digital magazine | luglio/agosto 2012 | n. 93/94
Afterhours Squarepusher Love To Hear You Baby
Barbagallo Saint Etienne Roses Gabor
The Ladies Kevin Of Rhythm Saunderson
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Turn On Ty Segall, Krewella, Bear In Heaven, Nguzunguzu, Monki
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Tune-In Barbagallo, Saint Etienne, Roses Gabor
p. 22
Drop Out Love To Hear You Baby: The Ladies Of Rhythm Afterhours Kevin Saunderson Squarepusher Recensioni Campi magnetici Classic album
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sentireascoltare
93/94 luglio/agosto Direttore Edoardo Bridda Direttore Responsabile Antonello Comunale Ufficio Stampa Alberto Lepri, Teresa Greco Coordinamento Gaspare Caliri Progetto Grafico Nicolas Campagnari Redazione Alberto Lepri, Antonello Comunale, Edoardo Bridda, Fabrizio Zampighi, Gabriele Marino, Gaspare Caliri, Marco Braggion, Nicolas Campagnari, Stefano Pifferi, Stefano Solventi, Teresa Greco Staff Nino Ciglio, Carlo Affatigato, Marco Boscolo, Viola Barbieri, Fabrizio Gelmini, Antonio Laudazi, Simone Caronno, Diego Ballani, Antonio Cuccu, Giulia Antelli, Federico Pevere Copertina Donna Summer Guida spirituale Adriano Trauber (1966-2004)
SentireAscoltare online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Provider NGI S.p.A. Copyright © 2012 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare.
Ty Segall In love with the sixties
Alla luce dell’ennesimo ottimo album - il recente Slaughterhouse - è arrivato il momento di mettere un pò d’ordine nella discografia del garager più in vista della Bay Area
Lo stereotipo californiano è probabilmente un qualcosa che va avanti dai tempi dei Beach Boys. La terra promessa del surf, le spiagge da sogno al crepuscolo, e poi le ragazze, i party eccetea eccetera, un’immagine che è rimasta indissolubile nel mondo occidentale. Il suo corollario è quello di un luogo consacrato alla culture giovanili (e quante ne son passate nel corso dei decenni, tra surf, rivoluzioni hippie, psichedelia, punk hardocore e chi più ne ha più ne metta), che oggi sembrano giungerci cristallizzate tra i programmi teen di Mtv e quell’approc�cio sfrontato, scazzato, assolutamente gioioso alla vita che in fin dei conti è lo stesso del surf. Ma questo non lo dico io, è la storia di Ty Segall a raccontarlo. Guardatevi il video Teeny Boppers, imitazione ironica delle superpatinate sit-com adolescenziali realizzata da una band liceale, al secolo gli Epsilons, e ditemi se non è così. Siamo nel 2006, Ty Segall è il biondino al centro della mise en scène. Parte da qui la sua avventura: un ragazzo di Laguna Beach che, come tanti altri, salta tra una band e l’altra, se la spassa, e impara quello che serve per diventare un 4
musicista. In un paio d’anni, dal 2006 al 2008, i gruppi all’attivo sono già tre: gli Epsilons, i Traditional Fools, i Party fowl. Tutta roba che suona lo-fi e garage con varianti a piacere: gli Epsilons per esempio - con all’attivo due album - sono la formazione più punk e probabilmente anche la importante del lotto, perché un paio di amici seguiranno Segall fino al recente Slaughterhouse: nello specifico Mikal Cronin, autore anche di un ottimo esordio solista nel 2011, e Charles Moothart dei Charlie & the Moonhearts. I tre diventano come una piccola famiglia, condividono un bagaglio musicale che va a pescare dai ‘50 ai ‘70 senza dimenticare l’update ai Black Lips e al catalogo In the red, mentre Ty si sbizzarisce con la brillantina rockabilly dei Party Fowl e le trame surf dei Traditional Fool, sfornando dischi buoni ma, nel complesso, trascurabili. Il momento di provarci in solo arriva proverbialmente subito dopo. Horn the Unicorn esce nel 2008 per la poco conosciuta Wizard Mountain, label che aveva già dato alle stampe il lavoro dei Traditional Fool. E’ una cassetta con 9 brani dal lo fi approssimativo e mal regi-
strato, tanto che la Captcha Records ha già provveduto a ristampare il tutto a tempo di record in una versione completa di qualche outtakes. Per la serie: qualcuno che ama recuperare vecchie lost tape si trova sempre. Lo spirito appare ancora punk e l’operazione all’insegna del divertimento (vedi la cover in falsetto di Bike dei Pink Floyd), ma alcuni pezzi lasciano intravedere già una buona dimestichezza con il pop: su tutti The Drag, che pur non muovendosi dal contesto Black Lips è comunque tra le migliori cose dell’album. E’ sempre il 2008, Ty Segall ha i cassetti colmi di canzoni già pronte, e puntuale arriva il secondo album. Questa volta è John Dwyer dei Thee Oh Sees a notarlo e produrre il disco omonimo, Ty Segall, per la personale Castle Face. Le cose girano subito a dovere: l’approccio do it yourself ha finalmente una logica, un fascino, così il nostro può iniziare a esplorare con più dedizione anche la fase di scrittura, subendo in prima istanza l’influenza sixties di Sonics, Beatles, Tyrannosaurus Rex, e poi lasciandosi andare al primo episodio acustico, An ill Jest, e qualche influenza blues riciclata dai Black Keys come Don’t do it, anticipando, tra l’altro, l’hipsteria di Lonely Boy con il più o meno ufficiale video di So Alone. A questo punto, l’agenda degli avvenimenti si intensifica. Segall si sposta a San Francisco, città fondamentale per la crescita del ragazzo che salda nuove e vecchie amicizie con varie collaborazioni, prima su tutte un 7? con Thee Oh Sees e una ottima cassetta con Mikal Cronin, Reverse Shark Attack, prodotta da Kill Shaman e probabilmente uno dei lavori più interessanti del suo 2009. Il disco, rumoroso e pieno di fuzz, da una parte affina il gusto sixities, dall’altra prova a esplorare i territori che potrebbero essere di un Beefheart o dei Mothers of invention, specie nei dieci minuti finali di Reverse Shark Attack. La prova fa da contraltare al terzo disco solista, Lemons, uscito qualche settimana prima su Goner records, lavoro che rappresenta invece il momento più pop della sua discografia, se vogliamo, il momento in cui s’inizia a parlare di Ty come di un nuovo Jay Reatard (vedi It #1 ma soprattutto Cents). Dodici canzoni strofa ritornello della durata media di due minuti, in cui l’unica novità rilevante dal punto di vista musicale è ancora l’influenza del Capitano in un paio di tracce, In your car e la cover omaggio di Drop out Boogie, tutto comunque ricondotto ai classici binari garage. Arriviamo così al 2010, a Melted, il quarto disco solista in due anni. Un ritorno all’approccio ruvido e fuzzato degli esordi. Tornano i Beatles di Rubber Soul, ancora massacrati da distorsioni di ogni tipo e sommersi in un mare di psichedelia che ogni tanto sfocia nella paranoia dei Thee Oh Sees (Finger) ma, più spesso, finisce in territori
psych pop (Alone), passando quasi per casa Ariel Pink (Mike D’s coke). Non è un cambiamento sostanziale, ma il songwriting viene fuori con più personalità: la questione non riguarda più la riproduzione del modello sixties, ma la ricerca di una chiave di lettura personale. La cosa funziona, il disco piace tanto al pubblico quanto alla critica, e il ragazzo comincia ad essere chiamato con insistenza nel panorama underground americano (e non solo). La frenesia di Segall aumenta di conseguenza: si cimenta alla corte dei Sic Alps e intensifica l’attività dal vivo scalpitando tra i palchi di mezza America, aumentando la forza d’urto live e lasciando alle registrazioni in studio il compito meticoloso di ricreare una grana sonora adatta al proprio sound. Da questa ricerca nasce Goodbye Bread, il disco che lo consacra anche in Europa, una summa di quello che è stato, quasi a chiudere un capitolo di vita musicale. Ty prende casa presso la prestigiosa Drag City, la più lesta a metterlo sotto contratto per un nuovo disco, ovviamente senza contare i soliti 7? seminati in giro ancora una volta con Thee Oh Sees e poi con Jeff the Brotherhood. Si abbassano i volumi e le distorsioni ma dentro c’entra tutto il mondo made in Segall dei vari Reatard, Strage Boys, The Standelles ma anche, a conti fatti, il suo modo garagista di frullare pop, psichedelia e good vibes. E’ il disco più lento dell’intera carrira, con molte ballads elettrificate, l’incedere della batteria in costante downtempo e più spazio alla voce, che arriva finalmente in chiaro. Se Melted era un disco con più idee, Goodbye bread lo sdogana ed è anche tempo di prendersi una meritata pausa. Nel 2011 si conta solo un tour accompagnato dai Feeling of love con cui Ty incide un 7?per Permanent Records. Il resto invece è storia di quest’anno. Il ragazzo ritorna in pista con due album. Hair, in collaborazione con il losangelino White Fence (nessuna novità: la valigia garage sixties con un pizzico di paisley underground) e Slaughterhouse, un disco che è il disco, quello giusto. Conferma ad altissimi livelli di un personaggio che ora può confrontandosi sia con il protopunk di Stooges, Mc5 sia con il progressive, che ora si firma Ty Segall Band mettendo in ragione sociale la famiglia d’amici con i quali è partito da Laguna Beach. In soli sei anni, il (quasi) venticinquenne Ty Segall è diventato più di un culto. E’ già una star. Stefano Gaz
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Bear In Heaven Watch The Drone
Dai cambi di lineup alle bizzarre mosse anti-promozionali, dalle arti visive al bel “I Love You, It’s Cool”, ultimo album della band. Due chiacchiere con Adam Wills
I Bear In Heaven negli Stati Uniti spopolano: oltre 200 date a seguire il disco della ribalta Beast Rest Forth Mouth, tutte sold out. Il successo italiano invece è tutto da costruire. La band resta un hype indie e nulla più, nonostante che Beast Rest Forth Mouth e il recentissimo I Love You, It?s Cool siano dischi più che solidi e con tanto di blogosfera al seguito. Abbiamo raggiunto telefonicamente il bassista e chitarrista della band Adam Wills, per approfondire il quadro attuale di una formazione che proprio in questi giorni è in Italia per la promozione di un ultimo album caratterizzato da valanghe di turbinanti synth, psichedelia e stravaganze, cultura dello spazio e del dancefloor. Siamo sempre in zona 80s ma con un colto taglio revisionista. Potresti dirci della storia che sta dietro al titolo del vostro ultimo album, I Love You, It?s Cool? Ne ho trovate differenti versioni online. Sono piuttosto sicuro che sia coinvolto il vostro ex compagno di band Sadek Bazarra... Adam Wills: Quando devi dare un nome a un disco, il suo titolo o ti viene immediatamente o hai da lottarci un po?. Sadek, che era con noi da tanti anni, ha lasciato 6
la band subito dopo il disco precedente (Beast Rest Forth Mouth, ndr). È finito per ritrovarsi troppo impegnato e ha altri suoi progetti in corso, ma resta parte dei Bear In Heaven in molti sensi. Ha realizzato la cover, il design del nuovo album ed il merchandise. È passato in studio una notte e ha lasciato a John (Philpot) e Joe (Stickney) un paio di note nascondendole sotto i loro strumenti: una di queste recitava ?I love you, it?s cool?. All?epoca stavamo lavorando davvero troppo, scrivendo troppo ed eravamo tutti ultra-stressati, persino vicini al sentirci addirittura stanchi di stare in una band. Quella nota risuonò per noi anche a livello emozionale. Ci siamo messi quindi a dircelo a vicenda di continuo, fino a chiamare così anche il disco. Sempre a proposito della fuoriuscita di Sadek: come ha influenzato le dinamiche della band? AW: Ha cambiato le nostre dinamiche in positivo. Come abbiamo detto, Sadek è balzato fuori dalla band giusto prima che partissimo per il tour dello scorso disco. Ci ha costretti a trovare il modo di suonare dal vivo come trio un disco che testimoniava quattro persone. Non avevamo soldi per assumere un turnista e abbiamo quindi do-
vuto imparare un mucchio di nuovi trick durante il tour. Questi hanno finito per influenzare ciò che facciamo ora in più d?una maniera. Avete rallentato lo streaming ufficiale di I Love You, It?s Cool del 400,000%, dandogli un ciclo vitale di 2700 ore. Quale è stata la motivazione dietro a questa strategia? Volevate semplicemente provocare, è stata una mossa in risposta al leak precoce subìto dal disco o intendevate indicare o criticare altro? AW: Provocare era decisamente secondario. Puoi vederla in altro modo e a me starebbe bene, ma amiamo la musica ambient e quel che mi stavo chiedendo era come fare a realizzare una versione ambient del disco. Mi sarei effettivamente fermato a scriverne una, ma stavamo finendo sia il tempo che il denaro. Il slowed-down streaming era un?idea ludica completamente realizzabile, per cui siamo andati avanti con quella. Alcune persone hanno pensato fosse arte, come pensiamo anche noi, altri ci hanno visto una critica all?industria musicale e altre cose ancora. Resta musica prima di tutto. Mettete anche in vendita un ?super-deluxe bundle?da 350$ che include un disco rigido contenente tutte le 2,700 ore del drone... AW: Sì, e abbiamo pure piccole chiavette USB contenenti ognuna cinque ore di una sezione casuale del drone. (ride) La mia ipotesi riguardo al messaggio dietro allo streaming rallentato prendeva in considerazione una metafora della natura grower dell?album. Vedo infatti I Love You, It?s Cool come un disco più ambizioso del precedente Beast Rest Forth Mouth, un disco che funziona al meglio come entità intera piuttosto che colpire immediatamente con forze singole. Da qui la mia domanda: era questo ciò a cui volevate puntare? Avete deliberatamente evitato singoli istantanei quali erano Wholehearted Mess o Lovesick Teenager per raggiungere questo obbiettivo? AW: Per quanto ci riguarda siamo soliti ascoltare i dischi dall?inizio alla fine. Siamo però pure DJ e quindi comprendiamo perfettamente l?importanza di un hit single. Quando sei intento a fare un disco vorresti realizzare entrambi ed effettivamente avevamo entrambe le cose in mente. Certo è però che fare un disco da mettere su e da ascoltare per intero prima di passare all?artista successivo, era comunque il nostro obbiettivo principale. Sono interessato al vostro processo compositivo: ho letto che è perlopiù sottrattivo. Potresti spiegare? AW: Sì, la sua parte maggiore è sottrattiva e abbiamo usato tantissimo questo metodo di lavoro per I Love You, It?s Cool. Nello spazio dove lavoriamo abbiamo la possibilità di scrivere e registrare musica contempo-
raneamente. Funziona così per ogni pezzo: John porta 50/60 parti di synth, io altre 40 bassline diverse e poi lavoriamo all?indietro: muta questa layer, filtra quest?altro, riascolta e eventualmente riparti, togli altro, filtra ancora e così via. So che tu e John avete fatto anche qualche lavoro di video-editing in passato. Continuate a lavorare ancora su questo genere di cose? AW: L?editing è una grossa parte di me e John. Io l?ho studiato a scuola e John ha lavorato come film-maker per più di una decade. L?essere musicisti a tempo pieno è arrivato come una enorme sorpresa per tutti noi, non è qualcosa a cui abbiamo sempre aspirato. La musica era più che altro un hobby, una passione che portavamo avanti. Per cui sono certo che torneremo all?editing, a un certo punto. Dimmi anche degli aspetti visivi di uno show dei Bear In Heaven. Usate multimedia anche durante i vostri concerti? AW: Sì. Ci preoccupiamo degli aspetti visivi di ogni cosa. Forse non quanto ci preoccupiamo della musica, ma vengono comunque immediatamente dopo. Lavoriamo davvero duro per rendere i nostri concerti anche una personale esperienza visiva. Abbiamo quindi assunto un paio di amici a lavorare sulla programmazione e la sincronizzazione dei light-shows. Al momento stanno combattendo con qualche power issue tutto europeo: nel giro di due show abbiamo già fatto saltare le centraline di due location. Spero ci sia qualcuno pronto a tutto questo in Italia... (ride) Avete appena terminato il vostro tour negli Stati Uniti con Blouse e Doldrums. Conosciamo tutti i Blouse ma... potresti introdurci a Doldrums? AW: Doldrums è sbalorditivo. Non c’è nemmeno bisogno che sia io a presentarvelo: ne sentirete parlare senz?altro nei prossimi sei mesi. Ad ogni modo, Doldrums suona dal vivo con suo fratello e un altro ragazzo e fa musica come nessun altro in questo momento. Sai, noi scegliamo davvero minuziosamente le band che ci accompagnano in tour e questo non solo perchè ci interessa che abbiano musicalmente senso accanto a noi, ma anche perchè vogliamo assistere alle loro performance ogni singola notte. Ebbene, Doldrums lungo sei settimane di tour, non ha mai replicato lo stesso set. È genuino e originale, mi aspetto davvero grandi cose per lui. Massimo Rancati
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Nguzunguzu, Monki DJing without limits
Monki da Rinse FM, Nguzunguzu dal producing più arty, personaggi di diversa estrazione si incontrano alla consolle dopo un’esperienza comune: il supporto a grandi tour accanto a M.I.A. e Katy B.
Strani intrecci si verificano a volte dietro la consolle. Personaggi provenienti da percorsi e contesti diversissimi, l’uno accanto all’altro rivolti allo stesso pubblico, per trasmettere le stesse sensazioni liberatorie gettando nella mischia qualsiasi stile/pezzo/mood capiti a tiro, seppur in modi diversi tra loro. È così che presumibilmente andrà il 9 Giugno per i festeggiamenti dei 5 anni di attività 8
di Trash-Dance, la serata elettronica vicentina appena reduce dalla spettacolare serata con Rustie e Nightwave, di cui vi abbiamo raccontato di persona. Protagonista stavolta sarà una scuderia di personaggi femminili dal carattere differente: Monki, 19 anni, londinese, già con una sua etichetta (la Zoo Music), è la ragazzina terribile che in soli due anni è passata dall’anonima-
to alla Rinse FM, dove al momento ha una finestra fissa settimanale, il mercoledì pomeriggio; e Nguzunguzu, l’inafferrabile coppia di producers statunitensi che negli ultimi due anni sta facendo colpo in diverse riviste specializzate per le loro affascinanti produzioni a base di ritmi sghembi, spazi emozionanti e oscurità assortite. Della prima è sotto gli occhi di tutti l’ebbrezza dei suoi djset, riscontrabile in uno qualsiasi dei dj-mix che circolano in rete, sempre coi piedi ben piantati nei meccanismi house ma ricca di svariati spunti euforici che coinvolgono tutto quel che di divertente e irriverente può essere abbinato ai 4/4. Per farvene un’idea, vi consigliamo proprio il podcast Rinse di Maggio, che ben rappresenta le smanie bass, funky e mainstream della ragazza. I secondi invece si fanno notare per una serie di EP pubblicati dal 2010 ad oggi, capaci di ogni sorta di salto stilistico, dalla soft techno ipnotica di Mirage al bass-dubstep di Got U, dalla frenetica tech-house tribale di Unfold alla più recente piega thrilling suggestiva di Wake Sleep. Senza dimenticare che Dj Asma, metà del duo, è anche abile ed eclettica DJ: la prova? Scopritela da soli nello show per Red Bull Music Academy. Caratteristiche differenti eppure una grande esperienza in comune, quella di supporto al tour di due delle star più chiacchierate della dance-mainstream di oggi: Monki ha fatto da opening DJ per i concerti di Katy B, Dj Asma invece per quelli di M.I.A. Abbiam chiesto anche di queso alle due protagoniste, oltre a farci raccontare l’essenza dei loro stili e del loro carattere. Ecco a voi le loro parole esclusive per SA. A proposito: quella sera sarà presente anche un altro personaggio di lusso: Roses Gabor. Ma questa è tutta un’altra storia... Ciao ragazzi, benvenuti su SA.Ci fate le presentazioni? Monki: Ciao, mi chiamo Monki! Vengo da Londra e faccio parte di Rinse FM! DJ Asma: Noi siamo Asma Maroof e Daniel Pineda, da Los Angeles. Due parole a Monki.Una delle caratteristiche peculiari che emergono dai tuoi podcast Rinse è la flessibilità con cui ti muovi dalla house a tutto quel che di funky/pop/divertente gli gira intorno. È questo che dovrà aspettarsi il pubblico al tuo dj-set? Monki: Yeah! Aspettatevi un po’ di tutto: house, hip-hop e qualsiasi frangia di musica elettronica possibile... mi piace molto mischiare le cose quando affronto i diversi generi. Cosa significa essere una new entry alla Rinse? Lavori
vicino ai pezzi grossi della label? Monki: ero già sulla scena da un paio di anni. Ora ho preso l’abitudine di lavorare in ufficio alla Rinse, per cui conosco tutti i ragazzi che gestiscono la stazione radio e l’etichetta. Raccontaci della tua esperienza a supporto del tour di Katy B. Com’è mettere i dischi al pubblico di un suo concerto? Monki: Sì, ho supportato il suo tour e devo ammettere che è stato strano, ti capitava di suonare anche alle sette di pomeriggio, quindi non era esattamente come un rave ma più come un concerto. Però ho comunque avuto ottimi feedback su twitter e dal pubblico. È stata un’esperienza diversa ma molto cool! Due parole a DJ Asma.Le vostre produzioni sono molto interessanti: a volte siam vicini al sound dubstep, altre volte è qualcosa di molto più arty, in entrambi i casi è sempre uno stile trasversale, ricco di groove, atmosfere e beats stimolanti. Quali sono le vostre radici musicali? DJ Asma: Beh sì, amiamo ogni tipo di musica da ogni parte del mondo, e anche di annate diverse. Abbiamo studiato entrambi all’istituto d’arte di Chicago e frequentanto le stesse lezioni sul suono, quindi la nostra formazione concettuale influenza il modo in cui facciamo musica. Beats, bass, loops, samples, spaces... cosa deve aspettarsi il pubblico italiano dal vostro dj-set? DJ Asma: Esatto, tutte le cose che hai detto! Grande energia, atmosfere rilassate, beat tristi/sensuali/paurosi... aspettatevi l’inaspettato! Asma, raccontaci della tua partecipazione al tour di M.I.A. Cosa significa fare il set prima di un suo live? DJ Asma: È stata un’esperienza incredibile. Folle tanto enormi da non crederci! E che impianti, sub, favolosi! A entrambe: avete una manciata di secondi per convincere il pubblico italiano a venire il 9 Giugno. Cosa volete dirgli? Monki: Venite, divertitevi e gettatevi in pista! DJ Asma: Its time for the perculator! Carlo Affatigato
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Barbagallo ossessione in progress Poliedrico, imprendibile, astratto, sanguigno. Uno e molti. Carlo Barbagallo è uno dei segreti meglio sfaccettati in circolazione.
“Cerco di sopravvivere con la musica, per evitare di sprecare il mio tempo in altre attività”. Carlo Barbagallo sa essere laconico, se vuole. Più spesso però è un profluvio di parole, idee, prese di posizione, spesso segnate da un entusiasmo generoso fino al romanticismo. Quando gli chiedo chi siano i musicisti cui più si ispira, mi spara una sessantina di nomi (da Brian Eno a Charles Mingus passando da Wilco, Mulatu Astatke, Frank Zappa, Polvo, Claude Debussy, Kurt Vile, Swervedriver...) specificando che si tratta di una lista riferita solo agli ascolti degli ultimi mesi. Soprattutto, ci tiene a sottolineare quanto preferisca “approfondire storicamente la vita e le opere degli artisti, delle scene, dei movimenti che scopro e che mi colpiscono particolarmente”. Attività che da sola, ne converrete, potrebbe riempire un’intera esistenza. Invece stiamo parlando di un siracusano classe ‘85 che già da una decina d’anni mette lo zampino in svariati progetti (i blues-rock La Petroliera, gli avant jazz Les Dix-huit Secondes, gli ultra-popadelici Albanopower, i grunge in acido Suzanne’Silver, i bluesy Tempestine e i più matematici La Moncada...) senza contare l’attività solista e un certo numero di partecipazioni in veste di strumentista, sound engineer o produttore (per Colapesce, Mapuche e Loners tra gli altri). “Oltre a fare e studiare musica non faccio quasi nient’altro. Sacrifico spesso tutto il resto.Certo, non è una passeggiata organizzarsi tra tutti
testo: Stefano Solventi
gli impegni, come non è semplice tenersi continuamente predisposti agli stimoli, cogliere le idee e saper trovare il modo migliore per realizzarle. Impegno e costanza ripagano, ma la pigrizia è sempre in agguato”. Pigrizia è l’ultima parola che avrei pensato di utilizzare per questo articolo. Sapevo invece che avrei scritto “anomalia”: perché anomala è la presenza di un musicista tanto sfaccettato, iperattivo a dispetto dei santi, talmente immerso nella propria ossessione da scordarsi di segnalare la propria presenza nel pur asfittico shobiz italiano.
Caroselli
alieni
“Mio padre comprò la Fender Redondo, che uso tuttora, più o meno nello stesso periodo in cui sono nato. Era il mio giocattolo preferito, insieme alle armoniche, i vinili e un piccolo registratore con il quale ho accumulato una quantità enorme di cassette”. Il tono e l’atteggiamento sono disarmanti rispetto alla fertilità poliedrica, al talento febbrile. Che nel repertorio solistico diventa imprendibile. Già The EP del 2008 era antipasto intrigante, ribadito l’anno successivo da quel Floppy Disk che sbalordiva per la visione psych espansa, un carosello denso e frizzantello di pop alieno e mollezze blues, di estrosa sperimentazione coi piedi cementati in un umbratile retroterra. All’epoca mi venne spontaneo associarne la cifra espressiva a quella di Richard Swift, un tipo anch’egli dall’indole piuttosto 11
proteiforme. “Sai che non lo conoscevo? Lo citasti nella tua recensione di Floppy Disk, e per questo ti ringrazio La sua discografia è stata una sorprendente scoperta”. Il bello però sarebbe venuto due anni più tardi, con quel Quarter Century (corposamente anticipato da un Quarter Century EP) che sgranava la calligrafia tra art-rock e lo-fi, tra astrazioni ambient e vampe jazz-prog, una trama mutante e sierosa come avrebbero potuto tessere Faust, Syd Barrett, Nino Rota, Flaming Lips e Gastr Del Sol tutti assieme. “Ascolto tantissima musica diversa, adoro accostarmi a tutti gli approcci del fare musica e non apprezzo molto le categorizzazioni, anche se sono cosciente che possano essere utili”. E infatti. Tempo un paio di mesi ed ecco uscire Live At Yoko Ono, incisione di un concerto risalente al marzo 2010 con Barbagallo one man band assieme alla fidata semiacustica. Sorta di ritorno al futuro del folk blues basale, con esiti non troppo distanti dagli Alice In Chain unplugged marezzato di trepido smarrimento Howe Gelb. Un grado zero barbagalliano, potremmo dire, che mette l’accento sul suonare proprio quando lo facevamo animale da studio. E invece, tutt’altro. Qui Carlo fa una tirata che vale la pena leggere fino in fondo. “Il concerto e l’incisione sono entrambi aspetti fondamentali, il cui equilibrio varia a seconda dell’entità del progetto. Per quanto riguarda Suzanne’Silver e La Moncada, ad esempio, la configurazione da band, in cui ogni elemento porta il suo contributo in maniera eguale all’interno di uno spazio (la sala) e in un tempo definito (le prove), fa si che l’aspetto live sia costitutivo del progetto. I dischi si configurano spesso come delle fotografie documentarie, anch’esse circoscritte in un tempo e in un luogo definito, dell’attività del gruppo. In Les Dix-Huit Secondes invece il rapporto tra dimensione dal vivo e dischi è ancora diversa: essendo un progetto di totale improvvisazione ogni disco è live e ogni live un possibile disco. Per quanto riguarda invece la mia attività solista dischi e live si trovano sue due piani complementari. La produzione di musica esclusivamente registrata è la dimensione nativa, l’aspetto live è venuto solo successivamente. Da sempre registro continuamente e periodicamente raccolgo in opere unitarie ciò che ho prodotto, seguendo delle idee astratte o sonore. A circoscrivere il contenuto possono essere i cambiamenti nella vita o nelle condizioni di produzione, le caratteristiche del materiale o i processi messi in atto, similarità o contrapposizioni. I concerti mostrano tutt’altri aspetti: le idee di partenza spogliate di tutto ma esasperate da ciò che è non è proprio delle forme fisse, ovvero strutture labili o non definite, imprevedibilità e imprecisione nell’esecuzione, improvvisazione e istintività. Spesso suono da solo (come nel Live At Yoko Ono) ma nel prossimo futuro spero di riuscire a coinvolgere 12
svariati musicisti in modo che, se le situazioni lo permetteranno, potrò organizzare degli ensembles sempre diversi in cui ognuno potrà apportare la propria creatività in totale libertà al repertorio”. Estremismi e utopie Un approccio decisamente jazzistico di quelli che fanno venire dei gran mal di testa ai cosiddetti imprenditori della musica. Alla maggior parte di loro, almeno. Un bel handicap, in effetti. Oppure una rara qualità. In ogni caso, non resta che farsene una ragione. “Promuovo i miei lavori rigorosamente DIY, prediligo il free download a cui affianco un po’ di tirature limitate, spesso autoprodotte o in collaborazione con piccole ma sincere etichette quali la Bloody Sound Fucktory, che ha stampato Quarter Century in musicassetta”. Cavalcare il presente insomma, adeguarsi al futuro dietro l’angolo, per quanto sia complicato sbirciare, calcolare dove vanno a parare queste benedette prospettive. “Penso che per quanto si discuta molto a riguardo, il problema è che ancora oggi non si fa altro che cercare di rinnovare o celare modi di vivere la musica non molto lontani da quelli dello scorso secolo, anziché sperimentare e abbracciare approcci profondamente differenti. Personalmente spero che le circostanze si estremizzino, in modo che si possa spingere verso il crollo definitivo di tutte le infrastrutture e schemi mentali che reggono i legami tra musica e intrattenimento, marketing, popolarità, immagine. Abbastanza utopico, lo ammetto”. Anche utopia è un termine che non avevo preventivato, ma forse avrei dovuto. In fondo, la carriera del musicista indipendente italiano è una corrida tra utopie - appunto - e bocconi amari, felicità a momenti come diceva quel tale. E poi tante, troppe difficoltà. “Credo che le difficoltà in cui ci s’imbatte dipendano dagli obiettivi che ci si pone. In un qualsiasi step di un percorso, più si cerca di andare oltre, ricercare, rinnovarsi e approfondire, maggiori sono le difficoltà che si incontrano, e nell’impegnarsi a superarle si apriranno nuove possibilità di creazione-produzione che inevitabilmente porranno di fronte ad altre difficoltà. Un musicista indipendente dovrebbe continuamente mettersi in discussione, nel modo a lui più congeniale. E’ insensato, secondo me, in particolare in quanto indipendente, puntare all’assestamento delle condizioni per tentare di escludere le problematiche, per assicurarsi l’apprezzamento altrui”. Due personaggi che corrispondono abbastanza a questo identikit del musicista indie ideale - poco incline al carezzevole, all’addomesticato - sono Colapesce e Mapuche, nelle cui recenti prove Barbagallo ha suonato. Anche se non possiamo fare a meno di pensare che dimensioni piuttosto lontane si siano soltanto sfiorate. “Sia nel primo EP di Lorenzo che nel primo album di Enrico, entrambi conterranei, colleghi e amici, ho collaborato per caso, in
circostanze identiche ma in periodi diversi. Entrambi i lavori sono stati prodotti al Vertigo di Toti Valente (Albanopower) dove mi capitava spesso di passare il tempo. Tra un paio di birre ho messo giù, rispettivamente, un coretto muto e una slide guitar. Personalmente, però, non sono mai stato un ascoltatore attento di musica cantata in italiano, è un ambito che conosco molto poco e al quale non mi sono mai particolarmente interessato. In generale, non seguo quello accade. Sono sempre alla ricerca di nuova musica, al di là dei tempi e dei luoghi. Devo dire però che spesso le cose più interessanti le trovo al di fuori delle scene più chiacchierate”. In effetti, come si dice, le chiacchiere stanno a zero, soprattutto di fronte al lirismo impetuoso delle ultime prove di La Moncada (In The Kennel, uno split coi notevoli Gentless 3) e Suzanne’Silver (l’eccellente Deadband). In(contenibile) progress Questi ultimi sono appena rientrati da un tour europeo, esperienza di cui sono palpabilmente fieri, anzi entusiasti. “Al di là delle location,” interviene Mauro, il batterista, “delle singole date, delle montagne attraversate, dei chilometri fatti, dei cimiteri visti, dall’odore del formaggio francese, della ruota anteriore sinistra che ogni 24 ore cadeva in depressione, al di là del nostro look improbabile, del caffè dal gusto improbabile, al di là dell’invidia per non essere delle mucche al pascolo... Al di là di tutto, la cosa che più ci ha impressionato è stato il fatto che fuori dall’italia conta solo una cosa: LA MUSICA. Se ne infischiano di chi sei e di cosa hai fatto, se la tua musica vale, allora sei ok. La cosa bella, soprattutto nel nostro caso, è stata il fatto di aver frequentato, in questo tour, ambienti in cui il nostro lavoro ha una dignità. In cui il nostro essere musicisti non
è valutato da quanto è figa la nostra camicia o da quanta frutta fresca chiediamo durante il soundcheck, da chi ci ha promosso, da chi ci ha supportato, da quante date abbiamo fatto, con chi abbiamo collaborato o chi abbiamo pagato. Tutto questo non conta un cazzo, conta solo ed ESCLUSIVAMENTE quello che sappiamo fare strumenti alla mano. Ti dirò che, per noi che non ci siamo mai piegati alle italiche usanze del do ut des, è stato come, finalmente, trovare una casa”. Chiarissimo. Come è chiaro che la cosa non si ferma qui. Un lavorìo costantemente in fieri. Tumultuoso. Irrefrenabile. State un po’ a sentire: “ho un pò di materiale completato,” riprende Barbagallo, “registrato in parte al Blue Record Studio, e molto altro in-progress. Ho in mente, però, di abbandonare per un pò il formato album, anche se ancora non ho certezze sulla modalità più opportuna. Parallelamente sto lavorando a delle composizioni di musica elettroacustica, conseguenti ai miei attuali studi. Quando sarà il momento le raccoglierò insieme e spero avremo modo di parlarne. Con Suzanne’Silver abbiamo in programma di registrare un EP al più presto e farlo uscire insieme al breve delirante libro che abbiamo scritto durante l’ultimo tour europeo. Anche con La Moncada siamo alla prese con l’arrangiamento dei brani per il prossimo album. E presto uscirà anche il secondo volume di In The Kennel”. Ah, ok, abbiamo capito. Roba da perderci la testa. Benedetto ragazzo. “24 ore sono poche per una giornata, non sono abbastanza per fare tutto quello che servirebbe per soddisfare la propria passione-ossessione”. Già, proprio così.
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Saint Etienne Intervista a Sarah Cracknell
Phoner con Sarah, voce e mente angelica del trio londinese Un ritorno inatteso e un album inaspettatamente dance per dei rinati Saint Etienne. A distanza di ben sette anni dal precedente Tales From The Turnpike House, Words And Music li ripropone in quel misto di dance, indie, folk ed elettronica squisitamente anglosassone che da sempre li contraddistingue, eppure rinnovati nei suoni e nelle sensibilità. L’incrocio di correnti, come più volte ripetuto in questi anni, è ancora quello tra 80s e 90s ed è senz’altro merito di un team di rodati produttori e collaboratori se l’artigianato pop del trio si è spostato su di un terreno d’azione familiare a Kyle Minogue e Madonna. Sarah, sentita al telefono una mattina dello scorso maggio, non lo nega ma conosce bene la differenza tra i Saint Etienne e il pop da classifica degli ultimi vent’anni almeno. E’ questione di portarsi dentro quel senso di malinconia, ci racconta. Avete mai parlato di sesso o sessualità in una vostra canzone? Glielo chiediamo retoricamente ma il tono della risposta ci interessa. Certo che no, ma attenzione ai luoghi comuni: il sound della band è tutt’altro che freddo o impostato. E’ il regno del sublime. Ed è anche un luogo molto terreno dove ogni raptus pop comprende il proprio opposto. Come se ogni canzone sapesse di durare il tempo di un vecchio 45 giri... (English interview follows) Iniziamo parlando dell?ultimo album. E? curioso che inizi con Over The Border quando nel vostro penuti-
testo: Edoardo Bridda mo lavoro finivate con Teenage Winter. I due spoken word, come giustamente ha notato il Guardian, sono quasi gemelli. Il segno di una rinascita il primo e il preludio di una fine il secondo. All?epoca del vostro penultimo Tales from Turnpike House erano circolate numerose voci di uno split... Non analizziamo noi e le nostre canzoni così tanto. Penso che sia compito degli ascoltatori dare un giudizio o formarsi un?opinione. Ma capisco benissimo cosa intendi... Nell?ultimo album, ho letto nella vostra press: parlate del pop come di un?espressione d?amore Sì, in un certo senso penso che lo sia. Il pop ti fa sentire l?amore in molti modi diversi. Amore per un?altra persona. “Love for a bella vista” o per un ricordo fantastico. Una canzone può raccontare diverse sfaccettature dell?amore. In Words and Sound i testi hanno un denominatore comune: il modo in cui la musica ti influenza fin da piccolo, la sua centralità nelle nostre vite... Esattamente, è il filo rosso dell?intero album. Parla di come la musica influenzi la tua vita, la vita di quanto eri un bambino o un teenager o anche quando sei già trentenne. Quanto una canzone possa trasportare l?ascoltatore indietro nel tempo e nello spazio. Words and Sound e Tales From The Turnpike House sono molto diversi. Dance il primo e pop-folk il se15
condo. Credi che aver riarrangiato il vostro primo album - Foxbase Alpha - abbia influenzato il vostro ultimo lavoro? E? possibile, certamente. Non ci ho mai pensato ma credo che sia così. Credo che abbiamo avuto un pool di producer con i quali abbiamo lavorato negli ultimi sette anni e sarebbe stato un peccato non continuare la collaborazione. Richard X, Tim Powell, Nick Coler e Tim Larkin erano attorno a noi e in paraticolare gli ultimi tre, dopo la dipartita dall?agenzia Xenomania nel 2010, avevano voglia di buttarsi in qualche nuovo progetto. E dunque perché non lavorare con noi? Loro sono veramente fantastici Tutti loro, con Xenomenia, avevano lavorato con, tra gli altri, Kyle Minogue e Pet Shop Boys e questo si sente senz?altro nel vostro album. Del resto se è vero che Words and Sound è mainstream pop, è vero anche che è ha un sound molto più centrato di quanto non si ascolti nelle ultime prove di Kyle e di Madonna... Beh ti ringrazio. Io credo che i contenuti lirici e il senso di melanconia caratterizzino i St Etienne e li differenzino dalle produzioni pop delle chart. Tutti i riferimenti sessuali che si trovano nei singoli delle chart sono assenti nei St Etienne giusto? Avete mai fatto una canzone con quei contenuti? No mai. Non che sia una cosa negativa. Ma non credo sia la nostra cosa, sai. Che ruolo ha avuto Tim Powell in quest’album? Noi siamo bravi con i testi e la melodia, Tim con la musica... E gli altri co-writer del team? Con Rob Davis abbiamo fatto Popular e Last Days Of Disco. Con Debsey Wykesabbiamo fatto Haunted Jukebox nella quale lei canta con me oltre ad aver partecipato alla melodia. Mark Waterfield ha un co-write in I Threw It All Away. In quest?album abbiamo lavorato con un sacco di persone. Mai così tante nella nostra carriera. A parte tutti i guest, come nasce una canzone tra voi tre? E? piuttosto random, ma scriviamo tutti e tre. Qualche volta scriviamo assieme dall?inizio alla fine. Qualche volta qualcuno viene con qualche idea forte. E la seguiamo. In generale contribuiamo tutti con qualcosa all?interno di una canzone. Non credo che succeda spesso di sentire una band dove tutti e tre i membri scrivono nella stessa canzone. Suoni ogni tanto qualche strumento o lasci Bob e Pete la parte musicale? E con i producer come vi comportate? Faccio un po? di tutto in verità. Non tanto quanto loro 16
ma qualche strumento lo suono. Per esempio, con Tim Powell che si porta dietro delle backing tracks e della musica sua, noi mettiamo sopra le melodie cambiando le sue strutture Nei vostri passati album c?erano molti sample di vecchi film e canzoni. Cosa c?era di speciale in questa pratica? Li usate ancora? Li usiamo ancora. Alcune delle nuove canzoni ne contengono. Ed è sempre così bello prendere delle cose e cambiarle. Del remixing mi piace proprio questa caratteristica. Pure se alla fine il risultato è irriconosibile rispetto all?originale. Sempre parlando del passato: vieni anche tu da Croydon come Bob e Pete? C?era una scena rave lì? La frequentavi? Vengo da Old Windsor. E sì, c?era una scena rave da quelle parti. C?erano un paio di club e poi, si, c?erano quelle cose che si facevano e ti trovavi in un campo. Ho conosciuto quella scena alla fine degli 80s. All?inizio la vostra musica è stata senz?altro influenzata dall?house e dalla rave scene... La cosa più bella è che la gente che non sapeva suonare nulla poteva fare un disco. Eri in grado di prendere dei vecchi dischi degli anni 60 e trovare ottimi loop e drum beat da suonare. Prendere pezzi di cose di altra gente e poi metterli assieme. Penso che sia stato molto liberatorio per Bob e Pete. Pensa che loro due volevano avere una band da quando andavano a scuola assieme. Hanno pensato al nome da dargli e a tutto il resto. Il fatto che all?epoca non sapessero suonare alcuno strumento avrebbe potuto bloccarli, se non ci fosse stata questa grande rivoluzione. Questa filosofia DIY era anche una caratteristica del post-punk. Sei cresciuta con la musica dei 70s/80s e mi riferisco alle band che citi nella canzone ?On The Border?, che è autobiografica no? Assolutamente vero. Loro sono nati a Croydon e io a Windsor, che sono entrambi giusto fuori Londra. Abbiamo avuto esperienze molto simili durante l?adolescenza. E anche uno stesso background musicale. Avete registrato Sound of Water - il vostro album ambient pop - a Berlino con i To Rococo Rot. Cosa ricordi di quei giorni? E? stato bello lavorare con loro. Siamo arrivati a Berlino con delle idee appena abbozzate e loro si sono seduti lì e hanno aggiunto il loro contributo. Batteria, synth, basso e sequencer. Sembrava che stessero improvvisando, eppure è stato un processo molto organico. E quando siamo tornati a casa abbiamo finito il lavoro in bellezza. Tales from Turnpike House è basato su un quartiere reale. Come si sono svolte le session?
E? un vero condominio di venticinque piani nel centro di Londra ma la Turnpike House, in cui le nostre storie sono ambientate, ne ha soltanto tre ed è locato in una zona più suburbana. I personaggi raccontati sono completamente fittizi. L?album racconta il quotidiano di queste persone e di come le loro vite, a un certo punto, si incrocino. Questo aspetto fictional ha sempre fatto parte delle vostre canzoni? Sì, abbiamo sempre raccontato storie immaginarie in terza persona. O inventato storie a proposito di persone. Molto raramente sono autobiografiche. Over The Border è semi-autobiografica. Sentendo i vostri spoken word mi vengono sempre in mente i Pet Shop Boys di West And Girls. Avete mai lavorato con loro? Non abbiamo mai collaborato ma abbiamo molte persone in comune. Io e Neil Tennant condividiamo lo stesso monotono (trad. da dead pan voice), la volontà di non drammatizzare le storie e lo stesso modo di raccontarle. Puoi raccontarci della parte visuale dei St Etienne. Dal vivo proietterete molti video? Avremo un sacco di visual e corti da proiettare. Alcuni fatti proprio per il tour. Preferiamo lavorare sui film piut-
tosto che sui videoclip. Ci hanno dato i soldi per fare videoclip, ma con la stessa cifra siamo riusciti a fare dei film che verranno proiettati più volte di un videclip canonico da MTV. Ci piace molto farli ma non starci dentro! In quanti sarete on stage? Normalmente siamo noi tre più Debsey Wykes, occasionalmente, negli stage più grandi, chiamiamo James, un chitarrista che ci da una mano in queste occasioni Prima del brit pop eravate la next big thing, poi sono arrivati Blur Oasis ecc. Come hai vissuto quel periodo? Beh ci hanno provato a metterci dentro al mazzo ma non credo centrassimo molto. Certamente ci sentivamo affini o simili, in un certo senso, ai Pulp con i quali siamo amici da molto tempo e siamo stati anche in tour assieme. Con Oasis, Blur, Sleeper non abbiamo ma avuto nulla in comune ma in generale, brit pop a parte, per noi è stato un periodo molto eccitante e pieno di tour. Words and sound si colloca in un periodo storico particolare, tra synth pop, house e eurodance. Credo che il singolo Tonight lo rappresenti al meglio... Ciò che mi piace di più di quella canzone sono i tre cori, che sono piuttosto strani. Abbiamo sempre voluto che fosse il primo singolo. E? molto euforica
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Roses Gabor I Know That Voice Arriva in Italia Roses Gabor ed è l’occasione per far quattro chiacchiere con una delle vocalist più richieste dai producers dance moderni: Gorillaz, SBTRKT, Redlight, Buraka Som Sistema... È un momento particolarmente propizio per la figura femminile nell’universo dance. Ok, da sempre i producers ricorrono a vocalist femminili per mandare le proprie hit a un livello superiore, e in passato ci son stati interi filoni dance che hanno eretto tale pratica a metodo di successo (la disco, i sample estatici dei rave nei 90s, i giochi pop-erotici dell’electroclash nei primi 2000), ma solo in tempi recenti la piena autonomia di produzione del gentil sesso si sta diffondendo a tappeto. Sarà il progredire delle tecnologie ora aperte a tutti, sarà una nuova apertura mentale che parte da dentro. Sarà che questo rifiorire deep sta riscuotendo il successo che meritava, sarà che le recenti euforie per lo UK funky han riscoperto un’efficacia della voce femminile che non sentivamo da parecchio tempo. Fatto sta che son sempre più i producer che rincorrono le nuove dive dance per far svoltare le proprie hit, e si va formando una cerchia sempre più ampia di protagoniste femminili dal tocco inconfondibile, che passano da una hit all’altra lasciando sempre il segno nelle memorie degli ascoltatori. “Quella voce l’ho già sentita”, magari su dischi, generi e artisti completamente differenti, perché certi tocchi di fino riescono bene ovunque. Vedi Ms Dynamite, letteralmente risorta nel 2010 grazie alle collaborazioni con Zinc (Wile Out), Redlight (What You Talking About) e Magnetic Man (Fire) oppure
testo: Carlo Affatigato Katy B, l’invenzione di casa Rinse passata dalle ospitate su Geeneus e DJ NG a diventare la stella della popular dance londinese, sempre dopo due splendidi trampolini di lancio insieme ai Magnetic Man (Perfect Stranger e Crossover). E ancora, Jessie Ware (vista negli album di SBTRKT e Joker), Anneka (tirata in barca da pezzi da novanta come Vex’d, Starkey, iTAL tEK e Phaeleh) e Lily McKenzie (già sotto l’ala di FaltyDL, FunkyStepz e Brackles), senza voler nominare la “everybody wants me” Nicki Minaj, che le sue attenzioni le ha già ricevute, o M.I.A., da sempre spinta da un fidanzato di lusso come Diplo. Roses Gabor non è solo una delle più richieste, ma è soprattutto la voce più flessibile del mosaico che stiamo descrivendo. Un calore carico di soul che si lascia ispirare dalla tradizione r’n’b classica (ce lo dice lei stessa), capace di linee vocali dalla melodia ispiratissima come quelle di Pharaohs, la hit di SBTRKT dell’estate scorsa, ma anche di quei tocchi irresistibili senza i quali un pezzo funky come Stupid, fatto con Redlight, non sopravviverebbe. Tra le collaborazioni di Roses ci sono anche i Buraka Som Sistema (quel concentrato di euforia che è (We Stay) Up All Night) e Shy FX della Digital Soundboy (piccola parte in Raver), ma la più prestigiosa rimane probabilmente quella coi Gorillaz, che l’han voluta come voce live della loro big hit Dare. 19
Ha ancora tante frecce nel proprio arco, la Gabor, e un cantiere pieno di nuovi progetti in arrivo, sui quali non ci sono ancora anticipazioni. Un riuscitissimo stato dell’arte sulla malleabilità della cantante londinese, però, ce l’ha già offerto il fedelissimo DJ Martelo, col mixtape The Wonderful World of Roses Gabor, che sa cogliere in 45 minuti tutte le affinità elettive alla portata della sensibilità che di lei sappiamo. Proprio insieme a Martelo, Roses Gabor il 9 Giugno sarà in Italia, ai 5 anni di Trash-Dance, con un’esibizione che potrà farvi toccare con mano il talento e la comunicatività di cui stiamo parlando. Nell’intervista che segue, intanto, potrete scoprirne l’umiltà e la simpatia, oltre che le radici stilistiche e certi accenni a possibili mosse future. La dance diva in piena ascesa, naturalmente in esclusiva su SA. 20
Ciao Roses, benvenuta su SA magazine.Stiamo seguendo da tempo le tue collaborazioni nelle varie hit recenti: Gorillaz, Shy FX, Redlight, SBTRKT, Buraka Som Sistema... con chi ti è piaciuto di più lavorare? Forse mi son divertita di più coi Gorillaz e i Buraka perché ormai sono come una seconda famiglia. Ma in generale amo ogni singolo pezzo che ho registrato insieme agli altri, sinceramente non ho dei veri preferiti. Voglio solo cantare i miei pargoli sempre e ovunque! Raccontaci delle tue preferenze musicali. Artisti, generi preferiti... Generi preferiti... hmmm ho sempre amato l’hip-hop. Ma anche artisti come Bjork, Emiliana Torrini, la Mary J. Blige di una volta, Madness, Metronomy... i miei gusti sono un tantino eclettici, immagino. Le collaborazioni tra producers elettronici e voci femminili hanno sempre dato risultati notevoli. È sempre interessante osservare come il calore di una voce
femminile come la tua si leghi all’energia dei beats dance. Spiegaci un po’ i segreti di questo connubbio: cosa significa aggiungere le parti cantate a una hit dance? È difficile catturare l’essenza della canzone? Quando sento un pattern strumentale generalmente non penso “questa è una hit”, ma “mi piace lavorarci sopra”, oppure (di solito il giorno dopo, se va bene) “mi piace la resa d’ascolto finale”, indipendentemente dal fatto che diventi un pezzo per club, o un assolo chitarra/voce o altro.Vado molto a istinto, non ho un vero segreto. O forse il segreto è proprio questo. L’efficacia della voce femminile nella musica dance ha una lunga storia alle spalle. Dai 70s disco agli 80s della house/techno e del pop, le hit jungle/d’n’b dei 90s, l’electroclash, la deep, il funky, il mainstream, l’hip-hop... è una formula senza tempo, vero? Quali sono le tue dive dance preferite del passato? Le mie dive dance preferite? Ti stupirò, non ascolto musica dance con parti vocali di solito. Non ho familiarità con le dive dance, eccetto forse Chaka Khan, che è davvero stupefacente.Mi piace però in generale la musica che ti induce a ballare: Buraka, gran parte della roba soca, Diddy - Dirty Money, Rick Ross, Metronomy... al momento mi fanno un grande effetto. Qualche artista femminile che ti ha ispirato? Mary J. Blige. Anche se non canto per niente come lei, adoro letteralmente la sua emozione. Riecheggia davvero dentro di me.Mi hanno anche presentato a Chanté Moore, che ha una voce dolce e bellissima. Guardando-
mi indietro, penso sia stata lei ad insegnarmi che non devi essere una bomba di energia perché il tuo mood abbia successo. Con chi ti piacerebbe lavorare in futuro? Mi piacerebbe lavorare con un sacco di producers! Da Kanye a Bjork... c’è così tanta roba eccitante in giro al momento. E a me piace sperimentare. L’altra settimana ho avvicinato Flying Lotus in un club a Londra, chissà, forse faremo qualcosa insieme presto... Ti senti solo una cantante? O ti vedi come parte attiva in fase di produzione? Sicuramente mi sento più dentro alla produzione. Non so suonare nulla, a parte forse... il piano a livelli da principianti [ride], ma ho piena fiducia nel mio istinto verso il sound che funziona meglio, e mi piace molto sperimentare. Quindi sì, mi sento molto più affine alla fase di produzione. Come sono le tue performance nei club? Dj-set o live? Che genere di musica fai? Al momento faccio show live, soprattutto in uptempo insieme al mio fantastico DJ Martelo. Spero in futuro di poter avere una band e probabilmente starò alle percussioni! Prossime collaborazioni? Oooohh, vorrei tanto parlartene ma davvero non posso. Sto lavorando su dei pezzi personali insieme a gente straordinaria e non vedo l’ora di poterle cantare ai miei fan, ma non posso davvero dirti nulla ora...
