sussulto: disco come Cold Fact ottenesse il successo fallito in patria. Una sorta di seconda chance senza le fre- alla pubblicazione di At His Best (Blue Goose, giunetiche mattane della moda e con l’identità ibrida gno 1977, 7.0/10) - un best of contenente tre pezzi inediti incisi nel ‘72, Can’t Get Away, Street Boy e di Sixto vissuta come un valore aggiunto, sorta di una I’ll Slip Away rimessa a nuovo - seguì due anni proiezione ideale dell’aspirazione post-razzista di un popolo desideroso di affrancarsi dalle angherie più tardi un tour nella terra dei canguri da cui fu tratto anche un album dal vivo (Rodríguez Alive del National Party. - Blue Goose, 1981, 6.3/10). Tanto per quantificaLe canzoni di Sixto divennero la colonna sonora re, il concerto del marzo ‘79 al Regent Theatre di e la distrazione di chi voleva gettare alle ortiche i Sydney si svolse davanti a 12.000 persone, soltanlaccioli della censura e del rigido moralismo afrito 3.000 in meno di quelle che accorsero alla data kaans, nonché punto di riferimento e ispirazione per tante band sudafricane a venire. Nel volgere di di febbraio del pubblicizzatissimo Blondes Have pochi anni il disco venne ristampato e venduto in More Fun World Tour della superstar mondiale centinaia di migliaia di esemplari, e più o meno lo Rod Stewart. Insomma, le cose in terra australiana si stavano mettendo piuttosto bene, tanto che stesso accadde a Coming From Reality (furbescamente ribattezzato After The Fact). Tutto ciò sen- la tournée fu replicata nell’81, con i Midnight Oil a fare da band di supporto. za che nessuna royalties arrivasse nelle tasche di un ignaro Rodrìguez: forse Clarence Avant, il boss Ma a quel punto qualcosa si spense, oppure dipende dal punto di vista - qualcos’altro si accese della Sussex, avrebbe bisogno di un esamino di coscienza... Come dirà Segerman a Rodríguez nel nella vita di Sixto. Altre istanze presero il sopravvento: si laureò in filosofia, decise - con fare un po’ suo primo, emozionatissimo contatto telefonico, donchisciottesco - di tentare la carriera politica, si per i sudafricani era un idolo assoluto, senz’altro lasciò prendere dalle esigenze della vita e accan“più famoso di Elvis”. tonò quel sogno che non lo ripagava come avrebBendjelloul è abile nel raccontarci questa vicenbe sperato. Non si può sfuggire alla realtà. da di nemesi positiva restando in equilibrio tra asciuttezza da non-fiction e lirismo evocativo, concedendosi la “licenza poetica” di omettere un Cate na di e ven ti (favo re voli) capitolo significativo, ovvero che nel frattempo Non le si può sfuggire neppure quando decide - fine anni Settanta - a Sixto era già acacaduto di restituire il maltolto. Dal 1998 Sixto è tornato
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ad essere Rodrìguez senza smettere di essere se stesso. E’ stato riscoperto in patria e nel mondo, i suoi concerti sono spesso sold-out, le apparizioni televisive si sono ovviamente moltiplicate dopo l’uscita del film. Pare che abbia una trentina di canzoni pronte, composte in queste lunghe quattro decadi, e che sia in trattativa con Rowland per realizzare l’album del clamoroso ritorno sugli scaffali. Una vicenda la cui fine coincide con un nuovo inizio, come ogni favola che si rispetti. Difficile restare indifferenti, ma non tanto per questa nemesi da Cenerentola folk-rock: la sua storia ci colpisce perché mette il dito su diverse piaghe. Inannzitutto fa luce sul fatto che il successo nel rock è spesso soggetto a leggi non inerenti il talento, semmai ad un incrocio di situazioni eterogenee che, mosse da un innesco strettamente musicale, coinvolgono aspetti promozionali, iconografici, sociali, persino politici. Da proiettarsi talora in un quadro di situazioni “altre” del tutto casuali. E’ il vecchio gioco del “what if...?”: le combinazioni imponderabili di fattori contrapposte alla determinazione, al genio, all’intuizione. Le porte scorrevoli del destino. A tal proposito, l’esordio cinematografico come regista di Tom Hanks, il poco più che simpatico That Thing You Do! del 1996, ci propone una parabola significativa: se il batterista dei debuttanti Oneders non si rompesse il braccio per un giochetto stupido a poche ore da un pop-contest cittadino, la band non avrebbe potuto contare sulla carburazione beat ai tamburi dell’occasionale sostituto, il carismatico Guy Patterson, che di fatto trasforma una canzonetta mielosa in una intrigante fast-ballad. E se il talent scout Phil Horace non fosse passato da quelle parti col suo camper-ufficio rimanendone colpito, non li avrebbe presentati al manager della PlayTone Mr. White, il quale quindi non li avrebbe mai accolti sotto la propria ala plasmandone i modi e l’aspetto, trasformandoli così in una macchina da intrattenimento col singolo in top ten nel giro di poche settimane. Se alla base di tutto c’è un’in-
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tuizione melodica piuttosto azzeccata, è però la catena di eventi favorevoli a farne un fenomeno da classifica. Fuori dal paradigma di celluloide, ascoltando pezzi come Sugar Man o Crucify Your Mind sembra quasi incredibile che fino a poco tempo fa non fossero considerati dei classici al livello di un The Needle And The Damage Done o una Reason To Believe. Ma per una serie di circostanze tanto sfortunate quanto comuni, non ce ne eravamo accorti. O almeno l’emisfero occidentale rock non aveva ritenuto di dover prestare loro attenzione. Se oggi lo fa, è solo per una catena di eventi favorevoli dal passo molto più lungo e complicato del solito. Viene da ipotizzare - ed è un pensiero vertiginoso - che la storia del rock nasconda cento, mille tesori del genere, in attesa solo di essere (ri)scoperti. Casomai, il web renderà tutto più semplice (con Rodrìguez è andata così). Il rock ha un grande futuro dietro le spalle, e non è mai stato tanto vicino dal realizzarsi.
Tr acc e lu nghe e p rofo n de Ma tutto ciò - e qui veniamo ad un’altra piaga - è anche una specie di specchio che ci mostra quello che siamo diventati. Perché la vicenda di Sixto appartiene ad un’altra concezione di mondo, di vita, di vivere il tempo e condividere le emozioni. Tra le altre cose, ci induce a riflettere sul complesso e squilibrato rapporto tra il successo e la “normalità”: la vicenda di Sixto, un individuo che ha fallito molti appuntamenti con la realizzazione di un suo possibile sé mentre questa accadeva altrove a sua insaputa, ci dimostra quanto le due dimensioni la fama e la vita - possano seguire piani autonomi o almeno non necessariamente correlati. Suggerendoci che forse il successo non è che un’accidente della normalità. Dell’uomo Sixto Rodríguez ammiriamo l’esistenza generosamente banale, condotta mentre il suo avatar rapiva l’immaginario di migliaia di persone, addirittura accompagnandole in un percorso di
affrancamento politico che ha segnato la fine dello scorso secolo. In ragione di ciò è lecito sospettare - ed è motivo di grande sollievo - che il rock continui ad avere valore non “grazie a” ma nonostante tutto l’apparato di hype, le liturgie promozionali e commerciali, la cadenza delle produzioni, il cascame critico. La musica può vivere ancora - in pieno terzo millennio - ad altezza d’uomo. Può benissimo presentarsi come evento espressivo d’eccellenza sbocciando in un contesto di normalità, sporcandosi le mani con la vita comune. E’ un aspetto da tenere in debita considerazione visti gli scenari paventati da più parti, i più estremi dei quali addirittura ipotizzano la scomparsa del professionismo musicale. Scenari oramai non più futuribili, nei quali anzi ci troviamo già immersi fino ai capelli. Rispetto ai quali c’è un altro messaggio, forse il più importante, che possiamo distillare dalla storia di Rodrìguez: la possibilità che la musica - il (folk) rock - possa lasciare una traccia lunga e profonda, indifferente alle modalità percettive che stiamo mettendo a punto nello tsunami del “big data”. Deliziosamente immersi come siamo nella pratica costante del social, ci stiamo abituando all’idea che non sia possibile non sapere, che ogni frutto dell’umana esigenza di esprimere debba necessa-
riamente trovare sbocco e pubblico grazie alla capillare struttura di condivisione, resa immanente dalla pandemia di smartphone e tablet. Ed è una solenne - e forse un po’ fedifraga - illusione, perché il profetico quarto d’ora di gloria warholiano si è realizzato come struttura fenomenica ancora più effimera, una messinscena di gloria autoreferenziale che svanisce dopo un rapido giro di “like”. Il passo lungo di Sixto Rodríguez invece è una parabola di persistenza artistica capace di sopravvivere alle leggi capricciose della società-spettacolo (di cui i social network sono la più attuale mutazione), persino oggi che la rete sembra essersi invaghita della sua figura. Certo, questa Rodrìguez-mania presto si affievolirà, ma le sue canzoni hanno già sfidato il tempo e continueranno a farlo. Mentre ci illudiamo di dovere e potere controllare tutto il flusso delle informazioni e dei gusti, la vita accade ugualmente. Invitandoci a porci tra le altre cose una domanda: siamo uomini o smart citizen? Siamo carne e neuroni per pasturare il data mining o vogliamo concedere ancora possibilità all’accadere caotico, alle motivazioni svincolate dall’opportunismo, all’armonia random degli eventi concreti? Oppure, se preferite: si può sfuggire alla realtà? A questa domanda Sixto Rodrìguez ha già risposto, in molti bellissimi modi.
