SA 96

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digital magazine | ottobre 2012 | n. 96

Xabier Iriondo Umberto Maria Giardini

Mission of burma

Animal Collective


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Turn On Füsch!, Cartavetro, Deadmau5, Nathan Fake, Alt-J

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Tune-In Xabier Iriondo, Umberto Maria Giardini

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Drop Out Animal Collective, Mission of Burma

Recensioni Campi magnetici

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Gimme some inches Classic album

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sentireascoltare

#96 ottobre Direttore Edoardo Bridda Direttore Responsabile Antonello Comunale Ufficio Stampa Alberto Lepri, Teresa Greco Coordinamento Gaspare Caliri Progetto Grafico Nicolas Campagnari Redazione Alberto Lepri, Antonello Comunale, Carlo Affatigato, Edoardo Bridda, Fabrizio Zampighi, Gabriele Marino, Gaspare Caliri, Marco Braggion, Massimo Rancati, Nicolas Campagnari, Riccardo Zagaglia, Stefano Solventi, Stefano Pifferi, Teresa Greco Staff Andrea Napoli, Antonio Laudazi, Antonio Pancamo Puglia, Costanza Salvi, Dario Moroldo, Diego Ballani, Eugenia Durante, Federico Pevere, Filippo Bordignon, Giancarlo Turra, Giulia Cavaliere, Giulia Antelli, Giulio Pasquali, Luca Barachetti, Marco Boscolo, Mario Ruggeri, Nino Ciglio, Stefano Gaz, Viola Barbieri Copertina Animal Collective Guida spirituale Adriano Trauber (1966-2004)

SentireAscoltare online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Provider NGI S.p.A. Copyright © 2012 Edoardo Bridda. Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo, è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare.


Füsch! Contorni post-rock

E’ uscito da poco Corinto, l’esordio dei bergamaschi Füsch! Intervista con Mariateresa Regazzoni, tastierista e voce del gruppo

Nel mondo della discografia musicale indipendente può capitare che i ruoli si confondano, che i produttori si cimentino nella composizione di musica originale e che gli artisti prodotti diventino collaboratori dei produttori stessi. E’ questo il caso dei Füsch!, progetto nato come per gioco grazie ai due promotori della indie label bergamasca Jestrai Record Mariateresa Regazzoni, alle sue prime sperimentazioni di synth, e Pierangelo Mecca, già batterista di Fiub e Chaos Physique. L’introduzione del basso e della chitarra del polistrumentista Mario Moleri ufficializza l’inizio della storia del gruppo, da cui il battesimo del nome Füsch!, una parola che in dialetto bergamasco significa “levati”, “scansati”, ma “al di là del significato” piace ai componenti del gruppo per via del “suono della parola stessa, che ricorda un’assonanza con la lingua tedesca”. Un rodaggio a suon di jam session nel sottotetto della casa di Monte Croce (BG) adibito a sala prove e tre giorni di registrazione con il sostegno tecnico di Alessandro Dentico servono a dare alla luce Corinto, il disco d’esordio dei Füsch!. Un concentrato di tetro post rock che esprime le varie preferenze dei musicisti coinvolti e che guarda agli “anni ‘70 in tutte le sue molteplici forme: dall’hard rock all’elettronica, dalla psichedelia alla no wave e al rumore”. Ospite d’eccezione per le sovraincisioni di voce, basso e chitarra, una vecchia conoscenza in casa Jestrai: Amaury Cambuzat (Ulan Bator, Faust). Quest’ultimo nel 2005 ha pubblicato l’ottavo disco degli Ulan Bator Rodeo Massacre e oggi partecipa assieme a Pierangelo Mecca al progetto dei già citati Chaos Physique. Sembrerebbe così aggiungersi un tassello al paesaggio sonoro bergamasco, sempre più connotato dalla fioritura di gruppi strumentali dalle sonorità cupe, financo spettrali, vedi alla voce Verbal, i concittadini mathoriented. Tuttavia i Füsch!, che considerano gli altri gruppi italiani “un po’ un circolo chiuso”, non ambiscono 4

affiliarsi ad alcuna corrente contemporanea preferendo “l’idea di rappresentare noi stessi il nostro stesso genere”. Un genere indefinibile, versatile, che potrebbe proporsi tanto come colonna sonora - come successe alle musiche dei Goblin per i film di Dario Argento - quanto rimanere il divertissement di una band che mette la propria “musica a conoscenza di altri solo [...] [per] personale soddisfazione” e che ha già in cantiere il materiale per il secondo lavoro. Viola Barbieri


Cartavetro Scartavetrami il cuore!!!

I genovesi Crtvtr vanno alla conquista della Cina a suon di indie-rock ricercato e suonato con piglio post-punk e fieramente d.i.y

Nome ruvido e animo gentile e avventuroso. Prende a prestito il nome dalla carta vetrata, spigoloso materiale la cui finalità però è quella di levigare e addolcire, il terzetto genovese. Contraddizione in termini? Ossimoro vivente? Niente affatto, se si ascoltano le loro parole: Il nome viene da lontano e chisseloricordappiù. Di certo cartavetro è un riferimento al fai da te e quindi al diy, ed è graffiante - risponde Cesare Pezzoni - Poi mi sono sempre piaciuti gli scontri di consonanti. Il motivo per cui continua a piacerci (ma rigorosamente senza vocali) è il tema del diy, di cui siamo radicali e appassionati sostenitori. La musica che il power-trio - oltre a Cesare Pezzoni (chitarra) ci sono Fabio Patrone (basso) e Giovanni Stimamiglio (batteria) - mette in scena in Here It Comes, Tramontane! è sì, lontanamente memore di certi omaggi smithsiani nel titolo, ma nella polpa delle 7 tracce è un ottimo concentrato di indie-rock muscolare e molto imparentato con l’area di Washington DC metà anni ‘90. Roba venata di sottile psichedelia e dalla struttura ricercata, che si manifesta su distanze medio-lunghe senza perdere in immediatezza punk. Un terzo all’indie, un terzo all’hc evoluto e un terzo al progresso, per dirla con qualcuno che di una certa ideologia ne sapeva. Da buoni genovesi, poi, i tre non dimenticano la tradizione esplorativa della ex repubblica marinara. L’apertura di nuove rotte culturali invece che commerciali li porterà a breve nella lontana Cina con un progetto interessante

dietro: unire al tour una documentazione seria, tra video e musica, sulla scena diy cinese da supportarsi attraverso il sempre più utilizzato strumento del crowdfunding. Una scena immensa e ignota che immaginiamo intrigante tanto quanto genuina: Abbiamo scelto la Cina perché è grossa e misteriosa, perché c’è una vasta scena underground ma che a noi non arriva, perché storicamente il dominio economico porta dominio culturale e quindi forse è il momento per fare un po’ di chiarezza no? Poi diciamoci la verità: siamo abituati a considerare la Cina un posto di uomini-macchina che lavorano 20 ore al giorno, pensare anche solamente a una scena diy è sovversivo rispetto ai nostri pregiudizi. E invece abbiamo notizie di una scena ricca e matura, internazionalizzata, con grande mentalità e grandi mezzi. E noi vogliamo raccogliere quegli stimoli e magari cominciare a fare girare anche qui quella musica, quei gruppi, quella cultura. E poi è questione di attitudine: noi abbiamo sempre optato per il tour meno scontato, per la meta più lontana. Siete avvisati. Dopo i Crtvtr la Cina sarà ancora più vicina. Stefano Pifferi

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Deadmau5 This is shit. Old school shit.

Drop culture? New hardcore? Macché. Deadmau5 si ripassa Chemical Brothers e Daft Punk e pubblica il disco più robusto. Ma anche la hardelectro più piatta. Il bello e il brutto dei giorni nostri

Son tempi strani per la musica. Un mondo multimediale e interattivo, dove tutti i tasselli sono protagonisti allo stesso modo, siano essi act storici, compositori di altà qualità o mediocri fenomeni di massa. Apri il file sharing e in un’unica schermata hai ogni cosa, senza distinzioni, dai Pink Floyd a Lady Gaga, da Chopin ai Radiohead, al punto che tu, amante della musica e della scoperta, 6

sei onnivoro non per scelta ma perchè puoi fare altrimenti. Poi passi all’altro tab, apri youtube, clicchi sul like e ti accorgi di avere lo stesso potere decisionale di una major, sei tu a far nascere fenomeni come Justin Bieber stando seduto sulla poltroncina di casa tua e chi cambia la storia non è più il producer o il talent scout ma facebook. Ovviamente la critica specializzata riflette i tempi


in cui vive, Skrillex viene recensito sulla stessa pagina di Richard Skelton (non solo per l’ordine alfabetico) e la tendenza è anzi quella di rivalutare i fenomeni di massa, un po’ come dimostrazione di piena imparzialità verso ogni espressione musicale del momento, un po’ perché, in fondo, oggi tutto è massa. Ora Deadmau5 arriva al sesto album e sai già che la storia sta per ripetersi. L’esposizione mediatica è alle stelle già da mesi e i pretesti per copertine e spazi news sono polemiche e smanie da primadonna. Tu sai bene cos’hai davanti, conosci quello stile furbo che cavalca elementi trance e hardcore per trasformare intuizioni già note in successi globali, vedi bene che quel topo è soprattutto un live entertainer, una fabbrica di ticket, un progetto più commerciale che musicale, dove promozione e comunicazione contano più del lavoro in studio. Sei pronto a smentire chiunque provi a risollevarne il profilo, poi schiacci play e rifà capolino quel mondo strano, dove un solo artista potrebbe nascondere il peggio ma anche il meglio che l’oggi musicale possa offrirti. Perché, sempre a osservare senza pregiudizi, c’è un certo gusto tra le tracce di album title goes here . Pezzi come Superliminal e The Veldt non son più semplice riciclo in serie ma segnale di un ritorno alle origini, ai Chemical Brothers e agli Underworld, a quell’elettronica anni ‘90 che rappresenta ancora l’immaginario comune associato all’idea di “musica elettronica”. C’è energia, ovvio, ma anche il buonsenso di non cedere ai drop scommettendo più sulle pose plastiche dei Daft Punk (Maths). Ma soprattutto c’è inventiva e coraggio, certi momenti sorprendono per la loro distanza dall’arena (Sleepless) e altri per la libertà espressiva lasciata ai featuring: i Cypressi Hill ce li aspettavamo come nelle sbracature viste con Rusko e invece in Failbait lo spazio hip-hop resta intatto a far glamour, mentre Imogen Heap riesce a trascinare la chiusa dell’album su una Telemiscommunications di delizioso vapore dreamy. E allora non sai più cosa pensare. O meglio, il problema è che lo sai: Deadmau5 non si è mai inventato niente - e non lo fa neanche stavolta - ma quel pescare dal serbatoio storico comune raggiunge qui una propria dimensione filologica e diventa cura del sentire classico. C’è una resistenza alla logica degli eccessi che da uno come lui non ti aspetti, quasi un momento di lucidità lungo la linea d’accelerazione tenuta finora. Tutte cose che diresti di un Nathan Fake o un Matthew Dear, ma che sembrano assurde accanto a mr. faccia di topo. Nello stesso tempo vedi anche una Channel 42 piatta come poche (Wolfgang Gartner non è esattamente il più sveglio dei producers electro-house), la ruffiana ripresa del sound progressive in There Might Be Coffee e la colossale

baggianata di Closer su Spielberg, e non sai più dire se dietro a tutto questo c’è un talento o solo un gran furbone. Forse l’ondata di imparzialità verso il mainstream ci ha accecato tutti, o forse lui sapeva benissimo quali riflettori avrebbe avuto addosso ed è andato a comprarsi il vestito buono. Siam dentro Inception, sostanza e superficie sono esattamente identiche e la trottola/totem che lanci per trovare certezze è proprio il disco che hai in mano. Buona fortuna. Carlo Affatigato

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Nathan Fake I’m pretty stubborn...

I due poli dell’universo Fake, ambientazione e attitudine ritmica, la sintesi raggiunta nel terzo album, il retrofuturismo, Norfolk e Londra. Il “ragazzo cocciuto” si racconta in esclusiva su SA.

Era uno dei personaggi più attesi di quest’anno, e non solo dal pubblico electro: Nathan Fake ha una cerchia ben più ampia di sostenitori perché è tra i pochi che sanno donare al sound elettronico la giusta gentilezza e armonia, riuscendo ad andare oltre alle cerchie di aficionados di nicchia. Questo almeno è il pregio che si è guadagnato con l’album del 2006, Drowning In A Sea Of Love, che ha segnato uno dei risultati più riusciti di fruizione ed emozionalità del decennio elettronico scorso (non a caso premiatissimo in redazione). Eppure Fake ha un background elettronico corposissimo, cresciuto negli anni ‘90 a colpi di Warp e Orbital e sfociato poi nella fase matura in una marcata attitudine techno: le uscite brevi che precedevano l’esordio su album (Outhouse, 8

Watlington Street, Dinamo) e il percorso poi sfociato in Hard Island hanno reso espliciti i tratteggi dance del producer di Norfolk. A conti fatti, non son stati molti i momenti nella discografia di Nathan Fake in cui questi due volti si son riconciliati e, tolto il We Fear Silence Mix del 2009 (che fa intendere come l’equilibrio vien raggiunto nei suoi dj-set ), quest’anno il terzo album Steam Days è valso come perfetta sintesi del suo universo sonoro. L’incontro tra le armonie melodiche e le geometrie dance ha dato vita a un disegno a metà strada tra classico e moderno, tra leggerezza e impegno. Questa è l’essenza della vera ambient-techno, di cui Fake si fa comunicatore e innovatore rispetto all’estetica comune che discende dai ‘90.


Nell’intervista rilasciata in esclusiva abbiamo toccato tutti i nodi che si intrecciano nella terza prova in lunga distanza. Era naturale pensare l’evoluzione del sound in relazione al suo trasferimento da una contea fuori porta come Norfolk e la capitale mondiale dell’elettronica, Londra, come non si poteva non toccare l’argomento “retrofuturismo”, tag che spesso viene associato a Fake per quella sua abilità di ripresentare il sound classico nei tempi moderni. A rispondere è un ragazzo “piuttosto cocciuto”, come si definisce lui stesso, che si sente fortemente autonomo e indipendente da progetti e influenze ambientali. Questa è la sua strada, ed esprime semplicemente l’ispirazione che porta dentro: una forza che lo fa oscillare tra i suoi due poli d’attrazione - atmosfere e ritmi - e che modifica nel tempo la composizione del suo pubblico. Ma anche su questo Nathan ha qualche obiezione... Il tuo terzo album, Steam Days, sembra riconciliare il lato melodico e romantico di Drowning In A Sea Of Love con l’attitudine dance di Hard Islands. La tua discografia è un po’ come tesi, antitesi, sintesi, no? Steam Days è l’album che ti rappresenta meglio? Sì, è vero, Steam Days copre realmente tutte queste basi. Non c’è un vero concept dietro quest’album, è semplicemente la rappresentazione ad oggi di me. Naturalismo, ritmi, dance, ambient, folk, dream, son tutti elementi che han fatto parte del tuo sound negli anni. Qual’è il tuo background musicale? Credo sia sempre stato affascinato da certa musica intensa e affascinante, qualcosa che in realtà può manifestarsi in diversi modi. In quest’album ho cercato di indirizzare quell’intensità con consistenze differenti. Quando ti sei trasferito a Londra, il tuo sound è iniziato a diventare più urbano. Come descrivi quest’evoluzione? È qualcosa che hai voluto intenzionalmente o una naturale progressione? Beh, ho prodotto roba techno per anni, prima di Drowning..., quando vivevo a Norfolk. Sinceramente non penso che Londra abbia avuto un’influenza così forte nel mio sound. Sono piuttosto cocciuto e la mia musica rappresenterà sempre soltanto me, non la città in cui vivo. Ho interpretato stili abbastanza differenti negli anni. E quanto è stato importante il ruolo della Border Community nella tua evoluzione? James [Holden] e Gemma [Sheppard] sono amici stretti, ma in realtà sono abbastanza indipendente quqndo faccio musica. Loro mi lasciano camminare sulle mie gambe e hanno fiducia in me. Steam Days è piuttosto diverso dal tuo primo album. Da un’elettronica “shoegazey” alla consistenza tech-

no dell’ultimo lavoro. Non senti che il tuo pubblico possa essere cambiato dal tuo primo album? Hai paura che tra chi ti aveva apprezzato nel 2006 possa esserci qualcuno che ora ti considererebbe “troppo elettronico”? Non saprei. Penso che in fondo tutti i miei dischi rappresentano me. Ovviamente la gente ha le sue preferenze, ma credo che chi mi ha seguito in passato potrà apprezzare appieno anche quest’album. Sei stato spesso definito un “retrofuturista”. Quanto ti senti a tuo agio con questa definizione? Ti definisci più un amante del classico o un innovatore? Ahah, non sono sicuro di aver mai afferrato completamente cosa significhi quel termine... Cerco sempre di far musica che suoni nuova, non penso che essere nostalgici in musica sia molto efficace. Anche se un pizzico di nostalgia color seppia a volte fa bene. Dopo questi tre album, il tuo sound è diventato abbastanza imprevedibile. La dicotomia dancing/listening, la ambient e la techno, le melodie, l’approccio IDM... Che tipo di artista di senti al momento? Beh, penso che essere imprevedibile sia una cosa buona... sì, la mia musica è piuttosto versatile, immagino. Mi vedo come un artista elettronico a tutto tondo, credo. In redazione, ascoltando Steam Days, ci siamo divertiti a tracciare le possibili influenze delle singole tracce: Orbital, Boards Of Canada, Trentemøller, Aphex Twin, perfino i Radiohead di Kid A. Quanto sono stati importanti per te questi nomi? Orbital e Aphex, sicuramente. Con loro ci sono cresciuto. BoC anche. Invece non ho ancora ascoltato nulla di Trentemøller. L’anno scorso abbiamo apprezzato un altro ragazzo proveniente dai dintorni di Londra, BNJMN. Cosa significa pensare la musica stando vicini a una delle capitali elettroniche ma lontano abbastanza dalla sua frenesia urbana? Yeah, BNJMN mi piace. Sono un ragazzo di Norfolk e penso che la mia musica rifletterà sempre questo in fondo... anche se, devo dire, Londra è un gran bel posto in cui vivere. Carlo Affatigato

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Alt-J Art pop on the top

In occasione dell’ A Perfect Day Festival al Castello Scaligero di Villafranca di Verona, intervistiamo Gus UngerHamilton degli Alt-J tra curiosità e due nuove date in Italia

Gli Alt-J si sono rivelati tra le migliori - la migliore ? - art pop band dell’anno grazie ad un ingegnoso equilibrio tra folk, rock e richiami electro. An Awesome Wave, il loro album d’esordio frutto dell’incontro tra le esperienze musicali più svariate - e recensito positivamente anche in queste pagine - ha scalato le classifiche britanniche, conquistando la top ten dei 40 album indie più venduti in Inghilterra (secondo la BBC) e portando in poco tempo i quattro di Leeds a calcare alcuni tra i palchi dei festival più importanti d’Europa. Recensiti positivamente dalle maggiori testate musicali internazionali, gli Alt-J, ovvero la combinazione di tasti necessaria a formare il simbolo del delta, devono sicuramente molto ai mentori Wild Beasts, che hanno affiancato in tour, ma sicuramente l’album An Awesome Wave è anche un ottimo esempio di come il citazionismo, se ben dosato, possa generare una proposta fresca e fantasiosa. Numerosi, infatti, i tributi a cinema e letteratura, da Besson a Sendak. La band inglese si è appena esibita sul palco del terzo giorno dell’A Perfect Day Festival quando incontriamo il tastierista Gus Unger-Hamilton nel backstage. Dopo l’acclamata performance nella suggestiva cornice dell’Ypsigrock di Castelbuono, anche l’esibizione odierna conferma il successo della formazione di Leeds tra il pubblico italiano, che avrà - notizia fresca del 5 settembre - occasione di rivederli il 28 novembre al Bronson di 10

Madonna dell’Albero e il 29 novembre al Circolo degli Artisti di Roma. Non appena ci sediamo i dEUS attaccano a suonare e ci rassegniamo all’idea di un’intervista che si preannuncia piuttosto rumorosa. Gus non sembra particolarmente scosso e sorride dietro un paio d’occhiali neri. Questa è la seconda volta che vi esibite in Italia dopo l’Ypsigrock Festival. Cosa ne pensate della risposta italiana al vostro album d’esordio An Awesome Wave? È stato bellissimo perché non avremmo mai pensato che l’Italia ci avrebbe accolto così. Solitamente se sei una nuova band il successo arriva principalmente in Inghilterra e poi in Francia, Belgio e Germania, quindi per i primi mesi ci siamo esibiti in questi paesi senza nemmeno prendere in considerazione l’Italia. Venire qua e vedere che abbiamo così tanti fan è stato bellissimo e anche molto inaspettato. Anche oggi a Verona non avevamo idea che il pubblico avrebbe saputo i testi delle canzoni. È stato incredibile. Vi aspettavate un successo così grande per il vostro primo album? Quando abbiamo finito “An Awesome Wave” eravamo davvero contenti. Non sapevamo ancora se avrebbe avuto successo, perché era un disco molto inusuale e strano e pensavamo che magari sarebbe piaciuto solo a noi .. ma fortunatamente le cose hanno preso una piega diversa. In realtà abbiamo creato esattamente l’album


che avevamo in mente. Non abbiamo subito le pressioni di un’etichetta, abbiamo semplicemente assemblato le canzoni esattamente come volevamo che fossero, senza pensare alla coerenza. Credo che alla fine l’album risulti abbastanza coerente, e questo magari è uno dei motivi del suo successo. A cosa si riferisce la canzone “Matilda”? Perché le citazioni a Johnny Flynn e al film Léon? La canzone a cui ci riferiamo nel testo è “The Wrote and the Writ” ed è tratta dal primo album di Johnny Flynn. Io sono un suo grande fan e penso che anche Joe (chitarra e voci) lo apprezzi molto. Quando leggiamo un libro, guardiamo un film o ascoltiamo un pezzo e lo troviamo interessante ci piace prendere in prestito qualcosa, ma la regola numero uno è citare da dove proviene quello che si è rielaborato. Trarre ispirazione è legittimo solo se la fonte è citata. In “Matilda” abbiamo letteralmente preso il testo di Johnny dicendo: “Just like Johnny Flynn said”. Non si tratta di nulla di metafisico dunque.. magari solo un po’ postmoderno! (Ride) La canzone si riferisce anche al film “Léon” perchè è nata proprio mentre Joe lo stava guardando strimpellando la chitarra. Per questo cantiamo “This is from Matilda”. Anche “Breezeblocks” contiene una citazione, questa volta dal capolavoro di Maurice Sendak “Nel paese dei mostri selvaggi”, e parla di amore come una forma di cannibalismo. Che ne pensi di questa idea? La trovo molto interessante. Penso che quando una relazione finisce a volte una delle due persone coinvolte non vuole che l’altra se ne vada, e l’amore diventa violento e aggressivo. Il rapporto che si viene a creare è molto interessante. Abbiamo preso quest’idea di base per la canzone e l’abbiamo in qualche modo “imprigionata culturalmente” nelle parole di un libro, in questo caso proprio “Nel paese dei mostri selvaggi”. Quindi invece di limitarci a scrivere una canzone su una storia finita male l’abbiamo filtrata attraverso l’opera di qualcun altro, e penso che questa formula funzioni. Quali band ascoltavate ai tempi del liceo? Pensi che abbiano in qualche modo influenzato la vostra musica? Io ascoltavo principalmente indie, band come gli Strokes e i The Libertines. Joe (chitarra e voci) e Gwil (basso) ascoltavano per lo più hip hop, mentre Tom (batteria) era un patito di metal, Lamb of God e band simili, quindi proveniamo tutti da background musicali molto diversi. Questo è stato un bene per la nostra musica: quando abbiamo iniziato con gli Alt-J ci siamo limitati a vedere cosa succedeva mettendo insieme le nostre diverse esperienze musicali. Penso che per questo il nostro sound è così naturale e spontaneo. Pochi giorni fa vi siete esibiti su uno dei palchi del

Leeds Festival. Com’è stato? Quali sono le band che vi hanno colpito maggiormente? Noi siamo di Leeds, che è una città molto vivibile e a misura di studente. Quando eravamo al liceo in realtà non eravamo molto coinvolti nella sfera musicale, pensavamo per lo più alle cose a cui pensano tutti i ragazzini. Ma Leeds è casa nostra, e suonare sul palco del Leeds Festival è stato incredibile. Ci sentivamo a nostro agio e abbiamo incontrato moltissimi amici. Nonostante la portata del festival, è stata un’esperienza molto intima.A me sono piaciuti moltissimo i Jeff the Brotherwood, penso che i loro pezzi siano davvero interessanti. Ho apprezzato anche Lucy Rose, che sta avendo un successo incredibile nella sfera dell’indie inglese. È un’artista molto sensibile. Siete stati in tour con i Wild Beasts. È stata un’esperienza positiva? Dire positiva è poco: è stato incredibile. Non avevamo mai suonato di fronte a un pubblico così vasto, si parla di migliaia di persone. Dopo il nostro show rimanevamo sempre a guardare i Wild Beasts suonare per imparare da loro: sono degli ottimi musicisti e riescono a ottenere una forte unità sul palco. Essere in tour con loro è stato una specie di utilissimo apprendistato, abbiamo imparato tante cose e dobbiamo loro moltissimo. Lo sapevate che digitando Alt + J sulle tastiere italiane dei Macbook non si ottiene la vostra Delta? Davvero?! Mi dispiace tantissimo, mi immagino tutti i nostri fan a digitare Alt+J cercando di fare Delta senza successo. Perdonateci! A proposito del nome, originariamente avevate deciso di chiamarvi “Films”, ma poi avete optato per il simbolo del delta, che rappresenta il cambiamento. Ci sono dei cambiamenti che vorreste avvenissero nel futuro della vostra band? In realtà il cambiamento del nome è dovuto esclusivamente al fatto che già esisteva una band americana chiamata “The Films”. Abbiamo cambiato solamente il nome, niente’altro. Non credo vogliamo apportare consciamente cambiamenti, le cose per ora vanno bene così. Il cambiamento deve essere un processo naturale, le cose devono modificarsi con il corso del tempo.In ogni caso, abbiamo una formula fissa per quanto riguarda il nostro modus operandi: semplicemente ci incontriamo tutti insieme e scriviamo la musica a seconda di quello che ci piace. E non abbiamo la minima intenzione di cambiare. Non stiamo ancora pensando a un nuovo album, è troppo presto. Ci aspetta un lungo tour che approderà negli Stati Uniti e toccherà vari paesi europei. Torneremo in Italia per altre tre date, vi terremo aggiornati. Eugenia Durante

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Xabier Iriondo Un urlo stridente e prolungato

L’Irrintzi di Xabier Iriondo mette a nudo, per la prima volta, l’operato del chitarrista italo-basco. Tra rock e sperimentazione, un viaggio nella weltannschaung del criptico musicista

testo: Stefano Pifferi “L’intelligenza applicata ai suoni ed al silenzio”. Questa la definizione di musica che Xabier Iriondo affidava ad una intervista di una decina di anni fa. E di intelligenza applicata a suono e silenzio (ma non solo, questa volta) ce n’è in abbondanza in Irrintzi, il primo lavoro lungo a suo nome pubblicato dal musicista italiano. Dopo le prime avvisaglie affidate al volume conclusivo della Phonometak Series - un lato e due pezzi in completa solitudine nello split 10” condiviso con un altro personaggio interessante e già arrivato al debutto lungo, come Paolo Cantù a.k.a. Makhno - Iriondo affida ad una strepitosa edizione vinilica intitolata programmaticamente Irrintzi, la sua personale weltannschaung. Ciò a culmine di un percorso ondivago lungo un ventennio in cui il nostro ha dispensato il suo sapere chitarristico e compositivo a destra e a manca, alternandosi tra composizione e improvvisazione, rock e avanguardia e passando con nonchalance da Afterhours a Six Minute War Madness, da A Short Apnea a Tasaday, da ?alos a Gianni Mimmo, da Gianni Gebbia a Stefano Giust, da Shipwreck Bag a Show. Come a dire, un bello spaccato dell’ala più ardita, avventurosa e sperimentale dell’underground italiano. In Irrintzi le anime che hanno contraddistinto l’operato di Iriondo trovano una loro fusione. Molto rock tradizio-

nale rivisto in chiave personale - le cover di Motorhead, Springsteen e del Lennon in solo - e altrettanta volontà di rottura, di superamento dei confini nel tentativo di riscrivere la tradizione del rock. Il tutto ammantato da una sorta di autobiografia su pentagramma in cui confluisce la storia personale del musicista italo-basco e quella collettiva del suo/nostro tempo. La sua visione ideologico-esistenziale, diremmo, se non si corresse il rischio di sembrare anacronistici. Un lavoro che è quasi impossibile non definire politico, nella sua accezione più ampia e totalizzante. Un disco che è summa definitiva dei vari input, in cui convivono poetica della resistenza - individuale prima che collettiva, come detto -, infrazione della norma (non solo musicale), coesistenza su piani sempre più ossimorici (underground vs mainstream; canzone vs destrutturazione; tradizione vs rottura della stessa), a dimostrazione di un animo mai domo. Sembra quasi volersi mettere a nudo, Iriondo. Un po’ come nella doppia/tripla identità messa su cover dall’affascinante dipinto di Valentina Chiappini, che mostra un Iriondo uno e trino, senza presunzione o velleità da divinità di quart’ordine. Quanto con la voglia di mettere sin da subito in chiaro i punti cardinali, citati sopra, attraverso i quali si svolge l’intero percorso interno a Irrintzi 13


e che, a ben vedere, è rintracciabile in tutta la carriera di Iriondo. Un lavoro che rende giustizia allo spessore dell’uomo prima ancora che dell’artista in senso stretto; che ne fornisce alcune chiavi interpretative e ne mostra altre tutte da scoprire; che dice molto ma nello stesso tempo lascia molto al non detto; che indaga nel retroterra culturale a tutto tondo (musicale, politico, ideologico, ecc.) fornendo lo spunto per approfondire lo sguardo su uno dei personaggi più criptici del panorama italiano. Abbiamo scambiato due parole via mail con Xabier in uno dei pochi momenti di pausa tra i suoi molti impegni. Quello che segue è quanto è emerso dall’intervista. Nel momento in cui rientri negli Afterhours, te ne esci col primo disco solista dopo una serie di lavori con praticamente tutta la scena italiana. Non hai mai sentito prima l’esigenza di un lavoro in solo? E, se posso chiedertelo, perché proprio ora? Ho iniziato a lavorare a quello che poi e’ diventato Irrintzi circa cinque anni fa affinando sempre meglio l’idea ed il concetto che volevo centrare: fare qualcosa che non avevo mai fatto prima, un oggetto artistico in edizione limitata contenente musica ed elementi grafici legato a me, al mio vissuto, alle mie passioni. Volevo immaginarlo concettualmente in solitudine e realizzarlo con l’aiuto specifico di alcuni amici artisti che ritenevo adatti a completare il quadro (sotto il profilo grafico e sonoro). Padania e Irrintzi sono due dischi “politici” a mio modo di vedere, seppure ognuno a suo modo. Itziar En Semea, Gernika Eta Bermeo oltre che Gente Per Bene dicono di un profondo impegno civile, di una volontà di non dimenticare e insieme di una rivendicazione ideologica. Mi sbaglio? Padania ed Irrintzi sono due dischi politici perché danno un preciso punto di vista e non si limitano a narrare vicende più o meno comuni o comunque conosciute ai più.Itziar en Semea (una folk song tradizionale basca, il cui testo è di Telesforo Monzon) narra una vicenda legata al rapporto tra una madre ed il figlio, prigioniero politico basco, torturato in carcere. Gernika eta Bermeo è il racconto dell’esperienza vissuta da mio padre nei giorni successivi al bombardamento di Gernika. Gente per Bene parla di un uomo emarginato dalla “società per bene”.Tre brani stilisticamente e musicalmente molto diversi ma con un minimo comune denominatore: per l’appunto l’Irrintzi, un grido che si erge sopra a tutto come denuncia e moto di sollevamento, come nel testo della title-track stessa: “L’irrintzi si alza nel mare / L’irrintzi si alza nei monti / L’irrintzi si alza nel villaggio / I bambini gridano l’irrintzi / grida l’irrintzi anche tu”. Un doppio Iriondo, sembra suggerire la bellissima 14

copertina: tu e il tuo alter ego, se ne hai uno, tradizione e innovazione, storia della musica e rottura, passato e futuro.. Più che un doppio, una trinità! La copertina di Valentina Chiappini rappresenta il mio viso realizzato con occhi non miei (il sinistro è di mio padre e il destro è di mio fratello). Tre Iriondo condensati in un dipinto sdoppiato nel quale b/n e colore si affrontano e si completano. Amo la storia da sempre e, naturalmente, amo la storia della mia famiglia (che racconto in questo album) con i suoi lutti e le sue trasformazioni. Amo la musica tradizionale e la decostruzione sonora, i momenti minimali ed orge timbriche che rasentano la cacofonia. Amo molte cose ed i contrari delle stesse. Ho l’impressione che la rievocazione della tua tradizione “lontana”, delle tue origini (non solo geografiche, non solo culturali) conti come la tua naturale tendenza al superamento dei confini musicali di genere.. I generi non mi interessano come compositore e musicista, sono per quelli che si accontentano, per quelli che si fanno cullare dal dolce ron-ron delle melodie preconfezionate o dai ritmi studiati a tavolino per far muovere bassoventre e gambe. Sono invece interessato ai metalinguaggi ed alle loro tensioni. Quanta progettualità c’è nei tuoi brani e quanto di improvvisazione? 50% a testa. Mi piace molto organizzare ma anche destrutturare e distruggere, sia sotto il profilo sonoro (le frequenze, l’intensità, le dinamiche, etc.) sia sotto quello musicale (ritmi, melodie, armonie, arrangiamenti, etc). Trovo gioco e bellezza nel poter lavorare su un motivetto pop con un suono malato, quanto nel catturare un suono concreto nella natura o in una metropoli. Mi interessa fare rock’n’roll con suoni più o meno tradizionali, quanto lavorare su dei metalinguaggi che trascendono i generi. Hai partecipato, tanto per rimanere a questi ultimi mesi, anche all’ultimo ?alos e ai Mistaking Monks, per non parlare del resto della tua discografia. Quale è la tua idea sul panorama italiano? Il panorama musicale italiano è in movimento verso direzioni completamente diverse. Da una parte si moltiplicano e accalcano realtà di sfoggio derivativo (alcune talentuose, la maggior parte no), dall’altra si approfondiscono linguaggi e metodi compositivi, con i suoni e con la parola. Il Sound Metak è stato un buon punto d’osservazione? Sound Metak è stato innanzitutto un luogo d’incontro. Una sorta di laboratorio nel quale si potevano incontrare cose realmente diverse ed allo stesso tempo vicine, dai


78 giri argentini originali di Carlos Gardel ai dischi della Table of the Elements e di numerose realtà indipendenti italiane ed internazionali, da cordofoni di inizio ‘900 a pedali auto costruiti per chitarra elettrica. E il sabato sera performances musicali gratuite (dal cantautorato al free-jazz), danza butoh, videoinstallazioni, etc. Un buon punto d’osservazione perché mi ha dato la possibilità di toccare con mano quello che stava accadendo a Milano (e non solo) in ambito artistico. È ormai leggendaria la tua capacità nel creare strumenti. Ti senti più artista o artigiano? Esiste, se possibile, una differenza tra le due? Sento di poter dire che mi sento entrambe le cose. Amo inventare nuovi strumenti e sonorità ed organizzarle in modo compiuto, secondo il mio gusto. Ho molto apprezzato la scelta, ideologica e musicale,

operata su Gernika. Credo condensi in maniera definitiva il messaggio, se esiste, di Irrintzi... Gernika riassume in modo “minimale” lo spirito ed il messaggio di Irrintzi. La tradizione, e cioè il racconto drammatico di un uomo che narra una vicenda tra le più spaventose del ‘900, il primo bombardamento a tappeto della storia militare. Un esperimento svolto dai nazisti, alleati di Franco, per vedere come e quanto si poteva piegare un popolo annientando (nel senso letterale del termine) un paese e la sua popolazione. L’innovazione, e cioè l’uso di uno strumento musicale (da me inventato) che crea una texture da profondo monocordo (bordone) dandomi allo stesso tempo la possibilità di intervenire sulla sintesi timbrica attraverso il fuzz e l’oscillatore montati sullo strumento stesso.

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Umberto Maria Giardini Evoluzione naturale Un’intervista telefonica con Umberto Maria Giardini che alla fine si è inaspettatamente rivelata una piccola esclusiva

testo: Fabrizio Zampighi

Non una rivoluzione dal punto di vista musicale bensì se diventata una situazione insopportabile da parte mia. la necessità fisiologica di chiudere con la vita passata: L’avere a che fare con le agenzie di booking, le etichette il passaggio da Moltheni a Umberto Maria Giardini è discografiche, i miei collaboratori di allora, i promoter, i figlio dell’esigenza di districarsi da una ragnatela di in- giornalisti non è mai stato facile per me. Io ho una visione contri, automatismi promozionali e insofferenze perso- della vita e del lavoro estremamente diversa da quella di nali talmente vincolanti da risultare dannose. Una cesura tutti i personaggi di cui, volente o nolente, mi sono cirche serve più al diretto interessato che ad un ascoltatore condato durante il ciclo Moltheni. Ad un certo punto era che comunque si ritroverà facilmente ne La dieta dell’im- diventato determinante staccarmi da tutto ciò e resettare peratrice, ennesima tappa di un percorso musicale ora me stesso, per poter respirare, recuperare benzina e ripropiù che mai disilluso e poco in armonia con le dinamiche pormi con un progetto nuovo. Pineda è stata la prima della discografia di casa nostra. Un’intervista a tutto cam- esperienza e poi è venuto Umberto Maria Giardini. po quella che segue, in cui si è cercato di comprendere Quindi il cambio è legato a fattori musicali ma anche ad elementi autobiografici? l’artista, almeno quanto l’uomo. Tra le note stampa del disco si legge “La nascita di Si, sicuramente. In più tutto quello che di negativo si UMG è, in buona parte, da attribuire ai miei fan e a era attaccato al progetto Moltheni, alla fine si è riflesso tutto l’affetto che mi hanno dimostrato in questi tre anche sulla vena artistica. Non ero stimolato a scrivere anni di lontananza. Moltheni era giunto al capolinea, più nulla, perchè sapevo che scrivere qualcosa di nuovo, per quello che aveva rappresentato per me e per gli oltre alla gioia dei fan, avrebbe portato anche a tutto altri, per la sua integrità morale e la sua etica, per la quello che gira attorno a un progetto: la pre-produziosua visione artistica.” In cosa credi il progetto Molthe- ne, l’uscita del disco, il tour, le interviste con i giornalisti, ni fosse al capolinea in termini di visione artistica e l’avere a che fare con un’agenzia di booking e via dicencosa intendi per integrità morale ed etica legata a do. Tutti elementi che in realtà mi hanno molto stancato e mi stancano tutt’ora, tant’è che la chiacchierata che quel progetto? Considero il progetto Moltheni concluso dal punto di faccio con te è una sorta di esclusiva, dal momento che vista strettamente artistico per il semplice fatto che tutto non rilascio più interviste telefoniche. Ripartendo da quello che potevo esprimere in quella fase l’ho espresso. E’ zero, cerco di affrontare tutto questo in maniera diversa. un fatto legato non solo al prendere la chitarra e scrivere, Un reset che fai, pur trovandoti comunque ad avere ma anche a un giro di persone, a un circolo vizioso, in cui a che fare col mondo della discografia... uno entra automaticamente con il passare del tempo. Dal In linea di massima si, anche se c’è da considerare che la punto di vista dell’integrità etica e morale, credo che fos- discografia è ormai alla frutta e questo gioca decisamen17


te a mio favore. Mi sento molto più rilassato ora, senza il problema di dover vendere dischi visto che i dischi, ormai, non si vendono più. In realtà sto cercando di reimpostare questo nuovo ciclo in una maniera un po’ più moderna, tranquilla, con tutte le conseguenze del caso. Nel nuovo disco ci sono molti riferimenti alla tua recentissima esperienza con i Pineda ma l’impianto di base dei brani mi pare sempre fortemente riconoscibile e legato in qualche maniera al tuo passato. E’ un ragionamento corretto il mio? In generale non sbagli, anche se credo che la tua considerazione non sia completa. E’ sottinteso come ci sia ancora qualcosa di Moltheni - ed è un fatto di cui forse ci si rende conto più dall’esterno che dall’interno - come del resto anche un piccolo accenno a quella libertà artistica che mi ha consentito di portare a termine il progetto Pineda (nella pratica, i riferimenti alla psichedelia o a certo progressive). E’ anche vero però che ci sono semplicemente io, il mio modo di cantare, le esperienze che ho vissuto negli ultimi anni e che mi hanno comunque fatto evolvere. E’ cambiato anche il metodo che utilizzi per scrivere i brani? In realtà no. E’ vero che ho abbandonato quella chitarra acustica che era un po’ il marchio di fabbrica del progetto Moltheni e quindi ho dovuto un po’ riadattare le mie abitudini ai suoni elettrici, ma il processo di scrittura non è cambiato di molto. Trovo il titolo del tuo nuovo lavoro molto evocativo. Chi è l’imperatrice? C’è un’idea generale alla base del disco? L’ “imperatrice” è una metafora che ho usato per indicare la “musica”. La dieta dell’imperatrice e semplicemente questo mio nuovo modo di approcciare la musica e quindi tutto quello che c’è stato prima e che ci sarà poi. Il tentativo è quello di relazionarmi con questo nuovo disco - di cui vado molto fiero - tenendo però a dieta tutto quello che gira attorno al disco stesso, che poi è quello di cui parlavamo all’inizio. Nella press del disco si cita Anna Calvi: cosa c’entra la musicista inglese con la genesi del nuovo progetto? Trattasi di ispirazione e rinnovato entusiasmo tuo a seguito dell’emergere di un profilo artistico come il suo o di un’associazione più legata all’estetica di alcuni brani del tuo disco (penso ad esempio a L’imperatrice)? Forse né l’uno né l’altro. Anna mi ha stimolato da un punto di vista squisitamente artistico, tanto che è possibile rintracciare anche nel mio disco qualcuna delle sue atmosfere noir. Sicuramente in Umberto Maria Giardini c’è il tentativo di suonare un rock comunque elegante, più 18

classico rispetto a quanto si sente in giro generalmente. Hai sempre avuto un’attenzione particolare per i testi delle tue canzoni. Che rapporto hai con la tradizione della canzone d’autore italiana? Nessun rapporto. Lo dimostra il fatto che non ascolto molta musica italiana. Molti progetti italiani sono estremamente interessanti, altri non mi affascinano per nulla. Non mi piace l’estetica di certe produzioni nostrane, considerato anche il fatto che in Italia non è che ci sia molta ricerca o cura da quel punto di vista. Inoltre mi pare che si vada avanti per categorie musicali acquisite e, nella maggior parte dei casi, tutto tenda ad essere sempre più prevedibile e scontato. Per quanto riguarda l’attenzione che riservo ai testi, posso dirti che è una cosa legata al mio modo di scrivere e a cui tengo, ma che allo stesso tempo non ha niente a che vedere con i figli degli anni zero o i cantautori classici. Non mi sento parte di una tradizione, da questo punto di vista. Nell’iconografia che hai proposto fino a ieri fa venivi ritratto spesso in scenari bucolici e molti dei tuoi testi fanno riferimento alla natura. Un semplice escamotage per sottolineare il tuo legame con il folk o qualcosa che ha a che fare con una filosofia personale? Entrambe le cose. In questo senso, mi sento molto vicino alle culture del nord Europa e poco alla nostra religione. Nelle culture nordiche il non essere legati in maniera particolare alla religione significa anche riconoscere nella natura una sorta di credo. In quelle zone il legame tra individuo e natura esiste ed è fortemente cercato, al di là della dimensione spirituale. E’ proprio una questione di approccio culturale che cambia, ad esempio, tra un norvegese e un italiano, anche perchè la natura dalle nostre parti è in qualche maniera “debole”, mentre al Nord è molto “forte” e presente. Il mio approccio verso la natura è di tipo nordico. E’ come se Dio per me fosse un albero o il mare o il vento o le nuvole. Mi spieghi tutta la questione delle dichiarazioni che rilasciasti sul mondo musicale italiano - indipendente e non - di qualche anno fa? Cosa ti spinse a prendere posizione? Tutto è venuto fuori in maniera molto naturale, in una chiacchierata fatta con qualche giornalista. Ho detto semplicemente quello che pensavo, che credo sia la verità che forse, molti, non hanno il coraggio di dire. Non ti nascondo che con alcune tue argomentazioni mi sono trovato d’accordo, con altre meno.. E su cosa non ti sei trovato d’accordo? Non ho apprezzato il fatto che tu abbia sparato a zero facendo un po’ di tutta l’erba un fascio. Credo che come tutti gli altri mondi, anche quello musicale italiano sia ricco di contraddizioni, in mezzo a cui è


importante creare dei distinguo. Del resto condivido quando dici che molta della stampa generalista spinge sempre gli stessi artisti e parte della stampa - o pseudo tale - indipendente sceglie spesso di supportare proposte musicali discutibili... E’ la stessa differenza di posizioni che c’è tra uno che dice che la politica fa schifo tutta e uno che dice che non è giusto criticare in massa quel mondo perchè tra i politici ci sono comunque, ancora, persone valide. Personalmente capisco il tuo punto di vista, ma sono nella posizione di poter dire che mi hanno davvero tutti stancato. Come ti muoveresti se fossi un’artista agli esordi nell’Italia del 2012? Sono sincero, non saprei dove mettere le mani. Questo perché non esiste più niente. Non esistono etichette, i dischi non si vendono più, i promoter ti fanno suonare possibilmente gratis pensando che tu viva d’aria, le agenzie di booking spesso non fanno un buon lavoro. Penso che se fossi un po’ più giovane, con la voglia di suonare e la consapevolezza di poter dire la mia, rinuncerei o magari cercherei di produrre materiale da inviare all’estero. Come hai vissuto gli ultimi cambiamenti in termini di musica digitale, peer to peer, internet, ecc...? Tutto quello che è successo mi rende in qualche maniera contento. Questa forma di annientamento di tutte le forme di vendita legate alla musica non è un aspetto negativo e lo dico con un pizzico di ironia e rivalsa. E’ qualcosa che doveva accadere, soprattutto in Italia. Nel nostro Paese non c’è più un soldo perché ci siamo sputtanati tutto. In Germania, in Svezia, in Inghilterra, Stati Uniti i negozi di dischi ancora vendono. Certo, a

livello globale la crisi c’è, questo è vero, ma nel nostro Paese, da questo punto di vista, siamo alla frutta, anche per un fatto legato alla mentalità e alle nostre abitudini. Questo in tutti i campi, non solo in ambito musicale. Le uniche cose che funzionano ancora in Italia sono il mercato del calcio, il mercato degli stupefacenti, il mercato delle mazzette, il ladrocinio dello Stato nei confronti del cittadino. Tutto quello che decade o crolla nella cultura italiana, a me va benissimo. Il mio primo ricordo di Moltheni risale ad un concerto tiratissimo che vidi davanti al palco B del Velvet Club di Rimini ai tempi del tuo secondo disco. Se dovessi fare un bilancio di ciò che hai realizzato in tutto questo tempo cosa vorresti mettere nell’album dei ricordi e cosa, invece, vorresti buttare? Parlo in termini di produzione musicale ma anche a livello umano... A livello umano vorrei buttare tutte le occasioni in cui il mio fare musica è stato un po’ umiliato. Per questo voglio resettare e dimenticare tutto, come se Moltheni non fosse mai esistito. Pagherei oro per svegliarmi e scoprire che Moltheni non è mai esistito. Questo perchè sono stato umiliato da tutte quelle persone che credono di sapere della vita o della musica e invece non sanno nulla. Non fanno altro che star lì ad aspettare i soliti dischi senza guardarsi mai intorno. Sono ciechi. Dal punto di vista artistico, cercando di essere obiettivo, ci sono state cose che tornando indietro non rifarei o farei diversamente e cose che mi sono piaciute. Tra le cose che ti sono piaciute? In primis, I segreti del corallo ma anche l’Ep prodotto in Svezia Io non sono come te. Poi ci sono alcune cose di inizio carriera e altre di fine, come Ingrediente Novus.

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Specchio per tempi e allodole

Animal Colle Testo: Gaspare Caliri 20


Una band avant-psych che si ritrova al centro del regno indie. E soprattutto una lente per guardare e guardarci nell’ultimo decennio

ctive R icordate

quello scrittore ?

Ricordate come scriveva gli articoli Lester Bangs? Alla faccia di qualsiasi regolamento e manuale di giornalismo anglosassone, partiva da un tema e puntualmente deragliava per andare al cuore della questione che aveva nasato come fondamentale. Raramente la band da cui partiva era poi fattivamente la protagonista di un suo articolo. Zero pragmatismo americano, zero rispetto delle cinque vu doppie, o meglio, il rispetto assoluto per l’approfondimento - sarebbe meglio dire ragionamento - al di là della notiziabilità fine a se stessa. Esce un disco, va a un concerto, oppure, deve mettersi a parlare degli Yardbirds e finisce con l’analizzare contesto e co-testo di Psychotic Reaction dei Count Five. Ma niente di personale! E soprattutto nessun criterio di preferenza, di qualità di una band rispetto all’altra - ci parla di Count Five, e solo di Count Five, ma ci fa capire che Yardbirds sono dieci spanne avanti. E poi parla a noi, punto. Vi racconto le cose dove poi voi stessi vi specchierete. Continuo incessantemente a rivolgermi a voi, pubblico di lettori, perché possiate capire che sto parlando a voi, ma anche e specialmente DI voi. E lo faccio ben sapendo - dichiarandolo! - di essere uno dei migliori scrittori che gli Stati Uniti abbiano mai visto nascere e abbiano voluto allattare e crescere. Lester non si sarebbe preoccupato di parlare di Animal Collective dandone un saggio biografico o chiudendoli sotto la campana di vetro, al contrario. Li avrebbe proiettati su di voi, su di noi. Facciamo un esperimento. Prendiamo gli Animal Collective come parabola, cartina al tornasole, becco bunsen dove veder crogiolare ciò che davvero ci sta a cuore. Il che, dichiarazione di trasparenza, non sono solo gli Animal Collective. Sono gli stessi Collective a chiederci, in un certo senso, questa mossa. Di distaccarci da loro e girare la cinepresa come alla fine dei titoli di testa di Le Mepris di Godard: dopo aver guardato la camera inseguire sul carrello la preda, essa fa centottanta gradi e ci guarda dritto negli occhi. Questa è la nostra dichiarazione d’interesse: nella vicenda micro di Animal Collective si legge il mondo macroindie-something e alternative-x-y. Fatta eccezione forse solo per il paesaggio ostico scatenato da Spirit They’ve Vanished, quello beato e livellato di Merriweather Post Pavilion e quello oggi riprodotto da Centipede Hz sono mondi che non ci stupiscono, ma ci ammaliano. Non ci disturbano, anzi ci raccontano. E vedersi camminare come se fossimo affacciati alla finestra del secondo piano che dà sulla strada è una tentazione troppo forte.

