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digital magazine | giugno 2012 | n. 92

Mystery Jets Nobraino Friends Il Pan del Diavolo

PiL my bloody valentine il frastuono armonico e celeste



giugno N.92

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Turn On Oxia, Shijo X, Mr. T-Bone, Neneh Cherry, The Thing

p. 10

Tune-In Mystery Jets, Nobraino, Friends, Il Pan del Diavolo

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Drop Out Pil, My Bloody Valentine

Recensioni VHS Grindhouse Gimme some inches

p.   50 » 101 » 102

ReviewMirror Campi magnetici Classic album

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Direttore: Edoardo Bridda Direttore Responsabile: Antonello Comunale Ufficio Stampa: Teresa Greco, Alberto Lepri Coordinamento: Gaspare Caliri Progetto Grafico e Impaginazione: Nicolas Campagnari Redazione: Alberto Lepri, Antonello Comunale, Edoardo Bridda, Fabrizio Zampighi, Gabriele Marino, Gaspare Caliri, Marco Braggion, Nicolas Campagnari, Stefano Pifferi, Stefano Solventi, Teresa Greco Staff: Nino Ciglio, Carlo Affatigato, Marco Boscolo, Viola Barbieri, Fabrizio Gelmini, Antonio Laudazi, Simone Caronno, Diego Ballani, Antonio Cuccu, Giulia Antelli, Federico Pevere Copertina: Loveless (My Bloody Valentine) Guida spirituale: Adriano Trauber (1966-2004)

SentireAscoltare online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Direttore responsabile: Antonello Comunale Provider NGI S.p.A. Copyright © 2009 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare


Turn-On.

Oxia

—House from Grenoble—

Il nuovo disco Tides Of Mind è il pretesto per riflettere su una delle ‘periferie’ dance più prolifiche della francia. Olivier Raymond intervistato in esclusiva.

Olivier Raymond è da poco uscito con un nuovo disco: Tides Of Mind. Il passaggio da un flavour techno a una smoothed house ci ha incuriosito, dato che il suo progetto Oxia passa dall’autoproduzione a una delle più promettenti etichette francesi, la Infiné. In esclusiva l’intervista per noi, con ricordi che partono dalla prima esperienza radiofonica e che passano per i mitici anni Novanta, senza bisogno di menzionare i Daft... Hai iniziato a suonare a Grenoble con I tuoi amici, tra i quali Kiko. Il tuo primo 12’’ l’hai pubblicato proprio con lui (Parameters su Ozone Records). Come hai iniziato a comporre musica? Dove l’hai incontrato (Kiko)? Kiko è di Valence (Valence-sur-Rhône, a 100km da Grenoble). Si è trasferito nella nostra città nel 1995 e ha aperto un negozio di dischi che si chiamava Ozone records. E’ stato proprio lì che ci siamo conosciuti. Pochi mesi dopo abbiamo deciso di fondare l’etichetta, dove abbiamo stampato il nostro primo disco. Ho letto anche che prima di fare musica conducevi uno show radiofonico di music funky con Stephane Deschezeaux. E’ vero? Perché sei passato alla techno? Ho incontrato Stephane quando ero teen e con lui condividevo la stessa passione, che era la musica funk. A metà degli anni 80 abbiamo iniziato questo show radiofonico funk e pochi anni dopo abbiamo iniziato a fare i DJ nei party studenteschi, etc. Poi è esplosa la house anche in Francia. Per noi è stata un’evoluzione naturale del suono 4

funk. All’inizio dei 90 abbiamo comprato delle macchine e ci siamo messi a comporre funk, acid jazz e house. Poi abbiamo iniziato ad ascoltare la techno di Detroit, che è stata una rivelazione. Ecco perché abbiamo scelto il suono techno al posto del funk. In quegli anni abbiamo iniziato anche ad andare ai primi rave. Nel 1994 abbiamo deciso di vivere di questo lavoro, così abbiamo creato Oxia (Stephane ha lasciato il progetto nel 2000 e io ho continuato da solo). Ci puoi dire qualcosa su The Hacker? Dove l’hai incontrato? E’ stato importante conoscerlo? Ho visto che nel 2001 hai fatto uno split con lui... L’abbiamo incontrato nei primi rave a Grenoble nel 1994, anche lui è di Grenoble. Ci vedevamo spessissimo sia alle feste sia nel negozio di Kiko e così siamo diventati amici. Quattro anni dopo volevamo costruire un’etichetta e Michel mi ha chiesto di partecipare al progetto perché sarebbe stato interessante mixare le nostre influenze (funk, groove per me e dark e new wave per Michel). Così nel 1998 abbiamo creato la Goodlife con Alexandre Reynaud. Abbiamo collaborato anche in diversi singoli oltre all’EP che hai già citato. Com’è stato creare un’etichetta da zero nel 1998? Alla Goodlife, io e Michel lavoravamo alla direzione artistica e Alex faceva il resto. Non è stato difficile iniziare con l’etichetta perché avevamo già i contatti giusti per la distribuzione, etc. In quegli anni era tutto diverso, oggi è tutto cambiato con internet...


Nel 2004 hai pubblicato il disco 24 Heures, basato su suoni deep e melodie, anche se a me sembra comunque destinato al dancefloor. Hai stampato anche altre cose vicine alla techno (come gli split con Gino’s & Snake). Il tuo ultimo disco è più rilassato, anche se è sempre ballabile. Ci puoi dire qualcosa su questa differenza? Nel 2004 ascoltavamo essenzialmente la techno music di Detroit. 24 Heures è infulenzato da Detroit e dall’electro di Aux 88 (il gruppo americano di Tommy Hamilton e Keith Tucker, ndSA), Other People Place (il progetto solista di James Marcel Stinson dei Drexciya, ndSA) o dai Drexciya... Poi ho fatto cose diverse come Domino (la B side di Speicher 34 su Kompakt Extra del 2006) o Whole Life (la B side del Sun Step EP del 2009 su 8Bit Records). Non mi piace fossilizzarmi sullo stesso stile, sono influenzato da varie cose. Specialmente per l’ultimo disco, volevo riascoltare la musica che ascoltavo quando ero più giovane (funk, soul, jazz) e mescolarla con le sonorità che sto esplorando da poco come la classica, il folk, artisti come Radiohead o Loney Dear... In Tides Of Mind hai chiamato Miss Kittin per un featuring su Housewife. La conoscevi per il link con The Hacker? Suoni con lei? Mi ricordo le prime tracce sue come Radio Caroline da Grenoble? Ti piace il suo lavoro? La conosco da tanto. Anche lei è di Grenoble, così ci siamo conosciuti ai rave dei Novanta. La nostra amicizia si è cementata con gli anni. L’anno scorso a Ibiza stavamo ad un party e ci siamo resi conto che non avevamo mai collaborato insieme. Così quando stavo lavorando ad Housewife ho pensato che sarebbe stata perfetta per Caro (nomignolo di Caroline Hervé, ndSA). Mi piace molto la sua spontaneità e allo stesso tempo la sua professionalità, il suo occhio per il dettaglio che è molto importante per me. Hai usato anche altre due voci. Mesparrow e Scalde. Dove li hai conosciuti? Ci puoi dire qualcosa di questa collaborazione? Per Mesparrow, avevo già registrato io la voce su una traccia (Travelling Fast), ma sapevo che lei aveva la voce adatta, influenzata dal jazz e dal pop. L’ho conosciuta tramite Agoria, che l’ha scoperta a un festival francese. La sua voce ha un timbro particolare, un po’ spezzato e con una bella sensibilità. Ha accettato immediatamente quando le ho mandato la traccia. Ha cantato sopra la mia linea melodica e ha cambiato completamente il sound. Scalde l’ho incontrato quattro anni fa nello studio di Agoria. Avevano già lavorato insieme e io stavo producendo Dust (un singolo del 2008 di Agoria stampato su

PIAS France e finito poi nell’album Go Fast, ndSA), cercando un vocalist. Scalde viveva a Lione, l’ho chiamato, e assieme ad Agoria abbiamo lavorato per completare il pezzo. Da quel giorno ci siamo ripromessi di lavorare insieme in futuro. Mi piace molto la sua voce, molto sensibile e con melodie inaudite. Lo stesso è successo su The Phoney Lullaby, non mi sarei mai immaginato di venire fuori con una melodia del genere. Perché hai deciso di cambiare etichetta? Dove hai incontrato i ragazzi di Infiné? Conosci qualche altro artista del roaster? A me personalmente piacciono molto le produzioni di Francesco Tristano e Cubenx... Ho seguito l’Infiné dall’inizio. Uno dei fondatori è Agoria, con il quale ho stretto una forte amicizia. Conosco da tempo anche Alex Cazac, un altro fondatore. Così ovviamente sono interessato al loro suono, mi piace molto il loro essere aperti, infatti stampano musica diversa: Agoria, Rone, Arandel, Tristano... tutti stili differenti ma con le stesse idee musicali. Quando Seb (Agoria) mi ha proposto di fare l’album su Infiné, ho accettato subito. Ho fatto cose che non mi sarei immaginato di saper fare, ho lavorato con i vocalist, etc... ho ampliato gli orizzonti e la mia libertà. Pensi che il suono house di Parigi sia diverso da quello di Grenoble? Perché stai lì e non sei mai emigrato a Parigi? Non penso che oggi i generi siano legati alle città, ad esempio io e The Hacker abbiamo stili completamente diversi, lo stesso a Parigi tra Gesaffelstein e D’julz. Ho viaggiato molto suonando, ma la mia casa resta sempre Grenoble. Ho qui le mie radici, la mia famiglia, gli amici. Mi piace tornare in città, dove conosco tutto alla perfezione. Quali sono i tuoi progetti futuri? Suonerai il disco dal vivo? Ho appena finito un remix per Couy su Suara Records. Penso che collaborerò con Nicolas Massayeff (con il quale ha già lavorato su Tsuba Records, ndSA). Sto lavorando sodo sul live, dato che sono 10 anni che non suono sul palco con gli strumenti. Ho suonato alle Nuits Sonores, al Rex (il club parigino, ndSA) con Scalde e Miss Kittin dal vivo. Mi piace vedere la genete con le mani in alto, è una grande soddisfazione... Quali sono i produttori dance che ti piacciono di più oggi? Mi piacciono molti artisti, soprattutto quelli che suonano diversi dal mio stile. Dare una lista di nomi è sempre difficile, ma quelli che ho ascoltato di più ultimamente sono: Mathias Kaden, Maya Jane Coles, Agoria, Nicolas Masseyeff e Robag Whrume. Marco Braggion

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Turn-On.

Shijo X

—Tutti i colori del trip hop—

A tre anni dal solare esordio di Shijo X, l’electro-trip hop degli abruzzesi Bologna-based si tinge dei colori del crepuscolo con ...If a night, una raccolta di fiabe oscure.

Gli Shijo X sono ‘quelli col nome strano’, irriproducibile e indecifrabile, con quella X che ne rafforza il mistero. Un viaggio a Kyoto di Davide ‘Skatto’ Verticelli - tastierista e co-fondatore del gruppo, così soprannominato per la rapidità con cui lo si vede sfrecciare dalla riviera abruzzese al mondo - risolve per lo meno l’enigma del nome, ispirato ad una strada imperiale della città giapponese. Patria elettiva è Bologna, da dove il nostro inizia l’avventura, prima come tastierista di Beatrice Antolini, poi insieme alla conterranea Laura Sinigaglia, con la quale fonda il proprio progetto solista, Shijo X. Pensato originariamente con una formazione a due, “allo scopo di evitare l’effetto pianobar”, alla seconda prova in studio il sound del gruppo si perfeziona grazie all’inserimento del basso di Federico Fazia e della batteria di Federico Adriani. L’esordio del 2009 One minute before (Ideasuoni) - una raccolta di otto tracce composte di getto, in parte direttamente in sede di registrazione tra le colline modenesi del Bombanella Soundscapes - è un collage di sonorità fresche e (video)giocose: basi elettroniche variamente declinate su sonorità afro, dub, hip hop e reggae; campionamenti in stile tetris e andamenti latineggianti impastati con la versatile quanto sensuale vocalità soul e r&b di Laura. Il tutto per dare vita ad sound divertente e debitore nei confronti dell’electro trip 6

hop dei Bran Van 3000 come degli ultimi Morcheeba. Se ‘l’elettronica, intesa come ricerca del suono, è l’elemento che unisce entrambi i lavori’, con ‘ If a night, frutto di un anno e mezzo di gestazione, gli Shijo X trovano nella semplificazione la chiave di volta per dare identità a un sound che riceve le influenze più fumose e minimali di Portishead e Massive Attack. Il risultato è una raccolta di fiabe dark che potrebbero essere ambientate Bristol come a Bologna. Tra collaborazioni reali (Luca Cavina di Calibro 35 e Zeus!, Gianluca Rimei de Il Genio e Candy Fish e Michele Postpitchl di Ofeliadorme) e aneddoti surreali come quando, racconta Skatto, si è trovato casualmente a suonare per un matrimonio in Belgio col quartetto d’archi che accompagna Björk - gli Shijo X si stanno muovendo abilmente su traiettorie nazionali ed internazionali potendo già vantare importanti esperienze live e prestigiosi riconoscimenti. Tra tutti, la premiazione come miglior gruppo abruzzese nell’edizione 2011 dell’Italia Wave Love Festival. Si offrono lezioni di spelling per impararare a pronunciare un nome che potrebbe arrivare sulla bocca di molti. Viola Barbieri


Turn-On.

Neneh Cherry / The Thing

—Un affare di famiglia—

Dagli esordi con RipRig+Panic fino a questo nuovo disco di cover sorprendenti (Suicide, MFDoom, Stooges) insieme a Gustafsson, tra freeworld, Tom Waits, elegante jazzcore e suadente classe soulful...

Neneh Cherry è... Neneh Cherry. Figlia del batterista della Sierra Leone Amahdu Jarr e dell’artista Monica Karlsson, infanzia nella comune hippie di una piccola cittadina svedese, tirata su - tra una gig e un disco - dal mitico Don Cherry (cornettista e trombettista a lungo sodale di Ornette Coleman e tra i primissimi a sperimentare la world music; sorellastra quindi Neneh della meteora Eagle-Eye), voce - non ancora ventenne - di una delle cose più eccitanti successe nel post-punk, i lussureggianti Rip Rig + Panic con dentro chitarrista e batterista (Bruce Smith, all’epoca marito di Neneh, adesso nei rinati PiL) del fu-Pop Group. Neneh è stata una delle muse del giro bristoliano immediatamente pre-triphop, con numeri hiphop-dance tutti scratch e stacchi di tromba come Buffalo Stance (hit propiziata da Tim Semenon/Bomb the Bass) e con tre album (1989-1996, Raw Like Sushi, Homebrew, da molti considerato un classico assoluto degli anni Novanta, e Man) all’insegna del crossover musicale più soulful, segnati dal contributo del nuovo marito, Cameron McVey (mani in pasta con Massive Attack, Portishead e poi All Saints e Sugababes). In mezzo a tante collaborazioni, proprio assieme a Cameron - e con la loro figlia Tyson - Neneh ha messo in piedi la band CirKus, con la quale ha fatto concerti e pubblicato due album (Laylow, 2006, remixato nel 2007; Medicine, 2009). I The Thing - il nome da un piccolo classico di Don Cher-

ry, dall’album Where Is Brooklyn? (Blue Note, 1966) - sono il terzetto jazz messo in piedi nel 2000 dal sassofonista Mats Gustafsson, stella della scena free svedese (noto da noi soprattutto per le sue liaison con Ken Vandermark, Zu e il giro Sonic Youth/O’Rourke), con Ingebrigt Håker Flaten al basso e Paal Nilssen-Love alla batteria. Nel loro repertorio pezzi autografi ma anche e soprattutto riletture che vanno dalla golden age del freejazz (Ornette Coleman e - ovviamente - Don Cherry in testa), alla funk/fusion di James Blood Ulmer, fino a pezzi di gente come Lightning Bolt, White Stripes e PJ Harvey. Neneh incrocia The Thing nell’autunno del 2010 in uno studio di registrazione a Londra: tra i legami affettivi evocati da quel nome e da quel repertorio e un feeling immediato con il fare jazz di Gustafsson, è quasi inevitabile che scatti la scintilla. Prima jammano, poi provano assieme e suonano in giro (in scaletta anche pezzi di Nico Päffgen; e ancora suoneranno nei festival di mezza europa in questa estate 2012). Alla fine, senza forzature, arriva anche il disco. Un lavoro che riporta la classe della voce di Neneh - una classe che è sostanza, non solo forma - alle nostre orecchie, perfettamente a proprio agio nell’ambience vivace e cosmopolita imbastita dal terzetto di Gustafsson, in una manciata di cover - solo otto brani, non una nota in più di quelle necessarie - così belle, inguantate, naturali, da non sembrare neppure cover. Gabriele Marino

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Turn-On.

Mr. T-Bone

—Ska DJ. Why not?—

Il numero uno dello ska italiano sta girando il mondo con un dj-set a tema: il meglio dello ska americano ed europeo prodotto negli ultimi vent’anni sotto il segno lasciato dagli Slackers.

Ci son serate particolari, in cui ad affascinarti è l’ebbrezza di partecipare ad un’esperienza “diversa”. Come scorrere la lista di clubs della zona, ognuno con la sua solita proposta di house/techno più o meno commerciale e i suoi nomi più o meno noti, e poi chiudere la pagina, mormorare “no, grazie” e scegliere di assistere al dj-set di Mr. T-Bone, il più importante esponente della scena 8

ska italiana e in generale uno dei più apprezzati a livello internazionale. Potrà farlo proprio questo venerdì chi bazzica nei pressi di Imperia. Al The Dreamers la serata inizia con l’aperitivo e durerà tutta la notte, e l’ospite d’eccezione è proprio Luigi De Gaspari aka Mr. T-Bone: vent’anni di carriera alle spalle, sette album solisti all’attivo, un Best Of uscito lo


scorso Gennaio per la giapponese Ska In The World e un progetto, The Young Lions, fondato nel 2006 e già artefice di due fortunatissimi album, Heroes (2008) e Nothing To Lose (2011), entrambi arrivati ai piani altissimi delle classifiche specializzate di mezzo mondo. In passato è stato membro fisso dei Giuliano Palma & The Bluebeaters, mentre la sua presenza negli Africa Unite continua ancora oggi dopo oltre quindici anni. Da grande conoscitore della propria materia, T-Bone presenterà venerdì il dj-set col quale sta facendo il giro del mondo: una serata a tema battezzata “Slackness” e dedicata ai newyorkesi Slackers, altra band di culto della scena ska mondiale. Il dj-set si focalizzerà sui migliori episodi che lo ska americano ed europeo ha offerto negli ultimi vent’anni, sulla base dell’impronta netta che lo storico gruppo di New York ha lasciato nell’evoluzione del genere. Insomma, per dirla con le parole della dichiarazione stampa, “sarà un concentrato di ska, swing, rocksteady, funky reggae e dub”. E un’occasione unica anche per gli estranei del genere, per partecipare a un’esperienza diversa dalle solite, aggiungiamo noi. Questa l’intervista rilasciata da T-Bone in occasione dell’evento. Simpatia, giovialità e amore per la propria terra: tutte le carte sono in regola per un performer in grado di stupire e conquistare anche i più scettici. L’esperienza con gli Africa Unite e Giuliano Palma & The Bluebeaters, sullo sfondo di un’attività solista che ti ha proiettato agli apici della scena ska internazionale. Come si sono intrecciate queste esperienze? Per alcuni anni ho organizzato i miei tour fuori dall’Italia durante le pause dei tour di Africa e Bluebeaters, poi è diventato impossibile riuscire a tenere il piede in due scarpe e così nel 2008 ho lasciato i Bluebeaters per dare più spazio alle mie cose. Con gli Africa continuo a suonare, ci organizziamo con i calendari e cerchiamo di fare tutto! Com’è stato l’incontro con lo ska? È stato amore a primo ascolto. Era il 1990 e un amico mi fece ascoltare i Casino Royale. Fu subito grande amore, poi vennero gli Skatalites e da lì tutto quello che è seguito. Parlaci del tuo trasferimento da Milano, tua città natale, a Torino, dove vivi adesso. Quali sono state le ragioni? ...”Va dove ti porta il cuore”, si dice così no? È andata così. Ho trovato l’amore, poi una casa, poi un figlio. Milano è stata la mia città per 31 anni, di cose ne avrei da dire, ma in particolare ricordo con grande nostalgia i primi anni novanta: avevo vent’anni, c’era la Pantera. Chi se la ricorda? Università occupate ad oltranza, politica, musica. Scoppiò il fenomeno culturale delle

Posse, i centri sociali... tanta nostalgia, sopratutto per la mia R4! Torino è diventata invece la mia città da 8 anni, la amo molto, per la mia vita attuale la trovo perfetta, è grossa al punto giusto, c’è molta vita, musica, teatro... mi piace un sacco! In quale altre città vivi per lavoro? E di quale ti sei innamorato in tour? Sicuramente New York. L’ho amata ed odiata nel corso di questi ultimi 12 anni. Non ci ho mai vissuto in pianta stabile ma ho passato mesi ed ho imparato a capirci qualcosa. È una città intricata e per questo affascinante, che può farti volare altissimo o schiaccarti come un moscerino. Hai suonato in giro per il mondo, in tantissimi festival, e collaborando con moltissimi musicisti. Qualche aneddoto? Una volta, in tour con i Young Lions, ci ritrovammo al confine tra Serbia e Macedonia e, non avendo tutti i documenti in regola (cosa tra l’altro impossibile da fare), non ci lasciarono entrare trattandoci come i peggiori criminali... così chiamai il promoter macedone spiegandogli l’accaduto.Dieci minuti dopo, il Ministro della cultura macedone chiamò la dogana dando ordine di farci entrare immediatamente, con tanto di scuse e sorrisoni. Non male, vero? Carlo Affatigato

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Tune-In.

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Mystery Jets —Eel Pie Hillbillies—

Da Eel Pie Island a Austin ce n’è di strada. Al quarto album, i Mystery Jets centrano la (quasi) maturità mettendo d’accordo UK e USA, Ray Davies e Alta fedeltà, American Pie e le suore sugli aerei. Testo: Antonio Puglia ‘Cos I’m a Muswell Hillbilly boy / But my heart lies in old West Virginia / Never seen New Orleans, Oklahoma, Tennessee /Still I dream of the Black Hills that I ain’t never seen’. Così cantava il grande Ray Davies, anno di grazia 1971, nella title track di Muswell Hillbillies, l’album più ‘americano’ dei suoi Kinks. ‘Hillbilly di Muswell Hill’ (quartiere a nord di Londra) è un’espressione - geniale, va da sé - che misura tutta la distanza culturale e geografica tra UK e USA, giocando da un lato con il mito a stelle e strisce e dall’altro con la fiera - quanto sardonica - sudditanza a sua Maestà Elisabetta. Cosa c’entrano con tutto questo i Mystery Jets, quintetto proveniente da Eel Pie Island, Twickenham, salito alla ribalta in tempi recenti come promettente esponente di una nuova ondata di british bands? Beh, dopo aver assaggiato i frutti di un moderato successo con il terzo LP Serotonin (prodotto nientemeno che da Chris Thomas), anche loro hanno giocato a fare gli hillbilly come il venerato zio Ray e per il quarto album sono fisicamente volati fino ad Austin, Texas, per vedere un po’ l’effetto che faceva. E per poi scoprire di essere più inglesi di sempre. Da qui la scelta di intitolare il disco Radlands, calembour

nato dall’unione di Badlands (titolo originale del film del 1973 da noi conosciuto come La rabbia giovane) e Redlands, la famosa tenuta nel Sussex di Keith Richards. Stati Uniti e Inghilterra a braccetto, quindi, per quello che è sì il disco di americana dei Mystery Jets, con tutte le sue belle influenze Neil Young e CSN al posto giusto, ma al contempo non lo è. Perché la cosa più caratteristica, nell’ascoltare con attenzione queste canzoni - e i testi dei due autori e chitarristi Blaine Harrison e William Rees -, è proprio quell’innegabile englishness, quell’arguto senso di wit che non può non provenire che dal citato Davies e da un altro illustre esponente di pura razza british, Mark E. Smith, esplicitamente menzionato nella formidabile e divertentissima Greatest Hits, storia della separazione di una coppia attraverso la divisione della collezione di dischi: ‘Beh, tu puoi prenderti Lexicon Of Love, ma a me va Remain In Light’, e via di delizioso citazionismo nerd. È da trovate come queste che si capisce che una band ha personalità, e se musicalmente Radlands può ancora soffrire di un’eccessiva varietà e di alcune (perdonabili) indulgenze da fan dei Radiohead, è innegabile che la crescita c’è stata, ed è ancora in corso, con la formazio11


ne da poco cambiata - il bassista Kai Fish ha lasciato da pochissimo, lasciando spazio a due altri membri - e il quinto album già nella mente. Ma un attimo: Albione non era forse la patria delle next big things destinate a farsi macinare dal sistema dopo uno o due dischi, tipo Bloc Party e Klaxons, senza possibilità di redenzione? Già, e infatti i Mystery Jets sembravano essere partiti proprio in quel solco (Twenty One era stato prodotto da Erol Alkan). E invece, come i loro coetanei Horrors, hanno mostrato che anche per le british band è possibile crescere, maturare, sviluppare un’identità. Senza farsi risucchiare dalla macchina che tutto divora. Loro magari non lo sono ancora del tutto, maturi, come è facile evincere da questa frizzante chiacchierata via email. Ma forse questo è proprio un bene ‘ Da Eel Pie Island a Austin, Texas, ce n’è di strada. Come siete finiti a registrare in America, dopo Serotonin? È stato semplicemente il passo più naturale da fare, come band? Mi piace pensare che ogni nostro passo sia naturale ‘ quello che stavolta ci interessava non era il passo in sé, ma quanto dovesse essere lungo. Sentivamo il bisogno di allontanarci da - odio dirlo ‘ - una formula. Nell’arco di tre dischi avevamo elaborato un metodo di mettere insieme le canzoni, di comporre, che funzionava bene ‘ ma arrivati alla fine di Serotonin ci siamo resi conto di aver sfruttato quel metodo al massimo. Così abbiamo pensato: ‘andiamo il più lontano possibile da casa, e proviamo a lavorare in modo nuovo!’. Questo nuovo album, Radlands, è certamente un’opera matura ‘ siete davvero cresciuti come musicisti e autori di canzoni. Prima di andare in America, avevate già in mente come dovesse suonare il disco? In altre parole, eravate già convinti di registrare un disco di americana? Siamo partiti per l’America con qualche canzone in valigia, e mentre eravamo lì ne abbiamo registrata qualche altra ‘ ma è stato solo una volta tornati a Londra, dopo aver riascoltato tutte le canzoni (una trentina in totale), che abbiamo individuato il fil rouge che le tiene unite, la base del disco. Il titolo Radlands ci sembra davvero appropriato. La musica americana (giusto per citare: folk, country, gospel) è di certo presente ma di contro l’album ha un’innegabile ‘inglesità’. Potrebbe essere il vostro Muswell Hillbillies? Beh, è proprio così! Si tratta della nostra versione della musica americana. Musicalmente, Stati Uniti e Inghilterra si sono sempre influenzati a vicenda, piaccia o meno ‘ ! Radlands è proprio la nostra interpretazione della musica americana, il modo in cui siamo stati influenzati da essa 12

come band. Crediamo che, se ci fossimo limitati a suonare esattamente come gli americani, il disco sarebbe venuto fuori piatto, senza personalità. Sappiamo che tra le vostre frequentazioni, da ascoltatori, ci sono generi tra i più disparati, compreso il prog (!). Il disco è piuttosto vario, in effetti ‘ riuscireste a rintracciare alcune tra le possibili influenze? Neil Young, The Meters, Crosby, Stills & Nash, Eddie Bo, Cass McCombs e Exile On Main Street dei Rolling Stones! Ma mi tocca ammettere che qualunque cosa abbiamo mai ascoltato in vita nostra, ci piaccia o no, deve averci influenzato in qualche modo! Dato che avete scritto alcune canzoni lì, ci sono dei testi che sono stati influenzati direttamente dall’America? Di primo acchito diremmo: You Had Me At Hello’ Indovinato! E anche Sister Everett. ‘Sorella Everett’ è il nome di una suora della Chiesa dei Santi degli Ultimi Giorni, che si è messa a parlare con William mentre si trovava sull’aereo per il Texas. Credo di sapere cosa avesse in mente ‘ gli ha dato il suo biglietto da visita ma lui non l’ha mai chiamata. Ha pensato fosse meglio scrivere una canzone su di lei. Una cosa proprio da William. Qual è la cosa più insolita - e/o che vi ha più ispirato - capitatavi mentre eravate in Texas? Svegliarci sul divano di una confraternita femminile, con tutt’intorno ragazze in biancheria intima. Sembrava di essere sul set di American Pie. O ancora: offrire un drink al bar a un uomo che somiglia a Salvador Dalì, e vederglielo buttare via dieci secondi dopo. O ancora: portare fuori da un locale un tizio che sta per essere picchiato perché aveva detto a tutte le donne di coprirsi. Una volta fuori, ha rischiato di nuovo di farsi picchiare dagli avventori di un furgoncino che vendeva pizza per strada, perché li accusava di essere dei cattivi americani ‘ e così a un certo punto ho pensato che per salvare il culo di quello psicopatico dovevo fare qualcosa di più folle di lui, e allora gli ho versato in testa del peperoncino. Lui si è girato e mi ha abbracciato. Secondo te, quali sono le differenze principali, per stile e toni, tra Radlands e gli altri dischi dei Mystery Jets? Radlands rappresenta la nostra liberazione da uno schema fisso. Eravamo diventati troppo ‘ organizzati nel modo in cui facevamo musica. Abbiamo dovuto imporci questo cambiamento anzitutto per mantenere la nostra musica fresca, e poi per continuare a divertirci a stare nella stessa band. Ci sembra di capire che quella canzone fantastica che è Greatest Hits sia autobiografica. Consentiteci di dire che il modo in cui avete preso una cosa molto personale come separarsi dalla fidanzata, e lo avete fatto


diventare una cosa divertente, arguta e soprattutto universale, mi ha ricordato l’arte del grande - rieccolo! - Ray Davies. È stato intenzionale? Quella storia in realtà è stata ispirata dal film Alta Fedeltà. Viene da lì l’idea che ogni disco sia un ricordo che rappresenta un momento della tua storia d’amore. Credo si possa ricordare con tutti i nostri sensi: possiamo assaggiare ricordi, annusare ricordi ‘ che in questo caso mi piace chiamare smemories (calembour intraducibile da smell + memories, nda). Chi sono i songwriters che vi ispirano di più, allora? Cass McCombs, uno dei ‘nuovi’ ‘ ultimamente è una grande fonte di ispirazione. Abbiamo letto un recente articolo di NME (edizione del 14 aprile 2012) in cui musicisti più giovani come voi o gli Horrors sono stati fatti incontrare - a mo’ di allievi & maestri - con leggende come Mark E. Smith e John Lydon. Credete di far parte di una generazione (diciamo così) più robusta di musicisti inglesi, rispetto le precedenti? O - e qui c’è la vera domanda - credete che questa generazione esista? Dipende da quel che si pensa di se stessi. Non credo che nessuno dovrebbe mai sforzare di definirsi, o di avere una percezione precisa di se stessi, perché equivale a etichettarsi. E una volta che lo hai fatto, sei fottuto! Dovresti solo continuare a fare quel che fai, lasciando agli altri il piacere di metterti nella scatola che più gli piace. Perché lo faranno comunque, e tu non potrai fermarli! Il nostro naturalmente è un punto di vista esterno, essendo italiani ‘ Mettiamola così: quando i Mystery Jets hanno iniziato, la roba più rilevante proveniente dall’Inghilterra sembravano essere band come Klaxons e Bloc Party, tutta la scena nu-rave (voi avete anche fatto un disco con Erol Alkan, per dire). Ma crediamo anche che gente come voi, Horrors, Arctic Monkeys, Laura Marling e altri sono davvero cresciuti sviluppandosi come artisti autonomi, maturi e indipendenti, avulsi da qualsiasi scena. Ci sbagliamo? Perché dall’esterno, grazie ai media, la percezione è che la musica britannica non sia altro che una successione di mode e tendenze e next big things ... Di certo sapete cosa vogliamo dire. Sì, sappiamo cosa intendete. E crediamo che i Mystery Jets abbiano iniziato proprio in quel modo. Era l’unico modo che conoscevamo, d’altronde. Agli esordi organizzavamo concerti a Eel Pie Island perché sentivamo il bisogno di non associarci a nessuna scena in particolare. Mode e tendenze cambiano, quello che è cool diventa inevitabilmente mostruoso dopo appena un minuto, ed una cosa del tutto normale; le mode cambiano di continuo, soprattutto a Londra che è uno dei posti più

dinamici della Terra. Se riesci a tenere il passo va bene, ma se non riesci ‘ vieni masticato e risputato senza troppi pensieri. La cosa migliore sicuramente è restare se stessi e non associarsi a nessuna scena. Avete subito da poco alcuni cambiamenti nella formazione. Credete che questo nuovo assetto si rifletterà nel modo di lavorare della band? A parte il tour, avete già alcune idee per il prossimo disco? Sì, abbiamo già alcune ide musicali per il prossimo disco, ma non siamo ancora sicuri su come metterle in pratica. Il fatto che Kai sia andato via dalla band ci ha cambiati, come era naturale che fosse. Non troveremo mai nessuno come lui, quindi ci tocca fare le cose in modo diverso. Ci sono degli aggiustamenti da fare, da parte di tutti. Adesso abbiamo due nuovi membri che hanno aggiunto una dimenzione completamente nuova al nostro suono! È fantastico suonare con Matt Park e Peter Cochrain. Nella vita può succedere di tutto: quando ti stai annoiando perché intrappolato all’interno di una routine, ecco che il caso ti offre un’opportunità completamente diversa. Non si può mai sapere. Quindi, chissà come sarà il prossimo disco ‘ l’importante è continuare a divertirsi! Finora avete lavorato con ottimi produttori. C’è già qualcuno nella vostra lista dei desideri per il prossimo disco? Sì!!! Vogliamo lavorare ancora con Dan Carey! Ha prodotto alcuni pezzi del disco, e lavorare con lui è stato un vero piacere! Una cosa molto stimolante ‘ e lui può davvero fare tutto, riesce a soddisfare qualsiasi richiesta!

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Nobraino —Über lirismo da balera—

A pochi mesi dall’uscita del Disco D’Oro, abbiamo incontrato Lorenzo Kruger, cantante, dandy e mattatore dei romagnoli Nobraino. Testo: Giulia Antelli Approfittando della data al Karemaski di Arezzo di qualche settimana fa, abbiamo fatto due chiacchiere con Lorenzo Kruger, frontman e paroliere dei Nobraino. Reduce dall’uscita del Disco d’oro, terzo lavoro in studio dopo il sorprendente No USA! No UK!, il quintetto di Riccione è tornato in pista con un album che come il precedente racchiude tutti gli elementi che hanno reso il gruppo molto più di un semplice fenomeno live. Tra arrangiamenti folk-rock e cinismo über lirico, la band ci racconta un’altra fase del suo percorso: quella della maturità, sempre in bilico tra club e balera, ironia e compostezza. L’impressione è che nel Disco d’oro si utilizzi un linguaggio diverso rispetto a quello degli altri album: sembra quasi che vi sia una volontà maggiore di raccontare storie, di voler usare ulteriormente il potenziale narrativo della quotidianità. Secondo me non tanto. In questo senso mi sembra che il Disco d’oro non si discosti molto dagli album precedenti, soprattutto da No USA! No UK!. È in scia, ogni brano di adesso ha un corrispettivo nei dischi passati e l’evoluzione che c’è tra uno e l’altro è di tipo umano, soprattutto. Poi il Disco d’oro suona meglio e quindi questo ne fa apprezzare maggiormente alcuni aspetti, come la voce che esce in un certo modo e perciò riesce a dare anche più importanza a quello che si dice. Per quanto riguarda

i testi invece, quello che scrivo è necessariamente preso dal quotidiano ed è inevitabile essere autobiografici e attingere dalle proprie esperienze personali. Si tratta di un meccanismo necessario. Io posso cercare di immedesimarmi in qualcun altro ma sempre mantenendo il mio punto di vista. Il resto è leggere i giornali, guardare la tv e ascoltare le persone che parlano e si raccontano. Un aspetto che ha sempre contraddistinto le vostre canzoni è l’uso dell’ironia, tipicamente pungente e altrettanto cinica, a volte quasi nera. Com’è stata usata questa volta? Beh, è chiaro che quando sei più giovane fai anche prima ad essere distruttivo e cinico. Crescendo, tendi ad ammorbidirti o per lo meno a cercare di giustificare questi motti di cinismo, quando ci sono. Però in generale, i Nobraino non sono programmatici, non sono un progetto, quindi non ci siamo mai proposti di fare canzoni di un certo tipo o di un altro: abbiamo iniziato a suonare da piccoli, per così dire, e la nostra unica preoccupazione era appunto quella di suonare. Poi, piano piano, a livello di scrittura - ma anche di arrangiamenti - abbiamo acquisito una forma, forse anche più di una, ma in sostanza facciamo quello che abbiamo voglia di fare sul momento. I Nobraino comunque, come compagnia, sono abbastanza dissacranti e anche autoironici, dato 15


che ci prendiamo per il culo in continuazione. Per questo motivo, tenendo presente che devo scrivere non solo per me ma anche il resto del gruppo, cerco sempre di tenere viva questa parte dell’ironia e del divertimento. Quindi sì, scrivendo per gli altri probabilmente tengo conto del lato ironico di tutta la faccenda e magari è proprio così che vengono fuori delle gag letterarie. Forse, se dovessi scrivere solo per me stesso o accompagnato da un musicista seriosissimo, mi lascerei andare di meno. È chiaro che la band mi influenza molto, a livello di scrittura, ma lo fanno anche le aspettative che il pubblico può avere verso i Nobraino. Nel comunicato stampa si legge che per voi il Disco d’oro è il primo album davvero nato in studio, mentre gli altri si sono sviluppati in maniera maggiore successivamente alla registrazione, soprattutto in sede di live. Come spieghi questa differenza? Diciamo che abbiamo voluto prestare più attenzione alla produzione dell’album. Prima, venivamo da esperienze più ‘mordi e fuggi’, nel senso che si faceva una pausa dal tour, in un mese si registrava tutto e poi si ripartiva. Questa volta invece ci siamo preoccupati maggiormente che l’album suonasse bene e che non finisse per essere solo un souvenir del concerto, anche se questa è una cosa che succede inevitabilmente. Poi molti di quelli che hanno ascoltato i vecchi dischi senza averci mai visto dal vivo devono aver pensato che fossero una schifezza, mentre la gente a cui è piaciuto prima il live in qualche modo è stata attirata anche dagli album. Ecco perché il Disco d’oro teoricamente dovrebbe essere ascoltabile anche da chi non hai mai masticato i Nobraino. Stavolta ci siamo presi sul serio, cosa che non facciamo spesso, a dire il vero. Infatti anche i testi appaiono più maturi’ Anche la scelta dei testi è legata a quel processo di crescita di cui ti parlavo prima. Avevamo circa quaranta pezzi tra cui scegliere e alla fine abbiamo optato per quei brani dove non si sconfina mai nel demenziale o nel troppo provinciale, quindi brani che comunque mantengono una certa dignità, soprattutto nella forma. Non che gli altri non ce l’abbiano, però in passato abbiamo giocato molto con le canzoni, col divertissement, e sono tutte cose che messe in un album possono limitarne il respiro. Da questo punto di vista invece, i nuovi pezzi funzionano tutti, nel senso che reggono ad un impatto più ampio. Per quanto riguarda la resa live invece è cambiato qualcosa? Mi riferisco a quelle trovate da palco che da sempre caratterizzano i vostri show’ A dire la verità non ce ne curiamo affatto. Vogliamo continuare a fare concerti nella stessa maniera in cui li 16

facevamo prima. I giochi e le gag sul palco sono sempre spontanei e non c’è mai nulla di premeditato. Si va avanti così, per emozione, senza pensarci troppo, anche perché nei nostri live è sempre il pubblico che comanda. È chiaro che si cerca sempre uno scambio, una reciprocità nella provocazione. Noi proviamo sempre a scuotere chi abbiamo davanti, però è la gente che viene a sentirti che ti da l’energia e lo sballo per farlo. È anche vero che gli eccessi di amore ti fanno fare delle cose di cui ti penti la mattina dopo, ma Nobraino vuol dire anche questo. Noi scherziamo spesso sul fatto che Nobraino vuol dire stupido, e questi sono davvero momenti di istupidimento inteso sempre come stupore. Noi siamo i primi a rimanere stupiti da quello succede sopra e sotto il palco. Ma sono comunque dei bei momenti. Cambiando discorso, il titolo del disco come lo avete scelto? Sembra un altro dei vostri sberleffi al mercato musicale, un’idea che avevate già avuto intitolando il vostro esordio The Best Of. È un titolo cromatico e all’inizio lo avevamo scelto con la volontà di seguire altri dischi dello stesso tipo, come per esempio il White Album dei Beatles o il Brown dei Primus. Poi ci è piaciuta molto anche la gag del disco d’oro, anche se non è direttamente legata alla certificazione discografica: semplicemente, ci siamo domandati quale fosse il colore di questo album e quando qualcuno ha detto oro, c’è stata una risata generale e subito dopo ci siamo accorti che era il titolo giusto. La provocazione c’è sempre, ma diciamo che stavolta è partita da una domanda seria. Visto e considerato che la provocazione è uno dei vostri marchi di fabbrica, come reagite di fronte alle critiche? Le affrontate alla solita maniera scanzonata che presentate sul palco oppure le prendete sul serio? Di solito mi danno fastidio, ma reagisco bene, diciamo che abbozzo. Dico sempre che non dovrei leggere le recensioni, però alla fine lo faccio anche se è un meccanismo sbagliato, perché fa male alla nostra indipendenza: non vogliamo stare troppo all’erta sui commenti degli altri su quello che facciamo, perché una volta che abbiamo capito che la direzione è buona dovremmo solo essere abbastanza incoscienti per andare avanti. Facendo così, invece, rischi di voler assecondare qualcuno. Secondo me è nocivo anche Facebook, per lo meno quando lo si usa per cercare ossessivamente l’approvazione degli altri. Tra l’altro, Facebook non rappresenta nemmeno la totalità degli ascoltatori, per cui finisci per dar credito a qualcosa di molto parziale. C’è una canzone del nuovo album a cui siete - o sei particolarmente legati?


Direi Film muto. È un brano che mi ha dato soddisfazione perché si tratta di un esperimento: volevo scrivere un testo d’amore da parte di una donna, moglie o compagna per il suo uomo. Poi però mi sono accorto che, in qualunque caso, si trattava di una cosa asessuata, nel senso che non conta l’opposizione maschile / femminile ma la coppia come nucleo dal quale si può poi costruire qualcosa. Rimanendo in tema: il ruolo del maschio duro e puro protagonista di molti vostri brani - penso a Bifolco, Strano E Inaffidabile, Cecilia, ma potrei continuare - è cambiato nel nuovo album? Qual è stata la sua evoluzione? Più che di evoluzione, io parlerei di maturazione, che poi è quella che sto cercando di raggiungere io stesso. A me piacerebbe vedere uomini più coscienti di quello che significa essere uomini, anche per quel che riguarda gli impegni che uno ha nei confronti della propria donna. Nelle canzoni il machismo di fondo è rimasto, ma noi siamo attirati da un uomo forte che allo stesso tempo sia in grado di amare teneramente, dato che si tratta di una componente fondamentale per essere completi. La difficoltà maggiore sta appunto nella compiutezza, cioè nel fatto che questo grande uomo sia capace oltre che di mostrare i muscoli anche di piegarsi per sostenere la sua compagna. Poi a me questi tempi non fanno venir voglia di vedere in giro altri farfalloni, mi sembra che l’attualità ce ne offra già di per sé abbastanza. Quindi sì, penso ad un altro modello, ad un altro uomo, che però

mi pare che manchi nel panorama di adesso. Premettendo che io non credo alla musica come veicolo della politica, ritengo che ci siano comunque questioni che debbano essere necessariamente affrontate, e il rapporto tra uomo e donna è una di queste, visto che tutto si basa su questo equilibrio. Ecco perché, ragionando su queste cose, è ovvio che nascano valutazioni del genere. Film muto parte proprio da questa considerazione, ma è un filo che puoi ritrovare in tutto l’album: Bademeister, per esempio, presenta il punto di vista opposto e questo dipende dal fatto che i Nobraino, nella loro non-serietà, tendono a voler dare sempre uno schiaffo e una carezza, una risata e una lacrima. Cerchiamo di stare in equilibrio tra questi due aspetti, ed è questo che ci fa capire quando lo spettacolo è ben riuscito. Su Bademeister l’uso del tedesco è stata una scelta consapevole o si è trattato più di una necessità dovuta al taglio del pezzo? A dire il vero si è trattato più di una necessità perché il brano è nato proprio dal ritornello, che io ho conservato per anni senza però riuscire a trovarne la giusta collocazione, dato che mi mancava la strofa. Lo scorso anno, per il Fantomatico tour dei teatri che abbiamo fatto per presentare degli inediti, sono andato a ripescare un po’ dei miei appunti per cercare di scrivere nuovi brani ed è così che ho ritrovato la prima bozza del testo. Poi, in allegato a questo ritornello è uscito fuori il personaggio del bagnino farfallone e tutta la questione che ne segue.

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Friends —Boner inducing basslines— Chiacchierata amichevole con Matthew Molnar e Lesley Hann dei Friends. I primi demo, la scena di Bushwick, le linee di basso e l’infortunio di Samantha causato da Grimes... Testo: Massimo Rancati, Riccardo Zagaglia

Lo scorso 19 maggio i Friends hanno fatto il loro debutto in territorio italiano in quel di Milano. Di loro si è parlato molto negli ultimi mesi, ma rimangono - per il momento - ancora una band per pochi appassionati. La band, che tra qualche giorno pubblicherà l’album d’esordio Manifest!, arriva al Circolo Magnolia sfinita con la leader Samantha Urbani vistosamente infortunata ad un piede (canterà comunque impeccabilmente, alternandosi tra una stampella e uno sgabello portato sul palco appositamente per lei). Qualche ora prima del concerto - dove hanno dimostrato di tenere il palco veramente bene - al tavolo con noi si siedono Matthew Molnar e Lesley Hann, due personaggi piuttosto appariscenti: lui che sembra essere uscito da qualche telefilm anni ‘70 a metà strada tra il malavitoso di quartiere e il pizzaiolo italiano e lei che ha l’aria glaciale e supponente di chi se lo può permettere. Le apparenze ingannano, infatti i due Friends si dimostrano da subito molto cordiali e ben disposti, soprattutto Matthew si rivela essere un vero fiume in piena - la discussione continuerà poi dopo il live - nel suo raccontare i retroscena più reconditi della band. Noi ne abbiamo approfittato, cercando di entrare il più possibile all’interno del variopinto mondo dei Friends. Come siete finiti a suonare insieme? - Matthew Molnar: Samantha ha iniziato realizzando alcu-

ni demo. Non aveva mai realmente scritto canzoni e mai fatto parte di una band. Ha sempre lavorato sullo scrivere brani, ma non li condivideva con nessuno. E’ sempre stata amica di ragazzi che suonavano, è sempre andata a tantissimi concerti ed è sempre stata parte della scena musicale dalla quale proveniva ma, come già detto, era molto riservata a riguardo. Poi, una volta sentitasi sicura delle sue canzoni, ha pure iniziato a volerle condividere, in quanto ha comunque sempre pensato di formare una band. E’ cominciato tutto più o meno così: ho ascoltato i suoi demo e Nikki (Shapiro), che era nel gruppo, ha fatto lo stesso. Eravamo entrambi molto eccitati delle sue registrazioni, così noi tre abbiamo iniziato a lavorare insieme. A questo punto, a Samantha sarebbe piaciuto espandere la band con Lesley, che all’epoca era una ragazzina...Lesley Hann: sono ancora una ragazzina!- MM: Intendo ragazzina di 17 anni. Lesley e il suo bandmate Oliver (Duncan) avevano bisogno di un posto dove stare visto che il loro appartamento era infestato da cimici dei letti, all’epoca una vera epidemia a New York. Lasciarono perciò l’appartamento ed andarono a stare da Samantha. Avevamo in programma alcuni show con il gruppo e avevamo bisogno di persone con le quali jammare. Così il giorno dopo abbiamo iniziato a jammare insieme, il giorno dopo ancora l’abbiam fatto nuovamente e da allora non abbiamo più smesso. 19


Cosa facevate prima dei Friends? MM: Io suonavo in un altro gruppo ed ho incontrato Samantha proprio grazie al suo ragazzo dell’epoca che era nella mia stessa band. Ho anche lavorato in un ristorante, lo stesso Nikki lavorava lì e vi ho procurato pure a Samantha un lavoro per un certo periodo. Poi quando si sono formati i Friends ho smesso di fare qualsiasi altra attività. Sembra quasi che quasi tutti a Bushwick facciano principalmente musica. MM: Sì, in quel quartiere c’è una scena molto vivace: ci sono più band di quanto tu possa contarne. Molte persone organizzano show nei propri appartamenti, in magazzini o in spazi abbandonati. Un paio di questi in particolare vanno molto forte a Bushwick, sono come luoghi di ritrovo underground e indipendenti completamente operativi. Certo sono illegali, ma legittimati nel senso che ospitano concerti regolarmente. Perpetual Crush era il nome originale del progetto. Quali sono stati i passaggi che hanno portato alla decisione finale sul nome della band? MM: Non tutti erano felici con Perpetual Crush. Samantha aveva una canzone intitolata ‘Perpetual Crush’, aveva scritto parte del testo ma non era realmente qualcosa di concreto. Stavamo cercando di dare un nome alla band ed è davvero difficile dare un nome ad una band. Perpetual Crush sembrò cool perchè era il tipo di nome che potevi trovare su Vogue nel 1991 e si adattava allo stile di alcune canzoni r&b che stavamo scrivendo. Ma questo fu anche uno dei motivi per cui non ci piaceva, suonava pure come qualcosa che ci avrebbe potuto relegare ad un solo, determinato angolo musicale. Poi credo che Lesley abbia proposto il nome Friends durante le prove... LH: Non so, potrei averlo detto io per prima. Penso comunque che Friends sia un nome migliore, perchè ci lascia spazio per definire quello che siamo semplicemente suonando e realizzando video musicali. MM: Lo penso anch’io. Penso che quando hai un nome che fornisce indicazioni su quello che suoni, troverai sempre qualcuno che dirà ‘questa band non fa per me’ a priori. Anche Il titolo della canzone ‘Friend Crush’ è coinvolto nella vostra ‘ridenominazione’? LH: La canzone è nata prima del nome Friends e prima del nome Perpetual Crush. Ma il fatto che ci chiamiamo Friends non è assolutamente collegato al titolo della canzone, è solo una coincidenza. MM: Le nostre prime due canzoni furono effettivamente ‘Friend Crush’ e un’altra, che non è presente nell’album ma che potrebbe tornare all’interno delle scalette dei concerti, che si chiama ‘Perfect Friends’. LH: Ed abbiamo anche una canzone intitolata ‘Perpetual Crush’! 20

MM: Sì, abbiamo un sacco di canzoni. (ridono) Il vostro album, Manifest!, sembra esser stato influenzato dalla scena post-disco newyorkese di fine anni’70, dalla black music e persino dalla no-wave (mi riferisco al brano Ruins). Questo è puramente casuale o certi suoni fanno realmente parte dei vostri ascolti abituali? MM: Sono assolutamente parte dei nostri ascolti. Non è avvenuto di proposito, ma è successo in modo naturale in quanto è tutta musica che ci piace. Per quanto tutti amiamo gruppi post-punk, penso che sia stato meno un discorso del tipo ‘iniziamo facendo canzoni post-punk’ e più un ‘we love disco, we love punk!”. Ci piace la musica funk e una vasta gamma di altre sonorità “weird”. Tutti questi aspetti sono influenze. La copertina dell’album è uno stereograph. Abbiamo provato ad incrociare gli occhi per unire le immagini ed entrare in un mondo 3D ma non ci siamo riusciti. Potete insegnarci? LH: Certo che posso insegnarvelo! Non è facile ed è sicuramente qualcosa che necessita di allenamento, ma dopo che hai imparato viene poi spontaneo farlo ogni volta. (Prende il suo accendino.) Se guardi questo accedino ed incroci gli occhi, vedrai due accendini. Quindi, siccome la copertina ha già due immagini, incroci gli occhi e le immagini diventano quattro. Una volta arrivati a questo punto, quello che devi fare è avere il controllo su quanto gli occhi sono incrociati, fare in modo che le due immagini centrali si sovrappongano e in modo che le immagini diventino tre. Così facendo, quella centrale con le due immagini sovrapposte, diventa 3D. Penso che la miglior maniera per farlo sia assicurarsi che tutto sia perfettamente allineato, che siano esattamente tre immagini e successivamente isolare un particolare come ad esempio il viso di qualcuno e focalizzarsi su di esso, che a questo punto si eleva dal resto. (a Lesley) Questa è stata quindi una tua idea? LH: E’ stata un’idea di Samantha. Non so da dove le sia venuta, ma penso che sia cool in quanto il titolo dell’album, Manifest!, significa più cose e una di esse può essere che appunto sei tu, attraverso lo stereograph, a dover manifestare la cover. MM: Sì, non potevamo permetterci una vera e propria copertina 3D, per cui... (ridono) Partendo dal Primavera Sound di Barcellona, suonerete in alcuni grandi festival durante la prossima estate. Avete già preso parte a festival così grandi? Come pensate di convertire uno show molto fisico e per certi versi più adatto alla dimensione club in un contesto così ampio? Voglio dire, siete pronti per avere qualcosa come 10.000 esseri umani che ballano di fronte a voi?