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ru br ic he
Johnny Marr
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Bolognetti Rocks Bologna 02 Luglio 2013
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La cosa che più ha intrigato i fan, dall’uscita di The Messenger in poi, è stata quella di vederlo alla prova del palco, di quel palco su cui spesso ha sofferto - parole sue - d’emozione precoce La musica, si sa, è matematica. Nel senso che è fatta di note e le note hanno caratteristiche accomunabili a quelle dei numeri come, ad esempio, la ricorsività. In queste pagine, discutendo di The Messenger, il primo vero disco solista di Johnny Marr, si diceva che l’album è ciò di più vicino a un disco degli Smiths che un fanatico possa ritrovarsi fra le mani. Questo è certamente vero proprio perché la musica è matematica e, da quando Marr, dopo aver provato le sperimentazioni più strampalate e aver vissuto al di là dell’Atlantico, ha finalmente deciso di rimettersi a fare il Johnny Marr, il suo stile è apparso riconoscibile fin dalle prime note. Si trattava di un ritorno alla pre-wave, con strizzate d’occhio non indifferenti a quel brit pop che anche lui ha contribuito a edificare. La cosa che più ha intrigato i fan, dall’uscita di The Messenger in poi, è stata quella di vederlo alla prova del palco, di quel palco su cui spesso ha sofferto - stando alle sue stesse dichiarazioni - d’emozione precoce. Ma la musica è matematica, ahinoi, solo per quanto riguarda l’architettura melodica, le note, appunto, gli arrangiamenti e l’orchestrazione. È inutile in questa sede, soffermarci sulla potenza catartica e sublime che il binomio Marr - Morrissey ha concepito nei pochi anni di attività degli Smiths. Basti ricordare come la coppia abbia sostanzialmente trovato un felice connubio fra l’intellettualità filosofica (e contemporaneamente popolare, prettamente working class) e l’appiglio catchy dei lick, dei riff della Jaguar di Marr. Ed è dunque inutile ribadire come questo sia un aspetto mancante e irrimediabile dei live di Marr. Come lo è altresì una performance vocale d’alto livello. Ci ha provato, è vero, e per certi aspetti, è migliorato esponenzialmente. Ma la voce è lo strumento meno matematico di tutta la musica ed è anche questo, per forza di cose, un aspetto lacunoso di un live di Marr. Se a tutto questo si aggiunge la povertà di un impianto non certo impeccabile, il claustrofobico palco che ha castrato i movimenti del quarantanovenne chitarrista mancuniano e l’overdose di fumo da palcoscenico che ha infettato le prime file, si intuisce perché questo Marr al Bolognetti Rocks ci abbia convinto solo fino a un certo punto. Intendiamoci, l’entusiasmo c’era tutto. Sia da parte del pubblico, che da parte degli artisti: e lo testimoniano i ripetuti aggiustamenti dei brani in setlist, finalizzati a tenere più alto il fervore. C’era lo stile di un Marr sempre più giovane, con camicia di raso, qualche tatuaggio (ebbene sì!) e - alla faccia dell’estate italiana - giacca di velluto smeraldo. C’era la bontà di un personaggio, la cui leggenda non ha offuscato l’umiltà, né l’animo ribelle o l’indole da gentleman. C’era quella chitarra mostruosamente riconoscibile, che non a caso porta la sua firma sul manico, con i movimenti sonori, le escursioni up & down sui tasti, gli arpeggi che hanno ridefinito uno stile e gli sono valsi il premio Godlike Genius di NME. Ma c’erano soprattutto le canzoni: quelle
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di The Messenger, perfettamente eseguite a partire dall’iniziale The Right Thing Right, passando per l’anthem Generate! Generate! e il nuovissimo singolo New Town Velocity, per finire alla battagliera e anti-tecnologica I Want The Heartbeat. Poi, naturalmente, le cover (se così vogliamo chiamarle) meritano un discorso a parte. Come detto, l’argomento della voce regge fino a un certo punto, perché, da una parte si intuivano sensibili miglioramenti e adattamenti personali ai brani degli Smiths eseguiti, dall’altra come spesso succede, quando l’acustica non rende giustizia al concerto, la prima cosa a venire meno è sempre la voce. Qualcuno dirà per fortuna. A torto, però: l’idea di piazzare There’s A Light That Never Goes Out come quinto brano è stata azzeccata, benché (dopo How Soon Is Now) sia il pezzo più problematico per le corde vocali di Johnny Fucking Marr. Still Ill ha rappresentato la vera sorpresa: ci voleva un brano così (famoso ma non sputtanato) per accendere gli animi dei fan più radicali; tra l’altro, il brano non è stato eseguito in nessuna delle date europee di questo tour (già, neanche in UK!), il che fa onore al pubblico del Bolognetti. Bella, infine, la scelta di ripescare - fra le immense possibilità di repertorio - due brani degli Electronic, band nata dal sodalizio con Bernard Sumner dei New Order e mai sbocciata propriamente. I Fought The Law dei Crickets - resa famosa da Bobby Fuller Four, Johnny Cash e dai Clash di Joe Strummer - è stata dedicata alla città che recentemente ha intolato il parco Nord proprio “Parco Joe Strummer”, salvo poi far esplodere gli animi più freak del parquet della venue. Johnny è vivo, si diceva in recensione. Johnny, che è tornato dall’America, abbandonando una vita avviata con i due figli al seguito, con il solo scopo di partorire questo The Messenger. Lui, che, se non bastasse l’aspetto a ricordarcelo (inutile dire che è vegano, corridore abituale, ecc), si sente sempre più giovane e lo spiattella in faccia a tutti abbracciando le sue chitarre. Anche se l’emozione precoce è cosa vecchia sul palco per lui, la musica è matematica per tutti. Ma ciò non ci vieta un briciolo di esaltazione adolescenziale e d’emozione che, di certo, non è mancata. Nino Ciglio
NOfest! Spazio211 Torino dal 21 al 23 Giugno 2013 L’ultima edizione del NOfest! va di best of... e va da sè che “sangue, sudore e lacrime” sia una sorta di ideale sottotitolo a posteriori Sangue, sudore e lacrime. Il festival degli umori inonda la sua ultima edizione con una sorta di “best of” del quinquennio di attività e ci saluta, anche se speriamo ci si ripensi, con una edizione col botto. Splendida la location dello Spazio 211, come al solito in grado di affrontare le bizzarrie di un inizio estate a dir poco nordico tra rilassante zona esterna e concerti indoor; grandissima la partecipazione non solo degli addetti ai lavori - avvistati banchetti delle miglio-
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ri label italiane come Boring Machines, Fratto9, Subsound, Escape From Today per dirne alcune - ma di una folla varia e interessata; perfetto il timing democratico che mette sullo stesso piano tutti i partecipanti senza headliner o “gruppi spalla”. Il NoFest è una festa, un momento per rincontrarsi, per scambiarsi chiacchiere e sorrisi mentre si ascoltano molte delle più interessanti band italiane. E il segreto è proprio nella facilità di rendere semplici le cose complesse. Della serie, gestiteli voi 42 gruppi. Sangue, sudore e lacrime, dicevamo. Sangue, innanzitutto, che scorre a fiotti dalle nostre orecchie in una edizione tra le più estreme e violente mai organizzate. A scorrere sul palco, invero bollente - da qui il riferimento al secondo umore, quel sudore a nastro che ci ha accompagnato praticamente in ogni performance vista nello spazio indoor - glorie locali e formazioni che ritornano al NoFest come gradito omaggio pronte ad incendiare lo Spazio a suon di cateratte noise, esplosioni punk in ogni salsa e pesantezze heavy a più non posso, col giusto spazio per sperimentazioni, stramberie e orizzonti a 360°. L’inaugurazione del venerdì è affidata a Last Minute To Jaffna e (r) aka Fabrizio Modonese Palumbo (Larsen) in coppia con l’elettronica di Daniele Pagliero aka LoDevAlm. Set diversi ma entrambi cullanti e ipnotici: più rock i primi, seppur circolari e acustici; più sperimentale l’accoppiata dei secondi tra chitarra ed elettronica, stasi e trip. Ottima l’interazione tra gli strumenti e perfette le atmosfere create, molto intime e visionarie. La maniera migliore per entrare nel vivo del festival. Il “Canalese noise” dei Treehorn e soprattutto gli agguerriti Marnero scaldano poi le orecchie degli astanti a randellate & poesia, mentre agli Zeus!, mai come ora pronti a superare a destra l’ovvia stella polare di riferimento named Lightning Bolt, spetta il premio “violenza”. Chirurgici, malati, devastanti, folli ed autoironici sono uno spettacolo della natura. L’insana unione X-Marillas, facile trovare i nomi coinvolti, raddoppia la follia delle band madre ed è esattamente la somma dei singoli progetti: colori, poesia dell’assurdo, pop caleidoscopico in modalità free, devasto col sorriso perenne stampigliato in faccia. A chiudere i local heroes Movie Star Junkies. Non c’è bisogno di presentazioni né di discussioni: prendete il blues, prendete i Bad Seeds, prendete i Gun Club, insomma mischiate la musica del diavolo con la sensualità del crooning ma mettetelo in mano a dei punk e avrete un concerto intensissimo e feroce; anche se loro non saranno mai soddisfatti, il live è stato micidiale. Il sabato il tempo è clemente, i bambini scorrazzano per il prato e noi entriamo col sole perché la giornata è intensa, sovrapposizioni incluse. Segnalazioni pomeridiane per I Fasti e Il Buio, con i primi a giocare di poesia urbana e questi ultimi quadrati e potenti, seppur con molte cose da dire. Il nostro protetto Johnny Mox poi ci sorprende con un settetto dal nome fantastico, The Moxsters Of The Universe, che lo accompagna nella seconda parte del suo set: se abbiamo apprezzato il reverendo meets human beatbox in piedi sulla sua grancassa, la sorpresa è tanta al vedere il tribalismo virato hard&heavy quasi stoner con deliri ed echi da War Pigs sabbathiana messo in scena da una congrega di pazzoidi. Persi per strada Dogs For Breakfast e Space Aliens From Outer Space, rimaniamo basiti dalla violenza sprigionata dagli Ornaments. Post-rock in modalità Sunn O))), (maci)lento, denso, materico al punto da far grondare le orecchie di sangue rappreso. Molto intenso anche il live dell’altro local hero Paolo Spaccamonti, chitarrista sfaccettato e poliedrico che sulla falsariga di Johnny Mox suddivide il set in
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due parti: dapprima in solo, intento a creare visioni con la sua chitarra cinematica e malinconicamente sensuale; poi con la big band formata da due 3quietmen Ramon Moro alla tromba e Dario Bruma alla batteria più Marco Piccirillo al contrabbasso, ci deliziano con numeri di alta scuola. Prima di abbandonarci al delirio spaccaossa del gran finale, passaggio dovuto nella Death Room per saggiare l’ala più sperimentale e ostica con ?Alos, Lili Refrain e Mai Mai Mai. Se Lili vola verso lo spazio partendo da solide basi metal e una notevole capacità di tenere il palco e Mai Mai Mai ribadisce le buone impressioni di supporto a Vatican Shadow, è ?Alos a sorprendere: metà concerto voce e chitarra, metà performance tra il teatrale e l’esoterico che ci dicono di una crescita costante e di un allargamento dei confini che ci riserveranno sicure sorprese in futuro. Mentre all’aperto la Tacuma Orchestra intrattiene un pubblico da record, dentro la sala ci si prepara all’apoteosi con le mazzate screamo dei La Quiete, con quelle ideologicamente schierate della Fuzz Orchestra e infine con quelle in modalità mazzettata sui denti grind’n’roll dei 5 Stronzi Romani aka Inferno, scioltisi ma riformati per quest’occasione. I krautismi tribali della Squadra Omega accompagnano gli astanti verso la fine di una giornata ottima creando un ponte che lega le comuni tedesche dei 70s all’alterità mediorientale. Set organizzato senza soluzione di continuità, come visto al recente Thalassa e dunque conferma alla grande. La domenica il tempo è decisamente inclemente e lo spostamento del palco outdoor è obbligatorio, creando sovrapposizioni ma mai casini. Così ci gustiamo il muro sonoro dei romani Lento, mai così spessi e dall’alto tasso di densità specifica. Non è un caso che spacchino all’estero: hanno il tiro e nulla da invidiare a formazioni osannate solo dai malati di esterofilia. A seguire, mentre sotto la pioggia, in brache di tela e busta di plastica a coprire l’effettistica, si esibisce il fenomeno Gull (batteria e chitarra suonate insieme come una evoluzione folle del one man band), noi ci infiliamo nel mondo colorato dei Jealousy Party. Stavolta in duo, Mat Pogo e Roberta WJM screziano suoni, centrifugano parole, smontano e smostrano immaginari a suon di calembour improbabili e surreali, fratture ritmiche, echi di debordante free-jazz cagnaresco e lucida visionarietà. Sorpresa? No, ennesima conferma. Perdendoci gli Uochi Toki sappiamo che il rammarico sarà al solito alto, ma i Luminance Ratio nella Death Room ci ripagano con un set in un unico movimento in cui smontano e rimontano noise, manipolazioni elettroniche, elettroacustica materica e quant’altro, per una mezzora di sognante deliquio. Giusto il tempo di una birra e il maelstrom ricomincia: un Nicola Manzan aka Bologna Violenta in ottima forma va di digital hc meets cyber-grind all’ennesima potenza seguito a ruota da Bachi Da Pietra. Da ribattezzare “da metal” alla luce della violenza straight in your face che Dorella/Succi ci sbattono in faccia. Corna in alto e pogo acceso ci dicono che la svolta “dura” è stata ben recepita dai fan anche della prima ora. Coi Tons si ridiscende nei miasmi delle musiche lente e dal peso specifico elevatissimo, mentre i nostri favoriti Mombu ci fanno capire ancora una volta perché sono una delle formazioni più intense in circolazione. Variazioni poliritmiche a velocità folli più sax baritono che sembra un elefante per composizioni psichedeliche e trascendenti. La vera “purification throught pain”. Chiudono le glorie locali Titor con qualcosa che non è un concerto, ma un riconoscimento. Un ritrovarsi che non necessariamente deve trasformarsi in un addio, nonostante le lacrime copiose che rigano i volti di coloro
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che il NOfest! lo hanno creato e cresciuto. Non è ciò che vogliamo e sicuramente non è ciò che si meritano i tanti che hanno partecipato a vario titolo all’ultimo NOfest!: le lacrime è giusto che scorrano, perché stanno a significare l’attaccamento di tutti quelli che si sono sbattuti per la propria passione e che, vista l’aria da cani bastonati che ha accompagnato tutti verso casa, ha contagiato chiunque abbia varcato il cancello dello Spazio211. Ma dal nostro punto di vista, lievemente più lucido perché meno coinvolto, situazioni come quelle del NOfest! rappresentano il senso ultimo del partecipare a un mondo, quello dell’underground, che regala gioie e soddisfazioni perché percettibilmente umano. Un mondo in cui si fa il punto della situazione musicale italiana, in cui si creano incroci e traiettorie e dove è possibile confrontarsi a livello umano. Senza filtri o barriere. Parafrasiamo, perciò, lo slogan di quest’anno col sorriso sulle labbra che ci ha accompagnati per la intera tre giorni: che questa del “2000ecredici” fosse l’ultima edizione, c’abbiamo creduto. Adesso sotto con l’organizzazione della prossima.