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The Ladies Of Rhythm
Love To Hear You Baby
La scomparsa di Donna Summer ci spinge a ripercorrere il ruolo decisivo della figura femminile nella storia della dance. Un viaggio, player alla mano, lungo le hit storiche rese grandi dalle donne.
Testo: Carlo Affatigato
I ntro È proprio vero, la reale importanza delle cose la si capisce solo quando le si perde. E la recente scomparsa di Donna Summer non è solo un pezzo del nostro amore per la bellezza che scopre il vuoto, ma anche l’occasione per riflettere su quanto importante sia stata la figura della donna nei corsi e ricorsi dance da quarant’anni a questa parte. Perché la donna è armonia, eleganza, stile. È il pepe che da solo può far svoltare un pezzo. È la testa d’ariete per far presa sul pubblico più ampio, il modo più efficace per abbattere le barriere all’ingresso nella fruibilità di una canzone. Qualsiasi producer che ambisca a raggiungere il successo della platea lo sa, avere la giusta voce femminile accanto è un asso della manica di formidabile efficacia. Quella della diva è una figura trasversale che nella storia ha toccato diversi generi, stili ed energie. Interi filoni dance hanno eretto un monumento alla centralità del vocalizzo femminile, ma anche quei generi che per propria natura sono più lontani dalla gentilezza di un cantato femminile (vedi la techno) hanno avuto in realtà i loro apici di successo grazie alla figura della donna vocalist. E allora facciamo insieme questo viaggio emozionato e nostalgico lungo le tracce che han segnato 23
la storia della dance, seguendo il filo conduttore del cantato offerto dal gentil sesso. Player alla mano, vedremo i tanti modi in cui l’evoluzione dance ha fatto risaltare l’importanza della donna. E attenzione, perché scorrendo le tracce che han segnato anche la nostra storia personale, il rischio è che scappi anche la lacrimuccia.
G ood T imes :
disco seduction
Se parliamo di figure femminili dance, non si può non cominciare da quella che per eccellenza è stato il filone estetico fondato sul ruolo delle divas, dunque la disco. Lungo tutti i 70s la disco music ha fatto della cantante femminile il suo perno cardine, proprio per quel carattere che la donna portava al genere: disco significava divertimento, svago e spensieratezza, la distrazione dalla quotidianità che non cercava (ancora) ossessioni o alienazioni, ma che puntava semplicemente alla riconciliazione collettiva. La donna allora diventa l’immagine estrosa su cui puntare, sempre luccicante e gioiosa, sorridente e mai distaccata, simbolo di quanto anche la musica prodotta voleva essere coinvolgente, allettante e, in fondo, facile da amare. Got To Be Real, dunque, e una Cheryl Lynn dalla voce morbida e sinuosa che fa di tutto per accarezzarti e coinvolgerti in una delle hit disco più famose di sempre. Ma anche l’energia frizzante della Diana Ross di I’m Coming Out che ti chiama dalla pista, o gli Chic nello stato di grazia di Good Times e Le Freak, con le voci di Luci Martin e Alfa Anderson a dare compiutezza a un suono altrimenti insoluto. La donna e l’energia dei brani sono un tutt’uno, e conti alla mano una voce forte e graffiante basta da sola a fare la hit, come nel caso di Thema Houston e della cover di Don’t Leave Me This Way, identica alla versione di Harold Melvin & The Blue Notes ma innegabilmente con una marcia in più. La storia prevede anche i passaggi obbligati su Vicki Sue Robinson (Turn The Beat Around), A Taste Of Honey (Boogie Oogie Oogie), Anita Ward (Ring My Bell) e ovviamente Blondie, col sempreverde acuto di Heart Of Glass. Ma due sono le fuoriclasse del filone. Una è Gloria Gaynor, che di quell’energia era la quintessenza: due pezzi letteralmente immortali come I Will Survive e Never Can Say Goodbye, la forza di un’impronta vocale determinata che punta l’obiettivo (cioè tu) senza distrazioni o temporeggiamenti, rappresentano il volto più lucido e convinto di quell’estetica, e proprio per questo anche l’oggetto delle caricature più ciniche. L’altra ovviamente è Donna Summer, ossia l’abbandono senza freni al virtuosismo, al contatto sensoriale. In pratica al sesso. Dietro c’era Giorgio Moroder a tirare le fila, ma l’interprete ha avuto i suoi eccellenti meriti nel dar vita all’immagine più hot dei 70s: tre botte da panico, una Hot Stuff che era puro invito alla trasgressione e al godimento, la Love To Love You Baby che esplicita il gioco in un tripudio di versi orgasmici e la meravigliosa I Feel Love, sfondo sintetico vivacissimo e linea vocale dal languore ineguagliabile, la resa definitiva a lasciarsi scivolare tra le curve sonore più amate del decennio. L’icona delle dive a seguire è servita. L’era disco è stata apice e metro di continuo paragone con tutto ciò che è venuto a seguire, e in tanti modi i volti dance han voluto confrontarsi, scontrarsi e rivaleggiare con quell’immagine, passando dagli omaggi sinceri ai metodi più dissacranti. Ancora oggi persiste un modo di far musica dance devoto a quel tipo di sentire, con frutti più o meno saporiti come i Tiger & Woods di Don’t Hesitate, gli Scissor Sisters di I Don’t Feel Like Dancing o gli Alcazar di Crying At The Discoteque. Eppure l’aspetto più interessante è 24
Donna Summer stato osservare come le generazioni successive siano andate passando costantemente dalla vicinanza alla repulsione verso quel mondo: come stiamo per vedere, il senso della competizione delle dive post-disco è stato ben agguerrito.
S omething U nreal :
raves
&
peripheries
Fai un salto nel tempo che attraversa una decade, ed è già cambiato tutto. Nei ‘90 impazza la furia degli elementi, l’eco dei rave assorda l’aria coi breakbeat acidi di jungle e d’n’b e l’intenzione distruttiva è lampante: siamo agli ultimi strascichi di vero futurismo, l’ossessione per il progresso assume i connotati di una decostruzione della forma e l’accelerazione incontrollata rade al suolo il pattern ritmico canonico. Piacevolezza, svago, armonia? Al diavolo. L’ardkore è furore per le masse e ha la precisa intenzione di travolgere tutto. Comprese le voci femminili, che rappresentano un’occasione d’oro per sotterrare lo storicismo: il vocalizzo così diventa sample, estratto, gettato nella mischia e rielaborato in una pletora di distorsioni, allungamenti e slabrature in ecstasy. Ecco quindi che il campione allucinato diventa il simbolo della meteora acid, sopravvivendo ancora oggi nelle varie produzioni tech-house, dubstep e dnb. All’inizio il campionamento era il pretesto perfetto per creare sound di rottura: Nightmares On Wax nel 1990 tira fuori uno dei sample isterici più imitati dalla scena rave, Aftermath con quel “there’s something unree-ee-eeal” che diventa spirale di follia mentale su una colata di bassi LFO potenziati e sincopi pre-jungle. C’era un certo senso di rispetto per l’immagine diva classica, che conduceva a citazioni eccellenti e cover in breakbeat. Tra gli omaggi più in vista c’è il ritorno di Donna Summer, nella I Feel Love ripresa da Messiah, Jill Francis, con la versione incendiaria di Make Love To Me di Lewi & Chopper, Angie Brown, insieme ai Bizarre Inc. nelle due top chart hits I’m Gonna Get You e Took My Love, ma anche la versione al femminile di Everybody’s Got To Learn Sometime dei Korgis virata acid da N.R.G. 25
Diane Charlemagne
Tutto come previsto e facilmente apprezzabile da tutti. Se non fosse che a un tratto arriva la vena dissacrante e la cosa si trasforma nell’hysteria della seconda ondata rave, dove la voce viene caricata di elio per simulare l’allucinazione MDMA, partorendo quel tappeto di hit underground che ha rappresentato la pietra angolare delle estati ‘ardkore: questa la frenesia che ha partorito i pezzi più amati nel segno della distorsione vocale, la Velocity Funk di E-Dancer/Kevin Saunderson (il malessere dell’E-sound martellato nella Detroit nera), You Got To Slow Down di Tek 9 (l’apoteosi dell’estetica cartoonized), My Mind di Noise Factory (l’inno per le notti lunghe 20 ore), giusto per fare solo pochissimi esempi. Non solo campioni e dive virtuali, però: le donne in carne ed ossa c’erano anche in piena moda jungle e han provveduto a produrre alcuni dei pezzi più duraturi degli hard nineties: Baby D nel 1994 pubblica Let Me Be Your Fantasy, il capolavoro jungle eclettico al punto giusto per il pubblico ad ampio raggio, un meraviglioso assetto soul-r’n’b da classifica (infatti è #1 UK per due settimane), il breakbeat formalmente perfetto e refrain analogico da cardiopalma. Ancora più soulful melody è Sweet Love di M-Beat e Nazlyn, il black soul intrecciato ad arte nel tessuto jungle, mentre quello di Ursula Rucker su Loveless dei 4 Hero lo ricordiamo come un efficace stream of consciousness sul breakbeat intelligente. A farne una questione di gusto, invece, è uno dei personaggi femminili più duraturi del continuum, Diane Charlemagne, quando con una besta come Goldie tira fuori una collezione di pezzi intelligent-d’n’b dalla fortissima presa mentale quali What You
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Won’t Do For Love (impronta jazz infallibile), Believe (that’s chill emotion) e ovviamente Inner City Life, una ferita disperata e senza punti fermi su spazi alieni da vertigine. Impossibile completare il quadro in questa sede. Il vocalizzo è stato uno dei fili conduttori più affascinanti ed estranianti dell’era rave, ma la cosa più curiosa è che tutto questo accadeva mentre, poco più in là, altri attori stavano (ri)costruendo i grandi fasti dell’immagine delle dive...
M agic
summers : an eurodance odyssey
Siam sempre nei ‘90, parallelamente al rave sound ma esteticamente agli antipodi: l’ondata eurodance invade le radio col suo carattere spigliato (diciamo pure sfacciato) e la sua attitudine “commerciale” (così chiamiamo proprio la zona dance che deriva da quello stile). E di nuovo il ruolo del cantante, quasi sempre femminile, torna ad essere il perno su cui tutto gira. In quanto pop-dance al cubo, la parte vocale è protagonista e artefice del sound, lo sforzo di produzione qui non si concentra su strutture sintetiche, ritmi o velocità, ma sulla realizzazione dell’hook infallibile, del What Is Love indimenticato (in questo caso anche le voci maschili han dato soddisfazioni, Haddaway è solo un esempio). Qui si gioca a carte scoperte: l’obiettivo è marchiare a fuoco l’immaginario dei giovani del tempo e la generazione dei trentenni di oggi è quella più coinvolta. I primi colpi grossi arrivano già nell’89, diciamo C’mon and Get My Love di D Mob e Cathy Dennis e Pump Up The Jam dei Technotronic, entrambe ben consapevoli della loro vicinanza hip-hop per tempi ed energia. Poi, pochi giri di parole, non c’è altro da fare se non scegliere i pezzi più amati del lotto: nel ‘92 gli Snap! fanno Rhythm Is A Dancer, un ipnotismo trancey che da loro non ti aspettavi, soprattutto con un refrain così puntuale; l’anno prima era stata Rozalla con Everybody’s Free ad agganciare i posti alti delle classifiche; il ‘93 è la volta di All That She Wants degli svedesi Ace Of Base, tocco nordico dunque meno club e più radio (e infatti finisce in tutte le auto in coda per il mare); i La Bouche arrivano un po’ più tardi, tra ‘94 e ‘95, ma tiran fuori due successi da capogiro, Sweet Dreams (un inno rimasto scolpito nelle notti estive su un background electrodisco che vorresti non finisse mai) e Be My Lover (successo ben maggiore nonostante un mood più invernale); infine, Bailando dei belgi Paradisio, anno 1997, la festosità all’ennesima potenza che chiude se vogliamo il lustro d’oro del filone. Eppure dall’Italia stavolta abbiamo avuto molto da dire (come presto avverrà agli inizi del 2000 per l’ondata italo di Gigi D’Agostino & co.), esportando una spettacolare serie di successi in tutta Europa. Anche qui possiamo iniziare nell’89 coi Black Box di Ride On Time e il campione di Love Sensation di Loleatta Holloway direttamente dagli anni disco (e il cerchio si chiude), ma i fuochi d’artificio iniziano a partire dal ‘93: i toscani Corona hanno alla voce l’asso brasiliano Olga Sousa e di centri ne fanno due, Rhythm Of The Night prima (è la progressive age), Baby Baby dopo (più radiofonica ma funzionale allo scopo), l’esplosione dei Cappella avviene invece con U Got 2 Let The Music (sempre ‘93) e Move On Baby (‘94) ed è quel tipo di euforia che piace tanto anche al pubblico acid house UK. The Summer Is Magic, dei Playahitty, è sempre del ‘94, altro urlo memorabile e altro “pezzo da novanta” prog dance. Nel percorso vanno citate anche la prima Alexia di The Summer Is Crazy (ovvio che uno stile caldo e solare come l’eurodance abbia l’estate come tema centrale) e un act fuori concorso ma di grande spessore: Gala, cantante 27
La Bouche milanese emersa su album nel 1997 con Come Into My Life, prodotto da Molella. La titletrack è un trip languidissimo cantato con una sensualità dismessa che è quasi Martina Topley-Bird, tra gli altri singoli estratti la più euroclassic Freed From Desire, una Suddenly veloce e precisa e la tenuta intima e essenziale di Let A Boy Cry. L’epopea eurodance è stato il bagliore del sole dritto negli occhi, la luminosità massima che l’intervento femminile può assumere quando si tratta di affrontare la cifra popular. La dance commerciale è donna ben più di disco e pop, e lo era in un modo giocoso e colorato che non si è più ripetuto. Anche perché presto verrà presa una piega diversa: c’è già una manciata di bad girls che ha in mente qualcosa di più trasgressivo.
M adame H ollywood :
electroclash means
transgression
All’alba del nuovo millennio, passata la sbornia del party di fine mondo e scongiurato il millennium bug, la sensazione naturale è che sia necessario andare oltre. La semplice seduzione è diventata troppo oldie e prende piede una tendenza più esplicita, che abbraccia ad occhi chiusi gli aspetti della modernità recente e punta dritto alla trasgressione. L’electroclash diventa così pornografia musicale, provocazione dell’immagine sbattuta in faccia, il matrimonio definitivo con i prodotti elaborati dallo star system, la moda e la coca, i party e l’alcol, Mtv e Hollywood. “To be famous is so nice / Suck My dick / Lick my ass”: ci stiamo arrivando. Stilisticamente parliamo di un figlio ribelle della disco e del synth-pop, ma a guardarla dritto in faccia riconosci nei protagonisti una nuova sfrontatezza post-moderna, uno sputo in faccia alla dignità artistica per rappresentare 28
Miss Kittin
quanto di più esplicito lo spettatore dell’era televisiva vuol vedere. Miss Kittin è ovviamente la perfetta impersonificazione di tutto ciò, occhi da gatta incorniciati dallo spesso eyeliner, immagine sexy che prima di sedurti vuol portarti nel backstage, posa giovane e irriverente con un teorema semplice, “tutto ciò che è ora, è fresco ed ha successo è cool, tutto il resto non vale niente”. Bastano in fondo due tracce per capire la filosofia del personaggio: Frank Sinatra, la celebrazione del vizio unita all’arroganza storica (“Every night with my star friends / We eat caviar and drink champagne / Sniffing in the VIP area / We talk about Frank Sinatra / You know Frank Sinatra? / He’s dead. Dead! Ahahahahah..”) su un tagliente pattern electro, e la Madame Hollywood insieme a Felix Da Housecat, la voce supponente di chi non ha voglia di rilasciare interviste e ha in mente solo l’altare supremo del successo di oggi, Hollywood, ovvero la prova inoppugnabile che si è arrivati. Diverse altre personalità femminili si muovono in questo contesto, ognuna con una propria attitudine peculiare: Peaches è la punk girl della dance esplicita dei primi noughties, incazzata e dissacrante come la sappiamo in Lovertits, AA XXX o nella più recente Talk To Me; gli ADULT. sono i più scatenati, assetto acidissimo, velocità oltre i limiti, e una voce femminile metallica che ruba la scena in Hand To Phone o Human Wreck; i belgi Vive la Fête sono essenziali, melodici di un sapore retrò, solidamente centrati sul carisma cantato di Els Pynoo rintracciabile nella loro Nuit Blanche. Più tardi arriverà anche la nostra Tying Tyffany, nuda e lasciva nei singoli di Undercover I’m Not A Peach e I Wanna Be Your Mp3.
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L’electroclash lancia un messaggio netto e fa della donna il campo di gioco su cui ruotano i temi caldi del sesso, del successo e della sfrenatezza. La chicca del genere la realizza il francese Vitalic, che in Ok Cowboy realizza un viaggio interamente sintetico dove la diva femminile c’è, ma di fatto non esiste: la voce è in realtà di Brigitte, un programma di sintesi vocale per Mac usato per la prima volta nel singolo My Friend Dario, freddo e energico come uno sprint in autostrada su una decappottabile d’inverno. È la conferma definitiva che la voce femminile è il mezzo ineguagliabile per il successo pop, al punto da spingere chiunque a far di tutto per averla. Ma, come stiamo per vedere, questo la storia l’aveva già ampiamente dimostrato. Material Girls: pop conjunctions & electro feelings Non è questo ovviamente il posto giusto per discutere della donna lungo il pop (se per l’argomento trattato oggi ci vorrebbe un libro, per quell’altro non ne basterebbero tre). Però è doveroso far risaltare quanto spesso gli artisti abbiano converso sulla linea di confine tra pop e dance, perché di fatto la figura femminile è l’anello di congiunzione perfetto tra la semplicità di meccanismi della musica popolare e l’energia seduttiva di quella da ballo, oltre che il caldo e morbido contraltare al taglio sovente freddo e pungente delle sonorità elettroniche. E qui non parliamo di vecchie volpi come la Madonna di Material Girl e Vogue, la Kylie Minogue di Can’t Get You Out Of My Head, gli ABBA di Gimme! Gimme! Gimme! o la Lady Gaga di Poker Face, entertainers che han sempre abilmente (e furbescamente) accarezzato il sottile confine della dance pur restando piantate sull’orizzonte pop. No, qui vogliamo dar rilievo a quei casi in cui l’artista ha cavalcato intenzionalmente il potere femminile con obiettivi dance dal risvolto dichiarato pop, magari cambiando pelle per l’occasione, o sacrificando le proprie attitudini, o ancora vendendosi l’anima al diavolo. Come Cher, che dopo oltre 30 anni di onorata carriera discografica nel ‘98 si ripresenta al pubblico tirata (tiratissima) a nuovo e tira fuori Believe, suo malgrado una delle hit più popolari degli anni ‘90, di sicuro l’autotune pop per eccellenza. Ma anche le Bananarama di Venus, il pezzo pop ‘80 studiato apposta per gli irriducibili della disco e la consegna definitiva delle tre londinesi a un’immagine da seduttrici che non avevano mai avuto, o ancora gli Eurythmics di Sweet Dreams, con la Lennox prestata appositamente per fabbricare uno dei pezzi più cantati, ballati, remixati e rielaborati di sempre. E quante altre volte, poi, son stati esponenti di stili e generi differenti a voler ricorrere al modello femminile per raggiungere il pubblico pop. Gli alfieri nordici Röyksopp l’han fatto ben due volte, prima con la Andersson dei The Knife in What Else Is There e poi con Robyn in The Girl And The Robot, non a caso le loro hit di maggior successo. I Groove Armada han voluto farlo nel 2001, mettendo un attimo da parte il percorso big beat e coinvolgendo Celetia Martin per My Friend, una voce celestiale e cristallina a cui vien concesso lo spazio assoluto (quando canta lei, tutt’intorno è silenzio), per poi riempire il refrain di chitarre per addolcire il ritmo. Dal suo hip-hop Kanye West era sfuggito più volte per un pelo al “pericolo” pop, ma quando nel 2008 fa coppia con Estelle è il botto definitivo e American Boy sfodera un cantato femminile strepitoso e impossibile da mandar via. Incrociare electro, pop e dance è un gioco che troppo bene si presta alla voce femminile. Ancora qualche esempio? Saltando di palo in frasca: Girls Just Want To Have Fun e Cyndi Lauper che urla uno degli inni più scanzonati e liberatori del decennio di plastica, riacchiappando l’eredità disco che il 30
pop stava assorbendo a quel tempo; Samantha Fox e quel Touch Me innocente e malizioso che ha incantato la generazione ‘80; i Propellerheads di tutt’altra sponda su History Repeating, con Shirley Bassey che tira fuori un cantato poderoso e graffiante che legge il big beat agli antipodi rispetto alla My Friend di pocanzi; il nostro Spiller che sfonda nel 2000 il mercato discografico con Groovejet insieme all’astro nascente Sophie Ellis-Bextor nella sua prova più aggraziata; i La Roux di Bulletproof, con una Elly Jackson così leggera che non poteva non spopolare nel pubblico indie; le Sugababes che nel 2002 toccano un mostro sacro come Gary Numan campionando Are Friends Electric in Freak Like Me, con un’efficacia del cantato che quasi fa sfigurare l’originale. Questo per dire che quando la dance ha voluto essere commerciale ne ha avuto le piene potenzialità, ed erano tutte femminili. Pensate allora quando veniamo proprio al mainstream spinto...
W ho’s T hat C hick :
the mainstream affair
Sophie Ellis-Bextor
Forse il capitolo potenzialmente più fastidioso del nostro excursus, che dopo aver toccato nomi più o meno nobili della storia della musica al femminile si appresta a gettarsi nel marasma delle tracce del sistema Mtv. Eppure la cosa mainstream è il terreno di gioco ideale in cui confrontare e misurare l’efficacia del genere femminile quando parliamo di dance. Le prove più lampanti arrivano quando producers provenienti da un ambito apparentemente estraneo a questi meccanismi, come la trance, si tuffano a pesce nel
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Fergie
Estelle
mondo radiofonico, scegliendosi compagne eccellenti al microfono (e trasformando in parte l’immaginario collettivo del sound trance verso i risvolti di marketing meno nobili). Lo san benissimo due pezzi grossi dell’arena come Tiësto e Armin Van Bureen, da anni sempre ai primi posti delle top DJ chart eppure ogni anno sempre così attenti a non perdere il treno mainstream. E sempre con nomi femminili eccellenti: con Tiësto ci son finite addirittura Nelly Furtado e Anastacia, piega melodica per la prima in Who Wants To Be Alone, taglio graffiante su synth grasso per la seconda in What Can We Do, mentre insieme a Van Bureen scorriamo tra le altre la sognante Sharon Den Adel dei Within Temptation in In And Out Of Love (che a dirla tutta non rinnega neanche troppo lo spirito originario del genere), di nuovo la Ellis-Bextor in posa sciantosissima in Not Giving Up On Love e la diva del genere Jennifer Rene nella autunnale Fine Without You. Capitolo a parte andrebbe fatto per il mostro più cattivo David Guetta, che interamente immerso nel sistema commerciale da un decennio (curioso che il figlio più compiuto dell’electroclash sia un divo) ormai ne conosce ogni meccanismo, e forte del valore catalizzatore del suo nome non fatica a trovare le collaborazioni più clamorose possibili. Nell’ordine, e parlando solo di tempi recenti: Kelly Rowland (When Love Takes Over), Estelle (One Love), Fergie (Gettin’ Over You), Rihanna (Who’s That Chick) e Nicki Minaj (Turn Me On), sound sempre sfacciato e arrogante (“F**k Me I’m Famous”, d’altronde...), costantemente fondato su facili effetti e citazioni ad hoc per far scattare la scintilla e rimuovere gli ostacoli alla larga fruizione.
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Si potrebbe continuare trattando il nuovo gettonato nome della videomusic culture Wynter Gordon (già all’attivo tre hit come Dirty Talk, Til Death e Buy My Love, un album personale e anche l’ospitata sull’ultimo Steve Aoki in Ladi Dadi) oppure le frequenti collaborazioni di un’altra colonna come Martin Solveig con i Dragonette di Martina Sorbara (pezzi riuscitissimi quali Hello, Boys & Girls, Big In Japan e Can’t Stop), ma qui vogliam chiudere con un pezzo storico della dance italica nel suo momento di culmine assoluto: il Benny Benassi degli inizi, quello che con la sua electro-house senza fronzoli ha contribuito al varco dei confini italiani verificatosi nei primi 2000. Quel Benassi ha partorito eccellenti pezzi rimasti fissi nella memoria di molti, e le voci femminili erano sempre a dir poco perfette: i lavori più calzanti al nostro discorso nei Benassi Bros, insieme a Sandy nel suo capolavoro Illusion, uno dei simboli più compiuti della migliore onda italo-dance, e con Dhany in pezzi altrettano epocali come Rocket In The Sky, Every Single Day e Make Me Feel. Ma adesso torniamo a questioni più serie.
B ig Fun :
house , techno
&
girl power
Anche quando il dancing è stato pienamente orientato al club, e dunque doveva fondarsi soprattutto sull’incisività ritmica, le opportunità delle figure femminili non sono state sprecate. Persino un genere come la techno, nato sotto il segno della durezza, della meccanicità e dell’alienazione, il suo apice di successo assoluto l’ha vissuto proprio nel momento in cui ha incontrato la giusta vocalist: la mente responsabile della rivoluzionaria intuizione è proprio il Kevin Saunderson che abbiamo intervistato recentemente, il terzo anello della trinità fondante e colui che con gli Inner City ha raggiunto un nuovo livello di percezione del sound. La voce soulful di Paris Grey è stato il gancio per raggiungere l’orecchiabilità techno-soul definitiva e con due hit planetarie come Good Life e Big Fun il genere esce prepotentemente dal meccanismo club e guarda la luce del sole, restando impresso come una delle cose memorabili degli ‘80. Qualcosa che alla techno successe soltanto in queta sua prima fase, poi mai più. Lato house, le cose andarono un po’ meglio: una delle vocalist più presenti nell’ascesa dei 4/4 è stata Kym Mazelle, che a cavallo tra gli 80 e i 90 ha dato voce ad alcune big hit house come I’m A Lover (in una bella combinazione acid-soul), Taste My Love (già più psichica), Was That All I Was (prodotta da Marshall Jefferson, che la taglia su misura per la linea vocale) e Don’t Scandalize My Name (vicinissima agli Inner City), per poi gettarsi anche lei nella mischia eurodance (Love Me The Right Way). Menzione d’onore anche per le Jomanda di Got A Love For You (pieno USA style, fianco a fianco alla hip-house), gli S’Express del loro Theme (bravi a unire vigore acid house e assetto pop full ‘80), Cookie Watkins con I’m Attracted To You (la deep che va aprendosi sempre più al soul), ed Helen Bruner con Gimme Real Love (come sopra ma più spigliata), mentre Robin S è quella che nel ‘93 ha fatto impazzire il Regno Unito con Show Me Love, pattern così acido che è già trance e linea vocale praticamente eurodance. In tempi più recenti abbiam visto la riscoperta dei 4/4 su un versante più emotivo, nostalgico e referenziale, che partiva spesso da prerogative fatte per l’ascolto sposando però senza grosse preoccupazioni (anzi, con rinnovata grinta) la materia house. Sempre con le voci femminili protagoniste: nella line-up dei primi Hercules And Love Affair ad esempio c’era Nomi Ruiz, 33
Deniz Kurtel
Nina Kraviz
che con la sua voce melodiosa e importante dava uno smalto irreprensibile a You Belong o virava sul lascivo Hercules Theme, quando non partiva per la tangente errebì-soul nello storicismo acido di I’m Telling You. E la Ruiz è la stessa che poi, come Jessica 6, tirerà fuori altri due pezzi drittissimi come White Horse e Fun Girl, due risvolti fashion & erotic della stessa medaglia. I Gus Gus, invece, la brava Earth l’han sempre avuta, ma il meglio del suo profilo più esplicitamente tech-house l’han tirato fuori in Forever del 2007, con una manciata di pezzi da insegnare a scuola di clubbing come Hold You (implacabile e serratissima), You’ll Never Change (la ragazza che si diverte mentre il producer gli dà di cassa) o Need In Me (reminescenze trance sotto un cantato sempre caldo e accorto). E parlando sempre di glacial act danceoriented, per correttezza van citati anche gli SCSI-9 di The Line Of Nine: la voce fredda è di Katya Ryba, il resto è ghiaccio russo. Il vero colpo di coda della house al femminile però avviene proprio ai giorni nostri: un gruppetto di ragazze terribili negli ultimi anni han preso in mano il sound deep, donandogli una gentilezza e una dolcezza delle forme che nessun esponente maschile poteva toccare. I nomi li abbiam già fatti, e son quelli da tenere d’occhio per i mesi a venire: Steffi è la donna di cuore, prima splendida nelle cadute emotive malinconiche di Sadness, poi decisiva nell’impronta dritta di Yours; Deniz Kurtel è la virtuosa capace sia del tocco duro che del fascino enigmatico, e Music Watching Over Me è ancora il suo pezzo più avvolgente, una base fatta per il club e i sottili interventi vocali a ribadire presenza e gusto; Nina Kraviz è la forza dell’underground che alza
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la testa, capace di una Ghetto Kraviz sporca e cattiva o di tocchi raffinati come Taxi Talk, ma sempre attentissima a non invadere l’efficacia del ritmo con eccessi di protagonismo; infine, Maya Jane Coles è il faro che illumina chi le sta vicino, con una collezione di riconoscimenti alle spalle che la rende vero personaggio di riferimento, una trentina di pezzi di clubbing irresistibile nel repertorio e certi interventi vocali personali da urlo, come in Nobody Else, dove viene fuori il vero senso del groove reso vocale sotto un trip delicato e deciso allo stesso tempo, o Senseless, dove lei è sempre presente ma da dietro il telo, aggiungendo solo i tocchi indispensabili per stregare. Ovunque ti giri, trovi sempre la donna che mette l’ingrediente segreto e fa luccicare l’intero genere. È successo a filoni come techno e house, quando han deciso di potenziare la recettibilità del sound, ed è successo anche sotto altri generi, che proprio appena han scoperto le opportunità a disposizione, han partorito una vera e propria generazione di vocalist flessibili e sempre pronte a cantare la next big hit. Siam proprio alle battute del presente, seguiteci.
R ight T hings To D o :
dubstep, funky
&
post - stuff
Vogliamo parlare del dubstep? Per anni un filone fondato su un’oscurità intransigente, un suono duro, netto e cattivo che non prevedeva strappi alla regola. Poi, è inevitabile, vien fuori la tangente che ammorbidisce il passo e punta ad ampliare l’offerta: “il maledetto post-dubstep”, pensarono i puristi; l’unica possibilità per tener davvero vivo il genere, osserviamo noi guardandoci alle spalle. Ed ecco che il contributo femminile si è subito fatto vivo: Katy B è stata una delle prime ad aver bucato il dubstep con la sua femminilità, lo stacco netto delle due tracce coi Magnetic Man, Perfect Stranger e Crossover, a far da trampolino di lancio per il breakthrough definitivo del 2011, e On A Mission diventa fabbrica di singoli come Katy On A Mission, Witches Brew o Broken Record. I tratti unici? Un approccio controllato e metodico che si adatta sempre perfettamente al mood, nella durezza o nella melodia. Tolto il tappo, l’intuizione diventa fenomeno. Ms. Dynamite risorge dalle ceneri di nuovo coi Magnetic Man e produce uno dei pezzi più esaltanti del nuovo dubstep, Fire, l’aggressività di marchio Skream che incontra la fierezza dell’hip-hop. La nuova arrivata Jessie Ware conquista la scena nella poppissima (troppo, probabilmente) The Vision di Joker e in un asso futuregarage come Right Things To Do, con SBTRKT a disegnare il nuovo astro della dancing d’ascolto. Anneka presta la sua voce a una serie di pezzi di grande suggestione con Vex’d (Heart Space), Starkey (Stars), iTAL tEK (Restless Tundra), Falty DL (Gospel Of Opal) e Phaeleh (Unwanted), diventando così la voce più riconoscibile del dubstep moderno, mentre Roses Gabor vien chiamata da SBTRKT per l’altra sua hit, Pharaohs, un tocco sottile e arguto per un ritmo incontestabile. Il bello è che viene a formarsi un serbatoio di voci femminili condiviso con l’altra grande tendenza dance di oggi, vale a dire lo UK funky: lo stile eclettico, frizzante e variopinto è il terreno ideale per far crescere le circonvoluzioni delle voci femminili, al punto che una hit modello funky non può più prescindere dalla presenza di un’artista donna. Le stesse Ms. Dynamite, Katy B e Roses Gabor han fatto parte della scena, la prima tramite Redlight (pirotecnica What You Talking About) e Zinc (Wile Out e la maestria di un inventore), la seconda con DJ NG (Tell Me What It Is) e con lo stesso Geeneus che poi 35
produrrà il suo album (As I), la terza ancora con Redlight (nell’immancabile Stupid). La parabola funky comprende comunque diverse altre dive, quali Lily McKenzie (la personalità più completa del filone, coinvolta da Falty DL, FunkyStepz e Brackles), Anesha (in bilico tra dubstep e funky in I Need Love di Roska, tra i pezzi più noti dei tempi recenti), Fatima (fenomenale voce gospel-soul, Traveller con Zinc ma anche Mind con Floating Points) e le varie Natalie May, Egypt e Meleka. In tutti questi casi la donna è stata indispensabile per riempire di vitalità stili che altrimenti risulterebbero monchi. Il contributo femminile quasi sempre ruba la scena e cattura l’attenzione per tutta la traccia, lasciando al producer il solo compito di esaltarne le venature e spingerne le prerogative ritmiche. Non solo la donna che valorizza la ballabilità del pezzo, ma la dance che si inchina sotto ogni aspetto all’efficacia offerta dalla diva. Altro che maschilismo: questo è amore, baby.
O utro Il quadro ovviamente non può dichiararsi esaustivo e durante il tragitto son rimasti fuori tanti esempi importanti (siam colpevoli sicuramente sulla Neneh Cherry di Buffalo Stance e su Last Night a D.J. Saved My Life, lo sappiamo). Quello che abbiamo fatto resta comunque un viaggio significativo, che tocca uno degli spunti di riflessione più importanti e affascinanti che la musica può offrire: fermo restando che le discriminazioni sessiste esistono ovunque, in arte (e dunque in musica) c’è sempre stata un’intelligenza intellettuale capace di accogliere ciò che di interessante ha da offrire ogni attore. E il percorso seguito oggi serve a mettere in risalto il tocco decisivo che la donna ha saputo dare sempre alla musica dance: quel passo felino, aggraziato e sensuale, luccicante o colorato, estroso o languido, attraente, folle e istintivo, senza il quale nulla, che sia la musica o la vita in generale, varrebbe la pena di essere vissuto.
Female-addicted dance: the essentials Donna Summer - I Feel Love (1977) Cheryl Lynn - Got To Be Real (1978) Blondie - Heart Of Glass (1979) Indeep - Last Night a D.J. Saved My Life (1982) Samantha Fox - Touch Me (I Want Your Body) (1986) Inner City - Good Life (1988) Snap! - Rhythm Is A Dancer (1992) Baby D - Let Me Be Your Fantasy (1993) Ace Of Base - All That She Wants (1993) La Bouche - Sweet Dreams (1994) Gala - Come Into My Life (1997) Miss Kittin & The Hacker - Frank Sinatra (2001) Groove Armada feat. Celetia Martin - My Friend (2001)
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Benassi Bros feat. Sandy - Illusion (2003) Röyksopp feat. Karin Dreijer Andersson - What Else Is There (2005) GusGus - Hold You (2007) Kanye West feat. Estelle - American Boy (2008) Hercules And Love Affair - You Belong (2008) Redlight feat. Roses Gabor - Stupid (2010) Maya Jane Coles - Nobody Else (2010) Magnetic Man feat. Katy B - Crossover (2010) SBTRKT feat. Jessie Ware - Right Things To Do (2011) Brackles feat. Lily McKenzie - Never Coming Down (2012)
sentireascoltare.com
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Afterh 38
La parabola degli Afterhours, ovvero un’anormale vicenda di rock (in) italiano.
hours Hai paura del pop?
P rologo :
Testo: Stefano Solventi
come volevamo essere
Che dagli anni Ottanta non si potesse uscire vivi è una palese esasperazione di un concetto che ha un certo fondamento, come sa chiunque ci sia passato attraverso. Tra le molte prove a carico, c’è un film del 1992 tratto da uno spettacolo teatrale del 1989, Volevamo essere gli U2 di Umberto Marino. La vicenda di un gruppo di amici che prova a metter su una band si dipana con la tessitura farraginosa delle fiction televisive a basso budget, ma quel che è peggio la musica “suonata” dai ragazzi è una insulsa parata di cover, il minimo sindacale 39
per far armeggiare gli strumenti e pagare pegno al plot. Come dire, il rock resta fuori campo. Niente male per una pellicola che reca nel titolo la band che segnò come poche altre l’immaginario collettivo rockista del periodo. In quella stessa cuspide tra 80s e 90s, poco visibile ma formicolante, in Italia accadeva un movimento alternativo che tentava di parlare il linguaggio del rock con padronanza rinnovata. Il post punk si era rivelato un’onda lunga capace di dare vita alla scena bolognese, fiorentina, romana e milanese. Proprio nel capoluogo meneghino sul finire degli 80’s presero vita gli Afterhours, per volontà di un cantante e chitarrista dal timbro graffiante e impetuoso, il classe ‘66 Manuel Agnelli.
S trategie
anglofone
Il quartetto faceva perno su un’idea rock dal lirismo ruvido e volitivo, segnatamente USA, come è palpabile nel mini album d’esordio All The Good Children Go To Hell (Toast Records - 1988, 6.6/10), vuoi per l’approccio da Dylan elettrico e scontroso di Billie’s Serenade e Independent Houses, vuoi per la cover di Green River dei Creedence Clearwater Revival. Ben presto però la proposta si struttura e diversifica. Dalla Toast Records passarono alla Vox Pop, etichetta allestita in proprio, tanto per ribadire lo spirito fieramente alieno tanto al mainstream quanto ai circuiti diversamente istituzionali delle band engagée. Quindi, col mini During Christine’s Sleep (Vox Pop, 1990 - 6,8/10) approfondirono l’attitudine a stelle e strisce: c’è una Plastic che chiama sua Bobbità ad incrociare corde unghiose con X e Dream Syndicate, mentre la calligrafie dimostra sorprendente versatilità aprendo alla ballad opalina vagamente Alex Chilton di Icebox e al crossover stradaiolo di Tina’s Got a Brand New Boy. Un’acida e sognante Inside Marilyn Three Times sarà il canovaccio di Dentro Marilyn, un lustro più tardi - ma sembra un’era geologica - reinterpretata da Mina col titolo di Tre Volte Dentro Me. Dopo la partecipazione ad un tributo ai Joe Division organizzato dalla Vox Pop (reinterpretarono in chiave minimale Shadowplay), arrivò un ep dal piglio ben più tumultuoso e bizzarro come Cocaine Head (Vox Pop - 1991, 7.0/10), riconducibile per molti versi al coevo lavoro dei Red Hot Chili Peppers, di certo post punk versante Cramps o volendo del coevo grunge con fregole sincopate. Non stupisce che al plauso della stampa specializzata italiana si aggiungessero gli elogi di testate straniere autorevoli come Alternative Press. A quel punto gli After erano una band col rock indocile, mutevole e mutante nel mirino, senza le tipiche sudditanze e gli scimmiottamenti delle band italiane, il linguaggio crudo e disturbato, l’indole indie senza compromessi. Siamo quindi già ad un passo dalla chiave di volta. Negazione ed attrazione Tra il ‘92 e il ‘95 la band matura il nocciolo poetico attorno a cui graviterà tutta la successiva produzione: dopo l’ep che ribadisce l’estro ingrugnito e visionario che prende le mosse dal grunge solo per esplorarne il retaggio (in coincidenza del quale entra in formazione il batterista Giorgio Prette), è tempo di avere a che fare con l’estro pop che divide l’anima, cioè del secondo album Pop Kills Your Soul (Vox Pop, 1993 - 7.2/10). Canzoni costruite attorno a melodie accattivanti e trovate d’impatto, una vena che pulsa beffarda, impetuosa e struggente per un miscuglio eterogeneo che riesce a sintonizzarsi sulla stessa frequenza portante, rock disturbato che pure vuole far parte delle tue frequentazioni quotidiane perché, casomai non te ne fossi accorto, il quotidiano è disturbato. Un gioco di negazione e attrazione tra rock e pop 40
che di fatto li salda in una stessa cifra espressiva, tesa fino al disequilibrio e perciò viva, insidiosa, rapace. Si continua a guardare alla scena d’oltreoceano, prediligendo però gli spasmi losangelini dei Red Hot Chili Peppers (Terry Fill Me Up, On Time) o la Cincinnati grondante soul degli Afghan Whigs (Coalition), ma è particolarmente significativa la cover della beatlesiana Hey Bulldog, in una versione tirata che non avrebbe sfigurato nel coevo Vs. dei Pearl Jam. Gli Afterhours a quel punto eccedono se stessi, capiscono di non bastarsi confinati nella sottoghettizzazione “indie” italiana. Soprattutto, vedono nel cantato in inglese un limite masochistico da cui decidono di smarcarsi. Due le mosse che precedono il nuovo corso della band: la partecipazione a E cantava le canzoni (EMI, 1993), album tributo a Rino Gaetano di cui interpretano una trasfigurata, commossa e psicotica Mio fratello è figlio unico, prima prova in italiano della band; altra partecipazione ad un tributo, stavolta è I Disertori (Columbia, 1994) dedicato ad Ivano Fossati, del quale interpretano la opening track, una quanto mai turgida e impetuosa La canzone popolare. Quindi arrivò la svolta vera, quel Germi (Vox Pop, 1995 - 7.5/10) che li vide ripensarsi in lingua italiana. Non a caso ai pezzi nuovi si affiancarono le riletture di quattro cavalli di battaglia dei precedenti lavori. Da un lato Ossigeno, Pop (una canzone pop) e Vieni dentro sono in sostanza le taduzioni di Oxygen, Come inside e Pop Kills Your Soul, dimostrando d’amblé quanto l’italiano potesse tecnicamente competere con l’inglese - grazie anche all’utilizzo disinvolto e spesso estremo della tecnica del cut up -, mentre Dentro Marilyn riprende Inside Marilyn Three Times enfatizzandone il chorus in senso melodico come fosse una naturale conseguenza del cambiamento d’idioma. Ed è questo un punto cruciale: il quartetto - Agnelli, Prette, Iriondo e Zerilli 41
sembrava muoversi in un solco facinoroso e tentacolare, costantemente in bilico tra tumulto post-punk disturbato noise (la title track, Ho tutto in testa ma non riesco a dirlo, Siete proprio dei pulcini) ed estro melodico (Strategie, Plastilina) seppur ammorbato da dissonanze e patologie liriche. Si impone quindi una calligrafia satura di tensione, come un agguato costante e reciproco tra l’attitudine sperimentale (portata in dote soprattutto da Xabier Iriondo, chitarrista votato alle dissonanze scorticate ed evocative), la vena rock-hardcore e le sempre più palpabili suggestioni pop. Una strana e fruttuosa forma di equilibrio, corroborata dalla “consacrazione” di Mina che come già detto nel ‘97 inserì la propria interpretazione di Dentro Marilyn (reintitolata Tre volte dentro me) nel proprio album Leggera (PDU, 1997), galeotta la figlia Benedetta che, divenuta amica di Manuel, fece conoscere il pezzo alla Tigre di Cremona. Incarnare l’esasperazione Defunta la Vox Pop, gli Afterhours firmarono per la Mescal di Valerio Soave, in procinto di diventare una delle label indipendenti più attive del Belpaese. La falsariga di Germi fu ripresa e superata da Hai paura del buio? (Mescal, 1997 - 8.0/10), dove la scrittura di Agnelli - autore di quasi tutti i pezzi - raggiunge nuovi livelli di ecletticità ed istrionismo, senza con ciò sminuire il contributo di Iriondo e Prette, nonché di un elemento aggiunto come il violinista Dario Ciffo. Diciannove le tracce, un carosello sbalorditivo di schegge hardcore noise (Dea, Veleno), torridi residui grunge (Rapace, Male di miele), siparietti cameristici (Come vorrei), psicosi post-blues (Terrorswing) e teatrini allibiti (Senza finestra), ballad che incedono nevrotiche (Punto G, 1.9.9.6.) 42
e languide (Pelle, Voglio una pelle splendida), guizzi caustici (Questo pazzo pazzo mondo di tasse, la controgenerazionale Sui giovani d’oggi ci scatarro su) e psichedelia balzana (Mi trovo nuovo). Troppo sferzanti e disturbati per venire accodati al rock autorale alla Ligabue, disposti però a concedere squarci carezzevoli che poco si addicono alla dimensione alternativa, gli Afterhours si imposero come fenomeno anomalo, adorato da quanti ci videro una risposta forse un po’ tardiva ma autorevole alle vampe grunge/hardcore e agli azzardi del post-rock, oppure un aggiornamento dell’approccio espanso e irriverente di un Battisti, al contrario avverso da coloro che li interpretavano come una furba miscela di espedienti, o semplicemente provavano istintiva antipatia per l’ingombrante figura del leader. Agnelli infatti afferrò con decisione le redini della band, imponendo il proprio approccio impetuoso sul palco (nei concerti del periodo Manuel si dedicava sovente alla pratica dello stage-diving, come ho avuto la ventura di appurare personalmente) che faceva il paio con l’iconografia da rock star maledetta e intansigente, come se fosse mosso dall’urgenza di estremizzare l’immaginario in cui credeva fortemente, di incarnarlo a costo di esasperarne l’aspetto, tentando così di colmare il divario tra i sogni di rock’n’roll e la realtà angusta dello shobiz italiano. Le performance coi vestiti da bambolina del periodo Germi e gli assalti da iguana successivi sembravano dire agli spettatori che dovevano aspettarsi di tutto fuorché uno spettacolo dimesso. Che l’esuberanza nel rock non è affatto un peccato, anzi, può rappresentare un intelligente additivo. Una estetica dell’eccesso quindi ma a tutto tondo, con ricadute come abbiamo visto sulle escursioni stilistiche, dalle massimamente ostiche al carezzevole più struggente. Un’idea di prassi rock che non operava distinzioni preventive tra alternativo e popular, e proprio in questo solco gli Afterhours decisero di spingersi, sempre più a fondo. Perversa carezzevole schizofrenia Con Non è per sempre (Mescal, 1999 - 7.8/10), prodotto da Fabio ‘Magister’ Magistrali e Maurice Andiloro, sfornarono un album più compatto (“appena” 13 pezzi), meno disposto a siparietti bizzarri, tuttavia la forbice tra la vena carezzevole, l’acidità e la sperimentazione si allargò, azzeccando in qualche circostanza una sintesi notevole, vedi il caso di L’estate, ballata lasciva (“la tua bocca cieca che mi aspetta/sento che ha ragionevolmente fretta”) con vampe noise-psych al calor bianco (notevole il lavoro al violino di Dario Ciffo, ormai membro stabile della band), oppure l’arguta Superenalotto. Fu però la presenza di due pezzi strutturalmente leggeri come Baby Fiducia (estro brit e corettini Stones) e Bianca (non lontana dagli Smashing Pumpkins più morbidi) a segnare la percezione di questo disco, che peraltro vantava in scaletta altre evoluzioni melodiche come il romanticismo power-pop della title track e la struggente Oceano di gomma (dedicata ad un amico scomparso). Va detto però che il Julian Cope ipnotizzato Lennon di Oppio, il punk noise di La verità che ricordavo, il trip-hop fibrillato Nick Cave di Tutto fa un po’ male, l’inno generazonale disturbato di Non si esce vivi dagli anni ‘80 e la nevrastenia Suicide di Milano circonvallazione esterna raccontano una storia diversa, costituiscono un dark side stranamente organico alla parte più solare, forse perché ad unirle c’è un’insidia di fondo costante, un ghigno di sferzante e perversa desolazione. La direzione comunque è segnata, e Iriondo decide di non seguirla per dare vita a situazioni soniche più azzardate come i Six Minute War Madness 43
ed il relativo side project A Short Apnea (assieme a Paolo Cantù e Fabio Magistrali). Gli Afterhours divennero così sempre più il progetto di Agnelli, che nel frattempo aveva diversificato il raggio d’azione, facendosi valere come produttore per Cristina Donà, Scisma, Verdena, Massimo Volume e Marco Parente (non certo a caso nel novembre 2001 gli verrà assegnato l’Italian Music Awards come miglior produttore italiano), disimpegnandosi come scrittore con Il meraviglioso tubetto (Mondadori, 2000), realizzando assieme ad Emidio Clementi dei Massimo Volume il reading Gli Agnelli Clementi, infine e soprattutto organizzando il festival itinerante Tora! Tora!, sorta di vetrina live della scena alternativa italiana sulla falsariga dello statunitense Lollapalooza. Nel frattempo, a suggellare la chiusura di una fase, aveva visto la luce Siam tre piccoli porcellin (Mescal, 2001 - 7.0/10), testimonianza live in due dischi - una parte elettrica e l’altra acustica - che fa antologia del repertorio in italiano (più una resa unplugged della springsteeniana State Trooper) esaltando la schizofrenia compositiva e la versatilità delle interpretazioni. Un lavoro senz’altro intenso e forse un po’ frettoloso, con l’inedita La sinfonia dei topi ad indicare beffarda la direzione intrapresa, lontana dall’atteggiamento di dogmatica pensosità di tanta scena alternativa, libera come abbiamo visto di sbrigliarsi viscerale e persino accomodante. Aggrappati ad una (autorevole) radice psych Il nuovo corso si delinea quindi come una rottura nella continuità, stessa l’irrequietezza e l’intensità dell’approccio ma più stretta la rosa espressiva, coagulata attorno ad un’idea psych-rock tosta, d’impatto, la polpa Seventies ravvisabile fin dalle timbriche, in un sound dominato sì dalle chitarre ma infoltito di tastiere ed altri ammennicoli visionari (su tutti il theremin), col violino di Ciffo chiamato a non far rimpiangere la chitarra obliqua di Iriondo. In Quello che non c’è (Mescal, 2002 - 7.7/10) il pop è bandito, malgrado le canzoni non siano mai state tanto legate da un filo rosso di classicità rock, barattate le vampe e gli sberleffi punk-noise per reminiscenze hard e digressioni acide variamente jazzy. I testi seguono a ruota, spingendo sul pedale dell’intensità intimista, delle meditazioni esistenziali e affettive che non ammettono l’uso parossistico del cut-up che aveva caratterizzato le più scellerate situazioni precedenti. E’ emblematica in tal senso la title-track, ballata-turning point che sembra fare il punto nel mezzo del cammin della vita con piglio penetrante e crepuscolare, dopo il crescendo emotivo la coda strumentale che sembra alludere l’attitudine strumentale dei bei tempi andati (Area, Stormy Six...). Retaggi diretti di un viaggio in India - altro elemento rituale della stagione psych - assieme ad Emidio Clementi sono due ordigni incendiari come Bye Bye Bombay e Varanasi Baby - lirica e dolente la prima, tumultuosa la seconda -, mentre Ritorno a casa tenta la carta del reading rock à la Massimo Volume con risultati in verità non eccellenti (l’esperimento non si ripeterà). Detto che Non sono immaginario mette il dito nella piaga della virtualità delle relazioni in un autentico bailamme hendrixiano, anche ballate più accomodanti come La gente sta male, Bungee Jumping e Il mio ruolo non rinunciano a far pulsare la vena lisergica, segnando un distacco abbastanza netto dalla radiofonicità agrodolce di certi episodi di Non è per sempre. Gli Afterhours sembrano quindi voler attraversare gli anni Zero imbarcandosi sul vascello più solido possibile, barattando la poliedricità con un linguaggio ben più solido e codificato ma non per questo privo di stratificazioni, miran44
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do ad una autorevolezza rock al calor bianco destinata a trovare pieno compimento in concerto. Una mossa che si rivelerà azzeccata. Proprio l’attività live conseguente al lusinghiero successo di Quello che non c’è li porterà a dividere il palcoscenico con Mercury Rev e - soprattutto - i Twilight Singers di Greg Dulli. I rapporti con l’ex-leader degli Afghan Whigs diventeranno un vero e proprio sodalizio artistico, al punto da vederlo figurare come co-produttore artistico di Ballate per piccole iene (Mescal, 2005 - 6.4/10), album che spinge ulteriormente verso la quadratura del linguaggio, corazzando la psichedelia liquida del predecessore di elettricità compatta e squamosa. In questo quadro, le perturbazioni soniche (feedback e riverberi angolosi, organi nevrastenici, il violino amplificato...) continuano ad essere organiche alla trama sonora ma suonano al più come “normali anomalie”. La sordidezza incalzante di Ballata per la mia piccola iena, una filastrocca nocchiuta come La vedova bianca, il funk-glam irsuto di Chissà com’è e il fuzz rutilante di E’ la fine la più importante sembrano altrettante strategie di decadenza armata, wild side torbido e crudo che getta una luce cupa sulla poetica autorale di Agnelli, il quale sembra in questa fase “accontentarsi” di riempire una casella pressoché vuota nel panorama italico, quella della rock band selvatica, intransigente, maudit. La falsariga è evidentemente quella del sound e delle sordide irrequietezze Afghan Whigs, che diventano quasi presenza palpabile nel soul infetto di Carne fresca, anche se riaffiora l’antica calligrafia nei barbagli da bohemienne urbana di Male in polvere o nel fantasma febbrile de Il compleanno di Andrea. La dimensione internazionale cui ormai ambisce il progetto-Afterhours, ribadita dalla presenza nei credits del chitarrista Hugo Race e di John Parish al mixer (senza il quale la concitazione mefistofelica di un pezzo come La sottile linea bianca probabilmente non sarebbe stato tanto... mefistofelica), sfocia quasi naturalmente nella pub-
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blicazione di Ballads for Little Hyenas (Mescal/One Little Indian, 2006), ovviamente la versione in inglese di Ballate per piccole iene con la scaletta arricchita dalla cover di The Bed, pezzo archetipico firmato Lou Reed.