‘90

e

‘00:

mood e collettivi

Collettivi fin dal nome, a segnare un decennio che di collettività - sui generis - ha basato tantissima produzione musicale. Gli Animal Collective hanno in sostanza, secondo chi scrive, quell’abilità non tanto di anticipare i tempi, 21


ma di leggerli e di tradurli in musica. Un talento vero e proprio, che in pochi hanno dimostrato di avere senza essere a tutti i costi appaganti, e di fatto lavorando senza ripetere clichè di genere, cosa che solitamente accade in questi casi. Ci hanno provato nel tempo i coevi Xiu Xiu. Per certi versi compari nella parabola di cui sopra, per i motivi che spiegheremo. Eppure Jamie Stewart non è stato in grado di difendersi dalla meccanica del déjà-vu, specie se guardandosi allo specchio. Il Collettivo ha scampato sempre questo pericolo. Fatto estremamente prezioso, se ci si muove dentro un orizzonte che non è quello dell’emersione dall’indie (cosa di cui si accusava il collettivo dopo il penultimo album Merriwheater Post Pavillion, oggi sconfermata da Centipede Hz), ma della ricerca e di continuità di percorso, che ora ci interessa riguardare all’interno di un caleidoscopio. Gli Animal Collective sbocciano dagli ‘00. E quindi dal decennio forse meno leggibile da quando la musica rock è nata, come spesso si dice. Non ci sono grandi paradigmi, se non forse uno, che è la tesi che sottende il percorso che stiamo conducendo, sul trabiccolo effervescente degli AC. La tesi ha a che fare con una parola chiave. Semplicissima. Caliamo l’asso: è la disinvoltura. Riprendiamo da qualche anno prima. I Novanta proponevano uno stato d’animo e una predisposizione sincronizzata tra musicista e ascoltatore. Non un’immedesimazione del secondo nel primo, una conduzione comunque discreta tra solipsismi. Sono generalizzazioni un po’ forzate, questo, lo am-

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mettiamo, ma il nocciolo della faccenda è che dei Novanta è lecito parlare in termini di mood. Hanno offerto un appiglio a questo discorso. Gli ‘00 invece no. L’elettronica non è più la cerebrale o alterata dei Novanta; il rock abbandona l’introspettività del post. Sembra esserci un ritorno all’euforia, anzi, qui sta la differenza, c’è un azzeramento della disforia come termine medio, neutro, collettivizzato. In termini di “consapevolezza”, i Novanta hanno fatto integrare l’introspezione per re-iniziare da capo. Operazione difficile e dolorosa. Il rock si è “centrato” nei Novanta, e ha avuto la capacità di olearsi di nuovo. Di riconoscersi nella propria leggerezza, ossia come supporto di iscrizione per una morale e per un morale da declinare a seconda delle situazioni. Detto in altri verbi, dal necessitare un umore generazionale, gli zerozero hanno tratto uno stare a vedere e a suonare, senza preconcetto. “Vivere le cose senza dirle”. Un fatto strano: l’assenza di disforia - come reazione - porta alla mente le comunità hippie dei Sessanta; abbiamo spesso ripreso quel periodo - quell’idea - come benchmark rockista per eccellenza. Lo abbiamo fatto parlando del bad trip dei Throbbing Gristle, ma anche per tutte le psichedelie e le musiche da “viaggio” che la valigia anglosassone della musica giovanile ha partorito negli ultimi quarantenni. Non possiamo oggi sottrarci dal parlare di quel rock collettivo che negli ultimi dieci anni è stato un forte catalizzatore di band e fortissimo punto di riferimento. La coralità, in alcune delle band più rilevanti dei Duemila, è stata fondamentale elemento estetico e programmatico. I due esempi principali, cardini del decennio, sono Akron/Family, americani, di Brooklin, e Animal Collective, made in Baltimora. Da lì il rock collettivo si è sparso un po’ ovunque, anche in quelle cittadine che si presentavano come supporto ideale a un’idea di collettivo - oggi però del tutto o quasi scisso da valori politici e militanti - e invece improntato alla condivisione. È interessante però che il concetto di “collettivo” è facile da prendere e fare proprio, meno immediato da definire. Sembra avere a che fare con una via di mezzo tra uno spirito e un principio di economia di gruppo. Se pensiamo ad Akron/Family, la risposta fila via liscia. Basta sentirsi in una collettività armonica per trasmettere la cosa in musica. Con AC le cose si fanno un po’ più complesse. Epperò ci sembra di veder travasare, secondo il principio dei vasi comunicanti, un po’ di quello spirito nel walzer equilibratissimo (quindi non dovuto a desideri di prevalsa individuale) tra uscite soliste e pubblicazioni a nome Animal Collective. L’equilibrio, ci sembra di poter dire, è questione altra rispetto alla scrittura dura e pura. Se la penna è troppo marcata, quel brano non finisce in un disco AC. Se non lo è, passa attraverso il filtro della “pratica” compositiva del combo. Sempre ancorato alla forma canzone quanto legato alla forma “morbida” e alla disinvoltura, riconoscibile tramite essa. Siamo certi che Lester Bangs avrebbe colto la questione, arrivando a fine articolo senza spiegare cosa intende per disinvoltura (se non nelle ultime righe), e ci avrebbe ricamato uno slangatissimo essay da aprire la testa e farla dolere. Sarebbe andato a discorrere delle strade di New York e dello spirito Berkeley-ano di Portland, dell’alone collettivo di Montreal e degli occhi spalancati dell’Inghilterra, che sta a guardare solo fintamente distratta. Noi parleremo del collettivo degli animali che c’è in noi, del collettivo che c’è in loro, del cantautoriale che si annida nelle viscere di ogni collettivo, dell’individuale che sa tenere la parte propria in ogni cantautore in cui riconosciamo un appartenenza a una missione che trascende la propria penna. 23


P rimi

passi disinvolti

Siamo in pieno decennio Novanta. I futuri Animal Collective sono tutti nati alla fine degli anni Settanta. Il che vuol dire adolescenza a partire da inizio/ metà Novanta, college a fine del decennio. Se fossimo in Inghilterra, faremmo come nelle corse ai cavalli: chiederemmo se gli ascolti dei quattro vengono dagli spasmi dell’elettronica di consumo e d’élite o piuttosto dall’acidume psichedelico made in USA di rilancio ad opera di Spacemen 3. Eppure siamo a Baltimora, Maryland - stessa patria di Beach House, termine quasi opposto nel mondo indie ma amici nella vita del combo animale. I quattro futuri Collective (nomi veri David Michael Portner, Brian Ross Weitz, Joshua Caleb Dibb e Noah Benjamin Lennox) si conoscono al liceo, e da subito concentrano la propria condivisione sull’ambito musicale. Dei quattro, quello che ascolta più elettronica, e che si appassiona alla IDM europea è l’ultimo, Lennox. Inizia a farsi chiamare Panda Bear, a causa dei panda che disegnava sulle copertine delle proprie autoproduzioni. Nel frattempo, i tre rimanenti iniziano a suonare insieme in una band che chiamano Automine, nella seconda metà dei ‘90. David Portner ha assunto il nome Avey Tare, Josh Dibb è Deakin e Brian Weitz è Geologist (studierà Scienze dell’Ambiente alla Columbia, una volta a New York). Il complesso dei rapporti è già di difficile mappatura, ma lo spirito di gruppo è una barriera insuperabile dagli individualismi di ognuno dei quattro. Ci serva dire questo. Quando arriva l’età del college, i due che optano per NYC (Portner e Weitz) tornano tutti i weekend a Baltimora per proseguire il percorso musicale comune. E la vita che ne consegue. Cercano un’idea di 24


sound. È quello che si specchia nella modernità. I punti di riferimento musicali si avvicinano al rock tedesco, altro tassello fondamentale della sovrapposizione rock/comune. E alla psichedelia in generale. Ma attenzione: “è più bello vivere la psichedelia, piuttosto che parlarne”, usa dire Avey Tare, facendo emergere un dato oggettivo del mondo Animal Collective, ossia un’incredibile capacità di guardarsi e raccontarsi. Forse il migliore viaggio dentro il mondo AC è fatto leggendo le loro interviste. Come quella in cui nel 2005 si parlava di improvvisazione. “Noi improvvisiamo il mood, la modalità esecutiva, non le note”, sosteneva Tare. Non ci sono canovacci entro cui muoversi, ci sono le canzoni. Cioè cose scritte, note fissate una volta per tutte. Ma, grande e geniale novità che qualifica gli Animal Collective e il suono degli ‘00 tutti, un brano diventa triste o felice a seconda di come lo si esegue. Cosa vi ricorda questa variabilità? Evidentemente, quella degli stimolatori lisergici. Se lo stato d’animo è quello giusto, l’effetto sul nostro mondo percepito sarà buono, altrimenti saremo dentro il malvenuto bad trip. Tutto dipende dal sé, di certo, ma anche dal gruppo. L’andirivieni tra questi due stati dell’essere (soli / in compagnia e condivisione di intenti, cose e messaggi) è un gioco interessantissimo da seguire dentro l’epopea dei quattro. Essa inizia con un’ambiguità di fondo che resterà sempre marchio di fabbrica. Il disco primo della produzione, quello che possiamo per la prima volta legare al nome Animal Collective (fatta eccezione per l’EP Paddington Band degli Automine), si chiama Panda Bear, è del 1999 e vede Panda alle prese con i famosi cori animaleschi ma soprattutto con un pensiero indietronico solista, un’ossatura di synth e tastiere già di ottima fattura (Inside A Great Stadium And A Running Race). A dargli una mano c’è Deakin, e il tutto viene licenziato per la Soccer Star, label nata per loro stessa iniziativa, e per questa occasione, ma soprattutto etichetta che sarebbe presto stata rinominata prima Animal e poi Paw Tracks, marchio di produzione Collective (con i side project) ma anche Excepter, Black Dice, Prince Rama, etc. Un milieu speciale ma molto assonante, aggregato attorno a un’idea di sottobosco, sperimentale, rumoroso, forse un po’ weird, ma in costante movimento e ricerca. Passa un anno e arriva Spirit They’re Gone, Spirit They’ve Vanished. E a noi gli occhi. Spirit... è uno dei pochi prodotti AC a essere pre-SA. Non lo diciamo per malcelata auto-referenzialità; ha senso parlare di quel momento recuperando una storia non ancora raccontata su queste pagine, ma da lì in poi è possibile sentire l’humus a partire da come abbiamo letto quei suoni quando uscirono. Gli Animal Collective, in un certo senso, sono figli di una mano sulla spalla critica per la prima volta digitale, o almeno non solo cartacea. Pitchfork, per esempio, data la sua nascita 1996. In Italia, Scaruffi a parte, le riviste musicali di critica musicale ancora oggi in piedi nascono nei primi Duemila. Non è interessante il dato in sé, ma il fatto che Animal Collective sia stato uno dei marchi più spinosi con cui confrontarsi. Con loro siamo cresciuti anche noi. Ed è uno dei motivi della boutade Bangs-iana. Spirit... (accreditato a Avey Tare & Panda Bear) è di fatto a pieno titolo dentro questo mondo di parole e html. E nel web la combinazione Tare / Bear non viene capita da subito. È “precisa” batteria di Panda Bear, una vera cavalcatura per lui, specie nelle scorribande docili ma a passo deciso di Alvin Row, c’è una grande capacità di costruire, di far planare dei mondi che poi è difficile par atterrare per salire su un altro veivolo. E l’aria che passa dal finestrino 25


fa uno strano effetto. Copre la voce di pilota e co-pilota. Entra in questo mondo la perturbazione, di una qualità non più decidibile se strumentale o produttiva. Spirit They’ve Vanished è il bellissimo manifesto di questa sorta di disturbo sintetico, che viaggia su una inedita via di mezzo, ossia quella che unisce il rumore e la canzone. Freud, a questo proposito parlava di un elemento disturbante. Una sorta di rimosso che si appalesa. Ora, è interessante per noi capire mcluhanianamente una cosa diversa: l’intenzione non è perturbante, lo è l’estetica degli Animal Collective. Tutto viene percorso da strane linee di rumore. La canzone psichedelica viene graffiata dallo stridere degli strumenti utilizzati. Un fatto non nuovo, quello della confusione mista al trasognato. Anzi, quasi una regola per alcuni, dal free form ai Mercury Rev. Ma qui si passa a una forma diversa di scioltezza nel mescolare gli ingredienti. Il cocktail riesce a essere stremamente trasognato, psichedelico ma persino dolce, come in Chocolate Girl. E, lo ripetiamo, non è mai una questione arrangiativa, o di produzione, ma di approccio a quella “macchina” che è lo strumento. Ci torniamo a breve. Non prima di aver affrontato il forse ancor più strano capitolo Danse Manatee (Catsup Plate, 2001). A Panda e Avey si aggiunge Geologist (e in effetti l’album è accreditato a Avey Tare, Panda Bear & Geologist) ed è forse il momento più oscuro del mondo animale, di un brusio di sfumature di nero, di una psichedelia quasi orientale, ma da viaggio dentro la terra. I brani sono ancora meno riconducibili al formato canzone degli episodi precedenti, sono bozzetti (il che non vuol dire non finiti) che si risolvono senza il bisogno di una struttura convenzionale (Ahhh Good Country). Quello che si percepisce è una concentrazione nella sperimentazione, che forse toglie leggerezza all’output. Eppure si prende a piene mani il lavorio di mano più che di cervello. Gli Animal Collective sono gente che provano, fanno, e poi vedono che effetto fa. E questo spesso produce la quintessenza della psichedelia, e fa uscire un sentire fuori dal binomio euforia-disforia (The Living Toys). Questo gli consente di mantenere un grande grado di libertà, e di mantenere alta l’asticella di follia della musica che producono. La cosa ricorda i Faust degli inizi, o i Neu!, ma non si tratta evidentemente di una questione musicale. Diceva André Breton: “Tutto induce a credere che esista un certo punto dello spirito da cui la vita e la morte, il reale e l’immaginario, il passato e il futuro, il comunicabile e l’incomunicabile, l’alto e il basso, cessano di essere percepiti come opposti” Non esistevano opposti - patemici - nel kraut-rock, e il collettivo degli animali non è da meno. Ci sfugge questa possibilità, ossia che negli ‘00 ci sia stato un nuovo grado di libertà. Nessuno parla di questo, ma tutti, quando si approcciano alle tecnologie e all’open source, per esempio, partono con mille ipotesi entusiaste su questi anni. E se le tecnologie, se quella “disinvoltura” open che oggi si fa chiamare comunità di “maker” avesse investito anche la musica, a partire da quei primi Duemila? Si diceva sopra di Xiu Xiu. Ad ascoltare i primi tre album della band, da Knife Play a Fabulous Muscles, sembra di percepire un’evoluzione, un passo più in là nel mondo del lo-fi. Non c’è approssimazione nella registrazione, nella riproduzione, non c’è insomma bassa fedeltà, ma c’è una metafora modellizzante, un gesto metaforizzante. La mano che infila un jack in un posto dove non sarebbe tecnicamente corretto inserirlo. Tastiere giocattolo e synth, chitarre e strumenti provenienti dall’acusmatica si fondono senza il pensiero dietro del tecnico del suono, ma con la necessità, l’urgenza del 26


fare. E del confezionare camere musicali inedite. Un approccio che chiamiamo wro-fi, wrong fidelity, e che è il riflesso operativo della disinvoltura di cui prima. Effetto nell’effetto, è anche un bel passo in avanti rispetto alla mitologia dello strumento, altra grande ri-conquista dei Duemila. Non che nei Novanta non ci fosse apertura nei confronti degli strumenti dell’extra-rock - l’ideologia del post-rock, che ha portato (loro malgrado) i Tortoise a essere tirati in mezzo alla questione, ne è dimostrazione - ma è proprio lo stressare il “dopo” qualcosa che conduceva a mantenere alta la magnificazione di chitarra basso batteria. Oppure, altrimenti, a scoprire nuovi strumenti e subito esserne in qualche modo vittima, per fascino passatista. Fatto sta che il laptop ha creato un grande discrimine, almeno questa è la nostra ipotesi: il portatile come tabula rasa dei pesi del tecnicismo, molto più che di quello - fisico - degli strumenti. Lo stesso Stewart dichiarava: “Non usavamo di proposito quell’accozzaglia di strumenti d’accatto, synth e chitarra batteria basso. Era quello che potevamo permetterci, ma la cosa non è mai sembrata un ostacolo”. Quella libertà era tutta già esplorata nel cosiddetto krautrock. Certo, i Can erano allievi di Stockhausen, non di certo dei novelli nell’usare le tecnologie atonali. E uno come Klaus Schulze ha sicuramente condizionato la nascita di una mitologia, a sua volta, con eccezionali componimenti - per elettroniche - come Irrlicht. Eppure, dietro molte delle scelte del magma tedesco - almeno quello prima che si decidesse “tu fai il motorik, io faccio il cosmico, a quell’altro lasciamo il blues” c’era una condivisione certamente lisergica che lasciava a casa appartenenze. Non a caso, allora, si era alla periferia dell’impero rock anglosassone. Però il modello della comune creava una coltura perfetta. 27


E dieci anni fa? È ascoltando la lunga session psichedelica di Pride and Fight, ci passa per la testa un’associazione. Il brano è tratto da Hollinndagain (St. Ives Records, 2002, poi ristampato da Paw Tracks nel 2006), testimonianza di un live dell’anno prima, e viene prima della percussione violenta di Panda in Forest Gospel. C’è un modo di costruire l’effetto che non passa dallo strumento, ma dalla ripetizione di un beat surrettizio che potrebbe durare all’infinito. L’edificio finale ha sale fatte da un filo stridente di tastiera come da un twang di chitarra, da una percussività dilagante che va dall’osso alla carne. Dove viene rimossa la tradizione della musica leggera USA a tutti i costi. Non è un caso che Forest Gospel sia invece un’anticipazione di quella New Tribal America che tanto ci piacque quando emerse, qualche anno dopo. Ecco il punto: in Animal Collective c’è la jam liberata dal canovaccio blues. E una grande band come loro sono il ponte perfetto tra chi dal blues non veniva (i tedeschi) con chi, nella melma metropolitana, ha ritrovato l’Africa aldilà delle scale blue (i tribalisti). Niente male per un gruppo ai primi passi. Vale la pena di citare Avey Tare quando dice “Credo che tutti i nostri dischi parlino di libertà.”

Finalmente

il collettivo

Forse a fronte di questa consapevolezza, la band si ritiene davvero tale a partire dal biennio 2002-2003. Ristampa i primi due dischi, in doppio CD, finalmente a nome Animal Collective e finalmente anche in Europa. E nel 2003 se ne esce con Here Comes The Indian (Paw Tracks), dopo l’episodio Campfire Songs (Catsup Plate) - cinque brani che rappresentano il prodotto più hippie di AC (e più ricco di chitarre acustiche), infilato nella collana prima della perla Here Comes... forse per chiudere con una concezione di “collettivo” legata ancora al passato. Campfire Songs non è un’improvvisazione o un’uscita estemporanea, come a volte la si fa passare. Ancora qualche anno dopo, Panda Bear dichiarava in un’intervista quanto il passaggio da Queen in My Pictures a Doggy fosse una delle cose che riteneva meglio riuscite della loro carriera. Ecco invece l’indiano: il long-playing esordio della ragione sociale Collective è invece un momento liberatorio dove si dispiegano le quattro anime del combo, finalmente vicine di casa a New York, eppure sempre in grado di mantenere percepibile la tensione tra il Maryland più pastorale e Brooklyn. Da queste parti si diceva “Here Comes The Indian è elettrico e percussivo quanto il predecessore è acustico e aritmico, anche se manifesta qui e là inequivocabili segnali d’aritmia, nel senso di irregolarità del battito cardiaco.” E si sottolineava l’aggressione acustica con cui venne accolto il disco, davvero un discrimine nel decennio, per aggregazione di elementi tribalisti, free-form, melodici (Native Belle). Incredibilmente, però, anziché essere tacciati di essere ostici, gli Animal Collective vengono masticati. Ossia, ascoltati a lungo, a più riprese. A loro viene dedicata un’attenzione particolare, non è hype, non è costruita. È un nostro atteggiamento, di ascoltatori, di interpreti a parole, a essere benevolo: quello straniamento ha dato i suoi effetti. Cogliamo la purezza del combo, cogliamo quello spirito collettivo, ci accorgiamo che sta generando frutti non scontati. Sentiamo il sacro fuoco del rock psichedelico e sentiamo che questi quattro sono un tassello fondamentale del decennio. Niente che abbia a che fare con capolavori o parole spese per la magnificazione - altro tratto interessante di AC, forse non hanno mai prodotto un capolavoro inteso in questo senso, 28


fatta eccezione forse per Spirit.. Gli Animal Collective, d’altra parte, sono un modo di guardarci allo specchio, o nella cinepresa. Anche noi siamo nel momento di passaggio da una generazione all’altra. Una delle band che più immeschinisce e ridimensiona la critica paranoica per cui “di nuovo e buono non c’è nulla da tempo”, perché ha creato una porta, un’accessibilità ad altre band di ancor difficile digestione, è stata una delle ultime grandi band ad avere avuto un’attenzione “uno punto zero”. Uno dei gruppi più importanti degli ultimi lustri che si è visto concessa l’attenzione di un ascoltatore “ruminante”. Il lungo collage di Two Sails On A Sound dà strada a chi sta dietro, nella carovana. Alza l’asticella e permette agli altri di andare oltre, nella sperimentazione. Il tutto è interpretato come una foresta incantata. Ad ascoltarla oggi, l’incantesimo è molto più inquietante di quanto fu accolto allora: suona molto strano leggere il punteggio che diede Pitchfork, e ancora di più tra i riferimenti veder citato Bad Moon Rising dei Sonic Youth. Eppure sembrava evidente. Dopo aver cantato attorno al fuoco, con la chitarra sotto braccio, i quattro si sono persi di notte, nel bosco, ma “insieme”, e si sono trovati a loro agio. L’inquietudine deve maturare e diventa meditazione, per poi lasciare, ancora una volta, la noiosissima opposizione euforia / disforia. Ancora una volta, gli Animal Collective si dimostrano un collettivo di maestri nel rimuovere gli opposti. A suo modo, ciò accade anche in Sung Tongs (Fat Cat, 2004), che vive dell’equilibrio tra le due penne, e le due chitarre, dei principali autori del collettivo. Sono canzoni folk psichedeliche che piombano direttamente dai Sixties. Ancora perturbate, ma abbastanza decise nell’abbassare il grado di follia, la polvere da sparo psichedelica. Il disco non è il prodotto dell’interazione dei quattro ma solo di Davey e Noah. A quei tempi passavano praticamente la vita insieme. In una metropoli. E ne esce il disco meno metropolitano di Animal Collective. “In Sung Tongs - spiega Avey Tare - due cantautori si liberano dalla follia elettronica e riducono tutto a due voci e due chitarre. Non è molto più riflessivo dei nostri altri dischi, lasciamo semplicemente l’ascoltatore immergersi nella nostra riflessione un po’ di più rispetto al passato perché si possono ascoltare i testi. Non ci sono strumentali.” C’è la melodia buona e dolce del collettivo che rinuncia all’LSD per dedicarsi all’erba, ci sarebbero tutte le credenziali per quel mondo hippie che ci sembrava avessero chiuso con Campfire. Basta ascoltare Winter Love per capirlo. Basta guardare il video dei quattro che la suonano per riordinare le idee. La dinamica Animal Collective è complessa. Non c’è solo l’andirivieni tra autori singoli e band. C’è anche l’ingranaggio che prevede il doppio passo formazione “a due” e formazione “a quattro” che ci permette di leggere fasi alterne. Fasi alterne È una netta presa di distanza dallo stile AC quella che guida Young Prayer di Panda Bear (Paw Tracks, 2004), il secondo album solista e il primo solitario per davvero. È, in una parola, intimo. Diceva in proposito Panda Bear, in quegli anni, quasi a tracciare il manifesto del nostro pensiero sul tema: “è molto importante per noi sapere che esistono le nostre individualità aldilà della band, ma credo sia un riflesso di noi come persone, oltre che come musicisti. Tutti noi suoniamo diversi strumenti e cose, la pensiamo in maniera diversa su tanti aspetti della vita, tutti o quasi scriviamo musica anche individualmente. Mi piace avere la sensazione di poter suonare la mia musica quando lo voglio o suonare con qualcun altro che non sia dei Collective, se mi capitasse di trovare 29


un altro compagno di viaggio. Non siamo una band tradizionale in questo e mi pare sia una buona cosa”. Il Collettivo degli Animali è un organismo aperto, con regole di interazione ma non vincolante. Certo, in Young Prayer suona Deakin, tutti danno una mano a tutti, se possibile, e ciò non intacca l’integrità della band. Gli incroci possibili non sono limitati in partenza. La Paw Tracks inizia a pubblicare Ariel Pink. Casca a pennello la collaborazione di Noah con Scott Mou ma soprattutto Prospect Hummer, a firma AC e Vashti Bunyan, ancora una volta uscito per la Fat Cat, che ormai si tiene stretti gli Animali, finché può. È l’anticamera di Feels (Fat Cat, 2005), a sua volta tinello della consacrazione (e del paradigma della collaborazione: fanno ospitate Eivynd Kang come la moglie di Avey Tare, Kristín Anna Valtýsdóttir). Ed è anche l’opposto, per molti versi, di Here Comes The Indian. È il disco in cui gli Animal Collective mettono a punto delle tecniche descrivibili. Quindi, un approccio chiaro e dichiarabile, nero su bianco. Dichiarabile e dichiarato, sul forum della band, Collective Animals (ora Animals Connected) “Tutte le canzoni su Feels - dice Geologist - sono accordate con un piano non accordato. Dave e io abbiamo fatto dei loop registrando Dave che suona il piano e abbiamo usato questi loop come materiale di partenza del processo di costruzione di Feels. Sono loop che non possono essere intonati, e le chitarre devono seguire quella scordatura. Dopo anni in cui abbiamo suonato, senza saperlo, con delle micro-scordature che ci venivano naturali, ora lo facciamo con consapevolezza.” È quasi psichedelia premeditata. Racconta in modo eccellente lo spirito di

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Feels: un disco importante, ma anche essenzialmente meno capace di focalizzare quell’attenzione che si sottolineava prima. L’artificiosità è tangibile, i retaggi anche (il raga e Mercury Rev in Bees). Ma gli Animal Collective non hanno mai lasciato i propri brani al caso, a ben vedere. Sempre Geologist, a proposito di improvvisazione, ha idee molto chiare, e fa eco all’opinione di Avey Tare, sempre di quegli anni, già riportata sopra: “è una specie di fraintendimento il fatto che i nostri set siano improvvisati. La gran parte della nostra musica è scritta, composta. Al massimo, possiamo improvvisare dal vivo la transizione tra le canzoni, perché ci piace suonare come se tutto fosse un continuum. Anche canzoni come Visiting Friends, Infant Dressing Table e Two Sails hanno regole, anche se piuttosto libere rispetto alle cose più recenti, e barriere entro cui muoversi. Hanno una struttura compositiva. In alcuni casi queste canzoni più ambientali sono stanze in cui noi improvvisiamo il mood; e ci possono essere grosse differenze tra due versioni dello stesso brano con uno stato d’animo diverso. [..] Capisco che alla gente faccia piacere sapere che lavoriamo sodo, o capire come lavoriamo, ma alla fine vogliamo solo che dentro le persone si accenda una miccia, quando ci ascoltano.” Il confezionamento di quella miccia è questione di lavoro, e l’intensità raggiungerà l’apice in Merriwheater Post Pavillion. Il capitolo di mezzo è Strawberry Jam (uscito questa volta per la Domino, nel 2007), più folle del precedente album, meno dei primi, ma in qualche modo a essi collegato. Il combo è al completo, ma si sente principalmente il dialogo interno tra Avey Tare come melodista e Panda come ritmico. Forse è la prima volta in cui le due anime appaiono meno armoniche (Fireworks), pur costruendo de-costruzioni che stanno tra i punti alti della psichedelia (Cuckoo Cuckoo). Visto con gli occhi di oggi, vengono da ridimensionare le delusioni di allora. È il 2007, gli Animal Collective esistono da un lustro e hanno tutti gli occhi su di sé. Accade un fenomeno, ancora una volta più a noi che a loro. L’attenzione, che è diventata pazienza, ha assunto un carattere temporale, a termine. Ossia, ha una scadenza, che sembra essere passata. Non solo. Strawberry è di settembre 2007. Ma nelle classifiche di quell’anno spiccherà un altro prodotto che viene dai quattro, anzi da uno dei quattro. La vera perla dell’anno del mondo del collettivo è Person Pitch (Paw Tracks, 2007), a firma Panda Bear. Person Pitch è la quintessenza della libertà creativa di marchio AC, ma è un disco solista. Comfy In Nautica sembra in tutto e per tutto un brano dei Collective. D’un tratto, il lavoro sui Sessanta, sull’innesto surf / pop / psych (Take Pills) appare l’orizzonte a cui il collettivo ha sempre aspirato. Ma è raggiunto dal solo orsetto. Succede poi che qualche mese prima di settembre, a giugno, gli Animal Collective sono vittima di un leak internet che svela l’album proprio mentre ci si sta ancora riempiendo la bocca di elogi per Panda. Il disco era stato distribuito in copie watermarked, ossia per le quali è possibile risalire al proprietario del promo che l’ha diffuso. E la cosa contribuisce a rompere il giochino, anche per l’EP successivo, Water Curses (Domino, 2008), di fatto una propaggine di Strawberry.

Il

padiglione splendente

Merriwheater Post Pavilion (Domino, 2009) è la risposta. In Merriwheater c’è grandiosità, c’è la scienza di Animal Collective nel costruire ambientazioni, stanze con soffitti alti dove ascoltare la loro musica. Ma c’è una novità: la produzione è al centro e si percepisce come tale, da cui la magniloquenza 31


dell’album. Gli Animal Collective recuperano la fascinazione che il rock ha sempre visto dentro i processi produttivi del suono. Quelle stanze sono sale dei bottoni. L’approccio disinvolto è diventato professionale. E se chiedete, nel 2009, a Geologist cosa hanno in comune due oggetti musicali come Merrywheater e Danse Manatee, dirà: “Dipende da chi ascolta, da cosa significa per quella persona vecchio e nuovo”. “Quando avevo 14 anni, ascoltai Crooked Rain dei Pavement [band cardine per la formazione musicale dei quattro, come spesso dichiarano], o gli Sugar di Bob Mould, e poi decisi di comprare i primi singoli degli uni e dell’altro. Sono rimasto shockato dal rumore dei primi Pavement o dalla roba prettamente hardcore dei primi Hüsker Dü. “non è roba che fa per me”, pensai. Ora posso vedere il collegamento tra le due fasi, ora che ho maggiore familiarità con le due band o con quello che è successo nel mezzo. Posso fare collegamenti tra elementi seminali che poi sarebbero emersi, ecc. Quello che mi auguro è che accada la stessa cosa a chi ci ascolta oggi per la prima volta, e torna indietro: che trovi significante la relazione tra oggi e allora. Ma non so se oggi si fa ancora una cosa come questa.” Merriwheater basta a se stesso, e questo va detto, esce dal flusso e va a catturare chi ancora non conosceva gli Animal Collective. È il disco dell’incoronamento come indie band - più pop che avant, se vogliamo (Summertime Clothes) - più importante al mondo, plausibilmente. Ed è tanto rilevante ascoltare il parere di Geologist dal momento che nel disco non compare Deakin, e per la prima volta non gli accidentali intrecci a-problematici che hanno costellato la storia dei Collective. Di fatto i brani si basano sulla sovrapposizione di layer (In the Flowers), ognuno un gradino verso l’alto, un modo di condurre passo passo al cielo, mentre gli Animal Collective avevano sempre sposato l’opzione psichedelica, quindi il viaggio tutto d’un colpo, oppure tramite la meditazione. Fall Be Kind (sempre per la Domino, uscito a fine 2009) segue la stessa linea. E continua l’alternanza album / EP della carriera Animal Collective. Non a caso qui a SA, all’inizio del 2010, li si qualificava come “major-indie”, come termine di mezzo tra il sottobosco e il mainstream. La label è quella perfetta (Domino, appunto), il sound anche (per accessibilità figlio di Merriwheater). Da lì a Centipede Hz c’è un tour infinito, Panda Bear che mette su famiglia a Lisbona, un altro album solista per Panda (Tomboy, Paw Tracks, 2011) e uno per Avey Tare (Down There, Paw Tracks, 2010), entrambi acclamati e riusciti. E poi quella creatura strana, ODDSAC, “A Visual Album by Danny Perez (regista che li ha sempre inciso sul video-making della band, insieme alla sorella di Avey Tare, Abby Portner, per gli art work) and Animal Collective”, che riparte da zero, ossia dall’attrazione lisergica. Dall’anima psych che rimuove gli opposti, e che musicalmente cerca di tenere insieme la stratificazione spettacolare con il trip delle origini. Centipede Hz è il compimento di questa sintesi. Così come nei credits di ODDSAC, anche nell’ultimo album a nome Animal Collective la band è al completo, vale a dire che è tornato Deakin. È tornata anche l’anima perturbante. È una reazione alla “richiesta di pop” venuta dopo Merriwheater? “Non è accaduto questo”, dice Portner. “Vogliamo che la gente apprezzi Centipede Hx così come apprezzò Merriwheater.” Ma aggiunge Josh “Deakin” Dibb: “sì, ma sappiamo che queste canzoni sono più impegnative. Ascoltando Merriwheater, ci sono alcune cose che sembrano da subito eccitanti. Siamo coscienti 32


che questo ultimo album non è così immediato”, e ce lo dice il figliol prodigo. Noi non crediamo sia esattamente una questione di accessibilità. Non per un gruppo che ha creato occasioni di accessibilità per mille altre band, e che ha portato la rotta avant-psych dentro l’indie-pop. È una questione di processo, di percorso. Today’s Supernatural o Rosie Oh (entrambe prima sperimentate dal vivo) non sono certo meno pop di canzoni come Guys Eyes. Sono essenzialmente delle canzoni che, “dal di dentro” dell’indie-pop, provano di nuovo ad alzare l’asticella. Per una questione molto semplice: tutti in questi anni si sono dovuti confrontare con gli Animal Collective. Qualsiasi teoria deve avere a che fare con loro, nella critica. Non può prescinderne. Sono diventati un parametro. Gli Animal Collective, in questo senso, hanno superato a sinistra gli Akron/ Family, che nella dimensione collettiva, nel folk collettivo, esauriscono gran parte del discorso “attorno a” sé, fatta esclusione per la grandezza e il talento smisurato della band. Agli Akron/Family non si chiede più di andare avanti, ai Collective sempre e comunque. Ecco che chi ha aperto il decennio meno chiaro di sempre lo chiude facendoci rendere conto della bellezza della libertà, e di un tratto cruciale di questa applicata al rock: la disinvoltura fa saltare i paradigmi. Ne rimane in piedi solo uno: la musica è aggregazione e meditazione. Trip e condivisione. Come disse Lester Bangs a proposito del passaggio di decennio tra Settanta e Ottanta: “Lately every time you turn around somebody’s saying: “The eighties are coming!” Like at the stroke of midnite on New Year’s it’s all gonna be different! And [..] you tell ‘em, “Come on, you know everuthing’s just gonna keep on slowly sinking”.”

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Mission

Con il nuovo Unsound il gruppo di Boston prosegue felicemente il suo “secondo tempo”, iniziato dieci anni fa. Ripercorriamo il cammino di una delle band più influenti dell’indie rock americano

Of Bur Testo: Tommaso Iannini

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Tra il 1979 e il 1983, i Mission Of Burma hanno contribuito a spargere i semi del rock alternativo degli anni ‘80 e ‘90, senza raccoglierne i frutti se non nel rispetto e nella considerazione di colleghi e addetti ai lavori; erano troppo fuori dagli schemi e troppo “in anticipo” per essere accettati in quel momento. Ma dal 2002 si stanno prendendo lentamente la rivincita sul loro tempo e sul destino. Ora che un pubblico più ampio li riscopre come classici dell’indie rock, le ristampe “definitive” hanno canonizzato la scarna discografia del periodo originale. Mentre loro vanno semplicemente avanti, fieri di rimettersi in gioco e di non cavalcare l’onda di uno sterile revival. I Mission Of Burma erano una band atipica; la critica li apprezzava ma non c’era una scena compatta alle loro spalle e non si potevano neppure inserire in un movimento. E in un’epoca in cui non esisteva ancora un network underground diffuso a livello nazionale, non avevano a disposizione vere infrastrutture, ad esclusione della piccola etichetta che pubblicava i loro dischi. Non che a Boston i fermenti mancassero. La scena hardcore dimostrava un’identità forte, anche se molto chiusa, ed era proprio una reazione alla new wave cittadina da cui i nostri erano nati. Sull’altro versante, se l’ondata punk e post-punk della capitale del Massachusetts aveva prodotto i Modern Lovers e altre band di medio e buon livello (per 35


una breve panoramica, si può ascoltare la compilation Mass Ave - The Boston Scene 1975-1983), tante musiche dei loro contemporanei - il rock and roll dei Neighbourhoods, il garage rock dei Lyres o dei Del Fuegos o il power pop dei Neats - non sono termini di paragone molto adatti per il sound dei Burma (fanno forse eccezione gli Human Sexual Response). Solo nella seconda metà degli anni ‘80 sarebbe esploso il college rock e sarebbero saliti alla ribalta Dinosaur Jr., Throwing Muses, Pixies, Lemonheads, Buffalo Tom. Al giro di boa del decennio i Mission Of Burma non sono mai arrivati; alcune delle loro folgoranti illuminazioni sono però rifluite nell’opera di Sonic Youth, Pixies, Hüsker Dü, Big Black, Dinosaur Jr, Yo La Tengo e persino REM. I nostri avevano ben chiaro che, dopo l’opera di azzeramento dei codici effettuata dal punk, esisteva un nuovo spazio di azione tra l’idea di una garage band e quella di un gruppo progressivo. Da qui avevano intuito molti link e possibili intersezioni tra il punk atonale e la musica d’avanguardia, il noise bianco e la psichedelia, il power pop e l’heavy metal, la musica melodica e gli ensemble sperimentali. Eccoli quindi unire melodia e accordi d’assalto, urgenza punk e sintassi progressiva. Una chitarra dissonante e piuttosto libera rispetto alla forma blues, le textures musicali create con le distorsioni e i volumi altissimi, la svolta a livello armonico con gli stessi elementi e l’idea di smontare e riassemblare a piacere la forma canzone sono uno spaccato di quanto saprà offrirci negli anni il rock alternativo americano. I MOB ne sintetizzano una formula ancora in piena epoca new wave, subodorando la pista giusta per gli anni a venire. Per Roger Miller, Clint Conley, Peter Prescott e Martin Swope potrebbe valere, su scala certamente ridotta, il celebre ragionamento di Brian Eno a proposito dei Velvet Underground: li avevano ascoltati in pochi, eppure quei pochi avevano tutti formato una band. Nel 1978 Clint Conley suonava il basso nei Moving Parts. Succede tutto nell’inverno di quell’anno. All’uscita da un bar, Clint viene investito da un camion. Mentre è ancora convalescente, il chitarrista del gruppo fa i bagagli e parte per la California. I Moving Parts cercano un sostituto attraverso un annuncio sul giornale Real Paper, ed è allora che risponde un ragazzo di Ann Arbor, Michigan. Roger Miller si presenta un giorno in sala prove, ha la barba ed è vestito come un hippy, con i capelli lunghi e un cappotto verde bottiglia. Il tempo di sentire sullo stereo i Ramones, e scatta in una strana danza. Clint lo vede e si mette anche lui a ballare, seguendo i suoi movimenti. Tra i due è subito feeling. Roger ha studiato pianoforte e composizione, è un appassionato di free jazz, ammira John Cage e Karlheinz Stockhausen. Alla fine degli anni ‘60, insieme con i fratelli Laurence e Ben, ha dato vita agli Sproton Layer. L’album postumo With Magnetic Fields Disrupted racconta di un complesso calato nello spirito di quei tempi, una sorta di incrocio tra dei Cream più jazzati e i primi Pink Floyd. Ha spunti interessanti e vale un ascolto anche solo per curiosità. Laurence e Ben avrebbero poi suonato nei Destroy All Monsters, storico gruppo underground di Detroit, mentre i tre fratelli Miller hanno continuato a collaborare negli anni sotto la sigla M3. Roger intanto aveva composto Max Ernst, un brano entrato nel repertorio dei Moving Parts e che sarebbe stato uno dei primi cavalli di battaglia dei Mission of Burma. Già ai tempi soffriva di quel disturbo persistente all’udito con cui si trova costretto a convivere ancora oggi (l’acufene), ma l’annuncio in cui si cercava un musicista per una rock band che sapesse anche leggere la musica gli era sembrato troppo allettante per rinunciare. 36


Clint Conley ha descritto l’approccio dei Moving Parts come “anti rock”. Secondo il tastierista Erik Lindgren, il gruppo doveva unire il punk e le influenze colte come Debussy e Varèse. Il risultato era in verità un art rock che non nascondeva velleità progressive. Roger, con la sua forte personalità, crea uno squilibro nel complesso, che si scioglierà dopo qualche mese. «C’era uno scontro tra i miei pezzi e quelli di Erik, e Clint stava dalla mia parte» ha raccontato Miller nel DVD Not a Photograph. Lindgren, che poi suonerà con Miller nei Birdsongs Of The Mesozoic, scriveva pezzi difficili, dominati dalle sue artificiose tastiere. Roger e Clint avrebbero preferito un taglio punk con pochi accordi suonati ad alto volume, e con una tale divergenza di vedute è chiaro che il gruppo non potesse andare avanti (si possono ascoltare i Moving Parts nell’album Wrong Conclusion del 1992, testimonianza sonora della loro breve avventura). Durante una prova a gruppo ormai sciolto, Roger accenna l’arpeggio iniziale della futura Einstein’s Day, sicuro di fare effetto su Clint. I due decidono di continuare insieme e di formare una band più viscerale e chitarristica rispetto ai Moving Parts. Provano con diversi batteristi e la scelta cade su Peter Prescott, non prima di averlo sottoposto a ben tre audizioni (i due erano piuttosto esigenti, Miller ha raccontato di aver mandato via su due piedi un batterista bravissimo ma che non riusciva a suonare un passaggio di Max Ernst). Manca solo di decidere come chiamare la band: «Mi piaceva la parola Burma [l’allora Birmania, oggi Myanmar], volevo un nome sciocco che la contenesse». Un giorno a Manhattan Clint vede sull’ingresso dell’ambasciata birmana una targa, nero su bianco: “Mission of Burma”. È il nome che cercava. 37


I Mission Of Burma debuttano dal vivo in un cinema di Boston l’11 aprile 1979. Qualche mese più tardi, al gruppo si aggrega Martin Swope, il quarto uomo, “l’elettronico” che agirà dietro le quinte nei concerti. Swope conosceva e collaborava con Roger dai tempi di Ann Arbor e abitava insieme Roger e Clint. Il suo ingresso aggiunge una nuova dimensione al suono della band. Martin non opera durante le prove ma il suo apporto in studio e dal vivo è fondamentale. Inizia con l’aggiungere dei loop al brano New Disco e pian piano diventa mastermind del suono sul palco. Nella sua postazione dietro il mixer, non si limita ad aggiungere frammenti preregistrati ma li crea in diretta, armato di nastro vergine su cui registra piccole frasi per poi manipolarle e rispedirle in loop attraverso i diffusori. Se il loop non era una novità nel rock, questa tecnica di taglia e incolla dal vivo, eseguita interamente con nastri analogici, inventava in pratica degli auto-campionamenti prima che i samples spopolassero nell’hip hop e in tutta la musica leggera. Il gruppo gode già di un certo sostegno in città, da parte di pubblicazioni come il Boston Rocker o della radio che aveva fatto di Peking Spring una piccola hit senza che fosse uscito un 45 giri. Il primo e unico discografico a interessarsi è però Rick Harte, proprietario di un’etichetta indipendente che già vanta alcuni singoli di gruppi locali come i Neighbourhoods. La Ace Of Hearts non ha grandi mezzi né capacità distributive, ma realizza prodotti molto curati, tanto nei suoni quanto nel packaging. Una sorta di Factory in sedicesimo. Pubblicato dall’etichetta di Harte, il singolo Academy Fight Song/Max Ernst è 38


un imperfetto ma potente biglietto da visita per la band, che alla prima vera esperienza in uno studio di registrazione tradisce qualche incertezza, tale però da compromettere solo in parte il risultato finale. La prima tiratura di 7500 copie va subito esaurita, e anche se non si può parlare di un successo nazionale, il New York Rocker inserisce il 45 giri tra i primi dieci nella classifica assoluta dei singoli dell’anno, un vero exploit per una band indipendente di Boston. Le prospettive di successo rimanevano in ogni caso limitate. A crescere in questi mesi è la personalità dei bostoniani. Per usare una metafora che sicuramente loro gradirebbero, la loro musica somigliava sempre più a uno di quei collage dadaisti dove più elementi, presi da contesti diversi, si incontrano e scontrano per sprigionare un senso nuovo; o a un dipinto cubista, in cui ogni oggetto è scomposto su più piani che si intersecano, allo scopo di creare figure frammentate e non euclidee. Il discorso musicale parte da un punk rock stilizzato, a cui si aggiungono una plastica componente d’avanguardia e una sensibilità pop, una sinergia che proiettava i Burma ben oltre il blaterante rock intellettuale dei Moving Parts. Moby, tuttora uno dei loro più grandi fan, ha dato una descrizione piuttosto esatta della percezione che si aveva di quel sound, specialmente se rapportata al periodo: «Erano allo stesso tempo un gruppo da college esoterico e sperimentale e una garage band che ti spaccava il culo, e in più avevano questo lato melodico ed emotivo». Nel primo 45 giri, gli stili dei due autori si dimostrano complementari: Conley è più melodico, Miller predilige brani complessi. Il lato A è di Clint, pop-punk dai dissimulati accenti sixties, con un arrangiamento che lascia scie di folk rock e tarda psichedelia. Max Ernst, di Roger, è allo stesso tempo più ficcante e più cerebrale, a partire dal testo, una dissertazione sul famoso pittore dadaista e poi surrealista. È musica diretta ma tutt’altro che facile, i virtuosismi sono tanti ma in qualche modo criptati, in virtù del tiro trascinante dei pezzi. In Max Ernst rimane quel breve passaggio (un po’ in levare, un po’ in battere) che da solo mandava in crisi i batteristi durante le audizioni. I Mission Of Burma hanno creato un ponte tra diverse esperienze: il rock di Detroit, la new wave dell’Ohio (Pere Ubu, Devo), il pop-punk di Ramones e Buzzcocks (immaginate i Ramones formati da allievi di John Cage e Stockhausen e non andremo troppo lontani dalla realtà), il rock progressivo, Jimi Hendrix, i Beatles, i Velvet Underground, il kraut rock, i Wire, i Gang Of Four, i Pink Floyd con e senza Syd Barrett, i Roxy Music con Brian Eno, l’hardcore, la musica classica contemporanea. Bisogna togliere tutti questi strati, uno dopo l’altro, per arrivare a un cuore che è soprattutto concettuale: quello dei MOB è già un rock postmoderno, che sintetizza esperienze del presente e del passato (il punk, la melodia pop, il rock classico, la sperimentazione) a uso e consumo del successivo alternative rock, anticipandone la forma e l’estetica. Alla fine del 1980 il gruppo organizza il suo primo tour nazionale, tra lunghe sfacchinate in aereo (l’offerta di un pacchetto di voli illimitato li obbliga però a partire ogni volta da Atlanta), successi come la data a Minneapolis (dove per loro aprono gli Hüsker Dü) e fiaschi clamorosi. La musica dei Mission Of Burma dal vivo diventa più dura e aggressiva, anche se rimane sottile e complessa. Non tutti gradivano, anzi, secondo la band cinque persone su sei erano infastidite dal loro stile; d’altro canto, il pubblico dell’hardcore li trattava più o meno alla stregua di fighette new wave, mentre chi era abituato al rock più convenzionale era disorientato dalla musica e da tutto 39


quel.. rumore. Nel luglio 1981 esce l’EP Signals, Calls and Marches. E qui si fa davvero sul serio. Apre le danze That’s When I Reach for My Revolver, un anthem punk atipico che preannuncia, giusto con qualche anno di anticipo, la dinamica loud/quiet/loud cara ai Pixies e poi ai Nirvana. La strofa parte lenta ma perentoria, poi un’accelerazione metronomica e una scrosciante rullata della batteria lanciano il ritornello, grandioso e fatale. È il solo pezzo firmato da Clint Conley, che vi suona il basso come una seconda chitarra, ad accordi e con il plettro, concedendosi anche un assolo parzialmente doppiato da Roger Miller. Il chitarrista è l’autore di tutti gli altri pezzi. Outlaw si muove disarticolata tra il funk bianco e una scombinata avant-disco, un po’ Talking Heads e un po’ Pere Ubu, mentre Fame and Fortune, This Is Not a Photograph e Red sono i potenti inni di un punk rock radicalmente modernista. Roger segue la consuetudine punk di plasmare la melodia attraverso gli accordi, con sciabolate secche che tracciano frasi ossessive e trancianti; i suoi giri di chitarra ritmica decostruzionista funzionano spesso da soli, costituendo veri e propri riff o sezioni a sé stanti delle canzoni. Come Tom Verlaine per il suo sound nervoso e cristallino aveva preferito la Jazzmaster alla più classica Stratocaster, Miller imbraccia una Fender Lead 1, versione più piccola ed economica della Strato, a due o a un solo pick-up, ottenendo un tono graffiante e senza troppi effetti. Infatti su Signals la chitarra ha un timbro più da new wave, piuttosto pulito e affilato, rispetto al muro di suono dei concerti. Anche senza virtuosismi gratuiti la tecnica di Roger è molto particolare; si nota soprattutto il ricorso insistito agli armonici, la cui grana acustica innerva i pezzi di nuova tensione grazie al suono lancinante delle dita che sfiorano

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le corde. Dissonanza e atonalità sono il pane naturale di un punk rocker che ha studiato Schönberg. Se la slide guitar di This Is Not a Photograph somiglia quasi a uno scratching o ai vagiti elettronici di un theremin, l’assolo di Red è una piccola composizione rumorista, una specie di brano nel brano. Neppure nel suono d’insieme e negli arrangiamenti i nostri scelgono la via più semplice, e anziché suonare facilmente all’unisono optano per una sorta di contrappunto, piuttosto inusuale per il rock da tre accordi, anche se ugualmente immerso nella frenesia con cui eseguono il loro febbrile repertorio. Il rumore e il metodo quasi astratto raggiungono il punto di equilibrio perfetto nello strumentale All World Cowboy Romance, esercizio tra il noise alla Sonic Youth e il rigore studiato di un brano classico (nel documentario Not A Photograph c’è l’estratto di un’esecuzione dal vivo in cui sono ospiti proprio Thurston Moore e Lee Ranaldo, una sorta di concertino per chitarre che fa tornare alla mente gli ensemble di Glenn Branca). Signals, Calls and Marches accostava in modo convincente il rock e il postpunk chitarristico più evoluti, ma con una simile proposta nel 1981 nessun discografico oltre a Harte era propenso a investire sulla band. Bisognerà aspettare perché il college rock conquisti la ribalta nazionale, la rete underground diventi più capillare e le major investano sui gruppi alternativi prelevandoli dalla scena indipendente; per il momento, quello appena descritto è uno scenario da fantascienza. Non sorprende la risposta negativa di una grossa casa discografica, che per interessarsi al gruppo avrebbe voluto più canzoni come That’s When I Reach For My Revolver. Il primo - e unico - vero album, Vs., esce nell’ottobre del 1982. È più vicino alle intenzioni della band e all’intensità dei concerti. Ha la forza arrembante del mini album, lo stesso mix di sperimentalismo punk e pop aggressivo, con in più i riverberi noisy e i picchi di volume psichedelico dei live. Senza rinunciare alla forza d’urto, raggiunge una maggiore densità e profondità sonora. C’è un wall of sound che gronda di nuova psichedelia, non quella revivalista dei contemporanei, piuttosto i prodromi di una nuova estetica del rumore chitarristico ancora in nuce, in grado di svilupparsi in futuro sulla linea che da Bob Mould arriverà a J Mascis e Kevin Shields. Dopo una partenza da Interstellar Overdrive sotto anfetamina, l’iniziale Secrets attacca una progressione lanciata e culmina in un deragliamento sonico cercato e conseguito con spietata determinazione. Non è l’unico pezzo a sfaldarsi o, viceversa, a prendere forma (New Nails) in una sorta di caos lucido e controllato. Le campiture piatte e sfolgoranti tipiche dell’avanguardia post-punk di Signals, Calls and Marches lasciano il posto a tessiture timbriche più complesse e policrome, con trame di chitarra più effettate (Trem Two) e ipnotiche. Dead Pool (di Conley, come Train) ha una stupenda progressione melodica da cui si sviluppa un’epica ballata. Il primo brano firmato da Peter Prescott, Learn How, segue la china generale dell’irruenza free form, bombardando di dissonanze un demenziale garage rock. Anche Mica ha un’andatura frenetica, ma su un riff saltellante e spastico. Autore di tre quarti dei pezzi, Miller può sbizzarrirsi sfrigolando suoni tra armonici e trucchetti vari in Weatherbox e Fun World, brani dalla ritmica spericolatamente fratturata. Può comporre un piccolo psicodramma da call and response di tre ostinati accordi (The Ballad of Johnny Burma, si potrebbe definire una sorta di blues alla MOB), e mostrare lo stesso rigore compositivo di All World Cowboy Romance nella canzone più melodica ed emotiva del disco, Einstein’s World. Firmata Clint Conley, That’s How I Escaped My Certain Fate chiude con un 41


punk dadaista all’arma bianca (in coda all’intero disco, un po’ come 12XU suggellava Pink Flag dei Wire). Di evoluto non c’è soltanto il sound, la forma delle canzoni è più ardita e imprevedibile, smontata e ricomposta in tante sfaccettature. Quello che il gruppo ha definito «uno dei millecinquecento migliori dischi della storia del rock» non sarà un trampolino di lancio ma la testimonianza conclusiva dell’avventura dei Mission Of Burma. Le intense sedute di registrazione e i concerti non hanno fatto che peggiorare il problema di Miller. Il fischio persistente di cui soffriva non solo è aumentato; ha acquistato nuove tonalità che da musicista colto Roger è in grado di distinguere con precisione: un Mi e un Do diesis nell’orecchio sinistro e poi un Mi leggermente più acuto nel destro. Nonostante si proteggesse con un tipo di cuffie usate nei poligoni di tiro, si trova costretto ad abbandonare la band. I suoi compagni, e in particolare Conley, sembrano accettare quasi di buon grado la notizia. Nonostante il valore di quanto prodotto, il gruppo non riusciva a decollare. Il 13 marzo del 1983 sono fissati i due concerti d’addio a Boston, in una sala del Bradford Hotel. In realtà il gruppo si esibisce ancora a Detroit, Chicago e Washington, prima del disastroso ultimo show a Staten Island, di spalla ai Public Image Ltd. Dagli ultimi concerti sono estratti il 33 giri live The Horrible Truth About Burma, pubblicato nel 1985, e la VHS Live at the Bradford Hotel. Il disco contiene soltanto brani inediti. Peking Spring e Dirt sono due pezzi di Conley già rodati e conosciuti, altri erano stati pensati per il successore di Vs. Alcuni sarebbero finiti sulla raccolta Peking Spring (edita su cassetta nel 1985; altri inediti e demo si trovano in Forget, del 1987); tra questi, Dumbells (immaginare di sentire Syd Barrett che guida un gruppo hardcore), He Is, She Is, Blackboard, Go Fun Burn Man. Oltre allo strumentale sperimentale Tremolo, sono della partita anche due cover, di Stooges (1970) e Pere Ubu (Heart of Darkness). Mentre la ristampa Rykodisk apportava alcuni cambiamenti alla scaletta, la Definitive Edition della Matador reintroduce l’originale con l’aggiunta di alcuni bonus e di un DVD (con l’intera scaletta del set serale al Bradford Hotel e la versione pubblicata su videocassetta). Ristampe e antologie formano un capitolo a parte nella storia dei Mission Of Burma. La band in vita (la prima) non ha pubblicato che Signals, Calls and Marches, Vs e i singoli Academy Fight Song e Trem Two. Sopo lo scioglimento sono uscite diverse raccolte. Il CD eponimo della Rykodisc (1988) era una sorta di opera omnia in studio, e per anni è stato l’unico disco reperibile della band. L’etichetta di Boston Taang! oltre a Forget ha pubblicato l’EP eponimo contenente outtake di studio (Let There Be Burma li raduna entrambi). Per una rapida panoramica si può partire da A Gun to the Head (Rykodisc, 2004), meglio assemblata e più completa di Accomplished (Rykodisc, 2002), ma il consiglio, a questo punto, è di investire qualcosa in più nelle edizioni definitive Matador di Signals, Calls and Marches e Vs. Bastano per assicurarsi il meglio dei MOB prima edizione, sono entrambe arricchite da brani extra e dall’aggiunta di un DVD live e sono disponibili anche su doppio vinile. Nel lungo periodo seguito allo scioglimento del gruppo, il più attivo rimane Miller. Prima insieme a Swope e a Erik Lindgren forma i Birdsongs of the Mesozoic, in cui suona principalmente il pianoforte. I BOTM sono un complesso strumentale guidato da un trio di tastieristi (il terzo è Rick Scott) dedito a rinnovare il linguaggio del rock progressivo, traendo spunti eterogenei dal minimalismo, dal jazz e dall’elettronica. Miller li lascia dopo tre dischi (due EP 42


e l’album Magnetic Flip del 1984), per avventurarsi in una carriera solista in cui prova a seguire i suoi tanti interessi, in modo eterogeneo e con risultati talvolta discontinui. In parallelo, Roger si è costruito una proficua attività come compositore di colonne sonore e sound designer. Dal 1999 suona il sintetizzatore nell’Alloy Orchestra, con cui compone musiche originali per le proiezioni di classici del cinema muto (e, in misura decisamente minore, anche soundtracks per pellicole contemporanee). Il trio, che oltre al synth e all’accordion usa percussioni improvvisate con oggetti vari, ha all’attivo numerose collaborazioni con i più importanti istituti e ha partecipato a svariate

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rassegne internazionali (tra cui le Giornate del Cinema Muto di Pordenone). Peter Prescott suona la batteria nei Volcano Suns, un capitolo importante anche se meno conosciuto dell’indie rock di Boston; formerà poi i Kustomized, insieme a un ex Bullet Lavolta, e il Peer Group, un’avventura di breve durata. Clint Conley appende gli strumenti al chiodo e dopo aver prodotto il primo disco degli Yo La Tengo lascia il mondo della musica, diventando produttore televisivo per un’emittente di Boston, la WCVB. Nel 2001 quando il Peer Group apre per i Wire, uno dei complessi che più hanno influenzato i Misson Of Burma, Roger Miller e Clint Conley fanno capolino sul palcoscenico. È la prima volta che i tre tornano a suonare dopo quasi vent’anni. Intanto Michael Azerrad ha dedicato ai Mission Of Burma un bel capitolo del suo libro sull’indie rock americano degli anni ‘80, mentre Clint Conley inizia il suo disgelo musicale con il supergruppo Consonant. L’uscita di Our Band Could Be Your Life (in italia American Indie) è una delle molle che spinge il gruppo a riunirsi. Conley e Prescott iniziano a provare insieme, e dopo alcuni giorni si aggiunge Miller. Nel 2002 i “nuovi” MOB suonano i primi concerti. Swope, che intanto si è trasferito alle Hawaii, non è più della partita. Al suo posto c’è Bob Weston, apprezzato produttore indipendente e bassista degli Shellac, nonché ex Volcano Suns. Sono passati tanti anni, ma non è poi cambiato molto. «Suoniamo solo il 2% più lenti per esprimere meglio il senso delle canzoni», racconta Miller in una delle prime interviste. Alla fine del 2003 viene registrato l’album del ritorno, On Off On, pubblicato dalla Matador nel 2004. La band c’è su tutta la linea e lo dimostra già dalle prime battute. The Setup e The Enthusiast sono due brani grintosi e martellanti, suonati da un gruppo in grande spolvero; nel primo la chitarra si muove tra accordi carichi di adrenalina e ondate di tremolante noise; il secondo (di Prescott, molto più prolifico come autore in questo secondo corso) è un susseguirsi di riff epilettici e ritmi scomposti ed esplode in un ritornello da leggenda. Più avanti, Fake Blood ricalca l’andamento fragoroso e ipnotico di Vs. La band college-avanguardista-sperimentale-garage-punk-melodica è ora un complesso rock a tutto tondo, come dimostra il pop psichedelico quasi beatlesiano di Hunt Again, Falling, What We Really Were. Il gruppo graffia come una volta ma è capace di pennellate più morbide, dall’arpeggio delicato di Prepared agli umori westcoastiani di Dirt (la ripresa di un vecchio demo), o di impostazioni più classiche, tra cui il grunge di Wounded World e il funk rock di Fever Moon. Per i titolari è l’album della rinascita, ma anche quello della maturità; contiene alcune delle loro melodie più brillanti insieme agli arrangiamenti più sofisticati. Se è vero che la scena di oggi ha assorbito le loro innovazioni di un tempo, anche i nuovi Mission Of Burma hanno incorporato elementi delle stesse band che hanno influenzato. Si nota nel successivo The Obliterati (2006) dove alcuni passaggi (vedi The 13 o Spider’s Web) possono far pensare ai Sonic Youth e ai REM (2wice, a dire il vero anche piuttosto beatlesiana) ma da una prospettiva che non è certo quella degli epigoni. È un disco più riflessivo rispetto al precedente, che ha qualcosa meno sul piano dell’impatto, forse anche del dinamismo, ma non del pensiero. Da non perdere soprattutto il noise pop progressivo di Donna Sumeria e Man in Decline. Il successivo The Sound The Speed The Light (2009) è ancora una volta impeccabile e non lascia a bocca asciutta gli amanti del rock moderno fatto di chitarre spigolose, suoni appassionanti e melodie mai banali. Ogni nota è 44


come minimo carismatica, e anche pezzi semplici come 1,2,3 Party! (soprassediamo sul titolo) o l’ancor più trascinante Good Cheer avrebbero qualcosa da insegnare alle nuove leve dell’indie rock. Quest’ultimo genere (o pseudo tale) sembra aver smarrito per strada alcune delle prerogative che i MOB hanno contribuito a creare. A cominciare da una certa imprevedibilità, che continua a sorprendere anche chi frequenta i nostri da tempo. Gli stilemi del gruppo di Boston sono ormai riconoscibili, ma ogni volta Miller, Conley, Prescott e Weston riescono a mischiare efficacemente le carte in tavola. Tre anni dopo arriva puntuale Unsound (2012), che altrettanto puntualmente coniuga sperimentazione, ricerca melodica e rock dissonante su canoni moderni, fedele alle origini e ancora splendidamente attuale. Personalmente metterei i dischi del dopo reunion (di cui continuo a preferire On Off On) un gradino sotto Signals e Vs., per prospettiva storica e non solo. Viene da domandarsi che cosa avrebbero combinato i Mission Of Burma senza quello iato di vent’anni. Certo, sarebbero cambiate molte cose. Ma piuttosto che arrovellarci nel rimpianto, tanto vale - e quanto vale!!! - tenerci la versione 2.0, che sembra abbia intenzione di regalarci altre soddisfazioni, come ci ha raccontato Peter Prescott rispondendo alle nostre domande.