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Stefano Pifferi
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Field Day Festival 2013 Victoria Park Estero/Altro 25 Maggio 2013 Il Field Day Festival presso Victoria Park di Mile End a Londra: il nostro report Anche quest’anno è partita la stagione circense dei festival, la quale ci accompagnerà per tutta la primavera e l’intera estate. Ma davvero ci divertiamo a stare in mezzo a decine di migliaia di persone? Davvero vogliamo fare code stratosferiche sotto il sole per una birra? Davvero vogliamo stare a 200 metri dal palco? Una lotta continua: bibite, panini, sigarette, bagni - oh mio Dio, i bagni, che delirio - il caldo, i tamarri che spingono, le ragazze che ti passano davanti con nonchalance trascinandosi decine di amiche per mano, la calca che ti soffoca. Niente sfugge alla folla: tutti fatti che si abbracciano, pupille enormi, sorrisi ebeti, urla e pianti. Secondo questo copione trito e ritrito, si è svolto sabato 25 maggio 2013 il Field Day presso Victoria Park di Mile End a Londra. Anzi, nel più totale rispetto di questo plot scadente, alla fine il Field Day è stato un festival che ha lasciato un po’ di amaro in bocca, sia per le scelte musicali che per i problemi di cui sopra. Quattro tendoni più un grande palco centrale, ciascuno assegnato alle realtà cittadine più rilevanti: i ragazzi dello Shacklewell Arms - meraviglioso pub di Dalston - hanno offerto uno show indie rock, con, tra gli altri, Dark Dark Dark, Fucked up, Do Make Say Think, Toy e Wild Nothing; Eat your own ears, la crew più potente al momento, ha gestito il palco principale con una programmazione però altanelante: Four Tet, Everything Everything, Bat for Lashes, Animal Collective e la prezzemolina dell’estate 2013 Solange. A “pompare” le casse hanno pensato i bassi del tendone della Bugged Out! con una line-up tutta garage e le chitarre del tendone di Last FM con (da segnalare) Chvrches, Savages, Daughter,
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Kurt Vile, e Django Django. Ancora due tendoni: Bleep con la sua elettronica cupa e schizofrenica e la Red Bull Academy tutta house storta e deviata, in bilico tra trend e pacchianate. Considerata la line-up ampia e, soprattutto, considerato che molti artisti di primo piano sono stati fatti suonare in contemporanea, abbiamo deciso di concentrarci soltanto su alcuni set. Rudi Zygadlo è stata forse la novità più fresca di questo Field Day, live set jazzato, blues, ma con innesti elettronici, come una versione più black e acid-jazz di James Blake. Una line up classica: tastiere e voci, batteria jazzatissima e Rudi alle macchine, il tutto con un risultato soprendente. Il pomeriggio assolato è trascorso all’insegna dell’indie pop e dello speed garage, attualmente i due generi musicali più in voga a Londra. I Chvrches si sono candidati a nuova alternativa ai Purity Ring, ma musicalmente non hanno convinto del tutto, soprattutto nel singolo Recover. Nonostante tutto, tendone pieno e nell’aria un vago odore da copertina NME, assieme a un synth-pop etereo con bassi gonfi e rimandi alla fine degli anni ‘80 forse fin troppo abusati. How To Dress Well, nello stage gestito dalla crew di Bleep, è stato uno dei concerti migliori, grazie ad un live con macchine e violino, oltre che alla meravigliosa voce di Tom Krell. La versione live di & It was U ha avuto davvero del magico. Sul versante garage, la Bugged Out! ha letteralmente devastato i timpani degli astanti con un programma di tutto rispetto: partiti con Seth Troxler, Jacques Greene, Ben Ufo, Daphni, si è poi proseguiti con Disclosure, Julio Bashmore e TNGHT. Del primo lotto, il dj set di Daphni è stato una spanna sopra tutti gli altri, con un mix di africanismi e disco fatto di personalità e cultura musicale. Gli altri, Troxler escluso, hanno offerto un’ora ciascuno di speed garage dalle forti tinte anni ‘90. Stop & go improvvisi, tastiere post-acide, vocal femminili sono stati il punto di forza dei set di Jacques Greene (con un ottimo cameo di How to Dress Well alle voci) e di un Ben Ufo che definire violento, dal punto di vista dei suoni, è dire poco. Sempre sullo stesso palco, verso le 19, sono arrivati i due fratelli meraviglia di questa stagione musicale, ovvero i Disclosure, dall’alto dei loro 18 e 21 anni. Dal nuovo singolo When A Fire Starts To Burn - con il quale hanno aperto il live -, passando per White Noise, U & Me, F For You e tutti gli altri brani del loro debutto Settle, i due giovani hanno decisamente convinto con un live suonato (due tastiere, un basso e due laptop) e variegato. A seguire Julio Bashmore davvero di livello - e una pessima esibizione di TNGHT. Per quanto riguarda il main stage, forse lo spettacolo peggiore dell’intera giornata è stato quello di Bat For Lashes. La musicista inglese infatti, pur essendo molto popolare, non ha offerto uno show degno dei propri compari di stage ed anzi ha deluso le aspettative: come una versione più sofisticata di Tori Amos, la pianista inglese si è presentata accompagnata da una band di quattro elementi (basso, batteria, tastiere/programming, violoncello) su arrangiamenti vagamente orientaleggianti, piuttosto molli e senza mordente. Ad ammaliare, invece, ha pensato un Four Tet sempre una spanna sopra tutti, il quale ha praticamente suonato per intero l’ultimo album Pink inframmezzando momenti di cassa dritta con gorgheggi jazzati di gran classe. Ad impreziosire il tutto, una pioggia di giganteschi palloni colorati dal back-stage, macchine e laptop per un’ora di meravigliosa musica elettronica. A seguire sullo stesso palco, gli Animal Collective, head-liner della serata. Alla band americana sembra sempre manca-
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re qualcosa che la renda davvero meritevole della fama acquisita nel circuito indipendente. Sospesi tra rumorismi all’acqua di rose e un suono comunque riconoscibile, i newyorkesi non hanno esaltato. L’area di Last FM ha regalato due tra le performance migliori di questo Field Day, ovvero Mount Kimbie e Django Django, i primi così attesi da guadagnarsi la palma di realtà più trendy del festival, i secondi così bravi da lasciare a bocca aperta. Il duo di Londra formato da Dominic Maker e Kai Campos rappresenta una delle novità più eccitanti di questa primavera musicale 2013 e sul palco di Last Fm ha proposto per intero il nuovo ottimo Cold Spring Fault Less. Melodia e UK bass di pregevole fattura, con quel tanto di cantato che non guasta . A chiudere col botto hanno pensato i Django Django con un infuocato show degno della migliore Beta Band. Da vedere. Infine, due menzioni speciali: Tim Burgess e Mulatu Astatke. L’ex Charlatans sempre alle prese con un caschetto impeccabile e una ricerca della perfetta melodia smithiana; il grande maestro etiope in gran spolvero: otto musicisti sul palco per un’ora di afro jazz da manuale.
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Lorenzo Cibrario
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Optimus Primavera Sound 2013 dal 30 Maggio al 01 Giugno 2013
L’edizione 2013 sarà ricordata come l’anno della svolta in tutti i sensi che una manifestazione di questo tipo si porta appresso, a cominciare dalle 75.000 presenze Chiudevo il live report sulla prima edizione dell’Optimus Primavera Sound dell’anno scorso con l’inutile proposito “ci sono delle oasi, rubiamole”. E come spesso succede non ci siamo fatti ladri d’idee, noi italiani, solo osservatori, come al solito. Eppure ci rimettiamo in cammino, come ogni anno, sempre di più, verso la penisola iberica, in sella a questo freddo squarcio primaverile; chi verso i fasti sempre più roboanti del Primavera Sound Festival (qui il live report dell’ultima edizione), chi invece verso la deliziosa e minuta appendice lusitana. E la seconda edizione di Oporto non delude, fra piccoli indizi di quel che sarà negli anni a venire, sia chiaro materiale per i cronisti più puntigliosi, come l’introduzione del Palco Pitchfork, la soppressione della domenicale passerella finale presso la meravigliosa Casa della Musica, e ancora, l’estensione sempre più invadente dell’area VIP, oltre a mille altri particolari di un’organizzazione che sfiora la maniacalità - e ben venga tutto questo. E ancora, la line up con headliner da competizione in comune con la consociata basca (Nick Cave and the Bad Seeds, Blur, My Bloody Valentine, in ordine di apparizione nella tre giorni) a differenza dell’edizione 2012, più variegata e ben distribuita - se l’anno scorso all’orario aperitivo c’era Jason Pierce con i suoi Spiritualized quest’anno c’è Neko Case, con tutto il rispetto per quest’ultima. L’edizione 2013 sarà ricordata come quella della svolta, dunque, in tutti i meravigliosi sensi che una manifestazione di questo tipo si porta appresso, a cominciare
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dalle 75.000 presenze diluite nei tre giorni. A fare da contorno a tutto ciò il solito Parque de la Ciudade, luogo incantevole e ben collegato con il centro città (vedi la pista ciclabile appena rinnovata), uno scenario che - vista la maestosità e le possibilità logistiche dello spazio e la disponibilità dell’amministrazione di Oporto - lascerà sedurre gli organizzatori verso un percorso di crescita che s’intuisce inarrestabile, con gli ovvi pro e gli inevitabili contro. Proseguiamo in ordine sparso. Gli Sfiorati. I Fuck Buttons - penalizzati dall’orario quasi mattutino e dalla location, l’ATP Stage, luogo suggestivo attorniato da boschetti ma che mal s’addice al duo inglese - si riscoprono volenterosi e feroci, ma, troppe volte, troppo pronti nel disperdersi tra lungaggini psicotroniche piacevolmente estenuanti inizialmente ma alla lunga noiosette, si salvano i cavalli da battaglia di un lustro fa, vedi l’invereconda Bright Tomorrow, un incendio doloso. O i Local Natives, premiati con il palco principale, l’Optimus, ma vittime predestinate dell’unica atmosfera di cui sono capaci - gonfiata e curatissima - e sostanzialmente incapaci di distinguersi, nonostante il taglio dei capelli. Stesso discorso per i Wild Nothing, volenterosi certo, ma senza mordente e bisognosi di una sferzata (l’ultimo EP Empty Estate, in questo senso, sembra beneaugurante), altrimenti belli e pronti a sprofondare nel mare magnum delle band retromani cadute in disgrazia: monomaniaci. Gli Explosions in The Sky regalano ciò che l’anno scorso ci avevano negato all’ultimo (dolorosissimo forfait dell’ultima ora), fedeli alla linea come non mai, non serve aggiungere altro: un’odissea, in tutti i sensi. Stesso discorso per i Fucked Up, pronti ad offrire al loro pubblico ciò che vuole, ovvero sudore tra i corpi e acidità tra gli accordi. Menzione speciale per i The Drones (in sostituzione di Rodriguez), autori - secondo il sottoscritto - di una delle migliori interpretazioni dell’intera tre giorni. Una River of Tears glaciale, maestosa nel fare ombra all’intero pomeriggio lusitano, perfetta sintesi del loro acid blues assolato; il resto è maniera, e che maniera. Infine, l’unico vero sfiorato, quel Daniel Johnston capace sotto il sole cocente di confondere le lacrime di tutti. Un cantato che si fa rincorsa, piegato sul leggio quasi a mangiarli quei versi perché affamato, e poi ammorbidito dall’incredibile affetto dei presenti; un omone incapace di cose normali, a prima vista fragile come uno dei suoi versi, e invece, dopo un’ora di set, invincibile nonostante gli occhi bassi perenni. Pura sofferenza e magnificenza per tutti, chissà per lui. Meglio non indagare. Caos Calmo. I Deerhunter si rivelano. E regalano il miglior live dell’intera tre giorni. Intabarrati nella loro immobilità e dal freddo che contraddistingue la prima serata, deliziosi quando si affievoliscono in appena nate litanie pop (vedi T.H.M o), violentissimi e mai irrequieti quando s’asserragliano in trincea come nella conclusiva e inarrestabile Monomania, perla dell’ultimo omonimo disco. A condire il tutto un Bradford Cox particolarmente vispo e volumi infiniti. In una frase, la più bella dicotomia del rock indipendente attuale, sempre rincorrendo ogni possibile sfumatura. Le Savages poi. Una presenza scenica fotografata - a dir poco - da Corbijn, un set di mezz’ora che è corda tesa fra quattro soldatesse new wave, scure ed emozionate come mai. Bocche aperte e scatti a tratti epilettici, tra le prime file. La voce si sparge, il Pitchfork Stage si riempie all’inverosimile, gli occhi sbarrati a fronte della doppietta iniziale, Shut Up + I Am Here. Le Savages sono forma e sostanza. Se si rivoluzioneranno ad ogni scatto, diventeranno