P rova
a prendermi
Come talvolta accade in ambito rock’n’roll, quella che è probabilmente la fase meno peculiare del percorso artistico della band milanese coincide con quello della consacrazione. Sempre più popolari in patria, dove riescono a raggiungere posizioni ragguardevoli nelle classifiche di vendita, si toglono la soddisfazione di portare la loro musica sui palchi tedeschi e statunitensi spalleggiati da Dulli. Quasi venti anni dopo i primi passi la parabola sembra quindi aver raggiunto l’apice. Tempo di raccolto, bilanci e decisioni. Concluso il rapporto con la Mescal, ecco l’accordo con la Universal, preludio ad un nuovo capitolo che, malgrado il cappello della major, segnerà una svolta rispetto al rassicurante percorso degli ultimi capitoli. I milanesi ammazzano il sabato (Casasonica/Universal, 2008 - 7.0/10) infatti recupera di schianto la schizofrenia stilistica alla luce di un più quieto - o “maturo” - approccio autorale, è disco spiazzante, zeppo di sottintesi dolciastri (in guisa di macabro menù) e allusioni morbose, depistaggi folk-psych e vampe funk-wave. E’ come se Agnelli avesse voluto riappropriarsi della propria natura, professando un’impertinenza imprevedibile, acida e a tratti beffarda: pezzi come E’ dura essere Silvan (quasi un siparietto arty Roxy Music), il vitalismo tribale di Riprendere Berlino o l’amarezza giocosa di Tema: la mia città, sembrano frutto di un repentino contagio patafisico. Persino i titoli raccontano questa voglia di sconcertare l’auditorio (Tarantella all’inazione, Neppure carne da cannone per Dio), esercizi d’ironia scorbutica e amara affogati in un plasma sonico sfaccettato (organi, percussioni, fiati, coretti ebbri...) che parecchio deve al genio del polistrumentista Enrico Gabrielli (dei Mariposa), ultimo entrato in formazione. Album tutt’altro che risolto, è comunque una incoraggiante dimostrazione di vitalità, atto di transizione verso l’imprevedibile, il desueto, lo sconcertante e lo scomodo che fin dall’inizio rappresentano la vibrazione di fondo della calligrafia Afterhours, libera con ciò di oscillare tra gli estremi dell’assalto hardcore (Pochi istanti nella lavatrice) alla più obliqua, disarmata dolcezza pop (Musa di nessuno). Ciò che segue è un volo libero. Libero da vincoli - il contratto con la Universal decade dopo un solo album - e da preclusioni. La partecipazione a Sanremo nel 2009 certifica la loro tensione popular in un ambito segnatamente rock, non ravvisando inconciliabilità tra le due dimensioni. Non a caso il pezzo che presentano sul palco dell’Ariston è Il Paese è reale, una ballata tosta con poche concessioni alla orecchaibilità, più necessaria che bella, sigla ideale dell’omonimo progetto che vedrà raccogliere in un doppio volume pezzi inediti di diciotto nomi della cosiddetta scena alternativa italiana (da Marco Parente agli Zu, passando per Zen Circus, Teatro degli Orrori e Cesare Basile...). Il resto, al netto di una pressoché incessante attività live (tra cui un particolare tour teatrale con ospitate illustri come Vasco Brondi, Antonio Rezza, gli Gnu Quartet e i vecchi amici Emidio Clementi e Xabier Iriondo), accade al ridosso di un presente che si chiama Padania, album che li vede recuperati alla più impetuosa e spiazzante versatilità. Suggello provvisorio di una vicenda che lascia quale principale eredità, oltre ad un canzoniere degno di rilievo, il sospetto (quasi una certezza) che il rock italiano deve liberarsi soprattutto da se stesso, dai limiti culturali che lo 47
incatenano ad una cautela fragile, castrante. Dovessimo riassumere tutto con uno slogan probabilmente sarebbe: non si deve aver paura di essere rock, anche a costo di essere pop.
Q uelli che Agnelli
ci sono.
I ntervista
a
M anuel
Una band viva e vegeta, le passeggiate in bicicletta, una fama scomoda, la riscoperta del pianoforte: la nostra chiacchierata con Manuel Agnelli “Scusa, potresti richiamarmi fra cinque minuti? Sto cercando parcheggio...”. Padania è uscito già da un paio di settimane, di interviste Manuel Agnelli ne ha fatte tante e di ogni tipo, eppure risponde col tono disponibile di chi va oltre il semplice dovere promozionale. Non esattamente quello che ti aspetteresti da uno con un quarto di secolo di carriera alle spalle e celebre per il carattere non proprio conciliante (ne riparleremo più avanti). Lascio passare dieci minuti e richiamo. Risponde al secondo squillo ancora più rilassato e cordiale di prima. Ciao Manuel, tutto a posto col parcheggio? Sì, tutto a posto. Non è mai un’impresa facile... Ok, iniziamo allora. Padania spiazza, scozza carte vecchie e nuove. La sensazione è che sia un Hai paura del buio? adulto. A mio parere vi restituisce la vostra dimensione, facinorosa e tentacolare, magari anche dispersiva però mai convenzionale, perciò intrigante. Più che una svolta o una rottura, lo vedo come il recupero di un solco. Sei d’accordo? In sostanza sì. Più che musicalmente direi come attitudine. Siamo tornati su un solco in cui non c’è una programmazione musicale. Quando dopo 48
Hai paura del buio? ci siamo chiesti che cosa avremmo dovuto fare, con le tensioni conseguenti che più avanti hanno provocato l’uscita di Xabier, sviluppammo l’intenzione - il progetto - di uscire dal noise destrutturato per andare verso una forma più pop, sia come idea di gruppo che per quanto riguarda la forma canzone. Oggi siamo tornati ad avere le idee chiare dal punto di vista emozionale, però a livello musicale non c’è una progettualità vera e propria. In questo senso sì, siamo tornati a quel tipo di approccio. Mi permetto di insistere: quanto c’è di razionale, di premeditato, di opportuno se vuoi in questo disco? Voglio dire, a questo punto della vostra carriera era probabilmente il disco migliore da fare, lo avete capito e lo avete fatto. Mi fa piacere che lo pensi, ma non è stato pianificato, del resto non sarebbe venuto così se lo fosse stato. Il titolo esisteva da più di un anno, Padania per noi rappresenta uno stato interiore di cui volevamo parlare senza per forza raccontare delle storie. Per questo abbiamo sviluppato prima la musica, senza avere in testa la direzione da prendere. In pratica l’80% delle musiche erano pronte già prima dell’estate del 2011. Poi abbiamo deciso di prenderci una pausa, non darci scadenze pressanti, proprio per evitare la progettualità. Non ci siamo affatto concentrati sul fare un disco “diverso”. Semmai ci interessava che i pezzi girassero attorno a quel concetto, usando la musica in senso meno didascalico, non per accompagnare delle storie ma per comunicare delle tensioni. Con la velocità, con l’urgenza, col panico, con la violenza. C’è stato insomma un cambiamento delle gerarchie tra testi e musiche? E’ una domanda difficile. Di sicuro non è una cosa cui abbiamo pensato. Sui testi ho lavorato molto, sono tornato a considerare le parole in quanto fonte di emozione prese anche singolarmente, fuori contesto. La parola ha una forza evocativa, ha un suono. Solo in Italia ci facciamo delle pippe perché un testo debba significare una cosa precisa, raccontare in modo chiaro. Per contro abbiamo una tradizione rock anche contemporanea, dai Pixies ai Radiohead, che utilizza le parole come emozione o come suoni, non tanto o non solo per scrivere racconti. Mi interessava tornare a sviluppare questo aspetto dopo aver esplorato la possibilità di strutturare i pezzi in modo più diciamo canonico. Dopo che abbiamo fatto i pezzi con Mina mi sono detto, più in là di così... (ride, ndi). I testi sono cambiati, più asciutti e diretti, seppure sempre (naturalmente?) votati all’hook, al verso che resta impresso a fuoco. Spesso sembrano lanciare dei segnali - “Trovagli il cuore/E il debole muore”, “Quel che credevi raccolto/Arriva un vento a strapparlo”, “Lotti, tradisci, uccidi per ciò che meriti/Fino a che non ricordi più che cos’è”, e via discorrendo - che convergono verso una critica del modello sociale, oppure verso la constatazione dell’homo homini lupus, o le due cose assieme. Potremmo definirli testi in qualche modo impegnati o il termine ti fa mettere mano alla pistola? No, anzi. La volontà di andare in questa direzione c’è stata, figurati. So esattamente perché scrivo queste cose. Certe volte la gente mi chiede cosa significhino i miei testi, io rispondo “quello che vogliono dire per te”. Quello è il significato. Però io ho un mio significato molto preciso. Il fatto che questo disco abbia uno sfondo sociale e persino politico molto forte è una realtà, ci sono delle frasi che devono, vogliono dare una chiave di lettura, a partire dal titolo, Padania, che è LA chiave di lettura. Molti lo hanno criticato proprio per quello che è secondo me il più grande pregio di questo titolo, ovvero il fastidio che provoca. E ne sono fiero, perché non è facile provocare fastidio. 49
A proposito di chiavi di lettura: cosa mi dici di quella pozzanghera in mezzo all’immagine di copertina che fa pensare ad una figura prona? E’ un effetto voluto? No, assolutamente. Semplicemente ci piaciuta molto quell’immagine, la volevamo così, molto evocativa, un paesaggio che rimandasse appunto all’immaginario della Padania, desolazione, nebbia... Però quella pozzanghera antropomorfa sembra davvero celare un messaggio subliminale, del resto la cosa ha fatto il giro del web, se n’è parlato parecchio sui forum... Mah, nel nostro piccolo spero che diventi una specie di leggenda (ride, ndi). Ok, torniamo alle cose serie. Tra le altre cose, avete recuperato il gusto per il contrasto - tra le canzoni e nelle canzoni - tra gli elementi più popular e quelli più sperimentali. Un po’ lo stesso si riflette nel rapporto coi media: generalisti o di settore, underground o nazionalpopolari, per voi sembra faccia lo stesso. Un messaggio al rock alternativo italiano? Sì, ed è un messaggio che idealmente mandiamo da tanti anni. E’ un discorso che concerne la nostra crescita come persone, normale che a diciannove anni si cerchi di identificarsi in un ambiente per confortarsi, per confermarsi e costruirsi una personalità. Per sentirsi al sicuro tra i propri simili. E questo ti porta ad escludere tutto ciò che non ti piace. Quando sei adulto si spera tu possa essere più forte, quindi uscire da questo meccanismo. Nel nostro piccolo proviamo a portare la nostra idea di cultura, la nostra visione più in giro possibile. Ho visto tanti talenti marcire proprio per questa paura di sporcarsi le mani, ed è un peccato perché questo Paese è pieno di gente con grandi cose da dire. Questi steccati ci sono, sono prodotti dalla paura. La colpa è di tutti, dei gruppi, del pubblico, della stampa: non siamo riusciti a trasmettere il messaggio che si può, si deve essere forti abbastanza da portare ovunque il proprio linguaggio. E’ una vera rottura di coglioni perché alla fine siamo dentro ad un sistema pidocchioso, piccolino quando invece potremmo divertirci molto di più. Tra le influenze si è parlato di Stratos, di Galàs, di Beefheart, e ok. Dal canto mio non ho potuto fare a meno di sentirci anche il Battisti più nevrastenico in Giù nei tuoi occhi, mentre La terra promessa svanisce di colpo mi sembra strizzare l’occhio ai Wilco altezza Ashes Of American Flag... Cosa ne dici? C’è molto più Battisti di Stratos in questo disco, ci hai beccato da questo punto di vista. Meno i Wilco, mi piacciono ma non mi hanno mai influenzato più di tanto, anche se ovviamente la musica che ti entra dentro prima o poi esce fuori in qualche modo. Tornando a Stratos, aveva sperimentato tutto, soprattutto lo aveva fatto in italiano, per cui quando si prova a sperimentare qualcosa in italiano è normale finire per pensare a lui. Ed il paragone è un onore ovviamente, anche se in negativo. Riguardo alle influenze, che dirti, ultimamente ho ascoltato molta musica etnica, canti berberi, anche roba tibetana, che per fortuna non è finita nel disco (ride di gusto, ndi). Devo dirti che siete riusciti a farmi tornare la curiosità di vedervi in concerto. Sai com’è, vi ho visti un sacco di volte, alla mia età non è che possa concedermene più molti. Però vorrei proprio verificare come vi vengono questi pezzi dal vivo... Maledetto (ride, ndi). Sì, sono impegnativi ma senz’altro li faremo. Inizieremo con otto-nove pezzi all’inizio, poi li faremo tutti, anche se non abbiamo progettato i concerti per eseguire Padania dal vivo, la serata sarà strutturata 50
per avere una tensione vera. In questo senso quindi faremo ricorso a tutto il repertorio per allestire la migliore scaletta possibile. Nella vostra carriera vi siete messi in gioco disco dopo disco costruendovi comunque una calligrafia riconoscibile, vi siete sbattuti per avere visibilità oltre frontiera, avete suonato tanto, con tanti e dappertutto: una falsariga che consiglieresti di seguire ad una rock band agli esordi? Certo. Il succo è mettersi in gioco, mantenersi integri per quanto riguarda la parte creativa, non vendersi, però neanche avere paura a confrontarsi con realtà diverse. Poi ovviamente riprendere ad essere molto presenti fisicamente, andare in giro a suonare. Sono più le cose che rimpiangi di non aver fatto o quelle che ti rammarichi di aver fatto? Oppure, se credi, qual è l’errore più grave che abbiate mai fatto? Gli errori più gravi son sempre le cose che fai perché sei convinto di doverle fare. Abbiamo rinunciato ad un sacco di cose, ad un sacco di soldi, proprio tanti. Ma non si è trattato di rinunce vere perché erano dettate dal bisogno di mantenere integra la natura della band. Non credo di avere nulla di cui vergognarmi o recriminare. Il progetto è vivo e vegeto, siamo ancora qua, questo è importante. Forse in alcune circostanze avrei dovuto chiudere prima con certe persone, con alcuni musicisti, situazioni discografiche o manageriali. Colpa anche di questa fama che mi si è appiccicata addosso che tu sai (una sorta di padre padrone della band con un carattere non proprio conciliante, ndi), per cui magari ho sentito il bisogno di dimostrare il con51
trario, e ho finito per essere troppo conciliante, finendo per farmi del male. Mi prendo la responsabilità di affermare che Non è per sempre sia il vostro disco più sottovalutato. Sei d’accordo? Non lo so, forse è un disco capito male. Lì c’è stato un equivoco, dài, il fatto che avesse quei tre singoloni pop, molto potenti, che poi era quello che in quel momento volevo dimostrarmi capace di comporre, mise in ombra la presenza di situazioni sperimentali che vengono sottolineate molto poco. Un po’ la stessa cosa de I milanesi ammazzano il sabato: può piacere o non piacere, per carità, ma sostenere che è il lavoro più commerciale degli Afterhours mi sembra quanto meno azzardato... Dopo un quarto di secolo di carriera si è ancora degli ascoltatori appassionati? Siamo ancora degli ascoltatori appassionati, ma è chiaro è che l’approccio è diverso. A quarantasei anni faccio più fatica ad emozionarmi rispetto a quando ne avevo diciannove, perché semplicemente conosco più cose. Poi c’è il fatto che non ho più voglia di andare per forza a scavare, non ho più quel tipo di approccio. In fondo ho fatto il musicista non per fare quello che volevo nella musica ma per fare quello che volevo nella vita. Me la voglio vivere la vita, che significa certo anche ascoltare musica ma non ci passo certo le giornate. Mi piace anche farmi un giro in bicicletta, gioco molto con mia figlia di sei anni, sono appassionato di storia antica e leggo parecchi libri sull’argomento. Poi suono, anche, certo. Lo faccio da quando ero bambino, ho anche ripreso a suonare il piano dopo quindici anni... Questa è una notizia! Avrà avuto dei riflessi sul tuo modo di comporre... Può darsi. Ho studiato tanti anni pianoforte, perciò lo suono discretamente. Ai tempi di Germi scelsi di suonare la chitarra anche per obbedire alla cultura post-punk da cui venivo. L’impostazione del piano come approccio allo strumento era troppo didascalica, quindi anche se non ho mai saputo suonare la chitarra tecnicamente parlando scelsi di farlo, di fare quello che mi piaceva. Ricordo che la suonavo con una tale strafottenza, pur non sapendola suonare, perché ero convinto che il mio bagaglio culturale bastasse a rendermi adeguato, e questa cosa col tempo è diventata quasi grottesca, era sempre più difficile giustificare il fatto di non saperla suonare. Il fatto di aver recuperato il pianoforte mi ha dato nuovo coraggio, proprio come musicista che legittima le quattro note che fa. Al punto che non ho più bisogno di suonare in tutti i pezzi per legittimarmi come tale, dal punto di vista chitarristico ho imparato a sottrarmi. In Padania ho suonato giusto quattro chitarre. Lou Reed una volta disse che il casino non è scrivere venti canzoni, ma dalla centesima in avanti... Credo sia una frase che gli aveva suggerito Warhol perché Lou era troppo pigro... Dipende, sono d’accordo fino ad un certo punto. E’ vero che la grossa forza esplosiva ti arriva quando sei giovane, però è vero che i grandi pittori, i grandi scrittori hanno prodotto grandi cose anche in tarda età. Essendo il rock arte giovanilistica per eccellenza si tende a pensare che gli artisti da giovani lo interpretino meglio, ma non è vero: guarda Nick Cave, guarda Tom Waits, lo stesso Reed. Certo non le azzeccano tutte, però fanno ancora grandi cose. A tre anni di distanza che bilancio faresti de Il paese è reale? Domanda collegata: rimpianti per il Tora Tora? Il Paese è reale è stato meno divertente, meno eroico del Tora Tora ma molto più riuscito nei suoi intenti. Il Tora Tora doveva essere il modo per far 52
conoscere il nostro ambiente, per far sapere che esisteva, che era grande e importante. Ma alla fine abbiamo sbagliato mira, abbiamo fatto date con migliaia di persone ma nessuno lo sa, perché i media non c’erano, non c’erano i giornali, le tv. E’ stata un’esperienza bellissima ma è morta. Il Paese è reale è stato più progettato, molto meno eroico e divertente, ma molto più riuscito. Quando abbiamo suonato in pazza del Duca a Milano non c’erano neanche cinquemila persone ma c’erano giornali, radio, tv, quindi la cosa è uscita dappertutto. Certo, Sanremo è stata la chiave di volta, abbiamo imparato a usare il megafono, come si possano adoperare i media. Le due cose sono connesse, abbiamo imparato come ci vogliamo muovere, cosa volevamo diventare in Italia. Sono state tappe di questo percorso. Su SA - come del resto in altre riviste del settore - si seguono con attenzione gli sviluppi legati al diritto d’autore e alle modalità distributive. Ti sei fatto un’idea? Dal vostro punto di vista, quale sarebbe la prima cosa da cambiare per dare concretamente una mano ai musicisti? E’ un discorso molto ampio, rischio di fare la figura del presuntuoso o del ciarlatano rispondendoti. Però ti rispondo lo stesso: secondo me non bisogna aiutare tanto i musicisti ma le strutture intorno alla musica. Se un aiuto ci deve essere deve essere rivolto all’ambiente, altrimenti le istituzioni si limiteranno sempre ad aprire scuole di musica per musicisti che poi andranno a lavorare alla posta perché non ci sono posti in cui suonare. Disegni di legge, facilitazioni, suggestioni potrebbero aiutare e anche molto: l’apertura dei locali dovrebbe essere facilitata, non dovrebbero esistere vessazioni da parte di Enpals, Siae, Annonaria, vigili urbani eccetera. Ci sono troppe regole indiscriminate e soffocanti. Giusto regolamentare l’ambiente, per carità, ma così lo stiamo soffocando. Ti faccio un esempio: a Brooklyn tu hai sei mesi di tempo per mettere in regola un locale dopo l’apertura, se in quel periodo il locale non ingrana puoi chiudere e riaprire da un’altra parte senza aver perso tutti i soldi che avevi messo da parte. E’ tutto molto più elastico. Invece da noi lo Stato si para il culo con le scuole di musica e coi dibattiti. Ma non ce ne frega un cazzo dei dibattiti! Soprattutto bisogna favorire l’iniziativa dei privati, l’idea di arte che nasce dalle iniziative individuali, non quello che ti dice lo Stato, l’istituzione. In Italia magari è utopia, soprattutto perché in Italia il musicista non ha coscienza sociale, vuole essere spinto.
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Kevin
Saund 54
derson Il ritorno in Italia è l’occasione per agganciare il più eclettico tra i fondatori della techno. Kevin Saunderson rivive la sua storia e si racconta col cuore in mano in un’imperdibile intervista. Testo: Carlo Affatigato Non capita tutti i giorni di parlare con uno come Kevin Saunderson. Un uomo vestito del mito della Detroit anni ‘80, la mente eclettica della sacra triade creatrice del filone più ambizioso e intellettualmente dotato dell’elettronica (e non solo): se la techno ha avuto la storia prosperosa e ricca di idee e traiettorie che conosciamo, molto lo dobbiamo a lui, che meglio di chiunque altro è riuscito ad evolverne il linguaggio, aprendo a sorprendenti orizzonti quanto teorizzato insieme a Juan Atkins e Derrick May. Naturale che quando incontri un pezzo di storia come lui, vengano fuori domande fuori dal comune, curiosità a cui solo un personaggio del suo calibro può rispondere. Cogli l’occasione senza pensarci, perché difficilmente ne avrai una seconda. Per lo stesso motivo, sabato 2 Giugno è la serata a cui non puoi dire di no, soprattutto se hai a 55
portata di mano il centro di Firenze: sarà il main act del MUV festival, Kevin “The Elevator” Saunderson alla consolle, e subito prima di lui altri due pezzi da novanta, gli Octave One, ossai la “next generation” della Detroit techno che fu. La leggenda stavolta è a un passo da noi e sarebbe un sacrilegio non approfittarne.
The E levator Così li han battezzati i tre di Belleville: Juan Atkins è The Originator, colui che alla techno ha dato il nome e il soffio di vita, quello che prima coi Cybotron e poi come Model 500 ha rappresentato il lato più rigido e filosofico della prima fase; Derrick May è The Innovator, colui che ha raggiunto i virtuosismi del filone, quello che gli ha dato il tocco di fascino e il tuffo al cuore; Kevin Saunderson è The Elevator, colui che ha saputo scorgere il passo successivo prima di tutti, il più sfuggente dei tre, la mente più aperta e, di fatto, quello che ha raggiunto l’apice di successo. Tre studenti neri della Belleville High School con un’enorme passione per la novità musicale, alimentata da quello che ai tempi era la personalità radio più interessante del momento, Charles Johnson aka The Electrifying Mojo, in onda sulle varie stazioni di Detroit e dintorni, WGPR prima, WJBL, WHYT e WTWR-FM poi. L’inizio è ovviamente sotto l’ala del “padrino” Atkins, che sulla sua Metroplex pubblica la prima produzione ufficiale di Saunderson, Triangle Of Love, la rigidità robofunk che già presagiva le potenzialità ad ampio raggio del suo sound. Reese (diminuitivo di Maurice, il suo secondo nome) intraprese però presto la sua strada, aprì subito la sua etichetta KMS (alla fine ognuno dei tre ebbe la propria, le sedi una accanto all’altra al quartiere Eastern Market) e iniziò a ragionare su quali potessero essere le più efficaci applicazioni della
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promettente materia prima che aveva tra le mani. Il passo successivo (dopo un altro prisma multisfaccettato come Groovin’ Without A Doubt) fu quello che lo rese famoso in tutto il mondo: col progetto Inner City, Saunderson catturò la quintessenza del big fun che la techno poteva offrire se si fosse lasciata ingentilire a modo, abbinando quel tipo di energia a un corpo melodico che gli desse l’orecchiabilità definitva. Detto in altre parole (le sue), techno-soul. Dopo aver diffuso in ogni angolo del globo i singoli Good Life e Big Fun, l’album di debutto Paradise uscì nel 1989, copertina color seppia che metteva accanto la figura rigida “portante” di Kevin e il piglio frizzante della soul diva Paris Grey, e aiuto dietro le quinte sempre di Juan Atkins. Fu il botto. Paradise fu contemporaneamente esplosione di euforia e fiducia nell’accelerazione futuristica, ma soprattutto ricondusse questo background ad un’immagine che il pubblico poteva riconoscere bene, quella della formacanzone, della melodia catchy. La techno esce dal club e guarda finalmente la luce del sole, e le fronti di milioni di ascoltatori. Le hit del disco Big Fun e Good Life sono i due classici senza tempo che toccarono i vertici più popolari che la dance abbia mai conosciuto e non nascondono l’affinità morbida con l’altra grande “cosa” che nasceva negli ‘80 USA, la house della scena di Chicago. Ma non solo: c’è anche la pasta soul che ammorbidisce le spigolosità dei nuovi ritmi, una Do You Love What I Feel che splende d’armonia femminile, una favolosa ballata r’n’b come Power Of Passion, la potenza radiofonica di Set Your Body Free e, verso la fine, l’impronta del rigore irriducibile di Atkins su And I Do. Gli Inner City fecero poi altri due album, Fire nel ‘90 e Praise nel ‘92, ma non raggiunsero più il successo di Paradise, sebbene fossero sempre capaci di buoni colpi nel loro stile (vedi Pennies From Heaven). Nel frattempo Saunderson aveva capito di poter fare qualsiasi cosa: dai primi remix sui Wee Papa Girl Rappers (Heat It Up e We Know It) alle sette anime electro di Reese, le sfaccettature acide di Funky Funk Funk e le pieghe scure di Rock To The Beat; dai pezzi di clubbing drittissimo realizzati con Santonio (The Sound, Bounce Your Body To The Box, How To Play Our Music, Truth Of SelfEvidence) alle fascinazioni rave che Kevin subì nei primi ‘90, risultate in una manciata di bombe quali l’Hardcore Techno EP del ‘91 a nome Tronikhouse (Mental Techno la più drogata, Up Tempo la meglio riuscita) e gli hardcore mix dei pezzi di Praise quali Let It Reign e United; dalle impegnatissime produzioni a nome E-Dancer, che innalzeranno un monumento ai meccanismi della techno da sballo (Pump The Move, The Human Bond, World Of Deep ma soprattutto una spettacolare Velocity Funk coi suoi vocalizzi ‘ardkore) a un orgasmo di album come Faith, Hope & Clarity, forse il massimo raffinamento del Reese sound con pezzi fatti col cuore come I Believe, rallentamenti in 4/4 come The Miracle Of Life e Free At Last e un altro gancio ebbro di campionamenti vocali come The Colour Of Love. E così via, tra una cosa e l’altra Saunderson ha attraversato tutti i ‘90 e i ‘00 senza smettere mai di produrre. Tra le ultime tappe del suo percorso discografico c’è il doppio disco di remix History Elevate del 2009, con le sue rivisitazioni su nomi come Pet Shop Boys, Hercules & Love Affair, Octave One e Simian Mobile Disco e i remix di suoi lavori fatti dai vari Carl Craig, Luciano, Claude Von Stroke e Ben Sims). Il resto per il momento lo lasciamo a voi e al vostro spirito di scoperta, per focalizzarci oggi sulle importanti riflessioni che abbiam fatto nell’intervista: siamo tornati alle radici, a come tutto è nato e all’unicità dell’ambiente 57
originario, abbiamo acceso la luce sulla vera marcia in più di Saunderson rispetto agli altri, abbiamo invitato Kevin a guardarsi alle spalle e dirci cosa è cambiato e cosa non dimenticherà mai, gli abbiam chiesto di parlarci del già citato The Electrifying Mojo e della storia dei soprannomi. Di fronte a una fetta di storia della musica lunga venticinque anni, c’è tutto da imparare.
L’intervista Partiamo dall’inizio. Com’è possibile che tre studenti di una cittadina fuori Detroit abbiano dato vita a qualcosa di così innovativo e futuristico? Beh, è difficile dirti come siano nate le cose. È un po’ come uno scherzo della 58
natura. Per ogni cosa che nasce c’è sempre qualcos’altro che fa da punto di partenza, e noi in quel periodo non eravamo perfettamente consapevoli di cosa stavamo facendo. Semplicemente, eravamo individui singoli, che hanno scelto coscientemente di seguire un certo percorso nell’evoluzione musicale. E come mai è successo proprio a voi e proprio in quel luogo? Non credo ci sia una ragione precisa. Noi avevamo tutta l’attenzione rivolta alle svolte musicali del periodo, ecco tutto. Il background da cui è nata la techno è fatto di funk nero, electro e kraut europea, disco music, new wave ed electropop. Tutto quello che The Electrifying Mojo ben presentava in radio, giusto? Com’è nato il passo avanti? Sai, se parliamo sotto il profilo strettamente stilistico, non c’era niente di davvero particolare nella musica che mandava The Electrifying Mojo: in fondo era la musica di quel tempo, il funk, la electro, i Kraftwerk, Prince... la particolarità era che lui mandava in onda gli album interi. Era un approccio decisamente atipico rispetto alla maniera tradizionale in cui intendiamo la radio. Credo sia stato questo che ha catturato la nostra attenzione, e crescendo in questo modo anche l’approccio che avevamo verso la musica che creavamo noi è stato diverso dagli altri. Raccontaci un po’ di quei tempi. Com’era lavorare con Juan e Derrick? C’erano screzi, discussioni, stimoli? Sai, ai veri inizi si trattava semplicemente di fare musica. Si collabora secondo quello che ognuno sa far meglio, Derrick ad esempio mi ha aiutato spesso nella fase ritmica, nel mixing insomma. E quando fai musica difficilmente emergono disaccordi. Le diversità casomai nascono dopo, quando si parla dell’approccio personale verso il promoting, i tempi di pubblicazione o anche il djing, ma lì è giusto che decida ognuno personalmente. Come vivevate in quel periodo il parallelo con quel che stava accadendo nel frattempo a Chicago, l’esplosione della house? C’era una sorta di avversità tra le scene techno e house, o era un paragone che stimolava a migliorarsi? Chicago era un metro di paragone, ma allo stesso tempo eravamo in competizione. E le ragioni sono prettamente stilistiche, puoi immaginare bene. Chicago e Detroit puntavano in direzioni completamente differenti, la techno aveva una maggiore energia ed un’impronta molto più meccanica. E te ne accorgevi anche se ascoltavi le radio locali, la WGCI, la WBMX, house e techno non potevano stare mai insieme. Per cui diventava una vera competizione, ed era una cosa particolarmente eccitante. Qual’è stata la tua impronta all’evoluzione della techno? Cosa mi dici del tuo contributo personale al genere? All’inizio non immaginavo che le mie produzioni avessero tanto successo da definire un’impronta. Se devo identificare la mia peculiarità rispetto agli altri personaggi techno, direi che la mia musica era maggiormente rivolta al benessere. Com’è nata la storia dei tre appellativi, The Originator, The Innovator, The Elevator? Elevator nel senso di colui che porta la techno a un livello successivo? The Originator è colui che per primo l’ha fatta e colui che per primo le ha dato un nome. Lui ha avuto la visione originaria. The Innovator è colui che ne ha aperto i confini, che ha fatto in modo che tutti convergessero sotto 59
lo stesso tetto e mettessero insieme i propri pensieri. E The Elevator... sì, suppongo sia colui che l’ha portata al livello successivo. Kevin Saunderson significa anche e soprattutto Inner City. Con quel progetto sembra che tu abbia voluto mostrare quanto la techno possa essere “pop”, possa conquistare tutti. Sbaglio? Mmh no, non ho mai voluto che il progetto Inner City fosse inteso come “pop”. Ho solo voluto far della musica che avesse melodia, cantato, volevo che fossero vere canzoni e che non fossero orientate solo al club. Volevo che la gente fosse in grado di ascoltarle, che facessero da hook per più gente possibile. Con gli Inner City son voluto tornare a quel tipo di dance con forti potenzialità d’ascolto, con le parti cantate e i groove infallibili. È stato il mio modo di ricongiungermi con i grandi successi della disco music che mi avevano preceduto, di riprodurre un effetto simile. Donna Summer. Penso avessi in testa proprio lei. L’album Paradise è, senza mezzi termini, un disco immortale. È come aver cristallizzato l’essenza del divertimento che voleva (e doveva) essere ballare la techno, ieri e oggi. Come nasce un disco come quello? Quali pensi siano le vere ragioni del suo successo? Paradise è stato il primo disco del suo genere, il primo che ha inaugurato quel tipo di musica dance, così piena di spunti melodici ed elementi accattivanti. È venuto fuori nel momento giusto e coi suoni giusti, è stato un colpo unico. Semplicemente, non poteva essere più “giusto” di così. A un certo punto sembrò che ti fossi preso una cotta per la scena rave, vedi pezzi dei primi anni ‘90 a nome Tronikhouse e anche qualche pezzo in Praise che poi hai anche remixato (United, Let It Reign). Ti affascinava quel tipo di piega? Sì, quando sono stato in Inghilterra ho vissuto quel periodo sulla mia pelle. Ho amato molto quei bbreaks e il volto funk che sapeva assumere la musica rave. Ho ricevuto un sacco di ispirazione da quella scena, puoi giurarci. Pensi che la scena techno europea dei primi ‘90 sia stata influenzata dalla scena di Detroit? Forse non è così scontato. Ad esempio, nel loro primo album gli LFO recitano le loro influenze e parlano di house, di Phuture, DJ Pierre, Mr. Fingers, oltre che Kraftwerk o Yellow Magic Orchestra. Non una parola su Detroit e i suoi personaggi. L’impressione frequente è che l’Europa si sia innamorata solo dei groove acid e non delle aspirazioni futuristiche. Come lo spieghi? Penso che i rave e la scena europea debbano molto a Detroit. Detroit all’epoca è stata grande ispiratrice per i produttori di tutto il mondo, ma anche Chicago lo è stata. Le influenze specifiche probabilmente dipendono da producer a producer, può starci. Come vedi la scena techno oggi, rispetto a quella di un tempo? Beh sai, la old school degli inizi era qualcosa di unico, e uniche erano le tecnologie usate. Poi la tecnologia si è evoluta in diversi modi, ha aiutato e semplificato la fase di produzione e questo ha cambiato le cose... sì insomma, tutto ruota intorno alla passione per la musica, e ora ci sono tanti artisti che fanno musica solo per fare soldi. Adesso ci sono tanti stili, tanti suoni, mentre un tempo il sound era unico e tutta la devozione andava verso di esso. Quella devozione adesso ha mutato orientamento e guarda in mille direzioni. Fa parte del gioco, immagino. Ecco, credo che in realtà la musica non possa essere “elevata” più di tanto. O almeno è molto difficile. La tecnologia invece sì, quella può avere delle evo60
luzioni inimmaginabili e può veramente stravolgere ogni cosa. E non puoi proprio sapere come trasformerà il modo di far musica nei prossimi tempi. Guarda un attimo alle tue spalle e dicci: qual’è stato il momento più emozionante della tua carriera? L’anno più emozionante è stato il 1988, quando uscirono Big Fun e Good Life. È stato incredibile, assurdo, come un sogno che non avrei mai immaginato. L’enorme successo, i viaggi per il mondo, la gente che impazziva per quella musica, i miei remix ai Wee Papa Girl Rappers. È stato un periodo straordinario. Più avanti c’è stata anche Rock To The Beat con Santonio, e poi traccia dopo traccia, sono sempre state emozioni fortissime. A quale delle tue opere sei più affezionato? È difficile sceglierne una. Forse le produzioni a cui sono più affezionato sono quelle fatte sotto il nome E-Dancer. Dopo una carriera come la tua, cos’altro chiedi? Cosa vuoi fare in futuro? Voglio restare vivo e in salute sulla scena ancora per molto tempo. Quel che è stato negli ultimi 25 anni è stato grandioso, ma non voglio che diventi un motivo per accontentarmi e rilassarmi.
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Squarep Musica per star male 62
Il come back electro in convergenza parallela con il massimalismo sonico, un led show che si preannuncia spettacolare. La mente e la discografia di Tom Jenkinson analizzati in un lungo articolo Testo: Edoardo Bridda Intervista: Marco Braggion
pusher Qualche scampolo di freschezza nel ritorno elettronico ci dà la perfetta scusa per analizzarne discografia e disegnare un ritratto. Soprattutto è giunta l’ora di rispondere a una serie di domande che da sempre ci affliggono parlando di Squarepusher. Domande che rispondono al desiderio di molti che lo hanno seguito in questi anni e ne hanno via via apprezzato frammenti ma mai l’opera omnia, il lato più jazzistico su quello più elettronico e viceversa. Dall’intervista che segue emerge un ritratto 63
umano del Tom Jenkinson di oggi, meno criptico del capelluto ragazzo che era nei 90s ma sempre acuto e intellettuale, con la classica ironia tagliente dello spocchioso stufo delle solite - e inevitabili - domande dei giornalisti. Ti sei fatto influenzare da chi? Da dove viene la musica che scrivi? Ti muovi in un contesto? Il rifiuto ad essere paragonato a qualcuno, tranne che ai padri del jazz e all’amico Richard D. James sono il perfetto viatico per la monografia che segue. In regime di semi impermeabilità, Tom ha respirato eccome il suo tempo in ogni suo disco, ma è senz’altro un animo profondamente jazzistico a condizionarlo più d’ogni altro. Un modus operandi che si traduce in jam con sé stesso quattordici ore al giorno per gran parte dell’anno, dalle quali non esce mai un album ma una valanga di registrato che successivamente l’uomo spalma su più lavori di diversa lunghezza e formato. Logica conseguenza: il capolavoro non c’è ma qualcosa che gli va vicino, frammentario quanto si vuole, lo abbiamo trovato scovandolo in quel mix di jazz cubista e ritmica junglista geneticamente modificata. Non solo: Tom, da un mero punto di vista intra genere, ci fa impazzire nelle vesti di estremista della techno-acid. Mania che conserva dai tempi degli ascolti del catalogo Rephlex più tosto e che lo ha portato a un altro piccolo breviario di elettromanie verso la fine dei 90s. Non vi vogliamo svelare nomi e fatti. E’ tutto scritto. E parleremo di tante cose: sound Engineering, prog-jazzismi à la Pastorius, contesti e pretesti. Drill’n’bass e Breakcore (lui il vero padrino?) a partire da svisate free à la John Coltrane/Ornette Coleman. L’amicizia tutt’ora in corso con Richard D. James e quella con un Luke Vibert che sembra relegata al passato. Il fratello in arte Ceephax malato terminale di acid-house, il viaggio nei synth e nelle tastiere in trip electric-cosmico ereditato da Miles Davis e Sun Ra
From
acid to amen
’There is never a true ’doing what you want’ because your actions always, but always, relate to other people - whether that is ignoring, disrespecting, questioning or affirming?(Tom Jenkinson all’intervista collettiva per il BBC website) Squarepusher, nome d’arte di Thomas Jenkinson (Chelmsford, 17 gennaio 1975) esordisce nel 1996 dopo due anni passati a trovare una sintesi sonora tra un passato jazz ereditato dal padre batterista e il fervore rave elettronico dei suoi anni scolastici. Al college ascolta tutta una serie di produzioni che stanno facendo e faranno la storia del suono techno britannico, dall’electro universo degli LFO alla tonnellata di acid vissuta in prima persona nei rave della sua città, Chelmsford. Ed è proprio il suono più acido e veloce ad affascinarlo. Nelle primissime produzioni, il giovane Jenkinson si butta a pesce tra le pieghe e le divisioni più oltranziste del Rephlex sound. Nel suono ama la velocità e l’aggressività e senz’altro la serie Universal Indicator - nata da una collaborazione tra Richard D. James (che in quel caso utilizzava l’alias Martin Tresidder) e Mike Dred aka The Kosmik Kommando - è pane per i suoi denti: velocità sostenute (150 bpm), ossessione videogame e loop serratissimi che porteranno diretti alla follia gabber (un esempio Thoughts Of You, Universal Indicator Blue, Rephlex, 1992). Nel frattempo, dal 1994, nelle sue orecchie arriva la jungle: è subito ossessione. Si fissa per i ritmi più compressi e cervellotici, ascolta Kiss FM e la way of life prevede radio pirata di notte e, ogni weekend, clubbing la sera e Black Market Records di sabato pomeriggio a rifornirsi di nuova ’mind 64
blowing music’. Degli acquisti di quel periodo, Jenkinson parla recentemente a xlr8r e ad emergere è una mappa d’ascolti davvero seminali. Del remix di The Force Is Electric di Ed Rush ama il sample elettrico, del remix di For Real di Remarc degli Kemet Crew il tintiniio metallico e il ragga più scuro, in entrambe il fatto che l’amen break sia opportunamente pitch-ato o compresso. Stregante invece la Military Jazz contenuta in Rebuilt Kev EP (Blue Angel, 1995) del futuro amico Luke Vibert / Plug, per un aspetto da live jazz band opportunamente riprogrammato che tornerà molto utile. E se l’aspetto cool di Dillinja (Ja Know Ya Big, Metalheadz, 1994) piace perché le sue produzioni sanno essere ’hard as fuck’, nella jungle il musicista cerca da subito le cose più ’mental’ e ’messy’. Sempre nel 1994, sotto sua richiesta, il negoziante di dischi di Chelmsford gli passa 7 Minutes of Maddness di Bizzy B & Equinox contenuta nel The Brain Crew E.P (Brain Records, 1993) come un disco che a lui personalmente non piace. “No questo è un pasticcio. E’ troppo incasinato?, gli dice. Tom sorride, da quell’ascolto in poi sarà idealmente uno squarepusher. Chelmsford sound Nella Chelmsford dove Guglielmo Marconi aprì la prima “wireless” factory, nella città che diede i natali alla radio secondo i fieri residenti e che vanta pure una pesante tradizione di electrical engineering, Tom si presenta nel 2004 con Crot EP, la prima uscita della Rumble Tum Jum records: quattro tracce fra schegge industrial e flirtate belga (The Procrastinator Pt. 1), acid furibonde a passo di Space Invaders (The Procrastinator) e tangenti Plus 8 sul lato più tosto della faccenda (The Burglar). Jenkinson è innamorato del suono delle Roland, dell’ortodossia acid. Nessun compromesso anthemico nelle sue tracce (vedi il catalogo R&S), piuttosto una strada già spianata 65
per complicare i ritmi con sequencer e drum machine. Il fratello più giovane Andy, ovvero Ceephax, da questo trip ne uscirà vivo soltanto in tempi recenti. Il primo amore non si scorda facilmente, né per Thomas né per le amicizie che stringe/stringerà con Aphex Twin, Luke Vibert e tutto il giro Rephlex. Una truppa che tornerà ciclicamente sulle tracce del phuturo acido di Chicago come per concedersi di tanto in tanto un bagno ristoratore. Nel 1994 esce Stereotype E.P. - ancora numero di catalogo 1 di label ad hoc (Nothings Clear) e pubblicazione numero due a firma personale - a scoprire un’altra carta importante nel suo impianto sonico: la melodia idmmata e scifi tipica della label di Steve Beckett e del compianto Rob Mitchell. Si tratta di calarla in sostenuti bpm euro-technoidi, magari accarezzando pure un lato sempre più darkside marchiato da proverbiali campionamenti di dialoghi di vecchi film, riff industrial e snare assassini come andava all’epoca (1994, Greenwidth). Tracce come Whooshki, Falling e O Brien imbevute dell’aplomb spacey post-krauto degli Autechre piacciono a sufficienza sia a Richard D. James che a Heckett, tanto che i ponti con Rephlex e Warp, le due label elettroniche più lungimiranti del periodo, sono gettati. Tom dal canto suo vuol fare di più, qualcosa che riesca ad unire la passione techno-acid con l’ultimo Coltrane, il Miles Davis di On The Corner con lo space psych di Sun Ra, ma naturalmente anche tutto il portato della cosa, Canterbury e ancor più la fusion di Weather Report, il cui bassista Jaco Pastorius è sicuramente l’influenza principale per quanto riguarda l’utilizzo slappato e fluido del basso che sta per imbracciare.