LH: Non abbiamo mai suonato in festival così grandi, ma abbiamo suonato davanti a circa 3.000 persone in Messico, un paio di settimane prima del SXSW. Penso che l’attitudine dei festival sia un party, sono party giganteschi che continuano per giorni. Noi andiamo bene nei club, ma ci considero pure una specie di party band. Ci piace essere un tutt’uno con il pubblico e ci piace che il pubblico si gasi. E la gente è già gasata per il solo fatto di essere ad un festival. Penso quindi che su di noi funzionerà bene, perchè tante persone insieme creano un’energia che, come ho detto, è un party. E noi apparteniamo ai party! MM: Ci focalizzeremo probabilmente sui brani maggiormente ritmati che abbiamo, ma restando semplicemente noi stessi. Tra il pubblico dei festival c’è chi non va a vedere tanti concerti durante l’anno e che invece va ai grandi festival per vedere lì tutte le band che gli interessano in un colpo solo: voglio che ci vedano come siamo, noi cinque a suonare strumenti scrausi, facendo la nostra cosa come la facciamo di solito. Magari l’anno prossimo avremo un turnista extra ai bonghi, due coriste... LH: Un paio di ballerine... MM: Sì, ballerine, light-shows e un glitter cannonball... non è una battuta, sono tutte cose a cui abbiamo realmente pensato! Ma voglio il tutto si costruisca con calma. Sul palco capita spesso che vi scambiate gli strumenti l’uno con l’altro (per esempio Lesley non suona sempre il basso). Questo accadeva anche in fase di registrazione in studio? LH: Assolutamente. Tutto quello che suoniamo sul palco è quello che abbiamo suonato in studio. Ma in particolare, chi è la mente dietro alle vostre linee di basso ‘killer’? LH: Dipende. Per esempio in ‘I’m His Girl’ suono io il basso, ma la linea è stata scritta da Nikki. Ad ogni modo, il più delle volte chi suona il basso in una canzone è anche la persona che ha scritto la bassline. A noi piace chiamarle ‘boner inducing basslines’. MM: Le nostre bassline sono da erezione? FUCK YEAH! C’è qualcuno con cui vorreste collaborare? MM: Sono sicuro per Samantha: Ariel Pink sarebbe probabilmente alto in graduatoria. Per quanto mi riguarda non so, non vado matto per le collaborazioni, mi piace essere in una band e mi piace collaborare con questi ragazzi. Suona stupido, ma suppongo sia perchè credo questo boom di collaborazioni iniziato negli anni ‘90 nell’hiphop o in altri generi di successo per cui tutto era un feat. con guest vocalists, fosse più che altro una gran mossa di marketing. Quindi, a meno che non sia una cosa che vien da sè, mi sentirò sempre scettico riguardo il concetto di collaborazione. LH: A meno di non essere già loro amici. E noi siamo amici

di molte persone che fanno musica, perciò una collaborazione potrebbe di certo accadere “naturalmente”. Noi, pensando a Samantha, avremmo proposto Grimes. LH: Oh, sono amiche, si parlando e twittano l’un l’altra tutto il tempo, l’altra sera sono uscite a Parigi e cose così... perciò potrebbe facilmente succedere prima o poi. MM: Piacerebbe molto anche a me: il suo è al momento il mio disco dell’anno. Quindi è Grimes la causa di quello che è successo al piede di Samantha? LH: Sì: oltremodo ubriache, il nightclub di David Lynch e questo è quel che succede. E’ stata una notte assurda per tutti. (ridono) Ultima domanda, che è una domanda un po’ bastarda ma dobbiamo farla: poche ore dopo il lancio del video di ‘Mind Control’, Samantha ha scritto su Facebook che ‘non era felice dell’ultimo video dei Friends’. Potreste dirci qualcosa di più a riguardo? LH: Non voglio parlare per lei, ma penso che ci sia un po’ di disappunto da parte nostra in quanto abbiamo realizzato i primi due video con tanto impulso creativo e nostro vero, attivo coinvolgimento. Samantha ha co-diretto il video di ‘I’m His Girl’, partecipando all’intero processo di editing e facendo tutti i casting. Eravamo tra amici, l’abbiamo girato dove viviamo, non solo per le vie ma proprio nei nostri vecchi appartamenti. Penso che quello che è successo sia dovuto al fatto che ci abbiamo messo forse troppo tempo a terminare l’album, la cover e l’intero artwork. E alla fine questo ha finito per ritardare molte altre cose, eravamo sotto pressione perchè l’etichetta voleva che facessimo un video e contemporaneamente che fossimo in tour tutto il tempo. Perciò non abbiamo proprio avuto il tempo di curare la realizzazione di questo video e penso che sia molto importante per tutti noi e molto importante per Samantha sapere che ogni cosa che ci rappresenta ci rappresenti sul serio. È dura quando guardi qualcosa che ti deve rappresentare fatta da qualcun altro e sai che, buona o meno che sia, non l’avresti fatta in quel modo. MM: Vorrei aggiungere a questo anche l’aspetto finanziario. Voglio dire, questo video è ovviamente costato di più, i video non pagano per loro stessi e penso che per tutti noi non sia piacevole la sensazione dovuta all’aver investito economicamente tanto di nostro per il video per poi constatarlo diverso da quello che ci saremmo aspettati. A livello visivo ci piacciono molto di più le riprese grezze, ci piacerebbe fare tutti i video con videocamere VHS o in Super8. Ad ogni modo ero felice di provare qualcosa di diverso e vedere quello che sarebbe successo, ma questo è quanto. È semplicemente una visione artistica, cosa puoi dire? Faremo milioni di altri video. 21


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Il Pan del Diavolo —Ogni tanto, suonare la chitarra— A poche ore dall’inizio della prima data del tour del loro nuovo album Piombo polvere e carbone, abbiamo incontrato Alessandro Alosi, voce e chitarra del duo folk-blues folk Il Pan del Diavolo. Testo: Giulia Antelli In occasione della data zero del loro nuovo tour, lo scorso 6 aprile abbiamo incontrato al Karemaski di Arezzo Il Pan del Diavolo. Il duo formato da Alessandro Alosi e Gianluca Bartolo, ormai di casa al locale aretino, è tornato con l’atteso sophomore Piombo polvere e carbone, pubblicato tramite La Tempesta Dischi di Enrico Molteni dei Tre Allegri Ragazzi Morti. Sono passati due anni dal debut Sono all’osso, un album che fu molto più di una semplice sorpresa, grazie al suo sapientissimo mix di chitarre, grancassa e sonaglio uniti ad un gusto genuino per l’ironia e lo sberleffo. Oggi, invece, la rilassata chiacchierata con Alessandro, l’altra metà delle chitarre e voce del gruppo, si rivela una buona occasione per parlarci del nuovo lavoro e di molto altro ancora. Lo abbiamo incontrato prima del concerto. Cominciamo dal titolo di questo nuovo disco: Piombo polvere e carbone. Mi è sembrato suggerire paesaggi un po’ distanti da Sono all’osso, e con questo mi riferisco a degli immaginari che sembrano partire da un orizzonte musicale quasi desertico per arrivare fino a una sorta di mitologia western. Allora, il titolo è innanzitutto un hocus pocus, un unodue-tre per far partire il disco. È una formula che non vuole essere il contenitore del significato dell’album, di tutto quello che ci sta dentro, perché altrimenti ci saremmo orientati verso altre soluzioni. C’era qualche altra figura che avrebbe potuto fungere da racconto per il

disco, ma in realtà questo è solo l’incipit, oltre ad essere anche la title-track. Per quanto riguarda gli orizzonti musicali, invece, in Piombo polvere e carbone sono completamente diversi da Sono all’osso, perché se giusto in uno o due brani sono venute fuori delle cose simili al disco precedente per attitudine e piglio, il resto dell’album è stato pensato per avere un respiro molto più ampio, aperto a trecentosessanta gradi. È anche vero che nonostante Sono all’osso fosse stato registrato in duo, in realtà tutte le atmosfere erano state comunque allargate da altri strumenti. Invece, per Piombo polvere e carbone abbiamo voluto aggiungere due nuovi musicisti, Antonio Gramentieri alla chitarra e Diego Sapignoli alla batteria. Loro già suonano con Hugo Race, Dan Stuart & The Slummers e Sacri Cuori e secondo me hanno un suono che in Italia è difficile da trovare, non tanto perché non ci siano musicisti bravi ma perché il loro sound si allontana da quello del solito ambiente indie. Entrambi fanno parte di un circuito diverso ed è per questo motivo che ci siamo agganciati a loro. A proposito di allargamento dell’organico’ l’essere passati da due a quattro elementi, ha influito in sede di scrittura e di registrazione dell’album? In sede di scrittura embrionale no, perché sono solo io l’autore delle canzoni e il pezzo, nella sua fase primitiva, deve funzionare quasi a prescindere dall’arrangiamento. Poi, in fase di registrazione, negli arrangiamenti abbiamo 23


cambiato un sacco di cose. Volevamo spingere il suono laddove non era mai stato attraverso elementi nuovi. Ora, per esempio, abbiamo una batteria percussiva con bongos e percussioni effettate da Diego stesso, oltre a una chitarra baritona che è molto diversa dal basso. Infatti raggiunge delle frequenze a cui io e Gianluca, con le chitarre acustiche, non arriviamo. Sembra che il sound di Piombo polvere e carbone sia davvero più allargato rispetto a Sono all’osso e lo stesso vale per le atmosfere del disco. In sostanza, pare che siano cambiati proprio i riferimenti spazio-temporali, e, personalmente, ho trovato una matrice folk di più largo respiro: un suono americano, unito a un certo gusto per la nostra lunga tradizione di colonne sonore, soprattutto Morricone. E si sente anche una maggior cura in fase di produzione del disco, affidata anche stavolta a JD Foster. Secondo me gli arrangiamenti in stile Morricone sono scritti nel dna della musica italiana e quindi non si tratta di un riferimento che noi andiamo a cercare coscientemente, anche se in qualche modo è presente. Poi ci sono Diego e Antonio che comunque ricalcano queste atmosfere alla Los Lobos, alla Calexico, e lo stesso vale per la presenza di JD Foster. Noi diamo sempre moltissimo spazio all’arrangiamento ed è per questo forse che gli orizzonti risultano davvero più allargati. Inoltre, è ovvio che abbiamo anche ricevuto degli input da parte di queste persone, loro respirano la musica in maniera diversa, americana. Ti sembrerà una sciocchezza, ma il fatto che JD sia cresciuto negli anni ‘60 a Los Angeles e abbia quindi vissuto davvero il rock and roll, gli ha dato una visione molto ampia della musica in generale. Antonio e Diego, poi, non fanno altro che fare avanti e indietro dagli Stati Uniti e avendo riversato le loro energie nel progetto, poi tutto si è ampliato. Naturalmente, quando immagini di fare un disco, hai già in mente un certo standard di produzione. Inoltre Gianluca ha lavorato in studio di registrazione e io stesso sono appassionato di tecniche di produzione, perciò anche in fase di missaggio la nostra intenzione è sempre stata quella di lavorare al meglio. Farlo soprattutto senza mai over-produrre, senza fare troppo, cercando di dare comunque la giusta dimensione all’album. In questo senso, immagino che rispetto agli esordi siano cambiati anche i tempi di lavorazione. In effetti, per Piombo polvere e carbone ci siamo presi davvero il nostro tempo, abbiamo cominciato a lavorarci su lo scorso settembre. Questi mesi ci sono serviti per finire di scrivere l’album, oltre che per registrarlo, mixarlo e farlo venire come avevamo in testa noi. Diciamo che abbiamo cercato di mantenere un equilibrio tra lo sta24

re chiusi in studio e la volontà di realizzare qualcosa di concreto, anche se abbiamo cercato di preoccuparci il meno possibile di piacere a Radio Capital o a Universal. Insomma, ci interessava che il disco andasse bene a noi, ma anche al pubblico! (ride) Una cosa che diverse recensioni hanno sottolineato è questa sorta di aspettativa da secondo disco che si è creata in seguito al grande successo di Sono all’osso. È un aspetto che avete considerato al momento di entrare in studio? Se penso alla parola ‘successo’ per Sono all’osso, sinceramente mi viene da ridere’ Scherzi a parte, io penso che quello sia stato un buon disco. Ci ha permesso di poter fare moltissimi live a cui è venuta un sacco di gente e, soprattutto, si è diffuso da solo, nel senso che si è mosso con le proprie gambe. Al momento di entrare in studio quello che abbiamo sentito è stata l’esigenza di cercare di fare un disco migliore del primo, o quanto meno dignitoso (ride). Però Piombo polvere e carbone è un mondo diverso, ma, come ti dicevo prima, non ci preoccupiamo troppo di cosa sia davvero. Sicuramente per voi rifare lo stesso disco sarebbe stato più semplice, o comunque anche cercare di riscrivere un’altra Pertanto’ La differenziazione tra il primo e il secondo album è stata naturale e consapevole, perché provavamo in quattro e sapevamo di essere li per fare qualcosa di diverso rispetto a prima. Ma oltre alle dinamiche che si sono create in seguito all’allargamento dell’organico, abbiamo pensato soprattutto all’archivio di suoni che avremmo potuto usare dal vivo, e quindi, anche se con Piombo polvere e carbone il cambio di direzione effettivamente si è verificato, non è stato così radicale rispetto a Sono all’osso. Si tratta però sempre di un mondo a parte, basta guardare lo scimmione che campeggia in copertina’ (ride) L’artwork di copertina dell’album è stato realizzato da Andrea Sartori di Blitz Studio, che aveva curato anche i manifesti degli scorsi tour. Nonostante sia solo un disegno, per così dire, ci abbiamo lavorato dalla primavera scorsa. Andrea ha cominciato a leggere i testi, a sentire i provini, immaginandosi da subito cosa sarebbe potuto essere dentro al disco, perciò a lui è stata affidata l’emotività dell’album. All’inizio era solo una scimmietta, che poi si è ingrandita fino a diventare un totem, e questo è un particolare abbastanza significativo’ (ride ancora). Uno dei pezzi più interessanti del disco è sicuramente Dolce far niente, forse per la sua vena un po’ polemica che mi sembra riprendere il sarcasmo di Università. C’è un filo che collega i due brani oppure non hanno nulla a che fare l’uno con l’altro? Dolce far niente è uno dei testi più semplici dell’album,


infatti c’è chi dice che l’abbia scritto solo per puro cazzeggio (ride). Però mi fa piacere che tu gli abbia dato questa lettura polemica, perché la vita del musicista non è assolutamente quella del dolce far niente. Allo stesso tempo, questo brano vuole mostrare quanto ci prendiamo sul serio come musicisti e quanto invece non crediamo di essere artisti, perché per noi le due cose sono nettamente separate. Per quanto riguarda la ripresa con Università, invece, Dolce far niente non è stata pensata come il continuo di quel brano, anche se, ora che mi ci fai pensare, effettivamente la sensazione è che sia per la musica che per l’università a noi giovani non rimanga un cazzo da fare. In ogni caso, le cose prendono forma da sole e io posso scegliere questa canzone per certi motivi e tu per altri, ed è giusto che possano esserci varie interpretazioni che vanno al di là delle nostre personali intenzioni. Poi c’è da dire anche che tutto quello che fa parte del voler fare un disco - dalla registrazione, al tour fino alla promozione e addirittura le locandine - richiede un grandissimo impegno, è una super lotta (ride ancora). Non è facilissimo mettere su un’impresa del genere. Quella di stasera è la prima data del vostro nuovo tour. Cosa avete in mente di fare? Dobbiamo aspettarci delle sorprese?

Appena sentirai suonare Diego e Antonio con noi ti verranno i brividi, perché loro hanno un’idea di suono davvero unica. Quello che voglio fare io è prendere il microfono e semplicemente divertirmi e dimenticarmi di tutte queste settimane di lavoro. Voglio solo suonare, perché è quello di cui ho necessariamente bisogno dopo la lunga pausa che ci siamo presi per Piombo polvere e carbone. Comunque, suonare con degli elementi in più rispetto a me e Gianluca è un’esperienza che avevamo già fatto lo scorso anno con i Criminal Jokers, con cui avevamo cercato di costruire degli arrangiamenti più rock in sede di live, mentre adesso l’essere in quattro ha comunque influito anche durante la registrazione dell’album. Quando eravamo solo in due, se io non toccavo anche per un solo momento la chitarra, c’era il vuoto assoluto; ora invece posso anche lasciarla a terra (ride). Dal vivo, vogliamo riprodurre tutti i nuovi dettagli del disco e a livello sonoro, mi affido totalmente a Gianluca. E’ lui che gestisce tutta la parte della melodia e dell’audio. Io invece voglio sudare sulle canzoni, cercare di renderle il più possibile mie, e spero che in generale la performance de Il pan del Diavolo sia buona.

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Death Disco(g)

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P rologo : G od S ave J ohnny

Testo: Gabriele Marino

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Esce il nuovo album dopo vent’anni e noi ripercorriamo tutta d’un fiato la discografia della creatura di John Lydon: uno dei più grandi monumenti del post-punk e non solo...

Esattamente 35 anni fa, il 27 maggio del 1977, usciva il singolo God Save the Queen, una delle canzoni più importanti della storia della musica pop. Il cantante Johnny Rotten vi declamava le due parole riassunto della blank generation: NO FUTURE. Nel 1996, quello stesso cantante, da tempo ormai tornato a farsi chiamare John Lydon, rimetteva in piedi assieme ai vecchi compagni Steve Jones, Paul Cook e Glen Matlock - alla voce: sopravvissuti - il baraccone Sex Pistols, per un tour mondiale infinito, all’insegna della coazione a ripetere, sfacciatamente intitolato Filthy Lucre Tour. Nel 2004, con già alle spalle alcune esperienze in radio e TV inglesi e americane (e altre ancora di là da venire), Lydon partecipava alla versione UK de L’isola dei Famosi, ‘I’m a Celebrity, Get Me Out of Here!’, bilanciando momenti di ridicolo e di sublime e indulgendo in un turpiloquio che neanche nei film di Tarantino, prendendosela particolarmente con gli spettatori dell’emittente televisiva, definiti in diretta ‘fucking cunts’. A fine 2008 comparivano sugli schermi delle TV britanniche due spot del burro Country Life con protagonista proprio un bravissimo John Lydon (‘I’m fat, I’m 50 and I’m back’): non gliene importa 27


un fico secco se quel burro è un distillato insuperabile di britishness, lui se lo mangia solo perché è quello che ha il sapore più buono di tutti. Con i soldi guadagnati Lydon finanzierà la reunion dei PiL del 2009. Una volta da qualche parte abbiamo letto che il punk sarebbe durato poco più di mezz’ora: il tempo di Never Mind the Bollocks in pratica. Ovviamente si tratta di un’iperbole, ma esprime una grande verità: nessuno è stato punk come i Sex Pistols. E nessuno è fottutamente punk come Johnny Rotten/John Lydon. In fondo - lo diceva già Pete Townshend per bocca di Roger Daltrey - il punk è uno che si augura di morire prima di diventare vecchio, e fa anche di tutto per riuscirci: ma poi finisce per campare fino a settant’anni. Altro che no future. Ecco, Lydon incarna perfettamente l’anima ferina, arrabattatrice ad ogni costo, trasformista, escapista, genuinamente stronza, in una parola puttana (questo voleva dire punk all’epoca di Shakespeare), della punkitudine. Essere punk è rifilarti qualcosa fottendoti e dirtelo pure, ridendoti in faccia. Più che un nichilista (onore ai martiri come Darby Crash e GG Allin), il punk è un joker. Un dito medio alzato, una spernacchiata sonora come uno schiaffo. Lydon lo guardi in faccia e vedi un po’ il Joker del Batman dei fumetti: pelle bianca, occhi furbi e folli, ghigno tagliato col bisturi. Una vita la sua, figlio di irlandesi, che comincia con l’infanzia difficile di Fishbury Park, nella periferia nord di Londra, e che gli resta scolpita in corpo (a sette anni una meningite spinale che per poco non lo ammazza gli storce per sempre la schiena), descritta poi vividamente nell’autobiografia Rotten del 1993. La scuola, la scoperta dell’art rock, i capelli colorati come un evidenziatore, la vita sbandata tra i club e negli squat assieme a gente come i compagni di gang Sid Vicious e Jah Wobble, personaggi chiave dell’immediato futuro per un Johnny diventato ormai, a causa di uno stile di vita perfettamente incarnato dai suoi denti marci, Johnny Rotten. Tutto nasce a tavolino o quasi dentro la boutique alla moda ‘Sex’, di proprietà di Malcolm McLaren e Vivienne Westwood: Johnny ne è l’avventore più appariscente, anticonformista, in una parola ‘punk’. Ma anche quello con i gusti musicali più particolari e all’avanguardia: glam, prog e kraut, Captain Beefheart, Stooges, la dub jamaicana. Viene scelto per diventare il frontman di un gruppo che vuole reinventarsi, guidato da un manager dispotico e genialoide affamato di fama. È la grande truffa del rock and roll. La storia fa il suo corso e quando la vicenda Sex Pistols finisce come deve finire, e cioè nel casino più totale degli ultimi confusi giorni della tournée americana del gennaio 1978, nessuno scommetterebbe un centesimo su quello sgangherato di Johnny Rotten: sia quelli che lo credono semplicemente uno sbandato che ha avuto la sua occasione, sia quelli che lo vedono come il fantoccio di McLaren, sia quelli - pochi - che lo credono il furbo bastardo che è. Ma quel furbo bastardo tirerà fuori in una manciata di anni tre dischi clamorosi e irripetibili, praticamente delle opere d’arte.

This

is

P i L: P ublic I mage L imited

Con i Pistols smontatisi pezzo per pezzo in diretta TV e già archiviati (non sensa traumi: vedere la commozione e la rabbia soffocata per la fine dell’amico Sid catturate da Julien Temple in The Filth and the Fury, un hapax nella sua carriera di mangiaintervistatori), Johnny se ne va tre settimane in vacanza in Jamaica a fare chill out, assieme al boss della Virgin Richard Branson e ai Devo: Branson vorrebbe fare diventare Lydon il cantante della band, ma la cosa fortunatamente non va in porto. I Devo pubblicano l’Are We Not Men 28


prodotto da Brian Eno con la Warner Bros. e Lydon torna a Londra e si rimette a suonare - siamo nell’estate del 1978 - con il vecchio amico Jah Wobble e con il Keith Levene già chitarrista dei primissimi Clash (dai quali era stato cacciato perché, così avrà a dire Strummer, ‘più interessato a farsi di speed che alla musica’). Wobble è un musicista super-arty in fissa col dub e la musica etnica. Levene con la sua chitarra metallica e affilata sarà la fantastica controparte dei vocalizzi sgraziati di Lydon, sorta di trasfigurazione sporca del duo Jagger/Richards. Completa la formazione di questo nuovo gruppo, grazie a un annuncio pubblicato sul NME, Jim Walker, batterista canadese di stanza a Londra formatosi al Berklee College di Boston. Resterà però solo il tempo del primo album. Il nome, Public Image Ltd., è ispirato al romanzo di Muriel Spark Public Image, del 1968, storia di un’attrice senza talento che basa la propria carriera esclusivamente sulla oculata e cinica gestione della propria immagine pubblica. Così vorrebbero fare anche Lydon e compagni, gestendo quel nome come un vero marchio aziendale (Ltd sta per Limited Company): monetizzando i propri sfracelli. Public Image / First Issue (Virgin, come tutti i dischi successivi; dicembre 1978), con in copertina un Lydon sorprendentemente Bowieano, splendido disco di transizione, in parte registrato in fretta e furia a causa della dilapidazione del budget stanziato dalla Virgin anzitempo, fotografa la metamorfosi Pistols/PiL negli scarti e nelle continuità tra le due cose, assegnando alla prima il ruolo di necessaria e acerba incubatrice della seconda, vero compimento del progetto lydoniano di descrizione del reale attraverso parole chiave come alienazione e paranoia. I Pistols erano un grintoso vaffanculo, i PiL 29


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ne sono la versione implosa, una nervosa inquieta rassegnazione. E se First Issue è un album a tratti ancora vitalmente incazzato (le declamazioni del dittico Religion), che si sviluppa in lunghe cavalcate punk imbastite su ritmi quadrati e attraversate da chitarre affilate (è sicuramente sensato un parallelo con i Pere Ubu; altrove, nel finale della title track ad esempio, si anticipa l’epica chitarristica di The Edge degli U2), comunica già quell’immagine devitalizzata e metallica che troverà perfetta incarnazione nel packaging del secondo album, affidata ai due pezzi più avanguardistici, posti in apertura e chiusura di programma: il lunghissimo sinistro inno nazionale Theme, come un Hendrix industriale scandito dalle urla di Lydon e dalle botte secche e cieche della batteria (Lester Bangs lo metterà a canone, accanto a Metal Machine Music, Rated X di Miles Davis e Electro-Acoustic Music di Xenakis), e la anemica marcia disco Fodderstompf. Con Metal Box (novembre 1979), stampato originariamente su tre 45 giri contenuti in una pizza metallica (idea ingegnosa del grafico di fiducia Dennis Morris), e ristampato poi su doppio vinile (Second Edition,1980), la metamorfosi si completa e l’opera di Lydon viene a nudo come opera di concetto, sgradevole e asfittica, un vero psicodramma: è il post-punk, ‘la Terra Desolata del dopo-77’. Metal Box è l’album sperimentale dei PiL, sperimentale nel senso letterale del cercare nuove vie, del mettere assieme cose diverse. Il basso dub di Wobble prende e crea spazio, uno spazio claustrofobico, la batteria (suonata prevalentemente da Richard Dudanski, accanto a Strummer nei 101’ers, poi nelle Raincoats) si fa arrancante, le linee di synth si sovrappongono alle chitarre, si gioca con le manopole e le levette dello studio, coi canali stereo, con la manipolazione e prima di tutto compressione dei suoni (Memories). Le canzoni sono nausea e mal di testa, alla rincorsa di picchi di perversione come prima forse solo negli Stooges di Fun House (amatissimi da Lydon): l’arpeggio sognante e la batteria lenta inesorabile e chiassona di Poptones. No Birds e le scintille brucianti di Graveyard potrebbero essere cosa dei CCCP (e questo spiega la grandezza di entrambi, PiL e CCCP). E a Lydon - un po’ come a Ferretti - evidentemente piace andare incontro al proprio destino salmodiando su marce ansiogene (Careering, Chant). Se Socialist sono dei Kraftwerk analogici in fast forward, l’unica musica da ballo possibile è una specie di Black Angel’s Death Song della disco, Swan Lake/ Death Disco. Millenaristico, industriale e dark, Metal Box è uno spettacolo di cabaret che non fa ridere nessuno. Al punto che la rinascita alla luce del sole e la tensione verso l’alto delle linee di synth e di basso della cameristica Radio 4 hanno abbastanza il sapore della presa per il culo. The Flowers of Romance (aprile 1981) irrobustisce e intestardisce l’estetica brevettata con Metal Box. Ed è ancora una bomba, anche senza il basso di Wobble. Con dentro il batterista Martin Atkins (già su qualche pezzo di Metal Box e non a caso poi al centro di tanti progetti industrial e di meticciato duro) e con Levene sempre più intrippato con il synth (e con l’eroina), il suono si fa più potente e rotondo e aumentano il gradiente primitivista e rumorista. Lydon ha trovato la sintesi tra un espressionismo a tinte fosche e una specie di camerismo urbano che mette assieme, con sorprendente rigore, industrial, free e world music. Flowers è meno decisivo di Metal Box ma è ancora più potente e, azzardiamo, è anche invecchiato meglio. In una specie di sottovuoto compresso e senza profondità, predomina una cupa dimensione ritmica: la asfissiante Four Enclosed Walls vive solo di voce e batteria, e quei colpi di rullante sono colpi di pistola. Track 8 ha in testa certe 31


fantasmagorie kraut, ma è praticamente un ottuso wonky dispari. Phenagen è un martellante noise per clavicembalo. La title track è world music oscura e scintillante, di assoluto fascino. In Under the House i tom tom sono sciami di elicotteri. In Hymie’s Him troviamo degli Half Japanese sinfonici. Go Back è lo zoppicare cigolante della batteria che cerca di doppiare la voce o viceversa. Francis Massacre, con quel suo furore scimmiesco, come una rivolta in un laboratorio di vivisezione, carica la bolgia freak zappiana di Return of the Son of Monster Magnet di un crudo sarcasmo e di una euforia disperata. Home Is Where the Heart Is, solo batteria, echi, riverberi, è desert rock quando il deserto sono le macerie urbane. Another, l’ultimo pezzo del disco, chiude la trilogia classica dei PiL dicendo che oltre non è lecito andare, doppelgänger della Albatross con cui si apriva Metal Box. L’Inghilterra sta stretta a Lydon: da maggio sarà a New York e nell’orwelliano 1984 si sposterà definitivamente a Los Angeles, dove farà soldi a palate investendo nel mercato immobiliare. Ecco, dopo e oltre Flowers of Romance, per non tradire se stessi o per non entrare in un loop eterno, i PiL avrebbero dovuto fare a pezzi lo studio di registrazione tra urla lancinanti e pianti disperati, registrare il tutto e stamparlo su un pezzo di lamiera arrugginito; oppure Lydon avrebbe dovuto invitare John Duncan ad un appuntamento al buio; o almeno disintossicarsi, da se stesso, chiudendosi in una qualche clinica psichiatrica. Questo non è successo, ed è così che si spiegano i dischi successivi con sopra stampato il marchio PiL. Così e tenendo bene a mente che erano pur sempre gli anni Ottanta. This Is What You Want, This Is What You Get (luglio 1984), anticipato da Commercial Zone (1983), ur-gemello pubblicato illegittimamente dal fuoriuscito Levene e da considerare come una ottima raccolta di demo (contiene 5 degli 8 brani ri-registrati e pubblicati su This Is; tra questi una Lou Reed poi re-intitolata Where Are You), vede Lydon e soci (sempre Atkins alla batteria, per il resto turnisti) spostare con decisione la formula PiL sul funk e sul pop: sempre concitata, compressa e strapazzata, ma - per capirci - più vicina alla declinazione wavey dei Devo post-Are We Not Men, che alle contorsioni di James Chance. I PiL sistemano un attimo le ammaccature più vistose (ma sono sempre i PiL: lo testimoniano la modernità di The Pardon, una cosa che sembra uscita dai Fuck Buttons, e Question Mark, b-side off-album del singolo Bad Life e suo strepitoso ossessivo rovescio electro-arty) e il risultato è che tirano fuori la loro più grande hit di sempre, This Is Not A Love Song, quinta in classifica in Inghilterra, trainata da una progressione di basso tipicissima. This Is è un buon disco, ma è quello con cui i PiL smettono di parlare cocciutamente una lingua ‘altra’ ed entrano - ma meno ortodossamente, per dire, degli Scritti Politti di Green Gartside - nel mood anni Ottanta. Album (gennaio 1986) è frutto della collaborazione intrusiva di Bill Laswell, che si porta appresso la caterva di supermusicisti con cui sta lavorando (il giro Material/Praxis), più alcuni turnisti di lusso: Tony Williams, Ginger Baker, Ryuichi Sakamoto, Steve Vai, L. Shankar, Bernie Worrell. Questo pop-rock cosmopolita e impeccabile (per quanto a tratti ostentatamente bizzoso) non è niente male, ma sinceramente qualsiasi paragone con i PiL immediatamente post-Pistols è ingeneroso e soprattutto fuor di luogo: è una roba talmente diversa che risulta difficile mettere le due cose in una qualche relazione. Durante le session, registrate a New York, a un certo punto spunta in studio Miles Davis: entra in sala, si mette dietro a Lydon che sta cantando e comincia a suonare la tromba. Quando finiscono, si complimenta con lui, gira i tacchi, e se ne va via. 32


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Con Happy? (1987) e 9 (1989) si registrano altri cambi di formazione (Bruce Smith - Pop Group, Slits, Rip Rig + Panic - alla batteria, Allan Dias al basso, John McGeoch alla chitarra) e Lydon appare sempre più stanco e facile a essere trascinato dai venti che gli soffiano attorno: a questa altezza i PiL, definitivamente snaturati, sono una band di pasticciato crossover-rock. This Was Not (1992), introdotto da un’allusiva lingua pelosa in copertina, segna un altro tentativo di riposizionamento, dominato dalla chitarra di McGeoch (nelle file di Magazine, Siouxsie & the Banshees e Visage; Smith se n’è andato e fanno capolino i fiati nientemeno che dei Tower of Power), che trasforma la musica dei PiL in un rock squadrato, grintoso e muscolare. La qualità dei singoli pezzi si riprende leggermente e la personalità del marchio PiL in qualche modo ne guadagna: ma lo snaturamento, quello c’è sempre, ha solo cambiato forma. Archiviati anche i PiL, Lydon si dà alle collaborazioni più svariate, scrive la propria autobiografia dall’infanzia fino alla fine dei Pistols, riesuma i Pistols e dà alle stampe quello che ancora oggi è il suo unico album solista, fin dal titolo, una dichiarazione di intenti: Pyscho’s Path (1997). Musicalmente curato dallo stesso Lydon e dallo scafato produttore Mark Saunders (Erasure, Neneh Cherry, Tricky, Cure, A-ha), il disco, vitalistico e divertente, è una take artigianale e appassionata sull’elettro-rock di derivazione techno. Nel loro slancio modernista le produzioni suonano spesso fantasticamente datate. Dopo avere fatto avanguardia, Johnny sembra andare un po’ alla rincorsa, ma numeri come l’ombrosa A No & A Yes o Another Way, un funky new wave alla King Crimson di Discipline, sono più che dignitosissimi. Il disco contiene anche i remix di alcuni pezzi firmati dalle stelle del crossover electro-rock UK Chemical Brothers, Moby e Leftfield. Come a dire: i nipotini dei Public Image Ltd.

E pilogo : We

are the ageless , we are teenagers

Dal 2009, i PiL sono tornati sulla scena del crimine, per l’ennesimo remake lydoniano. This is PiL è il nuovo album e arriva a vent’anni esatti dall’ultimo, con in formazione gli ex Bruce Smith e Lu Edmonds (che aveva suonato su Happy?). Il disco, in soldoni, può valere tanto un ‘quattro’ quanto un ‘sei e mezzo’, a seconda della voglia che si ha di pretendere qualcosa. Al di là delle questioni di lana caprina (e dei tanti brani trasparenti), c’è un pezzo di acido cartooning lydoniano come Lollipop Opera e c’è in generale la voglia di raccontare e raccontarsi (‘I am John and I was born in London. I am no vulture, this is my culture’, One Drop), con un taglio sempre meticcio e ruvido, ma che potremmo anche definire cantautorale. Certo, è sempre un po’ stupido (un po’ crudele, un po’ necessario) piegarsi alla mannaia della bignamizzazione, e quindi prendere un disco di qua, uno di là e stop, mettere via tutto il resto. Per farsi assolvere da questo peccato mortale basta forse ammettere semplicemente che lo si sta commettendo. Ma i PiL sono quelli lì, non questi qui, tirati dentro a forza di concessive. È il trittico classico della loro discografia che ci presenta opere di avanguardia popular - e quindi semplicemente: POP - che fanno impallidire il 90% delle musiche storte, strapazzate, avant, arty, indipendenti, sperimentali, rumoriste e quant’altro prodotte dalla loro uscita ad oggi. Grotteschi bastioni del post-punk, raccontano ancora adesso in maniera maledettamente mimetica e seducente sensazioni concetti parole inflazionati ma mai come qui così chirurgicamente descrittivi: disagio, spaesamento, alienazione, solitudine. 34


Stando accanto e forse ergendosi un gradino sopra, sicuramente stando un gradino avanti (per tutta una serie di motivi che è fin troppo didascalico ribadire), alle opere potenti e prepotentemente moderne che hanno segnato la maturazione del rock in quello che conosciamo oggi, andando a costituire un canone di cui siamo tutti figli: tutti figli dei classici di Pop Group, Pere Ubu, Devo, The Fall, Joy Division, Throbbling Gristle (e ancora, in maniera diversa, Television, Cure, ecc.). I PiL, specie di precaria “Plastic Rotten Band”, precaria e irripetibile come tutti i miracoli, hanno digerito il punk e masticato il dub, il blues beefheartiano, il kraut e l’industrial, risputando fuori una cosa che era già post-rock (nell’accezione rock-decostruzionista, non post-hardcore, del termine; vedi i This Heat, vedi per altri versi gli Half Japanese), che era già noise (quello morboso e malato dei Royal Trux). PiL: una scritta a caratteri cubitali, come quella di Hollywood, scrostata ma luccicante, che si specchia nella città, le dà ombra e vi si erge contro come un monito.

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my bloody valentine Il frastuono armonico e celeste

Testo: Gaspare Caliri

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Freschissimi di ristampa di tutta la produzione ’88-’91, i My Bloody Valentine sembrano sul punto di tornare. La nostra ricostruzione della loro storia

Di

nuovo, quel frastuono

La nostra ricostruzione comincia il 30 maggio 2009, nell’Auditori del Forum di Barcellona, all’interno del Primavera Sound Festival. La fotografia acustica ritrae un suono che entra nelle viscere in mezzo a un maelstrom di rumore. La cornice è il desideratissimo e attesissimo live dei My Bloody Valentine; ascesi raggiunta dentro il reattore di un aereo: è ancora una volta la metafora più azzeccata, nonostante i necessari tappi per le orecchie (distribuiti all’ingresso). Di fatto, nella breve ma intensa storia del Primavera Sound, i testimoni (chi scrive è tra quelli) riportano un caso mai verificatosi: il concerto dei MBV è l’unico avvertibile anche all’esterno del perfettamente isolato (acusticamente) auditorium compreso nelle fondamenta dell’edificio di Herzog & De Meuron. 37


Secondo la vista, quel suono è prodotto da uno strumento riconoscibile, ma il cervello e il corpo lo trattano diversamente. Dentro l’ascetismo massimalista del rumore, la cacofonia assoluta, emerge il lamento ancestrale della chitarra di Kevin Shields (chitarra e mente ingombrante dei MBV), che sembra un animale preistorico che soffre e, date le dimensioni, produce un pianto straziante che assorda. Accidentalmente, quel lamento è finito dentro una canzone (Come In Alone), biograficamente si è stampato tra i neuroni dei presenti, a quel live come ai - non molti, per la verità - altri che hanno accompagnato la storia dei My Bloody Valentine: gruppo probabilmente dell’oltre-rock ma leggibile con coordinate precisissime, fenomelogicamente chiare, che confezionò uno dei capolavori di quell’impressionante, per numero di uscite imprescindibili, inizio anni Novanta. Anziché solo pensare ai MBV come massimi esponenti dello shoe-gaze (quali sono, indubitabilmente) ci interessa coglierne la contestualizzazione temporale a scala più ampia, per cominciare a farne un ritratto. Fa girare la testa pensare a quel 1991, dove, accanto a Loveless, uscirono tra UK e USA dischi come Yerself Is Steam, Spiderland, Frigid Stars, Just For A Day, solo per snocciolarne alcuni, senza soluzione di continuità di genere. E ancora, e forse con maggiore forza, non a caso quei primissimi mesi di Nineties segnarono l’interruzione di tante di quelle esperienze, capitolo chiuso stop, punto e a capo, o forse punto e virgola. Un nome non a caso: Spacemen 3, che proprio nel ‘91 licenziarono Recurring, chiudendo la carriera. Nella stessa edizione del festival, ma all’aperto, si esibisce in quel 2009 anche Sonic Boom, sulla carta travestito da Spectrum ma di fatto incarnazione fedelissima di quegli Spacemen 3 (qui una parte di quella esibizione, dove tira fuori dalle memorie The Perfect Prescription una cover dilatatissima della Transparent Radiation dei Red Crayola), di cui voleva dichiaratamente dimostrare di essere l’unico a potersi fare carico - in barba agli Spiritualized che suonavano in un altro palco. My Bloody Valentine e Spacemen 3, e tanti di quei paladini (ancora dentro il rock) del passaggio tra 80 e 90, condividono una visione radicata della musica. In mancanza di termini più efficaci, la chiameremo massimalista. Non come opposizione a minimalista, ma come rimozione di termini intermedi, di compromessi. L’estremo massimalismo è la riduzione del tutto a una scelta binaria : vita o morte, silenzio o pienezza del suono. Strategia perfetta, specie per un gruppo come i Valentines, noti da sempre per i live-evento con volumi improponibili, e subito mitizzabili, non come “Mito d’oggi” barthesiano (e quindi effimero), ma come discesa indù di una qualità ultraterrena. E, delle due (silenzio e caos), camminando a fine concerto fuori dall’Auditori ancora scossi e mezzi assordati, di certo cambiati come ascoltatori, non abbiamo dubbi.

Vuoto

temporale

Peter Kember non è un nome nuovo per chi segue le vicende dei MBV, e non solo per la vicinanza spazio temporale. Una volta rimasti entrambi orfani dei propri progetti principali, nel 1994 Kember e Shields, insieme a Kevin Martin (allora God e Techno Animal), formano l’ensemble Experimental Audio Research. Una sorta di supergruppo che, anziché mettere a sistema 38


le esperienza infra-rock che ognuno dei componenti ha esplorato con esiti eccellenti nel proprio campo, va verso l’altrove. Citando evidentemente non solo un ‘lassù’ spaziale, ma anche un ‘allora’ temporale. Esplorando l’ultraterreno alla maniera della musica cosmica tedesca, citata espressamente in Mesmerized (D.M.T. Symphony), e rasentando la new age e la pura astrazione - almeno in Beyond The Pale, e poi ancora in Millennium Music, che non vede già più in organico Kevin. Una scelta non inconsueta per chi ha dato tutto se stesso per valutare come decollare all’interno delle radici rock. Una volta messe tra parentesi quelle radici, si va alla cosmica, tensione pare sensualissima (lo abbiamo detto di recente anche per David Baker) per chi si muove entro una cornice ‘psichedelica’, nel senso più lato del termine, ossia capace di muovere l’immaginario verso terreni non prettamente sostanziali. 39


A Shields, però, la strada cosmica non è bastata negli anni. Chiusa l’esperienza EAR, inizia una serie di collaborazioni fuori dai My Bloody Valentine che lo portano a collaborare con gli ex compagni di etichetta - in Creation - Primal Scream (vogliamo anche ricordare, in quel ‘91, anche Screamadelica?), dall’interno (capitolo non chiuso, dato che nel prossimo album dei Primal Kevin comparirà nella compagine insieme a un’altra Valentine, la bassista Debbie Googe); poi con Dinosaur Jr. e Yo La Tengo, come produttore. Fino a confezionare, da co-curatore, la colonna sonora (leggendaria per i kids del periodo) di Lost In Translation (di Sofia Coppola) nel 2003, in un periodo ancora ‘pionieristico’, se così ci si può azzardare a dire, del revival wave (già accennato nel ‘96 dalla cover di Map. Ref. 41N. 93W degli Wire), centrando il mood in maniera scientifica: come non associare i giochi di sguardi di Bill Murray e Scarlett Johannson a Ikebana oppure a Goodbye? È poi impossibile non citare almeno anche The Coral Sea, a firma Kevin Shields / Patti Smith, dove il primo accompagna, tenendola delicatamente per mano, il reading della seconda. Uno come Kevin non si poteva fermare, pur sapendo il picco raggiunto. Fatto sta che da quei primi novanta si apre un vuoto spazio-temporale, che nei 40


Duemila si è per alcuni protagonisti riaperto con quella dinamica che incondizionatamente abbiamo chiamato reunion, senza preoccuparci di andare alla ricerca delle differenze. Le quali sono almeno su due piani. Uno di valore, l’altro di merito. Il primo ci porta ad accostare - di esperienza personale in esperienza personale - quel live a quell’altro - l’anno precedente e sempre nell’Auditori barcellonese - di Throbbing Gristle, testimone di un altro capitolo fondamentale di una storia d’amore tra un’amplificazione adatta e le intenzioni musicali di chi ha idee ben chiare e iper-incisive in testa. E su questo torneremo, dentro il proposito di MBV. L’altro piano, quello sul merito, è ben più complesso. E di fatto mette in discussione il concetto di re-union. Kevin Shields (leader ma soprattutto portavoce della band) strombazza ormai da mesi e ai quattro venti una delle notizie più sfolgoranti degli ultimi tempi: i My Bloody Valentine stanno lavorando a un nuovo disco. Ciò darebbe ragione a quanti hanno sempre sostenuto che i Valentines non si siano mai sciolti, ma che abbiano semplicemente continuato a lavorare a un terzo album che, senza meno, non poteva non aumentare esponenzialmente la cura certosina già dimostrata in Loveless. Eppoi c’è una responsabilità enorme, e questo rende l’operazione ancora più difficile giustificando una ricerca ormai ventennale, secondo quei beninformati e forse un po’ folli fan che sostengono queste tesi. I due dischi che i MBV hanno dato alle stampe (Isn’t Anything e Loveless) hanno seguito una manciata di anni che hanno rivoluzionato l’approccio alla scrittura delle canzoni dentro la cornice dell’accessibilità rock. I MBV non possono seguire se stessi ma andare oltre, come hanno sempre fatto.