INTERVISTA A PETER PRESCOTT Unsound è un titolo piuttosto particolare. Come lo avete scelto? Anche se quando scriviamo, proviamo, suoniamo dal vivo o registriamo in studio tutto fila liscio, siamo sempre in difficoltà al momento di scegliere il titolo o l’artwork di un disco. Unsound metteva tutti d’accordo, è breve e va dritto al punto: descrive bene l’idea di maltrattare e fare a pezzi la musica rock. Le nuove canzoni mantengono le stesse qualità che abbiamo sempre apprezzato nella vostra musica: sono dissonanti, spigolose e trascinanti, con diverse sezioni, melodie coinvolgenti e alcuni grandi ritornelli. Su quali elementi vi viene più naturale concentrarvi quando scrivete? Dal momento che siamo in tre a scrivere le canzoni, è normale che ciascuno di noi parta da un punto di vista differente. Quello che abbiamo in comune è l’idea che una canzone rock può essere strutturata come ci pare e piace: nessun ritornello o soltanto ritornelli, un assolo di basso, dei cori, qualsiasi cosa ci viene in mente. In partenza adottiamo tutti lo stesso vocabolario, ma gli sviluppi ci posso portare ovunque. Parlando di armonia, melodia e struttura dei pezzi, colpisce il modo in cui intere sezioni così diverse combacino perfettamente. Avete un modo di scrivere molto particolare: il vostro metodo è lo stesso di sempre o pensate che sia cambiato nel corso degli anni? In generale, direi che è cambiato poco. Per farla breve, nel 1979 o nel 2009, tutto è possibile! In alcuni video recenti sembra che Roger non usi più cuffie. Le cose vanno meglio? Ora usa protezioni più efficaci per i suoi timpani, ma sul palco adoperiamo lo stesso il plexiglas, mentre Roger si posiziona sempre dietro il suo amplificatore. Immagino lavoriate ancora con i loop. Che differenza c’è tra il lavoro di Bob Weston e quello di Martin Swope? Usate ancora i nastri o preferite gli effetti digitali? Certo che li usiamo ancora, è una parte molto importante del nostro sound. 45


Dal vivo Bob ha una piccola unità digitale per creare loop multipli in diretta, ma in studio usa i nastri analogici. Lavora sul concept che ha creato Martin, cercando di rimanere fedele alle sue idee originali. Le vostre idee erano davvero in anticipo sui tempi. Ritornando dopo così tanto tempo, avete trovato nuove tecnologie che vi hanno ispirati o vi hanno facilitato nel raggiungere i risultati che cercavate? Tutt’altro, direi che se escludiamo gli strumenti digitali di Bob, usiamo ancora le stesse chitarre, la stessa batteria e gli stessi amplificatori. Siete ritornati a suonare insieme nel 2001 e sul palco avevate esposto uno striscione piuttosto eloquente: “No New McCarhty era”. Che cosa pensate dell’America di oggi e delle elezioni alle porte? Siamo molto attenti ai temi della politica, anche se non ne parliamo in modo specifico nelle canzoni. In America sta crescendo una destra estrema e parecchio disturbata, che io personalmente disprezzo, e questo mi preoccupa molto. Sono un fervente sostenitore del presidente Obama, penso che abbia incontrato molte difficoltà nel suo mandato ma che sia riuscito comunque a fare cose buone. Com’è nata l’idea dello split single con le Wild Flag? Abbiamo fatto un concerto insieme e le rispettiamo moltissimo. Le Sleater Kinney, in cui suonavano Janet Weiss e Carrie Brownstein, erano davvero una band innovativa. La vostra carriera riflette la voglia di abbattere le barriere e infrangere le regole del rock. Che cosa pensate dell’attuale scena indie? Per alcuni è troppo omologata e le manca il coraggio di rischiare di più. Da parte mia amo gli Shellac, i Future Of The Left, i Fucked Up, i Battles e alcune cose più da dj. In generale, direi che non ci piace molto l’indie rock contemporaneo, spesso i gruppi di oggi sono troppo soft, hanno gli spigoli spuntati. Forse hanno paura di offendere qualcuno. La nostra carriera dimostra l’esatto contrario. Nel DVD Not A Photograph Michael Azerrad parla a chiare lettere di una linea di discendenza che da voi arriva a gruppi come Hüsker Dü, Pixies e Nirvana. Sentite anche voi questa eredità? Avete sicuramente influenzato molte band. L’unica influenza che vediamo è uno spirito affine. La verità è che non sentiamo davvero di aver influenzato nessuno. Quali musicisti o band vi hanno ispirati di più? Kinks, Stooges, John Cage, Wire, Jimi Hendrix, Roxy Music, Black Flag, Syd Barrett, Miles Davis e decine di altri. Avete già materiale per il prossimo disco? Sì, l’abbiamo. Non vediamo l’ora di vedervi qui in Italia. Verrete a suonare in tour anche da noi? Penso proprio di sì (infatti saranno in concerto a Bologna il 9 dicembre) Ringraziamo Luca Collepiccolo e Lucy Hurst

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Recensioni ottobre

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Addison Groove - Adventures In Rainbow Country EP (50 Weapons, Settembre 2012) Genere: Footwork Tolte le incursioni occasionali dei vari Sully, Distal, Mohawke e la passione incidentale di Machinedrum, oggi è Addison Groove l’unico vero footwork producer, interamente impegnato a disaccoppiare il genere dal ghetto per renderlo una nuova estetica di composizione, e non solo un tecnicismo di ritmica e samples (per una panoramica completa su ghettofilia e ambizioni c’è il nostro speciale omnicomprensivo). Lui che fino a due anni fa era “solo” Headhunter, tra i dubstepper di punta della scuderia Tempa, ultimamente è dedicato al 100% alla scienza juke e il suo sound consolidato adesso è quell’abile miscela di stop&go catalizzatori e background UK bass cristallizzato nell’album Transistor Rhythm di sei mesi fa. Le quattro tracce di Adventures In Rainbow Country confermano le stesse virtù espresse nell’album. L’estrazione dubstep/bass di Addison dà corpo solido alla fase ritmica, così che Button Moon e Oversize Clip possano essere anche discrete bombe da pista, oltre che stuzzicanti appetizer d’ascolto. La novità invece è un pezzo dall’anima trasversale Melody Maker che sornione sposta a sorpresa l’ago della bilancia sull’armonia futuregarage, mentre la opener ripresenta quello che per certi versi può esser visto come l’ultimo limite del talento di Bristol: con quella partenza densa d’attesa e quei loop vocali spietati, I Go Boom sembrerebbe pronta per far crollare le pareti del club, mentre invece sfocia in una technobass trattenuta per la cuffia, senza lo sfiato necessario ai meccanismi dance. Il fatto è che Addison Groove non è la gradassaggine spartana dei TNGHT. Lui non vuole ancora rinunciare al proprio carattere intellettuale e il contrasto tra potenzialità ed equilibrio in atto resta il vero rammarico. Almeno finché non finisci in un suo dj-set. (7/10) Carlo Affatigato

Aimee Mann - The Charmer (SuperEgo Records, Ottobre 2012) Genere: alt-country Aimee Mann è una di quei musicisti a cui non viene 48

mai nulla di davvero male, ma dai quali ti aspetti sempre qualcosa di più di quanto riescono effettivamente a mettere nelle loro canzoni. Pur con tutto il talento che indiscutibilmente si percepisce in una carriera lunga oramai un trentennio, seppure quella solista vera e propria per lei, classe ‘60, sia decollata solo con la colonna sonora di Magnolia, non riesca mai davvero a scaldarti il cuore: troppo manierismo, troppa sufficienza Per Charmer si potrebbe copiare e incollare la recensione di uno a caso dei dischi da The Forgotten Arm in poi: alt-country virato democratico, ma al contempo rassicurante perché privo di sussulti. Allora sì Tom Petty, certo Bruce Springsteen meno sudato e Tori Amos/Fiona Apple (perché se non le citi sembri un cazzone). L’unica nota davvero stonata è qualche tastiera (sintetica o meno) che punteggia brani che altrimenti passerebbero inosservati come l’acqua tiepida (Disappeared, Crazy Town, la titletrack). Quattro anni fa, in occasione di Smilers ci domandavamo a che gioco stesse giocando la cantautrice americana. Ce lo chiediamo a maggior oggi. (5.5/10) Marco Boscolo

Alessandro Grazian - Armi (Ghost Records, Ottobre 2012) Genere: wave d’autore Lo avevamo un po’ perso di vista Alessandro Grazian. Dopo la pubblicazione dell’ottimo EP L’abito, le ultime cronache lo volevano interessato più alla pittura che alla musica, in giro per esposizioni a far conoscere i suoi Ritratti da Grazian. Neanche il tempo di abituarcisi, che lo ritroviamo nel 2011 in concorso a Cannes in veste di compositore della colonna sonora del corto di Pasquale Marino L’estate che non viene, per poi riascoltarlo sulle note di Ballata dell’arte nel disco-tributo a Luigi Tenco Sulle labbra di un altro uscito a novembre dello scorso anno. A seguire, un periodo sabbatico dedicato alla lavorazione del nuovo disco, il qui presente Armi, con un Grazian consapevole di giocarsi una buona fetta di dote accumulata in questi anni. Il primo approccio col nuovo materiale lascia di sasso chi del musicista padovano ha seguito le vicende fino


Breakbot - By Your Side (Ed Banger Records, Settembre 2012) Genere: Pop funk Dopo i Justice alla riscoperta del rock’n’roll nel loro ultimo Audio, Video, Disco, la Ed Banger rimane con la testa nel passato e ci propone un altro producer di classe e fascino d’altri tempi: Thibaut Berland aka Breakbot, uno degli artisti più eclettici della scuderia di Busy P, che ha appreso appieno il french touch e scava ora tra le sue radici, pescando dallo stesso background dei Daft Punk ma rendendone lo spirito in maniera ancora più genuina, questa volta senza cassa house. Il primo LP By Your Side si presenta come setlist di una vecchia serata disco, il percorso è ben condotto e mai complicato (in altre parole, questo non è il funk jazz degli Incognito). L’eredità lasciata dai datati Jackson 5 rivive spesso, specialmente in pezzi come Break Of Dawn e Fantasy, fino a fondersi con il soul e il rock verso la metà del lavoro. Tra gli elementi che rendono di buona fattura questo viaggio ci sono certamente gli archi, mai invasivi e fedeli al modello responsoriale rispetto alla melodia, così com’è stato in origine per Barry White e come adesso è fondamentale per artisti come Jamiroquai (vedi di nuovo Break Of Dawn e Intersection per una maggiore importanza). La componente funk/rock è invece il carattere predominante grazie a chitarre e bassline riconducibili alla scuola 80’s di Toto, Quincy Jones e in parte Simply Red (laddove il synth sostituisce la sezione fiati); fatta la somma si ottengono un’elegante By Your Side Part 2, condita con un falsetto degno del miglior “lentone” della serata, e una You Should Know, in cui ci si accorge di come la contaminazione lockin’ old school americana arrivi in Francia tanto quanto in Polonia per gli abili Afromental. Non mancano poi le riverenze verso lo storico Rhodes in The Mayfly And The Light in cui il lavoro corale portebbe addirittura ricordare ai più nostalgici i Procol Harum. Ottimo anche il sampling vocale di Easy Fraction in cui i campionamenti di groove e ottoni sanno di Gotye. Fondamentale per l’album la collaborazione pressoché onnipresente di ospiti come Ruckazoid, Irfane e Pacific!. Nel complesso un ottimo prodotto, che magari potrà essere un po’ snobbato dalle generazioni più giovani ma che, nonostante il suo essere così nostalgico, in realtà non ha alcuna intenzione di suonare vecchio. L’attrazione per il passato remoto fa sempre più vittime: Ariel Pink, Dirty Beaches, James Ferraro, gli stessi Daft Punk vicini a Moroder per il prossimo album... la retrofilia non è più una vergogna ma una forma di consapevolezza, e il french touch si conferma il paladino del gusto d’antan che è sempre stato, a partire dai vari Etienne De Crecy, Alex Gopher e Air. Che i ‘70 siano pronti a tornare in pista? (7.4/10) Loris Venegoni

ad ora: la title track, con le sue chitarre arrembanti, parla di una svolta elettrica dura e sostanziale che sotterra d’un botto il menestrello altolocato e barocco del passato. Anche se in realtà è in brani come Se tocca a te, Soltanto io o l’ottima Helene che emerge la vera natura del nuovo corso di Grazian. Un sentire che non rinuncia alle profondità della canzone d’autore (“sarà per le rovine stupefacenti che ti hanno sedotto e abbandonato e adesso è tutto meno intenso di quello che credevi” si canta in Se tocca a te) associandole tuttavia a una wave espansa, elegantissima, in alcuni frangenti non troppo distante da certe derive post-rock (Nonchalanche). Fondamentale, in questo senso, il contributo di Leziero Rescigno degli Amor Fou chiamato a co-produrre e bravo a valorizzare l’immaginario sonoro del musicista padovano. Un lavoro accurato che non è la solita svolta di comodo in tema di

revival, quanto un riconfigurare i generi suddetti adattandoli a un songwriting già adulto. I testi si asciugano ulteriormente rispetto ai dischi precedenti sfiorando lo slogan (“Perché di armi ne ho”) e arrivando a toni declamatori quasi in stile CCCP (Non devi essere poetico mai), baluginano immagini sparse più che una poetica descrittiva in senso stretto, il tutto perfettamente in linea con un suono che si fa onirico (lo shoegaze sui generis de Il mattino) pur non perdendo di vista l’immediatezza. Tutto si può dire di Grazian, tranne che non sia un musicista che si mette in gioco. Armi è l’ennesima dimostrazione di come gusto e personalità possano garantire basi solide a un processo di crescita rispettoso di uno stile che rimane peculiare. (7.2/10) Fabrizio Zampighi

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And You Will Know Us By The Trail Of Dead - Lost Songs (Richie Records, Ottobre 2012) Genere: alt rock Il percorso discografico degli ..And You Will Know Us By The Trail Of Dead è stato uno dei più vivaci tra le band che hanno caratterizzato gli anni ‘00. Dalla gemma Source, Tags And Codes (perfetto equilibrismo tra maestose pause atmosferiche e graffianti incisività a tratti hardcore) abbiamo assistito a diversi esperimenti che li hanno portati a fare un viaggio a ritroso nella storia del rock, partendo dal moderno ed arrivando alle influenze psichedeliche anni ‘70. Non sorprende più di tanto l’ennesimo ribaltamento sonoro, di sicuro stupisce in positivo il risultato finale. Lost Songs è la mutazione più estrema del combo texano. Eccezion fatta per la Black Mountainiana Flower Card Games - posta a metà giusto per tirare il fiato - e Awestruck, un intervallo indie rock simile alle proposte più melodiche dei The Cribs, siamo di fronte ad un disco che rispecchia pienamente quanto già anticipato dal singolo Up To Infinity: batteria incalzante, potenti riffs e un cantato che in più momenti si avvicina allo scream dei Refused per poi ritornare chiaro. Heart Of Wires e Bright Young Things consegnano al gruppo un paio di singoloni perfetti per i live grazie a ritornelli alla Japandroids ma la vera novità è la deriva heavy metal che ha il picco nell’accoppiata Opera Obscura - Lost Songs, un tappeto di tamburi su cui si incastonano chitarre pesantemente distorte di stampo Mastodon. Ridare freschezza a generi che hanno avuto la massima fioritura nelle scorse decadi non è per niente facile ed in pochi sono realmente arrivati ad apportare contributi rilevanti. I ..Trail Of Dead si possono tranquillamente inserire nel contesto - alla pari di band come The Men e Cloud Nothings - con in più il pregio di non avere riempitivi, di contenere in sfumato il proprio percorso musicale e l’urgenza di aggiungere un’ulteriore esplorazione. (7.4/10) Andrea Forti

Azealia Banks - 1991 EP (Interscope Records, Giugno 2012) Genere: Hip-hop dance Di tutte le bombe al femminile prossime a scoppiare, più ancora dell’inesplosa Jessie Ware e della promettente Wynter Gordon, il nome sul quale tenere gli occhi aperti oggi è uno: Azealia Banks, giovane rapper di Harlem partita in sordina nel 2009 con Gimme A Chance e la spinta mediatica del solito Diplo, divenuta presto 50

fenomeno web grazie a un paio di spot a effetto (la Cool List di NME e la BBC Sound of 2012) e al vero curatore d’immagine della nuova generazione, ossia youtube. Si presenta come la nuova diva del rap dopo Missy Elliot, Ciara e M.I.A. ma ha dalla sua un tratto stilistico che la distingue da tutte: una carica house modaiola e sfacciata, venuta a contaminare le meccaniche hip-hop con una mano mai così convinta. 1991 ha già in canna l’intero inventario di generi e belle speranze della ragazza: cassa in quattro riempitiva applicata per tutte le tracce e sonorità progressive/vogue ben in vista, pezzi come 1991 (video sciantosissimo, peraltro) e (appunto) Van Vogue che sanno accattivare a primo impatto un pubblico di dancers, eppure presentati con una vena old school underground fatta di rap fluido e timbro penetrante. Non mancano i synth graffianti che sanno di UK garage, come nella hit 212 prodotta da Lazy Jay e Jef Martens, e le brevi ma efficaci melodie RnB che tengono banco nella conclusiva Liquorice. Tutto sembra funzionare in maniera impeccabile, l’unico appunto da fare è l’eccessivo protagonismo della fase di produzione, solida ma troppo ingombrante per un prodotto che in teoria dovrebbe puntare tutto su miss Banks. Niente che non si possa aggiustare in corsa prima dell’album già annunciato per Febbraio 2013, ma unico vero nodo da sciogliere. “I could be the right girl”, canta Azealia. Sì, potresti esserlo. (7/10) Loris Venegoni, Carlo Affatigato

B.Fleischmann - I’m Not Ready For The Grave Yet (Morr Music, Ottobre 2012) Genere: indietronica A pochi mesi di distanza dalla pubblicazione di For M / Mikro_Kosmos, Morr Music ci riporta tra le caldi e avvolgenti spire del suono elettro-viennese di B. Fleischmann con un nuovo album da studio. Il titolo programmatico dovrebbe far già riflettere sullo status psicologico dell’artista e sulla celere obsolescenza di fenomeni che non più di tardi di qualche anno fa erano il culmine di moda e virtù. Come già detto in occasione delle precedente Angst Is Not A Weltanschauung fin quando il songwriting sarà di questo livello, un buon livello, fosse anche in voga il nexus-step per androidi, non si potrà mai parlare male di un progetto che conferma tutte le sua qualità in sede di arrangiamento e di fatto, visto anche l’uso perdurante e pervasivo della voce, si struttura come un vero e proprio cantautorato elettronico. Forse i riferimenti agli ultimi Tarwater, ma anche certe


Dark Dark Dark - Who Needs Who (Melodic UK, Ottobre 2012) Genere: indie folk/pop Tra il solido Wild Go dello scorso anno e questa nuova prova, la terza per il gruppo di Minneapolis, c’è stato di mezzo un tour intercontinentale piuttosto fortunato che non ha fatto altro che consolidare l’unione del quintetto. L’amalgama di jazz, folk, balcan music, blues e pop che li ha sempre contraddistinti risulta più riuscito che mai nella loro storia altalenante, iniaziata oramai sei anni fa. Con una differenza, rispetto al 2011, le nuove canzoni hanno un aspetto meno cameristico, meno involuto e più aperto, musica che trova la sua dimensione più efficace nei club e in piccoli teatri. Il singolo strappalacrime How It Went Down è il brano più emblematico in questo senso: la voce di Nona Marie Invie, che pare fragile e sempre sul punto di rompersi, non è più la sola sua voce, ma prende in carico una forza più universale, come di chi smette di parlare solo a se stessa e si apre al mondo. Il resto del programma offre una splendida cavalcata Tell Me sporcata di elettrico, il Kusturica che gioca col fado di Without You, il ghost boogie di Last Time I Saw Joe tra Fiona Apple e Regina Spektor. Piacciono anche i tocchi di classicha che appaiono al piano di Meet In The Dark che per proietta nella mittle europa dei valzer e dei migranti. Sorprende la semplicità con la quale i Dark Dark Dark riescano a dominare espressioni musicali così diverse rimanendo sempre riconoscibili e credibili. Rispetto al passato hanno perso un po’ dell’atteggiamento snob che li rendeva freddini. Che sapessero il fatto loro era cosa già nota. (7.2/10) Marco Boscolo

cose To Rococo Rot, cominciano ad essere un po’ troppo ingombranti, si vedano la dinamica minimal pop di Don’t Follow, la spessa metratura dei beats di Tomorrow, il modernariato glitch di Lemminge. Beat Us, assembla registrazioni dalle segreterie telefoniche su un tappeto di indie-tronica abbastanza convenzionale ma sufficientemente movimentato per non annoiare, che si ripete più volte durante il disco con le marcette di Who Emptied The River, Some/Others/My Husband, At Night The Fox Comes e davvero ritorniamo indietro nel tempo all’epoca di Notwist e Lali Puna. Quindi no, B. Fleischmann non è ancora pronto per la tomba, però nemmeno potrà ripetere se stesso all’infinito pensando di scamparla alla dura legge del tempo che passa. (6.5/10) Antonello Comunale

Balthazar - Rats (Play It Again Sam, Ottobre 2012) Genere: indie A volte è sufficiente che passino due anni e succede di tutto. Si pubblica un’opera prima promettente, sebbene a tratti acerba, si va in tour (anche con i dEUS) e si torna in sala di registrazione con le idee più a fuoco, con una ricetta rinnovata ma che non fa tabula rasa delle buone intuizioni degli esordi e si sposta verso spon-

de amabilmente retrò in dieci nuovi bozzetti in punta di matita. Profuma di chanson francese, specialmente quella istintiva e cinematica di Serge Gainsbourg, ma si accosta anche allo Scott Walker “crooner impenitente” dei tardi Sixties - pur già con germi d’inquietudine - il mondo che i Balthazar esprimono e mettono in scena nel nuovo album Rats. Quella rievocata dal titolo (“like rats from a sinkin ship”) è un’immagine codarda, vero, ma se c’è una nave che affonda cui i ragazzi fuggono è proprio quella della muzak più scontata, del frullato di suggestioni à-la-page prese un po’ qui e un po’ lì senza coerenza né criterio. Ci si allontana sempre più dall’ordinario e si provano strade, formule diverse. I riferimenti a Beck resistono nell’indovinata Do Not Claim Then Anymore, scandita da semplici linee di synth su un tappeto prevalentemente acustico; Maarteen Devoldere e Jinte Deprez, le due menti del gruppo che iniziarono a esibirsi giovanissimi come buskers (facendosi pure concorrenza, rivelano), puntano ancora sulle armonie vocali, ma al posto di sonorità degne del Damon Albarn più sperimentale ci propongono, spennellando il foglio bianco con tinte tenui, coloriture d’archi ben presenti nell’architettura delle canzoni o talvolta immerse in un riverbero in lontananza, un pop orchestrale di pregevole fattura. Ci sono xilofoni così come sezioni di fiati che intervengono nel momento 51


opportuno, ma non si esagera mai col glucosio, con infiniti strati sonori spectoriani, con rischiosi barocchismi. Le canzoni prendono vita un po’ per volta, si fanno sorseggiare senza fretta: ogni strumento trova il posto più congeniale nella scena sonora. Così come una chitarra acustica s’intreccia al basso di Simon Casier e al cantato dolceamaro in The Oldest Of Sisters - quasi come fosse di un Finn Andrews rilassato che rinuncia all’asperità del suo timbro, Sinkin Ship si sviluppa da sola con un’andatura alla Velvet Underground. La trascinante Later, forte di un riff semplice ma appiccicoso e dell’ottimo lavoro di Christophe Claeys alla batteria, ci fa immaginare che cosa mai accadrebbe se filtrasse un raggio di luce in più attraverso le finestre dei Tindersticks, e il tremolio dei violini scandisce con il basso, i cori in lontananza e l’intervento dei timpani l’altrettanto riuscita The Man Who Owns The Place. Luci e ombre, amore e tensione, il desiderio di stringersi e di scappare via all’improvviso: giocano su questi contrasti, il pianoforte che si insinua nella trama intricata di Lion’s Mouth (Daniel), i Last Shadow Puppets da pennichella pomeridiana di Listen Up che ci avvolgono in una dimensione intima e raccolta. Gli opposti si incontrano quasi per caso, ma più spesso per volontà, tra voci, vibrafoni e percussioni accennate. Il commiato è affidato al lento, ruvido blues funereo di Any Suggestion e alla chitarra anarchicamente scordata in un’atmosfera da film noir francese, che completa un insieme (come al solito) perfettamente calibrato. I Balthazar ci consegnano una gradevolissima conferma. Ci voleva proprio, per iniziare l’autunno, una boccata d’ossigeno per chi sa ancora farsi sedurre da sonorità consuete rilette con un piglio originale, e per chi ama una musica che “respira”, capace di rivelarsi e farsi comprendere con calma. (7.2/10) Alessandro Liccardo

Band Of Horses - Mirage Rock (Columbia Records, Settembre 2012) Genere: boring pop rock E’ sempre brutto assistere a discese artistiche brusche e, almeno inizialmente, inaspettate. Chi ha amato i Band Of Horses di Everything All the Time e Cease to Begin, aveva forse chiuso un occhio sull’inconsistenza di Infinite Arms, ma non potrà fare lo stesso su Mirage Rock. Se in Infinite Arms - così come nel fin troppo incravattato tour di supporto - le avvisaglie negative erano presenti ma in parte mascherate da rifiniture ad hoc, in Mirage Rock - titolo già di sè contestabile - sono alla luce del sole lungo l’intera tracklist. 52

L’americana e le atmosfere country-rock sono ormai diventate l’unica e debole colonna portante del progetto, solo che i Band Of Horses non sono i Wilco (e neanche i Decemberists, vedi How To Live). Non solo, il leader Ben Bridwell - che in passato poteva ricordare in alcuni punti gli eroi psichedelici anni ‘90 Wayne Coyne e Jonathan Donahue - sembra aver chiuso a chiave nel cassetto qualsiasi tipo di stravaganza. Flemmatici come non mai (Long Vows, Everything’s Gonna Be Undone), questi Band Of Horses potrebbero essere l’ascolto ideale solo nel rarissimo caso in cui ci si stia per coricare davanti ad un falò, in qualche zona del mid-USA. Non richiesti tra l’altro i passaggi power-pop: pezzi come A Little Biblical, Feud e lo stesso singolo Knock Knock sembrano messi lì solo per svecchiare un disco noioso, statico e troppo adagiato. In tre quarti d’ora di musica è difficile trovare anche un solo frangente che ci faccia distogliere dal pensiero fisso “ma questa è veramente la stessa band che solo sei anni fa scriveva una brano come The Funeral?” (5/10) Riccardo Zagaglia

Beth Orton - Sugaring Season (ANTI-, Settembre 2012) Genere: Cantautorato Folk Ne è passata di acqua sotto i ponti per Beth Orton, dalla folk-tronica anni novanta in compagnia di William Orbit e del giro ‘chemical’ agli ultimi dieci anni passati in sordina, con quel Comfort Of Strangers (2006) in cui il suo processo di songwriting aveva preso le distanze dai beat elettronici per abbracciare suoni puramente acustici e (ri)trovare un’intimità introspettiva, accompagnata nel privato anche dall’esperienza materna. Sugaring Season è quindi la continuazione naturale di questo percorso di maturazione, un disco fortemente personale, emotivo e che guarda indietro ai classici di Pentagle, Joni Mitchell e Nick Drake nella forma. L’etichetta è tutta nuova, la ANTI, e per la produzione è stato scelto Tucker Martine, attento a certi suoni classicheggianti presenti ad esempio in Carbon Glacier della moglie Laura Veirs, ma anche nei suoi lavori con Laura Gibson. Beth calza quindi i panni del crooner, mettendosi a servizio delle composizioni e lasciando i pezzi fluire in maniera istintiva, più che cercare di controllarli. Il singolo Megpie ne è un chiaro esempio, un brano in cui il chorus (in)segue la melodia e viceversa, con la Orton che inizia con versi quali “I’m sitting here watching the world go by” e poi subito “You’ve seen more of the day than I could dream”, quasi fossero un manifesto di intenzioni. E l’autrice fa proprio questo: si siede in disparte ed


Deepchord - Sommer (Soma Records, Agosto 2012) Genere: Soft house Da quel piccolo capolavoro di intimismo che era The Coldest Season fino ad oggi, la parabola Deepchord è stata una costante ricerca di una dimensione definita, della forma compiuta che unisse alle suggestioni dub techno il tanto agognato feeling a pelle. Passando da Liumin e Hash-Bar Loops il producer di Detroit si è andato muovendo verso una sempre maggiore caratterizzazione dancey atta a sedurre con una certa lussuria, pur mantenendo intatto un carattere introverso fatto di dettagli architettonici e umori impliciti: un sound dal fascino sottile che non piazza mai colpi appariscenti ma che coinvolge puntualmente l’ascoltatore con movimenti impercettibili e lente mutazioni, dove le sensazioni passano anche senza un disegno voluto. Vai che vai, mentre il piglio spirituale trova nuove possibilità espressive in questo stesso 2012 nel progetto film+soundtrack Silent World a firma Echospace, la ricerca dell’alta definizione personale raggiunge finalmente il proprio apice. Sommer è prima di tutto armonia, un flusso ininterrotto di soft beat gioviali dove l’incedere house esce allo scoperto e mostra fiero la morbidezza delle curve. Il tema estivo è reso nella sua accezione più romantica, tenuto saldo dalle sessioni di field recording (effettuate nella spiaggia dietro casa di Rod Modell, mai come stavolta funzionali al risultato) e dall’impianto in mixing, che fa del disco non una serie di tracce ma un unico ascolto/trasporto senza pause. Massima compattezza e perfetta riuscita del contatto emotivo, l’ascolto non molla la presa per nessuno dei 70 minuti totali e scorre con grande fluidità, come un olio rivitalizzante dopo una movimentata giornata di sole. Non c’è traccia delle 13 previste dal lotto che voglia ergersi in qualche modo sulle altre. Il disco è un mosaico che fa colpo nella sua forma complessiva, per come sa esser presente senza attaccare gli spazi (Aquatic è materiale da immersione), per le diverse sfumature d’esotico che riscaldano le ambientazioni (da Cruising Towards Dawn a Fourier, dal tribale alla balearica nella più tenue delle luci), per i giri ipnotici (The Universe As a Hologram, Pacific State non è lontana) e l’aspetto new age (Flow Induced Vibrations, di nuovo il sottotono sciamanico di Arandel). Ancora musica d’induzione nel suo stato di forma migliore, dove i Voices From The Lake ne han condensato l’emiciclo invernale e Deepchord il profumo della stagione calda. Tutto materiale elettronico senza barriere all’ingresso, fatto di atmosfere ed emozioni per le quali non servono orecchi allenati ma solo sensibilità. È questa la endless summer da fine del mondo: puoi sospirare, puoi viaggiare, puoi rintristirti. Niente è successo realmente. Una sensazione, a fine disco, così opprimente che vuoi subito ricominciare. Il silenzio è troppo pericoloso. (7.6/10) Carlo Affatigato

osserva per poi salire occasionalmente in cattedra, come in una monumentale Something More Beautiful sorretta dalle tastiere di Bob Burger e dagli archi, tra climax e atmosfere blue Mitchell-iane. I registri usati sono diversi, come il delicato piano waltz di See Through Blue o gli accenni country di Call Me The Breeze, ma nel disco si ritrova un groove di base persistente che accompagna tutte le dieci composizioni. Un disco fuori dal tempo: questo forse il pregio e al tempo stesso il limite di uno Sugaring Season che in alcuni episodi si adagia su una formalità troppo irrigidita (Five Leaves Of Autumn, Poison Tree ) ma che quando si lascia andare tocca note alte e conferma una maturità artistica ampiamente raggiunta. “Alive” insomma, come sussurra Beth nella conclusiva Mystery,

gemma vocale di un lavoro che guarda sì indietro, ma con uno sguardo totalmente sincero. (7/10) Luca Falzetti

Bill Fay - Life Is People (Dead Oceans, Settembre 2012) Genere: folk prog Nei primissimi anni Settanta il londinese Bill Fay licenziò due album - l’omonimo del ‘70 e Time Of The Last Persecution dell’anno successivo, entrambi per la Deram che non fecero furore ma seppero guadagnarsi un gradimento carbonaro e tenace tra gli appassionati folk-prog. Atmosfere intense, gravità e vampe fiabesche, una specie 53


d’anello mancante tra Roy Harper e Cat Stevens. Avesse prodotto degni successori, credo che il suo nome sarebbe stato tra quelli più citati e amati della sua generazione, invece è seguito un lungo silenzio che lo ha inevitabilmente confinato ad uno stato di culto. Per affrancarsi dal quale a poco è servito l’emergere dal dimenticatoio di un lost album come Tomorrow, Tomorrow & Tomorrow (Durtro, 2005) e del parzialmente inedito Still Some Light (Coptic Cat, 2010), al solito apprezzati da un nocciolo di appassionati e pressoché ignoti ai più. Pochi quindi gli ammiratori, ma buoni. Tra cui Jeff Tweedy, che compare tra i credits (fa la seconda voce nella incalzante This World) di questo Life Is People, rentrée in grande stile che potrebbe rappresentare la meritata nemesi per Fay. Anche perché è un disco costruito per farsi apprezzare, dal piglio semplice, addirittura carezzevole, mentre gli arrangiamenti vanno dall’atmosferico essenziale allo strutturato sì ma fatta salva l’immediatezza. In questo senso spiccano la lunga Cosmic Concerto (crescendo orchestrale in bilico tra apprensione ed estasi Wilco) e l’accogliente The Healing Day, valzer lento solcato da una setosa però non stucchevole malinconia. Molto buone anche The Never Ending Happening, livida e struggente come una versione pacata del Nick Cave maturo (anche lui seguace dichiarato di Fay) e quella Empires che snocciola un avvincente rosario di cupezze avvampate blues. C’è un problema però e affiora fin dalla prima traccia: dietro la dolce solennità, la processione di tragedie laconiche e soffice malanimo, latitano le intuizioni melodiche sia in brillantezza che in profondità. Una mancanza che le scenografie talora affascinanti (il lirismo teatrale di Big Painter, la mestizia broadwayana di The Coast No Man Can Tell) non riescono a compensare. Il gioco mostra la corda quando l’allestimento sfiora il cliché, come nel gospel di Be At Peace With Yourself o nella pur febbrile Thank You Lord. Agli estremi della proposta ci sono una rilettura essenziale (piano e voce) e appassionata ma priva di slanci di Jesus, Etc., che impietosamente svetta sul resto per efficacia melodica, nonché quella City Of Dreams che tenta di giocare troppe carte assieme (organo spacey, basso acido, drumming jazz e una diffusa aura prog psych) fermandosi ad un centimetro dal pasticcio. La sensazione è che Fay abbia concentrato le energie per trovare una forma matura, autorevole e intensa di sé, condannando l’espressione ad una coreografia artificiosetta, lasciando la sostanza un passo indietro rispetto alla superficie. Mi vengono in mente un paio di epigoni che - ahilui - avrebbero qualcosa da insegnargli. (6.1/10) Stefano Solventi

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Bob Dylan - Tempest (Columbia Records, Settembre 2012) Genere: folk blues Verrebbe da dire che Dylan non ha mai smesso di riportare tutto a casa, una tensione centripeta che identifica le radici folk-blues come le architravi della sua poetica. Col nuovo millennio, fatti i conti coi residui di se stesso alla mercé degli anni nel notevole Time Out Of Mind, è letteralmente imploso reinventandosi alla stregua di un mestierante del Delta, abitante dei palcoscenici del tour senza fine, rigorosamente defilato dalla contemporaneità, dal famigerato impegno. Una possibile lettura del clip di Duquesne Whistle sembra proprio andare in questa direzione: il desiderio impossibile del protagonista pulsa assieme allo swing tosto e asprigno della canzone, addirittura coincide con una dimensione di sogno in cui trova realizzazione, prima di venire risucchiato dalla dura realtà che lo lascia pesto e incosciente sul marciapiede, oltrepassato da un Mr. Zimmerman sommamente indifferente. Come se con questo volesse dirci: come musicista non mi spetta agire per migliorare le cose, il mio ambito di competenza è l’espressione, dare forma alle emozioni profonde e superficiali, quanto al resto vedetevela voi. Se poi nel piglio beffardo di questo jump blues dalla sgargiante grana vintage pensate di avvertire un retrogusto struggente, persino commosso, fa parte del gioco, è questo il filo sottile e malfermo su cui l’ascoltatore è chiamato ad azzardare l’equilibrio. C’è da dire comunque che gli appassionati di Sua Bobbità sono abituati a provo ben più articolate di quella rappresentata da Tempest, disco su cui inevitabilmente grava il peso quantitativo e specifico dei trentaquattro predecessori, nonché il mezzo secolo preciso di una carriera formidabile anche oltre l’aspetto musicale. Ogni considerazione riguardo queste dieci nuove tracce finisce quindi per assumere una valenza marginale, tipo che Narrow Way incalza arcigna come una nipotina catarrosa di Tombstone Blues, che Scarlet Town pennella tinte fosche di dobro e violino ponendosi nel guado tra Desire e Oh Mercy, oppure che la conclusiva Roll On John (dedicata a Lennon) sciorina denso agrodolce rimpianto come un antico nodo finalmente sciolto, la calligrafia accorata altezza Blood On The Tracks. Nulla certo che possa intaccare le posizioni nobili del canzoniere dylaniano: l’asticella è volutamente posizionata più in basso, con laconico realismo prende atto che l’età dei colpi di genio è alle spalle, perciò sembra accontentarsi di sfornare struggimenti Fifties (Soon After Midnight) o cavernosi delta blues (il Waits in fregola John Lee Hooker di Early Roman Kings), mettendo a dura prova la capacità di attenzione dell’ascoltatore con


Efterklang - Piramida (4AD, Settembre 2012) Genere: Chamber pop A due anni da Magic Chairs, gli scandinavi Efterklang, rilocati a Berlino, tornano al formato canzone e sorprendono. Dal canonico - e un po’ palloso - formato chamber folk pop filo-radioheadiano, troviamo una band rinnovata sia in termini di scrittura e interpretazione sia nell’utilizzo delle orchestrazioni sinfoniche e dei field recording.Il nuovo centro di gravità orbita attorno a un classico (e bianco) soul pop la cui pulizia e spazialità va ricondotta all’esperienza di Piramida, un ex insediamento russo situato in un’isola dell’arcipelago di Svalbard (tra la Norvegia e il Polo Nord) visitato dalla band lo scorso anno. Cambiare ambiente dove pensare e incidere un nuovo lavoro ha sempre aiutato gli impasse creativi e così, nella ghost-town nordica, ancora abitata ma in lento degrado, gli Efterklang azzerano la mente, catturano numerosi suoni (oltre 1000 field recording tra cui suoni da container di petrolio, bottiglie ma anche un piano scoperto nella Concert Hall della città) e soprattutto suggestioni. Al ritorno in studio, a Berlino, anche grazie all’aiuto di Peter Broderick (violino), Earl Harvin (batteria), Nils Frahm (piano), e l’Andromeda Mega Express Orchestra, l’ora trio (il batterista Thomas Husmer ha lasciato proprio prima della partenza per l’isola) produce una tracklist senza cedimenti, un insieme di canzoni che si rivelano compatte ma anche piuttosto varie, figlie dei lussuosi arrangiamenti dei 70s ma anche della “mentalità aperta” di David Sylvian.Liricamente, e per contrappunto vengono in mente paralleli altrettanto prestigiosi: Neil Hannon / Divine Comedy (Hollow Mountain e Monument), Peter Gabriel (The Ghost, Told To Be Fine) ma un bel po’ degli ultimi Talk Talk e Mark Hollis, indirettamente Stuart A. Staples e persino la meteora 80s Black (Apples), eppure niente che risulti facile da appiccicare a questa o quella canzone. Di converso, cura timbrica e ritmica risultano perfettamente integrate in arrangiamenti giocati sui caldi e i freddi: algide ritmiche ambientali (i tappeti synth, le ritmiche “vuote” ottenute dai campionamenti) e fiammelle fiatistiche “a comparsa”, ovvero non più co-pratogniste dell’output sonico (Andromeda Mega Express Orchestra). Piccole parentesi glitch-pop (Between the Walls) o folktroniche (Dreams Today) completano, infine, un gioiello d’album di una band mai così vera. (7.3/10) Edoardo Bridda

una lunga Tin Angel dall’andatura tanto livida quanto tediosa, seguita da una title track ancora più lunga, un valzerone irish dal taglio morbido - ci senti qualcosa del nazionalpopolarismo springsteeniano altezza Seeger Sessions - che cozza con l’allegoria apocalittica del testo (dedicato alla catastrofe del Titanic). Siamo insomma dalle parti di una aurea mediocritas affidata ad una voce sempre più scorticata eppure in grado di tenere la barra con piena padronanza, superandosi nel crooning malmostoso di Long And Wasted Years e fallendo solo in occasione di quella Pay In Blood con le sue sconsiderate brame soul rock di stampo E Street Band. Album tutto sommato gradevole con un apparato di testi che fornirà un altro po’ di materiale ai mai domi dylanologi. Niente di più, niente di meno. Si vocifera che potrebbe essere l’ultimo per il settantunenne del Minnesota: non ne sono convinto, ma cosa è lecito o non lecito credere con Dylan? (6.4/10) Stefano Solventi

Brahaman - Anche il più ottimista (Seahorse Recordings, Settembre 2012) Genere: alt. rock Dopo undici anni di attività e due EP all’attivo - 10 lire e Il nero batte tutti, autoprodotti, entrambi del 2010 -, i milanesi Brahaman esordiscono sulla lunga distanza con Anche il più ottimista, primo full-length uscito lo scorso 21 settembre tramite Seahorse Recordings. Complice anche la presenza di Diego Maggi alla produzione (già con Verdena e Elio e le storie tese), Anche il più ottimista è un disco di buon rock, di quello alla vecchia maniera, il cui codice di riferimento è sicuramente l’alternative italiano più illustre, dagli onnipresenti Teatro degli Orrori e già citati Verdena, fino alla lezione degli Afterhours, con cui i Nostri condividono un sano gusto per distorsioni e spigoli. Vecchia maniera, dicevamo: l’intenzione e lo spirito del disco sono quelli di riprodurre un sound che fa della ruvidezza il tratto distintivo attraverso brani che coniugano urgenza sonora e indole cantautorale. Quel che accade, ad 55


Goat - World Music (Rocket, Ottobre 2012) Genere: afro-psych-rock Per la serie “famolo (sempre più) strano”, diamo il benvenuto ai Goat. Nome e iconografia da black metallers, gli svedesi Goat sono una delle sorprese del mese. Vengono da Korpilombolo, Nord della Svezia e, a quanto pare, sono figli di una maledizione caduta sul villaggio in tempi antichi per colpa dei crociati cristiani e che li costringe ancora oggi a sottostare alle leggi del voodoo. Quello che fanno è, grossomodo, musica voodoo, infestata dal morbo dell’afrobeat, delineata lungo le coordinate del poliritmo africano spesso prossima a esondare verso lidi disco d’antan, imbarbarita con la psichedelia anni ‘70 più inacidita, col prog “cinematografico” e a tratti con certe devianze meno ortodosse del kraut tedesco. Il tutto virato in forme rock accessibili, sempre esaltate, massimaliste, ritmicamente accese e possedute da una sorta di freakedelia mutante. Sono, o almeno dovrebbero essere, in cinque, suonano tutto e hanno una cantante che tira le fila del suono con una voce impostata su tonalità e screziature molto retrò. E in una parola sola, sono letteralmente irresistibili. Quando prendono il via è impossibile fermarli e le canzoni divengono una sorta di baccanale orgiastico di suoni e colori, quasi un dengue fever dalle fredde terre del nord che trascina verso balli animaleschi e, letteralmente, trascendenti. Ascoltate Let It Bleed e ditemi se riuscite a non pensare ad altro che all’afro-groove virato funkettone midtempo: roba da legare il culo alla sedia per evitare di alzarsi in piedi a ballare. Sulla stessa falsariga si muove gran parte di World Music, nomen omen per gente che gioca a carte scoperte: le (apparenti) congas che guidano sottotraccia Run To Your Mama, il rock cafone e mediorientale di Diarabi, le danze stranite a furia di wah-wah di Goatman, le ipnotiche atmosfere dance-prog create dall’organo vintage di Disco Fever, dicono di uno sguardo realisticamente worldly ad una forma di musica ancestrale. Non terzomondista d’accatto o fintamente new-agey, ma corposo, sudato, sentito. In una parola rock. Quando poi buttano dentro, a mo’ di chiosa, due momenti totalmente stranianti come il (quasi) folk scuro e malato di Goatlord e la afro-psichedelia contorta, trancey, dilatata e ottundente nella sua ossessione, di Det Som Aldrig Forandras (che riprende l’opener Diarabi per non chiudere mai il cerchio) allora si ha la certezza di trovarsi di fronte ad un disco tra i più folli e insieme messi a fuoco dell’anno. (7.5/10) Stefano Pifferi

esempio, nell’iniziale ‘92 - brano sulla strage di Via D’Amelio - in cui il quintetto abbraccia un songwriting basato sul racconto (scoppiano le bombe a Palermo) che si rifletterà sul resto dell’album. Superbia ospita Manuel Agnelli alla voce - un’invettiva polemica contro il nucleare -, mentre Inno introduce alla seconda parte del disco grazie a un paradigma stilistico che guadagna inflessioni blues-folk acustico-meditative e atmosfere di onirica sospensione. A testimonianza, il primo singolo estratto Un mercoledì. C’è spazio anche per la cover di De Andrè La ballata dell’amore cieco, che i Brahaman ripropongono in una versione semplice e immediata senza cadere nella trappola dell’innovazione a tutti i costi. Chiude il cerchio la title-track, a conclusione di un album che fa della spontaneità la propria carta vincente, sempre in bilico tra lezioni del passato e sguardi attenti al presente con un pizzico di nostalgia. (7/10) Giulia Antelli