S quarepusher
or
D uke O f H arringay
“Is it possible to have an opinion of one’s ’fundamental project?? (Borrowed from Sartre.) Is it not the ’fundamental project’ that determines opinion? It would be like having an opinion of your hands, or comparing your mind to 66
your face”(Tom Jenkinson all’intervista collettiva per il BBC website) Nel 1995, l’ingegnere sonoro di Chelmsford imbraccia il basso che presto diventerà lo strumento simbolo. All’epoca però l’infuso jazz elettronico non ha una casa precisa, tanto che questi primi esperimenti verranno sfornati anche col nick Duke Of Harringay. Sono sfaccettature dello stesso campo d’azione: sotto i due moniker escono rispettivamente Conumber E:P e Aloy Road Tracks entrambi per Spymania ed entrambi poi confluiti in una compilation riassuntiva della prima fase pubblicata sulla scorta del successo della release lunga per Warp nel 1997 (Burningn’n Tree, Warp, 6.8). Ma andiamo con ordine. Se le tracce di Duke fanno un discorso proteico (poliritmi imbastiti con campioni di snare e batteria) su jazz e mood blaxploitation piuttosto basici (Central Line, Sarcacid Part 1, Nux Vomica) aprendo parentesi intelligent jungle (Sarcacid Part 2) o reggae dub dal sapore ’cantieristico’ alla bisogna (Toast For Hardy con echi della aphexiana Cow Cud Is a Twin), il lato Squarepusher della faccenda è già più tenace nel creare qualcosa di nuovo: porta il mix su un terreno d’azione maggiormente incompromissorio. In tracce come Conumber, Eviscerate, Male Pill no. 5 (quest’ultima addizionata con elementi techno e un riconoscibile furto breakbeat) Tom sfoga i raptus della jungle, mettendo l’elemento jazz in un dinoccolato gioco di sponda fusion-space-ambient. L’aspetto distintivo del Jenkinson sound sta proprio nell’uso del jazz. Mentre i paladini della scena intelligent jungle all’apice del successo commerciale nel 1996 lo sfruttano come abbellimento di partiture esotico-baleariche o di vezzi che in alcuni casi vorrebbero elevare il suono dal dancefloor a culture musicali ’più alte’ (Goldie, A Guy Called Gerald, Photek, 4 Hero, LTJ Bukem), Jenkinson, al contrario, ama la jungle più energica, sanguigna e clubbista, nonché lo spirito di ricerca e i risvolti crudi e metallici di Ed Rush e Bizzy B.
Tom , L uke
e
R ichard . D rill
brothers
Squarepusher, Luke Vibert (sotto il moniker Plug) e Aphex Twin (che per inciso arriverà qualche mese dopo a queste soluzioni ritmiche con il Girl Boy EP e con l’album autografo nel 1996), cementano la loro amicizia sperimentando l’ossessione per la cassa rullante, mantenendosi alla larga sia dalle floride arene drum’n’bass sia dalle produzioni sempre più ingessate della compagine ’intelligent’ del genere. I critici inventano presto la tag drill’n’bass, trivella e basso, per descrivere la crescente vertigine ritmica delle loro composizioni, ma se Richard usa la chamber e il pop e Vibert ama la kitschedelia, l’intento di Tom è quello applicare il jazz - free o rock dei 70s - nello straordinario flusso futurista del colpo di coda del secolo. Una mossa che lo annovererà tra gli antesignani del breakcore (vedi il nostro Dj Balli via Venetian Snares, Kid606, Lesser ecc.) e che farà di lui un idolo per i neo amanti delle virtuosità elettroniche. Interessanti in Feed Me Weird Things, primo parto lungo per la Rephlex di James, i due volti di Tom, una dicotomia che si ripresenterà sempre in futuro: il puro elettronico versante idm (Theme From Ernest Borgnine, UFOs Over Leytonstone) e il ’suonato’ di matrice jazz (Squarepusher Theme), entrambi senz’altro piuttosto prevedibili - visti in prospettiva - ma già con i giusti colpi d’ala. L’overture in puro stile Aphex tra drillate e ambient di Tundra è già ottima di per sé, notevole la compattezza nella furia ritmica di North Circular o l’eleganza liquida di una Kodack che sa anche aprirsi alla d’n’b con incredibile scioltezza. Il succo di molte delle tracce non sta nel cercare 67
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una sintesi superiore ma nel guastare le feste agli amanti delle etichette e degli steccati, attraverso layering di complicazioni drill e decompressione fusion (The Swifty) e calando in mezzo techno-acid carenati à la Prodigy (Dimotane Co.) sci-fi, exotica (Windowscale 2) e, secco e spietato, un certo umorismo parente - come c’era da aspettarsi - di quello dell’amico Aphex (Smedley’s Melody). Altra caratteristica di Tom è quella di non confezionare album a tema bensì farsi attraversare da cicli di sperimentazione che durano più produzioni. Minutaggi che sarebbero decisamente da asciugare, ma in linea con un atteggiamento, per l’appunto, da jazzista. Sempre in quell’anno, il nostro completa con due produzioni piuttosto solari e dal taglio space jazz, Bubble And Squeak e lo split Dragon Disk 2 assieme a Nigel Smith ovvero Dunderhead su Worm Interface, più vicino alla jazz house.
Time Warp Accanto a Bubble And Squeak e Dragon Disk 2, del 1996 è anche Port Rhombus (Warp, 1996, 7.3), un compatto eppì tra idm e drumming scientifico che segna l’ingresso del jazzista nella prestigiosa scuderia Warp, un solido antipasto di un lavoro sulla lunga distanza che si dovrà confrontare sia con un’attenzione crescente nei suoi confronti, sia con l’ultimo lavoro di Aphex Twin: quel famoso Richard D. James Album che segna una fondamentale svolta avant-junglista per lui, anche in termini di popolarità e idolatria. Così nel 1997 Squarepusher non può sbagliare un sample e risponde con Hard Normal Daddy, un masterpiece di accelerazioni e distensioni ritmiche, avant jazz e hard funk. Un lavoro che rispetto all’esordio per Rephlex porta l’intuizione jazz a un nuovo livello: con il gioco sornione sulla blaxploitation, gli stacchetti televisivi dell’opener Coopers World e le super mosse di karate di Chin Hippy, Tom sembra voler dire ’non c’è niente di serio qui’. Ma è questo il bello, sotto i baffi si nasconde una ricetta tutt’altro che facile alla quale, oltre alla impro (Papalon) s’aggiungono elementi fondamentali come la forza impattante del rock (E8 Boogie, Rustic Raver), la complessità del prog (Male Pill Part 13), lo spessore e i riflessi psych della tarda Canterbury, stoccate robo-funk (Fat Controller) e una buona regia che alterna furia a decompressione. Jenkinson non cerca di dipingersi come compositore o songwriter come l’amico Richard D. James ma sicuramente questi due album, usciti a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro, hanno più punti di contatto sia sul lato della narrazione idm-tronica in pieno stile 97 (Beep Street) sia nei vezzi alla Vivaldi remissato Phillip Glass che li accomunano in Anirog D9. Immortalato dalla famosa copertina con la foto della sua Chelmsford e gli sprites danzanti Commodore VIC-20 style, Hard Normal Daddy (Warp, 1997, 8.0) è dunque già un classico. Il pubblico gli preferià il successivo Music Is Rotted One Note per ragioni puramente romantiche (e lo vedremo), ma prima Squarepusher ha ancora un paio di cartucce da sparare: un trascurabile singlo (Vic Acid) con quattro mix e un altro album (benché mini) che sarebbe delittuoso considerare minore: Big Loada (Warp, 1997, 7.5). Rovistando nei più torbidi meandri del ragga hardstep (Full Rinse), della videogame music (A Journey To Reedham (7am mix)) e della jungle ’mental’ del giro Rephlex / Planet Mu, il disco risulta un ritorno in grande forma all’elettronica pura da breakbeat continuum, aprendo definitivamente le porte al breakcore (Come On My Selector con il clip di Chris Cunningham). Una liberatoria immersione elettro prima della grande infornata jazzistica. 69
Vir tual
jazz ensemble
’I personally couldn’t care less about people borrowing ideas as I really don’t have any sense of owning them in the first place’.(nostra intervista, 2012) Calato nei primi 70s del Miles Davis di Get Up With It e On the Corner (ma anche nell’ultimo John Coltrane), cautamente avanguardista in senso novecentesco (strumenti e macchine che ricordano le sperimentazioni di Marino Zuccheri allo Studio di Fonologia milanese), l’acclamato Music Is Rotted One Note (Warp, 1998, 7.0), trattiene ogni riferimento alla musica elettronica ’giovanile’ per tentare ambiziosamente di scrivere un lavoro ’maturo’ e per nulla ironico. Tom imposta il disco sia come un omaggio a un’epoca e ai suoi protagonisti, sia come una studiata operazione retro-modernista: limita gli interventi alle macchine a tocchi da audiofilo - la frusta trattenuta sugli snares, il modo di suonare la batteria quasi-junglista, alcuni filtraggi robotici, certe amplificazioni particolari del basso - e si cimenta in tutti gli strumenti coinvolti - bas70
so, chitarra, hammond e altre tastiere, batterie - esercitando così il doppio ruolo di producer e virtual one man band. Non solo, per la prima volta entra di soppiatto nel mondo dell’elettronica del dopoguerra accademico europeo (Berio, Maderna, Stockhausen, etc.), utilizzando modulazioni ad anello, filtri, diavolerie dal gusto pseudoanalogico e infilandole nel consueto flusso di saliscendi ritmico-arrangiativi con un gusto alle volte ottimo e alle volte troppo vicino a simulazioni dada fuori contesto. Un suono che comunque risolve l’impasse improvvisativo e contribuisce ad incastrare le tessere del puzzle in modo coerente. Si parte con un funk-psych che trasuda passione fusion nel dittico iniziale Chunk-s e Don’t Go Plastic (con echi tastieristici di Herbie Hancock), s’accarezza il Miles introspettivo magari travisandolo prog alla maniera dei Soft Machine (Dust Switch), ci si butta in savane Coltrane (137 (Rinse)) magari in crescendo e architetture orchestrate e orchestrali (III Descent), si adottano inframezzi free à la Ayler (Drunken Style), finendo poi in un avvicendarsi di cosmica e contemporanea (Curve 1, Parallelogram Bin, Ruin, Step 1) o jazz rock (Theme From The Vertical Hold). Unici fuori programma, una ’folk song’ (My Sound) o il cupo finale orwelliano per pelli e theremin Llast Ap Roach. A tutt’oggi l’album più famoso di Squarepusher, Music Is Rotted One Note è in realtà un lavoro frammentario, abilissimo nel farsi ammirare, ottimo a livello di produzione, ma incapace di portare il jazz oltre sé stesso o anche semplicemente di vivere la jam e portarla a cifra stilistica. Eppure l’operazione non è da stigmatizzare: rappresenta il primo e solido tentativo d’escapismo dalla cultura elettronica della sua generazione da parte di un musicista che a differenza di molti ’intelligent’ suona dal vivo e tocca corde e strumenti con mano. E’ questa affinità anti-plastica e anti pre-set che lo avvicina ad un pubblico eterogeneo garantendogli sia libertà di movimento da parte della fida Warp, sia la sopravvivenza artistica. Lo stesso anno di Music Is Rotted One Note, Tom esce anche sotto l’alias techno rave Chaos AD tornando sul luogo del delitto degli album a suo nome con un setting ritmico calibrato al bit. Buzz Caner (Rephlex, 1998, 7.0) è un buon lavoro di revisionismo ritmico (Thin Life risposta alla famosa Didgeridoo di Aphex Twin’), una parentesi prima di dar sfogo agli ultimi scampoli di suonato jazz attraverso tre lavori sulla breve distanza che riavvolgeranno il nastro su ridde elettromaniache. Il primo, Budakhan Mindphone (1999, 5.0), è una raccolta per completisti che ne rappresenta l’ideale corollario (o meglio le session mancate), il secondo, Maximum Priest EP, ha il pregio di riportare il sorriso a Tom con alcune gag mortuarie (1999, 6.5); Selection Sixteen (Warp, 1999, 6.8) infine, con i suoi 45 minuti, è un album a tutti gli effetti che lo fa entrare di nuovo e a pieno titolo nei ranghi elettronici del continuum breakbeat. Con gli Autechre in procinto di abbandonare le figure ritmiche prevedibili, Squarepusher si fa pallottola di precisione, acida e metallica (Square Rave, Schizm Track #1), salvo concedersi al solito qualche poesia electro (Tomorrow World) e, novità, cimentarsi in quanti più generi e stili possibili: spettralismi da accademia francese (The Eye), sampledelia post-rock che richiama in causa i Tortoise (Cool Veil) tagliati con le visioni di Richard D. James (Time Borb), standard acid Warp (Dedicated Loop), smascellate technoidi (Snake Pass), una manciata di session slap sotto forma di brevi interludi (Freeway, Yo), reprise di cacofonie (8 Bit Mix 2) e l’ospitata del fratello oltranzista (Ceephax Mix) le cui voglie acide aleggiano un po’ in tutta la tracklist. 71
H ot Car L icker Il passaggio agli anni 2000 per la scena elettronica è un momento delicato. La scena jungle è una faccenda per nostalgici, i nuovi hipster londinesi sniffano coca ascoltando il 2 step, l’underground hip-hop londinese macina rime urbane (l’UK Garage, il nascente fenomeno The Streets), il glitch ampiamente assimilato (e già in china) impone texture elettroniche a forte tasso di contaminazione e crossover tra i generi (Microhouse, Techno concreta vedi Matmos...) e le forti accelerazioni e in generale tutto il post-modernismo, dalla visibilità nei 90s, tornano ad essere una faccenda da nicchie. A partire dal 1997 la Ambush Records di Toby Reynolds (DJ Scud) e Jason Skeet (Aphasic), la Bloody Fist di Mark Newlands e la Planet Mu dell’amico di James Mike Paradinas (a rimorchio), capitalizzano la rivoluzione drill’n’bass e spingono per le mutazioni genetiche. Il tag breakcore inizia a girare e non ci vorrà molto, con il canadese Venetian Snares e alcuni dei protagonisti della brulicante scena californiana raccolta attorno alla label Tigerbeat6 (Lesser, Blectum From Blechdom e lo stesso owner Kid606), perché cominci a svilupparsi un circuito internazionale specializzato. Tra drill di Aphex Twin e Squarepusher e la nascente scena breakcore, c’è senz’altro un cambiamento ideologico importante: pur con iniezioni letali di futurismo, l’approccio dei primi mantiene sottesa un’idea romantica dell’artista che la nuova truppa di velocisti, fondata su anarchia (mash-up furente) e luddismo (amore per il noise), scansa totalmente. Alla scientifica parcellizzazione e scomposizione del continuum dance britannico, i breakcorer, malati di patchwork e crossover, si rifanno alla primigenia Digital hardcore di Alec Empire (il primo breakcorer secondo molti) fagocitando tutto ciò che può suonare estremo e sabotante: naturale la combutta con metal, suoni
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concreti, sabotaggi di Roland e passi dell’oca gabber. Tra le disquisizioni sul primo Tom Jenkinson presenti su Discogs è interessante notare come anche le prime produzioni del musicista, per alcuni fan, non siano mai catalogabili come gabber (anche se obiettivamente è chiaro che per quella china il passo è brevissimo); i breakcorer, al contrario, non vedono l’ora di venir spiazzati con nuove scorie soniche. Non è un segreto che questo ritorno a un rinnovato spirito punk sia visto all’epoca come una ventata propositiva rispetto all’irregimentata produzione anglosassone e non è un caso che Drukqs, la monumentale raccolta di trapani e inframezzi di piano preparato firmata Aphex Twin nel 2001, assuma a tutti gli effetti i connotati della fine di un’epoca o di un cambio di visuale. Squarepusher, beffardo e impermeabile alle mode (ma non del tutto indifferente ad esse), ne è consapevole e pensa a sua volta allo iato. Lo stesso anno pubblica Go Plastic (Warp, 2001, 7.5), il gemello cattivo di Music Is Rotted One Note che conteneva giustappunto la traccia Don’t Go Plastic, nonché l’album con gli episodi più estremi - leggi con il più alto tasso di sample per secondo - mai incisi finora. L’album si apre con uno scherzetto, My Red Hot Car, una presa in giro del 2 step, una sorta di tardiva (e non altrettanto spettacolare) risposta a Windowlicker di James, nonché il primo (unico’) quasi singolo del nostro. Ancora una volta il dialogo con l’Irlandese è a metà tra la sfida e l’omaggio: dove lui si prendeva gioco del mainstream americano, Tom prende di mira la moda brit del momento tradendone e complicandone il verbo. Il Go Plastic vero è un altro, è un lavoro che cerca continuamente di smarcasi brano dopo brano, frammento dopo frammento, fino alle vette di ferocia electro più estreme (Greenways Trajectory). Nel percorso c’è del sublime: il dub electro schizoide Go Spastic ma anche in uno statement definitivo come My fucking sound e tutta una serie di piccole maniglie di salvataggio - riconoscibili pieghe funk, gigionate 8 bit (Boneville Occident), carezzevoli sinfonie altezza Richard D. James album (I Wish You Could Talk), hip hop (Plaistow Flex Out) o dub / 2 step (l’inizio e il finale di The Exploding Psychology) - che non sono altro che crudeli tranelli per rendere ancor più efficace la detonazione e l’inevitabile sfacello sonico. Go Plastic è - e rimane - il disco hard-tronico per eccellenza nella discografia squarepusheriana, quello che meglio d’ogni altro fa brillare la componente ragga del tessuto junglista, in pratica, secondo l’interpretazione di Reynolds, questo è il disco breakcore secondo Jekninson, ma anche il miglior seguito agli esperimenti di jazz-cubista di Hard Normal Daddy. Di fatto l’unico trait d’union possibile è rintracciabile proprio tra le pieghe di una spettacolare sample-mania ritmica, ultraveloce e ultradettagliata, operata sulla fascia più nera e clubbista della jungle. Una sorta di botto osservato a molteplici velocità, proprio come un bel film di Guy Ritchie. Un difetto: probabilmente il non aver dosato lo humor a tutto tondo dell’insuperato capolavoro (e proprio partendo da questo grimaldello, Venetian Snares lo supererà). Al nadir della drill’n’bass, e per tutti i motivi ora elencati, l’album è comunque riuscito e un successo a livello di audience. Tom diventa una star - anzi, una rockstar - che al contrario della stragrande maggioranza dei colleghi elettronici può vantare un pubblico trasversale, forse microgenerazionale, proprio come quello degli Atari Teenage Riot. Non è un caso che le tournée seguenti lo vedano, gasato e testosteronico, comportarsi come tale. Ne troviamo le testimonianze in quel misto di genialità e di tronfia indulgenza che 73
sono i lavori successivi spalmati in tre anni: Alive in Japan (Warp, 2002, 6.5), cd allegato all’album a firma Squarepusher, Do You Know Squarepusher, e Ultravisitor (Warp, 2004, 5.0), un inedito lavoro registrato senza soluzione di continuità tra studio e live recording.
D o You
know him ?
’One of the more basic approaches to album compilation I have used is to order pieces in such a way that they are always differentiated by the pieces they are preceded and succeeded by. I have hoped that this basic tactic would help me along the way to keeping the listener alert and attentive.’(Tom Jenkinson all’intervista collettiva per il BBC website) Ma veniamo al primo dei due, Do You Know Squarepusher (Warp, 2002, 7.3), titolo falsamente retorico, presa di posizione contro chi lo vuole già pronto per i libri di storia. In 33 minuti, il rinnovato Squarepusher, a partire dalla track omonima, rivisita - e questa volta entrando nel merito - la 2 step, codifica l’hip hop dell’UK Garage (F-Train), esamina l’ostica electro dei compagni d’etichetta Autechre (Kill Robok, Mutilation Colony - ricordiamoci che Gantz Graf è dello stesso anno). E naturalmente, come d’abitudine, riprende i dada ragga-step della prova precedente (Anstromm Feck-4) al top della forma. Ciliegina (per i fan): la cover, in one man band ovviamente, di Love Will Tear Us Apart dei Joy Division. Tanto è entusiasmante ascoltare Squarepusher improvvisare sulle macchine sulla media distanza, quanto invece è faticoso sopportarlo negli slanci chilometrici, specie dopo il bagno di folle live. Ultravisitor è il primo album con Tom Jenkinson in copertina, un primo piano naturale e non deformato alla maniera di Aphex Twin. Niente maschere, il ritratto è una fotografia in stile folksinger con tanto di basettoni. L’album, il relativo corollario. L’ironia è che il folk firmato Squarepusher è una radiografia di un cuore in preda agli attacchi di panico, con una manciata di noiosi strumentali a contorno (Lambic 9 Poetry è puro riciclaggio) che toccano territori post-rock (Tetra-Synch, Circlewave) e chitarre rinascimentali (Andrei) o spagnole (Every Day I Love). Difficile reggere l’autoindulgenza di ottanta minuti che non prevedono sorriso alcuno e che hanno richiesto una quantità incredibile di ore di composizione. Quando Tom spinge a tavoletta pare goffamente rispondere alla rapida ascesa del breakcore (l’attacco di Steinbolt, una sorta di spasmodico free form metal, una casualità’) e il poco di buono è confinato o in retroguardie avant jungle (la titletrack soprattutto) o alla sua versione dell’hip-hop versante Dälek (50 Cycles, traccia che ha richiesto più di un mese di lavoro); allegato alla versione giapponese dell’album, Square Window (Warp, 2004, 6.8), un mini di 5 tracce in area idm lato melodico (Abacus 2, Hanningfield Window) con l’highlight Venus No. 17, traccia in electro stepping metallico tra rinnovata ironia e crescendo lineare (presente anche un omonimo ep con remix e un inedito, Tundra 4).
Vir tual 70 s
power trio
Due anni più tardi esce Hello Everything (Warp, 2006, 6.8). Ai detrattori la tracklist sembra un best di ciò che il musicista ha sfornato nel corso degli anni, ma si sa, Tom muove piccoli passi in nuove direzioni ad ogni nuova prova lunga e questa volta la regola è ’non più di una settimana per incidere un brano’. Nelle discrete Hello Meow e Bubble Life torna il concetto di one man band suggerito peraltro dalla copertina sempre in stile 70s, eppure 74
piuttosto del solito prog e jazz-rock, l’elettro-fusion di Squarepusher si fa 80s, exotica e decisamente rilassata rispetto ai suoi standard. Theme from Sprite conferma l’approccio antitetico rispetto a Ultravisitor, con Tom che cerca nell’immaginario del session man da cocktail lounge e lo schiaffa su marte. E’ un bagno ristoratore a confermarlo: una cascata di moog e cosmica che stanno germogliando in ogni dove nell’underground mondiale (da The Arp a Expo 70). Come sempre l’impermeabile Tom in verità ci sente benissimo: Circlewave 2 riprende la chitarra flamenco, Planetarium parte junglista, entrambe s’immergono in una piscina synth-o-rama; stessa cosa i pezzi più acidi come Welcome To Europe e Plotinus. Disco ingiustamente sottovalutato e prova compatta nella discografia di un musicista che ormai sì, è faccenda per fan (che non sono pochi) e forse troppo manierista. Altri due anni ed è la volta di Just a Souvenir (October 27, 2008, 6.0). Spunta il vocoder ad espandere il pop del precedente album (una divertente The Coathanger), tornano le chitarre flamenco (Yes-Sequiter), ma il cuore dell’album non è più una faccenda di tastiere bensì è in mano a un power trio bello e buono per chitarra, basso e batteria. Jenkinson va a parare nei King Crimson hard e (pre)math di Red e nel jazzcore e la cosa non sorprende nessuno. Delta V e The Glass Road sono gli episodi più metallici, il resto ci dà di progghismi cervellotici neppure troppo saputelli (Planet Gear, Tensor in Green, The Glass Road) con qualche punta sbarazzina a mitigare (Potential Govaner). La china ultra manierista è per forza di cose direttamente proporzionale alle stroncature che arrivano puntuali e da più parti e Squarepusher sa benissimo di non poter continuare oltre su questi binari. In Numbers Lucent (Warp, 2009, 7.0), un eppì di quasi 25 minuti, la mossa torna elettronica e in un momento di revivalismi Rave, il Nostro risponde puntuale con Zounds Perspex (synth pastiche di fusion, tastiere citazioniste) 75
e un fare exotic-pop ereditato dalle ultime prove. Curioso vedere Tom cimentarsi in territori house (Paradise Garage) quando nei primi Novanta era da tutt’altra parte orientato. Intelligente il missato di tastiere che tornano protagoniste, marcature cartellino Settanta, qualche spunto disco, basso slap contenuto e i labirinti sonici godibili. Lo stesso anno Tom si toglie l’ennesimo sfizio, Solo Electric Bass 1 (Warp, 2009, 6.0), una session limitata a 850 copie per dodici tracce incise live alla Cité de la Musique a Parigi all’interno del festival ’Jazz à la Villette 2007’. Come dice il titolo, sono episodi per solo basso e amplificatore che danno pieno sfogo della versatilità jazzistiche del Nostro, in un album ovviamente compiaciuto ma nondimeno intelligente e musicalmente avvincente. E arriviamo al 2010. Sempre all’interno degli ensemble virtuali, Jenkinson architetta il primo, vero, album pop (mascherato). Questa volta è un quar76
tetto virtuale a suonarlo, lo Shobaleader One, con la dicitura ’Squarepusher Presents’ a indicarlo come side project a tutti gli effetti. Eppure il discorso per d’Demonstrator (Warp, 2010, 6.5) è il medesimo di Just a Souvenir, sia per quanto riguarda l’idea di vocoder pop qui estesa a formato base coprendo lo spettro Krafwerk, Giorgio Moroder e Daft Punk (Plug Me In, Into The Blue, il funk di ripiego di Endless Nights che si colora metal sul ritornello), sia per il recupero del metal attraverso la lezione Frippiana sopracitata nella finale Maximum Plank. Nota d’interesse per il 2012: la batteria quasi-dubstep nella popadelica Abstract Lover, insieme ad un rinnovato uso di tastiere che anticipano la svolta aggressivo/melodica che Jenkinson dichiarerà essere il pretesto sonico per la definizione di Ufabulum (Warp, 2012, 7.0 - approfondito in spazio recensioni).
The
sound of a power station
“As a boy I had a Ladybird book about power stations that I used to re-read every day. I’m obsessed with electrical energy and especially in the vast quantities generated by power stations. The sound of the massive electric motor from a fairground Ferris Wheel has always stayed humming in my head and lots of my synth sounds refer to it, as they do in this piece. From there I tried to generate images of bizarre transitory phenomena that I imagined could be found in the huge furnaces of power stations.”(Tom Jenkinson a proposito della traccia Drax 2) Il come back electro, in convergenza parallela con il massimalismo sonico ora in voga (da Skrillex a Rustie) di Ufabulum, coincide con una ritrovata freschezza. Tom miscela prevedibili elementi di alcuni dei suoi passati più o meno remoti (electro, idm, 80s synth music e drill’n’bass) con estro e sedato gusto prog. Persino un nuovo modus operandi è stato messo in atto e ha previsto, come abbiamo appreso dall’intervista, una forte correlazione musica e immagini attraverso un software autoprodotto circa nel 2005 e in continua evoluzione da allora (il video-synthesiser). Nell’edizione speciale, al disco viene allegato un EP di tre tracce Enstrobia (Warp, 2012, 6.8) che conferma la passione altalenante per il synth-pop squadrato (Angel Integer, Panic Massive) e per l’avanguardia (40.96a dipinge visioni industriali à la Blade Runner). L’altra zampata è un live al Fort Mason 2012 dello scorso marzo che abbiamo avuto modo di gustarci grazie a una preview tramite il broadcast di Warp/Youtube. Niente basso e tutte macchine. Un casco e uno schermo. Entrambi parte dello stesso led show techno-minimale la cui parte visual sembra portare tributo a Ryoji Ikeda. Hai descritto il tuo nuovo album come un mix di suoni melodici e aggressivi. In questo senso a noi è piaciuto molto il disco di Rustie. In generale sembra comunque che vi sia un rinnovato interesse per la melodia nella musica elettronica e non solo nei drop di Skrillex... Dal punto di vista del pubblico... beh è più il tuo lavoro che il mio! Ok, ma perché hai deciso di dare più importanza alla melodia? Non penso che ci sia stata una transizione così brusca con quello che ho fatto nel passato (recente). Certo, il disco nuovo suona più melodico dei precedenti, ma non direi che c’è stata una variazione così marcata... Rispetto alle cose che suonavi negli anni Novanta, quando tu e Aphex eravate all’apice del suono elettronico mondiale, le cose sono cambiate molto. Il disco nuovo suona completamente diverso da quello che facevi 77
all’inizio della tua carriera... Probabilmente non sono io ad essere cambiato, ma è la gente che è più interessata alla melodia. Non è il mio mestiere fare queste generalizzazioni, creare trend, non sono molto interessato a queste cose. In questo periodo abbiamo realizzato uno speciale su Photek in occasione dell’uscita del Dj Kicks. Negli anni Novanta avevate senz’altro in comune la passione per il jazz. Ora lui suona anche dubstep... Conosco molto bene le cose che ha fatto negli anni Novanta, ma non ho idea di cosa faccia oggi. Quando hai pubblicato Music is rotted one note c’erano delle connessioni con le tastiere di Miles Davis e con suoni che usava Photek. Mi sembra che tu abbia cambiato molto il processo compositivo da allora. Ho cambiato di continuo, non c’è stata una modifica unica in un colpo solo. Nel senso che i cambiamenti non li vedi tra un album e l’altro, ma fra due o tre album consecutivi. Sì ho cambiato il modo di comporre, non solo nel modo in cui le note sono organizzate (che penso sia una buona definizione di composizione), ma anche in un modo più generale di estetica, nel senso di come i suoni vengono scelti e di come sono usati. E’ stato un processo continuo di valutazione per me. Anche se da un punto di vista esterno sembra ci sia stato un salto, quello che mi interessa alla fine è la possibilità di fare quelle transizioni, tentare di fare cose nuove. Se non mi piacesse variare non avrebbe senso quello che sto facendo. La gente magari pensa che un disco sia un grande salto rispetto a quello precedente, ma è un processo continuo... Che cosa significa il titolo Ufabulum? A me sembra che sia la stessa radice di favola... E’ una parola che ha usato la mia bambina (o la mia ragazza, la traduzione non è chiara, ndr) per definire l’album. Un modo informale per definire il disco che non ha connotazioni particolari. Penso che le connotazioni saranno generate dalla mente della gente, che inizierà ad immaginare cosa 78
vuol dire quella parola. Mi piace pensare che se dai a qualcuno una tela bianca, una parola senza un significato preciso, quel qualcuno applicherà il suo significato personale. Quando fai dischi è un problema normale quello del titolo. Per quanto riguarda la parola Ufubalum, può anche piacerti solo per il suono, come una poesia. Nelle note di stampa hai dichiarato che la traccia Ecstatic Shock è stata sviluppata con un software - il ’video-synthesiser’ - che hai ideato tu stesso. Ci puoi parlare di come hai scritto le tracce? Sì, ho associato le tracce a delle immagini. Ecstatic Shock è stato il primo pezzo, con il software ancora ad uno stato embrionale. Quello a cui mi riferivo nelle note di stampa era il fatto che ho usato delle visualizzazioni per scrivere i pezzi. Lo puoi vedere anche dall’artwork del disco; in futuro il software verrà usato per fare i video e anche per fare lo show dal vivo, dove tutta la musica è accompagnata da elementi visual. Tornando alle differenze tra un disco e l’altro... questo disco è completamente differente da tutti quelli che ho fatto per il fatto che la musica è stata composta contemporaneamente a immagini video. Quello che ho cercato di fare è articolare visualmente la sorgente di qualche associazione mentale che il suono e la musica hanno evocato in me. Per esempio se un pezzo evocava un tipo di figura geometrica, ho cercato di tradurla in musica. Inoltre ho cercato di capire se i visuals avevano qualche feedback verso musica, ad esempio guardando le figure che facevano i suoni o se queste mi ispiravano a costruire suoni particolari. Il suono ispirava le figure e le figure ispiravano i suoni. Ho visto sul Warp site un video teaser dell’album e mi sono venuti in mente i Daft Punk.. Non penso che il lavoro sia minimamente connesso ai Daft Punk. Il disco non è stato composto per piacere alla gente in un modo pop o commerciale. Non me ne frega un cazzo di quel tipo di cose. Per quanto riguarda la connessione con i Daft, ho tentato di sviluppare un approccio che utilizza la maschera che si modifica live durante lo show. A quanto ne so, non mi sembra che i Daft Punk abbiano mai fatto una cosa del genere. Mi sembra che oggi la sperimentazione si concentri di più sul mix di suoni e stili, non nella costruzione dei suoni stessi. Simon Reynolds parla di massimalismo nel definire questo mix di stili post-moderni. Penso che tutto questo venga fuori dal fatto che molti software ti danno già una palette pronta di preset ed è difficile costruire suoni dal niente. La gente fa prima a mixare sample e fonti già esistenti. Cosa pensi di questo approccio applicato alla musica? Mentirei se dicessi che citare lavori del passato è un male. In generale è impossibile non fare riferimento a qualcosa del passato. Il problema è quanto dai spazio al passato, l’intensità con cui citi. Se facessi musica senza riferimenti, sarebbe difficile riconoscere e definire quello che faccio con il termine ’musica’. Si fa sempre riferimento a un linguaggio già stabilito. Quello che si tenta di fare è di modificarlo o di aggiungere qualche termine nuovo. Fare qualcosa di interamente nuovo è impossibile. Anche se ci sono riferimenti al passato in quello che faccio, tento sempre di ricreare di nuovo una palette. Non ho mai utilizzato dei preset. Non mi piacciono i suoni preconfezionati, anche se da un certo punto di vista non hai scelta, perché se usi uno strumento musicale non puoi andare oltre quell’architettura. Dal punto di vista elettronico sei condizionato sia dall’hardware che dal software. E anche gli stessi suoni che escono e che hai a disposizione diventano parte dell’ar79
chitettura che puoi utilizzare. Certo se ad esempio fai sempre riferimento a un certo tipo di suoni, tipo quelli degli anni 80, dopo un po’ ti stanchi e ti accorgi che puoi fare altro. E la stessa cosa accade nell’utilizzare sempre i preset: è limitante e noioso. Ci puoi raccontare qualcosa dei tuoi esordi? Come molte cose che succedono in musica, semplificherei se dicessi che tutto è nato seguendo un piano o che c’era qualcosa di razionale dietro a quello che scrivevo. Alle volte fai delle cose e non c’è una spiegazione precisa. Come ad esempio quando improvvisi, provi e non sai cosa uscirà. Qualche volta fai anche dei pezzi inutili e li butti via. Guardando indietro a quei giorni, ero ossessionato dal d’n’bass ma non era il solo genere musicale che ascoltavo. Magari qualcuno che si fosse trovato nelle mie condizioni sarebbe andato in crisi. In quei giorni pensavo: cosa faccio se divento un altro artista di d’n’bass? se tento di conformarmi, se tento di affermarmi in quella cornice così rigorosa? Per me quello stile è una prigione, non mi sento bene se mi confino in un determinato stile. Le regole erano così fortemente articolate che dovevi venire a patti ogni volta che scrivevi una singola nota, per essere accettato nella cerchia. Quello che dicevi tu, di mettere idee jazz nel d’n’bass è stata solo una piccola idea. E poi per quanto riguarda lo stile superveloce... mi è sempre piaciuta la velocità, la sensazione di disorientamento... nel senso di essere portato al limite della comprensione, mi piacciono molto questi aspetti. Il sentimento di intossicazione quando hai un overload informativo. Tutto ciò è sempre stato molto importante per me. E per fare ciò, penso che la musica debba essere qualcosa che ha ha che fare con l’intensità. Non sono interessato alla musica ambient, o alla fashion music o a una musica che ti fa sentire felice o ti fa stare bene. Anzi, mi piace la musica che ti fa stare male. I riferimenti al jazz, in quel tipo di musica, non ci stavano per un certo tipo di gente... il d’n’bass è una musica urban e il jazz di solito è pensata per stereotipi come una musica gentile, old fashioned. Invece io amo il il jazz quando è estremamente aggressivo, ad esempio le ultime cose di Coltrane, qualcosa del Miles elettrico, le cose dissonanti, aggressive, che fanno paura.. All’inizio hai usato questa musica ’strana’. La gente che ascoltava d’n’bass non ne aveva familiarità ed era senz’altro difficile ballarla... Certo. Una delle cose che amo di quella musica è che era difficile trovarci il groove. Tanta gente non riusciva a ballare perché non c’era il groove, perché non c’era un ritmo regolare, ma credimi io lo sento il groove in quella musica. Una delle cose principali è il senso di movimento, di ritmo. Per essere coerente con quello che sentivo, volevo riuscire a generare un senso di fluidità. Anche se dal punto di vista ritmico ho sviluppato delle idee che sono interrotte, spezzettate. In generale mi piace la connessione fra elementi diversi, che per me è la definizione di groove. Ogni elemento in un ritmo ha un senso di risoluzione e di continuazione nell’elemento che segue. La cosa buffa è che io ballavo sulla musica che facevo, su quegli elementi jazz che hai definito ’poco familiari’. In pratica, per la scena d’n’b tu e Aphex eravate degli alieni... Non so cosa pensasse il pubblico, penso che questo sia il tuo lavoro [ride]. Molte delle cose che facevamo io e Aphex dalla metà alla fine degli anni Novanta erano completamente diverse da quello che la gente chiamava d’n’b, ma molti dei riferimenti erano gli stessi. Il d’n’b si è sviluppato in parte dopo l’hardcore e il breakbeat all’inizio degli anni Novanta in Inghilterra. Io non facevo dischi all’inizio degli anni Novanta, ma ascoltavo le stesse cose 80
che sentivano le persone coinvolte nel genere (le prime label come la Moving Shadow, etc.). Poi mi sono interessato ad altro e lentamente staccato da quel mondo... Ho letto che suonerai al BLOC Festival, anche con qualche artista dell’etichetta Hyperdub. Ascolti il dubstep? Sei un fan? So che esiste quel mondo, ma sai, producendo musica dodici o qualche volta anche quattordici ore al giorno, non riesco a star dietro alle novità. Di solito poi quando ascolto qualcosa, cerco sempre di trovare dei pezzi che siano in contrasto con quello che faccio. Pensi che la tua musica e la musica che esce dalla Warp abbia influenzato le nuove generazioni e i musicisti della Hyperdub o di altre etichette di dubstep? Sono orgoglioso di tutto ciò che ho fatto. Alcuni dei miei lavori - so che può sembrare arrogante - insieme a materiale di Aphex Twin, sono stati tra le cose più innovative che sono successe nella musica elettronica da quindici anni a questa parte. Ci sono molti artisti che si rifanno a quei suoni non solo copiandoli, ma producendo anche qualcosa di nuovo. E questo è un bene. Sei ancora in contatto con Aphex Twin e Luke Vibert? Hai per caso qualche progetto di collaborazione in mente? Ehi mi stai facendo una domanda personale [ride]! Certo con Richard siamo amici e ci sentiamo spesso. Non abbiamo definito niente nel futuro prossimo, ma prima o poi potrebbe succedere. Luke è da un po’ che non lo sento, ma abbiamo fatto tanti concerti insieme, ci siamo divertiti molto. Il suo lavoro, specialmente quando faceva uscire i pezzi con il moniker Plug, mi ha influenzato molto. Penso che molte delle cose che ha fatto all’inizio della sua carriera siano straordinarie. Al MIT, il 9 giugno, - unica data italiana - suonerai con qualcuno o farai lo show da solo? E il basso? Appeso al chiodo? Farò tutto da solo, come hai visto nel teaser video. E non suonerò il basso. Per ora lo show non lo prevede. Poi magari col passare del tempo, se mi stanco, magari cambierò. Il problema quando faccio un tour è che cerco sempre di variare il focus sulle composizioni. E’ questo che rende interessante la cosa per me: imparare cose nuove di continuo. In tour magari hai tempo anche di sperimentare e di scrivere qualcosa di nuovo, quando viaggi in aereo o quando aspetti lo show successivo. Suonare sempre le stesse canzoni, alla fine, può risultare noioso. Io cerco sempre di variare. Dopo l’uscita dell’album quali sono i progetti futuri? Hai in mente qualche EP? I progetti potrebbero cambiare. Posso dirti che ora sono ancora in studio, quindi potrebbe succedere di tutto.