R itrovare

quella ‘cosa’

Ne va del proprio massimalismo. A questo proposito, lo stesso Shields la fa molto semplice: i My Bloody avrebbero ripreso materiale di metà Novanta considerato ‘non poi così male’ ed essenzialmente fatto di frammenti e non di canzoni. L’ellepì in arrivo, da qui a qualche mese sembrano promettere, sarà poi, bingo nel bingo, seguito da un EP di materiale ‘nuovo’, ovvero scritto nell’oggi, fatto in un momento di totale immersione della band. Una fretta davvero bizzarra, se si pensa al tempo che i Valentines si sono concessi dal ‘91 a oggi. E Shields scherza pure su questo: ‘Ho questa nomea per cui sarei uno che continua a lavorare in maniera maniacale e perfezionista sullo stesso materiale, dilatando a dismisura i tempi, prima di esserne soddisfatto. Non è così, o almeno non sempre. La questione è un’altra: per lavorare bene bisogna stare bene, quando arriva quella ‘cosa’ bisogna catturarla il più velocemente possibile’. Eppure, all’indomani della pubblicazione di Loveless, girava voce che i MBV avessero lasciato la Creation, dopo il tour del ‘92, proprio perché i costi (temporali e finanziari) che aveva richiesto il disco stavano per portare la label al fallimento. In un quadro più ampio, va detto che la storia dei Valentines è sempre stata di forte conflittualità con etichette e case discografiche. Chi di noi oggi ascolta Loveless e Isn’t Anything su vinile probabilmente possiede una ristampa della Warner (per il mercato americano) del 2003, allora salutata con favore, eppure oggi scopriamo non riconosciuta dalla band:

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‘Fecero un lavoro pessimo. È stato fatto tutto senza il mio permesso, e riuscirono a ottenere un suono al 100% sbagliato. Una truffa. Non ne sapevo nulla, finchè non sono comparse le ristampe nei negozi. Tentammo una causa, per evitare che arrivassero nel mercato UK, perchè tecnicamente era un bootleg, ma in America, la Warner fece scudo con la legge americana.’ Non è un caso isolato. Qualche anno dopo, più vicino a noi, nel 2009, in Germania è comparsa un’altra release non ufficiale, che ridava alla luce ai primissimi pezzi dei My Bloody (quando ancora non avevano incrociato il feedback-a-billy dei Jesus And Mary Chain) dentro una compila intitolata Things Left Behind..., stampata dalla tedesca Independent Music. Cosa non strana, dato che quel This Is Your Bloody Valentine, LP datato 1985, primo long-playing della band, fu licenziato a Berlino, sede provvisoria del gruppo dopo la nascita a Dublino, un paio di anni prima. Non è certo una questione di attaccamento ai diritti musicali, che certo può essere opinabile ma legittima, quella che fa concentrare Shields e soci sul controllo delle uscite con il proprio nome. È piuttosto una questione di consapevolezza, che ci riporta alla fama certosina del confezionamento e che oggi, maggio 2012, trova il suo compimento, dopo almeno cinque anni di attesa (dal primo annuncio), con la ristampa di ben tre digipack CD. Il primo, intitolato EP’s 1988-1991, contenente i tre EP della pre-maturità (sulla strada dello shoegaze, ma anche dell’immanenza musicale, come vedremo): You Made Me Realise e Feed Me With Your Kiss (entrambi dell’88), Glider (1990) e Tremolo (1991). Il secondo, con la ristampa di Isn’t Anything, primo album rivoluzionario della band, del 1988. Il terzo, ovviamente, con Loveless, in doppia versione, quella aderente alla versione originale, e quello rimasterizzato dallo stesso Shields, vero gioiello dell’operazione. Il tutto stampato da quella stessa Sony Music che nel 2001 sembrò far sparire i nastri dei due album di cui sopra, benchè i Valentines avessero in mano un contratto già firmato che garantiva loro l’unicità del possesso. Tutto rientrato, dopo che la minaccia di sguinzagliare un detective fece riapparire i nastri dopo un anno. Un altro aneddoto che va a gonfiare l’ipotesi sostenuta da alcuni per cui Shields non sia sempre in grado di tenere il polso, essere squalo, fare un buon management della band. Ascoltare oggi Loveless nel remastering di Kevin, evidentemente al massimo del volume che i nostri impianti di riproduzione consentono, ci fa capire almeno un paio di cose: anzitutto che valeva la pena di attendere la totale sicumera con cui oggi riappaiono nei cataloghi le gemme MBV, e secondariamente - ma neanche troppo - che c’è da prendere in mano il topic reunion. Torniamo al 2008, quando a ridosso dell’atto di rimettersi insieme con l’occasione della curatela dell’All Tomorrows Parties dell’anno dopo, i My Bloody Valentine decidono non solo di ‘ricordare’ quell’esperienza, ma di trarne il massimo possibile. E di approfittare delle tecnologie oggi a disposizione - e non nel 1991 - per riprendere la ricerca di quel suono a cui hanno sempre aspirato e che forse oggi, per la prima volta, potrebbero trovare. ‘Quello che abbiamo fatto allora - dice Shields - fu provare per sette settimane. Lavoravamo sei giorni la settimana, chiusi lì con tutto il necessario. Poi è arrivato il primo live della nostra reunion. È stato alla ICA (l’Istituto di Arte Contempora42


nea di Londra), ma non c’è stata una discontinuità dalla sala prove. Un giorno stavamo provando, il giorno dopo eravamo nella nostra gig, a iniziare il concerto con Only Shallow. [‘] Fu straordinario. Come svegliarsi sul palco e essere noi stessi quel rumore. Non dirò che è stata un’esperienza magica, ma di certo tutti abbiamo realizzato un’energia enorme.’ In realtà, quelle sette settimane non sono propriamente spese solo per provare. Con i soldi garantiti dalla reunion, l’attività che li assorbe maggiormente è cercare i migliori strumenti in circolazione per ottenere gli effetti desiderati. E, nonostante i tempi biblici che una tale ricerca potrebbe comportare, se la cavano in fretta e con una spesa folle ma necessaria a un re-inizio con tutti i crismi. La Sometimes suonata all’ATP è solo una goccia (negata al pubblico del Primavera, lo stesso anno) di quel mare di onde e feedback, di quel suono/senso immanente ed estatico. Sempre a proposito di reunion, Shields è molto chiaro, nel ricordare l’esperienza degli amici Dinosaur Jr (altri patiti/patologici del volume) e nel sottolineare un punto fondamentale dell’operazione. Dice che vederli rimettersi insieme è stato di totale ispirazione, perchè ha capito che l’esperienza, i soldi per la strumentazione, la maggiore competenza non hanno fatto che migliorare il suono di J Mascis e compari. Stesso dicasi dei My Bloody Valentine: la band del 2008 non può essere peggiore rispetto a quella del 1991, perchè essenzialmente, nel rapporto con le tecnologie a disposizione (Mc Luhan sorride sotto i baffi), i due casi sono distanti, se non anni luce metaforici, una ventina d’anni reali. La continuità del volume è evidente, ma l’effetto non necessariamente è lo stesso. La ricchezza delle parole di Shields, anche a questo proposito, è tale che esprimersi diversamente sarebbe un peccato:

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‘Suoniamo a quel volume perchè usiamo molto le distorsioni. O meglio, il volume sembra più alto perchè ci sono livelli di distorsione che si rincorrono. Ma la nostra distorsione non è quella classica del rock, o del heavy metal. È una distorsione molto ricca dal punto di vista armonico, che ha una sorta di effetto psico-acustico che fa percepire quel rumore totale. Se noi suoniamo a 120 decibel, alcune persone percepiscono 132 decibel. Ci sono dietro questioni tecniche molto precise, che riguardano per esempio la differenza di consumo di energia tra una classe A e una classe C, cose così. Detto questo, consiglio a tutti di mettersi i tappi nelle orecchie quando vengono a un nostro live!’ Al di là dei tecnicismi, sembra un manifesto. I My Bloody Valentine ottengono nel loro sound un’immersione del suono definitiva. Stare dentro a una stanza dove c’è amplificazione comporta uno stato diverso di coscienza, come aveva capito John Cage a proposito dell’amplificazione del rock’n’roll. Il rock non può prescindere, lezione magistrale che i MBV dimostrano di aver capito alla perfezione, dall’applicare il concetto all’esperienza musicale in tutte le sue sfaccettature. Nella registrazione, nella costruzione dei layer di suono, nell’esecuzione. Fa certamente parte del massimalismo e di una ricerca che va di pari passo con la perdita dell’udito, probabilmente (anche se lo stesso Shields dichiara di usare sempre i tappi per le orecchie).

D alla

sottosuolo alla sostanza

La cura per il suono non è quindi un atteggiamento maniacale, come sempre è passato a proposito dei Valentines, ma uno strumento. Per raccontare questa cura del suono, Simon Reynolds, in un articolo compreso in Blissed Out (quindi pre-Loveless), usa la metafora del vampiresco, come storia mitologica: ‘Vampiresco è la prima parola che scatta nella mia mente, ascoltando i My Bloody Valentine di Isn’t Anything. E di certo ciò va dritto all’allegoria sessuale che sta 44


dietro al mito del vampiro, l’afflusso di sangue che scorre via dalla testa, l’idea che quell’eccesso porti a pallore, ma anche nevrastenia, malattia’. Involontariamente, Reynolds ci riporta alle loro origini. Al nome, anzitutto, e allo scenario in cui i MBV fecero i primi passi. My Bloody Valentine era il titolo di un film slasher horror canadese del 1981, tra l’altro censurato per eccesso di violenza. E con quell’immaginario i My Bloody Valentine si formano a Dublino, nel 1983, in ambiente gotico. Nella formazione ci sono Kevin Shields, il batterista Colm O’Ciosoig, il cantante Dave Conway, la bassista Tina Durkin e una serie di altri personaggi che si succedono in un turnover senza fine, nei primi mesi. Trasferitisi a Berlino (prima di tornare a Londra, dove Tina lascia il posto a Debbie Googe), incidono le prime tracce, raccolte in This Is Your Bloody Valentine, licenziato nella prima parte del 1985. Il marchio degli inizi è dettato dalla voce di David Conway, fortemente legato al mood bat-cave. I riferimenti vanno dai Bauhaus ai Cramps, almeno prima dell’ultima traccia, The Last Supper, che sembra un’epifania. Il tono è quello dei Doors di Riders On The Storm, ma sul finale il canto di Conway, tra Peter Murphy, Brian Setzer e Morrissey, rivela un’inclinazione diversa, diremmo oggi un desiderio di cambiamento. Passano pochi mesi che la vera rivoluzione arriva. Proprio in quell’anno usciva Psychocandy, apice del recupero di canzonette cosparse di rumore bianco, formula ineccepibile che riusciva a salvarsi da una rapidissima obsolescenza con la mossa furbissima di riprendere gli anni intramontabili del rock’n’roll. Fanno la comparsa, in Scozia, i Jesus And Mary Chain, e, a detta degli stessi My Bloody, scatta una vera e propria mania per quel suono. ‘All’improvviso, tutti ci siamo messi a imitarli come pazzi. Ogni nostro pezzo diventava un mare di feedback.’ Un cambiamento completo, che però si esaurì abbastanza in fretta. All’interno di Geek! (di fine 1985, 12’ pubblicato da Fever Records), la mania è manifesta. No Place To Go è in puro stile Jesus And Mary Chain, un rockabilly immerso nei feedback di chitarra, con una vocalità al di sopra di ogni sospetto (rispetto a quello che sarebbe stato prodotto dalla band), gagliarda e quasi ironica. In Moonlight la formula ha trovato ormai la propria centratura: il feedback è diventato paradigma di saturazione, ma non è l’unica via possibile. È di nuovo l’ora di cambiare. Nel frattempo, i MBV rimpiazzano Conway con Bilinda Butcher, trovando l’assetto definitivo. Sentendo The Things I Miss di Ecstasy (anno 1987, così come per Strawberry Wine, poi raccolti in Strawberry And Wine - Lazy Records, 1989, mentre il 12’ The New Record By My Bloody Valentine era di qualche mese prima), emerge, rispetto ai Jesus And Mary Chain, una maggiore astrazione, e anche - paradossalmente - l’essenza sanguigna che crea un legame con il passato Cramps-iano degli esordi. (Please) Lose Yourself in Me, che chiude Strawberry Wine, dichiara le intenzioni della ricerca. I primissimi passaggi sembrano ancora figli di Psychocandy, eppure ci si accorge di una raffinatezza decisamente maggiore. È come se i MBV applicassero la saturazione della chitarra agli acquarelli surf, più che al rockabilly. L’immaginario della canzone Sixties non gli appartiene del tutto. Il feedback è ingrediente di qualcosa che serve a comunicare un piano di comunicazione energetica universale. Tra l’iperuranio e il sanguigno. Saturo 45


vuol dire pieno, ma anche ascetico. È sexy, ma anche asessuato. Kevin Shields ha pronta la definizione, per questa chitarra satura, sparata a volume killer. ‘Sembrerà pretenzioso, ma abbiamo pensato di chiamarla ‘glide guitar’. Non è semplice feedback, è quell’effetto per cui il suono è lì, che fluttua attorno a te. Ti circonda.’ Non c’è presenza ma immersione completa: il paradigma/consiglio di Cage è stato rispettato, così come la consapevolezza del rapporto tra amplificazione e scrittura. Le due cose sono indissolubili, i MBV non sono certo una novità in tal senso, ma raggiungono vette di complessità ed efficacia inaudite (alla lettera). Muoversi dentro il fare canzoni ma trovare sempre la via di fuga tramite la calibratura degli strumenti. Slow (seconda traccia di You Made Me Realise - cristallino ingresso nell’universo Creation, nel 1988) è esempio lampante. Non è solo l’apparato di vocalità svenevoli (che sarà una delle eredità maggiori che i MBV consegneranno alla vulgata shoegaze e dream-pop) a distinguere l’approccio dei Valentines. È l’intreccio strettissimo tra elementi compositivi e pensiero esecutivo. Il basso distorto è il mantello che protegge quel riff paranoico ed eminentemente psichedelico della chitarra, che se non fosse ‘pensato’ in secondo piano non potrebbe innestarsi così nei nostri neuroni. C’è rapporto figura sfondo ma anche un messaggio chiaro sulla corporeità della musica: ‘Prende le viscere, ma le rimuove, e restano i rimasugli’, dice ancora Kevin, intervistato da Reynolds. Il sound dei My Bloody prende una strada precisa, in quel 1988. Va verso l’estatico che ha sempre impresso il corporeo. Per usare le parole di Shields, non è un rock di pancia ma di rimasugli. Siamo d’accordo con Simon Reynolds quando afferma che ‘C’è caso che, grazie a quel loro strano metodo di lavoro (registrare un album in due settimane, dormendo una o die ore al giorno), I My Bloody Valentine abbiano scoperto una psichedelia naturale. Forse questo rende conto di quella sensazione strisciante di disgregazione della realtà che abita alcune delle loro canzoni, o di quella sensualità assonnata presente in altre.’ Reynolds fa continui riferimenti alla metafora sessuale, alla languidità dei MBV. Ed estorce una confessione stupefacente, criticamente geniale. Non è un caso che la vocalità di Bilinda Butcher sia così imprendibile, se la catturi alle 6:30 di mattina, dopo una notte insonne passata a suonare quel frastuono celestiale. È una tesi davvero interessante che risponde alla questione della nascita della languidità nello shoegaze. Dal sonno. Dalla privazione onirica, e da quella sosituzione fisica che può essere la musica. Dalla voce che emerge dal sonno. Da qui Shields costruisce la continuità coi Sessanta, che però non coincidono affatto con quelli dei Jesus And Mary Chain. Il mondo di riferimento dei Valentines è l’indolenza del cantato di gente come Syd Barrett e Ray Davies. Quella psichedelia espressa sulla propria pelle, non sul corpo del blues (come invece hanno fatto centinaia di band, fino ai già citati Spacemen 3), tranne in alcuni casi (la full lenght version di Glider). Riascoltare oggi il periodo 1988-1990 ci porta a capire come quel frastuono micidiale (quella musica celestiale dentro il reattore di un aereo) fosse un 46


elemento già presente già dai passi intermedi della band. Basti pensare alla struttura di You Made Me Realise, che dopo una prima strofa-refrain decide di optare per il decollo, portando prima le chitarre a un primo limite, poi riassettandosi con altra strofa-refrain e sul finire decollando di nuovo (alla maniera degli intermezzi rumoristi versione Daydream Nation dei Sonic Youth). Di conseguenza, Isn’t Anything è il terreno di una battaglia, tra maschio e femmina, tra dolcezza e violenza. Una guerra in dodici tracce dove i My Bloody esplorano sotto sotto ancora quel matrimonio tra composizione e amplificazione, declinandolo ancora come una - seppur geniale - tradizionale rock band. Soft As Snow (But Warm Inside) ha un incedere indimenticabile, ma anche un riff da manuale MBV, ossessivo ma di fatto ‘produttivo’. Nothing Much to Lose è una mitragliata che bilancia perfettamente il power-pop con una melodia inglesissima. Lose My Breath è invece, a scala più ampia, manifesto per lo shoegaze tutto, e per lo sguardo che dai piedi va all’onirico (negato?). Il dream pop, si dirà. Il dopo come potrà mai essere? Nel dopo, c’è il rumore trascendente. Che non è alto o basso, ma è totale e definitivo. Dove la chitarra non è strumentoicona, ipostasi, ma medium. La trasformazione è esplorata in maniera completa dalla doppia compila dei quattro EP della maturità. E si esternalizza con due esempi strumentali, opposti come approccio, e testimoni informati dei fatti. Il secondo (Instrumental No. 1) è corporeo, ossatura nerboruta, maschia, degno degli episodi più energici di Isn’t Anything. Il primo (Instrumental No. 2) mostra delle sovrapposizioni con i Seefeel - basso dub, atmosfere eteree 47


come solo i My Bloody sanno fare - e soprattutto segna il passaggio a quella dimensione dove abitano il rumore, la musica, il senso. L’immanenza.

I mmanenza

e trascendenza

Loveless esce il 4 novembre 1991, dopo due anni di lavoro, diciannove studi di registrazione, una squadra intera di ingegneri e tecnici del suono coinvolti. Kevin Shields inizialmente aveva promesso alla Creation che per fare il disco alla band sarebbero bastati cinque giorni. In realtà Shields prova e riprova tecniche chitarristiche (come la barra ‘tremolo’), sample, e persone. Scartando queste ultime quando non adatte al compito. E i My Bloody si fanno terra bruciata attorno: l’unico ingegnere ammesso ad assisterli, dopo il gran lavoro fatto sugli EP Glider, Tremolo e in particolare su Soon, è Alan Moulder, un allievo di Brian Eno, da lì molto attivo nella produzione di band Creation (come Jesus And Mary Chain e Ride) e shoegaze in generale. Di Moulder - e successivamente di Anjali Dutt - i MBV apprezzano una particolarità esclusiva: ‘Tutti gli ingegneri, tranne Moulder, quando ci lavori ti dicono che quello che stai facendo è completamente sbagliato.’ Loveless è un disco che evidentemente (lo abbiamo scritto anche sopra) va aldilà delle possibilità del tempo. La rivista Melody Maker farà un conto spannometrico rispetto ai costi di realizzazione dell’album. Il saldo fa su per più duecentocinquanta mila sterline. Ma testimonia di un accordo tacito (per quanto non esente da rotture, che avvengono presto): se la Creation ha investito così tanto è perché tutti sanno, all’indomani di Isn’t Anything, che il passo successivo è un disco ultraterreno. Qualcosa di mai udito. Benchè le aspettative siano altissime, Loveless le trascende. L’udito dell’ascoltatore - almeno quello di chi non è avvezzo a esperimenti acusmatici, ingegneristici - non ha mai percepito qualcosa di nemmeno simile. Quel rumore si porta via la mente (To Here Knows When), grazie alle tecniche pazientemente studiate, provate, applicate da Shields e sodali. La tecnologia è un filtro di lettura utile per Loveless. Un approccio che la sfrutta al massimo senza ipostatizzarla, mcluhaniano, abbiamo già detto. È il modo che hanno i My Bloody Valentine di uscire dalla definizione di un genere, perchè, diciamolo una volta per tutte, Loveless non è un disco shoegaze. Non è forse un disco rock. È un flusso di capolavori, oltre che la testimonianza di un gesto che detta la direzione, la visione, e nell’indicarla la compie. Come In Alone è una ballata trascendente che in realtà nasconde il battito di un cuore sotto anfetamina, negli ultimi attimi prima che l’effetto scenda. Sottende l’inversione del rapporto tra canzone e composizione di layer di rumore armonico, come lo chiama Kevin. Il riff (già da Only Shallow) non è sistema strutturale della song, ma collante verticale tra i livelli orizzontali sovrapposti. Le lyrics (per un terzo composte da Bilinda Butcher, per il resto frutto della penna di Shields) sono pretestuali. Non si riescono nemmeno a capire, talmente sono fantasmatiche le voci. Neppure i fan più maniaci di www.mybloodyvalentine.net le riescono a comprendere. Anche perché è uno sforzo vano. I My Bloody interpretano al meglio il mondo rock (che non è poesia) anche in questo. A un anglofono o a una persona che non parli inglese, questa musica arri48


va sostanzialmente uguale. Ciò che entrambi si ricordano dopo l’ascolto è l’effetto di pienezza di senso. Di certo anche elementi puntuali, come quella chitarra ancestrale, il verso dell’animale con cui aprivamo l’articolo, che appare anche in Touched. È un concetto difficile da spiegare, ma ci proveremo. Nella sostanza delle cose ci sono personaggi, temi, spazi, tempi. Da questi si possono astrarre relazioni pure, ed è quella dimensione densa da cui si dipana la significazione, il modo in cui riconosciamo e chiamiamo le cose. ‘E’ difficile dire qualcosa di sensato sul senso’, diceva qualcuno. È proprio questa sensazione quella che coglie chi deve scrivere qualcosa di sensato su un Loveless che è in sé un macro-mondo completo di rappresentazione delle facoltà che la musica ha dalla sua. Tornando all’opposizione tra massimalisti e non, ci sembra di ravvedere un paragone con l’oggi (o forse con l’immediato ieri). Quel massimalismo dei My Bloody Valentine si oppone all’indefinizione di una scelta. I MBV hanno avevano? - la direzione, l’intenzione ben chiara in mente. E quella direzione è la chiave della loro ricerca massimallista, implementata con precipitati raffinatissimi. Agli antipodi delle non-scelte (senza giudizio di valore) delle hauntologie odierne, delle ricapitolazioni dei suoni che furono, purché sfumati, indecisi. C’è dietro una massima con cui vorremmo chiudere. Come nell’atto linguistico (il sindaco che dice ‘vi dichiaro marito e moglie’ trasforma lo status dei due fidanzati che ha davanti), l’atto musicale dei My Bloody Valentine trasforma l’ascoltatore. È utopico, in questo, e quindi essenzialmente rock. Legato a una visione della musica che da un po’ non frequentiamo più, detto sempre come constatazione, senza stabilire un meglio e un peggio. La domanda è: saranno i MBV prossimi venturi dei driver per il ritorno di questo approccio? Sulla dilatazione dei tempi davvero la storia insegna che non ci possiamo lasciare andare a previsioni, ma tutto concorre a far sembrare che lo scopriremo presto. E intanto ci lasciamo con Soon, come loro ci lasciarono tre anni fa, il 30 maggio 2009, nell’Auditori del Forum di Barcellona, all’interno del Primavera Sound Festival.

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Recensioni

— cd&lp

giugno

Alberto Boccardi - Alberto Boccardi (Fratto9 Under The Sky, Maggio 2012) Genere: elettro-acustica

Alessandro Fiori - Questo dolce museo (Urtovox, Maggio 2012) Genere: canzone d’autore

Dispersività ridotta al minimo e tentativo di esondare dagli ormai canonici confini di genere fanno di questo omonimo esordio un lavoro capace di ritagliarsi il giusto spazio in un territorio ormai super-affollato com’è l’elettroacustica. Armato di strumentazione ordinaria (chitarra, field recordings, elettronica e via dicendo) e di un curriculum poco ordinario - ingegnere aerospaziale laureato al conservatorio, con un passato da sezione ritmica in band punk-hc e un presente da artista audiovisuale con anyBetterPlace - Boccardi si mostra a suo agio a trafficare con una ambient materica, giocata sul crinale dell’incontro/confronto tra strumentazione acustica e analogica e permeata da una idea di ambiente come fonte sonora che, seppur non originale (come potrebbe esserlo, d’altronde?) risulta perfettamente calibrata. I paesaggi sonori (ri)creati da Boccardi sono perciò tracce minime, flebili nella loro apparente incorporeità, nella fluttuabilità quasi eterea della sospensione del vuoto più che della presenza del pieno. Ne è perfetto esempio Unexpected Places, We Saw, un etereo paesaggio sonoro montante tra increspature di suono, folate di white noise e scariche elettrostatiche tendenti all’ipnosi. Ad impreziosire la proposta del milanese, poi, l’inserimento di elementi alieni alle lande sonore trafficate, come la voce di Cinzia Delorenzi che se in Desolate Red Fingers si adagia su modalità quasi da trip-hop bristoliano, in You Told Me That You Were Lying tra bassi cavernosi e interferenze noisy si presta col suo declamare sussurrato a cesellare un piccolo capolavoro. Insieme all’Attilio Novellino di Through Glass e in scia ai maestri (da Gianluca Becuzzi a Fabio Orsi), uno degli sperimentatori emergenti e più preparati. Ovviamente, un nome da tenere d’occhio per il futuro. (7.1/10)

Oltre ad essere la prima testimonianza discografica di Alessandro Fiori dopo l’ottimo esordio Attento a me stesso e dopo la separazione dai Mariposa avvenuta a fine 2011, l’Ep Questo dolce museo è un’opera dalla duplice valenza: raccolta di canzoni capace di consolidare lo stile ormai riconoscibile del cantautore toscano da un lato, spazio libero su cui postare materiale fuori sincrono rispetto al passato - in qualche caso veri e propri abbozzi di brani -dall’altro. In altre parole, se Il vento riconferma la vena surreale di Fiori e La vigna ne ribadisce la bravura nel giocare con la nostalgia e i ricordi personali, L’Airone è un minuto e trentotto di saliscendi piuttosto ordinari su un beat monocorde, E quando tutte le stelle è una porzione incompleta di un valzer improvvisato, Io amo Gesù è uno spoken word da due-tre accordi sul ritmo di una grancassa. Quanto c’entri tutto questo con il disco in uscita a settembre (fatta eccezione per il singolo Il vento di cui si è già parlato) è difficile dirlo e ipotizzare svolte stilistiche nette da materiale come quello raccolto in Questo dolce museo sarebbe quantomeno azzardato. Ci limitiamo quindi a prendere atto di un’operazione che pare più l’occasione per qualche probabile data live estiva, che una parentesi sostanziale della storia musicale di Fiori. (6.4/10)

Stefano Pifferi

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Fabrizio Zampighi

Ariel Pink/R. Stevie Moore - Ku Klux Glam (Autoprodotto, Febbraio 2012) Genere: lo-fi Un mondo fatto di frammenti. Il lo-fi è un principio di raccolta, oltre che di produzione. Sembra che Ariel Pink e R. Stevie Moore ci vogliano raccontare questo, nel mastodontico (per numero di tracce: sessantuno, ascoltabili qui) output della loro collaborazione. Ku Klux Glam contiene, oltre che il riferimento abbacinante e difficilmente comprensibile che salta all’occhio, una parola chiave molto importante: il glam. Non solo perché lo stile che inseguono i due si avvicina a quel mondo di chitarre e Rocky-Horror (No Zipper); se così dovessimo condurre la


Amor Fou - Cento giorni da oggi (Universal, Maggio 2012) Genere: electro, pop Per una volta ci concederemo di non essere nemmeno un po’ scolastici ma di adoperare l’arma della critica per raccontare un viaggio che parte da un cantautorato italiano tra i più brillanti degli ultimi anni per finire, a oggi, tra le braccia di quella che chiamano cultura hipster. Alessandro Raina conduce i suoi Amor fou in un terreno nuovo in Italia, quello dell’autore che non vuole fare il cantautore, che non si concede più al recupero dei gioielli dimenticati della composizione di una volta per farsi formalmente esterofilo ritagliando semmai dalla storia musicale italiana solo le gemme dell’avanguardia che fu. Verrebbe da dire che qualcuno doveva farlo, che qualcuno prima o poi avrebbe dovuto mettersi nel cervello di questi giovani ventiduenni con il tumblr e le foto analogiche a basso contrasto per raccontare come si vede il mondo da quella prospettiva opaca più che antica. Se I Cani hanno dipinto quadretti a pennellate velocissime e non scevre dal giudizio di chi, in fondo, di un certo mondo fa davvero parte, Cento giorni da oggi significa farsi investire da un universo estetico e culturale che oggi, soprattutto, vuol dire giovinezza con tutto ciò che ne consegue. Un lavoro controverso e che fa discutere soprattutto con sé stessi, questo terzo album della band milanese, un disco che diremmo di pop elettronico che si divide tra l’afflato di Battiato e quello degli m83 trascinando l’ascoltatore in un regno fintamente fatato nel quale la parola è suono e il suono è un colorato urlo addolorato e liberatorio. E’ scomposto, politicamente scorretto come sola sa essere la moda che accetta sé stessa, para-cool al primo ascolto, violento al secondo e adatto per un lungo viaggio esotico al terzo. E’ menefreghista, soprattutto, per una volta. Funziona? Da morire perché è sporco nella parola, giovanilista nel citazionismo e allude sovente a un erotismo inesperto, fatto di volontà più che di azioni, sognato più che reale. Il suono varca i confini nazionali, la produzione è sapiente (mamma Universal, qua, si sente) e se all’inizio ti dici che è una ruffianata bella e buona poi non ti interessa più dare un nome a tutto questo. Abbiamo a che fare con un esperimento che non sempre riesce e se pezzi come Gli zombie nel video di Thriller, I 400 colpi, Alì, Una vita violenta e la battiatesca Goodbye Lenin, sono potenziali hit da secondo ascolto, pezzi come I volantini di Scientology e Le guerre umanitarie rimangono un po’ in sordina. Resta il fatto che un lavoro come questo difficilmente potrà essere il primo di una serie e ammettiamo che confortano alcuni momenti in cui sembra che Raina si riappacifichi col suo passato italian retrò: ad esempio in quel “ti voglio cullare cullare” a la Nico Fidenco o in un’insospettabile citazione di Amedeo Minghi che non vi sveliamo per non rovinarvi l’ironia. La scrittura, a ben guardare, è quella di chi veste panni nuovi ma indossa lo stesso intimo e forse anche il medesimo e comodo pigiama. Non escludiamo che dismesse le gif e i blog e i video hype su Wired si faccia un passo avanti guardando ancora indietro. (7/10) Giulia Cavaliere

nostra analisi, perderemmo una buona parte della produzione della sporca sessantina di brani. Poniamo l’accento semmai su un driver diverso di aggregazione della molteplicità di tratti messi sul tavolo da Ariel e dal suo venerato R. Stevie (maestro da sempre riconosciuto da Pink, come uno dei padri della lo-finess). Ossia il motore estetizzante che conduce i due a comporre e a tenere buona la prima, sia che essa sia uno scherzo psichedelico di chitarra e basso (I Love To Meet People, I Hate To Know Them) che un più classico omaggio ai veri padri dell’estetica lo-, i Residents ovviamente

(Cherrybaby Come Out 2night). È la tradizione che orienta un mood quanto mai offuscato epperò sempre sopra le righe, come i vestiti da donna con pailettes di Ariel, dress code applicato ai brani, che sono segmenti tagliati con l’accetta perché costruiscano pezzi di un mondo, coerente come mai, dove niente è centrale se non il principio di tenuta del tutto. Un mondo che ricalca solo apparentemente il glo (di cui Ariel si appropriava già in Before Today), ma in realtà abbraccia proprio coloro che, da Beefheart ai Fiery Furnaces (Fadermasturbater), fanno in modo che i propri 51


dischi siano ‘abitati’, più che fatti di un numero x e una successione y di canzoni. Il risultato va dal puro spasso (Jacuzzi Spa) al riempitivo, va da sé. Ma niente ha gerarchia. (7/10) Gaspare Caliri

Atterraggio alieno - Il disgelo (Suburban Sky, Marzo 2012) Genere: cantautorato Dopo La piena, l’esordio del 2009 uscito per l’etichetta I dischi della lavatrice, il cantautore fiorentino Francesco Falorni in arte Atterraggio alieno torna a tre anni di distanza con il sophomore Il disgelo, questa volta per Suburban Sky Records.Oltre al cambio di label, è soprattutto il titolo a evocare le metamorfosi in corso nell’universo di Atterraggio Alieno. Il disgelo si presenta infatti tenue come il cambio delle stagioni e discreto come il distillarsi della neve suggerito dalla title track: attraverso le dieci tracce dell’album, Falormi tratteggia un mondo che di alieno ha poco o nulla, ma le cui atmosfere sognanti riescono a trasportare l’ascoltatore tra le pieghe di un cantautorato semplice ma di buon gusto. Per intenderci: la scuola di provenienza è quella ormai ben nota di Dente e Brunori SAS, con canzoni sempre sul filo del racconto di una vita, in cui variano i colori e le tonalità ma poco o niente i personaggi. Come in Saremo ricchi amore, brano di apertura dell’album, in cui l’apparente nonsense del testo prende vita attraverso l’esile arpeggio della chitarra acustica, arricchita in più dal violino.È così che si prosegue con Nero petrolio, il cui banjo leggero stuzzica sì ancora la riflessione propria del songwriting, ma sempre con fare sbarazzino e mai sopra le righe, o ancora in Cervello lo-fi, dove si viene proiettati nei territori di un folk pop morbido ed elusivo.Momenti di quotidianità congelati in brevi istantanee acustiche, provenienti dalle ombre di piccoli spazi domestici. È il caso di Alaska e Vorkuta, brani in cui il viaggio suggerito dai titoli è mentale più che terreno e nei quali il protagonista è ancora l’arpeggio del banjo.È questo il maggior pregio de Il disgelo, un disco che pur non facendo dell’originalità la sua carta vincente, riesce comunque a entrare in sintonia con l’ascoltatore a piccoli passi, delicatamente e senza sbavature. (6.8/10) Giulia Antelli

Badbadnotgood - BBNG2 (Self Released, Aprile 2012) Genere: Jazz-rock I canadesi Badbadnotgood sono un trio di prolifici pro52

ducer elettronici di scuola jazz e hip-hop con nel sangue un’attitudine DIY e un’età media che non supera i 21 anni. Gli album finora pubblicati sono rigorosamente autoprodotti, registrati in take lampo e distribuiti in free download in formato mixtape mentre l’attenzione mediatica su di loro, attraverso virali Youtube Sessions, live show con indosso maschere da maiale e collaborazioni con calibri quali Tyler The Creator, si è andata gonfiando fino ad oggi, culminando nell’investitura come Resident Jazz Group al Coachella 2012. Dello scorso anno l’esordio, BBNG, un lavoro di perlopiù cover (da J Dilla ai Joy Division, passando per le musiche di The Legend Of Zelda) ricche di inventiva e qualche scommessa aperta sulle reali capacità compositive, mentre il sophomore, BBNG2, che partiziona equamente la tracklist con una rilevante selezione di brani inediti, è materiale fresco che arriva a ridosso di una buona ondata d’hype. Continuando a tributare con rispetto gli ascolti madre della band, Alex Sowinski, Matt Tavares e Chester Hansen si concentrano maggiormente sul suono: oculano gli interventi sopra-traccia e migliorano gli intrecci matematico-jazzistici nelle proprie composizioni. Nel rifacimento di Earl di Earl Sweatshirt il basso lavora distorto e modulato a supporto del superbo featuring al sax di Leland Whitty, in quello synth-heavy di Flashing Lights di Kanye West è l’addizione di un violino a portare il cambio di passo. Per gli originals non è soltanto dilatazione del range sonoro ma un tentativo di sintesi tra le cose della Chicago dei Tortoise nei 90s (Vices), il trip hop (UWM per contrabbasso angolato, organo Hammond e vibrafono) fino a tracce come CHSTR che prendono a prestito il 2-step di Burial per condurlo in un ottovolante ritmico via indietronica e basso fusion à la Weather Report. Con un approccio muscolare ma disciplinato, pensato in maniera “elettronica” - ovvero avendo in mente layer su cui lavorare in addizione o sottrazione, complici l’ottima produzione e l’accessibilità complessiva dell’opera -, BBNG2 è un must listen anche per gli estranei ai riferimenti musicali che contiene. Non solo: è la consacrazione di una maniera post-laptop d’intendere un jazz-trio. (7.3/10) Massimo Rancati

Beeside - Mood Spirals (Seahorse Recordings, Maggio 2012) Genere: Indie folk Dietro al nome d’arte di Beeside si cela Federico Pazzona, sassarese, classe 1980. Dopo aver sperimentato progetti musicali diversissimi fra loro - punk, hardcore


Bonnie “Prince” Billy/Trembling Bells - The Marble Downs (Honest Jon’s Records, Aprile 2012) Genere: folkpop Alex Neilson è una vecchia conoscenza del folk contemporaneo. Il suo drumming è stato prestato a vario titolo a mezza scena scozzese e inglese. La sua creatura più recente sono queste campane palpitanti o frementi, fate voi, con le quali ha messo in saccoccia tre dischi dal 2009 al 2011: uno all’anno come si conviene a uno che ha tanto, a volte fin troppo da dire. Marchio di fabbrica di tutta la produzione, lo sguardo puntato tanto sul folk revival degli anni Sessanta/Settanta (leggasi Fairport Convention) quanto sulle acidazioni del folk stesso che hanno sempre attraversato la tradizione UK (Comus, Pentangle). Anche se il pezzo forte è l’incrocio di voci maschile/femminile tra Neilson stesso e Lavinia Blackwell: un tuffo agli Steeleye Span o a Richard e Lisa Thompson. Piani alti, insomma. Complice l’aver pestato le pelli per Will Oldham in qualche occasione, una stima reciproca e un comune amore per il folk e il country, Neilson e Bonnie Prince Billy co-firmano un singolo nel 2010 (New Year’s Eve’s the Loneliest Night of the Year) che è preludio di questo lavoro corale che esce per l’etichetta di Damon Albarn. A dominare la scaletta è lo stile tipico dei Trembling Bells, ma Oldham presta la sua voce profonda, regalando pathos ulteriore a una proposta musicale che probabilmente ha già raggiunto la piena maturità: il recupero delle fanfare tradizionali, qualche concessione al melò quasi musical (Excursions Into Assonance), temi forti come il suicidio (I Made A Date (With An Open Vein)), il folk-rock Sixties (Every Time I Close My Eyes (We’re Back There)), echi medievali (Love Is A Velvet Noose), tocchi di epica forse un po’ pacchiana ma funzionale al mix (Riding). Se conoscevate i Trembling Bells prima di questo disco, prendete a occhi chiusi: c’è da godere. Chissà che la doppia sigla alla firma dell’album non serva a estendere quello che è già un culto a tutti gli effetti. (7.5/10) Marco Boscolo

e post-rock, fino all’esperienza nel Coro Polifonico Turritano -, il giovane polistrumentista esordisce sulla lunga distanza con Mood Spirals, album composto da dodici brani collocabili più o meno distintamente sotto l’onda del new folk. Spirali d’umore, come suggerisce lo stesso titolo del disco, che corrono lungo le corde della chitarra acustica svelando una capacità tecnica e compositiva - ma soprattutto cantautorale - aliena dall’attuale geografia indie di casa nostra: a partire dalla open track Moochin’ About, Pazzona getta le basi di un percorso che affonda le radici direttamente nelle sconfinate campagne inglesi, in cui è il territorio, di pari passo con la musica, a evocare e svelare.Siamo infatti dalle parti di un folk ben costruito, tradizionale seppur lontano dai riferimenti americani di prima e ultima generazione (da The Band e CSN & Y passando per Grizzly Bear e Fleet Foxes). Il mentore più prossimo è il Nick Drake di Pink Moon, in particolar modo in brani (Keep Your Mouth Shut, Inside Your Room e la title track) in cui il fingerpicking contribuisce a rendere le architetture musicali maggiormente protagoniste rispetto alle liriche. È il caso delle delicate risonanze di Migraine - uno dei pezzi più riusciti del lotto -, un pugno

di armonie che ben esemplifica la direzione dell’album con le sue atmosfere di arcana dolcezza.Folk sì, ma spesso venato da un certo gusto per il pop più sofisticato a là Morrissey e dunque sempre debitore verso la Terra d’Albione, come in una Fifteen Children o una Touch The Ground da cui emerge la vocalità pacata ed essenziale del cantautore. Il resto dell’album prosegue ancora nei territori più minimali del folk, richiamando un songwriting privato ed asciutto che suggerisce esperienze d’ascolto altrettanto solitarie e indisturbate. Nel complesso, Mood Spirals è un album umbratile, intimo e che conquista l’orecchio a poco a poco attraverso il gioco di echi e armonie di cui è intessuto. Un buonissimo esordio per Beeside, in attesa di vedere quel che accadrà in futuro. (7.2/10) Giulia Antelli

Black Eyed Dog - Too Many Late Nights (800A, Aprile 2012) Genere: folk blues Questo disco ci riserva una sorpresa oserei dire ragionevole. Fabio Parrinello spiazza quanti lo avevano rubricato 53


tra i (molti, forse troppi) succedanei di Nick Drake e col terzo album imprime una svolta decisa alla cifra stilistica, incaricandosi di’irrequietezze blues-rock perturbate wave con escursioni - ebbene sì - quasi industrial. A dire il vero, qualche sintomo potevamo percepirlo già nel precedente Rhaianuledada, ma si limitavano ad increspature sintetiche, ugge ed ebbrezze jazzy, oscillazioni tutto sommato standard in una gamma espressiva che rimaneva sostanzialmente folk, al punto da sfiorare una certa monotonia. Liberi quindi d’interpretare questo Too Many Late Nights come il guizzo per scampare al probabile cul de sac (ecco la ragionevolezza), impresa per la quale Parrinello deve aver sentito il bisogno di un approccio da band, tanto da stringere sodalizio col batterista Alessandro Falzone e con la chitarrista-pianista nonché vocalist Anna Balestrieri. E bene ha fatto, il varesino naturalizzato palermitano dopo un giro del mondo tra Los Angeles e Londra, perché le dieci tracce (più una) in questione sono un carosello tutto sommato convincente, dove la forma crepita e la sostanza è sanguigna, dal country blues in acido di Dixie Gipsy, Babe (i Gomez posseduti da Nick Cave) al boogie gospel di War Child (Mark Bolan strattonato Lanegan), passando dalle insidie dark di It Turns You On (fervore Depeche Mode imbastardito Virgin Prunes) e dal caracollare languido di Blowin’ Horns In Heaven (mollezza da Lou Reed androide). Se episodi come Land’s End Sanctuary suggeriscono come la vecchia calligrafia sia tutt’altro che abiurata, covando ugge semiacustiche con ebbra leggerezza quasi Joseph Arthur, l’acidità da patibolo di Heather e l’iniziale When I Was Married To You sono il profilo estremo del nuovo wild side, deliri urticanti con tanto di cori da un’altra dimensione/epoca (sorta di allucinazioni fantasmatiche da cuginastro nevrastenico di Moby). Rispetto ad un Samuel Katarro (futuro King Of The Opera), l’ossessione per la musica del diavolo è filtrata da un raziocinio che poco concede agli effetti collaterali psych, un intento ingegneristicamente canzonettistico che finisce per pagare pegno ad una certa faciloneria, vedi la ballata Crazy To The Bone (quasi un Tom Waits stemperato Bryan Adams) e quella Paper Cuts, Light Green coi cascami Alex Chilton in un contorno didascalico di slide e piano. Sono limiti che non pesano troppo in una logica sostanzialmente pop-rock, e questo in fondo è un buon disco di pop-rock alternativo, che riposiziona Black Eyed Dog tra le entità da cui puoi attenderti un bel po’ di cose, non tutte consuete, né prevedibili. Bene così. (6.9/10) Stefano Solventi

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Bobby Conn - Macaroni (Fire Records, Maggio 2012) Genere: Avant pop Prima che Ariel Pink arrivasse a mettere a soqquadro gli archivi musicali, Bobby Conn si divertiva già a mescolare 70s alti e bassi con furibondo spirito citazionista ed estro zappiano. Macaroni ce lo riconsegna tirato a lucido, dopo un’assenza dalle scene durata ben sei anni. I Burglars, la band che lo accompagna in quest’ultimo lavoro, è un ensemble piuttosto affiatato di musicisti avant-garde di Chicago, tutti col loro pedigree punk e new wave ben chiaro sin dalle prime note dell’abum. Partendo sempre dal presupposto che con lo stesso numero di spunti ritmici e melodici con cui Conn costruisce un album, altri sarebbero a posto per l’intera carriera, sul nuovo lavoro si scorge una maggiore linearità che fa di un brano comela titletrack (spigoli wave, furbizia glam, chorus easy listening) o Face Blind (funky sudato, percussioni mutant disco e falsetto a profusione) quanto di più accessibile prodotto dal folletto dell’Illinois. Chiariamoci, il nostro sa sempre stupire con una certa nonchalance e non abbandona neppure la tradizionale vena polemica (l’avidità e l’iniquità nell’America contemporanea restano i suoi temi prediletti). Tuttavia i repentini cambi d’atmosfera, gli incroci blasfemi fra generi apparentemente inconciliabili, lasciano spazio ad una kitcheria di prammatica e ad una vena pop decisamente più marcata (è il caso dell’electro rock in Devo style di Underground Vktm), che fanno di Macaroni un album meno dispersivo e funambolico rispetto al recente passato. Che sia arrivato il tempo dell’agognata maturità? (6.5/10) Diego Ballani

Cesare Cremonini - La teoria dei colori (Universal, Maggio 2012) Genere: pop Due cose rendono Cesare Cremonini un autore importante all’interno del panorama musicale italiano: una rara naturalezza nella scrittura pop e un’attenzione sempre crescente, con risultati in continuo miglioramento, nei confronti dei propri testi. La teoria dei colori, quarto album in studio che arriva a quattro anni di distanza da Il primo bacio sulla Luna, conferma il talento e aggiunge alla consueta levità scanzonatamente pop una certa dose di dolore importante. Ci voleva, verrebbe da dire, perché sappiamo tutti che la pena d’amore più sembra far male alla vita e più fa bene alle canzoni, e quanto sia benedetto per l’ispirazione il maledetto dolorino al


Brackles - Rinse Presents: Brackles (Rinse, Maggio 2012) Genere: UK Funky Non siamo ancora al giro di boa e la Rinse ha già pronto l’uno-due dance più atteso dell’annata in corso. Mentre il già annunciato secondo album di Roska è prossimo all’uscita, l’etichetta di culto della UK dance fa le presentazioni di Brackles a chi non lo conoscesse ancora, vale a dire tutti quelli a cui era passato inosservato quel Songs For Endless Cities di casa !K7 che era stato uno dei mixtape più freschi usciti nel valzer apertosi dopo il declino nel 2010 della moda old school dubstep: allora si era in piena accelerazione dance-step e il ruolo di quella compilation era stato fotografare i sempre più convinti flirt tra il continuum bass&dubstep e le nuove vivacità UK funky, per il quale il producer londinese si dichiara perdutamente innamorato. Oggi l’album vuol essere il curatissimo stato dell’arte funky, realizzato con l’autorevolezza di chi ne conosce ogni risvolto. Da un lato, dunque, largo spazio alla grinta clubbing che ha rivitalizzato gli ambienti londinesi del dopo-UK garage: è tutto un fiorire di soca beat impertinenti, non solo quelli di genere di Earphone Memories, ma anche i breakbeat sulle vampate acid chiccose di Squarehead e qualcosa di più vicino al 2step in Lighthouse, e sopra una collezione invidiabile di linee vocali femminili, tipo Terri Walker che in DPMO graffia sul fronte pop/r’n’b o I Can’t Wait che risente anche di una certa eredità ‘90 eurodance. D’altro canto però, ed è questo l’aspetto più interessante, il buon Brackles sa anche astrarsi dalla dimensione clubbing e fa col funky quello che Addison Groove ha fatto col footwork e Distal con la UK bass, ossia ragionare per sottrazioni e mutazioni genetiche per offrire un’immagine dalle differenti ambizioni. Spettacolari allora X Ray Specs, che rallenta i bpm e gorgoglia supponente su un rompicapo bleep’n’bass pur mantenendo il suo incedere scattante, la Never Coming Down con Lily McKenzie dei Funkystepz, l’understatement languido con la patente da top-hit r’n’b, o ancora Too Much, divas e sincopi nell’inchino alla bass music. Gran parte del merito sta anche nel carattere delle collaborazioni. Davanti a una Cherry V così versatile e seducente Brackles fa un passo indietro, butta dentro una bassline dicotomica da urlo e lascia che Chasing Crazy vada avanti da sé (un po’ il lavoro svolto da Zinc e Geeneus su Katy B), su Meleka invece evita i virtuosismi, chiama in causa tutto il mestiere di cui è capace e fa semplicemente la sua hit pop, Go Ahead. Perfetta. Mille sfaccettature per un unica verità: questo è un disco-manifesto, sia del funky, di cui espone tutte le potenzialità e le possibilità espressive future, che del sound Rinse in toto, sempre geniale e irriverente, capace di ogni sorta di incrocio di stili nella miglior testimonianza delle euforie compositive londinesi. Per chi l’anno scorso ha amato SBTRKT, è manna dal cielo. Per Roska, invece, un pieno di ansia da prestazione. (7.4/10) Carlo Affatigato

centro dello stomaco, gli artisti, molto spesso lo sanno. Cremonini mette a punto il disco migliore, quello maggiormente compiuto e completo, laddove in precedenza erano più i singoli brani a svettare rispetto alla compagine album. La teoria dei colori, titolo che arriva diretto da un saggio del romantico Goethe, è un disco che racconta l’amore e ha il corpus di un concept senza averne l’omogeneità formale. Undici pezzi nei quali brit pop come sempre dai Beatles in giù - elettronica e classicità italiana offrono all’ascoltatore la possibilità delle diversità. Anche i testi raccontano l’amore affrontato dalle prospettive più disparate: la storia di lei e quella di lui, i perché di lei e i perché di lui e, soprattutto, il discorso meta-amoroso, quello sull’amore che spinge e rallenta,

che si perde e che ritorna perché “si perde sempre qualcosa quando ci si innamora” e no, non è detto sia un male. Affonda bene, Cremonini, con arrangiamenti importanti, i suoi consueti fiati e barocchismi che da Maggese in poi hanno preso piede sempre di più. Permane il gusto mai dimenticato per la ballata struggente e cheek-to-cheek come Amor mio e Tante belle cose, ma a dominare è il gioco su cui Cesare ha costruito una carriera: quello che, per intenderci, si racconta ne Il comico (sai che risate) “e l’occhio ride ma ti piange il cuore” che è un po’ come dire che il suono ride ma il testo si strugge. Grandi singoli in questo disco, a partire dalla dichiarazione Una come te fino alla più riflessiva I love you , passando per il crescendo melodico perfetto di Ecco l’amore che cos’è. Ancora al55


cune imperfezioni retoriche e quel pesante afflato rock che lo affligge per de-formazione, ma sia chiaro, il Italia, il re del bel pop d’autore è sicuramente lui. (7.2/10) Giulia Cavaliere

Claudia Is On The Sofa - Love Hunters (Gibilterra, Maggio 2012) Genere: pop-rock Voce e chitarra uguale folk. Questa è l’equazione che dovrebbe affiorare nella mente dell’ascoltatore di fronte alle prime note di Love Hunters, esordio sulla lunga distanza della bresciana Claudia Ferretti, in arte Claudia Is On The Sofa.Sono passati tre anni da Sweet Daisy, buon EP che aveva lasciato presagire affabilità country a là Cat Power unite a certe ballad in stile Norah Jones. Questo Love Hunters, però, si rivela essere soprattutto un album poprock, nonostante la presenza più che consistente della chitarra acustica. È per questo che il nome forse più vicino alla cantautrice lombarda sembra essere quello di Leslie Feist: non solo per la somiglianza vocale percorsa dalla stessa languida dolcezza, ma anche per le similitudini cantautorali, l’una e l’altra unite da un certo gusto per il pop più raffinato, spesso declinato in salsa rock. È il caso di Same Stories, secondo brano di Love Hunters, che ne disegna tutto il filo conduttore: leggere ballate in equilibrio tra armonia e distorsione, a volte costruite su arrangiamenti solidi e corposi (Track, Shadow Man), altre imperniate sulla melodia acustica, come nella title track o in Boy, singolo di lancio. C’è spazio anche per il country, nell’incedere polveroso di Wild Mountain e If Jesus, anche se, dicevamo, la sostanza dell’album non cambia: pop-rock in chiave folk, dove il protagonista è per espressa intenzione un songwriting in cui ogni singolo episodio racconta una storia. Nel complesso, Love Hunters è un disco promettente e curato nei minimi dettagli. Magari pecca forse per un’eccessiva linearità delle composizioni e per la poca originalità nelle liriche: atmosfere sognanti e sempre malinconiche, paesaggi brumosi a fare da sfondo, niente che non si sia già visto o sentito, anche se comunque gradevole. (6.5/10) Giulia Antelli

Cold Specks - I Predict A Graceful Expulsion (Mute, Giugno 2012) Genere: soul-folk Dietro al moniker Cold Specks si nasconde Al Spx, giovane giramondo - da Toronto si è spostata a Londra - che dopo un paio di hide-projects poco fortunati (Basket of Figs e The Hotel Ghost) si è ritrovata in breve tempo 56

coccolata dalla Mute e da mister Rob Ellis. Anticipato da Holland e Blank Maps, I Predict a Graceful Expulsion è l’opera prima a nome Cold Specks e già nel titolo sono racchiusi tre elementi caratterizzanti dell’interpretazione vocale di Al: sicurezza dei propri mezzi (I Predict), eleganza e garbatezza (Graceful) e una certa malinconia di fondo, quella di chi prevede un’uscita di scena (Expulsion). Pur seguendo le scie post-moderne degli ultimi tempi, l’album riesce a catturare l’attenzione in modi inaspettati. Merito di Ellis, recentemente con i 2:54, che qui produce una tracklist lontana dai territori dark eighties preferiti eppure riconoscibile per sensibilità e apparente semplicità.In I Predict a Graceful Expulsion ci sono il vecchio folk-soul anni ‘70 (Holland), la padronanza southern tra influenze spiritual (Send Your Youth) e il gospel, il lento crescendo di Steady, gli arpeggi acustici a sorreggere una vigorosa vocalità, Miss 21-21 milioni di copie deturpata degli hook radiofonici (Winter Solstice, When The City Lights Dim) e veloci rifugi in territori vicini a quello che Rob Ellis ha sempre amato (Hector). Non diventerà una nuova Adele - e lei, per sua stessa ammissione, sembra la prima a non volerlo - e non siamo di certo di fronte alla nascita di un nuovo genere - il fantomatico doom soul - ma nel 2012 del vintage soul Cold Specks può essere vista come la risposta femminile a Michael Kiwanuka, con forse qualche carta in più da giocare. Radio Capital prenda nota. (7/10) Riccardo Zagaglia

Corrado Meraviglia - Ho tappato tutti i buchi con la carta assorbente (La Fame Dischi, Aprile 2012) Genere: per tutte le stagioni Con un’impronta 90s ancora una volta marcatissima, come da dichiarata formazione, ecco un nuovo EP di Corrado Meraviglia dopo l’album Parlo sempre con le persone sbagliate uscito lo scorso gennaio. Ho tappato tutti i buchi con la carta assorbente recupera i Verdena e certe strade contemporanee à la Vasco Brondi, pur dotandosi di un afflato poetico differente che trova in un post-rock al ralenti il suo perfetto nido. Ad arricchire il tutto, strizzate d’occhio a un synth pop al confine col dub che ricorda gli Almamegretta che furono in un fortunato incontro con il Battiato dei Settanta. La parola è una nenia, un discorso con poche pause e a tratti delirante, ma capace di rendere lo straniamento grazie anche a una vocalità non esattamente pop. Una prova musicalmente curiosa ma povera per quanto riguarda i testi e la canzone finita.