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delle istituzioni nere, da incorniciare, capaci di farci dimenticare il passato da cui hanno preso a piene mani. Si salvano, a differenza dei sopraccitati Local Natives e Wild Nothing, i Grizzly Bear, che, nonostante i problemi tecnici - voce inesistente che manco Kevin Shields, batteria a sommergere il tutto che nemmeno gli Om - regalano a un pubblico sterminato un set eterogeneo e pulsante, tra slanci vitali (Sleeping Ute) e redenzioni (l’allucinata Yet Again) che sanno di preghiera comune per i ventimila accorsi. Sullo stesso piano, ad un passo dalla perfezione formale, i Liars, voraci come non mai, così consapevoli da lasciare fuori dalla scaletta i pesi massimi della loro carriera per concentrarsi sull’ultimo WIXIW. A chiudere il delirio in falsetto di Brats e un inedito dal sapore cosmico, quasi sognante. E ora i mostri assoluti. Nick Cave uccide il Festival già il primo giorno. Un live infuocato, inginocchiato verso i devoti, a caccia di peccatori (eufemismo) tra le prime file. Un best of - a parte tre pezzi dall’ultimo, l’ottimo Push the Sky Away - capace di racchiudere in un’ora e mezza l’essenza dell’autore australiano. Un Cave esagitato, scenico ai limiti dell’onnipotenza, sorretto magnificamente da una band che suona da (o con?) Dio (l’assenza di Mick Harvey, surclassata da un Warren Ellis che per una volta punta al sodo, riempiendo i vuoti, dosandosi con cura). Il tutto rimanendo credibile, credendoci, e non è poco. Chi l’avrebbe detto: originale. La coscienza del passato. Cosa dire del live post-reunion dei Blur che non sia già stato detto? L’opposto di ciò che è stato appena argomentato per Nick Cave. L’obiettivo è lo stesso: regalare uno scorcio approfondito del proprio repertorio, soprattutto in chiave festival, dove i tempi sono strettissimi e il pubblico eterogeneo. Premettiamo, a voler essere diffidenti su tutto, qui non si mette in dubbio il grado di coinvolgimento dello show, a tratti emozionante, vivo, per nulla svogliato, sarebbe impossibile col repertorio della band inglese. Il problema semmai non è il cosa, ma il come, l’atteggiamento della band, la predisposizione. Con i quattro inutilmente esagitati, lo spettacolo sa di presa in giro, di divertimento forzato e inutilmente sopra le righe. I Blur sul palco non danno l’impressione di divertirsi, non emerge nessuna verità, quasi fingono di emozionarsi, di divertirsi. Una celebrazione vuota, e chiudiamola qui questa piccola polemica. La reazione del pubblico? E’ tutto un indistinto riverbero di corpi, affamato, e, appena finisce tutto, un po’ vuoto. Un ricordo, ecco. Il ricordo di una celebrazione. Ci sono reunion e reunion. E i My Bloody Valentine? Inesistenti, la voce un ricordo, a rendere il tutto a tratti monotono e fuori tempo massimo. Una lunga coda dove nulla si distingue e ad emergere è la maniacalità di un ritorno live che dopo l’uscita dell’ultimo disco, non ha più nulla da trasmettere se non la fedele rappresentazione di un mondo irraggiungibile, passato, mai resuscitato, come la colonna sonora di un sogno. Inclassificabili le Breeders. Sorridenti e ben disposte le due sorelline, è vero, ma poco convincenti, fra stonature inqualificabili e pose ingessate. Il pubblico sembra comunque apprezzare, come d’altronde il live dei Dead Can Dance, raffinatissimo e invincibile, ma alla lunga estenuante nella sua maestosità ri-costruita, irraggiungibile, che mai stringe lo stomaco. Altra cosa i Dinosaur Jr., travolgenti come non mai. Una seconda giovinezza. Ad avercene. Stesso discorso per gli Swans, ancor più vicini alla proposizione di un live definitivo, anzi, alla definizione di apocalisse applicata al live. Nessuna seconda giovinezza, qui, si tratta di rinascita. Epocali.
In conclusione, le vecchie glorie - quasi tutte - se non al macero, in ricovero preventivo, e le nuove leve sugli scudi, pronte al grande passo. E le ancor più piccole realtà che sorprendono per freschezza (Melody’s Echo Chamber), attitudine (Glass Candy), già manifestata grandezza (James Blake). Il resto è ai limiti della perfezione, indistintamente, completamente. L’anno scorso chiudevo l’articolo parlando di futuro (per l’Optimus Primavera Sound), di speranza (riflessa, per l’Italia). E quest’anno, come sintetizzare il tutto? Qui il presente è grandioso (e come potrebbe essere altrimenti, nel 2014 ci sono i Neutral Milk Hotel..). Gli altri emigrano, il tempo di un weekend. Federico Pevere
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Vatican Shadow, Mai Mai Mai Teatro Lo Spazio Roma 30 Maggio 2013 Dominick Fernow aka Prurient scende a Roma col progetto Vatican Shadow: malattia technoindustrial per un set dal sapore antico, quello dei rave spaccaorecchie di un tempo Parti per un concerto e ti ritrovi praticamente in un rave. Non che la sorpresa fosse tale, a dirla tutta. I trascorsi di Dominick Fernow come Prurient li conoscevamo già e quelli della prolifica (re)incarnazione come Vatican Shadow pure. C’è però sempre spazio per l’inatteso, quando si incastrano una serie di cose. Andando con ordine, il Teatro Lo Spazio è una sala polivalente - un po’ club, un po’ teatro, un po’ spazio per performance e/o concerti - proprio sotto la basilica di San Giovanni: cosa che stavolta ha poco a che vedere col solito concertone del primo maggio ma molto col moniker scelto da Fernow per le sue uscite à la Muslimgauze degli ultimi anni. Il fatto poi che la serata prevedesse uno spettacolo teatrale dal titolo 33 di cui parte della scenografia era una gigantesca croce bianca, e qui i più attenti saranno giunti alle logiche conclusioni, non fa che ingigantire ancor di più il mix di sacro e profano protagonista della serata. Tempo zero e il piccolo teatro diviene una sala per concerti, con Mai Mai Mai pronto in consolle: il progetto in solitaria di un noto agitatore dell’underground romano prevede travisamento d’ordinanza, macchine, nastri e visuals per fiumane di suoni droning scuri e malleabili, pronti a spostarsi verso lande industrial, storture harsh o panorami da neo-elettronica rituale e fluttuante. Notevole. In attesa di un Fernow leggermente sovrappeso, Rawmance aka Matèo Montero parte di djset scuro e acido, ottimo in sé e non solo come preparazione del terreno. L’ospite più atteso sale sul palco all’una di notte abbondante e mette in scena una bomba di concerto in cui il piatto forte della casa si inspessisce e irrobustisce deflagrando quasi da subito sull’onda delle epilessie sceniche del suo autore. Spettacolo nello spettacolo, animale da palco, isterico e
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spigoloso Fernow ci sorprende per la teatralità feroce con cui tratta la materia musicale - sì, ok, la storia a.k.a. Muslimgauze è lì, evidente, lo sappiamo, ma c’è molto altro, specie in sede live e se stesso come parte integrante di quella rappresentazione. Ossessiva, meccanica, catartica. Sfasata, triturata, etimologicamente eccentrica. Sopra, però, dicevamo di incastri e rave. È la consistenza del suono di Vatican Shadow a colpirci, con quella cassa dritta da disarmo post-industriale ipnotica e violenta oltre ogni aspettativa per noi abituati all’idea di un set altrettanto malato ma su versanti più ambient. Più liquido e meno materico quale invece è l’ora di devasto cui ci sottopone l’uomo in nero: cassa dritta, voragini da subwoofer, apocalisse techno, pulviscolo industriale, ambientazioni oscure e immaginario da rave dei tempi andati, tra capannoni industriali dismessi e sfattume da no future. Bei tempi quelli, bel presente questo. Stasera ha vinto Fernow. Stefano Pifferi
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The Postal Service Brixton Academy Estero/Altro 20 22:00:00 Maggio 2013 Descrivere un live dei Postal Service non è affatto semplice. Ci abbiamo provato con la data alla Brixton Academy di Londra Descrivere un live dei Postal Service non è affatto semplice. Non perché la band abbia offerto chissà quale complicato spettacolo o perché la musica sia così colta da necessitare un alto livello di analisi, ma solo perchè il gruppo, con un unico album all’attivo - ormai dieci anni fa, questa l’occasione del concerto - e con una musica così legata ai primi anni 2000, rischia costantemente l’effetto nostalgia. Sì perchè lo spleen emozionale da teenager depresso per amore, “necessario” per apprezzare la band di Tamborello (Dntel) e Gibbard (Death Cab for Cutie), è ormai un lontano ricordo per alcuni e un normale essere umano, a dieci anni di distanza dalla prima release di Give Up, dovrebbe esserne uscito fuori. A tratti poco convincente, il live è stato molto semplice: Tamborello ai laptop, Gibbard alla chitarra, voce e a tratti batteria, Jenny Lewis dei Rilo Kiley alle tastiere/basso/percussioni e vibrafono, il tutto per quarata minuti di musica. La scaletta ha seguito pari passo il disco, iniziando con The District Sleeps Alone Tonite per terminare con Natural Anthem, intervallata dai due brani nuovi pubblicati su Pitchfork. A seguire come b-sides, Against All Odds e gli altri lati B dei 7’’. I brani non sono stati cambiati di una virgola rispetto alle loro controparti su disco, annullando ogni effetto sorpresa e dando l’impressione di un noioso effetto playback. Detto questo, è innegabile che i Postal Service abbiano gusto per le melodie. Brani come Brand New Colony e We Will Become Silhouettes rimarranno per sempre anthem da cantare a squarciagola. Lorenzo Cibrario
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Master Musicians Of Bukkake, Mombu, Macelleria Mobile Di Mezzanotte