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Recensioni
— cd&lp
luglio/agosto
Agata & Me - There Are Songs About You (Sopa, Giugno 2012) Genere: emo folk
Altera - Italia sveglia! (Produzioni dal basso, Giugno 2012) Genere: rock d’autore
Quattro anni fa c’intrigarono con l’ep Overnite, folk sul punto di farsi -tronica con evidenti contagi dreamy, il potenziale evocativo inversamente proporzionale alla quantità di ingredienti messi sul piatto, le voci intense e sfuggenti al servizio di costrutti melodici giocati sul filo tra apprensione e trasporto. Proposta minimale e suggestiva, così come poche erano (sono) le notizie su di loro, tuttavia particolari: lei siciliana - Agata Foti - e lui bosniaco - Emir Pasic - a tramare l’intesa artistica in quel di Næstved, quarantamila anime (fonte Wikipedia) ad un’ora da Copenhagen, nella diversamente dinamica Danimarca. Li ritroviamo oggi con un album che espande quel mini mettendo in fila quattordici tracce, sempre nel segno di quella concisione trepida, di quel magnetismo onirico, scorie wave e slarghi cameristici come fantasmi sonori dalla stanza accanto, dove s’accendono acquerelli Mùm via Notwist (City), suggestioni Mark Hollis con fregole Rachel’s (Herself) o calde paturnie Elbow (l’incalzante Mirror). La scrittura procede per poche ma dense idee da far sbocciare con le attenzioni del caso, vedi la tensione rappresa di We Choke (il banjo e un accenno di flauto), Wrong Way (alla chitarra risponde d’improvviso un vibrafono piovuto dal pianeta delle palpitazioni giocattolo) e A While Ago (una brezza d’archi in mezzo al languore folk). In un paio di casi canta Emir con voce empaticamente problematica (come un cugino basale di Guy Garvey), mentre Agata è una Sinead O’Connor dalle inquietudini rabbonite (la toccante Let Go), una Nina Nastasia disposta a concedersi in close up (Fork, Camouflage). Hai l’impressione che si muovano in una prospettiva defilata, che il loro percorso sia destinato a svolgersi periferico, e che tutto ciò sia un bene perché magari consentirà loro - se vorranno - di salvaguardare quella che oggi appare come una torbida, struggente purezza. Così rara da incontrare. (7.2/10)
La finalità è encomiabile: creare un progetto discografico che funga da manifesto dell’Italia degli ultimi vent’anni e quindi, implicitamente, metta in guardia il futuro dagli errori del passato. Il paese descritto è ovviamente quello berlusconiano, in un excursus che - come da note riportate sul booklet - denuncia una ad una le aberrazioni di un regime costruito e foraggiato dalla televisione: dalla promessa del milione di posti di lavoro mai mantenuta agli scandali legati al terremoto dell’Aquila, dalle leggi ad personam ai conflitti di interesse, dalla licenziosità festaiola alla corruzione. Il tutto in un’ottica barricadera che vorrebbe risvegliare le coscienze - emblematico, a tal proposito, il sottotitolo del disco ’Note per destare un paese’ - ma finisce, invece, per suonare retorica. Quasi si trattasse di una serie di istruzioni per l’uso o di un manifesto programmatico, più che di una poetica musicale vera e propria. Quel che importa è la linearità del messaggio, insomma, e pazienza se per veicolarlo ci si deve affidare a un rock in italiano in stile Timoria / Liftiba (la title track), a qualche spoken word che sembra richiamare formazioni come gli Ultimo Attuale Corpo Sonoro senza eguagliarne l’intensità (la parte iniziale di Mi hanno rubato il prete, brano dedicato a Don Gallo) o a certi toni evocativi generalisti alla U2 (La Bandiera). Ne vien fuori un citazionismo freddo - testi come ’hai timore dello straniero / anche del buio e del lavoro nero / hai timore del precariato / di restare disoccupato’ non aiutano - che sa di ideologia spicciola e di luoghi comuni, abile nel non tralasciare particolari scabrosi di un ventennio disastroso ma non abbastanza a fuoco per trasformarli in una formula convincente. (5/10)
Stefano Solventi
Erano quattro anni ormai che non si avevano più notizie discografiche delle Amavo, rimaste al palo con il buon
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Fabrizio Zampighi
Amavo - Gracefool (Fromscratch, Aprile 2012) Genere: Post math
A Place To Bury Strangers - Worship (Dead Oceans, Giugno 2012) Genere: shoegaze noise Non c’è una-nota-una che sia originale nel nuovo album degli A Place To Bury Strangers. Eppure non c’è una nota che sia una fuori posto. Contraddizioni? Confusione? Caldo che da alla testa? No, semplice dato di fatto. Tutte le note suonate nelle 11 tracce che compongono l’atteso comeback del trio newyorchese hanno al loro interno rimandi, citazioni, intuizioni che chi mastica un minino di rock rumoroso non potrà non riconoscere. Eppure, la sapienza con la quale il terzetto newyorchese ha saputo introiettare quel background fatto di chitarre rumorose, ritmi medi, indolenza vocale e montante feedback ha un suo fascino e soprattutto un suo perché. Le avvisaglie ce le avevano mostrate le prove precedenti, con un crescendo qualitativo che ci mostrava come via via la Ackerman family si distaccasse progressivamente dai cliché di genere per mostrare una personalità sempre crescente. Ora Worship è, a tutti gli effetti, il capolavoro degli APTBS e forse la cartina al tornasole per tutto il (semi) revival shoegaze: basta violenza shock e maggiore attenzione alla forma canzone, ok i noti punti di riferimento ma sotto con una via sempre più personale alla interpretazione. Worship, nomen omen rivolto alle generazioni presenti e future di rock addicted, è un concentrato di bellezza in eccellente equilibrio, in cui il caratteristico wall of sound dei tre è smorzato per lasciare spazio ad una maturità che difficilmente ci saremmo aspettati da coloro che consideravamo solo dei patologici shoegaze/feedback addice o al limite epigoni d’alto livello. Tra post-punk militante (Fear, Why Can’t I Cry Anymore), aggressività di spie al rosso (Revenge), clangori industriali dolci come fiele (Alone), ruvidezze alla gesù&maria (Mind Control) vengono incastonati due o tre pezzi che si distaccano dalle asperità ben disseminate lungo tutto il resto dell’album: Dissolved, And I’m Up e Slide mettono la melodia dinanzi al rumore, senza perdere in ossessività e di volta in volta dolcezza, cupezza, astrazione. Riesumano la wave, scontornano il rumore, rivitalizzano il rock e portano nuova linfa ad alberi vecchi. Sì, si dirà che tutto è già risentito, noto, metabolizzato, ma non si potrà assolutamente negare che nel percorso interno della band Worship non sia dimostrazione di una evidente crescita. E poi, come dicevamo in apertura, non c’è una nota che sia una fuori posto e tanto può bastare. (7.3/10) Stefano Pifferi
math rock di HappyMess. Ed è proprio da lì che il duo veneto composto da Anna Lot e Silvia Lovo riparte, da quelle geometrie schizofreniche e asincrone che è poi il suo marchio di fabbrica. Stavolta però il risultato fa un passo ulteriore, e più che altro è un discorso di personalità e immediatezza. Certo c’è il synth che entra a far parte delle composizioni e il suono si arricchisce, ma è soprattutto la forma ad essere più concreta, perdendo qualcosa sul versante free ma guadagnando in compattezza e slancio. E’ uno schema volutamente ripetitivo e martellante quello delle otto tracce di Gracefool, un ronzio continuo al cervello inoculato dalle chitarre grezze e ruvide della Lovo, sempre pronte a spaziare tra noise e no wave. Un bel sentire insomma, specie quando arriva il singolo Jello (per chi ha gli occhialini c’è anche il video in versione 3d), la vorticosa e claudicante For Commons
Sense Is Not So Common più la sbronza in paranoia di Vinaccia. Avanti così. (7/10) Stefano Gaz
Antony and the Johnsons - Cut The World (Rough Trade, Agosto 2012) Genere: art pop rock Di Antony Hegarty conosciamo bene ormai il mistero luminoso, il romanticismo transgender condotto sul filo di un impressionismo struggente, prima teatrale che cinematico, come una frontiera spirituale che esiste discreta e formidabile. Queer e asceta dal crooning angelico, non ha fatto fatica a farsi apprezzare dai grandi del pop rock come il suo mentore Lou Reed e la ex-folletta Björk, che lo hanno utilizzato come guest star d’eccezione, finendo per cucirgli addosso loro malgrado una ingrata sagoma 83
da freak ultraterreno. Il buon Antony ha comunque saputo mettere assieme una discografia formalmente e poeticamente rigorosa, quattro album all’insegna di un art-pop cameristico punteggiato da intuizioni melodiche - e relative interpretazioni - straordinarie. Con Cut The World è arrivato il momento di fare antologia e nel modo migliore, proponendo una selezione di dieci tracce eseguite live in quel di Copenhagen con l’apporto della Danish National Chamber Orchestra su arrangiamenti dei sodali Rob Moose (già al lavoro con Ryuichi Sakamoto e Sufjan Stevens), Maxim Moston (David Byrne, Dave Gahan...), del giovane lanciatissimo prodigio Nico Muhly e dello stesso Antony. Il risultato è splendido, intenso, sontuosamente sobrio. La sola Cripple And the Starfish con le sue vampe accorate vale il prezzo del biglietto, ma lo sdilinquimento lunare di The Crying Light ed il crescendo emotivo di Epilepsy Is Dancing non sono da meno, per non tacere della gravità agrodolce di Another World e del gospel angelicato di Swanlights. Completano l’operazione l’inedita title track, dal lirismo quasi muscolare, e lo speaking programmatico di Future Femminism, tanto per ribadire con che persona(ggio) abbiamo a che fare. Se può sembrare un’ostentazione estetica eccessiva, un esercizio di raffinatezza camp per costruirsi una collocazione espressiva peculiare sì ma artefatta, è vero altresì che fatichi ad immaginare un abito migliore per queste tracce, sensazione simile a quella provata in occasione dell’ottimo Composed di Jehrek Bischoff. Due indizi che non fanno certo una prova: solo con una cospicua dose di faciloneria potremmo azzardarci a sostenere che “classic is the new loud”. In ogni caso, staremo a sentire. Come sempre. (7.1/10) Stefano Solventi
Atari/Drink To Me/Casa Del Mirto/ Esperanza - rmxS (Unhip Records, Giugno 2012) Genere: indietronica S è stato un buonissimo disco di indie italiano, che ha ottenuto consensi anche fuori dalla penisola. Il suo mix di electro e indie ha visto bene tra le pieghe dello zeitgeist musicale contemporaneo, mixando sapientemente ingredienti che potremmo con una formula definire le principali ‘estetiche musicali anni zero’: tastiere postAnimal Collective, sentimenti di nostalgia e un pizzico di DIY. Oggi la Unhip rilascia solo per gli abbonati questo EP di remix della band di Torino. In fila per ripensare le tracce abbiamo i Silent Panda | Deadly Panda (proget84
to electro di Luca G. dei Julie’s Haircut) che cura una versione Tarwateriana di Space, tutta echi e riverberi glo, i Casa del Mirto che rivedono Picture Of The Sun e ricordano lo scazzo slacker mescolato alle estati del synth-glo di Washed Out. C’è poi Dariella degli Amari sotto il moniker Bunuel’s Sound Of The Wall che ripensa Henry Miller con chitarrine à la Peter Gabriel e la solita maestria di taglio che in un crescendo guarda sia allo UK Bass che a Four Tet. Per chiudere gli Esperanza in fissa synth pop warpiano su Future Days (uno dei pezzi migliori del disco) e gli Atari che rivedono Disaster Area con tastierine ed effetti che ricordano i Suicide senza punkness. Un buon invito per l’estate a proporre i pezzi dei Drink To Me anche sul dancefloor e una riconferma della loro eterogeneità, aperta a più fronti. Non solo palco, anche pista. (7.1/10) Marco Braggion
Beak - >> (Invada, Giugno 2012) Genere: psych motorik Geoff Barrow sembra mantenere la posizione, con il moniker Beak>, che aveva proposto con l’esordio del 2009. Il secondo episodio è un’altra profonda riflessione per strutture sull’inerzia della ritmica tedesca di provenienza krauta dentro l’elettrorock odierno. Nel loro viaggio, i Beak di >> vanno ancor più a ritroso ed entrano nelle macchine morbide - o nelle accoglienti sabbie mobili - della psichedelia dei tardi anni Sessanta, quella più distante dall’acid-rock tradizionale, e più orientata al viaggio tramite la pulsazione. Spinning Top trova così una sovrapposizione utile con i Silver Apples, e da lì il disco intreccia numerosi anelli di congiunzione tra Simeon Coxe e Danny Taylor e i Neu!. Il riff mediorientale al ralenti di Wulfstan II (dal nome di un vescovo inglese di Worcester degli anni mille) suona all’orecchio dell’ascoltatore italiano come una reminiscenza diretta di Punk Islam dei CCCP. Nessun’altra analogia, se non l’incaponimento sulla ripetizione paranoica, del resto tratto essenziale della pratica motorik tutta. Anzi, superata la rima, si procede, nella lunga suite, verso le lande dei Pink Floyd da poco orfani di Syd Barrett, e si potrebbe essere tanto a Beirut quanto a Pompei. Oppure nelle esplorazioni ascendenti delle canzoni psichedeliche alla Mushroom di Tago Mago (Elevator). Il motorik è una delle invenzioni della musica ’pop’ più geniali e influenti di sempre. È un pattern tanto semplice quanto ricco. Barrow, che delle formule semplici portate alle conseguenze più complesse e accessibili è
Alex Niggemann - Paranoid Funk (Poker Flat, Maggio 2012) Genere: House Fai tanto parlare di Jamie Jones come il talento house assoluto, quello che sa raggiungere la forma più coinvolgente e rigorosa del genere, ma di fatto, nelle due occasioni avute per sfoderare il disco house definitivo per gli anni ‘10 (Don’t You Remember The Future e il Tracks From The Crypt in uscita), il pupillo di Crosstown ha solo disegnato un suo percorso personale, niente che avesse la validità in senso assoluto che ci si aspettava. Ora che invece arriva il debutto in lunga distanza di Alex Niggemann (stesso percorso artistico di Jones solo su etichette meno blasonate e lontane dalla Londra che conta), ti vien naturale fare paragoni, e ci metti poco a capire qual’è il lavoro di mestiere e qual’è l’album di qualità superiore. Paranoid Funk ha tutto quello che la house deve avere oggi: il groove deep killer che fa da assist al disagio soul (Don’t Wait), l’intransigente circolarità che non sente cali d’attenzione (non coi sample e i pattern ritmici di The Sweetest Thing), i tempi e le consistenze del clubbing tech-house ma senza barriere all’ingresso (Curious), l’aggancio alla durezza techno che non guasta (Easy Love, I Don’t Care), il basso assassino che tira fuori il meglio dell’impianto audio (That Is...!?), a tratti persino un certo candore melodico che guarda alla space (Come Into My World). Più in generale, c’è un’armonia degli elementi che mette tutto sotto la luce giusta, senza forzare la mano (non ce n’è bisogno: in fondo è old school) ma lavorando sulla semplicità degli attori (voce e cassa su tutti, vedi lo splendore di una Lovers) e sulle loro affinità elettive. Non un capello fuori posto, nessuna sbavatura: ogni cosa ha il giusto spazio e sa soddisfare tutti i tipi di sensibilità house a portata di mano, da quella di sentimento alla più muscolare. Disco senza colpi epocali ma praticamente perfetto, di quella perfezione che viene raggiunta solo da chi punta tutto sulla solidità delle forme. Un certo Paul Kalkbrenner ha fatto qualcosa di simile l’anno scorso, lato techno, ma Niggemann ha il vantaggio di non avere paragoni ingombranti che vengono dal proprio passato. E quel tocco fresco e spigliato che può avere solo la nuova generazione. (7.3/10) Carlo Affatigato
maestro (i suoi Portishead ce lo testimoniano con forza), ne ha capito e carpito l’enorme potenziale. Basta aggiungere qualche variante e il gioco è fatto - anche sulla lentezza, e sull’utilizzo della voce che ’canta’ un mantra nella bellissima Deserters, tanto aliena da sé che quasi ci porta dentro Above dei Mad Season. Ma, soprattutto, capito il gioco, Barrow sa come non rimanere imbrigliato, e tornare nell’intensità più catarticamente rock della finale Kidney. Un ponte verso qualcosa che vorremmo ascoltare subito. (7.2/10) Gaspare Caliri
Bee And Flower - Suspension (Cheap Satanism, Aprile 2012) Genere: noir pop Bee And Flower: una carriera iniziata più di dieci anni fa a New York, frammentata e caratterizzata dalle tempistiche dilatate dettate anche da spostamenti tra la Grande Mela e Berlino. Esordio nel 2003 con What’s Mine Is
Yours, a cui fece seguito quattro anni dopo l’interlocutorio Last Sight of Land; altri cinque lunghi anni d’attesa - e ritorno a New York - per la pubblicazione via Cheap Satanism del terzo lavoro Suspension. Dana Schechter (voce e basso) e Roderick Miller (tastiere) plasmano ancora una volta quel suono che evoca atmosfere fumose da pianobar di classe, sorretto da arrangiamenti sinuosi e delicati di archi (Jon Petrow) e varianti chitarristiche (Lynn Wright) che si insinuano tra le accoglienti trame (In The Dawn and Dusk). La voce di Dana - tra le fila anche del progetto anni zero di Michael Gira, Angels of Light - riesce a veleggiare costantemente su tappeti noir, su uno slow-folk oscuro alla Nina Nastasia e su certe murder ballads (presente Thomas Wydler dei Nick Cave and Bad Seeds) con grande pulizia melodica, addentrandosi con eleganza in temi come la solitudine. Serietà, onestà artistica e una buona scrittura riescono a rendere comunque interessante un disco che oltre a non portare grosse novità e a non intaccare il DNA della 85
band, rischia di suonare leggermente sorpassato. (6.5/10) Riccardo Zagaglia
Bonnie “Prince” Billy - Now Here’s My Plan (Domino, Luglio 2012) Genere: folk L’uomo del Kentuky non è nuovo alla rilettura del proprio repertorio, vedi il più noto Sings Greatest Palace Music del lontano 2004. Qui ci “ricasca” nella sintesi di un EP di sei brani in occasione dell’uscita di una biografia che va sotto il titolo di Will Oldham on Bonnie “Prince” Billy. A dire che il gioco tra i moniker non si fermerà qui. Nonostante si tratti di un momento quasi di bilancio. Oltre alla biografia, infatti, il 30 giugno saranno messe in circolazione di alcune ristampe del catalogo Palace Music. Insomma, si fa ordine: dovrebbe rimanere solo la sigla Palace Music, lasciando da parte Palace Brothers e Palace Songs. Rispetto all’epica della recente collaborazione con i Trembling Bells, qui Oldham appare completamente se stesso, a proprio agio oramai con una produzione corposa e in grado di ricucirsela addosso sempre in modo diverso. Come in quella I See A Darkness che fece impazzire la critica nel 1999 e che diede la stura a l’ondata country/alt.country/folk che seguì. Dopo la celebre rinterpretazione di Jonnhy Cash, Oldham se la riprende mettendola tutta in toni luminosi e allegri: si gioca per contrasti leggeri, piuttosto che lasciare spazio a cupezze da Uomo in Nero. Prodotto da Steve Albini e suonato assieme alla backing band che lo segue in tour da Wolfroy Goes to Town, pesca dalla metà degli anni Novanta fino a tempi contemporanei. Non aggiunge niente alla statura che Oldham ha raggiunto, aumenta solamente la voglia di sentirlo presto dal vivo, magari per scoprire se ha nuovamente riarrangiato queste o altre canzoni. (7/10) Marco Boscolo
Carmelo Amenta - I gatti se ne fanno un cazzo della trippa (Seahorse Recordings, Maggio 2012) Genere: cantautorato Musica ombrosa e scarnificata: in una parola, blues. Carmelo Amenta arriva all’appuntamento con il secondo disco rinnovando una scrittura che nell’esordio L’erba cattiva del 2010 aveva mostrato invece un efficace vena elettrica, pur attratta dai significati profondi tipici del cantautorato. Si sfronda idealmente il parco strumenti, ci si attorciglia alle chitarre acustiche e ai toni intimisti, 86
si preferisce un cantato quasi sussurato eredità pesante del Cesare Basile dell’ultimo periodo (Storia di Caino, Sette pietre per tenere il Diavolo a bada) e che respiri un po’ dappertutto: dall’iniziale I gatti se ne fanno un cazzo della trippa ai chiaroscuri da drumming spazzolato di Frammenti, alla filastrocca di Per i vermi siamo tutti uguali. Tanto che le parentesi più intriganti finoscono per essere quelle che non ti aspetteresti: i Bachi da pietra di un brano come Ciuf Ciuf, le declinazioni jazz di episodi come Coriandoli e polvere, i suoni essenziali ma sognanti di Aria. Spaccati musicali obliqui, meno legati alle formule consolidate - a testimonianza, anche i cinque brani dell’EP allegato -, figli di una strada personale che tende al minimalismo e alla fine convince. Rimane qualche dubbio sui testi: meglio aveva fatto L’erba cattiva in termini di essenzialità del messaggio e sviluppo. Qui si respira, in qualche caso, un’eccessiva verbosità - il confronto naturale e inevitabile con la poetica tagliente di Basile non aiuta - che cozza con le ruvidezze di una parte musicale, invece, perfettamente a fuoco. (6.5/10) Fabrizio Zampighi
Cast of Cheers - Family (Schoolboy Error, Giugno 2012) Genere: wave pop Piccoli wavers irlandesi crescono. E’ il caso dei quattro ragazzi che si propongono al mondo sotto la ragione sociale di The Cast Of Cheers. Dopo un disco autoprodotto e diffuso via bandcamp, ecco il primo lavoro “professionale” della loro carriera. L’attesa dei media anglosassoni è stata stemperata da singoli come l’ipercinetico e infarcito di chitarre wave Family e Animals, che hanno il pregio di sembrare tagliati a modino per l’airplay. L’ambizione è quella di costruire un sound che concili le chitarre secche e taglienti dei Gang Of Four e l’arty rock dei Battles. Dei primi, però, non hanno un’oncia dell’afflato ideologico, dei secondi manca il cerebralismo cubista. Siamo più che altro di fronte a una versione più Futureheads dei Franz Ferdinand, tutti marcette e svisatone synth per darsi un contegno. Nel complesso, però, bisogna riconoscere che il giocattolo tutto sommato funziona. Nella totale derivatività della proposta, a fare la differenza è qualche buona melodia come Human Elevator, o il ritmo spezzato che avrebbe fatto la fortuna di una band sgonfiatasi come i Maxïmo Park di una Goose. Una volta avremmo detto collegewave-pop. (6.5/10) Marco Boscolo
Alt-J - An Awesome Wave (Infectious, Giugno 2012) Genere: Alt-art pop Si chiamano Alt-J, ma potete chiamali anche ∆ - delta o triangolo se preferite - ovvero il simbolo che su Mac è il risultato della combinazione dei tasti Alt e J. Già dal nome è chiaro che siamo di fronte ad una band che ragiona guardando avanti, captando le microrivoluzioni concettuali della musica degli anni dieci: per entrare nel cuore degli indie-kid è ormai superfluo cercare l’hit da indieclub, è necessario piuttosto ricercare e sperimentare senza perdere di vista la fruibilità del prodotto. I banchi dell’università di Leeds hanno fatto incontrare questi quattro ragazzi stanziati a Cambridge che, dopo il promettente EP Matilda/Fitzpleasure, pubblicano il debut An Awesome Wave su Infectious. Con i Wild Beasts come padri tutelari, gli Alt-J mettono in scena un frullato incredibile di influenze che arrivano sia da Inghilterra che USA. Si potrebbe chiamare in causa la presenza dei cori e di alcune armonie folkish dei Fleet Foxes - Bloodflood, Ms - scalfite da strofe soul-hop/white r&b (Breezeblocks, Matilda... forse l’apice melodico del disco), di synth-drop corposi (lo stacco di Fitzpleasure), di un post-tutto con piccole dosi di elettronica a fare da collante, di saliscendi Everything Everything, senza però riuscire a descrivere fedelmente quanto mettono in campo - con una sicurezza disarmante per una band al debutto - Joe Newman e soci. Proprio l’eccentrica vocalità di Joe Newman - da non escludere una futura carriera solista pop/soul - è il valore aggiunto dell’Alt-J sound, capace com’è di muoversi abilmente tra generi e tonalità differenti e di arricchire ritmiche arty figlie in parte dei Radiohead mid-00s. Nonostante i riferimenti più o meno velati (e probabilmente anche forzati), la proposta degli Alt-J suona già oggi unica, personale, difficilmente inquadrabile e allo stesso tempo ipoteticamente di successo. Simbiosi perfetta tra sperimentazione e gusto pop, un concetto che in un mondo ideale sarebbe alla base della musica mainstream del futuro (leggasi Grimes). (7.1/10) Riccardo Zagaglia
Chains Of Love - Strange Grey Days (Manimal Vinyl, Giugno 2012) Genere: garage-shoegaze Tutto nasce nel Little Red Sound di Vancouver: Felix Fung, chitarrista, produttore nonché proprietario dello studio suddetto decide di mettere su una formazione al femminile sul modello delle The Ronettes e chiama a raccolta alla voce Nathalia Pizarro e alle armonie Rebecca Marie Law Gray. In testa il Phil Spector dei fifties/sixties, un asse ritmico in puro stile Motown (Steve Ferreira alla batteria e Brian Nicol al basso, mentre alle tastiere c’è Henry Beckwith) e un’estetica aggiornata all’hipsterismo attuale. Fuor di metafora, i soliti The Jesus And Mary Chains richiamati dagli echi clautrofobici del cantato, dal beat ruvido ed essenziale, dalle chitarre sporche e slabbrate. A fare da contorno una bruma psichedelica rubata a certi sixties stoned - per intenderci, quelli delle Electric Prunes di I Had Too Much To Dream Last Night o del Kenny Rogers di Just Dropped In (To See What Condition My Condition Was In) -, ché se di retromania si deve
trattare, almeno sia di quella più giocosa, riconoscibile e popular. Una volta identificati gli antecedenti, il gioco dura giusto il tempo di un paio di ascolti, tra l’ineluttabilità blues del singolo He’s Leaving (With Me) e le Crystals richiamate da All The Time. Un po’ perchè la voce piuttosto monocorde della Pizarro di soul non ha praticamente nulla, un po’ perchè tirando le somme, la formazione canadese si limita alla didattica applicata. Tolta la fedeltà didascalica ai modelli, insomma, rimane ben poco: forse solo le atmosfere dreamy di un pezzo come la title track. Tanto vale, allora, recuperare gli originali, rinunciando alla coolness un po’ posticcia tipica degli esperimenti da laboratorio. (6.2/10) Fabrizio Zampighi
Chewing With Gusto - Chewing With Gusto Vol.1 (CWG Recordings, Aprile 2012) Genere: electro-psych Italiani all’estero che uniscono le forze? La storia è simi87
le a quella di Walls/Banjo Or Freakout. I Chewing With Gusto sono infatti il risultato dei Chewing Magnetic Tape, siciliani - al secolo Fabrizio Bandini, Enzo Mazzuca e Giovanni Romano - non nuovi a collaborazioni ad ampio spettro (Fovea Hex, Graham Lewis degli Wire), e Gusto Extermination Fluid, ovvero Paul Taylor, un producer e musicista elettronico. Fatte le dovute presentazioni, è tanto difficile inquadrare lo spettro sonoro in cui si muovono i tre (+ uno) quanto facile lasciarsi trasportare da quello stesso flusso. Esoterismo dark-psichedelico in battuta bassa, stando all’opener A Way (reminiscenze Coil e procedere malinconico) o a Zhoovo Loe Pt.2 (sorta di trip-hop infernale da grey area impreziosito dal canto alieno di Zuki Ki). Musica lenta e suadente come un montare di marea ma il cui retrogusto industriale ed esoterico, misto alle atmosfere notturne e ’pagane’ con cui Taylor ha ripensato e rivestito alcune prove precedenti dei tre italiani (la citata Zhoovo Loe, Section Dub e Sunset) e modellato le nuove, assume quel senso di alienante alterità che non stanca affatto. Le derive post-techno-dub con voci subacquee di Softcore e le atmosfere dreamin’ malvagie di Lights reiterano il processo di fusione tra composizione ’rock’ e rielaborazione elettronica, suonando stordenti per equilibrio e finalizzazione. Il romanticismo alieno della conclusiva Sunset - una murder ballad trasposta sul lato oscuro della Luna? - conclude un lavoro che sorprende e stordisce, opera di una formazione di outsiders cui è difficile dare una collocazione. Sorprendere e spiazzare dopotutto è ciò che si chiede oggigiorno. (7.2/10) Stefano Pifferi
Christian Alati - An Elephant Into This Building (Canebagnato, Maggio 2012) Genere: folk strumentale La cosa più difficile, in dischi strumentali come questo, è evitare di trasformarli in una dimostrazione di autismo autorizzata dalla necessità di provare a sé stessi le proprie virtù solistiche. Per fortuna non è il caso di Christian Alati, uno che fin qui ha realizzato ottimi lavori con Don Quibòl, suona nei Gatto Ciliegia contro il grande freddo e scrive colonne sonore. Ecco spiegata, allora, la capacità di far interagire tutti gli strumenti coinvolti in An Elephant Into This Building nella maniera migliore, pur partendo dalla chitarra acustica: una visione musicale comunque ad ampio raggio messa in pratica grazie a un disco che unisce approccio roots (evidente anche nella title-track) e aromi folktronici ’artigianali’ (riposta in un angolo l’elettronica, brani 88
come Where Is The Turntable, Nine Billion Marks o Automatically In The Water Now sopperiscono con una serie di automatismi tra batteria, pianoforte e sei corde che richiamano, comunque, quell’immaginario). Suoni spaziosi, puliti, perfettamente miscelati e in bilico tra tradizione americana (Cathodic Resistance scoperchia un blues ripetitivo e allungato) e modernità di approccio (i contributi concreti alla voce), capaci di creare itinerari melodici ben riconoscibili e quasi narrativi. Materiale che con il passare degli ascolti, guadagna in spessore e credibilità. Il disco lo trovate in free download - per il formato digitale - nella pagina Bandcamp dell’etichetta (e temporaneamente qui sotto), ma il consiglio è di procurarselo in formato fisico, non foss’altro per i bei disegni di Caterina Pinto. (6.9/10) Fabrizio Zampighi
Corpus Christi - II (Jeetkune, Febbraio 2012) Genere: Prewar folk E’ un gran bel lavoro questo II dei Corpus Christi, al secolo Cristina dei Capputtini ‘I Lignu, Tina degli Intellectuals e il banjoista americano Sam Crawford. Il motivo è semplice: II è un disco che parla di e con il linguaggio prewar americano (sui generis dell’antologia di Harry Smith) ma è capace anche di raccontare qualcosa di diverso, ovvero quel senso di vuoto e perdita legato alla tradizione che a partire dai racconti di Raymond Carver - non per niente citati nel booklet - arriva dritto dritto ai giorni nostri. E così alle giornate passate tra bivacchi e falò si aggiunge inevitabilmente una componente noir, ed è un qualcosa che affascina: basta un kazoo in West Virginia Gals o un synth in Poor Alfredo per piombare tra gli spettri di un mondo che non c’è più, salvo poi riesumarne la memoria attraverso il banjo di Willwood Flower o della disaster song The Cyclone Of Rye Cove. Pungono nell’intimo questi piccoli momenti rubati alla vita rurale americana (vedi la ninna nanna di I Know A Little Girl), oltretutto raccordati in maniera eccellente da qualche breve passaggio strumentale: il carrillion settecentesco di Sophia, la strimpellata bagnata di Astrid, il finale per violino di Elodie, tutto nel segno di un old time che diventa sempre più caleidoscopico. Alla resa dei conti è quasi un peccato che il disco duri venti minuti scarsi, ne avremmo acoltati volentieri almeno il doppio. (7.3/10) Stefano Gaz
Aucan - Black Rainbow Remixes (La Tempesta International, Aprile 2012) Genere: electro-step Che gli Aucan siano uno scalino sopra molti gruppi italiani lo si era capito dall’arcobaleno nero dello scorso anno. Oggi il trio bresciano torna a proporre le tracce di quella bombetta in una compilation di remix (liberamente scaricabile qui) che ha dell’ottimo potenziale per indagare il suono dell’elettronica degli anni ‘10. Il suono sintetico è usato infatti per costruire nuove trasversalità che per un lungo attimo sembrano prescindere dal rock, pur conservandone l’amore per il groove e il ritmo. Si va infatti dal rap mutante in ricordo cLOUDDEAD/Antipop Consortium di Storm (con il carichissimo featuring di MC Dalek), al nu-metal peso tagliato col fidgeting (Away! con l’ex voce degli Asian Dub Foundation Spex) passando per l’electro immaginifica di paesaggi accostabili al dubstep-ambient della recente Hyperdub (Save Yourself remixata dagli Ambassadeurs), visitando le stanze electro-progressive che chiamano in causa da una parte Four Tet (Underwater Music) e dall’altra echi di Burial (Red Minoga). Il tutto si completa infine con il dub Photek-iano di Scorn (che remixa la titletrack) e la grazia nipponica di Cécile (Embarque) e di Shigeto (Blurred). Ologrammico e mentale, lo spostamento di camera che muta l’originale (sono solo 3 su 11 i pezzi autoremixati dagli stessi Aucan) è azzeccato e in qualche modo necessario per cogliere le possibilità messe sul tavolo dal trio. Il gruppo non si focalizza su un’unica idea e respira con i preziosi contributi internazionali arie diverse, mondi blacktronici su cui puntare per il futuro. Posizionandosi su una linea che eredita le visioni dell’hip-hop alternativo americano e degli esperimenti caleidoscopici di Mike Patton, Dassenno D’Abbraccio e Ferliga propongono un massimalismo sonico deciso, che conserva una cupezza di fondo ammaliante e personale, fortunatamente non troppo ancorata alla lezione londinese del dubstep-wonky Rustie-ano. Per ora uno dei migliori mix di electro-alt-hip-nu-rock dell’anno. (7.5/10) Marco Braggion
d’Eon - LP (Hippos In Tanks, Giugno 2012) Genere: New Age synth-pop d’Eon è, come Grimes e Purity Ring, parte della nuova scena di musicisti elettronici con gusto per l’esoterismo a base Montréal. Lo abbiamo conosciuto lo scorso anno grazie a Darkbloom (in split proprio con Claire Boucher), ma Palinopsia, l’esordio in sordina, era datato 2010. A quell’EP dal corposo minutaggio (poco meno di un’ora) fa seguito il presente LP di ben 77 minuti a portare avanti un ideale tutto rivolto allo stressare al massimo le capacità del supporto fisico. Il primo full-lenght del canadese è carico delle versioni più raffinate ed elaborate delle componenti, sia soniche che testuali, delle precedenti release: synth New Age e hook electro-pop a scontrarsi con pattern ritmici che vanno dalla moderazione ambient-like ai jungle breakbeats (Signals Intelligence), la produzione full-spectrum e la cantilena chill ma passionale di Peter Gabriel (Now Your Do), le continue allusioni naïve a mode orientali, fede e rituali echeggianti il periodo speso in meditazione in un monastero sull’Himalaya. È tutto un déjà vu ma pure il punto focale della musica di d’Eon, artista che
cerca le variazioni attraverso le ripetizioni. Queste possono essere sottili, ma la ricchezza di dettagli e la quasiipnotica densità dello spettro sonoro permettono al metodo -esemplificato ottimamente nel mixtape Music For Keyboards Vol.II, composto da 14 arrangiamenti di What’s My Age Again? dei Blink 182- di funzionare su larga scala. L’unicità di LP risiede a livello concettuale: filo conduttore fra le tracce è il grave disagio causato dal consumismo moderno, dal razionalismo leggero e non filtrato dell’era digitale che intrappola ad un profilo Facebook o alla comunicazione via iPhone. Al contrario dell’approccio alla tematica sarcastico e proiettato in leggera approssimazione del futuro del compagno di label James Ferraro (Far Side Virtual, 2011), d’Eon filtra il proprio attraverso un inedito, serioso romanticismo da XXI° secolo, cerca risposte e liberazione per vie artistiche in uno stato redentore di spiritualità autonoma. Emblemi del concetto sono i due momenti migliori, Chastisement (“If I have access to everything digitized, then why am I looking for a scripture’?) e Al-Qiyamah (“If we’re stuck in here, what happens on Judgement Day?”), mentre altrove (Transparency Pt. II, Gabriel Pt. I) il disco non è musicalmente forte a sufficienza per 89
Blues Control - Valley Tangents (Drag City, Giugno 2012) Genere: avant-kraut Lo avevamo capito già durante la loro apparizione filo-cosmica al Live Arts Week di Bologna di quest’anno, insieme a Laraaji - e ancor di più ascoltando FRKWYS Vol. 8, il frutto su disco della loro collaborazione. Se dopo Local Flavor la strada era segnata, a meno di cambi di direzione repentini, ormai sembrava certo che i Blues Control volessero uscire fuori dal tempo noise per sposare la linea krauta. Ma Valley Tangents - quinto lavoro del duo, primo sulla sempre più accorta Drag City - è uno scrigno di densità di idee e mondi stupefacente, che non pensa solo ai Popol Vuh ma raccoglie i frutti di ventanni di parentele tra musica ’colta’ e rock. Suona metà con la trascendenza delle progressioni del rock tedesco dei primi Settanta, metà con il piglio furbetto del jazz modale che si avvicina al jazz rock. Love’s A Rondo e Iron Pigs, prime due tracce delle sei, mettono in campo un metodo di costruzione esotico e dosato, tanto pensiero dietro la musica, ma anche le percussioni di Tatsuya Nakatani, iperprolifico auto costruttore di pelli di Osaka. Ciò che a prima vista sembra easy-listening è un complesso gioco di filtri che fanno guardare il mondo con gli occhi delle avventure musicali di Terry Riley. Non una parentela strutturale, musicologica, ma un sentore straniero da tutto come un ’cammello a Parigi’ (Walking Robin). L’improvvisazione e gli episodi di assolo volutamente manualistici di cui è cosparso Valley Tangents sono soprattutto frutto della tastiera-pianoforte di Lea Cho che della chitarra di Russ Waterhouse, che quando emerge torna inevitabilmente in terra tedesca. Il duo resta un punto di riferimento per la capacità di ibridare quelle tradizioni oblique con l’ambiguità lo-fi dell’approccio sporco, oleoso, deliberatamente non trasparente della messa a sistema degli effetti sonori (espressione più fedele di strumentazione). Per poi non dire che bastano due note (quelle di A Love Supreme di Coltrane?) per accompagnare il monologo finale di Gypsum, pianoforte ’giapponese’ e semplice batteria anni settanta. Per chi scrive, un album che potrà rimanere molto in alto, nelle classifiche e nei mesi. (7.4/10) Gaspare Caliri
reggere il discorso e finisce per farne pesare la mole. LP resta comunque uno sforzo interessante, un ascolto obbligato per chiunque sia interessato alla pop music contemporanea ed al suo attuale contesto sociale. (7/10) Massimo Rancati
Dent May - Do Things (Paw tracks, Giugno 2012) Genere: beach chill-pop Dent May è una di quelle icone di culto che vivono perennemente sul filo immaginario che divide la genialità dal ridicolo. L’avevamo lasciato con un ukulele in mano nel debutto The Good Feeling Music of Dent May & His Magnificent Ukulele e lo ritroviamo ora in una nuova veste per il sophomore album Do Things. L’amichetto degli Animal Collective si libera dell’ukulele e si sdraia sotto sulle spiagge californiane - nonostante canti “Don’t want to move to Southern California” in Home Groan - e cerca di cullare l’ascoltatore in un post acid trip decisamente sunshine. 90
I Beach Boys sono, ovviamente, il punto di riferimento più evidente che scorre lungo le dieci tracce del disco. Laddove i sapori sixties lasciano spazio a sprazzi di modernità si va a lambire territori funky-chilly/glo-fi (Fun, Don’t Want Too Long). Anni ‘60 rivisitati in mentalità post-’80s con l’andazzo di chi, dopo una giornata passata abbrustolirsi, si trascina a fatica verso il primo beach-bar per l’aperitivo al tramonto. Spazio anche per l’old-times ballad Do Things e per Find It, dove Dent May ricorda alla lontana Damon Albarn in versione psychedelic pop. Come un Panda Bear meno sperimentale e looposo, il Dent May di Do Things si concede a modo suo allo svacco estivo e scrive poco più di mezz’ora di suggestioni da bagnasciuga che non fanno male a nessuno, soprattutto in queste giornate afose. (6.5/10) Riccardo Zagaglia
dEUS - Following Sea (Autoprodotto, Giugno 2012) Genere: noir rock Abbiamo già detto come e quanto i dEUS abbiano già dato, e si accontentino di perpetuarsi all’insegna di un mestiere più che dignitoso, ben rappresentato dal recente discreto Keep You Close. Sorprende tuttavia che la nostra band belga preferita abbia confezionato un altro disco fatto e finito nel volgere di pochi mesi, confessando oltretutto che trattasi di tracce avanzate dalle sessioni precedenti, troppo convincenti (o troppo poco malvage) per lasciarle ad ammuffire per i canonici due anni tra un lavoro e l’altro. Considerando poi che c’è un tour estivo da pasturare, ecco servito al gentile pubblico Following Sea, album lungo numero sette in diciotto anni di attività. Ora, sarà che appunto il mestiere è diventato il baricentro espressivo di Barman e soci, metti poi che certe evoluzioni pindariche ti restano sia pure a livello omeopatico nel DNA, insomma va a finire che con la sua mancanza di pretenziosità, con la sua dichiarata vena interlocutoria, è una raccolta che si fa ascoltare. Mancano le idee soniche (si ravvisa un più marcato estro electro, comunque più arredo che sostanza) e le intuizioni compositive che ti facciano imbizzarrire ventricoli e sinapsi, certo, ma quello in cui si cimentano è sempre convincente, senti che pesca dal pozzo delle cose putride e struggenti, ha il passo delle situazioni che accadono giusto sotto il palcoscenico. Nella sua ovvietà funky, Girls Keep Drinking arriva dove i Red Hot Chili Peppers non riescono più da un bel pezzo. Quatre Mains sciorina talking in francese come un trip noir di Gainsbourg infervorato wave. Gli arabeschi ghignanti di Fire Up The Google Algorithm sono una lama Afghan Whigs con l’affilatura scabra. Hidden Wounds si aggira sorniona tra mollezze trip-hop ed electro-dark, mentre One Thing About Waves è un ballatone dei loro - inquietudini e trasporto - screziato di vampe sintetiche quasi Japan. Finché la leggerezza dell’approccio insomma non svacca in episodi come il poppettino-soul di Crazy About You - troppo ansiosa di limonare con gli airplay radiofonici per non suonare fuori luogo - ci si può stare. Se poi fra un pezzo e l’altro vi viene da rimpiangere Worst Case Scenario, ok, siete stupidini, ma siete perdonati. (6.5/10) Stefano Solventi
dfb - Daniele Faraotti Band - Canzoni in salita (Bombanella Records, Luglio 2012) Genere: Art Rock La dfb, acronimo che sta per Daniele Faraotti Band, è
un trio bolognese capitanato da Daniele Faraotti, cantautore, chitarrista e compositore d’esperienza con alle spalle importanti collaborazioni (Patty Pravo, Claudio Lolli). Con Canzoni in salita, in uscita per la Bombanella Records, la dfb si muove con rinnovata consapevolezza nei multiformi territori dell’art-rock arginando certe dispersività di un esordio - Ciò che non sei più (Alka record, 2008) - che ai tempi rappresentò un po’ l’ambizioso manifesto artistico del gruppo. Il disco colpisce subito, fino a disorientare, per la quantità di risorse messe in campo: ogni canzone è un’unità complessa, un mondo generatore di altri mondi plasmati da una creatività senza briglie che abolisce schemi e ritornelli in favore di sperimentazioni compositive di generi, ritmi e sonorità. Sbottonato - Vivace 135 in apertura dà l’imprinting a ciò che seguirà: inversioni ritmiche e controtempi, orgie di strumenti e ritmi (i fiati latineggianti di Carmensita in Kawasaki, i violini del divertissement Tram Golem, gli spettrali theremin di Melanconia 2) e citazioni seminali di band ispiratrici (i Beatles di Hello, Goodbye/I’m The Walrus in Uh Mani, la Faust Arp dei Radiohead in Melanconia 2). Rimandi colti disseminati qua e là (La sagra della primavera di Stravinskij in Le cose, l’innesto di Bach sul fingerpicking di Radioarmadio, un haiku del poeta Junichiro Kawasaki in Carmesita), mescolati con intelligenza a riferimenti più pop (la Down Town di Petula Clark in Sbottonato - Vivace 135, il noto carosello del caffè in Carmensita in Kawasaki) perfezionano la cifra stilistica del cantautorato della dfb, figlio di un’attitudine prog-rock à la King Crimson, intellettuale ed esteta, deciso a destrutturare ogni certezza, anche linguistica (il non sense di Tram Golem, i nipponismi di Sakura, il dialetto romagnolo in Radioarmadio). Con questo secondo album, la dfb sperimenta coraggiosamente percorsi ’in salita’, alzando la temperatura quasi fino alla massima entropia. Il risultato è un bel lavoro fuori dagli schemi, che rivela a chi non ha paura di bruciarsi la propria ricchezza ascolto dopo ascolto. (7.2/10) Viola Barbieri
DIIV - Oshin (Captured Tracks, Giugno 2012) Genere: guitar-(dream)pop I DIIV sono la band di Zachary Cole Smith, il (fake)biondo chitarrista dei Beach Fossils. Il nome originario del progetto era Dive, un nome-tributo al brano dei Nirvana che malauguratamente apparteneva già all’omonima band industrial belga. L’amore per Kurt Cobain è evidente soprattutto a livello di immagine - Zachary sembra faccia di tutto per somigliare a Kurt - ma an91
Cooly G - Playin Me (Hyperdub Records, Luglio 2012) Genere: house/dubstep Merrissa Campbell, da Brixton, South London, giocatrice semiprofessionista di calcio, meglio conosciuta come la dj, produttrice e vocalist Cooly G, è una che ha le idee chiare. Al contrario dell’altra ragazza di casa Hyperdub, Ikonika, che ci ha praticamente mandato a quel paese quando le abbiamo chiesto cose a riguardo, Merrissa rivendica con fierezza il proprio ruolo di prominent female in un giro decisamente maschio come quello dell’underground dance UK. Le idee Merrissa le ha chiare anche e soprattutto per quanto riguardo la definizione e la collocazione della propria musica: “deep house tribal dubstep vibe”. Si sente figlia della tradizione UK Funky, che con lei prende le forme clubbistiche di una deep house “al tempo del dubstep”: nel senso che Cooly non fa dubstep guardando alla house, ma esattamente il contario. Pezzi come la splendida, ormai classica, Love Dub (2009) spiegano questa prospettiva meglio di tante parole. Con alle spalle produzioni e release almeno dal 2008, anche accanto a big come Mala (che aspettiamo al varco dell’LP, se mai arriverà) e outsider di lusso come DVA (un primo album sulla stessa linea di Cooly, ma con r’n’b e grime come estremi del continuum; assolutamente ricco di ottimi spunti, ma un po’ troppo embrionale nel suo voler essere a tutti i costi omnicomprensivo), Merrissa per l’esordio lungo sceglie la soluzione di fino e punta tutto su un impatto non tanto sonoro-produttivo, quanto atmosfericoevocativo. Di dubstep ci sono le scansioni e le scelte timbriche legate alla componente squisitamente ritmica (molto ben esposte ad esempio, per parossismo, nell’ossuta What Airtime), ma il resto sono affondi in una ambience house fatta di tempi rilassati (i pezzi non partono mai davvero) e atmosfere chiaroscurali, di un intimismo misterioso (particolarmente Trying). Modi in qualche modo paralleli a quelli con cui Deniz Kurtel e Amirali stanno trattando la materia electro - invece che dubstep - per definire la propria maniera house. Le tastiere in delay di pezzi come come Come Into My Room e la soulness che trasuda dai vocals - e dalle lyrics - di pezzi come Landscapes (sono due pezzi splendidi), le cadenze reggae “sotto” di Sunshine e il pathos disco/romantico di Trouble spiegano questa prospettiva meglio di tante parole. Il footwork, nuovo “dialetto di koiné” per i producer più sul pezzo, e se vogliamo, in tal senso, nuovo-dubstep, si affaccia nei loop samba di It’s Serious. Debutto lungo non esplosivo questo di Cooly G, anzi piuttosto - volutamente - trattenuto (solo nella title track, sul finale, affiora certa cattiveria grime-Terror Danjah), giocato tutto in sottrazione, ma decisamente maturo e autorale. Nonché possibile volano per remix dancefloor da paura. (7.3/10) Gabriele Marino
che in una certa indolenza che traspare a livello musicale e attitudinale.Come nel caso dei Beach Fossils, la scena è ovviamente quella dei Brooklyn e l’etichetta di riferimento è la Captured Tracks. Nell’album di debutto Oshin, Zachary Cole Smith e compagni si tuffano e si immergono in un mare di riferimenti appartenenti al periodo compreso tra il 1985 e il 1990: i The Wake (tra l’altro ristampati su Captured e coverizzati dagli stessi Beach Fossils) svuotati della componente synth, i ritmi C86, melodie dream pop, 4AD-sound fino a derivazioni shoegaze e jangle-pop. Guitar-pop etereo e ovattato, caratterizzato - molto più rispetto alla main band di Zachary - dall’abbondante spazio riservato a lunghi melodico-ossessivi giri chitarristici: le ariose linee vocali spesso fungono infatti da semplice contorno in un contesto che fa della nostalgia 92
riverberata il suo punto di forza. Spiccano il singolo di lancio How Long Have You Know che racchiude l’essenza del disco in poco più di tre minuti, le qui rivisitare Sometime e Human - già presentate nel periodo Dive - e gli intrecci sonori di Doused, mentre forse convincono meno quando rallentano i ritmi come in Earthboy. Derivativo dalla testa ai piedi ma altrettanto gradevole. Non solo, nonostante siano ancora abbastanza monocorde, rispetto a tante band alle prese con un certo tipo di revival, i DIIV sembrano avere personalità da vendere, tanto da ritagliarsi uno spazio importante all’interno di questo 2012 all’insegna del dream pop. (7.1/10) Riccardo Zagaglia
Diva (ITA) - Il paradiso su Retequattro EP (Autoprodotto, Maggio 2012) Genere: wave pop La retronostalgia è un albero complicato dai frutti dolciastri che, se maturi al punto giusto, si fanno apprezzare dai palati più insospettabili. C’è il problema della post-modernità che, diciamolo, ha rotto ampiamente le palle, ma l’entusiasmo dell’approccio può ancora fare la differenza. Un prostrarsi per la causa con sferzante languore. Raggranellando tutta l’empatia possibile in un gioco basato sostanzialmente su pose ed espedienti, i Diva da Padova sostanzialmente ci riescono. Sembrano dei cuginastri dei Baustelle con più Righeira che Human League nelle sinapsi, più Mina che Tenco, più figurine Panini che Cattelan. Esordiscono con questo ep di sei tracce così composto: una Il paradiso su Retequattro in versione disco wave 80’s infarcita di trash senziente citazionista, chorus adesivo/ ossessivo che gli basterebbero cinque passaggi giusti per sbranare airplay; il giochino sferzante e psicotico vagamente anni Zero di Narciso lava i piatti, affilatura Franz Ferdinand ammorbidita Belle And Sebastian; la disco-glam sfrontata di Autostop, cover languida e ruvidella da un orginale di Patty Pravo; il dub wave sordidello con chitarra eniana di Un uomo, una donna, peccato per il ritornello un po’ piatto. A ciò si aggiungano le versioni alternative di Narciso lava i piatti (quasi smithsiana) e Il paradiso su Retequattro, quest’ultima in guisa piano-voce in punta d’apprensione cotonata come fecero appunto i Righeira - lo vedi? - con L’estate sta finendo. Ho la sensazione che ne sentiremo parlare. (6.8/10) Stefano Solventi
DJ Rashad - Teklife Vol. 1: Welcome To The Chi (Lit City, Giugno 2012) Genere: Juke “La base che grida necessità di evoluzione”, dicevamo recentemente sul juke dei pezzi grossi di Chicago, e dire che già l’ultimo Traxman i suoi passi avanti li faceva, intesi come eclettismo in grado di svariare tra i generi suonando funk o r’n’b. DJ Rashad invece rimane quello meno tollerante agli strappi alla regola: il suo juke è sempre originario ed essenziale, il più vicino alle radici del ghetto e dei balli da strada. Quello che esplicita meglio la peculiarità del footwork come nuova cosa di questo decennio, i ruoli invertiti tra ritmica e voce, dove il tempo lo dà il campionamento martellante e tutt’intorno drums, bass e synth fanno da coprotagonisti di spalla. E rispetto a Just A Taste anche Rashad si è dato la sua
ripulita. Teklife è meno esasperato, si controlla e punta in venti tracce a chiudere un cerchio che rappresenti il riferimento statuario dell’evoluzione juke firmato Rashad e Spinn: solito citazionismo colto che passa dal soul (il tocco virtuoso di Feelin’ You) alla techno (Walk For Me, dalla Swims di Boddika e Joy Orbison, è uno spettacolo) insieme ovviamente a tutto il ghetto rap possibile (puntuale l’autocelebrazione We Trippy Mane), bassline sibilanti a dare altezza agli spazi (guardate lo spettro di frequenze di We Leanin’ o Welcome To The Chi, quelle bassissime son sempre in cima) e pattern ritmici dilatati a disorientare le tempistiche (in Over Ya Head ci son tutti, da quelli tranquilli a più compulsivi). Trattasi della vetrina allestita sul suo sound personale, e l’unica pecca complessiva è una visibile rigidità che fa sì che le tracce si aprano quasi tutte allo stesso modo. Piace vedere i pezzi che spezzano lo schema, come la tempesta acida di iPod, la furia di beat di Fly Spray, le velocità su melodia armonica di CCP, ma esporre un giro di 72 minuti fatto su poche e poco variegate intuizioni roots significa farne una questione da puristi, funzionale agli aficionados ma poco aperta a chi sta fuori dalla community. E non è ciò di cui il genere ha bisogno, soprattutto adesso che inizia a non essere più una novità. (6.5/10) Carlo Affatigato
DNTEL - Aimlessness (Pampa Records, Giugno 2012) Genere: indietronica Storicizzando la lezione pseudoambient di Aphex in un modo che non ha nulla a che vedere con le nuove voci dell’UK Bass, il quinto disco di Dntel ti fa sentire vecchio. Vecchio, sì: in media con quello che l’uomo Figurine ci aveva già fatto sentire, Tamborello ricrea mondi, suoni e pattern che pescano - ancora una volta - dal serbatorio di Boards Of Canada, Richard D. James, Mùm, Tarwater, e da tutto il mescolone folktronico di inizio Duemila quando si ibridavano rock e IDM e i Radiohead patrocinavano dall’alto. Ascoltato oggi DNTEL è un progetto incartapecorito ed essenzialmente conservatore, che però viene citato dai giovani massimalisti inglesi (Rustie o Slugabed tanto per fare due nomi). Affidandosi al tedesco DJ Koze (il disco esce su Pampa) si potrebbe pensare che il Postal Service si sia agganciato alle geometrie precise della krautedine da dancefloor, invece grazie anche ai featuring di Nite Jewel (Santa Ana Winds), Baths (aka Will Wiesenfeld, nuova voce della Anticon) e ai samples dei Popol Vuh (Paper Landscape), Jimmy porta a casa un lavoro che come dice il titolo non si prefigge uno scopo e che non va da 93
nessuna parte. Anche se ha una produzione stellare, lo dimenticheremo dopo qualche ascolto. (5.5/10) Marco Braggion
Fabio Orsi - Von Zeit Zu Zeit (Backwards, Maggio 2012) Genere: industrial-kosmische Non poteva che essere Fabio Orsi a inaugurare il catalogo Backwards, label italiana nata dalle ceneri di altre esperienze fondamentali per lo sviluppo di certi suoni come A Silent Place. Il vinile limitato - già esaurita la prima tiratura e pronta la ristampa, anch’essa limitata, in vinile arancione - ci offre due estatiche progressioni droning di matrice industrial figlie di una session live registrata a Berlino con synth, chitarra e filtri e poi lasciata sedimentare e rieditata sul finire dello scorso anno. Siamo dalle parti dell’acclamato Wo Ist Behle?, a cui Von Zeit Zu Zeit è vicino per genesi e sensibilità: roba oscura, magmatica e materica, in perenne crescendo e in cui, però, spariscono i rimandi al pregresso del tarantino. A farla da padrone è dunque una kosmische fredda e oscura, estremizzata nel suo essere costruita su stratificazioni montanti e dai risultati totalmente ipnotici. Le due intese tracce di muovono su coordinate droning estatiche e fluttuanti, è il caso di Von Zeit, o ingrigite da colate di atmosfere dark-industrial, in cui fanno capolino minacciose nubi alla Deutsch Nepal (Zu Zeit col suo ’percussivismo’ sottotraccia) lasciando presagire nulla di buono fino allo sfiorire su lande quasi ambient. Forse il buon Orsi ha introiettato definitivamente l’humus mitteleuropeo della adottiva Berlino? (7/10) Stefano Pifferi
Fargas - In balia di un dio principiante (Snowdonia, Giugno 2012) Genere: narrativa, rock Dopo cinque anni di silenzio, i Fargas ricompaiono in gran forma sulle scene della musica d’autore italiana con un progetto ambizioso. L’idea è quella di dare alle luce quattro dischi, uno per stagione da qui all’anno che verrà, lavori nei quali sarà contenuta la produzione in studio di questi ultimi cinque anni. Potremmo definire i Fargas l’ennesimo gruppo che sperimenta qualcosa che ormai non è neppure più definibile come sperimentale: quella musica narrativa che non ricerca il matrimonio perfetto e pop tra il testo e la musica. In questo primo episodio In balìa di un dio principiante, la musica ignora il concetto di tappeto 94
sonoro facendosi asse portante e insieme caleidoscopio di un eccezionale lavoro sulla parola. I testi di Luca Spaggiari sono tra i migliori in cui possiate incappare. Ispirati e cesellati, faticano naturalmente a farsi tutt’uno con un sound ugualmente ricco e capace di porsi in primo piano. Da episodi che ricordano il lavoro de Le luci delle centrale elettrica - per vocalità e incedere, non certo per scelte narrative - fino alla meravigliosa e quasi pop Dolce amica, i Fargas raccolgono tanta lunga tradizione italiana: dalla vocalità del primo Vasco Rossi a quella di Rino Gaetano, passando per una autorialità romana che arriva fino alla prima produzione di Francesco De Gregori. Dimenticate quell’idea di narrazione accompagnata da sound di chiara derivazione post rock e immaginate un suono diffusamente 70s, confuso o schiarito tra chitarre rock e armonica a bocca. Intendiamoci, non siamo davanti a canzoncine di facile assimilazione ma abbiamo finalmente testi da imparare a conoscere ascolto dopo ascolto, assieme a una materia musicale altamente stratificata. (7/10) Giulia Cavaliere