Crocodiles - Endless Flowers (Souterrain Transmissions, Giugno 2012) Genere: noise-pop Sparisce il nero e l’emaciato sound dei Crocodiles degli esordi si trasforma in una spirale colorata e cangiante. La coltre sonica post-Jesus & Mary Chain dell’esordio Summer Hate, già smorzata in Sleep Forever, si perde definitivamente in un contenitore di gemme ad alto potenziale melodico. Musica da domenica mattina di primavera, tra coretti yèyè e chitarre pacificate che nulla ormai mantengono - se non in casi sporadici - del tributo all’oscurità shoegaze dei primi passi. Ormai stabilizzati come quintetto - con Marco Gonzalez (basso), Anna Schulte (batteria) e Robin Eisenberg (tastiere) a sostenere i fondatori Brandon Welchez (voce, chitarra) e Charles Rowell (chitarra) - e trasferitisi in pianta stabile in Europa (Berlino, per l’esattezza), i Crocodiles sono ormai a tutti gli effetti un gruppo noise-pop primi 90s con in testa ben chiara la lezione Flaming Lips (il singolo Sunday (Psychic Conversation #9) con quegli effluvi pop-gaze è paradigmatico) e le voglie di graffittismo 50s/60s circolate negli ultimi due anni, magari osservate con l’occhio dei Ramones (No Black Clouds For Dee Dee, Electric Death Song e Bubblegum Trash cantate in uno struggente gusto cartoon). I clangori industriali nero-pece della prima metà di My Surfing Lucifer virano puntualmente in un rock’n’roll imbottito di allucinogeni e da lì per una glamourama sfattona (Welcome Trouble) che non si nega cachy tune e prese per il culo 70s con tanto di coriste soul. E così la nenia Hung Up On A Flower (chitarre sottotraccia e melodia indolente) e il post-Spacemen 3 di Bubblegum Trash - capisaldi dell’architrave evolutiva degli ex Plot To Blow Up The Eiffel Tower - veicolano uno spacey-rock che mantiene alcune ossessioni chitarristiche del passato, pur allungando puntualmente lo sguardo verso la melodia (vedi alla voce Dark Alleys, lievemente annegata in chitarre shoegaze) e, in particolar modo, il bubblegum pop tanto amato dai Lemonheads agli Strokes (la citata Bubblegum Trash, Electric Death Song, la title track). Dimenticatevi l’oscurità. Punkrockers are taking acid. (7.3/10) Edoardo Bridda

Il primo passo? Venire a patti con la metrica e lasciare che le parole si sciolgano un po’ nell’eterogeneità dei suoni. La direzione è ancora tutta da scoprire. (5.8/10) Giulia Cavaliere

David Fiuczynski - Planet Microjam (RareNoise, Maggio 2012) Genere: avant-jazz La musica di David Fiuczynski ha un che di concettuale e trasversale al tempo stesso: free jazz nell’idea generale, ma non nei dettami formali; fusion nel mood, ma indipendente da qualsivoglia concezione ritmica facilmente riconducibile al genere suddetto; tecnicamente talmente raffinata da rasentare la fluidità repentina di certo avantmetal, ma anche lontanissima, nella forma, dai clichè di settore. Una cattedra a Berkley (scrive sulla sua pagina personale dell’Università: “Vorrei che gli studenti trovassero una propria voce. Non mi importa che sia death metal, jazz o elettronica’), un passato in formazioni come Screaming

Headless Torsos e KIF, collaborazioni con artisti del calibro di Meshell Ndegeocello, John Medeski, Dennis Chambers, per un Fiuczynski che organizza il proprio suono giocando tra avanguardia e blues, etnica e prog. Planet Microjam raccoglie undici brani tra elaborazioni personali di frammenti già esistenti - l’iniziale Micro Emperor riprende Beethoven, Sun Song è costruita sulla Sun Song di Sun Ra - e composizioni autografe, sommando le derive orientaleggianti del tradizionale cinese Green Lament a momenti più ambientali e strutturati come Madoka Blues, il prog-hard mediorientale di una Horoz Fuzivikos che non sarebbe dispiaciuta ai nostri Area a momenti più in linea con un jamming fusion riconoscibile (Apprehension). Confini che si attraversano e si confondono tra violino, basso, batteria e una chitarra - quella microtonale di Fiuczynski - centro nevralgico di uno stile obliquo e virtuoso. (6.7/10) Fabrizio Zampighi

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Davide Tosches - Il lento disgelo (Contro Records, Maggio 2012) Genere: cantautorato rock Se ci affascinarono le palpitazioni minimali di Dove l’erba è alta, a due anni di distanza l’opera terza del piemontese Davide Tosches ci propone quello stesso trasporto incarnato in più robuste soluzioni elettroacustiche, cui contribuiscono i molti ospiti tra i quali il bassista Dan Solo (ex-Marlene) ed il violinista Andrea Ruggiero degli Operaja Criminale. Un bagno di concretezza verso forme se volete più consuete, sintonizzate sulla gravità della circostanza storica, che Tosches narra ponendo l’accento su una sensibilità contesa tra rapimento e sdegno, tra amarezza esistenziale e lirismo visionario. Il folk rock urticante à la Crazy Horse si stempera con fragranze d’archi e fisarmoniche (l’invettiva tesa di Patriota), si spampana di fregole jazzy (strepitoso il sax di Carlo Actis Dato nell’infervorata Dove andiamo), s’incaglia nel dolciastro caracollare postpost-rock (la title track col suo arpeggio Early Day Miners e il mesto sdilinquimento tra De Gregori e Jason Molina). E’ cantautorato che non rinuncia mai alla musicalità, anzi si aggira ad ampio spettro tra diversi fondali - non a caso Tosches è fotografo e illustratore - guadagnandone in suggestione, dal deserto resinoso di Terra (come un duetto solenne tra Umberto Palazzo e Cesare Basile) all’impressionismo bucolico della strumentale 22:47 (tromba crepuscolare tra brume Nick Drake), passando dall’onirica Ali (il trasporto incalzante di Joseph Arthur e le prospettive sospese di Filippo Gatti) all’evocativa Poco alla volta (l’angolatura sghemba Max Gazzé e l’enfasi pensosa Ivano Fossati). E’ un disco che tradisce fiducia nei propri mezzi dalla prima all’ultima nota, chiudendo con disinvoltura la triangolazione scrittura-arrangiamento-interpretazione. In ragione di ciò fieramente refrattario alla chimera del contemporaneo ad ogni costo. Chapeau. (7.3/10) Stefano Solventi

Death Grips - The Money Store (Epic records, Aprile 2012) Genere: rappunk I Death Grips sono un po’ il riot act che ti aspetti. Il rapper Stefan Burnett aka MC Ride, Zach Hill - il tritarullante pestapedali degli Hella e molto altro ancora - e il produttore Andy Morin aka Flatlander (anche regista dei videoclip). Un EP omonimo e un mixtape nel 2011 (Exmilitary; anche in versione componibile, Black Google), un paio di remix per la Björk di Biophilia, un secondo album (No Love) già annunciato e in uscita a breve. Casinisti, cacofonici, categotici, interpreti di un hip hop che più che hip hop è proprio rap al rumor bianco, ma più che rap è proprio punk, hardcore attitudine che unisce tutte le musiche stradaiole e incazzate, un po’ come se i Dälek fossero in realtà uno di quei gruppi noisey della scena alt/underground USA più incompromissoria. Piacciono ovviamente ad Alec Empire (che con i suoi Atari Teenage Riot ha canonizzato certi suoni e un certo immaginario) e piaceranno forse anche a Simon Reynolds (in qualche modo interpreti oggi di quello che facevano negli Ottanta-Novanta con l’industrial hiphop Justin Broadrick e Kevin Martin). Energici, più che energetici, sicuramente agitatissimi 58

(Get Got, Double Helix (forse il pezzo migliore), Punk Weight), acidamente cinici, parodici, anche abbastanza grezzamente, tagliati con l’accetta, pur di centrare l’obbiettivo massimalizzando il risultato (Hustle Bones, I’ve Seen Footage, Bitch Please, Hacker), i Grips basano la propria comunicatività sulla figura di Burnett, personaggio carismatico, ma francamente un po’ piatto come vocalist, con quel suo rappato/nonrappato tribalmente scandito e strozzatamente urlato, sempre uguale, sforzato appunto, ma potente davvero praticamente mai. La musica punta tutto sull’impatto di produzioni di base industrial, con qualche eco dub sporco, qualche puntata videogame, filth, ravey, il tutto in un’ottica ad un tempo lo-fi, minacciosa e cartoonesca. Numeri efficaci (le cose agitatissime di cui sopra, per esempio) ce ne sono, ma resta ingombrante la sensazione di trovarsi davanti un remake anni duemilaedieci - con idee, mezzi e comunicativa duemilaedieci - dei Rage Against the Machine. Sensazione confermata da quello che abbiamo potuto vedere del gruppo dal vivo. E in fin dei conti proprio quella live è la dimensione più giusta per un progetto del genere. (6.4/10) Gabriele Marino


Dr. John - Locked Down (Nonesuch, Aprile 2012) Genere: Country Se non vi sembra azzardato o inopportuno, direi che Malcolm John “Mac” Rebennack Jr., meglio conosciuto come Dr. John, ha trovato in Dan Auerbach il suo Rick Rubin. Nel senso che sotto la cappella produttiva del chitarrista dei Black Keys la sua ben nota calligrafia azzecca una formidabile attualizzazione, un po’ come accadde - fatti tutti i distinguo stilistici del caso - al Cash degli American Recordings. Un bozzolo di vibrazioni analogiche, groove ancestrali, ragli elettronici e cori bollenti nel quale il Nostro si agita sornione e satanasso, ogni spicciolo di nostalgia convertito in monete cool coniate col metallo nobile del blues bastardo made in New Orleans. Un intruglio cangiante nel quale indovini forme disparate, dalla trama etno robotica psicoattiva (quasi Eno-Byrne) di Ice Age ai fantasmi swing waitsiani di Big Shot, dai turgori Motown con sbuffi beatlesiani di Revolution fino al Van Morrison giovane di God’s Sure Good e Getaway, traccia quest’ultima benedetta dall’assolo di chitarra dell’anno (con buona pace del caro Jack White, al cui Blunderbuss pure Dr. John ha partecipato). Il giochino dimostra qualche limite quando sembra preoccuparsi troppo di essere conforme al proprio mito (Kingdom Of Izzness) o se la coperta dell’ispirazione si rivela un po’ corta (il para-reggae marezzato di piacioneria Tom Jones di You Lie). Al contrario, intriga al massimo quando si mette in testa d’ibridare elementi così lontani così vicini, vedi l’afro funkadelico impastato a deserto e soul di Eleggua, oppure la Band sul punto di farsi downtempo di My Children, My Angels. E’ un disco riuscito perché fa scendere Dr. John dal piedistallo impolverato della leggenda e lo fa suonare come un mistero acido e ridanciano. Una versione di sé al limite del caricaturale, se proprio vogliamo, però viva e sferzante come da qualche decade non capitava. (7/10) Stefano Solventi

Edward Sharpe & The Magnetic Zeros Here (Rough Trade, Maggio 2012) Genere: hip(pie) roots-folk Era il 2009 quando il progetto Edward Sharpe & the Magnetic Zeros dava alle stampe l’album di debutto Up From Below. Inizialmente passato in sordina, con il passare dei mesi - grazie a prestigiose apparizioni televisive al Letterman, Conan O’Brian e Kimmel, telefilm e spot pubblicitari - Up From Below riuscì a raggiungere un discreto successo, soprattutto negli USA. Principale artefice di questo exploit fu la hit Home, ov-

vero il singolo perfetto da consegnare agli hip-folkers di tutto il mondo. Una popolarità probabilmente inaspettata che ha colpito di riflesso anche il leader/santone/ Jesus Christ Superstar del collettivo, cioè quel Alex Ebert che una decina di anni fa debuttava con i dimenticati/ dimenticabili Ima Robot e che lo scorso anno tentò la carriera solista a nome Alexander. Sulla vita privata e sul personaggio Alex Ebert - presente tra l’altro nell’ultimo Flaming Lips - ci sarebbe da scrivere un libro, ma siamo qui per parlarvi della seconda prova degli Edward Sharpe & the Magnetic Zeros: Here. Here si apre con Man On Fire, brano che racchiude in quattro minuti la doppia faccia del disco, quella evocativa, messianica e intimista di Alex e quella da scampagnata danzante dell’immancabile controparte Jade Castrinos. Se in Up From Below i punti di riferimento principali erano identificabili nel movimento hippie fine anni ‘60, qui si ha l’impressione di tornare ancora più indietro nel tempo, fino alle radici di certe sonorità: atmosfere da pieno sud, da piantagioni di cotone, richiami gospel-spiritual, il vecchio country venato di soul (That’s What’s Up) e c’è spazio anche per una sorta di tributo a Bob Marley via Paolo Nutini (One Love To Another Go). La varietà di suggestioni audio-visive che l’album riesce a ricreare è inversamente proporzionale al livello della produzione - probabilmente volutamente old-style - e lo spirito nomade qui non è alla ricerca di una nuova casa (Home), preferisce invece godersi le distese assolate degli USA, non più danzando spensieratamente con il sorriso sulle labbra, ma contemplando l’orizzonte con l’anima e con una convincente maturità. (6.9/10) Riccardo Zagaglia

Eildentroeilfuorieilbox84 - La fine del potere (Trovarobato, Aprile 2012) Genere: art wave A tre anni dal precedente Ananab e con la solita ragione sociale poco adatta alle colonne di excell troppo strette, tornano Eildentroeilfuorieilbox84. Accasatosi presso la bolognese Trovarobato, il trio romano continua la sua perlustrazione singhiozzante nei territori di un progavant-rock difficilmente etichettabile e decisamente personale. Rispetto al disco precedente, le geometrie si fanno più quadrate e in qualche maniera fruibili, lontane dall’impronta psych-jazz del passato e tese a valorizzare - nei limiti della frantumazione stilistica comunque alla base della proposta - l’impianto testuale. Tanto più che questa volta il disco è una sorta di concept sul bene comune, con tanto di capitoli tematici pieni di consigli pratici e riflessioni spontanee che vanno dalla Proprietà 59


Deniz Kurtel/The Marcy All-Stars - The Way We Live (Wolf + Lamb Music, Luglio 2012) Genere: Deep Induction Al diavolo inseguire i trend. Mentre chiunque oggi non vedrebbe l’ora di mettere le mani sulla pentola d’oro della female deep (sempre più battuta, vedi In Da Club #10 e #11), Deniz Kurtel, la stessa che quell’onda ha contribuito a definirla, ritorna al primo amore Wolf + Lamb e nel sophomore volta le spalle al clubbing puro spiazzando tutti. The Way We Live esce a nome Deniz Kurtel & The Marcy All-Stars, non è (solo) il seguito estetico di Music Watching Over Me e non è (solo) un album deep house, ma uno studio di alta ingegneria che coinvolge tutta la crew Wolf + Lamb: Pillow Talk, Tanner Ross, Kenny Glasgow degli Art Department, Soul Clap, Voices Of Black e il boss Gadi Mizrahi, presumibilmente il vero burattinaio della svolta. Il cambio di mood è vistoso: il club è tenuto a debita distanza e il baricentro si sposta sul piano delle suggestioni, disegnando un trip denso e serioso fatto di stimoli prevalentemente mentali. A ben vedere gli umori deep ci son tutti, il cantato soul di spessore di You Know It’s True, la passione bassline di Love Triangle, le fascinazioni acid di Thunder Clap, ma è come se in fase di premaster una mano fosse calata dall’alto e abbia cancellato i 4/4, sostituendoli con un pattern downtempo morbido e seducente, trasformando il sound in un gioco di specchi che incrocia svariati riflessi pur mantenendo uno scarto stilistico netto da ogni altra cosa in circolazione. Il massiccio utilizzo di Roland sia per le tastiere che per le drum machine testimonia la regolare attenzione della Kurtel verso le radici del suono house, ma il disco offre una raffinatezza di composizione che va oltre. A tratti sembra trip-hop come lo farebbe uno specialista deep (Right On fa riemergere i Massive Attack di Angel), altrove una versione buia e dismessa dei Mantronix essenziali di fine ‘80 (Blackness). C’è funk (quello sottile e aggraziato di Safe Word), jazz (quello acid- che volge al lounge di The Beat Drops), intelligent (The Way We Live, che placida e sommessa incrocia ambient, cosmica e Ninja Tune) e tutte le sfumature dolci fatte per l’ascolto in cuffia, ma c’è anche la profondità dub techno che farebbe un Deepchord (Hypocrite), il soul impegnato e indefinito degli Art Department (Don’t Wanna Be) e quel timbro electro-techno aristocratico che rimanda a Kraftwerk e Cybotron (I Knew This Would Happen, che nel frattempo accoglie anche i modelli electrofunk di Jimmy Edgar). Qualsiasi paragone con altri artisti dance mossi da intenzioni analoghe risulterebbe fuori luogo (la mossa acustica di Apparat? La svolta emozionale di Trentemøller? Il classicismo senza tempo di Robert Owens?) e alla fine, paradossalmente, il disco più vicino a The Way We Live è In Time di Amirali, proprio l’ultima voce emessa in parallelo dai rivali di Crosstown Rebels. Ancora una volta parliamo di sottrazione e distacco dalla dance esplicita, di induzione del mood e mascheramento sotto un profilo più accessibile, di ampliamento della fruibilità e facilità d’assorbimento. La sfida cardine del 2012 è riuscire a rivolgersi a ogni tipo di pubblico e, tra tutte le mosse che riescono nell’intento, questa finora sembra la più elegante. Dalla Wolf + Lamb il messaggio è chiaro: non solo professionisti del dancing, ma producers d’alta classe a 360 gradi. (7.3/10) Carlo Affatigato

all’Acqua, dalla Rivolta al Denaro, dalla Democrazia alla Sanità e istruzione, dalla Riforma alla Natura. Il tutto introdotto da una title track che fa le veci di un indice degli argomenti. Con una base ritmica inossidabile - al solito, punto cruciale del discorso - e i consueti virtuosismi tecnici, la band mostra più di un elemento in comune con i nostrani Lebowski, a partire dalla capacità di unire vena surreale, beat trascinante, giochi linguistici e una certa imprevedibilità di fondo. Per un disco che potrebbe sembrare un aggiornamento in chiave “nuovo millennio” di 60

un’etica controculturale scesa a patti con il capitalismo ma anche determinata a rinsaldarsi con il vivere quotidiano. Comunque la si voglia vedere, missione compiuta per i paladini dell’Hard-Quore (6.9/10) Fabrizio Zampighi

Epo - Ogni cosa è al suo posto (Polosud Records, Aprile 2012) Genere: pop cantautorale Una storia discografica ormai lunga più di dieci anni,


quella degli Epo di Ciro Tuzzi, Michele De Finis e Jonathan Maurano, maturata attraverso tre dischi, qualche cambio di formazione, passaggi sui principali network musicali e un terzo posto al premio Fuori dal mucchio del 2003. Esperienze che in Ogni cosa è al suo posto convergono verso un cantautorato pop evocativo, equilibrato, in bilico tra singhiozzi post-rock e melodie di scuola romana. Il terzo episodio della formazione colleziona atmosfere rarefatte ed eleganti, tra crescendo elettrici à la Paolo Benvegnù (Nastro isolante) e malinconie soffuse in stile Perturbazione (Venere), lentezze evocative al pianoforte (Animali Fragili, uno dei brani migliori del disco) e leggere accelerazioni (Un fuoco). In sede di analisi, tutto si potrebbe riassumere in un alternarsi di pregi (molti) e difetti (qualcuno): tra i primi l’estrema cura negli arrangiamenti e una misura nella scrittura che non lascia davvero nulla al caso; tra i secondi l’assenza, in un disco comunque godibile, di un vero e proprio scatto in termini di personalità che caratterizzi in maniera netta il lavoro della band partenopea. (6.6/10) Fabrizio Zampighi

Extra Life - Dream Seeds (Africantape, Maggio 2012) Genere: math-prog Quello che si sente decisamente troppo in questo disco è l’immaginario. Ciò che va oltre la ricerca e ‘subisce’ quegli accenti sinistri e dispari, irregolari e forse meno facili per l’acquisizione dell’orecchio occidentale. Tutti i tratti che prima potevano far pensare al math evoluto ora fanno pensare al metal: di una forma intelligente, ma inevitabilmente e comunque testosteronico, cioè basato sulla prevalenza emotiva e ormonale delle chitarre poderose e dei momenti massivi. Nella personalità di Charlie Looker riecheggia la postura intellettuale di Greg Lake dei King Crimson (e del ghostwriter Pete Sinfield); la sua vocalità è unica e ruba lo spazio per altre forme innovative che invece trovavano maggiore agio in Made Flesh. Quando si vuole osare con gli strumenti si ricorre a ‘orchestrazioni’, come in Little One, la versione ‘ballata’ della forma canzone di Extra Life che però si trascina in elucubrazioni vocali. Ogni brano - punto centrale - contiene un mondo a sé e fa pensare al manifesto di uno stile. First Song, per quanto elaboratissima, è di fatto solare e prefigura la potenziale esistenza di una versione accessibile della canzone ‘à la’ Extra Life. C’è il punteruolo del basso distorto che è molto funzionale a lasciar passare, all’interno del tracciato melodico, i continui passaggi di tonalità - qualcosa che

sta a metà tra contrappunto e sezione ritmica, che permette di tenere in equilibrio la punteggiatura e mettere in secondo piano i trapezismi modali di Charlie Looker. D’altra parte Blinded Beast, con quel tono da processione che prelude alla messa nera e una chitarra finale che è un tentativo di dimostrare una disperazione non ancora trasformatasi in rassegnazione, è una via che resta sempre ad alto impatto. L’opera al nero prevale anche nella lunga Ten Year Teardrop, più simile a una pièce teatrale che a una suite progressive. Non sappiamo se Extra Life stia cercando di trovare un percorso della propria estetica che passi per la messa a punto di una formula, ma ci sembra che questa possa essere una strada convincente: uscire dal metal e provare a giocarsi la teatralità allo scoperto, senza entrare nei vicoli e nei vincoli muscolari che poi diventano barriere, fondi chiusi auto-imposti. (7/10) Gaspare Caliri

Fort Romeau - Kingdoms (100% Silk, Marzo 2012) Genere: Hipster house Trovate ancora che la cosiddetta “hipster house” sia uno stile sfuggente, di macchinosa identificazione, con cui è difficile instaurare un feeling? Anche dopo Blondes, Ital, Teengirl Fantasy, Miracles Club e il nostro excursus Dance music for open minds? Fate così: prendetevi una mezz’oretta per questa nuova uscita 100% Silk (la leading label del movimento) e considerate le otto tracce offerte da Fort Romeau (Mike Norris, londinese, già avvistato nella line-up dei La Roux) una specie di vademecum d’utilizzo. Trattasi in sostanza di house, sì, ma infarcita di tutta una serie di elementi di alleggerimento che ne semplifichino l’assorbimento per un pubblico più indie, lontano dalle frequentazioni clubbing. Dunque funk in loop vocali (Jack Rollin’), disco memorabilia (Kingdoms), pop elettronico e anni ‘80 (Say Something), glo-fi in stile Toro Y Moi (Nights Bridge) ma anche synthology à la Lone (Some Of Us Want For Nothing) e certe frange di indietronica (via Caribou, I Need You). In fondo nulla di rivoluzionario, niente che i flussi e riflussi dance non abbiano già toccato (infatti pezzi come One Night e Theo non si discostano di molto da quel che la deep ha dato ieri e oggi), eppure c’è una certa frizzantezza spigliata che pone tutto sotto una diversa prospettiva. Il segreto sta nell’atmosfera complessiva, che sfoggia un gusto dance senza barriere all’ingresso, accessibile e invitante per tutti. Non la house della fase notturna, ma una versione meno impegnativa, più vicina alla 61


fase da aperitivo (ecco dunque che lounge e chill-out diventano gettonatissime). Il potere dell’easy-listening, se vogliamo semplificare, ma c’è di più: la verità è che la legittimità dei meccanismi dance è definitivamente riconosciuta anche tra le produzioni musicali più intellettuali, e “giocare” con la dance è sempre più segno di stile e flessibilità. Probabile che, come per il glo-fi, non ne verrà fuori alcun disco epocale, ma tanti bei dischetti divertenti. Teniamoli d’occhio. (7/10) Carlo Affatigato

Friends - Manifest! (Lucky Number, Giugno 2012) Genere: disco-wave-funk-pop Il luogo, se non lo si fosse già capito dalle immagini promozionali, è Brooklyn e loro, i Friends, rappresentano probabilmente meglio di chiunque altro la scena freakhipster delle vie di Williamsburg. I Friends sono una band, ma prima di tutto un gruppo di amici - eh beh... - caratterizzato da singole personalità quasi caricaturali: abbiamo Samantha Urbani, la vamp sensuale e carismatica amante di Prince, TLC e Grimes, Lesley Hann, la bassista misteriosa e sbattuta e soprattutto lui, Matthew Molnar, un personaggione come pochi che non avrebbe sfigurato nel ruolo del pizzaiolo italiano in qualche vecchio telefilm. Su Facebook i Friends si definiscono “weird pop” e non è del tutto sbagliato. Infatti Samantha e compagni abbracciano la pop music in modo piuttosto bizzarro, andando a ripescare alcune cose post-disco della New York di fine anni ‘70/inizio ‘80 (ESG, ma anche Blondie). A mettere le cose subito in chiaro hanno pensato lo scorso anno Friend Crush - una sorta di ponte tra il vecchio moniker, Perpetual Crush, e quello attuale - e I’m His Girl, ottimo singolo dalla bassline sinuosa, beat oldschool, coretti armoniosi e miss Urbani a fare un po’ la Hollaback Girl della situazione. L’album di debutto Manifest! aveva il compito di affiancare a quanto di buono già pubblicato, materiale che potesse confermare le prime positive impressioni. Potevano scegliere di esasperare il lato pop o di inseguire una I’m His Girl v.2 ed invece hanno preferito buttarsi su brani di assimilazione non immediata e che al primo ascolto possono essere scambiati, erroneamente, per parentesi poco ispirate e inserite solo per far numero. Ruins è un tuffo nelle sperimentazioni no-wave (dopotutto le coordinate geografico-temporali sono sempre quelle), Proud/Ashamed è puro drums+voice prima dell’arrivo di - rari - innesti elettronici, in Stay Dreaming tentano di unire il solito basso ad atmosfere pseudo 62

dream-pop mentre Van Fan Gö Du ha il sapore della party-song. In Mind Control, Samantha in versione galore (a quando una collaborazione con Grimes, magari una cover di Mariah Carey?) mette in campo una sfacciataggine discofunk assolutamente contagiosa e in generale, sopra ai shake-ass-bass e alle divagazioni indie-wave (A Light, Sorry) è facile notare una sorta di ovattante pellicola narcotico-psichedelica - dovuta a scelte ben precise anche in fasi di produzione - che rende la proposta contenuta in Manifest! ancora più intrigante. I ragazzi hanno voglia di divertirsi e di far divertire: scopriremo presto se si tratta di un fenomeno hype temporaneo o del punto di partenza di una rinascita-revival di una scena troppo spesso dimenticata. (7/10) Riccardo Zagaglia

Gaggle - From The Mouth Of The Cave (Transgressive Records, Giugno 2012) Genere: freak-art girl choir Nello slang militare il termine “gaggle” indica un team disorganizzato, più comunemente però viene utilizzato per indicare un gruppo di oche e guardando le immagini e i video delle Gaggle disponibili in rete non è difficile capire il nesso. Le Gaggle sono ventitrè - alcune fonti dicono ventidue, altre ventuno - colorate ed eccentriche ragazze - i nickname vanno da MissMiss a Lipstick, passando per Peachy Bitch - guidate da Deborah Coughlin e nate come risposta ad una industria musicale, a detta loro, dominata dagli uomini. L’impatto visivo delle londinesi è sicuramente molto forte, figlio tanto della tradizione africana quanto delle Wonderbrass di Bjork, ma non è da meno quello musicale: sintetizzando il più possibile, l’album di debutto From the Mouth of the Cave suona come un coro caotico di femministe che “starnazzano” su basi elettroniche. L’unione fa la forza - Army of Birds - ma a livello compositivo ovviamente non tutto il disco è stato realizzato unendo tutte le ventitre menti contemporaneamente, il più delle volte infatti la scrittura si è svolta tra gruppi meno numerosi. Come variopinte sono le singole componenti della band, lo sono anche le tematiche affrontate nel disco e l’impressione è quella di essere di fronte a singole unità indipendenti che, una volta unite, vanno a formare un’unica grande mente pensante. From the Mouth of the Cave è un caleiodoscopico frullato impazzito composto da accenni di Post-d&b (Gaslight), cheerleaderismi sloganistici, filastrocche imba-


Flaming Lips - The Flaming Lips and Heady Fwends (Warner Music Group, Aprile 2012) Genere: iper-psych Quei mattacchioni irrecuperabili dei Flaming Lips prendono parecchio sul serio il Record Store Day, al punto da pubblicare un album speciale per l’occasione, una raccolta di collaborazioni eccellenti tra la band di Coyne e un plotone eterogeneo nel quale spiccano i nomi di Nick Cave, Ke$ha, Bon Iver, Chris Martin, Neon Indian e Prefuse 73. Detta così ha tutta l’aria di un’operazione da astuti mestieranti. Già. Però coi Lips l’interlocutorio e il formidabile sono sfaccettature dello stesso diamante pazzo, l’ordinario è un abisso sfolgorante, il consueto scambia ghigni con l’inaudito. E via discorrendo. Ecco quindi che questo happening di “amici eccitanti” diventa uno degli ascolti più sbalorditivi degli ultimi mesi. Molte le ballate, nel peggiore dei casi semplici blandi orditi per ricami ultravisionari (la processione sghemba a braccetto coi Neon Indian di Is David Bowie Dying?, l’amniotica Helping The Retarded To Know God assieme ad Edward Sharpe And The Magnetic Zeros, oppure il miraggio sornione di I’m Working At NASA On Acid con Lightning Bolt), nel migliore invece sono fottutissimi incantesimi, come il languore psych di Children Of He Moon (coi Tame Impala) e la diversamente eniana Ashes In The Air (col buon Iver). Poi ci sono le scosse e i tumulti, ed è quando lo spettacolo si fa caleidoscopico, come nell’electro-noise spacey a rotta di collo di Supermoon Made Me Want To Pee (coi Prefuse 73), lo sci-fi slackeristico di Girl, You’re So Weird (coi New Fumes) e la devoluzione industrial wave stradaiola di 2012 (assieme a Biz Markie e alla ribalda Kei$a). Il merito maggiore dei Lips sta tutto nell’abilità con cui utilizzano l’appeal spesso ingombrante delle guest star, metabolizzandole nel proprio teatrino di assurdità facinorose ma sensatissime, coerenti con un discorso che resta riconoscibilissimo malgrado continuino a spingerlo ed espanderlo a forza di zampate ultrapop. Se ne servono come un ingrediente semantico per la pozione allucinogena, vedi il caso di The First Time Ever I Saw Your Face, come un lungo setoso bradipo sogno trip-hop di Jean Michel Jarre per l’ipnotica voce di Erykah Badu, oppure vedi come il vocalist dei Coldplay diventi fatamorgana Lennon nel miraggio retrò di I Don’t Want You To Die, per non tacere dell’invettiva minimal-primordiale di Yoko Ono nella tribalistica Do It! o delle trasfigurazioni blues in chiave cyber-gotic di That Ain’t My Trip (con Jim James) e You, Man? Human? (con un quantomai sordido - quasi macchiettistico - Re Inchiostro). Non si può fare a meno di aggiungere che verranno estratti degli ep special edition (limitata pare a sole dieci copie) in vinile con impresso il sangue gentilmente donato dagli illustri ospiti: l’ennesima sconcertante boutade dei nostri buontemponi preferiti, oppure se preferite la metafora di quanto accanitamente continuino a credere nel disco come opera incarnata, trasfusione espressiva tra musicista e ascoltatore, con tutte le meravigliose contagiose impure insidie del caso. Amateli. (7.8/10) Stefano Solventi

stite di cori spettrali (Liar), tribalismo viscerale (Congo-), sfumature art-pop (Bang On The Drum), sperimentazioni di derivazione Bjork (Lullaby), pomposità (Hello Spider) e avant-psichedelia (The Cave). Quello delle Gaggle è un progetto artistico a tuttotondo e va preso come tale. Su disco infatti, l’impeto perentorio viene limitato lasciando che ad imporsi siano gli aspetti maggiormente disorientanti della proposta musicale. (6.4/10) Riccardo Zagaglia

Garbage - Not Your Kind of People (STUNVOLUME, Maggio 2012) Genere: garbage time Non si esce vivi dagli anni ‘90: esattamente come Skunk Anansie e The Cranberries - con i quali formavano la triade del female-lead pop rock - anche i Garbage hanno vissuto malamente il passaggio di millennio. Infatti, se i dischi dei nineties - Garbage e Version 2.0 - univano piuttosto bene le passioni alt di Butch Vig e il seducente glamour pop di Shirley Manson, con Beautifulgarbage del 2001 - trainato dal motivetto stupido di Cherry Lips (Go Baby Go!) - c’è stato il grande tracollo 63


ed il successivo Bleed Like Me fallì, vendite alla mano, l’evidente obiettivo di mettere d’accordo sia il pubblico meno esigente sia i fan della prima ora. Mancavano da quel lontano 2005 i Garbage, sette lunghi anni di pausa nei quali fortunatamente non abbiamo assistito alla release dell’annunciato e prevedibilmente inutile - vedi Dolores O’Riordan e Skin - album solista di Shirley Manson. Il quinto album Not Your Kind of People - che esce per la STUNVOLUME di proprietà degli stessi Garbage - si sviluppa attorno a brani di dubbio spessore: uptempo tra pop-rock e battute elettroniche simil Republica (l’iniziale Automatic Systematic Habit), pop fermo a quindici anni fa (il ritornello di Blood For Poppies grida vendetta), autocitazionismo (le neanche malvagie Control e I Hate Love e i riff stoppati di Battle In Me), dream soporifero (la titletrack) e passaggi happy power-pop da deriva late-Blondie. Escludendo un paio di episodi veramente risibili, Not Your Kind of People - estrapolandolo dal contesto attuale - non è forse inferiore a Beautifulgarbage, ma nonostante rappresenti i tempi supplementari nella carriera dei Garbage, l’impressione è che per Shirley Manson e Butch Vig la partita sia già finita da tempo... siamo in puro “garbage time”. (5.3/10) Riccardo Zagaglia

Gossip - A Joyful Noise (Columbia Records, Maggio 2012) Genere: ‘80s girl pop I Gossip ebbero il merito di inserirsi prepotentemente nella cresta maggiormente dancey del post-punk revival di metà anni zero con l’album - e l’omonimo singolo Standing In The Way Of Control, imponendosi come la vera alternativa female, laddove i CSS stavano fallendo. Beth Ditto diventò ben presto la nuova regina degli scandali, scandaletti e glitter vari dei magazine di gossip (appunto) tanto da creare una buona dose di hype attorno al ritorno discografico Music For Men, il quale, ripulito di estremismi garage e prodotto in direzione FM, riuscì a traghettare la band - e la buona Heavy Cross ne fu l’emblema - alle soglie del mainstream. Arruolato il produttore Brian Higgins (già in pasta in buona parte dell’UK-girlpop dello scorso decennio con il team Xenomania), i Gossip tornano senza troppo clamore con il quinto disco A Joyful Noise, anticipato dal (fino ad ora) non troppo fortunato singolo Perfect World. Nonostante la copertina che sembra appartenere ad un terribile gruppo teen-goth metal, A Joyful Noise è il tuffo definitivo nella pop music e gli anni ‘80 continuano 64

ad essere la decade di riferimento. C’è Madonna del periodo d’oro in salsa funky (Horns) e non (Into The Wild), ci sono gli ultimi Abba - la stessa Beth ha ammesso che gli svedesi sono stati tra i suoi ascolti più frequenti - e c’è anche qualcosa di Cyndi Lauper. Otre ai classici vocalizzi “ouh-ou-ooooh”, chi ha ballato sui ritmi trascinanti dei primi Gossip farà fatica a riconoscere la band nella pseudo-ballad Casualties Of War, nelle basi disco-90s del ritornello di Get Lost o sull’intro rap-electro di Get a Job. A Joyful Noise è un disco orecchiabile e con almeno una manciata di belle melodie (Perfect World, Casualties Of War) eppure Move In The Right Direction suona come un prevedibile, ultimo e definitivo step all’interno di un certo tipo di music business. E’ giunto il momento di lasciare spazio a Niki and The Dove e Friends. (5.6/10) Riccardo Zagaglia

Grey History - Jesus From Las Vegas (Radical Matters, Aprile 2012) Genere: harsh noise Giunta al suo terzo capitolo, l’epopea targata Grey History continua il suo percorso di critica estrema e, per certi versi ludica, della società del consumo/divertimento. Dopo Disneyland e lo stardom post-hollywoodiano, a finire sotto i colpi del duo più improbabile ed estremo d’Italia - Gianluca Becuzzi e Fabio Orsi, per chi ancora non lo sapesse - è quell’edonismo misto ad un conservatorismo para-religioso che impregnano una Las Vegas infestata da zombie viventi. La musica non si discosta dal noto devasto cui Grey History ci ha abituati, quasi che non importasse tanto rispetto al messaggio ideologico che l’iconografia, i titoli, i testi e l’armamentario tutto vogliono comunicarci. L’incipitaria Grey Pride. Start, una rilettura del tema di Viva Las Vegas attraversata da una colata lavica di infiltrazioni harsh-noise, mette in chiaro da subito modalità e finalità, ma sono i momenti meno esagitati a incuriosire: i vuoti pneumatici di A Grill Party With Satan tra sibili e depressioni, quelli subacquei di Holy Liars Incorporated increspati da una sottocutanea marea di white noise crescente fino all’overdrive definitivo, o ancora le pulsazioni catacombali da giorno del giudizio di Gestapo Of God lasciano intravedere possibili vie di fuga per un progetto altrimenti destinato all’autoreferenzialità. Una sorta di trance-noise post-atomica, come nella ipnotica From Nazi-reth To Las Vegas, vero apice del lavoro. (7/10) Stefano Pifferi


Giant Giant Sand - Tucson (Fire Records, Giugno 2012) Genere: country folk Dopo quasi trent’anni di peregrinazione tra fatamorgane e miraggi, il passo sempre più denso eppure stranamente lieve, il gigante di sabbia marca visita per ripresentarsi diverso e rinvigorito. Oltrepassare se stesso, il proprio mito sfuggente, allo scopo di fissare un fotogramma iperreale di sé, perché dopo tanti dischi strascicati, bizzarri, diversamente affabili, è arrivato il momento di lasciare un’impronta forte sul presente. Come capitò, con premesse diversissime, al formidabile Chore Of Enchantment. Il qui presente Tucson quindi è quello che Howe Gelb e la sua combriccola di mariachi messicani e danesi (tra questi ultimi è compreso un violinista nato, pensa un po’, proprio a Tucson) intendono come espressione espansa e ad alta definizione dell’entità gelbiana Giant Sand, per l’occasione comprensibilmente rinominata Giant Giant Sand. Diciannove tracce che ne esplorano il ventaglio espressivo sulla scorta di un plot tra sogno e frontiera, al punto da indurre il buon Howe a definirla una “country rock opera”. Falsariga su cui scorrono un programma ricco (diciannove tracce) ed eterogeneo, da cui restano fuori i clangori di inizio carriera ma tutto il resto più o meno trova posto, dalla cavalcata incalzante di Forever And A Day (tra violino, fisarmonica, slide, vampe di tromba e fantasmagorie cumbia) al jazz blues allusivo di Ready Or Not (da qualche parte tra Tom Waits e Julie Dexter), dal tex-mex strattonato surf di We Don’t Play Tonight (chitarre twang e chorus dolciastro) al caracollare amniotico in un ventre mistico tra front porch e frontiera di Wind Blown Waltz, passando dall’ectoplasma latin-folk tra torpore e stravisione di Hard Morning In A Soft Blur alla purezza country folk strappalacrime - con umori operistici in coda - di Lost Love. Gelb si permette di invadere (o di riprendersi, se preferite) il territorio Calexico con la densità cinematica di Detained e The Sun Belongs To You, mentre Plane Of Existence ha il passo blando da zio filosofo del principe Billy o da nipote guitto di Johnny Cash. Poi, siccome in Howe tutto - la dolcezza, la malinconia, il guigno sferzante, lo spasmo balzano... - accade al cospetto di un mistero nero nascosto nella penombra, ecco il frutto inatteso, l’oltrepassarsi sornione, una Love Comes Over You che spazzola valzer jazzato tra deserto e palcoscenico come un Antony sotto peyote, oppure la jazz ballad di Not The End Of The World (stupenda la tromba sordinata e la folata orchestrale nel finale) come una liasion sbocciata tra paradiso e guittezza. In questo contesto accettiamo di buon grado anche quella specie di sigla conclusiva di Out Of The Blue, country doo wop a più voci, facilona e affabile come una versione glassata della Band. Disco ispirato, prodotto con classe, che ha tutti i numeri per allargare il consueto bacino di utenza dell’ensemble dell’Arizona, cui possiamo solo rimproverare di soffocare il lato più grezzo, fragile e sconclusionato di Gelb, quello da hobo lo-fi minimale che scorgiamo appena in due schegge come Mostly Wrong e New River. Pegno inevitabile e, alla luce del risultato, oserei dire ragionevole. (7.4/10) Stefano Solventi

Guido Möbius - Spirituals (Karaoke Kalk, Aprile 2012) Genere: Elettronica Spirituals è, praticamente, il Guido Möbius Fliegender Zirkus: una girandola impazzita di sketch, sberleffi, suoni, rumori, colori, musiche, goliardia assortita, apparentemente senza direzione alcuna. Arte del frammento nell’accezione dei Matmos, filtrata da una sensibilità zappiana e ravvivata da un’eccentricità, tutta tedesca, che Möbius ha già avuto modo di esprimere compiutamente nel precedente ed ottimo Gebirge del 2009. Sei dei nove brani utilizzano testi tratti da gospels (o spiri-

tuals, appunto) tradizionali, di cui Guido conosceva solo le parole ma non le musiche: ciò che importava era che queste fossero funzionali ad un progetto che ruotasse intorno al concetto di spiritualità e che vedesse coinvolti svariati collaboratori, soprattutto alle voci. Queste hanno infatti, nell’economia del disco, un ruolo di primo piano: cantano, sbuffano, spernacchiano, rumoreggiano, si rendono ridicole in vario modo, rallentano e fanno i growls o accelerano e fanno Paperino. Vengono tirate, allungate, distorte, messe in loop, smontate e rimontate assieme ad ogni sorta di strumento (chitarre, fiati, archi, elettronica in ogni possibile variante, ecc.) per dar vita 65


ad un suono caotico, ma controllatissimo. I primi minuti del disco, spalmati su All Around Me, Judgment e The Right Thing, sono così: una corsa a rotta di collo per gimkane dadaiste che, attraverso una pletora di suoni ipertrattati, diventano ritmo, ipotizzando una sorta di anti-rap o di funk bianco mutante. In qualche misura, un aggiornamento degli esperimenti di David Moss. Ne emerge un Prince completamente fuori di testa, che tenta di appoggiare i suoi falsetti su una stazione radio continuamente interrotta da altre frequenze (che è quello che succede davvero proprio in All Around Me). Poi si cambia registro e le schegge dell’inizio si ricompattano in brani più lunghi ed articolati che solo apparentemente presentano una struttura più unitaria. Sono gli Amon Düül contro Frank Lloyd Webber dell’epifanica Godhead Appears; sono gli sprofondi dark psichedelici di Babylon’s Falling e All Evil Ways e il Cab Calloway da laptop di The Reign Of Sin. A questo punto appare chiaro che Guido ha la memoria lunga e che i suoi riferimenti affondano in Residents, Flyinf Lizards o Nurse With Wound: stessa bizzarria; stesso interesse nel rigirare, triturare e risputare via, formule e stilemi pop in un ottica ‘d’avanguardia’; stessa ostinata ossessione nel voler ridonare al ridicolo la dignità che gli spetta. In chiusura una meno pirotecnica Though The Darkness: coro gospel (alla varechina, però) giusto sporcato da intermezzi elettronici e da un’assurda vocina querula. Un disco ostico che sembra non cercare nessun altro ascoltatore se non Möbius stesso (forse neanche i suoi collaboratori; solo il folle Go:Gol, suo sodale già in passato) e che pare più interessato a spiazzare/spiazzarsi continuamente, che a suonare sul serio. Pur nell’assoluta autoreferenzialità e pur non offrendo più quell’effetto sorpresa che fu, ad esempio, di The Rose Has Teeth in the Mouth of a Beast o dello stesso Gebirge, riesce nel suo intento, risultando comunque fresco ed avvincente. (7/10) Alessio Bosco