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Brasstronaut - Mean Sun (Tin Angel Records, Maggio 2012) Genere: brass-wave Texture di synth morbidi, fiati allungati sullo sfondo, fascinazioni wave/prog e un cantato tra Coldplay (Francisco) e Ride (The Grove) a creare un suono che ha che fare con l’ambient, almeno quanto concerne il jazz, la psichedelia e la contemporanea: i canadesi Brasstronaut sanno quel che fanno e anche in Mean Sun riescono a mantenere la (astro)nave in bilico tra i marosi delle contaminazioni, senza mai perdere di vista quell’attitudine pop che ne sancì spessore e fortuna ai tempi del primo disco Mount Chimaera. A produrre è Colin Stewart (Black Mountain, Japandroids), esemplare nel dare al tutto una naturalezza niente affatto scontata per una creatura nata nel 2004 su iniziativa di alcuni musicisti di formazione jazz (nello specifico, Edo Van Breemen e Bryan Davies) annoiati dal-


le classiche strutture del genere. Fascinazioni nordiche a parte (impossibile non pensare ai Sigur Rós in qualche passaggio di brani come Moonwalker o dell’iniziale Bounce), è proprio la semplicità apparente che cogli nell’insieme il segreto di una band poco considerata dai canali ufficiali - Pitchfork ne ha recensito il solo Ep Old World Lies del 2009 - ma capace di una musica settata sugli spazi ampi, ricca di sfumature insospettabili e fuori dagli hype a comando. Rispetto al disco precedente, le trame qui si fanno più allentate e ambientali ma c’è anche meno interesse per i virtuosismi o l’immediatezza delle forma canzone, conseguenza diretta (crediamo) anche del “concept” cosmico che fa da filo conduttore a tutto il CD. (7.2/10) Fabrizio Zampighi

Chris Cohen - Overgrown Path (Captured Tracks, Settembre 2012) Genere: Vintage Pop È il pop scintillante che guarda ai sixties un po’ come a un oggetto di design o a un abito vintage, e un po’ per recuperarne il senso di apertura, la sottesa libertà, le modulazioni, quei tracciati melodico-armonici che non sapevi mai dove ti avrebbero portato. Chris Cohen, batterista, autore e polistrumentista già presente tra le fila di Deerhoof e Ariel Pink Haunted Graffiti, con il primo album solista per la label di Brooklyn Captured Tracks, dimostra una padronanza stilistica eccellente, al limite del didascalico, dimostrandosi abile mestierante di quella coolness piacevolmente snob (e spesso mascherata da indie) che caratterizza certe produzioni newyorkesi. Melodie finissime ma all’occorrenza vorticose, psichedelia leggera, ballate indolenti, cori e coretti, grande fruibilità, molti tempi lenti e grande attenzione affinché tutto suoni come deve suonare: avvolgente, calmo, conciliante, elegantemente polveroso. Sempre con un filo di voce, le chitarre ben presenti, costruite su microcosmi di piccole e larghe note, gli ampi spazi, pianoforti e batterie pastose, reminiscenze. A vincere sono i capitoli più strutturati e vivaci, come l’apertura di Monad che pare influenzata dal protoprog dei Dungen, o Caller No.99, perla degna dei Tame Impala. Il resto gira uniforme, senza sorprese, tre dita sopra una stilosa mediocrità, piacevole ma (oramai) di maniera. (6.8/10) Antonio Laudazi

Criminal Jokers - Bestie (42 records, Settembre 2012) Genere: Folk rock Che ci fanno i Tacchi alti in un disco intitolato Bestie? Nell’opera seconda della band pisana, passata da trio a quartetto (entra Alice Motta a piano e violino, ma cambia il notevole bassista originario) e dai testi in inglese a quelli in italiano, la metafora animale esprime pessimismo sulla condizione umana attuale (in linea con la vena apocalittica che già il precedente This Was Supposed To Be The Future annunciava a partire dal titolo) e che si estende a vari gradi di corruzione - anche quella che del belluino ha perso l’innocenza e la naturalezza (“io che ho sempre i tacchi alti / adesso sento male se / proviamo a camminare scalzi”). Per raccontare che “siamo ormai vecchi e stronzi”, i 2025enni Criminal Jokers aggiungono alla miscela di rock e wave del primo disco una vena psycho-folk che ben si esprime nelle iniziali Bestie e Fango, flusso continuo tra jingle-jangle con echi di India vista dalla fine dei 60s e marzialità funebri (con un po’ di Irlanda nella seconda) risonante di irrequietezze del primo Samuel Katarro, che prosegue nel botta e risposta coi cori di Quando arriva la bomba - niente Dorelli ma un piano a dare il tempo ed altri effetti lontani, forse anche un theremin, a colorarla. Riprendendo le promesse di alcune composizioni che chi scrive ebbe la fortuna di sentir eseguire live a Motta ancor prima dell’esordio (nel quale poi seguirono una direzione diversa), e grazie a una produzione attenta al dettaglio bizzarro e azzeccato ad opera del cantante e di Manuel Fusaroli, il gruppo compie un decisivo balzo in avanti sul piano della maturazione e definizione stilistica: si veda come padroneggia i cambiamenti di clima, per esempio l’accelerazione alternata tra marcia e techno-rock di Da solo non basti, in cui compare anche l’elettronica, o i ritorni rock di Lendra, o quella sorta di cha-cha-cha deviato di Adesso mi alzo, prima di tornare alle atmosfere iniziali con le due evocative ballate di chiusura Occhi bianchi e Nel centro del mondo. E se il timbro del cantante (con quel velo di sguaiatezza beffarda ben funzionale ai contenuti espressi) continua a ricordare Gordon Gano, risultano ormai fuori luogo, al di là dell’analoga scelta di cantare in italiano e di occasionali e non decisive assonanze, i facili confronti coi fratelli maggiori Zen Circus: giusto qualcosa di veniale nella suddetta Tacchi alti. Piuttosto Cambio la faccia, uno dei pezzi impreziositi da un bel violino, suonerebbe bene in bocca a Nada (che hanno accompagnato in tour per due anni), probabilmente presente anche come autrice dei “daun -daun 57


Honeybird & The Birdies - You Should Reproduce (Trovarobato, Ottobre 2012) Genere: world-funk Il terzomondismo come punto di incontro tra varie derive stilistiche: da un lato l’estetica debordante e gioiosa di una Tune-Yards (a lei sono ispirati i visi dipinti e i corpi imbustati in abiti coloratissimi delle foto ufficiali del gruppo); dall’altro nomi come The Raincoats e Slits a fare da numi tutelari per la riscoperta della poliritmia africana, come di un modo di fare musica immediato e istintivo; in mezzo un’attitudine cosmopolita à la Manu Chao sottolineata da suoni in gran parte acustici provenienti da un parco strumenti altrettanto “fusion”, tra charango, chitarra, berimbau, cajon, ukelele, U-bass, batteria, clarinetto, organetto, diamonica, contrabbasso e chissà cos’altro. Aggiungete la Babele linguistica dei testi (inglese, tedesco, dialetto catanese), il passato da girovaga di una Monique Mizrahi - padre romano, madre americana - in fissa con il Sud America e la diversa provenienza geografica degli altri membri della band (Paola Mirabella, sicula, e Federico Camici, di Anzio) e capirete dove vogliamo andare a parare. Ovvio che tutto questo si rifletta su uno stile musicale caleidoscopico capace di passare dal funk (impossibile non pensare allo spoken-word dei Red Hot Chili Peppers di Give It Away in brani come Where D’Ya Live Yo?) a una psichedelia sui generis (Perejil e la titletrack), dal folk dialettale (Cajaffari) a ritmiche disco music fuori contesto e per questo surreali (Eine Kalte Geschichte), fino ad arrivare a certe parentesi free à la Captain Beefheart (i passaggi finali di Elastic Stares). Il tutto amalgamato da un collettivismo paritario e spumeggiante capace di riflettersi nei contributi strumentali come nel modus operandi scelto per finanziare il progetto. Quel Kickstarter leader nel crowdfunding con cui la band è riuscita a raccogliere più di settemila dollari da destinare alle registrazioni del disco. Tutto qui? Nemmeno per sogno, visto che a produrre è stato chiamato Enrico Gabrielli dei Mariposa. E una bella sfida dev’essere stata per il bolognese catturare su disco l’energia della band e al tempo stesso offrirne un quadro quanto più multicolore e puntuale possibile. I risultati gli danno ragione, considerato che il qui presente You Should Reproduce convince in pieno ed entusiasma, superando in scioltezza il già buon esordio del gruppo Mixing Berries pubblicato un paio di anni fa. (7.2/10) Fabrizio Zampighi

-daun” del finale della suddetta Lendra (evidente citazione di Luna in piena): anche se forse l’ispirazione principale della cantante si sente quando, mentre il disco inizia e i nostri cominciano a dipingere il loro fosco quadro, sembra di sentire la “musica un po’ strana / scritta per / il funerale dell’umanità che vuole primeggiare / devastando tutto”, di cui cantava in Asciuga le mie lacrime. (7.2/10) Giulio Pasquali

Dan Melchior - The Backward Path (Northern Spy Records, Settembre 2012) Genere: avant blues Dan Melchior è uno di quei musicisti che fuori dai riflettori è arrivato al diciannovesimo album in poco più di dieci anni. Chitarrista inglese che già nello scorso secolo gracchiava garage punk con Billy Chidish, lo ritroviamo ora dall’altra parte dell’Atlantico con un disco prodotto da una delle etichette dell’anno in campo avant come la Northern Spy 58

(vedi Neptune e Extra life): un bel cambio di prospettiva a dimostrazione di come Melchior abbia saputo trovare una propria lirica al garage e al blues - suo vero amore - fatta di dissonanze, weirdismi e appunto sprazzi avant. The Backward Path si presenta come uno dei suoi dischi più emotivi e soffusi, un qualcosa di abbastanza particolare nella sua discografia. E’ un lavoro spaccato in due: una parte free, raccolta in titoli come Sp1 Sp2 Sp3 e così via, in continua alternanza con tracce blues rock dal sapore acustico. Paradossalmente la parte free è la meno stimolante: Melchior lascia a briglie sciolte la propria ispirazione per piccole suite ambient-rumoriste sulla scia del precedente Excerpts & Half Speeds, incastrandoci qualche nota pianoforte e due tocchi di chitarra. Il risultato, pur lavorando di mestiere, non è coinvolgente. Quando invece Dan si cimenta in ballad malinconiche (All The Clocks, No End) e nel rock cameristico di Jonathan Richman - che potrebbe essere un interessante approdo per Dan, vedi The Old Future e Dark Age Tail Spin


- c’è da rimanere entusiasti, perché affiorano sentimenti e affiorano con la sincerità dei migliori songwriters. Il giudizio è necessaria media delle due facce, e sarebbe finita qui. C’è invece un ultimo appunto che riguarda la sua vita privata: la moglie del musicista, Letha Rodman Melchior, sta combattendo contro un cancro al seno e l’intero incasso derivato da questa prima tiratura di The Backward Path sarà devoluto interamente alle sue cure. In aggiunta qui trovate un link per la donazione diretta, mentre questo è il video di The Night Comes in realizzato dalla stessa Letha. (7/10)

Debo Band - Debo Band (Sub Pop, Giugno 2012) Genere: Jazz etiope

Con Swim, nel 2010, Caribou si era reinventato e, grazie a un inedito mix di elettronica, soul, synth pop e minimalismo, inaugurato pure una nuova fase di carriera che, parallelamente all’amico Four Tet, comprendeva un’attività di djing, remixing e, infine, producing per il dancefloor. Attivato già dal 2009 (il remix di Watusii di Cortney Tidwell), l’alias dance Daphni ha preso corpo e regolarità discografica soltanto quest’anno, periodo in cui sono usciti i remix di Night And Day degli Hot Chip e di Does It Look Like I’m Here? degli Emeralds, oltre alle prime produzioni in proprio nel formato di due 12’’ Ye Ye (uno 12’’ split con Hebden) e Ne Noya (con il remix di Cos-BerZam, la vintage soul Yes, I Know e il pezzo africano Jiao). Il tutto caratterizzato dal suono di un sintetizzatore modulare autocostruito, tecniche looping volutamente spartane e un obbiettivo dichiarato: ricreare in studio lo spirito e l’ipnosi del club. Seguendo la stessa logica di Pink di Four Tet, Jiaolong è una selezione delle passate produzioni più alcuni inediti dove, attorno a una dance di tradizione britannica (Ahora ricorda il catalogo Border Community) e punte acid (Light By), troviamo una tracklist dalle forti fascinazioni vintage (John Carpenter in Ye Ye), magari su tagli rough-soul (Moby in Yes I Know) e abbondanti ritmi africani (ordinario il remix per Cos-Ber-Zam, Ne Noya, non male il loop samba in Paris con il synth fantomatico a moromorare di gusto). Il risultato è tanto funzionale agli aftershow di Snaith quanto lo specchio fedele delle non eccelse capacità del Caribou-producer. Un lavoro onesto, sufficiente, ma distante dalle visioni techno-idm di Nathan Fake o dalle pennate di Kieran Hebden. (6/10)

Fondato da un sassofonista di famiglia etiope fuggita prima in Sudan e poi negli USA, insieme a un cantante anch’egli etiope che ha studiato in Francia - entrambi hanno radunato musicisti sia etiopi che klezmer in un quartiere di Boston che si chiama Jamaica Plain -, il gruppo guidato dal sassofonista-etnomusicologo Danny Mekonnen e dal cantante Bruck Tesfaye giunge all’esordio, con la produzione del bassista degli ucraini residenti a Washington Gogol Bordello. Non siamo al melting-pot dell’Orchestra di Piazza Vittorio ma poco ci manca: identico è il modo sorprendente con cui elementi non poco eterogenei convivono felicemente nell’eclettico impasto. Il focus del suono del gruppo ruota attorno al recupero della golden age del jazz etiope, leggendaria benché durata solo una decina d’anni prima che la dittatura militare spegnesse, tra le altre cose, anche la vitalità culturale del paese: Mekonnen ha studiato nello stesso college musicale in cui aveva studiato Mulatu Astatke e, con l’aiuto di un’associazione studentesca di connazionali, ha iniziato a dar vita a questo “sforzo collettivo” (traduzione di “Debo”). Ma il risultato è tutt’altro che una fotocopia ingessata o un esempio di rigidità accademica: la frenesia ritmica dello stile originale conduce un fluire esplosivo e coeso ora di stratificazioni, ora di giustapposizioni stilistiche, determinate anche dalla varietà degli strumenti presenti nel ricco (undici musicisti) ensemble. Così la fisarmonica dialoga con violini ebreo-irlandesi su sezioni fiati che soffiano temi provenienti da qualche parte tra Coltrane e Mingus, su tempi che passano da quelli dispari delle origini a corse boogie-blues, anche nello stesso pezzo (Ney Ney Weleba con un finale da noise quasi zorniano). La sostanza non cambia quando in Not Just A Song sembra di trovarsi su un boogie più canonico (sì, ma del canone Pink Floyd), impressione iniziale presto sparigliata dal rincorrersi dei vari solisti. Dove siamo in Yekefer Wegagene, a Cuba o in Marocco? E l’incontenibile Asha Gedawo è un ballo irlandese, un rock in tempo dispari o una preghiera nordafricana? Lo slancio si ferma temporaneamente nel raccoglimento solenne di Medinanna Zelesegna, o nel valzer romanticamente dolente di Ambassel che precede la chiusura impertinente di DC Flower: Per il resto, il vitalismo che pervade il disco è quello di una tradizione onorata come si dovrebbe, ossia rinfrescandola e rinnovandola per mantenerla viva. (7.2/10)

Edoardo Bridda

Giulio Pasquali

Stefano Gaz

Daphni - Jiaolong (JIAOLONG RECORDS, Ottobre 2012) Genere: Dance

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Deerhoof - Breakup Song (Polyvinyl Records, Ottobre 2012) Genere: party avant pop Undicesimo album equivale difficilmente a freschezza. I Deerhoof hanno bisogno di forzare la mano per sembrare ancora quelli per cui li conosciamo, inesauribili iperattivi miniaturisti di arrangiamenti catchy e up. Frizzanti ed eccessivi. Escamotage su tutti, qualche drum machine e logico lavorio di complessità - mai i Deerhoof hanno usato il rasoio di Ockham - dentro il mondo zuccheroso e semplice dell’elettropop e trucchetti hype bombastici alla Sleigh Bells (la title-track). Il gioco funziona quando la scatola pop tiene, il pop, da loro osannato come faro, orizzonte accogliente, arena dove scatenare le californianissime tentazioni di cambi di tempo e progressioni. Greg definisce il disco “Cubanflavored party-noise- energy music” (definizione perfetta per The Trouble With Candyhands), ma aggiunge: “pop has always marked the spot on the Deerhoof treasure map.” Ancora una volta, il pop è mappa del tesoro per aprire lo scrigno della decostruzione. Vorremmo sottolineare una cosa: il pop è sì una chiave inglese con cui montare e smontare le canzoni, ma è anzitutto un accordo tra chi suona e chi ascolta. Devono trovarsi su un territorio comune, pena l’impossibilità di essere “popolari”. Suona un po’ come provocazione, se, seguendo un brano, il suo sconvolgimento non è avvincente ma un vezzo. Funziona meglio quando decostruiscono There’s That Grin, secondo un approccio che ricorda la destrutturazione dancey dei primi Battles. Nonostante la fedeltà al cut-up, i Deerhoof non sembrano in Breakup Songs difendere così strenuamente l’attaccamento anche un po’ paranoide al proprio stile, a cui di certo non rinunciavano in Deerhoof VS. Evil. Non che si mettano in gioco rispetto a esso, ma sembra sia iniziato un percorso di alleggerimento, il che vuol dire essere presi meno sul serio. Non ci vediamo contraddizione rispetto alla maturità, ma raccogliamo semmai la buona notizia. (6.7/10) Gaspare Caliri

Dum Dum Girls - End Of Daze EP (Sub Pop, Settembre 2012) Genere: noise pop Rendiamola semplice: End Of Daze non si discosta di mezza virgola da Only In Dreams, medesime le sessions con Sune Rose Wagner e fin troppo simile la qui presente Lord Knows alla più convincente Coming Down contenuta nel sopracitato ultimo album delle Dum Dum Girls. 60

Lungo le cinque tracce viene riproposta la medesima formula che bollammo come controllato “noise-pop di lusso”, magari più suadente ma certo ben meno graffiante rispetto al debut I Will Be. È ancora la voce di Dee Dee a troneggiare in primo piano su ballad dilatate (Trees And Flowers, cover delle Strawberry Switchblade) e altri compitini su assodati giri di chitarra, ritmiche e cadenze (I Got Nothing). Ed anche se qualche buon slancio Raveonettes-iano lo troviamo in Mine Tonight e Season In Hell, sono oramai evidenti i segnali di una band adagiata sulla propria fanbase che ha poco altro da dire. (5.7/10) Massimo Rancati

Dusk + Blackdown - Dasaflex (Keysound, Settembre 2012) Genere: UK Bass Martin ‘Blackdown’ Clark è a capo della Keysound Recordings (etichetta che ha pubblicato da poco roba eccellente come Keepers of the Light del collettivo LHF), ha collaborato ad una delle più influenti rubriche - oggi a riposo - sul tema: l’autorevole Last Month in Grime/ Dubstep sulle pagine web di Pitchfork, e oggi gestisce un blog di critica musicale. Con l’amico Dan ‘Dusk’ Frampton ha animato molte delle serate di Rinse FM, l’ex radio pirata inglese che da poco ha compiuto 18 anni. Nel 2008 il duo aveva cercato di uscire dalla gloomyness del dubstep incrociando la proposta di genere con le esperienze della word (London) music nel buon esordio Margins Music. Dopo quel lavoro - che aveva almeno teoricamente gettato delle basi per un ripensamento dell’estetica UK funky - i due hanno continuato a lavorare insieme e proprio quest’anno hanno pubblicato un High Road EP collaborando con Burial (che compare con un blank space nei credits).La spinta utopica e terzomondista del debutto viene oggi cancellata per ripiegare su una rilettura dei ritmi che hanno definito il suono del continuum UK bass. L’idea compositiva nasce “dalla riscoperta di nastri registrati dal 1990 al 1992”: da questi pezzi d’archivio sono state selezionate le migliori idee ed è nato il nucleo che ha generato il nuovo disco. Il risultato è quindi una revisione del passato che contiene link interessanti al mondo del rave dancey (la titletrack), agli archi bombastico-MIDI del grime (Wicked Vibez), ai movimenti spastici della juke mescolata con la cheaptronica (Apoptosis) e al tribalismo banghra (Next Generation).Tutti questi ingredienti, seppur interessanti per i link passato-presente e per l’ottima capacità produttiva (High Road su tutte, guardacaso), risultano essere un mosaico troppo frastagliato che manca d’omogeneità e coesione. Più raccolta di brani da godere come singoli


LV - Sebenza (Hyperdub Records, Agosto 2012) Genere: africa house/grime La retorica della dentro e attorno alla contaminazione è forte, ma resta il fatto che il mistilinguismo è la strada da percorrere e così pure che il futuro della musica occidentale - salvo voler rileggere il passato all’infinito arrivando al revival del revival per esaurimento scorte - sta fuori dall’occidente. Sulla mappa la X è il punto dove scavare ed è qui che troviamo il trio di South London LV, ovvero Will Horrocks, Gervase Gordon e Si Williams, tre nerd bianchi dal cuore nero, perfettamente inquadrati da una copertina dove zebre e microchip si fondono e confondono. Avvistati già nel 2007 su Hyperdub, poi in split collaborativi su moomusound e Hemlock con gente come Dandelion e Untold, con la prima prova lunga nel 2011 su Keysound assieme al poeta-rapper Josh Idehen, i tre tornano ora con il disco che darà loro la giusta visibilità (al momento non hanno manco un sito ufficiale), anticipati a luglio dall’EP Get a Grip e trainati da un singolo tormentone indovinatissimo come Sebenza, che ci sta facendo tutti canticchiare “Se-Se-Benza uh! / Se-Se-Benza wah! / Se-Se-Benza only rest in December”. Tastiere sature, rappato dal piglio grime ma giocoso, insertini chiptune, autotune sul finale, alla voce “true Africa Hitech”: ovvero quello che avrebbero dovuto fare Pritchard e Spacek dopo Out in the Streets invece di ripiegare sulla raffinata ma solitissima ambient-techno pritchardiana. Routes (7.2/10), il disco dello scorso anno, era una cremosa miscela di minimal deephouse, minimal electro e dub (il loro “selfconfessed homesound”), una specie di raffinata stilizzazione grime afro-dancey, con più di un punto di contatto con le rarefazioni spacey dei Kode9/Spaceape degli esordi (e una assimilazione in controluce del footwork in Talk Talk). Routes contaminava, ma era sempre Londra; Sebenza vuole gettare ponti più lunghi (come la MIA - possiamo dirlo? - dei tempi d’oro), riprende e continua il discorso, ma con meno attenzione all’ambience e il pedale pigiato sul funky e il dancefloor in senso lato. Con i rapper sudafricani Okmalumkoolkat (vero nome Smiso Zwane, già nel singolo 2010 Boomslang, sempre su Hyperdub) e Ruffest a fare da M(aster of )C(eremonies), e i due cameo di Spoek Mathambo, la base di ispirazione è allora il kwaito, l’hiphop house di Johannesburg (nota bene: Gerv in Sudafrica c’è nato, si è spostato a Londa quando aveva sei anni, e in Sudafrica c’è tornato più volte, anche durante la lavorazione del disco), una “slowed-down garage music” per dirla con Diplo, spesso davvero indistinguibile a seconda dei gradienti di concentrazione dai suoni e i modi UK-based, se non forse per un retrogusto melodico peculiare e un bricolage ritmico a tratti splendidamente näif. Il disco parte a bomba, con la title track e con Animal Prints, ondeggiante scansione house, rappato afroslacked e microvocine chipmunk, ed è tutto un giocare - con pezzi sicuramente non tutti con lo stesso impatto, ma è davvero questione di lana caprina - sulle omologie e le sovrapposizioni del kwaito con lo UK funky (Limb, Primus Stove) e la dance UK undeground in generale. Dalle iterazioni legnose e tribali di DL, al grime punto e basta di Zulu Compurar (assieme al singolo titletrack, l’altro vero manifesto di suono e immaginario del progetto Sebenza), al pezzo che ogni fan dei Die Antwoord dovrebbe ascoltarsi per bene e fare abiura, ovvero Nothing Like Us, alla acida dance latin e commerciale di Thatha, fino al boogie - damfunkiano - della conclusiva Uthando. A suon di smartphone, Mac e cash, Okmalumkoolkat ci offre un miniritratto dell’occidente visto da un Terzo Mondo sempre meno terzo e sempre più consapevole e ironico, che forse ci sorpasserà da destra; ma soprattutto ci suggerisce - cyan, magenta, yellow, black - che è tutta una questione di palette: basta mescolare bene i colori giusti. Altro bel disco di sostanza, dopo Cooly G, per la Hyperdub in questo 2012. (7.3/10) Gabriele Marino

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episodi, dopo quasi un’ora di UK funky, Dasaflex risulta un anonimo calderone di nostalgie. A spiccare è solo l’iniziale Lonely Moon con il feat. angelico-trip-hop di Farrah. (6/10) Marco Braggion

Dusted - Total Dust (Polyvinyl Records, Luglio 2012) Genere: lo-fi bedroom rock Se la tendenza generale in fatto di side-project è quella di non discostarsi molto dal sound dell’act madre, Brian Borcherdt non poteva prender maggiori distanze dai suoi Holy Fuck. Se per quest’ultimi si è parlato d’intricati groove elettro-rock, Dusted, tecnicamente un duo con Leon Taheny (producer per Owen Pallet sotto moniker Final Fantasy e batterista nei The Mountains, side-band di Sebastian Grainger dei Death From Above 1979), parla la lingua di un bedroom rock incrostato di fuzz, con toni grunge-ambient episodicamente persino pastorali, il tutto calato in una profonda introspezione lo-fi. Anticipato dagli scenari di Coyotes, solo EP del 2008, parliamo dunque di suoni slabbrati e liriche pregne di senso di “acceptance” ai confini dell’alt-country, che rifuggono le comunioni ed, anzi, pretendono e mostrano l’isolamento del singolo come unica via per risolvere i problemi personali. Le canzoni di Total Dust riflettono la vita di Borcherdt “on the road” tra location di fortuna (fra cui figura uno studio non riscaldato in Nuova Scozia) e un equipaggiamento spesso in panne: il suono della chitarra (spettrale ed estremamente grezzo) viene da un amplificatore con tubi parzialmente danneggiati; le parti vocali sono state filtrate attraverso un amp portatile che si è rotto durante le registrazioni; le ritmiche ridotte a cimbali, tamburelli, sparsi colpi di grancassa e drum-machine con qualche linea tenue di synth ad aggiungere tensione statica qua e là. L’insieme suona sgranato, ammantato, a tratti persino indistinto, eppure di grande consistenza emotiva, in subbuglio vitale come un Neil Young lo-fi con vocalità dreamy (Pale Light), od un Youth Lagoon rustico (Bruises), o ancora come un Atlas Sound sgangherato e spigoloso (Into The Atmosfere). Total Dust è il tipico album la cui forza risiede nell’essenziale taglio wasted-beauty. In coda alla tracklist già senti che la miccia è esaurita ma sarebbe davvero un peccato lasciar scivolare nel dimenticatoio questi 30 minuti da potenziale replay infinito, perfetti nelle mattine d’arrendevolezza da hangover. (7/10) Massimo Rancati

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East Rodeo - Morning Cluster (El Gallo Rojo, Settembre 2012) Genere: math / post Terza prova per East Rodeo dei fratelli Sinkauz, Alfonso Santimone e Federico Scettri, Morning Cluster (già edito in Croazia l’anno scorso, ora distribuito anche da noi, coproduzione Pulse e El Gallo Rojo) continua dritto lungo la strada già asfaltata per Dear Violence, ma in un modo forse più maturo. Tre parole chiave: canzone, struttura, complessità. Variabili con diverso peso e diversamente bilanciate tra ritmiche elettroniche e acustiche, e tra strumentazioni rock e veleggi sintetici. Costruita molto bene Mrs. Cluster, con quel gusto dell’ambiguità tra punto e contrappunto che è evidente eredità dei Novanta. Come direbbero i Joy Division: “A legacy, so far removed / One day will be improve”. Mai rimossa del tutto, in verità, quella fine anni Novanta di cui è figlio l’approccio di Morning Cluster, pur con uno sguardo al proprio tracciato. Già da Trom ci si rende conto di quanto sia ancora possibile battere con efficacia quel percorso liminale tra matematismi progressivi (American Dream) e canzone che Amaury Cambuzat da una vita esplora con Ulan Bator. Ma, anche, si cerca a volte (Crni Gad) di seguire - con meno intensità e minor capacità di sintesi, o meglio, auto-trattenimento - la lezione dei nostri Madrigali Magri o addirittura Bachi Da Pietra. Rispetto a Dear Violence, si sente forse meno la dinamica tra elettronica e chitarra, non perché ce ne sia meno, ma perché la chitarra è eminentemente il decisore armonico massimo tra l’opzione dispari, post-, e quella melodica, riconoscibile. Ogni pezzo contiene in sé la doppia faccia, a volte perseguita con soli e protagonismi (il tappeto para-drill di Ballad Of LC). Anche in questo caso dietro al sound c’è lo zampino midesco di Giulio Ragno Favero (al mixing soprattutto), e nelle note stampa si segnala l’apprezzamento di gente come Marc Ribot. Una considerazione: fa sempre una strana impressione leggere questo tipo di endorsement. Più che invogliare (opinione di chi scrive), rischiano di sviare il giudizio. Comunque positivo. (6.7/10) Gaspare Caliri

Elbow - Dead In The Boot (Polydor, Settembre 2012) Genere: Pop rock Fosse stato il nuovo lavoro di inediti degli Elbow, non dico che avrei fatto il salto sulla poltrona, però mi sarei accoccolato per ascoltare e riascoltare. Per concludere che si tratta del loro disco più disinvolto, benedetto da


Mountain Goats - Transcendental Youth (Tomlab DE, Ottobre 2012) Genere: songwriting Diavolo di un John Darnell! E’ proprio il caso di dirlo in occasione dell’uscita del quattordicesimo lavoro, Transcendental Youth, a nome Mountain Goats, soprattutto buttando l’occhio alla sulfurea copertina che accompagna il disco. In trio con il sodale Peter Hugues - bassista e polistrumentista presente sin dall’inizio - e con il batterista Jon Wurster - in forze da due album a questa parte - e con il consueto arrangiamento di Owen Pallett, Darnell tratta alla sua maniera tagliente e sottile la materia di un concept su crescita e dannazione, dedicato alle generazioni più giovani. Il tutto offrendo come controparte l’idea di “salvezza” nel trascendere le situazioni, anche quelle peggiori, oltrepassandole dopo averle attraversate. Musicalmente e stilisticamente ritroviamo l’urgenza espressiva, la verve melodica, la vena surreale e ipnotica, le liriche acute e le chiavi di lettura tipiche del Nostro. Elementi che muovono dal quotidiano e da alcuni temi scelti da prendere come pretesto per dare una propria visione appassionata, disincantata e solo apparentemente cinica della vita. Un narratore capace, in linea con la poetica di artisti come Robyn Hitchcock, R.E.M., Mike Scott, Daniel Johnston, Mark Everett, Go Betweens, Syd Barrett, Gordon Gano (e la lista potrebbe continuare). L’uomo ha il talento di far suoi umori e amori e di continuare a confezionare musica originale, tesa tra ballad disincantate, psych, freak rock e indie assortiti, tra psicosi e divertissement, con più semplicità e meno stratificazioni di un tempo (si veda il pezzo uscito in anteprima, Cry For Judas). La giusta maturazione di un talento che merita certamente maggiore visibilità. (7.4/10) Teresa Greco

un’immediatezza quasi inedita, da una duttilità stilistica ed espressiva che in cuor mio gli ho sempre rimproverato di trascurare. Invece è una raccolta di lati B provenienti dai singoli snocciolati lungo oltre due lustri di carriera. Pezzi quindi slegati, composti - secondo quando ha dichiarato lo stesso Guy Garvey - dopo aver chiuso la lavorazione di un album, alla stregua di esercizi defatiganti. Per me che ho sempre trovato sovraccarica la loro proposta, una ricerca spasmodica di climax brumoso che ispessiva la vena indie di sovrastrutture wave prog, tanto da penalizzare il libero fluire del talentaccio melodico, trovo adorabile questa disarticolazione, questo muoversi in ordine sparso tra cupe vampe post-Gabriel e lirismo sospeso, tra folk sciropposi (l’afflato quasi Red House Painters di Buffalo Ghosts), blues ingrugniti (i Depeche Mode frugali di The Long War Shuffle, l’espettorazione Cave di McGreggor) e rapimenti sotto scafandro (l’astrazione eniana di Love Blow Down, la quasi folktronica Every Bit the Little Girl). Bella compilation. Con la speranza che possa rappresentare il preludio di una maturità godibile. (7/10) Stefano Solventi

Eva Mon Amour - Lo specchio e l’aspirina (Ala Bianca, Ottobre 2012) Genere: folk-rock Gli Eva Mon Amour non sono una band che si stanca facilmente. Nel giro di soli quattro anni, fra cambi di line up, concerti e collaborazioni importanti, hanno fatto uscire ben tre lavori, fra Ep ed Lp. La nuova prova, la quarta, s’intitola Lo specchio e l’aspirina, titolo ideale per il loro folk rock a base di pillole di nonsense e giochi linguistici. Reduci dunque da un’esperienza live del tutto ragguardevole e da esimi premi vinti sui palchi più importanti (Heineken Jammin’ Festival, Keep on), questi tre ragazzi di Velletri indorano lo stile che li ha consacrati, fatto di chitarrone acustiche e testi taglienti e condiscono dieci brani equilibrati che raccontano di identità personale e di precarietà dell’esistere, di verità non dichiarate o di verità irraggiungibili. Indubbia la genuinità di una scrittura che unisce in un sol stile la tradizione cantautorale più veneranda (De Gregori, Conte) e l’acidità melodica del folk oltreoceano (The Black Keys e White Stripes). Azzeccata anche la scelta di suoni non scontati come il violino di Rodrigo D’Erasmo (in Si stava meglio prima e Ti chiederò domani) o l’organo farfisa in Uno, qualcuno e Lo specchio e l’aspi63


rina. Gli Eva Mon Amour convincono forse di più quando mettono da parte la maschera della dissacrazione (che alla lunga stanca un po’) e si concedono aperture più intime, magari senza la roboante insistenza della batteria (vedi Ci piace). Così i pezzi migliori risultano la ballad romantica Pensare fa male alla pelle o l’arpeggiatissima Nascondigli per i cani, che ricorda le delicatezze dei Kings of Convenience. Non si scomodi sua santità Bob Dylan in Sei dove guardi, se non altro perché qui (come anche nel singolo Si stava meglio prima) si sente più che altro l’influenza del buon Cremonini, che certo male non è. Per tirare le somme, Lo specchio e l’aspirina è un lavoro che di certo non brilla per l’originalità, ma nasconde uno stile interessante che, se levigato nelle punte più acuminate, può farsi piacere. (6.5/10) Nino Ciglio

Flora & Fauna - Flora & Fauna (Ice For Everyone, Ottobre 2012) Genere: core Quanto può cambiare nel panorama musicale italiano ed internazionale dal 1998 ad oggi? Al tempo c’erano i gruppacci cattivi, certo, c’era Cristiano Godano con i capelli lunghi, ma c’era anche Cisco e la sua panciona da folkabbestia. Da qualche parte in Italia c’era anche un gruppo che si chiamava Flora & Fauna. Anzi, loro c’erano da più tempo, dal ‘91 per l’esattezza. C’erano gruppi incazzati come questo, che hanno incendiato palchi insieme ai Linea 77, condiviso il pubblico dei Sabot, dei De Glaen e che hanno infine deciso di darsi il tempo giusto per respirare e riorganizzare le idee. Certo, si parla di una pausa di più di dieci anni e certo, qui non stiamo parlando di un grande ritorno, ma di una semplice ristampa; ma a nostro parere vale comunque la pena tentare di riscoprire quello che è stato di un gruppo e di un genere che ha ancora voglia di farsi sentire. Stiamo parlando di un rock di matrice americana, con numi tutelari band come Shellac o Fugazi, tutto basato su tempi dispari, su linee di basso spesse così e riff disarticolati e disarmanti. Cantato rabbioso in italiano, ruggito al microfono come qualche affine discepolo avrebbe fatto poi (La quiete, Raein), ritmiche disarmoniche che ricordano le capriole dei Primus o il jazz-core più progressista (Materia 4 e Materia 3). Rimane da chiedersi cosa riserva il futuro a una band che a dodici anni di distanza dal suo unico disco non decide di tornare a bomba con un nuovo prodotto, ma ricicla l’usato (forse non da molti, certo), nel tentativo di arrivare ad una fetta più ampia di pubblico. Non si 64

potevano certo aspettare che fosse facile incontrare gli stessi gusti di allora. Così, per rispondere alla domanda iniziale, molte cose sono cambiate dal ‘98 a oggi nella sensibilità degli ascoltatori e, se riscoprire vuol dire progredire, aspettiamo con ansia il progresso. (6.3/10) Nino Ciglio

Flying Lotus - Until the Quiet Comes (Warp Records, Ottobre 2012) Genere: downtempo/rnb Sempre immerso in una dimensione afrofuturista a metà tra crepuscolo (ovviamente losangelino; come a dire l’hip hop) e pulviscolo (siderale; il free di famiglia), Steven abbandona gli eccessi sperimentali e prog di Cosmogramma per recuperare sapori e cadenze fragrantemente downtempo, se non addirittura lounge (le note di presentazione parlavano oppurtunamente di lullabies). Il focus è sempre su un’idea di fusion elettronica e black che metta assieme - tra sugose tastiere elettriche (pescate direttamente dalla Canterbury e dintorni dei primi anni Settanta), cascatine d’arpa (dalla prozia Alice al laptop passando per Rebekah Raff ) e liofilizzazioni drum’n’bass (the father of us all) - radici jazz, mamma Africa, ambience spacey e craftmanship wonky strumentale da stato dell’arte. Sono diciotto pezzi brevi legati tra loro senza soluzione di continuità, in un compendio di compostissima asciuttezza lotusiana, quando bignami fa rima con origami: il gioiellino lounge Tiny Tortures; la wonky house di All the Secrets (e la grana house torna anche in The Nightcaller); la tentazione epica-massimalista, via tastiere sature e solarizzate, di Sultan’s Request; la ripresa della vena giocosa di Pattern+Grid World della tetrisiana Putty Boy Strut; una Only If You Wanna che è praticamente un apocrifo dei Sa-Ra (e Thundercat fa una comparsata su DMT Song); una Hunger ineffabile e cinematica perfetta come OST per Hunger Games. Tutto funziona, tutto fila liscio, e che classe Erykah Badu (See Thru to U) e Niki Randa (Getting There), per non dire di Laura Darlington (Phantasm), sognante e diafana ma non stucchevole, per una volta. Tutto fila liscio. Ma senza zampate, senza affondi veri, sospeso in una medietas dorata e anche golosa ma che non dura oltre l’orecchio, non resta nella memoria, perfettamente incarnata dal cameo di lusso di Thom Yorke in Electric Candyman: si comincia con un boogie-funk come deformato da lenti hauntologiche e poi tutto si spegne in un jazzettino insignificante, nell’attesa che accada davvero qualcosa. Until the Quiet Comes, dopo il picco precoce Los Angeles e l’ansia creativa di Cosmogramma, ci sembra un po’


Rone - Tohu Bohu (InFiné, Novembre 2012) Genere: elettronicambient Anni fa ci eravamo esaltati per la At The Controls di Agoria. In quell’ottimo mix faceva capolino anche un newcomer come Rone (Bora). Lo spot è stato utile al ragazzo: da lì in poi la sua carriera è stata un continuo crescendo sia con il buon esordio Spanish Breakfast del 2009, infatuato piacevolmente per l’ambient techno minimale, sia con la riconferma odierna.Le coordinate attuali di Erwan Castex modulando l’output su una idm “di ritorno”, drum machine dai bassi spessi (Let’s Go con l’ottimo feat. di High Priest degli Antipop Consortium) e alcune atmosfere retrò ereditate dalla madrepatria (le orchestrazioni pompose à la Jarre di Icare).In pratica, si rasenta quasi il plagio Boards of Canada in Tempelhof, si sente palese il tocco Plaid in Fugu Kiss ma intelligentemente si punta a variegare suoni e soluzioni come ad esempio mescolare BOC e half step (Lili... Wood), riscoprire il catalogo Warp (agganci all’ultimo Nathan Fake d’obbligo e una King Of Batoofam che si porta dietro basi degli Autechre) spingendosi fino alle evoluzioni indietroniche di DNTEL (Bye Bye Macadam), tagliando il tutto a dovere su quelle basi hip-hop che trasversalmente hanno contagiato l’indie USA e pure Pitchfork (vedi i Purity Ring o Passion Pit). Il tocco cinematografico (eredità proveniente dagli studi accademici) più, in generale, una narrazione dai sapori anche pop (il primo singolo-cum-video tra melodia dal sapore Coldplay e arrangiamenti Underworld di Parade) e il Dj francese porta a casa un album più che buono. Ed anche caldamente consigliato. (7.2/10) Marco Braggion

il disco della maturità di un FlyLo sorprendentemente trattenuto, attento, affusolato, e in ultima analisi r’n’b; maturità anche e soprattutto nel senso della maniera, dell’automatismo, del posizionamento comodo. Ne potrebbe fare tre l’anno di dischi come questo Steven, mantenendo sempre una buona qualità, come fa qui del resto, ma appiattendosi su quello che di solito arriva dopo essere passati da prog e fusion: il ghirigoro carino, il sottofondo curato. (6.6/10) Gabriele Marino

Gallows - Gallows (Bridge Nine, Settembre 2012) Genere: HC punk rock Se dall’altra parte dell’oceano il grande nome “nuovo” del punk sembra ormai essere definitivamente quello dei Fucked Up, in Inghilterra è probabilmente quello dei Gallows a tenere banco. Dopo il debutto Orchestra of Wolves - distribuito anche in USA via Epitaph - la band guidata da Frank Carter pubblicò Grey Britain, uno dei dischi più importanti degli ultimi anni all’interno del genere (nonostante uscisse per Warner), soprattutto a livello sociologico. Frank Carter era la voce, l’anima ma soprattutto il simbolo dei Gallows con quell’aspetto pure-british. Ora il rosso tatuato dalla testa ai piedi non fa più parte della

band - la motivazione ufficiale dell’addio di un anno fa è di tipo artistico - ed è stato sostituito dall’energumeno canadese Wade MacNeil, già negli Alexisonfire. Senza il singer storico e senza la Warner (in UK escono per la loro Venn Records, in USA per la Brige Nine), i Gallows pubblicano il terzo album intitolato semplicemente Gallows, probabilmente per dare un senso di ripartenza all’intero progetto. Se da un lato l’operato di Wade MacNeil, seppure di buona fattura, non è forse comparabile con quello di Frank Carter, dall’altro lato i Gallows come band dimostrano di poter fare ancora male e lasciare traccia anche in questa nuova versione. I Gallows 2.0 non le mandano certo a dire, si prendano d’esempio Everybody Loves You (When you’re Dead), Cult Of Mary (chorus “Cult of Mary, crucified Christ. Pagan blood for the religious reich”) e soprattutto l’inno Last June (“A.C.A.B Until last June meant nothing to me”). Come è lecito aspettarsi, l’impatto live viene portato su disco senza perdere in ferocia hardcore: undici tracce per poco più di mezz’ora di brutale punk rock senza pause e senza compromessi. Ritmiche serrate (Vapid Adolescent Blues), riff imprevedibili, cori anthemici e Wade a fare la parte del pitbull pronto a distruggere il guinzaglio per andare a sbranare qualcuno. Meno brit-riot e storicamente contestualizzabile rispetto a Grey Britain, il terzo omonimo disco dei Gallows 65


non sposta di un minimo l’universo punk/hc ma ne ingloba in modo credibile quasi tutti gli aspetti più caratterizzanti. (6.8/10)

In sostanza una positiva riconferma di quanto fatto finora dal tedesco. (7.2/10) Teresa Greco

Riccardo Zagaglia

Get Well Soon - The Scarlet Beast Of Seven Heads (City Slang, Settembre 2012) Genere: pop orchestrale L’amore per la concettualità e per il pop colto non vengono meno al tedesco Konstantin Gropper, alias Get Well Soon, arrivato al terzo album con The Scarlet Beast Of Seven Heads. Superata brillantemente la fatica del secondo lavoro nel 2010 con il composito Vexations, ripropone ora la sua miscela di classica e pop, virati con un liricismo estremo e una massiccia dose di chamber pop. Il tutto filtrato attraverso una spiccata sensibilità indie che lo contraddistingue. Non è un vero e proprio concept quest’ultimo disco, ma una riflessione ragionata sul momento odierno, sia quando si intrattiene sulle giovanissime generazioni no future, in The Kids Today, sulle alternative al capitalismo in A Gallows, piuttosto che sui falsi paradisi offerti da religioni e misticismo in The World’s Worst Shrink. Altrove piazza i suoi sentiti omaggi ad alcune delle sue ispirazioni, - anche come autore di colonne sonore qual è -, come Wendy Carlos in Dear Wendy, il regista Roland Emmerich in Roland I Feel You, corredato di un video sulfureo, Alfred Hitchcock e le donne dei suoi film con i loro demoni, nella conclusiva You Cannot Cast Out The Demons, You Might As Well Dance. Sunny, yet sinister - beautiful and dark, ecco come descrive la sua ultima fatica Konstantin Gropper. L’aria che vi si respira ha infatti un tono dark ma con ottimismo, un’atmosfera sospesa da film noir, una sorta di primo Tim Burton in cartoni in una fiaba da fratelli Grimm, come da copertina del disco, il tutto comunque virato attraverso una positività di fondo, segno di un’evoluzione del suo autore in questo senso. Musicalmente la stratificazione del passato lascia via via il passo ad un songwriting un po’ più leggero e meno composito, in cui la forma canzone finalmente predomina e dà respiro all’opera. Se abbiamo ravvisato similitudini con il pathos degli Arcade Fire, sia pure in tono minore e con la rivelazione recente Villagers, non da meno La Bestia Scarlatta Con Sette Teste si pone in una linea che va ad abbracciare lo Scott Walker più cantautorale e orchestrale, si veda la citazione del Dies Irae in Let Me Check My Mayan Calendar, già usata dal Walker di My Death, a chiudere un ideale cerchio. 66

Green Day - Uno (Reprise, Settembre 2012) Genere: pop Dal punk al pop punk, al pop. Una montagna russa che precipita nel vuoto. Il silenzio che precede l’impatto. Uno!, che nelle intenzioni dei Green Day anzi, di Billie Joe Amstrong & The Greendays (perché ormai è chiaro che sia l’espressione di una one man band coadiuvata da due amici d’infanzia) rappresenta l’opera definitiva della band californiana in un trittico già annunciato che dal musical di American Idiot passa alla trilogia musical teatrale (con tante scuse al teatro!) - è l’ennesima dimostrazione di come la band non abbia veramente più nulla da dire. Tre anni dopo 21th Century Breakdown, prova già di per sé fallimentare, Billie Joe richiama alla produzione Rob Cavallo, una volta mainman di Jawbreaker e Butthole Surfers, oggi chairman della Warner Bros: un dato significativo che dimostra il potere assoluto del pensiero commerciale che ormai avvolge i tre ragazzi di Frisco Bay, una volta idoli degli squatters, oggi allineati al sistema anzi, sistema loro stessi. Una parabola sinceramente sconcertante perché, se è vero che ogni artista è libero di esprimersi come meglio ritiene, è altrettanto vero che il diritto di critica permette, a volte impone, di essere franchi e spietati. Dai gloriosi tempi della Lookout! Records agli ultimi disastri musicali, paccottiglia di seconda mano spacciata per evoluzione stilistica e addirittura per musical-punk (non ne facciamo una questione di snobismo culturale, quanto di serietà e coerenza): dai palchi sgangherati dei centri sociali, pre Dookie, a tronfie impalcature e scenografie stellari, per coprire le palesi lacune artistiche. Le punk c’est ca? Neanche per idea. Dovremmo cominciare a introdurre un assunto, ovvero che i Green Day sono stati due band diverse. Una punk e una pop. E oggi ci tocca parlare della seconda. Francamente inascoltabile. Paragonati a loro, i Foo Fighters sanno di grindcore, i Sum 41 sembrano i Dead Boys, i Blink 182 forse i Ramones. Il che è drammatico solo a pensarci. Lasciateli alle ragazzine, a chi non ha mai sentito parlare di punk, a chi crede che questo abbia a che fare con il vero rock and roll. Lasciateli a loro, voleranno insieme nell’oblio delle cose inutili. Doveroso il compito di raccontare che Nuclear Family è forse l’unica canzone degna in un disco indegno (pur richiamando C’Mon Everybody di Eddie Cochran) ma il gioco si fa duro già al secondo brano, una I


Fought The Law (con tutto il rispetto) per ragazzini brufolosi e annoiati, che celebreranno la loro adolescenza ormonale con Carpe Diem e si sentiranno particolarmente cattivi alzando i volumi di Let Yourself Go. Il fondo del barile è tutta in Kill The Dj, al cui confronto gli Smash Mouth sembrano gli Slayer. Ricordate Rockwell? Ecco, aggiungete le chitarre e il gioco è fatto. Il resto scorre in un fiume di banalità power pop (senza offesa per il power pop) una identica all’altra. Neanche lo sforzo di inventarsi qualcosa. Triste Y Solitario final, direbbe Soriano, sperando che il santo protettore della musica, scenda sulla terra e li costringa a non incidere il secondo e il terzo capitolo. Che, fantasia al potere, immaginiamo si chiameranno Dos! e Très!. E il sospetto che l’ispirazione sia la fallimentare Pretty Fly (for a White Guy) del periodo peggiore degli Offspring è legittimo. Offspring il cui ultimo disco, al confronto, sembra Piper at The Gates Of Dawn. Per rendere bene l’idea. (4/10) Mario Ruggeri

Grizzly Bear - Shields (Warp Records, Settembre 2012) Genere: Folk pop Correva l’anno 2009 quando uscì Veckatimest ed in questi tre anni diversi membri della band sono stati coinvolti in svariati progetti personali: da un lato, il cantante e chitarrista Daniel Rossen ha confermato l’identità chamber pop con l’eppì Silent Hour/Golden Mile, dall’altra abbiamo assistito all’esordio elettropop di CANT, progetto del bassista/produttore Chris Taylor (coinvolto pure nel Forget di Twin Shadow). Ed è forse stato questo sfogo creativo ad imprimere un’ulteriore evoluzione nel sound e nelle modalità dei Grizzly Bear, ritrovatisi per la seconda volta ad agire come band nella produzione di un album che abbandona completamente lo schema a due penne (con Droste primo tra i pari), più producer (Taylor) e batterista (Bear) a favore di un impegno organico dall’inizio alla fine con i quattro a selezionare la tracklist scegliendo proprio i brani con maggiore affiatamento reciproco. Shields si differenzia da Veckatimest per uno sforzo di coesione e sottrazione, per il fatto cheYet Again non è paragonabile alla regale Two Weeks e, appunto, per aver confinato gli arrangiamenti orchestrali - leggi: la passata cifra stilistica - ai fiati à la Sufjan Stevens di Speak In Rounds e l’uso dei cori (e dei controcati) alla sola GunShy. Diretta ed immediata, la scaletta rappresenta un ritorno a Yellow House, considerando il lato della fruibilità, ma con un’inedita componente rock nell’uso di batteria (a tratti filo hardcore) e chitarra (con più riferimenti al

catalogo touch’n’go e ai chitarrismi evoluti dei 90s). Il cuore melodico, vero focus delle canzoni, porta, infine, agli Stati Uniti continentali: l’immaginario dell’uomo non ancora avvelenato dalla frenesia dei tempi moderni, che ha valori e sogna la tranquillità (Sleeping Ute), magari con il ricordo della California Fleet Foxesiana (Half Gate), band con la quale, nel 2011, Droste ha collaborato. Prodotto più che decoroso Shields. Sarebbe ingenuo vederlo come retroguardia e tanto meno resa rispetto a Veckatimest. Una solida ripartenza. (6.9/10) Andrea Forti

Groundation - Building An Ark (Soulbeats, Maggio 2012) Genere: Roots reggae La band americana arriva al settimo album con un patrimonio di credibilità ampiamente guadagnato e con l’intenzione di rafforzarlo attraverso un disco che gli stessi musicisti giudicano il loro migliore. Passato lo shock dovuto all’intro cantautorale (ossia il primo minuto dell’iniziale title-track), infatti, si vira verso il roots reggae arricchito di jazz e dub cui i californiani ci hanno abituato, coi tratti distintivi di una voce davvero marleyana e con quella capacità - tipica del genere che hanno gli strumenti di collocarsi discreti a costruire ognuno il suo pezzetto dell’insieme. Una musica che funziona grazie al tocco delicato e caldo e al grande interplay tra i musicisti, cosa che d’altro canto non impedisce a ognuno degli strumenti di vivere il proprio momento di gloria. Così, la succitata Building An Ark (altro elemento tipico: simbologia e immaginario biblici collegati però ad un percorso interiore) viene impreziosita nel finale da un bell’assolo di tromba (che si riprende il proscenio in Keep It Up), nel singolo Humility è la volta del piano elettrico, in Be That Way si accennano variazioni funk e tra i vari cambi di tempo si puntano i riflettori sulle voci femminili. Stesso copione in Pakaya Way, dove oltre alle fanciulle (e al basso) brilla un assolo di piano a metà strada tra avanguardia e anni ‘30, esce la chitarra nella bella Daniel e così via, in un flusso musicale che varia pur nell’omogeneità di un canto accorato in tonalità minore. Tutto procede fino alla brevissima e conclusiva Sunlight Reflections, altro frammento acustico specchio di quello iniziale che chiude il cerchio di un disco-conferma adatto anche ai non cultori del genere, pur essendone espressione di pregio. (7.2/10) Giulio Pasquali