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Init Roma 07 Giugno 2013 Notte all’insegna del rituale nero con la congrega Master Musicians Of Bukkake: deserto, esoterismo, psichedelia, trance ritualistica e molto altro... Serata all’insegna della lettera M in quel dell’Init. A sfilare sul palco una tripletta assai strana in apparenza ma in realtà ben assortita: gli americani Master Musicians Of Bukkake e i romani Mombu e Macelleria Mobile Di Mezzanotte. A dirla tutta i Mombu, ultimi in ordine di tempo ad essere aggiunti al bill, sono anche i primi costretti a rinunciare causa guasto al furgone di ritorno dalla data di Milano, guarda caso per colpa di un Manicotto. La bellezza o la maledizione delle M non impedisce però a Luca Mai e Antonio Zitarelli di raggiungere il locale in tempo per unirsi a una jam finale letteralmente devastante, di cui parleremo più avanti. Andando con ordine, però, tocca a Macelleria Mobile Di Mezzanotte inaugurare la serata nel palco esterno dell’Init: con eleganza e oscurità, il trio sax/voce/macchine imbastisce il solito soundtrack-cabaret apprezzato nell’ultimo Black Lake Confidence tra Badalamenti in acido e rimasugli di asperità industriali, Buscaglione noir e lounge del dopo-bomba, atmosfere malate e torve alla Twin Peaks e una certa predilezione per i passaggi ipnotici. Da amalgamare ma ottimi al solito. È poi la volta dei Master Musicians Of Bukkake. Un bordone ascetico ci accoglie insieme a una devastante nuvola di fumo a ricordarci che oblio e trascendenza saranno le coordinate della successiva ora e mezza. I sei (sì, sei - doppia batteria, chitarra, basso, elettronica, voce e ammennicoli vari - ma ce ne accorgiamo ben oltre la metà del live, causa fumo alla Sunn O)))) entrano in scena come al solito bardati e nascosti e iniziano un rituale a furia di candelabri e teste di cervo, ipnosi collettiva e sabbath strumentale senza soluzione di continuità per un’ora piena in cui trasportano l’audience alla catarsi. Saremo banali, ma l’immagine (o l’immaginario) che più spesso ci viene in mente rimanda a quello dello Jodorosky dei classici El Topo o La Montagna Sacra: trascendenza e deserto, trip alieni e devianze sessuali, raga tribali e pulviscolo spacey. Non si intravedono le venature prog che segnano trasversalmente l’upcoming Far West dato che nella psichedelia del sestetto in sede live c’è più muscolarità e sudore e meno devianza mentale, come avviene nelle due lunghe jam che chiudono il live con l’aggiunta del sax di Luca Mai e dell’extra drumming - e siamo a tre! - di Antonio Zitarelli. Un vero e proprio tour de force di reiterazioni e crescendo che assume le sembianze doomy care ad alcuni dei compagni di merende dei MMOB, ma che qui, complice un intero set al di sopra di ogni più rosea aspettativa, induce il pubblico alla trance definitiva. La testa di cervo è riposta sull’altarino, il candelabro spento, il baccanale terminato. Andiamo in pace, ma senza sapere bene dove. Stefano Pifferi
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De La Soul
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The Forum Estero/Altro 08 Maggio 2013 Con i De La Soul non sbagli mai: una carica soul funky tecnicamente ineccepibile e stilisticamente sempre valida Al The Forum di Kentish Town, mercoledì 8 maggio 2013, il pubblico accorso per il concerto dei De La Soul è così eterogeneo da rendere bene l’idea stessa della band statunitense. Musica Rap per tutti, divertente funky dai ritmi hip hop che raccoglie consensi dal pubblico gansta, come da quello più dedito al pop da classifica. Questa è infatti la musica dei De La Soul: un mix di hit da MTV e di rap da denuncia sociale su basi soul (appunto), funky e rock. Il celeberrimo trio newyorkese, seguito da una band in tutto e per tutto funky munita di sezione fiati e percussioni, ha incendiato il Forum con un ritmo colorato e vincente, facendo ballare nuove leve di ventenni insieme a fan della prima ora. Idealmente diviso in due parti, il concerto ha mostrato una band fisicamente invecchiata (Pasemaster Mase con tanto di bastone e Trugoy The Dove munito di sgabello dietro ai piatti) ma che non intende mollare il colpo in quanto ad energia e presenza scenica. Infatti, ad una prima parte con band al completo e polistrumentisti afro in stile concerto di Prince o Steve Wonder, è seguita una seconda (migliore) decisamente più hip hop con solo voci, piatti e scratch, in cui tutta la summa compositiva del trio è uscita fuori. Ogni hit, che ormai da trent’anni viene macinata dalla band, è stata proposta con o senza strumentisti: 3 Feet High and Rising, De La Soul is Dead e The Grind Date sono stati riproposti quasi per intero. Una versione quasi post rock di 3 Is a Magic Number, il puro funk di Ring Ring Ring (Ha Ha Hey) - recentemente tornata in auge perché “coverizzata” dal nuovo fenomeno pop anglosassone Little Mix -, una versione soul di Feel Good Inc. dei Gorillaz e una potentissima Breakadown sono stati i momenti migliori di questo live. A seguire un set in vinile di Trugoy The Dove in cui una carrellata di hit black degli inizi degli anni ‘90 ha ancora una volta sancito il ritorno del rap come revival musicale più cogente. Musicisti come Asap Rocky, Frank Ocean, Kendrick Lamar e Chance The Rapper sono soltanto alcuni dei nomi di punta di questa scena; i De La Soul sembrano ricordarci i numi tutelari e i padri spirituali. Lorenzo Cibrario,
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Grizzly Bear
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Alcatraz Milano 28 Maggio 2013 Dai palchi di Primavera e Coachella fino a Milano: un raffinato show coinvolgente solo in parte. Un nutrito pubblico all’Alcatraz di Milano per l’unica data italiana dei Grizzly Bear, quartetto formatosi a Brooklyn nel 2002 che ha avuto il riconoscimento internazionale grazie all’ottimo Veckatimest e all’ammirazione di Sua Santità Johnny Greenwood. Ora la band dei polistrumentisti Edward Droste, Daniel Rossen, Chris Taylor e Christopher Bear porta in tour sui più prestigiosi palchi internazionali (Primavera Sound, Coachella) il nuovo album Shields, uscito il settembre scorso dopo un periodo di iniziative solistiche (CANT e l’EP Silent Hour/Golden Mile) e una colonna sonora per il film Blue Valentine. Alle 20.30 puntuali si entra. Neanche il tempo di gustarsi un cocktail che comincia subito il (brevissimo) set di Connan Mockasin, stralunato pop psichedelico neozelandese che nelle terre natie ha aperto gli show di Radiohead e Charlotte Gainsbourg e che ora accompagna la band di Brooklyn per qualche data del tour. Sul palco questo “Syd Barrett delle Terre di Mezzo” è accompagnato da Ross Walker al basso e da Seamus Ebbs alla batteria: lo spettacolo è intrigante e gradevole, anche se la proposta musicale non è esattamente memorabile e qualche sbadiglio si fa largo prepotente tra il pubblico, considerata anche l’attesa che c’è per gli headliner. Come si diceva poc’anzi, tanta è la curiosità per la resa live del nuovo Shields, lavoro più compatto e coeso del precedente (con un’inedita componente rock), prodotto pregevole condito dall’inserimento di trame chitarristiche slowcore alla Spirit Of Eden dei Talk Talk ma che in termini compositivi risulta un gradino sotto il suggestivo elettro/folk sperimentale di Veckatimest. Leggendo le tracklist dei concerti di questo tour si presuppone che il repertorio dell’esibizione verterà comunque proprio su questi due album e Yellow House sarà rappresentato solo da Knife. Inoltrandosi nel cuore dello show, balza subito all’occhio lo splendido allestimento di un palco arredato con tante piccole lanterne colorate, una scenografia particolarmente adatta al set dei newyorkesi. È interessante anche la disposizione della band, che si presenta al pubblico in formazione a cinque - ai synth, dallo scorso anno, c’è anche il turnista Aaron Arntz - e con la batteria messa a lato, sull’estrema sinistra. Un assetto “democratico”, da cui non emerge alcuna particolare leadership. Forse in virtù del fatto che manca una figura particolarmente carismatica? Diciamo che il frontman - se così si può chiamare - Ed Droste non è un animale da palcoscenico, ma d’altra parte chi viene a un concerto di questo tipo non si aspetta certo un Iggy Pop. Una cosa è certa, però: la voce l’hanno tutti. Lo si capisce sin dall’attacco di Speak in Rounds/Adelma, intro che ha il compito di calare gli spettatori nelle acque sinuose e raffinate dello psych/folk elettroacustico dei Grizzly Bear. Neanche il tempo di iniziare e i nostri cacciano in scaletta tre pezzi da novanta come Sleeping Cute, Cheerleader (da Veckatimest) e soprattutto Yet Again, il singolo più efficace di Shields: forse il momento che regala le emozioni più grandi. In generale, sono sorprendenti le armonie vocali arzigogolate, intricatissime ed eseguite con una perizia tecnica
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live report
impeccabile. È abbastanza evidente il tributo pagato a un disco come Pet Sounds, capolavoro dei Beach Boys, e la vicinanza stilistica a realtà contemporanee come il cantautore Sufjan Stevens o ai cuginetti inglesi Fleet Foxes. Dopo aver calato gli assi, l’esibizione scorre liscia, senza troppi sussulti e per la verità, senza neanche troppe emozioni, fatta eccezione per l’ottima Gun-Shy. La band, per stessa ammissione (plausibile, visti i recenti impegni) del cantante Ed Droste, è stanca e lo dichiara apertamente al microfono. Ciò nonostante, nessuno sbaglio di tipo tecnico o esecutivo, nessuna minima imperfezione si registra da questo punto di vista. In particolare, una nota di merito va al bassista, Chris Taylor, che oltre a cantare perfettamente, suona sax e clarinetto e ha una presenza scenica nettamente migliore degli altri. Nel corso dello spettacolo, tuttavia, emergono difetti abbastanza lampanti: gli arrangiamenti oltremodo barocchi ed eccessivi rendono di difficile l’ascolto e problematico l’immergersi totale del pubblico nelle fascinose composizioni. È una musica che nel contesto live solo a tratti esplode nel vigore di emozioni viscerali, rimanendo a volte incastrata in cervellotici intellettualismi abbastanza tipici di questo alternative pop americano. Bisogna aspettare il loro unico (significativo) successo commerciale (Two Weeks) per risalire la china, oggettivamente un pezzo pregiato di manifattura pop da veri fuoriclasse. Roba da enciclopedie per gli anni a venire, e non è un caso che il brano sia stato scelto come jingle per svariate campagne pubblicitarie o come soundtrack di altrettanti lungometraggi importanti. Band e pubblico si risvegliano da un sonno che durava da troppo tempo. Applausi sentiti e meritati. I Nostri, avvertita la ritrovata sintonia creatasi con il pubblico, azzeccano la chiusura dello spettacolo con un set finale più intimista, raffinato, ma al tempo stesso coinvolgente. E allora vai di sensazionali voci a cappella e chitarre acustiche, fino ad arrivare al vortice sonoro esplosivo e ammaliante di Sun in Your Eyes, uno dei loro apici compositivi. È il colpo di coda che risolleva le sorti di uno show di un’ora e mezza abbondante fino a quel momento interessante solo per metà. Uscendo dal locale di Via Valtellina c’è ancora spazio per una birra e si ha tempo di rielaborare il tutto. Manca un po’ di cuore, negli show di questi Grizzly Bear. Peccato, perché la stoffa c’è e il talento pure. Per ora ci accontentiamo di un concerto comunque gradevole e suonato alla perfezione. Roberto Vivaldelli
Carter Tutti, Lorenzo Senni, Raime, Morphosis, Crono Museo della Scienza (Milano) Milano 25 22:00:00 Maggio 2013 In una location prestigiosa come il Museo della Scienza e della Tecnica “Leonardo Da Vinci”, Savana Machines è l’occasione giusta per S/V/N/ di fare il salto di qualità con Raime e Chris & Cosey. Fin dal momento dell’annuncio, la quarta edizione del S/V/N/ Festival aveva tutta l’aria del