Hikobusha - Discoregime (Canapa Records, Marzo 2012) Genere: electro-wave Gli Hikobusha continuano a essere una formazione ambivalente, capace di momenti intriganti come di cadute di tono figlie di una seriosa caratura cantautorale non sempre all’altezza delle aspirazioni. Un discorso che valeva in parte per il precedente Dinosauri e che vale soprattutto per un Discoregime in cui a un’electro wave comunque ricca di spunti si sommano testi che vorrebbero sondare con piglio cinico la decadenza 66

della modernità. L’operazione riesce parzialmente e se brani come Salomè e Cappiolavoro danno il giusto tono al lavoro, parentesi come Animale sociale, Il male e Una forma di furia (messaggio d’amor predatorio) ci dicono invece cosa andrebbe evitato: un certa teatralità gratuita, qualche momento interlocutorio, un cantato che non riesce a pungere come vorrebbe. Rispetto al disco precedente si perde un po’ di brillantezza, si abbandonano quasi del tutto le desinenze triphop, ci si affida a una coerenza formale più stringente che non riesce a far quadrare del tutto i conti. E la produzione di Paolo Noyse dei Punkreas, per quanto puntigliosa e efficace, non garantisce uno scarto supplementare al materiale. E’ un peccato, soprattutto perché dettagli come le percussioni esotiche della già citata Una forma di furia, il programming inquietante de La massa (cover di Giorgio Gaber riadattata per l’occasione), il quasi beat-soul sull’organo di Tridimensione e il buon tiro di Fantastica repubblica elastica brillano per originalità e impatto. (6.3/10) Fabrizio Zampighi

Hot Chip - In Our Heads (Domino, Giugno 2012) Genere: Indietronica Ormai siam ben lontani dai tempi di Coming On Strong e The Warning, quando il sound dei Hot Chip aveva davvero dei tratti distintivi inimitabili, un’energia e un senso del groove che non temeva confronti. Oggi di inimitabile c’è quasi solo la voce di Alexis Taylor, l’ascoltatore si è definitivamente rassegnato a un profilo semplicemente pop e può solo sperare che venga fuori comunque la verve sghemba di una Ready For The Floor, o comunque grinta, idee, mestiere, qualsiasi cosa riesca a sollevare il livello oltre l’omologazione che ha già messo in allerta per One Life Stand. Per fortuna In Our Heads i suoi numeri ce li ha. Pezzi buoni come Motion Sickness e Don’t Deny Your Heart, fatti del sentire vecchia maniera dei tempi migliori ossia quello che riconduce ai pre-’80, squarci di indietronica ben confezionata come These Chains e Let Me Be Him, passo danzante e melodia di mezza stagione, e il solidissimo singolo Night And Day che tira fuori un groove killer obliquo su un tessuto electro-dance resistente a ogni diffidenza. Per contraltare, c’è anche il manierismo electropop di Ends Of The Earth, la mielosità easy di Always Been Your Love e un cuscinetto di slow ballads un po’ stucchevoli, Now There Is Nothing e Look At Where We Are. In fondo è questo il massimo che gli Hot Chip possono


Hospitality - Hospitality (Fire Records, Aprile 2012) Genere: avant-pop Se gli Hospitality fossero nati negli anni Novanta in Scozia, sarebbero stati i Belle & Sebastian: stessa leggerezza pop, stessa capacità di ritagliare melodie limpide e catchy con disarmante facilità, stessa intelligenza nel dare al contenuto una forma credibile, agile e coerente con le aspirazioni. E invece Amber Papini (chitarra e voce), Brian Betancourt (basso percussioni) e il deus ex machina Nathan Michel (batteria, chitarre, tastiere e tutto il resto) arrivano dalla Brooklin del 2012 e di quel fiorire di creatività urbana spumeggiante che ultimamente è la big apple musicale più alternativa, permeano tutto il loro disco d’esordio. Una buona scrittura (in gran parte, pare, merito della Papini), ma anche idee chiare dal punto di vista dei suoni, almeno a giudicare da uno Shane Stoneback (dietro al mixer, tra i tanti, anche per i Vampire Weekend) chiamato a produrre assieme al Michel già citato. Quello dei due è un matrimonio felice che lascia trasparire tutta la voglia di fare del gruppo: nel pop jazzy dell’iniziale Eighth Avenue ma anche in un singolo come Friends Of Friends che annusa l’accoppiata Clap Your Hands Say Yeah / Fiery Furnaces, tra una chitarra elettrica sfrangiata à la Wilco e certi ottoni ruffiani sullo sfondo; in una Julie che sembra rubata alla St. Vincent più lineare e romantica ma anche nelle distonie avant calcolate di The Right Profession. Poi ci sono i testi, veloci e ‘multiculturali’ come impone il codice estetico della metropoli americana (in Betty Wang si canta If you leave New York / I don’t care, I don’t care / I will follow you back to Tokyo tra sei corde che riciclano gli anni 50 americani e coretti surf ), a parlar di relazioni amicali e sentimentali in bilico tra uptown e downtown, riallacciate in qualche bar o magari interrotte sullo schermo di un Iphone (il video della già citata Friends Of Friends). Il linguaggio è quello di una band pienamente calata in una modernità stilistica multisfaccettata e trasversale, con una positività di fondo che trova la sua ragion d’essere nel condividere esperienze in un luogo in cui sentirsi cittadini del mondo è piuttosto facile. Mezz’ora di melodie gradevoli ma non banali, immediate ma non ripetitive, adolescenziali ma non immature, capaci di sorprendere anche dopo numerosi ascolti. Buona parte della critica specializzata angloamericana parla del gruppo come di una scoperta entusiasmante: noi, per una volta, ci accodiamo volentieri consigliandovene l’ascolto. (7.3/10) Fabrizio Zampighi

fare oggi. Loro non sono i Saint Etienne, che possono ancora avvicinarsi alla perfezione pop senza ansia da prestazione. Da loro traspare ancora il tentativo di inseguire sé stessi, di tornare a raccogliere i cocci del loro smalto migliore, di raddrizzare la discesa finché si è ancora in tempo. One Life Stands è servito come stacco col passato e base per ripartire. Da qui in poi serve solo il carattere, e qui ce n’è per una buona metà della tracklist. Ascolta lo streaming integrale di In Our Heads in esclusiva web nazionale. (6.6/10) Carlo Affatigato

I Like Trains - The Shallows (I Like Records, Maggio 2012) Genere: indie rock / post La copertina del nuovo disco degli I Like Trains - o se preferite iLIKETRAINS - è fatta in modo da creare am-

biguità: il titolo The Shallow, bello in grande piazzato in alto come se fosse il nome della band, e I Like Trains relegato in una posizione defilata, come se si trattasse del titolo dell’album. Una volta schiacciato play, tutto torna al posto giusto e sappiamo bene cosa aspettarci da David Martin e soci che qui ripropongono le caratteristiche che ne hanno fatto una sorta di scheggia impazzita del panorama musicale in perenne movimento tra l’universo indie rock e l’universo post-rock. The Shallow è un concept sull’alienante e deteriorante rapporto uomo-macchina sempre più macchina-uomo e non sorprende se ad aprire il disco ci pensano le partiture roboto-kraute di Beacons, che si tramutano in ritmiche che ricordano quelle dei primi Foals tenute a freno in Mnemosyne e nella titletrack. Come sempre è la voce mai troppo sopra le righe di David - alla lontana parente del baritonale Matt Berninger, di Tom Smith ma può 67


ricordare anche Thomas Cohen degli S.C.U.M. - che ha il compito di disegnare pseudo-melodie sui freddi tappeti strumentali, a volte scarni e minimali, a volte invece epici e grandiosi. La componente tipicamente post-rock è qui quasi assente - se non nei fraseggi di Reykjavik - per il resto sono astrutturati brani indie/post-punk impregnati di lenta tensione a farla da padrone. Produce Richard Formby (vedi Wild Beasts) creando atmosfere livide - gli ultimi The Twilight Sad non sono troppo distanti - che solo raramente regalano quel brivido che in più di una occasione viene cercato. Al terzo album - escludendo l’EP d’esordio Progress Reform - gli I Like Trains continuano a non convincere al 100% ma si riconfermano un gruppo sincero e con le proprie coordinate musicali, incastonate in una proposta che difficilmente riuscirà a fare nuovi proseliti. (6.6/10) Riccardo Zagaglia

Idjut Boys - Cellar Door (Smalltown Supersound, Giugno 2012) Genere: Skrangle -> Hipster Degli Idjut Boys si era già accennato nella nostra odissea sulla scena norvegese insieme a Bjørn Torske, precisamente parlando dei fermenti della Oslo dei primi 2000 e della cosiddetta “skrangle house”: erano gli anni dell’esplosione dei Röyksopp e della prima ondata space norvegese, e dai paesi freddi tirava un vento di revisionismo dance che intendeva ritornare a un sentir comune primordiale. “Come fare house negli anni ‘70, una versione più dub dei suoni disco in un incrocio con le traiettorie funk, jazz e rock che vennero fuori dalla decade progressive”, detta proprio con le parole di Bjørn (per un assaggio pratico si consigliano l’album Kokning e la sua Skrangle House Selection). Era il sostrato che poi ha dato vita alla space della fase Lindstrøm e gli Idjut Boys figurarano tra i protagonisti principali, attivissimi sia come dj che come producers. Cellar Door è il vero album ufficiale, pubblicato dopo vent’anni di carriera proprio per la Smalltown Supersound, l’etichetta di riferimento della scena scandinava, ed è il modo più raffinato per rendere visibili tutti i punti di contatto con le tendenze di ieri e di oggi: dance d’ascolto secondo il verbo skrangle, funk a profusione (One For Kenny, sì, son proprio i ‘70), incastri visionari dub/ electro/jazz (Le Wasuk), eclettismo space (Love Hunter, ossia quello dall’occhio lungo venuto fuori in Six Cups Of Rebel) e tutte le movenze pop-oriented della dance che tanto bene riescono alle latitudini più alte (per questo di gente come GusGus e SCSI-9 parliamo ancora oggi). 68

Ma c’è anche qualcosa in più. Un’apertura verso l’universo del pubblico più indie, attuata tramite il maggiore protagonismo delle chitarre dreamy (che aprono e chiudono il disco con Rabass e Jazz Axe) e del cantato soul di Sally Rodgers, metà degli A Man Called Adam, che dà a brani quali Shine e Going Down quell’irresistibile potere easy listening che aggancia ogni età e gusto e dura nel tempo. L’onda hipster house evidentemente ha fatto breccia, ampliare il ventaglio di potenziali fruitori è sempre cosa buona e giusta e anzi dispiace che non siano andati troppo in fondo in questa direzione, rimanendo spesso frenati sul mood downtempo (dal livello comunque buono, vedi The Way I Like It). Otto tracce che realizzano l’improbabile punto di contatto tra skrangle house, space disco, dream pop e hipster house. Eleganza e docilità per un sound facile e immediato che piaccia a tutti. “Tanti buoni dischi ma nessun capolavoro”, pronosticavamo su Fort Romeau. È il sortilegio da spezzare. (6.6/10) Carlo Affatigato

Il Maniscalco Maldestro - Ogni cosa al suo posto (Maninalto, Aprile 2012) Genere: Art rock Al “fatidico terzo disco” il gruppo di Volterra ha rischiato di non arrivarci proprio: il contrasto tra i successi riscossi all’estero (Germania, in particolare) e le delusioni riservate loro dalle note magagne dell’ambiente musicale nostrano aveva praticamente portato il gruppo a sciogliersi. Poi quella che sembrava la fine si è rivelato un necessario/salutare distacco di riflessione, prima di una ripartenza che ha visto anche cambiamenti di line-up (nuovo chitarrista e tastierista aggiunto). E la ripartenza è una conferma della maturità che era stata raggiunta col precedente Panna, polvere e vertigine: anche qui troviamo un funk-rock intriso di follia (sì, i Primus ammessi dallo stesso leader, vedi Tutto muore), che stavolta prova una vaga idea di concept (con Ingresso e Uscita che riprendono lo stesso tema) e nel quale più che all’interiorità dell’autore si prova a guardare il mondo (una Accendo la tv che richiama l’ultima Nada, o una Amore sposami che col gioco sul riff di Wannabe dell’intro e la citazione di Summer Nights nel mezzo usa riferimenti culturali per descrivere una relazione). La mano è salda anche nel padroneggiare la miscela (come Urla urla, crossover stratificato e animato da un’armonica a bocca) che prosegue il lavoro sull’elettronica: vengono nominati i Prodigy ma Questa sera, col guest del rapper Xhulian Kuqja, ricorda più certi Asian Dub Foundation; c’è poi spazio anche per una ballad fisarmonica e batterie


minimali come Vento caldo o per il rock mid-tempo più classico come Colpi bassi, venata di acustiche e, come tutto il disco, da campionamenti di preproduzione che hanno accentuato la tendenza al groove del gruppo. La summa dei vari stili, della padronanza delle dinamiche e dell’uso saggio degli ospiti (qui Gianluca Bartolo del Pan del diavolo) si raggiunge nella furiosa titletrack con le sue alternanze tra sospensioni acide e furia jungle e un mega finale che esalta l’ospite. Un ritorno veramente gradito, che si accompagna alla calorosa raccomandazione di andarli a vedere dal vivo. (7.3/10) Giulio Pasquali

Inland Sea - The Passion (MyPlace, Maggio 2012) Genere: Indie pop Abbandonate le atmosfere mediterranee dei primi lavori (Inland Sea del 2008 e Things Change del 2010), gli Inland Sea sviluppano in questo The Passion (My Place Records, 2012) certe influenze del brit pop alternativo, già espresse negli anni di esperienza come cover band nel locale milanese ‘Le Scimmie’. Le intenzioni di Paolo Spada, compositore, voce e chitarra del gruppo, sono chiare: rivisitare in chiave personale un filone del poprock alternativo di matrice britannica che ha marcato profondamente la musica degli anni Novanta, grazie ad esponenti del calibro di Radiohead e Coldplay. Melodie ariose e sempre orecchiabili, arpeggi di chitarra acustica ed una ben meditata alternanza tra ritmi pensosi e scanzonati sono gli ingredienti su cui si basano le nove tracce di The Passion. Bono e Chris Martin proiettano la loro ombra sulla doppietta Here’s Your Son e Weak, dove Spada esibisce un cantato riflessivo ma sempre pronto a rauche aperture (Here’s Your Son) e al falsetto (Weak). Le tastiere spaziose (The Crossing) e il connubio tra chitarra acustica ed archi (Two, Hushing The Whispers) avrebbero il benestare di Travis e Keane (ma anche di James Morrison), nei fiati e nell’impianto melodico di Easter sembra averci messo lo zampino Badly Drawn Boy, mentre Thom Yorke potrebbe avanzare qualche legame di parentela tra le sonorità di Blind ed Exit Music (For A Film). Nel complesso si tratta di un lavoro che non può (e non sembra intendere) fare dell’originalità la propria bandiera, ma che comunque risulta di piacevole ascolto. Anche solo per la sua capacità di confortare i nostalgici di quegli anni Novanta dal sapore brit, ancora incontaminati dall’elettronica, un po’ alternativi, ma anche un po’ piacioni. (6.5/10) Viola Barbieri

Io?drama - Mortepolitana (Via Audio, Maggio 2012) Genere: pop d’autore Il precedente Da consumarsi entro la fine dava, degli Io?Drama, l’immagine di una band attratta in ugual misura dalla canzone impegnata come da una certa estetica musicale à la Negramaro/Muse tutta crescendo e chitarre elettriche sparate al momento giusto. L’equivoco nasceva in parte dalla produzione (comunque, per nulla banale) di Paolo Mauri e in parte da una voce, quella di Fabrizio Pollio, per certi versi assimilabile in termini di virtuosismi e spleen, a quella del Giuliano Sangiorgi cantante della band pugliese. L’interrogativo era stato in parte risolto da un video di Nel naufragio in cui Pollio, girovagando per il centro di una Milano in pieno scontro Moratti-Pisapia, proponeva il brano chitarra acustica e voce passando da uno stand di partito all’altro. Un evento estemporaneo capace tuttavia di rivelare la dimensione autorale di una scrittura senza tanti filtri, che la cornice arrangiativa di Da consumarsi entro al fine aveva forse colpevolmente nascosto. L’Ep Mortepolitana continua a lavorare proprio in questa direzione, allontanandosi in parte dal suono del passato - a produrre artisticamente, qui, è lo stesso gruppo - senza tuttavia rinnegare la matrice pop-rock. Quasi a definire i confini di una canzone d’autore che non disdegna pathos e orecchiabilità, pur aggrappandosi a un immaginario di significati forti: quello di un L’amore ai tempi del precario vicina agli sfruttati sul lavoro o magari quello di una Samarcanda di Roberto Vecchioni che nelle mani del gruppo guadagna sfumature sonore nuove. I lettori più intransigenti, una volta verificato il terreno su cui edificano gli Io?Drama, non daranno loro nemmeno una possibilità. Noi vi diciamo che la caratura della band è indiscutibile e il segnale forte e chiaro. I fake, se ci sono, stanno da altre parti. (6.9/10) Fabrizio Zampighi

Jaill - Traps (Sub Pop, Giugno 2012) Genere: indie rock Il tono divertito/scanzonato che pervadeva l’esordio di due anni fa, torna fin dall’apertura di Waste A Lot Of Things, mostrando che strada Vincent Kircher e Austin Dutmer hanno intrapreso per maturare il proprio sound: spuntano come funghi i riferimenti alla West Coast, soprattutto in quota Brian Wilson per quanta riguarda la ricerca melodica e l’armonizzazione delle voci. Per il resto la formula ha lasciato da parte qualche svisata più dark, prediligendo un suono più Seventies (Everyone’s 69


Hype Williams - Dean Blunt & Inga Copeland - Black Is Beautiful (Hyperdub Records, Aprile 2012) Genere: hypnagogica Dean (ma non era Roy?) e Inga mettono da parte l’equivoco moniker Hype Williams per il debutto lungo su Hyperdub e ci consegnano il loro lavoro più compiuto. E forse anche qualcosa di più. Nessuna quadratura del cerchio, sia chiaro, nessuno spostamento sostanziale, la formula rimane quella che conosciamo: ebeti tastierine analogiche, ritmi sconnessi, echi, sporcature, fantasmi di canzoni insomma, una musica drogata, anemica. Solo che qui il dosaggio degli elementi, la costruzione dell’atmosfera, dell’esperienza d’ascolto, il taglio giusto riescono a farla finalmente più intrigante che dispersiva, più suggestiva che irrisolta. Il disco è una suite di insinuanti bozzetti hypnagogici senza titolo (tranne l’iniziale agitarsi free alla Talibam!, Venice Dreamway) che alterna frammenti distesi, momenti di abbandono quasi elegiaco (il galleggiare piacevolmente tramortiti di 8), e altri più tesi, sinistri, ansiogeni (il mantra di 9; il trittico dub di 3, 7 e - Residentsiana - 14; i Wall of Voodoo al ralenti e sotto sonniferi di 15). Dean e Inga partono dal pop electro e da certe colonne sonore romantiche anni Ottanta (traccia 2; 5, lungo trip j-pop con finale Doors da quattro soldi) e le trasfigurano esangui, vampirizzate, come dopo un candeggio nella nebbia del sonno, del sogno o di una memoria inaffibabile. E’ una giostra onirica leggera, un dormiveglia di veli, specchietti e coriandoli, che poi scopri essere semplicemente un viaggio sulla metro da sfatti, fatti, sbronzi o semplicemente rintronati dall’insonnia. Adesso che la visione si è presentata, se non più lucida, sicuramente più chiara, luminosa, perfettamente impaginata, possiamo anche azzardare che il compimento di tutto l’agitarsi dentro e attorno al glo/chill/hypna sta forse proprio nelle mani di outsider come Dean e Inga o - ovviamente altri contesti, altri mezzi - Actress (sentire la traccia 13) e addirittura Demdike Stare (sentire l’atmosfera creepy di 10, lungo e lento rituale electro dub dalle parti di certi PiL). Interessante che tutti e tre - Hype, Actress e Demdike - abbiano remixato pezzi da Shangaan Electro, la compila dedicata all’electronica sudafricana uscita sulla label di Damon Albarn, e che Hype e Demdike abbiano condiviso lo split. Segnali veri o sovrinterpretazioni, difficilmente coincidenze, sta di fatto che sotto noi sentiamo uno stesso sentire, un certo compiacimento situazionista nel rigirarsi tra frammenti, scarti e riciclaggi, come l’incubazione di una fase NoWave (vedere come suonano dal vivo Dean e Inga) di certa electronica contemporanea (traccia 12, il footwork secondo gli Hype: indie-lofi, già modernariato, già passato, deformato dalla memoria). Perfetta colonna sonora per un possibile remake di Afterhours di Scorsese, Black Is Beautiful è un elegante lavoro di silhouette ritagliato in un non luogo inquietante, di nessuno ma familiare a tutti. (7.5/10) Gabriele Marino

A Bitch) e talvolta caracollante di r’n’b (Horrible Things (Make Pretty Songs)). Lo spettro Ryan Adams è evitato anche questa volta con successo, pur se magari virando verso quella gigioneria si farebbe un discreto successo. Il secondo disco dei due ragazzi di Milwakee conferma le loro buone qualità come calligrafi di una tradizione indie-pop guitar-oriented e innamorata del sound Sixties/Seventies. Niente che possa far gridare al miracolo, ma buon artigianato da cantina. (6.5/10) Marco Boscolo

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Jamie Jones - Tracks From the Crypt (Crosstown Rebels, Giugno 2012) Genere: Deep House Non aspettatevi di trovare in questo Tracks From The Crypt le ragioni che han reso Jamie Jones uno dei producer/DJ più acclamati del momento. Quelle stanno da un’altra parte, nel feeling a pelle che si instaura nei suoi set vigorosi ma mai aggressivi, nella scelta di un rapporto di fiducia basato su groove e funk, nel modus operandi old school che si focalizza sull’essenziale e non esagera mai. Di tutto questo, se proprio non avete la possibilità di assistere dal vivo ai dj-set, potreste farvi un’idea con uno dei suoi tanti mix (FabricLive.59 per dire) o al massimo coglierne il lato più intellettivo col precedente Don’t You


Remember The Future, che nel 2009 lasciava circolare bene il suo noto ventaglio di umori, spinte e gentilezze. Il nuovo full-lenght dato alle stampe da Crosstown racconta invece una storia diversa. Una raccolta di dodici lost tracks realizzate dal 2007 al 2012 che è un percorso a tema, dove il superfluo vien messo da parte e a risaltare sono i pattern fondanti della deep per club: una cassa dura e intransigente a cui potrebbe non servire nient’altro (come la Chicago vecchia scuola, vedi Frequencies) e una collezione di bassline fluide e agitate che valgono ogni watt dell’impianto (fenomenali i giri a passo lungo insieme agli Art Department in Our Time In Liberty e la vibrazione che afferra allo stomaco in Over Each Other). La costante è l’assetto purista e minimale che valorizza l’inserto occasionale, sempre pescato dal bagaglio classico, quindi i diva vocals di Somewhere, i funk flavours di Stems From Hackney e, perché no, i bleeps in trance di Tonight In Tokio. Nel complesso abbiamo un Jamie più manierista che mai e un set di pezzi dritti fondamentalmente tagliati per la pista. Solo una la traccia che spezza lo schema: Special Effect, con una voglia di trovare lo spunto melodico che ti riporta agli ‘80, quando era il pop elettronico a dare la spinta per gli sviluppi house/ techno e dalle pesanti eredità di gente come D.A.F. e Depeche Mode si passava alle invenzioni di Cybotron e Technotronic, sempre sotto la supervisione paterna dei Kraftwerk. Un unico tuffo al cuore, circondato da quintalate di quel mestiere che fa piacere sentire dai numeri uno. Regolare. (6.8/10) Carlo Affatigato

Japandroids - Celebration Rock (Polyvinyl Records, Giugno 2012) Genere: noise-punk Fin da quella sorta di Springsteen anfetaminico di The House That Heaven Built, momento corale da stadio e sicuramente parentesi più rappresentativa del comeback del duo canadese Japandroids, è chiara l’intenzione di Celebration Rock: riassumere tutta la potenza e l’emotività r’n’r di Hüsker Dü e Dinosaur Jr. Otto tracce intese a celebrare il rock nella sua essenza più classica e in tutto il suo sudore. Sulla scia di formazioni noise-pop come No Age, con determinate assonanze verso certo surf punk scanzonato (vedere alla voce Wavves and co.) e sull’onda di un esordio che si fece notare per genuinità ed immediatezza nelle sue centrifughe shoegaze, garage e noise a mantenere sempre spiragli melodici diretti ed entusiasmanti, i Japandroids ci hanno abituati ad una certa potenza sonora e volumi folli che, nonostanze la formazione chitarra e

batteria, lasciavano all’ascolto un senso di trasporto non indifferente. La formula di Post Nothing non sembra esser variata moltissimo - sovrapposizioni vocali, pestoni di batteria e furia chitarristica a go-go - e Celebration Rock la riconferma sia come estetica - il b/n della copertina - che come compattezza, nello specfico la lunghezza delle tracce in scaletta e il finale intriso di malinconia (Continuous Thunder che riesce a rivaleggiare con la passata I Quit Girls). Eppure la follia e la spregiudicatezza dell’esordio (lo skate punk di Younger Us, il filo shoegaze di Evil’s Sway, le furiose riletture Gun Club, For The Love Ivy e le sfuriate hc fine 80s come Adrenaline Nightshift) cedono il passo a spessore compositivo e a un tentativo di reinterpretazione del rock, in totale freschezza e irruenza. E ciò basta per premiarli. (7/10) Michele Montagano

Jon Porras - Black Mesa (Thrill Jockey, Maggio 2012) Genere: guitar-solo Un disco polveroso e arido come un terreno bruciato dal sole. Desertico fino al midollo e emotivamente instabile, malinconico e mesto nelle sue tinte fosche Black Mesa vede il mezzo Barn Owl Jon Porras cimentarsi con una versione disidratata e lancinante delle lande sonore solitamente affrontate col gruppo madre. Strumentazione (solo chitarra, elettrica e acustica, qualche percussione, un fender rhodes e l’occasionale presenza alla voce di Alexa Hotz in Blue Crescent Vision) e modalità compositive e di registrazione (il tutto risolto grossomodo in casa) dicono di un album intimo e introspettivo, calato nelle avvisaglie di certa tendenza all’Americana che da Neil Young arriva fino agli ultimi Earth, ma condita di passaggi più oscuri e dilatati al limite dell’ambient (Embers At Dusk) e della psichedelia più liquida e sognante (Desert Flight coi suoi tremolanti riverberi è un vero colpo al cuore). L’ipnosi indotta dalla stasi di Into The Black Mesa è una lunga discesa nei paesaggi più reconditi dell’animo del suo autore. Qualcosa che meglio di mille parole può condensare quel senso di spaesamento da perturbante che si può immaginare di provare in una terra come la Black Mesa. Un percorso, una indagine introspettiva tra stasi, espiazione ed estasi, che trova la sua catarsi nel velo svelato della conclusiva Beyond The Veil, sconfinato en plein air su deserti in b/n. (7.3/10) Stefano Pifferi

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K-Holes - Dismania (Hardly Art, Maggio 2012) Genere: garage, no wave Ho impiegato più tempo del dovuto nel recensire la seconda prova dei K-holes. Questo perché Dismania soffre del solito paradosso: buon disco, ma se ne sentiva il bisogno? Domanda che se posta non sfugge mai a risposta negativa. Dunque procediamo. Le fascinazioni dei K-holes sono per la no wave. D’altronde vengono da New York, anche se a comporre il gruppo sono principalmente ex garagers (tra cui l’ ex Black Lips Jack Hines e l’ex Golden Triangle Vashti Windish) pronti a dannarsi l’anima per realizzare un disco energico e livido. Ma nonostante gli intenti bellicosi la band non spinge l’acceleratore fino in fondo. Il sax non ha la scattosità/schizofrenia/poesia dei Contortions tanto per fare paragoni scomodi - e lo stesso vale per le chitarre. Il risultato quindi, almeno nella sua partitura più heavy, è debole. Le cose vanno meglio quando entra in scena la componente più ombrata di Siouxsie o il blues putrido dei Chrome Cranks (Window in the Wall e Numb) che pur restando in territori abbondantemente noti riescono a regalare un po’ di spessore al disco. Ma niente su cui sbavare troppo. (6.5/10) Stefano Gaz

Keane - Strangeland (Island, Maggio 2012) Genere: piano pop La loro parabola artistica è simile a quella di tante band - boom iniziale e successiva incapacità di ripetere il numero - ma, contrariamente ad alcuni colleghi che hanno continuato a rifare la stessa canzone per un decennio, i Keane hanno cercato di afferrare - fallendo - un percorso evolutivo che avesse un senso. Perfect Symmetry aveva rappresentato l’ultimo pasticcio in salsa kitsch-synth e da allora ad oggi sono passati quattro anni intervallati da un EP (Night Train) e dalla scrittura di materiale inedito per un quarto album, Strangeland, di cui pochi sentivano il bisogno. L’iniziale You Are Young riporta in vita i Simple Minds meno eighties miscelati con cori alla Coldplay e le cose peggiori dei Manic Street Preachers, il singolo Silenced By The Night, pur efficace funzionale nei rimandi strumentali e melodici, risulta immediatamente prevedibile e monotono; una stucchevole Disconnetted apre le danze ad una serie di sbadigli zuccherosi (Watch How You Go, The Starting Line e Sea Fog) che fanno da contraltare ad alcuni brani maggiormente tirati in zona Arcade Fire via Bruce Springsteen (On The Road) che dovrebbero incendiare gli stadi nel remoto caso in cui tornassero a 72

riempirli davvero. Ironicamente convincono maggiormente quando escono dai binari del piano-pop più melenso e si avventurano in territori pseudo-Radiohead in versione cheese (Black Rain, come già successe con l’interessante Atlantic contenuta in Under The Iron Sea). Con Strangeland la band di Tim Rice-Oxley - vero leader compositivo - ritorna sui propri passi abbandonando le tentazioni del passato per chiari fini AOR. Peccato che la tracklist sia composta dai soliti brani leziosi e fin troppo accomodanti. (5/10) Riccardo Zagaglia

Led Er Est - The Diver (Sacred Bones, Maggio 2012) Genere: Wave I Led Er Est sono sempre stati un gruppo anomalo per il sotto-genere cui appartengono. Wave elettronica né troppo minimale né particolarmente gotica. Niente grafiche in sgranato bianco&nero per loro, né ricorsi eccessivi alla citazione dei classici. Così fu per il debutto di Wierd (recensito a suo tempo) e così è oggi con il secondo full-length su Sacred Bones. A partire dalla sgargiante copertina a collage (prima stranezza per un gruppo dark-wave), passando per i brani di The Diver, si percepisce l’intenzione e la capacità del trio di New York di rielaborare la materia e dare nuova forma a una categoria spesso asfittica. Certo le coordinate di base sono quelle: synth retrò, batterie elettroniche minimali e possenti, voce profonda e impostata in stile Eighties. Ma c’è di più appunto, come il pop-dub di Kaiyo Maru, l’electro-punk di Animal Smear e i rumorismi marziali di La LLuvia y Memoria, tutti fulgidi esempi di come sia possibile muoversi all’interno di un determinato ambito senza per questo dover ricalcare pedissequamente le tracce del passato. (7.1/10) Andrea Napoli

Les Momies De Palerme - Brûlez Ce Coeur (Constellation Records, Aprile 2012) Genere: Folk-Ambient Constellation. Canada. Montreal. Quella arty e un po’ freak-is-chic dei collettivi, della commistione di generi e degli spazi indipendenti. È il contesto dove nel 2006 prendono vita Les Momies de Palerme, duo femminile che, per immaginario e appeal visuale, parrebbe composto da epigoni delle più blasonate Cocorosie. Musicalmente, invece, siamo grosso modo a metà strada tra Amon Duul II e Spires That In The Sunset Rise, con l’aggiunta di suggestioni provenienti dall’oriente


Leon - In My Factory (VIVa MUSiC, Maggio 2012) Genere: Tech-house & more Già l’anno scorso ce l’aveva anticipato in esclusiva a In Da Club, il nostro Leon: il primo album non sarebbe stato soltanto tech-house da dancefloor. Eppure non ci aspettavamo lo stesso uno spessore intellettuale così forte né un così ampio spazio dedicato ai mood lontani dalla pista, entrambi segni inconfondibili di una cura particolare che artista e management (la label è la VIVa MUSiC di Steve Lawler) han prestato alle potenzialità d’ascolto, indispensabili al buon funzionamento di un album soprattutto quest’anno. Tutta la prima metà di In My Factory è un ventaglio di umori che accarezza e seduce. Dal tribal-sciamanico di Inside Me all’emozionale scandinavo di Prophet Style, da Lara Martelli che si reinventa Bjork in My Breathe al cantato profondo in stile Art Department di Follow Me, il mood resta soft, aggraziato, la produzione curatissima e attenta a non forzare la mano, tutto teso a conquistare in maniera laterale, girando intorno al baricentro deep come la Deniz Kurtel in arrivo. E anche quando la tech-house arriva, che sia ancora esotica alla maniera basca (In My Factory) o ricoperta di loop vocali à la Tiger & Woods (Seventies In My Memories), rimane comunque un modo di far dancing lontano dalle ossessioni urbane, che passa con grande naturalezza e arriva con un’aria di sincero divertimento. Leon scopre un volto molto diverso da quello toccato con mano nei suoi dj set e solo al termine di un crescendo lungo tutta la tracklist arrivano It’s Time To Load e il Franco Cinelli remix di Supersonic, i 4/4 a basso rinforzato che conosciamo bene, quelli con cui tieni su di giri un club tutta la notte. È la firma familiare che cercavi in un disegno realizzato su tela insolita, soprattutto per un producer che sfoggia Like This Like That e Fiore come cavalli di battaglia. Si balla in maniera diversa in questo 2012, lo sapevamo, ma non immaginavamo che anche Leon partecipasse a questo valzer. Un anno e passa di lavoro per dimostrare di non essere solo un dj: obiettivo centrato in pieno. E premio speciale per la versatilità. (7.2/10) Carlo Affatigato

dei mantra e dei colori accesi (Incarnation), così come dall’immaginario mediterraneo cui il moniker stesso rimanda (Médée). Il disco in oggetto risale in realtà al 2010, quando fu incluso nel box della Constellation Musique Fragile Vol.1, ma solo oggi vede la luce in maniera autonoma, va detto, senza aver perso in questi due anni lo smalto ‘avant’ che lo contraddistingue. La musica è costituita da ambienti liquidi, oscuri e stratificati, sospinti talvolta da ritmiche wave: sintetizzatori cosmici si allungano su loop, manipolazioni e drone, con eterei e radi ricami di voce a testimoniare la seppur lieve presenza umana in una giungla animata da piccole creature perturbanti che cinguettano, stridono e strisciano nel folto sottobosco sonoro. (7/10) Antonio Laudazi

Lissy Trullie - Lissy Trullie (Wichita, Giugno 2012) Genere: pop rock Elizabeth McChesney, per tutti Lissy Trullie nasce a Washington D.C. ma già a sedici anni si sposta a New York dove inizia a muovere i primi passi all’interno dell’entertainment come DJ e come modella. Lineamenti fanciulleschi e look giusto, sono questi i due elementi che fino ad oggi l’hanno aiutata ad uscire dall’anonimato, molto più del dimenticabile EP d’esordio Self-Taught Learner risalente ormai a tre anni fa. Oggi Lissy Trullie e la sua band di supporto si presenta con l’omonimo album che, a tutti gli effetti, è l’esordio lungo della quasi trentenne americana. Lissy Trullie cerca di guardare oltre - direzione eighties - e staccarsi dal pop rock radiofonico contenuto in Self-Taught Learner continuando però a deficitare di personalità e di idee che possano generare interesse artistico. Non c’è una caratteristica, una peculiarità - sia a livello di suono sia a livello di scrittura - in grado di accendere un qualsiasi tipo di attrazione. 73


Abbiamo i pezzi spensierati (Caring), pretese Pretenders (I Know Where You Sleep), pseudo-oscurità oppiacee (Madeleine), tentazioni rasta-punkpop (It’s Only You, Isn’t It) e true ‘80s (Heartsound, X Red) ma la varietà da sola non basta, qui manca ancora la sostanza e l’apporto di Dave Sitek (TV On The Radio) in cabina di regia non permette risponde alla domanda che viene spontanea durante l’ascolto del disco: a che target si rivolge Lissie? (5.2/10) Riccardo Zagaglia

Locomotif - Twimog (Irma Group, Marzo 2012) Genere: pop ‘Viviamo a Catania, mica male certo, forse un po’ lontana, ma poi sboccia il mandorlo e tutto passa. Io mi chiamo Federica, canto e suono le campanelle giocattolo, Carmine suona un vecchio piano Rhodes, Luca batte i tamburi madreperlati e Gilu sogna il basso. Abbiamo bevuto un buon vino per festeggiare il premio della critica MEI 2009, abbiamo avuto camerini comodi con il pretesto di salire sul palco prima di Massimo Volume, Dente e Offlaga disco pax’. Toni garbati da intimismo indie ortodosso, quelli dei Locomotif, in un’auto-presentazione che dice già tutto della band. Della serie ‘piccolo è bello’, poesia delle cose semplici che incontra la provincia, richiamando un pop tarato sui suoni morbidi del piano elettrico e non troppo distante, per attitudine, da esperienze come Le-Li o Amycanbe. Voce femminile e una musica che si dispiega senza difficoltà su toni che rivelano velleità evocative piuttosto personali (La Luna e Gnac) e in qualche caso caratterizzate da una concezione di trip hop epidermica e per nulla disprezzabile. E’ il caso delle coloriture iniziali di una This World Is Made Of Glass, delle linee vocali di Promenade In The Sky o dei toni sospesi di Mistake. Il resto è pop di quello rotondo e facilmente assimilabile (Lost On The Run), vaghi sentori easy listening (Drunken Dreams), cover trasfigurate (la Amare inutilmente di Gino Paoli, unico brano in italiano del lotto), calma placida (The Passer-by), per un disco che trova la sua ragion d’essere nella mescolanza omogenea degli stili di cui sopra. Senza fretta e con un piglio da perfezionisti. (6.7/10)

i Lower Dens erano perlopiù una guitar-band dal suono calmo e confortevole annodato su differenti linee di chitarra e intrecci intuitivi. Passano due annate fatte di tonnellate di problemi interpersonali e continui cambi di lineup, e il sophomore Nootropics arriva come una vera svolta, tutta in positivo. Grazie all’ingresso del tastierista Carter Tanton, l’ora quintetto toglie alcuni nebbiosi riverberi e voluminosi riff connettendo organiche vocalità dreamy in loop stratificati, tempi motorik à la Neu!/Kraftwerk con cupi arrangiamenti Warpaint-iani e dunque un’inedita mossa krauta. La sperimentazione non intacca il songwriting: la frontwoman Jana Hunter, freak-folker parte dell’entourage di Devendra Banhart, mostra un gusto innato per la creazione di voli melodici in stile Sigur Rós passando per gli angoli nostalgici delle menti. Le tastiere, altro elemento di novità, pur nei passaggi emozionali vicini al dream dei concittadini Beach House (Propagation, Lamb, Nova Anthem), o asservite ad aggiungere vago colore e spazio alla progressione droning, godono di momenti dominanti fatti per esaltare la voce della Hunter a strumento ancor più potente di quanto già ascoltato nell’esordio. In perfetta sintonia col titolo (una droga che altera i neurotrasmettitori per incentivare intelligenza e memoria) e con gli umori scuri della 4AD, la fredda anima di Nootropics risiede proprio qui, nell’uso della tecnologia per estendere le capacità umane. La sublimazione sonica di tutto questo arriva nella conclusiva In The End Is The Beginning: 12 minuti di lugubri, metallici suoni in ripetizione con il solo canto della Hunter a sollevarne il peso. Eclettico, ottimamente composto, difficile e ambizioso, intrigante, Nootropics è un disco per chi preferisce l’immersione totale al ‘pick’ di tracce singole. Se Twin-Hand Movement possedeva momenti di magia immediatamente riconoscibili (Completely Golden), la nuova prova gode della magia dell’insieme. Nell’annata 2012, nel pieno dell’era social-network dove tutto richiede impatto instantaneo, un solo altro disco può, in parallelo, giocarsela sullo stesso terreno di moderazione: Ekstasis di Julia Holter che agli incubi robotici oppone day-dream barocchi. (7.1/10) Massimo Rancati

Fabrizio Zampighi

Lower Dens - Nootropics (Ribbon Music, Aprile 2012) Genere: Kraut-y dream pop Al tempo del debutto, Twin-Hand Movement (2010), 74

Madlib/Georgia Anne Muldrow - Seeds (Someothaship, Aprile 2012) Genere: funk, hip hop In evidente impasse (vedere la nostra rece di Vweto) dopo una frenesia creativa che tra 2009 e 2011 l’ha


Liars - WIXIW (Mute, Giugno 2012) Genere: avant-pop Esce un nuovo disco dei Liars, e viene da domandarsi: qual è la strategia di comunicazione, quale il posizionamento? Sisterword era un concept album concertato sia per contenuto che per espressione, e ‘Wish you’, pronuncia della sigla palindromica - ed estremamente più ricca di connotazioni - WIXIW (ascoltabile in toto qui), non può prescindere da una scelta precisa. I Liars non hanno mai comunicato nulla a caso. Hanno sempre lavorato attivamente nel confezionare un’immagine. Pare che sia questa la volta del rapporto con la tecnologia musicale e l’artigianato della realizzazione di un disco. Tutto concorre, anche l’aneddotica, se è vero come è vero che i nostri si sono chiusi - isolati anche fisicamente, in un rustico tra i monti - dapprima per creare, provare strumenti mai usati prima, poi spostati a Los Angeles per registrare. Come a dire, layer spaziale: on. Ne emerge un intreccio di soluzioni basiche e scavi nella tecnologia per vincere la battaglia con essa (a detta di Angus, nelle dichiarazioni di mezzo mondo, ma anche nel minivideo di presentazione del disco). Guardate al minuto 0:50 la mossa di tagliare la gomma del diffusore acustico. È un topos nel topos, siamo chiusi in un posto, lavoriamo duro insieme (qualcuno laggiù ha detto Metal Box?) e sperimentiamo provando e riprovando ogni mossa. L’accessibilità - WIXIW lo è in misura più alta di qualsiasi altro disco dei Liars - è passata dall’essere un’urgenza (vedi il self-titled) un risultato, forse maturato negli anni e nella penna, e nella consapevolezza del fatto che l’orecchio di oggi non ha più bisogno di riconoscere lo strumento (leggi: le chitarre) ma di capire chiaramente che si è - oppure no - in una canzone (III Valley Prodigies, dove Angus dà una lezione a Thom Yorke sul suo stesso campo). Da un lato i Liars sono sempre più un incrocio col senno del dopo di Wire e PiL, e in genere appaiono come il geniale proseguimento delle intuizioni inglesi dei primi Ottanta (No.1 Against The Rush), dall’altro sempre più vicini (ma enormemente più sanguigni e oscuri) ai soliti Radiohead appaganti per il mainstream. Diamo il primo ascolto e sentiamo un disco di mestiere, ci immaginiamo i titoli dei giornali, e l’incoronamento di re dell’innovazione trasudati dal sottobosco alle charts radiofoniche. È solo un sospetto, perché di diverso da chi ha battuto le stesse strade i Liars hanno almeno due cose, ossia un immenso talento e la capacità di far cortocircuitare l’attenzione al contesto di ricezione e l’auto-osservazione costante. ‘Dentro-fuori, dentro-fuori, come un delfino con l’acqua’. Quel titolo palindromo è uno specchio con la variabile del tempo. E in effetti è come guardare Drum’s Not Dead dopo 6 anni, e vedere che è successo. Più indietro ancora, un modo per voltarsi indietro, pensare a Mr. You’re On Fire Mr., al livello altissimo e alla costante trasformazione che questa band ha garantito negli ultimi dieci anni. I Liars ci mettono sul tavolo davanti agli occhi un foglio, e non esitiamo un secondo prima di sottoscrivere che conteremo ancora a lungo su questi bugiardi in continuo movimento. (7.3/10) Gaspare Caliri

portata a pubblicare qualcosa come 7 dischi a vario nome, da solista e in coppia con il marito Dudley Perkins, Georgia affida la parte musicale di questo Seeds a un producer consumato come Madlib (consumato anche troppo, perso anche lui tra le spire di troppi dischi, vedi la serie Medicine Show) e si dedica esclusivamente alle lyrics e ai cantati. Qualche anno fa un disco del genere sarebbe stato salutato come un evento. Adesso può aspirare, se va bene, ad essere un “buon disco” per entrambi. E un buon disco lo è davvero: ma senza i salti mortali che ci dovremmo aspettare (ma che forse non ci aspettiamo neanche

più). Dall’epica soul della title track alla psichedelia stoned del feat con Dudley/Declaime (The Few) c’è una bella carrettata di intensa funk music ai tempi del wonky, con qualche picco di appeal pop e di coolness. Però Georgia, adesso che hai pure delle competitor di qualità come le THEESatisfaction, devi tornare a dare di più. E tu, Madlib... Vabbè con te abbiamo un po’ perso le speranze. (6.4/10) Gabriele Marino

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Marilyn Manson - Born Villain (Cooking Vinyl UK, Aprile 2012) Genere: Hardcore metal Fino a una decina di anni fa per Marilyn Manson valeva tutto quanto diciamo oggi per Skrillex: tralasciando i predicatori che lo consideravano il principale responsabile del decadimento sociale corrente (l’apice lo osservammo per Columbine), era facile odiarlo soprattutto da cultore del genere, per aver ridotto il metal (o meglio, la percezione diffusa del metal) a una mera questione di urla, schitarrate violente e un’immagine fondata su facili provocazioni (ambiguità sessuale, blasfemia esplicita e anarchia). Eppure resta impossibile da ignorare il successo ottenuto: Manson era riuscito meglio di chiunque altro a convogliare la rabbia adolescenziale del tempo verso una formula teatralmente asociale e distruttiva, facilissima da accogliere, che non era fatta solo di satanismo e croci capovolte (come molti pensano), ma attaccava in egual misura bigottismo religioso, deterioramento socio-culturale e in generale corruzione del sistema (“Do you love your guns? God? Your government? F**k you!” urlava Warner in The Love Song). Per questo l’apice di successo è arrivato durante le aggressioni esplicite della trilogia Antichrist Superstar Mechanical Animals - Holywood. E per questo il declino è arrivato puntuale quando è venuto meno il senso di ribellione catalizzatrice per la generazione giovane, con Eat Me, Drink Me e The High End Of Low che han visto svoltare il sound verso una nuova fase malinconica, più passiva e a tratti prossima al cantautorato hard-rock. Una trasformazione che si evidenzia soprattutto in una differente semantica dei testi, che oggi hanno perlopiù come soggetto l’io del cantante e la sua collocazione di fronte al mondo, invece che le anomalie del sistema contro cui si scagliavano gli album più caustici. Born Villain è dichiaratamente un tentativo di tornare alla fase d’oro, rimettendo in discussione quanto fatto negli ultimi due album e tornando a far musica atta a scatenare determinati meccanismi nel pubblico (“mi ero messo a far canzoni che facevaro sentire la gente come mi sentivo io quando scrivevo. Ora voglio che si sentano nel modo in cui voglio farle sentire io, come fossi un direttore d’orchestra.”). E in effetti torna a sprazzi quell’energia del Manson che ricordiamo, Hey, Cruel World, Gardner e Disengaged hanno di nuovo quella formula fatta di velocità, alienazione metallica e disagio atavico, in una confezione dal buon impatto e a presa immediata. Eppure sono solo sporadici ritorni di fiamma, mentre l’album si attesta su un profilo metal abbastanza canonico, con pezzi di mestiere (Lay Down Your Goddamn Arms, Pistol Whipped) e mosse ruffiane che inseguono il trend 76

corrente (Children Of Cain: sì, dopo i Korn anche Manson accoglie gli stilemi dubstep). Ne vien fuori un disco tutto sommato onesto e lineare, che potrà non dispiacere al nuovo ascoltatore, anche se ovviamente non c’è la potenza di fuoco di Rock Is Dead, né l’inafferrabilità di The Dope Show, né la fruibilità immediata di The Nobodies. La titletrack ben esprime l’aria che tira: è di nuovo quel mix di disperazione impotente e sofferta di un tempo, ma al momento cruciale manca la reazione, il colpo di coda che era la vera arma in più di Marilyn Manson, e più semplicemente ci si concentra sul trasmettere sensazioni e disagi. Nato canaglia? Nato interprete di quel ruolo, ad essere precisi. E recitare una parte, si sa, alla lunga stanca. (6/10) Carlo Affatigato

Masha Qrella - Analogies (Morr Music, Maggio 2012) Genere: Indie pop Ci sono cose che alla cantante tedesca importano davvero poco: fare dischi spesso, ad esempio; oppure aprire la prima raccolta di originali dopo il 2005 con un “Take me out, tonight” che rimanda a quel monumento degli Smiths. Ma anche abbandonare lo stile indie pop-rock fine ‘90 che la contraddistingue per la ricerca dell’hype è cosa che non le passa per la testa, e ciò anche a rischio che le nuove canzoni possano accusare il confronto con il canzoniere di Weill e Loewe del disco precedente. Nulla, l’unica concessione che fa alla moda è la cassa in 4 di Crooked Dream, One Step e Bluebottle, o usare praticamente come unico effetto per la chitarra quel tremolo ampiamente ripescato negli anni 00s. Tutto in realtà è riportato a un pop fatto con leggerezza melodica, dettagli gustosi di chitarra per lo più pulita arricchiti qua e là con un organetto in riff o con reminescenze folk (che con quella vocina Suzanne Vega non ci stanno neanche male), sempre da una mano molto felice per gli arrangiamenti. Può sporcare d’elettronica il boogie di Hawaii, attraversare la notevole Crooked Dream con un vento di memorie-umbratilità al synth e portarla verso un finale psych, raccontarci la storiella folky ironica di Finishing Buddies chiudendo l’album con una seconda versione più sbarazzina, incantarci coi crescendo strumentali e la battuta dispari post punk di Last Dance, venare One Step di una chitarrina u2esca primi 80s e poi sorprenderci di nuovo con Take Your Time, tra trip hop, soul vintagista jazz e battuta sincopata, ma soprattutto con una melodia celestiale. Il titolo Analogies e l’attacco col richiamo Smiths poteva-


no far prevedere un gioco meta-pop condotto per tutto il disco, ma ciò non accade: accade invece un disco di solide canzoni tra pop e classicità. (7.2/10) Giulio Pasquali