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Talibam! - Puff Up The Volume (Critical Heights, Ottobre 2012) Genere: impro hip-hop Li si deve prendere per quello che sono, Matt Mottel e Kevin Shea, anzi MC Moaty Mogulz e MC K-Wizzle, stando agli a.k.a. coi quali si sono ribattezzati. Due pazzi squinternati, due fusi, due fuori di testa, eppure per la legge del contrappasso, due fottuti geni. Come si potrebbe spiegare altrimenti un’opera come Puff Up The Volume se non come il colpo di genio folle e delirante di due menti tanto sveglie quanto malate, onnivore e borderline? La storia all’origine di quello che è un album hip-hop vero e proprio, risiederebbero nell’incidente avuto da Shea un paio di anni fa o poco più: la rottura dell’alluce che lo costrinse ad un periodo se non di inattività per lo meno di ripensamento del proprio drumming in sede live e in studio, ha portato il nostro a sviluppare una attitudine completamente diversa da quella che è il suo riconoscibile e schizoide stile. Così dalla banalità del quotidiano la lucida e geniale follia dei due ha tirato fuori l’eccezione, la forzatura della regola: un disco che è lo sguardo angolare su un fenomeno che ha segnato l’ultimo trentennio da parte di due white trash inclini al cazzeggio ma sempre terribilmente seri. Anche e soprattutto quando mettono in atto quella che è una pura parodia. Seria, ma pur sempre parodia. Senza padrini nè tutori, in completa autonomia. Spinta all’eccesso tra cartoonate geniali e rielaborazione del messaggio, come nei fantastici #noschool Rap Report #1, #2 e #3, in cui si ricostruisce una smidollata e orizzontale storia del rap con cui i due hanno contatti a dir poco risibili (“The closest we are to the rap community is I’ve been tweeting with Kitty Pride, and she’s favorited some of my tweets”, Moaty Mogulz dixit). Prendete Hard Day/Tough Day (o It’s A Tough Day, Hard Day che dir si voglia) e ditemi se non è totalmente indescrivibile a parole ciò che mettono in scena quei due geniali nerd. Qui il post-moderno fa il giro completo e torna al punto di partenza, ma completamente stravolto nelle fondamenta. Luccichii e paillettes gettate in faccia al rapper tutto muscoli, fighe e canottiere improponibili da un punto di vista totalmente alieno. I due considerano Puff Up The Volume - plauso ulteriore ai titoli messi in campo - la loro naturale evoluzione partita da Boogie In The Breeze Blocks e passata per il sotterraneo Discover AtlantASS, e ad ascoltare I Want All Your Money, Step Into Marina (il “singolo” disponibile pure in una versione minimale e “da teatro”), l’hip-hop rockettaro della title-track o tutto il resto si ritroverà molto del prima ma centrifugato col senno del poi. Divertitevi a cercare i vari ganci lasciati emergere qua e là a mo’ di esca per una sorta di caccia al tesoro hip-hop o di estensione del dominio della lotta pop (il clash underground/mainstream d’inizi ‘80 irrimediabilmente brutto, gli immancabili Beastie “parodia dei neri fatta da bianchi” Boys o l’hip-hop da baraccone) ma provate pure a scardinare dal di dentro cliché e canoni di genere. Soltanto così si potrà capire un po’ più a fondo quello che in apparenza è una presa in giro, un giocoso calembour, un divertissement. Ma soltanto in apparenza, ovvio. Quando si ha a che fare coi Talibam! la faccenda si fa sempre ironicamente seria. (7.4/10) Stefano Pifferi

Gudrun Gut - Wildlife (Monika Enterprise DE, Ottobre 2012) Genere: art techno Cinque anni fa Gudrun Gut ci aveva stregato con I Put A Record On, quando tag come folktronica ed electroclash avevano già dato abbondatemente e lei, quintessenza di germanicità e carisma, angolava un misto di techno dub, crooning narcotico e laptoptronica che per gente come Ellen Allien, in solo e in combutta con l’amica comune AGF, erano oro colato. Gudrun del resto è una con un curriculum importante 68

per tutto quel post-punk virato prima industrial ed elettronico poi. Non è un caso che la quarantenne sia stata parte di uno dei primissimi organici degli Einsturzende Neubauten (di cui conserva tutt’ora un tratto industrial portante), abbia fatto parte di svariati gruppi all female negli 80s, sia finita a fare la label manager con Monika Enterprise aprendosi a nuove influenze (tra le altre cose, la label sdoganò il twee pop sempre in lingua tedesca), abbia intrapreso varie attività nel settore dell’organizzazione d’eventi, abbia lavorato come dj e non ultimo, si sia riproposta come credibile personaggio avant tra studio e


live performance con Baustelle. Quest’ultimo, un album in collaborazione con la citata AGF / Antye Greie, lavoro industrial nel senso più tradizionale del termine (utilizzo di attrezzi da cantiere appunto) ma aperto a minimal, dub dalle reminescenze scorniane, al solito Moritz Von Oswald e pure a un crooning che sa essere sexy surfando sulla coolness auf berlin (Matthew Dear hai solo da imparare). Prodotto in proprio, missato con l’aiuto di Jörg Burger e inciso fuori Berlino - a Uckermark -, il nuovo Wildlife è soltanto il secondo album a suo nome. Non deve ingannare l’immagine coordinata impostata sulla natura e il verde. Il concept organico chiamato in causa è tutto techno, nel senso di techno organica: un sound pastoso, fangoso, terrigno, che assimila i consueti elementi della musicista in un’ottica, appunto, d’insieme. In tracklist, spicca, in negativo - nel senso di pellicola una cover di Simply The Best, brano stereotipico 80s reso celebre da Tina Turner. Troviamo momenti di indietronica pura in Little Nothing, ma è il 4/4 a far da architrave, così come le sfumature portano a quattro angoli del pianeta da Blixa Bargeld (Erinnerung), a Armand van Helden (How can I Move), dall’Africa (Frei Sein, Tiger), al Giappone (Garten), all’America lynchiana (Mond). Tutto sottotraccia. Coi piedi piantati in terra. Sottoterra. Un album che non cerca clamori. Un disco ricchissimo di strati e angolazioni. Un lavoro di autentica e preziosa germanicità. (7/10) Edoardo Bridda

Holly Golightly - Sunday Run Me Over (Damaged Goods, Ottobre 2012) Genere: country/garage folk Dopo aver definitivamente messo a regime il proprio studio di registrazione casalingo nella fattoria della Georgia dove vive, Holly Golightly fa ritorno in compagnia del suo sodale Lawyer Dave sotto la sigla and the Brakeoffs. Per l’artista londinese di nascita si tratta dell’ennesima uscita, mentre per il progetto in duo è la settima (ottava se si conta il live Nobody Will Be There) e la seconda dell’anno (dopo Long Distance). Per la ragazza punk/garage con la passione per Lee Hazlewood e il country, la formula rimane più o meno la stessa, con Johnny Cash, il blues del sud, Billy Childish (il suo mentore), Wanda Jackson, Ike Turner, i Violent Femmes, il pre-war nel cuore.La mezz’ora di alcolica e divertita ricognizione di questi territori musicali viene impreziosita da un pugno di cover (I Forgot More di Cecil Null e Hard To Be Humble di Mac Davis e A Whole Lot More... di Wayne Raney) tutte ripescate dal ventennio ‘40 - ‘60. Su questo tessuto tradizionale si innestano parodie dei

social network (“Dear Facebook I hate Holly: share” che apre il walzerino tex mex di Hand In Hand). Il sense of humor ritorna fin dal titolo nel conclusivo rock’n’roll di This Shit Is Gold) e le chitarre si lasciano andare ad accenti sudisti nella frenetica Goddamn Holy Roll, mentre They Say sarebbe stata perfetta per Fratello dove sei?.In tutto il disco non c’è un grammo fuori posto e l’intesa con Lawyer Dave non sembra mai essere stata così intensa e produttiva. Forse un disco che non travalicherà il genere, ma all’interno di quei confini è quanto di meglio si possa immaginare oggi. (7.2/10) Marco Boscolo

I Davoli - Greatest Hits (A Buzz Supreme, Settembre 2012) Genere: Disco wave I DaVoli vogliono far divertire il proprio pubblico: intitolano il nuovo disco Greatest Hits (A Buzz Supreme, 2012) non senza un certo piglio ironico, dato che il full lenght in questione raccoglie materiale selezionato dai soli due EP realizzati dalla band tra il 2008 e il 2009, The Wave To S. Salvador e Barocco Party; giocano a fare i fratelli di sangue (Richard, Tom, Frank e Jonny Davoli) nei credits dell’album, alla stregua dei Ramones; animano dal 2008 la scena underground toscana con una proposta danzereccia figlia del revival new wave discooriented che ad inizio Duemila ha lanciato gruppi del calibro di Franz Ferdinand, !!! e Rapture. In questo Greatest Hits i quattro pistoiesi applicano con rigore e devozione la lezione dai padri (dai Gang Of Four ai Television, dai Devo ai Talking Heads) sfornando tredici tracce. Le geometrie sono ben definite da ritmi funky e riff ad alto potenziale di ballabilità (White Tape) scanditi da coretti ammiccanti (Monkey). Ad enfatizzare i riferimenti Eighties si aggiungono le atmosfere darkeggianti di Show Me, gli echi delle chitarre riverberate (Tell It Now) e le aperture affidate ad orecchiabili giri di synth (Somethingelse, The Way You Need). L’elettronica della rapturiana New York sta a rammentare che I DaVoli negli anni Ottanta ci sono nati e che in età adolescenziale si nutrivano di electroclash. Nel complesso la formula del gruppo diverte, ma è anche vero che il gioco è bello se ha una certa durata: il rischio è che il postpunk-funk esplorato in ogni suo meandro risulti un po’ pesante - e a tratti tamarro (Jojo Rulez) - col passare degli ascolti. Se un greatest hits rappresenta la chiusura di un ciclo, si attendono nuove, leggere, idee per il futuro. (6.7/10) Viola Barbieri

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Imagine Dragons - Night Visions (Interscope Records, Settembre 2012) Genere: hand-on-heart pop Gli Imagine Dragons arrivano da Las Vegas e hanno già dimostrato quest’anno con l’EP Continued Silence di aver annusato le attuali e future coordinate del pop rock made in USA con un post-indie folkpop impacchettato con vistosi nastri epici e facilitazioni brostep. L’album di debutto Night Visions via Interscope contiene quattro sesti dei brani contenuti nell’EP: Radioactive, la hit It’s Time, Demos e On Top Of The World. Come previsto in fase di recensione dell’EP, Radioactive - messa nuovamente ad inizio tracklist - ha il compito di lanciare Night Visions e difficilmente fallirà. In aggiunta ai brani già pubblicati, l’album prodotto da Alex da Kid si alleggerisce con il banale e innocuo mainstream pop di Tiptoe, mentre Amsterdam si tramuta in generico poprock senza brio e lo stesso si può dire di Hear Me (chorus che sembra essere preso in prestito dai concittadini The Killers) Con Every Night si concedono un incrocio poco riuscito tra sonorità da boy band e le ballate dei 3 Doors Down, ma ancora meno riuscito - e decisamente fuori luogo - è probabilmente l’afrosynthpop di Underdog. L’impressione è che gli Imagine Dragons abbiano puntato quasi tutto sull’onda lunga del successo di It’s Time e la probabile esplosione di Radioactive, costruendoci attorno un castello pomposo composto da scarti o comunque da passaggi poco ispirati. Continued Silence aveva già mostrato i limiti della band, ma se potevano esserci rari barlumi di interesse nell’utilizzo di fraseggi popfolk ed epici bass-drops, con Night Visions vengono spenti all’istante. Si è preferito infatti cadere nella prevedibilità pop di band come OneRepublic o degli ultimi Coldplay, con tutti i possibili pro (commerciali) e contro (tutto il resto) del caso. (4.5/10) Riccardo Zagaglia

James Iha - Look To The Sky (EMI, Ottobre 2012) Genere: mellow pop rock Non si può dire che James Iha nell’ultimo decennio si sia eclissato del tutto (A Perfect Circle, colonne sonore, remix), ma possiamo affermare che, contrariamente a Billy Corgan e alle sue sparate, non abbia fatto nulla per rimanere sulla cresta dell’onda. Per questo motivo risulta difficile vedere del marcio dietro a questo ritorno sulle scene che arriva a quattordici anni di distanza da Let It Come Down, il suo ultimo - e fino ad oggi unico - album a nome James Iha. 70

In Look To The Sky, così si intitola, James si è fatto aiutare da Nathan Larson - marito di miss Cardigans Nina Persson - sia in fase di registrazione che di produzione. L’iniziale Make Believe - dove troviamo Nina ai cori - riparte da dove lo lasciamo lasciato, tra i suoni acustici e tonalità cantautorali, ma è un caso abbastanza isolato all’interno della tracklist. James gioca facile con il rock-pop di To Who Knows Where e Speed Of Love, che sembra fatto su misura per i nostalgici ‘90s, con le lullaby dalla melodia contagiosa (Dark Star) e i crescendo keybards-driven (Waves). Peccato che l’ex-Smashing Pumpkins dalle origini nipponiche dimostri in più di una occasione una fatale mancanza di ispirazione, lampante nell’easy listening di Till Next Tuesday e Summer Days: bozzetti piatti e lasciati a se stessi senza troppa convinzione. James convince ancora meno nell’unico brano vagamente - tra virgolette - sperimentale, ovvero nel circo-cabaret di Appetite in cui partecipa anche Tom Verlaine. Pubblicato in Giappone già in questa primavera, il secondo album di James Iha non è certo destinato a lasciare il segno, ma può essere comunque apprezzato per la sua anima dolce e docile ed è forse questo aspetto che mi sprona a scrivere l’osservazione che segue. Infierire sarebbe ingiusto: sarebbe come accanirsi contro il timidone di turno. Gracile e con poco carattere, ma non fa male a nessuno. (6/10) Riccardo Zagaglia

Jason Lytle - Dept. Of Disappearance (ANTI, Ottobre 2012) Genere: lo-fi pop Guardi Lytle in copertina vestito da manovale e pensi che è forse impegnato a ristrutturare la verve spaesata e la tracotanza lirica del lo-fi da cui la sua vicenda prese le mosse. Due indizi precisi (lo straniamento bidimensionale da collage e l’estetica delle macchie di calce o vernice) fanno una prova, come si dice. Quanto alle canzoni di questo nuovo album, è così solo in parte. Come non può essere altrimenti. Lytle ha avuto il suo momento, anni in cui la sua sensibilità è stata la calligrafia giusta per suggerire lo sconcerto del trapasso da un’epoca all’altra. Dal sogno elettronico all’astrazione digitale. Il fattore umano obbligato nella capsula di salvataggio, l’esistenza ovattata, trasfigurata nei sentimenti, nelle sensazioni, nelle emozioni. Lytle era il nonno col cacciavite nel taschino che allarga uno spiraglio tra i frames e sbircia le macerie dietro le quinte, il carosello di preveggenze e conseguenze, la scia cimiteriale dell’obsoleto. Uno spettacolo dolce e terrificante che ti


Tame Impala - Lonerism (Modular, Ottobre 2012) Genere: psichedelia Lonerism dei Tame Impala, ovvero uno dei ritorni più attesi dell’anno: il debutto Innerspeaker fu apprezzato quasi unanimemente da critica e pubblico tanto da raggiungere la top5 in Australia... che per farvi capire è un po’ come se in Italia l’esordio dei Drink To Me fosse entrato in classifica tra una Pausini e un Ramazzotti. La differenza la si fa al secondo disco, e i Tame Impala non volevano di certo fare la fine di decine di band (spesso NME-oriented, ultimi in ordine di tempo The Vaccines e Two Door Cinema Club) incapaci di confermarsi. La realizzazione di Lonerism è iniziata due anni fa, appena uscito Innerspeaker e poi sviluppato all’interno di un percorso travagliato e spesso solitario: Kevin Parker ha infatti scritto parte del disco in isolamento nel suo studio trovando anche il modo - oltre che di perdere e poi ritrovare le prime registrazioni - di dedicarsi alla realizzazione di canzoni mainstream pop, una vera fissa. Nonostante una copertina - nuovamente affidata a Leif Podhajsky - meno d’impatto e meno trip-oriented rispetto a quella Innerspeaker, Lonerism è la quintessenza della psichedelia. Parker, esagerando come al solito, ha spiegato che l’intenzione era realizzare un disco da un lato sperimentale e freak a livelli estremi ma contemporaneamente pop quanto Britney Spears. Fortunatamente alla fine si è deciso di escludere i brani più dozzinali. In Apocalypse Dream fino al terzo minuto si balla psichedelia sixties vagamente Beatlesiana, poi succede qualcosa, come in un vorticoso Inception-dream si passa al livello successivo del sogno: è il momento di lasciarsi abbandonare completamente al flusso lisergico ed iniziare a volare attendendo la fine (non per nulla è stata scritta dopo la visione di Melancholia di Lars von Trier). Elephant è il pezzo con le caratteristiche maggiormente rock (Sabbath+riff iperclassico, ma comunque contaminato da acide stoner-stregonerie), Keep On Lying si riempe di schiamazzi e risate (viene da pensare alle persone ritratte in copertina) mentre Be Above It si sostiene su tribalismi incalzanti. E’ psichedelizzazione del pop, più che poppizzazione della psichedelia. I Tame Impala sono maestri nel riadattare la psichedelia late ‘60/early ‘70 e renderla vivida nei nostri giorni, impastando space-synths, frattali cosmici e neverending-spirals, utilizzando qualsiasi trucco - i giochi d’equalizzazione left-right e effettistica di varia estrazione - per far viaggiare l’ascoltatore. Ci riescono, forse più di chiunque altro. (7.3/10) Riccardo Zagaglia

affascina per come ti mette alla prova, sollecitandoti ad un salto evolutivo, prospettando una nuova dimensione tutta da definire. Tutto ciò trovava formidabile realizzazione nel capolavoro The Sophtware Slump, a cavallo tra i due millenni. Una dozzina di anni sono passati da quello, i Grandaddy sono stati prima accantonati, poi oltrepassati e infine notizia degli ultimissimi mesi - resuscitati. Intanto però Jason ha avviato una carriera solista apprezzata seppur senza clamore, anzi direi proprio schiva, da eremita boscaiolo quale gli è sempre piaciuto rappresentarsi. Tre anni dopo il discreto Yours Truly The Commuter arriva quindi questo Dept. Of Disappearance, undici tracce che celebrano il day after della catastrofe invisibile. Con leggerezza. Col languore di chi si ostina a cogliere scampoli di meraviglia mentre tutto sembra perdere consistenza e valore. Nella sostanziale reiterazione del verbo Grandaddy, spicca la briosità indolenzita di Get Up And

Go, una Matterhorn che avrebbe potuto scrivere Neil Young se il Canda fosse Saturno, i barbagli angosciosi Pink Floyd nella sognante Last Problem Of The Alps, il tango cotonato in sospensione cosmica di Gimme Click Gimme Grid e una Somewhere There’s A Someone che sublima struggimento come gli Eels più languiderrimi, mentre Young Saints e Your Final Setting Sun dimostrano che il talento per i riff adesivi non si è affatto esaurito. Una lieve, diffusa sensazione di cliché e il passaggio a vuoto di Hangtown sono difetti che non c’impediscono di apprezzare questo disco dotato di senso, sostanza e forma ben oltre il livello minimo della dignità. (6.9/10) Stefano Solventi

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Jessica Bailiff - At The Down-Turned Jagged Rim Of The Sky (Kranky, Novembre 2012) Genere: drone folk shoegaze Sei anni sono un’intera epoca nel frenetico mondo della popular music e ci eravamo tutti dimenticati di Jessica Bailiff, la chanteuse prediletta dei Low. Anche alla Kranky a tutto pensavano tranne che alla ragazza di Toledo e come lasciano trasparire loro stessi, devono essere rimasti un bel po’ sorpresi quando ad inizio anno una rediviva Jessica chiedeva udienza alla label per la pubblicazione di un nuovo disco. Purtroppo tutto il tempo intercorso dal precedente Feels Like Home è stato tempo perso. Il nuovo lavoro non sposta di una virgola la formula di un drone-folk con venature shoegaze che dopo tutto quello che abbiamo ascoltato in questi anni (Natural Snow Buildings in primis) sembra vecchio e fuori luogo come non mai. Eppure, non è tanto questione di approccio o di innovazione, perché la trilogia iniziale della Bailiff: Even In Silence - Hour Of The Trace - Jessica Bailiff, riascoltata oggi non perde nulla della sua carica visionaria e sperimentale, che a suo tempo tanta importanza ebbe nel dare una fisionomia al catalogo della prima Kranky. Il discorso si sposta per forza di cose sul songrwriting e già con Feels Like Home si era capito che la musicista di Toledo aveva più di qualche problema nello scrivere qualcosa che avesse sostanza di per sé. Il nuovo lavoro ricomincia qui con gli stessi effetti che conosciamo. L’eco distorta della voce che fa il paio con i riverberi a là Flying Saucer Attack di Your Ghost Is Not Enough, la distorsione nello stile dei tardi J&MC che copre la zuccherosa melodia di Take Me To The Sun e la funebre cadenza di Sanguine che nel finale copia il climax dai GYBE!. La cosa grave è che tolti i primi tre brani, il resto del disco è stracolmo di riempitivi senza sostanza, che lasciano l’amaro in bocca e un quesito grosso quanto una casa. A che pro tornare dopo tutto questo tempo e in queste condizioni? (5.8/10) Antonello Comunale

John Cale - Shifty Adventures In The Nookie Wood (Double Six, Ottobre 2012) Genere: Robot funk “Una volta avanguardista, per sempre avanguardista” è un detto che nell’arte si può applicare a pochi. Più spesso, ciò che era lampo e voglia di scommettere, diventa nel peggiore dei casi un comodo canovaccio da ripetere sempre peggio, nel migliore uno stile da variare in maniera più o meno ispirata. 72

Cale bazzica l’avanguardia fin da giovanissimo e, se negli anni ha seguito e approfondito la sua poetica, lo ha fatto in modo dinamico e aperto, non mancando di gettare ogni tanto uno sguardo a ciò che gli accadeva intorno. Se non sempre avanguardia, il percorso del Nostro è stato almeno uno stare al passo coi tempi diverso dal prendere un produttore alla moda per farsi sporcare i dischi e invecchiare rapidamente: piuttosto un giocare con lo spirito vicino al ludico delle avanguardie di inizio ‘900. Nel nostro caso, l’ex Velvet Underground decide di prendere di petto il decennio scorso e, in mezzo alla sua dispersione, sceglie di rileggerlo nel modo in cui molti, negli anni 00, hanno guardato agli anni ‘80: un Cale robot-funk dalle melodie al limite del pop, allo stesso tempo ombroso e danzereccio. Sorprendente e inaudito, ma solo in apparenza: il gallese ha già dimostrato per quarant’anni di non essere solo quello che metteva il rumore nei pezzi di Lou Reed ma anche un songwriter dotato, oltre ad aver giocato col kitsch già ai tempi di Fear e ad essersi divertito col pop insieme ad Eno in Wrong Way Up: qui raccoglie semplicemente il lavoro sull’elettronica già in Hobo Sapiens (presente anche, accanto al glam dominante, in Black Acetate) e, col medesimo approccio divertito, lo porta un passo oltre sviluppandolo lungo tutto un disco (dopo l’assaggio dell’EP di qualche mese fa). Disco che trova coerenza grazie a una produzione oscura vagamente Reznor, abile nello stendere un velo di sporco e di fabbrica rugginosa su tutto l’armamentario pop di 20-30 anni fa (cupezza accentuata dalla sua tipica voce cavernosa, che qui si riprende dagli Interpol ciò che lui stesso aveva insegnato ai Bauhaus) accogliendo nel ricco impasto anche suggestioni orchestral-funk Byrniane e toni western. Dopo qualche accordo di chitarra da cantata intorno al fuoco (ma l’ha già fatto: nessun tentativo di dialogo con i 2000 dell’alt-folk), il Nostro apre le danze - è il caso di dirlo - jammando con Danger Mouse in I Wanna Talk 2 U (e già si parte col titolo - Prince..), fa tuonare tamburi tra Liars e !!! in Scotland Yard, estrae con Mary una ballatona dal fraseggio Sakamoto (prodotta da Hugh Padgham o Phil Collins avrebbe spopolato nell’85). In December Rains, che nel suo saltellare evoca più September che November Rain (come nell’altrettanto scioccherella-cum-grano-salis Mothra), azzarda addirittura l’autotune. E se da una parte si allontana verso altri lidi (Face To The Sky sembra un Bowie insieme riflessivo e movimentato altezza Black Tie White Noise, Vampire Cafè cammina notturna su una drum machine zoppicante, Midnight Feast pare il seguito cupo della corganiana We Only Come


Terror Danjah - Dark Crawler (Hyperdub Records, Settembre 2012) Genere: Grime Dopo un’annata abbastanza altalenante, fatto di alcune uscite controverse (DVA, Laurel Halo) e altre buone ma non autorevoli come ci si aspetterebbe (Burial, Hype Williams, Cooly G), la Hyperdub ha ancora forza per rifarsi e arriva giusto dopo l’estate con due dischi destinati a convincere senza troppo dissenso: l’uno a nome LV, il giusto compromesso tra intellettualismo e forza d’impatto in un dubstep contaminato di esotico (e ne riparleremo), l’altro firmato Terror Danjah, il caratterista del grime made in London, arrivato al secondo album giusto in tempo per dare una risposta assertiva all’estro abbondante espresso nel frattempo da Rinse con Royal-T. Un parallelo, quello tra Royal-T e Terror Danjah, che assume i contorni di uno scontro generazionale, in un’area come il grime che sta vivendo lo stesso momento di passaggio-a-nuova-forma di dubstep e footwork: un duello a distanza tra giovani e veterani, tra impulsivi dell’esagerazione e amanti della forma. A convincere di più stavolta è l’anziano di casa Hyperdub, bravo a seguire i passi della new generation ma attento a non compromettere il carattere suo e del grime tutto. Per essere una vecchia volpe, Danjah mostra segni importanti di rinnovamento in pezzi come Mirrors Edge e Rum Punch che abbondano di wobble, energia e affettività al nuovo dubstep, o ancor più nell’apertura a uno dei feticci dei nostri giorni, ossia la collaborazione con le ladies of rhythm Meleka e Ruby Lee: la prima in You Make Me Feel ribalta la visione grime in luminosissimi orizzonti melodici, la seconda invece esalta in Delicately quella dicotomia tra breakbeat aguzzi e armonie soul che ha fatto la fortuna del filone future-garage. Il bello di Dark Crawler però è vederlo solidamente posizionato tra sirene moderne e cura dello stile. Danjah non rivoluziona sé stesso e resta fedele alle linee caratteriali che lo contraddistinguono. Il suo background fumettistico/ horrorifico resiste nella risata sintetica che copre tutto l’album, e stavolta sembra reso con un volto pronto alla rappresentazione cinematografica (non solo nella intro venata d’atmosfera, Full Hundred è fatta su misura per il prossimo Sin City). E il suo grime è ancora sporco e bastardo, hits come Air Max 90 e Dark Gremlinz rinnovano l’autonomia di Danjah rispetto ai binari patinato-rap della discendenza Dizzee Rascal spostando il peso su beatz, grasso che cola e arroganza da continuum. Si tratta di fare ancora il faro-guida, e Dark Crawler riassume tutto in maniera perfetta. È il misurato passo avanti di un gigante, mosso verso gli schizzi moderni ma ben piantato tra le due spalle solide. Senza rinunciare alle legittime scappatelle in casa Rinse, di dischi come questo ci sarà sempre bisogno. (7.3/10) Carlo Affatigato

Out At Night), dall’altra non è solo una Hemingway che richiama la sua storica cover di Heartbreak Hotel (ma volendo anche certo Stan Ridgway) a suonare inconfondibilmente Cale: è la saldezza della mano alla guida di questa esplorazione-gioco a lasciare sempre in bella vista l’identità del regista. È “Cale che fa gli anni ‘80 visti dagli anni 00”. (7.3/10) Giulio Pasquali

John Frusciante - PBX Funicular Intaglio Zone (Record Label, Settembre 2012) Genere: prog synth free pop Con gli attuali Red Hot Chili Peppers è lecito farlo, ma con John Frusciante no, non si scherza: la sua carriera solista è un continuo elogio alla sincerità artistica.

Dallo straziante quanto commovente Niandra LaDes and Usually Just a T-Shirt (si vedano il film Stuff e le interviste del 1994 per capire la situazione) all’ultimo The Empyrean ha portato avanti un percorso musicale intimo, personale e slegato da qualsiasi moda e velleità commerciali. Infatti, nonostante la fortuna e le superproduzioni dell’ex-mainband, Frusciante lo potete ancora immaginare solitario nella sua stanzetta a testa bassa sugli strumenti. In un certo senso anticipato dall’EP Letur Lefr uscito a luglio, l’undicesimo album PBX Funicular Intaglio Zone ci consegna un Frusciante più imprevedibile che mai, frutto di ascolti - un certo tipo di elettronica - che a più riprese lo hanno da sempre incuriosito. PBX Funicular Intaglio Zone si compone di nove tracce assolutamente free-minded, lontane sia dal songwriting 73


psichedelico del precedente The Empyrean sia dall’accennata forma canzone di To Record Only Water for Ten Days: Hear Say parte con un synth da telefilm ‘80s poi arrivano le stratificazioni e la batteria dispari a scandire il non-tempo, John lo chiama progressive synth pop e non possiamo che dargli ragione. Ratiung - con tanto di inserto hip hop di Kinetic 9 - è il pezzo forse più accessibile nonostante gli oltre sei minuti mentre altrove spuntano fuori sussurri jazzati che si tramutano spesso e volentieri in derive drill/drum & bass (Bike), vera dimostrazione dell’antico amore di John per Aphex Twin. Gli anni ‘80 tornano in Mistakes - che comunque non può fare a meno dello stacchetto d&b - ma per far capire cosa è il Frusciante del 2012 va probabilmente presa d’esempio Uprane: sembra una lullaby dalla struttura semplice, poi arriva il beat completamente fuori contesto e da lì si scivola in un vortice di sperimentazioni elettroniche senza via d’uscita che sfociano poi nell’avant puro di Sam (e anche qui la coda d&b-breakcore via ultima Bjork non manca). PBX Funicular Intaglio Zone non è di certo il suo album migliore e John non è un genio dell’elettronica: ci prova, si impegna meticolosamente ma certe cose rimangono spesso ad un livello quasi amatoriale. Va però riconosciuto lo sforzo e la mentalità con il quale realizza dischi come questo, la mentalità di un artista che in quanto tale realizza un po’ quello che gli pare (vedi anche il Flea dell’Helen Burns EP). (6.3/10) Riccardo Zagaglia

Kanye West/G.O.O.D. Music - Cruel Summer (GOOD Music, Settembre 2012) Genere: Hip Hop in Paris Un imprecisato numero di weekend fa mi è capitato, per caso, di vedere gli MTV Music Awards. Mi sono accorto, allora, quanto sia facile, vivendo circondato da feed attentamente selezionati, dimenticarsi di quel mondo alternativo fatto di MTV e top 40 radio. E’ ancora più facile dimenticare come quel mondo sia rimasto congelato a dieci anni fa, più o meno a quando MTV ha smesso di trasmettere musica per dedicarsi ai reality su adolescenti che non sanno di essere incinta. Come dieci anni fa ancora una volta si può assistire a Billie Joe Armstrong seduto accanto a Pink seduta accanto ad Adam Levine seduto accanto a Beyoncé. Al posto di Converse e giacca, tutti sono vestiti in giacca e Y-3. Al centro dello show sono sempre presenti le due etichette: Young Money Entertainment e la presente G.O.O.D. Music. Cruel Summer è uno showcase dell’etichetta fondata da Kanye West ed è anche un MTV album. Nonostante 74

la direzione artistica di Yeezy l’album è terribilmente retrogrado e sembra più ispirato al rap pigrissimo di Lil Wayne piuttosto che a qualsiasi delle avanguardie odierne. Ogni generale, si sa, combatte con l’esercito che si ritrova e con soldati come 2 Chainz, a suo perfetto agio nelle compilation da centro commerciale, e Big Sean, incapace di avere un pensiero oltre le 140 battute, i risultati non sarebbero potuti essere differenti. L’album infatti vive o muore a seconda dei meriti o dei demeriti dei vari guest. I pezzi migliori sono legati sempre ai grandi vecchi come R. Kelly in To the World, Jay-Z in Clique e Ghostface Killah in New God Flow, che sfornano i singoli che vale la pena di ascoltare ma che non riescono a dare né coesione all’insieme né a valorizzare ciò che accade in loro assenza. Per chiunque dubiti poi, per qualsiasi ragione, di come la G.O.O.D. Music sia legata a doppio filo con il pop peggiore basterà dare un’occhiata a Higher, per trovare sia Hit-Boy che The-Dream, entrambi produttori per Justin Bieber. Hit-Boy è una figura centrale in Cruel Summer tanto che tutto l’album sembra ispirato a quella sera in cui Kanye e Jay-Z hanno cantato, a Parigi, undici volte Niggas in Paris (come viene chiamato sui media politically correct). Hit-Boy cerca di ripetere la magia di quella produzione minimalista in pezzi come Cold, ma il trucco, ormai conosciuto, non stupisce nessuno. Al contrario la produzione di Hudson Mohawke si rivela sorprendente. Pur abbassando i toni rispetto ai suoi album, HudMo sforna continuamente beat d’impatto. Tra tutte le tracce spicca Mercy che, insieme al suo video, è probabilmente la traccia Hip Hop più importante dell’anno, quella che definirà il campo di gioco per l’anno a venire. C’è una Lambo, un beat aggro e tra look e stili moreschi consacra definitivamente il medioriente, via Kim Kardashian, allo statuto di swag. Kim è al centro di ogni strofa di Kanye, preoccupato di far intendere come la sua vita ormai sia declinata al plurale, mostrando diapositive di famiglia manco fossero una coppia di sposini. Al contrario di quanto accadeva in My Beautiful Dark Twisted Fantasy concentrarsi sulla sua vita privata porta solo a riciclare gli abituali cliché sul suo lifestyle. Occasionalmente riesce a tirar fuori qualche battuta esilarante, come quando racconta del suo incontro con l’ex direttore della CIA George Tenet, ma per lo più non fa che parlare del suo amore per Vuitton e Balmain. Peggio ancora è quando cerca di spacciarsi per qualcosa che non è, dichiarandosi l’erede di Biggie Smalls, Luther King e Rodney King, sfiorando il ridicolo non tanto per l’eccesso di ego, a cui ormai siamo abituati, ma perché mette in mostra in modo imbarazzante, dopo anni passati a farsi odiare, il suo de-


siderio di piacere e compiacere. Purtroppo per Kanye, così come per Cruel Summer, mettere in fila tanti nomi scintillanti non basta a dare sostanza. (6.2/10) Antonio Cuccu

Kid606 - Lost In The Game (Tigerbeat6, Settembre 2012) Genere: Ambient trap Matto in due mosse: prima Kid606 capovolge il proprio profilo estetico, passando in un lampo dal sound di rottura e avanguardia durato oltre 10 anni alla retrofilia ambientdronica di due anni fa, con Songs About Fucking Steve Albini del 2010; poi arriva Kuedo, fa saltare il tappo delle fascinazioni classiche offrendone una visione ritmicamente moderna, e così arriviamo all’ultimo album del producer venezuelano. Lost In The Game è il nuovo passo avanti di una controversa evoluzione/involuzione già annotata qualche mese addietro su EP, dove le superfici taglienti son sfuggite ed è emerso un netto alone nostalgico, fatto di synth analogici e ripresa delle radici ambient, seguendo però un modus operandi che faccia da stimolo anche alla nuova generazione. La formula la sappiamo già, promossa ormai a feticcio dei producers di razza odierni. Da un lato torna con forza la musica per aeroporti di Eno (Cardamom’s Gone Soft), la cosmica anni ‘70 (Meeguk So Horny) e il soundtracking Vangelisiano (I Want To Join A Cult - potenti suggestioni), dall’altro trapela la necessità di rinnovamento e l’estro moderno vien fuori sotto forma di indumento ritmico, accogliendo le teorie della cosiddetta trap music: l’effetto è quello di imbastardire la forma con pattern di drum machines che giocano la stessa partita di dischi ormai cult come Severant e The Host (Gimme Summer, Baroque And Out Of Money) ma rilanciano anche verso un’oscura terra di mezzo tra coke rap (Night Club vs. Book Club) e post-witch (New Boss Same As Old Boss). Tutto ciò significa coscienza del presente e accettazione dei trend correnti, qualcosa che un futurista come Kid606 è abituato a superare e che invece adesso ritrova un proprio baricentro nella nuova fase di produzione. Scandalizzarsi è inutile, questo è neoclassicimo puro e semplice, fatto per rimpiazzare il vuoto di decompressione d’ascolto che una volta veniva riempito da ambient e chillout. I giovani apprezzano? Si direbbe di sì, almeno tra le file intellettuali. (6.8/10) Carlo Affatigato

Konx-om-Pax - Regional Surrealism (Planet Mu Records, Luglio 2012) Genere: film music Quella di Konx-om-Pax, ovvero Tom Scholefield da Glasgow, rappresenta un’uscita nel filone kosmische e soundtrack anni ‘70 del catalogo Planet Mu. In Regional Surrealism, secondo lavoro sotto questo alias (il primo era Light In Extension su Display Copy), non ci troverete né il footwork, né la dubstep, né la future garage e l’Uk Funk, ma sicuramente riconoscerete il taglio retrologico à la Kuedo. Scholefield è principalmente un film director e un disegnatore. Ha diretto e firmato numerosi videoclip e copertine per alcuni noti artisti scozzesi come Hudson Mohawke e Mogwai, ma anche altri personaggi come Jamie Lidell, Martyn, Lone e lo stesso Kuedo, ovvero Jamie Teasdale. E non stupisce pertanto che le analogiche tracce di quest’album siano concepite come una raccolta di vignette surreali molto spesso ispirate da film o serie tv. Glacier Mountain Descent immagina l’Aguirre di Werner Herzog con un pattern melodico computazionale e un synth ascensionale che riproduce l’idea del coro allacciandosi così alla colonna sonora originale firmata Popol Vuh. L’influenza tedesca, del resto, è piuttosto evidente nella tracklist. Anzi, l’intero lavoro scava tra le fascinazioni della prima IDM britannica e la tradizione elettronica tedesca, dai Cluster agli slanci avant (l’attacco di Lagoon Leisure), dall’opera dei Tangerine Dream alla Neue Deutsche Welle elettronica dei 90s (Zang-Tumb con Stuart Braithwaite dei Mogwai alla chitarra pare uscire dal catalogo Scape). Non mancano neppure il primo Aphex Twin (At Home With Mum And Dad), Vangelis (Intro), l’ambient aliena dei Boards Of Canada (Isotonic Pool, Twin Portal Redux), il noise degli Autechre mid 90s (Hurt Face), il gancio con la Music For Films di Brian Eno e dei suoi lavori con Moebius e Roedelius (Silent Reading) e le visioni minimalglitch del Mika Vainio solista. Tra tutte l’acquatica, e dunque drexciyana, Slootering è forse la traccia più intrigante di un lavoro volutamente sfuggente e frammentario, generalmente discreto, anche lezioso ma capace di regalare momenti di puro straniamento. (6.8/10) Edoardo Bridda

Kreidler - Den (Bureau-b, Ottobre 2012) Genere: neo Kraut Pubblicato a soltanto un anno dall’applaudito, specie in madrepatria, Tank, Den, l’undicesimo album dei Kreidler, doveva essere un lavoro composto unicamen75


Xabier Iriondo - Irrintzi (Phonometak Labs, Settembre 2012) Genere: iriondo-rock Paradossale il fatto che il primo full-length a nome Xabier Iriondo, il musicista italobasco lo pubblichi proprio dopo aver fatto rientro tra le fila degli Afterhours, “ripudiati” moltissimi anni fa per proseguire un percorso che anche i meno attenti non potranno non aver seguito. Ancor più paradossale che questo “urlo stridente e prolungato” (ciò significa “irrintzi” in basco) sia il primo, effettivo album solista di Iriondo, visto un curriculum extralarge fatto di collaborazioni con praticamente tutta la crema del “rock” italiano. Artista e artigiano della musica (sue creazioni molti degli strumenti qui utilizzati e suo anche l’ormai ex SoundMetak), Iriondo espone in Irrintzi la propria weltanschauung (non solo) musicale. Ad ampio spettro per quel che riguarda l’aspetto sonoro, data la capacità di riassumere e rielaborare molti degli ambiti toccati nella sua lunga carriera: noise, avant-rock, rock, sperimentazione, avanguardia, psych, folk ecc si alternano e fondono gli uni negli altri con una naturalezza tanto semplice quanto spiazzante. C’è però una forte componente ideologica in Irrintzi. Una spinta, uno slancio che si fa rivendicazione e che si manifesta apertamente in alcuni casi - le tracce più “politicamente” schierate come Gernika Eta Bermeo, Itziar En Semea o Preferirei Piuttosto Gente Per Bene Gente Per Male - o, in altri, celandosi sotto le mentite spoglie di un recupero della tradizione - popolare, personale, ancestrale, universale - che per un artista votato alla rottura quale è Iriondo è una ulteriore dimostrazione di apertura e profondità. Quattro originali e cinque (sei a dirla tutta, come vedremo) cover incastonate in un bellissimo doppio vinilico particolare e ricercato (ad ognuno dei due lati incisi corrisponde uno serigrafato, nella co-produzione targata Phonometak, Wallace, Brigadisco, Long Song et alii) che stanno lì a dimostrare l’ampiezza dei confini culturali e musicali del nostro. Sul primo disco, la struggente Elektraren Aurreskua (omaggio folk-noise alle proprie lontane origini) trova il contraltare nell’ultranoise in overdrive della title track, mentre l’apporto di Gianni Mimmo e Paolo Tofani impreziosisce la ossessiva “world music” fluttuante e totalizzante di Il Cielo Sfondato. Gernika Eta Bermeo conclude il primo disco col racconto del testimone oculare Karmel Iriondo, padre di Xabier, della strage di Guernica. Primo pezzo apertamente politico e devastante nella stridente collisione tra il ruvido mahai metak del figlio e la narrazione della tragica testimonianza, lo definiremmo una bomba se l’espressione non fosse così fuori luogo. È, però, il secondo disco ad offrire le sorprese maggiori, con Iriondo intento a trasfigurare Springsteen (l’accorata Reason To Believe diviene col cantato di Paolo Saporiti un Suicide blues), Motorhead (l’assalto a pugni in faccia di The Hammer con l’aiuto degli OvO), l’accoppiata insolita e spiazzante Francesco Currà/Lucio Battisti nel medley di lucida follia decostruzionista Preferirei Piuttosto Gente Per Bene Gente Per Male (con la voce asincrona di Bertacchini e la batteria di Cristiano Calcagnile), l’inno antifranchista del duo Pantxo Eta Peio Itziar En Semea, destrutturato e riconfezionato ad noiseam, e un Lennon minore, Cold Turkey, reso sensuale rock’n’roll in acido e luccichii dai 3/5 di Afterhours che lo supportano. Quaranta minuti dopo i quali non ce n’è più per nessuno, o quasi. (8/10) Stefano Pifferi

te d’atmosfere e linee melodiche, e per dirla con loro, mosso da una “viscous musicality”. Alla fine le cose si sono ibridate nei giochi a incastro tipici dei tardi Can, e la tracklist, azzerando i contenuti wave à la Neu! / La Dusseldorf, ha abbracciato un fiero neo krautismo elettronico-acustico misuratamente aperto al concreto (le mitragliette ottimamente impiegate come texture in Winter). In appena sette tracce per neanche quaranta minuti, 76

animato da intelligenza e visione, Den, viaggia a corrente alternata tra Berlino e Dusseldorf, amalgamando egregiamente retrogusti techno (Rote Wüste, Cascade, Moth Race), (germaniche) urgenze ambient-melodiche (Sun, Deadwringer), e inserti chitarristici (Alex Paulick) tra minimalismo Eno-Fripp e fraseggi newagey 70s (Cascade). Con i To Rococo Rot in fase calante (o comunque in semi congelamento), Thomas Klein e co. invecchiano


come il buon vino e confezionano l’ennesimo lavoro straconsigliato e probabilmente quello meglio inciso, missato (nei Lowswing Studios di Berlino con Guy Sternberg) e masterizzato (a cura di Stefan Betke negli studi della ~scape di cui è co-founder). Jaki Liebezeit e Brian Eno lo amerebbero e voi? (7.1/10) Edoardo Bridda

Le capre a sonagli - Sadicapra (Appropolipo Records, Ottobre 2012) Genere: folk, stoner Diavolo se se ne sentono di stranezze oggigiorno. Da dove cominciamo? Dal nome del gruppo o dal titolo dell’album? Forse dal titolo delle canzoni? Le capre a sonagli sono una band incredibilmente interessante, lo diciamo subito. Fanno una musica che sembra voler incendiare ferocemente le pareti di qualche fienile abbandonato e trovar da ridire su tutto. Transumanze comprese. Sapete com’è, quando si parla di capre. Nati dalle ceneri dei Mercuryo Cromo, giungono oggi al secondo lavoro in studio e confezionano ventotto minuti in dieci canzoni di alternative stoner folk, che di qua assomigliano ai Queens Of The Stone Age (Elefante, Pirata della strada) e di là assomigliano a Vinicio Capossela (La capra e il bastone, Caronte); per non parlare poi dei momenti più tradizionali di punk-rock vecchio stampo come Dove you go? o Dio non sa, degno connubio fra l’oscurità dei Tool e la melanconia degli Smashing Pumpkins. Ma perché scomodare certi nomi? Non vorremmo certo sminuire l’estro eccentrico di questa band, che ha prodotto un disco che non annoia mai, fa sorridere per l’ironia nascosta in ogni cambio di tempo e stupisce per la naturale crudezza con cui è registrato (a volte si fa fatica ad intuire il cantato). Se capre dobbiamo diventare per apprezzarlo, beh, chiamateci Sgarbi. (7/10) Nino Ciglio

Lips Against The Glass - Vivid Colour (Seahorse Recordings, Maggio 2012) Genere: electrogaze L’unico consiglio sulla pagina Bandcamp del gruppo è di “fumare erba mentre s’ascolta”. Nessun sentore d’atmosfere reggae o dub per l’esordio della band bolognese prodotta da Paolo Messere, l’album ripiega su un’elettronica dedita ad ammiccamenti con il passato prossimo (il sussurrato sexy noir di Rober Smith dei Cure, certi smalti shoegaze, l’ambient...) e il presente malinconico d’albione degli onnipresenti The xx, magari filtrato con

le chitarre degli U2, quelli prodotti da Brian Eno ovviamente (Am.). Il progetto suona bene, non professa novità shocking, ma è comunque interessante per apertura e approccio open minded. Alcuni pezzi si assestano su una poptronica Ottanta troppo semplicistica (Hank Moody) o su un minimalismo che ricorda un po’ troppo i Múm (Pink Lands), altri esplorano un’ambient che, se non fosse per le distorsioni, potrebbe rappresentare una buona alternativa all’indigestione glo, con un tocco personale e fresco (Violin, 56). Buona produzione, finiture di pregio e qualche riempitivo. Promettente. (6.4/10) Marco Braggion

Loscil - Sketches From New Brighton (Kranky, Settembre 2012) Genere: ambient Scott Morgan è sempre rimasto entro un determinato limite nelle sue ondivaghe peregrinazioni dello spazio circostante. Ascoltandolo si avverte subito che il concetto di psicogeografia non gli è sconosciuto e che anche le esperienze dei più avventurosi field recordist di questi anni non gli sono passate sopra senza colpo ferire, ciò non toglie che non abbia mai abdicato all’uso dell’elettronica, facendo del minimalismo la chiave di volta di un approccio che nel corso degli anni è passato dal rigore scolastico di Triple Point, alle sinuosi modulazioni dub di First Narrows per toccare le vette di Plume e Endless Falls che sono i suoi lavori meno ermetici e più immediati. Proprio le esperienze di Endless Falls e del successivo Coast / Range / Arc, costituiscono il background ideale per queste cartoline dalla Nuova Brighton. Il concept attorno cui Morgan fa girare le sue visioni è ancora una volta lo spazio canadese intorno a Vancouver. C’è anche l’esigenza di tracciate dei percorsi nella propria discografia. Cita egli stesso First Narrows e Strathcona Variations come i diretti antecedenti di un approccio, “un dialogo”, con l’ambiente circostante che ha portato a questa collezione di vignette in forma di paesaggismo astratto. Le modulazioni sono sempre le stesse. Dalla mimesi ritmica e ansimante di Khanahmoot, alla pensosa gravità di Coyote, passando per l’auto citazionismo di Second Narrows che disegna un modernariato ambient a là Blade Runner. La fattura dell’insieme è sempre di pregio, calibrata fin nel più minuto dei dettagli come nei micro inserti digitali di Cascadia Terminal o nella nerissima nebulosa di Fifth Anchor Span, ma a questo giro tutti i passi avan77


ti fatti con Endless Falls, in termini di comunicatività vengono persi, in favore di un ritorno alla vecchia ispirazione isolazionista, che per il genere è sicuramente un porto più caldo e accogliente, ma anche molto più convenzionale. (7/10) Antonello Comunale

Low Frequency Club - Mission (Foolica, Aprile 2012) Genere: electro funk I Low Frequency Club continuano il discorso cominciato nel 2008 con il Self-titled e proseguito col precedente West Coast nel 2010, sempre muovendosi nel funk schizzoide e contaminato, anzi avvolto, nel manto electro che li contraddistingue. Poche modifiche anche nel nuovo disco quindi, basi groove sporcate e massiccie influenze DFA, con la figura di James Murphy che si staglia dominante da una parte e i lontani fantasmi pop di Planet Funk e di alcuni episodi dei Subsonica, con bpm più alti e il cantato in inglese, ovviamente. Il problema principale che sembra affliggere il gruppo sembrano però ancora essere le parte vocali, che in più riprese faticano a convincere in pieno. Mission rimane comunque un piacevole seppur brevissimo - appena 28 minuti - invito a ballare, che funziona a dovere e in cui si trovano almeno un paio di episodi notevoli, come ad esempio i bassi pulsanti di Buried Animals o ancora l’efficace singolo Burn In Hell, contagioso e straniante al punto giusto. Certo, per fare il salto di qualità ci vorrebbe forse un pizzico di sfrontatezza in più, anche se la title-track, che chiude i giochi nei suoi abbondanti sei minuti, finisce proprio sul più bello e fa venir veramente voglia di premere replay e risalire sulla giostra. (6.1/10) Luca Falzetti

Luc Orient - La Vie à Grande Vitesse (Lademoto records, Ottobre 2012) Genere: new wave Redivivi new wavers, nati nel lontano 1981 come side project dei Revolver (che arrivarono a firmare per l’esimia CGD), i Luc Orient si ricostituiscono negli anni Duemila e sembrano freschi e necessari. In effetti, il funkyfolk psichedelico del nuovo lavoro La vie à grande vitesse sembra dar frutto non tanto a una reunion malinconica e rivivalista del sound che fu, quanto a un nuovo debutto con obiettivi e finalità ben precisi: sperimentare nuovi orizzonti, raggiungere nuove sonorità. Dopo un opening track fulminante (Oui Misses Bloom), dove si sentono distintamente i Talking Heads di Na78

ked nell’uso della doppia lingua (francese-italiano), nelle chitarre spezzate e nelle ritmiche serrate, La vie à grande vitesse non tiene sempre alto questo tenore, pur non deludendo del tutto. Amore, nessun dolore è il brano più spiccatamente new wave ed elettronico del disco, con picchi degni dei Bluvertigo più raffinati. Fatta eccezione per il lunghissimo intro della title track, che ricorda i flautisti indios delle sagre nell’essere fin troppo pomposo ed epico, anche il singolo designato Champagne convince per l’equilibrata orchestrazione dei fiati, l’uso disteso del chorus, il testo fra il sociale e il surreale, che ricorda un po’ quei bravi Mariposa di un tempo. Insomma, l’opera dei Luc Orient è un significativo tentativo di non banalizzare un genere che ha fin troppi campi di applicazione e un elevato rischio di cadere nel baratro della volgarizzazione. (6.6/10) Nino Ciglio

manzOni - Cucina povera (Garrincha Dischi, Ottobre 2012) Genere: canzone d’autore Ci siamo sbagliati con Pascoli quando lo pensavamo meno nostro degli altri solo perché ce lo avevano descritto come “il poeta delle piccole cose”. Siamo cresciuti e abbiamo letto la poesia della complessità apparente per poi scoprire l’enormità sottesa a tutte le piccole cose del poeta di San Mauro che tanto a scuola finimmo col disprezzare. Con la stessa lente della riscoperta finiamo a nutrirci di cucina povera nel mondo del sovrappiù e della tracotanza e lo facciamo, in musica, con il ritorno attesissimo di uno dei più interessanti e profondi progetti di musica d’autore italiana, i ManzOni di Luigi Tenca. Cucina povera è disco che conferma in tutto e per tutto il valore di questo progetto, di un discorso musicale e narrativo che fa sempre più da intimo e semplice contraltare alla complessità introspettiva propria della storia della musica-raccontata italiana, quella cui fanno capo assoluto i Massimo Volume. Si affonda qui nell’intimo della cucina di chi scrive, laddove questa stanza rappresenta naturalmente il fuoco, il centro nevralgico dell’intimità, della pulsione emotiva di sé e del proprio quotidiano; al contempo, cucina povera, diventa la naturale espressione dell’essenzialità sentimentale, della volontà di raggiungere il nodo ed eventualmente di snodarlo. Musicalmente parlando siamo di fronte a un lavoro ancora attento a una buona commistione di levità e noise e, rispetto all’esordio, decisamente meno volto al postrock ma arricchito di maggiori pulsazioni sintetiche.