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banco di prova per la giovane organizzazione. Sul campo da circa un anno, ma tutt’altro che inesperta, Savana si sta affermando sempre di più come l’alternativa valida alla Milano dei venditori di fumo e del divertimento vuoto fine a se stesso. Il merito principale non sta tanto nella novità della proposta, quanto nell’aver contestualizzato quasi-urbanisticamente quei preziosi micro-ambienti legati al circuito Hundebiss, giusto per fare un esempio, o allo spazio O’ (ancora vivo grazie al crowdfunding), in una solida organizzazione dal forte richiamo mediatico, dotata di una capacità di coinvolgimento su scala più ampia. Complice il loro contributo nella rivalutazione dell’ex casa discografica CGD (ora Buka), altrettanto rilevante è stata l’abilità nell’inserirvi nomi dallo spessore artistico consistente - come i vari Demdike Stare ed Andy Stott - e di aver fatto respirare spesso e volentieri un clima da club mitteleuropeo. Dalla passione per il recupero e il riutilizzo degli spazi urbani nasce un concept legato al museo e al “rapporto uomo-macchina nella sua evoluzione-involuzione storica a partire dall’ambito della musica elettronica fino all’arte figurativa”, ovvero Savana Machines. Una volta definita la line up e ottenuti i permessi per l’installazione in una location prestigiosa e inconsueta come il Museo della Scienza e della Tecnica “Leonardo Da Vinci”, si capisce che la rassegna sarà l’occasione giusta per Savana di fare il salto di qualità in termini di credibilità. Dopo un promoting meno sobrio del solito e notevoli aspettative tra il pubblico, arriva il momento di darsi appuntamento al padiglione Olona, in zona Sant’Ambrogio.Ad accoglierci, ora aperitivo, troviamo una lecture con Baffo Banfi, sorta di icona del prog nostrano ed ex tastierista de Un Biglietto per l’Inferno. L’artista ci introduce al principio fondante della serata con una nostalgica conversazione sulla personale esperienza nel mondo della musica, tra sintetizzatori e sale di registrazione.L’esperienza uditiva prende corpo nel momento in cui la platea viene introdotta nella Sala Transatlantico Biancamano, pista da ballo del natante arredata con il gusto degli anni Trenta. Qui possiamo ammirare Lorenzo Senni, compositore già noto per i progetti Stargate e One Circle, in una riproposizione live dell’ultimo lavoro Quantum Jelly prodotto per Editions Mego. Senni, Red Bull alla mano e bomber “Stargate” di rito, si lascia andare al ritmo, galvanizzato dall’effetto mantrico delle sue impeccabili sequenze arpeggiate. Il fondatore dell’etichetta Presto!? si scopre sempre di più artista poliedrico. Basti pensare alla varietà offerta nelle sue ultime esibizioni milanesi, dalla stratosferica jam di tre ore al Nike Stadium al set nu-style destrutturato di qualche giorno prima all’Istituto Svizzero. Vuoi per la territorialità del musicista, vuoi per la resa ad alta definizione del suono, la prova di Senni nel suo piccolo risulta un momento particolarmente sentito e autentico. Come già accennato, la resa acustica nella piccola stanza è ottimale. Nemmeno il tempo di una pausa e arriva il turno del produttore discografico (via Morphine Records) italo-libanese Morphosis. Accompagnato da una ricca strumentazione, Rabih Beaimi, veneto d’adozione, propone un live corposo e stratificato, completamente analogico e modulare, artigianalmente noise, fatto di cambi di ritmo e fascinazioni free jazz. Beaimi ci concede una prova di livello, forse un po’ corta ma concentrata, scatenando un applauso scrosciante e dandoci appuntamento all’after organizzato al Q21, dove lo ritroveremo in veste da disc jockey.Alle 10 apre lo Spazio Navale Polene, al piano sotterraneo, una location tanto insolita quanto azzeccata per una tripletta di live ad alta
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tensione elettrica. Calcio d’inizio per Crono, già organizzatore di serate nel meneghino e da poco debuttante, tramite la tedesca Correspondant, con il 12” EP Palazzo d’Inverno. Che l’artista milanese abbia una piccola ossessione per l’architettura e le geometrie novecentesche è palesato dai visual per solo bianco e nero: minimalisti in primis, rapidamente cangianti e mutanti quando serve. Per lui un’intro in crescendo, angosciosa ed eccitante, con tanto di sermone sulla sopravvivenza alla guerriglia urbana scandito dall’inconfondibile voce di Giovanni Lindo Ferretti, per un sapore quasi industriale. Ancora un ottimo brano dai risvolti figurativi prima di atterrare su lande più note e familiari: la seconda parte del set è appannaggio di una tech-house rilucente come i colori dell’opera di Sokurov cui Palazzo d’Inverno si ispira. Totale cambio di cromia con il passaggio del testimone ai britannici Raime. Assurti all’onore delle cronache grazie a un piccolo capolavoro come Quarter Turns Over A Living Line, il duo di casa Blackest Ever Black è creatore di un sound apparentemente monolitico ma al contempo fitto di vibrazioni, echi e rimbalzi sottopelle. Un pastone di puro cemento armato dove si incontrano industrial e dub, ambient, drone e minimalismo tribale. Supportati da visual degni del Terrence Malick di The Tree of Life, il live set si dimostra più irruento e vigoroso rispetto alle registrazioni su disco, più diretto e umano, senza però perdere un’oncia di quello strutturalismo stratificato che è, tra le altre componenti, la forza del duo londinese. Senza mai fendere la coltre di nebbia che avvolge le creazioni sonore, Joe Andrews e Tom Halstead passano da remoti echi jungle a stasi ambient color piombo, da partiture ritmico-meccaniche a picchi rumoristici che mettono a dura prova la tenuta dell’impianto di una venue non avvezza alle assurde frequenze cu viene sottoposta. Nota di merito per Mr. Halstead, che copre la famigerata Mela del suo Mac con un brandello di nastro adesivo (nero, ça va sans dire); piccoli dettagli che però rivelano una rigorosa attitudine da disciplina urbana. Quando la classe non è acqua, ma scolo di fabbrica (in senso più che buono, ottimo). Gran finale con la star couple dell’evento a.k.a Chris & Cosey. L’imprescindibile influenza di due (al secolo Chris Carter & Christine Carol Newby) è ben nota anche al di fuori del circuito sotterraneo, così come lo sono gli anni di militanza nei Throbbing Gristle e la creazione del concetto stesso di industriale in ambito musicale e artistico tout court. Ritrovarli in forma smagliante trenta e più anni dopo gli esordi, dunque, sorprende piacevolmente; di più, ad ascoltarli suonare quel che fanno da sempre si capisce ancor meglio quanto a fondo abbiano sedimentato le basi poste dall’eccentrica alcova dello Yorkshire. C’è spazio per rispolverare vecchie hit degli anni ‘80, da album come Songs Of Love & Lust e TechnØ Primitiv, e per brani nuovi tra cui l’ottimo singolo Coolicon. Ma ciò che davvero ammalia è vederli così naturalmente ed intrinsecamente al passo coi tempi; anzi, al di sopra dei cicli e delle mode, diacronici e sincronici insieme. Circolari nella musica quanto nel suo significato, nelle forme quanto nella non-deperibilità del prodotto (per una volta il termine trova una perfetta assegnazione di senso). Sodali e fedeli a quelle macchine il cui rapporto con il genere umano è poi il tema portante di questa quarta edizione del festival S/V/N/.E’ quasi l’una e il padiglione Olona inizia a svuotarsi ma, per gli irriducibili del clubbing, la festa continua al Q21, in zona Loreto. All’after, supportato dai ragazzi di Crimewave, un susseguirsi di dj set non stop prolunga l’evento fino al mattino, con le selezioni di Modz Wayne (dj di Neoma), Morphosis (in primis) e G-Amp + Giesse. Tra il pubblico
vengono avvistati anche i Raime in libera uscita che, complice qualche cocktail di troppo, si scoprono estremamente rilassati e facilmente approcciabili. Savana centra ancora una volta il bersaglio, rimanendo al passo con i tempi e affermandosi come il fiore all’occhiello dell’organizzazione culturale nostrana legata alla musica. Accendendo molte speranze per la prossima stagione, l’augurio è quello che si continui su questo standard etico e artistico, senza perdere la bussola nell’intricata palude di promoter milanesi. Davide Nespoli, Andrea Napoli
Alt-J
live report
Brixton Academy Estero/Altro 16 Maggio 2013 L’acclamata band di Leeds si è dimostrata ancora immatura, alle prese con un successo acquisito troppo velocemente. Riferimenti nobili, ma non abbastanza struttura per poterli gestire All’interno della cornice del O2 Brixton Academy, una finta villa italiana con tanto di alberi di rame e ferro battuto (sic), si è svolto giovedì 16 maggio 2013 l’attesissimo live degli Alt-J. Il live si è aperto con due anonimi gruppi di supporto, il primo dagli Stati Uniti, (Hundreds Water) piuttosto scialbo nei riferimenti a Dirty Projectors e Animal Collective, e il secondo dalla Nuova Zelanda (Princess Chelsea), con un’esibizione un pelo al di sopra della media, con più carattere e con una chiara estetica electro pop che per lo meno ha intrattenuto a dovere. Quando alle 21.30 gli Alt-J si sono presentati sul palco in formazione classica (chitarra e voce, tastiere e voce, batteria e basso) seguiti da quattro violoncelli, la sensazione di stare per assistere ad una possibile pacchianata era palpabile. Asciuttezza e rigore sono sempre stati due canoni nobilissimi e necessari nella migliore new wave, per cui ci si aspetterebbe da chi suona questo genere di rispettarne quantomeno gli stilemi. Apparentemente, gli Alt-J sembrano asciutti e la loro esibizione pare sia pianificata, scarna e rigorosa, ma la sensazione che si prova ascoltando la band dal vivo è piuttosto di una mancanza di suono e pienezza nell’esecuzione. Per assurdo, la band di Leeds riesce ad essere drammatica ed epica, e allo stesso tempo a proporre un suono a cui sembra mancare un quid. Brani come Breezeblocks e Tasselate (che pure son buoni brani), tratti da An Awesome Wave, dal vivo risultano piuttosto vuoti, perdendo quel finto nervosismo studiato che è un pò il marchio di fabbrica della band. Va detto comunque, a parziale discolpa dei musicisti, che con un solo disco all’attivo e con la mezz’ora scarsa di live a cui abbiamo assistito non si possono avere sufficienti elementi per dare un giudizio definitivo. Si dovrà probabilmente aspettare un secondo disco per capire la direzione che i giovani di Leeds desidereranno intraprendere. Due i momenti da sottolineare: una cover di Slow di Kylie Minogue e un’ottima Fitzpleasure che sembrava uscita direttamente dai Dalis Car. Lorenzo Cibrario
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My Bloody Valentine
live report
Estragon Bologna 27 Maggio 2013
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Una grande band noise e psichedelica, per un live-evento che però non raggiunge più lo status di assoluto Quando li vedemmo, quella volta a Barcellona, si era compiuto il miracolo, di quelli (dieci nella vita) che potremmo chiamare live assoluti. Nessuno credeva davvero nel ritorno di MBV, forse neanche i MBV stessi, in coscienza. Kevin e soci erano ascetici, come si confà a chi sta suonando un live di quel tenore. Il contesto era acusticamente ideale, da audiofili, l’Auditori sotto l’edificio di Herzog e De Meuron, al Forum, durante il Primavera Sound coevo alla reunion. Tale poteva essere: riprendere un discorso lì dov’era e richiuderlo per sempre. I tappi erano consegnati all’ingresso, e pur mettendoli nelle orecchie, i volumi erano intollerabili. La coda, il celebre reattore dei live di MBV, fece il deserto: nessuno riuscì a sopportare la mezz’ora di decollo finale, straziante per i timpani. Il punto è l’assoluto, quel concerto che è un evento nella vicenda non solo artistica ma culturale, esistenziale, dell’ascoltatore. L’assoluto è quel momento che crea uno scarto, che cambia il fruitore; dopo, qualcosa è diverso. Al netto dell’impianto nemmeno paragonabile dell’Estragon di Bologna, e del pubblico forse a tratti più smaliziato dalla recente uscita di mbv, poche cose di questo concerto hanno ricordato quello statement musicale intatto, perfetto. Di certo i My Bloody Valentine di oggi sono meno intransigenti, non solo per i volumi. Il live di Bologna ha dimostrato un’attenzione verso il pubblico che prima, nella distanza siderale tra quello e la concentrazione dei musicisti, non sembrava possibile. Ci siamo abituati a pensare i MBV suonare per sé, anzi per un’estasi concentrata solo sul proprio rito del rumore, massimalista. Oggi il concerto è una carrellata sulla carriera della band, diciamo dagli EP fine Ottanta (e viene voglia di riascoltarli) al terzo disco. Non è più l’espansione del monumento Loveless. Il reattore di cui sopra è sostenibile e limitato nel tempo, compreso in You Made Me Realise. Di conseguenza il finale non è più infinito, ma segue il copione della chiusura dell’ultimo album (Wonder 2, unico pezzo di mbv che non impallidisce di fronte alla produzione precedente). Il suono è roboante ma meno stratificato (fa eccezione To Here Knows When, estatica come sempre), centrato sulla chitarra protagonista, quella sì micidiale per effetti, a volte impressionante per potenza e presenza (Only Shallow). Più che le voci - al solito basse, quasi nascoste, e forse più del solito, un sussurro nel maelstrom (ma quello è marchio di fabbrica, acuito dall’impianto del locale) - stranisce però uno Shields che domina la scena con la propria seicorde, senza evidentemente essere credibile, come star vedi la banalizzazione / caricatura di Come In Alone, di fatto asciugata attorno alla chitarra. Stringendo il discorso, si è sentito nel live bolognese la questione dell’adattamento, che nei live precedenti (scorrere Youtube per credere) era pressoché assente, ossia si è percepita la distanza tra lo studio e il palco. Come se il secondo fosse un sottoprodotto del primo. I My Blo-