Matteo Costa - Sono solo matti miei (Garrincha Dischi, Aprile 2012) Genere: pop E’ uno sfogo poco più che diaristico quello di Matteo Costa, già “padre” di Garrincha dischi e oggi alla sua prima prova da cantautore con questo Sono solo matti miei: probabilmente il peggior lavoro pubblicato dalla sua stessa etichetta. Chitarra, batteria, begli archi, fiati e nulla più, per un racconto in fieri di sé e per sé. Ci tocca tristemente affermare che questo primo lavoro di Costa potrebbe diventare un buon manuale per tutto quello che il cantautore italiano, oggi, non dovrebbe fare. Non c’è nulla che in termini di testi renda questo un lavoro interessante, nulla che lo svincoli dal suo ruolo di “sfogo” ben chiaro sin dall’incipit dell’album. E’ naturale, noi tutti possiamo ritrovare la nostra piccola esperienza personale in alcune delle situazioni perlopiù sentimentali che Costa va descrivendoci, ma non bastano le vicende amorose a fare di qualche parola una valida parola d’amore di una valida canzone. Il disco di Matteo Costa si lancia in episodi imbarazzanti il cui culmine è Io senza Zoe ci ho provato, pezzo il cui testo andava chiaramente spedito via email a una persona soltanto, l’unica forse in grado di scorgerne il valore. Nell’infinita piazza di chi dà in pasto i propri sentimenti in modo assolutamente non filtrato, album come questi, del tutto scevri di materia artisticamente interessante, vivono sullo stesso piano di un formar televisivo accattivante che vorrebbe colpire forse con la scusa del mal comune mezzo gaudio, crollando invece in banalizzanti patetismi. (4.5/10) Giulia Cavaliere

Maxïmo Park - The National Health (V2 Music, Giugno 2012) Genere: indie rock Il non saper dare seguito ad un fragoroso debutto ha mietuto vittime illustri tra gli indie rock idols di metà anni zero: i Futureheads sono finiti a realizzare dischi totalmente a cappella, i The Rakes si sono sciolti senza dare nell’occhio e i Fratellis sono da anni in pausa, solo per citare tre dei nomi più importanti. Dopo il mediocre Quicken The Heart, analogamente ad altri indiecolleghi - Julian Casablancas, Paul Banks/Julian Plenti,

Brandon Flowers e Kele Okereke - anche Paul Smith tentò con Margins la carriera solista con risultati non esattamente memorabili. Rimessi gli abiti del leader dei Maxïmo Park, Paul e soci danno alle stampe The National Health, arrivando così al quarto album, il che è già comunque un risultato considerato l’appeal - non solo della band, ma dell’intero genere - sempre più deteriorato. The National Health affronta tematiche piuttosto alte e attuali e si concentra sul tornare a prendere il controllo della propria esistenza in un momento di profonda crisi. Come spesso accade però le buone intenzioni concettuali non trovano riscontro a livello musicale. Gli aggiornamenti alla proposta sonora dei Maxïmo Park sono minimi e quasi impalpabili, molto più evidente è invece la testardaggine nel voler tenersi buoni gli irriducibili nostalgici del boom indie-rock dello scorso decennio. La testartaggine però a volte paga, infatti contrariamente a Quicken The Heart - qui le canzoni non mancano. Certo, per contare i filler potrebbero non bastare le dita di una mano (la titletrack, l’eccessiva This Is What Becomes Of The Brokenhearted, i tastieroni di Banlieue), ma lungo le tredici tracce del disco non mancano gli episodi riusciti: il minuto di When I Was Wild, il tiro rock - la mano di Gil Norton si sente - di Waves of Fear e il ritmo trascinante di Until The Earth Would Open. Gradevoli lo sono ancora, ma i Maxïmo Park con The National Health difficilmente riusciranno ad invertire il trend della loro carriera: il tempo passa e il dubbio che buona parte del merito di A Certain Trigger fu quello di uscire nel momento storico giusto, si fa sempre più forte. (5.9/10) Riccardo Zagaglia

Melvins - Freak Puke (Ipecac Recordings, Giugno 2012) Genere: hard-melvins Cambiano pelle come rettili ormai i Melvins. Non si fa in tempo a pensarli ‘storicizzati’ che ti sorprendono facendo i giovani (vedi alla voce ep in digitale per The Bulls And The Bees) o svarionando da tutt’altra parte. Ennesimo disco, ennesima formazione - stavolta avvalorata dal moniker nuovo di zecca Melvins-Lite - ed ennesimo suono. Lasciati da parte temporaneamente i due Big Business, peraltro prossimi al comeback e al tour europeo che toccherà anche casa nostra, a fornire i (contra)bassi in questo Freak Puke è nientemeno che il Trevor Dunn già nei Mr. Bungle e nei Fantomas. L’unione fa notoriamente la forza e se di forza pachidermica l’accoppiata Buzzo-Clover ha già dato ampiamente 77


Miaoux Miaoux - Light Of The North (Chemikal Underground Records, Giugno 2012) Genere: dance-dream-indie Rimanendo all’interno del suono elettronico scozzese, più che il Washed Out tirato in ballo in occasione dell’ultimo album degli Errors, Julian Corrie, ultimo acquisto in casa Chemikal Underground, sembra un incrocio tra Caribou e Nathan Fake in una tela coloratissima tra pop-folk e sintetiche korg, spazi aperti e occhio elettronico. Corrie è un giramondo. Londinese di nascita e freelance sound engineer di professione, il nostro ha passato cinque anni in Perù prima di prender casa a Glasgow dove si è fatto conoscere come chitarrista nell’indie-pop act Maple Leaves - duo con Anna Miles (ora quartetto) di cui oggi è produttore - prendendosi l’applauso dei Belle & Sebastian. Miaoux Miaoux - attivo dal 2007 con l’album autoprodotto Rainbow Bubbles - rappresenta invece l’alter ego personale, un caso indie pluriradiografato della blogosfera britannica, anche per via di un’apertura per i Beak di Geof Barlow e un remix per Zoey Van Goey. L’annuncio della firma per una Chemikal in cerca di rinnovamento (il catalogo, ricordiamolo, è fatto di chitarre - Mogwai, Radar Bros e Delgados - e druken lyiric à la Arab Strap) ha intensificato il chiacchiericcio e sviluppato l’attesa attorno a questo Light Of The North, un album prodotto dalla vecchia volpe Paul Savage (Phantom Band, Mogwai) che ha richiesto più di un anno di lavorazione. Rispetto ai The Errors di Simon Ward, Corrie toglie di mezzo ogni shoegaze e glo-fi feeling per andare dritto al cuore di una vivida synth-etica pop. In scaletta trovi dell’indie-dance giocata su un abbondante rifforama analogico/materico tipico di questi anni, ma anche aperture folk-pop. Ed è questa la freccia nell’arco: synthpop, wave alla sei corde (Esperanza il riferimento più ovvio), rimbalzi al passato folk, 80s rap, house e disco, tutto funzionale alla freschezza pop. Senti le melodie dal gusto proggy dell’opener e pensi che Caribou sia andato a trovare i Field Music. E pur non eguagliandone la sintesi, il canadese autore di Swim è più volte chiamato in causa. In tracklist troviamo le texture granulose dei moog e il dream-pop di Autopilot, la latin house tastieristica di Hey Sound! con call & response melodici che fanno molto Sun, l’80s pop falsettato à la Erneld Oye di Better For Now, ospiti intenti a portare singing disco (Anna Miles versione house in Is It Dream) e funky videogame rap (MC Profisee in Virtua Fighter) e un trittico finale che è tutto un ritorno alla domestica melodia folky dei Maple Leaves con (l’andazzo post-daft di Singing In The Dark) o senza (l’ottima Stop The Clocks) il pompaggio analogico. Se lo scorso anno l’album per l’estate è stato Within And Without, quest’anno un probabile candidato potrebbe essere Light Of The North. (7.2/10) Edoardo Bridda

prova, in questo caso potremmo dire che fa anche ‘sperimentazione’. Nulla di trascendentale, ma si nota nell’impianto hard&heavy particolarmente tinto di sonorità e suggestioni seventies, una voglia di dare qualche colpo di fianco e tentare se non vie, per lo meno approcci nuovi. Non si preoccupino i die-hard fan. Svisate come quelle che inaugurano Worm Farm Waltz annegate nel wah wah o quelle da cavalcata dell’apocalisse di A Growing Disgust, lasciano poco all’immaginazione tributando il giusto omaggio alle jam 70s cui i Melvins sono affezionati mentre l’acido rock peso e monolitico riemerge carsicamente tra la title track, Leon Vs. The Revolution, Let Me Roll It (cover di McCartney svolta tra presa per il culo e sonorità cafonissime). Già nell’apertura di Baby, Won’t You Weird Me Out o nel cuore della citata Worm Farm Waltz però, è riscontrabile 78

il tentativo di inserire qualcosa di nuovo, tra pesantezze e cesellature, contrappunti e bordoni, mentre altrove le aperture all’intrusione di corde aliene al suono del trio - e qui gioca un ruolo fondamentale Dunn tra archi, sfregamenti di archetti, ecc. - rimandano quasi a atmosfere neo-classiche e danno al tutto un senso di alterità straniante che ce li restituisce più vivi che mai. La litania malata tutta corde e abissi di Holy Barbarians, l’intermezzo cameristico di Inner Ear Rupture, la lunga suite sperimentale di Tommy Goes Berserk ci dicono di un lavoro non memorabile ma che è, se contestualizzato in una ormai elefantiaca produzione discografica, un bel colpo d’ala. Oltre che la conferma di come i Melvins siano tutto fuorché appagati dall’aver creato un suono. (7/10) Stefano Pifferi


Metallic Taste Of Blood - Metallic Taste Of Blood (RareNoise, Maggio 2012) Genere: Avant-Jazz-Metal L’album in questione vede il poliedrico e prolifico chitarrista/produttore Eraldo Bernocchi radunare un quartetto davvero ben assortito, con il pianista/tastierista Jamie Saft (John Zorn, Marc Ribot), il bassista di Porcupine Tree e No-Man Colin Edwin e il batterista Balazs Pandi (Venetian Snares, Merzbow, Kilimanjaro Darkjazz Ensemble), già accanto a Bernocchi nel progetto Obake. Il freddo del metallo e il calore del sangue si fondono in questa creatura strumentale tra avant-jazz, metal-industrial e dark-ambient, delineando la morfologia pulsante di un territorio (mentale) quanto mai fecondo e polimorfo, dove groove, suggestione, sperimentazione e melodia si intrecciano con grande coesione. Vi si respira un aria rugginosa, nella pastosità delle chitarre, nei cromatismi di pianoforte e nella spettrale desolazione di riverberi e stridii; un’aria pregna di tecnica e lucidità, nel beat rotondo di Edwin come nello scorrere incalzante di ritmiche jazz-rock, dub e drum’n’bass, con piccole dosi di elettronica a rifinire un’approccio sostanzialmente analogico. E se in Sectile il piano delinea scenari di algida e riverberata bellezza, l’organetto maligno di Schizopolis inquadra le atmosfere fumose e poco rassicuranti di una suburbia corrotta, mentre in Bipolar il quartetto sa scindersi in strofe dal passo quasi post-rock e cavalcate cyber-metal corrose dalla distorsione. Sintetizzando potremmo parlare di un ibrido tra Dan Berglund’s Tonbruket, Ulver (in particolare quelli prestati al cinema in Svidd Neger OST), Obake e KDE; ai piani più alti, insomma, di un sentire musicale estremamente ricettivo, aperto, trasversale e ricercato, nel quale il concetto di avanguardia non si oppone a quello di fruibilità, ma si arricchisce di contaminazioni egualmente provenienti dalla musica colta, da quella estrema e da quella semi-improvvisata. (7.4/10) Antonio Laudazi

Metric - Synthetica (Mom And Pop, Giugno 2012) Genere: indie pop-wave Per i canadesi Metric, l’esposizione mediatica raggiunta con l’ultimo album Fantasies - addirittura eletto Alternative Album of the Year ai Juno Awards - non deve essere stata facile da digerire, soprattutto considerato il fatto che qualche mese prima venivano quasi dati per dispersi. Dal canto loro non hanno fatto nulla per rimanere nell’ombra, vedi il pacchiano video di Gimme

Sympathy e la tendenza verso un pop-appiattimento sonoro sicuramente più prevedibile e meno avventuroso rispetto agli esordi. Tre anni dopo provano a ripetere il numero con Synthetica un disco ispirato, tra le altre cose, alle idee legate all’architettura radicale degli italiani Adolfo Natalini e Cristiano Toraldo Di Francia. La cigogna impacciata Emily Haines e soci continuano ad esplorare le vie del pop più ordinario e anonimo, tra new wave addolcita e indie. Anche se la musica contenuta nel disco più che Synthetica è synthstatica, tanto è imbalsamata e quasi intrappolata all’interno delle vesti eleganti quanto limitanti della band. I brani scorrono leggeri leggeri, senza sussulti e senza azzeccare l’intuizione melodica in grado di fare la differenza. A spezzare la monotinia e la standarizzazione di fondo - per non parlare del quasi irritante pop sbarazzino di Lost Kitten - ci pensano giusto il botta-risposta Emily/Lou Reed di The Wanderlust, il tiro power pop tra ultimi Blondie e Garbage - della titletrack e il ritmo indie-rock tipicamente canadese di Speed The Collapse e Breathing Under Water. Consigliato solamente ai fan sfegatati della band - se esistono - o a chi - chi?? - sente la mancanza dei Rilo Kiley. Per i primi esiste una particolarissima limited edition chiamata Stereobox che contiene materiale che sfamerebbe anche il feticista più incallito. (5.7/10) Riccardo Zagaglia

Moonface/Siinai - Heartbreaking Bravery (Jagjaguwar, Maggio 2012) Genere: psych avant pop Posto che se stessimo qui ad elencare tutti i progetti che vedono protagonista il canadese Spencer Krug, faremmo notte, ci limiteremo a costatare come Moonface sia la sua incarnazione più sperimentale, almeno a giudicare dai precedenti lavori. L’EP Marimba and Shit-Drums del 2010 e l’LP Organ Music Not Vibraphone Like I’d Hoped del 2011, erano suggestivi tentativi di stressare fino in fondo le possibilità degli strumenti da cui prendevano il titolo. Da questo punto di vista, in Heartbreaking Bravery, la ricerca sonora è finalmente al servizio di canzoni di amplissimo respiro, che si fanno apprezzare sin dal primo ascolto. Merito delle trame opulente e degli scenari epici e magniloquenti che trasformano i temi drammatici, in sontuose sinfonie wave. Yesterday’s Fire, ad esempio, ha quel tipo di crescendo corale che ha fatto le fortune dei connazionali Arcade Fire, con il piano che detta l’agenda melodica, le foschie 79


shogaze in lontananza e la voce schiacciata dal pathos. I Siinai, il collettivo finlandese che accompagna Krug con digressioni sonore che spaziano dal folk apocalittico alle digressioni cosmiche, hanno la capacità di mantenere con sicurezza l’equilibrio fra le tentazioni avantgarde e la ricerca di accessibilità. Per questo Heartbreaking Bravery è un album pop che si ritaglia momenti di elegante sperimentazione nei tappeti sintetici puntati verso l’orbita dei Tangerine Dream di 10,000 Scorpions o col misticismo pacificato della title track. (7/10) Diego Ballani

Múm - Early Birds (Morr Music, Giugno 2012) Genere: electro Non so quanto la folktronica sia stata episodica o nodale, di certo ne abbiamo parlato molto e continuiamo a farlo, a rintracciarne usi e forme nell’attualità. Passata di moda, metabolizzata, filtrata nel comune immaginario pop-rock per diventare humus sonoro diffusissimo: più che un genere, la folktronica è stato un frangente, una declinazione. E ha trovato una delle sue espressioni più compiute nei primi due dischi degli islandesi Múm. I quali dal canto loro ritennero di avere esaurito tutto quanto c’era da dire in materia col capolavoro Finally We are No One, anno 2002, tant’è che decisero di mettersi a sgranare la pannocchia indie fin dal successivo Summer Make Good. Tanto dimenticabili da lì in avanti come indelebili furono i due anni tra l’esordio Yesterday Was Dramatic - Today Is Ok ed il suddetto sophomore. Oggi la Morr ci offre la possibilità di sbirciare il tirocinio che ha preceduto la perfezione di quel doppio colpo, confezionando in questo Early Birds quindici tracce incise tra il ‘98 ed il 2000, edite finora su cassette o vinili di non facile reperibilità, e c’è pure spazio per una “previously unreleased”. Scopriamo così che i primi vagiti Múm - inizialmente un duo formato da Gunnar Örn Tynes e Örvar Þóreyjarson Smárason - erano all’insegna di un drum’n’bass di marzapane, piuttosto didascalico nella reiterazione di riffettini elementari (Póst póstmaður), ingegnoso nel rendere zuzzurellone l’influsso kraut (Insert Coin, concepita per un videogame) e abile a baloccarsi tra rigurgiti synth-wave vagamente Notwist (l’inedita Hvernig á að særa vini sína). L’attitudine per le fragranze pastello delle tastierine, degli organetti, dei vibrafoni e via discorrendo c’è (Glerbrot, Gingúrt) ma inizialmente sembra limitarsi sullo sfondo a fare filigrana, per poi sbocciare - previo anche l’ingresso delle gemelle Gyða e Kristín Anna Valtýsdóttir, pianista l’una e violoncellista l’altra - sul filo di una fragrante ambiguità, vedi le trom80

be e gli archi simulati/reali in Náttúrúbúrú, lo svolgersi tra androide e bucolico di Loksins erum við engin, la pastosità calda di violoncello e diamonica che umanizza la trama drum’n’bass in 0,000Orð... Per arrivare quindi alla conclusiva Enginn vildi hlusta á fiðlunginn, því strengir hans vóru slitnir, che tra field recordings e viluppi vaporosi di tastiera mise a punto l’ordito perfetto per gli impagabili quadretti successivi. Diciamolo: non ci sono episodi folgoranti che obblighino a rivedere il bilancio sui Múm. Però è un documento importante perché lascia intravedere un movente - forse il principale - della folktronica, ovvero il movimento assieme ingenuo e ingegneristico della prima generazione digital-addicted verso il recupero della dimensione espressiva analogica, con tutta la discordanza di background, mezzi, sensibilità e punti di vista del caso. Da cui risultò quella toccante inconsistenza da avatar del reale. (6.3/10) Stefano Solventi

Neneh Cherry/The Thing - The Cherry Thing (Smalltown Supersound, Giugno 2012) Genere: free r ’n’b Introdotta da due ciliegie succose di sangue (il sangue dei legami affettivi più e prima ancora che parentali), Neneh Cherry torna su disco dopo qualche anno di assenza e lo fa insieme al trio jazz di Mats Gustaffson che porta il nome di una composizione di papà Don: The Thing. Neneh e il gruppo si sono incontrati nel 2010 in uno studio a Londra, ed è stato amore a prima vista. Via con le jam, i concerti, adesso ecco l’album. Qui abbiamo otto cover sorprendenti per fonti e splendide per resa, è il caso di vederle una per una. Cashback, ruvido r’n’b scritto da Neneh, dischiude la propria natura blues/freejazz nel potente inciso; Dream Baby Dream, perlina dei Suicide molto Velvet Underground e che tanto piace a Springsteen, viene come ripassata alla luce del Tom Waits di Innocent When You Dream, sovrapponendosi alle tenere perversioni di una Walk on the Wild Side; con Too Tough To Die Neneh rende omaggio a una delle sue allieve/eredi della Bristol trip-hop, Martina Topley-Bird, con una versione tostissima che tira in ballo addirittura gli Stooges; Sudden Movement, firmata Gustafsson, una specie di pezzo dei Lounge Lizards come se i Karate facessero jazzcore, mette in evidenza il gusto e i modi - appunto - zuiani-vandermarkiani del sassofonista svedese; l’MF Doom madlibiano di Accordion, è la più personalizzata delle cover, viene riletta con un ombroso gusto cameristico, e anche togliendo


Neptune - msg rcvd (Northern Spy Records, Maggio 2012) Genere: avant-rock Il groove da catena di montaggio che inaugura msg rcvd ci ricorda, seppur a poca distanza da Silent Partner, che i Neptune sono una formazione che ha fatto della materialità viscerale il proprio trademark sonoro. La sensazione di ritrovarsi di fronte ai ‘soliti’ Neptune però svanisce quasi subito, dato che a prendere il sopravvento è tutto un lavorio sul suono che mano a mano disvela l’obbiettivo dell’album: indagare cioè tutte le possibilità e l’indeterminatezza del feedback. Un lavoro altamente concettuale, parrebbe, se non fosse che la materialità di cui sopra sia parte costituente del dna del trio americano (il quarto uomo Farhad Alexander Ebrahimi che raddoppiava l’apparato ritmico nel disco precedente è fuori dai giochi) e riemerga continuamente anche in un disco particolare, ancor più ostico e sperimentale dei precedenti. In cui cioè le chitarre scivolano in secondo piano, lasciando spazio ad altri rudimentali apparati sonori auto costruiti, com’è tradizione, dai nostri. Oltre al feedback generato dall’amplificazione della batteria di Micka, sono i ‘feedback organ’ a farla da padroni come succede nella lunga apertura affidata a Luminous Skull o nella chiosa di Dstl Sgnl: pulviscolo di suoni, stasi, contatti, energia elettrostatica modulata e assemblata per costruire il groove di cui sopra ma trascinato sul territorio sfasato e slabbrato dell’avant-rock. Poco o niente ‘rock’, rumoroso o disturbante che sia, insomma, se si eccettua lo sgorbio post-sonicyouth-no-wave di Rpr, pezzo più breve del lotto. I bostoniani virano dunque più verso This Heat, Throbbing Gristle e primi EN supportando la scelta di dilatare le composizioni - sfilacciandole fino a renderle materia plasmabile, con una certa concettualità avant- piuttosto che ritornare a bazzicare i lidi di un rock industriale mutante e mutato da novelli Tetsuo. La scelta è ottima. Molto probabilmente non durerà, vista l’inquietudine che anima da sempre il progetto di Jason Sanford e Mark Pearson, ma per ora ci si può (e ci si deve) accontentare. (7.5/10) Stefano Pifferi

quell’hook fantastico che è appunto il suono dell’accordion (un tipo di fisarmonica) la cosa funziona che è una meraviglia; Golden Heart è il Don Cherry dell’esordio su Blue Note, con Gato Barbieri al sax, desertico, arabeggiante, in qualche modo masadiano; ed eccoli adesso gli Stooges, in una magistrale rilettura del sexissimo slow Dirt da Fun House; What Reason è il Coleman languido ed esotico che si faceva spalleggiare da papà Don, sempre lui, con Neneh a sostituire magnificamente i vocalizzi dell’indiana Asha Puthli. Che dire: grande classe soul camaleontica nella voce, perfettamente a proprio agio tra le trame spesse e raffinate del jazz gustafssoniano, perfetta elegante amalgama di new thing, jazzcore, blues e suggestioni world. Solo otto brani, neppure una nota in più del necessario, ed è tutto un bellissimo sentire. (7.2/10) Gabriele Marino

New Candys - Stars Reach The Abyss (Foolica, Marzo 2012) Genere: shoegaze L’impressione che i New Candys siano una sorta di progetto tributo a band neo-psichedeliche come Brian Jonestown Massacre e soprattutto Black Rebel Motorcycle Club è fortissima sin dal primo contatto con la formazione trevigiana: press foto sfocate e declinate al nero con tanto di capelli sugli occhi e giubbotti in pelle, una ragione sociale che è tutto un programma - il moniker nasce fondendo il cognome di Anton Newcombe e ‘Dandys’, il nickname con cui vengono amichevolmente chiamati i Dandy Warhols -, fino ad arrivare a un disco che unisce stelle e abissi in un sol colpo, simulando un trip psichedelico di quelli vecchio stile. Sospetti che in parte vengono confermati da un impianto generale che dal ‘club’ di cui sopra riprende quasi tutto: dalle ritmiche stentoree e ripetitive al suono monocromatico delle chitarre elettriche, dai toni oscuri e decadenti alle distorsioni avvolgenti. Fa un certo effetto ascoltare brani come Hand Chain Dog, Blackbeat e Half-Heart da una formazione agli esordi. 81


Episodi che rimandano a dischi come Take Them On, On Your Own in un momento storico in cui gli stessi padri putativi sono ormai andati oltre la loro formula originale, aggiornata prima in chiave acustica con Howl e infine rinnovata ulteriormente con il cambio di line up di due anni fa. I New Candys sembrano non curarsene, preferendo l’appartenenza ideologica alla ricerca di una formula personale che garantisca loro una carta di identità specifica. Scelta che da un lato genera un disco solildo, ben prodotto - ottimo il lavoro sui suoni di Pierluigi Ballarin e Stefano Moretti - e con qualche scatto di personalità (tra i tanti, il sitar di brani mistico-etnici come Nibiru) ma dall’altro non aggiunge molto a uno stile di cui ormai si conosce vita, morte e miracoli. (6.7/10) Fabrizio Zampighi

Nient’Altro Che Macerie - Circostanze (Autoprodotto, Maggio 2012) Genere: emo Si configura come un anello di congiunzione tra primi Verdena (sentire Illusioni, sorta di Valvonauta dei nostri giorni) e i capostipiti punk-emo del nostro paese Nuvola Blu, l’esordio del giovane power trio di stanza a Milano Nient’Altro Che Macerie. In Circostanze i ragazzi imbastiscono cinque pezzi carichi di sporcizia sonora e malinconica rabbia. La miscela, cantata sul filo screamo, è imperfetta, a volte stentata, ma di sicuro impatto nello sviscerare sentimento (Respira) su esplosioni noise (Vizio), mood oscuro ed aperture Fine Before You Came (gli intermezzi di Niente e Tu Chi Sei?). Le tematiche rimandano alla post adolescenza, con testi intrisi di sofferenza e narrativa autobiografica. Seppur molto acerbi, i Nient’Altro che Macerie sono da tener d’occhio. Ottime, infine, le grafiche di Legno. (6.4/10) Michele Montagano

Nu Bohemièn - La consuetudine del sentito dire (Face Like A Frog, Maggio 2012) Genere: Punk rock Fa piacere scoprire che certi giovani songwriter traggono anche ispirazione dalla società e non soltanto dalle proprie parabole esistenziali per esprimersi in musica. I Nu Bohemièn rappresentano una di queste eccezioni nel panorama dei cantautori italiani di ultima generazione, questi ultimi spesso ripiegati sula narrazione del proprio sé in salsa folk. La consuetudine del sentito dire (Infecta Suoni&Affini - Face Llike A Frog Records, 2012), il primo full length del trio rovigotto, è un concentrato di insofferenza sociale animata da fervore punk rock che 82

parte dalla critica alle dinamiche della provincia, per poi rivolgersi a istituzioni (chiesa cattolica in primis) e correnti politiche (Una lega di matti) e culturali (omofobia, individualismo). Che i contenuti critici e le narrazioni sulla superficialità della realtà provinciale siano al centro del messaggio dei Nu Bohemièn, lo rivelano certe ritmiche punk di derivazione classica (da Iggy Pop ai Clash) che sono poco più di uno sfondo evocativo per un cantato diretto e provocatorio (Padre, la smetta): formule sintetiche ribadite più e più volte (Il figlio gaio, Vendere soldi) e quel linguaggio salace (I pezzi di merda non muoiono mai) a cui ci ha abituati Appino degli Zen Circus, qui chiamato a collaborare nel brano La provincia. Ben lontani dall’impeto sovversivo del punk e decisamente più vicini al post-punk, invece, le edulcorazioni indie rock di Helsinki e Mente animale, le chitarre à la Joy Division de L’individualismo vi farà morire soli e le tinte dark wave à la Sisters Of Mercy di Non preoccuparti bambina. La scuderia di Manuele ‘Max Stirner’ Fusaroli (The Zen Circus, Dadamatto, Nobraino) sforna nuove voci fuori dal coro, che forse, con un pizzico di coraggio in più, potrebbero cominciare a farsi sentire davvero. (6.5/10) Viola Barbieri

Off! - Off! (Vice Records, Maggio 2012) Genere: punk hardcore Gli Off! sono a tutti gli effetti un supergruppo punkhardcore. Basta scorrere il curriculum vitae dei quattro membri per rendersene conto: abbiamo Keith Morris (Black Flag e Circle Jerks), Dimitri Coats (Burning Brides), Steven McDonald (Redd Kross) e Mario Rubalcaba (Hot Snakes/Earthless/Rocket From The Crypt). Mancherebbe solo l’ologramma - perchè siamo in tempi da ologramma vero Tupac? - di Darby Crash per completare un quadretto di famiglia tra i meno raccomandabili degli ultimi vent’anni. Il debutto del combo era già avvenuto un paio di anni fa con Fist Four Ep, ovvero sedici brani per la durata totale di sedici minuti che non sprecavano un secondo senza sparare qualche riff tritaossa. Off! fa esattamente la stessa cosa: di nuovo sedici minuti per sedici pezzi feroci e letali. Registrazioni e mix conclusi in pochi giorni, questo è uno di quei dischi che fa della schiettezza la propria arma, della serie se piace bene e se non piace chissenefrega. Dal primo all’ultimo brano sono tutti anthem costruiti nelle classiche scale del punk hardcore (uno per tutti il singolo Wiped Out), con Keith Morris più che mai pronto a prosciugarsi l’ugola a forza di scream e growl. Certo è tutta roba che poteva essere registrata nel


Saint Etienne - Words And Music (Universal, Maggio 2012) Genere: teen dream pop ‘Now Teenage winter’s comin down / Teenage winter throws a gown / Over every place I’ve been / And every little dream, forever’ Christmas album, soundtrack, compile, remake e un ep a richiesta (per aiutare Rob Stanley a completare la compilation per la serie ‘Now That’s What I Call Music’), evidenze su evidenze che, dal 2005, avvaloravano la tesi dello scioglimento e una splendida Teenage Winter, contenuta nell’ultimo Tales from Turnpike House, a chiuderne in bellezza la carriera. I rumor di scioglimento, puntualmente circolati da allora ad oggi, vengono finalmente sconfessati da un album che ricomincia proprio da uno spoken, perfetto gemello - in positivo - di quella canzone. Over The Border ripropone la stessa mania per i dischi (e la cultura pop inglese) nel testo e il medesimo canovaccio tra parole e chorus melodico. Ancora l’ossessione per il passato è protagonista nella carriera dei St. Etienne ma se, parafrasando il testo, ‘Marc Bolan non sarà più così importante quando Sarah avrà marito e figli’, l’amore è un qualcosa di eterno, esattamente come il pop. La magia della canzone pop che ti entra in testa fin da bambino, plasma la tua visione del mondo e ti condiziona tutta la vita non fermandosi alla gioventù, è dichiaratamente l’obbiettivo dell’album, come afferma anche il trio nel comunicato stampa. Words and Music è un atto d’amore verso un sogno melodico, anzi, una scelta di vita secondo le sue promesse d’incanto quotidiano. I rinnovati propositi si traducono in un album prodotto in collaborazione con uno stuolo di rodati producer/songwriter capaci di riportare, su un piano dance pop, i livelli di eccellenza del precedente lavoro: Ian Catt - vecchia conoscenza del trio -, Richard X - già remixer del loro primo album re-intitolato Foxbase Beta e co-autore dell’inedita Method Of Modern Love (contenuta nel best London Conversations: The Best of Saint Etienne) -, Tim Powell - al lavoro anche con Danii Minogue e Pet Shop Boys - e Nick Coler, storico membro dei KLF (ma anche co-autore e producer di hit single per Kylie Minogue, Girls Aloud, Sugababes, Alesha Dixon e Pet Shop Boys), . Lontani dalla pasta pop-rock e i sofisticati arrangiamenti beachboysiani con i quali li avevamo lasciati nel 2005, i nuovi St. Etienne continuano il discorso sintetico intrapreso nel 2009 con Richard X e nel solco della miglior Minogue (con la quale la maggior parte dello staff qui coinvolto ha avuto a che fare). Il filo rosso è il sunto massimo del pop sintetico made in england: dialoghi a distanza con New Order (Dj, Popular), Pet Shop Boys (When I Was 17) e tutto il portato della cosa, ovvero eurodisco (I’ve Got Your Music, Last Days Of Disco), sponde house (Heading For The Fair) e una puntata di rilassato infuso disco (Last Days Of Disco). E’ quanto basta per mettere nell’angolo l’intera l’infornata di superstar in ansia da gioventù - da Madonna a Kyle Minogue compresa - con una tracklist solidissima, completata da buoni ganci 60s pop di lungo corso (Haunted Jukebox) e aperta idealmente dall’algido e purissimo singolo Tonight (co-scritto e prodotto con Powell).“This could be my life this could save my life / I can hardly wait / Maybe they’ll open with an album track / Or a top five hit no turning back”. In più di vent’anni, mai un fallimento per Bob Stanley, Pete Wiggs e Sarah Cracknell. Tra i migliori autori pop della loro generazione. (7.2/10) Edoardo Bridda

1981 o giù di lì, ma caspita se funziona. Off! Va giù tutto d’un fiato sprigionando energia allo stato puro: tanta voglia di pogare, divertirsi, senza dimenticare un certo impegno politico. Non è un caso se i quattro, più che richiudersi nel castello del punk harcore, preferiscono accostarsi alla potenza live dei compagni di etichetta Black lips ma anche di Ty Segall o degli Thee Oh sees. E’ questa freschezza che piace in Off! e che potrebbe rappresentare il grimaldello per entrare nei cuori degli

hipster in cerca di nuovi spasmi. E in questo senso uscire per Vice records dovrebbe rappresentare una sicurezza. (7.3/10) Stefano Gaz

Olafur Arnalds - Living Room Songs (Erased Tapes, Marzo 2012) Genere: classic/pop Lo scorso autunno, Olafur Arnalds ha composto e pub83


Spain - The Soul Of Spain (Glitterhouse, Aprile 2012) Genere: Country Rock L’ultimo album in studio risaliva ormai a una decina d’anni fa. Poi, più che un vero e proprio scioglimento ufficiale, vi fu un lungo intervallo, durante il quale Josh Haden (notoriamente figlio del contrabbassista Charlie) ebbe modo di confrontarsi con una carriera solista, invero abbastanza mediocre, risolta nell’arco di un unico album nel 2007 (Devoted). Il ritorno degli Spain, quindi, raccolte a parte, può considerarsi piuttosto inatteso. Così come inattesa è la qualità dell’opera. Perchè The Soul Of Spain, ad onta dei leciti sospetti che si possono nutrire nei confronti delle reunion, è un album splendido, che conferma, semmai ce ne fosse ancora bisogno, quanto i nostri siano portatori di un verbo che è distante da qualsivoglia scena, genere o sottogenere indie. Allo slow-core, al quale vennero forzatamente accostati ai tempi del loro esordio (con Codeine, Red House Painters, Low, Bedhead), in virtù di una spiccata inclinazione per i tempi dilatati e la battuta lenta, oggi risponde un suono rotondo, caldo e pieno, cantautorale, che si fa voce di una tradizione americana che da Tim Hardin arriva sino ai Lambchop. Quella cioè, che riconosce le proprie radici tanto nel country quanto nella musica nera. Questo album, forse, va inteso come una sorta di rinascita, l’inizio di un nuovo percorso, più certo rispetto a lavori come I Believe. In questo senso andrebbe letto sia un titolo che richiama il loro primo disco (The Blue Moods Of Spain), sia una copertina che riconferma il loro artwork abituale: omaggio alla Blue Note, per via di figure femminili in abiti da sera su sfondi neri da jazz club. L’anima, il credo, i sentimenti: i temi che affronta la penna di Haden sono gli stessi da sempre e si traducono in ballate intense (Falling, Hang Your Head Down Low) e toccanti (Only One) nella loro estrema semplicità: come il canto da cowboy di Without a sound (I hear the leaves rustling/ I hear the thunder rolling in/ But your love came strolling in/ Without a sound) o il gospel di Sevenfold (Take me where they made that find/ Bring me my old .45/ When they turn their backs they’re gonna die/ To heaven their souls will fly), che sono fiumi di pacata malinconia; così come I’m Still Free è, invece, un’amara lettura della contemporaneità in un ottica tutta U.S.A. che certo a qualcuno, sottoscritto compreso, può far storcere un po’ il naso (Our flag still waves in the dusk/ Who do you trust? [‘] Here’s a salute to the old stars and stripes). Intorno, sono arrangiamenti fatti d’accordi pieni, chitarre, organi, pianoforti, archi, batterie appena sfiorate e tempi medi sempre entro le righe. Il blues elettrico di Miracle Man risulta un po’ fuori luogo, mentre le circolarità della ninna nanna I Love You, con i suoi fraseggi di chitarra jazz ed i suoi piatti spazzolati, oltre a fare da trait d’union ideale col passato, si impone come il brano più bello della raccolta. In quella metà dei ‘90 in cui emersero, furono considerati, anche giustamente, un po’ controversi. Alfieri di una certa classicità in combutta con un conservatorismo (riconducibile al motto: Dio, patria e famiglia) che non piaceva alla scena indie più progressista sia sul piano musicale che su quello ideologico, furono amati ed odiati in ugual misura. Nondimeno, a un certo punto anche loro rappresentarono l’attualità indipendente a stelle strisce: quella del post grunge, del ritorno al cantautorato e dell’alt country di Palace, Smog et similia. Oggi quei tempi sono lontanissimi e delle ideologie non importa più nulla a nessuno ma, se quella vena quietamente sperimentale negli anni è del tutto sparita - e lo era già ai tempi di She Haunts My Dreams -, la scrittura dei nostri ha comunque raggiunto un’eccellenza che forse non aveva ancora toccato, seppure in una variante folk tradizionalista. A margine, colpisce, invece, come la voce di Josh dopo vent’anni sia rimasta praticamente inalterata. (7.3/10) Alessio Bosco

blicato online sette brani. Il progetto era suggestivo e molto spendibile: in una settimana, un brano al giorno. E si andava dritti al punto: la velocità della composizione era subito classificata come talento, genio, estrema ispirazione. Specie se abbinata al mondo a cui fa riferimen84

to questa musica, convenzionalmente chiamata classica. L’ascolto rende palesi gli ingranaggi, le tecniche, il metodo. Le sette canzoni di Living Room Songs sono un campionario della musica dell’islandese, con nenie canoniche ma ottimamente arrangiate (Film Credits), in-


serti di faciloneria post-rock emozionale (Near Light), insomma temi e melodie molto riconoscibili, e quindi accessibili. È di certo un periodo questo che, per uno che si occupa di musica che la vulgata direbbe ‘classica’, è importante avere una formula, un concept, che faccia già metà del lavoro. Che attiri per la natura di ‘esperimento’, più che per l’urgenza espressiva. Eppure, anziché attivare il layer del mestiere, dell’artigianato nella composizione classica, il discorso attorno ad Arnarlds accende la retorica del talento, della capacità di emozionare. A volte addirittura dell’innovazione, più che della stupefacente preparazione di un 24enne. Eppure, sul portato di innovazione di Living Room Songs non giureremmo’ (6.3/10) Gaspare Caliri

Olafur Arnalds - Another Happy Day OST (Erased Tapes, Marzo 2012) Genere: classica / pop Una settimana per Living Room Songs, due per comporre la colonna sonora di Another Happy Day. A fine dicembre 2010, Olafur Arnalds è in Cina e riceve l’invito del regista Sam Levinson circa la colonna sonora del suo prossimo film, Another Happy Day. Olafur accetta, nonostante i tempi strettissimi, e passa le vacanze di natale, notte e giorno, al lavoro sull’opera. Va da sé che la scelta si orienta verso un mondo non fatto di canzoni conchiuse, ma di temi che ritornano. Tendenzialmente il pianoforte è meno protagonista, si accontenta in certi casi di un ruolo comprimario, a volte di contrappunto, a volte di punteggiatura emozionale, secondo le tecniche che il ventiquattrenne ha ormai dimostrato di saper dominare con grande dimestichezza. L’ascolto senza la visione mette in scena un film morbido, lento, in bianco-nero, fatto di primissimi piani. La funzione evocativa dell’immagine è sicuramente un pregio della musica di Olafur. Ma la vera riflessione, qui, alla luce della maggior dilatazione cinematica di Another Happy Day OST, fa riferimento al pubblico di Olafur Arnalds. Le corde toccate sono le stesse della coda lunga del post-rock emozionale, che accende ancora gli animi del target di accesso (in termini di fasce di età) alla musica oltre-rock. Arnalds sappiamo potrà portare gli ultimi post-rockers a sentire le palpitazioni del bel tema di archi di The Wait. Decideranno loro stessi se valutare Arnalds come uno step di un percorso o un punto di arrivo. (6.5/10) Gaspare Caliri

Paco Sala - Ro-Me-Ro (Digitalis, Aprile 2012) Genere: Dream pop La morte ci affligge più profondamente nel regno pomposo dell’estate. Nell’abbandonarsi su una spiaggia sotto un torrido sole anche il paesaggio più luminoso e rigoglioso si rischiara d’ombra. Con la spossatezza del corpo, la memoria si fa vivace e la mente si riempie di voci. Ro-Me-Ro cattura la noia e la malinconia di una fuga estiva, passando i ritmi italo-balearici di CFCF attraverso il filtro dei synth di marca Lopatin e Hype Williams. I Paco Sala, Anthony Harrison e Leyli, fanno riferimento ad un’intera eredità condivisa fatta di synth DIY e sguardi al passato, ballabilità e ricerca della sperimentazione. E’ la stessa su cui si è costruita la 100% Silk, tanto che non sorprende come la palette sonora usata da Harrison sia identica a quella di un Cuticle. Prima di lavorare su questo progetto Harrison era conosciuto per i suoi gentili drone sotto il nome di Konntinent. Questa dimensione eterea, pur permanendo, è decisamente relegata sullo sfondo. La vera protagonista dell’album è Leyli che con la sua voce da bambolina francese si potrebbe far benissimo chiamare Simone. I due opener dell’album, Gifts of the Bloom e Tre’s Future Fist, sono costruiti interamente intorno a questa voce: i lenti beat imbevuti di riverbero ne scandiscono i tempi e costruiscono una cornice nella quale far apparire la sua spettrale presenza. Quando i pezzi funzionano spiccano per la loro capacità espressiva, ma non riescono mai a convincere pienamente ad un livello formale. Anche una traccia come A Home for Paco Sala è incapace di sorprendere, pur essendo la chiusura e decostruzione del concept, un ritorno a casa che indica l’oblio come unica soluzione a quel conflitto iniziale che ha spinto alla fuga. Quando Harrison decide di rinunciare alle forme semplici e dirette del pop a favore di una certa ricerca, il tentativo appare come dovuto, come una parte imprescindibile del genere e non il suo superamento. La normalizzazione di questo sound è ormai un dato di fatto. (6.9/10) Antonio Cuccu

Peaking Lights - Lucifer (Mexican Summer, Giugno 2012) Genere: lo hi pop Al netto di tutto l’hype che da mesi si avverte intorno al nuovo disco dei Peaking Lights, il fascino dell’operazione Lucifer è di una qualità più subdola rispetto al precedente 936. Li c’era lo scarto rispetto ai mezzi spartani dell’esordio, quel cavalcare l’onda hypna-glo, che di fatto traghettava la stessa Not Not Fun dai lidi weird85


The Tallest Man On Earth - There’s No Leaving Now (Dead Oceans, Giugno 2012) Genere: folk sixties Che Bob Dylan sia ancora un punto di riferimento importante - e come potrebbe non esserlo? - per tutta una schiera di cantautori affezionati al folk più essenziale e ruvido, non è una novità. Se qualche anno fa Pete Molinari sintetizzava in A Virtual Landslide tutto il suo immaginario estetico Sixties da Greenwich Village, ora c’è The Tallest Man On Earth - al secolo lo svedese Kristian Matsson - a riprendere inflessioni vocali e purismo estetico del musicista di Duluth, riuscendo nel contempo a costruirci attorno un culto piccolo ma fedele. Due dischi all’attivo - un discreto Shallow Grave del 2008 e un The Wild Hunt di due anni fa finito direttamente nel pitchforkiano generatore di hype ‘Best New Music’ - registrati con una chitarra acustica in fingerpicking e un timbro vocale (esercitato, consapevole, riconoscibile) che riporta allo Zimmerman più antico e brumoso. Quest’ultimo vera forza di Mattson, assieme a un’invidiabile fluidità tecnica sulla sei corde e a una spiccata naturalezza nello scrivere buone melodie educatamente in bilico tra citazione e personalismi. Materiale solido e capace di camminare con le proprie gambe, come dimostra anche un There’s No Leaving Now differente dal passato giusto per qualche arrangiamento e foriero di una sostanza musicale che rimane il solito procedere spediti tra melodie in maggiore/minore e singing volutamente strascicato. Qualche eco differente per la voce, certi tempi country appena abbozzati (To Just Grow Away), un pianoforte a mitigare la voglia di un cantautorato meno aderente ai modelli (There’s No Leaving Now), una chitarra elettrificata (Criminals): i cambiamenti sono tutti qui e paiono più aggiustamenti di rotta tesi a non sconvolgere un quadro generale già di per sé perfettamente a fuoco, che non novità vere e proprie. Del resto The Tallest Man On Earth è soprattutto metodo (in puro stile nordico) e buone intuizioni, per forza di cose lontano dall’impatto rivoluzionario di Dylan. Un discorso che vale per musiche a loro modo razionali e ben quadrate, ma anche per testi che richiamano più una dimensione personale che il fraseggio tagliente e cinico del padre putativo. Anche se alla fine ti ci ritrovi comodo nella poetica di Mattson, forse per quella semplicità diretta e naturale che scaturisce dall’insieme. Quasi si parlasse di un blues ripetitivo su cui distendersi e immalinconirsi, ben sapendo che le cose non cambieranno di molto nel disco successivo o nei prossimi dieci. (7.1/10) Fabrizio Zampighi

psych degli esordi alla nuova fase di rilettura cool degli eighties, destando non a caso l’attenzione di Reynolds e The Wire. Il segreto di Lucifer sta quindi nella serie di mixtape che la coppia Dunis / Royes ha diffuso tramite il sito Lucifer.fm. 4 assemblaggi che spaziano dalla dance posticcia degli ‘80, al kraut teutonico dei ‘70, passando per una girandola delirante di riferimenti. Soprattutto con il terzo dei quattro mix, i due frullano genialmente nerboruti ancheggiamenti funk, lussuriose danze mediorientali, hit soul pop anni ‘70, anfetaminici groove hip hop, e molto altro ancora’ A rigor di logica, non siamo molto distanti da un Daniel Lopatin che che riprende clip televisivi e radiofonici del passato e li riassembla, e con le dovute differenze siamo vicini al modus operandi degli archivisti di library music che è poi quello portato in auge dai tipi della Ghost Box. I Peaking Lights di contro ci mettono un atteggiamento ancora più pulp. Non a caso i mixtape settano il terre86

no per il nuovo disco, nascondendo tra le pieghe delle misteriose tracklist, altrettante tracce inedite del nuovo disco, quasi a denunciare la natura fuori dal tempo di cui è fatta questa musica. Rispetto a 936 il crossover leggero come una brezza estiva che li contraddistingue si muove in scioltezza verso il pilota automatico. In brani come Beautiful Son e Live Love i due hanno gioco facile nell’assemblaggio creativo di chitarrine effettate modello hawaiano, ritmiche sintetiche, rotondità summer pop e vocalizzi svagati che sembrano presi in prestito da Trish Keenan. Altrove la metodologia dub si avverte in modo più evidente, li dove in brani come Cosmic Tides, Midnight (In the Valley of Shadows) o Lo Hi si gioca con evidente soddisfazione all’incastro con il basso funk. Quella dei Peaking Lights è una musica dove tutto è finto, dove tutto arriva già processato e rielaborato alla fonte. Più che hauntologico secondo la dizione di David Keenan il suono dei due è invero ‘antologico’ nel senso


etimologico del termine. Da qui la sensazione a fine disco che più che come musicisti tout court i due potrebbero fare faville come curatori di trasmissioni radiofoniche pescando da una raccolta pressoché infinita di rarità, gemme nascoste e hit perdute per un pubblico sempre più vorace di voci ed echi provenienti dal passato. (7/10) Antonello Comunale

Piccoli omicidi - Ad un centimetro dal suolo (Still Fizzy, Novembre 2011) Genere: cantautorato rock Trio emiliano in circolazione dal 2005, i Piccoli omicidi nome presumibilmente ispirato alla pellicola d’esordio di Danny Boyle - si sono mossi nel solco del rock italiano al confine tra mainstream e alternativo, mettendo in curriculum concerti a supporto di Verdena e Modena City Ramblers, Zen Circus e Ligabue. Poi c’è stato l’incontro con Paolo Benvegnù che ha voluto produrre il loro album d’esordio, ed eccoci a questo Ad un centimetro dal suolo, undici tracce che tradiscono molti punti di contatto con la calligrafia dell’ex-Scisma, sia in purezza (vedi Le notti bianche coi suoi struggimenti jazzy) che mischiati con altre fragranze, dall’agrodolce aroma Tiromancino di Fino alla fine del mondo e i contagi Wire di B. passando dalle arguzie Perturbazione via Alberto Camerini de Il mondo rosa. La voglia di giocare coi riferimenti e modulare il taglio espressivo produce altre situazioni interessanti come l’ibrido CSI/Subsonica de Il paese degli idioti o quella Vajont (va giù) che rivisita con una certa disinvoltura il lirismo letterario di certi Marlene. D’altro canto inciampa in momenti di disarmante banalità, vedi La canzone del partigiano coi suoi modi Afterhours alle prese con una retorica da bignamino Arci, una Vivo da poco che - per rimanere alla band di Agnelli - è in pratica un brogliaccio accademico di Dentro Marilyn, oppure quella Vietato l’accesso che guarda ai Litfiba più ruspanti senza particolare infamia ma nessuna lode. C’è un problema di fondo ed è che la volontà, l’impegno e l’attitudine certo non mancano, però non bastano. Non ci sono particolari difetti, ma non c’è neanche intensità. Il canto (di Piergiorgio Bonezzi) è l’emblema perfetto della situazione, voce da dopolavorista che ci prova applicandosi con grande convinzione ma i mezzi sono quelli che sono e il talento, invece, pure. In questo senso fungono da cartina di tornasole pezzi come Spine - che potrebbe sembrare una outtake di Tregua se solo la interpretasse (appunto) la Donà - e la cover del capolavoro tenchiano Vedrai vedrai, blando tentativo di attualizzazione (archi più elettronica) dove il

piglio distaccato del frontman sembra più una strategia per limitare i danni che una chiave di lettura. Qualche buono spunto insomma, simpatici senz’altro, ma del tutto inessenziali. (5.5/10) Stefano Solventi