Se in alcuni episodi come ..ed ecco l’alba o In Toscana sembra di avere a che fare con un mix tra Diaframma e giochi di strumenti nuovi a la Einstürzende Neubauten, in Una Garzantina o Dimmi se è vero il suono si addolcisce in favore di un leggerissimo e arioso afflato pop. Le storie naturalmente sono i fiori di questa band, vicende tutte senza rima che contengono caleidoscopicamente episodi della vita, dei desideri, delle amarezze e dell’amore. Un lavoro curato, da scoprire lentamente, ricchissimo di significati puri e nascosti, come quei luoghi del “sorriso lacrimoso” del Pascoli di cui, appunto, si diceva. (7.4/10) Giulia Cavaliere

Maria Minerva - Will Happiness Find Me? (Not Not Fun, Settembre 2012) Genere: Psychedelic Pop Ho visto Maria Minerva a Glasslands. Era sul palco e cantava. Aveva i capelli sulla fronte e sembrava fatta. Più che una rockstar era un ubriaco sulla metro alle due di notte, di quelli che si cantano addosso per non piangersi addosso. Anche perché di pubblico a cui cantare non ce ne era molto, saremo stati una ventina. Era stonata e fuori tempo ed io più che pensare alla sua musica pensavo a quanto fosse fuori luogo l’aggettivo avvenente. Era una ragazzina con una mascella enorme e un corpo eccessivamente magro messo in mostra dalla camicia trasparente con minigonna rosa. Il suo modo di ballare era così ridicolo da farmi sentire in imbarazzo. Mentre il set cadeva a pezzi tra errori, pause e stonature mi ritrovavo ossessionato dalla sua magrezza. Così magra, mi dicevo, che se anche una passione, o una gioia, riuscisse a trovare dimora in quel petto non avrebbe nessuna carne di cui nutrirsi. Il vero mistero è come il corpo della Minerva riesca a tenersi insieme, a non scomporsi nella collezione di organi, nell’elenco o nella semplice isotopia. La sua musica ormai non ha segreti, ne hanno parlato tutti esaustivamente, e per quanto alcuni siano ancora sospettosi, o sorpresi, dalla frammentazione delle sue canzoni, del loro apparire come la sovrapposizione casuale di sound bites, è facile comprendere come il tutto si regga in piedi grazie ad un’eccenzionale sensibilità musicale. Sensibilità messa in mostra in pezzi come The Star, un incontro tra le Chordettes e tipiche progressioni 8-bit, o The Sound dove sono i cambi di tonalità che, trascinando la canzone da un iniziale ottimismo verso atmosfere sempre più cupe, offrono la cornice interpretativa da sovrapporre sul pandemonio di elementi. The Sound, inoltre, apre l’album con un sample di Maharashi Mahesh, il santone dei Beatles, quasi a voler dichiarare Will Happiness Find

Me? come il più pop dei suoi lavori. Accessibilità che è il risultato dell’affinamento tecnico della Minerva, del suo sentirsi a pieno musicista e del suo essere in completo controllo di un sound ben definito, non del tentativo di andare incontro alle esigenze degli ascoltatori. Purtroppo, nonostante la maestria, la sensazione è che oltre all’esercizio stilistico non vi sia alcuna evoluzione e che questo disco non sia altro che un regolare i conti con il passato. L’album si percepisce quasi come un EP: numerosi momenti di spicco, sparsi qua e là, ma in genere dimenticabile. Più affascinante è quella figura che qui si riesce a intravvedere solo di profilo (si pensi al titolo così personale e sofferente) mentre nei live inizia lentamente a prendere consistenza. Intendo la figura di una nuova Maria Minerva come artista in declino, pazza e malata come in Mad Girl’s Love Song (riferimento a Sylvia Plath), che porta con sé i segni di quella che potrebbe essere una nuova Björk, da cameretta, se solo riuscisse a trovare la forza di maneggiare tutto quel dolore senza rimanerne squartata. (6.5/10) Antonio Cuccu

Mario Bajardi - Archives (Iter-Research, Maggio 2012) Genere: elettroacustica Mario Bajardi aka BjM è un violinista e compositore di musica elettronica italiano, che lavora principalmente a Palermo tra Università e scuole d’arte. Negli anni ha vinto molti premi per addetti ai lavori (finalista al Pierre Schaeffer nel 2001 e vincitore all’International Computer Music Conference del 2002 fra gli altri). Oggi, dopo aver esordito nel 2006 con Overture Arcaica, torna con il sophomore Archives, che dovrebbe appunto documentare il suo catalogo di produzioni più rappresentative. Il primo volume è dedicato ai pezzi elettroacustici. A prescindere dai trascorsi accademici, il suono di Bajardi viaggia su un’ambient windamhilliana che ricorda la new age di Kitaro dei primi anni novanta (End, Follje, Gabbiano cieco), oggi resuscitata da James Ferraro e compagnia Hippos in Tanks (le percussioni di Children’s Cancer e le atmosfere aor di Rest o i paesaggi shoegazing à la Ride di Danzante). In più vengono in mente i paesaggi squadrati dell’electro-rock dei Tarwater, conditi con continui riferimenti alla classica (vedi il piano di Cousine). I pezzi più affini all’accademia (i due studi, uno per piano e uno per violino) si accostano poi a una sensibilità più sperimentale, che non per questo non si fa ascoltare: il pianoforte dello studio suona come certi passaggi di DrukQs di Aphex Twin e il violino dello studio risente 79


della lezione degli spettralisti francesi mescolata alle ricerche di Kaija Saariaho. Un disco che conferma Bajardi come una delle voci più interessanti dell’elettroacustica italiana, e che si fa ascoltare benissimo anche da un pubblico di non specialisti, viaggiando fra ambientronica e camere sintetiche scaldate da suoni acustici. Attendiamo con interesse i prossimi volumi della serie, dato che il compositore sviluppa la sua ricerca su molteplici binari. (7.2/10) Marco Braggion

Matchbox Twenty - North (Atlantic Records, Settembre 2012) Genere: pop rock USA Un po’ sperduti dopo la morte di Kurt Cobain, i rockers americani nella seconda metà degli anni ‘90 si rifugiarono nel cosidetto post-grunge, movimento/termine ombrello che miete vittime - in tutti i sensi - ancora oggi (Nickelback, Daughtry ecc...). Le sparate milionarie di Live, Creed, Third Eye Blind, Bush - ma anche il trad-roots dei Hootie and the Blowfish - sono ancora lì, negli annali di Billboard, a testimoniare un periodo storico non esattamente memorabile per il mainstream rock statunitense. All’interno di questa scena nel 1996 debuttarono i Matchbox Twenty con Yourself or Someone Like You - southern-classic rock, randomiche abrasioni alt/grunge e Counting Crows nella mente - capace di vendere 12 (dodici!) milioni di copie solo negli USA. Un exploit geograficamente molto limitato (Australia esclusa), tanto che dall’altra parte dell’oceano i più sono venuti a conoscenza della band qualche anno dopo grazie alla guestata del leader Rob Thomas nella strafamosa Smooth di Santana.Seguendo il più classico dei copioni, il successo poi dimuì anno dopo anno, dando vita a pause e dischi solisti destinati ai soli fan. A dieci anni di distanza dall’ultimo album di inediti - More Than You Think You Are - i Matchbox Twenty, continuando il sodalizio con la Atlantic, pubblicano il quarto disco North. Parade è un flashback nella mediocrità 1996, ma poi arrivano il pop festaiolo di She’s So Mean, la classica ballata dal mood iper-cheesy Overjoyed e lo scialbo tentativo di avvicinarsi alle ultime indecorose uscite dei Maroon 5 (non bastavano già i Train? Altri che non si rendono conto di quanto sia ridicolo proporre certe cose superati i quaranta) - Put Your Hands Up - a peggiorare ulteriormente le cose. Tra uptempo radio friendly (Radio, Oursong) e intimità plastificate (I Will, Sleeping At The Whell), le intenzioni chart-oriented dei riformati Matchbox Twenty sono fin troppo evidenti. Se riusciranno a ritrovare il successo o 80

meno non fa differenza, di un disco così debole e privo d’idee nessuno ne sentiva la mancanza, probabilmente neanche i nostalgici dell’US rock-fm 95-00. (4.1/10) Riccardo Zagaglia

Mathias Stubø - Mathias Stubø (BBE, Giugno 2012) Genere: fusion Mathias Stubø aka Proviant Audio aka Mathijazz, classe 1992 dalla Norvegia. Batterista, polistrumentista, compositore, produttore, dj, sulla scena già a 14 anni, una vera star in patria, tra recensioni entuasiastiche (tanto sulle riviste jazz che su DJ Mag), radio, premi (artista dell’anno 2010) e una frenetica attività live anche in versione big band con 12 elementi. Questo omonimo è il suo secondo album ufficiale, dopo uno start up su Paper Recordings e un acclamato 1979 su BBE targati entrambi 2011. Venti pezzi e un dittico che è un concept spacey sui sentimenti e sulla vita che piacerebbe assai a Flying Lotus, modellato sulle tante forme che può assumere una fusion electronica - collagistica e sampledelica, eppure assolutamente organica, unitaria, suonata - orchestrata con una craftmanship semplicemente eccellente, a tratti così ricca da restare letteralmente a bocca aperta. Mathias è cresciuto con un retroterra di ascolti ossessivi che lo avvicinano a un altro biondo enfant prodige della nuova fusion, Austin Peralta, ovvero tutto quel lussureggiante microcosmo jazz post-Miles Davis/Bitches Brew e quindi giù di Chick Corea, Mahavishnu Orchestra, Weather Report, Stanley Clarke; ma al contrario del pur bravissimo - anzi, del fin troppo bravissimo - Peralta, il focus qui non è sulla tecnica e sul solismo, ma sulla costruzione di brani fortemente narrativi, cinematici. La scaletta è così un colorato vorticoso caleidoscopico zibaldone che usa la tecnologia electro-hop (la doppia H si materializza decisa in Don’t Give Up on Me) e i cut e gli speziati acciacchi del wonky (most notably, When We Were One) per aggiornare il verbo fusion del latin (Those High Frequency Feelings), del funk (Let Time Pass, con inserti chiptune; Oss To; la lunga jam Opp I Lufta; la scoppiettante No One Would Know) e certi orientalismi mclaughliniani (Fly with Me), sfiorando in più momenti la cervellotica giocosità di uno Squarepusher (Back Into My Life). Moltissima - forse anche troppa - la carne al fuoco, in un ambito peraltro sempre più affollato e a rischio di manierismo, ma una personalità contagiosa e un savoir faire musicale che nulla hanno da invidiare ai migliori produttori americani. (7.1/10) Gabriele Marino


Matmos - The Ganzfield (Thrill Jockey, Ottobre 2012) Genere: Art techno A distanza di ben quattro anni dal bagno maria nei synth analogici (Supreme Balloon, su Matador) e a due dalla collaborazione con So Percussion, il duo concretista concettuale chiave degli anni zero torna appunto concettuale - quindi Daniel Drew oriented - con l’album lungo The Marriage of True Minds (atteso per il 2013) e il qui presente succoso EP (su Thrill Jockey) The Ganzfield, per festeggiare i 20 anni di unione personale e artistica . Folgorato dal bizzarro esperimento di percezione e trasmissione extrasensoriale che ha dato il nome all’EP (il metodo Ganzfeld), la metà accademica del duo ha concepito il nuovo lavoro legandolo a un esperimento telepatico che è stato somministrato a un gruppo di cavie con palline da ping pong negli occhi e un rumore di fondo in cuffia (Il bizzarro kit verrà venduto in varie special edition del disco). Venendo alla polpa del lavoro abbiamo tre nuove tracce incentrate su battito techno e un’attenzione particolare alle voci, specie nella finale Just Wave: un flusso di parole e frasi sovrapposte, come se una serie di cassettine di training autogeno venissero fatte suonare contemporaneamente e con sporadici loop. Di converso Very Large Green Triangles, già disponibile su soundcloud dallo scorso agosto, è una suite che riporta alle costruzioni sinfoniche di Civil War mentre You (Rrose Mix) è una sinistra techno dub immersa in una placenta di suoni industrial. E’ un po’ poco per sbilanciarsi. Ma il nuovo album promette bene. (6.8/10) Edoardo Bridda

Maximilian Hecker - Mirage Of Bliss (Rough Trade, Settembre 2012) Genere: sad ballad Difficile essere buoni con Maximilian Hecker quando è l’opera del tedesco ad essere, prima d’ogni altra cosa, indulgente con se stessa. Dopo il Sea Change personale che fu I Am Nothing But Emotion, No Human Being, No Son, Never Again Son, dedicato alla prostituta giapponese Nana di cui s’era invaghito, il ragazzo da rotocalco indie che non ha paura dei sentimenti torna più patinato e arrangiato che mai con Mirage Of Bliss, il miraggio dell’estasi. Il settimo album, inciso in Spagna, che vede l’aiuto cruciale di Martin Glover / Youth (Orb, Killing Joke), sarà probabilmente ricordato come l’opus personale, il la-

voro dove la consueta artificiosa proposta (AOR ballad, soft rock, power pop dei Settanta passate sotto setaccio Kid A) incontra una chirurgica - e quanto mai definitiva - scenografia per chitarra acustica, piano, glockenspiel e synth. Con Youth ad apparecchiare un riuscito allestimento tra Sigur Ros, Scott Walker, Simon & Garfunkel e naturalmente Radiohead (vedi le dichiarazioni su Zomobo) ed Hecker a puntare tutto su una rischiosa purezza estetica, sarà la sola 道玄坂, di otto minuti, l’unico momento da ricordare per afflato e urgenza (ancora Nana?), il solo episodio dove il bisogno di controllo totale del musicista rompe un format stopposo e diabetico. Da menzionare, infine, il tentativo di crescendo Thom Yorke / Matthew Bellamy che è Heavenlies e la seconda parte della titletrack (melodicamente discreta). Il resto: maniera, e maniacalità, sia a livello di produzione (e ancora bravo Youth per aver conferito smalti e sapori a tutti gli strumenti) sia a livello d’interpretazione. Maximilian Hecker è una one man boy band in disarmo, o peggio, un Nick Drake cresciuto a Mulino Bianco (Head Up High ...Till The Day I Die canta in Head Up High). I critici tedeschi lo odiano. E la tentazione viene anche a me. (5/10) Edoardo Bridda

Melampus - Ode Road (Locomotiv Records, Ottobre 2012) Genere: rock noir Sixties-pop virato dark, intimismo shoegaze anni ‘90, animo rock quanto basta, ma sempre di quello scuro e umorale. Se si potesse parlare di musica come di cucina, giocheremmo con gli ingredienti citati sopra con la consapevolezza di non essere mai in grado di sapere come riuscirà il tutto. È quello che succede con Ode Road, titolo dal retrogusto letterario-cinematografico che inaugura la carriera ufficiale del duo bolognese dopo l’ep autoprodotto All In All di qualche tempo addietro. Se lì si calibrava un sound che più che sound vero e proprio era immaginario a tutto tondo, qui la quadratura è perfetta. Il piatto è riuscito ed è completamente diverso da ciò che ci saremmo aspettati. Gli ingredienti di partenza possono soltanto dare delle vaghe coordinate al risultato finale, perchè nel mondo dei Melampus sono i retrogusti a farla da padrone. Le sfumature, gli accenni, le screziature con cui Angelo “Gelo” Casarrubbia (Buzz Aldrin) e Francesca “Billy” Pizzo spennellano forme e sostanza del loro rock a forti tinte wave, ipnotico e sensuale insieme. Roba minimale, che fa della reiterazione e dei giochi con le assenze 81


il proprio punto forte, sfruttando chiaroscuri (Freedom Day) ed interstizi (Double Room) per colpire nel profondo di chi ascolta; che alterna elettronica e acustico creando tenui impalcature sognanti e sottilmente inquietanti (Dots), che gioca con immaginario notturno e sensualità dark-gaze muovendosi tra forme folk weird e possedute (Joel) e disturbanti nenie da gotico americano (The Path) sospese sempre tra drumming non invadente e cantato da Alison Shaw (Cranes) adulta. Il tutto avendo bene in mente però che l’insieme è più importante delle singole dosi e che 4AD, pathos a manetta, nebulose goth, ballads assassine, algida eleganza alla Nico, rigurgiti wave e quant’altro è meglio farli levitare nel pastone che farne l’ingrediente principale. Forse i Melampus, tenendo fede al nome che si sono scelti, hanno voluto aiutare le nostre orecchie a guarire? (7.2/10) Stefano Pifferi

Melody’s Echo Chamber - Melody’s Echo Chamber (Fat Possum, Settembre 2012) Genere: dream pop ibrido Multistrumentista di formazione classica, Melody Prochet approccia due anni fa Kevin Parker dei Tame Impala durante la data di quest’ultimi nella sua Parigi; lui ne rimane affascinato, recluta i My Bee’s Garden di lei come support act per la successiva tour leg europea ed acconsente a portarsela a Perth per produrne il debutto sotto moniker Melody’s Echo Chamber. Con Parker a rafforzarne lo scheletro con angoli grezzi, croste distorte, elementi funk e sezione ritmica caleidoscopica 60s, la Prochet dà volto alla tanto inseguita dice lei - “creatura dei suoi sogni”. Melody’s Echo Chamber è a tutti gli effetti un ibrido dream pop che permea di fascinazioni per la decostruzione delle tradizioni psych, glam, kraut, space-rock, shoegaze e sunshine pop. Si fa ampio uso di approccio retrofuturistico per layer nel synth-work, ma si guarda anche alla nativa Francia - curioso avvenga per la prima volta mentre si è in terra straniera - per certi groove e numeri kitsch à la Air, cadenze da chanson française su spettri Stereolab (Some Time Alone Alone, Bisou Magique) e tributo all’attualità vista in Raconte-Moi Une Histoire di M83 (Be Proud Of Your Kids). L’album supera la prova a pieni voti per l’esplosivo trittico iniziale e pièce de résistance (I Follow You, Crystallized, You Won’t Me Missing That Part Of Me), a maggior ragione per l’uso deciso - eppur declinato con leggerezza - della formazione accademica dell’artista: c’è classe nel gestire l’apporto alle melodie dell’ampio range di influenze a mo’ di tanti sottili omaggi che non richiaminino nomi specifici, charme vero nell’abilità vocale che 82

nulla ha da invidiare a quelle delle affini Julia Holter e Laetitia Sadier (in specie negli episodi più impressionisti, Quand Vas Tu Rentrer? e Snowcapped Andes Crash). Pur con qualche saltuaria perdita di focus e profondità (dovuta ad eccessi sui toni lucidi delle texture), Melody’s Echo Chamber è un esordio brillante che presenta la Prochet come talento carismatico e dal senso dello stile innegabilmente cool. Più importante, è disco marketable in una piazza satura qual è oggi quella del dream pop. (7.1/10) Massimo Rancati

Metz - Metz (Sub Pop, Ottobre 2012) Genere: Rock ’n’roll È un rock’n’roll teso e adrenalinico quello del trio canadese Metz, ultimo acquisto in casa Sub Pop. Lo stile bruciante e riverberato ricorda i primi BRMC (Wet Blanket), tanto per fare un nome, ma con la cattiveria di novelli Motorhead, le dissonanze dei Sonic Youth (Sad Pricks, Rats) e un filo di coolness in pelle nera: estasi power garage certamente debitrice del tritacarne punk-hc grunge noise dei novanta, così come delle deflagrazioni blues di inizio millennio, e che riacquista in questo 2012 senza fissa dimora (sociale e culturale) una piena legittimità anche “politica” in tutta la sua carica rabbiosa ed eversiva. Da un punto di vista squisitamente timbrico, tanto di cappello alla produzione ricca e graffiante, tutta giocata sull’esasperazione di ambienti naturali: iper-riverberi a creare una lontananza spaziale che è straniamento e minaccia al contempo. Il tutto sembra registrato in un capannone sporco di polvere e amianto, abitato da enormi macchinari dismessi; eppure l’aria vomitata dagli amplificatori sembra essere stata disciplinata, incanalata e riconvertita con un sapiente lavoro di equalizzazione. Il disco si apre con Headache, due minuti e venti piuttosto classici nell’impianto hard’n’roll che vanno a mettere subito le cose in chiaro: qui nessuno vuole inventare niente, ma quanto a ebbrezza e velocità c’è di che essere contenti. Non un momento di pausa, non si riprende fiato, le urla strappate, le ritmiche sconvolte e fuori controllo. I titoli stessi dei brani (Knife In The Water, Nausea, oltre ai già citati Headache e Rats) rimandano a un immaginario di (auto)distruzione torbido ed esplicito, come nella migliore tradizione. È una corsa senza freni: si sa che ci si andrà a schiantare da qualche parte, ed è questo il bello. (7/10) Antonio Laudazi


Minus The Bear - Infinity Overhead (Big Scary Monsters, Agosto 2012) Genere: rock drama Infinity Overhead, quinto album in studio per i Minus The Bear, è di per sé emblematico esempio di quanto sia difficile tornare alla fama dopo aver intrapreso, con insuccesso, strade alternative. Sparite le aspirazioni dancefloor dell’electro-flop Omni, i ragazzi tornano dalle parti del guitar-work dell’ex-Botch Dave Knudson con un altro ex (il tastierista Matt Bayles) in produzione. E il timore di fare altro danno finisce per produrlo effettivamente. La band, famosa per acrobazie heavy-tapping con elettroniche weird a complemento, non si limita a metter da parte titoli joke quale Hey wanna throw up? Get me naked in favore di una inedita posa seriosa, ma va pure a relegare il marchio di fabbrica - che aveva reso l’EP di debutto This Is What I Know About Being Gigantic un istantaneo successo underground - alla conclusiva Cold Company. Private dei tecnicismi new-prog a mascherarli, emergono quindi overexposed tutti i noti limiti di scrittura del frontman Jake Snider: liriche da far storcere il naso persino a tredicenni emo (“Did the Lord stop paying the lease?”) e brani che poggiano su riff radio-friendly à la Biffy Clyro (Steel And Blood), viaggiano in territorio ballad Incubus (Empty Party Room), anthem 3 Doors Down (Diamond Lightning) o Nickelback (Heaven Is A Ghost Town). Così patinato, generico e trito da non poter ambire nemmeno alle colonne sonore d’un qualsiasi tv show postThe OC, l’intero set suona come l’ultimo sussulto di una band finita. Fare peggio di Omni era difficile, i Minus The Bear ci son riusciti. (3.5/10) Massimo Rancati

Moon Duo - Circles (Sacred Bones, Ottobre 2012) Genere: psych Il canovaccio riprende esattamente da dove era stato interrotto alla fine di Mazes, il buon esordio lungo di quasi due anni fa. Da allora, Ripley Johnson e Sanae Yamada non se ne sono stati con le mani in mano: un paio di cdr, qualche 7” split (ottimo quello con Psychic Ills, sempre per Sacred Bones), una coppia di 12” (l’Horror Tour e il single sided High Over Blue) più l’operazione gemella del citato full-length Mazes Remixed, con gli affini Sonic Boom, Cave, Psychic Ills a deturpare la psichedelia rumorosa del duo. Passi minori, si penserà, ma che invece in realtà nascon-

dono molto del senso ultimo di Circles e del Moon Duo in generale: la innata affezione per un mondo pieno di circolarità e reiterazioni, la passione per la ciclicità, il gusto per il monocromo trovano il giusto spazio, specie in momenti dilatati come i 20 e passa minuti di High Over Blue. Ma anche nei lavori “di canzoni” - e Circles lo è a pieno diritto - la forza del duo risiede nella ipnotica, devastante, inacidita, dopata dipendenza dalla reiterazione in loop delle istanze portate avanti, nel corso del tempo, da virgulti del calibro di Suicide, Silver Apples, Loop, Spacemen 3 and so on. Dopotutto un lavoro chiamato Circles, influenzato da un saggio di Ralph Waldo Emerson sulla ciclicità e l’importanza della circolarità nella natura - “the eye is the first circle; the horizon which it forms is the second; and throughout nature this primary figure is repeated without end” le prime, illuminate parole del IX Essay - non può prescindere dalla reiterazione di figure sonore risentite quanto si vuole, ma sempre intrippanti. Che poi si converrà che pochi sono gli elementi di stacco dal canovaccio: qualche melodia vocale meno ossessiva, una certa voglia di allargare gli orizzonti dalla cupezza di genere, qualche limitrofa assonanza con attitudine surf-garage reminiscente gli Stooges di 1969 (Free Action) e addirittura con certa slackerness madchesteriana (una Trails da indolenza quasi Stone Roses) ci dicono di un tentativo di smarcatura dal clichè di genere. Roba che al secondo tentativo lungo si fa apprezzare ed è un buon viatico per il futuro. Poi che dal vivo siano uno dei gruppi che più spaccano in assoluto, è un altro par di maniche. (7.1/10) Stefano Pifferi

Mumford And Sons - Babel (Island, Settembre 2012) Genere: Folk Due parole aleggiano perpetue sull’ascolto dell’attesissimo ritorno dei Mumford & Sons: “che peccato”. Questo è, in termini più generali, quel che viene da dire quando dopo un primo lavoro ispirato pur senza alcuna impronta rivoluzionaria, arriva un disco come Babel, totalmente sorretto su uno schema compositivo che ripete sé stesso. Che il folk non si curi granché di riprodurre sino allo sfinimento il proprio sistema narrativo-musicale non è certo un mistero, ma da questi quattro londinesi ci saremmo aspettati molto di più, quantomeno uno spiraglio di ricerca sul proprio genere, un percorso di creazione di una propria impronta autorale, un po’ ciò che accadde con i Fleet foxes qualche anno fa. Babel, invece, si presenta non solo come lavoro che, dichiaratamente, prosegue il discorso iniziato nel 2009 83


con Sigh no more ma si configura come una raccolta di canzoni che tendono a riprodursi l’una con l’altra: incipit omogenei in chitarra acustica che si trasformano piano piano in esplosioni sinfoniche di banjo, pianoforti, mandolini e un cantato che dai sussurri passa lentamente alle grida. Colpisce in negativo soprattutto la quasi totale assenza di canzoni, come se mancasse proprio la materia espressiva e a parte poche eccezioni - Lover’s eyes, I will wait e For those below, con la sua chitarra ala-Blackbird - i pezzi finissero per risultare del tutto privi di ispirazione. Che peccato, quindi, soprattutto perché a definire la sconfitta dei Mumford c’è questa pacata assenza di emotività, di suoni appassionati nonostante la banda che incede, nonostante i crescendo, nonostante le premesse dell’esordio, nonostante tutto. (5.8/10) Giulia Cavaliere

Muse - The 2nd Law (Warner Music Group, Settembre 2012) Genere: pop rock I videoclip a basso profilo di Muscle Museum, Sunburn e Unintended in high rotation su MTV. Questo per molti fu il primo approccio con il mondo dei Muse, un rifugio post-Radiohead per gli amanti delle chitarre e delle “belle canzoni”, in ottica Showbiz. Arrivò poi Origin of Symmetry ad alzare ulteriormente le quotazioni - sotto tutti i punti di vista - prima fare il botto definitivo - anche in USA - con Absolution (Time Is Running Out...) mostrando i primi segni, non ancora preoccupanti, di un cedimento attitudinale. Come spesso accade, il successo aumenta - i quattro album anni zero hanno venduto cifre abbastanza simili (dai 2 ai 3 milioni di copie) nonostante la sempre più pesante crisi - e la qualità diminuisce: i loro live sono ancora una garanzia ma già in Black Holes and Revelations si salvava solo metà della tracklist e in The Resistance si persero nel lato più kitsch e pacchiano, sfiorando il ridicolo in più di una occasione. Ridicolo centrato in pieno poi con il brano per Twilight (Neutron Star Collision), la recente canzone delle Olimpiadi 2012 (Survival) e tutta la storia attorno al fakestep di Unsustainable. Non ci sono più dubbi, i Muse oggi sono l’emblema della band da stadio, trasposizione dei meleodoranti, autocelebretativi ed eccessivamente sgargianti colpi di coda prog via AOR di fine anni ‘70. Con queste premesse non esattamente incoraggianti esce The 2nd Law, anticipato da Madness, brano ruffiano nel midollo nel suo mix di melodia suadente, synthbass corposo e coda alla U2 che ci ricorda quanto sia facile fare bella figura all’interno di airplay radiofonici 84

raccapriccianti e magari essere spacciati per gruppo “futuristico” ad orecchie incolte.Come nei due precedenti lavori, anche in The 2nd Law trovano spazio varie facce della stessa medaglia: qui le novità sono da cercarsi in Panic Station - basso preso in prestito dai Faith No More - che si sviluppa in un deteriorante incrocio tra Queen e INXS con tanto di chitarrina funky-pop (che poi ritroviamo anche in Big Freeze), nei tentativi brostep (la sopracitata Unsustainable e il synth-drop del ritornello di Follow Me, prodotta da Nero) e nei due brani cantati da Chris Wolstenholme: la tirata ma anonima Liquid State e la Porcupine Tree-iana Save Me, che contende ad Explorers (aka “ma questa melodia l’ho già sentita”) il trono dell’enfasi piano-orchestrale. Se non altro in Animals effettuano un dignitoso flashback di dieci anni, mentre in Supremacy replicano ciò che fecero con United States of Eurasia sul Bolero ma su Kashmir dei Led Zeppelin. Come i Queen negli anni ‘80, i Muse sono sul tetto del mondo (e anche oltre, considerata la volontà di suonare nello spazio) pur realizzando dischi di valore quasi nullo. Probabile next step: un greatest hits celebrativo. (4.7/10) Riccardo Zagaglia

Neil Halstead - Palindrome Hunches (Brushfire, Settembre 2012) Genere: folk pop Dai Mojave 3 in avanti Neil Halstead ha saputo muoversi in equilibrio tra sogno amniotico americano e codici folk albionici uscendone come un ibrido perfetto, vuoi per l’adeguatezza della calligrafia, vuoi per il dono di quel timbro vocale adattissimo alla bisogna. Nella sua avventura solista, con Palindrome Hunches giunta ormai al terzo capitolo, l’ex-Slowdive sembra essersi progressivamente liberato di orpelli e scorie fino ad arrivare al grado zero della proposta, che appunto lo vede in bilico tra brughiera e frontiera, forte di un songwriting agile avvolto in un tessuto sonoro di semplice ancorché preziosa fattura (chitarre acustiche, pianoforte, violino...). Il risultato è un disco tanto fresco quanto (volutamente) obsoleto, nel senso che almeno metà dei pezzi in scaletta sono frutto di pregevoli intuizioni (Full Moon Rising è tanto ruffiana quanto azzeccata) che probabilmente avrebbero spopolato nel periodo NAM. Del resto, il cantautore britannico sembra interessato solo a blandire i propri fantasmi dolciastri, appesi tra le due sponde dell’Atlantico come sogni smarriti o desideri incompleti. Peraltro in stretta continuità coi precedenti lavori. Ok, avverti un pizzico di amarezza in più, cresciutagli addosso come la barbona kristoffersoniana (Loose Change), sprazzi d’andatura narrativa solenne vagamente Springsteen


(Wittgenstein’s Arm), per non dire di un paio di nickdrakeate mai così evidenti (Tied To You e Love Is A Beast): poco di nuovo oltre a questo, e in fondo va bene così. (6.5/10) Stefano Solventi

Nick Waterhouse - Time’s All Gone (Innovative Leisure, Giugno 2012) Genere: R’n’b Se la tendenza è questa, tra non molto capiterà di ricevere in redazione dei promo su vinile. A 78 giri. Esageriamo, certo: sarebbe scomodo, e inoltre ai tempi del genere prediletto da Nick Waterhouse si usavano già 33 e 45, ma sicuramente il 25enne di San Francisco come sensibilità è più vicino a quel formato che non al cd (per tacere del digital download). Perché il disco (poco più di una trentina di minuti, come ai vecchi tempi) non smentisce la biografia che lo vuole cresciuto in una famiglia di appassionati r’n’b e da adulto commesso in un negozio specializzato in vinili di quel genere, a partire dalle tecniche di registrazione su nastro magnetico e dal missaggio direttamente in mono (anche quando fa il produttore). La corrente cui si rifà Waterhouse è quella più rauca e tendenzialmente cupa, con i fiati orientati principalmente a rafforzare la sezione ritmica più che colorare vivaci, col risultato di uno swing tirato ed energico (a partire dall’apertura di Say I Wanna Know, tra il riff di Fever e gli accordi di Moondance) e di uno spettro sonoro che rinuncia alla brillantezza degli acuti tipica del cd a vantaggio del “tiro”. R’n’b tardi ‘50, insomma, quello che piaceva al Tom Waits del periodo Blue Valentine e Heartattack and Vine (tant’è che da alcuni viene messo nel gruppo revivalista che tra gli altri comprendeva Amy buonanima), lievemente precedente a quello amati dagli Excitements, arrangiato ed eseguito alla perfezione, tra riff r’n’r con call and response ( (If) You Want Trouble), e che quando vuole uscire dal periodo arrivando ai 60s dei Them di I Can Only Give You Everything in realtà riporta loro di qualche anno indietro, rimpiazzandone il beat con una blackness venata di mambo. Per cui Reynolds, certo, ma anche grande verve e un velo di spirito e consapevolezza che anima il tutto, al di là di una penna che un po’ uniforme. (6.7/10) Giulio Pasquali

Nicoletta Noè - Il folle volo (Liquido Records, Ottobre 2012) Genere: pop-rock d’autore Dopo una lunga esperienza nella danza e nel teatro (con la Bottega Dei Mestieri Teatrali), la cantautrice e polistrumentista di Lodi Nicoletta Noè debutta con Il folle volo, altro esempio nostrano di quel cantautorato blues-folk che affonda le sue radici direttamente nel più raffinato female pop e rock. Frutto di una lunga serie di collaborazioni passate e presenti - in primis con quell’Antonio Gramentieri già in orbita Sacri Cuori, Hugo Race e Il Pan Del Diavolo, oltre che con Andrea Costa dei Quintorigo -, Il folle volo presenta undici tracce all’insegna di un genuino folk-rock, in bilico tra vaghi riferimenti prog e chitarre acustiche/elettriche. Elementi che convergono in una opening track carnale alla maniera di Cesare Basile ma al tempo stesso aperta al canto-sussurro di Nicoletta, come in una successiva Oh padrone che si caratterizza per le compattezza ritmica delle chitarre Parishiane (e come non pensare a Polly Jean?), sempre accompagnate da un suggestivo incedere noir. È la voce il collante di questo Folle volo, complice anche una produzione che tende a sottolineare il cantato della Noè. Un equilibrato accompagnamento capace sia di episodi maggiormente pop - tuttavia sempre venati di elettricità - come la title track o Risparmio emotivo, sia di riuscite atmosfere folk: Non mi ricordi più è un classico d’autore che in quattro minuti riassume tutto il meglio delle nostre eroine nazionali (Nada su tutte); Non è tardi è un bell’esempio di delicata eco bucolica, complice l’interpretazione soffusa e il flauto sullo sfondo; Fammi volare è un altro pezzo pop folk cullato dall’onirico violino di Costa, a cui è affidata la chiusura di un album comunque convincente. (7/10) Giulia Antelli

No Doubt - Push and Shove (Interscope Records, Settembre 2012) Genere: pop Erano furbi i No Doubt a muoversi al di fuori della third wave of ska spostandosi di volta in volta verso un leggero ma buon pop-rock (Don’t Speak, Simple Kind of Life), un pop-punk tirato (Just A Girl, Ex-Girlfriend) o in modernizzazioni anni zero, riuscite (Hella Good) o meno (Hey Baby) che fossero. Arrivarono poi il gossip sfrenato (il matrimonio con Gavin Rossdale dei Bush) e l’iper-patinata carriera solista di Gwen Stefani, almeno inizialmente decisamente fortunata. I tempi cambiano e sulla scia di quanto fatto quest’anno 85


da The Cranberries e Garbage, anche i No Doubt festeggiano l’uscita dell’album del ritorno. Si intitola Push and Shove ed è il frutto di un processo di scrittura iniziato ormai più di due anni fa. Prodotto da Spike Stent e da Diplo, Push and Shove spara le cartucce partendo da Settle Down scelta curiosamente come singolo di lancio. Looking Hot è una virata dance-oriented da far rimpiangere persino l’ultima Madonna. Cassa dritta a dirigere anche la successiva - più corale ma ugualmente sciocca - One More Summer mentre la titletrack, rimanendo in zona club, sfoggia tutta la tamarraggine di scuola Major Lazer. Dopo un poker ad altra concentrazione dancey si passa alla ballad di turno - corretta da quasi impalpabili effettini elettronici - Easy che potrebbe appartenere ad una qualsiasi teen-disney pop act (si replica poi con mano sul cuore in Undone). Il resto del disco è composto da nonimato né carne né pesce da skip automatico (Gravity, Undercover e la passabile Dreaming The Same Dream) e sussulti jamaicani (Sparkle). Ad aggravare la situazione si aggiunge il peso di brani che spesso durano più del dovuto, magari allungati con inserti raggae-dancehall. Push and Shove è il tentativo disperato di una bandbrand che si rifiuta di invecchiare, a costo di risultare ridicola. (4.2/10) Riccardo Zagaglia

Numero 6 - Dio c’è (Urtovox, Ottobre 2012) Genere: indie, rock C’è un filo logico musicale costante in tutti i dischi dei Numero 6: la loro è una strada che si muove da sempre su una caratterizzazione melodica ben definita e accentuata dalla vocalità inconfondibile di Michele Bitossi. Dio c’è, quarto long playing della band genovese, non fa eccezione: costruito sulle consuete linee a cui il gruppo ci ha abituati in dieci anni di attività riesce a scavalcare di netto il precedente I love you fortissimo grazie, soprattutto, all’effettiva quantità di pezzi dal pop ben riusciuto, arrangiati d’istinto più che cesellati, incattiviti o dolci che ci risultino. Un disco di canzoni che sanno come non risparmiarsi, forti della peculiarità del loro autore senza fronzoli, lo stesso Mezzala Bitossi che in tempi già ben sospetti di bravura scrisse quel suo indimenticabile verso che si fece poi motto “io non faccio poesia, verticalizzo, e vado al sodo”. Andando al sodo, infatti, si apre questo nuovo lavoro, più precisamente al grido grezzo-romantico di “buongiorno favola” in una delle più riuscite canzoni dell’intero repertorio della band dal titolo - tutto inevitabile e disarmato - di Mi arrendo. Dio c’è è un nuovo prag86

matico discorso amoroso, un nuovo passo ragionativo di Bitossi che lavora su un sé stesso che è naturalmente troppe cose, troppe spinte che faticano a restare tutte insieme e che devono fare i conti l’una con l’altra per sfangarla in quell’animo inquieto che tutte le contiene. Musicalmente vivace negli arrangiamenti - che oscillano tra la ballata e l’elettrico - l’album è impreziosito dai tanti pezzi importanti: oltre alla già menzionata Mi arrendo, svettano Low cost, Sessantasei e il vero gioiello del disco: Un mare, che vede la naturalissima partecipazione di Colapesce (il brano pare scritto apposta per lui). E’ neorealismo musicale ben distante da quello del miglior Max Pezzali, e va benissimo così: Bitossi è una sorta di Paolo Nori della musica italiana, perfeziona album dopo album questa sua narrativa pensata ma non scritta in lingua parlata, tutta ricca di ragionamenti poco filtrati che possono piacere come allontanare per sempre. Peccato per le voci femminili che appaiono in due pezzi - une passante in A chi è infallibile e Giulia Sarpero in Storia precaria - e che francamente non possono che lasciare perplessi. Per il resto, lo sapete, a noi i Numero 6, così fatti a modo loro, senza se e senza ma, piacciono eccome. (7.2/10) Giulia Cavaliere

Oren Ambarchi - Sagittarian Domain (Mego, Agosto 2012) Genere: kraut Oren Ambarchi sembra sempre più dedicarsi alla rielaborazione del periodo che scavallò i Sessanta psichedelici e che diede il via ai Settanta progressivi e cosmici, nella radice tedesca, in particolare. Già segnalavamo in Audience Of One, qualche mese fa, “la mastodontica fuga jam” di Knots, mezzora di ipnosi rock krauta dondolante tra Can e Neu!. Sagittarian Domain, nome dell’album ma anche dell’unica traccia contenuta, di una mezzora di durata, è né più né meno (finale cameristico con archi a parte) un’ennesima cavalcata motorik alla Faust, di quelle che riempivano il periodo meno battuto e ascoltato della band (da fine Settanta), e da cui poi i tedeschi hanno ripreso il discorso nei Novanta, con la chiara preponderanza delle percussioni pesanti di Zappi. È interessante fare ipotesi sul perché un musicista / compositore, abile nel fervore rock quanto nelle meditazioni elettroacustiche, si concentri tanto sul kraut e sull’ipnosi motorik. Non c’è la risposta ma una proposta: la macchina rock inventata da Neu!, Faust, Cluster, poi portata avanti da This Heat e decine di altre entità è un metodo di lavoro, oltre che una “forma”, un risultato. Il motorik è


un sistema di invarianti che permette di lavorare sulle sofisticazioni delle sfumature, che però sono il vero shifting meditativo. I Neu! facevano esperimenti sulle velocità di riproduzione, e sulla trasformazione del nastro inciso come materiale di partenza. Uno come Ambarchi non può che trovarsi a proprio agio in una stanza con cotanta compagnia, e mettersi a lavorare divertito sui timbri, dentro la ripetizione. (6.8/10)

potenzialità e allo stesso tempo le mortifica. E’ un ridimensionamento che avrà senso solo se preluderà ad una nuova partenza verso nuove direzioni, magari dopo aver rigenerato quell’ispirazione che da un pezzo sembra essersi appannata. Altrimenti questo disco sarà ricordato come il canto funebre prematuro di una carriera che ha più promesso che mantenuto. (6/10) Stefano Solventi

Gaspare Caliri

Patrick Wolf - Sundark and Riverlight (Bloody Chamber Music, Settembre 2012) Genere: pop rock Lo scorso anno chiudevo la recensione di Lupercalia concedendomi il beneficio del dubbio circa il declino apparentemente inarrestabile del neanche trentenne Patrick Wolf. Forse le mie speranze sono state esaudite. O forse no. E’ successo che con lo scoccare dei dieci anni di carriera per il musicista inglese è arrivato il momento di fare un bilancio e valutare la bontà delle coordinate. Questo Sundark And Riverlight somiglia proprio ad una cesura, lascia intuire voglia di smaltire un po’ di scorie assieme alla zavorra di decisioni non troppo felici e anche piuttosto ingombranti. Si tratta di un doppio album che raccoglie sedici tracce selezionate da Wolf stesso (nel primo dischetto quelle più cupe, nel secondo quelle più solari), riarrangiate in senso traditional folk e spesso sbilanciate sul versante cameristico (violino, dulcimer, fiati...), una veste peraltro già collaudata e apprezzata in tour. Se da un lato il piglio da crooner risulta enfatizzato come non mai, dall’altro i brani rivelano una notevole anima cinematica (London, Hard Times e Overture su tutte). E’ un bell’ascoltare insomma, ma i motivi di piacere e interesse si fermano appunto ai preziosismi della confezione. In questo senso Wolf scegliendo questa posizione di retroguardia, la deliziosa gelatina cameristica che dicevamo, non ravviva affatto quell’epica post-industriale licantropesca (un nipotino sperso e struggente di Dickens e Poe) che così tanto ce lo aveva fatto amare agli esordi, anzi ne porta a compimento il processo di neutralizzazione. A ben vedere quindi, al di là dell’apparente paradosso, questo disco non si discosta di molto dal predecessore. E’ la stessa smania di ostentazione sotto altre vesti, scesa dal piedistallo synth-pop per sfilare a bassa velocità sull’auto d’epoca - tirata a lucido grazie ai servigi dei Real World Studios - con lo scopo di raccogliere quanti più sguardi d’ammirazione possibile (è presumibile che non mancheranno). Ma poi, Mr. Wolf? E’ un lavoro insomma che mette in evidenza tutte le sue

Paul Banks - Banks (Matador, Ottobre 2012) Genere: pop rock La scelta di scartare lo pseudonimo Julian Plenti - con relativo ep di inediti e cover a suggellarne l’epigrafe - e pubblicare col nome di battesimo non rappresenta per Paul Banks solamente - come ha dichiarato l’artista una scelta di semplificazione, anche perché il leader di una band come i newyorkesi Interpol (in procinto di ripubblicare per il decennale dell’uscita l’acclamato Turn On The Bright Lights) sicuramente non ha bisogno di maggior visibilità. Più propriamente può essere vista come una volontà ben precisa di accantonare le derive arty che permeavano buona parte del primo solista per avvicinarsi alla casa madre. Ne esce un disco che più che la continuazione di Julian Plenti Is... Skyscraper sembra il sequel di Interpol, perlomeno dal punto di vista delle melodie. Limitatissime le parti in acustica e le orchestrazioni, eccezion fatta per Lisbon, l’impianto strumentale è lo stesso della band ma con una sola chitarra elettrica - la seconda è sostituita da tastiere - con rari parti in distorto. Il lavoro parte bene con le prime due tracce - l’opener è la nota The Base uscita a metà agosto -, ma si perde con Arise Awake e Young Again, passi falsi che non restituiscono adeguato impatto ai testi. Un probabile strascico della collaborazione in una traccia del disco di El-P si ha in Another Chance, il brano più sperimentale del lotto, con una impostazione quasi hip-hop sia nei campionamenti delle voci che nel beat di percussioni opposti a pianoforte e chitarre. Il finale regala i due pezzi più riusciti, la synth-pop oriented No Mistakes e Summertime Is Coming, già edita nell’ep di giugno. Non c’è innovazione in Banks, piuttosto un tentativo di riportare la wave ad un livello più accessibile e a tinte più chiare. Oltre a una personalità che a detta di molti potrebbe esprimersi molto al di sopra di questi standard. (6.3/10) Andrea Forti

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Propagandhi - Failed States (Epitaph, Settembre 2012) Genere: Hc melodico Inquadrare i Propagandhi e riconoscerne la storia è il primo passo per entrare, testa e cuore, in un disco come Failed States. Un volo radente lungo il percorso artistico e sociale di un gruppo che per molti anni ha rappresentato l’ala anarchica, rivoluzionaria e movimentazionista dell’Hardcore Melodico, più di quanto lo siano stati i NOFX, da sempre considerati padri della scena. Schierati, anzi schieratissimi, autori di alcuni fra i testi più intelligenti e taglienti di tutta la storia HC, Canadesi di nascita ma americani d’ispirazione sin dalla loro fondazione, nel 1986, ventisei anni spesi negli squat di mezzo mondo, tra la loro attività di musicisti e quella di discografici. E’ infatti loro la G7 Welcoming Commitee Records, etichetta Do It Yourself che tra gli altri ha prodotto Naom Chomsky, i Subhumans, GregMacPherson, Ward Churchill, Howard Zinn e gli International Noise Conspiracy. Artisti e letterati decisamente molto antagonisti. How To Clean Everything pubblicato dalla Fat Wreck Chords di Fat Mike (NOFX) nel 1993 rimane ad oggi una delle massime espressioni dell’hardcore melodico mondiale, per musica, esecuzione, stop and go e forza socio-politica. Insomma, un classico inarrivabile. Ed infatti dal 1993 in poi i Propagandhi hanno intrapreso una parabola discendente, fatta di dischi altalenanti, cambi d’etichetta, troppa politica e poca musica. Scelta rispettabile, sia chiaro, ma l’equilibrio portante tra denuncia sociale e musica d’impatto, una volta perso, ha evidenziato grosse lacune. I Propagandhi oggi hanno poco da dire e producono un disco che è la fotocopia un po’ sbiadita e molto imbolsita del precedente (e già noioso) Supporting Caste. Certo, l’hardcore melodico è per definizione “musica immobile”, basata su pochi e chiari concetti (chitarre hardcore, melodie accentuate, stop and go, velocità di esecuzione, potenza) difficilmente modificabili, ma da qui a scivolare in una fanghiglia fatta di Emocore e suoni Iron Maiden (avete letto bene) ne passa. Prodotto dalla Epitaph, e non più per G7 Welcoming Commitee (mancanza di fondi), ovvero da un colosso d’argilla del punk/hardcore, l’album manca l’obiettivo fin dall’omonima Failed States e riflettete sul fatto che un’hardcorepunk band non può permettersi suoni così pesantemente metallici, senza mostrare il fianco a critiche spietate. Devil’s Creek sta più ai Judas Priest che ai maestri NOFX. Peggio ancora Rattan Cane, con un break iniziale ai confini con il post-core, che in assoluto non è un male, ma è annichilente se pensiamo ai Propagandhi come artisti perfetti nell’arte della melodia scattante. I 88

difetti emergono, in pop up, canzone dopo canzone, dimostrando una pericolosissima omogeneità e un suono, alla lunga, troppo legnoso. (5/10) Mario Ruggeri

Putiferio - LovLovLov (Macina Dischi, Giugno 2012) Genere: noise-rock Era un cazzotto in faccia pieno di livore e rancore, come da titolo, il precedente Ate Ate Ate; lo è ancor di più questo ritorno in cui all’odio allitterato il quartetto padovano sostituisce una sorta di amore negato, altrettanto violento e incompromissorio. La dipartita di Favero, stavolta solo dietro il bancone, non ha inciso minimamente sul portato della band, ancor più furiosa negli assalti straight ed elaborata nella costruzione delle trame sonore. Trame che, come nella miglior tradizione del “nuovo noise italiano” riprendono la lezione dei mostri sacri del genere - nel caso specifico, quelli nascosti nelle pieghe dei cataloghi Skin Graft e Touch & Go - ma ne esaltano la violenza personalizzando e attualizzando la proposta. Il post-core genetico del quartetto assume dunque toni e screziature sempre diverse, mantenendo in nuce ferocia e dislessia ritmica. Ma inserendo stacchi e curve a gomito, si crea nell’ascoltatore una sorta di vertigine: che siano i controcanti di Amazing Disgrace sul drumming tribale della new-entry Luca Zamigna o il quasi industrialwave virato disco in disarmo di Loss Loss Loss, i singhiozzi quasi no-wave sciolti nell’acido della dilatazione avant di True Evil Black Medal o l’ossessività spigolosa, ripetitiva e a pieno regime di Can’t Stop The Dance, You Chicken! I quattro con Lov Lov Lov hanno messo su un disco viscerale ed emotivamente instabile, ma molto più ricercato, raffinato ed elaborato di quello che a prima vista si potrebbe pensare. Buttate un occhio ai testi, poi, per concludere in bellezza e avere la certezza che, sì, ci mettono un bel po’ per uscire con un lavoro nuovo (quattro anni sono un secolo, oggigiorno), ma quando lo fanno dimostrano di essere tra i primi in Italia. (7.2/10) Stefano Pifferi

Rangda - Formerly Extinct (Drag City, Settembre 2012) Genere: impro-rock Tanto non c’era piaciuto False Flag, l’esordio di un paio di anni addietro, che questo Formerly Extinct ci pare oro colato. Se all’epoca la “holy pagan union” di Chris Corsano, Ben Chasny (Six Organs Of Admittance) e Sir


Richard Bishop c’era sembrata quasi scollata, attenta a dimostrare al mondo la propria capacità (individuale) di “fare” musica perdendo di vista l’ascoltatore (più o meno colto) e il senso del tutto, questo ritorno ci appare più genuino e sentito. Non più intelligibile, sia chiaro. Ché i tre sono sempre lì, cervellotici a volte ben oltre la norma, a ricamare, devastare, spostare i paletti, mischiare le acque, intendere una cosa e partire verso un’altra. C’è però di base una maggiore coesione interna al disco in nome di un rock che diremmo quasi math, se non temessimo di venire pesantemente insultati dai tre. Eppure le frasi di chitarra messe in atto dai due chitarristi - e il drumming quasi controllato e regolare di Corsano - vanno proprio in quella direzione: le scale vertiginose dell’opener Idol’s Eyes, sempre pronte a sciogliersi verso rock, blues, impro; il crescendo quasi shellacchiano di Plugged Nickel coi suoi sfasamenti chitarristico-ritmici; l’etno-rock di Majnun, retaggio made in Bishop incastrato dentro strutture regolari, prima di implodere in estasi quasi noise; gli intarsi in stop’n’go di Goodbye Mr. Gentry, spruzzati di malinconia paesaggistica. Molto in Formerly Extinct rimanda a ciò che citavamo sopra, ma la matrice è sempre lì per essere stravolta e per stravolgere chi ascolta. Come nel caso dell’unico pezzo realisticamente lungo dell’albo, Silver Nile, una suite bishopiana nel midollo, capace di evocare tempi lontani e spazi aperti, giocando con lo spartito e l’emotività, e che, seppure sia quella più scontata e attesa da trio, lascia lo stesso a bocca aperta. Ammainata la falsa bandiera, i Rangda muoiono e rinascono a nuova, vecchia vita. (7/10) Stefano Pifferi