Filastine - Loot (Post World Industries, Aprile 2012) Genere: ethno beats Grey Filastine incarna un po’ l’idea che possiamo avere oggi di nomadismo e di engagismo artistico. Losangelino di nascita, a Seattle fonda la Infernal Noise Brigade, collettivo/marching band attivo nel circuito delle proteste no global (la cosiddetta battaglia di Seattle, 1999), gira il mondo per studiare musiche e ritmi (è stato a lungo in Marocco), prima di stabilirsi definitivamente nella cosmopolita Barcellona. Il primo album, Burn It (2006), prodotto e pubblicato sotto l’egida dello spirito affine Dj Rupture, ne scopre lo stile fortemente terzomondista, ma senza facili oleografismi: grime cantato in spagnolo, hip hop croccante (Palmares) innervato di breaks (Crescent Occupation), seppiato (The Last Redoubt), imbevuto di etnicismi dal feel jazzato (Judas Goat), un mood perfettamente sintetizzato da un pezzo come Dance of Garbageman. Il secondo album, Dirty Bomb (2009; sempre sulla Soot di Rupture), intriso di umori apocalittici fin dal titolo e dalla copertina, oltre che nei suoni, continua il discorso con più occhio al dancefloor, tra electro e fidget. £oot/Loot è un terzo album breve ed essenziale, come sempre per Filastine lavorato in punta di stilo, e forse qui anche più che in passato. Sulle basi del retaggio illbient, che ce lo fa mettere per certi versi in parallelo con Raz
Dargen D’Amico - Nostalgia Istantanea (Giada Mesi, Giugno 2012) Genere: StreamOfRap/freeform Dire che con Dargen siamo stati prudenti è un eufemismo: siamo stati duri, gli abbiamo sempre spaccato il capello in quattro. Ma lo abbiamo fatto per il suo bene. E siamo pur sempre quelli che a un certo punto hanno detto che un suo disco era, nello spazio interstiziale tra distacco critico e innamoramenti privati, uno dei dischi dell’anno. Chi ha orecchie da intendere, intenda. Oggi Dargen è una superstar, l’uomo giusto nel posto e al momento giusto. Dopo che Zingo lo ha dischiuso come solo lui sa fare e fino allo sfinimento, dopo l’ammirazione di Jacopo Incani/Iosonouncane, di Prete Criminale dei Klippa Kloppa (“è degno di stare accanto ai classici come Battisti e Dalla”), di Morgan, ovviamente di Fibra (“è quello che scrive meglio”), guru intoccabile per i suoi fan che aprono pagine su Facebook tipo Le Migliori frasi di Dargen D’Amico e lo chiamano poeta e genio, il profilo che ne viene fuori è uno e trino, se non divino, sicuramente Cerbero: comunicatore (videodiarista e brillante imbarazzatore di intervistatori, lo sappiamo per esperienza diretta), imprenditore di se stesso (la collezione di occhiali specimen nascondiocchi lanciata un anno fa), un tipo consapevole (gli dicono geniale ma sa bene che “oggi i ragazzi se apprezzano un paio di scarpe dicono geniali ‘ste scarpe, geniale ’sto bus che va da capolinea a capolinea”). Le parole insomma sono importanti e D allora è soprattutto un artista, capace di regale a chi è entrato anche solo un pizzico oltre la superficie della sua poetica emozioni vere. Annunciato da mesi e per mesi procrastinato (anche e soprattutto per curare la pubblicazione su Giada Mesi dell’esordio del supervocalista Andrea Nardinocchi), Nostalgia Istantanea ha spiazzato tutti per il formato, due pezzi lunghissimi, uno di 18 minuti (messo in streaming su Rockit), che chiameremo A, uno di 20, che chiameremo B, messi in vendita su iTunes e in un costoso vinile limitato. A e B sono le due facce della stessa medaglia. In entrambi, immagini e parole si accumulano come in un infinito freestyle, e alla fine l’ingolfamento è abbacinante, un flusso di coscienza propiziato dal sonno (Dargen il furbacchione parla di narcolessico), con rime e giochi di parole come sempre in grande spolvero (fino al finale di A, che spiega la natura mistica e tuttologa del pezzo con l’equazione: bibbia + enciclopedia = enciclopedio). In A Dargen è apodittico e poetico-sloganistico, più del solito (prende per il culo alcuni luoghi comuni), aiutato in questo anche dai bpm bassi, senza momenti al fulmicotone, con la musica co-firmata dal fido Emiliano Pepe tra certo minimalismo funky battistiano solarizzato e un insinuante pathos soft electro. A è un divertissement dichiarato e viene fuori come un esperimento ben fatto, assolutamente godibile, docile, ideale da sentire in un viaggio in auto da soli di notte (è un complimento). B ne è il rovescio, la sua trasfigurazione espressionista, deformata, selvatica, drogata. Senza troppi giri di parole, è uno dei capolavori di Dargen, che sapeva di potere azzardare e ha azzardato, se non il suo picco assoluto (sicuramente il suo picco - pardon - sperimentale). Come a dire - visto forma e formato - la sua Sister Ray, la sua Miss Fortune, la sua Moon in June, il suo Lumpy Gravy. Nel rabdomantico vagare del testo si può isolare un nucleo onirico-carcerario originario, ma poi dentro c’è di tutto, per la serie “mettimi una musica che ti dico tutto quello che mi passa per la testa”. Ma il vero grande scarto è la musica, una free form psichedelica, forse anche post-rock, firmata dal solo D, tutta frullati e vortici, arranchi e rilasci. Il risultato è un pezzo visionario, che per chiuderlo in una definizione ci vorrebbero tutte le caricaturali espressioni zingalesiane. Ecco, vanno bene tutte. Stavolta alziamo le mani e ci arrendiamo, seguiamo il consiglio del saggio, raccogliamo i petali ma senza analizzarli troppo. Dargen prende il volo con un Giano bifronte che può fare ancora proseliti: bimbiminkia, pentiti del rap, rappofili e indie. Adesso D può dire le sue cose anche a chi prima non lo seguiva. (7.5/10) Gabriele Marino
Mesinai/Badawi (anche per il forte sapore arabeggiante delle produzioni), il focus restano la contaminazione e la ricerca timbrico-percussiva: potremmo chiamarlo ethno-dubstep o più genericamente ethno-bass. E se
un paio di numeri non sono altro che ottimo artigianato (una passeggiata nel souq, Shanty Tones), intermezzi o volani per remix forse anche ravey (Lost Records), altri sono semplicemente delle perle, grandissime prove di 95
compiutezza produttiva ed efficacia comunicativa, capaci di costruire con sottili trame percussive ordite in incisi strumentali memorabili (Skirmish, Circulate False Notes, Spectralization) scenari in cui seduzione (la scampanellante Colony Collapse, con la vocalist indonesiana Nova) fa rima con tensione (l’inno da stadio ma con addosso lo smoking - tribal - Informal Sector Parade, la caracollante Sidi Bouzid, dal nome della città tunisina epicentro della “rivoluzione dei gelsomini” del dicembre 2010). Da incorniciare anche l’unico pezzo non scritto da Filastine, lo splendido remix della già splendida Juniper degli Y La Bamba, “eclectic indie folk pop band from Portland”, gioioso inno di attivismo panteistico ed ecologista, uno di quei pezzi che può valere una carriera. Dal vivo Grey suona con le bacchette della batteria un carrello della spesa, mentre su uno schermo scorrono immagini-collage che fanno a pezzi il consumismo neoliberista. Ma quel carrello lo fa suonare, eccome. Ecco, che bello se la musica “di protesta” avesse tutta questo profilo e, soprattutto, tutta questa qualità dietro e dentro. (7.3/10) Gabriele Marino
George FitzGerald - Child EP (Aus Music, Giugno 2012) Genere: House, Techno Nella serie di uscite che abbiamo apprezzato l’anno scorso mancava in effetti il volto più dritto ed esplicito che George FitzGerald sa offrire dietro la consolle. Fa piacere dunque vederlo concentrato nell’eppì di ritorno su Aus, con quattro tracce sfrontate e inattaccabili fatte ad hoc per il club: Child è la bomba tech-house dalle rifiniture di pregio, con quei groovebass killer e quei giochi vocali di precisione millimetrica che non possono non infiammare il pubblico in pista, Lights Out e Hindsight il risvolto techno dal profilo più duro e minimale per la fase calda della notte e Unilateral la ripresa del cerchio deep house, ideale per la distensione di fine set. Discesa negli inferi e risalita in meno di mezz’ora: il talento londinese maneggia alla perfezione tutti i meccanismi formali che girano intorno alla dance, colpendo duro sia alla testa che allo stomaco. Che botto farà nell’album in arrivo? (7/10) Carlo Affatigato
I Mostri - La gente muore di fame (Goodfellas, Maggio 2012) Genere: rock, garage I Mostri vengono da Roma, hanno raccolto discreta 96
fama nella loro città e sfornano oggi, sulla lunga distanza, un disco d’esordio che, già nel titolo, porta con sé la scelta programmatica. Una scelta che tocca gli aspetti sociali della città capitolina, prima, e dell’intero Paese poi. Trentacinque minuti di chitarre elettriche, citazioni ska, brit-pop della meglio generazione, con i quattro romani che stendono sul lettino le psicosi e le smanie di una città che vive da alcuni anni un clima di terrore e disagio, che si adagia sulla monotonia della vita quotidiana, che accetta troppo passivamente i luoghi comuni: ’La gente muore di fame’ è, appunto, uno di questi. I punti più alti delle (sole) nove tracce del disco sono la canzone-manifesto Questa è la mia città, in cui, su ritmi Nineties d’oltremanica, si denuncia il crollo sociale e culturale dell’Urbe; Cento lame, intensa rilettura di un (brutto) brano dei Fratellis, guadagna in profondità e armonia; Camilla e Piazza Trilussa, con le loro chitarre aspre e sempre pungenti, sorprendono l’una per la disinvoltura, l’altra per l’accurata analisi di un fenomeno tutto metropolitano: la monotonia. Certo, il cantautorato di scuola romana non è più quello degli anni Sessanta, e, certo, I Mostri non hanno l’abilità nella scrittura dei loro concittadini I Cani, complici una certa autoreferenzialità e un briciolo di piattezza nei contenuti. I meccanismi tuttavia, sono ben rodati e il disco scivola via con gusto. (6.4/10) Nino Ciglio
iamamiwhoami - Kin (Cooperative Music, Giugno 2012) Genere: electro art pop Viral viral viral e ancora viral. Erano i primi giorni 2010 e su forum e blog musicali non si parlava d’altro: all’improvviso iniziarono a circolare videoclip caricati su youtube a nome iamamiwhoami, nessun’altra informazione se non le atmosfere oscure, le figure distorte e i titoli enigmatici (figuriamoci, si era in piena LOST-mania) che caratterizzavano le composizioni audio-visive del misterioso progetto. Le ipotesi più disparate - e disperate - parlavano a rotazione di un nuovo progetto dei Goldfrapp, di Fever Ray/The Knife, Björk e perfino di dive tra$h-pop (Lady Gaga e Christina Aguilera) in cerca di una improbabile redenzione artistica. Insomma vinceva chi la sparava più grossa. Qualcuno poi inizio a fare il nome di Jonna Lee all’epoca semplice cantautrice svedese di scarsa fama - e nonostante le prime smentite, nel dodicesimo video (t) Jonna decise di mostrare il suo vero volto, mettendo la parola fine ad ogni tipo di speculazione. Il 2012 del progetto iamamiwhoami è iniziato con il
Dirty Projectors - Swing Lo Magellan (Domino, Luglio 2012) Genere: exotic folk pop Una piccola rivoluzione nel momento più strategico, con le proverbiali affinità elettive tra i progetti a schiumare in modo spontaneo salvo far emergere sostanziali differenze e ambizioni. Parliamo di Dirty Projectors e Vampire Weekend, nel senso, di un songwriting al centro e di un’esotica pop che si piazza oggi in una perfetta convergenza parallela tra le velleità di David Longstreth e il successo planetario di Ezra Koenig, un tempo sassofonista e turnista proprio negli sporchi proiettori. Fermo restando la passione per la musica africana e un’idea di colore/istinto/freschezza applicato alla melodia già ai tempi di Bitte Orca (e che tutt’ora lo accomuna all’amico), Longstreth riprende, asciugandoli al sole, gli umori folk respirati lungo l’intera esperienza DP, sostanziando melodia e scrittura. Rimane l’anima free, ma mai come in queste canzoni il prefisso s’è fatto dettaglio di produzione o sfumatura (l’intonazione di certe strofe, la microfonazione degli strumenti appresa dall’ex produttore Chris Taylor dei Grizzly Bear, la scelta d’utilizzare dei vecchi trucchi da albori della stereofonia e molto altro). Uno splendido esempio è il singolo Gun Has No Trigger: canto che dici vagamente David Byrne, crooning e shouting da memorabilia 60s, poi le solite coriste, prima tra tutte Amber Coffman (Angel Deradoorian non ha parteciapto al disco), un nuovo batterista dal passato hardcore Mike Johnson, automatico a mimare un breakbeat e Nat Baldwin felpato al basso sotto a tutti gli strumenti, in un dinoccolato jazz-funk. E’ un ideale singolo per l’estate di una formula capovolta eppure coerente, ricca di rimandi al recente passato: sul lato più farcito abbiamo l’opener con gli inserti di chitarra garagista e il sing’a’long afro nell’attacco, in quello più asciutto un gioiello pop prezioso chiamato About to Die per clapping, tamburellare leggero e un’aria davvero vampireweekendiana. Con un posizionamento ideale per sdoganare (completamente?) il progetto dopo illustri collaborazioni (Bjork e David Byrne), Swing Lo Magellan trova una via naturale per proporsi a un pubblico più ampio e trasversale senza rinunciare a una cifra stilistica che, da Rise Above in poi, comprende guizzi prog (Just From Chevron), shouting d’antan, gusto texturizzato per le percussioni (uno dei liet motiv della produzione) e interventi operistici (qui nascosti come segreti, ad esempio, in un’altra chicca: la ballad elettrica - ma unplugged - Dance For You, con archi, chitarra e drum machine). La canzone per eccellenza del disco è indubbiamente Impregnable Question con l’immancabile controcanto della Coffer. Miglior album dei Dirty Projectors per chi scrive. (7.4/10) Edoardo Bridda
video di mezzo minuto kin 20120611, una sorta di trailerpromo - con tanto di release date già fissata - per l’album di debutto Kin. Da quel 1° Febbraio ad oggi sono stati caricati altri nove video. Una sequenza di brani che ritroviamo intatta - anche nell’ordine - all’interno di Kin: Sever, Drops, Good Worker, Play, In Due Order, Idle Talk, Rascal, Kill e Goods. Nove tracce scritte e prodotte da Jonna Lee e Claes Björklund che già hanno fatto proseliti tra gli utenti di RateYourMusic. Punti di riferimento abbastanza chiari: scuola electropop svedese (The Knife su tutti), art pop al femminile post-Bjork (per non dire post-Kate Bush) e vellutose aperture trip hop/downtempo (Portishead). Si tratta di un disco valido, ben prodotto, con intuizioni molto interessanti (Sever, Kill e Idle Talk) ma che proba-
bilmente, ragionando esclusivamente a livello musicale, oggi farebbe fatica ad emergere all’interno di una scena che negli ultimi tempi - attendiamo con ansia i Purity Ring - sta raggiungendo la saturazione. L’intero progetto visuale-mediatico-2.0. invece crea un precedente ed incorpora come poche altre cose l’evoluzione del music business ai tempi di Internet. Con un po’ di fortuna - e meritocrazia - potrebbe diventare un punto di riferimento negli anni a venire. (7.1/10) Riccardo Zagaglia
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Ikonika - I Make Lists EP (Hum + Buzz, Luglio 2012) Genere: Synth, Step, House Mentre l’onda dubstep classica può ormai dirsi defunta, i suoi reduci possiamo raggrupparli tra quelli che ancora sopravvivono grazie a uno stile personale netto e distinto (Kode9, Skream, Shackleton), quelli riversatisi su filoni di tutt’altra caratura intellettuale (Vex’d, Boxcutter) e i non pervenuti nel quadro delle trame evolutive (a parte il già discusso Burial, stiamo ancora aspettando Benga). Ikonika non era certo una big del filone, ma era proprietaria di uno dei sound più caratteristici, cristallizzato con quel Contact Love Want Hate che nei ragionamenti dubstep tirava a lucido il midollo più nostalgico della chip music, la parabola 8 bit che abbiamo largamente approfondito l’anno scorso. Tornata alle stampe con un EP di 6 tracce sulla sua Hum + Buzz, la ragazza sembra seguire l’idea che del nuovo dubstep ha mostrato Pinch nel suo ultimo FabricLive, dunque una durezza ritmica più marcata e la liberazione delle prerogative dance: in un generale tripudio di groove sintetici che da sempre caratterizza lo stile di Ikonika, I Make Lists affonda a pie’ pari nei meccanismi step per club, mentre Take Pictures e Catch Vibes riflettono un classicismo 4/4 vicino agli anni ‘90 e With Your Mouth ritorna a tratti proprio al sentire bleep’n’bass di LFO e dintorni. Eppure i pezzi più efficaci rimangono quelli meno fuori schema, PR812 che carica euforia ritmica per valorizzare i giri synth e Cold Soaking, un gancio di oscurità, spazi e tinte thrilling che graffia al contatto. È il ritorno ufficiale dopo l’album, e suona finalmente ferrato e preciso, meno peculiare forse ma valido adesso su un piano più generale. Oltre al talento ora c’è autocoscienza e confidenza col mestiere. (7/10) Carlo Affatigato
Il sogno il veleno - Piccole catastrofi (Red Birds, Giugno 2012) Genere: ..... Francamente ha del commuovente questo amore profondo per l’Italia sparita. Un amore per il dolore onesto ben distante da quello mediatico e per le cose come stanno, una certa purezza umana che ci sembra difficilissima da trovare oggi e da recuperare nella memoria. Siamo la generazione artistica del vagheggiamento, inchiodati al sogno di glorie emotive smarrite, persi nelle bramosie d’amore per un mondo felliniano o da nouvelle vague francese. Tutti figli, per nostra volontà e di certo non per sua, di un Pasolini a cui forse faremmo schifo. Il sogno Il veleno è un progetto musicale dalle volontà 98
intellettuali ambiziose, formalmente costruito su bobine e lo-fi, perfettamente rispondente alla domanda sognante di cui quassù. Un sogno musicale sinceramente e genuinamente ancorato a un universo retrò perlopiù 60s. Il qui presente disco è un progetto musicalmente eterogeneo, per nulla pretenzioso dal punto di vista della produzione e diviso equamente tra ballate quasi sussurrate (Le cose importanti, Comizi d’amore), pezzi scanzonati contemporanei - quelli per intenderci del filone scuola Brunori Sas come Il tram, Favole, Viola - e pezzi vicini al Capossela wannabe Waits (Bistrot, Storia quasi d’amore), fino a un unico episodio strettamente rock: Signora in foulard nero. Registrato da Paolo Messere (Blessed Child Opera) e ricco di volontà autorale dalle influenze intriganti, Piccole catastrofi si muove però in un terreno eccessivamente scivoloso per una scrittura di fatto ancora divisa tra diversi afflati e spinte e, nelle linee, decisamente immatura. La bellezza di trovare un pezzo intitolato Paese sera che vuole essere omaggio più che sfoggio si disperde in segni retorici, nell’ennesimo tentativo italiano di dare voce al Pier Paolo Pasolini di Comizi d’amore. Buoni intenti, insomma, per una scrittura ancora da mettere a fuoco. (6.2/10) Giulia Cavaliere
Insooner - Caimani (Forears, Aprile 2012) Genere: Alt. rock Dopo l’autoproduzione Assemblando oceani per annegare in pace del 2010, gli Insooner esordiscono sulla lunga distanza con Caimani, uscito lo scorso 16 aprile per la toscana Forears.Il giovane trio varesino - Juan Manuel Di Stefano alla voce e al basso, Matteo Renna alle chitarre e ai cori, Gian Maria Gallicchio alla batteria e alle percussioni - si presenta con un album di otto tracce collocabile sotto il grande ombrello dell’alternative rock italiano, pur con le dovute proporzioni: nonostante sia facile avvicinarlo ai grandi nomi nostrani del genere (Verdena, Il Teatro degli Orrori, i primi Ministri), infatti, con questo Caimani il gruppo sembra avere l’intenzione di seguire sonorità più internazionali.Se con le iniziali Alluvioni e Caimani infernali il paragone con le formazioni di cui sopra pare più che legittimo - rock tradizionale incalzante e melodico in aria stoner che, anche per la visionarietà delle liriche, trova qualche punto di contatto soprattutto con la formazione di Alberto Ferrari -, con Il mare di Okinawa si devia verso i territori più sperimentali del post-grunge, grazie ad un’architettura melodica costruita su distorsioni maggiormente psi-
EL-P - Cancer for Cure (Fat Possum, Maggio 2012) Genere: prog-hop Non è possibile approcciare El-P in maniera unilaterale. Il rapper di Brooklyn è dedito ad una costante sovrapposizione di narrative che si impongono all’attenzione simultaneamente, impedendo un qualsiasi piano di lettura che non sia molteplice. Il titolo di questo ultimo album non è da meno. Cancer 4 Cure è sia una dedica all’amico Camu Tao morto di cancro ai polmoni, sia espressione della sua paranoia e della sua visione distopica-They wanna kill you, you are the cancer, you are the fucking problem canta Maline su True Story-, che il suo stesso raccontarsi. El Producto è il cancro della cura, il guastafeste, quello sempre pronto a sputare fuori il suo veleno, a rovinarsi la vita con le sue mani. Sempre pronto a ricordare all’ascoltatore che alla fine il mondo è una nave che affonda come la Costa Concordia, e allora tanto vale passare sopra tutto e tutti pur di sopravvivere. Questi sono i tre piani attraverso i quali El-P dipana il suo discorso: una narrazione distopica di una società tirannica che è sia a venire quanto già presente (il suo Drones Over Brooklyn predice sinistramente l’uso domestico dei drones di ritorno dall’Afghanistan), il discorso dell’hip hop e della cultura pop, ed infine la narrazione prettamente autobiografica. Nessuno di questi piani è fondamentale rispetto all’altro. Spesso si presentano insieme, stratificati in una unica figura come succede in the Jig is Up e Sign Here dove l’incontro e la seduzione prendono la forma di una spy story, si tingono di paranoia ma anche di insicurezza maschile, con mosse di contro-spionaggio ed il sesso viene raccontato nella forma di un interrogatorio dove la safe-word è Yes. Altre volte i piani si susseguono uno dopo l’altro senza un ordine preciso. Request Denied apre il disco con la voce Burroughs, a delineare come questo sia un atto di resistenza personale contro la società del controllo, per poi sfociare in una delle vette di lirismo più alta dell’hip hop degli ultimi dieci anni. Meline ricorda la sua infanzia quando seduto sulle ginocchia di suo padre, pianista jazz, questi gli insegnava l’armonia al pianoforte. Ci racconta come le note erano una pioggia che cadeva al ritmo degli spari e delle sirene, e come quelle corde legate ai tasti-Could relieve us of doom / Give the room some silence, stop violence. Nonostante questo non bisogna accumunare El-P all’ondata di intimismo, dalla prosa purpurea, che è stato protagonista dell’hip hop sotto la protezione dei suoi due santi Yeezy e Drake. In Oh Hail No El-P sfotte apertamente il sentimentalismo di questi artisti e si dichiara completamente ostile a questa svolta verso la soggettività della classe media. El-P è orgoglioso del suo esser ancora legato alla strada, delle sue droghe da povero (principalmente ossicodone da qualche dollaro a botta), e nella sua dichirazione di intenti dichiare che ogni suo respiro-is a criminal, critical breach, bloody guns, speech, beat minimalismo. Anche la forma di Oh Hail No è un throw back alle rap battles. El-P, Mr. Mutherfuckin’ Esquire e Danny Brown si alternano al microfono lanciando dissing ed esibendo un notevole virtuosismo della parola. Ogni strofa è meticolosamente costruita ed include complesse polisemie. Su un forum si è riusciti a contare addirittura sei possibili significati per la strofa Inspector Gadget with the ratchet. Cancer 4 Cure è un album solidissimo, al limite dell’impeccabile. Ma la sua importanza, per questo 2012, sarebbe diminuita se non si menzionasse il suo essere in compagnia di due altri album: R.A.P. Music di Killer Mike e Machines that Make Civilization Fun di Bigg Jus. Questa triade mostra, soprattutto considerato l’impatto sulla critica, un riassestamento che è in atto all’interno della musica indepipendente e come l’hip hop, dopo anni in sordina, sia ancora una volta rilevante. (7.4/10) Antonio Cuccu
chedeliche.Gli otto minuti di Giuda (uno dei pezzi più convincenti dell’album) invertono ancora le atmosfere con il loro acido incedere baustelliano, in un ben riuscito equilibrio wave-prog impreziosito dal violino di Nicola Manzan/Bologna Violenta. La velocità ritmica di Icaro nel fango richiama le influenze stoner dell’apertura,
mentre la conclusiva Istantanea della fine, introdotta da voce e pianoforte, chiude il cerchio con accenti più intimi rispetto al resto del disco, protagonista sempre la melodia.Nel complesso, gli Insooner mettono insieme un lavoro il cui pregio maggiore è quello di cimentarsi con un rock familiare (o usurato, in certi casi), mante99
nendo però sempre alta l’attenzione dell’ascoltatore. Un buon debutto per questi tre giovani, in attesa di sentirli anche alla prova live. (7/10) Giulia Antelli
James Blackshaw - Love Is The Plan, The Plan Is Death (Important Records, Maggio 2012) Genere: folk E’ naturale che Blackshaw cerchi da tempo di allargare lo spettro espressivo della sua musica giocando per lo più ad ampliare la tavolozza della strumentazione, anche se questo tipo di percorso ci sembra diventato ormai sterile. La figura del chitarrista solitario che gioca con le infinite tonalità del fingerpicking cominciò a stargli stretta quando fece il grande passo nel roster della Young God con The Glass Bead Game. La stanchezza di un disco come Love is the Plan, the Plan is Death si spiega quindi con uno studio estenuante sul lato formale alla ricerca di non si sa bene cosa, forse di una nota acuta di piano nel fraseggio svagatamente jazzy di And I Have Come Upon This Place by Lost Ways - con guest vocalist Geneviéve Bealieu dei Menace Ruin - o nella brutta coppia di Yann Tiersen che ci viene servita con The Snows Are Melted, the Snows Are Gone. Altra cosa quando Blackshaw posa la mano sulle corde della chitarra. Siamo pur sempre distanti dall’intensità di dischi come Sunshrine e O True Believers che qualche anno or sono, insieme a Raag Manifestos di Jack Rose, portarono alla riscoperta di Robbie Basho, ma non si può certo dire che brani come Her Smoke Rose Up Forever siano alla portata di chiunque. Eppure, tutto suona un po’ troppo automatico per uno come lui. Blackshaw ha ormai bisogno di voltare pagina, di trovare un percorso che lo riporti indietro. Magari alla semplicità dell’esordio Celeste, riletta con la maturità del professionista. Sembra facile a dirsi ma da realizzare è piuttosto difficile, considerato anche che le ultime scelte vanno esattamente nella direzione opposta. (6/10) Antonello Comunale
JK FLESH - Posthuman (3by3, Giugno 2012) Genere: heavy dubstep Dopo l’aggiornamento sonico dell’ex Napalm Death Mick Harris nel 2007 con Stealth (in minor misura il successore Refuse; Start Fires), un altro membro della storica formazione di Birmingham esce allo scoperto con un progetto analogo, a fondere il solito quadrilatero 100
industrial-ambient-metal-noise alle battute spezzate di casa Digital Mystikz e Hyperdub. JK Flash è la bestia nera di Justin Broadrick. Un moniker che a dir il vero, a punteggiatura variabile - J. K. Flesh, J.K. Flesh, JK. Flesh, JK.Flesh - avevamo già incontrato negli anni 90 e primi 00s sotto svariate etichette - dalla Earache alla Mille Plateaux, da Matador alla City Slang - ma che ora soltanto emerge sotto il profilo dubstep e UK Bass. Posthuman è un album che suona esattamente come lo s’immagina: un succo di Godflesh, Techno Animal e Final aggiornati ai Duemila. La buona notizia è che il disco è solido tanto nelle parti anthemiche (le bombe Dogmatic e Idle Hands) quanto nei bordoni più technoindustrial (Earthmover con Broadrick in death grunt) o nelle pieghe più notturne (l’half step di casa Distance richiamato nella titletrack). Inoltre, la tracklist, imbastita con molta testa e artigianato, alternando stasi a drop o groove, viscere della terra e immaginario da zomby movie (Knuckledragger con le chitarre ambient, Punchdrunk dai connotati più tipicamente ambient death-metal) sa essere varia e avvincente. Non c’è niente che suoni come un riempitivo o una furba smaltata ai suoni che furono. Un Broadrick rinvigorito e galvanizzato che suonato a volumi esagerati è ancora più coinvolgente. (7.1/10) Edoardo Bridda
Joy As A Toy - Dead As A Dodo (Cheap Satanism, Maggio 2012) Genere: horror soundtrack I Joy As A Toy - terzetto belga composto da Gil Mortio, Clément Nourry and Jean Philippe De Gheest - nascono come soundtrack band e la missione di Dead As A Dodo è quella di musicare vecchi horror degli anni ‘70, con particolare riferimento a Dario Argento. Una scelta un po’ trita se vogliamo ma che avrà dalla propria una sicura nicchia di fan. Per tali fan il disco sarà un buon disco, a metà tra i synth dei Goblin e la schizofrenia dei Mr. Bungle (vedi Love Zombie, con la partecipazione di Stefania Pedretti degli Ovo) con uno spettro di influenze che varia dal Morricone più scuro agli ultimi Zombi. Tutti gli altri invece possono tranquillamente soprassedere e continuare ad ascoltarsi i Goblin, Morricone e Mr. Bungle, perché non c’è niente di nuovo dietro le tenebre. (6/10) Stefano Gaz
Julian Cope - Psychedelic revolution (Headheritage, Febbraio 2012) Genere: folk Psychedelic Revolution è, a detta dello stesso Julian Cope, il disco più politico che abbia mai concepito. Un doppio cd, come da tempo ci ha abituato nella sua discografia, incentrato su Che Guevara e Leila Khaled, figure simbolo delle rivoluzioni popolari occorse nel ventesimo secolo. A ben vedere è l’evoluzione di un percorso intrapreso nel 2009 con i Black Sheep, perchè già in Kiss my sweet apocalypse i due personaggi erano al centro dell’attenzione con brani che titolavano Ernesto, Che, Khaled. Siccome non sappiamo mai cosa aspettarci da quel pazzerello di Cope, diciamo subito che questo lavoro rientra nella sua discografia più compiuta, fondamentalmente un susseguirsi di ballads dipanate tra chitarra acustica, synth, mellotron e qualche fiato a corredare il tutto. Suona come uno dei migliori dischi partoriti nell’ultimo decennio. Musicalmente si ritrovano i temi tradizionali del folk inglese (la bettola vittoriana di Cromwell in Ireland, la struggente e popolare As the beer flows over me), un po’ di barocchismo vichingo (Because he was wooden) giusto per ribadire che esistesse mai un erede di Moondog lui sarebbe il primo della lista, ma soprattutto qualche graffiata degna dei tempi d’oro, che non impallidisce al confronto con i dischi storici come Fried o Peggy Suicide. Tra queste Raving on the Moor, che parte in sordina ma finisce in una spirale di ribellione e catarsi mentre fuori incalzano le esplosioni delle granate, il synth pop malinconico di X-mass in the woman’s shelter, l’ululato stonato di Roswell, o ancora Vive le Suicide, un’altra ballata dal sapore vittoriano che vive della voce carismatica di Cope. Poi ci sono i contenuti, che lo sciamano ha voluto sintetizzare così: aspettatevi storie di insurrezione, storie sulla costruzione di nuove tradizioni culturali e storie di sessimo, razzismo e specismo. Si, sia a livello intellettuale che dal punto di vista sonoro, questo è un disco che impegna profondamente l’inconscio dell’ascoltatore. In attesa di sapere cosa proporrà il lavoro gemello previsto per fine anno, Revolutionary Suicide, dategli credito. (7.3/10) Stefano Gaz
Julie’s Haircut - The Wildlife Variations (Trovarobato, Maggio 2012) Genere: pop kraut Prossimi al rientro in pista a tre anni di distanza dall’ottimo Our Secret Ceremony, i Julie’s Haircut solleticano l’appetito dei fan con un mini vinilico niente male. Ben
saldi nelle radici di un suono costruito nel corso di una carriera lunga e rispettabile, ma mossi sempre da una irrequietezza di fondo che ne mina da dentro il tutto, portando alla ricerca e alla sperimentazione. Non un fatto nuovo per i Julie’s, quello di sperimentare forme nuove e tentazioni varie nelle produzioni corte. Solo ultimamente si possono contare le collaborazioni con Sonic Boom, prima, per il 10’ N-Waves/U-Waves, e coi Mariposa, poi, per avventurarsi nell’omaggio a Nino Rota e Jodorowsky. Ora questa variazioni sulla fauna - sorta di indagine sul rapporto uomo/natura/universo - che giocano col calembour su un doppio piano. In primis, con un immaginario filosofico-letterario che gioca con rimandi e sponde citando a vario titolo o ispirandosi a Leopardi, Yeats, Keplero, Von Humboldt e (chissà?) col saggio sulla alterazione della percezione ’The Marriage Of The Sun And Moon’ di Andrew Weil. Percezione che si dilata, com’è ormai tradizione, anche sul versante musicale del quintetto, sempre in equilibrio tra strumentazione acustica e digitale. Così tra psichedelia addolcita e incalzante (Bonfire), incanto di deliqui alien(at)i tra sussurri, ritmi jazzati e languide carezze (The Marriage Of The Sun And Moon), ossessive cifre kraut-Spacemen 3 rotte da echi del passato (Dark Leopards Of The Moon) e pop cosmico e romanticamente indolente (Johannes), i cinque mischiano sapientemente trademark e tentativi di innovazione, canovaccio ormai caratterizzante e slanci verso il nuovo. Ottimo preambolo al nuovo lavoro lungo. (7/10) Stefano Pifferi
King Tuff - King Tuff (Sub Pop, Maggio 2012) Genere: Garage pop C’è da scommettere che King tuff è il disco che farà conoscere Kyle Thomas al grande pubblico. L’uomo ha già all’attivo una buona gavetta con un paio di dischi solisti, e poi collaborazioni nei Witch di J Mascis e con gli Happy Birthday, sempre in casa Sub Pop. Ora con questa nuova prova the King si sbarazza dei soliti giri psych-sixties per dare spazio alla vena più pop e cantautoriale. Sia chiaro non è un cambiamento epocale e viaggiamo di sottigliezze, eppure rimane indubbio che l’appeal di King Tuff è più commerciale ed estivo. Si trovano giri divertiti e zuccherosi replicati da Hunx (Bad Thing ma sopratutto Keep on movin’), una buona dose di vecchio rock’n’roll tirato a lucido (Strangers), e qualche passaggio più raccolto come Unusual Word. Di tutto un po’ insomma, ed ecco spiegato perché il 101
Filippo Gatti - Il pilota e la cameriera (Sunny Bit, Luglio 2012) Genere: folk rock Nove anni son passati da quel Tutto sta per cambiare destinato ad imprimersi come uno dei gioielli misconosciuti del rock d’autore (in) italiano degli anni Zero. Un’era geologica in termini di shobiz. Perciò il ritorno sugli scaffali di Filippo Gatti col secondo lavoro solista è a parere di chi scrive una delle notizie migliori dell’anno. Diciamo subito che l’ex-Elettrojoyce non delude, dimostra uno spostamento lieve ma deciso in direzione concretezza piazzando otto tracce di folk rock autorale dal lirismo asciutto e intenso. La pensosità sanguigna del Folkstudio incontra particelle minimali Americana, estro acido funk blues e spasmi power muovendosi su una linea di confine che impasta prima di separare, cogliendo sintesi sempre credibili, frutti di una calligrafia che dietro la levigatezza delle forme nasconde il piglio brusco della necessità. Il primo singolo Tutti mi vogliono quando mi va bene stempera l’impeto incalzante del primo Venditti con turbe indie, costituendo assieme a Cattivi esempi e Non sei nessuno (echi del John Martyn più ingrugnito) il trio energico della scaletta, sempre efficaci malgrado una certa semplicità strutturale che comunque non scade mai nel banale. Semplicità che nei pezzi più quieti diventa tenerezza fiera e indolenzita, a partire da Country Song (dna Will Oldham mischiato a quello di Fossati tra slide cremose, armonica e spazzole) per arrivare a Qui (riverbero magico west coast in un incantesimo basale ossessivo Jim O’Rourke), passando dalla sardonica Lettera del cantautore ai presidenti del consiglio, da una Limbo che stuzzica memorie Tiromancino e da una title track tesa e palpitante come un sentimento clandestino. Testi al solito ad alto peso specifico malgrado l’immediatezza, interpretati col timbro caldo e febbrile che ricordavamo. Potrà rimanere deluso chi (come ad esempio il sottoscritto) sperava in un (altro) lavoro meravigliosamente schivo, più incline all’astrazione che alla sensazione. Ma da un album che va al sodo con ispirazione, dimostrando talento nella cura dei dettagli e idee chiare su come vuole suonare, non si può restare delusi. (7.3/10) Stefano Solventi
disco suona più rotondo e pop, completato anche da qualche intrusione punkettina (Baby just break) e classic rock (Stupid superstar) che certifica un songwriting attestato su buoni livelli qualitativi. Per diventare la next big thing gli manca ancora qualcosa in termini di personalità, ma intanto ha posato un buon mattoncino per il futuro. (6.9/10) Stefano Gaz
Ktl - V (Mego, Maggio 2012) Genere: drone-minimal Un lungo ohm che viene dalle viscere è il modo migliore per presentare il quinto capitolo di KTL. E non solo perché la prima traccia (Phill 1) è realmente così, un drone meditativo che sembra sprigionare dal synth di un curandero. È tanto azzeccato perché prende le distanze dal metal / noise comunque occhieggiato dai primi quattro episodi della saga di O’Malley e Rehberg. E perché ci introduce al tipo di avanguardia a cui i due hanno realmente guardato per V. Quell’ohm diventa grandioso (e potrebbe figurare nel catalogo Zeitkratzer) 102
nella versione 2, co-composta con l’islandese Jóhann Jóhannsson. Ma soprattutto si divincola ed esplicita in un lavoro di studio maniacale, fatto di ricerca dei timbri e di un minimalismo mai tanto lontano dal rock e mai tanto vicino allo stress acustico dell’harsh-noise (Study A). L’ottimo livello di qualità della ricerca sonora di Stephen e Peter non è una novità. E sapere che i due hanno ponderato con tempi più lunghi del solito il nuovo disco - e lavorato in due templi come l’EMS di Stoccolma e il GRM di Parigi - non poteva che amplificare l’aspettativa. Di fatto, abbiamo di fronte il punto più alto della loro collaborazione, e a un ascolto da appuntarsi, da prendere con cura e concentrazione, almeno nei primi secondi del trip. Il resto verrà con il trasporto garantito dall’esito della ricerca dei due, che, pregio raro ma inequivocabilmente qualità di KTL, non è mai esterna alla corporeità più massiccia della musica, pur in scenari di raffinatezza inediti. Chiude la meditazione un fuori-campo: l’accompagnamento sonoro a una installazione di Gisèle Vienne, tenuta in climax costante dallo spoken teatrale di Jonathan Capdevielle.
Un ritorno all’inquietudine dell’umanità, dopo averci assordato con l’astrazione. (7.3/10) Gaspare Caliri
Laetitia Sadier - Silencio (Drag City, Giugno 2012) Genere: avant pop Due anni son passati dall’inizio del trip solitario di Laetitia, dismesso il progetto Monade e messi a frollare criogenicamente gli Stereolab (in attesa forse di un futuro più adeguato), ed ecco il sophomore Silencio a ricordarci che la cantante francese non ha voglia di consegnarsi alla Storia anzi ha qualche motivo per rivendicare attualità ai propri... motivi. Il principale è forse la particolare contingenza storica, la marea speriamo non vana dei vari “occupy” che fermentano qui e là una rinnovata critica al sistema sociale ed economico. Laetitia ci sguazza e ne fa rapimento impegnato, levigando il tutto con la consueta solennità marmorizzata di aciderie cosmiche vintage blasé. Dribblando tuttavia la trappola del monocorde che stava giusto dietro l’angolo, anzi squadernando un bel ventaglio di suggestioni: dalla bossa ruspante in un trepido luccichio Terry Riley di Between Earth and Heaven alla Nico col patema french, le vaghezze kraute e le pennellate eniane di Merci de m’avoir donné la vie; dal post-tribalismo stecchito funky à la David Byrne di Fragment pour le future de l’homme al Robert Wyatt in bilico tra Radiohead e Jefferson Airplane di The Rule of the Game, passando quindi dalle glasse spacey di Silent Spot (Badalamenti ipnotizzato Zero 7), dalla fragranza indolenzita di Next Time You See Me (un fiore malsano Cobain nel bouquet Stereolab) e dalla levitazione synth-wave con marezzature psych/downtempo di There is a Price to Pay for Freedom (and it isn’t Security). La maturità ha regalato alla Sadier - compositrice e interprete - uno spiegazzato calore, una sparsa pastosità, un tumulto sottopelle che rendono plausibili pezzi come Find Me the Pulse of the Universe (Veloso rapito dagli alieni) o la mestizia jazzy di Lightning Thunderbolt. Tuttavia le mancano (ancora) quei grammi di empatia che la liberino dal proprio castello incantato di teoremi e ossessioni. Il gioco della radical chic con le sinapsi prensili e l’erotismo differito rischia di rinchiuderla ermeticamente in una bara di vetro, assieme a quel silenzio che ossimoricamente c’invita a riscoprire come chiave per riscoprirci. (6.6/10) Stefano Solventi
Laurel Halo - Quarantine (Hyperdub Records, Maggio 2012) Genere: hypnagogica Nata 26 anni fa ad Ann Arbor, Michigan, vero nome Ina Cube (ma ci crediamo poco), Laurel Halo ha alle spalle una formazione classica - ha studiato pianoforte - e anni di esperienza in orchestre, ensemble impro e gruppi noise. Dal 2009 è attiva a Brooklyn come producer: due EP su Hippos in Tank tra 2010 e 2011 (Hour Logic, esaltato dalla critica) e poi la superjam di lusso Frkwys vol. 7, su Rvng Intl., incontro tra elettroniche, tra tradizione e contemporaneità, synthorama registrata nell’agosto 2010 assieme a James Ferraro, Daniel Lopatin, David Borden (compositore minimalista, fondatore - anno 1969 - dell’ensemble synth-only Mother Mallard’s Portable Masterpiece Co., amico personale di Robert Moog e oggi prof universitario) e Samuel Godin (compositore, sound designer, turnista per tanti artisti soprattutto black, da George Clinton a Lauryn Hill, autore di sigle tv e di jingle per colossi come la Pepsi). Kode9 adocchia Laurel e la mette nel mucchio dei nuovi volti con cui da qualche tempo sta riposizionando l’immagine della propria label. Questo 14esimo LP Hyperdub non è il magnifico compimento di un percorso difficile e accidentato (ovviamente stiamo parlando degli Hype Dean e Inga e di Ebony), ma è un buon lavoro di hypnagogica e un ottimo debutto. Introdotti dalle icastiche Harakiri Schoolgirls di Makoto Aida, ci troviamo immersi nell’ennesimo fluttuoso galleggiare tra sonno, sogni e ricordi targato anni duemilaedieci. Laurel non crea la tensione narrativa dei cugini Hype, ma sa dosare molto bene gli elementi e costruire con sapienza le atmosfere. Ne viene fuori una specie di world music amniotica e metropolitana, come un Jon Hassel sperduto tra i grattacieli e le vetrine della Grande Mela, come una Oxyegene di Jarre ripensata per la hipster generation (questa definizione l’abbiamo rubata al “Guardian”), come una Kate Bush - riferimento citato da molti e che qui esplode in uno dei pezzi più lunghi ed elaborati del disco, Carcass - ambient e dreamy messa a cantare dentro My Life in the Bush of Ghosts. Tanti ottimi bignamini hypn che restano in testa, un po’ confusi tra loro come è giusto che sia (il mantra Airsick, gli specchietti come coriandoli di Years e Joy, i Sa-Ra remixati da Cristian Vogel di MK Ultra, i palpiti di Morcom, le stratificazioni vocali di Tumor e Light + Space), e qualche intermezzo un po’ troppo esercizietto (Thaw, Wow, Holoday, Nerve), ma in fondo funzionale, per un disco che ci fa taggare Laurel non più solo come la fidanzata di mr. Oneohtrix Point Never. (7/10) Gabriele Marino
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Lazer Sword - Memory (Monkeytown Records, Maggio 2012) Genere: Modern beats È ora di riconoscere un importante merito al 2011 elettronico, ossia quello di aver consolidato un’estetica di ricerca modern beats grazie a dischi cult della nuova generazione come quelli di Rustie, Machinedrum, SBTRKT o Sepalcure. I frutti post-dubstep e post-wonky dell’anno scorso han costituito un sostrato di base capace di staccare con l’avantieri e dar l’assist allo stuolo di giovani producers di oggi quali Jam City, MYRRYRS, Submerse, Girl Unit, Duct, tutti dediti all’indagine intelligente sui nuovi ritmi senza inseguire con nettezza né ambizioni strettamente dance né alleggerimenti lato puro listening (come il soul tanto battuto fino a poco tempo fa). La Monkeytown ha a riguardo due cavalli di razza, Phon.o (prossimo al primo album) e i Lazer Sword. Di questi ultimi abbiam già apprezzato talento e inventiva nel 2010 con l’album omonimo, ma il ritorno li vede protagonisti di un piglio più sperimentale e acuto, aperto a interpretazioni ben ambiziose: un sound liquido capace sia di momenti di carica emotion come Better From U (riecco appunto il soulstep di SBTRKT) e Sky Burial (astrazioni e virogi ritmici su stile libero UK bass), sia di durezze lato electro come Point Of Return (vecchia scuola Detroit, vero, ma che grinta) e Pleasure Zone (sembrano umori deep ma in realtà è tech-house d’impronta Hotflush). Coscienza storica, eleganza ma anche senso di appartenenza all’euforia dei tempi moderni. Memory vanta anche due collaborazioni d’eccellenza, Let’s Work con Jimmy Edgar in pieno stile Majenta e CHSEN con un Machinedrum particolarmente appuntito, più un paio di spunti inafferrabili, vedi i breaks di Toldyall che tra bassline e schizzetti soul rinnovano gratitudine al footwork oppure gli spasmi incontrollati di Missed A Spot, che spezzano le catene eppure restano al loro posto, una corsa che non vuole inseguire alcuna traiettoria nota. Pura esibizione di mezzi e attitudini personali. Forse la forma non è ancora pienamente definita, ma tira aria di novità in questo 2012. (7.1/10) Carlo Affatigato
Linkin Park - Living Things (Warner Music Group, Giugno 2012) Genere: ‘00s rock fm I Linkin Park sono stati, assieme ai Coldplay, il gruppo che ha venduto più album durante gli anni zero. Dopo aver dato la mazzata definitiva alla credibilità del movimento nu metal con il best-seller Hybrid Theory - che 104
comunque era un buon contenitore di singoli - replicarono la formula con successo in Meteora. Seguì poi la U2-izzazione (che non ha risparmiato neanche l’altro nome citato in precedenza) del dimenticabilissimo Minutes to Midnight e l’enorme pasticcio - spacciato da alcuni addirittura come album sperimentale... - di A Thousand Suns, colpevole di aver fatto ulteriormente calare le quotazioni della band americana anche a livello di charts. Due anni dopo e con una macchina promozionale, fortunatamente e giustamente ridimensionata, tornano con il quinto album Living Things, prodotto in compagnia dell’ormai fidato Rick Rubin. Living Things è sotto molti punti di vista un ritorno ai territori meno impervi, quelli che hanno fatto la fortuna di Chester Bennington e compagni: melodie easy-listening, break hip-hop, chorus da mano sul cuore ed elettronica funzionale alla forma canzone. Probabilmente più coeso rispetto alle ultime due uscite, Living Things porta a zero l’effetto sorpresa: stacchi, armonie, bridge e ripartenze sono talmente rodate e prevedibili da strappare addirittura qualche amaro sorriso. I creatori di Anime Music Videos si staranno già sfregando le mani e probabilmente anche i fan apprezzeranno, ma - nostalgie a parte - chi li amava dieci anni fa ormai dovrebbe aver raggiunto un livello di maturità che inevitabilmente contrasta con un prodotto di questo tipo. Con i Nickelback uno dei più grandi rock-bluff degli ultimi due decenni. (4.5/10) Riccardo Zagaglia
Mail And Chocolate - Mail And Chocolate (Mag-Music, Maggio 2012) Genere: chamber pop L’aspetto più interessante dell’esordio di Mail And Chocolate - al secolo, Alessandra Meneghello, Silva Cantele, Elisa De Munari (già Le-Li) - è l’estrema naturalezza che dimostra nell’intercettare immaginari completamente differenti. Prendete la formazione: contrabbasso, pianoforte e chitarra elettrica per un chamber pop che, nelle intenzioni, non immaginereste poi così distante da quello di band come i Comaneci. E invece, dal punto di vista dei richiami sonori, si va a parare da tutt’altra parte, come dimostra una The Smile Anthem che cita i Sodastream e i crescendo dei Sigur Rós o una Postman in cui Jonathan Richman sonorizza Buster Keaton sul pianoforte scherzoso della Beatrice Antolini dei primi dischi. Non è tutto, visto e considerato che Pretex riesce a scomodare il punk pur rimanendo dalle parti di Carlot-ta, Chocolate Girl fa il verso ai System Of A Down
Hermetic Brotherhood of Lux-or - Ethnographies Vol II. Musèe De L’Homme Hermetique (Trasponsonic, Maggio 2012) Genere: free-noise Della folle congrega sarda facente capo alla Trasponsonic abbiamo già avuto modo di parlare. Ma ogni uscita, pur diradata nel tempo rispetto ai pirotecnici esordi, del collettivo di innominati e innominabili è degna della massima considerazione. Specie se, come nel caso di questo Ethnographies Vol. II, non si parla di un album a concetto bensì di due album distinti riuniti sotto la volta dell’indagine etno-antropologica che il collettivo sta svolgendo sulla propria terra d’origine, trasformata quasi in paradigma vivente della decadenza del mondo occidentale, affrontata trasversalmente sotto la lente distorcente della musica “industrial” tutta. Due nuovi capitoli, dicevamo: Jesus And John Wayne e And Justice For Hollywood, ovvero due (non)luoghi/stati della mente tipici dell’isola. Da una parte il deserto, dall’altra le fabbriche con in mezzo un legame apparentemente distante ma in realtà saldissimo: quello dell’essere ’antitetici fratelli in terra sarda’, vere e proprie ’cattedrali sulla sabbia’. Il primo come stato della mente, luogo di perdizione e espiazione, scenario di vecchi western riproposti nell’attualità con un procedimento che sa di quella hypnagogia oggigiorno tanto cara. Roba che si esprime musicalmente in quattro lunghissime suite d’impostazione free-psichedelica, in cui effluvi pagani e rimandi ancestrali riuniscono su un stesso terreno - sabbioso, ovviamente - Current 93 (Hyperion Sunset) e psichedelia desertica post-Morriconiana (HydrogenWhiskey, un Neil Young baritonale abbandonato da Jodorosky nelle location de El Topo), litanie spirituali che guardano ad oriente, come se gli Om fossero cresciuti tra carcasse di fabbriche e desolazione in Barbagia (Gravity Sucks), ohm malefici e ossessivi (Orbitronio). Sempre dilatato ma più radicale il contenuto di And Justice For Hollywood, per forza di cose legato ad un aspetto industriale, materico e ossessivo delle fabbriche disseminate sul territorio sardo e ricalcato sui sette peccati capitali. Musica retta sul filo rosso che dai TG arriva ai Liars, passando per Godflesh e Scorn, in cui riecheggia una versione nostrana della Sheffield cara ai Cabaret Voltaire. Roba da catena di montaggio, come nell’opener Azure Acedia - i Test Dept dei tempi andati che jammano con gli Swans di Cop o Greed? - e densa di fumi tossici come nella maggior parte delle tracce tra epiche cavalcate tribal-noise (Red Ira) e groovey (Blue Luxuria). La disillusione per uno sviluppo industriale mancato che si trasforma in archeologia invadente, il crollo dell’ideale del progresso, la decadenza visibile nel disfacimento del costruito, trova la sua catarsi nei 34 minuti della ciclopica chiosa di Yellow Avaritia, tra ambient mefitica, risuonare sinistro di sirene d’allarme, metalliche percussioni che sono eco lontano di un american dream trasformatosi in world night mare su cui scende una pioggia acida di white noise. Più che un disco, una vera e propria ricognizione nel passato/presente di una terra che, ci ripetiamo, è esempio, micro-mondo atonale e ruvido, di un sistema in overdrive e molto prossimo al collasso. Sipario. (7.8/10) Stefano Pifferi
senza usare un solo overdrive di chitarra, Set Free e Let All The Children Play riportano tutto entro i canoni di una musica da camera immaginifica e con qualche influenza post rock. In allegato, un’irruenza nei suoni senza tanti filtri che giova alla personalità ma paga pegno in termini di ricerca formale: adattare la musica da camera ai ritmi più sghembi senza perdere eleganza e creatività si può, come hanno dimostrato anche i primi Quintorigo. I Mail and Chocolate sopperiscono con una freschezza contagiosa che limita i danni - su certi arrangiamenti si
sarebbe forse dovuto lavorare di più - e rappresenta un ottimo punto di partenza. (6.7/10) Fabrizio Zampighi
Man Forever - Pansophical Cataract (Thrill Jockey, Maggio 2012) Genere: drum madness Dietro l’oscuro moniker si nasconde una personalità ben nota dell’underground americano. Man Forever è infatti il progetto (quasi) solista di John Colpitts, ai più noto 105
come Kid Millions, ovvero batterista e membro fondante dei campioni Oneida uso a trastullarsi come multistrumentista con altre band del giro cittadino (vedi alla voce Akron/Family). Pansophical Cataract, terzo album a nome MF e primo per Thrill Jockey, consta di sole due tracce, lunghissime e sfiancanti in cui il nostro mette a fuoco l’idea primigenia del progetto MF: esplorare i limiti della ’drum performance’ cercando di investigare le sfumature della musica reiterata. Missione compiuta, dato che le due tracce di cui sopra, per le quali Millions si avvale, al solito, di numerosi batteristi - Brian Chase degli Yeah Yeah Yeahs, Ryan Sawyer degli Stars Like Fleas, Greg Fox dei Liturgy - e altrettanti strumentisti - Richard Hoffman dei Sightings al basso, Shahin Motia (Ex Models, Oneida) e James McNew (Yo La Tengo) alle chitarre - è un tour de force in quella sottotraccia tribal che l’underground newyorchese ha dimostrato di amare alla follia. Vedi alla voce 77Boadrum o new tribal america tutta. Ridotte al minimo sindacale per riempire i solchi di un vinile, Surface Patterns e Ur Eternity sarebbero da apprezzare nella loro sede più confacente, ossia quella live. In cui cioè il maelstrom percussivo, reiterato e ossessivamente minimale raggiunge spesso i 30 o 40 minuti col collettivo che si amplia a dismisura, proprio come una versione ridotta dei citati happening cittadini voluti dai Boredoms. Il risultato non è quello auspicato - la ’rendition punk-infused della Metal Machine Music loureediana per sole batterie’ - ma probabilmente è il medium a troncare la modalità trance-inducing che una musica del genere può e vuole sortire. In mancanza di un live sottocasa, accontentiamoci di un lavoro che, pur partendo da presupposti diversi, ha molto in comune con le ricerche della casa madre e che si fa apprezzare anche per la coraggiosa volontà di superare il ’rock’ senza perderne di vista mai il succo e l’attitudine demistificatoria e “punk”. (6.7/10) Stefano Pifferi
Maroon 5 - Overexposed (A & M, Giugno 2012) Genere: hateful pop Si chiamavano Kara’s Flowers ed erano una sorta di power-pop band post-Weezer. Un solo album - The Fourth World - prima di cambiare il nome in Maroon 5. Nel 2002 l’album di debutto con il nuovo moniker, quel Songs About Jane esploso due anni più tardi - anche in Italia - grazie ad una sequenza di singoli decisamente azzeccata (Harder to Breathe, This Love, She Will Be Loved e Sunday Morning). Cifre enormi che non seppero bissa106
re né con It Won’t Be Soon Before Long né con il successivo Hands All Over, un vero fallimento prima che venisse ripubblicato con all’interno la terribile hit Moves Like Jagger con la partecipazione di Christina Aguilera. Rispetto ad altri nomi mainstream pop-rock/funk (Red Hot Chili Peppers o Lenny Kravitz) i Maroon 5 hanno da sempre avuto un tipo di appeal smaccatamente pop, un aspetto che viene ulteriormente esasperato nel quarto disco Overexposed. Come altri pop acts, anche Adam Levine e compagni si sono fatti aiutare sia in fase di scrittura che di produzione da svariati colleghi quali Max Martin, Benny Blanco Ryan Tedder e Shellback. Come nel caso dei Linkin Park, siamo di fronte ad una variante del concetto di boy band. Musicalmente Overexposed, se possibile, abbassa nuovamente la credibilità della band andando a seguire e in modo risibile il soldo facile: l’opener One More Night potrebbe essere un pezzo di Rihanna, Payphone è il cervello che si spegne e in Daylight vorrebbero essere i Coldplay (gli ultimi, sfortunatamente) ma l’odiosa voce di Adam non è certo accogliente quanto quella di Chris Martin (vedi anche gli o-o-oooh di The Man Who Never Lied). Ritmi uptempo a cassa dritta al limite del trash-dancepop (Fortune Teller, Doin’ Dirt), qualche smorfia black ‘80s mista a moderno soul-funk (Ladykiller) e un paio di ballads finto-malinconiche (Sad) sono gli ingredienti base di Overexposed, un disco in cui l’ormai quarantatreenne Adam Levine gioca sempre più a fare l’idolo delle teenager. Entro breve nei cestoni degli autogrill... (3.9/10) Riccardo Zagaglia
MIss O - Infection (Addictive Noise Records, Maggio 2012) Genere: Trip Hop La O della ragione sociale è Odette Di Maio, già voce dei Soon negli anni ‘90. Una volta scioltosi il guppo di Scintille, Odette è passata tra varie esperienze e collaborazioni (finendo anche nella colonna sonora di CSI Miami con i Bedroom Rockers) che ad un certo punto l’hanno portata ad incontrare il belga Jan De Block, col quale nel tempo ha creato (anche a distanza, come vuole la pratica della musica ai tempi di internet) il materiale di questo disco e il duo che ne è titolare. Rispetto alla vecchia band è sparita la vivacità pop-rock che la rendeva degna coesordiente dei Prozac + (benché fossero molto diversi), a vantaggio di un’elettronica che nei Soon compariva solo occasionalmente; eppure non siamo così lontani dagli anni ‘90.