ody Valentine sono diventati un’eccellente rock band psichedelica e noise, da tradizione. Come per le grandi band, ogni concerto è un evento, ma ripetibile, non L’evento. L’assoluto è distante perché non esistono le distanze, nell’assoluto. Gaspare Caliri
Peter Murphy
live report
Magazzini Generali Milano 27 Maggio 2013 Il ritorno di Mr. Moonlight Il cameo di Peter Murphy in Eclipse, secondo capitolo della saga vampiresca adolescenziale di Twilight, ha lasciato perplessi molti ma, a giudicare dal pubblico riunito per la data milanese del “Mr. Moonlight Tour”, non ha scoraggiato nessuno. Del resto, non è difficile capire cosa abbia spinto il regista a chiedere a Murphy di interpretare uno dei vampiri originali nel film: il cosiddetto “padrino del goth” conserva tutt’oggi quell’allure misteriosa, sensuale e gelida che ha contribuito a scolpire i suoi Bauhaus nella storia. La performance di Milano non deve essere interpretata come una reunion dei Bauhaus. Murphy ha messo in chiaro che il gruppo, punta di diamante della dark wave, si è sciolto nel 2008 e non ci saranno ripensamenti a riguardo. Ma, in fin dei conti, buona parte delle canzoni dei Bauhaus porta la sua firma. Consideriamolo allora un regalo per i fan, anche perché chi è accorso ai Magazzini Generali questo lunedì sera si aspetta più che altro una carrellata di pezzi storici della band, e non sarà deluso. Il nome del tour, infatti, è simbolico e riprende Who Killed Mr. Moonlight, quinta traccia di Burning From The Inside. Dopo due anni di tour da solista con il suo album Ninth, Murphy ha deciso di resuscitare Mr. Moonlight per il 35mo anniversario dei Bauhaus e di portare in tour quel che resta di un pezzetto di storia del post-punk più oscuro degli Eighties. Il concerto milanese si apre con una sorpresa: una preview del nuovo disco di Murphy, Lion, previsto per il 2014 e registrato con Mark Gemini Thwaite alla chitarra, Emilio China al basso e Nick Lucero alla batteria. Da questo assaggio si capisce ben poco: sembra che Murphy abbia deciso di accantonare lo sperimentalismo e adagiarsi su un sound più confortevole e sicuro, più commerciale rispetto ai suoi lavori precedenti, ma è ancora presto per tirare le somme. Dell’età, Murphy ha estrapolato gli aspetti positivi: la scioltezza e la sicurezza maturati in anni e anni di esperienza sui palchi, la presenza scenica richiesta dal suo ruolo, la giusta dose di teatralità e di distacco da un pubblico che si aspetta proprio questo. Il leader dei Bauhaus si presenta in completo, camicia e polsini ornati di lustrini trash che però su di lui hanno l’effetto di antichi ornamenti stokeriani. I Magazzini non sono la location ideale per un live che andrebbe gustato in un’atmosfera più intima, in cui sarebbe sicuramente più semplice tuffarsi in questo
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live report
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revival post punk; ma è difficile non essere conquistati dall’aura magnetica e algida dell’uomo che si muove impercettibilmente sul palco come un’ombra scura. La band se la cava egregiamente nel riprodurre un repertorio dal sound ormai tanto inconfondibile da non essere poi così semplice da ricreare. Emilio China passa con disinvoltura dal basso al violino, mentre Lucero segue diligentemente gli insegnamenti di Kevin Haskins, restituendo un’energia e un’intensità che di poco differiscono da quelle originarie della band di Northampton. Murphy attinge da tutti gli album dei Bauhaus, regalando anche qualche chicca personale come una intensissima A Strange Kind of Love. Il pubblico, all’inizio un po’ assopito, si risveglia con pezzi come Double Dare, Silent Hedges e Stigmata Martyr, per poi esplodere con colonne portanti dell’impero Bauhaus del calibro di Bela Lugosi’s Dead, Dark Entries e She’s in Parties. Chi temeva di trovare un Peter Murphy stanco, fiaccato dall’età e dai suoi ultimi guai con la giustizia, è stato felicemente smentito: il padrino del Goth è ancora in grado di smuovere gli animi. La voce del vampiro della dark wave riesce ancora a penetrare nel profondo e a toccare corde rimaste nel buio per molto tempo. Il rischio è quello di affogare in un’atmosfera forse fin troppo amarcord, scivolare in una nostalgia malinconica che finisce per essere un po’ fine a se stessa. Ma non è il momento per interrogarsi sul significato dei revival come quelli del tour di Mr. Moonlight. Nell’epoca della retromania, per citare Simon Reynolds, sarebbe un discorso fin troppo complesso. Quello che importa è che stasera Murphy ha regalato una pressoché impeccabile serie di cover della sua stessa creatura, oltre a chiudere in bellezza con un’apprezzabile e prevedibile versione di Ziggy Stardust di Bowie. I fan dei Bauhaus possono considerarsi più che appagati; la curiosità degli estimatori di Murphy è stata solleticata dalla preview di Lion; la dark wave, per una notte, è tornata a brillare, paradossalmente più luminosa che mai. Eugenia Durante
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G i m m e S o m e I n c h e s
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Nastri e vinili a volontà in questo numero estivo. Si parla di Father Murphy e Panicsville, X-Marillas e Spettro Family, Luca Sigurtà e Giulio Aldinucci, tra gli altri
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La Yerevan Tapes è una label bolognese geograficamente e ideologicamente vicina alla Avant! che non perde occasione per far parlare di sé. La scoperta di Gianni Giublena Rosacroce o le nuove uscite targate Cannibal Movie le dobbiamo all’etichetta che ruba il nome alla capitale armena, mentre stavolta tocca soffermarsi su una tape, formato preferito a quelle latitudini, a nome Father Murphy. Un nome, una sicurezza quello del trio veneto, anche e soprattutto quando sperimenta come in Orsanti, They Call Them, tape one-side in cui si procede di (pseudo)colonna sonora in modalità cut-up Burroghsiano attraverso cui riassemblare alcune musiche preparate per i lavori di video-animazione di Luca Dipierro. Ne esce qualcosa di al solito oscuro ma straniantissimo per le atmosfere malate che riesce ad evocare. Il gioco dei silenzi, gli echi, i rumorismi rituali ed estatici così come gli ossianici rimbombi di piano o le percussioni lontane, rimandano ad un mondo notturno, posseduto, costituito di incubi surreali e presenze minacciose. Roba giusta per un esorcismo del reverendo, no? Sempre sul versante tape, segnalazione d’obbligo per il rientro di Giulio Aldinucci, il cui Tarsia ci aveva positivamente colpito. Ennesimo rappresentate della new wave dell’elettronica di ricerca italiana - da segnalare pure l’esperienza londinese della folta rappresentanza PIARS lo scorso mese - Aldinucci ha in sé un certo gusto per le dinamiche ambientali che definiremmo psicogeografiche. Archipelago, tape in sciccosissima confezione cartonata edita da Other Electricities, non si discosta dal noto, elaborando field recordings e soundscapes provenienti dalle sue terre coi suoni prodotti dalla sua strumentazione. Così le campagne del la Val d’Orcia generano le folate ventose di Aria, in Short Circuit riecheggiano i boschi senesi filtrati con un mellotron e i synth scontornano i suoni catturati dalla finestra dello studio dell’autore nella lunghissima R’n’R Through Broken Headphones. C’è su tutto, al solito, un senso di vaghezza e sfumatura che ci lascia sempre in un limbo da immaginario sfocato e trasognante. L’antico sopravvive nel nuovo, il quotidiano si trasfigura e Aldinucci fa di nuovo centro. Passando ai pezzi di vinile, cominciamo dal più piccolo. La formula X-Marillas è più di un indizio per comprendere chi vi si celi dietro e che le promesse corrispondono esattamente a ciò che viene offerto. Follia in modalità pop surrealista per X-Mary + Camillas, coi primi che apportano un maggior peso strumentale al totale mentre i secondi la propria, storta idea di cantautorato. Così tra i coretti di Sapone, la denuncia sociale all’epoca del social network in Tu Sei Pazza, l’aggro-punk di
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disagio familiare Non Voglio Essere Come Mio Zio ci scorre il mondo a colori di due delle formazioni più fuori di testa del paese. Aumentando i giri, cambiano totalmente le atmosfere. Ritroviamo infatti Spettro Family che col 10” La Famiglia Spettro su TUR/RUR si rilancia come prime mover del “cinematic horror revival”. Passaggi lugubri e ossessioni da reparto psichiatrico (Psichiatria Primo Piano), Goblinerie assortite (il piano reiterato di Oltretomba), soundtrack per malinconici b-movie immaginari (Crit) convivono con un lato B in cui si fa più evidente l’influenza transilvanica, complice anche un suggestivo viaggio compiuto nelle lande del conte Vlad, che incupisce ancor di più il tutto verso lande decadenti e polverose. Ne riparleremo. Nello split 12” pubblicato da Fratto9 e Kinky Gabber, troviamo invece uno dei più validi rappresentanti del noise nostrano, Luca Sigurtà, intento a dividersi una facciata - l’altra è serigrafata da Sanair - con l’americano Andy Ortmann aka Panicsville. Hookers del nostro va di astrattismo elettroacustico elaborando trame ritmiche post-industrial minacciose nel crescendo della prima parte tanto da sfiorare l’harsh, e “aperte” nella seconda, in cui si notano contatti con le evanescenze ambient dell’ultimo Bliss. Sullo stesso lato, Paura Nella Città Dei Morti Viventi Panicsville omaggia, ça va sans dire, Lucio Fulci tra samples vocali, elettronica analogica, atmosfere oniriche, urla sgraziate, organi haunted, per una rendition del film in oggetto condensata in visionaria brevità. Se è vero che la lingua batte dove il dente duole (o dove l’hype monta, per essere più prosaici), torniamo ad occuparci dell’alcova danese che fa capo alla Posh Isolation, piccola ma famigerata label di Copenaghen attorno alla quale gravitano nomi piuttosto noti da qualche anno a questa parte (primi su tutti gli Iceage, ma anche Vår, Sex Drome e Lust For Youth). L’etichetta gestita da Loke Rahbek è ben nota per sfornare periodicamente batch di tapes e vinili ad alto grado di molestia e disagio. Anche nelle ultime settimane, quindi, non poteva mancare la consueta infornata di uscite per sonorità in puro bianco & nero. Tra le diverse pubblicazioni meritano il nostro plauso i Rose Alliance, ovvero il nuovo progetto solista di Hannes Norrvide, già main-man dei sopracitati Lust For Youth. Non sazio di rilasciare dischi per synth e drum machine su etichette come Sacred Bones, il giovane svedese di stanza a Copenaghen ha dato i natali a questo creatura ancora più caustica e feroce. Seconda tape, dopo il primissimo split con Croatian Amor, Scandinavian Pictures consta di tre pezzi per venti minuti totali a base di techno industriale come va da qualche tempo: cassa dritta sotto cumuli di macerie, polvere e fuligine. Da tenere d’occhio. Altra piacevole scoperta, quei Rat-Alarm sulla cui essenza nulla ci é dato sapere. Tape di debutto, questo omonimo nastro va ad arricchire la galassia di quel sound in scala di grigio di cui accennavamo poc’anzi. Sei brani, spesso strumentali, che per vizi e virtù ricordano Solar Flare, prima fatica dei fratelli maggiori LFY: synth e noise, pad e riverberi, ritmicità e monotonia, ma già lo sapete. Ultimo anello della catena, ma più che altro un ponte che collega la capitale a danese a Milano, l’LP (one-sided, a dire il vero) che la meneghina A Dear Girl Called Wendy (già rea di diverse uscite al limite del rumore criminale) ha appena pubblicato proprio a mister Rahbek, sotto il moniker intuitivo LR. Cinque brani per questo Brother che rappresentano, per stessa ammissione dell’etichetta, il materiale più scuro e maggiormente votato al power electronics che il giovane Loke abbia finora concepito. Un viaggio profondo e introspettivo dove non rimane spazio per scuse e auto-indulgenze. Provate Head of Man per fugare ogni dubbio! Stefano Pifferi