Ricardo Villalobos - Dependant And Happy (Perlon, Agosto 2012) Genere: Minimal Se c’è uno che può fregarsene di evolversi o seguire i tempi e può permettersi di esprimere sempre e soltanto un sound proprietario, impermeabile e pressocché immutato nel tempo, quello è Ricardo Villalobos. La sua minimal è la minimal per eccellenza, nella sua forma più compiuta e genuina, la quintessenza di uno stile dance che fa un monumento all’eleganza: l’arte di eliminare il superfluo, i meccanismi immediati e le strutture di facile impatto e dimostrare che anche l’essenziale può esaltare. Una discografia pochissimo dinamica ma dove ogni album (5 personali dal 2003 ad oggi) ha un’identità marcata e degna di esistere, sempre ricca di sfumature e dettagli di stile che tengono lontana la noia. Nonostante ciò, il Villalobos che si presenta oggi in De-

pendant And Happy ha un volto diverso e vari segnali di smarcamento da ciò che il pubblico è abituato a ricevere. In parte - ed era prevedibile - è l’effetto diretto delle recenti esperienze di rework con Max Loderbauer, che han risvegliato nel dj cileno un nuovo spirito sperimentale: per certi versi i momenti più sorprendenti qui son proprio brani come Die Schwarze Massai e Mochnochich, che si crogiolano su metodi glitch e spazi dub (che in realtà potremmo definire deep) finora abbastanza estranei al suo stile. Meglio ancora Das Leben Ist So Anders Ohne Dich, un mantra autoritario figlio dei D.A.F. ripetuto su uno sfondo di suggestione e attesa che mai incontra l’epifania della cassa (e per questo doppiamente soddisfacente). Non esattamente la svolta intellettuale che invece abbiamo osservato su Alex Under (qui restiamo sempre saldamente piantati entro la dimensione tecnica), ma comunque un restyiling che sa guardare più in là della visione strettamente dance. Non tutte le novità però sono riconducibili ai progetti RE: ECM e Zug: Reshaped. Su pezzi come Grumax e Kehaus, ad esempio, Villalobos compie un movimento lieve ma deciso, dal suo minimalismo dell’essenziale a qualcosa di molto più vicino alla tech-house per club, vale a dire dall’arte del sottile alla merce esplicita. Qualcuno parlerebbe di svilimento della filosofia e abbandono alla superficialità, e non avrebbe nemmeno tanto torto. Accanto a mosse più commerciali, però, resistono esempi del dinamismo che di lui sappiamo: Tu Actitud è un ondeggiare acido pungente lungo un cantato beffardo che è quasi funk (malato, urticante e visionario, ma funk), I’m Counting è una lezione di stile basata su agilità e microbeat, Put Your Lips sa chiudersi tanto a fondo in sé stessa da sfociare nell’autosuggestione e Zuipox fa da affondo decisivo nell’anima scarna della minimal, rinfrancata dalle intuizioni del piano. Considerando che Dependant And Happy non è un album ma una serie di uscite raggruppate su tre vinili, è logico accettarne la frammentazione. Più che un monolite compatto, Villalobos ha prodotto stavolta una nebulizzazione di stimoli validi su più fronti. Manca forse la progettualità che avrebbe vestito il tutto di una luce più autorevole, magari a volte si cede alla tentazione del mestiere, si può mal digerire la fruibilità di un ascolto che supera l’ora e mezza, ma nel complesso parliamo di un universo sonoro che resta sempre ricco di spunti d’interesse e degno del tempo speso. Lui non è un filosofo, ma uno specialista. Su scelte e formalismo puoi discuterne quanto vuoi, ma l’efficacia estetica è sempre fuori discussione. (7/10) Carlo Affatigato

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Rival Sons - Head Down (Earache, Settembre 2012) Genere: hard rock Ciò che sta accadendo in America è ormai abbastanza chiaro: nouvelle vague, o meglio, new wave del roots rock a stelle e strisce, negli anni ‘90 confinato a musica da inguaribili passatisti ed oggi invece risorta a dignità culturale dell’America bianca. Un lungo percorso che Rick Rubin iniziò proprio a metà del decennio più triste della storia del rock, portando alla Def Jam i Black Crowes, Johnny Cash e i The Four Horsemen. E.Rubin, produttore e talent scout, aveva intuito il potenziale discografico di un suono che era parte integrante della “white trash culture”, del sound scarno e radicale del southern rock, del blues e delle divagazioni acido psichedeliche. Oggi, da Band Of Horses a Mumford And Sons, passando per la divinizzazione dei White Stripes, e grazie anche allo straordinario lavoro di Bon Iver e Fleet Foxes, ciò che sta tra CSN&Y e i Lynyyrd Skynyrd, tra il folk e il blues, tra il classic e l’hard rock, è talmente sdoganato da essere manifestamente hype. Come se il rock americano avesse nuovamente solcato la storia della musica popolare. E in questo solco è cresciuto il seme dei Rival Sons. Un passo indietro per ricordare come nel 2005, in Inghilterra, e precisamente grazie a Give Me The Fear dei Tokyo Dragons, si sviluppò una fulminea carneade di classic rock band, egualmente ispirate da Rainbow, Thin Lizzy, Led Zeppelin e Free. Una nuova scuola britannica, che non diede mai i frutti sperati, ma lasciò agli archivi alcuni album degni di nota. A fasi alterne, la scena si trascinò stancamente per tre anni, tra tentativi improvvisati e poco riscontro di pubblico e proprio alla fine della parabola discendente, comparvero i Rival Sons. Loro, californiani, gruppo centrale della scena neo-classic, erano la risposta US allo strapotere degli irlandesi The Answer. Loro erano la next big thing. All’epoca del loro esordio, scrivendo per la rivista Rockerilla, sottolineai come due erano gli elementi d’interesse intorno al debutto del quartetto di San Francisco: il primo, prettamente musicale, dato dal felice connubio di scuola inglese (Led Zeppelin, Cream e Free su tutti) e scuola Americana, con il suono anfetaminico e grasso dei Mountain, in primo piano. Il secondo, squisitamente discografico: i Rival Sons rappresentavano il primo caso di divagazione e di approccio conservatore ad opera della Earache Records, da sempre etichetta di sperimentazione in ambito estremo. Una scelta dettata dal business, va da sé, ma indubbiamente spinta da un’intuizione: il classic rock stava tornando. E’ nata in questo contesto la storia dei Rival Sons, una band che in ogni successivo disco ha cercato di completare, amalgamare e rendere credibile 90

un percorso musicale pericolosamente al confine con il “nostalgic rock” degli anni ‘70. Pressure And Time, secondo disco del gruppo, era il punto di equilibrio sotto il profilo musicale, ma mancava ancora della sporcizia necessaria che rendesse il rock abrasivo. E’ questa l’arma in più di Head Down, disco importante, di grande impatto e anche un po’ paraculo. Un disco chiamato, senza troppe sorprese, totalmente dedito all’arena rock e impreziosito di alcune strategiche scelte produttive. A cominciare dalla presenza di Vance Powell, producer di White Stripes e Kings Of Leon. Il cerchio si chiude. E infatti Head Down è un gioco silente di strati zeppeliniani, come You Want To, Until The Sun Comes (con un andamento alla Bron Y Aur) ma aggiornati al suono più commerciale e ammiccante soprattutto dei White Stripes, soprattutto in Keep On Swiming e Wild Animal. Un compromesso? Può essere, ma serviva un linguaggio mediato ai Rival Sons per poter comunicare con le nuove generazioni senza perdere la propria identità. Una scelta parzialmente limitante, ma efficace. E’ chiaro come i veri Rival Sons siano tutti in Run From Revelations, un’esplosione di colori dipinti da un Paul Kossof d’annata, ma anche dai Rainbow, da Plant, dai Traffic più blues e dai Cream di Wheels Of Fire. E’ altrettanto chiaro come una scelta conservatrice rischiasse di trascinarli nel gorgo del revival rock. I Rival Sons hanno saputo scegliere nel modo più giusto, trovando quel famoso equilibrio in grado di sostenere la loro carriera. Il risultato è Head Down, un disco che canzone dopo canzone, si rivela a suo modo “storicista” ma altrettanto attento alla modernità. E’ questo che fa dei Rival Sons una band, oggi, più unica che rara. (6.8/10) Mario Ruggeri

Rue Royale - Guide To An Escape (Sinnbus, Marzo 2012) Genere: folk-pop “Scriviamo musica che parla della vita ma anche di dove siamo, di dove stiamo andando, di quello che stiamo cercando. Scrivere musica significa mostrarsi attraverso le proprie emozioni”. A parlare sono Brookln e Ruth Dekker, marito e moglie nonché titolari del moniker Rue Royale. Due che bolleresti seduta stante come le persone più scontate sulla faccia della Terra. Insomma, mica ci volevano loro per spiegarci che il senso della musica sta nell’intercettare l’arte di chi suona da parte di chi ascolta, men che meno per sottolineare il bagaglio emotivo che tutto il processo si porta appresso. Eppure, nel caso della coppia con base a Nottingham, l’ovvietà che cogli in certi interventi, quella stupefacen-


te ingenuità tautologica, sembra l’unica via percorribile. Una naturalezza sgombra dai ruoli preimpostati che i due guadagnano in primis attraverso le dinamiche di coppia (“Cerchiamo di differenziare i coniugi Dekker dai Rue Royale e lo facciamo tra una città e l’altra, magari in un bar, per un paio d’ore. Cerchiamo di essere i Dekkers per almeno un po’ di tempo, tutti i giorni”) e poi con il folk-pop minimale che propongono. Quest’ultimo essenziale nelle melodie, nella strumentazione (chitarra acustica, grancassa, qualche percussione, pianoforte/tastiera e poco altro) e nella scrittura, almeno quanto naturale e senza sovrastrutture è il rapporto personale che lega i due musicisti. Parliamo di folk pop ma potremmo anche chiamarlo blues. Per lo meno per certe malinconie che emergono da brani come Flightline o Crater, esemplari nel definire un immaginario acustico solo con le due voci e la chitarra. Contraltare di un istinto pop che nel precedente - omonimo e autoprodotto - album della formazione badava all’auto-sussistenza o poco più e qui invece abbraccia una varietà strumentale maggiore, una nuova consapevolezza formale. Suggestioni che nell’iniziale title track e nella successiva Halfway Blind definiscono un po’ i canoni dell’attuale suono Rue Royale: voci suadenti, pianoforti a scomparsa, fingerpicking e un’armonia di fondo che soppesa ogni dettaglio in funzione dell’insieme. Il risultato è un disco di sostanza che, pur non scoprendo nulla di nuovo, ha il pregio di costruire un immaginario in cui è piuttosto facile ritrovarsi. (6.9/10) Fabrizio Zampighi

Schneider TM - Costruction Sound (Bureau-b, Settembre 2012) Genere: Industrial Abbandonati da un pezzo i panni di musicista indietronico in combutta con l’amico KPT.Michi.Gan (di cui ricordiamo piccoli classici euro anni zero come Frogtoise, Reality Check, e specialmente The Light 3000, la famosa cover degli Smiths che tanto piacque al compianto John Peel), Schneider ™, ovvero Dirk Dresselhaus si è dedicato a una serie di collaborazioni noise-based tra cui il progetto Angel con l’ex Pan Sonic Ilpo Väisänen (attivo dal 2002), Mr. Schmuck’s Farm con Hildur Gudnadottir (sempre giro Pan Sonic ma anche Lost In Hildurness e Múm) e Real Time con Reinhold Friedl degli Zeitkratzer. Ora che la prestigiosa Bureau-B - punto di riferimento per vecchi e nuovi musicisti fieramente kraut (Faust, Cluster, Kreidler, Tarwater) - lo ospita per il primo lavoro completamente solo, Dirk torna a firmarsi con il moniker preferito e pubblica Costruction Sound, un album d’instustrial isolazionista tra field recording ed elettronica che pare

uscito da un vecchio catalogo World Serpent, da label come Sentrax o Durtro e, in generale, dalle produzioni del giro 90s di Mick Harris (Lull), Justin K Broadrick, Kevin Martin (God), James Plotkin, Nurse With Wound ecc. Alla maniera degli Annual Report dei TG, il lavoro rappresenta il resoconto di un’esperienza. Dal 2002 al 2010, durante gli otto anni di residenza a Prenzlauer Berg, Berlino, il tedesco si è trovato a convivere con il rumore degli operai e delle macchine attivi nel quartiere in uno degli infiniti interventi di trasformazione edilizia della città. Aggiungendo sostanzialmente dei droni in ogni brano, quei clangori hanno finito per dipingere un affresco di plumbea germanicità, tra fantasmi del passato, un senso d’incombente apocalisse e sporadici momenti di decompressione à la Mika Vainio. Valido. (7/10) Edoardo Bridda

Scott Kelly - The Forgiven Ghost in Me (Neurot, Settembre 2012) Genere: dark folk Ascoltando questo terzo disco solista di Scott Kelly è facile intuire quali siano i difetti di un progetto che si dedica così apertamente alla messa in scena di un ritrovato tradizionalismo. Tuffarsi nel country’n folk fino alle radici, ma senza riuscire ad uscirne con argomenti totalmente rinnovati o piegati dalla propria personalità. Come fa anche Steve Von Till, suo compagno nei Neurosis, Kelly attinge a piene mani ai classici suoni della musica americana delle origini, ma non mostra nessun segno di contatto con il fermento pre-war di qualche anno fa, allacciandosi più che altro alle strade più roots del country, un terreno che probabilmente è più semplice da battere per uno che viene dal metal come lui. Rispetto ai diretti predecessori, lo scarto è dato dagli arrangiamenti più scoperti che sono merito dei The Road Home, formazione di strumentisti con Noah Landis (sempre Neurosis) e Greg Dale (ex Sorrow Town Choir). Quindi c’è spazio per le slides di The Forgiven Ghost in Me e In the Waking Hours che muovono nel modo giusto una tavolozza di base, che nelle mani del solo Kelly sarebbe stata fin troppo grezza. I riferimenti a Johnny Cash e Neil Young sono ovviamente quasi inevitabili, ma stavolta c’è maggiore maestria nel piegarli al proprio modo di cadenzare il folk scurissimo come la pece di Within It Blood e la marcia funebre e apocalittica di The Sun Is Dreaming in the Soul che copia parecchie cosette a Von Till stesso. Un disco più furbo e più di mestiere e a differenza dei predecessori anche più semplice da ascoltare. (6.8/10) Antonello Comunale

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Scott Kelly/Steve Von Till/Wino - Songs Of Townes Van Zandt (Neurot, Settembre 2012) Genere: country ’n folk Rispetto al disco tributo del 2001 Poet: A Tribute to Townes Van Zandt, questo approntato da Neurot ha il pregio di evitare quel taglio commemorativo che di solito si dà alle celebrazioni post-mortem. Tutto quel buonismo di facciata, quella parata di artisti che nel mentre si fanno anche autopromozione. Niente di tutto questo traspare in questo album dove i due pesi massimi dei Neurosis si affiancano a Scott “Wino” Weinrichper passare in rassegna il canzoniere di quello che Steve Earle definì: “the best songwriter in the whole world”. Tre canzoni per ciascuno, per nove brani riletti secondo le coordinate di ognuno. Una cosa risalta subito e si espone chiara in tutta la sua evidenza. Scura come la tenebra di mezzanotte, la performance di Von Till stacca quella degli altri due di diverse lunghezze e si presenta come un nuovo classico del folk rock più dark e maledetto. Già con i dischi solisti i termini di paragone erano stati quelli del primo Lanegan, reso in una coloritura ancora più fosca e gotica. Ora ascoltando queste tre cover che, di fatto, si vanno ad affiancare alla The Spider Song contenuta in A Grave Is A Grim Horse, la sensazione è che i momenti siano maturi a sufficienza per partorire i propri classici personali senza avere timori reverenziali di sorta. Sia che resti attaccato alla sei corde con la lirica versione di If I Needed You, oppure con una più che struggente Black Crow Blues, o che si calchi la mano nella cosmica più buia di Snake Song, Von Till si fa interprete più vero della poetica umanissima e mistica di Van Zandt, dell’uomo solo contro tutte le cose dell’universo. A confronto, gli altri due faticano non poco a stare su questa lunghezza d’onda e su questi livelli di intensità. Kelly è migliorato parecchio, ma è sempre chiuso dentro un recinto di coordinate abbastanza riconoscibili e questo lo rende convenzionale e mai troppo avventuroso. Wino poi è il più scolastico e scialbo dei tre e propone versioni scolorite, per voce e chitarra, di brani che nella versione originale restano classici indimenticabili come Rake, Nothin e A Song For. E’ arrivato il momento per Von Till di lasciar perdere le cattive compagnie. (7/10) Antonello Comunale

Skunk Anansie - Black Traffic (100% Records, Settembre 2012) Genere: pop rock The Cranberries, Garbage, Alanis Morissette e ora 92

Skunk Anansie... attendiamo giusto l’imminente album del comeback dei No Doubt e poi questo evitabile revival ‘90s del female pop-rock sarà completato. Probabilmente anche come conseguenza del nostro tipico ritardo, noi Italiani siamo bravissimi a mantenere vivi fenomeni ormai passati: è successo - album solisti compresi - sia con i Cranberries sia che con gli Skunk Anansie. L’album del ritorno Wonderlustre - che ovviamente ha trovato l’unica ancora di salvataggio nel degradato mercato italiano - mostrava inevitabilmente i segni del tempo su di una band che, per quanto sempre abile, aveva sepellito qualsiasi eccesso e capacità di sorprendere. Con Skin nuovamente capello-munita, gli Skunk Anansie tentano di sopravvivere con il quinto album Black Traffic, pubblicato con la partnership della 100% Records. L’iniziale I Will Break You riscopre l’esplosiva energia rock degli esordi senza scendere a troppi compromessi (anche se tutto appare comunque molto controllato). Si rivela però un caso abbastanza isolato all’interno della tracklist: già dal banale ritornello della successiva Sad Sad Sad, prevalgono brani pseudo-rock dal chorus saltellante/wannabe-giovane come il singolo I Believed In You, Spit You Out - con tanto di intervento dei prescindibili Shaka Ponk - e la ripetitiva Drowning. I ritmi rallentano nelle insipide I Hope You Get to Meet Your Hero (Gli archi iniziali riportano a Secretly, ma è solo un attimo) e Out Summer Kills The Sun. Il gioco funziona meglio quando i toni si fanno più epici come in This Is Not a Game. Poco importa se sul finale Cass si ricorda di essere un buon bassista, Black Traffic è il compitino di una band che ha chiaramente terminato le idee e la capacità di scrivere belle canzoni. Non è sempre necessario realizzare un disco per andare in tour... (4.9/10) Riccardo Zagaglia

Skye - Back To Now (Pias, Ottobre 2012) Genere: pop Tra i ritorni female late’90s del 2012 (Cranberries, Garbage e ultimi, non solo in ordine di tempo, i No Doubt) mancava giusto il comeback di Skye Edwards nei Morcheeba. I più attenti di voi si saranno accorti dell’errore contenuto nella frase scritta qui sopra, gli altri sono tranquillamente perdonati in quanto in pochi si ricordano dell’album Blood Like Lemonade di due anni fa che segnava la ricomparsa di Skye tra le fila dei Morcheeba, dopo un paio di album ancora meno memorabili senza la cantan-


te dell’East London. Due anni dopo ritroviamo Skye in versione solista alle prese con il terzo disco Back To Now, prodotto da Stephen Fitzmaurice (Metronomy, Seal e Professor Green) e realizzato con la fida collaborazione del marito Steve Gordon. Nonostante l’orrida e patinata copertina, Back To Now si difende discretamente nel suo spessore quasi impalpabile. Backround music da bar pseudo-ricercato: è chiaro che Skye Edwards abbia sempre amato le battute elettroniche lente e lo dimostra nell’accoppiata iniziale/ specchietto per le allodole Troubled Heart e Sign Of Life (Ace Of Base?). I ritmi però si alzano già con il riuscito singolo Featherlight e si trasformano presto in uptempo sintetiche che riportano alla mente i Goldfrapp mid-00s (Little Bit Lost) o i Ladytron con meno fascino (Every Little Lie), prima di svoltare nuovamente verso le coordinate smooth e le atmosfere da Morcheeba nel bel duo finale Dissolve e Bright Light. L’elettronica è semplicemente funzionale e utilizzata come impalcatura di pop songs che in più di una occasione faticano però a decollare (High Life, We Fall Down). Skye non ha subito il fascino delle evoluzioni che hanno segnato la musica elettronica nell’ultimo decennio preferendo continuare a viaggiare per la sua strada, accelerando inutilmente in alcune occasioni, rischiando così di bruciare quel poco carburante che è rimasto. (5.7/10) Riccardo Zagaglia

Solar Year - Waverly (Self Released, Luglio 2012) Genere: electro psych-pop Lo show di lancio tenutosi alla McGill Memorial Swimming Pool di Montréal fornisce un’ottima inquadratura del primo lavoro dei Solar Year, un disco che mai incalza, ma anzi mira all’esperienza sensoriale attraverso l’immersione sonora. Si parla di psych pop che incede con droni soffusi su distanti linee di synth e bassi profondi, con influenze new age e taglio post-moderno che sono un po’ i conduttori della scena cittadina - Grimes (alle backing vocals in Brotherhood), D’Eon (al suo apice creativo in LP) e Kuhrye-oo (passato quasi inosservato) - eppure Ben Borden e David Ertel guardano anche fuori dei confini del Canada. Quando si tratta di ritmi (Global Girlfriend, Night & Day, Pivot), il duo mantiene le impronte synth e certe campionature vocali dei Purity Ring, agli hook contorti di D’Eon preferisce una tribalità à la Dead Can Dance (resa per vaghezza meno esotica e più esoterica) o gli studio

tricks dei produttori di Fever Ray, Van Rivers & The Subliminal Kid. Il risultato spinge su toni ceremoniali e nenie sospese che attualizzano all’estetica mall-mystic il cupo immaginario bedroom-boschivo della voce dei Knife, e si garantisce così sufficiente personalità obliqua. Salvo commettere gli stessi errori in generica vaghezza ed inconsistenza artsy della Claire Boucher periodo Halfaxa (Currents, Vu U, Cardinal Points), o indulgere in una produzione a tratti remota ed eccessivamente lo-fi, Waverly trova compiuta realizzazione non soltanto nei singoli Brotherhood e Lines. In termini di potenziale, il buzz da blogosfera ha già molto su cui basarsi. (6.5/10) Massimo Rancati

Stealing Sheep - Into The Diamond Sun (Heavenly, Settembre 2012) Genere: psych folk Con due EP (What If The Lights Went Out, Noah & The Paper Moon) e un tour di spalla ad artisti del calibro di St Vincent, tUnE-yArDs e Field Music, le Stealing Sheep non arrivano certo sconosciute al disco di debutto. C’è anzi su di loro un hype non da poco che le vuole come “le Warpaint inglesi”, paragone sensato trattandosi di all-female band che fonde assieme generi differenti. Il cocktail sonoro del trio di Liverpool, indebitato allo stesso modo con l’ultima coda folk (First Aid Kit) e la prima ondata di psichedelia (Pink Floyd, Jefferson Airplane), trova in Into The Diamond Sun la sua consolidazione. Assottigliata la spuria lo-fi da produzione low-budget vista in precedenza, lo sforzo mira alla comunione dei vari apporti personalistici e appare qui orientato al controllo massimo, quasi concepito in un’ottica stripped-down. Synth analogici dagli echi Ladytron-iani, sontuosi effetti di chitarra, grancasse opache e handclaps, altri trick elettronici drogati ed inserti kraut a mo’ di ultimi Lower Dens vengono usati non come marchio di fabbrica ma come propulsore per i dinamici intrecci delle armonie vocali, con ogni elemento a prenderne a turno la guida. Il risultato suona equamente spettrale ed edificante, con una magia cinetica quasi medievale che va oltre gli ovvi riferimenti pagani e dona al set un gusto senza tempo. Abilmente eseguito, appagante nell’alternare sintesi catchy (The Garden, Shut Eye) a numeri più eleganti (Bear Tracks, tre canzoni in una e coda da quattro minuti al piano) e pur considerata una flessione nella parte centrale (Gold, Shark Song, Liven Up), Into The Diamond Sun fila dritto fra gli esordi più convincenti dell’annata. (7.1/10) Massimo Rancati

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Steve Bug - Noir (Poker Flat, Ottobre 2012) Genere: House Dopo vent’anni di produzioni impegnate in bilico tra minimal, techno e deep, Steve Bug è perfettamente in grado di giocarsi la questione album più sugli umori che sulla tecnica. In pratica è il naturale, affascinante passaggio che avviene puntuale quando si è pienamente padroni della materia e si iniziano a cercare nuovi stimoli dietro la superficie. L’abbiamo già osservato quest’anno in Distal e DFRNT ma anche Kid606 e Squarepusher, e Noir conferma i gustosi effetti prodotti da questo stadio di forma che prende spesso i producer amanti della qualità: l’album scorre, come da titolo, su un’atmosfera di eleganza misteriosa, collante tra tredici tracce che invece, stilisticamente parlando, offrono forte diversificazione dell’offerta. Quando c’è varietà il piacere d’ascolto è potenziato e si percepisce la disinvoltura con cui si passa dalla house in riflessione deep di Tell Me Why alle aperture di The Spiral Staircase (nenache troppo lontana dai Massive Attack), dalle reminescenze Chicago di No Adjustments alle punte acid che non guastano in Farewell Friend e nella kraftwerkiana Somewhere In The Night. Il filo conduttore noir invece è quello che ti permette di andare fuori schema più del solito, e allora arrivano il miraggio dubstep di Poison Of Choice e il classicismo jazzy di The Seventh Victim, ma anche una Moment Of Ease con Emily Chick devota sulla scia dei Little Dragon. Nessun pezzo davvero killer ma diversi momenti che funzionano in scioltezza (come Those Grooves), mosse sempre convinte e un professionismo che non manca mai alle uscite della sua Poker Flat (vedi anche il bell’esordio di Alex Niggemann uscito quest’estate). La mobilità estetica mantiene giovani e alimenta l’ispirazione, farne a meno è possibile ma poi vai a centrare un sesto album così. (7/10) Carlo Affatigato

System Of Survival - Needle And Thread (BPitch Control, Settembre 2012) Genere: House I System of Survival sono un duo tutto nostrano formato da Pietro ‘Bingo’ De Lisi e Alex Carpentieri, ex resident del Circo Loco di Ibiza, quindi non certo estranei all’ambiente club house. La loro attività di produzione comincia nel lontano 1989 con materiale per DJset, ma il primo LP arriva solo ora, sotto l’ala di Ellen Allien e della BPitch, etichetta conosciuta per le sue attenzioni alle produzioni made in Italy. Needle and Thread si presenta come un album promet94

tente sin dalle battute iniziali. Sul piatto ci sono ritmiche house classiche e casse avvolgenti, armonie essenziali e funzionali (vedi Lovebeat con le sue atmosfere chillout) e un uso intelligente del sampling vocale (come in una Nihil molto introspettiva che richiama all’orecchio sonorità 2-step). Buono anche l’esperimento fatto su Genny Casanova, con quello che sembrerebbe un dialogo di una soap giapponese ben editato per incollarsi al mood del pezzo, tuttavia il resto del prodotto soffre di un inaspettato calo stilistico, con le componenti drumming che perdono carattere e i synth di armonia che si fanno più confusi. Un pacchetto tutto sommato ben presentato, che vorrebbe avvicinarsi alle lezioni di stile e polso slow-techno di Paul Kalkbrenner, ma a cui in realtà manca quell’idea fondamentale e assuefacente che invece è sempre presente nelle produzioni del dj tedesco, identificando ogni traccia e portandola avanti con eleganza per tutti e sei i minuti. Senza pretese ma comunque funzionale per le aspettative che l’estero ha verso il Bel Paese, seguendo la scia già tracciata da nomi come Massimiliano Pagliara, Bottin e Deep88. (6.2/10) Loris Venegoni

Taken By Trees - Other Worlds (Secretly Canadian, Ottobre 2012) Genere: island-dazed dub-pop Victoria Bergsman si riconferma artista fortemente empatica che predilige gli influssi di viaggi e luoghi lontani ad ogni altra possibile fonte d’ispirazione. Dopo aver riflesso il periodo trascorso in Pakistan in East Of Eden (2009), l’ex voce dei Concretes sceglie le Hawaii per il terzo disco in studio sotto moniker Taken By Trees: Other Worlds è un vero e proprio concept album che punta al trasporto sensoriale dal grigiore della quotidianità occidentale ai colori vividi del paradiso tropicale. L’obbiettivo viene centrato egregiamente grazie ad un set senza soluzione di continuità fatto di jam dub-pop di per sè inappuntabili, costruite lungo pozze di synth in loop, chitarre steel ‘n’ slide, steady-beats reggae, groove languidi, percussioni etniche e - tecnica già in mostra nel precedente lavoro - campionamenti di suoni naturali. Complice inoltre l’esplorazione di un territorio musicale quale quello caraibico/balearico che da tempo vede gli svedesi come battistrada, la Bergsman trova - con l’aiuto della mano ferma di Henning Fürst dei Tough Alliance - dimensione mai così convincente per le sue vocalità composte e le viene naturale recapitare numeri standout a cui non è solita: Dreams (consigliato il recupero di entrambe le versioni extended instrumental e dubbed-


out presenti sul 12” singolo), la disco-balsamica Large, la marimba reggae I Want You e ancora Pacific Blue, che vede coinvolta l’intera gamma strumentale, xilofono, steel pan e fagotto compresi. Più efficace di altri dischi sulla falsariga quale il debut di Heavenly Beat, va però detto che Other Worlds non ne condivide la puntuale data d’uscita volta all’uso e consumo immediato e rischia quindi di vederne compromessa la resa a un paio di spin sull’onda dell’ultimo summer-hangover. Appuntarsi già ora di rispolverarlo dopo l’inverno. (6.8/10) Massimo Rancati

TEEN - In Limbo (Carpark Records, Agosto 2012) Genere: Dreamy psyche-pop Nostalgie adolescenziali - ed il bisogno di fare qualcosa in proprio, manifestato già nell’inverno del 2009 all’indomani dello hiatus dagli Here We Go Magic - hanno portato Kristina “Teeny” Lieberson a fondare le TEEN. Lasciato lo scorso anno definitivamente vacante il posto da tastierista al fianco di Luke Temple, la ragazza ha infatti riportato tutto a casa in quel di Brooklyn, reclutando le sorelle Katherine e Lizzie e l’amica d’infanzia Jane Herships (vista anche come folker sotto moniker Spider) per dare volto familiare ed organico alle sue aspirazioni fino a quel momento relegate ad una manciata di canzoni lo-fi. Son premesse da ennesima all-female band fuzzrock, ma si parla d’altro. Levigando le sonorità dell’EP Little Doods, le quattro portano nel full-lenght In Limbo un vaporoso, dreamy psyche-pop con reminescenze Paisley Underground. La formula, piuttosto semplice, gioca tutta su languide vocalità Blondie-style e sul pick di riff vincenti da lanciare in euforica ripetizione, da arricchire e far convergere man mano con chitarre stordite, layer di synth e tribalità elettroniche à la Telepathe, nonchè con l’immancabile - ma sottile - coltre di riverbero. Complice la produzione di un pezzo grosso quale Pete “Sonic Boom” Kember (Spaceman 3), i vari soundscape dronici mostrano una buona varietà, cura per i dettagli ed una manciata di validissime stand-out: la vorticosa marcia new wave in ossessione Suicide-esca Better, la ballata 60s proiettata nello spazio Charlie, l’ammiccamento alle Warpaint fatto coi synth Huh, ancora l’anthem dance-punk con bassline fissa Electric e l’ultra-psichedelica Why Why Why, con schianti percussivi e muro di chitarre turbinanti dal rimando facile a Lou Reed e Velvet Underground. A negare alle TEEN il famigerato debutto nel segno dell’instant classic sono i brani in coda (Unable, Roses

& Wine, Fire) che, dimenticando l’urgenza pop, riciclano idee già esposte contro le quali nulla può nemmeno una tracklist congeniata per rendere lampante ogni variazione di stile e tenere così alta l’attenzione. È una caduta da debutto. Ma di un debutto che sa di promessa. (6.9/10) Massimo Rancati

The Chevin - Borderland (, Settembre 2012) Genere: pop rock Provarci non costa nulla, chiami a raccolta i tuoi amici di sempre e formi una band con il più classico dei sogni di gloria annesso. Far musica cercando il successo o far musica in quanto spinti da un incontenibile flusso creativo? Gli inglesi The Chevin appartengono con ogni probabilità alla prima categoria, almeno a giudicare dall’album di debutto Borderland. Anticipato di qualche mese dall’EP Champion, l’esordio lungo di questi quattro ragazzi dello Yorkshire ha un obiettivo chiaro come la luce del sole: l’airplay radiofonico, magari cercando di scalzare i sempre più arrugginiti The Killers. I The Killers sono senza dubbio il grande punto di riferimento dei The Chevin: non è il solo singer Coyle Girelli ad avere un timbro simile a quello di Brandon Flowers, ma a sfiorare il plagio intelettuale è proprio l’impalcatura stilistica della band, fatta di tappeti di synth, aperture alla U2 (Love is Just a Game) e la classica alternanza di brani una volta epici (Drive, So Long Summer) e la volta dopo uptempo/festaioli (Champion, Colours). Se poi ci aggiungiamo le chitarrine acustiche folk-country tanto di moda (Blue Eyes) è chiaro che per i The Chevin la strada sia praticamente spianata, come testimoniano la guestata al Letterman nella puntata con Michelle Obama e la preseneza nel videogame FIFA13. Per carità, sono anche bravi in quello che fanno (vedi la title track tra Killers e Coldplay, passando per gli Arcade Fire) ma nel 2012 è decisamente poco edificante presentarsi con una proposta di questo tipo, così infarcita di evidenti riferimenti poco illustri. Borderland nel complesso è forse più apprezzabile di Battle Born, ma chi copia difficilmente la vince. (5/10) Riccardo Zagaglia

The Killers - Battle Born (Mercury, Settembre 2012) Genere: Pop rock Erano partiti bene i The Killers: il milionario debutto Hot Fuss riuscì a conquistare i più grazie ad un convincente incrocio radiofonico tra la nuova scena indie (Interpol) 95


e melodie da classifica (U2, Duran Duran...). Ad aggravare le cose non fu tanto la - a tratti riuscita - sbandata Springsteeniana del seguito Sam’s Town quanto le tentazioni e la produzione tamarra di Day & Age (ed infatti gli italiani hanno apprezzato...) per certi versi precursore della svolta grandeur-glitter-colourful intrapresa poi da altre band pop-rock dal soldo facile. Archiviata la pratica Day & Age sia Brandon Flowers che il batterista Ronnie Vannucci Jr hanno provato a tirare una riga e ripartire, il primo in modalità solista e il secondo con il progetto Big Talk. In entrambi casi nulla di memorabile. La seconda fase della carriera dei The Killers inizia con Battle Born (motto presente sulla bandiera del Nevada), un album che a livello di sound cerca di fare il punto della situazione, inglobando vari aspetti che hanno caratterizzato i primi tre lavori della band di Las Vegas. Il Boss modernizzato è sempre dietro l’angolo, soprattutto nei pezzi in grado di catalizzare in contemporanea sia l’epicità da stadio sia le inflessioni melodiche dai toni nostalgici (Miss Atomic Bomb, Runaways) sorrette da accompagnamenti acustici rinforzati da synth e riff elettrici (la titletrack). Battle Born non è un disco malvagio o stupido a tutti i costi, ma mostra evidenti limiti a livello di scrittura: Heart Of A Girl finisce per non andare da nessuna parte, Deadlines and Commitments si muove tra U2, ‘80s e un bridge da boyband anni ‘90 (emblematica in questo senso Be Still, con un arrangiamento da Sanremo 1992) mentre The Way It Was e la ballatona Here With Me hanno l’aspetto di riempitivi. Con una sfilza di produttori mai vista per un singolo album (Stuart Price, Steve Lillywhite, , Brendan O’Brien, Daniel Lanois e Damian Taylor... mancava giusto Rick Rubin) poteva venir fuori un disco privo di personalità, invece Battle Born è un lavoro 100% The Killers capace nei momenti migliori (Runaways) di non far rimpiangere il loro passato remoto, ma che fatica tantissimo a decollare. Accontentiamoci, poteva andare peggio. (5.4/10) Riccardo Zagaglia

The Late Call - Pale Morning Light (Tapete, Settembre 2012) Genere: folk-pop Nord Europa, terra di cantautori. The Late Call, al secolo Johannes Mayer, arriva da Stoccolma, e si presenta all’appuntamento con il terzo disco dopo un You Already Have A Home del 2010 e un Leaving Notes del 2009. L’immaginario è quello a cui siamo abituati già da qualche anno - più o meno dai tempi dei Kings Of Convenience, 96

se ci pensate - quando si parla di questo genere di produzioni: colori soffusi da abat-jour sulla finestra (il “pale morning” del titolo), brani dai riferimenti piuttosto eloquenti (Wandering Through An Empty Field, Keep Calm), video che ritraggono i protagonisti persi a camminare in solitaria in mezzo alla natura, magari osservando da lontano la città al tramonto. Con premesse di questo genere, non puoi che aspettarti un folk crepuscolare e predisposto al racconto e infatti è proprio così. Anche se nella sua terza fatica Mayer tende a creare qualche sovrastruttura più corposa rispetto al passato, ricercando una certa catarsi pop, scegliendo arrangiamenti più ariosi e lavorando di buona lena sui dettagli e sulle variazioni ritmiche (quest’ultimo, l’elemento più originale del disco). A testimonianza, il pianoforte innamorato dei crescendo à la Coldplay di No Easy Way Out o le batterie svogliatamente funk della già citata Keep Calm. Il resto è un artigianato coscienzioso e ben organizzato, capace persino di rinverdire qualche binomio chitarra-voce in stile Radiohead (periodo The Bends) in brani come Nothing Ever Does It o Everything In Its Place. (6.7/10) Fabrizio Zampighi

The Noisettes - Contact (MONO-RA-RAMA, Settembre 2012) Genere: pop Al debutto i Noisettes alzarono un polverone non da poco, aizzato da paragoni discutibili quali “la risposta inglese agli Yeah Yeah Yeahs” o “i nuovi Skunk Anansie” (per il semplice fatto di trovarsi davanti ad una ragazza di colore in chiave rock...). Già, rock, perchè il debutto What’s the Time Mr Wolf? era un discreto punto d’incontro tra la scena indie/garage rock revival e l’attitudine black (soul-blues) della leader Shingai Shoniwa. Due anni più tardi per lanciare la svolta pop del sophomore Wild Young Hearts fu scelto l’uptempo sbarazzino di Don’t Upset the Rhythm (Go Baby Go), un vero macigno in grado di schiacciare qualsiasi paragone rock-oriented sprecato ai tempi di What’s the Time Mr Wolf?. Si rifanno vivi tre anni dopo con Contact, un disco che dovrebbe togliere ogni dubbio e mettere definitivamente in chiaro le velleità commerciali del duo: con i patinati Shingai e Dan Smith ritratti in copertina in modalità afrochic, Contact sguazza furbamente tra il pop da classifica, il chitarrino funky e i passaggi vagamente Gossip (Let’s Music Play). La varietà non manca: se è vero che abbondano i tentativi di efervescente electropop (la Goldfrappiana I


Want You Back), le frivolezze di confine vicine a M.I.A./ Santigold e Rihanna (Love Power e il suo banale “I’m gonna love you every day. You take my breath away”) e l’insida immediatezza di Winner, trovano spazio anche sussulti disco/acid-jazz (Free), passaggi retro-soul da UK pop late-00s (Star e Travelling Light, vicina al jazz-pop) e l’improbabile folk di Ragtop. Contact è tutto e niente, ma soprattutto è un disco che si basa quasi interamente sull’interpretazione di Shingai Shoniwa, relegando in secondo piano qualsiasi aspetto prettamente musicale. (5.9/10) Riccardo Zagaglia

The Raveonettes - Observator (Vice Records, Ottobre 2012) Genere: wall-of-pop La carriera dei Raveonettes è sintetizzabile con una parola: costanza. Costanza sia a livello qualitativo - discografia tutta di buon livello, anche se manca il capolavoro - che di successo: pur senza hit - anche se Love in a Trashcan ci andò vicino - la top10 in patria e la zona top100 in USA sono sempre state alla loro portata, sin dall’esordio di nove anni fa Chain Gang of Love. A voler esaltare Sune Rose Wagner e Sharin Foo si potrebbe azzardare che siano stati tra i pioneri di un certo tipo di concetto di duo uomo-donna dark-hip tanto in voga negli ultimi anni e osservare come alcune delle peculiarità delle mode più recenti (dall’estate retro-fuzz, al jangle-pop passando per tutto il revival dream-gaze) siano state sempre presenti nella loro proposta sonora. Scritto da Sune Rose Wagner in situazioni precarie - dipendenze, depressione e gravi problemi alla schiena Observator, il sesto album dei Raveonettes, è il risultato di una analisi a 360°, a livello personale ma soprattutto esaminando le persone attorno a lui. Migliorano il precedente Raven in the Grave, consolidando le influenze Velvettiane filtrate dalla melodiosa sovrapposizione vocale (Young and Cold), le chitarre Jesus & Mary Chain e le atmosfere sunshine-pop (The Enemy). Riusciti anche il tiro 90s/MBV-addolcito (Sinking With The Sun e la conclusiva Till The End) e il singolo She Owns The Street, presenza obbligatoria in un’ipotetica compila “Remember jangle-pop 2k12” a fianco di DIIV, Wild Nothing e Only in My Dreams di Ariel Pink. I nove passaggi, impregnati di dolci armonie contrapposte ad atmosfere decadenti, di Observator sono tra le cose migliori mai realizzate dai Raveonettes: se non è il loro apice è sicuramente l’album che sintetizza nell’essenziale la cifra stilistica del duo. I Raveonettes sono così: quando c’è da stilare le classi-

fiche di fine anno in pochi si ricordano di loro, ma ogni volta che esce un loro disco viene sempre accolto come un vecchio amico che in fin dei conti mancava. (6.9/10) Riccardo Zagaglia

Thegiornalisti - Vecchio (Boombica, Settembre 2012) Genere: rock d’autore Basta guardarli, i Thegiornalisti: sembrano usciti tutti da quelle vecchie foto dei nostri papà in viaggio in Grecia - rigorosamente in autostop - nella seconda metà degli anni ‘70 e sono la perfetta immagine delle loro canzoni. Dopo un primo album omonimo, sorprendente per la capacità di mescolare con sapienza i suoni di un passato non solo italiano a cavallo tra 60s e 70s, la band romana torna con un lavoro dal nome assolutamente esaustivo: Vecchio. Vecchio come tutto ciò che ora si chiama vintage, vecchio come alcuni suoni che si aggrappano ai Beatles e sfondano le porte della contemporaneità con chitarre taglienti e stacchi assolutamente distanti da tutto ciò a cui l’indie italiano ci ha abituati negli ultimi anni. Vanno a inserirsi felicemente, i Thegiornalisti, in quel filone di musica italiana che attinge ed ha attinto a un preciso passato musicale: quello beat e quello del rock che fu, quello di gruppi come Lombroso e, soprattutto, I Cosi. Un ottimo miscuglio di spinte differenti, tale che in alcuni pezzi le direzioni si fanno confuse, prendendo una via e finendo in un’altra. E proprio mentre ti stai abituando a una melodia che ti appare semplice semplice, quasi un classico da canovaccio del pop italiano, ecco che si vira ancora e si finisce dove non ti saresti aspettato. Un disco di perfetta mescolanza che prende il vecchio e lo fa nuovo, rimettendo in gioco tutte le carte e scoprendone di invisibili. Versi che sembrano venire a galla piano piano perché Vecchio, rispetto all’esordio, manca della totale immediatezza poetica e sonora, è sgangherato, anarchico. E così si brucia più lentamente, più lentamente si conoscono le bellissime storie di Una domenica fuori porta, del singolone Guido così o della splendida title track. C’è di più: i brani di quest’album non sono solo racconti inusuali ma ragionamenti - come accade ne Il tradimento - o vagheggiamenti evocativi che si risolvono in immagini molto intense “ma tu brucia mio giovane cuore sotto il sole del cielo italiano..” o ancora “noi ce ne andiamo sulla spider su e giù per la via Aurelia..” mentre tra i The Libertines - Pioggia nel cuore - e John Lennon - I gatti - tra la filastrocca e il rock’n’roll, si consuma un bellissimo lungometraggio di musica.. nuova. (7.1/10) Giulia Cavaliere

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Twoas4 - Audrey In Pain English (Autoprodotto, Settembre 2012) Genere: Alt rock Dopo quasi due anni di lavorazione, i grossetani Twoas4 - ossia Oscar Corsetti e Alan Schiaretti - danno alla luce un disco d’esordio che colpisce fin da subito per la cura con cui è stato confezionato e disseminato di hook. Se la copertina sa come pungolare l’immaginazione, gli inserti del booklet sono ricchi e includono un racconto breve, fotografie e ritratti in carboncino realizzati dal poliedrico Corsetti. Tutte parti integranti dell’ interessante progetto di sonorizzazione di una vicenda d’amore dai toni drammatici, descritta attraverso immagini, parole e, naturalmente, musica. Le dieci tracce, registrate in presa diretta, sviluppano la narrazione a suon di schitarrate energetiche (Meds) e ballate noise (Light One), aperture potenti - financo apocalittiche (So Captured) - e una buona dose di feedback (Amazing Lie). L’intervento di Paolo Mauri (Afterhours, Le luci della centrale elettrica, Massimo Volume) al mixer e alla coproduzione suggerisce al basso linee post punk (If I Had Now) e sbatacchia certo noise rock à la Placebo (Le nuvole di Quinz) la cui vis ispiratrice è richiamata anche nel titolo della già citata Meds. Peccato solo che Schiaretti non sia Molko e che il suo cantato in “pain English” mostri spesso qualche limite. Ad esempio, nel confronto con le doti della vocalist Christina Lubrani complice di un improbabile duetto (Simplicity) dallo sconsigliabile effetto goth rock. Nel complesso, il disco è un prodotto di scuola alt rock teen-oriented che sembra trovare la propria strada con una travolgente The Big Joke posta in chiusura, brano in cui i Twoas4 riescono ad attribuire la forma giusta ai rumori (infine spogliati da certi manierismi) e alla narrazione (affidata stavolta alla voce grattante di Luminita Ilie). (6.8/10) Viola Barbieri

Ty Segall - Twins (Drag City, Ottobre 2012) Genere: garage rock E tre. Terzo disco nel giro di sei mesi per Ty Segall chiamato alla conferma dopo la bella prova di Slaughterhouse. Chiariamo subito, Twins non è un lavoro di passaggio né tantomeno un riempitivo utile a ingrassare il repertorio: Twins è il marchio Segall tirato a lucido, senza troppe sorprese, ma con in canna una manciata di ritornelli, al solito, killer. Sono i classici tre minuti tre per brano, una ripresa del discorso Goodbye Bread ma aggiornato alla vena power space rock che tanto è piaciuta in questo 2012. Sempre avanti indietro tra passato e presente, tra i ‘70 98

degli Hawkwind e l’amico Thee oh sees, e sempre efficace: perché è vero, il buon Ty si ricicla e finisce per essere tanto fedele a se stesso quanto alle regole del garage, eppure queste dodici tracce non perdono colpi, non annoiano e offrono parecchi spunti sopra le righe (Inside Your Heart, il pugno in faccia di They told me too, Handglams). Basta e avanza così, pur riconoscendo Twins un disco meno adulto di Slaughterhouse, e con meno effetti speciali. Ma è chiaro che Segall non ha fretta di invecchiare. E i kids ne saranno felicissimi, perché da queste parti c’è di che pogare e divertirsi (The Hill). (7.1/10) Stefano Gaz

Umberto Maria Giardini - La dieta dell’imperatrice (La Tempesta Dischi, Ottobre 2012) Genere: post-rock d’autore Musica e vita che si intrecciano: e come potrebbe essere altrimenti? Agile l’intenzione, capace di azzerare più di dieci anni di carriera a nome Moltheni in un battito di ciglia, solo per scoprire che alla fine, quello che hai vissuto, ce l’hai inevitabilmente sottopelle. Tutto necessario, anche perché nel nostro caso, stando a quanto ci dice il diretto interessato, si tratterebbe di rinascita umana più che artistica, una scelta portata a termine per evitare obblighi e giri connessi a quella sigla e affrontare il futuro senza fardelli. Un po’ come se rinchiudere Moltheni in soffitta avesse voluto dire abbandonare anche un sistema di automatismi (di scrittura, ma anche promozionali) legato al decennio precedente, in favore di una modernità in cui calarsi lasciando perdere tutti i corollari inutili. Fuor di metafora, scegliere l’essenzialità, a costo di essere poco disponibili ai compromessi. A dieta, insomma, come quella che il Nostro augura, nel titolo, a una musica (l’imperatrice) fin troppo sputtanata e sfruttata in termini di business, per non collassare col suo intero sistema. Il nuovo corso di Moltheni/Umberto Maria Giardini, più che una ripartenza - come invece era sembrato il progetto Pineda abbracciato poco più di un anno fa -, ci pare allora un consapevole aggiustare il tiro senza allontanarsi troppo da casa. A testimonianza, due pezzi da novanta come Il trionfo dei tuoi occhi e Genesi e mail, messi lì ad aggiungere caratura ma che non avrebbero sfigurato su uno qualsiasi dei dischi già pubblicati dal musicista bolognese d’adozione. Nobilitati, certo, da quelle chitarre elettriche che rappresentano l’elemento più evidente di rottura con il recente passato e che in certi frangenti fanno ripensare addirittura al mai troppo lodato Fiducia nel nulla migliore. Un prendere le distanze dal folk


acustico dell’ultimo Moltheni richiamando le istanze prog-psichedeliche dei già citati Pineda (i riff veloci de Il sentimento del tempo, i Pink Floyd annusati nell’intro di Saga, il dialogo magniloquente tra chitarra e batteria de Il desiderio preso per la coda) e certi arpeggi minimali à la Anna Calvi (L’imperatrice), ma anche un procedere spediti seguendo un percorso personale ormai ben definito: il chiodo fisso post-rock, unito all’attenzione per quella melodia che ha reso Moltheni quel che è (stato). Sopra a tutto, comunque, resta la capacità di saper creare musica evocativa, sospesa, poco legata a uno scrivere di parole e suoni alla maniera della tradizione cantautorale nostrana. Qualcosa che va oltre il semplice significato di ciò che si canta, che lavora moltissimo sulla forma e le fascinazioni (fondamentale, in questo senso, anche il lavoro di Cupertino in regia) anteponendo la visione di insieme ai singoli particolari, la complessità del “concept” alle singole parti. Quello che infine accade in un L’ultimo venerdì dell’umanità che col suo post-rock profondissimo, onirico e marziale rappresenta forse l’archetipo perfetto di una seconda vita artistica che potrebbe riservare gradite sorprese. (6.9/10) Fabrizio Zampighi

Uxo - HDADD - Ancient Future (Queenspectra, Luglio 2012) Genere: electrofunk HDADD e cioè la sindrome da deficit di attenzione, come a dire che Uxo non riesce a starsene tranquillo un attimo. Ed è così infatti, cosicché tra le già mille collab e progetti collaterali adesso bisogna segnarsi anche questo, che ha esordito a luglio con un LP frutto - come spessissimo accade per il nostro - di una jam in solitaria e tutta d’un fiato. In copertina palme e circuiti (ma in realtà si tratta di una struttura catturata a Berlino), come a dire gli anni Ottanta in una spirale di electrofunk che - suggeriscono puntuali le liner notes - si bagna ora Cosmic, ora italodisco, ora dubtechno, fino ai Daft Punk vangelisiani di Tron in Kameleon e Deepyou, e fino alla chiusa, una Loopin capace di mettere assieme la soulness distante di Burial, loop - appunto - e profondità delicatamente deep e inserti saturi di tastiere spacey a tagliare. Deficit di attenzione e tutto, ma Uxo è sempre bello concentrato, attento, essenziale, lo dimostra il fatto che Ancient Future, una marcia posta come intro che con quel piglio poteva durare anche 8 minuti, come tutte le cavalcate Kraut che si rispettino, resta abbondantemente sotto i 3. Una jam elettronica golosa, con numeri di particolare

efficacia come I See You, tormentone dal grip sinuoso speciale, ma da bere tutta d’un sorso. (7.1/10) Gabriele Marino