Jherek Bischoff - Composed (Leaf, Giugno 2012) Genere: pop orchestrale Jherek Bischoff da Seattle è produttore e arrangiatore (per Evangelista, Xiu Xiu, Parenthetical Girls...), autore di soundtrack per videogames nonché bassista per i Dead Science. Uno insomma che la musica la crea con premesse e obiettivi particolari, approdando ad esiti ampiamente e diversamente pop, casomai pervasi d’immaginario orchestrale cinematografico, di quello che nella cultura USA ha spennellato celluloide fino a diventarne il naturale, immancabile riverbero. Come già accadde sei anni fa, l’uomo si è fatto prendere dal ghiribizzo di confezionare un album di nove tracce, ma diversamente da quell’omonimo esordio le canzoni hanno un titolo e usufruiscono del prezioso contributo di pregiati ospiti. Jherek sceglie l’approccio giusto alla materia, si mette abilmente al servizio di sensibilità diverse e variamente alternative (da David Byrne a Dawn McCarthy passando da Carla Bozulich a Caetano Veloso...) che conduce lungo le sontuose scenografie da lui stesso escogitate. Presenza ad un tempo immanente e impalpabile, ordisce trame dietro le quinte e conduce le danze dal piedistallo del direttore d’orchestra con un gesto solo. L’ambito musicale che ne ottiene è ricco e credibile, coeso ed affascinante, come se il campionario d’inquietudini e suggestioni che emozionava i nostri padri (e i di loro padri) galleggiasse nello stesso torbido calderone degli sperimentatori pop-rock dei decenni successivi. Ci riferiamo certo alla milonga maliarda allestita assieme a Byrne nella sontuosa Eyes, ma più ancora alle vampe languide e alle cupezze in minore di quella Blossom che sfrigola di scorie art-wave grazie anche alla calligrafia chitarristica di Nels Cline, oppure ad una Young And Lovely che incalza a passo di carica Arcade Fire (in un tripudio da brass band paradisiaca) prima d’incantarsi in una fatamorgana jazzy gershwiniana (imprescindibile il contributo vocale di Zac Pennington e della cantante e attrice francese Soko). Altrove ci s’imbatte in un Veloso che si aggira con cauta arguzia tra impressionismi romantici e disarticolazioni sintetiche quasi The Books (The Secret Of The Machines), in una Bozulich che sfoglia petali folk saturi d’apprensione come una Kate Bush fanciulla (Counting), in quella specie di power-pop cameristico - l’anello di congiunzione tra Antony e Alex Chilton? - tratteggiato con stordente leggerezza da Craig Wedren (degli Shudder to Think) in Your Ghost. A chiudere, la ieratica freakeria di Insomnia, Death And The Sea, empito Peter Hammill, tenerezza solenne Joanna Newsom e progressione marziale per l’interpretazione di una quanto mai ineffabile McCarthy (vocalist dei Faun Fables). A stare stretti è un gran bel disco di pop assieme “alto” e “altro”, ma allargando un po’ la prospettiva potrebbe persino rappresentare un episodio emblematico del sound anni Dieci, in grado di compiersi al massimo della potenza espressiva rielaborando elementi classici senza necessariamente pagare dazio alla post-modernità. Benvenuti nel decennio della neo-tradizione? Staremo a sentire (ascoltare). (7.5/10) Stefano Solventi
Il disco infatti, pur usando spesso strumenti “veri” (col piano al centro di molti pezzi, o la chitarra col tremolo), si colloca nell’ambito del trip-hop che ai tempi del primo gruppo di Odette conosceva la sua stagione d’oro, quella dei gruppi che già da qualche anno annunciavano un pezzo di revival 90s (l’attesto terzo dei Portishead, la reunion dei Lamb, o la nuova ispirazione di Tricky). La loro declinazione del genere passa dalla classicità delle iniziali In Motion e Talk To Me al pop accennato (Sensitivity), malinconico (The Girl) e riflessivo (My Wildest Time, con accenni di Morricone) con una spolverata qua e là di Rickie Lee Jones o Suzanne Vega (The
Country), alle venature quasi bucoliche di Butterfly, con l’occasionale virata del divertissement sotto forma di blues lynchiano in Night Ride. I testi intimisti e il tono generale sommesso fanno del disco una sorta di versione sonora del “grembo nettuniano” evocato appunto in The Neptunian, ossia un luogo confortevole dove ritrovarsi, coccolati da un pop delicato ed elegante. (7/10) Giulio Pasquali
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Moritz Von Oswald/Vladislav Delay/Max Loderbauer - Moritz Von Oswald Trio Fetch (Honest Jon’s Records, Giugno 2012) Genere: electro-jazz Non si ferma la macchina di Maurizio e co. Quarto disco (e secondo dal vivo) per il combo techno-meets-duband-jazz, registrato in sole quattro ore lo scorso agosto. Fetch presenta quattro lunghi pezzi jammati che confermano le capacità tecniche dei tre, con l’aggiunta del bassista ECM Marc Muellbauer (già presente in Horizontal Structures) e del musicista elettronico Tobias Freund (collaboratore fisso da Vertical Ascent) e con in più anche gli overdub di flauto, clarinetto e sax di Jonas Schoen e la tromba di Sebastian Studnitzky. Descrivere le tracce è facile: Jam è un tunnel dark ritmato dalle percussioni ostinate di Ripatti che svisa con trombe e organetti Farfisa 70, Dark è un passaggio rumoristico, incuneato su posizioni catacombali che prelude alla seconda parte del set, più votata alle reminiscenze berlinesi technoidi (Club) o tribali che siano (Yangissa). I dischi del trio stanno diventando diari live compatti, veloci e intensi. La destinazione diventa sempre più sperimentale e mima quello che Miles Davis aveva fatto dopo la svolta elettrica di Bitches Brew: chiamare a sè una cricca scelta di turnisti del momento per improvvisare e far nascere nuove idee dallo scontro di stili e poetiche musicali apparentemente agli antipodi. Là c’era la contrapposizione tra jazz e rock psichedelico, oggi il jazz viene trafitto dalle armi ritmiche del clubbing. Che questa sia una delle possibilità della musica elettronica contemporanea può anche starci, ma dopo un’ora di jam, viene un dubbio sulla longevità del documento sonoro che abbiamo davanti. Fissare su un supporto (/cristallizzare) l’improvvisazione è sempre rischioso, a meno di eccellenze. Per questo ensemble sembra più corretto andare sotto al palco a percepire le good vibrations; per il mentasm conviene tornare dietro alle consolle... (6.8/10) Marco Braggion
Mount Eerie - Clear Moon (P.W. Elverum & Sun, Maggio 2012) Genere: Songwriter Lo sguardo attonito verso la drammatica indifferenza dell’universo; il millimetrico e angoscioso spostarsi degli oggetti del quotidiano, mentre l’uomo - un uomo - resta fermo; il dubbio, poi, angoscioso, che forse siamo noi a non prestare attenzione mentre il mondo intorno vibra e respira di piccoli grandi mutamenti. 108
Phil Elvrum, aka Mount Eerie - ex Microphones, dai quali eredita il moniker recuperandolo dal titolo di un loro album - confeziona il suo lavoro più domestico e intimo. Cantautorato evoluto affollato di dettagli, spesso affogato nella lentezza, sottilmente apocalittico se si presta attenzione alle tensioni che si muovono ’dietro’ (ma anche ’davanti’, in brani come Clear Moon), in retrovie armoniche ben mascherate dai timbri affabili delle chitarre, delle tastiere avvolgenti, delle batterie mutate e ovviamente della voce leggera ma assolutamente pregnante. Molte le sfumature, pur all’interno di uno stesso pensiero. Folk rurale e malinconico nella apertura affidata a Through the Trees pt.2, tra Eluvium e Steve Von Till, ma anche tappeti liquidi e oscuri bordoni badalamentiani nascosti nella calma, come in The Place I Live e Yawning Sky; o ancora, quando le ritmiche si accentuano, ecco il Nostro passare a registri di un’avanguardia pop ricca di inquietudine e tensione (Lone Bell, House Shape). Nel complesso, laddove il precedente Wind’s Poem regalava interferenze provenienti dalla musica estrema, con distorsioni brutali a creare una frattura che si è (purtroppo?) persa, oggi apprezziamo una scrittura più a fuoco, piacevolmente tentata dalle delizie della melodia, raro convergere di grazia sonora e intensità emotiva. (7.4/10) Antonio Laudazi
Moustache Prawn - Biscuits (Piccola Bottega Popolare, Giugno 2012) Genere: Indie rock Trio pugliese vincitore delle selezioni regionali di Italia Wave 2011, i Moustache Prawn affidano il loro esordio ad una piccola - come dice il nome - realtà dei loro dintorni, più associazione culturale che vera e propria etichetta discografica. Questa dimensione locale rischia però di durare poco: il disco infatti ha tutte le potenzialità per ottenere riscontri ben più ampi, come pare stia già accadendo. Senza grosse rivoluzioni musicali o idee clamorose, i nostri mettono insieme un disco efficace. La voce del cantante, molto Casablancas anche in senso positivo (ossia nell’abilità con cui oscilla tra slacker e sorrisetto, ruvidità e divertimento), ben esemplifica ciò che i MP fanno con buona verve: un rock essenziale che oltre appunto agli Strokes (l’opener Oil, Mixer) sa guardare ai primissimi Cure (Crucus) o all’indie anni 00, in particolare a quello che si rifà al post-punk più grintoso (i cambi di tempo di Never Think So Long, primo video del disco, i Bloc Party di Aeroplane, una vaga aria generale tra Arctic Monkeys e Vaccines).
Ciò che ci impedisce di rigirare al gruppo il titolo Is This It? chiedendo appunto “tutto qui?” non è solo la disinvoltura e la spigliatezza con cui superano il già sentito, quanto certe aperture che per il futuro lasciano immaginare buoni sviluppi e allargamento della paletta: vedi una A Lucky Charm tra Lennon, Nashville e i Coral o lo psych soleggiato e pigro della conclusiva Nail Hand Wrist. Per un esordio va più che bene così. (7/10) Giulio Pasquali
Neil Young/Crazy Horse - Neil Young & The Crazy Horse - Americana (Warner Music Group, Giugno 2012) Genere: Folk rock Neil Young non può essere certo definito uno sperimentatore. Nella sua carriera si è limitato - si fa per dire - ad esplorare il proprio linguaggio sostanzialmente folk rock ed i suoi riflessi anche distorti nell’immaginario popolare, bazzicando estremi soul e punk con sporadiche digressioni noise ed electro, queste ultime a dire il vero abbastanza dimenticabili. Nei suoi ultimi lavori ci s’imbatte spesso in un piglio lo-fi che potremmo quasi definire dopolavorista, sorta di noncuranza programmatica che pone l’accento sullo zampillio ruspante del verbo rock in brusca opposizione alla professionalità standard di tanta produzione contemporanea. I risultati quasi mai sono stati all’altezza del passato, ma se non altro tradiscono un’ansia di cavalcare musica che va al sodo senza niente concedere ad autoindulgenze e narcisismi vari, e che ci ha condotti di gran carriera all’album numero 34 - !!! - firmato dall’ineffabile canadese, per l’occasione di nuovo in sella ai sempre dirompenti Crazy Horse. Con Americana però Young scopre ancora più le carte del suo gioco e ci offre una tappa nuda e cruda del suo “journey through the past”, pescando dal calderone della memoria (personale e collettiva) undici pezzi che hanno accompagnato in modi e tempi diversi la Storia - appunto - americana. Molti i pezzi definibili come traditional (una Oh Susanna irruente come una trafelata rilettura di Venus, la macabra baldanza di Gallows Pole, una ombrosa She’ll Be Coming Round the Mountain e l’innodia fiera di This Land Is Your Land con nientepopodimeno Stephens Stills ai cori...), ma anche doo wop proletari (Get A Job) e archetipi psych-folk (una intensa High Flyin’ Bird). Agli antipodi dell’impeto fracassone di Clementine e Travel On - non lontane dallo sferragliare scomposto di Ragged Glory - c’è una Wayfarin? Stranger a lume di candela, quasi a mettere l’accento sul dark side di questo carosello che è sì “funky”, come puoi sentire
pronunciare dallo stesso Neil “off the record”, ma anche grave come un controcanto a quest’epoca di crisi prima di valori che economica. Stesso spirito che anima il film A Day At The Gallery, ideato e diretto da Young (col consueto moniker Bernard Shakey), realizzato con la supervisione artistica di Shepard Fairey (l’autore del celebre poster in tricromia di Obama) e visibile sul sito ufficiale: il taglio vagamente ispirato a The Artist e le canzoni a fare sottofondo di reperti cinematografici come fantasmi di un’epopea tragica e formidabile. Operazione nel complesso interessante oltre i meriti strettamente musicali, i quali comunque testimoniano il buon stato di forma del vecchio lupo grigio. Non stupiscono quindi i rumors circa un imminente nuovo album di inediti, sempre coi Crazy Horse. (6.4/10) Stefano Solventi
Ottaven/Aquarius Omega - A4GOD (Sonic Belligeranza, Marzo 2012) Genere: cosmica È uno split tra musicisti, ma soprattutto tra mondi, che si vengono incontro e non si danno le spalle, come potrebbero senza resistenze fare i due lati di un vinile 12?. Tra la cosmica di Ottaven e il noise di dj Balli e compagnia non è un passo brevissimo. Eppure percorribile insieme, come dimostra A4GOD, vinile in edizione limitata stampato in occasione di A4GOD - An Inquiry into Eidolatria and Contemporary Drawing in Italy, progetto sul mondo dell’illustrazione italiana curata da studio Pomo di Marco Cendron e Alessandro Cavallini, responsabili anche dello splendido artwork del vinile. Di Giovanni Donadini / Canedicoda sappiamo già molte cose. Anche in Dea (lato A del disco), Ottaven ci delizia con una cosmica glitch da manuale, sorniona e a suo modo struggente. Matura come solo un coltivatore diretto, a filiera cortissima, sa creare. Equilibratissima e delicata, con una manciata di loop che si inseguono senza fretta, rimanendo poi imbrigliati nei nostri neuroni. La sorpresa è semmai Aquarius Ω, colpo di coda mistico/ironico di - Belligeranza (leggi: meno Belligeranza, versante meno crudele della label madre Sonic Belligeranza). Progetto che sarà attivo solo nel 2012, anno dell’acquario, ultima possibilità per una riconversione alla Nuova Era, come suggerisce con il sorriso sotto i baffi chi sta dietro al moniker. Ritorneranno Dal Cielo, brano che copre tutto il lato B, inizia con un collage sonico con annunci massmediali e prosegue con un tappeto pulsante di tastiere che rimanda a una versione disturbata magistralmente della cosmica di Jarre e dei divulgatori delle avanguardie dei primi Settanta. 109
Kid606 - LSDMTB303 EP (Tigerbeat6, Giugno 2012) Genere: Cosmic acid IDM Non c’è due senza tre: dopo Squarepusher e Venetian Snares è il turno di Kid606, un altro mostro sacro che ritorna dai ‘90 breakcore a rammentare ai presenti (per la terza volta) cosa significhi vecchia scuola e quanto si possa essere efficaci in suggestioni ed emozioni anche con gli spigoli intelligenti, battendo sullo stesso campo l’onda neoclassica della nuova generazione. La fascinazione dell’universo IDM è pronta per la riscoperta consapevole, ma un conto è risalire il flusso e rinfrescarsi alla sorgente, un altro è aver già determinato il corso degli eventi e lavorare ora di maestria, riconducendo quegli spunti alle nuove teorie soniche. È da un po’ che il venezuelano folle ha abbandonato le convulsioni rave di Don’t Sweat The Technics, ma mai come adesso le nuove sperimentazioni ambient son piantate in maniera così armonica nei giorni nostri. Per dire, Everything Is Business è stilisticamente una magia: ragiona per spazi halfstep, inventa lungo beats wonky, si trattiene sull’implicito UK bass e tocca le corde oscure che temiamo. Praticamente un giallo psicologico di Fritz Lang. Le tangenti cosmiche son quelle dell’induzione mentale di When Things Come Together ma hanno anche il piglio più convinto di LSDMTB303, fatta di ritmica Kuedo e intuito del Moby commerciale. Dark Archipelago poi sembra l’appendice ordinata dei viaggi sghembi dell’ultimo Last Step, quegli stessi percorsi acid emozionali portati sul giro simmetrico che ne maggiora l’assorbimento. Nemmeno mezz’ora per 8 tracce, ma gli spunti sono ovunque: prendi Temporary Revelations, che racconta le storie diverse del krautrock più ambizioso e sembra sempre sul punto di sfociare nell’emozione soul esplicita, con la differenza che Kid606 stavolta non improvvisa e tiene tutto sotto il controllo degli analogici, solleticando anche la nostalgia in I Want Her Wings e nella Vangelisiana Hood Gone Mad. La modernità eppure c’è eccome, e se chiudi gli occhi e ascolti Love Me pensi di stare nelle teorie avanzate della gioventù ipnotica postdubstep che corre tra Jamie XX e MYRRYRS. Non si è mai vecchi finché non inizi a pensarlo e quest’anno a darci lezioni di mental passion son stati tre dei cosiddetti “anziani”. Chapeau. (7.2/10) Carlo Affatigato
Una dilatazione dell’iperuranio tra quel decennio e il successivo che oggi diventa un détournement. E speriamo non rimanga isolato. (7/10) Gaspare Caliri
Patti Smith - Banga (Sony, Giugno 2012) Genere: rock Con questa fanno tre volte che Patti Smith è artisticamente rinata dopo un’eclissi di circa otto anni. Capitò nel 1988 con quel Dream Of Life che gli regalò il clamoroso successo di People Have The Power dopo il buen retiro dedicato al menage familiare. Capitò nel 1996 con Gone Again, guizzo vitalistico e rabbioso a compensare (molto) parzialmente la tragica perdita del marito Fred “Sonic” Smith. Capita oggi appunto otto anni dopo il solo discreto Trampin’, non contando la raccolta di cover Twelve che nel 2007 ci aveva semmai fatto sospettare un irreversibile inaridimento della vena. Se la comparsata a Sanremo di spalla - si fa per dire - ai Mar110
lene Kuntz non aveva innescato certo aspettative più rosee, l’ascolto di Banga - undicesimo album in carriera - si rivela invece una piacevole sorpresa. Disco lontanissimo dal sacro furore della tetralogia dei 70’s, certo, ma sostenerlo significa coglierne la principale qualità, perché pare proprio che la sessantaseienne chicagoana abbia finito di fare i conti con quei formidabili precedenti per approdare ad un dorato equilibrio tra lirismo e immediatezza, tra energia ed essenzialità. Libera quindi di non dover ricorrere alla grossolana frenesia elettrica del periodo a cavallo tra 90’s e anni Zero, sorta di tardiva infatuazione grunge liberamente interpretabile come una cortina fumogena dietro cui mascherare il fisiologico imbolsimento. Oggi la Smith - aiutata in fase di produzione dalla fidata band con a capo lo storico sodale Lenny Kaye - suona con la rilassata intensità del Tom Petty maturo, con quella capacità cioè di apparire accomodante senza smettere di sembrare rock. Le ballate hanno il passo dinoccolato e acidulo (dalle nuances balcaniche di Mosaic al caracollare struggente di Maria),
i folk giocano su mezzitoni cameristici (la solenne Seneca) oppure si spampanano con astrazioni jazz-psych (vedi Tarkovsky The Second Stop is Jupiter, morbida tensione Nick Cave tra fatamorgane Jefferson Airplane), mentre le zampate elettriche smazzano tensione ieratica (Fuji-san, pensando alle vittime del terremoto/tsunami giapponese) e strascichi blues-wave (la title track) ammiccando distorsioni quasi industrial senza perdere un grammo di coesione. Venendo al contenuto - ingrediente sempre cruciale nell’evocativo verbo smithsiano - si parte da una agrodolce meditazione sul viaggio di Vespucci alla scoperta del nuovo mondo (Amerigo) per approdare - dopo un lungo sottofinale ad alto tasso lirico (Constantine’s Dream, dedicata al capolavoro di Piero Della Francesca, scritta e realizzata in Italia assieme ai La Casa Del Vento) - alla younghiana After The Gold Rush riletta con sobria padronanza, al netto di un finale retoricamente affidato ad un coro di bambini (“look at mother nature on the run/ in the 21st century”). Nel mezzo, c’è tempo per una dedica tra il blando e l’appassionato ad Amy Winehouse (This Is The Girl) e un happy birthday non trascendentale all’amico Johnny Depp (Nine), nonché per il singolo April Fool che sciorina romanticismo affabile tardo 80’s benedetto dalla liquida chitarra di Tom Verlaine. Credo si possa dire che dei tre ritorni suddetti questo è il più convincente. (6.9/10) Stefano Solventi
Polysick - Digital Native (Planet Mu Records, Giugno 2012) Genere: Retro-future ambient Staremo peccando di sopravvalutazione, ma ad osservare la recente serie di uscite Planet Mu tra Kuedo, The Host e Last Step sembra di scorgere una traiettoria particolarmente ambiziosa: la definizione di un neoclassicismo colto che serva da direttiva prospettica per la nuova generazione, uno storicismo raffinato che non è solo riscoperta cosmic, ambient o acid, ma più in generale funge da base stilistica di riferimento per i ventenni di oggi, come a voler colmare un vuoto nella coscienza storica dei giovanissimi che si son persi i ‘70 più nobili. La new entry Planet Mu Polysick è un producer romano già avvistato su Strange Life e 100% Silk e rientra benissimo in questo discorso: l’amore per il classico investe stavolta la fase nascente house (tra le tangenti acid di Transpelagic e le ambizioni ambient di Taito), il culto per le ambientazioni sviluppato dalla vecchia scuola cosmic (Lost Holidays, Gondwana) e le smanie intelligent più a portata di mano (Drowse, Loading..), il tutto ovviamente
riproposto in chiave personale, con un particolare assetto minimal/abstract che sboccia in Tic-Tac Toe, certe propensioni droniche (Meltinacid) e una cura certosina del mood sghembo e misterioso che oggi fa tanto cool (Caravan e Preda le più intriganti). Il disco mostra sufficiente passione e ispirazione da non suonare retrò ed ha lo spessore giusto per far colpo sui ricercatori di buona musica (soprattutto su coloro che lo accolgono come novità del tempo, vedi il vuoto di pocanzi). Eppure resta netta l’immagine di un sound che non vuol dare concretezza, ma disegnare circonvoluzioni nell’aere, un percorso coltivato come esperimento sul suono e sulle sue potenzialità induttive (Polysick stesso focalizza l’attenzione sulle associazioni visive che si legano alle tracce). Un’ambizione astratta che ne fa più una questione per cultori: intenzione che fa pienamente parte dei binari Planet Mu odierni, lecita e appagante a patto di non trasformarsi in dottrina aristocratica calata dall’alto, che punta a dettare i tempi invece che seguirli. Il retrofuturismo va bene, ma occhio alle misure. (6.6/10) Carlo Affatigato
Pop Etc - Pop Etc (Rough Trade, Giugno 2012) Genere: Synth-pop Nel sophomore e disco della ribalta datato 2010, Big Echo, i Morning Benders costruirono un sound avvincente fatto di chitarre jangly e armonie sature di riverberi intriso di influenze lungo cinque decadi pur restando inserito nel momento musicale contemporaneo. L’intento di mescolare passato e presente informa pure il primo lavoro della band come Pop Etc (cambio di moniker costretto dalla connotazione omofobica che il termine ‘bender’ ha in Gran Bretagna), ma le similitudini fra le due release terminano qui. Il sound rock-based di matrice 60s è rimpiazzato da un 90s synth-pop dozzinale con a corollario un parco suoni stantio ed obsoleto che va a toccare triti dialogue sample (New Life), ritmi clip-clap e auto-tuned vocals (Live It Up). L’intento, palesemente orientato al salto radiofonico (e magari a prendere il posto dei Foster the People nel cuore di qualche alt-teen), viene affossato da prevedibili strutture inscatolate in loop elettronici da Owl City e scimmiottamenti vocali à la Yeasayer, atmosfere diffuse di basso profilo e prive di alcun hook degno di nota. Non aiutano nemmeno le liriche: dai cliché sulle relazioni problematiche a improbabili critiche socialmente utili al mondo malato infilate dentro a ideali party-jam (I don’t own an SUV / so don’t you judge me / when I roll 111
up on this Schwinn / I ain’t guzzlin, in R.Y.B.), rime eyeroll-worthy (Let me take this strainght from the top / we were making love and we couldn’t stop, apre Back To Your Heart) e scialbi R&B. Nè fumo, nè arrosto, il self-titled dei Pop Etc non offre nulla più di un paio di filler per le compilation estive (Keep It For Your Own, Halfway To Heaven). Tra i peggiori follow up ad un ottimo album che la storia recente ricordi. (4/10)
di avere tutte le credenziali per candidarsi ad erede di quella stessa nobile tradizione brit-rock (e il successo di pubblico, oltre che di critica, ce lo conferma). Chissà se voleva davvero dimostrarlo, o piuttosto voleva solo divertirsi un po’ a suonare ad alto volume; il sospetto che il suo cuore sia rimasto dalle parti del Coles Corner (come tutti i titoli dei suoi dischi, un luogo di Sheffield) è più che palpabile ? (6.7/10)
Massimo Rancati
Antonio Puglia
Richard Hawley - Standing At The Sky’s Edge (Parlophone, Maggio 2012) Genere: brit rock, psych
ROM - Foot Signal (Pingipung, Maggio 2012) Genere: Cut&Paste
Richard Hawley è uno di quelli di cui bisogna tener conto. Sul serio. Lo dice chiaramente il terzo posto in classifica raggiunto da questo album (più alta posizione mai raggiunta dal chitarrista di Sheffield), giunto dopo i riconoscimenti (più che altro mancati: il Mercury del 2006), le varie collaborazioni (Elbow e Arctic Monkeys, ma anche Nancy Sinatra e Lisa Marie Presley) e, significativo ricordarlo, a ben sette anni da quel Coles Corner che ce lo rivelò in tutta la sua maturità, crooner ombroso e nostalgico, ultimo dei romantici, musicista di indubbio gusto e artigiano del songwriting d’autore. E poco, davvero poco importa che con le atmosfere di quel lavoro - e dei successivi e altrettanto buoni Lady’s Bridge e Truelove’s Gutter - Standing On The Sky’s Edge condivida appena la sognante Seek It e la magistrale ballad Don’t Stare At The Sun (languida come il Bowie di Wild Is The Wind, con qualche fraseggio melodico a sei corde volpescamente trafugato a The Edge). A partire dalle scale indiane di She Brings The Sunlight ecco, infatti, l’Hawley che non ti aspetti: chitarrone acidissime e pesanti, bassi gonfi e groove vorticosi e lisergici, in uno smaccato revival psych tardi ’60, che a sua volta riecheggia - non di poco - quello targato ’90 dei Kula Shaker e - seppur alla lontana - quello invero recente dei Tame Impala. Verrebbe in mente l’ultimo Paul Weller di Sonik Kicks, che ha dichiarato di essersi ispirato proprio agli appena citati australiani, se non ci si rendesse subito conto che il gusto di Richard resta sempre ed esclusivamente brit-oriented (vedi anche le tirate shoegaze di Time Will Bring You Winter), e che dietro la rigorosa veste sonica (a ben vedere, in Down In The Woods tratta il garage acido dei Sixties con lo stesso rigore con cui in passato trattò Elvis, Roy Orbison e Scott Walker), la calligrafia resta sempre e comunque cantautorale (vedi la murder ballad camuffata che è la title track). Non è un caso se abbiamo citato pocanzi il Modfather: insieme al coetaneo Noel Gallagher, Hawley mostra qui
Citare le esperienze passate del duo formato da Matt Crum e Roberto Carlos Lange potrebbe bastare a inquadrare in maniera esaustiva il sound di questo Foot Signal. Membri del progetto electro-latin-chill-folk Savath & Savalas con Mr. Prefuse 73 Gulliermo Scott Herren, rigorosamente su Warp (e sottolineo Warp) ma insieme anche nei misconosciuti Comic Wow con il batterista dei Tortoise (e sottolineo Tortoise) Jonh McEntire, fanno convergere nei ROM modulazione elettronica e destrutturazione ritmica, dando vita a una sorta di freak-pop-giocattolo strumentale travestito da lounge (Orca), ma capace anche di lanciarsi in post-rockeggiate quasi alla Mogwai (Flat Top Afro). Pare che per la realizzazione del disco, già edito in Giappone su limited cd e ristampato oggi in vinile per il mercato occidentale, siano stati usati anche strumenti rotti o scordati - e fin qui niente di nuovo - alcuni dei quali suonati addirittura con i piedi - già meglio -, per poi tagliare e ricucire il tutto con amabile approccio analogico, mettendo insieme scampoli di improvvisazione e suoni riprocessati. Del risultato finale si apprezzano il calore timbrico e la spontaneità delle (s)composizioni, che ben si confanno alla solarità delle atmosfere ripetitive e diritte, ma anche defilate e ’d’ameublement’. Queste ultime sottofondo discreto per una Piña Colada fatta come si deve. (6.5/10)
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Antonio Laudazi
Scissor Sisters - Magic Hour (Polydor, Maggio 2012) Genere: disco Non è solo il primo singolo (Only The Horses, co-prodotto da Calvin Harris) ad assomigliare al lavoro precedente: il quarto full degli Scissor Sisters è tutto improntato sui soliti ingredienti che costituiscono da anni la loro palette sonica, vale a dire synth pomposi, ritmiche
Last Step - Sleep (Planet Mu Records, Maggio 2012) Genere: Acidtronica Last Step, ovvero il risvolto atmosferico di Venetian Snares, quello che ha sempre trattenuto il futurismo terroristico breakcore per correre lungo viaggi situazionistici sul versante acid. Già due album di ottima qualità, Last Step e 1961, ma se finora la presenza della nota vena ritmica compulsiva faceva di questo side project poco più di un lato B nella discografia del producer canadese, al terzo album Aaron Funk compie il suo inchino reverenziale alla suggestione, sacrificando le proprie spigolosità in favore di un sound atemporale, che ben si inserisce lungo il filone neoclassico già battuto su Planet Mu da Jamie Vex’d/Kuedo e Boxcutter/The Host. Con la passione intima messa in gioco, Sleep diventa il momumento definitivo alle potenzialità inespresse del sound acid, per l’occasione sterilizzate dalle varie sfrenatezze intelligent o accelerazioni in breakbeat. I roland della vecchia guardia si lanciano in straordinari disegni, capaci di toccare le potenzialità introspettive rimaste finora inaccessibili dai figli sonori dell’insolenza post-rave. Ce ne aveva parlato di recente Squarepusher, della piega emozionale di cui la nuova fase IDM è capace, ma questa volta è un vero tripudio di enigmi e tensioni da scenario post-apocalittico, il nichilismo sci-fi ballardiano in una trasposizione sonora fatta apposta per l’isolamento a lungo termine. Il passo indietro del carisma ritmico funziona a meraviglia ed è funzionale all’apertura dei mood, dal thrilling ansiogeno di Xyrem (l’omaggio ai Kraftwerk di Radioactivity) ai misteri taglienti e oscuri di My Off Days (l’alba del giorno dopo Blade Runner), comprese certe soggezioni astratte targate Autechre (Somno, spigolosa e attraente al punto giusto). I synth analogici danno il tocco classico, ritornando alla solida consistenza psichica del sempre più presente Carpenter (è Obispo l’entità aliena che cammina tra noi), ma attenzione: non è la horrorwave esplicita di Xander Harris, bensì un suo distillato sottile e ipnotico, che ragiona sull’implicito, secondo un metodo di approccio ai contenuti già usato da Actress nei suoi ultimi lavori. 35 minuti in cui i livelli di attenzione son tenuti alti da giochi di spazi abilissimi come quelli di Microsleeps (music for space stations, direbbe Eno) e dalla costante ricerca di pattern ritmici laterali: i 5/8 e 7/8 coprono quasi tutta la tracklist, limitando la ritmica regolare solo ai momenti in cui è più importante il riferimento classico (vedi Lazy Acid 3, piena riscoperta intelligent-acid anni ‘90). Sleep perché, secondo la dichiarazione di Aaron stesso, “sono tracce composte proprio un attimo prima di addormentarsi, ideate su synth e sequencers quando hai la mente offuscata dal sonno”, ed è bello leggere in quest’ottica la dimensione altra trasmessa da questo disco, così vicina alle immagini cariche di energia psichica che popolano i nostri sogni d’angoscia. Per dipingere il più intenso viaggio di sensazioni e disagi mai compiuto dall’acid sound ci è voluto il Venetian Snares più impegnato di sempre. È il suo orologio molle. (7.8/10) Carlo Affatigato
squadrate, falsetti e altri ammennicoli che esaltano i fan. In più tanto per aggiungere qualche paillette di novità, si va a chiedere la consulenza ai produttori del jet set internazional-sonico che dovrebbero fare la differenza, per entrare in fantomatici nuovi territori, appetibili al turn over dei teen. Abbiamo quindi accenni al fidget e a suoni più acidini con le casse squadrate di Alex Ridha (aka Boys Noize) su Keep Your Shoes On; un buon r’n’b caldo nell’opener Baby Come Home o nella traccia co-scritta e co-prodotta da Pharrell Williams (Inevitable) che fa il verso ai falsetti degli immancabili Bee Gees. Ci sono poi le ritmiche triba-
liste di Let’s Have A Kiki e ancor di più lo pseudobanghra con il feat. della giovanissima promessa dell’hip-hop Azealia Banks (Shady Love). Novità posticcie e plastificate, che mimano un trompe l’oreille scontato e ingombrante. Gli Scissor meritano comunque l’ascolto per due motivi: sono uno dei pochi gruppi dance a portare avanti il baraccone disco tout court e hanno una produzione stellare. Purtroppo hanno bisogno di uno svecchiamento vero, non di facciata, come emerge dall’ascolto di quest’ora scarsa di musica. (6.3/10) Marco Braggion
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Sex Ex - Sex Ex (Autoprodotto, Marzo 2012) Genere: noise-rock 90s Tutto comincia in scia ai Massimo Volume originari, tra tensione strumentale di matrice (noisy&post)rock, spigoli e curve a gomito, disagio esistenziale espresso tra urlato e declamato, come se (di nuovo) la letteratura potesse essere applicata al rock rumoroso. Ne è esempio il dittico d’apertura Vuoi Giocare e Ti Ascoltavo tra vigorose sonorità 90s (gli Uzeda sono più di un rimando) e racconti di vita vissuta e sofferta, con quest’ultima modalità che più che un tributo, è una sorta di rivendicazione di padri putativi e originario humus comune. Nei Sex Ex, apolide quartetto originario della Sicilia ma disperso dalla moderna, classica diaspora e giunto ora all’esordio fieramente autoprodotto e autopromosso, si ritrovano infatti personaggi dei giri giusti come il Tony Arrabito già dietro le pelli per 3/4 Had Been Eliminated, il chitarrista/cantante Emiliano Ereddia collaboratore di Stefano Pilia, (ospite a sua volta in Mezza Parola) e la voce di Laura Loriga (Mimes Of Wine) a impreziosire I Want To Go. Questo per dire che i quattro (Luca Guglielmino alla chitarra e Giuseppe Guglielmino al basso completano la formazione senza essere affatto dei meri comprimari) tutto sono tranne che degli sprovveduti e che Sex Ex è un lavoro vibrante, teso, ostico per certi versi, ma che non si mostra come un mero revival del ’rock italiano’ - definizione orrenda ma intelligibile - della prima metà degli anni ’90. L’aggro-punk esistenziale di Cane Minore, la stasi pulviscolare quasi post-rock di Mansardato A 3, le melodie stranite di I Pesci o la dolcezza ruvida di Mezza Parola sono buoni viatici di un approccio personale, appassionato e ben riuscito ad un sound abusato quanto si vuole, ma che quando è ben fatto si sente eccome. (7.2/10) Stefano Pifferi
Shackleton - Music for the Quiet Hour / The Drawbar Organ (Woe To The Septic Heart!, Aprile 2012) Genere: minimal / dubstep Dall’underground Skull Disco all’epifania di Three EPs, dalla messa minimal-tribal del suo Fabric da urlo, al disco a quattro mani con l’altra vecchia volpe Pinch (che però non c’è piaciuto), Shackleton ha segnato tappe importanti nel dubstep ma prima e ancora di più in un’estetica personale, sempre riconoscibile e sempre irrequieta. Adesso fa debuttare la sua nuova label Woe To The Septic Heart con un progetto complesso (forse anche complicato), due album diversi e complementari, entrambi sfacciatamente sperimentali fin dai titoli programmatici 114
(Musica per le ore quiete e L’organo a tiranti) e dal formato (il primo è un’unica suite in 5 lunghi movimenti). L’album nel complesso farà la gioia dei dubsteppers più avant, dei frequentatori esterni del genere versante elettroacustico, degli audiofili e dei producer che vogliono imparare, e un’analisi al microscopio (l’ha fatta ad esempio un Luca Galli particolarmente zingalesiano sull’ultimo “Blow Up”) ne sottolinea l’indiscutibile e ammirabile craftmanship. Shack qui scopre soprattutto nuove sfumature del suo inoccultabile tribalismo, ma forse più semplicemente ci mostra la techno che ha in testa, una techno tattile e organica alle cui ossa sta attaccata una ricca ricchissima cartilagine: certe atmosfere haunted Demdike Stare e del Prefuse di The Only She Chapters, ma senza l’ossessione esoterica; il lussureggiante minimalismo ritmico e percussivo di Steve Reich filtrato dal Four Tet bolloso e campanelloso di Wolf Cub (tirando le somme, la componente quantitativamente più rilevante); l’ambient glitch e il micro-noise della Raster Norton, ma senza l’ossessione razionalista; lo spoken tra ricordi delle distopie della primissima tech-house e il Kode9/Spaceape di Black Sun (responsabile l’inglesissimo e misterioso Vengeance Tenfold); certi etnicismi tra il gitano e l’arabeggiante in odore di Filastine. Quiet Hour, chill in - più che chill out - un po’ inquietante, espone questi elementi paradigmaticamente, in un lungo viaggio ondeggiante, ondivagante, alla fine sfilacciato, affascinante da studiare, un po’ sfinente da ascoltare. Drawbar Organ (l’organo a tiranti dove i tiranti sarebbero quei tasti che permettono di “variare a piacere il volume relativo al missaggio generale delle armoniche” - grazie Wiki - e che qui davvero sono un piccolo grande ponte Demdike-Goblin, vedi Seven Present Tenses), li ripesca dalla nebulosa e li mette a quadrare (si parte dai 02:44 di Love of Weeping), costruendo un bazaar di dubstep reichiana e oriental-tropicale (emblematicamente, Wish You Better), giocosa (l’impaccio wonky di It Is Not Easy) e solare, orchestrato divinamente. Grandi momenti di appagamento squisitamente sonoro e strutturale, ma nel complesso lavoro un po’ frustrante, macchinoso, troppo impantanato nel suo gigantismo progettuale, che estremizza certi discorsi già nell’aria (la ripresa di Reich, giusto per dire) e che però comunque apre la visuale su un’elettronica tanto contaminata da tornare ad essere elettronica pura, più che dubstep. Shackleton stavolta però più importante che bello. (6.9/10) Gabriele Marino
Lawrence Arabia - The Sparrow (Bella Union, Giugno 2012) Genere: Vintage Pop Giunto alla prova del terzo album, il songwriter neozelandese Lawrence Arabia (all’anagrafe James Milne) confeziona un gioiellino vintage pop lussuoso e melanconico che trova riferimenti immediati negli chanteur d’antan presenti e passati, quali Richard Swift, Rufus Wainwright, e il primo Scott Walker, ma che pure sa incorporare i fiati intristiti del Beirut più occidentale (Lick Your Wounds) così come le melodie rurali degli Okkervil River (The Listening Times) con i quali Milne ha peraltro collaborato. Ovunque, poi, aleggiano i Beatles più scuri e romantici (Bicycle Riding, Early Kneecapppings), spettri onnipresenti in un album brillante e sottilmente decadente. I sixties, luogo e tempo privilegiato per l’immaginario sonoro di The Sparrow, riemergono forti di una nuova luce (aggiornato e non didascalico il replicare di certi impasti sonori), ancora un po’ piacioni a sollazzarsi nel puro revivalismo (Travelling Shoes), ma al contempo veicolo carico di senso nel tradurre un presente che ancora non riesce a rappresentare sé stesso se non attraverso brandelli del millennio passato. Il trucco sta poi nel mescolare il tutto sapientemente, secondo un’estetica della ’sofisticazione leggera’ (i dettagli che determinano la percezione del tutto) e con i Novanta albionici a fare da contrappeso tra il ieri, nostalgico e familiare, e l’oggi, eclettico e fuggevole. (7.4/10) Antonio Laudazi
Slugabed - Time Team (Ninja Tune, Maggio 2012) Genere: UK maximalism Il disco d’esordio di Greg Feldwick arriva dopo una pletora di uscite su svariati format (white-label, EP, singoli, etc.) per Stuff, Ramp e Planet Mu. Il full su Ninja lo fa uscire dall’underground con un suono che non parla house, ma che si bea di synth à la Luke Vibert, tagliati con le idee dell’ultima generazione maximal (Rustie o Digi G’Alessio), coniugando l’analogico con la nostalgia del cheap tuning (genere su cui Sluga ha mosso i primi passi). Questo senso di futuro-che-incontra-il-passato non è una posizione arroccata su isterismi nerdy (come poteva essere l’approccio di Zomby in Where Were You In ‘92). Per Greg l’uso delle macchine analogiche e delle vocine in elio (Climbing A Tree) taglia in due l’oscurità Burialiana e apre squarci di nuova e sorridente luce su tutto il bass britannico. I cieli UK si ri-animano di personaggi a 8 bit (quelli del post-rave che vedevamo ballare nella copertina di Hard Normal Daddy di Squarepusher) e di nostalgie per le partitone con il Nintendo. Ma non è solo una questione di ricordo e lacrimucce: il ragazzo vede bene nel futuro perché taglia anche con citazioni a strumentini early techno (Earth Claps), mescolati a layer sinfonici che devono molto alla lezione IDM di Boards Of Canada e probabilmente anche a gente più indie (DNTEL o Books). In più ci sono anche
le grandi ombre del prog (Mountains Come Out Of The Sky) e del math-hop à la Anticon (Moonbeam Rider). Sluga mescola poli opposti in un mix coerente, che getta le basi per un futuro interessante, ancorato al passato ma consapevole delle sue potenzialità (New Worlds). Ci piace questo suo senso di informalità e di convivio sonoro, questo uso pacato dei suoni oldy e di humour che da un po’ mancava nella scena. Non può comunque essere disco dell’anno per qualche sbavatura qui e là, ma per chi scrive il potenziale del ragazzo è altissimo. (7.4/10) Marco Braggion
Smashing Pumpkins - Oceania (EMI, Giugno 2012) Genere: rock psych Ad inizio 2011 una notizia scuote la rete: Nicole Fiorentino, la nuova bassista dei riesumati Smashing Pumpkins, sarebbe una delle due bambine ritratte nella copertina di Siamese Dream. Quella di sinistra, per la precisione. La fronte spaziosa, il taglio degli occhi e della bocca non lascerebbero dubbi in proposito. Illazioni? Macché: Corgan lo ammette. La Fiorentino conferma a stretto giro di posta. Incredibile. Poi però arriva la smentita, per voce della bambina di destra, quella immortalata mentre se la ride di brutto, tale Ali Laenger. E quindi? Probabilmente tutta una boutade. In ogni caso la vicenda è rimasta in sospeso, o almeno lo è rimasta per il sottoscritto il quale, 115
Purity Ring - Shrines (4AD, Luglio 2012) Genere: Future pop I Purity Ring sono un duo di Halifax/Montréal formato da Megan James e Corin Roddick, ex-membro della band electro-pop Gobble Gobble (ora Born Gold). La loro ascesa viene tutta dalla blogosfera e ha inizio nel Gennaio 2011, quando il blog-collettivo Altered Zone riporta la prima traccia self-released, Ungirthed. Ne seguono altre due, Lofticries e Belispeak, riconoscimenti (Best New Track) ed uno spot (Top 50 Songs of the Year) su Pitchfork. Pitchfork s’esalta e non a caso: i Purity Ring sono i nuovi portavoce della sintesi major indie pompata dal planetario portale, un’estetica che traccia linee e ponti tra il mainstream USA e l’ormai sdoganatissimo alternative da Sleigh Bells a Grimes. Parliamo di patina post-80s, glo/synthwave unita a boombastica hip-hop e R&B, non più citazionismo di prima mano bensì di sonorità plasmate sotto un’estetica che inizia a delinearsi come generazionale. Il patrocinio fighetto 4AD, label sempre più attenta alle nuove leve della coerenza goth-synth british sul mercato internazionale, mette l’ultimo sigillo. Le tracce disponibili su Soundcloud vengono rimosse per tornare ora opportunamente remissate nel debutto Shrines. Cura del dettaglio e coerenza. I Purity Ring impastano elementi usati diffusamente negli ultimi anni (MPC balbettanti, chopped beats, synth dreamy, indizi di witch e wobble dubstep, le pitched-down post-Burial vocals riprese di recente da producer hip-hop quali Clams Casino) e li mettono al servizio di scontri tra correnti calde e fredde, fiabe e macchine, euforia trap-rap e surrealismi pop. Megan James, mutevole fra pose da childlike spettrale ed impennate stordenti, è il gioco a contrasto tra innocenza e sensualità che riecheggia nel moniker, il centro gravitazionale in full-display delle canzoni. Corin Roddick è la fusione tra dna hip-hop e synth britannico. L’immaginario, pur richiamando paragoni facili con quello dei Knife (giustificati anche da similitudini di formazione e teatralità dei live), va in realtà oltre. Di fatto, se gli svedesi fermano il proprio al livello ultraterreno, i Purity Ring scendono nel più vicino grottesco (costole che diventano corona per un affetto non corrisposto in Fineshrine, fori praticati attraverso gli occhi in Belispeak, la pelle strappata dalle caviglie in Obedear), in una maniera viscerare di raccontare l’implicito lato creepy dell’essere umano. Lussureggiante nella produzione, sofisticato eppure accessibile, Shrines è uno dei più potenti manifesti di pop futurista degli ultimi tempi. È un esordio, ed il passaggio debole Grandloves (col campionamento di You With Air dei Young Magic)/Cartographist lo evidenzia, ma il culto è totale. (7.4/10) Massimo Rancati
perdonatelo, se ne è sbattuto riccamente le palle. Però è emblematica l’attrazione fatale esercitata nei fan dall’immaginario di quei primi fatidici lavori, in un gioco di rimandi e suggestioni cui lo stesso Corgan non si sottrae affatto. Anzi, volendo potremmo interpretare anche la formazione attuale del quartetto come una sublimazione di quello storico. Insomma, in questo che è nominalmente il nono album delle zucche - dopo che il formato album era stato ripudiato in favore di modalità distributive più elastiche, dinamiche, espanse, vedi la ciclopica dispersione del progetto Teargarden By Kaleidoscope - agisce chiaramente il tentativo a tratti spasmodico di mostrare al mondo che la creatura SP è viva e lotta, sogna, scalcia, s’infiamma assieme a noi. Non 116