PiL - This is PiL (Pil Official, Maggio 2012) Genere: Postpunk (stanco) La fine dei Duemila ha portato a una vera e propria ‘new new new-wave del postpunk’: solo che invece che spuntare gruppi nuovi come funghi (come accadeva tra fine anni Novanta e primissimi Duemila, vedi alla voce Strokes, Franz Ferdinand eccetera) sono tornati in scena direttamente loro, i big originali. Seguendo uno schema abbastanza logico (prima i live, poi il disco), sono tornati in circolazione i Gang of Four con Content (7° disco peggiore del 2011 per SA), è tornato Mark Stewart con Edit prima (2008) e The Politics of Envy poi, sono tornati i Devo con Something for Everybody (2010), sono tornati Cure, Killing Joke, Jesus & Mary Chain, e persino Ian Curtis e i Joy Division, tra celebrazioni (da Control, 2007, in avanti) e ristampe. Torneranno anche i Television (quasi pronto, pare, un disco di 10 brani). Gente come The Fall o Jah Wobble invece non ha avuto bisogno di tornare, semplicemente perché - pur restando ai margini della scena musicale - non se n’è mai andata (e Pyschic Life di quest’ultimo, assieme a Julie Campbell, aveva momenti di vero fascino electrodancey). Sono tornati a più riprese i Sex Pistols e sono tornati i PiL, sempre secondo lo schema, prima i live (2009) e adesso il disco, a venti anni spaccati dall’ultimo That What Is Not (1992). This is PiL vede in formazione accanto al grande situazionista Rotten/Lydon (due flash: la pubblicità del burro Country Life e il reality I’m a Celebrity) due vecchie volpi come il chitarrista Lu Edmons (passato tra le file di Damned e Mekons) e il batterista Bruce Smith (colonna di Pop Group, Slits, Rip Rig + Panic, ex marito di Neneh Cherry), entrambi nella formazione PiL altezza metà anni Ottanta, e il bassista Scott Firth (collaboratore di Steve Winwood, John Martyn, Elvis Costello). Il risultato non si distacca troppo dagli altri comeback dei vecchi leoni del postpunk: qualche numero azzeccato, buon mestiere, tanta noia. La sensazione del superfluo, comunque del fuori posto. Ma se, per dire, i Gang of Four pur di svecchiarsi avevano anche rischiato qualcosa (ricordiamo il desert rock + autotune di It Was Never Gonna Turn Out Too Good, che tanto era piaciuto al SIB di Blow Up, a noi meno), qui è tutto un gioco di equilibrio su una 87


medietas rock tutta pezzi midtempo in odor di ballad, spesso semplici tappeti - un po’ tutti uguali - a servire il cantato e i testi di Lydon. C’è la ricerca di una dimensione narrativa, di una atmosfera ora epica ora più riflessiva (perfettamente in linea con gli altri comeback postpunk), ma dietro la copertina fauve (che ci ricorda God dei Rip Rig) e i titoli di testa autocelebrativi della title track (introdotta da un rutto), c’è davvero poco da prendere: l’orecchiabile singolo “identitario” One Drop, l’inciso di chitarra dello psychodramma Deeper Water, il desert altalenante di Human, lo psych pop frizzante di Reggie Song. E Lollilop Opera, il pezzo migliore, e un bel pezzo in assoluto, filastrocca dub-samba facile facile ma di grande efficacia, con Lydon istrione concitato e masticaparole come sa essere quando è ispirato (vedi Primavera Sound 2011). Altrove (la grinta piallata di I Must Be dreaming, di Fool, della conclusiva Out of the Woods; il punk più Green Day che hard di Terra Gate; lo spoken sull’incubo claustrofobico delle droghe The Room I Am In) solo brandelli annacquati dei PiL che furono. (5.6/10) Gabriele Marino

Pink Holy Days - Twenty Eight Minutes (Flue Records, Aprile 2012) Genere: Electro-Rock Con il duo Pink Holy Days siamo nel bel mezzo di un dance-floor aggressivo e massimalista, dove la pulsazione prepotentemente in quattro, così come i synth spinti e pastosi, ci riportano - specialmente nella prima metà del disco - alle sonorità nu-rave, electro-indie e fidget particolarmente in auge alcune stagioni fa (Shh!, Spaceman), quando a farla da padrone era il crossover di gente come Bloody Beetroots, Justice e Goose. Piglio rock, parentesi house (Stand By Me) e picchi di meta(l)oscurità reznoriana, rendono la cosa divertente seppure un po’ datata, almeno fino all’accoppiata Motordead/One Night In Hell, dove il fantasma di Alec Empire fa a schiaffi coi Suicide rendendo il piatto (del Dj) sicuramente più gustoso. Tanto poi ci pensa You’re Over a rialzare il tiro con pregevoli coloriture EBM, fino alla claustrofobia elettronico industriale di Trop Cap. (6.5/10) Antonio Laudazi

Planet Soap - Velvet HE1 (Cascade Records, Maggio 2012) Genere: Techno Bass L’album del bravo duo monzese Planet Soap è la giusta rappresentazione di quel che l’Italia può offrire all’inda88

gine elettronica globale di questo momento storico. Dal background piantato su quel che gira attorno al wonky (tutto quel che c’è da sapere è sul nostro megafocus BEAT dot IT), Velvet HE1 vien fuori nella forma di una bass music fatta con buona grinta e ambizione, attenta a non tralasciare l’attitudine per la pista (Vectorama e la sua energia esplicitamente techno, ma anche la già nota Rhynostatic o I’m Approaching You Tonight) ma soprattutto infarcita di quel particolare senso del groove che deve distinguere il sound italo (su tutte Virus, beat che apre gli spazi e loop cosmico in stato di grazia). Un concept scuro che non va troppo sul sottile lungo orizzonti astratti e spara le sue cartucce beats, bass & melody in maniera esplicita, come è giusto che faccia lo spaghetti-style. Eppure i Planet Soap hanno anche più talento di così: l’album ha il suo carattere ma non vuol discostarsi troppo dal trend UK bass battuto al momento da più parti, sacrificando in parte l’originalità e l’eclettismo di cui i due son capaci (un assaggio lo dà The Alien From KooleYay: techno bass, Carl Craig sì ma anche echi di dream progressive). È questo il disco più “europeo” che potessero fare, buono per il passaparola oltre confine e studiato per non disorientare e accogliere un pubblico più ampio possibile. I palati più esigenti avranno un’altra occasione. (6.8/10) Carlo Affatigato

Plankton Wat - Spirits (Thrill Jockey, Aprile 2012) Genere: Rock Psichedelico Nuovo album per il chitarrista Dewey Mahood, un progetto solista d’impianto psichedelico al debutto presso Thrill Jockey. Il senso del lavoro è espresso proprio dal suo stesso titolo. In Spirits, attraverso un suono meditativo e ritualistico, Plankton Wat aspira all’evocazione di spiriti ancestrali. Partendo da un impianto all’incirca lo-fi e registrando quasi interamente in solitudine (unico ospite è Dusty Dybvig degli Edibles, nella title track) con un vasto parco strumenti - oltre alle chitarre, harmonium, drum machine, batteria e sintetizzatori - Mahood sviluppa partiture su terreni placidi e sospesi, rievocanti un immaginario tanto etnico (Broken Slumber, Islands), quanto puramente hippy (la stessa title track). Il tutto richiama ora i raga induisti dei Popol Vuh su batterie elettroniche polverose (ancora Islands), ora gli scenari desertici del Ry Cooder texano (Portland Western Cross), ora le distese sperimentazioni di Alice Coltrane filtrate dal Santana dei primordi e da un’idea di Durutti Column. La suggestione è indubbia: i brani sono estatici, comuni-


Volcano! - Piñata (Leaf, Giugno 2012) Genere: Avant rock Dopo due album di culto come Beautiful Seizure (2005) e Paperwork (2008) a piazzarli nello scacchiere delle band art/avant-rock contemporanee che contano (Deerhoof, Extra Life, Dirty Projectors, Parenthetical Girls, Wild Beasts), i Volcano! si erano praticamente volatilizzati. Li ritroviamo oggi più colorati, tropicali e decisamente pop - sempre sulla fida Leaf - nell’ultimo Piñata, un disco che, a quanto pare, ha richiesto ben quattro anni di lavorazione. Il trio è rimasto lo stesso dell’esordio, con Aaron With alla voce e chitarra, Sam Scranton alla batteria (e percussioni) e Mark Cartwright ai synth e al basso. L’obiettivo del disco? Qualche capello in meno e la sfida di asciugare gli eccessi surfando sul formato pop: niente di più difficile per una band massimalista come la loro. ‘Abbiamo tenuto l’energia, la tensione melodica e i ritmi cervellotici e reso il framework più decifrabile’ ha dichiarato un rinnovato With che ora convoglia il caratteristico crooning stralunato su modi funk-soul più marcati, mentre Cartwright e Scranton, calato impeto e muscolarità, accompagnano più quadrati senza rinunciare del tutto alla generosità timbrica e alle piccole complicazioni. Così se nell’attacco Piñata si sente un po’ di vento Tv On The Radio e St. Mary Of Nazareth è una serenata arty alla Dirty Projectors sporcata dal consueto canovaccio di batteria e chitarre Dirty Three, il cuore dell’album spinge su un funky tropicalista come se i soliti stracitati Vampire Weekend si fossero strafatti di Xtc e lsd. Parliamo di So Many Lemons e, soprattutto, Child Star, due tracce dove la prosopopena del primo David Byrne incontra David Thomas. Due ottimi colpi a segno con Platebreaker e la citata St Marty, a liberare ancor più la jam e completare una mappa d’istrionismi di un beefheartianissimo Aaron With che in Fighter, in versione beffarda à la Mike Patton, tocca un altro picco lirico tra rantoli, struggimenti calcolati e sublimi starnazzate. La produzione al solito è eccellente. Un peccato per gli interventi elettronici ridimensionati (qualche effetto ai synth, un basso che alla bisogna si fa profondo e dub), comunque ottimamente compensati da un trattamento degli strumenti che ci ricorda i compianti U.S. Maple. C’è voluto un bel po’ ma ne è valsa decisamente la pena. Un terzo album che mette tra parentesi i dada progghismi dell’arrangiamento per concentrarli sul canto. Dunque un formato astutmente funk, tragicomico, dannatamente estivo, a fondere e confondere l’america bianca e nera. Aaron With ha ancora potenzialità enormi da esplorare. (7.2/10) Edoardo Bridda

cano davvero una sorta di sospensione sensoriale da trip nel deserto e Dewey ha una storia lunga e articolata (che passa, attraverso varie sigle, dal punk, all’hardcore, sino al rock sperimentale) che merita rispetto. La verità però, è che l’idea di base che agita Plankton Wat è vetusta e non basta la visione retrospettiva, postmoderna, a renderla più attuale. Meno che mai se ricostruita seguendo modalità già ampiamente risapute. (5.7/10) Alessio Bosco

Raiz/Radicanto - Casa (Edel, Giugno 2012) Genere: folk mediterraneo Le ultime cose di Raiz in solitaria non ci avevano convinto più di tanto; stavano a cavallo tra una commerciabilità quantomeno inattesa e una voglia di tradizione-consperimentazione-wordy che nel sodalizio con gli Alma-

megretta aveva già avuto i suoi apici ormai una decina di anni orsono. Il nuovo progetto di cover con i Radicanto, band e associazione culturale fondata da Giuseppe De Trizio nel 1996 che esplora le musiche popolari del sud (d’Italia e del mondo), si situa ancora a cavallo tra digeribilità mainstream ed esplorazione intelligente delle radici etniche, ma la soluzione punta su sonorità acustiche ed evita la fastidiosa elettronica posticcia che aveva minato le ultime scorribande in solitaria di Della Volpe. Il repertorio scelto è una selezione delle più belle canzoni del cantante napoletano (e quindi in questo senso non rischia molto), ma in più offre una bella tripletta di standard tradizionali che spaziano dalla tradizione greco-salentina (Aremu Rindineddha), al canto sefardita (La rosa enflorece) e per finire al mondo ebraico (stupenda Shabechi Yerushalaim) presupponendo forse una nuova strada di ricerca. Sapevamo che Raiz poteva ancora gio89


care delle buone carte. L’incontro con i Radicanto è stato un ottimo svecchiamento delle sue velleità pop e un ritorno alle radici mediterranee che costituiscono da sempre la sua caratteristica sonica di maggior interesse e piacere. (7/10) Marco Braggion

Reptar - Body Faucet (Vagrant, Maggio 2012) Genere: afro indie-pop I Reptar vengono da Athens, tranquilli però, non siamo di fronte all’acronimo storpiato di qualche collettivo dirty south ma a quattro giovani che suonano insieme da fine 2008, probabilmente spinti dall’incredibile successo che quell’anno ebbero i debutti discografici di MGMT e soprattutto Vampire Weekend. Tante date live (SXSW compreso) e l’EP Oblangle Fizz Y’all del 2011 hanno anticipato l’uscita dell’opera prima dei Reptar - il nome è un tributo ad un personaggio dei Rugrats - intitolata Body Faucet e pubblicata per la Vagrant Records. Il grosso problema dell’album - e probabilmente dell’attuale proposta musicale della band - è che se da un lato è fin troppo legato ai due punti di riferimento sopracitati - e di conseguenza forse fuori tempo massimo - dall’altro lato risulta disordinato e con soluzioni ancora poco a fuoco. Laddove camminano con i propri piedi finiscono infatti per inciampare negli eccessi sunshine causati anche della particolare e leggermente impostata vocalità di Graham Ulicny che alterna tropical, jamaican e tentazioni da jam band in modo quasi caricaturale. Da segnalare la meno spensierata Ghost Bike dove i ritmi rallentano - pur mantenendo le stesse connotazioni strumentali - e Graham narra della morte di una amica, per il resto il calderone di Body Faucet - prodotto da Ben H. Allen (non per nulla già al lavoro con i non troppo distanti Givers) - non regala tanto di più di qualche minuto di giuliva leggerezza (il groove funk di Sweet Sippin’ Soda). Upbeats, ritmi afro-pop, tastierine e tocchi di psichedelia Animal Collective delineano il codice genetico di un disco estivo, consigliato soprattutto a chi soffre di Vampire Weekend-astinenza. (6/10) Riccardo Zagaglia

Roska - Rinse Presents: Roska 2 (Rinse, Maggio 2012) Genere: Dance bass grime Quando senti l’artista dichiarare che “ha smesso di inse90

guire i generi ed ha finalmente trovato il suo stile personale”, hai sempre da temere per il peggio. Soprattutto con uno come Roska, che ogni volta che si è messo in testa di “fare qualcosa” l’ha sempre fatta da dio, dall’album d’esordio che per primo traghettava il sentire dubstep verso le nuove derive dance alla Rinse 15 che faceva esplodere tutti i colpi di cui l’euforia londinese è capace, passando per quel Jackpot EP abile a reinventare lo stile del producer su una colata di bassi severissimi. Ok che i generi non devono diventare una gabbia, ma nel pensare un disco o un pezzo il punto è identificare con certezza qual’è l’impianto che si vuole raggiungere e fare in modo che tutti gli elementi puntino quella direzione, evitando che un’eccessiva libertà espressiva finisca per inseguire troppi obiettivi contemporaneamente senza chiuderne nessuno. È quel che succede fin da subito con You Dun Kno, ferma esattamente a metà strada tra l’intransigenza bass e la spinta clubbing che il funky poteva dare: poteva rendere benissimo sia l’una che l’altra, ma se non fai la tua scelta gli elementi si inibiscono a vicenda, rovinando l’overall. Qualcosa che analogamente avviene con l’introduzione del rappato grime nel mosaico Roska, che sfortunatamente toglie a Badman e Go la buia profondità che la tenuta bass avrebbe donato, se gli fosse stato concesso tutto lo spazio. Peccato, perché quando la scelta vien fatta i risultati si vedono: esalta la vivacità dancing raffinata mainstream dal cantato di Ruby Goe (Memories) e Jamie George (Do You Like This), che in fondo rappresenta la quintessenza di ciò che solo casa Rinse fa così bene, ma d’altra parte anche i momenti di assolutismo bass sono inappuntabili, quando OnRinseSinceZeroEight rallenta i tempi per valorizzare le vibrazioni o Spanner In The Works toglie ogni distrazione e va dritta in un mondo di cassa dura e distorsione controllata. Sono i colpi che tutti vogliono da Roska, anche se il costo è dominare in parte i suoi istinti compositivi: a volte meglio focalizzare l’obiettivo e puntarlo con fermezza e, da questo punto di vista, Brackles quest’anno vince il derby. (6.8/10) Carlo Affatigato

Røsenkøpf - Røsenkøpf (Wierd, Maggio 2012) Genere: Post-Wave La newyorkese Wierd è salita all’onore delle cronache per essere la casa-madre dei maggiori artisti della rinascita minimal-synth, con progetti come Martial Canterel, Xeno & Oaklander e Staccato du Mal i cui dischi - la maggior parte dei quali datati 2010/2011 - sicuramente ricordate. Eppure da qualche mese a questa parte la label di Pieter Schoolwerth sembra aver voltato pagina


o quanto meno aver allargato i propri orizzonti: non più solo album a base di tastiere analogiche e melodie retrofuturiste, come già dimostrato dal recente debutto dei Vaura. Laddove Selenelion però falliva nel voler buttare troppa carne al fuoco, Røsenkøpf riesce in pieno. Gruppo locale con all’attivo solo un paio di tapes, i Røsenkøpf si danno un bel da fare a mescolare post-punk geometrico, dilatazioni shoegaze, elettronica simil-dub, chitarre death-rock e sporadiche vocalità black metal. Una ricetta ambiziosa ma alla portata di un gruppo che nei sei episodi di questo omonimo calibra sapientemente tutti gli ingredienti. Dal dub vagamente PiL di Burning Spirits al rock industriale di Human Love Song, dalla psichedelia cosmica di Troth alla conclusiva Light The Way, è tutto un vortice che risucchia in un buco nero distante anni luce e disorienta per la ricchezza della trama. Fuori d’artificio a bella posta, potrebbe obiettare qualcuno, ma ad averne risponderemmo noi. (7.3/10) Andrea Napoli

Schlachthofbronx - Dirty Dancing (Disko B, Maggio 2012) Genere: Booty Bass Dopo aver ascoltato un paio di minuti di Dirty Dancing, secondo lavoro dei Schlachthofbronx (letterlmente macelleria Bronx), una mia amica chiese se fossero sponsorizzati da Victoria Secret. La traccia era Every Day of the Week, un riddim che accenna vibes estremamente mellow prima di intonare un inno dedicato ad una ragazza senza mutande. Nella seconda metà di questo decennio siamo stati abituati ad una bass music che cerca di fuggire in una dimensione global, disposta a tutto pur di uscire dal ghetto pure ad ammiccare alle indie crowd o a produrre top 40. Artisti come Major Lazer frullano nel loro immaginario robot, rastafarismo, dinosauri e Amber Coffman dei Dirty Projectors. Al contrario con i Schlachthofbronx ritroviamo il duo impegnato a sottolineare il booty nel booty bass (come in That G-String Track), con tracce dominate da bassi profondi e sintetizzatori al neon mentre la dimensione etno è solo l’eco delle strade di Miami e Baltimora. Da buoni outsider il duo di Munich è più realista del re, e le tracce non fanno concessioni all’ascoltatore e non nascondono di esser state pensate secondo la ferrea logica utilitarista del dancefloor. Dirty Dancing è un lavoro conservatore che non fa nessun passo avanti rispetto al precedente Schlachthofbronx, uscito ormai più di tre anni fa, ma la cura nella produzione e la sua fruibilità lo rendono una seconda

prova più che soddisfacente. (6.3/10) Antonio Cuccu

SCSI-9 - Metamorphosis (Klik Records, Aprile 2012) Genere: Deep house Tempo di svolte per il duo russo SCSI-9, e diventa evidente quanto in certi casi sia difficile il confronto con sé stessi. Con gli ultimi due album su Kompakt (soprattutto The Line Of Nine) avevano trovato la classica formula perfetta, che univa un impianto tech-house morbido alla freddezza suggestiva delle parti cantate, lanciando un parallelo interessante ad un altro glacial act dell’electronica emozionale d’ascolto, i GusGus. Con l’album n. 5 Metamorphosis, invece, Anton Kubikov e Maxim Milyutenko compiono una pericolosa virata verso una house possente e orgogliosa di sé stessa, che tenta di rispondere al probabile malcontento dei fan con una carica dance più marcata e quella consistenza deep a cui, se ben fatta, si perdona tutto. Quando la componente atmosferico/melodica tipica del duo resta protagonista (quindi con Schaukel Duo o Ellsworth Land, le più vicine al loro periodo Kompakt) i pericoli di delusione sono ben arginati da uno spessore ambient di ghiaccio che nell’audience europeo funziona sempre, e in fondo anche Nostalgia è attenta a non ignorare l’importanza delle suggestioni. Il problema che andava affrontato a monte arriva quando il four-on-thefloor conquista gli spazi, vedi tutta la parte centrale con Had I But Wings Like Thine e Song From The High Tower che capovolgono il mood con la loro attitudine house 100% clubbing (stile Wolf + Lamb, per capirci). Qui il baricentro è spostato su un piano diverso, che scommette tutto sul ritmo e rende meno cruciale la cura di quella fase emotiva che un tempo era LA priorità degli SCSI-9. Un passo indietro? Probabile, se il nuovo volto non trova la giusta compensazione all’assenza dei punti di forza precedenti. Ci prova I’m Lost, la collaborazione con Ogris Debris che ti può esaltare come prova deep vecchia scuola fatta con cognizione di causa, stessa direzione battuta nell’altro buon pezzo del disco, Alphaville. Ma sono degli SCSI-9 diversi da quelli che abbiamo apprezzato, sicuramente meno originali e più omologati a quelli che sono i trend dance del momento (attitudine emozionale, affinità ambient, rispolvero deep). Album buono per un nuovo pubblico, superfluo per i conoscitori di vecchia data, letale per gli estimatori sinceri. I cambi di pelle son sempre così. (6.5/10) Carlo Affatigato

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Shijo X - ...If a night (Bombanella Records, Giugno 2012) Genere: Electro trip hop Dopo anni di fruttuosa collaborazione con lo studio Bombanella Soundscapes di Davide Cristiani, gli Shijo X scelgono la neonata etichetta indipendente Bombanella Records per l’uscita del secondo lavoro. ....If a night mantiene le promesse alimentate da un esordio, One minute before (Ideasuoni 2009), che era valso alla band il palco dell’Italia Love Wave Festival 2011 come miglior gruppo abruzzese. Nel nuovo episodio, la crescita nella ricerca del suono e dell’identità del gruppo sembra netta. Allergici alle chitarre scordate e convinti della nuova formazione a quattro, gli Shijo X perfezionano la formula electro-trip hop degli esordi puntando sull’essenzialità e la raffinatezza, senza rinunciare alla sperimentazione. Abbandonate le incursioni, a tratti dispersive, latin-afro-hip hop degli inizi, si passa all’esplorazione di un trip hop di seconda generazione, quasi à la Thievery Corporation. L’uso ragionato di contrasti e giustapposizioni rappresenta il tratto distintivo della ricetta Shijo X: il gioco consiste nell’innestare il soave cantato soul e rnb di Laura Sinigaglia su loop elettronici, sintetizzatori e cascate di pianoforti acustici (Almost In Trouble), condirlo con campionamenti intelligenti (la sveglia di Uptown Bike, i fischiettii di Krueger, i videogiochi sparsi, le sonorità da spy story di Running) e vedere l’effetto che fa. Il risultato è un mix piuttosto cool di contemporaneo e vintage, in grado di sdrammatizzare arrangiamenti ombrosi à la Portishead (Bologna By Night, Zabriskie’s Bench) e basi ritmiche spettrali à la Moloko (Color). ‘If a night, per coerenza stilistica e immaginario evocato, è quasi un concept album. Uno scrigno di avventure notturne, reali o solo sognate scandite da un passare del tempo a sua volta fissato su tre intriganti stacchetti strumentali (2 a.m., 4 p.m., 6 p.m.) e su certi echi di carillon. Dieci brani tridimensionali e dieci potenziali singoli per un gruppo che, nonostante la svolta scura, è ancora - e sempre più - capace di trasmettere buonumore. (7.2/10) Viola Barbieri

Simon Balestrazzi - The Sky Is Full Of Kites (Boring Machines, Aprile 2012) Genere: post-industrial Tre lunghe tracce compongono il rientro in pista dell’ex T.A.C. Simon Balestrazzi, da qualche tempo rinato a nuova vita artistica, quasi che l’aria magica della Sardegna lo abbia rinvigorito, almeno discograficamente. I progetti in solo - l’ottimo A Rainbow In My Mirror per 92

la personale Magick With Tears - si uniscono a una serie di collaborazioni recenti (Dream Weapon Ritual con Monica Serra) o prossime (Candor Chasma, i lavori con Gianluca Becuzzi o con Ikue Mori) che spesso esondano dal campo musicale per transitare verso territori multidisciplinari come danza, teatro, film, esibizioni, e che ci restituiscono un autore in grande forma e perfettamente a suo agio in ambito elettroacustico, a metà tra reminiscenze di un passato esoterico-industriale e umori evocativi da score per film immaginati. Utilizzando fonti sonore provenienti da strumenti autocostruiti o modificati, The Sky Is Full Of Kites abbraccia un ampio spettro sonoro di matrice più industrial rispetto alle forti componenti naturalistiche ed esoteriche che pervadevano l’ultimo Another View targato Dream Weapon Ritual, riuscendo nel contempo a mantenere sempre coesa una resa generale tendente a stimolare l’abbandono dell’ascoltatore. I panorami evocati qui sono dunque più foschi, i ritmi più cupi, l’ambientazione generale più di ‘area grigia’. Il risultato, figlio soprattutto di un maniacale lavoro sul suono e sui suoni prodotti da - si immagina - desueti oggetti di archeologia industriale trattati e amplificati, pur se diluito in suite da più di quindici minuti l’una, mantiene una forza ed un fascino non indifferenti. Muovendosi agile tra pulviscolo dark-ambient, panorami sonorizzati da clangori post-industriali, elettroacustica ‘materica’, isolazionismo e personale via all’hauntology, The Sky Is Full Of Kites dà la misura di come la ‘vecchia guardia’ italiana sia “vecchia”, solo per la carta d’identità e i tristi burocrati. (7.3/10) Stefano Pifferi

Soulsavers - The Light The Dead See (V2 Music, Maggio 2012) Genere: gospel dark Ma alla fine chi sono Rich Machin e Ian Glover? Due scenografi pop-rock di alto profilo, mestieranti nel senso buono del termine, duttili nel mettere la competenza (tanta) e il talento (un po’) al servizio della situazione. Soprattutto, sono bravi a crearsela, questa situazione. Se la cavano egregiamente col casting. Se i precedenti capitoli Soulsavers gravitavano attorno alla figura orchesca di Mark Lanegan, addomesticandone a dovere la mitologica ruvidità Americana anche grazie ad ospitate eccellenti quali Jason Pierce e Will Oldham, stavolta puntano il perno estetico su voce e anima dell’albionico Dave Gahan. Il quale pare proprio essersi tuffato di testa nell’avventura, tanto da farne il disco in cui più esalta la sua vena d’interprete (senza scordare che è pure coautore dei pezzi).


Un crooner dark soul coi controfiocchi, cuore e polpa di una scaletta a base di gospel riprocessato pop-rock orchestrale dalle evidenti inflessioni british, tanto cupo quanto carezzevole, a tratti addirittura sontuoso. Stiamo parlando di un prodotto che ha centrato il target, uno show allestito a regola d’arte, di quelli che ne esci senza rimpiangere i soldi spesi per il biglietto. Questo è l’ambito. Quanto ai limiti del caso, fate pure le vostre considerazioni. Per conto mio, al netto di qualche eccesso (la pur avvincente Presence Of God) e faciloneria (l’abboccatissima Just Try, la ruspante Tonight), non posso che considerarlo un disco piuttosto ispirato, stilisticamente in bilico tra tremori blues (Gone Too Far sembra pensata per l’ugola di Lanegan) ed enfasi gilmouriana (Longest Day), con qualche passaggio che rammenta la grandeur mielosa à la Starsailor (In The Morning) riuscendo però a non scadere nel languore gratuito. Se si accetta la sua natura sostanzialmente pop condita da inquietudini patinate, l’esperienza d’ascolto è senz’altro soddisfacente. Addirittura avvincente nei suoi momenti migliori, come la strumentale Point Sur Pt. 1 (cinematico morriconiano totale) o quella Bitterman che cala sul piatto oblique pulsioni Radiohead. (6.3/10) Stefano Solventi

The Cribs - In the Belly of the Brazen Bull (Wichita, Maggio 2012) Genere: major indie 90s Il primo album (The Cribs, 2004) prodotto da quel avantglam egomaniaco di Bobby Conn tra Londra e Chicago a cavalcare il revival wave di inizio 00s; il secondo, The New Fellas, con l’idolo post-punk Edwyn Collins, co-producer assieme alla band, all’insegna degli Orange Juice. Da lì in poi il successo commerciale, la critica inglese in brodo di giuggiole, i grandi festival del Regno ad aprire le porte e stardom indie a corredo (è Stephen Malkmus a presentare a Gary Jarman la futura moglie Joanna Bolme). Un Men’s Needs, Women’s Needs, Whatever con Alex Kapranos (Franz Ferdinand) a produrre l’album che a quel punto - è il 2007 - non può più suonare lo fi. Andy Wallace (Nirvana, Foo Fighters) a curare il missaggio e guest Lee Renaldo (Sonic Youth). L’hit single Men’s Needs che fa 7 milioni di contatti su Youtube e i riformati The Sex Pistols che li vogliono con loro alla tre notti del Brixton Academy per l’anniversario di Never Mind the Bollocks. Ancora cascate di premi, partendo dagli NME Awards dove la band suona nel 2008 con l’ex Smiths Johonny Marr, nuovo membro acquisito. Marr entra in pianta stabile per il nuovo album, un Ignore the Ignorant (2009) che sfoggia un altro grande nome dietro ai

bottoni, Nick Lunay. E’ il primo lavoro ad entrare nella top10. Le nomination e best album of the year a seguire. Quindi Marr lascia e tocca al qui presente In the Belly of the Brazen Bull parare il colpo, sfornando innanzitutto l’ennesimo team di tecnici superstar: David Fridmann in produzione e Steve Albini a curare alcune tracce tra cui Chi-Town, canzone che al primo airplay viene suonata tre volte di fila lo scorso febbraio, con twitter che impazza. L’opener Glitters Like Gold con attacco altezza Crooked Rain, il riffettone di Better Than Me, il remember del primo amore (gli Strokes) in Eat Me, i tiri urlati da pub band allo stadio Come On Be A No-One e Back To The Bolthole e i cambi di tempo (in spremuta ‘90 emo) di Jaded Youth fanno il loro dovere in un nuovo album che punta dichiaratamente al cuore collage rock del revival 90s imperante. E da qui la scelta vincente di Fridmann che con i suoi i tocchi Pavement, Dinosaur Jr e i “suoi” Weezer e Flaming Lips - il calibrato mix tra melodia e feedback ripreso appunto da Pinkerton - contribuisce al confezionamento di un album d’inappuntabile freschezza. La patina di generalismo pop rock che li accomuna tutt’ora a Kasabian e Maximo Park non scomoderà i die hard fan di The Horrors, Arctic Monkeys e Mystery Jets, ma forse per la prima volta i The Cribs azzeccano un album, comunque senza aver niente di veramente importante da dire né canzoni per cui valga la pena di morire. Anche questa è una conquista. (6.5/10) Edoardo Bridda

The KDMS - Kinky Dramas and Magic Stories (Gomma, Maggio 2012) Genere: nu-disco Quando un produttore non è capace di azzittire la sua vocalist i casi sono due: o ne è innamorato o è troppo consapevole dei difetti delle sue produzioni. Non avendo prove a favore della prima tesi, bisognerà optare per la seconda. I Kdms sono l’ennesimo duo pubblicato su Gomma che cerca di mettere insieme house, disco e attitudine da indie rockers. Il progetto si inserisce nel solco del revival disco che ha attraversato la house di questo fine millennio, producendo negli ultimi anni artisti quali i Midnight Magic e i Tiger & Woods. Kinky Dramas and Magic Stories non presenta né la precisione filologica dei primi, né l’estrema sensibilità per il dancefloor dei secondi. Per i KDMS la disco è solo una scusa per gettare una glossa patinata su ammiccanti bassi funk mentre Katy Diamond sfoga la sua logorrea, producendo pezzi pop tutti identici, senza una briciola di soul o groove. Anche una delle tracce meglio riuscite come Wonderman suona 93


così datata ed inoffensiva che si riesce benissimo ad immaginarla in un dj set di quattro anni fa come apripista a Superman di Celi Bee & The Buzzy Bunch. Inclusi nel disco ci sono anche alcuni remix, nel tentativo di valorizzare la release. Ma quando persino un principe della dance come Morgan Geist, con il suo remix di Tonight, non riesce a smuovere l’ascoltatore dalla noia, allora il problema è tutto nel materiale di base. (5.8/10)

si prefigura come l’ennesima perla di un ‘underground’ italiano fiero e resistente. Pronto per essere dissepolto e apprezzato per quel che vale. Cioè molto. (7.2/10)

Antonio Cuccu

Fino a ieri Kathryn Williams, trentottenne di Liverpool, era nota per ballad potabilissime per telefilm tipo How I Met Your Mother (la cover dei Pavement Spit On A Stranger) e Private Practise (Flicker) o magari per singoli e album folk base piano o acustica sporadicamente supportati da sezioni d’archi e licenziati per la label personale Caw Records. Materiale che le ha valso un certo successo in Gran Bretagna e una nomination al Mercury Prize. Kathryn ha inoltre collaborato, tra gli altri, con John Martyn, firmato un album con Neill Maccoll e non ultimo formato con un’amica The Crayonettes, sorta di risposta al folk infantile di Kimya Dawson in salsa 50s e hip hop in un album per bambini (Songs For Children & Robots, 2010). Proprio questa voglia di aprirsi a nuove possibilità è alla base del progetto The Pond. Arruolati due compagni di viaggio quali Simon Edwards (Fairground Attraction) e Ginny Clee (The Dear Janes), la Williams sposta un popfolk formalmente impeccabile (ma raramente decisivo) verso un folk major indie, tra vaghe reminiscenze Bristol, rare pose arty e una decisa impronta di vintagistmo 60s pop passato per un gusto che fa molto downtempo 90s/00s (Saint Etienne, Bent). Di carne al fuoco ce n’è e in molte direzioni differenti, ma a spiccare non è tanto il tentativo di lirismo à la Beth Gibbons di End Of The Pier (in produzione c’è Adrian Utley dei Portishead, non dimentichiamolo), qualche mossa art-country-folk con un inserto rappato (BeBop) o la commestibile folktronica del singolo (Circle Round a Tree) circondata da ordinarie intimità (Pass Us By, The Art Of Doing Nothing). Quel che colpisce veramente è la Kathryn che prende Pj Harvey e la porta a Götheborg (Memory Let Down), azzecca un paio di solide ballad al banjo con una rinnovata scrittura/arrangiamento (una splendida vintage-ballad come Hard Shoulder, l’ottima e appalachiana The River), imbastisce un soul-hop praticamente perfetto (AIM). Se si pensa alla Williams del passato come a una delle tante Dido di provincia che quando meno te l’aspetti ingrana la marcia giusta, The Pond è un album rivoluzionario con almeno un paio di episodi molto ben scritti e arrangiati. In verità non c’è alcuna rivoluzione ma un

The Please - Bitter Gospels Along The Riverside (, Maggio 2012) Genere: alt-folk-rock L’esordio c’aveva sorpresi come un fulmine a ciel sereno. Uno di quei dischi minori a cui solo l’esperienza porta a dare un minimo di credito e che giustamente si rivelano piccoli scrigni ripieni di gioie. Folk autistico, orchestrazioni trasversali, elegante rock albionico e sensibilità crepuscolare in percentuali varie costituivano l’ossatura di un esordio insieme eterogeneo e compatto, sorprendente e capace di resistere allo scorrere del tempo com’era E’ltica. Sermon Your Nihilism. Ora, stabilizzatasi in quintetto - Mattia Airoldi, Marco Gilioli, Luca Piazza, Francesca Stella Riva e Davide Lelli - la formazione lombarda torna con un altro lavoro completamente autoprodotto, raffinatissimo nella cura grafica e ancor più maturo nel sound e nelle finalità rispetto al pur ottimo esordio. L’arpeggio folky e malinconico dell’iniziale Faraway mette già sui binari giusti il lavoro, incentrato come usanza dei The Please su una sorta di concept: se E’ltica ruotava intorno all’idea della fine del mondo, Bitter Gospels Along The Riverside tenta una sorta di narrazione delle ansie e delle speranze di quel viaggio chiamato vita, quasi fosse un romanzo. Per far ciò, i cinque usano tinte fosche ma non pessimistiche, facendo spesso ricorso a molti fiati, cori e tasti - The End As A Prologue, una tromba che fa molto La Crus dell’esordio in Hunter, la coralità umorale di Healers, i contrappunti pianistici che fanno molto Canterbury di Hey -, creando atmosfere evocative e quasi cinematografiche (il Tiersen campestre e brumoso di King Fishers) e utilizzando una tavolozza di colori che si muove agile tra cantautorato folkish che rimanda all’americana (Keeper) o a dimensioni corali (Santa River), slanci orchestrali (Back Into Water) che sfiorano lande cabarettistico-circensi (Glass Key) e struggenti contrappunti di mestizia quasi notturna (So Hard). Meno caracollante e vario di E’ltica ma più maturo e coeso, con una certa rilevanza dell’aspetto letterario dei testi in inglese, la raccolta di gospels amari dei Please 94

Stefano Pifferi

The Pond - The Pond (One Little Indian, Maggio 2012) Genere: Art folk trip hop


nuovo inizio all’insegna di un cauto rinnovamento in direzione 90s. (6.7/10) Edoardo Bridda

The Regal - The Regal (A Buzz Supreme, Maggio 2012) Genere: rock Nati, discograficamente parlando, nei dintorni del Rock Contest di Controradio e grazie all’interessamento di A Buzz Supreme, i The Regal arrivano all’esordio con un lavoro piuttosto interessante a cui presta servizio anche Samuel Katarro/Alberto Mariotti in veste di produttore aggiunto e chitarrista. Curiosa quanto affascinante la formula propagandata dal trio toscano, capace di richiamare i R.E.M. (The Calling Of Loneliness, I Wanna Go Back To The Start) soprattutto grazie alla voce di Andrea Badalamenti - un vero e proprio Michael Stipe in pectore - ma anche qualche nume tutelare della scuola roots/ classic rock americana. A testimonianza una She’s Rock ‘n’Roll che tra Allmann Brothers e Creedence Clearwater Revival si arrampica su una slide guitar languida o una A Song For A Piano che sembra rubata al canzoniere di Neil Young. Il resto del programma si riduce a una scrittura essenziale, già pronta per l’FM (Rockin’ Stage) e con la peculiare tendenza a rimanere in bilico tra malinconie evocative e parentesi rockegianti. Quanto basta per dar vita a un disco solido, senza tanti fronzoli e assolutamente godibile. (6.6/10) Fabrizio Zampighi

The Walkmen - Heaven (Fat Cat, Giugno 2012) Genere: indie pop Confessarsi burlando può essere un’arte sottile o il più caciarone dei tracolli. Ci prendiamo il lusso di non schierarci, limitandoci a prendere atto che - come riportato a suo tempo dalle puntuali news di SA - al termine delle incisioni di questo Heaven a quei fanfaroni dei Walkmen è venuto il ghiribizzo di cimentarsi in un medley di classiconi degli U2. Praticamente il trittico dell’innodia da stadio: Pride, With Or Withouth You e Sunday Bloody Sunday. Il vocalizzo impettito e radiante come a cingere in un abbraccio l’auditorio può essere cifra espressiva o vezzo, dipende da quanto si è disposti a mettersi in gioco. Ecco, “gioco” sembra la parola giusta per iniziare finalmente ad entrare nel merito del settimo album firmato dai cinque newyorkesi. Un trastullarsi pigro e appassionato tra reminiscenze resinose Fifties, riffarama smerigliati power pop e fregole pop-wave, carburando

il tutto con arrembaggi vocali riconducibili (con un po’ di approssimazione ma neanche troppa) alla baldanza appassionata di Bono (Nightingales e Line By Line su tutte). Stabilite le regole, il match s’incanala agile, senza inciampi né ahimé sussulti. Ti chiedi dove siano finiti quei fantasmi retrò dall’aria languida e impetuosa, così fragili e assieme facinorosi, che rendevano il predecessore Lisbon tanto irresistibile. A compensarne l’assenza non bastano le allucinazioni oziose Kinks di Southern Heart, il torpore ipnotico Roy Orbison di No One Ever Sleeps o il punk un attimo prima di fare la faccia cattiva di Heartbreaker. E’ tutto troppo morbido (una Song For Leigh vagamente Rod Stewart), senza trabocchetti (la title track con la sua bidimensionalità toccante da Springsteen secondario), talora forzato (l’impetuosa Love Is Luck): finisci per rassegnarti a questo piacevole cabotaggio medio, nel guado tra tensione e mestizia (We Can’t Be Beat), senza smettere di covare il sospetto (fondato ad esempio sul frammento bluesy stoniano di Jerry Jr.’s Tune) che la trama avrebbe potuto infittirsi di ben altre misteriose apparizioni. Peccato. (6.2/10) Stefano Solventi

THEESatisfaction - awE naturalE (Sub Pop, Marzo 2012) Genere: Black / Muldrow Si sono innamorati tutti quanti delle THEESatisfaction, alias Stas (Stasia Iron) e Cat (Catherine Harris-White) da Seattle, rapper cantanti e produttrici cresciute a pane soul e jazz, conosciutesi ad una jam universitaria e innamoratesi delle rispettive skills (Stas rappa, Cat canta), in attività dal 2008. Se ne sono innamorati i tipi della Sub Pop, che quando hanno sentito il loro feat su Black Up di Shabazz Palaces le hanno subito messe sotto contratto per pubblicare questo awE naturalE (debutto ufficiale dopo un po’ di mixtape ed EP autoprodotti), e se ne sono innamorati praticamente tutti quelli che hanno ascoltato e recensito il disco (da Pitchfork al nostro Blow Up a una caterva di webzine). Stas e Cat propongono un afrofuturismo femminile, se non femminista, asciutto e ruvido (lontano, per capirci, dal barocchismo di Sa-Ra, Badu eccetera), un r’n’b/hiphop concentrato, dalle strutture essenziali, dai contorni molto netti: basso che pulsa funk, batteria tutta cassa rullante e charleston, qualche accordo di piano, qualche inserto di fiati (alla bisogna) e sopra la voce, ruvida appunto, fragrante. Bene, benissimo. Perché le ragazze sono toste ma in modo cool e hanno il piglio giusto e i loro pezzi (frammenti brevi, concentrati anche in questo senso, di quello che potremmo spicciamente chiamare 95


free-hop) sono spesso intriganti (Existinct, Sweat, God, naturalE). Peccato però che nessuno abbia tirato fuori un nome (occhei gli Ursula Rucker e Q-Tip già citati in cartella stampa) che è stato invece la prima primissima cosa che c’è venuta in testa fin dalle prime primissime note (Bitch) del disco: Georgia Anne Muldrow. Sì, perché Stas e Cat fanno esattamente quello che fa Georgia quando non va tanto di cantautorato pianistico (Crash), quanto di wonkfonk (vedi Juiced, vedi Echantruss), liberando il suo lato più rappuso anche se non classicamente rap (magari in coppia con quel freak di suo marito Declaime). Ecco, in awE naturalE (qui lo streaming integrale sul canale Tubo dell’etichetta) la sensazione dell’apocrifo muldrowiano - magari meno sfilacciato, più quadrato, quindi anche più cool - è un po’ troppo forte, a tratti sorprendente, e fa colare a picco ogni possibile entusiasmo sulla novità o sull’efficacia della formula. Insomma, carino e tutto, occhei, ma epifania e capolavoro no, grazie. (6.4/10) Gabriele Marino

Tom Williams & the Boat - Teenage Blood (Moshi Moshi, Giugno 2012) Genere: Folk rock Esistono da un lustro e hanno già inciso cinque eppì e un esordio, i Tom Williams & The Boat, sestetto anti-folk e indie rock inglese virato recentemente verso un’americana à la Grant Lee Phillips e capitanato dal crooner omonimo. La formazione si è fatta le ossa suonando nei locali del Kent. Dopo aver inciso per UNLABEL ha fondato la propria realtà, la Wire Boat Records, per la quale esce Teenage Blood, album co-prodotto da Moshi Moshi e inciso grazie ai finanziamenti dei fan attraverso la piattaforma Pledge Music. Le dieci canzoni sono perlopiù ballad per chitarre elettriche, violini (Little Bit In Me, Trouble With The Truth, Summer Drive, Emily, Like You) e qualche contrappunto al piano, con testi/racconti in strofe vagamente Nick Cave And The Bad Seeds che propinano dolceamari hook melodici dalle parti di un Tom Petty. Di ballad ce ne sono anche troppe ma il fuori programma che tira in ballo i Dire Straits (Neckbrace (Big Wave)) è curioso. Tom e la sua barca possiedono il giusto grado di stagionatura per risultare credibili e regalare buoni momenti (Like You) di maschia intimità bruciata al sole. (7/10) Edoardo Bridda

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Tomas Barfod - Salton Sea (Friends Of Friends, Maggio 2012) Genere: Electro pop Oltre ad essere il batterista dei blasonati WhoMadeWho, Tomas Barfod è ben conosciuto nella scena dance sotto il moniker Tomboy, col quale ha bazzicato etichette come Gomma, Get Physical e Kitsuné, remixato tra gli altri Bloc Party, Franz Ferdinand e Gorillaz e in generale frequentato i club e i festival più cool d’Europa. L’album solista esce oggi col suo nome di battesimo e rappresenta il volto più “pop” che il producer può mostrare per aggraziarsi il grande pubblico, continuando un percorso già aperto efficacemente qualche anno fa con Seriøs. Una collezione di motivetti accattivanti che svaria dal dreamy scandinavian style di November Skies e del singolo Broken Glass al glo-inspired di Till We Die, passando per l’electropop turgido di Don’t Understand (tra l’altro vicinissimo al solo album dell’altro WhoMadeWho Bon Homme), la folktronica dell’ultimo Caribou (Baxter St.) i vocoder di Jimmy Edgar (Came To Party) e episodi in cassa quadra dal buon gradimento indie, vedi la D.S.O.Y. che ricalca le orme del Kele Okereke fuori dal gruppo oppure i synth ‘80 di Ecstesizing e Python. Nella release digitale c’è anche la bonus track Only Human, col contributo soul di CHLLNGR su un pattern electro-house che stuzzica. Disco tutto sommato ruffiano che insegue le classiche chimere pop&dance adatte a tutti, un percorso già visto più volte, dai Röyksopp di Junior ai nuovi Hot Chip. La mossetta facile che si fa ascoltare con leggerezza, senza compromettersi più di tanto. (6.4/10) Carlo Affatigato

Tu Fawning - A Monument (City Slang, Maggio 2012) Genere: Inide Neanche il tempo di lasciar sedimentare l’esordio Hearts On Hold che gli americani Tu Fawning se ne tornano con un nuovo lavoro. Distante poco nel tempo ma molto nelle evoluzioni dal suo predecessore, A Monument sembra il perfetto passo numero due per una band onnivora e dal sound instabile in cui le coordinate sonore, così come l’ispirazione, sono in perenne mutamento. Se lì il mood dark si concludeva in una sorta di sarabanda teatrale da cabaret mitteleuropeo in grado di tirare in ballo con nonchalance Black Heart Procession e Tom Waits, art-rock da camera e paesaggi da vaudeville, qui le atmosfere gothicheggianti pervadono ogni momento, abbassando una coltre di pulviscolo (post)wavey sulle composizioni dei quattro.