Vessel - Order Of Noise (Tri Angle, Settembre 2012) Genere: Goth / Tech La velocità con cui la Tri Angle ha raggiunto la prova di maturità è a dir poco sorprendente. Nasceva solo due anni fa, a cavalcare col suo triangolino capovolto l’onda separatista nei confronti della witch house, e all’inizio sembrava solo volerne offrire un volto un filo più intellettuale, quasi una semplice voce fuori dal coro. Invece i ruoli si son capovolti subito, la witch a un tratto è svanita come una bolla di sapone e, mentre tutti faticavano a reinventarsi con metodi più o meno classici, l’etichetta di Brooklyn era già pronta a sfoderare i suoi pezzi di pregio: Balam Acab sigilla con Wander/Wonder l’avvenuta svolta ambientale, oOoOO e How To Dress Well si rivelano artisti ben più completi di quel che si pensava e, arrivati all’anno in corso, vediamo sbocciare definitivamente giovani producers come Holy Other, Howse e Evian Christ, pronti a fare il passo avanti decisivo. L’ultimo arrivato è il 22enne Vessel, venuto ad aggiungere ulteriori tasselli al processo di stilizzazione astratta in corso tra le mura Tri Angle. Se fino a Holy Other la matrice goth/gore restava predominante, Order Of Noise ne oltrepassa i confini e raggiunge la necessaria consapevolezza tecnica per ampliare lo spettro espressivo. Primo candidato come padre spirituale della nuova fase è Actress, che con la sua techno fluida ad alto potenziale era entrato in sintonia col filone gotico già ai tempi di Splazsh, quando la sua Hubble era stata inclusa in Tapes, la compila a tema drag redatta nel 2010 dai Big Pink. Quello stesso pezzo qui è ripreso in Aries, che ne offre un orizzonte atmosferico più fedele alla linea IDM, semplicistico forse ma dall’effetto complessivamente buono. Non sono gli unici indizi che lasciano trasparire il background techno del soggetto: probabile che nessuna delle influenze sia diretta, ma il disco trasuda uno sfondo sfumato di techno dub Basic Channel (Temples), ambient techno targata Warp (Silten), acume berlinese (Scarletta) e spirito della prima Detroit (Court Of Lions), sul quale però ogni pezzo riversa un repertorio di visioni occulte che ne fa astutamente disperdere le tracce. La sensazione di contemporaneità (vedi le forme trap di Images Of Bodies - ed è ancora Kuedo) è smorzata da disegni di più sottile storicismo (come Lache, acidtronica narcolettica vicinissima all’ultimo Last Step) e il tutto offre una proposta fortemente trasversale, sicuramente 99


la più coraggiosa uscita finora nell’etichetta ormai cult del sentire gore. Eppure si fa fatica a dichiarare l’obiettivo perfettamente centrato, l’album spazia e sperimenta ma alla fine non avvolge, troppo preso a voler dimostrare le proprie potenzialità, a discapito del legame comunicativo. Mentre avremo modo di osservarlo live già al roBOt, noi siam già proiettati al suo disco della maturità. (6.8/10)

niverso affascinante e trovando un’inedita formula musicale che può regalarle soddisfazioni. (7/10)

Carlo Affatigato

Qualcosa nella press release che accompagna questo settimo disco di Wovenhand fa venire in mente le cronache anni ‘80 che seguivano le gesta delle band metal. Deve essere quel calcare la mano sulla sterzata che David Eugene Edwards vagheggiava per la sua band. Da qui un passaggio nella suddetta nota che si preoccupa di informarci come Pascal Humbert, collaboratore di lungo corso, abbia lasciato la band ritirandosi nella nativa Francia, onde aiutare il padre a mandare avanti la vineria di famiglia, nei pressi di Bordeaux. Questo evento è quindi responsabile del cambio di line-up con l’ingresso di Chuck French e Gregory Garcia jr. per quella che viene definita l’incarnazione “più heavy” mai avuta dai Wovenhand. Sembra di leggere di nuovo qualche entusiastico annuncio riguardo i Metallica o gli Slayer... Aggiungiamoci la longa mano di Alexander Hecke, uomo della decadenza mitelleuropea di Neubauten, Crime And The City Solution e Bad Seeds, che interviene sui suoni della band dando profondità e riflessi inediti per la formazione. A questo punto è lecito attendersi un disco rinnovato nei suoni e nelle movenze. Il risultato finale copre solo metà delle intenzioni di base. Il verbo è sempre lo stesso. Lo sguardo di Edwards non si scosta di un millimetro dalla linea dell’orizzonte. Come sempre Wovenhand calca la terra polverosa del più classico dei meridiani di sangue. Da un lato, abbiamo la cadenza esaltata di Long Horn, dall’altro il fatalismo claudicante di The Laughing Stalk, entrambe riportano le lancette indietro a Sackcloth ‘n’ Ashes come non gli era riuscito nemmeno nel furente Ten Stones. Il resto del canovaccio però si adegua rapidamente al classico songwriting di prassi e tutta questa heavyness di facciata non serve altro che a coprire una sceneggiatura che conosciamo fin troppo bene. La più pesante del lotto dovrebbe facilmente essere riconosciuta in King O King, che fa sembrare i Wovenhand quasi una stoner band e non aiuta certo il modo assurdo di Hecke di mixare la voce di Edwards, impastata nel missaggio finale allo stesso livello degli strumenti, con una coloritura cupa a là Cave che a tratti lo trasforma in una copia di Mark Knopfler. Poi, per carità, l’intervento del tedesco si dimostra particolarmente felice su brani blues umidicci e noir come Closer e Maize che portano tutto

Woodpecker Wooliams - The Bird School Of Being Human (Robot Elephant, Settembre 2012) Genere: art pop-folk Gemma Williams aka Woodpecker Wooliams arriva da Brighton e ama la natura tanto da allevare api. Vista lo scorso anno in un house-concert a Bologna, Woodpecker Wooliams è una vera one-woman-band capace di suonare contemporaneamente più strumenti, compresa una pianola old-style con le dita dei piedi. Cresciuta in campagna a causa di una salute cagionevole, nonostante la giovane età, Gemma vanta un folta discografia composta da uscite minori, home-made o nel migliore dei casi pubblicate da label indipendenti locali. Il nuovo album The Bird School Of Being Human esce per la Robot Elephant Records e per lei potrebbe rappresentare un trampolino di lancio. Legata vistosamente all’universo casalingo e all’oggettistica dell’infanzia (ama le matriosche, come si nota dalla cover di Diving Down), Woodpecker Wooliams aveva già mostrato di poter essere una sorta di Joanna Newsom - tra le altre cose suona anche l’arpa - più terra terra grazie ad una particolare voce fanciullesca - qualcuno dice Dolly Parton - e attitudine arty. The Bird School Of Being Human racconta storie di esperienze vissute, raccontate in ottica ornitologa/ aves-centrica (non a caso il woodpecker è il picchio), cercando di arricchire ancora maggiormente le sonorità art-folk dei lavori passati con droni e battute elettroniche. Sette tracce e altrettanti uccelli: Red Kite (il nibbio), Gull (il gabbiano), Sparrow (il passero), Magpie (la gazza), Crow (il corvo), Dove (la colomba) e Hummingbird (il colibrì). Spiccano Sparrow, il singolo di lancio e brano più pop del disco con tanto di beat incalzante - ma sempre lo-fi - e tastierino catchy, Hummingbird e la sua coda dal piglio elettronico su uno sfondo di cinquettii e Crow - volutamente il passaggio più crudo della raccolta - che sfocia nella sperimentazione post-Björk. A ventisette anni la multistrumentista Gemma Williams realizza la sua opera più completa, creando un microu100

Riccardo Zagaglia

Woven Hand - The Laughing Stalk (Glitterhouse, Settembre 2012) Genere: heavy alt-country


in direzione Simon Bonney e forse visto anche i contatti tra Edwards e i rinnovati Crime and the City Solution sembrerebbe una direzione presa coscienziosamente. La finale Glistening Black riassume tutto questo in un’unica cavalcata dark che lascia intravedere quello che saranno domani i Wovenhand se seguiranno le strade incominciate a battere qui. Certo, la storia è sempre quella del vecchio west, ma chiedere a Edwards qualcosa di completamente diverso sarebbe come chiedere a Cormac McCarthy di scrivere una commedia sulle donne in carriera nella metropoli newyorkese. A ciascuno il suo. (7/10) Antonello Comunale

XXL - Düde (Tin Angel Records, Settembre 2012) Genere: Experimental XXL, ovvero l’acronimo di due diverse band che convergono nello stesso progetto. Gli Xiu Xiu di Jamie Stewart e i torinesi Larsen, di nuovo insieme per il terzo disco dopo Ciautistico! (2005) e ¿Spicchiology? (2007), il progetto live/studio torna a prendere forma con Düde. Che poi di forma non sarebbe neanche corretto parlare, vista l’imprevedibilità del magma sonoro in cui si muovono queste otto traccie, tutte mosse da dinamiche differenti, come fossero piccoli pianeti diversi tra loro che ruotano e si muovono all’interno dello stesso caotico sistema solare. Seppure i primi due dischi si possano definire sperimentali (o avant, come preferite), Düde è un ulteriore passo avanti verso quella libertà espressiva priva di barriere che le due band perseguono - in modalità differenti da un’intera carriera. Non c’è quindi da sorprendersi se la voce rassicurante di Stewart rompe gli indugi solo verso la metà dell’ultimo pezzo, Vaire, fatta di tastiere e percussioni quasi giocose che arrivano dopo 45 minuti difficili da afferrare. Un album ricchissimo di elementi ma sfuggente appunto, che passa dal post-rock etereo e in crescendo di Film Me In The Laundry #1 all’ambient dalle venature industrial di Krampus, con uno spoken word in Koreano (?), dall’uso di tastiere sintetiche tanto care agli Xiu Xiu di Disco Chrome e Apsorbtion ma anche gli sporadici innesti jazz, i suoni macchinosi di sottofondo, i drone, canto lirico, il noise, per poi precipitare sulle piattaforme kraut di Oi! Düde!, vero e proprio monolite di 18 minuti che racchiude all’interno i delicati meccanismi di tutto il disco. Proprio il suo essere mutevole e disorientante, Düde può avere l’effetto di allontanare l’ascoltatore, come allo stesso tempo di spingerlo all’ascolto ripetuto alla ricerca di quelle sfumature, quelle piccole incavature,

dove si annida lo spirito struggente di Stewart. Il suono è lì, disordinato ma limpido, l’introspezione dei musicisti praticamente impenetrabile dall’esterno. (6.5/10) Luca Falzetti

Youngblood Hawke - We Come Running EP (Universal Republic, Settembre 2012) Genere: happy pop Si chiamano come un racconto degli anni ‘60 di Herman Wouk ma i losangelini Youngblood Hawke non hanno nulla di letterario e a vederli non sono neanche tanto young: la formazione è composta Sam Martin e Simon Katz che facevano parte degli osceni Iglu & Hartly (forse qualcuno ricorda In This City del 2008), da Alice (la moglie di Simon) e da Tasso Smith e Nik Hughes, rispettivamente chitarra e batteria.Gli Youngblood Hawke si presentano al mondo con un cinque brani intitolato We Come Running, uscito per la Universal / Republic. Perno centrale dell’EP, la trascinante titletrack ha la stessa verve indie-teen da festa ai bordi della piscina di Tongue Tied dei Grouplove - altra hit rock-fm 2k12 in USA - e contiene gli ingredienti giusti per finire in high rotation: c’è l’elettronica vagamente truzza a sostenere il ritmo (bridge synth/bro compreso), ci sono gli effettini sulle voci iperpop, c’è la chitarra acustica perchè non deve mancare mai, ci sono i cori fanciulleschi e soprattutto c’è un ritornello spensierato a metà strada tra Of Monsters And Men e gli Abba via Régine Chassagne (Arcade Fire) Nonostante i suoni patinati e cori da derisione automatica, Stars (Hold) e la sua strofa fake-rap non ha la stessa immediatezza di We Come Running, così come l’happy pop di Forever e l’innocua Rootles. Completa il quadro una versione acustica (si fa per dire...) di We Come Running. Sanno strappare qualche sorriso - e non solo perchè si conciano come dei post-hippie di una setta filo-cristiana - ma quello degli Youngblood Hawke per il momento è materiale di serie b. Aspettiamo l’album - se e quando arriverà - ma l’impressione di essere di fronte ad un gruppo meteora è tanta. (5/10) Riccardo Zagaglia

Zondini - Re:visioni del tempo (Kingem, Ottobre 2012) Genere: ..... Di Mark Zonda abbiamo già detto parecchie cose, soprattutto riguardo a come il suo progetto Tiny Tide abbia saputo gettare raffiche di cuore oltre gli ostacoli, facendo della necessità lo-fi una virtù, anzi una vera e 101


propria mission poetica. Le sue canzoni sembrano schermaglie consumate sul filo teso tra ossessione e struggimento, tra devozione e desiderio, con nel mirino il poprock buono per l’incanto e lo stordimento. Te lo rotrovi tra le orecchie melodioso e malsano come da catalogo Sarah, discendente per difetto dalle nuances popadeliche anni Sessanta, con una neanche troppo vaga inclinazione per l’autoralità (di)storta Stephin Merritt, tanto per citare un tipetto amatissimo dal cesenate. Il fatto che Mark all’anagrafe risulti Zondini diventa un particolare di tutto rilievo dal momento che è anche la ragione sociale di questo esordio in italiano, a significare - forse - il temporaneo abbandono della maschera, uno scarto improvviso in direzione verità. Dieci tracce che pescano dalla copiosa produzione degli ultimi anni (soprattutto del 2011) applicandovi appunto il testo in italiano, col risultato di renderle un po’ più vulnerabili, quasi frastornate, vuoi per il deficit di musicalità “rockista” del nostro idioma vuoi per la sua sostanziale estraneità a quell’immaginario (musicale ed oltre) che in qualche modo la lingua inglese si porta fin dentro al DNA. Forse è proprio questa la sfida che Zonda/Zondini ha voluto lanciare e raccogliere: dimostrare la credibilità di un pop-rock in italiano ad un tempo brusco ed evocativo, accomodante e disturbato. Pur sempre scomodando influenze sfrigolanti Brian Eno (Tua madre non lo deve sapere), euforie agrodolci XTC (Jack Jack Jack), apparizioni omeopatiche Beach Boys (Nouvelle California) eccetera. Il risultato è un carosello di limiti e miti, di desiderio che diventa contesto e velleità che sublimano in espressione. Cui il bravo Mark ci ha da un pezzo abituati. (6.5/10) Stefano Solventi

ZZ Top - La Futura (American, Settembre 2012) Genere: southern Con il rispetto che si deve a chi ha forgiato con mano una piccola ma significativa parte del rock and roll moderno, vivendo una prima giovinezza negli anni Settanta, quando divennero una delle più popolari band americane, e una seconda negli anni ‘90 quando centinaia di band, persino quelle stoner, li citarono come influenza predominante di certe svisate sudiste, ma l’età della pensione è l’età della pensione. E’ vero, siamo in un mondo libero, vige anzi impera la legge del mercato, chi vende sopravvive, chi non vende è un looser, ed è altrettanto vero che vendono milioni di dischi gruppi che non meriterebbero neppure l’energia elettrica per accendere gli amplificatori, ma l’autocitazionismo ad oltranza, la reiterazione di un concetto ormai 102

cristallizzato nella storia della musica, è francamente fastidioso. Suonano bene gli ZZ TOP, ci mancherebbe altro, e sanno il fatto loro in materia di southern rock boogie, ma non andiamo più in là dell’autocelebrazione, dell’esercizio di stile o forse peggio, di un modo simpatico per ammazzare la noia. Consumption, I Gotsta Get Paid, per carità, si fanno ascoltare, sono precisi e puntuali, ma sono pur sempre riproduzioni un po’ sbiadite e su carta comune, di un’opera d’arte minore. Onore, rispetto, tutto quello che volete, ma fino ad un certo punto. Oltre finiremmo per rendere patetica una storia di per sé estremamente importante e significativa. La Futura è un disco che scivola via, una birra fresca prima di attraversare il deserto, qualcosa di consolatorio e non impegnativo, un “vogliamoci bene” regalato al rock and roll. Ma i nostri occhi ormai guardano altrove, anche solo alle giovani leve che partendo dagli Zz Top, stanno incendiando il rock and roll ancora una volta. (5.5/10) Mario Ruggeri


sentireascoltare.com

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Gimme Some Inches #30

Altro mese, altro giro a colpi di vinile (ma non solo). Ci accompagnano verso l’autunno clak, free-jazz, noise, alt-folk ecc a cura di My Dear Killer, Thank You, Moon Duo, Fuoco Fatuo, Dracula Lewis Partiamo dall’immateriale della musica liquida, questo mese, che i formati digitali sono meno nobili del vinile a noi tanto caro ma non per questo meno validi. Certo, non possiedono quella genuina materialità quasi artigianale che spesso ammanta vinili piccoli o tapes preparate a mano, ma suppliscono alla grande alla funzione di medium musicali. Perciò sotto con gli emmepitrè. Cominciamo da una vecchia, per modo di dire, vista la giovane età, conoscenza di SA: Nicolas Joseph Roncea, chitarrista del nord-ovest, perno di quel canalese rumoroso che indagammo in tempi non sospetti, con Fuh e Io Monade Stanca. Da un paio d’anni a questa parte, il chitarrista s’è messo in proprio e armato di sola chitarra, spesso acustica, imbastisce trame ricurvo su se stesso, prediligendo paesaggi di un intimismo sporco di deserto o comunque pervaso da un latente sentore di solitudine. Succedeva 104

con News From Belgium e Old Toys, succede ora con Impossible Roncea, tra alt-folk e sporcizia elettronica. Roba adatta all’autunno, si sarà capito. Al crinale tra digitale e fisico, troviamo invece il volume numero 3 della serie 5 Pezzi Facili. Stavolta protagonisti della collana made in Under My Bed Recs, limitatissima in formato fisico ma disponibile online, sono My Dear Killer e Tettu Mortu. Sul lato A, il padrone di casa My Dear Killer non si discosta troppo dalle atmosfere di Roncea, con un plumbeo folk stranito e straniante che ricordiamo ancora nell’esordio Clinical Shyness targato Boring Machines. Cinque pezzi in cui arpeggi e sospensioni ben si sposano con gelide atmosfere nordiche, complici anche i field recordings d’ambientazione scozzese. Il lato B è appannaggio di Tettu Mortu, aka Giovanni Verga from Latina che sembra fornire una controparte al nero di MDK. Usando noise con inserti da bruitismo e bas-

se frequenze (l’opener Whalen), larsen come se piovesse (Xylt), chitarre acustiche abbrutite alla maniera di Orcutt (Ponteggi) e altri ammennicoli, Tettu Mortu dimostra, insieme a MDK, che l’inverno (dell’animo, ma non solo) è dietro l’angolo. Su versanti più estremi si muovono invece gli altri lavori che segnaliamo questo mese su Gimmes. A leggere il nome scelto dal terzetto di Varese Fuoco Fatuo non si può non pensare a qualche vagito proto-intellettualoide in the vein of marlene kuntz, invece l’ascolto dell’ep 33 Colpi Di Schizofrenia Astrale Nell’Abisso Nero tiene fede al bizzarro titolo. Tre lunghe tracce di nuovo black metal, appoggiato a solide fondamenta doom-sludge e dilatato alla maniera dei Wolves In The Throne Room, tanto per fare un nome di riferimento. Ancor più truci i 5 pezzi che segnano la dipartita, o meglio la messa in pausa, del progetto Quiet In The Cave. Sorrette dal growl tipico di genere, le tracce di Tell Him He’s Dead vivono di alternanze vuoto/pieno e insieme ai cadenzati attacchi su midtempo giocano con aperture melodiche e sospensioni


interessanti. Nulla di trascendentale ma l’ennesima dimostrazione del superamento dei generi che i quattro grossetani mettono in scena. Speriamo superino questo iato e tornino con un lavoro lungo. Spostandosi su supporti più “tradizionali”, ecco lo split in cassetta tra Gli Putridissimi e Luther Blissett. Dei primi, si sappia che provengono da quella fucina di folli che è la Puglia del giro Hysm?, Lepers, Lemming, Musica Per Organi Caldi e chi più ne ha più ne metta. Freejazz fuori di testa, teso e vibrante, senza soste, tribale, storto, furioso e imparentato con tutto ciò che off. A guidare è spesso il sax, mentre il drumming da invasati e le tastiere (Terrori Nei Boschi) disegnano, parole loro, il “punto di congiunzione tra i Darkthrone e gli Art Ensemble of Chicago”. Tutto in difesa delle palme dal punteruolo rosso (!). I bolognesi Luther Blissett non sono da meno: vanno di jazzcore spigoloso e meno ossessivo per velocità, ma sono pregni di sonorità in odor di area grigia inglese di fine ‘70. Tra spasmi e sbocchi, passaggi rattrappiti e reiterate ossessioni, siamo quasi pentiti di esserci persi i due dischi lunghi. Ci rifaremo.

Sul caro e vecchio vinile, a 12”, gira invece Permafrost, primo atto su Souterrain Transmissions per il progetto Dracula Lewis. Il nom de plume scelto da Simone Trabucchi, deus ex machine della Hundebiss, si muove tra evanescenze synthetiche posthypna (Chrome Riderz col featuring di Stargate) e una sorta di horrorsoundtrack inquietante e malsana a far da tappeto stordente e groovey, mentre un cantato sfatto e disilluso (la title track e Marble Eyes) ci ricorda alcuni dei nostri peggiori incubi sospesi tra onirica depressione e perversa magia nera. Due ultime segnalazioni per i vinili piccoli. I Thank You tornano su Thrill Jockey con il loro personale avant-rock figlio dell’amore per il tribalismo più free-form e per il math-rock dei bei tempi andati. Due tracce che procedono di follie vocali applicate a forme instabili e martellanti (Mother’s Nose) e svisate free-prog oppiacee e storte tanto quanto un Brian Eno cresciuto nel calderone del web 2.0 (The Whale). La particolarità delle 300 copie sta nel fatto che ogni copia è hand-made dai componenti della band e dai tantissimi amici della Baltimora off (Asa Osborne dei Lungfish o Sam

Prekop dei The Sea And Cake, per fare due nomi). L’ultimo 7” del mese è uno split per due vecchie conoscenze. Da una parte la coppia Sanae YamadaRipley Johnson in arte Moon Duo che mette sul piatto un 6 minuti di ossessione post-Spacemen 3 as usual: Zoned procede di ipnotiche volute ad alto voltaggio psicotico, procurando lo stesso sballo dei visuals in b/n proiettati durante i loro incendiari live. Psychic Ills invece in Take Me With You rallentano i giri e spargono oppio in ogni dove. Un unico giro al ralenti, praticamente, che induce alla trance ispirandosi più al versante sixties della psych che alle derive orientali delle ultime uscite. Stefano Pifferi

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Blur Britlife

Testo: Antonio Pancamo Puglia 106


Perché proprio i Blur? Perché del Britpop oggi si celebrano proprio loro, e non altri? L’uscita del cofanetto 21 ci offre su un piatto d’argento l’occasione per fare il punto su Albarn & co. It

really really really could have

happened

Hyde Park, 2 luglio 2009. Se siete cresciuti nei ‘90, specialmente, l’evento vi fa tremare i polsi solo a pensarci: i Blur tornano ad esibirsi dopo dieci anni, per la prima volta insieme a Graham Coxon. Una reunion con tutti i crismi, altroché, anche se Think Tank aveva pure avuto un tour nel 2003 (con l’ex Verve Simon Tong a fare le veci del chitarrista) e la band non si era mai ufficialmente sciolta, ma era semplicemente andata in hiatus, come usano dire gli anglofoni quando si va in naftalina; tutte balle, e i presenti - tanti, una marea umana - lo sanno benissimo. Ma questa non è una semplice reunion: è un’occasione speciale, la celebrazione di un’era - chiamatela, se volete, britpop - che si intreccia indissolubile con la parabola artistica e umana di quattro musicisti che non a caso si ritrovano, quasi vent’anni dopo dall’inizio, a incarnare - certo nella sua versione più (post)moderna, recente, contemporanea - quell’ideale assoluto di inglesità che no, non incarneresti immediatamente nei four lads di Liverpool ma in quel monumento vivente che è Ray Davies. Perché, qualcuno potrebbe chiedersi, proprio i Blur a tenere alto il vessillo d’Albione? Perché non Suede, Pulp, Verve? Perché non proprio quegli altri, quegli Oasis là? Che domande. Ci pensa la chitarra di Graham, sin dal primo accordo in fade in di She’s So High, a dare l’implicita risposta. Le due ore e mezza abbondanti di musica che seguono sono una parata trionfale fatta non solo di hit gloriosissime (da Girls & Boys fino a Song 2, passando per Country House) ma anche di pagine da veri cultori (Popscene, Death Of A Party), passando tanto per l’orgoglio britannico di acclamati (capo)lavori come

Parklife e Modern Life Is Rubbish quanto per le esplorazioni di 13 e dell’omonimo Blur. Una carrellata in cui c’è veramente di tutto, in termini di generi, stili e approcci, con un genuino senso di avventura, una sensibilità che non è mai meno che pop(ular) e soprattutto un’identità precisissima e immediatamente riconoscibile. Che poi è il paradigma di tutte le migliori brit band dai Beatles in giù, passando per Kinks, Who, Jam, XTC, Smiths, Suede, Pulp eccetera. Ma lo capisci solo alla fine della scaletta, su The Universal, perché tocca proprio ai Blur - e a nessun altro. Quando non c’è una sola voce che non intona a squarciagola “Yes, it really really really could happen”, in un intenso scambio di emozioni tra pubblico e palco; tra Londra e Damon, usuale divisa d’ordinanza (Fred Perry, jeans e trainers) e medesima adorabile faccia da schiaffi di quando lo avevamo adocchiato la prima volta mentre ammiccava sornione da dietro lo schermo nel clip di Girls & Boys; tra Londra e Graham, maglietta a righe da indie kid e occhialoni da nerd, sul volto i segni di anni che non devono essere stati tra i più facili, lontano dai vecchi compagni di viaggio alla ricerca di un’agognata indipendenza artistica (e non solo); tra Londra e Alex, frangia, sigaretta e le sue linee di basso gommose, spericolate e imprevedibili; tra Londra e Dave, aria da impiegato di banca, ma che se lo togli da quel seggiolino crolla tutto giù. Tra Londra e i Blur. Tre anni dopo. A quella serata del 2 luglio 2009 ne è seguita un’altra (l’indomani; entrambe sono immortalate nell’instant live All The People), e infine un’altra ancora, lo scorso 12 agosto, a chiudere i giochi olimpici e a certificare quanto avevamo già capito da noi circa quella cosa 107


dell’ideale assoluto di inglesità. Non vogliamo credere alle voci - come al solito volutamente ambigue e fumose - circa uno scioglimento definitivo, come se l’ultima The Universal suonata a Hyde Park sia stata davvero il dovuto atto conclusivo; dopo tutto ci sono delle session con William Orbit lasciate a metà la scorsa primavera, e la sensazione che ai ragazzi, fermi restando i propri progettini in solitaria, questo giro sulla giostra sia piaciuto davvero tanto. Sia come sia, ci troviamo tra le mani fresco di pubblicazione 21, lussuoso cofanone (18 cd + 3 dvd) in cui c’è tutto, ma proprio tutto, lo scibile sui Quattro. Doveroso, quindi, passare sotto la lente di ingrandimento il loro output e fare il punto sull’ultima autentica brit band di cui abbiamo traccia (se v’è qualcun’altra tra noi, la si vedrà sulla lunga distanza). Pronti? Via!

There’s

no other way

Ok, partiamo dalle basi: Damon Albarn, Graham Coxon, Alex James, Dave Rowntree (il resto delle notizie biografiche le trovate su Wikipedia). In principio erano i Seymour, così chiamati in omaggio a J.D. Salinger. A quelli della Food Records (che risponde all’ex Teardrop Explodes David Balfe) il nome però non piace per niente. Il biglietto di presentazione a 33 giri dei ribattezzati Blur esce appena due anni dopo la costituzione della band, e quindi contiene pressoché tutto il materiale scritto sin dalle origini (basti dire che She’s So High, singolo d’esor108

dio, nasce durante la prima prova dei Quattro). Che dai Seymour ai Blur il passo sia stato breve ma comunque significativo lo possiamo verificare oggi non solo grazie al 45 giri incluso come chicca in 21, una versione live dell’inedito Superman (registrata nel dicembre 1989: furore punky di chitarre grattate e batteria nervosissima, ai limiti dell’ascoltabile), ma anche grazie ad alcuni demo dell’epoca inseriti nel primo cd di rarità (Dizzy, Birthday, Fool e Sing To Me: gli arrangiamenti ci sono già, fatti e grossomodo finiti). L’inevitabile senno di poi fa sì che il giudizio sull’opera prima sia gravato dal peso - e che peso! - di quanto venuto dopo; con un parallelo che ci torna (e ci tornerà) molto comodo siamo quasi davanti a un Pablo Honey, cioè un disco oggi trascurato dalla maggior parte degli ascoltatori e bistrattato dai creatori (Albarn non ha esitato a definirlo “orribile”). Che poi a risentirlo non è affatto malaccio, Leisure, inzuppato com’è del suo tempo, intrappolato in quel 1991 che sa di Ride (i cori di Bang, il ritornello di Repetition) e My Bloody Valentine (Slow Down); artisticamente paga lo scotto di essere stato partorito all’interno di una scena ahilei già morente - quando viene fuori, sia shoegaze che Madchester hanno già abbondantemente dato -, ma tuttavia la band c’è. Coxon è già il maghetto di sempre (senti un po’ cosa si inventa come frase portante di chitarra per la citata Repetition), e non veniteci a dire che un singolone come There’s No


Other Way è materiale di seconda scelta solo perché è spudoratamente baggy (come d’altronde Bad Day e Bang). E poi in questo disco c’è quella magia che è Sing, destinata a incontrare il grande pubblico solo qualche anno dopo grazie a una provvida inclusione nella colonna sonora di Trainspotting, un brano che da solo serve su un piatto d’argento le potenzialità di un gruppo che non è solo capace di adattarsi alla moda del tempo (vedi anche Fool, che anticipa il giro armonico della futura Turn It Up e ha in sé delle suggestioni simil-Pavement, con diversi anni di anticipo rispetto alla svolta dichiarata del 2007, nonché la ballata Birthday che ne lascia presagire tante altre a venire). Di Leisure piace anche la produzione attenta (un team composto da Steve Lovell, Steve Power, Mike Thorne e Stephen Street), il tocco genuinamente psichedelico - le chitarre in reverse - e i dettagli di arrangiamento (la melodica in apertura di Bad Day); non è quindi la schifezza abominevole che dice Damon, ma neanche l’inizio dei giochi veri e propri. Quello succede con Popscene.

A merica

is rubbish

Volendo estremizzare, l’essenza dei Blur sta già tutta in quel singolo pubblicato nel 1992, alla vigilia di un tour americano che si rivelerà disastroso (e, nondimeno, decisivo): sound rinnovato, piglio ironico/cinico, chitarre furiose e inventive, fiati prominenti e un groove punky che sa di Dead Kennedys in salsa mod.Popscene si in-

venta ex novo la band ed è uno dei calci d’inizio di quel movimento che di lì a poco chiameranno britpop, complice l’emergere coevo di un’altra band rivale - in tutto e per tutto, fidanzate comprese -, i Suede. I tempi però non sono ancora maturi e la canzone (che si accompagna a b side pregevolissime, quali I’m Fine e Badgeman Brown) tuttavia affonda, insieme all’autostima del gruppo, che dopo il mezzo flop di un esordio arrivato fuori tempo massimo si ritrova sull’orlo della bancarotta, isolato e non capito. A metterci il carico decisivo arriva poi l’etichetta, che vorrebbe - orrore! - un adeguamento al trend grunge dell’epoca (si penserà persino di chiamare Butch Vig, pensate un po’). Per i Blur, che già in madrepatria soffrono pesantemente l’ascesa dei Suede, la misura è decisamente colma. La risposta a tutto questo si chiama Modern Life Is Rubbish, prima installazione di una trilogia british che ridisegna radicalmente il pop britannico e lo aggiorna agli anni’90, con regole tutte sue. Detto altrimenti, l’estetica nostalgica, vignettistica, ironica e riflessiva di Village Green Preservation Society viene rimodellata per la generazione X, con un suono che è sì moderno ma non somiglia per niente a quello che viene dall’America. Dopo un tentativo abortito con nientemeno che Andy Partridge alla consolle (ok che i Blur non nascondono affatto le discendenze XTC, ma la sua mano era invero pesantuccia: sentite Sunday Sleep, estratta da quelle sedute e oggi rivelata dal box), viene chiamato il fido Stephen Street (già, si ricorderà in Lei-

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sure ma soprattutto accanto agli Smiths dei tempi d’oro) e l’alchimia è trovata ed è perfetta. Di fatto il disco è una dichiarazione di guerra, a partire dalla prima di tante splendide odi a Londra, l’epica For Tomorrow, inno ufficiale della resistenza britannica propugnata da Albarn & co; non si fanno prigionieri, anzi ci si prende beffa del nemico (il plagio quasi conclamato di Colin Zeal nei confronti di Sleeping Gas dei Teardrop Explodes sembra proprio una burla ai danni di David Balfe, così come gli stop & go di Chemical World caricaturizzano quelli di in Bloom dei Nirvana - alla faccia di Vig). Emerge, su tutto, una visione già chiarissima ed estremamente originale per un gruppo al secondo disco: c’è il vaudeville da Vecchia Inghilterra (Sunday Sunday, tra Ray Davies e Pink Floyd dell’era Barrett; Villa Rosie, senza contare i comici intermezzi strumentali) e c’è la wave spinta (Advert, Coping), ci sono le ballate (Blue Jeans, Miss America) e le trovate indie rock (Oily Water, Starshaped), per un instant classic della nascente era britpop. La sfida, insomma, è lanciata, anche se lì per lì sembrano accorgersene in pochi (ma buoni). Il bello è appena dietro l’angolo.

Badhead e End Of A Century al sognante carosello Bacharach della meravigliosa To The End (con Laetitia Saeder ai cori, poi reincisa in francese nientemeno che con Françoise Hardy), passando per sciocchezze come i valzer strumentali di The Debt Collector e Lot 105 e lo spazio profondo barrettiano di Far Out (unico contributo di Alex James che si ricordi, a parte l’ancor più fuori lato b Alex’s Song), fino al gran finale di This Is A Low, ballata tra le più riflessive, epiche e mature di un Damon che non sa più come nascondere la sua venerazione per David Bowie. Una carrellata talmente densa e varia che non si può non pensare a classici made in Britain come il White Album (o Revolver o Abbey Road, fate voi), cui Parklife può stare accanto senza sfigurare. Detto che sui testi cinicamente e umoristicamente descrittivi di Albarn e sullo stile innovativo e geniale di Coxon ci vorrebbero due monografie a parte, basterebbe una b-side come People In Europe per accertarsi dello stato di grazia dei Blur nel 1994. Il 1995 è già qualcosa di completamente diverso. O quasi.

S tereotypes

Infatti, come si fa a dare un seguito a un disco come Parklife, mentre si è sotto l’obiettivo di tutta Albione A ll the people Per la formula decisiva, ai Blur basta solo aggiungere il (e, progressivamente, del resto del mondo), la routine più possibile colori alla tavolozza, dar via libera all’estro, è sempre più estenuante e per giunta ci si ritrova tirati e .. farsi un giro nel parco. O al cinodromo, come da co- per i capelli in un’assurda rivalità con cinque teppistacci pertina del pluriacclamato Parklife (titolo provvisorio: di Manchester che non hanno nulla a che vedere, sotto London; si fosse chiamato così, davvero non esisterebbe nessun punto di vista, con la tua band? Semplice: si fa altro disco britpop all’infuori di esso), primo di una sfilza il disco più schifosamente inglese che si possa concedi album numeri uno in classifica e rivelazione presso- pire, preceduto dal singolo più schifosamente inglese ché totale di un fenomeno, ché questo ormai diventano i che si possa concepire. E Country House la vince pure, Quattro allorché Girls & Boys vede la luce e scala fiduciosa quella Battle Of Britpop (si ricorderà: battè Roll With It le charts, proiettandoli nel mainstream. Oggi come allora per qualche decina di migliaia di copie); vittoria di Pirro non si fatica a capire perché si tratti di uno dei singoli o meno (quando uscirà Wonderwall arriveranno le vere più clamorosi della band - tutti gli elementi sono al loro batoste), per un po’ i Blur sembrano davvero inarrestabili, posto, dalla geniale linea di basso alla sei corde comple- col motore che gira al massimo. tamente folle e imprevedibile, in una commistione tra di- Ed è proprio quello che si percepisce tutt’oggi dall’ascolsco e pop-rock che non si sentiva dai tempi dei Blondie to di The Great Escape, contemporaneamente prosecudi Heart Of Glass - e dell’intera stagione che, di fatto, apre: zione ed estremizzazione verso il barocco dell’ellepì prequattro minuti e cinquantun secondi che epitomizzano cedente: tutto è volutamente caricato all’inverosimile, in una carriera, e se pensiamo che viene scritta e registrata una versione iper- di quanto dei Blur si è già ascoltato a circa cinque anni dal primo incontro, di dubbi circa e amato. Il rischio è appunto la caricatura, e a sentire la caratura artistica dei Blur non ne dovrebbero restare. cose come Top Man, Globe Alone, Dan Abnormal e ErCerto, poi ci sarebbe il resto del disco, una vorticosa gi- nold Same è lecito pensare che si sia voluto calcare un randola che non risparmia niente e nessuno: dai Roxy po’ troppo la mano su certi cliché stilistico-compositivi Music glam di Jubilee alla pop-wave di Tracy Jacks e che pure sono stati la fortuna del gruppo. A riequilibrare London Loves (qualcuno ha detto XTC?), dai Magazine in parte ci pensano pezzi da novanta come Charmless di Trouble At The Message Centre allo humour cockney Man (valga il discorso per i brani citati, ma in positivo) e della title track (con un formidabile Phil Daniels ripe- The Universal (che traghetta i fasti orchestrali di To The scato nientemeno che dal film Quadrophenia, a chiudere End verso l’anthem definitivo), laddove Stereotypes porta un meraviglioso cerchio), dal classicismo beatlesiano di alle estreme conseguenze la formula para-XTC; il bello di 110


The Great Escape però sono perle nascoste tra le pieghe come Best Days, la bowianissima He Thought Of Cars e la strepitosa Entertain Me, ma manca comunque l’ispirazione, la tensione e la coesione di Parklife - e si sente. Salutato all’uscita come il capolavoro inappellabile del Britpop dalla stampa pressoché unanime, viene presto risucchiato dal turbine degli eventi, e immediatamente dimenticato in favore di (What’s The Story) Morning Glory, che pure presenta una concezione artistica (e una visione della vita, del mondo e dell’Inghilterra) diametralmente opposta; anche opportunamente decontestualizzato, oggi come ieri, il disco rivela tutti i suoi difetti e limiti, come d’altronde riconosciuto dallo stesso Albarn (che lo definisce “messy”). Il vero problema è che i Blur, nel voler essere troppo se stessi, hanno finito per perdersi. Non resta altro che .. scappare in Islanda e mettere su un disco dei Pavement.

D eath

of a party

(a.k.a.

whoo - hoo !)

Detta così sembra una battuta ma è in effetti proprio quello che fanno Damon & co.; vuoi le pressioni della faida coi Gallagher, vuoi un Coxon sempre più stufo del

circo della fama (chi si ricorda di quella volta a Sanremo in cui si esibirono, in playback, con una sagoma di cartone al posto del chitarrista?), è ora di voltare drasticamente pagina, in tutti i sensi. Quando Beetlebum arriva sugli scaffali l’era del britpop sembra lontana anni luce: una ballata lennoniana intima e personalissima, piena di luci e ombre, con uno stile di chitarra più furioso e meno compromissorio del solito. Eppure sono i Blur, senza dubbio, e il pubblico riconosce e, giustamente, premia (nonostante le previsioni di suicidio commerciale date dall’etichetta e dalla stampa nazionale), così come buona parte della critica che applaude da subito l’intelligenza della band nell’aver scelto di cambiare direzione esattamente al momento giusto. In retrospettiva, una mossa tra le più azzeccate che si ricordino: mentre le altre band inglesi si accartocciano su se stesse (Oasis in primis), i Quattro guardano dentro l’America e .. la conquistano. Il successo di Song 2 - un riff fortunatissimo, nato come parodia del grunge, pensate un po’ - apre finalmente le porte degli States, e conferma che l’insistenza di Graham a rivolgersi a un certo tipo di sonorità (a sentir lui le sue preferite, da sempre) voltan111


do le spalle alla madrepatria non era un fatuo capriccio nato dall’intolleranza verso gli altri bandmates (Damon in particolare, al quale si dice abbia scritto una lettera per convincerlo a tornare a fare musica “che spaventasse la gente”). E nemmeno un freddo e opportunistico calcolo di carriera perché, artisticamente, a parte qualche forzatura un po’ troppo Pavement (Country Sad Ballad Man, sorta di tributo alle stramberie sceme e ubriache di Wowee Zowee), il divincolarsi dal modello brit consente ai musicisti di coltivare la vena più giocosa e avventurosa, parallelamente a un inedito lirismo nel songwriting (non solo da parte di Damon, che inizia a parlare in prima persona, ma anche dello stesso Coxon, che debutta ufficialmente sul lo-fi romantico e tenerissimo di You’re So Great). Registrato in parte in Islanda e prodotto dal solito Stephen Street, Blur funziona a meraviglia per l’equilibrio tra la scrittura (Strange News From Another Star è la gemma di songwriting del caso) e il rinnovato approccio alla materia (via fiati, piano, archi e coretti; dentro loop, synth e drum machine); non per niente funziona meno quando ci si lascia prendere troppo dal gioco (l’inconcludente Theme From Retro, una sin troppo weird Essex Dogs che pure viene recuperata da Albarn), e ad ogni modo i Blur non sono capaci di rinunciare alla loro natura pop (Look Inside America, i singoli On Your Own e M.O.R., che paga tributo dichiarato a Boys Keep Swinging di Bowie/Eno). Quanto al valore storico del tutto, basti dire in quel febbraio 1997 gli stessi autori di Parklife e Country House sono in grado di anticipare mosse decisive per l’evoluzione del rock britannico (il folk-trip hop acidissimo 112

di Death Of A Party, recuperata da un demo del 1992, prevede di qualche mese le intuizioni post moderne di Ok Computer). È solo l’inizio. Della fine, ahiloro, ma comunque un nuovo inizio.

Oh

my baby

Tanto rinfrancante è infatti il successo registrato dalla svolta del disco omonimo che il gruppo si sente di affrontare il passo seguente con una rilassatezza e una libertà creativa senza precedenti; stanco della solita routine compositiva prova a ripartire da lunghe e spericolate jam in studio e così, dopo la sua collaborazione all’EP di remix Bustin’ & Dronin’, sale a bordo William Orbit, con l’incarico di assecondare e dirigere la nuova vena freewheelin’ del quartetto. Sulla carta tutto molto eccitante, ma la realtà è purtroppo diversa: Coxon è sempre più insoddisfatto, incontrollato e imprevedibile, e gli equilibri interni sono sempre più instabili, fragili e compromessi. Ciononostante, proprio al chitarrista (che nel frattempo ha trovato il coraggio di debuttare in solitaria con The Sky Is Too High, primo di una lunga serie) si devono gli episodi ancor memorabili del sesto album della band: Tender (in un affezionato ed accorato scambio gospel con Damon) e Coffee & TV (l’indie song che Graham deve aver sempre sognato); non vi sembri comunque ingeneroso, con il beneficio di una decina abbondante d’anni di distanza, azzardare che i Blur di 13, disco tanto indulgente quanto meravigliosamente incompiuto, il meglio se lo sono ormai lasciato alle spalle. Sempre che non crediate che pasticci come Bugman e B.L.U.R.E.M.I. siano degni della loro produzione migliore, o che, a parte il


sapore eccitante di avventura, Caramel e Battle rappresentino delle pietre miliari nell’inevitabile processo di mutazione filo-elettronica del pop-rock di fine millennio. C’è un motivo per cui occorrerà attendere Kid A per vedere qualcuno trionfare (a ragione) dove i Blur falliscono: semplicemente, non sono più una band funzionante al 100%. “It’s over, you don’t have to tell me”: No Distance Left To Run, struggente e malinconico lento tra i migliori vergati da Albarn, ha già il gusto agrodolce dell’epitaffio, che nemmeno episodi riusciti come Trimm Trabb, Mellow Song e 1992 riescono a togliere di bocca.

O ut

of time

E così, espletata la pratica necessaria di un Best Of che ha il merito di lanciare il singolo inedito Music Is My Radar (strepitoso colpo di coda à la Can in versione da disco ‘00), si va lenti ma inesorabili verso l’inevitabile. Damon dà vita alla belva Gorillaz (piaccia o no la sua creatura di maggiore successo - e, di fatto, l’ideale valvola di sfogo della sua stupefacente evoluzione artistica), mentre Graham si perde .. definitivamente. Quando i Blur tornano in studio in Marocco con il produttore Ben Hillier, nel 2002, lui non c’è; si presenta comunque alle session, contribuisce a Battery In Your Leg ma il suo stato psico-fisico induce i compagni ad allontanarlo e tentare, con una decisione coraggiosa e incosciente assieme, a far senza. Potremmo vedere in Think Tank una prova tecnica di disgregazione, o una prova d’orgoglio estremo dei tre superstiti o ancora, se preferite, un ultimo regalo a tutti gli affezionati al marchio Blur; più cinicamente, una serie di demo buoni per i Gorillaz o, più realisticamente, esperimenti in cui Damon (con l’apporto variabile di James e Rowntree, invero non molto riconoscibili) esplora le sue nuove incontenibili passioni per la musica africana, l’hip hop e il lo-fi (sono d’altronde gli anni di Demo Crazy

e Mali Music), con quell’approccio slabbrato, leggero e libero che aveva preso corpo in 13 e caratterizzerà sempre, a ben vedere, i suoi passi successivi. Un disco spurio, che a parte per l’ebbrezza esotica e luminosamente ispirata di Out Of Time e per lo spleen solenne di Battery In Your Leg (non per niente la più Blur del lotto) si lascia ricordare invero per poco altro; eppure quando senti le prime note di Ambulance pensi che in questi ultimi nove anni non è capitato poi così spesso di sentire cose del genere. Forse perché, dopo tutto, erano comunque i Blur? O forse perché, se ci dimentichiamo che si tratta dei Blur, riusciamo ad apprezzarlo meglio nel suo inebriante pasticciare?

U nder T he Westway E torniamo così al punto di partenza, al prato di Hyde Park e alla moltitudine che canta il refrain di The Universal come un sol uomo. Davvero il 12 agosto 2012 segna la data definitiva, la fine irrevocabile? Nel dubbio, non resta che spolpare 21 fino all’ultima rarità (gustosissimi in tal senso i demo originali di tutti gli album, pubblicati a prescindere dalla qualità sonora, oltre che outtakes come il singolo abortito del 1992 Never Clever, o il recente 7” pubblicato nel 2010 per il Record Store Day, Fool’s Day). O, ancora meglio, possiamo affidarci al 45 giri uscito durante l’estate, Under The Westway / The Puritan e fantasticare su futuri artistici possibili. Ok, il lato A si affida al giro armonico di Whiter Shade Of Pale, ma è l’ennesima accoratissima ode a Londra da parte di un Damon che, grazie al cielo, sa ancora sedersi a un piano e tirare fuori il cuore, quando si tratta della sua città (e della sua band). Non diciamo la sua Waterloo Sunset giusto per prudenza e pudore, ma fosse davvero questa, l’ultima canzone dei Blur, non ci sentiremmo di lamentarci.

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classic album

Sex Pistols Never Mind The Bollocks Here’s The Sex Pistols (Universal, Settembre 2012)

“Never Mind The Bollocks”, “The Great Rock And Roll Swindle”: “non date retta alle stronzate”, “La grande truffa del rock and roll”. Che insieme, fanno “The Great Rock And Roll Bollocks” ovvero le grandi stronzate del rock and roll. Come il fatto che i Sex Pistols abbiano inventato la punk rock music. “Never Mind The Bollocks” versione deluxe - con quattro tra DVD, cd di b-sides e cd live - ci dà la perfetta scusa per tornare sui tanti temi della storia legata ai Sex Pistols, una band nata segretamente nel 1972 con il nome di Strand. Un gruppo di ragazzi confluiti al SEX, il negozio di Malcolm McLaren e Vivienne Westwood, che già dal 1971 si era fatto crocevia dell’importazione della cultura Teddy Boy, diventando poi la fucina di un rivoluzionario fenomeno assieme musicale e culturale. Come si sa, centrale fu la figura del McLaren, manager tuttofare e fashion seeder, che proprio per i Pistols, prima che alle audizioni si presentasse Mr Rotten, individuò in Sylvain Sylvain (New York Dolls) prima e in Richard Hell poi, il cantante ideale. Dimostrazione di come i Sex Pistols, ancora prima di esistere formalmente, furono spinti ad incarnare una studiata avanguardia in terra inglese, qualcosa che stesse tra i cliché del glam rock e un superamento in direzione Lower Manhattan, quartieri in cui Hell, appunto, ma anche i Television, stavano dando vita a quello che sarà identificato come il prodromo punk per eccellenza. Del resto, cruciale fu anche la band con tutti i suoi protagonisti: Johnny Rotten, Steve Jones, Paul Cook e Glen Matlock, poi sostituito da Syd Vicious, ragazzi che non inventarono il punk - quelli furono i Ramones - ma ne forgiarono, di fatto, una variante’n’rolling, un ritorno alla tradizione r’n’r americana, la stessa alla quale attinsero i protagonisti glam (gli Spiders From Mars di Ziggy Stardust / David Bowie, i T-Rex), dunque un ritorno deciso 114

alle distorsioni sixties (i Sonics e la Nuggets generation), al suono degli Stooges e agli Who dei quali, ricordiamolo, la band amava suonare Substitute, brano coverizzato pure da Joey e co. e dunque la miglior dimostrazione che le “liaison dangereuse” anglo-statunitensi erano ancora in grado di rivoluzionare il music biz. Già. I Pistols furono veramente quell’esperimento di music marketing perfettamente riuscito e più di un parallelo si può tracciare avanti e indietro nella storia del rock. Pure i Nirvana si trovarono capostipiti di una scena di cui erano i protagonisti meno rappresentativi. Grazie a loro, il mercato indipendente tornò all’attenzione delle major e del grande pubblico, e parliamo di quello stesso mercato che i Pistols contribuirono a creare a suon di Do It Yourself. McLaren e Westwood, il situazionismo e la serialità warholiana, mettono la ciliegina finale, cristallizzando la ribellione in un gesto universalmente individuabile e riconoscibile e demarcando la storia con un prima e un poi. La vera controcultura, il pensiero anarchico insurrezionalista, l’ideologia antitatcheriana, l’autogestione, la violenza delle curve, i Casuals, sono pertanto alcune delle tante implicazioni di Never Mind The Bollocks, il grande spartiacque e ancora una ripartenza a suon di anthem rock and roll. Dodici canzoni contro i capisaldi della borghesia mondiale. No good. No nice. No fun. Con quell’album, i Sex Pistols ruppero le acque, per dirla con Rotten. Sfondarono il muro di un decadente prog rock, ne recisero le velleità neoclassiche e vi opposero una studiata propaganda anarchica attraverso un veicolo sonico tutt’altro che approssimativo. Nel master finale, prodotto da Chris Thomas - che, tra gli altri, aveva lavorato con i Roxy Music -, rientrano tutti i trucchi dello studio registrazione dall’epoca, dai Beatles e Spector in avanti. Le chitarre vennero stratificate, spezzettate


e ancora re-incise, così le parti vocali e la batteria. Never Mind the Bollocks, Here’s the Sex Pistols è un album “orchestrato” che scontentò il solito Rotten e trovò nei bootleg dell’epoca (tra i quali ricordiamo Spunk, uscito poco prima de fatidico 27 ottobre 1977), un corrispettivo meno potente, graffiante e amplificato. Un’altra faccia della band - prodotta da Dave Goodman - che del resto si rivela preziosa lungo i due bonus cd del box: da una parte le radici americane sono più evidenti (New York, Unlimited Edition, ovvero la pre-EMI), dall’altra emerge lo humor originario, quello scazzato e provocatorio che puntava diritto al fianco sensibile della generazione dei Padri (il demo ritrovato di Belsen Was A Gas, la cui Belsen - il campo nazista - è citata anche nella più famosa Holidays in the Sun), che verrà di lì a poco sostituito da un ghigno feroce. Nel tour USA, infatti, lo statement della band sembra essere uno solo, un grosso HATE: l’odio sacastico che ritroviamo, a preambolo, nella maglietta “I hate Pink Floyd” indossata da Rotten all’audizione dei Pistols, quello ideologico nei confronti dei reali padrini - quelli veri - del punk, sfocia nella disperazione di un periodo storico dominato da forti contrasti generazionali, dalla crisi economica (meravigliosamente documentato da Julien Temple in The Filth And The Fury) e dalla fine dell’ideologia. La storia ha prodotto i Pistols e la storia se li rimangia. Nevermind The Bollocks sta nel mezzo: prima della fine di tutto (no future), con e grazie a Thomas, la band spedisce ai posteri un’arrogante, distorta (ma orgogliosa) idea di inglesità, un portato più reale e potente della Regina, un messaggio che entrerà a pieno titolo nella cultura e nella tradizione popolare del Paese, un onore ben più alto dell’inserimento nel (boicottato) rock’n’roll Hall Of Fame. Come dire che odio e distruzione sono gesti profondamente liberatori, potenti veicoli di

rinascita (il Post-Punk, i PiL di Lydon ecc.). Non ultimo, Never Mind The Bollocks - il ritorno al rock and roll e il suo superamento - porta diritte Anarchy In The Uk e God Save The Queen tra le cover preferite di gente come Mötley Crüe, Green Jelly, Motorhead, Megadeth, Anthrax e Bathory. Senza i Pistols, nemmeno il metal sarebbe stato lo stesso e persino gli AC/DC, dopo un viaggio vacanza in Inghilterra nel 1975 e dopo aver visto Pistols di allora, decisero di tornare in Australia e di accelerare i ritmi e l’approccio al boogie. Edoardo Bridda

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