per questo il buon Billy merita biasimo. Certo, personalmente non posso fare a meno di rimpiangere ciò che un talento come il suo avrebbe potuto se avesse superato i fantasmi della propria tormentata post-adolescenza. Ma tant’è. Il talento appunto è duro a morire e spunta ogni tanto tra le rievocazioni malcelate che strutturano la scaletta. Panopticon, ad esempio, sviluppa una buona approssimazione del limbo tra power psych e pop abbozzato nel glorioso Mellon Collie. Quasar sbriglia chitarre e sincopi aciderrime à la Siamese, mentre The Celestials organizza languore tenerello in salsa wave pop con malsana sdolcinatezza Adore. Corgan sembra aver rimesso in sesto la penna e azzecca alcune melodie degne di
nota, concedendosi pure qualche disinvolta libertà (le fantasie prog wave di Wildflower, le turbolenze glam di The Chimera, Pinwheels col suo technicolor psych - echi evidenti di Baba O’Riley - e le digressioni folk meditabonde...), mentre la band a onor del vero tiene botta, dimostrando anche una certa personalità. Il pesce però, come spesso capita, puzza dalla testa. Il vizio di forma lo avverti fin nella voce e nel piglio di Corgan, nel suo stare sui pezzi sempre un po’ sfalsato anzi inadeguato e vagamente retrogrado, come il Benigni cinquantenne con addosso i panni di Pinocchio. Quanto al resto, aleggia un’aria diffusa da amarcord fiero ma in fondo arreso che sembra quasi esplicita in pezzi come Violet Rays, ballad grunge androide più confezione che sostanza, o nella title track che prova la carta della suite pasticciando languori wave, venature gospel-folk e ripartenze spacey con la ciliegina di un assolo da allucinazione salottiera Mike Oldifeld. Peggio ancora, quelle digressioni pop wave che un tempo certificavano le doti corghiane, non suonano più come sfaccettature di una sensibilità enigmatica e proteiforme ma come espedienti, variazioni di mestiere a caccia di hook, vedi il bignami New Order di One Diamond, One Heart o il David Sylvian wannabe di Pale Horse. Disco nel complesso mediocre con qualche pagliuzza di splendore, a confermare l’onda lunga di declino che sta sommergendo questo ex-ragazzone rock con troppo genio da padroneggiare. (5.2/10) Stefano Solventi
Surgery - Reset (Altipiani, Maggio 2012) Genere: Digital hardcore I romani Surgery, sulle scene da un buon decennio con il loro electro-industrial in italiano, si giocano la carta per l’espatrio e inseriscono la lingua inglese in metà del loro ultimo disco. La formula è composta da chitarroni distorti, campionamenti aggressivi, drum machine e doppia voce maschile-femminile divisa tra urla efferate e melodie dark, il tutto alternandosi tra brani spinti verso la dance (Un dolore fa, il remix di Enemy Domine a cura di Nachtmahr), altri con un’accezione più metal (Il galeone), e momenti di raccoglimento cantautoriale (La ballata dei caduti). L’uso dell’italiano applicato a queste sonorità rimane il tratto distintivo del gruppo, rischio e virtù allo stesso tempo, che per alcuni potrebbe suonare straniante o indigesto, ma per altri innovativo e apprezzabile. Le sezioni anglofone, invece, si lasciano godere per una maggior attinenza al genere di riferimento, pur senza regalare niente che non abbia precedenti anche tra i
vari Icon Of Coil, Combichrist, Rammstein, Deathstars e via dicendo, indebolite inoltre da una pronuncia non sempre perfetta. Ottimo gruppo live, anche per la presenza scenica caratterizzata dalle maschere e dai costumi di Sergio Stivaletti (Dario Argento), i Surgery confermano in Reset lo status di ’insider’ nel panorama nazionale. Per erigersi oltre confine, tuttavia, c’è bisogno probabilmente di emanciparsi da riferimenti ancora troppo invadenti. (6.3/10) Antonio Laudazi
The Beach Boys - That’s Why God Made The Radio (EMI, Giugno 2012) Genere: Pop Spiegandoci i motivi per cui il buon Dio ha creato la radio, i Beach Boys ci spiegano perché sono stati chiamati a calpestare questo triste pianeta: per cantare l’estate utopica e radiante del Sogno Americano. Il cinquantesimo anniversario è un evento simbolico, certo, ma è il caso di cavalcare l’onda del simbolico fino in fondo, perché è la dimensione in cui le loro canzoni, quel suono, quelle sequenze di pellicola pescate nel paradiso delle aspettative, accadono. Fa giusto mezzo secolo quindi dacché le impagabili sciocchezzuole surfiste dei fratelli Wilson e compagni di merende ampliarono la percezione della giovinezza California-style divenendo d’amblé archetipo globale. Una gabbia dorata stilistica da cui evasero con una delle più spettacolari progressioni soniche della storia della popular music, un balzo esponenziale dal ruolo di formidabili hit-maker generazionali a cesellatori del più serico, visionario, immaginifico classic-pop mai udito. Tra le band in possesso di un sound peculiare, i Beach Boys sono forse quelli più riconoscibili per calligrafia compositiva, arrangiamenti ed interpretazione. Un immaginario da cui hanno pescato innumerevoli e disparati epigoni, nessuno però avvicinandosi a quel livello di arrendevole e pervadente candore. Sia benedetta la spinta centripeta che ha fatto riunire per quanto umanamente possibile la gloriosa compagine - Brian Wilson, Mike Love, Al Jardin, Bruce Johnston e persino quel David Marks che se ne andò nel lontanissimo ‘63 - chiamata a sfornare una dozzina di tracce nuove venti anni dopo la precedente raccolta d’inediti. Com’è andata? Molto bene e abbastanza male. La scaletta inizia nel migliore dei modi, sorta di dissolvenza malinconica e vaporosa Think About The Days, poi è quintessenza beachboysiana a passo medio la title track, quasi muscolare nella sua affabilità sapendo di poter contare su un immaginario titanico a cui si aggrappa morbida e implacabile. Da 117
Scuola Furano - 108 (Nano Rec, Giugno 2012) Genere: House / Pop Il secondo disco si sa, è sempre uno spauracchio per ogni musicista o band che si rispetti anche nell’epoca dello shuffle e della frammentazione dei formati discografici. La tendenziale aspettativa di un conferma o di una cosiddetta maturità è sempre più inversamente proporzionale al tempo in cui un progetto artistico trova una propria forma espressiva autentica. Le cose si complicano ancora di più quando si parla di artisti che gravitano nel variegato mondo della dance dove il disco è il traguardo dopo una lunga gavetta a suon di singole tracce, rmx ed Ep. In luce a quanto detto finora, il caso di Borut Viola, in arte Scuola Furano, è decisamente paradossale: un esordio a quattro mani (con Marco Busolini) nel 2004 con un disco genuinamente ibrido tra pulsioni pop-house pubblicato da un’etichetta trasversale come Riotmaker records ed un seguito di ep, singoli e rmx fieramente impermeabili all’estetica giovanilistica che ha caratterizzato l’esplosione elettronica italiana negli ultimi 5 anni (Crookers, B.B.S., Congorock ecc ecc.). Diciamolo chiaramente, se 108 è il risultato, ben vengano i ripensamenti, il dosaggio con il contagocce delle uscite e soprattutto l’ostinata scelta di concentrarsi sulle proprie ossessioni musicali rispetto alle mode del momento. La prima novità importante di 108 è una produzione maniacale (Dj Color) che subito lo avvicina ai big dance album dei primi 2000 a cui Borut sembra sempre fare riferimento, ovvero, quelli dei vari Daft Punk, Basement Jaxx o Groove Armada; poi c’è il ritorno prepotente delle vocals che contribuiscono a delineare un immaginario solare e rassicurante. Su tutto però, c’è la House in tutte le su declinazioni possibili, dalle origini fino ad oggi passando per Chicago, New York, Parigi e Londra. Il disco si apre con un classico radio dj skit dal sapore orgogliosamente mitteleuropeo e la giocosa Beep Pop che sono l’antipasto a Danceteria, prima bomba dancefloor e vero e proprio standard della nuova estetica Furana. Il featuring vocale di Fiorious (Passion Pit area) innestato su solidi beat Chicago ed i tastierismi Saundersoniani disegnano subito l’ossessione sonora di Borut. Questo connubio, guarda caso è una costante anche negli altri 2 singoli straccia pista della raccolta, rispettivamente, On Fire e la Daftpunkiana Follow Me; in questa triade è riassunta tutta l’estetica retronostalgica dell’intero lavoro. Ma in 108 non c’è solo questo colore, c’è anche la girl-friendly house strumentale di Pollensa morbida come una lady di Modjo o la sognante deephouse di Sunlight, con vocal oniriche da tramonto balearico a firma Xander Ferreira. Sul versante più danceflloor oriented c’è la leggerezza di numeri old school come Kendou e l’antemica H.O.U.S.E che tra jackin scuola Chicago e sampledelie vocali varie, riportano orecchie (e gambe) a templi danzerecci come il Warehouse o il Loft di Mancuso. Per completezza c’è pure la ballata Alone che in termini di micioneria fa invidia anche a Vikter Duplaix ripercorrendo le atmosfere Carpenteriane nel classico mode ipercollaudato da Felix da Housecat. A conti fatti, 108 è più di una conferma ponendosi assieme a We love animals dei Crookers come uno dei dischi più importanti che la dance italiana ha dato alla luce nell’ultimo decennio anche in virtù del fatto che con questa prova Borut ha finalmente colmato una grande lacuna nella discografia italiana: il saper dare una giusta visone retrospettiva della house culture dagli esordi a oggi. Dopo le prove di artisti quali Hercules & love Affair o di Azari & III, il punto di vista di un italiano era decisamente atteso e necessario. Grandissimo ritorno e gran bel colpaccio per la Nano Rec di Spiller. (7.5/10) Dario Moroldo
Isn’t It Time in avanti inizia però un esercizio di mestiere senza troppo genio, talora con gusto (il tepore caraibico di Daybreak Over The Ocean) ma più spesso fiacco (il bignami pop-soul di Spring Vacation, la bolsamente funky Beaches In Mind, il doo wop salottiero di Shelter) 118
o comunque sfocato (una Strange World che semmai si riprende qualcosa di quanto prestato agli Alan Parson’s Project di Don’t Answer Me). Quando già stai per arrenderti all’inevitabile, ecco spuntare From Here To Back Again, traccia numero dieci, e
tutto cambia: piano, cori languidi e chitarra per minisuite meditabonda che t’infonde un senso d’abbandono sciropposo, ottima per preparare il terreno all’incantesimo struggente di Pacific Coast Highway, sorta di ipotesi power pop accorata e teatrale nella scenografia onirica dello spaziotempo surfista. A chiudere c’è poi Summer’s Gone, pensata in origine da Wilson come l’ultima canzone dell’ultimo disco dei Boys, e non fatichi a capirne il motivo visto il passo letargico e l’estro crepuscolare, come una marea di nostalgia polposa, senso di perdita ovunque ma anche di fierezza per ciò che si è definitivamente posseduto (curioso - quasi incredibile - che vi abbia contribuito con alcune idee anche Jon Bon Jovi, presente durante le sessioni d’incisione). Tirate le somme, ok, è un album più celebrativo che altro. Giusto e bene in fondo che sia andata così: se i “ragazzi” si fossero accontentati di un ep, rinunciando a tutte le bagatelle centrali, avremmo dovuto raccontarvi un prodigio difficilmente spiegabile, con strascichi di aspettative - ne converrete - piuttosto sconvenienti. Buona estate. (6.7/10) Stefano Solventi
The Hundred In The Hands - Red Night (Warp Records, Giugno 2012) Genere: dream electropop The Hundred in the Hands: Eleanore Everdell e Jason Friedman sono una delle tante coppie uomo-donna (o meglio donna-uomo) dell’attuale panorama musicale ad unire velleità pop (dall’indie al rock) e beat elettronici, basti pensare a Sleigh Bells, Crystal Castles, Phantogram, gli ultimi School of Seven Bells o gli appena sciolti Handsome Furs. La frase “erano meglio ai tempi del primo EP” è un detto che ha fatto letteralmente scuola tra i music nerds. Un modo di dire che però tristemente si adatta alla perfezione su i The Hundred in the Hands, i quali dopo un promettente This Desert EP non seppero confermare quanto di buono mostrato, pubblicando, ormai due anni fa, un dimenticabile omonimo album di debutto. La volontà di riscatto e il rinnovato appoggio della Warp Records facevano ben sperare, dopotutto una seconda possibilità la si concede a tutti, o quasi. In Red Night l’impatto sonoro è di quelli importanti, merito di un bel lavoro produttivo che rende corpose, profonde ed avvolgenti (a volte forse fin troppo, vedi l’opener Empty Stations) le composizioni: stratificazioni, tappeti di synth, 4AD-Dream e drum machines sono all’ordine del giorno. E’ la scrittura il vero problema del duo di Brooklyn, a livello melodico soprattutto si ha la sensazione che sia tutto un po’ forzato o semplicemente poco a fuoco. In più a
Eleanore Everdell - in perenne echo chamber - manca forse il carisma vocale di alcune sue colleghe e caratteristiche in grado di renderla unica. Lungo le dieci tracce di Red Night si passa dall’elektrock sfrenato di Come With Me a soft-sofisticherie (la titletrack o l’eterea Lead In The Light) con disinvoltura, passando anche per territori ‘80srevival (Tunnels) senza mai però centrare completamente l’obiettivo. Nonostante non manchino le buone intuizioni, i The Hundred in the Hands faticano ancora una volta a lasciare traccia. Occasione in parte persa... e la prossima volta potrebbe essere già troppo tardi. (6/10) Riccardo Zagaglia
The Offspring - Days Go By (Columbia Records, Giugno 2012) Genere: Offspring’s pop-punk Nel 1994 la morte di Kurt Cobain mise probabilmente la parola fine al movimento grunge, favorendo l’esplosione del pop-punk a livello mainstream - ben spalleggiato dalla third wave of ska - e dando il via a tutta la scena post-grunge made in USA. Gli Offspring, insieme a Green Day, NOFX e Rancid furono tra i protagonisti del revival annacquato del punk e album come Smash vengono giustamente ancora considerati passaggi obbligatori per chiunque inizi ad ascoltare il genere in giovane età. Dopo l’incredibile high rotation su MTV - anche in Europa - del periodo Americana, Dexter Holland e soci hanno continuato, sempre con minore frequenza, ad azzeccare qualche singolo, ma in linea di massima gli anni zero della band californiana possono tranquillamente essere etichettati come inutili. I palazzetti continuano a riempirli, tra i quindicenni le loro magliette non passano mai di moda e sono forse fattori di questo tipo che hanno spinto gli Offsrping ad affacciarsi negli anni dieci con un nuovo album, prodotto dal guru del tamarrock Bob Rock. Si intitola Days Go By e si apre con The Future Is Now, brano che più che guardare al futuro riprone ancora una volta il classico, rodatissimo e prevedibile Offspring-sound. Stesso discorso per la successiva Secretes From the Underground (qui trovano spazio addirittura gli o-oh-uoh già sentiti in almeno una decina dei loro brani) e per il 90% del disco. Quando escono dai loro binari (l’indecente Cruising California, la beach-jamaican Oc Guns) fanno più danni che altro. Ennesimo album trascurabile per gli Offspring i quali verosibilmente si accontentano di rifare se stessi (è presente pure un remake del loro pezzo del 1992 Dirty Magic, tra le cose migliori del disco) a vita. Se siete venticinque/ 119
trentenni in nostalgia post-adolescenziale, meglio ascoltare il nuovo dei Lit, il che è tutto dire. (4.8/10) Riccardo Zagaglia
The Temper Trap - The Temper Trap (Infectious, Maggio 2012) Genere: sweet pop
prodotto esageratamente impomatato, distantissimo da qualsiasi principio emozionale. Se non desiderate verità e sensazione, ma esclusivamente spensieratezza a secchiate, accomodatevi. (6/10) Federico Pevere
The Van Houtens - Flop! (Face Like A Frog, Sono passati più di tre anni dal botto di Conditions, e Giugno 2012) tutti aspettavano The Temper Trap al varco. Il successo Genere: Indie-power-pop di Sweet Disposition (ricordate il tema principale del film - ahi - generazionale 500 Giorni Insieme?) ha lanciato questi giovani australiani - di stanza e di carriera a Londra - come peso morto tra l’olimpo delle masse popettare e danzar ecce, senza offesa. Se volessimo definirlo, sweet pop. E’ il 2009, il tutto grazie ad un ammasso indistinto di appiccicosetti singalong, che, seppur non esaltando, ridanno un sorriso capace di accompagnare il ticchettio del piede appassionato. Un successo basato sulle vocalità intraprendenti del cantante, Dougy Mandagi e su una notevole capacità di incastro, tra spensieratezza pop appunto e romanticismo a randellate, poi. E le canzoni? Non c’erano - o meglio, ancora acerbe - e poco sembra cambiato, a spulciare nel nuovo eponimo album. Gli arrangiamenti tengono quando osano, le soluzioni sonore adottate sono ben diversificate, immediate, quasi fresche; a mancare è la scrittura, la qualità dei pezzi, la ciccia, il talento insomma. L’iniziale I Need Your Love è un manifesto programmatico, senza sorprese eppure quasi carezzevole. C’è magnificenza eighties come se luccicasse e la voce a fare da semplice lustrino. Fanno bene il verso agli ultimi The Rapture, o meglio, agli U2 se prodotti dalla Dfa o dalle SS. In London’s Burning Mandagi fa il verso - scimmiottandone l’epica - a James Dean Bradfield dei Manic Street Preachers, tra ritmiche finto sandiniste e ritornelli impacchettati come fosse bigiotteria indie pop. L’arpeggio fruttato dell’agrodolce Trembling Hands ha esiti tragici, scivolando inesorabilmente tra il pantano dell’inconsistenza e della prevedibilità. Soprassedendo su The Sea is Calling - dei Grizzly Bear cresciuti a pane e qualcosa di poco originale - meglio concentrarsi sui sospiri di una rarefatta Miracle, un po’ sciupatella ma quasi godibile nei suoi intarsi synth e nei suoi coretti animalcolletiviani (esagerando un po’). Dopo la quasi piacevolezza post soul di Never Again, la successiva Dreams ci riporta con i pensieri in territorio spudoratamente pop a cavallo tra un poco ispirato Justin Timberlake e una deriva autolesionista che potrebbe sfociare nel fallimento brillantinato dei Grammy, o peggio ancora, di X Factor. Ci fermiamo qui, noi, e di loro, dei The Temper Trap, ci rimane fra le dita la patina troppo surgelata di un 120
Menomale che qualcuno, ogni tanto, si ricorda che pop non è una parolaccia. Eccoli qui, The Van Houtens, frizzantissima combo originaria di Verbania ma milanese d’adozione, che deve il nome non si sa ancora se a Leslie Van Houten, nota alle cronache nere di mezzo mondo per aver fatto parte della Family di Charles Manson, o per l’altrettanto celebre nerd dei Simpson Milhouse.Il gruppo di Alan Ramon, deus ex machina del progetto, si è invece fatto conoscere nel 2008 per It’s A Beatiful Day, power hit richiesta nientemeno che da McDonald come jingle per lo spot di un nuovo panino. Non si indignino gli indie kids di casa nostra, perché è fuorviante circoscrivere la biografia musicale dei Van Houtens alla singola canzone: l’esordio sulla lunga distanza, intitolato autoironicamente Flop!, è uscito per Face Like A Frog lo scorso 29 maggio, e a dispetto del titolo ha tutte le intenzioni - e i numeri - per farsi strada.È il caso di John Ferrara & Betty Karpoff, singolo di lancio e manifesto programmatico di tutto l’album. Pop, dicevamo, di quello spontaneo e ultra contagioso che in due minuti riesce a intercettare l’orecchio dell’ascoltatore senza risultare appiccicoso, come dimostra la verve poliglotta del ritornello (John is contento confusion sentimento).Stesso discorso per I Want To Tell You e il suo allegro incedere da marcetta post-beatlesiana con inserti afro-beat a là Vampire Weekend, forse il riferimento più vicino al quintetto, peraltro confermato dalla successiva Matala, dove l’ukulele in apertura esalta l’identità di un cantautorato balearico parallelo a quello dei quattro newyorchesi. Pezzi perfettamente in equilibrio tra hype e aggancio radiofonico, costruiti su arrangiamenti curati, efficaci ma non pedanti che lasciano trasparire un lavoro in studio libero e la cui vera forza è soprattutto una punta di cristallina irriverenza.Se ad un primo ascolto l’impressione è quella di avere tra le mani un gradevole pop da aperitivo in spiaggia, il piglio solare e ironico che colora tutto l’album finisce per consolidarsi in un prodotto che ha l’ostinazione per essere qualcosa in più di un temporaneo sottofondo estivo. Anche per l’abilità del frontman di sfornare brani perfettamente pop nella forma ma di innegabile freschezza indie nella sostanza,
Ty Segall - Ty Segall band - Slaughterhouse (In The Red Records, Giugno 2012) Genere: power garage Ci siamo, è venuto il momento per Ty Segall di agguantare la ribalta garage americana. Non che fino ad ora fosse un perfetto sconosciuto, anzi, è il curriculum a parlare per lui: ex Sic Alps e poi cinque dischi solisti con la messa a fuoco sempre più precisa, senza contare una lunghissima serie di split e collaborazioni che lo indiziavano tra i più promettenti musicisti della sua generazione. Ora Ty passa allo step successivo e se la gioca al pari dei Thee Oh sees o Black Lips, perché Slaughterhouse gode di una ispirazione in continua ascesa e trova beneficio nell’amalgama di una formazione oramai stabile e rodata (Mikal Cronin, Charles Moothart e Emiliy Rose Epstein), tanto che siamo qui a parlare della Ty Segall Band, come se Segall volesse dar peso al contributo dei suoi musicisti. E veniamo così al disco, che fa essenzialmente due cose: primo opera una sostituzione d’archivio. Spariscono i primi sixties di Greg Shaw per approdare al proto-punk detroitiano, all’hard rock e alle derive prog dei primi ‘70. L’incipit di Death è praticamente sabbatthiano. Diddy Wah Diddy nasce dalla passione MC5 e Troggs. Wave goodbye macina riff heavy e finisce in una spirale di virtuosismo degna degli Hawkwind, anche se il vero momento prog scatta alla fine con i dieci minuti di Fuzz War, titolo programmatico per una jam tutta in distorsione. E qui sta il secondo punto di Slaughterhouse, ovvero la capacità di giocare con la struttura delle canzoni, di spaziare dall’hangover della citata Fuzz War alle pallottole punkettare di Mary Ann o Slaughterhouse, fino alle più classiche forme pop che continuano ad essere eredità di Jay Reatard, The Tongue e That’s the bag i’m in su tutte. Sono segnali di un songwriting maturo, che non ha più bisogno di nascondersi sotto tonnellate di rumore e che può fare a meno del lo-fi come espediente, decodificandolo in un piacere squisitamente estetico. E’ dunque il personaggio Ty Segall a venire alla luce, se vogliamo anche più del valore intrinseco di Slaughterhouse, che pur rimanendo in lizza per le classifiche di fine anno non può avere la portata di un Let it Bloom. Lì erano altri tempi, e il garage era nel suo momento più cool. Ora che invece bisogna sudare per uscire con forza dal piattume e dalla ripetizione del canovaccio sixties, Segall si dimostra tra i più intraprendenti e preparati ad affrontare la sfida. Meritandosi il top della categoria. (7.5/10) Stefano GaZ
come Paper Plane e Baby Don’t Lie.Le conclusive Waiting For The Sun e 1987 Souvenir si allontanano leggermente dal paradigma finora elencato, con echi di cantautorato folk da una parte e sonorità electro-eighties dall’altra, ma il risultato finale non cambia. (7.4/10) Giulia Antelli
The Vindicators - Greatest Hits (Go Down Records, Maggio 2012) Genere: roots-rock Un’armonica a bocca blues, un sax capace di spaziare dai Contortions a certe circolarità soul à la Wilson Pickett, un impianto basso-chitarra elettrica-batteria fondamentalmente roots-rock: loro sono i Vindicators, formazione nata da una costola dei Frigidaire Tango nel 1986 e costretta, suo malgrado, ad esaurire la propria spinta propulsiva nell’arco di sei anni, dopo aver inciso un paio di dischi. Da allora più nessuna notizia fino al 2011, quando
la band decide di riesumare la ragione sociale finendo per “autocelebrarsi” con il qui presente Greatest Hits + CD live allegato. La solita reunion per sfruttare l’onda lunga dei corsi e ricorsi musicali’ A dire il vero non ci pare, considerato anche un hype che attualmente va in direzione decisamente diversa rispetto al genere di appartenenza della band (insomma, non stiamo parlando di shoegaze e nemmeno di dubstep). Come a dire che se dei Vindicators non avete mai sentito parlare prima, continuerete presumibilmente a non vederli citati nei social network più à la page. Un peccato, vista la proposta vibrante che la band riesce a sintetizzare nelle venti tracce del best of e nelle diciotto del CD live: una musica influenzata dall’punk’n’roll dei Clash (Lovelight) come dal funk (King Song), da cadenze loreediane (I Wonder Why) come dal blues (Seven Cookies), dall’approccio fisico degli MC5 (Down Down Down) come da certi mid tempo di impronta più melodica (Don’t Kill Me). 121
Va da sé che la dimensione ideale del gruppo rimane il live, fotografato a dovere da un secondo disco che mette a nudo la capacità di impattare sul pubblico con una formula costruita principalmente sugli scambi di chitarra elettrica e fiati. Con in più il valore aggiunto garantito dalle qualità di performer del front-man Charlie Out Cazale, sorta di John Belushi in salsa roots in grado di trascinare oltremisura il pubblico. Qui in basso potete ascoltare lo streaming integrale del Greatest Hits. (7/10) Fabrizio Zampighi
The Wake - A light Far Out (Ltm Recordings, Maggio 2012) Genere: indie pop Sbandierati ogni due per tre dai The Drums fin dall’inizio della carriera (tanto che Jacob Graham è stato il primo a video-intervistarli lo scorso dicembre per la serie di corti Visiomento), i The Wake sono uno dei segreti meglio custoditi del pop britannico degli ultimi trent’anni.La band, formata nel 1981 a Glasgow, ha ospitato - curiosità - anche il futuro Primal Scream Bobby Gillespie (ancor prima della comparsata nei Jesus And Mary Chain) e rappresentato al meglio ciò che oggi dovrebbe essere un ideale esempio di indie(pendenza). Marginalmente centrale, il percorso intrapreso da Gerard “Caesar” McInulty e Carolyn Allen, unici membri rimasti attivi ad oggi, è tra i più emblematici per (ri)osservare i Noughties in relazione alle vicende storiche ’originali’. Partendo dalle fucine post-punk di Factory Records e Postcard e passando per la synth-wave dei New Order e la corrente alternata dei fratelli Reid (specie i tardi Mary Chain), la band ha finito la propria corsa proprio tra le braccia del boogie rock psichedelico dell’ondata madchesteriana. Un movimento, quest’ultimo, tornato prepotentemente in voga in questi mesi sia per il ventennale di Screamadelica dei Primal Scream sia per la reunion degli Stone Roses. Ritrovare ora quella band che firmò per la Factory all’indomani della morte di Curtis e poi per Sarah Records nel 1988, è un atto di devozione a una laterale maestranza indie-pop. Pubblicato con l’aiuto sostanziale del bravo Ian Catt (praticamente il quarto membro dei St Etienne, il cui tocco è onnipresente a partire dall’operner Stockport) e Duncan Cameron (Teenage Fanclub) per la LTM Recordings, A Light Far Out è un po’ lo specchio dei passati di Caesar e Carolyn (già al lavoro assieme dalla metà 00s nel duo The Occasional Keepers), aggiornato di nodale folktronica noughties. Troviamo echi neworderiani in quelle tastiere 80s e nei giri di basso factoryani (Methodist), jangling R.E.M. nelle 122
chitarre di The Back Beyond e un tipico tocco del Nord d’Inghilterra nell’usare charleston e percussioni. Un po’ dell’assuefazione che ci ha dato recentemente la riscoperta di un gioiello come Here Comes Everybody (Factory, 1985, 8.0/10) la troviamo anche da queste parti, sicuramente nelle sottili emozioni di If The Ravens Leave, nei nove minuti della traccia omonima e nella magia un po’ AIR della finale The Sands. Meno in altri episodi, comunque facilmente perdonabili, come il plumbeo folk di Starry Day e lo strumentale Faintless. This is 100% authentic british pop. Un culto che si appropria di un nuovo tassello. (7/10) Edoardo Bridda
The Welcome Wagon - Precious Remedies Against Satan’s Devices (Asthmatic Kitty Records, Giugno 2012) Genere: folk Fa un certo effetto spulciare in rete e trovarsi di fronte una recensione di Precious Remedies Against Satan’s Devices pubblicata sul portale Christianity Today. Eppure è da quel mondo che arrivano il ministro presbiteriano Vito Aiuto (un nome, un programma) e sua moglie Monique: un sottobosco musicale cresciuto tra gli altari, le funzioni ecclesiastiche - ’Here, Vito and Monique simply throw those welcoming arms open wider, inviting the listener to join them for 51 minutes of church’ scrivono sul sito ufficiale riferendosi al nuovo disco - e una tradizione folk allargata capace di arrivare fino a Sufjan Stevens. Lo stesso Stevens che ai tempi dell’esordio Welcome To The Welcome Wagon fece un po’ le veci del mecenate, curando produzione, strumentazione e voci, tanto da spingere qualcuno a definire quel disco una ’gloriosa collezione di b-sides’ del musicista detroitiano. Un’affermazione ingenerosa, almeno alla luce di quanto si ascolta in Precious Remedies Against Satan’s Devices e considerato anche il fatto che in questo secondo lavoro tutto funziona come da copione, pur con un produttore diverso (è della partita Alexander Foote). Anzi, sembra quasi di poter parlare di passo in avanti, con un suono senza sbavature, perfezionato, ma capace anche di recuperare quella naturalezza melodica che già in passato aveva mostrato tutte le sue potenzialità. Lo scopo di brani come il gospel bianco di My God My God e di ballad crepuscolari come I Know My Redeemer Lives o Would You Come And See Me In New York, del country di Rice And Beans (But No Beans) e del soul epidermico di Lo, He Comes With Clouds Descending non è ridefinire uno stile, bensì affondare le radici nella tradizione americana affidando alla musica una funzione quasi conso-
latrice. E’ stesso Aiuto a togliere ogni dubbio in questo senso: ’un pastore deve prendersi cura delle persone. Mi piace scrivere musica che sia interessata esclusivamente a questo’. Certo, sotto la superficie luccicante delle soluzioni melodiche rimane quell’humus catto-ciellino - così lo definiremmo dalle nostre parti - con tanto di tendenza al proselitismo che qualcuno potrebbe trovare quantomeno fastidioso, ad esempio nello sperpero di Halleluja di brani come The Strife Is O’er, The Battle Won. Eppure la formazione americana è abbastanza brava a mascherare il tutto da “stratagemma letterario”, un pò come accade con i riferimenti biblici di autori come Leonard Cohen o Nick Cave. Un’immaginario che indirizzi il cammino, insomma, ma le cui storie di amicizia e fratellanza possano essere condivise senza difficoltà anche da chi non si sente rappresentato da un credo religioso specifico. Al di là delle convinzioni ideologiche, un bel disco di cui godere a tutte le latitudini. (7.2/10) Fabrizio Zampighi
The Young - Dub Egg (Matador, Giugno 2012) Genere: psy rock The Young, la band texana guidata dall’ex-punk Hans Zimmerman, uscì due anni fa con un debutto lungo - Voyagers of Legend - passato praticamente inosservato, nonostante fosse fosse stato pubblicato dalla Mexican Summers. Di qualche mese fa è invece l’importante passaggio alla Matador, che si completa oggi con la pubblicazione del sophomore Dub Egg. Il disco si apre con Livin’ Free: electric guitar dal sapore classico, psichedelia sospesa e la vocalità agrodolce di Hans che in questa occasione, in alcuni frangenti, può ricordare quella dei compagni di uova - Cracking Eggs è un loro brano - My Best Fiend. E poi paesaggi acustici in psilocybe (Only Way Out), i Silversun Pickups meno prodotti (White Cloud), i neverending riffs di Dance With The Ramblers, il Crazy Horse-sound spesso dietro l’angolo e una manciata brani ideali per una colonna sonora da Route 66 trip. Un viaggio che per i quattro di Austin è ancora all’inizio: la strada da percorrere per riuscire ad emergere definitivamente è sicuramente ancora lunga. Come diceva qualcuno, it’s a long way to the top if you wanna rock ‘n’ roll... Con l’approccio delle rock band più classiche, i The Young viaggiano da un lato all’altro di un arcobaleno che fa da ideale ponte tra i tardi sixties/seventies e gli anni ‘90 (dagli Smashing Pumpkins ai Flaming Lips, passando per il lo-fi dei Guided By Voices), con ancora
qualche evidente limite a livello compositivo. (6.4/10) Riccardo Zagaglia
Tom Violence - God Is Busy (Black Candy, Aprile 2012) Genere: indie-rock Sembrano passati secoli da quel gran disco dei Sonic Youth dal titolo Evol. Dentro c’era una canzone chiassosa e tiratissima che si chiama Tom Violence: è da qui che la formazione fiorentina, giunta al terzo disco, trae l’origine del proprio nome. ’È inutile nascondere la scelta degli intenti’, sembrano dirci. Il loro è un rock duro, macchiato dalle ferite seattleiane del grunge, contaminato da un pizzico si sinth(esi), che in questi anni duemila non guasta mai. God Is Busy è un Ep che ha il compito di riprendere le fila del discorso lasciato in sospeso con il precedente Borderlines e di confermare le ottime impressioni di critica e pubblico. Operazione quanto mai felice, perché pare proprio che del loro pesante bagaglio i Tom Violence abbiano fatto tesoro. Bellissima è A Suit, Fake Hair, A Diamond Smile, con le chitarre spiazzanti, la voce che ci ricorda il buon Layne Staley degli Alice in Chains e dei riff che farebbero invidia ai Black Keys. Piena Sky Valley, per l’acidissima The Wizard, brano marchiato a suon di crossover e dal verso ’God is busy’, recitato a lungo e ossessivamente. I meccanismi funzionano bene anche quando si ’abbassano’ i toni in Horizon e Brand The Damn: l’una esalta la vena sintetica, quasi alla Placebo, della band, l’altra, con i suoi retaggi melodici e orchestrali, ricorda le ballate degli Interpol. Chiudono il disco due remix riuscitissimi di vecchi brani della band. Si allarga così il bacino d’utenza, aprendosi anche ad appassionati di diverso genere, che, tra l’altro, nella versione multimediale del disco si possono dilettare a creare il proprio mix di un brano di God Is Busy. Meglio di così? (6.6/10) Nino Ciglio
Twin Shadow - Confess (4AD, Giugno 2012) Genere: discopop galore Quando intervistammo George Lewis jr., aka Twin Shadow, aka il figlio del barbiere caraibico che lo portò a Brooklyn, ci parlò per lungo tempo di due grandi passioni, le macchine e le moto degli anni Settanta, oltre il soul di stampo detroitiano, che lui stesso definiva “la cosa più divina che ci sia sulla Terra”. Erano i tempi dell’esordio Forget, passato per la maggior parte dei critici e dei giornalisti come un riuscito clash tra sofisticato pop Eighties 123
e revanchismo Sixties.Vero, ma ci sembrava già allora che a partire da moto e automobili, il fulcro dell’immaginario di Twin Shadow fossero gli anni Settanta. Idea confermata dall’ascolto di Confess, il secondo full-leght, nuovamente prodotto in solitudine e consegnato alle sapienti mani della 4AD. Se l’iniziale Golden Lion può far pensare a un outtake del primo disco, con quel suo incedere zoppicante da pop avvolgente, già con la seconda traccia, You Call Me On, le cose cambiano: lentamente emerge una chitarra in levare e l’attenzione per un pump quasi da dancefloor aumenta col passare dei minuti. Attenzione e passione per gli albori della disco (e siamo quindi ancora in territorio Seventies) che vengono confermati dalle tastiere della successiva Five Seconds. Sotto un’apparente continuità con il precedente lavoro, quindi, si nascondono in realtà sparigliamenti di carte. Certo mai così sconvolgenti: più che altro delle sfumature, ma che danno profondità al lavoro. Le chitarre prendono maggiormente la scena (sentire l’arpeggio della very cool ballad Run My Heart) e sono accompagnate da accenni più marcati alla disco (si ascolti il dittico Beg For The Night e Patient) mentre il synth pop di marca Eighties continua a tenere banco (The One, When The Movie Is Over). A conti fatti George Lewis Jr. ha sfornato un secondo disco sullo stesso piano del primo, con l’attenuante che piccole variazioni rendono più interessante la tavolozza, ma con l’aggravante che con questa formula abbiamo l’impressione che Twin Shadow possa continuare a replicare se stesso all’infinito. (7/10) Marco Boscolo
Visions Of Trees - Visions Of Trees (Something In Construction, Giugno 2012) Genere: Trance pop Dio ci liberi dalla stampa musicale maldestra o peggio ancora maligna, che ti scodella i voli pindarici più improbabili per pomparti il nome, con l’effetto prima di portarti completamente fuori strada e poi di infastidirti per esser stato trattato da mero oggetto da convincere che non merita uno straccio di argomentazione. I Vision Of Trees ce li han venduti come “la perfetta sintesi delle espressioni pop dagli ‘80 ai ‘00”, “l’anello di congiunzione tra i rave e la dance ‘90 per il largo audience”, “il nuovo astro nascente dell’elettronica da classifica”, facendo di tutto per evitare di pronunciare l’unica parola sensata e centrata ma che, guarda caso, avrebbe fatto scappare all’istante l’80% dei lettori: trance. Per l’album d’esordio il duo londinese non fa altro che 124
giocare coi collaudatissimi meccanismi trance mainstream dei soliti Tiësto, Van Buuren e del terribile Guetta, caricando sul falsetto dal timbro epic-celtico sfumato Evanescence per dar la sensazione di novità. Solo che, anche a voler essere bendisposti, ormai la formula poptrance radiofonica di Turn 2 U è stantìa anche più del synthpop, le pose dark di Ocean Floor suonano fuori fuoco nell’inquadratura complessiva, Glass Rain e Disapeared sono la riproduzione da stampino delle arene sintetiche che furono e i mood in slow-emotion da naturalismo dreamy di With You e We’re All Dust, pur nella loro veste dignitosa, son due ipotesi isolate che vengono screditate dal contesto. Alla fine i due pezzi messi meglio a fuoco sono Everything Awaits, che scopre le carte e svela l’affinità con l’altro hardcore-pop act delle classifiche britanniche, i Nero, e Endless Days Of Youth, che tira fuori una fiera coscienza dei tempi improvvisando un incrocio sghembo tra humour post-witch e metrica halfstep. Tutto così tanto studiato a tavolino dall’industria che vien quasi compassione per i protagonisti. Saranno le prossime release a mostrare il loro vero carattere, ma qui non moriremo di ansia aspettandole. (5.4/10) Carlo Affatigato
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CAMPI MAGNETICI #16
Decibel Vivo da re (spaghetti rec, Giugno 1980)
Diciamolo subito, così, in medias res: i primi dischi di Enrico Ruggeri, a partire da questo Vivo da re fino al 1985 di Tutto scorre, sono tutti diversamente eccezionali. Scegliere di analizzare questo secondo lavoro firmato Decibel quindi e non, per esempio, il primo album solista del cantautore milanese - Champagne molotov - o il più noto Polvere, significa porre doverosamente lo sguardo sulla prima apparizione di quelle che sarebbero diventate più in là alcune cifre stilistiche del Rouge nazionale. Prodotto dal re dei punk-prima-di-noi, l’ex Rokes Shel Shapiro, che compare anche al piano in alcuni brani, Vivo da re è la perfetta commistione di suoni dalla produzione low profile, forte tensione punk direzionata a tratti nella più blue new-wave e una raccolta di incipit di capacità autorali notevoli. Pervaso di malinconia e sgangherati male di vivere e lascivia, il disco è una raccolta di suoni elementari la cui ispirazione è quella commistione tutta nordica, dichiaratamente amata da Ruggeri, di synth pop, pennate di puro punk e filastroccheschi momenti da cabaret tedesco a-la-Kurt Weill. Potremmo anche, certo con un maggiore sforzo immaginativo, nominare Sparks, David Bowie e tutto quel mondo oscuramente e orgogliosamente figlio dell’estetismo letterario di Wilde e soci. Grandi occhiali da sole dalla montatura bianca e un look camicia+cravatta che ai Kraftwerk deve tutto, aura di mistero e parole che hanno il grande pregio di essere misurate, scelte, dosate. Se il primo episodio del 1978, noto ai più come Punk per la scritta sulla copertina, era poco più di una raccolta di rabbie post adolescenziali qua le cose si fanno ben più serie. Fanno capolino la depressione di amori finiti più per giovanilismo e brutto carattere che per la fine di un sentimento e tutto il disco, da Sepolto vivo passando per A disagio fino a Pernod, è un libero spazio occupato da incazzature ben studiate,
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cinismo meditato e in alcuni casi persino interessato a certe dinamiche sociali (Supermarket). Non mancano le meta-narrazioni sulla vita, allora forse per Ruggeri più agognata che reale, del rocker maudit (Vivo da re, Teenager). Il fiore all’occhiello sono però le canzoni d’amore, un amore unconventional come quello cantato poco prima dai Japan nel loro album d’esordio, amore erotico fatto di possesso come ne Il mio show ma, soprattutto, tormentato come in quel capolavoro di Vivo di re, brano interamente costruito sulla negazione di un evidente desiderio d’amore corrisposto che alla fine, strofa dopo strofa non può che essere confessato “certo pensandoci bene qualcosa mi manca...” o ancora “di rose e di noia devi essere stanca”. Menzione speciale per Peggio per te che con il suo “vai a piangere un po’ più in là” è diventata un monito a chi non abbandona la sicurezza per il tremar d’amore. Sebbene negli annali siano rimaste più che altro Contessa, grande successo di pubblico già in 45giri grazie a Sanremo e la title track, nonchè una non eccezionale cover di Ho in mente te, Vivo da re è un eccezionale momento di musica d’autore italiana dalle più nobili tensioni esterofile. Un ottimo modo per iniziare a riscoprire l’epoca d’oro di un grande autore. Giulia Cavaliere
classic album
Napalm Death Scum (Earache, 1987)
Birmingham. Periferia industriale di un’Inghilterra in crisi economica. I vapori soffocanti delle industrie dell’acciaio e la low class impegnata ad affrontare la grande lotta contro la disoccupazione. E poi i giovani, che, ancora una volta, vivono il ’no future’ profetizzato dal punk, sotto la scure implacabile del governo Thatcher. È l’anno 1985. Culturalmente, un anno cruciale perché spartiacque tra la fine della prima New Wave Of British Heavy Metal e l’inizio di una forma più violenta e reazionaria di musica, interpretata dallo Speed Metal (poi tramutatosi in thrash), all’epoca accelerazione del suono Heavy. Londra, i suoi fermenti. San Francisco e Miami, le terre del suono estremo. La Svezia, culla della civiltà oltranzista del Death. Ma Birmingham, la città natale dei Black Sabbath, risorge come luogo di rivoluzione della musica rock, quasi inconsapevolmente. La Earache, di Digby Pearson, promoter locale e attivissimo tape trader, pubblica il terzo disco della sua storia. Un disco costato 120 sterline e registrato in presa diretta in due notti. Un disco che doveva e voleva rappresentare il sentimento, la visione, la percezione del mondo da parte della nuova gioventù inglese: Scum. La concettualizzazione del nichilismo industriale. Un’opera firmata da un gruppo destinato a divenire il più grande riferimento della musica estrema mondiale nei successivi tre decenni: i Napalm Death. Morte al Napalm. Feccia. Dolore alle orecchie. Brevi concetti spesso speculari a quelli, egualmente incisivi, del Manifesto del Futurismo. Il Grindcore e il futurismo condividevano l’ossessione per il dinamismo, per l’esasperazione della velocità; entrambi furono figli della rivoluzione culturale-industriale. ’Multinational Corporations, Genocide of The Starving Nations’ ripetuta ossessivamente, dalla voce inquietante di Nick Bullen prima e di Lee Dorian poi, apriva, con l’omonima canzone, la stagione del grindcore, la musica che comprimeva e decostruiva la struttura musicale del rock, arrivando a produrre puro caos ordinato, sviluppato in ventotto canzoni eseguite in ventiquattro minuti. La musica si comprime. Diventa una scheggia impazzita. Solo questione di velocità. Scum, grazie alle fulminanti intuizioni di You Suffer (della durata di due secondi), di Siege Of Power (in cui
il blastbeat diveniva la struttura portante di tutta l’architettura musicale), di Caught In A Dream, riscriveva il concetto di rock fino ad allora conosciuto, polverizzandone le regole. Contrariamente al credo comune, Scum non fu la definizione del suono grindcore, bensì del suo concetto. La sublimazione del grindsound arrivò un anno dopo, con la pubblicazione di From Enslavement To Obliteration dei Napalm Death e Reek Of Putrefaction dei Carcass. Scum era il manifesto concettuale. Era l’inizio della fine. L’alba dell’apocalisse sonora. E, non appaia un paradosso, ma Scum dei Napalm Death, pur provenendo da una cultura prettamente più Hardcore, divenne il disco che cambiò per sempre il metal. Non erano gli Iron Maiden la passione dei Napalm Death, quanto i Discharge, i Crass e i Siege. Scum fu l’esempio di sperimentazione improvvisa, di convergenza di elementi inavvicinabili tra loro, scritto da musicisti il cui futuro svelerà la vera natura: Justin Broadrick, re della sperimentazione industrial dub elettrometal con Godflesh, Jesu, Final, Pale Sketcher; Lee Dorrian, l’animo metal, poi artefice della grande resurrezione del doom metal con i Cathedral (prima di dedicarsi interamente alla sua casa discografica, la Rise Above); Mick Harris girovago sperimentatore con John Zorn, Scorn, Painkiller e Almamegretta. I Napalm Death erano spinti da un’incredibile urgenza espressiva e realizzarono in poche ore il cambiamento, la modificazione, la decostruzione dell’heavy metal, sancendo la nascita di una nuova forma musicale che nei vent’anni successivi, sconvolse pubblico e critica. L’edizione pubblicata per il venticinquesimo anniversario della Earache è tanto più fondamentale perché pubblica integralmente la prima sessione di registrazione di Scum, i provini che poi il gruppo modificò il giorno successivo, prima di consegnare i nastri a Digby Pearson. E nella grezza e rozza esecuzione tecnica di una musica incomprensibile, s’intravedeva chiaramente il seme del male, l’origine del caos. Della nuova feccia moderna. Mario Ruggeri
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