L’opening Anchor dice già molto: un ethereal pop mitteleuropeo, evanescente e singhiozzante su un tappeto di synth brumosi che fa molto Zola Jesus e eroine al nero contemporanee. Elegante ed essenziale, classico e sognante. Non da meno il resto del disco nello sparigliare le carte mantenendo una linea carsica ma ben definita: Build A Great Cliff sembra una cavalcata goth-western, epica e crepuscolare insieme, che mischia analogico e digitale con invidiabile tranquillità; Skin And Bone cala i Portishead nell’immaginario dreamin’ e umbratile della 4AD, prima di svalvolare tra aperture spacey e contrappunti pianistici; In The Center Of Powder White è una torch song tutta riverberi, controcanti, romanticismo e bruma cristallizzata mentre To Break Into fa tornare in mente certe atmosfere sospese e da carillon d’infanzia alla maniera dei Cranes. C’è tanto di gotico in A Monument, si sarà capito, e questa forse è la chiave per comprendere un disco che spiazzerà chi aveva apprezzato l’ardire del primo. Più pulizia, più coesione (i quattro hanno per la prima volta composto insieme), maggiore focalizzazione su una idea complessiva. Nel complesso meno ardito e più elegante, meno coraggioso e più raffinato. Non un passo indietro, quanto un passo in un’altra direzione. (7/10) Stefano Pifferi

Ufomammut - Oro. Opus Primum (Neurot, Aprile 2012) Genere: heavy psychedelia Si vince facile con gli Ufomammut. La band più spendibile sul mercato mondiale per attitudine, pregresso, lucidità e potenzialità, arriva alla conclusione di un percorso con la pubblicazione su Neurot dell’Opus Primum di Oro. Di concept album i tre ne hanno già masticati, vedi alla voce Eve, ma qui raddoppiano offrendoci Oro in due momenti. Se la seconda verrà svelata nell’inverno prossimo, in questa prima parte le cinque composizioni in scaletta mostrano il solito maelstrom sonoro con cui Vita, Poia e Urlo si sono costruiti credenziali e rispetto lungo cinque album e una attività live incessante: lente evoluzioni post-apocalisse neurosisiana mista all’alto peso specifico chitarristico figlio della deflagrazione post-hc/ metal che da Breach a Isis ha corroso le vene di molti di qua e di là dall’oceano. Il rifferama di Mindomine e il groove da giorno del giudizio di Aureum, ne sono perfetto esempio. C’è però a farci drizzare le orecchie, una coesione di fondo invidiabile, derivante dall’aver concepito Oro come una unica suite, suddivisa poi nei dieci episodi finiti nei due lavori. Inoltre, sul versante strettamente compositi-

vo, una attenzione maggiore per la stasi, il vuoto cosmico, una larvale tendenza allo spacey in modalità (quasi) krauta che pur caratterizzando tutti i movimenti, non emerge sempre, ma rimane sottesa, carsica, pronta a risalire in superficie: in maniera esplicita, come nell’opener Empireum o nella ipnosi avvitata su se stessa di Magickon, o in maniera più sottocutanea (il sonar che pervade le svisate caustiche di Infearnatural). Se Eve indagava la prima donna quale metafora della conoscenza, Oro può tranquillamente prefigurarsi come una ricerca di sé nei meandri più oscuri del cosmo da cui proveniamo, sorta di indagine meta-antropologica sull’origine della vita umana. Per portarla a termine, i tre puntano su un suono primordiale e ancestrale rubato allo spazio profondo e alla notte dei tempi. (7.3/10) Stefano Pifferi

Uxo/Colossius - Agents of Decay - Barely ILLegal (Queenspectra, Maggio 2012) Genere: hypnawonky In vena di collab come sempre, Marco Acquaviva/Uxo ci presenta sulla sua QueenSpectra le sue jam a quattro mani con il veterano Colossius (metà degli Ether, giro OverKnights). Il progetto si chiama Agents of Decay, il disco Barely ILLegal, ed è un mixtape intriso di spirito punk (fin dalla copertina, con carcasse e rottami come per una band grindcore) che ha più cose in comune con la new-wave sporca dei PiL - e con la “monnezza concettuale” di Royal Trux o degli Hype Williams - che con il wonky. Atmosfere malate da scenario post-atomico - ronzii, sfrigolii, polveri industriali e radio switch in cui intercettiamo millenarismo misto a Lillo&Greg, Radio24 e il Neffa pop - che ci riportano al dubstep prima del dubstep e alla dark-ambient prima della dark-ambient di Tapping the Conversation di Kevin Martin/The Bug (disco che più passa il tempo, più si rivela profetico). Affogate in questa cloaca umana e sonora, alcune perle da segnarsi sul taccuino: il minimalismo orientaleggiante di Holy Numbers, le atmosfere electro haunted di Warriors, la slowdisco malata di Satisfied, il grasso basso funk di Paris, il reggae di Sixteen, il dubstep di New Blood, l’epica stentorea e stentata di Cla$h e di Living Deadlight. Lavoro estemporaneo, collagistico e stapazzato, inevitabilmente discontinuo, ma con momenti realmente visionari, suggestivi, potenti. Per seguaci della scena wonkitaliana assolutamente non di primo pelo. (7.1/10) Gabriele Marino

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Variety Lights - Central Flow (Fire Records, Maggio 2012) Genere: Art rock Dave Baker, per sottrazione, forse si portava appresso la meglio follia dei Mercury Rev di Yerself Is Steam e Boces. Quantomeno, si portava appresso quel fare canterino e fiabesco, un po’ lisergico ma in fondo tutt’al più semiserio, pur nella tensione di fondo dell’ensemble psichedelico di Buffalo. Fa un certo effetto sapere che è tornato, dopo diciott’anni senza le produzioni oniriche della sua mente. Variety Lights, ‘le luci del varietà’ (nome tratto dal titolo del primo film di Fellini), è il suo nuovo progetto, condiviso con Will MacLean, mastro di synth, quasi fosse un Ravenstine (Sell Your Soul) che appoggia e amplifica l’istrioneria di un Ubu Re. Al netto dell’ambientazione di superficie che risale dai preliminari Ottanta di The Normal fino a Silver Apples, Central Flow prova anche un’interessante sintesi disgiuntiva tra i primi Mercury Rev e i Pere Ubu (Crystal Cove). Prevale certo la rivisitazione psych (surreale come solo i Red Krayola possono) di ventate post-punk/wave/quasi oscure (Silent Too Long / Feeling All Alone), ma la voce di David riesce a destabilizzare qualsiasi richiamo. Ed è la salvezza: nel caso contrario, i brani a volte non riuscirebbero a prendere forma, e soprattutto a uscire dalle briglie del revival. In You Are So Famous la tecnica appare chiara: si parte dalla tessitura, dalla psichedelia congenita delle tastiere elettroniche, dei synth, delle drum machine, e le melodie emergono come nuvole di fumo, che s’addensano sopra i brani e li fanno diventare canzoni. Laddove Baker sottrae la voce, la macchina prende il sopravvento, portandoci in quelle ambientazioni cosmiche dove ci portarono anche Sonic Boom e Kevin Shields negli Experimental Audio Research. A distanza di vent’anni da quella manciata di anni (‘87-’92), leggiamo dinamiche simili, in coloro che fecero la storia e fecero innovare la psichedelia in modo sorprendente, e poi si rifugiarono nelle macchina, fuori dalla dinamica di band. Oggi, 2012, Dave Baker sembra salire sul torrione del suo castello, girarsi per riconsiderare la sua storia. E noi lo guardiamo dal torrione di fianco. (7.2/10) Gaspare Caliri

Wreathes - Wreathes (Pesanta Urfolk, Maggio 2012) Genere: Folk esoterico Il panorama neo-folk a stelle&strisce degli ultimi anni ha di che far stupire. Dal combat western folk dei newyorkesi Cult Of Youth all’Americana polverosa di King Dude, 98

passando per la l’alcova esoterica del Wisconsin, la scena apocalittica d’oltreoceano ha già dato abbondantemente filo da torcere a un Vecchio Continente sempre più fermo al palo della reiterazione di un passato che ha già dato i suoi frutti. Proprio dalla cricca del Midwest, già nota per aver dato i natali a progetti come Burial Hex e Kinit Her, arriva il primo full-length dei Wreathes. Il duo formato da Nathaniel Ritter e Troy Schafer (già Kinit Her per l’appunto), autore di un primissimo 7 pollici su Bathetic lo scorso anno, ha dalla sua una formula rara. Come mischiare suggestioni pagane ed esoteriche tipiche dell’area Brown&Grey con una cifra lirica psichedelica in perfetto equilibrio tra localismo da provincia rurale americana e rimandi arcaici da Vecchio Continente premoderno. Tutto messo in musica alla perfezione. Sei brani marziali e solenni, corali ed evocativi, incredibilmente arrangiati ed eseguiti tra cori simil-funebri, timpani di guerra, sei-corde cristalline e un cantato-recitativo scandito ed imperioso. Premesse importanti con buone probabilità di strafare e sbagliare. E invece no, centro perfetto per i due neovichinghi. Quello che forse stupisce maggiormente è la perizia, il talento compositivo invidiabile e la capacità, non secondaria, di mettere nero su bianco le proprie intenzioni con successo. Si prendano, ad esempio, il carosello dell’opener Odes, la serafica Bones of Love e la ieratica Speech of the Tides; replicate lo stato di grazia per l’intero lato B e avrete tra le mani uno dei dischi più interessanti dell’anno. (7.7/10) Andrea Napoli

Xander Harris - Chrysalid (Pour Le Corps Records, Marzo 2012) Genere: Horrorwave Torna sul luogo del delitto Xander Harris, l’altro pilastro Not Not Fun (dopo Umberto) di quella horrowave postuma emersa negli USA un paio d’anni addietro che fa ancora presa tra i giovani producers di oggi (ultimo dei quali il Beaumont venuto fuori su Hotflush): il carattere del ragazzo texano resta quello già sfoggiato nello scorso Urban Gothic, dunque chiara eredità del Carpenter compositore (la migliore qui è Smuggler, l’ipnosi sintetica che si stende su un battito cardiaco ansiogeno) ma anche echi di kosmische music classica (I Want To Be Free o Synthetic Romance, la solidità di composizione di JeanMichel Jarre) e della prima fase electro (Monocultural Grid). Il passo avanti rispetto ad allora comunque c’è, e si fa apprezzare con piacere. Chrysalid punge soprattutto per gli stimolanti giochi con le drum machine di pezzi come


Atrocity Museum o Pattern Fade, un aspetto che mancava nel lavoro precedente e che oggi ben si aggancia a quel ripescaggio selettivo dagli ‘80 già affiorato con efficacia in Grimes. Una maggiore coscienza storica che trova conferma in Cabaret Voltage, sferragliata 8bit-techno nemmeno tanto lontana dai ‘90 di Urban Shackedown e DJ Aphrodite. Eppure l’accusa è la stessa di sempre: 15 tracce in poco più di mezz’ora significa che parliamo perlopiù di semplici bozze, un ventaglio di intuizioni che solo raramente sfociano in piena forma-canzone. Per una ragione specifica: il suo vuol essere semplicemente un impeccabile campionario di mood orrorifici a tutto tondo. Toccata, fuga e stomaco in subbuglio. (7/10) Carlo Affatigato

Yppah - Eighty One (Ninja Tune, Aprile 2012) Genere: electro ambience Ci era piaciuto Yppah in un EP di qualche tempo fa. Avevamo sperato che le priorità soniche della sua proposta non cadessero su una medietà innocua e normalissima. E invece con questo nuovo disco l’appoggio alle estetiche Novanta del trip-hop (D. Song), la fascinazione per l’IDM à la Boards Of Canada (Blue Schwinn) ed una costante affiliazione al chitarrismo shoegaze (Happy To See You) non bastano a far salire il buon Joe Corrales sull’instabile podio elettrico di questo variegato ‘periodo’ post-2010. I featuring di Anomie Belle (conosciuta ad uno show di Bonobo e già vocalist nei live americani di Tricky) aggiungono qualcosa in più al già detto, ma non servono ad irrobustire, semmai rivangano pedissequamente istantanee color sepia (vedi tra le altre cose i richiami al soul di Moby in R. Mullen), vecchie ancora prima di essere sviluppate. Non che il disco non si ascolti dall’inizio alla fine, anzi, il risultato complessivo è piacevole. Ma non basta a farci ri-esaltare. Il classico disco ‘onesto’, che si dimentica dopo qualche loop. (6/10) Marco Braggion

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In un ipotetico olimpo dei migliori b-movies di tutti i tempi, L’Alieno di Jack Sholder dovrebbe stare in alto, molto in alto, giusto a ridosso della vetta. E’ il 1987. La decade è ormai matura per un film del genere, capace di riprendere alcuni tratti caratteristici della sci-fi americana anni ‘50 e di amalgamarli alla perfezione con l’aria dei tempi. Più o meno lo stesso aggiornamento che Carpenter proporrà un anno dopo con Essi Vivono. Ovvero una nuova versione ‘eighties’ dell’invasione degli alieni. Un’invasione che è già avvenuta, di nascosto, senza che ce ne accorgessimo. Ovviamente, il sottotesto politico di They Live qui viene solo sfiorato. C’è giusto una consapevolezza istintiva che tende ad andare in quella direzione, perché per il resto, L’Alieno si presenta come un action flick poliziesco di metà anni ‘80, con una coppia di poliziotti mal assortita, che sull’esempio di 48 ore e Arma Letale, cerca di far fronte ad una strana serie di omicidi inspiegabili. Nello specifico, capiamo quale sia davvero il problema, dopo una sequenza d’apertura iper cazzuta, con uno dei migliori inseguimenti di macchina che si ricordino. Una rapina in banca, una folle corsa in auto con lo stereo che diffonde hard rock (The Lords of the New Church) a tutto volume. A interpretare il pazzo alla guida, Chris Mulkey, un volto abbastanza noto tra i caratteristi americani, che dopo qualche anno si ritaglierà un ruolo di contorno, ma abbastanza definito, in Twin Peaks. E il serial di culto firmato da David Lynch, casca alla perfezione perché dopo l’inseguimento in questione, vediamo arrivare l’agente Dale Cooper, o meglio una sua versione ante-litteram. In altre parole il buon Kyle MacLachlan, con lo stesso piglio ordinato, lo stesso taglio di capelli beneducato e la stessa aria stralunata di chi la sa più lunga di quanto dia a vedere. Lloyd Gallagher, questo il nome del personaggio del film, è un agente dell’F.B.I. che viene affidato ad un poliziotto del distretto locale, il Tom Beck interpretato da Michael Nouri, che invece è tutto l’opposto. Uno con i suoi modi spiccioli, molto schietto e senza tante sovrastrutture, e a cui proprio non va giù che ci sia il pivellino dell’F.B.I. a spiegargli dove andare e cosa fare. A maggior ragione poi, se il tipo in questione sembra conoscere davvero il problema all’origine. E quale sarebbe il problema, l’origine del male, il motore primo di tutti questi omicidi da parte di persone insospettabili? L’alieno, of course. Un disgustoso parassita insettiforme che passa da un corpo all’altro, saltando da una bocca all’altra, secondo un processo che ancora oggi fa il suo bravo effetto, grazie agli ottimi effetti dell’epoca. E non è un alieno qualunque. Si nasconde all’interno dei

corpi umani come un piccolo feto di Alien, riuscendo a muoverli come pupazzi senza anima, come terminator indistruttibili e quando il corpo che lo ospita si è danneggiato troppo, migra in un altro e continua a fare quello che più gli piace, cioè andare in giro per le strade della Californa, correndo in fiammanti Ferrari, con musica rock ad alto volume e andando a belle donne. Inevitabile la svolta politica, quando il Nostro capisce che l’unico modo a questo mondo per fare quello che ti pare è diventare un politico di professione. Nel finale si candiderà addirittura alla Presidenza degli Stati Uniti d’America! Di tutti i corpi ospitanti, che si vedono nel film, una menzione d’onore spetta a quello della spogliarellista di un night club, nelle sinuose forme di Claudia Christian, con abito mozzafiato, sguardo allucinato e mitra pronto all’uso. Altra medaglia d’onore a Ed O’Ross, altro volto visto un milione di volte al cinema, con il culmine di Danko di Walter Hill dove ha una parte principale da cattivo. Tra l’altro, impossibile non notare una delle prime apparizioni di Danny Trejo (Machete), che fa la parte di un criminale rinchiuso in una cella. Il film uscì al cinema nella stessa settimana del crollo di Wall Street e nello stesso periodo di Predator e Arma Letale, e non fece certo faville al box office, ma dato l’esiguo budget, meno di 5 milioni di dollari, il colpo non fu accusato più di tanto. Jack Sholder veniva da Nel Buio Da Soli (Alone In The Dark) e soprattutto da Nightmare 2. Dopo il parziale insuccesso de L’Alieno, non gli fu dato più modo di elevarsi dalle produzioni televisive, riuscendo a piazzare giusto qualche piccolo film di serie B, tra cui il poliziesco Faccia di Rame (Renegades) con Kiefer Sutherland e Lou Diamond Phillips e Wishmaster 2. Peccato perché la mano nei frammenti più action e orrorifici è decisa, a dispetto del poco credito che generalmente gli viene tributato. Lo stesso Nightmare 2, tutto era tranne che un brutto film, ma questa è un’altra storia. L’Alieno, come da prassi, grazie ai ripetuti passaggi televisivi (in Italia era programmato ripetutamente su Italia 1) diventerà nel corso degli anni un piccolo film di culto, giustificando anche un seguito, un The Hidden II, diretto nel 1994 da Seth Pinsker. Antonello Comunale

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— vhs Grindhouse

L’ Alieno Jack Sholder (U.S.A., 1987)


Gimme Some Inches #28

Andiamo di tapes questo mese a Gimmes per farvi venir voglia di riesumare la vecchia piastra abbandonata in soffitta. Con Claudio Rocchetti, Luca Sigurtà, Bon Ton, Nicola Ratti, Above The Tree... Più che ricordare ancora la rinascita dei nastri, questo mese a Gimmes ce ne occupiamo direttamente, dando un breve elenco di quelle imprescindibili uscite nella penisola. La Borgata Boredom espatria e via No=Fi, la label di Toni Cutrone, licenzia la cassetta dei Magic Towers. Gente del giro giusto che solo per caso si è trovata a vivere fuori da Roma est, in quella Vittorio Veneto sempre più piccola capitale del noise italico. In N4 i loschi figuri di canedicoda e Ottaven offrono un piatto composto da due lunghe tracce a base di ferraglia analogica varia tra synth, delay e tape echo in cui cesellano panorami tra estasi e stasi, con un occhio di riguardo per certe avventure kosmische nello spazio più profondo, come da immaginario letterario Urania, e momenti più dronici e ostici (la chiosa della side A e il lato B). Rimanendo in ambiti rumorosi, la Sincope rilascia la tape collaborativa tra Claudio Rocchetti e Luca 102

Sigurtà. Nel lato A di Sevigny, il bolzanino-berlinese parte con una nebulosa di rumori concreti su cui si installano percussioni free non invadenti e (forse) frasi di chitarra riverberate (la title track) e conclude con una marea montante di sibili noise che si smorza battuta dai venti marziani (We Told). Luca Sigurtà (Harshcore, Luminance ratio oltre che solo) invece occupa il suo lato con Pendulum, dimostrando di essere portato per l’indagine tra silenzio e rumore. Un lungo estatico suono in crescendo che si estende per 8 minuti prima di collassare su se stesso nell’harsh degli ultimi due. Nicola Giunta era mezzo summerTales, duo passato di qui con un paio di split-tapes. Ora se ne esce in solo senza abbandonare il caro nastro: Tapes On Wheels And Radio Tuning esce per la Tulip di Claudio Rocchetti ed è un lavoro sperimentale molto più strambo e ostico rispetto alla già laterale casa-madre. Voci che si inseguono, disturbi da

radio tuning come da titolo (Sunday evening, radio tuning, overseas and elsewhere), deliri&deliqui di vario genere per una musica che è collagistica e fuori fase, astratta e accartocciata. Psichedelia per alien(at)i? Sulla stessa lunghezza d’onda si muove la tape di Nicola Ratti Cathode Deafness, per Musica Moderna. Tubi catodici come da titolo, un tape loop e qualche altro ammennicolo per una indagine sul suono dell’etere nel passaggio verso il segnale digitale. In soldoni, un flusso di feedback riprocessato, increspature di suoni e frammenti di etere sotto forma di improvvisazioni live col suo giusto fascino per noise-addicted e sperimentatori inconsueti. Sempre tapes ma stavolta ad uso delle chitarre sono quelle di Above The Tree e Bon Ton. Del primo pensavamo di sapere tutto o quasi, ma Morning Nightmare ci mostra il chitarrista mascherato in una registrazione ‘dal sapore antico e antropologico’. Andando cioè a riesumare il work in progress che ha portato alla nascita di brani confluiti poi anche nei lavori lunghi. Un diario in divenire che ci aiuta a capire le


modalità tra acustico ed elettrico, rumore e tradizione del nostro caro Marco Bernacchia. I secondi invece sono un terzetto di stanza a Ravenna e all’esordio per Lemming con una tape adorabilmente assemblata a mano. Coi Bon Ton ci fiondiamo indietro nei 90s targati Skin Graft e no-wave tutta tra cifre chitarristiche schizoidi e interplay della sezione ritmica incessantemente su tempi medi (Talbot Talbot), convulsioni postDNA e cantato spastico (Come Back Pitagora), NY disco-wave ossessiva e maltrattata (Senape) e un chitarrismo sempre fuori di testa, anche nei momenti più riflessivi (Design A Diagram). Ne sentiremo, e qui ne sentirete, parlare a breve ed è giusto che sia così. Per gli amanti delle sonorità più scure segnaliamo tre nuove uscite viniliche. Per chi ha a cuore il punk rivisitato in chiave goth, i bolognesi Horror Vacui, dopo il demo di qualche mese fa, rilasciano il primo 7’. Autoprodotto dalla label del gruppo Legion Of The Dead (nome anche delle serate a tema dark che i ragazzi organizzano), Can You Still

See Reality? offre due pezzi con un sound rinnovato e rinvigorito che preannuncia l’album che uscirà dopo l’estate. Dai riverberi in levare di Underworld ai pesanti dosaggi alla Sisters Of Mercy della b-side The Fall Of The Empire, il singolo parla chiaro: passione per i suoni degli 80s più tetri mischiati a un’attitudine punk caciarona e tappezzata di borchie. Divertimento malsano garantito. Su territori simili, il 7’ split tra nomi noti da queste parti come Lust For Youth e War, adepti del nuovo culto nordeuropeo: quello della New Way Of Danish Fuck You. Synthwave nero pece coi primi attratti da una forma malefica di disco annerita da una nube di feedback postindustriale (Denial, Veronica) e i secondi sulla stessa lunghezza d’onda ma molto più acidi e disturbanti, tra voci possedute e riverberate e synth ossessivi come una coltre insormontabile (Somme, Maggio). Chi invece predilige i suoni più minimali e rarefatti avrà di che gioire il ritorno dei Tropic Of Cancer. I due di Long Beach, alle spalle già tre EP e un seguito da culto, rilasciano un

nuovo 12’ per la romana Mannequin, paladina italiana delle sonorità cold/minimal/synth/wave. Come ormai consuetudine, Permissions Of Love consta di una stretta manciata brani algidi e sintetici, a base di batterie metronomiche profonde e pulsanti, scheletriche note di chitarra e voci disperse nell’ambiente. Si senta il lato A The One Left per fugare ogni dubbio: probabilmente il lavoro migliore insieme al precedente The Sorrow Of Two Blooms (Blackest Ever Black, 2011). Ora però vogliamo il full-length. Last but not least, l’ennesima produzione in vinile 12’ single-sided della Sound Of Cobra ha come protagonisti i newyorchesi La Otracina e il loro The Aquarian Wind. Ormai il trip seventies della band di Adam Kriney è totale e le cinque tracce del vinile non fanno che confermarlo: jam psych&hard tra svolazzi di chitarre e lunghe svisate spacey per un trio che si è conquistato sul campo la definizione di ‘kickass bong-andbell-bottom-metal trio’. Stefano Pifferi, Andrea Napoli

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Rearview Mirror

—speciale

Unsane

Un rivolo di sangue vi seppellirà. L’epopea Unsane Il ritorno dei newyorchesi Unsane riapre una ferita mai rimarginata su un suono che è pura violenza metropolitana. Senza fronzoli nè giri di parole, gli Unsane colpiscono dritti in faccia 104

Testo: Stefano Pifferi


Non c’è nulla di così pervasivamente newyorchese come gli Unsane. Affermazione tosta se si pensa ai tanti che hanno riportato su pentagramma quel misto di fascino e ripugnanza, sensualità e violenza, lussuria e sporcizia tipico della Grande Mela. Velvet, Suicide, Swans, Foetus, Sonic Youth, la no-wave (con No New York a fungere da manifesto) tutta, giusto per far qualche nome. Un (neanche tanto) sottile filo rosso (sangue) che unisce gente che ha celebrato la città dalle mille contraddizioni esaltandone aspetti e peculiarità. Ognuno a suo modo, ma nessuno come gli Unsane. Dalle ripugnanti cover che superavano la limitatezza del formato copertina per farsi immaginario di un realismo stordente, al suono sempre tirato allo spasimo, cacofonico, oltre ogni limite, sorta di rielaborazione tentacolare e devastante di un modo di vivere, ogni singola componente del mondo Unsane è un concentrato di violenza metropolitana pura tipicamente newyorchese. Anzi, del Lower East End pre-cura Giuliani a voler essere precisi. Nella sua forma nuda e cruda. Senza tentazioni pop, coinvolgimenti arty o appigli nel mainstream, se è vero che la formula ripugnante e incompromissoria dei tre ha vagato per alcune delle più malfamate label americane - City Slang, Matador, AmRep, Relapse per finire con Ipecac e Alternative Tentacles - sfiorando anche la distribuzione major targata Atlantic per Total Destruction. Certo, erano i tempi dell’affaire Nevermind, e un contratto non si rifiutava a nessuno, ma gli Unsane erano veramente troppo per una major, che infatti li abbandonò al proprio destino giusto l’anno dopo. Una storia, quella del trio newyorchese, lunga ormai un ventennio abbondante e costellata non solo da una corposa messe discografica - sette album ufficiali, una miriade di singoli, un paio di compilation a riannodare le uscite minori e un’altra manciata di live e Peel Sessions - quanto da una particolare concordanza tra ‘arte’ e vita reale che da la misura di come il percorso targato Unsane sia inscindibile dall’immaginario evocato. La morte del batterista Charlie Ondras per overdose nel 1992 e l’agguato (quasi)mortale subito dal frontman Chris Spencer a Vienna nel 1998, sono soltanto due degli estremi che hanno contraddistinto la storia della formazione americana. Come a dire, non siamo qui a fare gli scenester. Dopotutto, rivestire la propria offerta musicale di una simile dose di violenza, esorcizzabile o meno, sembra aver avuto una doppia vettorialità, trasudando verso le vite reali dei propri artefici in maniera devastante. Quasi che gli Unsane fossero la colonna sonora ‘reale’ delle (dis)avventure del Patrick Bateman di Ellisiana memoria, ma depurate dell’aspetto yuppi-edonistico dei maledetti anni ‘80 e calate in un immaginario violento senza tempo.

Tutto comincia nella New York di fine ‘80. Incontratisi come nella miglior tradizione rock al college, il Sarah Lawrence College, per l’esattezza, Chris Spencer (voce, chitarra), Pete Shore (basso) e Charles Ondras (batteria) sono assimilabili al classico power-trio alla Big Black che si aggira per le zone più malfamate delle sonorità (e non solo) all’epoca in voga nella Big Apple. Gente poco raccomandabile del calibro di Pussy Galore, Helmet, Cop Shoot Cop, Surgery, con cui spesso i tre hanno fatto comunella (vedi alla voce Action Swingers o Boss Hog), accasata spesso se non sempre tra Touch’n’Go e Amphetamine Reptile e che si diverte a dissacrare il rock a colpi di rumore e immaginario violento tutto. Una genia di drop-out che si guadagnò la sarcastica definizione di pigfuckers da parte di qualche critico cittadino, trafficando con una idea sonora che calava la violenza dell’hardcore in una dimensione rock-blues portata al massimo livello di rumore. Il battesimo di sangue è targato 1991 e mai modo di dire fu più appropriato. La cover di Unsane, esordio che seguiva la release di qualche singolo ormai introvabile e straquotato come i 7’ This Town (Treehouse, 1989), Vandal X (Sub Pop, 1990) e Concrete Bed (Glitterhouse, 1990), mette subito i proverbiali puntini sulle i. La foto ritrae il corpo esanime e decapitato di un suicida buttatosi sotto un treno della metro cittadina. Così, senza filtri e senza intermediazioni, gli Unsane davano il benvenuto al mondo imbrattandolo di sangue. La musica non era da meno. Preso a prestito il clangore post-industriale di concittadini illustri come Swans e Foetus, i tre non si limitavano alla rendition pura e dura, ma lo applicavano come nella miglior tradizione del Lower East Side al rock, con pesanti infiltrazioni nichilistiche di matrice punk e su un sostrato neanche tanto velatamente blues. Certo, l’aver iniziato a provare condividendo la sala prova con Pussy Galore e Cop Shoot Cop di sicuro ha aiutato, ma è da subito evidente che non c’è proprio futuro nella voce filtrata e sgozzata di Spencer così come nella sua Fender Stratocaster stuprata, come lo slogan più famoso del punk inglese ci ha insegnato. Ugualmente nell’interplay della sezione ritmica, all’epoca composta dal citato Ondras e da Pete Shore, non c’è nulla che non sia un pachiderma in overdrive. Spie al rosso e amplificazione su ogni strumento per creare un wall of sound incrementato dalla cessofonia con cui l’album è registrato. Nonostante tutto, pezzi come Vandal X, Organ Donor, Streetsweeper e Bath restano capisaldi innegabili e pietre di paragone per comprendere non solo l’Unsane sound, ma tutto il milieu ‘socio-culturale’ da dove provenivano i tre. La raccolta di singoli Singles 89-92 se possibile reitera 105


le coordinate sonore, e non, del debutto. Assommando cioè non solo le urticanti distorsioni di un sound che era già classico, con la collezione di singoli ed estratti da compilation varie (un solo inedito, la Blood Boy mixata da Wharton Tiers, all’epoca producer di molti reietti del giro newyorchese), ma riproponendo la raccapricciante estetica che sarà trademark con una copertina che manco i peggiori incubi del citato Ellis potrebbero uguagliare. Un bagno completamente imbrattato di schizzi di sangue successivi ad una mattanza fatta di furia cieca e abominevole, senza remore né bricioli d’umanità. Eravamo felicissimi di poter gestire da noi tutto il processo legato all’artwork, affermava tempo addietro Spencer. Sono cresciuto con l’immaginario splatter e gore e mi è sempre piaciuta l’estetica. Se consideri poi che il sangue in epoca di aids e altre malattie simili è una sorta di tabù, ecco che si possono trovare altre implicazioni che esulano dall’immagine gore. Ascoltare il suo urlo lancinante nella conclusiva Concrete Bed vale più di mille parole o di trattati di sociologia sulla violenza metropolitana, soprattutto se si pensa alle organiche devastazioni tra sangue, piscio, iconoclastia e brutalità di Andres Serrano, cronologicamente limitrofe alle scorribande della Spencer family. È New York, baby, con le sue brutture e i suoi estremismi. Non la città à la page del terzo millennio, ma un posto realmente violento, sporco, moralmente devastato e pericoloso. Spencer stesso non ha mai perso occasione per ricordare come i tempi di Dinkins e Koch - rispettivamente sindaco n° 106 e 105 di NY prima dell’avvento del celebrato (?) Giuliani - non fossero così tranquilli e friendly. All’epoca New York era veramente un posto violento e questo faceva da deterrente per la gente tranquilla, poco attratta dalla città. Ora praticamente chiunque può venire e girare senza pericolo, dichiarava tempo addietro il nostro. Sia come sia, gli Unsane hanno ormai fatto breccia e nel 1993 a distribuire il secondo album Total Destruction cover quasi normalizzata di un pick up insanguinato - è addirittura la Atlantic, tanto pronta nell’acquisire il terzetto quanto nello sbolognarlo giusto l’anno seguente, restituendoli con la fedina penale immacolata a quella integrità da sottobosco consona alla cifra claustrofobica del progetto. Già l’opener mette in chiaro che della distribuzione major ai tre frega poco, anzi praticamente nulla. L’urlo di Body Bomb sembra la riapertura della parentesi chiusa con la compila di singoli, anche se le atmosfere sono meno opprimenti e il blues attraversa come una ferita mai rimarginata tutto l’album. In questo senso, il drumming del nuovo Vinnie Signorelli è meno ossessivamente tribale e grezzo rispetto a quello del compianto Ondras e sembra organizzare al meglio una materia so106

nora come al solito aggressiva e al limite del cacofonico. La scelta di pubblicare un video ufficiale (proprio l’opener Body Bomb) alternando take live in studio alla sottotrama di un kamikaze che si prepara a far saltare in aria il proprio corpo, poi, sarebbe impensabile oggi nell’America post-9/11, ma è l’ennesima occasione per comprendere in profondità l’universo Unsane. Gli Unsane hanno ormai fatto breccia lo stesso, nonostante lo scarico immediato da parte della Atlantic. Se anni dopo esperienze apparentemente lontane geograficamente e come background come gli svedesi Entombed (che non a caso coverizzarono il classico Vandal X) additano proprio i newyorchesi quali grossa ispirazione per la svolta -core e se a distanza di quasi un quarto di secolo la loro potenza di fuoco e il culto trasversale che li accompagna sono ancora intatti, una motivazione ci sarà. Gli Unsane hanno creato una sorta di trademark ispiratore per moltissimi gruppi anche di area extra noise-rock, eppure nonostante i tributi, gli omaggi, l’ispirazione da moltissimi professata, il suono Unsane è solo il loro. Riconoscibilissimo nella sua efferatezza e nel suo essere insieme rotondo, corposo, grasso pur se costruito con essenzialità estrema. Aggressivo oltre ogni limite eppure dotato di una sorta di groove atavico. In overdrive ma pur sempre evidente nella sua forma canzone. Eppure è unico. Il suono Unsane ce l’hanno solo gli Unsane. Punto. L’aneddoto raccontato da Spencer in una intervista a SpaceCityRock.com e relativo all’unica data suonata coi Melvins - è proprio durante un live dei Melvins dello scorso anno che gli Unsane entrarono in contatto con Jello Biafra per la release di Wreck - è esilarante e nello stesso tempo significativo di ciò che nel corso degli anni, con una reputazione guadagnata a sudore e colpi di watt, il trio del Lower East Side ha finito col rappresentare. È il 1994. King Buzzo sta testando Stoner Witch da portare in Europa e chiede ad un attonito Spencer se può suonare prima lasciando gli Unsane come main act. “Oh my God, we’re playing after the Melvins”, l’esterrefatta affermazione di uno sbalordito Dave Curran tra le risate generali. A conferma della crescente considerazione nel giro che conta, nello stesso ‘94 escono le ormai classiche Peel Sessions registrate presso la BBC su invito di mr. John Peel himself. L’album è una sorta di prova del nove per il trio. Dentro quello studio storico, con una sorta di live in presa diretta privo di limature e interventi tecnici sul suono, si può testare il potenziale degli Unsane come espresso al meglio negli infuocati live con cui si sono fatti conoscere. Registrate in due sessioni (maggio del ‘91 con ancora Ondras dietro le pelli, e novembre ‘92),


si dividono in due blocchi: il medley rumoroso di Organ Donor/Street Sweeper/Jungle Music/Exterminator più la Bath dal self titled, sono un excursus doloroso nell’incompromissoria formula sguaiata dei tre. La session dell’anno successivo, con Vinnie Signorelli alla batteria, invece vede il rodaggio di pezzi come il citato cavallo di battaglia Body Bomb o Broke, che finiranno poi su Total Destruction e avviene - tanto per rinnovare il legame tra arte e vita reale che segna tutta la parabola Unsane - col cadavere di Ondras ancora caldo. Il terzo album, Scattered, Smothered & Covered, è più di un ritorno alle origini. Non solo il rapido passaggio mainstream non sembra aver intaccato la carica nervosa dei tre e il sound non pare aver perso una stilla in efferatezza: unica eccezione, la defezione di Pete Shore e l’ingresso al

basso di Dave Curran. A pubblicare è infatti l’etichetta al tempo più disturbante del panorama americano, la Amphetamine Reptile di Tom Hazelmyer, stanziata in quel di Minneapolis ma praticamente col cuore inchiodato nei sobborghi più malfamati di NY. Il disco migliore del neo-terzetto ha il suo apice, insieme al blues martirizzato di Alleged con quell’armonica così diabolicamente sensuale, in Scrape, un concentrato di tensione noise in cui tutto è distorto e smostrato che si distingue per il suo video. Registrato per poco più di 200 dollari, ebbe paradossalmente un buon passaggio su MTV con una amatoriale ripresa dei tre in sala prove alternata a una serie di atroci incidenti con lo skate. Sarcasticamente, proprio il pubblico preferito dell’MTV d’epoca. Lo iato più ampio della prima fase degli Unsane - dal 107


‘95 di Scattered’ al ‘98 di Occupational Hazard - è riempito discograficamente da due strenne come i live Attack In Japan e l’Amrep Christmas, ma più che altro dal tour di supporto ai Neurosis. Se i primi ci danno la misura, in condizioni e circostanze diverse - il primo registrato nel 1995 al Shinyuku Loft di Tokyo; il secondo alla festa di Natale dell’Amphetamine! - del portato live della band, è il vederli chiamati come supporter del tour europeo da quello che all’epoca era uno dei nomi più grossi dell’underground mondiale l’evento principale. Certo, di fronte alla devastante e apocalittica forma dei Neurosis a cavallo tra i capolavori Enemy Of The Sun e Through Silver In Blood, chiunque sarebbe apparso un gruppetto di educande. Ma se lì i cinque dell’apocalisse sfruttavano un immaginario filo-antro-spirituale ampissimo per riferimenti e portata, i tre newyorchesi macinavano di brutto di pancia, tra sudore in quantità 108

e spie sempre al rosso, finendo anche col conquistarsi l’onore di accompagnare la band californiana nelle jam tribali che concludevano i live. Veri sabba noise in cui la Spencer family faceva la sua porca figura. Occupational Hazard (1998) esce per Relapse ed è il momento della svolta. Non in termini commerciali o stilistici, ovvio: il disco non si discosta dal precedente e non fa breccia che nei die-hard fan. Pur mostrando qualche minima crepa, una sorta di stanchezza generale dopo anni di attività intensa e dispendiosa, funziona al solito col suo rodato noise-rock dai tempi meno parossistici (Over Me è in questo senso esemplare ma anche Committed è di diritto iscrivibile nell’epireo dei classici Unsaniani) e con qualche svisata bluesy e groovey (Humidifier, Sick) sempre più in evidenza nella struttura dei pezzi. È la svolta perché durante il tour promozionale si verifica quella convergenza tra arte e realtà che spesso ha sfio-


rato gli Unsane e che stavolta lascia il povero Spencer semimorto in una stradina di Vienna dopo una brutale aggressione a scopo di rapina. Era un giro promozionale per promuovere proprio Occupational Hazard, voluto dalla Relapse, la label che produceva il disco e che si aggiungeva a quel rosario di estremisti e reietti con cui è disseminata la discografia del trio americano. Il fattaccio, oltre che bloccare temporaneamente l’attività live del trio e avere delle ripercussioni non solo fisiche su Spencer, segna il futuro degli Unsane. Spencer infatti una volta ripresosi, abbandona la casa-base New York e si trasferisce dall’altra parte degli States, troncando quel cordone ombelicale con la Grande Mela mai avvenuto in precedenza. Il commiato dalle scene appare a questo punto inevitabile. Il silenzio cala su una delle esperienze più seminali e incompromissorie che la pur malvagia NY abbia saputo accogliere. Passano infatti anni prima che degli Unsane si abbia qualche notizia. Nel 2003 la Relapse pubblica Lambhouse, una raccolta che tira le somme in 23 tracce audio nel cd e altrettante nel dvd, coi 4 video ufficiali - Sick, Scrape, Alleged e Body Bomb - e una serie di set catturati tra un più recente live al Northsix di Brooklyn nel 2003 e chicche sparse tra il mitico CBGB’s nel 1996, il Golden West di Albuquerque nel 1994 e tre pezzi (Broke, HLL e Vandal X) addirittura del 1992. Un buon preambolo per anticipare il rientro in pista del trio con Blood Run (2005) sempre per l’etichetta di Philadelphia. Meno groove (Latch), più ossessività e aggressività dritta in faccia (Release, D Train) con pochi momenti in cui la guardia si abbassa (il bluesaccio impantanato di Recovery). Il ritorno arriva senza grosso clamore e se le critiche sono altalenanti, il pubblico sembra essere preso da altro. L’album ha infatti la sfortuna di capitare quando da NY ci si aspetta roba più arty e Williamsburg è ormai il cuore pulsante del fermento cittadino. Akron/Family, Oneida, Black Dice, per fare dei nomi, sono i referenti di una moltitudine di artistoidi in grado di fare del postmodernismo free in musica una cifra musicale non omogenea ma riconoscibile per dinamiche e attuazione e in cui poco spazio sembra esserci per roba viscerale, di stomaco, priva di compromessi. La cosa sembra non interessare molto gli Unsane. Da quei sobborghi cristallizzati in cui si trova da sempre Spencer - New York si è imborghesita, ma io vivo in una sorta di isola old school e ho molti degli amici che avevo 20 anni fa. Certo, la città è cambiata ma se ci vivi da tempo e sei circondato dalla stessa gente per molto tempo, alla fine non è che sia così diversa. E finché il mio affitto rimarrà così economico, penso di rimanerci a lungo - esce un cazzotto in faccia senza un minimo di interesse per qualcosa che

non sia the own thing. Sotto silenzio, insomma, ma mai sotto botta. La ruota sembra aver ripreso a girare a mille se è vero che solo due anni dopo vede la luce Visqueen (2007), da noi definito ‘quasi una versione in technicolor di Scattered, Smoothered & Covered’ a sottolineare il legame mai interrotto con un suono che è forma mentis del trio. Quasi l’unico sound possibile, stando a ciò che dice Spencer: Probabilmente è per essere circondato da amici incasinati con le droghe e per il mio vivere in maniera in maniera distaccata. La mia vita non è cambiata molto negli anni. Se mi fossi sposato e avessi avuto dei bambini, probabilmente ora suonerei country songs. Ma non è successo. Lo stomp mid-tempo di Last Man Standing, sofferto e catramoso, le aperture quasi country di Against The Grain e la sofferenza al ralenti di Only Pain non inficiano il portato -core del trio, come dimostra This Stops At The River, tra armoniche e devasto psicotico da serial-killer in procinto di uscire a caccia. Sia come sia, una certa capacità strumentale acquisita in vent’anni di carriera e palchi devastati ha lasciato il segno e seppur privo di grossi picchi, Visqueen è un graditissimo ritorno che riaccende la lampadina dell’ascoltatore: Le cose sono cambiate per noi, ovvio. Quando iniziammo a suonare non guardavamo nemmeno in faccia il pubblico; volevamo solo fare rumore e convogliare le nostre frustrazioni senza preoccuparci di quello che pensava la gente: solo noise, noise, noise. Adesso abbiamo più autocontrollo e forse anche qualche melodia in più. Diciamo che sono migliorato nel gestire la mia chitarra e esprimere qualcosa in più del semplice odio. Il resto è storia di questi giorni. Di nuovo dati per persi per cinque lunghi anni, gli Unsane se ne escono con un album, Wreck, che è una bomba e tornano a calcare palchi per una serie di date che toccheranno vari festival in giro per l’Europa e pure la nostra penisola. Di nuovo le dinamiche che hanno portato il trio a firmare per la Alternative Tentacles sono le stesse che tempo addietro li portarono alla Ipecac e prima ancora alla AmRep: Jello Biafra li ha visti suonare dal vivo e essendosi reso conto di come il sound dei tre non avesse perso una stilla della sua potenza disturbante, nonostante gli ormai 20 anni abbondanti di carriera, li ha voluti per la sua label. Come a dire, lasciamo che a parlare per noi sia il nostro suono e la nostra musica. Una musica fastidiosa, urticante, distorta e pericolosa non solo per l’apparato uditivo di chi ascolta. Una musica che è un vero e proprio rivolo di sangue pronto a seppellirci tutti.

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CAMPI MAGNETICI #15

Giorgio Gaber Anni affollati (Carosello Records, Febbraio 1982)

Anni Affollati esce nel 1981, inizialmente solo in vinile e con una tracklist di otto brani. Il materiale, però, trova la sua naturale collocazione nel febbraio del 1982, registrato live e in forma di spettacolo teatrale sul palcoscenico del Carcano di Milano - con tanto di monologhi a inframezzare una scaletta che prevede, oltre ai brani originali del disco, inediti come L’illogica allegria o il singolo del 1980 Io se fossi Dio - e pubblicato lo stesso anno con il titolo Il teatro di Giorgio Gaber. L’ultima ristampa ad opera di Carosello Records, che poi è quella di cui ci occupiamo in questa sede, riprende invece la nomenclatura del primo vinile, restituendo al disco il giusto peso specifico. Dai Polli di allevamento di tre anni prima, metafora nemmeno troppo velata di un’ideologia da batteria intensiva che si trasforma in uno ‘scadimento inerte” sempre più simile a una moda, si passa ai primi vagiti dei catodici anni 80 ed è già il tempo di riflessioni a freddo. ‘Si analizza ciò che rimane di tutto il fervore del decennio precedente’, affermano Gaber e il sodale Luporini, ‘Anche se non mancano momenti di vita e di introspezione molto personali. Si parte dalla constatazione di un riflusso che, senza alcuno slancio utopistico, sfocia nel gusto dell’effimero. I cosiddetti compagni che prima dovevano spaccare tutto e ribaltare il mondo, si erano messi a scherzare. Girava anche una battuta: ‘Mi sono spostato a destra’. Succede sempre così: quando non ci si crede più, ci si mette a scherzare”. Un’indagine socio-culturale su vari piani che parte dal decennio affollato di ideologia e appena concluso per arrivare alla consueta riflessione sul singolo individuo, le sue debolezze, i timori, sublimata da una Il Sosia che altro non è se non uno specchiarsi à la Dorian Gray senza più illusioni. L’impegno e la controcultura diventano quasi anacronistici, in un rifiuto che in Anni affollati recita ‘ho fatto indigestione, la mia testa è piena, dall’Africa

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all’America al mio letto, non c’è rimasto niente che non so, io sono così pieno, da neanche ricordare, il giorno in cui lasciai una donna, o in cui una donna mi lasciò’ e allontana dalle ‘poche immagini ma eterne’ di cui invece si sentirebbe l’esigenza. Quelle, ad esempio, che ne L’illogica allegria fissano il bagliore riappacificante di un’alba in autostrada e in Gildo si cibano di una storia di amicizia commovente nata tra le corsie di un ospedale. Il resto è un ulteriore divincolarsi tra interiorità ed esterno: una Il dilemma che è semplicemente la più bella canzone d’amore di sempre; una Pressione bassa che col suo blues atipico rimarca ancora una volta il sentirsi fuori posto in una società in cui non ci si riconosce affatto; le derive prog di Al termine del mondo a riflettere sulla morte; una ‘1981’ che affronta la fede ideologica e religiosa. E la violenza dei Settanta, il terrorismo, la politica? Finiscono in quella che ancora oggi è una delle invettive migliori del musicista milanese. Gli oltre quattordici minuti di Io se fossi Dio chiudono idealmente il decennio precedente richiamandone i protagonisti e senza fare sconti a nessuno: dal piccolo borghese dipinto come un ‘porco in tutti i sensi, una canaglia’ ai giornalisti, mestieranti del dolore, capaci di buttarsi ‘sul disastro umano col gusto della lacrima, in primo piano’, fino ad arrivare a una politica ‘insinuante, astuta e tonda’ che circonda di retorica la morte di Aldo Moro pretendendo un’assoluzione impossibile. Basterebbe questo brano per giustificare un disco come Anni Affollati, e invece c’è molto di più. Su tutto, la capacità di fissare in maniera spietata un cambio d’epoca e di modello sociale che di lì a poco genererà mostri ben più feroci. Fabrizio Zampighi


classic album

U2 Achtung Baby (Island, Novembre 1991)

La versione rock di “la grande poesia nasce dove c’è dolore” potrebbe essere “un gran disco può nascere anche da una bella tramvata in faccia”: è quella che gli U2 avevano preso con Rattle and Hum, venduto bene ma causa anche di critiche perché atteggiamenti live, magniloquenza e disinvoltura provinciale a livello musicale denunciavano un contagio da parte di quell’America di cui invece avevano saputo fruttuosamente appropriarsi con The Joshua Tree (e il progetto del film non aveva aiutato). Ne derivò una battuta d’arresto nel cammino che, da un certo punto in poi, li aveva visti ampliare pubblico e suono a ogni tappa: la sintesi del primo periodo in War, l’apertura di The Unforgettable Fire e la consacrazione di Joshua. La ripresa del lavoro avvenne perciò in un clima di incertezze, dubbi su sé stessi e divisioni: quella di The Edge da sua moglie (che in un gruppo-comunità come quello riguardava tutti); quella tra chi voleva cambiare strada “abbattendo The Joshua Tree” e chi non ne era convinto (riflessa da quella tra Eno che spingeva -anche con le spicce - verso nuove soluzioni e un Lanois più indulgente verso lo stile solito); quella di look dal b/n Corbijn al colore; quella dei lavori tra Dublino e Berlino, quest’ultima sede scelta per tornare in Europa (ma anche ovvia metafora di divisioni, benché il muro cadesse proprio nei giorni del loro arrivo) e i cui mitici Hansa Studios del Bowie di “Heroes” si riveleranno luogo squallido e inospitale. E quando tutto sembra ripartire intorno - non a caso - a One, in realtà è appena cominciato: ci vorranno mesi frenetici di discussioni e lavoro per mettere insieme un disco che riprenderà le aperture all’elettronica di Unforgettable per contaminarle con la scoperta dei Nine Inch Nails, con la lezione degli Stone Roses e di Madchester, con le battute del breakbeat, ma senza dimenticare l’arte della ballad maturata negli ultimi due dischi. Troviamo così da un lato la novità, a partire da una Zoo Station che apre secca e distorta usando la stazione

della metro berlinese come simbolo di crocevia e della globalizzazione mediatica, quest’ultima sottolineata ampliando Bullet The Blue Sky nell’omonimo spettacolare ZooTV tour (nel quale le bestie erano i governanti e le star a cui Bono telefonava anche in diretta). E di seguito l’annuncio del virtuale di una Even Better Than The Real Thing che non dimentica il blues sotto l’elettronica o l’elettro-funk killer di una The Fly che offre l’occasione a Bono per rispondere alle accuse di essere diventato troppo rockstar, con una versione della stessa ultracaricata e funzionale allo “Zoo” suddetto (e che musicalmente verrà molto apprezzato dal Vasco di Mi si escludeva) o allungando lo sguardo sulla contemporaneità di alcuni testi. Dall’altro lato c’è l’intimismo, quei discorsi amorosi che riguardano un po’ Edge e un po’ il gruppo come la citata One - classico che verrà portato all’eccellenza definitiva da Johnny Cash e massacrato dagli stessi autori nello sguaiato duetto con Mary J. Blige -, l’incanto della Until The End Of The World che segna l’inizio del rapporto con Wenders, le riflessioni della gemma Love Is Blindness e di So Cruel, quest’ultima esempio non unico di equilibrio tra ballad e battuta house discreta. La sintesi risulterà rivoluzionaria, benché la posizione del gruppo lo avesse costretto a maneggiare le novità con la stessa cautela con cui un grande partito di centro, spinto dai tempi, avrebbe maneggiato riforme epocali, permettendogli comunque di spiegarle a quelle masse cui non era arrivato Screamadelica (vedi Mysterious Ways). Modello di nuovo corso per tutti gli anni ‘90 degli U2, cui darà un indirizzo anche nei momenti meno ispirati, mancando tuttavia nel decennio successivo. Giulio Pasquali

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