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Verdena
C A MPI M A G NETICI
#22
Solo un grande sasso (Black Out, Settembre 2001)
“Ma che cazzo ci ha chiesto questo?” Si può pensare che cominci qui, nella sala stampa di un lontano Heineken Jammin’ Festival, con questa cruda reazione di smarrimento alla domanda di un noto giornalista, la parabola di uno dei più importanti e controversi gruppi italiani degli ultimi anni. I Verdena (al secolo Roberta Sammarelli, Alberto e Luca Ferrari) nell’estate del 1999 hanno appena pubblicato il singolo Valvonauta e si apprestano ad affrontare il palco di Imola. È in questo contesto che Mario Luzzato Fegiz pone ai tre una domanda sulla “scena hip-hop italiana”, scatenando la reazione - più imbarazzata che strafottente - del più giovane dei fratelli Ferrari. Ed è proprio in quel “ma che cazzo” che si può riassumere l’anima della band orobica: selvatica, guidata dalla volontà di assecondare le proprie inclinazioni senza interessarsi troppo alle possibili reazioni degli ascoltatori (o interlocutori: in quel caldo pomeriggio del 1999, Mario Luzzato Fegiz non reagì benissimo). Per convincersi della tendenza autarchica dei Verdena, basta pensare alla loro discografia: dopo i primi due dischi i Nostri si affidano anche in studio al frontman Alberto Ferrari. Se il rock senza fronzoli de Il Suicidio Dei Samurai denota ancora margini di crescita, con Requiem assistiamo alla maturazione definitiva dell’ensemble bergamasca, che con il doppio Wow tocca il proprio Zenit creativo, tra virate stoner, aperture psichedeliche e ballate pop di stampo classico. Tralasciando l’omonimo esordio del 1999, è però sul secondo disco della discografia verdeniana che ci si concentra: quel Solo un grande sasso che per l’ultima volta li vede prodotti da mani aliene (quelle di Manuel Agnelli) e si pone come crocevia di quanto la band saprà fare da qui in poi. La tua fretta è già un chiaro guanto di sfida: affidare l’apertura del secondo disco a chitarra acustica, voce e mellotron, per un gruppo che sembrava solo spingere sull’acceleratore, pare una netta dichiarazione d’intenti. Spaceman, primo singolo, traccia la via: chitarre stratificate, echi Motorpsycho, riff Seventies e nessun ritornello killer; a farsi strada sono semmai le tastiere, che impreziosiscono e compattano il suono della band. E se Cara prudenza e Buona risposta rivelano ancora legami col passato, le cavalcate Nova, 1000 anni con Elide e Centrifuga mettono in luce una nuova tendenza a divagare tra certo post-rock strumentale à la Mogwai e i già citati Motorpsycho, veri ispiratori del disco. Stupisce Nel mio letto, ballata pianistica tra Lennon e gli Sparklehorse, così come la conclusiva Meduse e tappeti, acusticheggiante affogato di delay e feedback; nel mezzo, il singolo Miami Safari e la notevole Onan, sorta di Vortex Surfer casalinga. Vertice artistico ed emotivo del disco è Starless, con un riff debitore - oltre che verso il già citato trio norvegese - degli Smashing Pumpkins di Billy Corgan. A sfavore del disco gioca forse una certa tendenza alla divagazione e una produzione che spinge troppo sulle chitarre, a tratti sommergendo una batteria che, nei seguenti lavori, diventerà l’architrave su cui costruire dinamiche e strutture imprevedibili. Registrato presso le Officine Meccaniche di Milano, Solo un grande sasso è un calcio ben assestato al Seattle sound, a chi voleva i Verdena figliocci fuori tempo massimo dei Nirvana, ma anche a tutti quelli che speravano nel reiterarsi del “teen spirit” e del pop-rock virato al grunge dell’esordio. Enrica Selvini
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Half Japanese
c l ass i c a l b u m
1/2 Gentlemen / Not Beasts (Fire Records, Giugno 2013)
Il documentario The Band that Would Be King comincia con la voce di Jad Fair che ricorda come «non fossimo proprio una garage band, suonavamo nel soggiorno di casa..» e una semplice didascalia. «Uniontown, Maryland, 1977. Jad e David Fair hanno formato gli Half Japanese nella loro cameretta. Non sapevano suonare un singolo strumento, ma nonostante tutto hanno registrato uno dei più grandi dischi della storia.. ». C’è poco altro da aggiungere. Il disco di cui si parla è l’esordio 1/2 Gentlemen/Not Beasts, un triplo LP pubblicato nel 1981 dalla Armageddon, da tempo fuori catalogo e ora fiore all’occhiello della ristampa di tutta la discografia curata dalla Fire. Le 50 tracce originali diventano 68 sul triplo CD e addirittura 86 sul quadruplo LP. C’è soltanto da sbizzarrirsi nel riascoltare questo classico del primitivismo rock e dell’outsider music americana, che ai tre accordi del punk sostituiva una provocatoria estetica del “non accordo”, qui trascritta nero su bianco nel saggio di Jad Fair How To Play Guitar incluso nel libretto del CD. Altro che i prontuari per chitarristi in ventiquattr’ore, sentite quante chicche concentrate in poche righe: «Ho imparato da solo a suonare la chitarra. È facilissimo quando capisci la scienza che sta alla base. Le corde più fini hanno i suoni più acuti, e le più spesse i suoni più gravi. Se schiacci una corda più vicino alla paletta avrai un suono più basso[..] Puoi imparare i nomi delle note e a conoscere gli accordi che usano gli altri ma è piuttosto limitante [..] Se li ignori le possibilità diventano infinite e puoi imparare in un giorno [..] È la tua chitarra e puoi farci quello che vuoi. Io preferisco usare corde di spessori diversi per avere più varietà, ma mio fratello le monta tutte dello stesso spessore, così non si deve preoccupare troppo. Qualsiasi corda pizzichi sarà quella giusta perché sono tutte uguali [..] L’accordatura è un concetto ridicolo [..] La chitarra è la tua e soltanto tu puoi decidere come farla suonare». Quest’approccio tra l’aleatorio, il tautologico e il dadaista è lo stesso che sottende tutti i cinquanta brani del disco originale, che con estro regressivo degno dell’art brut di un Dubuffet trascinano il rock dell’assurdo di Captain Beefheart e la naiveté delle Shaggs nei meandri di una no wave casalinga a bassa intensità nichilista - No More Beatlemania, I Love Oriental Girls e Battle of the Bands sono la risposta del Midwest a No New York - dove la chitarra è principalmente un clang monocorde accompagnato da percussioni scoordinate e amatoriali, canto piatto e melodie liofilizzate, dal pulsare di qualche congegno elettronico e, all’occorrenza, da lancinanti larsen. Jad Fair era uno pronto per la lo-fi dieci anni prima della lo-fi, era Daniel Johnston prima del sorry entertainer (ascoltate Girls Like That), suonava econo come e prima dei compagni Minutemen (I Ta Nasi Si Na Mi Eee), decorticava il blues prima dei Pussy Galore (School of Love) e filosoficamente era proiettato addirittura oltre le scordature dei Sonic Youth. Per non parlare delle citazioni esibite in modo provocatorio (Funky Broadway Melody), e delle cover irriconoscibili di Bob Dylan, Springsteen e Velvet Underground, indice - tra i tanti - di un atteggiamento pre-postmoderno. Ristampa meritatissima, da tempo non si vedeva l’ora. Tommaso Iannini
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Into Darkness – Star Trek
cinema
J.J. Abrams (USA, 2013)
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“Spazio, ultima frontiera. Eccovi i viaggi dell’astronave Enterprise durante la sua missione quinquennale, diretta all’esplorazione di strani nuovi mondi alla ricerca di altre forme di vita e di civiltà, fino ad arrivare laddove nessun uomo è mai giunto prima”.. L’Enterprise è tornata, per la dodicesima volta sul grande schermo, con il sequel del riavvio della saga, ripartita nel 2009 (Star Trek - Il futuro ha inizio), sempre ad opera di J. J. Abrams. Il genietto della TV americana non ha bisogno di tante presentazioni, parlano da sole le serie televisive, da Felicity ad Alias e Lost, fino a Fringe e alle numerose sceneggiature e puntate al cinema. Into Darkness - Star Trek vede il capitano Kirk (Chris Pine) allontanato dal comando dell’astronave e dal suo primo ufficiale Spock (Zachary Quinto) per non aver rispettato le regole della Federazione (salvando Spock, ha violato la Prima Direttiva della Federazione, Non interferire con lo sviluppo di una cultura aliena..). Ma servirà tutta la sua esperienza e abilità (e infatti verrà richiamato) per far fronte ad un pericolo imminente: bisogna neutralizzare Khan (già presente nella saga originale e nel film Trek II - L’ira di Kahn, qui interpretato dall’algido Benedict Cumberbatch), un umano modificato geneticamente e poi congelato per evitare che i superpoteri acquisiti facciano danno; risvegliatosi, Khan vuole scongelare altri suoi 72 simili e minaccia la flotta. J. J. Abrams, sempre coadiuvato dagli sceneggiatori Orci e Kurtzman, realizza un film velocissimo e dal gran ritmo, che come il precedente gioca molto con l’ironia; Abrams infatti si rifà palesemente alle lezioni di George Lucas e Steven Spielberg piuttosto che a quelle del creatore della serie originale Gene Roddenberry, e a uno come Robert Zemeckis, da cui prende sense of humour e avventure spazio-temporali. Il 3D rende bene questo senso di velocità soprattutto in esterni, dove un’estrema vertigine sembra rendere i paesaggi molto mobili e squadrati. Alla base ci sono come sempre le relazioni tra i personaggi, l’umanità che tanto interessa all’autore: in questo caso in primis l’amicizia tra Kirk e Spock, le loro diversità e complementarietà, il freddo e calcolato Primo Ufficiale a confronto con l’irruento Capitano; entrambi cambieranno nel corso del film, Spock sperimentando umanità e amicizia, il secondo arrivando a patti con la sua emotività e imparando il senso del sacrificio per il bene comune. Seguono,
nel capitolo rapporti umani, tutta una serie di circostanze collaterali (il contrastato rapporto padre-figlia tra la dottoressa Marcus e il padre, ammiraglio che presiede l’Alto consiglio della Flotta Stellare, il dolore per la perdita di un secondo padre da parte di Kirk con la morte dell’ammiraglio Pike, le schermaglie tra Spock e la fidanzata Ahura). Rispetto al primo film, in Into Darkness - Star Trek Abrams abbassa il tono e sdrammatizza di più, laddove Star Trek - Il futuro ha inizio era molto giocato anche sulla tensione, sulle scelte morali dei protagonisti e sull’impianto della storia in fieri, da sviluppare nel prequel. Qua sembra dirci che in fondo trattasi di avventura allo stato puro. Avventura che manicheisticamente comunque contrappone bene e male e diventa una sorta di metafora degli USA vs. il cattivo di turno. Imperialismo rules. Sempre e ancora una volta. La levità vera di un maestro come Spielberg e suoi epigoni latita alquanto. Resta il divertissement dell’avventura per l’avventura. Con ancora con un cameo del vecchio Spock, Leonard Nimoy, che suggerisce alla versione giovane di se stesso di cercare le risposte nella storia della serie. Teresa Greco
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